Il petrarchismo nel Settecento e nell'Ottocento 8878701653, 9788878701656


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Italian Pages 338 [344] Year 2006

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01_INDICE.pdf
02_PREMESSA.pdf
03_BATTISTINI.pdf
04_NICOLETTI.pdf
05-TATTI.pdf
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07-ANTONELLI.pdf
08-TRENTI.pdf
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11-CALITTI.pdf
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Il petrarchismo nel Settecento e nell'Ottocento
 8878701653, 9788878701656

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«Europa delle Corti» Centro studi sulle società di antico regime Biblioteca del Cinquecento

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– 127 –

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Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione generale per i Beni librari e gli Istituti culturali Comitato nazionale per il settimo centenario della nascita di Francesco Petrarca

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Università di Roma La Sapienza Dipartimento di Italianistica e Spettacolo

Petrarca, Petrarchismi. Modelli di poesia per l’Europa a cura di

Floriana Calitti, Roberto Gigliucci, Amedeo Quondam

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Il Petrarchismo nel Settecento e nell’Ottocento a cura di

Sandro Gentili e Luigi Trenti

BULZONI EDITORE

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 88-7870-165-3 ISBN 978-88-7870-165-6

© 2006 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

Premessa .......................................................................................... pag.

I

ANDREA BATTISTINI, La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico) .................................................... »

9

GIUSEPPE NICOLETTI, Agli esordi del petrarchismo arcadico: appunti per un capitolo di storia letteraria fra Sei e Settecento ................ »

31

MARIASILVIA TATTI, Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento ................................................ »

67

LAURA MELOSI, «Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani ..... »

87

GIUSEPPE ANTONELLI, Il modello di Petrarca nel dibattito linguistico tra Sette e Ottocento ................................................................... »

115

LUIGI TRENTI, Riflessioni leopardiane su Petrarca ........................... »

137

WILLIAM SPAGGIARI, Petrarca nel canone dei critici romantici ....... »

169

SANDRO GENTILI, Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento .... »

185

FLORIANA CALITTI, «Il giornale dell’amore»: De Sanctis legge Petrarca ................................................................................................ »

215

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Indice

LORENZO CANTATORE, Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico ....................................................................... pag. 237 251

PIETRO GIBELLINI, D’Annunzio e Petrarca ...................................... »

273

Indice dei nomi ................................................................................ »

325

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FABIO FINOTTI, La rivincita della letteratura. La “funzione Petrarca” in Carducci e nell’età del metodo storico ........................................ »

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PREMESSA

In questo volume sono raccolti gli atti del Seminario di studi su «Il Petrarchismo nel Settecento e nell’Ottocento», tenutosi a Roma presso l’Università di Roma “La Sapienza” (20-21-22 novembre 2003) nell’ambito del progetto 2001-2004 “Petrarca, petrarchismi. Modelli di poesia per l’Europa”, a cura di Amedeo Quondam, Floriana Calitti, Roberto Gigliucci. Il Seminario, previsto tra le iniziative per la ricorrenza del centenario petrarchesco, si è svolto su impulso e sostegno del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali), dell’Università di Roma “La Sapienza” (Dipartimento di Italianistica e Spettacolo) e del Comitato Nazionale per il VII Centenario della nascita di Francesco Petrarca. L’intento dei curatori è stato quello di fornire un quadro attendibile degli aspetti salienti della presenza petrarchesca nei due secoli-soglia della modernità, sia sul versante critico-storiografico che su quello della ricezione più o meno creativa. Va segnalata tuttavia – ed è doveroso sottolinearlo – la forzata assenza del programmato contributo foscoliano, che rende purtroppo incompleto il panorama disegnato e che non può essere compensata dalla pur fitta serie di occorrenze del nome di Foscolo in vari contributi del volume, segno comunque indubitabile di una figura fondativa nella critica e nella fortuna petrarchesche. Un ringraziamento particolare è dovuto a Floriana Calitti, che ha collaborato attivamente nel lavoro di allestimento degli atti. Sandro Gentili Luigi Trenti

I

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Andrea Battistini

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LA SCIENZA DEGLI AFFETTI NEL PETRARCHISMO DEGLI ERUDITI (GRAVINA, MURATORI, VICO)

Quando, a fine Seicento, le reazioni al Barocco trovano la loro codificazione accademica nell’Arcadia, diventa quasi inevitabile che nell’àmbito della lirica ci si rifaccia in primo luogo all’inamidata trasparenza delle tarsie unilinguistiche di Petrarca, non a caso già poco amato nel Seicento proprio per l’eccessiva semplicità del suo dettato, povero di metafore e di acutezze. Della svolta è pienamente consapevole Muratori, il quale nella sintesi storiografica della Perfetta poesia italiana ricorda che nel Seicento, dopo Marino, «potevano promettersi pochissima lode, e ben rado lettore quegli, che avessero allora calcate le vie del Petrarca», di cui allora quasi si smarrì, «non che il Gusto, la memoria». A far sì che si riaprisse la sua «Scuola» fu poi in parte, conclude lo storiografo, «Cristina Reina di Svezia», che ridiede «coraggio in Roma alle Muse Italiane»1. La riabilitazione però non significa automaticamente un ritorno al culto che fu nel Rinascimento perché nelle poetiche di primo Settecento intervengono, oltre alle pronunce antibarocche, altre ragioni di diffidenza che complicano il quadro letterario e culturale e i modi della ripresa petrarchesca. Intanto, per il carattere confederale dell’Arcadia, non sono da trascurare le diverse fisionomie delle circoscrizioni regionali. Secondo questa logica, si nota che a Napoli, dove agiva una delle colonie meno allineate, il rifiuto del

1 L.A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, vol. I, pp. 69-70. D’ora in poi le citazioni da quest’opera saranno indicate direttamente nel testo, con la sigla PP.

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Andrea Battistini

marinismo, per essere sentito solidale con la scolastica aristotelica e con una cultura gesuitica troppo corriva all’esibizionismo e all’iperbole scenografica, appare l’espressione di un nascente ceto civile che, mentre decade il fasto altezzoso dell’influenza spagnola, ricerca forme più convenienti a un’ideologia borghese dal costume più sobrio, connotato da una semplicità forse non meno mistificata dell’artificio secentesco ma propenso comunque a espressioni che ripudiano la vacuità dell’ornato per contenuti più severi. Il ritorno a Petrarca si coniuga allora con il purismo di Leonardo di Capua, medico antigalenico, fautore della nuova scienza e per niente provinciale, ma difensore oltranzista di un purismo che si rifà ai modelli trecenteschi toscani. E in un contesto in cui in seno all’accademia degli Investiganti e poi in quella di Medinacoeli ci si sforza di introdurre nella ricerca scientifica il metodo sperimentale e l’epistemologia trasmessa con il Discours de la méthode, quegli esempi diventano un naturale riferimento euristico per gli intellettuali “novatori”, che condividono tanto la lezione nitida e lineare di Petrarca quanto le raccomandazioni di Cartesio a coltivare le idee chiare e distinte e gli appelli di Bacone a favore delle indagini empiriche. L’abito scientifico e filosofico, sommandosi a quello giuridico avvezzo al rigore terminologico e all’interpretazione delle leggi, favorisce le riflessioni sulla natura della poesia e sulle istituzioni letterarie, ossia a livello di discorsi di poetica. Per quanto nessuno dei maggiori intellettuali di primo Settecento abbia potuto sottrarsi al rito sociale di scrivere poesie d’occasione, al punto che perfino gli austeri Gravina, Muratori e Vico lo hanno fatto, il netto divario qualitativo che si instaura tra rhetorica docens e rhetorica utens, ovvero tra teoria e pratica, l’una di buon livello speculativo, proprio perché irrobustita dall’apporto di competenze filosofiche, l’altra dagli esiti molto modesti, perché raramente capace di sollevarsi al di sopra del compito di meri esercizi di scuola, induce in questa sede a privilegiare i giudizi su Petrarca ospitati nei trattati e a sacrificare la sua presenza nelle liriche. Vero è che il principio d’autorità, e quindi il canone dell’imitazione, da cui la nuova scienza di ascendenza galileiana riesce a liberarsi nonostante le veementi opposizioni da parte dei peripatetici, sono ancora molto cogenti in poesia, dove in ogni verso della produzione arcadica ci si imbatte in stilemi petrarcheschi. Già da questo punto di vista si ha la conferma che invece in sede di poetica, pur non rinnegando mai la mimesi, come si conviene a tutte le pronunce classiciste, i teorici hanno le mani più libere, emancipandosi dal dirigismo precettistico e normativo dopo che, con la rinuncia alla pretesa di insegnare a fare poesia, ci si volge all’intento di fare piuttosto della critica letteraria, giudicando senza troppi timori reverenziali i testi. Sotto l’impulso della ricerca scientifica, che aspira a scoprire verità inedite, l’apparato della

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

topica, che estrae dal guardaroba dei loci communes abiti preconfezionati in ossequio alla logica del prêt-à-porter, non può più godere dell’antico credito. In questo modo Petrarca, ancorché ammirato per la sua eleganza, non è più, almeno in linea di principio, un modello da imitare o una pietra di paragone su cui valutare ogni altro autore, ma l’esempio di uno stile dotato di caratteristiche sue proprie, diverse da quelle non meno degne di altri poeti. Evidentemente l’alternativa alla crisi dell’aristotelismo può essere solo un pluralismo che, in teoria, dovrebbe vanificare ogni tentativo di confronti. Non per nulla in un milieu in cui erano fioriti i paragoni che nel campo della lirica avevano visto di fronte Petrarca e Della Casa – esemplare in questo senso il Paralello di Orazio Marta2 –, Gregorio Caloprese si duole che non si avverta l’incommensurabile diversità dei due poeti, dovuta ad «affetti» specifici e quindi a psicologie parimenti legittime, tra le quali non è lecito stabilire una gerarchia o una priorità di valori culminanti nella fissazione di modelli3. Non per nulla nelle Sposizioni alle Rime del Casa (1694) stese da Caloprese il consueto approccio retorico e grammaticale esce quasi soverchiato da una critica psicologica fondata in primo luogo sulle analisi del Traité des passions de l’âme di Cartesio. Non mancano, è vero, i riferimenti alla Poetica e alla Retorica di Aristotele, ma forse diventano ancora più significative le integrazioni di Demetrio Falereo, Ermogene, Platone, Lucrezio, e anche di Castelvetro (un maestro molto importante anche per Gravina e per Muratori), di Gassendi, dei logici e moralisti di Port-Royal, di Bossuet, del pensiero meridionale. Il metodo di Caloprese non pretende più di insegnare come fare versi, ma, ponendosi dalla parte del lettore, di spiegare geneticamente e in via sperimentale la nascita del fatto letterario, in un contesto culturale in cui di lì a poco Giambattista Vico avrebbe sancito che «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»4. Stando al commento generativo di Caloprese, le opere di uno scrittore, per rifarsi alle parole del prefatore delle Sposizioni, «altro non sono che immagini e imitazioni ch’esprimono al di fuori le costituzioni dell’animo che 2 Il Paralello tra Francesco Petrarca et Mons. Gio. Della Casa è compreso in O. Marta, Rime et prose, Napoli, appresso Lazaro Scoriggio, 1616. 3 Cfr. G. Della Casa, Opere, t. II, contenente le Sposizioni di Sertorio Quattromani […] e quelle di M. Aurelio Severino e di Gregorio Caloprese (1694), in Venezia, appresso Angiolo Pasinello, 1728, p. 183. Il passo di Caloprese è opportunamente segnalato anche da R.A. Syska-Lamparska, Gregorio Caloprese e il Petrarca, in Studies for Dante. Essays in Honor of Dante Della Terza, edited by F. Fido, R.A. Syska-Lamparska, P.D. Stewart, Fiesole (Firenze), Cadmo, 1998, p. 192. 4 Così recita la degnità XIV della Scienza nuova del 1744 (G. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Milano, Mondadori, 19992, I, p. 500).

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Andrea Battistini

si generano in noi dalla considerazione degli accidenti, o buoni o rei, che nel corso dell’umane operazioni sogliono accascare»5. Il giudizio è quindi in funzione dell’efficacia e della coerenza degli enunciati dei componimenti con il sentimento dell’autore6. Constatato che la lirica ha per soggetto le passioni amorose, Caloprese stima che per eccellere in quest’arte si debbano conoscere i loro meccanismi psicologici, risalendo appunto alla «costituzion d’animo». In questa auscultazione dei nessi tra il sistema psico-fisiologico degli affetti e la sua traduzione letteraria si rivelano del tutto inutili i precetti e le regole, incapaci, argomenta Caloprese nella Lettura sopra la concione di Marfisa a Carlo Magno, di scendere «agli ultimi particolari», alle intime risonanze del cuore umano. Al posto dei decaloghi normativi ecco subentrare «il proprio giudizio e la fantasia», che «in somiglianti materie discerne l’ultime differenze del buono e del reo». Non ci si devono però aspettare implicazioni romantiche o sentimentali, perché, secondo l’avvertenza preliminare delle Sposizioni alle Rime del Casa, «la forza della fantasia […] è impossibile a potersi palesare senza l’ajuto del discorso e dell’intellettuali e filosofiche ragioni»7. Pur avendo l’obiettivo di perseguire una «scienza degli affetti» di tipo cartesiano e razionalistico, Caloprese non mira però alla loro decantazione. La sua mira sembra piuttosto quella di vedere come la psicologia del poeta venga assunta ed espressa dalle tecniche retoriche. Per questo forse non si volge a Petrarca, dove si assiste semmai al magistrale rasserenamento espressivo delle passioni, ma a Della Casa, al quale si deve anzi una sottolineatura oratoria dei sentimenti, secondo una poetica della gravitas che ricerca la magnificenza, l’«ampiezza del dire», dal «suono più tosto pieno che debole, sollevando alquanto la schiettezza e semplicità» del dettato8. A questo proposito, non si sa se rispecchia realmente la condanna di Caloprese il giudizio negativo riportato da Francesco Maria Spinelli, nella cui autobiografia si legge, quando si parla dell’apprendistato presso la scuola calopresiana di Scalea, che Petrarca è da considerare ancora più «pernicioso» di Aretino, perché, pur senza la «patente corruttela» del flagello dei principi, esalta talmente la sua Laura, quasi fosse una «divinità», da «corrompere l’intelletto, avvez-

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F.A. Gravina, A’ lettori, in G. Della Casa, Opere, cit., t. II, p. VII. Per le implicazioni autobiografiche implicite in questa idea della lirica, cfr. A. Battistini, Lo specchio di Dedalo, Bologna, il Mulino, 20023, pp. 50-52. 7 Su questa poetica di Caloprese, cfr. Id., La cultura del primo Settecento, in Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Federico Motta, 1999, vol. VII (Il secolo riformatore. Poesia e ragione nel Settecento), pp. 39-40. 8 Sposizioni al Casa, cit., p. 66. 6

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

zandolo a dare alla creatura quel culto, che a Dio solo s’appartiene»9. Con più probabilità, questa severa requisitoria riflette soltanto il pensiero di Spinelli, tanto più che tocca soltanto l’aspetto morale e non quello stilistico. Tuttavia si può intuire indirettamente la preferenza calopresiana per Della Casa, protagonista, lui e non Petrarca, di un commento tanto approfondito, per essere la sua poesia permeata di una sensibilità e di una psicologia che sembravano più moderne. Nonostante l’avversione alla produzione troppo complicata del Barocco, anche Gianvincenzo Gravina, attestato su questo punto sulle posizioni del maestro Caloprese, lamenta nel trattato Della ragion poetica l’impoverimento subìto dalla lingua italiana a opera di Petrarca, responsabile insieme con Boccaccio di non avere seguito la poetica inclusiva e plurilinguistica di Dante, viceversa lodato per la molteplicità dei suoi registri espressivi: questa lingua comune, che il nostro Dante prese, per così dire, sin dalle fasce ad allevare e nutrire, sarebbe molto più abbondante e varia, se ’l Petrarca e ’l Boccaccio ed altri di quei tempi ai quali fu da Dante lasciata in braccio, l’avessero del medesimo sugo e col medesimo artifizio educata, e non l’avessero dall’ampio giro, che per opera di Dante occupava, in molto minore spazio ridotta10.

A differenza di Dante – si rammarica Gravina – Petrarca e Boccaccio, per trattare degli argomenti delle «scienze» e delle «materie gravi», scelsero di scrivere in latino «e la volgar lingua non applicarono senonché alle materie amorose». La conseguenza fu che «le parole introdotte dal Dante, le quali sono le più proprie e più espressive, rimasero abbandonate dall’uso, con danno della nostra lingua e con oscurità di quel poema, nel quale era lecito a Dante, sì per la grandezza del suo ingegno, sì per l’infanzia della nostra lingua, di cui egli è padre, sì per l’ampiezza e novità della materia, inventar parole nuove, usar dell’antiche, ed introdurre delle forestiere, siccome Omero veggiamo aver fatto» (RP, p. 293). Il paradosso è che se in séguito la Divina Commedia è stata tacciata di barbarie e oscurità, la colpa di averla resa quasi incomprensibile non è del suo autore, ma delle altre due “corone” 9 F.M. Spinelli, Vita e studi scritta [sic] da lui medesimo in una lettera, in «Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici», in Venezia, presso Simone Occhi, 1753, t. 49, pp. 465521. Il luogo è ricordato sia da A. Quondam, Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968, pp. 50-51 sia da R.A. Syska-Lamparska, Gregorio Caloprese e il Petrarca, cit., pp. 165-66. 10 G. Gravina, Della ragion poetica (1708), in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, p. 292. D’ora in poi le citazioni da quest’opera saranno indicate direttamente nel testo, con la sigla RP.

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Andrea Battistini

che, venute immediatamente dopo, non fecero entrare nell’uso il lessico dantesco, in modo che questo finì per diventare quasi impenetrabile 11. Nonostante questa requisitoria, che ricorda considerazioni analoghe di Muratori12, Gravina non intende tuttavia bandire la materia amorosa, ma darle «minor luogo» per lasciarlo «ai soggetti eroici dell’antica erudizione», in linea con le spiccate predilezioni di un uomo di studio. Anche quando fa emergere l’interesse personale per argomenti filosofici e dottrinali, crede che la si debba comunque salvaguardare, perché altrimenti «si sottrarrebbe alle menti umane la cognizione filosofica del più potente e dominante affetto». La lirica amorosa forma «gran parte della scienza morale, alla quale suggeriscono larga luce i poeti coi lamenti ed espressioni loro». Però non deve la passione «esser l’elemento della poesia e posseder tanto campo quanto ne ha sempre tenuto nella lirica volgare». Non per nulla queste ultime considerazioni appartengono allo scritto Della division d’Arcadia risalente a quando, nel 1711, si consumò la rottura con Crescimbeni, causa di un’aumentata diffidenza per la lirica e le rime di Petrarca, dal cui esempio discese la moda facile e leziosa delle «cicalate pastorali» adagiate entro insulsi «sonettini e canzoncine» la cui invadente produzione è andata a danno di «qualche più solida e più profittevole applicazione» e di più «nobili argomenti»13. Una volta di più Gravina è in sintonia con Muratori, il quale, anziché indugiare sui «mille bassi amori, mille intrighi amorosi» che perfino nel genere tragico coinvolgono con le loro «gelosie, le paure, le languidezze» i «poveri Eroi, sì malconci da Cupido», raccomanda di volgersi alle «Massime del Vangelo» perseguite nelle poesie sacre e morali, prendendo a modello Carlo Maria Maggi (PP, pp. 592-93 e 597). Naturalmente per l’autore della Regolata divozione de’ cristiani si dovevano coltivare i valori etico-religiosi, mentre per chi aveva aderito alla filosofia dei «Luminosi» acquistava rilievo

11 Con molta abilità dialettica, Gravina assolve Dante dall’accusa di oscurità che per altro era topica in un secolo quale quello dei Lumi, dove la taccia suonava particolarmente negativa. Sulla funzione catalizzatrice che il pensiero di Dante ebbe nel formare il pensiero linguistico di Gravina, oltre che sulla sua visione filosofica e intorno al concetto di allegoria, cfr. A. Placella, Gravina e l’universo dantesco, Napoli, Alfredo Guida, 2003. 12 Muratori, in riferimento alla lingua italiana, rileva che nel Trecento, «secolo riputato d’oro, ella non ebbe Autori eccellenti, se non Dante, il Petrarca e il Boccaccio, i quali pure non trattarono materie gravi, né Scienze, e ristrinsero i lor felici Ingegni ad argomenti leggieri» (PP, p. 631). Difficile pensare che anche di Dante, malgrado la freddezza che Muratori nutre per lui, si possa legittimamente affermare che abbia trattato soltanto di «argomenti leggieri». 13 G. Gravina, Della division d’Arcadia, lettera ad un amico, in Scritti critici e teorici, cit., pp. 472-473.

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

la dimensione sapienziale della poesia. Nondimeno era comune la diffidenza per la lirica che non coltivasse seri propositi, in ogni caso edificanti. Significativa in questo senso è la riserva avanzata da Muratori sulle canzoni petrarchesche dette degli occhi (RVF, LXXI-LXXIII), alle quali per raggiungere la perfezione mancherebbe soltanto che avessero «un oggetto più degno, che non è la femminil bellezza» (PP, p. 698)14. E ciò nonostante che quelle poesie fossero diventate il paradigma della canzone-manifesto dell’Arcadia, costituito dalla lirica «Donna negli occhi vostri» di Eustachio Manfredi. Non diverso è il limite individuato da Gravina, connaturato a un genere troppo poco irrobustito di motivi filosofici. A parte questa riserva, intrinseca alla scelta della materia amorosa, Petrarca è comunque il «padre della lirica italiana», con esiti superiori alla «gravità delle canzoni di Dante», all’«acume di Guido Cavalcanti», alla «gentilezza di Cino», al punto che «tra tanti a lui simili non è mai sorto l’uguale» (RP, p. 321)15, un giudizio emesso avendo forse nelle orecchie un verso dantesco («a veder tanto non surse il secondo», Par., X, 114). E le ragioni di questa supremazia risiedono nella varietà degli stili, che vanno dall’elegiaco, degno di Tibullo e Properzio, all’anacreontico e al catulliano, per non dire dei suoi registri oraziani e quasi pindarici. Una gamma tanto ricca consente a Petrarca la rappresentazione di ogni passione, non solo, spiega Gravina, «in morte della sua donna, ove sì dolcemente si lagna del rio destino, ma in vita ancora, ove passioni sì di speranza come di timore, sì di desiderio come di disperazione, racchiude» (RP, p. 321). Emerge in queste considerazioni un atteggiamento antistoico condiviso da altri intellettuali napoletani, dal suo maestro Caloprese a Giambattista Vico, per il quale compito della filosofia è quello di «sollevar e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la natura», come pretendono appunto gli stoici che «vogliono l’ammortimento de’ sensi»16. Gravina è ancora più diffuso nel respingere l’«apatia», sia nelle sue egloghe, sia nella Ragion poetica: quei ch’espongono gli animi fissi sempre in un punto, o che scolpiscono l’eccesso e la perseveranza costante della virtù o del vizio sulle persone introdotte in tutti i casi e in tutte l’occasioni, non rassomigliano il vero e non incantano la

14 Alle pur blande riserve muratoriane replicarono tre altri letterati, Giovanni Bartolomeo Casaregi, Giovanni Tommaso Canevari e Antonio Tommasi, con una Difesa delle tre canzoni degli occhi […] dalle opposizioni del signor L. A. Muratori, edita a Lucca nel 1709. 15 Secondo A. Placella, Gravina e l’universo dantesco, cit., p. 133, nota 438, per questo passo Gravina aveva presente un luogo preciso del De vulgari eloquentia (I, XIII, 3). 16 G. Vico, La scienza nuova (1744), cit., I, p. 496. L’enunciato è tratto dalla degnità V.

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fantasia […]. Gli uomini, o buoni o cattivi, non sono interamente, né sempre dalla bontà o dalla malizia occupati. S’aggira l’animo dell’uomo per entro il turbine degli affetti e delle varie impressioni, qual nave in tempesta; e gli affetti si placano, s’eccitano e si cangiano secondo l’impeto, impressione e varietà degli oggetti che si volgono attorno all’animo. Onde la natura degli uomini si vede vestita di vari e talvolta di contrari colori, in modo che il grande talora cade in viltà, il crudele talvolta si piega a compassione e ’l pietoso inchina al rigore… (RP, p. 206)

Gravina, sempre copioso nell’esemplificazione, continua ancora con tanti altri casi di uomini che rapidamente, davvero «qual nave in tempesta», sono trascinati da una passione a quella opposta, ma per intendere il ruolo positivo di Petrarca indagatore dell’ondivaga psicologia dell’uomo è sufficiente ricordare la massima finale, secondo la quale, ancora con una diagnosi antistoica, «l’uomo non dura sempre in un essere». Ecco allora che i Rerum vulgarium fragmenta riescono opportuni per la sottigliezza analitica e la precisione del lessico, unendo insieme l’efficacia delle auscultazioni psicologiche nelle loro minime e contraddittorie oscillazioni e la qualità dello stile. Nella sua poesia, commenta Gravina, «osserviamo tante guerre e tante varietà, anzi contrarietà, d’affetti e sentimenti, che tra di loro combattono, li quali sì vivamente espone, che sembra scolpire i pensieri e l’incorporea natura render visibile» (RP, p. 324). Per una significativa coincidenza, il linguaggio critico di Gravina, nel fare risaltare in Petrarca la figura dell’ipotiposi, anticipa la metafora con cui Leopardi avrebbe poi illustrato la peculiarità dello stile di Redi e di Galileo, fatta consistere in una «scolpitezza evidente» che, necessaria alla terminologia denotativa della scienza, combinava in sé una «efficacia» encomiabile anche «per l’eloquenza e la poesia»17. La dote della massima precisione è per Gravina un’acquisizione tutta moderna che fa di Petrarca un anatomista del cuore umano «tanto in ciò più fino dei Latini, quanto che a coloro, da volgar amore occupati, di tai sentimenti la conoscenza o mancava affatto, o dai platonici discorsi come filosofica favola compariva». Il processo di decantazione espressiva procede parallelo alla purificazione delle pulsioni sensuali con cui la poesia acquista un rilievo morale parimenti sconosciuto agli antichi e già sottolineato nel Seicento da Sforza Pallavicino nel trattato Del Bene. E nel ricusare «gli atti esterni della passione ed i piaceri sensibili» Petrarca, respinta ogni forma di grossolanità, «delineò e trasse fuori quel che nel fondo dell’animo suo

17 G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, p. 30, ed. critica a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. I, p. 41.

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

nascea, e che nascer solamente suole in quello dei saggi», dove gli affetti si riducono a virtù, con la temperanza che presiede «al buon uso dei beni umani»18. Sono concetti che, ispirati all’amore platonico, erano stati anticipati da Gravina in uno scritto precedente, il Regolamento degli studi di nobile e valorosa donna, steso con l’intento di delineare il canone della letteratura italiana e di segnalare gli aspetti positivi degli autori selezionati. In questa rassegna, Petrarca è già il «poeta gentile ugualmente e sublime, il quale ha portato nella poesia un affetto novello, il quale è l’amore onesto, separato dal senso e dalla materia: passione ignota agli antichi, eccettone i filosofi platonici». Ma la delicatezza dei sentimenti non è il solo pregio delle sue rime: «per esser rivolo dell’onestà», interviene la magistrale «divinità di stile», in modo che la rappresentazione dell’«amore prodotto dalle communi virtù che scambievolmente dall’amante nell’amato si trasfondono» «ha tolto a’ posteri la speranza di gloria eguale»19. Evidentemente è già in Gravina l’iconografia dei Sepolcri foscoliani che individuano in Petrarca «quel dolce di Calliope labbro / che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma / d’un velo candidissimo adornando, / rendea nel grembo a Venere Celeste»20. Né la connessione è fortuita, dal momento che Foscolo ebbe di Gravina un’altissima stima, in quanto a suo dire nessuno meglio di lui «sviscerò i principi morali e politici della poesia degli antichi, né penetrò quanto lui nei gentili misteri dell’amore del Petrarca», come ebbe a confidare a Isabella Teotochi Albrizzi21. Anche per Gravina quell’estremo processo di affinamento spirituale è il prodotto di una disamina intellettualistica che solo un poeta «erudito atque diserto»22 poteva portare a compimen18 RP, p. 323. La tesi è topica, e ricorre anche in Muratori, per il quale l’amore cantato da Petrarca, malgrado la pericolosità morale del genere lirico, è «onestissimo», espresso in «pudica forma», «cotanto differente dalla sensuale de’ Greci, e Latini» (PP, p. 563). Costoro oltre tutto del tema amoroso toccarono solo la superficie, «laddove i nostri Italiani mercé dell’Ingegno Filosofico scopersero tutte le midolle di tal passione, e ne trassero mille verità, ed Immagini vaghissime, e gentili, che indarno si cercano fra le Poesie de gli antichi» (PP, p. 401). Come si sente, anche in Muratori il giudizio morale trascorre rapidamente in giudizio artistico ed estetico. 19 G. Gravina, Regolamento degli studi di nobile e valorosa donna, in Scritti critici e teorici, cit., pp. 191-92. 20 U. Foscolo, Dei Sepolcri, in Poesie e carmi, a cura di F. Pagliai e G. Folena, Firenze, Le Monnier, 1985 p. 130, vv. 176-79 (Ed. Naz. delle Opere, vol. I). 21 Id., Epistolario, vol. III (1809-1811), a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1953, p. 162 (Ed. Naz. delle Opere, cit., vol. XVI). 22 Il ritratto di Petrarca “poeta doctus” si trova nell’opuscolo De conversione doctrinarum, del 1696, dove a lui si attribuisce la rinascita della cultura classica, allorché «emerserat […] quatuor fere ab hinc saeculis prisca dignitas, auctore potissimum ac vindice

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to, non meno di Dante capace di mantenere la poesia congiunta alla filosofia23. Forse, per il favore con cui Gravina saluta questa simbiosi tra poesia e filosofia, non è del tutto vero che quando nel trattato Della ragion critica si prende atto che Petrarca «raccoglie applausi» soltanto «dai dotti e filosofi», laddove il canto esplicito delle passioni e dei piaceri sensibili avevano reso i poeti latini «cari e piacevoli al volgo» (RP, p. 323), si voglia realmente denunciare l’esperienza dei Rerum vulgarium fragmenta come «artificiosa e libresca, non ‘viva’, […] chiusa ad una diretta esperienza della vita»24. Per quanto il fine dei poeti sia in ultima istanza quello universale e democratico di rendere tutti «gli uomini eloquenti nella prosa e nei discorsi familiari, per giovare tanto alle private cose quanto alle pubbliche» (RP, p. 327), la poetica graviniana è nel fondo aristocratica e non può che compiacersi del carattere elitario della ricezione di Petrarca. Semmai il disappunto nasce paradossalmente dalla perfezione della sua lirica volgare, a causa della quale «avviene ch’ella ha il suo principio e fine nel solo Petrarca»25, come significativamente si legge nell’intervento Della division d’Arcadia, scritto con l’intento polemico di denunciare l’angustia delle soluzioni di Crescimbeni. Il modello unico desta in Gravina un senso claustrofobico di asfissia che va a detrimento dei grandi temi filosofici che avrebbe voluto affidare alla poesia. È un limite intrinseco al genere stesso più frequentato nel canzoniere petrarchesco, ossia del sonetto, anzi del «sonettuccio», come lo chiama lui, dopo averlo paragonato a un letto di Procuste perché la sua misura ineludibile diventa il supplizio subìto da «qualche povero sentimento che sia condannato ad entrare in un sonetto, poiché a potere adequatamente empire il giro di quattordeci versi, dee o mutilato o stiracchiato rimanere, onde nel Petrarca medesimo raro è quel sonetto dove non manchino o non abbondino le parole»26.

Francisco Petrarcha, homine supra quam tempora ferebant erudito atque diserto, qui bonarum artium institutionem Italia jam abactam atque depulsam a veteribus fontibus arcessivit, bonaque studia longo jam tempore intermissa revocavit» (G. Gravina, Scritti critici e teorici, cit., p. 145). 23 Nell’orazione De instauratione studiorum, edita nella raccolta del 1712, per quanto non sia più Petrarca il restauratore della classicità, resta comunque, insieme con Boccaccio, uno di coloro che tennero unite la poesia e la filosofia, in quanto «a Dante Aligherio philosophiam cum poësi conjunctam et per Petrarcam et Boccatium aliosque sub eodem foedere conservatam accepimus». Pertanto fino a quel momento «poësis vero numquam a philosophia discessit, nisi posterioribus temporibus, cum flos graecae ac latinae sapientiae jam emarcesceret» (G. Gravina, Scritti critici e teorici, cit., p. 355). 24 A. Quondam, Cultura e ideologia di G. Gravina, cit., p. 270. 25 G. Gravina, Della division d’Arcadia, cit., p. 473. 26 Ivi, p. 488.

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

Gravina prende quindi posizione critica nel dibattito su una forma metrica che invece a suo tempo fu difesa da Tasso, per il quale, nella lezione sopra il sonetto dellacasiano «Questa vita mortal», a questo genere, se impiegato da Petrarca, è «convenevole la magnificenza dello stile», affatto degno di trattare «concetti nobili»27. Ma il periodo di Gravina, subissato dalla sonetteria teorizzata da Crescimbeni, è molto cambiato e per reazione rafforza la convinzione che già si era manifestata con la stesura giovanile delle Egloghe e con la decisione di privilegiare l’esempio di Alessandro Guidi, un poeta incline a un gusto coreografico e a una più grandiosa evidenza scenografica che si esprime, piuttosto che nel sonetto, nelle canzoni, dove ha modo di distendersi il suo stile grave e austero, modulato sul modello pindarico e soprattutto davidico. Una volta di più con l’esigenza di Gravina si troverà d’accordo, ormai nell’Ottocento, Ugo Foscolo, che dalla stagione dei sonetti approderà a strutture più aperte, inseguendo «un’onda lunga e libera del respiro poetico», verso la dimensione del carme e del poema 28. Dell’Endimione di Guidi Gravina apprezza il tono epicamente solenne, quanto mai distante dai ritmi cantabili e leggeri della maggior parte degli altri poeti. Malgrado la persistenza del luogo topico che vuole Gravina risoluto avversario della poetica barocca, i meriti da lui ascritti all’Endimione, componimento dalla «tessitura gagliardamente annodata», in grado di esprimere la «smisurata forza d’Amore, fabbro di maraviglie e d’incredibili stranezze e novità producitore»29, non sembrano troppo distanti dalla magnificenza e dall’energia perseguite dall’estetica secentesca. Da questo punto di vista Petrarca è per un verso stimato per il suo nitore, ma per un altro verso la sua apparente semplicità non appaga pienamente Gravina, che certe volte sembra lodarlo piuttosto per gli aspetti, per così dire, baroccheggianti ante

27 T. Tasso, Lezione sopra un sonetto di Monsignor Della Casa, in Le prose diverse, a cura di C. Guasti, Firenze, Successori Le Monnier, 1875, II, p. 120. Già nel Seicento, tuttavia, si erano però alzate riserve sul sonetto con Tassoni e con il Meninni autore del Ritratto del sonetto e della canzone. 28 Disegna questo percorso S. Ghiazza, Note sulla diacronia di macro e microstrutture metriche nei Sonetti del Foscolo, in Studi in onore di Michele Dell’Aquila, in «La nuova ricerca», XII, 2003, 12, pp. 25-50. 29 G. Gravina, Discorso sopra l’Endimione (1692), in Scritti critici e teorici, cit., pp. 63 e 65. Sul convergente interesse per Guidi dei teorici d’Arcadia (da Crescimbeni a Martello, oltre a Gravina), dettato però da diverse strategie, si veda F. Tateo, La retorica del petrarchismo in Arcadia (1991), in “Per dire d’amore”. Reimpiego della retorica antica da Dante agli Arcadi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, pp. 221-42.

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litteram. Arriva perfino ad accettare e a esaltare i giochi concettisti che nel canzoniere intrecciano Laura al lauro, ammessi in nome della dottrina pitagorica della metempsicosi. «Sensata» gli pare l’allusione con cui Petrarca «scherza non di rado sopra il nome di Laura dal lauro, che Dafne in greca lingua s’appella, col quale significa la persona di quella ninfa, nella vita della sua donna risorta» (RP, p. 325). Siffatto atteggiamento di ambiguità verso il Barocco è se possibile ancora più marcato in Muratori, che vive le contraddizioni di un’estetica pronta a respingerlo finché se ne parla intra moenia, tra letterati italiani, ma di cui intende quasi prendere le difese quando a combatterlo sono i letterati francesi nel corso dell’animata querelle des anciens et des modernes. Anche la lettura di Petrarca si indirizza in Muratori a un senso apologetico della poesia italiana contro i francesi, come si vede nelle prime pagine del trattato Della perfetta poesia italiana, edita nel 1706 ma risalente al 1702-1703, quando ormai stavano per uscire le Considerazioni sopra un famoso libro franzese intitolato “La manière de bien penser”, la piccata risposta a Bouhours che Giovanni Giuseppe Orsi aveva concertato proprio con Muratori: la leggiadria della Lingua, la bellezza dello Stile, la nobiltà de’ pensieri, con cui son tessute le Rime del Petrarca, giustamente gli hanno guadagnato il titolo di Principe de’ Poeti Lirici d’Italia; né finora è venuto fatto ad alcuno di torgli sì gran pregio. Anzi pochi son quegli, che sieno aggiunti a felicemente imitarlo, non che a superarlo. E ben nelle Opere di questo rinomato Poeta dovrebbono affissarsi coloro, i quali osano censurare, e per poco dileggiar l’Italica Poesia, senza pur conoscere i primi Autori, e Maestri d’essa; imperocché quindi scorgerebbono, qual sia il vero buon Gusto, di cui fa professione l’Italia. Certissima cosa intanto egli sia fra noi altri, che potrà dire d’aver profittato assai, e di essere per buon cammino, chiunque molto gusta l’Opera di questo famoso Ingegno (PP, pp. 62-63).

Senza dubbio Petrarca funge anche agli occhi di Muratori da baluardo contro il Barocco, grazie al suo «Gusto sano» capace di «spiegarci sensibilmente, e con gratissima gentilezza, una Verità» (PP, p. 210). Si capisce così il canonico plauso dell’ipotiposi con cui il poeta riesce a «vivamente dipinger le cose», al punto che ce le «pone quasi sotto gli occhi» (PP, p. 177), con «Chiarezza e Leggiadria» (PP, p. 710). Non per nulla Petrarca ha uno stile sorvegliatissimo perché è «dotto Amatore» (PP, p. 223), «uomo di Filosofia, e d’ogni altra Scienza ornato» (PP, p. 414), come si pretende da un’estetica razionalistica che vuole il poeta «prudente» e non «delirante» (PP, p. 608). Questo ritratto all’insegna della misura, che pure funge da antidoto agli eccessi del secentismo, rischia però di modularsi secondo parametri troppo

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cartesiani, con la minaccia di negare valore alle tante rivendicazioni della superiorità della lingua italiana in fatto di linguaggio poetico, facilmente vittorioso sull’aridità lessicale e soprattutto sintattica del francese, troppo monotono per il suo ritmo paratattico e per la povertà di traslati. Il proverbiale unilinguismo petrarchesco è senz’altro un istruttivo esempio antibarocco di moderazione, ma non può assomigliare troppo alla cronica povertà dei francesi. Muratori deve quindi trovare per Petrarca un punto di equilibrio tra l’esuberanza barocca e la piattezza francese e comincia con il riconoscere che da giovane «quel gran Poeta mi parve allora cotanto secco, ruvido, e scipito, che più d’una fiata me lo gittai di mano». L’immediata palinodia recatagli dall’età più matura («gli anni poscia, e con loro qualche maggior’ apertura d’Ingegno m’hanno ancora aperti gli occhi», PP, p. 475) sembrerebbe volere rimuovere quella scottante confessione, retrocessa agli anni d’apprendistato in cui ancora indulgeva colpevolmente a tornire versi barocchi giocati sui «Concettini» e sulle «Acutezze anche false», come è detto nella lettera autobiografica a Giovanartico di Porcia 30. La resipiscenza però è smentita da altre dichiarazioni della Perfetta poesia nelle quali Petrarca è accusato di avere versi troppo prosastici. «Contuttoché migliorasse cotanto il numero Poetico, e sia ordinariamente gentile, ed armonico» – si premura di concedere Muratori –, «nulladimeno anch’egli non rade volte ha qualche odor di prosa, e non sostien coll’armonia necessaria i suoi nobili concetti» (PP, p. 399). È pur vero che questo capo d’imputazione si indirizza soprattutto ai Trionfi, e che nel vizio dello stile «asciutto» e «secco» sono fatti cadere, molto più del modello, i suoi imitatori cinquecenteschi; tuttavia è anche vero che Muratori e il Settecento in generale non sono attrezzati per apprezzare adeguatamente le parti più sommesse, quelle nelle quali Petrarca ha posto la sordina. Non c’è ancora la sensibilità per le più flebili risonanze che sarà più propria del Romanticismo, forse anche perché l’asserita divaricazione tra la prosa e la poesia, tanto difettosa nei francesi proprio in quanto manchevole della «livrea del grande», invitava a soluzioni più vistose nell’àmbito della lirica 31.

30 L.A. Muratori, Intorno al metodo seguito ne’ suoi studi. Lettera all’Illustrissimo Signore Giovanni Artico conte di Porcia, in Scritti autobiografici, a cura di T. Sorbelli, Vignola, Comitato vignolese per le onoranze di L.A. Muratori, 1950, p. 35. 31 La risoluta distinzione tra poesia e prosa, condivisa anche, nell’entourage muratoriano, da Orsi e da Eustachio Manfredi, si fonda sul trattato Del sublime attribuito a Longino (XV, 2 e 8). E il sublime fu nel Settecento «a valid weapon against the French

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Poeta è per Muratori colui che «fa risaltar le cose, e dà gran forza, vivezza, e leggiadria a i suoi ritratti, coll’usar parole straordinarie, espressioni più poderose, e fiammeggianti, che non son le ordinarie della Prosa» (PP, p. 463). Se questo è l’ufficio di chi fa versi, che certo non corrisponde al ritratto più prevedibile di Petrarca, la Perfetta poesia si mette in cerca delle parti più eloquenti e appariscenti del canzoniere. La persistenza, malgrado le pronunce antibarocche, della «poetica della meraviglia»32 induce a privilegiare di Petrarca i componimenti più «spiritosi» (PP, p. 752), come il sonetto «Levommi il mio penser», (RVF, CCCII), o, in quella ideale appendice che sono le Osservazioni al Petrarca, i luoghi connotati da «mirabili esagerazioni, proprie d’un amante e poeta ben infocato», come i versi del sonetto «Erano i capei d’oro a l’aura sparsi» (RVF, XC)33. La giustificazione di questo linguaggio iperbolico è offerta da una «incredibile commozione d’affetto» che salva le figure retoriche e gli ornamenti, intesi quali risposte emotive che in poesia increspano la nuda referenzialità della prosa. Le metafore e più in generale i tropi, punto di forza delle poetiche barocche, vengono così recuperati, non tanto attraverso l’intellettualismo dell’ingegno, quanto attraverso le teorie del movere, ossia gli affetti e le passioni. Per Muratori non esiste soltanto il verisimile di ragione, che si pone in rapporto con il referente, ma ammette anche il verisimile di passione, che deve essere congruente con la commozione del poeta. Le conseguenze sono che da una parte si mettono in discussione il principio di autorità e il canone di imitazione, perché a contare è la risposta soggettiva alle passioni, e dall’altra si legittima il parlare figurato per essere l’espressione di «gagliardi affetti». La proposta non è nuova, se già Bernard Lamy aveva impiantato un sistema speculare di passioni e figure, con queste considerate un sintomo di quelle 34. Nel connettere, come già aveva fatto Caloprese, analisi retorica e analisi psicologica, Muratori si distanzia dagli stravolgimenti cerebrali ed estremi del Barocco

detractors of Italian poets» (G. Costa, Longinus’s Treatise On the Sublime in the Age of Arcadia, in «Nouvelles de la République des Lettres», I, 1981, p. 77). 32 Cfr. F. Forti, La poetica della meraviglia, in L.A. Muratori fra antichi e moderni, Bologna, Zuffi, 1953, pp. 191-225. 33 F. Petrarca, Le Rime, con le Considerazioni di A. Tassoni, le Annotazioni di G. Muzio e le Osservazioni di L.A. Muratori, Modena, Soliani, 1711, p. 312. Il volume contiene anche una breve Vita di Francesco Petrarca compilata da L. A. Muratori, ora in G. Dell’Aquila, La tradizione del testo, Pisa, Giardini, 2003, pp. 178-196. 34 Esempi tratti da L’art de parler di Lamy sono riportati da G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, trad. it., Torino, Einaudi, 19692, p. 199. Tra gli autori più cari a Muratori, anche Maggi aveva sancito che le figure retoriche «non sono altro che il vario linguaggio degli affetti». Cit. in M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari, Laterza, 19542, p. 106.

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

marinista, combattuto per il suo esasperato intellettualismo, inverisimile anche dal punto di vista delle emozioni, ma per un altro verso si allontana anche dall’astratto e puritano raziocinare dei francesi, cartesiani e portorealisti, che pretendevano di giudicare con la mente fredda di un lettore apatico. In polemica con uno di loro, che aveva accusato gli italiani di sospirare mentre parlano, Muratori difende questo topos stilnovista richiamandosi proprio a Petrarca, il quale «sul bel principio de’ suoi versi confessa, che il suono delle sue parole Italiane altro non era, che suon di sospiri». E facendo leva sull’autorità di quell’incipit («Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond’io nudriva ’l core»), replica al critico francese che «con sua buona pace può parere troppo crudele, e alquanto tirannico questo suo non volere, che i poveri Amanti d’Italia possano confondere co’ sospiri le parole»35. Quando è del tutto gratuita, la retorica viene condannata per i suoi «fiori» e le sue «frasche», mentre dinanzi alle secche astrazioni degli oltramontani la si riconvoca con un arcadico giusto mezzo, perché in grado di produrre, con i suoi artifici di elocuzione piuttosto che di arguzia concettuale, «quel nuovo, raro, meraviglioso […] che cagiona stupore e d’improvviso ci rapisce e diletta». Nel distinguere il «verisimile di passioni», comunque sorvegliate, dal «verisimile di ragione», la Perfetta poesia, allontanandosi da Platone e dall’idealismo delle poetiche cinquecentesche, raggiunge lo scopo di moderare senza escluderla la meraviglia barocca, codificata non più con il protocollo eccessivo di un Tesauro, ma con quello sorvegliato e prudente di Sforza Pallavicino, di Peregrini e di Ceva. All’atto pratico, quando Muratori acconsente all’ingegno, la facoltà più celebrata in età barocca, lo abbina sempre alle passioni, suscettibili di infiammare in modo verisimile il linguaggio poetico, come nelle canzoni petrarchesche degli occhi, dove «due maravigliose doti […] spezialmente campeggiano, cioè l’Affetto, e l’Ingegno». E in tutto questo il critico scopre «una tal tenerezza, e un sì forte rapimento di pensieri affettuosi, che non si potea forse imprimere nella mente altrui con più energia la violenza di quella passione, onde era agitato il cuor del Poeta» (PP, p. 698). La partecipazione emotiva rende così verisimili in Petrarca le immagini più ardite e gli enunciati che, presi alla lettera, sono assurdi dal punto di vista di un intelletto che li valuti secondo la logica. Il dolore indicibile per la morte di Laura lo trascina a dichiarazioni che la ragione riconosce per «falsissime», ma «verissime» alla sua «innamorata, e addolorata Fantasia», «rapita in estasi» e soggetta ai «deliri» (PP, p. 234). «Chi non sa», si domanda Muratori, «quanto abbiano vaneggiato i due Principi della Lirica, e dell’Epica

35 PP, pp. 659-60. Per un’incursione nel mondo della Commedia, cfr. T. Leuker, Sfoghi e sospiri in Dante, in «L’Alighieri», XLIII, 2002, n.s., 20, pp. 121-26.

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Italiana, cioè il Petrarca, e il Tasso? […] Né già favoleggiavano essi, ma scrivevano una pura Storia, allorché confessavano di perdere, e d’aver perduto il senno per cagione di questo smoderato affetto» (PP, p. 558). D’altro canto se la fantasia è stimolata dalla passione «a veder’ Amore qual persona animata, e di ragionar con lui», non significa che la poetica di Muratori sia già, con anticipo di un secolo, quella romantica, come qualcuno in passato aveva preteso36. Basterebbe, a smentire questo asserto, la definizione di fantasia quale «arsenale», «erario», «fondaco», «magazzino», «guardaroba delle immagini»37, da cui si ricava che il ruolo che svolge per Muratori è molto simile alla topica, e quindi in linea con la tradizione retorica, entro cui il suo compito è anche in Petrarca quello di trovare immagini stranianti, una volta di più consentanee alla ricerca della meraviglia. Ecco allora che sotto l’egida della fantasia si produce in RVF, CXCII, 9-11 un «artifizio» di natura «gentile, e nuova» (PP, p. 199), o in RVF, CCCXXVII, 9-10 un esito con cui si «veste bizzarramente la Verità» (PP, p. 140), o si concepiscono «quelle sì strane, e vaghe Immagini, che noi ammiriamo ora nelle sue Rime» (PP, p. 223), dettate da un’intensa passione amorosa responsabile dell’amplificazione iperbolica della bellezza di Laura 38. Che cosa altro sono il nuovo, il bizzarro, lo strano, se non categorie mutuate dalle poetiche del Seicento? E non va forse nella stessa direzione il consenso per l’inusuale «forza d’accoppiare o ritrovar le simiglianze delle cose», «poco o nulla da altri osservate, o trovate», rinvenuta in RVF CCXVIII 9-14, a certificare la presenza di un «Ingegno vasto» (PP, p. 287)? Dopo avere fatto di Petrarca il vindice degli abusi barocchi, Muratori si spinge addirittura a vantarne qualche oscurità, in modo che «l’uditore ha l’obbligazione, e il diletto d’intendere quello, che non si dice, e di comprendere da se stesso la significazion del Vero a bello studio alquanto celata, affinché gli altri abbiano il piacer di trovarla» (PP, p. 292). È un enunciato che potrebbe andare in quota a Emanuele Tesauro, sostenitore di enigmi e laconismi in una sorta di sfida ermeneutica tra l’artefice che vela il suo testo e il lettore che si sforza di decifrarlo. Sennonché quando la prossimità sembra massima, subentrano le differenze, dovute all’innata moderazione di

36 F.G. Robertson, Studies in the Genesis of Romantic Theory in the Eighteenth Century, Cambridge, Cambridge University Press, 1923. 37 PP, p. 167, cui è da aggiungere il regesto compreso nel saggio iniziale di Ada Ruschioni (pp. 15-16). 38 Anche per Gravina «alla cosa amata non tanta bellezza e virtù contribuisce la natura, quanta l’opinion dell’amante, che a proporzion della sua mente e passione l’accresce e l’innalza sin presso il confine della divinità» (RP, p. 324).

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

Muratori che, con la probità di un «giudizio equo e sereno»39, critica Petrarca sia quando è troppo semplice, sia quando è troppo oscuro, così come se ne fa scudo tanto per smantellare gli eccessi del barocchismo quanto per insegnare ai francesi che la poesia gode di libertà e di audacie a loro sconosciute per mancanza di ingegno e di competenze derivate dalla retorica del movere. Se ne ha la riprova in una chiosa a margine di RFV, 9, 14, nella quale si consente di lasciare ai destinatari «il gusto di giugnere al significato proprio» di una metafora, purché, ci si preoccupa di precisare, ciò avvenga «con lieve studio» (PP, p. 296). In caso contrario, scatta inesorabile il biasimo, come quando, a margine di una stanza di RVF LXXIII (vv. 79-90), Muratori ammonisce che «non bisogna credere, che sia gran pregio il far versi tali, che senza i Comentatori non si possano intendere da i mezzanamente dotti. Il farli poi tali, che per la maniera dello spiegarsi riescano poco intelligibili, anzi il farli tali, che gli stessi Interpreti, solamente indovinando, ne possono cavare il senso, e combattano fra di loro nel determinare, qual sia il vero senso: può essere un gran difetto». Si può tollerare una «gloriosa Oscurità» intimata dagli «artifizi dello Stile Magnifico», ma se si oltrepassano «i convenevoli confini dell’Oscurità lodevole», non sarà mai invocata abbastanza la «bella virtù della Chiarezza» (PP, p. 710). È ciò che puntualmente si verifica al cospetto del sonetto CCCXXXVII, nei cui confronti Muratori «ammette bensì volentieri un velo davanti a i suoi bellissimi concetti, ma un velo trasparente, non una cortina densissima» (PP, p. 864). Una delle principali turbative della comprensione è la metafora continuata, allorché il «veicolo» viene assunto come «tenore» di un’altra nuova immagine 40. Questa tecnica, che dà «consistenza di realtà agli oggetti metaforici e perciò fantastici»41, è da Muratori esemplificata su una lirica di Francesco de Lemene (PP, p. 338-39). Sembra però che a volte Petrarca faccia di peggio, perché dopo avere «cominciato ad esprimere una cosa con qualche Immagine, o Metafora, o Allegoria», finisce «il senso con un’altra» del tutto estranea alla prima (PP, p. 277). In questo caso l’alibi di un discorso appassionato non regge più, essendo la genesi e insieme il difetto di natura

39 Così, in riferimento alle Osservazioni a Petrarca, M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, cit., p. 99. Ma è una notazione che si può estendere all’intera produzione critica di Muratori. 40 La terminologia è quella, molto diffusa, di I.A. Richards, La filosofia della retorica, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1967. 41 G. Conte, La metafora barocca. Saggio sulle poetiche del Seicento, Milano, Mursia, 1972, p. 164.

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Andrea Battistini

soltanto logica e razionale. Né può valere al cospetto delle arguzie giocate sull’equivoco del nome di Laura, tanto è vero che se Petrarca «avesse voluto valersi più rade volte di tal Nome per trarne Concetti, egli non avrebbe se non fatto meglio; e in questo volentieri consiglierei i giovani a non molto imitar sì saggio Maestro per non isdrucciolare, come egli fece, talvolta in una qualche freddura» (PP, p. 491). Evidentemente, di Petrarca non si può approvare tutto. Per Muratori, che ragiona da critico, la «riverenza», che gli è senz’altro dovuta, non può comunque risolversi in «idolatria», dal momento che «né il Petrarca fu impeccabile; né dee già stimarsi sacrilegio il non venerar tutto ciò, che uscì dalla sua penna» (PP, p. 697). E se, ribadendo alcune delle censure di Tassoni, ne mette addirittura in dubbio la purezza di alcuni suoi vocaboli, «che oggidì non sarebbono molto approvati, o tollerati» (PP, p. 629), non ci si deve scandalizzare se, nonostante il livello eccelso delle sue rime, Petrarca non sia da ritenere «il solo ottimo. Altri sentieri ci sono, altri se ne possono scoprire, degni di non minor commendazione» (PP, p. 617). Di qui la disponibilità cordiale ad accettare ogni forma di poesia, in nome della varietà e complessità delle forme artistiche, motivate dalla straordinaria ricchezza delle immagini fantastiche. Convinto che la poesia debba comunicare gli affetti dell’autore, Muratori individua in questa opera di variegata traduzione verbale, in cui convergono la razionalità e la sensibilità, l’amalgamarsi dell’esigenza del vero (sia pure quello soggettivo e fantasioso del poeta, scaturito da una motivazione interiore) con la necessità di ricorrere a tropi e figure, le forme del linguaggio più adatte a esprimere le passioni individuali, come di lì a poco si avvedrà Vico arrivando per altro a conclusioni affatto diverse. Secondo le teorie antropologiche della Scienza nuova «il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensate dare senso e passione», ma mentre per Gravina e Muratori è indispensabile la vigilanza dell’intelletto e della cultura a moderare gli eccessi di animi perturbati e commossi, per Vico, a differenza di ogni altra attività umana, dove un «ostinato studio dell’arte» può surrogare ciò che non è dono di natura, la poesia è nativamente nemica di ogni atteggiamento riflesso e meditato42. «Principe di tutti i sublimi poeti» è Omero, ma non perché, come credeva Gravina, i suoi poemi contenessero in versione allegorica le più profonde verità filosofiche, ma al contrario perché risalenti a età primitive in cui gli uomini erano «di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie»43. Il culmine dell’attività poetica

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Si vedano le degnità XXXVII e LI della Scienza nuova, cit., I, pp. 509 e 514-15. Ivi, pp. 569-70.

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

coincide con le antiche età «degli dèi e degli eroi», mentre nei tempi «illuminati e colti», in cui il razionalismo è sviluppato al massimo, le risorse proprie della poesia, consistenti nella fantasia e nell’ingegno, si sono atrofizzate e non consentono più di conquistare con l’arte quei vertici espressivi che Omero poteva raggiungere spontaneamente. Vico si adegua a questa legge e, nel pieno dell’«età della ragione spiegata», scrive canzoni filosofiche o comunque speculative44 che, nell’impossibilità di riprodurre l’epica inarrivabile di Omero, si nutrono dell’imitazione di Petrarca, fin da quando, come racconta nell’autobiografia, si era dato a «coltivare la favella toscana sopra i di lei principi» trecenteschi, tra cui le rime dei Rerum vulgarium fragmenta sono paragonate a «limpidi ruscelli»45. E il cantore di Laura non è imitato soltanto nel panegirico in lode di Massimiliano Emanuele di Baviera, formato da un trittico di canzoni che si rifanno a RVF, LXXI-LXXIII, ma anche negli Affetti di un disperato, dove il tema lucreziano del dolore saldato a una teoria più generale della decadenza acuita da un dissidio tra anima e corpo si adagia su una struttura metrica e lessicale di indubbia ascendenza petrarchesca. Nell’àmbito del genere epidittico, Petrarca è un costante punto di riferimento, esteso perfino alla prosa, visto che anche l’orazione in morte di Angela Cimmino è costellata degli stessi lessemi impiegati in riferimento a Laura, dando a distanza ragione a Voltaire, per il quale nel corso del Settecento l’eloquenza delle «oraisons funèbres tient un peu de la poésie»46. Il secolo dei Lumi non è tempo confacente alla poesia sublime, e ancora una volta, come già si era verificato in Muratori, affiora il pericolo che sotto l’imperialismo della ragione si arrivi a pensare che anche la lingua italiana si stia depauperando al punto da non avere più nulla che la distingua da quella dei francesi, incapaci per Vico «di dar calore al discorso, perché sono privi di una fortissima commozione, né possono ampliare o ingrandire nulla», tutte peculiarità che si risolvono a danno per l’appunto della “amplitudo” e della “gravitas” 47. Nel De studiorum ratione, che è la sua risposta alla querelle tra antichi e moderni, ci si preoccupa di conseguenza di vantare la grandezza intrinseca dell’italiano, alla cui ricchezza, insieme con Guicciardini, Boccac-

44 Cfr. A. Quondam, Il “lavorar canzoni” del Vico: la poesia nell’età della “ragione spiegata”, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXXIV, 1970, 2-3, pp. 298-332. 45 G. Vico, Vita scritta da se medesimo, in Opere, cit., I, pp. 13 e 24. 46 Voltaire, Eloquence, in Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris, Briasson, David, Le Breton, Durand, 1755, t. V, p. 530, col. 1. 47 «Nec sententias inflammare, quod sine motu, et quidem vehementi, non fit; nec amplificare et exaggerare quicquam possunt» (G. Vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Opere, cit., I, p. 138).

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Andrea Battistini

cio, Ariosto e Tasso, ha contribuito anche Petrarca nel genere lirico, fino a farne «una lingua che, sempre vivace, per il fascino delle similitudini trasporta gli animi degli uditori alla comprensione di cose diverse e lontane fra loro»48. Evidentemente in questa definizione, che è una parafrasi del concetto di ingegno, traspare ancora qualche barlume dell’antico potere mitopoietico. Magari in età moderna esso non si realizza più con le metafore e gli altri tropi, che furono il linguaggio proprio e istintivo dei primi uomini, privi della capacità di elaborare concetti razionali e quindi anche di una coscienza paradigmatica che li rendesse consapevoli di ricorrere a traslati. Al loro posto subentra una gravitas conseguita con un periodare reso ampio e grandioso dagli iperbati, garanti della tensione espressiva necessaria a trattare questioni filosofiche. In Vico il magistero di Petrarca si esercita dunque sul piano utens delle rime, dove quegli stilemi trecenteschi si declinano non già, come in Crescimbeni e presso la maggioranza degli Arcadi, secondo una poetica “leggiadra”, ma in direzione “petrosa”. Sul piano teorico, però, dopo la rivendicazione del De studiorum ratione, la lirica petrarchesca, esemplare dei tempi attuali, non può più trovare spazio nel Diritto universale e nella Scienza nuova, quasi interamente consacrati alla ricostruzione antropologica dei tempi primitivi, per i quali l’interesse si sposta di conseguenza su Omero e, per un Medioevo in cui la teoria del “ricorso” reca nuovamente una «barbarie ritornata», su Dante, che Vico non a caso denomina il «toscano Omero». Nondimeno questa cesura manichea tra poesia primitiva e poesia moderna, a prima vista insanabile, solleva un grave problema ermeneutico: come si possono oggi immaginare il mondo e la mentalità dei primitivi se di quella realtà nulla è rimasto? Come ammettere una «storia ideale eterna» e una provvidenzialità nella storia se tra il passato più remoto e il presente è avvenuta una così drastica soluzione di continuità? L’angosciosa ricerca di una «perpetuità», che induce Vico alla «disperazione»49, lo porta necessariamente a concludere che anche nella pacata stagione della logica e dei sillogismi, sicuri argini razionali, scorre l’oscuro magma delle passioni, capaci di ridestare risonanze ancestrali, le stesse che la poesia moderna, da Hölderlin a Rilke, da Baudelaire a Mallarmé, ha poi cercato ansiosamente di salvare. La teoria antropologica della Scienza nuova che fa esordire la civiltà nell’attimo in cui con il terrificante effetto

48 «[…] Lingua […] quae, actuosa semper, auditorum mentes in res longe dissitas et remotas vi similitudinum transfert» (Ivi, p. 140). 49 Sono i termini impiegati nella Scienza nuova del 1725 (Opere, cit., II, p. 993).

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La scienza degli affetti nel petrarchismo degli eruditi (Gravina, Muratori, Vico)

del primo tuono e del primo fulmine il bestione diventa uomo scoprendo la divinità e la religione potrebbe essere avvicinata all’ipotesi cosmologica del Big Bang, nel senso che quel momento mitico è una specie di energia immaginosa e ingegnosa di cui, pur nell’estrema dilatazione del tempo, rimane traccia nel codice genetico dell’umanità, irradiandosi fino a oggi, nonostante il suo indefinito impallidire. Una volta ammessa la possibilità di fare riemergere nell’animo le tracce di una memoria originaria, Vico sembra ammettere due forme di poesia sublime, quella assoluta, rappresentata da Omero, del tutto inimitabile per chi non vive più nelle condizioni irripetibili in cui gli uomini avvertivano «con animo perturbato e commosso», e quella relativa e moderna, la sola possibile nelle età civili, non del tutto ignara dell’indole eroica delle prime età, ma adeguata a una temperie meno infiammata di passioni generose. Come già si è cercato di far vedere in altra sede 50, il poeta che per Vico smentisce con le sue prove la tesi della morte dell’arte e del sublime è Virgilio, il quale, pur vivendo immerso nella raffinatissima civiltà augustea, seppe riprodurre «con maniera antica»51 le condizioni della poesia primitiva, rigenerata e rinnovata da un uomo «antiquitatis doctissimus usque ad miraculum»52. Senza dubbio il lirico Petrarca non può avere nell’economia del Diritto universale e della Scienza nuova lo stesso rilievo accordato all’epico Virgilio. Eppure dall’unica citazione che lo riguarda si può azzardare che il suo sia un ruolo analogo. In un passo in cui Vico vuole dimostrare che la poesia epica narra storie vere, accanto a Omero, agli autori medievali di carmi eroici, a Dante, agli epici italiani dell’Umanesimo e del Rinascimento, gli vien fatto di citare anche Petrarca, il quale, «quantunque dottissimo, pure in latino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; ed in toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non fa altro che raccolta di storie»53. È troppo poco per potervi costruire sopra una tesi, ma è plausibile ipotizzare che se Dante è il «toscano Omero», Petrarca potrebbe essere per Vico il toscano Virgilio 54. In altri termini un poeta che, senza più essere «ardente di

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A. Battistini, Vico tra antichi e moderni, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 41-62. G. Vico, Scienza nuova (1744), cit., I, p. 630. 52 Id., Il diritto universale, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1936, I, p. 147. 53 Id., Scienza nuova, cit., p. 826. 54 D’altro canto che Petrarca stesse a Dante come Virgilio a Omero era un parallelismo topico anche in seno al genere epico. Basti dire che per Castelvetro Petrarca fu autore di un «poema picciolo e modesto» tanto quanto Dante lo fu di un «poema grande e magnifico» (L. Castelvetro, Poetica d’Aristotele vulgarizzata e sposta, a cura di W. Romani, RomaBari, Laterza, 1978, I, pp. 221-22). 51

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sublimi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità», è comunque riuscito a ritrovare in sé la scintilla della poesia, facendola sopravvivere anche nelle età a lei meno favorevoli.

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Giuseppe Nicoletti

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AGLI ESORDI DEL PETRARCHISMO ARCADICO: APPUNTI PER UN CAPITOLO DI STORIA LETTERARIA FRA SEI E SETTECENTO

«Speculò adunque il Petrarca la beltà che prendeva a lodare, sì con l’espressioni dell’ingegno e sì con gli affetti del cuore»1: così si esprime Carlo

1 C. M. Maggi, lettera a P. C. Ettorri, in Scelta di poesie e prose edite e inedite di Carlo Maria Maggi nel secondo centenario della sua morte..., a cura di A. Cipollini, Milano, Hoepli, 1900, pp. 312-313 (e più avanti, pp. 317-318, il Maggi scrive ancora: «Grande è la sua varietà, proprietà, forza, dolcezza e leggiadria nelle figure affettuose. Alcune ve ne sono che non si possono dire esclamazioni; non interrogazioni, non epifenomeni, non alcuna delle annoverate tra i maestri; e ad ogni modo vi si sente l’animo dolcemente commosso; di maniera che il lettore senza avvedersene si trova nei medesimi movimenti. Quindi è che tal poesia è sempre viva e sempre illuminando l’ingegno ancor muove il cuore»). La prima citazione è riportata altresì in E. Graziosi, Vent’anni di petrarchismo (1690-1710), in La Colonia Renia. Profilo documentario e critico dell’Arcadia bolognese, vol. II (Momenti e problemi), a cura di M. Saccenti, Modena, Mucchi, 1988, p. 90. Oltre all’ampia e approfondita disamina storico-critica testè citata (pp. 71-225), sempre della Graziosi si veda, tra l’altro, l’esame del ridottissimo canzoniere di due poetesse bolognesi vissute fra Sei e Settecento, Cristina Paleotti e Teresa Zani: Ead., Due poetesse avventuriere, in La cultura fra Sei e Settecento, Primi risultati di una indagine, a cura di E. Sala Di Felice e L. Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1994, pp. 123-136, e, già prima, Ead., Arcadia femminile: presenze e modelli, in «Filologia e critica», XVI, 1992, pp. 321-358 (poi nel volume collettaneo III centenario dell’Arcadia, Convegno di studi (Roma, 15-18 maggio 1991), in Arcadia. Accademia Letteraria Italiana «Atti e memorie», serie III, vol. IX, fasc. 2-3-4, pp. 249-273) e Restauro d’autore: Teresa Zani contessa e rimatrice bolognese, in «La Rassegna della letteratura italiana», XCVII, 1993, pp. 114-152. Resistono tuttora, sullo sfondo della più generale discussione critica intorno alla fortuna petrarchesca nell’Arcadia, gli studi del Croce (L’Arcadia e la poesia del Settecento, in Id., Letteratura italiana del Settecento. Note critiche, Bari, Laterza, 1949, pp. 1-14), del Fubini (Le «Osservazioni» del Muratori al Petrarca e la critica

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Giuseppe Nicoletti

Maria Maggi a mo’ di programma teorico nella prima lettera al gesuita bolognese Camillo Ettorri (poi collocata da questi, insieme alla lettera seguente, nell’ingombrante suo manuale del 1693 sul Buon gusto ne’ componimenti rettorici), trovandosi appunto, il Maggi, ad argomentare ragioni e motivi della propria esperienza di innovatore delle forme poetiche tradizionali, quando appunto, per dirla con il Muratori della Perfetta poesia italiana, potè guadagnarsi «la gloria d’avere sconfitto il pessimo Gusto»2. A sentire il Muratori, il Maggi aveva cominciato fin dal 1670 «a ravvedersi del suo, e dell’altrui traviare, e a riconoscere, che i Concetti da lui amati, gli Equivochi, le Argutezze sono fioretti che scossi cadono a terra, né possono sperar durata». Si fece dunque a coltivare – si legge ancora nella Perfetta poesia – lo stile del Petrarca e «tanto adoperò in questa impresa, che il solo suo esempio bastò per disingannar molte Città non solamente di Lombardia, ma d’Italia ancora» ed anzi «le Rime di questo Poeta capitate a Modena, e a Bologna, fecero per così dire il medesimo effetto, che lo scudo luminoso, sfoderato in faccia dell’effeminato Rinaldo ne’ giardini d’Armida»3. Ebbene, un’attenta, convincente ricostruzione di questo decisivo snodo della storiografia letteraria che inferisce dalla capitale osservazione muratoriana e che, facendo centro sull’azione pionieristica esercitata sull’ambiente bolognese dal poeta e commediografo milanese, insomma dall’autore dei Consigli di Meneghino, si allarghi a considerare un dato ormai storicamente assodato come la primazia della Colonia Renia nel quadro del primo petrarchismo arcadico, un’affidabile analisi storico-critica di questo delicato frangente, dicevamo, è da qualche anno disponibile nelle pagine dell’esauriente e acuto intervento di Elisabetta Graziosi uscito nell’88 e intitolato Vent’anni di petrarchismo (1690-1710)4. letteraria nell’età dell’Arcadia e Arcadia e Illuminismo, in Id., Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica e sulla cultura del Settecento, Roma-Bari, Laterza, 19754, pp. 49-170 e 335-425) e del Binni (L’Arcadia e Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963: soprattutto i primi quattro capitoli). Sull’Ettorri, cfr. S. Arena, Camillo Ettorri, un maestro di «buon gusto», in «Linguistica e letteratura», XXII, 1997, 1-2, pp. 155-178. 2 L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, a cura di A. Ruschioni, Milano, Marzorati, 1971, vol. I, p. 70. 3 Ivi, p. 71. Grande fortuna ha conosciuto questa citazione muratoriana; fra l’altro, vedila ripresa anche in W. Binni, Prearcadia settentrionale, in Id., L’Arcadia e Metastasio, cit., p. 57, e in D. Isella, Il teatro milanese del Maggi o la verità del dialetto (1964), in Id., I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda, Torino, Einaudi, 1984, p. 29; studio quest’ultimo che si raccomanda per una penetrante valutazione dei giudizi del Maffei e del Muratori sulla poesia del Maggi, ma sullo stesso argomento, sempre dell’Isella, cfr. anche il saggio La cultura letteraria lombarda (1970), ivi, pp. 9-12. 4 E. Graziosi, Vent’anni di petrarchismo (1690-1710), cit. Ma sul tema generale del petrarchismo nella poesia dell’Arcadia, si veda almeno, nell’ordine: F. L. Mannucci, Il

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

Per quanto ci riguarda basterà si ricordino alcuni dati principalissimi, partendo proprio dalla seconda edizione delle rime che il Maggi aveva pubblicato a Bologna nel 1689, dopo la princeps fiorentina curata dal Redi e dal Segneri5. In proposito si è parlato di una poesia che abilmente adottando un’aggiornata chiave cristiana, per non dire esplicitamente devozionale, riscopriva l’esemplarità del Petrarca proponendosi la ricerca di una misura poetica di ragionevole e agile comunicabilità. Questo proto-petrarchismo moralizzato e fortemente astretto alle sue matrici istituzionali (soprattutto quelle di carattere scolastico, gestite in gran parte dalla Compagnia di Gesù), proprio in virtù di una fortunata convergenza di prassi poetica e riflessione critica favorì l’individuazione di una prima cerchia di seguaci e discepoli fra i quali si possono ricordare, oltre a Pier Jacopo Martello, Ercole Aldrovandi e Giovan Battista Zappi. A questi di cui è noto il discepolato dal Maggi e dall’Ettorri – ricorda opportunamente Graziosi – «sono poi da aggiungere – sempre in ambito bolognese – i molti arcadi futuri di cui si sa con certezza che frequentarono le scuole gesuitiche quando vi insegnava l’Ettorri e che dovettero entrare con lui direttamente in contatto o indirettamente attraverso il suo testo nato nella scuola e destinato a un uso scolastico. Girolamo Grassi, Anton Francesco Bellati, Luigi Locatelli, Paolo Emilio Fantuzzi, Francesco

Petrarca in Arcadia, Genova, Stab. Tip. L. Sambolino, 1905; F. Forti, Col Petrarca in Arcadia, in Id., L. A. Muratori fra antichi e moderni, Bologna, Zuffi, 1953, pp. 117-157; E. Sala Di Felice, Petrarca in Arcadia, Palermo, Palumbo, 1959; F. Tateo, Arcadia e petrarchismo, nel volume collettaneo III centenario dell’Arcadia, Convegno di studi (Roma, 1518 maggio 1991), Arcadia. Accademia Letteraria Italiana «Atti e memorie», serie III, vol. IX, fasc. 2-3-4, Roma, s.e., 1991-1994, pp. 19-31. Scrive quest’ultimo a proposito del contraddittorio atteggiamento tenuto anche in questa epoca nei confronti del Petrarca e del petrarchismo, offrendo pertanto una possibile indicazione di metodo critico: «La riproposta di Petrarca contro gli eccessi marinisti si accompagna spesso, ad esempio, con rilievi mossi allo stesso Petrarca e la valorizzazione del petrarchismo più originale del Cinquecento può funzionare sia come riconferma del modello petrarchesco, sia come testimonianza della sua angustia, sia come costruzione di una linea petrarchistica, sia come premessa di una diversa linea moderna. La nozione di “nuovo” e di “moderno” giocano al solito ambiguamente come nella famosa polemica» (p. 24). 5 Rime varie di Carlo Maria Maggi accademico Gelato et Acceso ristampate con altre del medesimo or aggiunte, Bologna, Eredi del Sarti, 1689 (l’edizione fiorentina dell’anno precedente era stata dedicata, non a caso, al padre Tirso Gonzales, Generale della Compagnia di Gesù: Rime varie di Carlo Maria Maggi accademico della Crusca, Firenze, Stamperia di S. A. S., 1688). Sulla poesia del Maggi, vedi inoltre M. Capucci, Lettura del Maggi lirico, in «Studi secenteschi», vol. III, 1962, pp. 64-87, e più di recente P. Frare, La sincerità degli affetti: sulle «Rime varie» di Carlo Maria Maggi, in «Testo», n.s., 19, 1998, 2, pp. 45-74.

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Giuseppe Nicoletti

Pepoli e tre campioni riconosciuti del petrarchismo come Eustachio Manfredi, Ottaviano Petrignani e Fabrizio Monsignani, uscirono tutti dalle stesse scuole dove l’imitazione del Petrarca veniva proposta coscientemente come modello di una lirica moralizzata»6. Ma sono poi le osservazioni critiche che maturano a margine della scrittura di questo primo petrarchismo cristianamente normalizzato a far aggio e perno per noi a una migliore storicizzazione dell’avviato rinnovamento del gusto in terra emiliana. Parliamo cioè delle lettere all’Ettorri nelle quali il Maggi, con grande perspicuità, aveva proposto al gesuita bolognese, vero e proprio battistrada del mite razionalismo dell’Arcadia, il suggestivo coniugio della componente più strettamente dottrinaria della lezione petrarchesca con quella psicologica, al fine di suggerire una dimensione nuova di impegno letterario, che pertanto salvaguardasse assieme alle verità di affetti e sentimenti dei quali era necessario il poeta si dovesse nutrire, le verità morali patrimonio dell’uomo associato e del cristiano. Di qui una declinazione più scopertamente sentenziosa e moraleggiante in questo riuso del Canzoniere, considerato tuttavia sorgente privilegiata per guadagnare un tenore poetico capace di accogliere i contenuti di verità in forme di necessità aggraziate, se non proprio amabili. Un petrarchismo, quello che viene maturandosi dalla lezione del Maggi, costruito con singolare e quasi impercettibile promiscuità e cioè con materiali di volta in volta afferenti ad una sapienza ora popolareggiante perché sostanziata di massime e proverbi ora, invece, sorretta da una perentorietà intellettualistica che solo la larvata finalità pedagogica e parenetica poteva legittimare. «La poesia bolognese conserverà a lungo questa impronta severa così caratteristica del mondo lombardo, che ne marca il gusto rispetto al petrarchismo più brillante e leggiadro che rifluiva dal galante mondo romano, o a quello erudito che cominciava a circolare nell’ambiente veneto tra Zeno e Maffei»7 e si veda in questa direzione soprattutto il primo tempo della lirica, di un livello qualitativo sempre piuttosto elevato, di un Giovan Gioseffo Orsi, di certo assestata su uno stesso modello decorosamente raziocinante ma privo delle punte affettuose o dei riferimenti a circostanze familiari o borghesi che talvolta fanno capolino fra le rime del Maggi. Nei sonetti dell’Orsi, pubblicati in gran parte postumamente per le cure del segretario Benedetto Piccioli e di Gian Pietro Zanotti, è prevalente uno schema di compostezza ragionativa inteso in particolare a trasmettere un contenuto di morale ammonimento (più spesso con finalità autoreferenziali) o di commozione amorosa

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E. Graziosi, Vent’anni di petrarchismo (1690-1710), cit., p. 87. Ivi, p. 95.

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

strettamente platonica, attraverso il sapiente impiego di un lessico astratto e dottrinariamente perspicuo. Certo, al pari del marchese bolognese, citato nei manuali di storia letteraria più che altro per la sua polemica antifrancese con Dominique Bouhours8, anche altri rappresentanti dello stesso ceto o dello stesso milieu intellettuale (e si ricordi fra tutti almeno il conte Carlo Antonio Bedori) seguirono una linea di sostenuto petrarchismo in funzione di riformismo antibarocco, trattavasi al solito di letterati e studiosi impegnati anch’essi in posizione preminente nella direzione della Colonia Renia o che avevano appoggiato esplicitamente l’Orsi nella sua battaglia contro lo sciovinismo culturale del gesuita francese 9. Né si dimentichi che del riformismo filoreligioso del Maggi, ispirato e sostenuto dall’accorto proselitismo della pastorale della Compagnia di Gesù, si avvalsero pure altre zone della penisola, soprattutto del settentrione, come ricordava il Muratori. A Genova, ad esempio, ancor prima della fondazione, nel 1705, della Colonia Ligustica, un personaggio del rilievo culturale e sociale dell’aristocratico Giovanni Andrea Spinola, amico personale del segretario milanese, dava dimostrazione con i componimenti raccolti nei due volumi miscellanei del suo Il cuore in volta e il cuore in scena (1695) di una poesia, magari di non alto profilo tecnico-professionale e di un petrarchismo 8 Se ne veda la documentazione in una silloge curata dal Muratori e intitolata Considerazioni del marchese Giovan Gioseffo Orsi bolognese sopra la Maniera di ben pensare ne’ componimenti, già pubblicata dal padre Domenico Bouhours […]. S’aggiungono tutte le scritture, che in occasione di questa letteraria contesa uscirono a favore, e contro al detto marchese Orsi, colla di lui Vita colle sue Rime in fine, Modena, Bartolomeo Soliani, 1735, 2 voll. Nella vasta bibliografia in argomento, cfr. M. G. AccorsiE. Graziosi, Da Bologna all’Europa: la polemica Orsi-Bouhours, in «La Rassegna della letteratura italiana», XCIII, 1989, n. 3, pp. 84-136, e, più di recente, l’ampia trattazione (con ricca documentazione bibliografica) di C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, Verona, Fiorini, 2001 (qui, alle pp. 391417, si veda l’Appendice II dove si riproduce il testo di uno scritto inedito dell’Orsi intitolato Risposta all’incivil critica fatta da alcuni sopra le «Osservazioni» al Petrarca di L. A. Muratori). Sull’Orsi, si veda anche l’importante L. A. Muratori, Carteggio con Giovan Gioseffo Orsi, a cura di A. Cottignoli, Firenze, Olschki, 1984, e quindi dello stesso curatore, Orsi corrispondente muratoriano fra «buon gusto» e «autorizzamento» (1982), ora in Id., Muratori teorico. La revisione della ‘Perfetta poesia’ e la questione del teatro, Bologna, Clueb, 1987, pp. 37-47. 9 Ci riferiamo alle undici lettere apologetiche che, stampate in seguito nel primo tomo delle citt. Considerazioni, l’Orsi era riuscito ad ottenere da altrettanti amici ed estimatori, non soltanto di Bologna ma anche di altre, rappresentative città, come Venezia e Firenze. Fra questi, oltre agli stanziali Bernardoni, Bedori, Manfredi e Muratori, il fiorentino Salvini e il veneziano Apostolo Zeno, cfr. C. Viola, Tradizioni letterarie a confronto Italia e Francia nella polemica Orsi-Bouhours, cit., pp. 296-310.

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strumentale e di maniera, ma allineata in buona sostanza ai principi di una letteratura elegantemente moralizzata10. Allo stesso modo la discontinua produzione poetica del gesuita Giovan Battista Pastorini (anch’egli amico e ammiratore del Maggi e del Lemene e ricordato soprattutto per un suo patriottico sonetto dedicato al bombardamento su Genova del 1684), disegna un percorso di crisi della retorica secentista senza raggiungere però gli esiti modernizzanti e la duttile comunicabilità della lirica arcadica, cosicché sia lui che lo Spinola, all’atto della fondazione, per iniziativa di Giovan Bartolomeo Casaregi, della Colonia genovese, rimasero sostanzialmente estranei spettatori. Ma bisognerà poi attendere che una nuova generazione si insediasse nel primo decennio del secolo nuovo e magari sulla scorta di una letteratura critica fortemente filopetrarchesca prodotta in quello stesso torno di tempo, per opera in specie degli inevitabili Muratori e Orsi, perché finalmente si affermasse un filone di petrarchismo più esplicito e, come si è detto, ortodosso, il cui esordio agli occhi del gran pubblico, come è noto e come ricorda Graziosi, è assegnato proprio al 1700, l’anno della canzone Donna negli occhi vostri del venticinquenne Eustachio Manfredi. E tuttavia, la posizione di un esimio contemporaneo e compagno di studi del Manfredi, titolare di un pensiero critico non sempre in linea con l’acquisito rigorismo petrarchista del poeta scienziato felsineo, impone se ne consideri preliminarmente la posizione anche per la preminenza meramente cronologica del suo Canzoniere, uscito alle stampe già nel 1710 e dunque, caso piuttosto raro, non per le postume cure di qualche allievo o ammiratore 11. Parliamo naturalmente di Pier Jacopo Martello, un poeta che non seppe o non volle rassegnarsi mai compiutamente ad un rigido criterio imitativo e per di più con la congiunta costrizione del modello unico e inamovibile: «Il secolo vuole pensieri vigorosi – scriveva in

10 Il titolo completo della raccolta dello Spinola è Il cuore in volta e il cuore in scena, saggio di lettere e poesie e componimenti dell’illustrissimo sig. Giannandrea Spinola (Genova, Casamara, 1695). Sulle produzioni poetiche a Genova fra Sei e Settecento e poi in epoca arcadica, si vedano innanzi tutto i capitoli relativi (e cioè, E. Graziosi, La prearcadia: 1680-1700, e A. Beniscelli, Il Settecento letterario) nel volume La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), Genova, Costa & Nolan, 1992, parte II, pp. 189296 (la nota bibliogr. è alle pp. 403-417). 11 Comentario e Canzoniere di Pier Jacopo Martello, Roma, per Francesco Gonzaga in via Lata, 1710 (il Comentario vedilo ora riprodotto in P. J. Martello, Scritti critici e satirici, a cura di H.S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 111-48); sul Martello si veda ora la monografia di I. Magnani Campanacci, Un bolognese nella repubblica delle lettere. Pier Jacopo Martello, Modena, Mucchi, 1994.

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proposito al Muratori nel gennaio 1702 – e siano pure quelli del Petrarca mascherati o ancor smascherati ciò non importa. Io venero il pensar alla maniera del Petrarca ma non stimo tanto il ripetere i di lui pensieri»12. In realtà, la complessa produzione critica del Martello mostra la sua propensione ad allargare lo spazio semantico di alcuni termini non sempre coerenti o solidali con un certo rigorismo petrarchesco; concetti come «estro», «novità», «raro», «pellegrino» servono certo per connotare il suo più mobile e articolato pensiero critico, ma giustificano altresì una scelta più libera se non proprio spregiudicata delle sue composizioni, al momento di preparare e proporre pubblicamente il proprio Canzoniere, risultando esso in tal modo

12 Lettere di Pier Jacopo Martello a Ludovico Antonio Muratori [a cura di H. S. Noce], Modena, Aedes Muratoriana, 1955, p. 32 (cfr. E. Graziosi, Vent’anni di petrarchismo (1690-1710), cit., p. 139, e quindi F. Tateo, Arcadia e Petrarchismo, cit., p. 27, secondo il quale da parte del Martello, e in specie nel Comentario, «non viene tanto rimproverata l’unicità del modello [petrarchesco] quanto il livello dell’ornatus facilis, che può pur muoversi fra il dolce e il severo, ma resta sul piano della compositio, non raggiunge quello più profondo dell’artificium, che impegna l’inventio, invenzione come innovazione di topoi e conseguentemente di generi»). Del resto, lo stesso suo interlocutore, il Muratori, mostrò non di rado una certa insofferenza per forme di rigida ortodossia petrarchesca; è nota in proposito la sua ragionevole e argomentata presa di distanza da un “intoccabile” capo d’opera come la terna di canzoni «sopra gli occhi di M. Laura» contenuta nell’antologia di testi del Quarto libro del Della perfetta poesia, laddove si legge: «Né la riverenza, ch’io porto al Poeta, farà ch’io taccia alcune poche cose, le quali a me non finiscono assai di piacere. Imperciocché né questa mia riverenza ha da essere idolatria; né il Petrarca fu impeccabile; né dee già stimarsi sacrilegio il non venerar tutto ciò, che uscì dalla sua penna, quasi il Petrarca più non fosse per essere quel gran Maestro, ch’egli è, ed io stimo che sia, o queste Canzoni lasciassero d’essere que’ preziosi lavori che sono, quando in esse per ventura si discoprisse qualche neo» (L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, cit., vol. II, p. 697). Anche nelle Osservazioni che accompagnavano la sua edizione delle Rime (Modena, Soliani, 1711), il Muratori alterna a valutazioni ampiamente consenzienti talune altre critiche o cautamente limitative; sulle Osservazioni muratoriane, documento esemplare «della funzione pragmatica della critica e dell’esegesi arcadiche» e luogo di applicazione per il grande critico e storico modenese del «postulato della chiarezza del discorso poetico», si veda più di recente R. Tissoni, Muratori esegeta del Petrarca, in ID., Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Padova, Antenore, 1993, pp. 11-30. Si sa che, a difesa di tali presunte censure antipetrarchesche del Muratori, intervennero prontamente alcuni esponenti dell’Arcadia ligure, cfr. Difesa delle tre canzoni degli occhi e di alcuni sonetti e vari passi delle rime di F. Petrarca dalle opposizioni del signor L. A. Muratori composto da G. B. Casaregi, G. T. Canevari, A. Tomasi, Lucca, Frediani, 1709. Su tutta la questione, cfr. fra l’altro F. Forti, L. A. Muratori e il petrarchismo arcadico, in «Quaderni petrarcheschi», vol. IV (1951), pp. 91-128, e A. Beniscelli, G. B. Casaregi e la prima Arcadia genovese, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXXX (1976), pp. 362-385.

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immune da quell’ostracismo retroattivo e da quelle inflessibili censure da convertito che altri, e in primis il Manfredi, riservarono alle loro «poesie prima della conversione». L’aderenza al criterio di una più blanda selettività nella produzione pregressa implica così, per le successive adozioni, che l’aspro platonismo di ascendenza lombarda (e pure il Martello non rinnegò mai il proprio discepolato e dunque la riconoscenza dovuta al Maggi e al Lemene) ceda talvolta il posto a un afflato più sentito di affetti domestici: ci riferiamo ovviamente ai fortunati (e talvolta citati a oggetto di inerti polemiche)13 sonetti per la morte – a Roma, nel 1708 – del figlioletto Giovanni, passato poi alle storie letterarie con il nome arcadico di Osmino. Specie in questa circostanza si è parlato per il Martello di «petrarchismo affettuoso» e non soltanto in ragione dell’ammissione in poesia di un catalogo di oggetti attinenti un ambito quasi borghese di sentimenti e consuetudini – dato questo che poteva senz’altro collegarlo alla lezione di un Maggi più disponibile all’accoglienza di affetti privati – ma anche perché nel sistema costruttivo dei suoi componimenti era previsto piuttosto l’utilizzo di segmenti esclamativi e di toni d’interrogazione tendenti ad un’alta colloquialità (e ciò in punti strategici del singolo pezzo) che non di clausole sentenziose, tipiche invece di un petrarchismo che potremmo definire “superegotico” per le sue ansie di restaurazione morale. Ma si legga, finalmente, uno dei sonetti per Osmino e forse il più conosciuto che, nella ripresa di un topos secolare, quello appunto dell’agognato ricongiungimento paterno con un figlio premorto, mostra appunto i segni di uno slancio affettuoso che specie nell’explicit e come dicevamo, nelle posizioni più rilevate del componimento, caratterizza la fronda petrarchista del Martello, il quale tuttavia mostra di aver ormai acquisito quella scioltezza e quella regolarità esecutiva, tipiche di una misura ormai decisamente arcadica: Odo una voce tenera d’argento donde uscita non so, chiamarmi a nome. Chi sei? Non veggio altro che l’onda e il vento Del circostante allor scuoter le chiome.

13 Vedi ad esempio la plaquette di P. J. Martello, Rime per la morte del figlio, a cura di G. Spagnoletti, Torino, Einaudi, 1972, e quindi l’intervento di M. Fubini, Un poeta d’Arcadia e un critico contemporaneo (1972), in Id., Dal Muratori al Baretti, cit., pp. 201214. Sul Martello poeta si veda inoltre G. Distaso, Fra Barocco e Arcadia: poesia ed esperienza critica di P. J. Martello, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», cl. di Lettere e Filosofia, s. III, vol. VI (1976), pp. 505-527.

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E pur me novamente avvien che nome il vicino invisibile concento, onde in petto destarmi, e non so come, amore insieme e maraviglia io sento. Ah sei tu, che a me riedi, o piccol figlio? Io non scerneva il candido tuo aspetto da quello, ove ti stai, cespo di giglio.

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Te rende forse il buon paterno affetto a mie sorti compagno in questo esiglio? No padre; io te nella mia patria aspetto14.

Frattanto la discussione sul petrarchismo si allarga e si articola dialetticamente su posizioni che mettono in discussione l’iniziale prevalenza di una linea lombardo-felsinea incardinata in specie sull’autorevole speculazione muratoriana. Essa aveva teso a porre l’accento, come si è accennato, sulla dimensione penitenziale dell’esperienza poetica petrarchesca, rigettando al contempo, con un certo cristiano rigorismo, la legittimità di un suo investimento sull’accidentato territorio del platonismo amoroso, territorio di cui viene diffidato l’accesso ai poeti perché ritenuto antistante e quindi introduttivo all’accoglimento, di certo assai meno lecito nella loro prospettiva, di amori profani, attingibili peraltro attraverso la lezione dei poeti dell’antichità classica. A questa linea viene opponendosi nel corso del primo decennio del secolo diciottesimo, come si sa, da un lato l’Arcadia romana di stretta osservanza crescimbeniana, favorevole invece, sulle tracce cinquecentesche del Di Costanzo, ad un platonismo psicologicamente più sfaccettato e possibilista con non infrequenti ricadute sul crinale mondano di consuetudini accademiche e non, e dall’altro una aggregazione di studiosi e letterati, teoreticamente ben attrezzata e di fatto solidale, che lega idealmente, al Maffei aforistico delle cento Conclusioni d’Amore, le posizioni di Domenico Lazzarini, l’impettito tragediografo sofocleo dell’Ulisse il giovane, e quelle di Biagio

14 Cfr. Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, con la collaborazione di M. Fubini, D. Isella, G. Piccitto, Introd. di M. Fubini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, p. 99 (per altre moderne antologie di riferimento, cfr. La poesia del Settecento, a cura di C. Muscetta e R. M. Massei, in Parnaso italiano, VIII, Torino, Einaudi, 19742, 2 voll.; G. Compagnino e G. Savoca, L’Accademia d’Arcadia e i suoi esordi, in La Letteratura italiana. Il Settecento, a cura di C. Muscetta, Bari, Laterza, 1973; Poesia italiana del Settecento, a cura di G. Gronda, Milano, Garzanti, 1978; Poeti del Settecento, a cura di R. Solmi, Torino, Utet, 1989).

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Schiavo poi deversate nel ponderoso dialogismo delle dieci giornate del suo Filalete. La loro interpretazione prende le necessarie distanze dagli scrupoli muratoriani, vale a dire che essi prescindono dal suo rifiuto di una lettura meramente psicologica degli impulsi affettivi, impulsi di cui pure le rime petrarchesche possono risultare veicolo, per orientarsi invece sulla esemplarità di un platonismo a tratti sapienziale e quasi metafisico ma che risultasse appagante viatico lungo un percorso di affinamento morale e intellettuale, più che religioso. Anche Scipione Maffei come Apostolo Zeno era partito, soprattutto come poeta in proprio, da posizioni piuttosto difformi da quelle che si troverà ad occupare dopo l’approdo petrarchista, ma una volta che questo sarà guadagnato definitivamente, e in specie con l’acquisizione del vice-custodiato della Colonia Veronese nel 1705, ecco che la sua adesione al primato petrarchesco nella storia della volgar poesia risulterà piena e inequivoca, anche se accompagnata da una mai colmata presa di distanza dall’esperienza del Maggi lirico, considerato inaffidabile per la caratura pesantemente prosaica del suo linguaggio poetico15. Basterà rileggere in proposito il discorso d’apertura della Colonia della sua città per capire l’entità di una tale conversione, laddove, fra l’altro, riaffermato il criterio dell’imitazione dei modelli canonici della grande poesia volgare, come antidoto all’ormai aborrito gusto barocco, veniva rimarcata la funzione esercitata dal Petrarca, non più lirico insigne unius libri ma «gran restauratore della lingua Latina, grand’ampliatore della Toscana, Istorico, Filosofo, e colui finalmente, che porse agli studi migliori la mano, perché risorgessero dall’oblivione»16. Per

15 Si veda per questo soprattutto la lettera al Garzadoro, nella quale il Maffei, facendosi portavoce di istanze proprie dell’ambiente dell’arcadia romana, volte a sottolineare la sostanziale diversità del registro poetico da quello prosastico, denuncia senza mezzi termini l’insufficiente elaborazione stilistica dei versi del poeta milanese: «La prima opposizione che può farsi al Maggi è che il suo stile non è poetico. Voi vedete che la saetta va a ferire il cuore, e per certo poche altre opposizioni più gravi potrebbero farsi a chi scrive in versi. Vero è che molti odonsi tutto giorno per celebrare un poeta replicar encomi ai suoi sentimenti, e si credono aver detto tutto, ma s’ingannano di molto, perché i sentimenti non sono quelli che caratterizzano il poeta, essendo essi ugualmente comuni ai prosatori; quello che fa principalmente il poeta è lo stile e tanto più nelle cose liriche» ([S. Maffei], Giudicio sopra le poesie liriche del Signor Carlo Maria Maggi, steso in una lettera al Sig. Conte Antonio Garzadoro […], s.l. né d. [ma Venezia, 1706], p. 3). Sull’ambiente e la storia dell’Arcadia veneta, cfr. A. Franceschetti, L’Arcadia veneta, in Storia della cultura veneta diretta da G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1985, vol. 5/I (Il Settecento), pp. 131-170. 16 S. Maffei, Nell’aprirsi della nuova Colonia d’Arcadia in Verona. S’accennano i migliori Poeti Italiani, in Id., Rime e prose, Venezia, Coleti, 1719, p. 135. Sulla poesia maffeiana (leggibile in Id., Opere drammatiche e Poesie varie, a cura di A. Avena, Bari, Laterza,

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quanto riguarda poi la posizione dello Zeno, occorre dire che essa collima in gran parte con quella del collega Maffei (anche lo Zeno fu a Venezia vicecustode dell’Accademia Animosa poi dichiarata Colonia Arcadica), ma più sul piano dei principi di riforma letteraria e del giudizio storiografico che non su quello della scrittura d’arte, dal momento che, essendo stata sacrificata alle fiamme gran parte della sua produzione poetica, come è noto17, l’analisi critica sulla sua poesia rischia di risultare parziale e inaffidabile per la rarità dei campioni oggi disponibili. Un altro esponente d’Arcadia che riesce a contemperare le funzioni di vicecustode della locale Colonia con quelle del riconosciuto caposcuola è pure il Casaregi. Almeno fino a che resterà nella sua Genova e quindi fino alla metà del secondo decennio del secolo, oltre al memorando exploit della Difesa del Petrarca, promosso e realizzato nel 1709 di conserva con i colleghi Tommaso Canevari e Antonio Tommasi18, si attenne per lo più – lui che vantava illustri colleganze e amicizie sia nella Roma crescimbeniana che nella Toscana prearcadica del Menzini e del Filicaia – ad una disciplina petrarchesca piuttosto severa e ambiziosa, riproponendo gli schemi della canzone e di una poesia del “far grande” che già i fiorentini e in specie il Filicaia avevano fatto propria. Tuttavia il Casaregi lasciò spazio pure ad una sua vena più colloquiale e a una non esigua produzione sonettistica anche di argomento amoroso e di restaurate forme cinquecentesche, avanzando in tal modo nell’arcadia ligustica una proposta «di composta indagine moral-sentimentale, con le sue appendici “amorose” e raccogliendo «molti consensi, collaborando alla diffusione di una “pratica” di cui saranno partecipi, tra i molti altri, Tommaso Baciocchi, Teresa Grillo Pamphili,

1928), cfr. inoltre P. Rossi, Le liriche di Scipione Maffei, in Studi maffeiani, Torino, Bocca, 1909, pp. 601-667, e A. Franceschetti, Il Petrarca nel pensiero critico di Scipione Maffei, nel vol. collettaneo Petrarca, Venezia e il Veneto, Firenze, Sansoni, 1976, pp. 347-366. 17 Cfr. A. Franceschetti, L’Arcadia veneta cit., pp. 133-134 dove è riportata in proposito una testimonianza tratta dalla Vita di Apostolo Zeno di F. Negri (Venezia, 1816). Se Apostolo Zeno già nel 1705 distrusse in tal modo «tutte le sue cose liriche, accompagnando […] il sacrificio con un fermo proponimento di non più esercitarsi in tal genere di poesia» (ibid.), il Maffei al contrario fino in tarda età rivendicò orgogliosamente l’importanza della propria esperienza di poeta e scrivendo a Antonio Francesco Zaccaria il 15 novembre 1752 ne ricordava l’influenza petrarchesca: «Sappiate, che ho più passione per le mie poesie, che per qualunque altra mia fatica. Non è stata fatta giustizia se non alla Tragedia, però di questa non occor dir altro. Ma nelle Liriche ogni genere di Poesia, e ogni stile (parlo de’ migliori) apparisce. C’è il Petrarca, c’è il Chiabrera, c’è Dante, c’è nuova idea di dipingere più che sia mai stato fatto» (la citazione è in A. Franceschetti, L’Arcadia veneta, cit., p. 162). 18 Cfr. qui la nota 11.

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Salvatore Squarciafico, Agostino Spinola o, con le sue Poesie (edite a Lucca nel 1735) lo stesso Antonio Tommasi, già teorico del petrarchismo cinquecentesco nelle pagine della Difesa»19. In questo quadro chiaroscurato di ipotesi e posizioni in contrasto, si colloca il tempo breve della speculazione poetica di Eustachio Manfredi, il più insigne petrarchista della scuola bolognese e uno dei massimi della lirica settecentesca20, speculazione che ufficialmente si apre e si chiude nel 1713 con la princeps delle sue cinquantasette Rime, messe assieme da un discepolo del Collegio Montalto (di cui il poeta era prorettore), Gian Paolo Ballirani, in uno smilzo libretto in ventiquattresimo oblungo. Le poche pagine della plaquette, uscita dai torchi bolognesi del Pisarri, tali risultano per l’implacabile vaglio cui era stata soggetta l’intera sua produzione lirica, la più parte sparsamente già pubblicata in miscellanee e originata, com’era costume al tempo, da occasioni ed eventi attinenti la vita di società della classe dirigente cittadina. E quale poteva esser stato il criterio di massima tenuto dal poeta per selezionare così drasticamente il materiale creativo, prodotto grosso modo nell’ultimo quindicennio, al fine di presentarsi con quel ridottissimo mannello di componimenti tutti composti, si può ragionevolmente ritenere, nei primi due lustri del secolo nuovo? Ebbene, Manfredi misura con una certa, professorale sospettosità una sua trascorsa e più variegata produzione, spesso di materia pastorale e di ottima tenuta melica, sulla base di un registro che è poi quello di una certa intransigenza petrarchesca, in accezione più scopertamente muratoriana, magari senza tralasciare di rendere esplicito e concreto omaggio ai valorosi epigoni cinquecenteschi come il Casa, specie nei casi in cui fosse stato necessario allestire la frase con la dovuta solennità, utilizzando perciò e con maggiore larghezza l’espediente dell’inarcatura. E a tale criterio, quello cioè di un’esemplarità pressoché assoluta della linea petrarchista, quasi da farla poi coincidere compiutamente con la tradizione in quanto tale, il poeta si era attenuto anche nel suo lavoro di antologista e di curatore di una sua Scelta di sonetti e canzoni de’ più eccellenti rimatori di ogni secolo (che va sotto il nome dell’allievo Agostino Gobbi), al centro della quale, naturalmente, è posta, con calcolata sproporzione di addendi esemplificativi l’aureo testo oggetto della sua intellettuale venerazione e, insieme con quello, il

19 A. Beniscelli, Il Settecento letterario, cit. pp. 242-243. Sul Casaregi si vedano anche le pagine di documentazione di C. Ranieri, Giovanni Bartolomeo Casaregi. Un petrarchista arcade della Colonia Ligustica, in III Centenario d’Arcadia, cit., pp. 201-216. 20 «[…] né il petrarchismo dopo il Manfredi trovò altro poeta a cui quel linguaggio fosse così congeniale e non fu più se non una maniera di una scuola alquanto ristretta di letterati […]» (M. Fubini, Introduzione a Lirici del Settecento, cit., p. XXII).

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lascito poetico, lì in misura altrettanto sovrabbondante, dei seguaci cinquecenteschi del poeta toscano21. Per il Manfredi poeta è così resistente e adamantina la qualità impressiva della parola petrarchesca, da imporsi storicamente, vale a dire che il suo valore si misura nella durata: alla lunga si riscopre ancora salutare e attivo nel riuso di imitatori e seguaci. Ne consegue che nei suoi componimenti, se l’avvio spesso è da imputare a un’eco tratta dal canzoniere-archetipo, il conseguente sviluppo tematico, ancor più di quello stilematico, risente di una sorta di eterogenesi delle fonti, realizzatasi gelosamente per li rami della stessa tradizione petrarchesca, che in tal modo mostra intatta tutta la sua vitalità di organismo plagiario: Poiché di morte in preda avrem lasciate madonna ed io nostre caduche spoglie, e il vel deposto che veder ci toglie l’alme ne l’esser lor nude e svelate, tutta scoprendo io allor sua crudeltate, ella tutto l’ardor che in me s’accoglie, prender devrianci alfin contrarie voglie, me tardo sdegno e lei tarda pietate;

21 Scelta di sonetti e canzoni de’ più eccellenti rimatori di ogni secolo, Bologna, Pisarri, 1709-1711, [in quattro volumi, ma l’ultimo, uscito come il terzo nel 1711, essendo il Gobbi venuto a mancare nel 1709, reca un diverso titolo, Rime d’alcuni illustri autori viventi aggiunte alla terza parte della scelta d’Agostino Gobbi]; a questa edizione ne seguirono tre altre e di queste una bolognese presso lo stesso stampatore (1718) e due veneziane (Venezia, L. Baseggio, 1727 e 1739. Della scelta delle Rime, oltre ad A. Quondam (Petrarchismo mediato. Per una critica della forma antologia, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 25-31) che conteggia 191 autori e 1141 testi riprodotti, parla distesamente Graziosi (Vent’anni di petrarchismo [1690-1710], cit., pp. 207-225), la quale fra l’altro informa: «Il Gobbi vi lavorò senz’altro per i due primi volumi che contengono le rime dei rimatori antichi fino a tutto il secolo XVII, ma gli ultimi due volumi aperti ai rimatori viventi nel 1709 furono opera del Manfredi, come fu opera del Manfredi la circostanziata e anonima prefazione di cui si trova il manoscritto nella Biblioteca dell’Achiginnasio bolognese» (ivi, p. 214). A sua volta Andrea Donnini (Eustachio Manfredi rimatore, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXVIII (2001), fasc. 582, pp. 205-257) che assegna al Manfredi anche la scelta dei primi due volumi, dedicati ai rimatori dal Duecento al Seicento, ritiene il lavoro dell’antologia «ispirato a un fondamentale intento esemplare che si attualizzava in un duplice criterio: la proposta di versi contemporanei che testimoniando la migliore poesia corrente impostava le basi di un “classicismo” sincronico ed assumeva quindi un palese intento modellizzante; e quella di antichi che suggeriva “autori” certi ai quali chiunque avrebbe potuto e dovuto rifarsi» (p. 216).

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se non ch’io forse ne l’eterno pianto, pena al mio ardir, scender dovendo, ed ella tornar sul cielo agli altri angioli a canto,

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vista laggiù fra i rei questa rubella alma, abborrir viè più dovrammi, io tanto struggermi più, quanto allor fia più bella22.

La critica, fin dalle acute osservazioni di Alessandro D’Ancona risalenti ancora agli anni ottanta dell’Ottocento23, ha spiegato nel dettaglio lo spettro della plurima contaminazione testuale del presente sonetto. L’attacco, intanto, pare risentire l’imput di una modalità interlocutiva del sonetto novantanovesimo dei R. V. F., Poi che voi et io più volte abbiam provato e ciò nonostante che il «voi», in quel caso, piuttosto che riferirsi a «madonna» sia rivolto a un amico di messer Francesco non meglio identificato. Ma ciò che più interessa è il fatto che in seguito il motivo centrale del componimento, quello cioè della prefigurazione di una postuma riduzione del soggetto all’essenza spirituale dell’anima in attesa del giudizio divino, viene elaborato dal poeta settecentesco attraverso il recupero di materiali tematici ricavati da ben altri quattro, diversi sonetti: Poi che vo’ ed io varcate avremo l’onde di Angelo Di Costanzo, Donna, siam rei di morte. Errasti, errai del Marino, Stravaganze d’un sogno! A me parea di Francesco De Lemène e infine Voi, Donna, et io per segni manifesti del Cariteo (ma è l’ultimo a esercitare il ruolo di battistrada). Donde l’imporsi di una notevole maestria compositiva da parte del Manfredi che, pericolosamente esposto alle malie di un sottile, virtuosistico eclettismo petrarchesco, concede al manufatto testuale una straordinaria compenetrazione di moduli e toni espressivi se non proprio una fusione di registri poetici: moduli e toni come si è detto di diversa ascendenza, seppure facenti capo ad una matrice, di riconosciuta, indiscutibile autorità, quale la lezione del grande cantore di Laura. Il poeta bolognese sa dunque estrarre una tenue e tuttavia percepibile vena di severo ma sincero patetismo, diciamo pure una stilla di personale poeticità, anche da contesti, come questo, di alta stilizzazione, dove invece il peso semantico del testo sembrerebbe monopo-

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Cfr. Lirici del Settecento, a cura di B. Maier, cit., p. 80. Cfr. A. D’Ancona, Del secentismo nella poesia cortigiana del secolo XV, in Id., Studi sulla letteratura italiana de’ primi secoli, Ancona, Morelli, 1884, pp. 186-188 e quindi almeno il commento presente nella citata antologia ricciardiana dei Lirici del Settecento, nonché G. Parenti, Benet Garret detto il Cariteo. Profilo di un poeta, Firenze, Olschki, 1993, pp. 129-130 e, in ultimo, A. Donnini, Eustachio Manfredi rimatore, cit., pp. 238-240. 23

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lizzato o interamente assorbito dalla preminenza della convenzione letteraria. Lo stesso dicasi, come consiglia il Fubini, per un altro sonetto celeberrimo, Vergini, che pensose a lenti passi, strettamente legato al petrarchesco Liete e pensose accompagnate e sole, «nel quale si fa sentire con tono sommesso e misurato il rimpianto per la donna scomparsa dal mondo, fissato in quell’immagine ultima, solitaria e per questo tanto più suggestiva, della bellezza di lei ormai perduta per occhi terreni “e il bel crin d’oro se ne porta il vento” – una chiusa così aliena dalla novità ingegnosa del barocco e anche del rococò caro al Martello, e che sintetizza per noi il gusto del Manfredi»24. Di esso è pure eloquente esempio la sua più conosciuta composizione, la già menzionata canzone Donna negli occhi vostri, con dedica a «una bellissima e graziosa Giovane», Giulia Caterina Vandi, a lungo amata dal poeta e poi fatta oggetto di estatica quanto spirituale ammirazione «quando l’anno 1700 vestì l’abito religioso di San Francesco», evento che diede lo spunto alla confezione di questo omaggio poetico25. Il quale si segnala prima di tutto per un moto di vigile commozione appena trattenuto sul margine di una pronuncia più aperta e poi, certo, come desensibilizzato, o per dir meglio depotenziato degli accenti più personali, dal prestigio del lessico petrarchesco (soprattutto origi-

24 M. Fubini, Introduzione a Lirici del Settecento, cit., p. XXI. Ma si veda poi anche la lettura del Binni (Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi, in Id., L’Arcadia e il Metastasio, cit., pp. 93-115), quella di A. Donnini, Eustachio Manfredi rimatore, cit. (di cui si raccomanda, fra l’altro, l’esaustività informativa e l’acribia nello «smontaggio e riuso delle fonti») e, già prima, quella di D. Molinari, Eustachio Manfredi e la poesia dell’Arcadia bolognese, in «Critica letteraria», 1981, n. 4, pp. 745-776 dove vengono precisate le referenze platonico-spiritualiste di questa poesia, referenze favorite da un più stretto adeguamento al registro petrarchesco. Assai opportunamente Donatella Molinari cita un sonetto manfrediano «ove l’adozione di un linguaggio sacrale e metafisico testimonia l’intenzionalità d’approdo ad una suadente misura intimista, carica già di suggestive connotazioni platoniche, estranianti ogni sorta di atmosfera idillica» (p. 766); ed ecco il testo del sonetto in questione: «Poiché scese qua giù l’anima bella / che nel sen di costei posar dovea, / incerta errando in questa parte e in quella / niuna degna di lei alma sorgea. // «Qual basso luogo è questo e chi m’appella / qua giù dal ciel?», sdegnando ella dicea, / e già per tornar di stella in stella / era a l’alta, onde scese eterna idea. // Pur, seguendo de’ fati il gran disegno, / entrò nel vago, destinato velo, / vago bensì, ma pur di lei non degno. // E già lo sprezza, e già colma di zelo / cerca, rotto il suo fral, breve ritegno, / tutte le vie di ricondursi al cielo». 25 Sono parole tratte da Vita di Eustachio Manfredi scritta da Gianpietro Zanotti (Bologna, L. dalla Volpe, 1745), dove si legge ancora che il poeta, invaghitosi della donna, «sperando di ottenerla in moglie, fece molti anni all’amore, e questo appena ebbe termine quand’ella si monacò» (p. 13); lo Zanotti testimonia inoltre della singolare fortuna arrisa anche presso i contemporanei alla canzone che «tanto divenne famosa, e tanto lo è ancora che non v’ha chi ami un poco la poesia e non l’abbia a memoria» (ibid.).

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nato dalle cosiddette tre canzoni degli occhi) e da un quadro testuale, intessuto di riprese preziose da una tradizione che trascorre, come conviene, dallo stilnovismo dantesco e cavalcantiano al Tasso. Manfredi, fedele all’austero programma del Muratori e quindi alle premesse di un buon gusto non solo imperturbabile dalle passioni, ma perfino distante dal comune sentimento amoroso, svolge la propria apoteosi della fanciulla votata alla vita claustrale secondo un processo di platonica idealizzazione, le cui stazioni erano già state vidimate nella tradizione lirica più alta: la luce degli occhi che parla un linguaggio non umano e pertanto incomprensibile al volgo; la Natura e l’Amore coalizzati nel creare miracolosamente le corporali fattezze della fanciulla; le straordinarie conseguenze sia nel creato che fra gli uomini della sua apparizione sulla terra; il disagio dell’innamorato che, pur prescelto a riconoscere la natura celeste della fanciulla, non è poi riuscito a intendere la vera finalità, quella monastica, della sua vocazione spirituale; infine la chiusa della canzone incentrata su un movimento di ascensione al cielo che appunto sta a significare il compimento della sua missione religiosa: Vedete or come accesa d’alme faville e nove costei corre a compir l’alto disegno! Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove, qual si fa il paradiso e qual ne resta il basso mondo, che di lei fu indegno! Vedi il beato regno qual luogo alto le appresta, e in lei dal cielo ogni pupilla intesa confortarla all’impresa; odi gli spirti casti gridarle: Assai tardasti, ascendi, o fra di noi tanto aspettata, felice alma ben nata! Si volge ella a dir pur ch’altri la siegua, poi si mesce fra i lampi e si dilegua26.

Peraltro la notevole valenza letteraria del testo non osta, in questo come in altri luoghi della poesia manfrediana, ad un apprezzamento in profondità dell’originale modello prescelto, giacché la maggiore vicinanza ad esso sta proprio nell’aver accettato un essenziale procedimento del suo sistema di

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Lirici del Settecento, cit., p. 79.

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rappresentazione poetica. Si vuol dire cioè che anche nella canzone del Manfredi, come di frequente nei componimenti petrarcheschi, il fulcro attorno al quale si viene costruendo l’organismo poetico non è tanto il ritratto del personaggio della donna amata, ovvero la storia di un’anima che ad essa afferisca, quanto invece la dinamica introspezione d’autore in una sua dimensione autointerrogativa, capace come tale di attenuare la visibilità dei caratteri più contingenti di una elaborazione meramente occasionale. Anche in questo, il caso del poeta scienziato bolognese si stacca dal contesto degli imitatori del tempo suo, i quali non di rado preferirono guardare ai tesori dei Rerum vulgarium attraverso il cannocchiale rovesciato offerto loro dai petrarchisti cinquecenteschi. Non si accorsero, o non si dettero pena, così facendo, la gran parte dei rimatori della prima Arcadia e in specie di quella crescimbeniana, che la loro poesia finiva per essere declinata su più facili e agili moduli d’idillio o di melodramma e non invece su ciò che di più autentico sapeva offrire il testo petrarchesco, vale a dire la verità testimoniale di un conflitto profondo colto nel vivo di una passione: “avventura” questa che invece ebbe talvolta ad accadere (quasi miracolosamente, come si è visto) al Manfredi. Se poi volessimo spostare la nostra attenzione verso la limitrofa letteratura elaborata, in questi stessi anni a cavallo fra i due secoli, in terra di Toscana, dovremmo necessariamente richiamare talune premesse di ordine storiografico, capaci di offrire almeno una prima spiegazione circa la posizione di subordine e talvolta di marginalità che in tale contesto viene ad assumere la cultura letteraria. Intanto, occorre si ricordi che la pur recente lezione galileiana, destinata, come è noto, ad imporre una secolare tradizione di studi e indagini non strettamente monodisciplinari, rischiava in quel torno di tempo di stemperarsi in una speculazione meno rigorosa e scientificamente meno spregiudicata e, come poteva accadere nelle sperimentazioni dell’Accademia del Cimento, di veder ristretto il proprio orizzonte di ricerca in ricognizioni sulla natura, pur sempre specialistiche, ma non più sistematiche e soprattutto staccate da modelli universali di sapere scientifico. D’altro canto, nella Toscana di fine Seicento in grazia di un annoso, persistente arroccamento puristico resistevano forme di una letteratura ostinatamente autoctona, che tra satira e parodia eroicomica aveva saputo far argine al “disordine” portato altrove dal marinismo e dove pure erano fiorite, tra Redi e Magalotti, accanto a spunti di una scienza piacevole e a tratti dilettantesca, esperimenti letterari meno ovvi e prevedibili, pur in una loro oltranza linguaiola. Insomma, nell’aureo isolamento di un Granducato ancora per poco mediceo dovremmo poter registrare in poesia tutta una serie di posizioni e di produzioni contrassegnabili dalla funzionale etichetta di “classicismo barocco”. Essa individua propriamente quella tardiva ma più giudiziosa combinazione

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fra la misura toscana, irrobustita da una pervasiva cultura sperimentale, e un barocco magari attenuato e tenuto a freno dalla fortunata lezione di Gabriello Chiabrera; in seguito però l’esempio del poeta ligure potrà unirsi in ragionevole simbiosi a quello di un Tasso fatto finalmente toscano, ovvero alla circospezione del codice petrarchesco: ne deriverà una poesia nel complesso sapiente, colta e concettualmente sofisticata e però negata agli slanci di un’ispirazione originale27. Così nel suo volgarizzamento lucreziano Alessandro Marchetti adotta soluzioni polivalenti di matrice più spesso tassiana e, non tanto del Tasso dei poemi eroici, quanto da quello teologico e scientifico del Mondo creato e, allo stesso modo, il Bellini, cui appartiene il noto e scherzoso poema della Bucchereide e ancora un vario e interessante canzoniere, trova i suoi accenti migliori quando tende a volgere in versi la materia scientifica dei suoi Discorsi di anatomia. Da parte sua il Magalotti nelle quindici canzoni «sublimissime» (e quindi di impianto classico-petrarchesco) della postuma (1762) raccolta La donna immaginaria, si finge un modello perfetto di donna e ne descrive di volta in volta una parte, dedicandovi una specifica canzone: I capelli, Gli occhi, Il seno, La voce, La mano, Il piede ecc. Già autore raffinato e sfizioso di un certo numero di Anacreontiche – dietro il nome arcadico di Lindoro Elateo – il Magalotti si dimostra qui, nelle dense e poco fortunate canzoni della Donna immaginaria, un seguace del Petrarca fedele solo in superficie al caposcuola e cioè per alcune vistose citazioni, nel senso che, avendo in mente una risoluzione pesantemente platonizzante della figura rappresentata, finisce per adottare un formulario concettoso e ricco di metafore, che impedisce alla sintassi del discorso poetico di dispiegarsi sulla linea più classica e piana del dettato moderno. Chi invece trova soluzioni più nuove e in linea con una medietas tutta letteraria e decorosa e in una posizione d’avvio della poetica nuova dell’Arcadia romana è Benedetto Menzini, mentre il coetaneo e conterraneo Vincenzo Filicaia, si impone come il restauratore ammiratissimo della maniera grande di impianto classicista e di ambizione storica e, ad onta del peso delle sue fredde costruzioni pindarico-petrarchesche, per quanto regolate da schemi e simmetrie interne, capace anche di elaborare un discorso poetico più segreto e con forti increspature di religiosa introspezione, come nei sonetti sull’Elevazione dell’anima a Dio. Nel Menzini, in particolare, già esponente

27 Per una prima informazione (anche bibliografica) sulla cultura letteraria in Toscana a cavallo fra i due secoli, cfr. G. Nicoletti, Firenze e il Granducato di Toscana, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa: Storia e geografia, II, 2 (L’età moderna), Torino, Einaudi, 1988, pp. 745-821.

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di spicco della Reale Accademia di Maria Cristina, essendosi trasferito dalla nativa Firenze a Roma nel 1685, e che sei anni dopo venne accolto nell’Arcadia28, lo studiato contatto con la misura oraziana e in genere con la tradizione latina salda la sua esperienza di poeta di satire con quella elegiaca e idillica e, infine, con la sobrietà classicista della terza rima dei canti dell’Arte poetica, dove è espresso, specie nel primo libro, un rinnovato e aperto culto del Petrarca, l’essenziale documento di riconoscimento per varcare la frontiera del buon gusto settecentesco:

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Dolce d’ambrosia, e d’eloquenza un fiume scorrer vedrai dell’umil Sorga in riva per quei, ch’è dei poeti onore e lume. Né chieder devi ond’egli eterno viva; perché ‘l viver eterno a quel si debbe stil puro e terso che per lui fioriva… Perché le Grazie semplicette e nude mostrarsi al maggior tosco; e quei comparve cigno gentil, ch’ogni paraggio esclude29.

L’omaggio poetico del Menzini allo «stil puro e terso» del cantore di Laura «ch’ogni paraggio esclude» acquista per noi un surplus di interesse critico, non tanto per la canonica metafora di «cigno gentil» attribuitagli, quanto 28 Sulla biografia del Menzini, in mancanza di studi aggiornati o recenti, si rimanda alla Vita di Benedetto Menzini scritta dall’abate Giuseppe Paolucci da Spello, in Opere di Benedetto Menzini fiorentino accresciute e riordinate e divise in quattro tomi, In Venezia, Simone Occhi, 1750; si veda inoltre il cap. a lui dedicato (Benedetto Menzini poeta della «prudenza») in C. De Biase, Arcadia edificante. Menzini – Filicaia – Guidi – Maggi – Lemene, Napoli, Esi, 1969, pp. 25-138 e, più di recente, A. Grimaldi, Menzini e l’Accademia Tuscolana, in III Centenario d’Arcadia, cit., pp. 239-248. 29 Cfr. W. Binni, La formazione della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento, in Id., L’Arcadia e Metastasio, cit., p. 25 (poi anche in Il Settecento letterario, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VI (Il Settecento), Milano, Garzanti, 1968, p. 332). Più in particolare sul petrarchismo del Menzini il Binni scrive: «Nel Menzini si precisa il nuovo culto del Petrarca e addirittura per lui la storia del fiorire, della decadenza e della ripresa del buon gusto poetico è legata alla fortuna del Petrarca […]. Non occorrerà qui insistere sul fatto che il petrarchismo del Menzini, come in genere il petrarchismo arcadico, svuota il suo modello esemplare del suo intimo dramma e usufruisce del suo insegnamento stilistico e della sua analisi psicologica con un’eclettica mescolanza di altri esempi (nel caso del Menzini il Tasso più idillico e il Chiabrera)» (ivi, pp. 25-26).

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per l’implicito richiamo ivi contenuto al fenomeno (proprio di questi anni di incubazione del petrarchismo arcadico, ma destinato a protrarsi ben oltre, almeno fino in epoca preromantica), di una sorta di culto sia della persona che dell’opera del grande trecentista, talché non di rado risulta la stessa sua figura o gli oggetti che la ricordano e la connotano, piuttosto che lo stile poetico in quanto tale, ad essere assunti come materia di encomio in versi. Viene in mente in proposito la collana di sonetti che il già menzionato Domenico Lazzarini, ormai professore di umanità greca e latina all’Università di Padova, dedica anch’egli al «cigno beato» (in altro componimento insignito della canonica apposizione metaforica di «cigno eletto»)30 o, per meglio dire, alla tomba «dove il suo frale in un bel sasso è accolto»31: il Lazzarini, fautore, come si è accennato, di un petrarchismo aulico e classicamente atteggiato, recependo in certa misura (anche municipale) il cinquecentesco magistero del Bembo, vede nel poeta toscano un incommensurabile esempio non soltanto di sapienza poetica ma finanche di saldezza e coerenza morale, ponendolo come pietra di paragone di un percorso d’ascesi che porta infine alla salvezza eterna: Chè quel foco onde ardesti, alma gentile, tanto a quest’anni miei par dolce e bello, quanto più la ragion de’ sensi è schiva. Oh fosse stato il mio sempre simìle! chè dove or temo, in compagnia di quello andrei lieto e sicuro a l’altra riva 32.

Più ancora del Menzini, comunque, fra i letterati del Granducato di Cosimo III, fu il temuto accademico della Crusca e impavido traduttore dai classici e dai moderni, il dotto grecista Anton Maria Salvini a nutrire per la poesia del Petrarca un culto quasi da idolatra. Questi, che aveva assunto la scrittura dei trecentisti a modello invariabile e universale per ogni e qualsiasi letterario esercizio, non solo dedicò decine di lezioni accademiche (in specie alla Crusca di cui fu arciconsolo) a commentare canzoni e sonetti petrarcheschi (molte delle quali poi raccolte nelle sue Prose toscane) 33, ma 30 Cfr. rispettivamente il v. 3 e il v. 1 dei sonetti Se da te apprese, Amore, e non altronde e Ecco dopo due lustri, o cigno eletto, in Lirici del Settecento, cit., pp. 105 e 106. 31 Cfr. il sonetto Ecco dopo due lustri, o cigno eletto, cit. v. 2. 32 Ibid. 33 Fra i tanti attestati di lode per l’autore del Canzoniere sparsi dal Salvini nelle sue lezioni petrarchesche, si legga in particolare il brano incipitale della Lezione XVIII incentra-

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volle provarsi sul terreno stesso della produzione poetica, fornendo alle stampe una profluvie di sonetti “alla maniera di”, dove più spesso il sistema espressivo e la stilematica del venerato auctor venivano riprodotti ora con macchinosa esuberanza argomentativa, ora con scolastica fissità e, comunque, senza riuscire cogliere la necessaria distanza, anche meramente cronologica, atta a legittimare un contenuto più consono alla psicologia del suo tempo 34. Vero poeta (e quasi unicamente fra i toscani del tempo suo e cioè dei primissimi decenni del Settecento) fu invece Tommaso Crudeli che però nel suo parco canzoniere poco spazio lascia ad un rapporto organico con le poetiche emergenti alla cui affermazione – in Toscana più che altrove contrastata – pure aveva indirettamente contribuito, come è il caso, appunto, del classicismo arcadico. I suoi debiti con la poesia petrarchesca paiono perciò assai meno rilevanti che in poeti a lui coevi ma operanti in aree più evolute che non quella granducale, giacché la sua produzione appare, da un lato finemente anacronistica, specie in alcune canzoni e odi in versi polimetri di gusto erotico e di architettura marinista, e dall’altro echeggia un singolare clima di conversazione raffinata e cosmopolita (che è poi quello in cui la sua poesia aveva visto la luce) e con una riconoscibile ascendenza da Dryden e Pope (autori frequentati anche dal Salvini) nonché dall’immodesto La Fontaine, di cui Crudeli fra i primi adotta l’impianto favolistico, dando ta sull’esame della canzone Amor se vuoi ch’io torni al giogo antico: «Hanno questo di proprio i grandi Scrittori, che, come i buoni, e fini vini, portano bene gli anni, e non solo all’età, ma a tutti gli attacchi reggono del Livore, e sempre più vivi, e freschi verdeggiano, senza temere o colpo di morte, o di vecchiezza oltraggio. E questa vita, e questa eternità, e sempre questo fiorito vigor di fama non d’altronde e’ si procacciano, che da un certo segreto innesto d’arte sulla natura, che la migliora, non la distrugge, da una certa lega maravigliosa di semplice, e di grande, di schietto, e di sublime, di forte, e di gentile, di sodo, e di bello, di chiaro, e di profondo, come alle acque del Tamigi, paragonò nobile Inglese poeta il buono stile. Tale si è il nostro sempre, ma non mai lodato a bastanza Petrarca, il quale in se fece vedere quantunque può arte, e natura. Ah com’egli governa il cuor di chi legge con senno, e con fede, e che infetto non sia di quelle, che uno straniero buon Maestro di Poetica, chiama follie d’Italia, cioè di turgide e, strepitose canore ciance, ma netto da questo contagio […] egli entrerà, per così dire, negl’interessi dell’innamorato poeta, e sentirassi inspirare quei medesimi sentimenti, nobili insieme, e affettuosi, teneri, ed alti, e in somma toccare il cuore, e penetrar l’anima i versi, ed espugnarla coll’incanto dell’armonia, e colla macchina de’ pensieri» (Prose Toscane di Anton Maria Salvini, Firenze, Guiducci e Franchi, 1713, p. 258). 34 Sulla poesia del Salvini vedi il cenno che ne dà M. Mari, Venere celeste e venere terrestre. L’amore nella letteratura italiana del Settecento, Modena, Mucchi, 1988, pp. 9899. Per i Sonetti salviniani, oltre all’edizione originale (Firenze, Tartini e Franchi, 1728), cfr. A. M. Salvini, Sonetti fin qui editi, a cura di G. L. Passerini, Firenze, Tip. Giuntina, 1912.

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vita a un genere in Toscana destinato a larga fortuna per tutto il secolo XVIII e oltre 35. E invece, riconoscendosi in un manifesto di poetica particolarmente efficace nella sua essenzialità perché composto di pochi e semplici principi, furono altri i poeti che a Roma, una volta e felicemente avviate le “ragunanze” nel giardino dei padri Riformati di San Pietro in Montorio sul Gianicolo, si avvicinarono di proposito alla auctoritas petrarchesca per trarne gli effetti di una rimeria più discreta e galante, capace poi di rendere omogeneo e perfettamente riconoscibile il tenore espressivo della colonia pontificia dell’Arcadia36. Si tratta dunque di un non esile drappello di poeti da sempre identificati dalla storiografia letteraria come attivi componenti di quella colonia, ma fra i quali, da tempo e dunque quasi di prammatica, conviene distinguere almeno le posizioni dei più dotati le cui composizioni possono abbastanza agevolmente distinguersi nel mare magnum degli otto tomi delle Rime degli Arcadi (Roma, Antonio de’ Rossi, 1716-1720) usciti durante il custodiato del Crescimbeni: dall’avvocato imolese Giambattista Felice Zappi, già allievo bolognese dell’Ettorri e ora uno dei quattordici fondatori dell’Accademia, alla moglie di questi Faustina Maratti e fino alla marchesa Petronilla Paolini Massimi (a tacere della copiosa rimeria dovuta alla penna dello stesso custode generale, ritenuta strumentale e d’appoggio alla sua 35 Per i testi poetici crudeliani sono disponibili ben tre moderne edizioni: T. Crudeli, Poesie con appendice di prose e lettere, edizione e commento di G. Milan, Poppi, Comune di Poppi, 1989; T. Crudeli, Opere, a cura di M. Catucci, Roma, Bulzoni, 1989; R. Rabboni, «Monsignor / il Dottor Mordi Graffiante». Le rime inquisite di Tommaso Crudeli, pref. di G. Baldassarri, Udine-Firenze, Istituto di studi storici T. Crudeli, 2000. Sulla sua figura (e soprattutto intorno alla nota vicenda della sua condanna da parte del Sant’Uffizio a seguito della sua militanza massonica) moltissimi sono gli studi storici e tuttavia si veda lo studio recente di M. A. Morelli Timpanaro, Per Tommaso Crudeli nel 255° anniversario della morte, 1745-2000, Firenze, Olschki, 2000 (cui hanno fatto seguito due voll. di documenti: Ead., Tommaso Crudeli. Poppi 1702-1745. Contributo per uno studio sulla inquisizione a Firenze nella prima metà del XVIII secolo, ivi, 2003). 36 Sulle vicende della fondazione dell’Arcadia e dei primi decenni della sua attività, oltre alle opere storiche del Crescimbeni, cfr. più di recente i paragrafi in argomento di R. Merolla nel cap. Lo Stato della Chiesa in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa: Storia e geografia, II, 2 (L’età moderna), cit., pp. 1056-1068, e quindi H. Martin, La Reine Christine de Suède à Rome et les débuts de l’Arcadie, Paris, Champion, 1968 e M. T. Acquaro Graziosi, L’Arcadia: trecento anni di storia, Roma, Palombi, 1991 (ma anche Tre secoli di storia dell’Arcadia, catalogo della mostra tenuta a Roma nel 1990 a cura del Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma, Biblioteca Vallicelliana, 1991) e, in ultimo, M. P. Donato, Accademie romane: una storia sociale, 1671-1824, Napoli, Esi, 2000 (alle pp. 255-290 una ricca e utilissima bibliografia). Utilmente consultabile risulta A. M. Giorgetti Vichi, Gli Arcadi dal 1690 al 1800. Onomasticon, Roma, Arcadia. Accademia Letteraria Italiana, 1977.

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attività di promozione culturale, e comunque mai apprezzata in quanto tale, ad onta delle tre edizioni romane pubblicate in vita dell’autore) 37. Di loro ci è pervenuta una poesia che all’epoca ebbe notevole forza d’attrazione e pertanto potè avere la massima diffusione anche in ambiti più refrattari ed estranei ai valori della cultura letteraria. E non è difficile ancor oggi comprenderne le ragioni, che stanno soprattutto nella ricerca di un giudizioso bilanciamento di immaginazione e forza d’intelletto e nell’auspicato raggiungimento di una persuasa fusione di affetti naturali e impulsi di ragione, salvo poi accorgersi fatalmente che non di rado, del platonismo di partenza non restavano che scarni elementi di struttura, prevalendo invece la forza di un sentimento di ammirazione e quasi di invaghimento, nonché un senso segreto di fascinazione finemente erotica. Ciò è più evidente nello Zappi, mondano organizzatore di una raffinata società letteraria ormai interregionale, che non nella Paolini Massimi che ritrova negli spunti di una autobiografia poetica contrastata e infelice tangenze meno occasionali o imprecise con gli autorevoli modelli del magistero petrarchesco. Ma già prima, qui nella capitale pontificia e fin dal 1685 alla corte di Maria Cristina e con incarichi di una certa ufficialità, si era insediato fra gli altri rimatori “stranieri” il lombardo Alessandro Guidi. Fautore di un petrarchismo più energico e d’intonazione pindarica (anche nell’utilizzo di particolari strutture metriche, come ad esempio la “canzone libera” o “a selva”) il poeta pavese, metabolizzando un iniziale interesse per una poesia di alta celebrazione retorica e di più complessa sentenziosità, intese realizzare, pur in una misura tutta settecentesca e in linea con i tempi nuovi del razionalismo arcadico, una poesia di suggestione e proporzioni più nobili e impegnate e soprattutto incardinata su temi illustri e di interesse storico, al solito interpretati con spirito di solenne, ma troppo esibita, commemorazione. Spesso l’attenzione del Guidi si appunta “petrarchescamente” sulla maestà illustre della città di Roma, indagata nella sua storica topografia in numerosi componimenti che sì, giusta i loro titoli38, prendono spunto dalle convenzioni di un’Arcadia appena inaugurata, ma che poi tendono a risolversi piuttosto in compiaciuti esercizi d’encomio, vuoi di personaggi influenti ruotanti attorno all’ufficialità dell’istituzione accademica, vuoi della rinnovata potenza civilizzatrice di un

37 Sulla figura del Crescimbeni, per una prima informazione, cfr. la voce omonima a firma di N. Merola nel Dizionario biografico degli italiani, vol. XXX, (1984), pp. 675-678. 38 Si vedano appunto i titoli delle seguenti canzoni guidiane: Gli Arcadi in Roma; Gli Arcadi sul Colle Palatino; I costumi degli Arcadi; La promulgazione delle leggi d’Arcadia; Quando si decretò nell’Arcadia di incidere l’Elogio del Principe Antonio Farnese.

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papato, ritenuto capace di attenuare il rimpianto della passata grandezza imperiale: Oh come il prisco onore erse e mantenne co’ suoi tanti trofei l’eccelsa stirpe de’ Farnesi invitti sempre d’ardire armata e di battaglie amica! E quando resse il freno alla città sublime per man de’ sacri figli, oltra l’Alpi fugò l’ire e i perigli, e trasse Italia dall’ingiurie ed onte di fero Marte atroce e le ripose il bel sereno in fronte. Di meraviglia piene allor fur l’ombre de’ latini monarchi in sul tanto apparir teatri ed archi, e templi e reggie ed opre eccelse e grandi, onde sostenne il regal sangue altero la maestà di Roma e dell’Impero39.

Ma come ebbe ad osservare il Binni, «il tentativo guidiano rimase presto isolato di fronte al prevalere delle esigenze di ordine, chiarezza e minute proporzioni, di ritmo agile e piacevole, di movimento melodrammatico e di fine analisi sentimentale» e, allo stesso modo, specie nell’ambiente romano «la fase dei tentativi di costruzione grandiosa in genere viene cedendo a quella del miniaturismo nel sonetto melodrammatico e nella canzonetta»40. In effetti, il dissidio che oppose la gravitas classicista e l’austero programma mitopoietico e didascalico del Gravina alle tesi di un Vincenzo Leonio supportate da un divulgatore di poetiche e organizzatore culturale del calibro del Crescimbeni, con il conseguente prevalere di quest’ultima linea su quella incarnata dall’autore della Ragione poetica, provoca fra l’altro l’accendersi, 39 A. Guidi, Gli Arcadi in Roma, vv. 113-131, in Lirici del Settecento, cit., pp. 11-12. Del Guidi si vedano le moderne edizioni: Poesie approvate (L’Endimione – La Dafne – Rime – Sonetti – Sei omelie), a cura di B. Maier, Ravenna, Longo, 1981 e Poesie liriche, a cura di A. Ruffino e L. Salvarani, Parma, Università degli studi di Parma, Centro studi Archivio Barocco, 1999; per un’informazione preliminare, cfr. la voce omonima a firma di A. Fabrizi in Dizionario della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Torino, Utet, 19862, vol. II, pp. 469-473. 40 W. Binni, Prearcadia settentrionale, cit., p. 92.

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

negli anni a cavallo fra i due secoli, di un filone di produzione poetica destinato nel tempo a costituirsi in stereotipo e a caratterizzare un’intera epoca, essendo componente non certo marginale di un costume che non fu semplicemente letterario. Fu presto chiaro infatti, che i tempi erano maturi (e la corrente del razionalismo ultramontano spingeva in quella direzione) perché si avviasse un processo di laicizzazione di temi e motivi di una poesia concepita di massima fino ad allora in un suo ambito separato di istituzionale specialismo, e ciò in una con un progetto di semplificazione linguistica e di riduzione d’investimento affettivo, tali da rendersi funzionali ad una prassi letteraria intesa anche come strumento di sociabilità e dunque di comunicazione e d’intrattenimento. Non meraviglia allora che pure il referto di norma attinto dalla tradizione più eletta e in particolare il modulo petrarchesco, codificato fra l’altro nel canone dell’Istoria crescimbeniana, divenga progressivamente oggetto di un processo di secolarizzazione, nel senso che viene attenuata e infine spenta la temperatura della sua alta speculazione psicologica e, ad onta di esibite più che sentite censure contro l’amore sensuale, al platonismo severamente coltivato dai primi riformatori del gusto secentesco viene man mano sostituendosi un edonismo tanto insinuante e accattivante quanto pericolosamente portato a destabilizzare l’etica sessuofobica dei padri. D’altro canto, è proprio il sistema che regola l’istituzione accademica (e specialmente quella arcadica, capillarmente espansa in breve tempo sull’intero territorio della penisola e con modalità che non poco hanno a che fare con quelle ecclesiastiche) a favorire una sorta di diffusione di massa del modello petrarchista, nonché una sua progressiva adibizione a strumento didascalico per aspiranti poeti e, come tale, a contribuire decisamente all’inevitabile banalizzazione (attraverso la serializzazione dei suoi addendi) degli originari valori espressivi del modello medesimo41.

41 Cfr. in proposito A. Quondam, L’Accademia, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. I (Il letterato e le istituzioni), Torino, Einaudi, 1982, pp. 823-898, che scrive fra l’altro: «[…] il fenomeno del petrarchismo, la sua diffusione di ‘massa’, la sua funzione di strumento elementare (sillabario) per l’accesso all’alfabetizzazione tramite la lingua del padre Petrarca, passa in gran parte attraverso l’istituzione accademica, sede primaria di scrittura/lettura/censura […]» (pp. 866-867). Sempre del Quondam si veda sull’argomento: Id., Problemi di critica arcadica, nel volume collettaneo Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, Padova, Liviana, 1970, pp. 515-523; Id., L’istituzione Arcadia. Sociologia e ideologia di un’Accademia, in «Quaderni storici», VIII, 1973, 23, pp. 398438; Id., Le Arcadie e l’Arcadia. La degradazione del razionalismo, in Culture regionali e letteratura nazionale. Atti del VII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Bari 31 marzo – 4 aprile 1970, Bari, Adriatica, 1974, pp. 375-385; Id., Gioco e società letteraria nell’Arcadia del Crescimbeni, l’ideologia dell’isti-

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Viene così individuata la prima generazione di quei poeti che in seguito la storiografia letteraria ha voluto raggruppare sotto l’insegna di Arcadia anacreontica e che il Mari con formula felice ha definito «lectio facilior dell’Arcadia petrarchesca», aggiungendo opportunamente che in questi poeti (fra i quali vanno segnalati, a tacere dei sonettisti minori in prevalenza di area romana, almeno lo Zappi ma poi anche Giampietro Zanotti e lo stesso Metastasio) «più di Anacreonte o del poeta che veniva sentito come il suo “omologo” latino, Catullo, è operante il modello della poesia idillica di Teocrito, non senza debiti con la poesia pastorale italiana dal Sannazaro al Tasso al Guarini» e che «in ogni caso l’anacreontismo settecentesco […] deriva dalle meliche del Chiabrera [… ] e del Lemene ben più di quanto sia direttamente ispirato dal poeta di Ceo, allo stesso modo in cui, per la sua manierata leggerezza, il petrarchismo del Settecento richiama la lirica cinquecentesca più della poesia del Canzoniere»42. Come si è visto, questa tendenza ad una poesia di miniaturistiche eleganze classiciste, una poesia un po’ vacua e cerimoniosa nei suoi prevedibili schemi metrico-musicali (sonetti e canzonette anacreontico-pastorali) trova di certo uno dei suoi esponenti più felici e convinti nello Zappi, il quale già ai suoi tempi – lui iniziato alla letteratura in ambiente bolognese e in aura tardobarocca – trovò pressoché unanime il riscontro dei lettori specializzati43. In questo rimatore (e in più larga misura nei suoi colleghi minori e minimi vocati soprattutto al sonetto) 44, il vocabolatuzione, in «Atti e memorie», Arcadia. Accademia Letteraria Italiana, serie 3, vol. VI, fasc. IV, Roma, 1975-1976, pp. 174-198; Id., L’Arcadia e la «repubblica delle lettere», in Immagini del Settecento in Italia (Società italiana di studi sul secolo XVIII), Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 198-211. 42 M. Mari, Venere celeste e venere terrestre, cit., pp. 127-130; giudizio quest’ultimo frequentemente riproposto da critici e storici della cultura letteraria del XVIII secolo, cfr. ad esempio l’Introduzione di G. Gronda alla sua cit. Poesia italiana del Settecento: «[…] il Petrarca che i poeti del Settecento imitano non è quello del Canzoniere, bensì quello filtrato dai lirici petrarchisti del Cinquecento» (p. XIII). 43 Fa eccezione, tuttavia, la celeberrima stroncatura di Aristarco Scannabue il quale, proprio sul primo numero della «Frusta letteraria» («primo ottobre 1763»), recensendo le Memorie istoriche dell’Arcadia curate dal Morei, se la prese, fra gli altri, sia con il Crescimbeni («uomo dotato d’una fantasia parte di piombo e parte di legno […]» sia poi con lo Zappi («il mio lezioso, il mio galante, il mio inzuccheratissimo Zappi […] oh cari que’ suoi smascolinati sonettini, pargoletti piccinini, mollemente femminini, tutti pieni d’amorini!» (cfr. G. Baretti, Opere scelte, a cura di B. Maier, Torino, Utet, 1972, vol. I, p. 73); sul tema cfr., fra l’altro, A. Vallone, Baretti antiarcade, in III centenario dell’Arcadia, cit., pp. 177-187. 44 E fra questi si ricordino almeno i nomi di Angelo Antonio Somai, Filippo Leers, Silvio Stampiglia, Giuseppe Paolucci, Gaetana Passerini, nonché le nobildonne Aurora Sanseverino, Teresa Grillo Pamphili, Prudenza Capizzucchi Gabrielli.

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

rio poetico petrarchesco, così evidentemente diffuso e quasi dissipato lungo tutto lo spazio testuale, anziché fondare, come nell’originale, le memorabili stazioni di un percorso interiore che diventa mito, viene fuso in una prevalente tonalità melodrammatica, capace come tale di stemperare in forme più morbide di protesta affettiva la vis introspettiva del grande modello:

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Tornami a mente quella trista e nera notte, quando partii dal suol natio e lasciai Clori, e pianger la vid’io non mai più bella e non mai meno altera. Oh quante volte «addio», dicemmo, «addio», e il piè senza partir restò dov’era! Quante volte partimmo, e alla primiera orma tornaro il piè di Clori e il mio! Era già presso a discoprirne il sole, quando le dissi alfin; ma che le dissi, se il pianto confondeva le parole?… Partii, chè cieca sorte e destin cieco volle così; ma come, ahi, mi partissi dir non saprei: so che non son più seco45.

L’invadente matrice ovidiana del famoso sonetto (che forse rievoca la partenza dello Zappi dal «suol natio» di Romagna per raggiungere la definitiva destinazione romana) non sacrifica l’evidenza delle tessere petrarchesche e, per quanto l’attenzione del lettore sia da esse allertata e dunque indotta a leggerne la virtuale semantica letteraria, prevale su tutto quell’aura di esitazione teatraleggiante e di dilemmatico patetismo che scalda il ritmo del componimento, come in un canto accorato e leggero, ovvero un «elegantissimo stornello»46. L’innegabile perizia tecnica e la gradevole misura discorsiva della poesia di Giambattista Felice Zappi solo in parte si riscontrano nel canzoniere della

45 Cfr. Lirici del Settecento, cit., p. 60. È quasi superfluo notare nel sonetto in questione i calchi dal Canzoniere, specie nella prima quartina, e quindi da R.V.F., CCCXXXVI, v. 1 («Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella») e da R.V.F., CCCII, v. 4 («la rividi più bella et meno altera»). 46 Così definito dal Binni in Sviluppo della poetica arcadica nel primo Settecento, in Id., L’Arcadia e il Metastasio, cit., p. 145.

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moglie Faustina Maratti (figlia del celebre pittore secentesco), giacché nella sua scrittura, come si è appena ora accennato, pesano anche altri motivi e circostanze di vita che semmai ne arricchiscono l’interna articolazione di senso, anche in relazione a precise propensioni iconologiche di un classicismo figurativo chiaramente derivatole dal padre. Non che la Maratti esiti in chiare indicazioni circa la sua appartenenza di scuola, ché anzi le stringhe del suo petrarchismo appaiono piuttosto esplicite, sia in relazione all’archetipo trecentesco («Ora al Nume immortal chieggo perdono: / e voi tutti obliate i miei lamenti / “voi che ne udiste in rime sparse il suono”»), sia sfruttando l’intermediazione cinquecentesca di esso e, in particolare, il funzionale, per lei, antecedente di Vittoria Colonna («Muse, poiché il mio Sol gode e desia / legger miei carmi ed ascoltar mie rime […]») 47. Ma è innegabile che la sua poesia desti nel lettore moderno una suggestione di simpatia e di cordiale comprensione e questo proprio nel manifestare un pensoso e meno superficiale scoramento interiore. Ciò dipende certo dalle allusioni al proprio privato mondo affettivo, di cui quasi tutti i componimenti recano traccia, e che rimandano a sentimenti e pulsioni (come la gelosia, il dolore per la lontananza della persona amata, per la sua malattia, il cordoglio per la sua morte) meno affettati o stilizzati da certa liturgia arcadica, e pertanto passibili di una pronuncia poetica più grave e sostenuta. Anche la poesia della marchesa Paolini Massimi, non di rado impegnata su costruzioni più complesse (come la canzone della tradizione petrarchesca e poi guidiana) sa trovare accenti e soluzioni stilematiche che collidono non infrequentemente con il trend galante ed erotico del sonettismo coevo. Ad esempio, alcune stanze della canzone a schema fisso Quando dall’urne oscure si presentano come uno studiato mosaico di tessere petrarchesche (e non solo dalle Rime ma anche dai Trionfi), atte alla rappresentazione di un soggetto poetico drammaticamente 47 Cfr. rispettivamente ivi, pp. 132-133 (dove è riportato il sonetto Bacio l’arco e lo strale, e bacio il nodo) e Lirici del Settecento, cit., p. 63. Sui modelli femminili del petrarchismo primosettecentesco, cfr. quanto scrive Elisabetta Graziosi: «Petrarchismo e platonismo al femminile avevano del resto ritrovato i loro modelli letterari del Cinquecento con la nuova circolazione editoriale […]. Fra il 1692 e il 1698 il Bulifon aveva infatti pubblicato a Napoli le Rime delle grandi poetesse cinquecentesche […]. Di questi modelli il più attivo nell’Arcadia femminile fu quello di Vittoria Colonna, che fornì intonazioni di grande dignità al petrarchismo vedovile in cui finirono per ritrovarsi, secondo le vicende biografiche, diverse di queste rimatrici. In mezzo a tanto platonismo amoroso si insinuò episodicamente nell’Arcadia femminile romana, dove il Guidi ebbe un certo seguito, una volontà eroicizzante che mette in tema, magari sotto la forma canonica della Galleria di personaggi celebri, la donna vittima non d’amore ma di sventura, e perfino un tenue femminismo quale è quello di Petronilla Paolini Massimi nel sonetto Sdegna Clorinda ai femminili uffizi» (Arcadia femminile: presenze e modelli, cit., p. 260).

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

individuato nelle spire di un’esperienza di vita esacerbata, nel suo caso, dalle disgrazie e dalla violenza patita in gioventù («Per me pace non viene; / e nel comun riposo / sento farsi più grave il mio tormento. / Misuro allora con pensier doglioso / quanti Cloto ha filati anni di stento / per le mie acerbe pene, / e duro campo di battaglia è il letto / all’agitato petto; / sicché nel ciel par ch’adirati gli astri / veglin solo a destare i miei disastri») 48. Ne sorte una singolare poesia di forte spessore autobiografico (si veda in particolare la canzone Spieghi le chiome irate) e capace di toccare i motivi più inconsueti (per i poeti della prima Arcadia) della tensione tragica, una poesia perfino irritata e in sostanza estranea alle tonalità più svagate e leggere della melica corrente. È noto che anche nell’ambiente artistico di un’altra grande capitale, quello napoletano, dove pure l’esperienza barocca (e pour cause) aveva trovato alcuni fra gli interpreti più conseguenti e convinti, esponenti cioè di un marinismo cosiddetto “estremista” come l’Artale e il Lubrano, si assiste nella seconda metà del XVII secolo, e comunque alcuni decenni avanti la fondazione in quella città della Colonia Sebezia, ad un ritorno di fiamma non effimero di poetiche cinquecentesche improntate al petrarchismo. Questo particolare orizzonte di poetica appariva più pronunciato ed esplicito specialmente in ambienti intellettuali vicini all’Accademia degli Investiganti (fondata nel 1663 da Tommaso Cornelio e Leonardo di Capua) e dove appunto lo sperimentalismo di ascendenza galileiana e, più in generale, il razionalismo di marca francese rappresentavano l’orientamento prevalente 49. Dobbiamo soprattutto alla capillare ricostruzione storico-critica di Amedeo Quondam, or è un trentennio oramai, un’affidabile guida per esplorare questo specifico contesto meridionale nel quale la cultura letteraria, ancor prima di aderire agli statuti accademici d’Arcadia, trova nella tradizione petrarchesca uno degli attrezzi, e tra i più efficienti, del proprio rinnovamento, presupponendo

48 Lirici del Settecento, cit., p. 44; sul tema cfr. anche A. T. Romano Cervone, Faustina Maratti Zappi e Petronilla Paolini Massimi: l’»universo debole» della prima arcadia romana, in III centenario dell’Arcadia, cit., pp. 169-176. 49 Come opportunamente ricorda il Giannantonio (L’Arcadia napoletana, Napoli, Liguori, 1962, p. 47) già Camillo Colonna (la cui opera è andata in gran parte perduta) ancor prima che sorgesse l’Accademia degli Investiganti, in pieno secentismo, raccomandava lo studio e l’esempio del Petrarca. Ne fa fede la testimonianza di un suo discepolo, Francesco D’Andrea che nei suoi celebri Avvertimenti ai Nipoti così scrive in proposito: «Onde, datomi [il Colonna] alcuni precetti particolarmente circa lo stile con la notizia di buoni autori, mi inanimò anco a leggere i nostri poeti, scoprendomi le bellezze del Petrarca di cui era adoratore, benché poi nel componere fusse più tosto imitatore dello stile del Casa» (I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento, Francesco d’Andrea, a cura di N. Cortese, Napoli, Lubrano, 1923, p. 121).

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una decisa inversione di tendenza rispetto a una cultura che fino a quel momento aveva promosso, ai fini dell’amplificazione barocca del gesto eroico o cavalleresco, ben altri valori sia nella sfera dell’immaginario privato che in quella del sociale 50. Bisogna pensare infatti che la lettura del Canzoniere, nonché dell’intera tradizione petrarchesca, vale soprattutto come ricerca e studio analitico delle passioni e, come tale, rientra in un più largo perimetro di esperienze di una cultura progressiva di stampo razionalistico e antiaristotelico: lo studio delle passioni, infatti, presuppone di per sé una valenza di metodo sperimentale, in quanto personale e originale è già l’esperienza stessa da cui prende le mosse, configurata cioè nel testo poetico scelto come canone. Ne consegue che «l’obiettivo verso cui il petrarchismo ha sempre puntato, appare, all’esame di questi intellettuali napoletani, in una prospettiva di razionalistico sforzo di chiarificazione del groviglio degli umani sentimenti e quindi della loro espressione chiara e distesa»51. Il caso di un poeta come Carlo Buragna (napoletano di adozione ma cagliaritano di nascita) è in questo senso assai rappresentativo in quanto, il suo esiguo, postumo canzoniere (uscito a Napoli nel 1683 e composto di una settantina di componimenti) mostra come una franca ma non originalissima scrittura poetica possa rivelare una forte connotazione intellettualistica, nonché quella matrice analitica – di psicologia analitica vorremmo poter dire – che ne dimostra la diretta ascendenza petrarchesca. O si veda ancora il caso di Pirro Schettini, considerato da sempre, fra i poeti del secondo Seicento napoletano, il vero precursore della svolta petrarchista, lui che da fedele seguace dell’investigante Tommaso Cornelio ne aveva saputo tradurre, sul piano della prassi letteraria, principi e conclusioni raggiunte dal maestro dalla sua specola di filosofo e scienziato sperimentale. Specie nell’ultima sezione della raccolta delle sue Rime, uscita anche questa postumamente (Napoli, Bulifon, 1693), l’insisten-

50 Cfr. i due capitoli (Le polemiche antibarocche e la formazione della nuova poetica arcadica e La Colonia Sebezia) a firma di A. Quondam, in Storia di Napoli, vol. IX (L’età di Vico), Napoli, Esi, 1981 (I ed. 1969), pp. 9-229; ma sulla questione della divaricazione ideologica e letteraria fra Crescimbeni e Gravina e quindi sulla crisi del 1711, cfr. Id., La crisi dell’Arcadia, in «Palatino», XII, 1968, n. 2, pp. 160-170 poi in Id., Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968, pp. 275-297. Ma, già prima, sulla cultura letteraria a Napoli fra Sei e Settecento, si veda P. Giannantonio, L’Arcadia napoletana, cit. (soprattutto il cap. II, La poetica, pp. 44-123, dove si descrive l’estetica del Caloprese e del Gravina riportando ampi squarci dai loro scritti); più di recente, si leggano in argomento le stringate argomentazioni di S. S. Nigro, Il Regno di Napoli, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa: Storia e geografia, II, 2 (L’età moderna), cit., pp. 1172-1174. 51 A. Quondam, Le polemiche antibarocche e la formazione della nuova poetica arcadica, cit., p. 29.

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

za maggiore sulle tematiche amorose conferisce, al pessimismo congenito della visione del mondo dello Schettini, una modulazione d’interrogazione profonda, interrogazione posta prima di tutti a sé stesso e, il più delle volte, sulla propria condizione esistenziale 52. Di seguito poi, nel 1694, occorre segnalare la memorabile edizione napoletana delle rime del Della Casa (e dunque la proposta di un’accezione di petrarchismo di forte spessore intellettuale che di norma tiene conto di una persistente tradizione campanelliana) con il relativo commento a firma del cinquecentista Sertorio Quattromani, nonché le Sposizioni del medico calabrese Marco Aurelio Severino e, per i primi diciannove sonetti, del Caloprese 53. Si tratta probabilmente dell’iniziativa che ha maggior peso specifico nel determinare la fondazione del petrarchismo napoletano prearcadico, giacché le annotazioni del cartesiano Gregorio Caloprese, svolgendo un ruolo di ricerca oggettiva e virtualmente scientifico (nel senso che si preoccupano di studiare i meccanismi di funzionamento delle passioni, come poi sarà nella Lettura sopra la concione di Marfisa e nell’Invenzione della favola rappresentativa) riportano a quel

52 Assieme ad altri brani schettiniani, il Quondam riporta il testo di questo sonetto: «O Morte, o tu de’ miseri mortali, / contro a’ flutti del mondo e contro a’ venti, / sicuro porto, o de l’afflitte menti / dolce ristoro, eterno oblio de’ mali! // Quando fia che si sciolga o che s’allenti / il nuvol denso de’ miei sensi frali? / Vieni o Morte pietosa, a scioglier l’ali: / cieco vulgo da te fugga e paventi. // Folle! È non sa che ‘l giogo indegno e greve / spezzi d’amor tu sola e de la sorte / fermi la rota e ‘l variar sì leve! // Io te vorrei per mio riposo, o Morte! / E chi si duol che nostra vita è breve, / duolsi che l’ore del penar sian corte!» (Le polemiche antibarocche e la formazione della nuova poetica arcadica, cit., p. 22). Ma nella linea del petrarchismo schettiniano almeno un altro nome andrà fatto, quello di Basilio Giannelli, autore degli interessanti, postumi ricordi sull’Educazione al figlio (Napoli, Giaccio, 1781), ma soprattutto di un canzoniere nel quale non è raro scoprire campionature di un elementare, ma fresco lirismo, come in questo sonetto: «Or che fuggendo i giorni oscuri e brevi / fa la stagion più bella a noi ritorno, / e tiepido sciogliendo il Sol le nevi, / a noi rimena più sereno il giorno; // sol non scema mie doglie antiche e gravi / Amor che del mio cor fassi soggiorno: / né per l’altrui gioir tornan men lievi / l’angosce, ond’io mai sempre a piagner torno. // Volan più che saette i mesi e gli anni, / mutansi le stagioni, i fiori e l’erbe; / solo durano eterni i miei gran danni. // Non lungo pianto il duol mi disacerba, / non vecchia usanza di gravosi affanni. / Ahi crudo Amor, quant’è tua pena acerba» (B. Giannelli, Poesie dedicate all’Eccellentissimo Signor D. Nicolò Gaetano d’Aragona […], Napoli, nella stamperia di Giacomo Raillard, 1690, p. 21). 53 Cfr. Rime di M. Gio. Della Casa sposte per M. Aurelio Severino secondo l’Idee d’Hermogene con la giunta delle Spositioni di Sertorio Quattromani et di Gregorio Caloprese, date in luce da Antonio Bulifon, Napoli, Antonio Bulifon, 1694, ma si veda successivamente la più completa e fortunata edizione in sei tomi delle Opere di Monsignor Giovanni Della Casa dopo l’edizione di Fiorenza del MDCCVII e di Venezia del MDCCXXVIII molto illustrate e di cose inedite accresciute, Napoli, s. n. t., 1733.

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clima di razionalismo “investigante” all’interno del quale può svilupparsi in tutta naturalezza una nozione di poesia, intesa come espressione chiara e distinta e capace di rappresentare l’ordine naturale degli affetti umani54. Come si è detto però, non sarà questo, più impegnato e concettualmente vigile, l’esito privilegiato della prassi petrarchista della musa napoletana del XVIII secolo, e ciò nonostante la presenza in loco, oltre che del Caloprese in funzione di battistrada, di studiosi e filosofi del valore di Vico per un verso e del Gravina per l’altro. Se la produzione poetica vichiana (dato anche il suo carattere desultorio e di mondana cerimoniosità) può apparire estranea se non proprio distaccata dalla cifra intellettuale della sua opera maggiore 55, donde poi la sua adesione all’Arcadia crescimbeniana e la sua (singolare per un pensatore par suo) operosità in tema di curatela di raccolte poetiche, gli intendimenti del Gravina pensatore e poeta risultano quanto mai ambiziosi e travalicano di fatto il livello medio della speculazione e della ricerca poetica contemporanee. È proprio sul tema del petrarchismo (e non già per ragioni più contingenti e pretestuose che pure emersero) che si consuma nel 1711, come si è accennato, la sua rottura con la centrale romana del Crescimbeni, cui conseguirà la costituzione di un organismo ad essa alternativo nell’effimera Accademia dei Quiriti. Era infatti impensabile per l’autore del Discorso delle antiche favole e delle Tragedie, la cui severa estetica classicista aveva mirato a riconoscere alla poesia, insieme con una funzione catartica, una

54 Sulle annotazioni del Caloprese, vedi in particolare G. Gronda, Da Cartesio a Metastasio, in Ead., Le passioni della ragione. Studi sul Settecento, Pisa, Pacini, 1984, pp. 11-52 e, già prima, M. Rak, Condizione, critica e fantasia poetica. Un tratto della storia delle idee letterarie nell’Italia del sec. XVII, in «La Rassegna della letteratura italiana», 1970, n. 1-2, pp. 27-70 (poi in Id., La fine dei grammatici. Teoria e critica della letteratura nella storia delle idee del tardo Seicento italiano, Roma, Bulzoni, 1974, pp. 189-246; ma tutto il volume è da raccomandarsi per l’ampia disamina delle teorie letterarie specialmente afferenti l’opera critica del Caloprese e del Gravina e, in subordine, di Vico e Muratori). Per una informazione preliminare sul Caloprese, cfr. la voce omonima, a firma di A. Quondam, in Dizionario biografico degli italiani, vol. XVI (1973), pp. 801-805. E invece, sulla scarsa simpatia manifestata per il Petrarca dal massimo poeta del Settecento e più celebre discepolo calopresiano, il Metastasio, cfr. G. Muresu, Metastasio e la tradizione poetica italiana, in AA.VV., Metastasio, «Atti dei convegni lincei», n. 65 (Roma, 25-27 marzo 1983), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1985, pp. 123-126. 55 Si rilegga la pagina famosa dell’Autobiografia vichiana nella quale il filosofo, dopo aver rammentato il suo giovanile apprendistato poetico presso il Lubrano, ricorda come qualmente «si esercitava sovente con lavorar canzoni, durando ancora il primo abito di comporre in italiana favella» e, di poi, allorquando «ad imitazione delle ‘tre sorelle’ del Petrarca, ordì un panegirico, diviso in tre canzoni […]» (G. B. Vico, Autobiografia. Seguita da una scelta di lettere, orazioni e rime, a cura di M. Fubini, Torino, Einaudi, 1965, pp. 22-23).

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

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finalità strettamente gnoseologica, era impensabile per il Gravina, dicevamo, che alla vulgata petrarchesca e al suo debole razionalismo (e al seriale registro di formule appena appena dichiarate chiare e ordinarie) si potesse riservare quel primato espressivo e quel compito di rinnovamento culturale che erano stati nei voti di molti tra i fondatori dell’Accademia romana. Scrive in proposito il Quondam: Alla base di questa posizione critica non c’è soltanto la dimensione razionalistica dell’estetica graviniana, nelle sue risoluzioni in chiave di verisimiglianza (il punto centrale del rifiuto e della netta limitazione sta infatti proprio nell’accertamento del carattere retorico e libresco della poesia del Petrarca), ma c’è soprattutto la polemica contro quello che l’affinamento e la sensibilità petrarchesca hanno prodotto in seguito: l’antipetrarchismo del Gravina finisce, cioè, per coinvolgere Petrarca stesso […]. Gravina, invece, nella sua complessa posizione classicista, tesa al ripudio dell’esperienza barocca, ripudia anche l’esperienza petrarchesca, attribuendole la responsabilità delle degenerazioni della poesia successiva: infatti, esplicitamente su queste posizioni, in piena crisi d’Arcadia, sarà l’opuscolo Della division d’Arcadia, lettera ad un amico 56.

Così, a consultare le due maggiori raccolte che incorniciano idealmente vent’anni di attività poetica dell’arcadia napoletana, vale a dire da una parte la Raccolta di rime di poeti napoletani (quasi tutte inedite) curata nel 1702 dall’avvocato Giovanni Acampora e dall’altra i due tomi delle Rime scelte di vari illustri poeti napoletani usciti nel 1723, si avrà modo di misurare il cammino percorso dai letterati di quell’area al fine di ricercare una valida e aggiornata alternativa ad una pratica e a una ideologia del poetare, quella cioè di ascendenza barocca, che negli ultimi decenni del Seicento era soprav-

56 A. Quondam, Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, cit., p. 271. L’ovvio e preliminare riferimento in proposito è ai capp. XXVII e XXVIII del Libro secondo della Ragion Poetica, rispettivamente intitolati Del Petrarca e Dell’amore razionale, ovvero platonico (G. V. Gravina, Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 321-325), dove traspare, a petto di un’obbligata e formale stima per il poeta delle Rime, un innegabile giudizio volto a indicare il limite intellettualistico e libresco presente nella sua opera, e ciò a fortiori è ravvisabile qualora si confrontino queste pagine con quelle, assai più motivate ed entusiastiche, dedicate a Dante e all’Ariosto. A sua volta il Giannantonio aveva scritto in proposito: «[…] la reazione graviniana al secentismo non è, come per molti arcadi, imitazione di Pindaro attraverso Chiabrera e del Petrarca attraverso il Bembo, il Di Costanzo o il Della Casa, bensì l’mitazione del vero, il cui canone fondamentale è il verisimile. La ricerca del vero divenuta quasi una mistica elevazione della mente a Dio, un’incessante ansia di purificazione in una visione metafisica» (L’Arcadia napoletana, cit., p. 114).

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vissuta, prima del definitivo esaurimento, con stentate iniziative di retroguardia 57. Già le rime selezionate nella Raccolta dell’Acampora (cui va riconosciuto fra l’altro il merito della conservazione di componimenti e scrittori non altrimenti noti e invece ritenuti importanti alla definizione di un quadro non troppo lacunoso della cultura del tempo)58 presentano un orientamento prevalente in direzione arcadico-petrarchista. Si tratta tuttavia di un’accezione di petrarchismo ormai sostanzialmente estraneo alle implicazioni intellettuali tipiche della temperie investigante che aveva caratterizzato, con la presenza del Buragna e del Caloprese, la fase d’avvio dell’antimarinismo napoletano: ora, mediamente, la maggior parte degli autori è interessata a una poesia di più immediata ricezione mondana e sociale e, come tale, esigente un investimento letterario pur sempre autorizzato dalla tradizione tre-cinquecentesca, ma piuttosto in termini di leggiadria e di chiarezza che non di rigore e di profondità concettuale. E a non parlare delle presenze storiche come quella del Tasso o dell’inclusione di adepti meramente accademici come quelli afferenti all’Accademia Cosentina, nella ventina di poeti restanti, fra i quali vanno segnalati gli exploit poetici di “critici” e teorici del calibro di Vico, del Caloprese e del Severino, in questa prima Raccolta napoletana spiccano nel solco rassicurante della koinè petrarchesca le scelte indubbiamente più originali di poeti non altrimenti conosciuti come Antonio Barra, Giovambattista di Palma, Paolo Pacello, Luigi Scavuzzo. Ebbene, se l’impresa antologica dell’Acampora conserva ancora un residuo carattere «d’indicazione d’una linea di tendenza, già con una robusta tradizione, ma ancora resa come proposta», le Rime scelte del 1723, secondo l’opportuna avvertenza del Quondam, «si pongono invece come un bilancio definitivo di oltre cinquant’anni d’esperienza petrarchistica e di vent’anni di Colonia Sebezia»59. Nei due folti volumi di questa edizione vengono inclusi più di quaranta poeti e quando si pensi che da tempo la colonia napoletana, soprattutto per opera del vice-custode Biagio Maioli d’Avitabile, aveva imboccato una strada direttamente convergente con l’orizzonte crescimbeniano dell’Arcadia pontificia, la presenza qui di una buona scelta delle Egloghe del “transfuga” Gravina può considerarsi come una provocatoria affermazione di autonomismo culturale, se non proprio di netta distinzione ideologico-istituzionale

57 Cfr. rispettivamente Raccolta di rime di Poeti Napoletani non più ancora stampate […], Napoli, Nella nuova Stamperia di Domenico-Antonio Parrino […], 1702 e Delle rime scelte di varj illustri Poeti Napolitani, Firenze, A spese di Antonio Muzio, 1723, 2 voll. 58 Cfr. A. Quondam, Le polemiche antibarocche e la formazione della nuova poetica arcadica, cit., p. 49. 59 Id., La Colonia Sebezia, in Storia di Napoli, cit., p. 147.

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Agli esordi del petrarchismo arcadico

rispetto alla corte romana. E tuttavia, così come nella raccolta non si evidenziano forme esplicite di chiusura (o addirittura di ostracismo) nei confronti di poeti non appartenenti all’accademia, allo stesso tempo però, del petrarchismo arcadico, appare netta la predominanza della componente più esposta sul versante del consumo e di una più distesa e amabile cantabilità. Componente questa che proprio in ambiente partenopeo mostra di risentire dell’ammirata lezione del Di Costanzo piuttosto che di quella del Della Casa, altro genius loci, quest’ultimo, della raccolta del ’23, ma in posizione maggiormente appartata, per via della sua stilistica più impervia e sintatticamente elaborata e comunque priva, di norma, di eufoniche terminazioni. Se Tiberio Carafa, Casimiro Rossi e Matteo Vitale sono stati indicati dal Quondam tra i più rappresentativi esponenti della tradizione legata al petrarchismo del Di Costanzo, la linea dellacasiana delle Rime resta tuttavia assai leggibile e se ne apprezzano talune occorrenze maggiori anche in termini strettamente quantitativi. È il caso, ad esempio, delle rime di Francesco Manfredi, ovvero del canzoniere di Agnello Albani che, articolato assai variamente per generi e modelli metrici, si riallaccia, per taluni esiti più dissonanti di una sua ritmica petrosa, a un ramo alternativo della tradizione poetica in auge in questo torno di tempo, quello dantesco naturalmente: Passa la nave mia tra sordi scogli per aspro mare il verno a mezza notte, percossa ognora da rabbiosi venti, né spero che pietoso il mio bel sole splenda al mio scampo e lo sdrucito legno salvo conduca al disiato porto. Onde comincia a disperar del porto, e teme di perir tra duri scogli, errando senza guida il fragil legno per onda irata in tenebrosa notte, cui non rischiara mai stella né sole, che potrebbe acquetar tempeste e venti60.

Come queste sestine mostrano di primo acchito, se di petrarchismo è possibile parlare nel caso dell’Albani, esso va soprattutto ricercato in una linea più gravemente speculativa per la quale troveremo associato non solo il nome del della Casa ma anche quello di altri cinquecentisti, fra i quali spicca il Tansillo, non a caso chiamato in causa dal curatore delle Rime proprio

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Ivi, pp. 152-153.

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come precursore tra i più prestigiosi cui, pertanto, concedere in quella stessa sede un adeguato spazio antologico. In realtà l’Albani riesce a trovare soluzioni singolarmente prossime all’Arcadia impegnata e meno superficiale, ma più che altro vicine all’originario modello trecentesco della canzone petrarchesca, anche in talune composizioni di intonazione politica, che cioè pongono al centro dell’argomentazione poetica la condizione infausta dell’Italia. Come si vede, un tema di grande peso e destinato ad essere ripreso durante tutto il secolo (e oltre, cioè in epoca neoclassica e pre-risorgimentale) e dagli autori maggiori della nostra letteratura, a dimostrazione della rilevanza anche di questa linea pur minoritaria del petrarchismo napoletano, al cui arricchimento teorico e filosofico61 avevano dato mano, volenti o meno, le intelligenze più vive e perspicaci presenti in quel momento in Italia.

61 «In quanto al petrarchismo napoletano andrebbe svolta un’analisi tematica su campioni il più possibile completi per stabilire non solo lo scarto rispetto all’esperienza tardobarocca e arcadica ma per misurarne l’effettiva incidenza del repertorio tematico filosofico, e soprattutto, per individuarne le implicite posizioni teoriche o almeno le soluzioni formali più vistosamente autonome. Dal momento che non si trattava di un petrarchismo di maniera tardorinascimentale intessuto di calchi e di riporti impliciti di certe soluzioni espressive e di certe scelte lessicali ma piuttosto comprensivo anche delle posizioni etico-scetticheggianti del De sui ipsius e delle lettere» (M. Rak, Condizione, critica e fantasia poetica. Un tratto della storia delle idee letterarie nell’Italia del sec. XVII, cit., p. 69).

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DALL’ARCADIA AL TOURNANT DES LUMIÈRES: PETRARCA NELLA CRITICA DEL SECONDO SETTECENTO

Davanti al tribunale degli scrittori antichi riuniti negli Elisi, nella quarta delle Lettere Virgiliane di Bettinelli, Petrarca è ridotto a una macchietta, quasi una caricatura: dopo la condanna di Dante, pronunciata nelle prime tre lettere, le anime dei letterati italiani si affollano attorno a quelle degli antichi portando volumi di poesia che dovrebbero dimostrare l’eccellenza delle lettere italiane e che vengono offerti con insistenza ai presenti; Virgilio, che racconta in prima persona, si guarda attorno, teme di scegliere per non offendere nessuno, quando a un certo punto decide di afferrare «un Petrarca»1, attirato sostanzialmente dalla piccola mole del volume. È il Canzoniere, seguito dai Trionfi. Imputato in un tribunale della critica letteraria in cui l’unica legge riconosciuta è quella dell’antichità, Petrarca viene giudicato come un poeta che incanta ma è noioso, inizia bene tanti componimenti e li finisce male e non si rende conto quando le sue poesie andrebbero bruciate anziché divulgate. Insomma, sembra che sia condannato seppure con attenuanti (per mantenere il linguaggio giuridico così in voga nella critica dell’epoca), e ciononostante appare pur sempre un poeta comunque ineguagliabile dai moderni, padre fondatore della lingua e della poesia italiane. Il tutto espresso con questa curiosa drammatizzazione che riprende un immaginario (il dialogo con i morti, il linguaggio giuridico) assai consueto nell’esercizio critico di questi

1 Si cita da Illuministi italiani. Opere di Francesco Algarotti e Saverio Bettinelli, a cura di E. Bonora, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969 [«La letteratura italiana. Storia e testi», vol. 46, t. II].

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anni, un immaginario che interpreta senza rigore il modulo dialogico e che in realtà, nella penna dei critici militanti, assume quasi una sfumatura parodica e permette di moltiplicare le prospettive e in parte confondere le idee, passando con disinvoltura dal punto di vista dei moderni a quello degli antichi, e sovrapponendo posizioni contrastanti. Il giudizio di Bettinelli su Petrarca è innegabilmente ambiguo, come hanno riconosciuto i critici, da Mario Fubini2 a, recentemente, anche Roberto Tissoni che sottolinea come evidenziare «incoerenze e contraddizioni delle Virgiliane è sfondare una porta aperta»3. D’altronde di fraintendimento e contraddizioni nel giudizio sui classici non solo di Bettinelli ma anche di altri letterati della stessa generazione4, hanno parlato molti critici (di «fraintendimento» ha parlato espressamente Walter Binni5), che hanno rilevato come posizioni apparentemente negative e di censura (ad esempio il giudizio negativo di Bettinelli nei confronti di Dante) siano state travisate nel clima di polemica personale e di querelles del Settecento e che vanno quindi in generale riconsiderate. Con le Virgiliane e la loro ambigua fortuna siamo entrati subito in medias res, nel cuore del panorama polimorfo della critica dei decenni centrali del Settecento, un periodo al quale non mi sento in realtà di dare nessuna etichetta; non critica dei lumi (una definizione che potrebbe riguardare solo una parte dei protagonisti e dei loro interventi; Bettinelli ad esempio ha posizioni retrive nonostante un’apparente e momentanea convergenza con il Caffè, al quale d’altronde collabora anche Alessandro Verri che, come è noto, approderà a un’esperienza romana lontana dal mondo dei lumi), né critica postarcadica (dal momento che l’Arcadia e i suoi insegnamenti sono vivissimi per tutto il secolo, per tanti motivi, dal recupero degli antichi, alla compresenza di fantasia e ragione, alla riflessione critica estetica). Sicuramente esistono maggiori elementi di continuità che di contrasto con la critica primo-settecentesca (simile è l’utilizzo di Petrarca in senso anti-francese, simile è il riconoscimento dell’auctoritas del poeta bilanciata però dal rifiuto 2 M. Fubini, Introduzione alla lettura delle Virgiliane, in Id., Dal Muratori al Baretti, Roma-Bari, Laterza, 1975, vol. II, pp. 251-262. 3 R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Edizione riveduta, Padova, Antenore, 1993, p. 76. 4 Per una visione complessiva della critica del secondo Settecento cfr. A. Brettoni, Trattatistica e storiografia letteraria nel Settecento. Crescimbeni, Gravina, Muratori, Quadrio, Gimma, Tiraboschi, e Ead., La critica illuministica e il dibattito sulle riviste, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI, La critica letteraria dal Due al Novecento, Roma, Salerno, 2003, pp. 507-538 e 539-579. 5 W. Binni, Fra illuminismo e romanticismo. Saverio Bettinelli, in Id., Preromanticismo italiano, Firenze, Sansoni, 19853, pp. 45-66.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

– presente già in Muratori e in Gravina – di un eccesso di precettistica e dalla difesa invece della presenza delle passioni in poesia), anche se una linea di demarcazione tra la critica primo-settecentesca e quella successiva, più radicale e decisa nei confronti della tradizione, è innegabile ed è rilevata dagli stessi protagonisti: Algarotti, ad esempio, nella Lettera sull’Eneide del Caro (1744), notava come l’Arcadia aveva liquidato il secentismo ma continuato a venerare Dante, Petrarca e Boccaccio6, mentre il suo tempo rivendicava una critica più decisa nei confronti della tradizione. Una cesura più netta semmai, se vogliamo fare una periodizzazione, è rilevabile, come vedremo, negli anni del tournant des lumières, gli anni ’80 del secolo all’incirca, e proprio in alcuni anni in particolare tra il 1784 e il 1786, un triennio strategico dal nostro punto di vista, quando in effetti la spinta innovatrice e polemica dei decenni precedenti si organizza, nella fase di ritorno al classicismo e di più matura assimilazione delle esperienze straniere, in posizioni più articolate. Ma rimaniamo per ora ai decenni centrali del Settecento. Un primo punto fermo che serve per orientarsi nella selva complessa di posizioni di una generazione eclettica di critici (Saverio Bettinelli, Francesco Algarotti, Gasparo Gozzi, Giuseppe Baretti, i fratelli Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Giuseppe Parini)7 è questo: il riconoscimento dell’autorità di Petrarca non viene mai meno, nemmeno nelle pagine taglienti del Caffè e nemmeno in quelle agguerrite del primo Bettinelli, il letterato più polemico del panorama contemporaneo, ma convive innegabilmente con una netta presa di distanza non solo dal petrarchismo, dalla sterile imitazione, ma in generale da tutto ciò che richiama la scuola, l’accademia, l’accettazione di regole assolute e di precetti. Il libero esercizio critico che si afferma in questi anni contesta soprattutto il dogma del modello assoluto intoccabile; e nemmeno Petrarca, per quanto considerato un riferimento imprescindibile per la letteratura italiana, risulta esente da critiche e puntualizzazioni. Gasparo Gozzi ad esempio loda il poeta, ma in un curioso articolo dell’Osservatore veneto lo mette a confronto con Dante e Omero: è lo stesso Petrarca che deve riconoscere la superiorità dei due grandi poeti anche nei suoi confronti, soprattutto per quanto riguarda l’ideale di una poesia civile e filosofica. Baretti riconosce l’auctoritas del poeta ma si indispone con fermezza nei confronti di certe consuetudini formali e di immagini ricorrenti giudicate 6

Cfr. M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, cit., vol. II, p. 400. Sulla fortuna di Petrarca nel Settecento cfr. B. Tommaso Sozzi, Petrarca. Storia della critica, Palermo, Palumbo, 1963; E. Bonora, Francesco Petrarca, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, vol. I, Da Dante al Marino, Firenze, La Nuova Italia, 1964, pp. 55-167. 7

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ridicole e perfino Metastasio, arcade postumo, sopravvissuto all’epoca della sua formazione, nelle lettere scritte da Vienna nell’arco di tutto il secolo, esprime spesso giudizi sferzanti, pur distinguendo tra Petrarca, autore di «solide bellezze» e i suoi imitatori, definiti «aridi»8; ciononostante egli prende posizione contro le sestine petrarchesche9, salva solo cinque o sei sonetti giudicati «irreprensibili»10 e imputa a Petrarca la «ruvidezza del suo secolo»11. E ancora alcuni autori (ad esempio Parini e il Bettinelli degli ultimi anni) se lodano e apprezzano in Petrarca l’iniziatore della poesia lirica italiana, si soffermano in realtà soprattutto sulla sua statura di filologo e uomo di cultura; i versi di Petrarca erano invece considerati un modello di grazia e perfezione linguistica al quale si poteva guardare con una certa diffidenza perché si scontrava con l’ideale di una poesia civile e pedagogica diffuso nel secolo. Gli interventi critici del pieno Settecento sono inoltre spesso deludenti da un punto di vista teorico, oltre che ambigui: può succedere che chi difende Petrarca, come Gozzi, in realtà ne svilisca il ritratto delineando un’immagine riduttiva dell’autore considerato il poeta della grazia, della «levità», della galanteria, mentre sono a volte proprio i critici più polemici (lo nota lo stesso Baretti) a individuare, anche se in modo spesso conflittuale, gli aspetti più significativi della poesia dell’autore, sottolineandone la centralità nel sistema culturale italiano. Di fronte a questo quadro apparentemente confuso, vorrei fare due osservazioni preliminari che servono ad orientarsi nella selva di giudizi e posizioni e che soprattutto contribuiscono a non fermarsi, per quanto riguarda la fortuna di Petrarca nel pieno Settecento, a un giudizio troppo generico di contraddizione e fraintendimento.

8 Cfr. P. Metastasio, Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Lettere, vol. IV, Milano, Mondadori, 1954, Lettera a Giuseppe Barbieri, datata Vienna 3 ottobre 1763, p. 311. 9 Ivi, vol. V, Lettera a Domenico Caiafa Tebaide, datata Vienna 17 aprile 1773, p. 228: «Ho letta, amico carissimo, e riletta per impulso dell’affetto ch’io porto all’autore, la vostra sestina, non avendo mai onorate di questa ripetizione di lettura né pur quelle del Petrarca, tanto cotesta specie di componimento m’è riuscita odiosa fin dalla mia infanzia alle lettere». 10 Ivi, vol. IV, Lettera a Leopoldo Trapassi, datata Vienna, 20 ottobre 1766, p. 506. 11 Ivi, vol. IV, Lettera a Giuseppe Barbieri, cit.: «Il dottissimo mio maestro Gravina, che adorava il grande del Petrarca, non lo accusava di quella ruvidezza che, a dispetto del delicato gusto di quell’insigne poeta, pur comparisce di tratto in tratto negli ammirabili scritti suoi, per colpa, come già dissi, del secolo; ma si scatenava contro coloro che unicamente a quella appunto ne imitano».

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

La prima osservazione riguarda il fatto che ci troviamo di fronte non solo a un nuovo linguaggio critico costantemente interlocutorio, spesso provocatorio, ricco di allusioni intertestuali e che deve fare i conti con censure e con le leggi dell’editoria e del giornalismo, ma anche a una critica militante che prevede modalità di intervento diverse a seconda degli interlocutori che cambiano in relazione alle situazioni locali o nazionali o internazionali e a seconda dei contesti. Bettinelli ad esempio critica Petrarca nelle Virgiliane, con le quali prende posizione contro Gasparo Gozzi e contro il veneziano editore Zatta, ma poi quando nel Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille pubblicato nel 1775 a Bassano, rivolto al pubblico dotto italiano, rievoca, all’interno di un disegno storiografico, la figura di Petrarca, ne riconosce il ruolo centrale per la cultura italiana. Ancora più significativa la posizione di Baretti che quando si rivolge agli inglesi nell’Account of the Manners and Customs of Italy (1768) loda Petrarca come rappresentante di un’idea spirituale, onesta e morale di amore, perché questo serve in quel momento all’autore per difendere e nobilitare l’italiano contemporaneo da accuse di immoralità e corruzione, ma quando nel Discours sur Shakespeare et Voltaire si rivolge ai letterati francesi nell’ambito della famosa querelle shakespeariana sminuisce il valore della poesia di Petrarca, soprattutto se considerata al confronto con gli esempi stranieri. La fortuna di Petrarca è insomma influenzata anche da questioni che esulano dal campo specifico della critica letteraria: se Muratori e Gravina cercano di conciliare la lotta contro il barocco con la difesa dei diritti della poesia e del cuore contro il razionalismo cartesiano francese (e il giudizio ambivalente sul poeta si confronta anche con questa esigenza), successivamente, nella seconda metà del secolo, si afferma, come vedremo, una linea gesuitica (il tardo Bettinelli, Tiraboschi, Andrés) che esalta in Petrarca il poeta dell’amore casto e spirituale e ne fa una bandiera contro la diffusione dello spirito laico nella cultura settecentesca. Ma su questo aspetto ritorneremo oltre. L’altra osservazione fondamentale che vorrei fare in via preliminare è la seguente: il secondo Settecento presenta una innegabile volontà di rinnovamento e progresso (l’esempio più esplicito è quello del gruppo del Caffè), che convive però con il culto della memoria ravvivato dal nuovo classicismo o neoclassicismo degli ultimi decenni del secolo e che deve fare i conti con la costruzione, lenta e complessa, di una identità nazionale italiana che ha un primo e fondamentale riconoscimento nella tradizione letteraria e che quindi di Petrarca, così come di Dante, non può fare a meno. Direi che questo è un nodo cruciale anche alla luce di quanto detto in precedenza sulla risonanza europea del dibattito critico, che fin dalla polemi-

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ca Orsi-Bouhours si confronta variamente con l’orizzonte internazionale e anima querelles, iniziative editoriali e giornalistiche. Non si vuole qui, relativamente alla fortuna petrarchesca, delineare una tappa, che sarebbe necessariamente forzata, di un disegno idealistico e lineare che collega la storiografia e la critica settecentesche con la storiografia ottocentesca-risorgimentaleromantica che accompagna il processo di costruzione di un’identità italiana; nella storiografia e nella critica settecentesche la difesa di Petrarca è spesso ingenua e si colloca all’interno di un orizzonte di esaltazione della gloria letteraria e del primato italiano, di difesa di un’eccellenza, di un’idea edificante e apologetica di patria e nazione, intesi come concetti estremamente generici privi di alcun riscontro con la realtà storica e politica contemporanea; ma a fianco di questo atteggiamento esistono però degli interventi che, se non si possono definire certo anticipatori di una concezione romantico-ottocentesca, tentano tuttavia di collocare le singole esperienze letterarie all’interno di un disegno filosofico che non è solo quello di una progressione cronologica all’interno della quale evidenziare successi e primati, ma che considera in modo più complesso la personalità degli autori, la loro funzione di modelli, di punti di riferimento, con i quali si può identificare, al di là di facili e ingenui quanto sfuggenti trionfalismi, una memoria italiana. È appunto questa la strada che sembra opportuno approfondire. D’altronde ci sono alcuni dati di partenza con i quali è necessario confrontarsi, primo fra tutti la grande fortuna editoriale e critica europea di Petrarca che anticipa la fortuna esegetica e editoriale di Dante di fine Settecento – inizio Ottocento e che mette in crisi i letterati italiani, abituati a considerare il poeta un patrimonio nazionale: il libro francese su Petrarca di François de Sade al quale come vedremo, e non a caso, Tiraboschi dedica ampie pagine che inaugurano la sua Storia della letteratura, condiziona il dibattito soprattutto per quanto riguarda l’italianità del poeta, la sua collocazione nella cultura europea, il rapporto con la cultura contemporanea, tutte questioni che, se in questa fase vengono risolte soprattutto a livello erudito, assumeranno presto un significato più esplicito di rivendicazione di una identità italiana che è prima di tutto, appunto, un’identità letteraria. Direi dunque che è anche in relazione a questa transizione tra la celebrazione ingenua e spesso antifrancese (dalla polemica Orsi-Bouhours in poi) di un’eccellenza culturale nazionale e la rivendicazione di un’identità culturale (solo più tardi politica) italiana, che mi sembra opportuno delineare la storia della fortuna settecentesca di Petrarca, una storia che si costruisce quindi attraverso la frammentazione della realtà culturale italiana (ed è necessario confrontarsi in prima istanza con la natura cittadina e locale di tante polemiche) ma che si costruisce anche attraverso il riscontro con le culture europee

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e le posizioni di quegli italiani (sempre più numerosi) che si formano a contatto con tali culture. Il primo punto di osservazione, il primo possibile itinerario all’interno di un territorio così accidentato, riguarda la storiografia letteraria italiana. L’episodio più significativo, anche per la fortuna petrarchesca, è sicuramente la Storia della letteratura italiana di Tiraboschi. La quale esordisce con un riferimento proprio a Petrarca che assume un significato emblematico in due direzioni: la difesa di un’identità italiana e la lettura “casta” di Petrarca poeta amoroso, allo scopo di correggere tale identità culturale in chiave moralistico-religiosa. La Storia di Tiraboschi inizia con la confutazione delle affermazioni contenute nel libro di Jacques-François-Paul-Aldonze de Sade, i Mémoires pour la vie de François Petrarque tirés de ses oeuvres et des auteurs contemporains pubblicato a Amsterdam in quattro volumi negli anni 1764-67, che ebbe grande risonanza al suo apparire in tutta Europa. Una delle questioni sollevate dal libro e sulle quali si dibatté a lungo riguardava l’identificazione, sostenuta da de Sade, della Laura petrarchesca con un membro della antica famiglia de Sade. Ma al di là di queste curiosità aneddotiche, de Sade aveva compiuto una ricostruzione assai dettagliata della vita dell’autore, preceduta da due prefazioni nelle quali venivano poste alcune questioni molto significative per la critica su Petrarca. In una prefazione rivolta ai lettori francesi de Sade annuncia di intraprendere l’impresa di scrivere la vita del poeta allo scopo di correggere l’immagine che i suoi connazionali avevano di Petrarca come di un poeta frivolo e superficiale; in un’altra prefazione rivolta questa volta agli italiani e precisamente Aux personnes d’Italie qui aiment la poésie et les lettres l’autore sostiene che nonostante le numerose pubblicazioni dedicate a Petrarca, gli italiani non conoscono veramente la vita e l’opera dell’autore e che quindi era necessario anche per loro avvicinarsi con strumenti più adeguati allo studio del poeta. Inoltre de Sade, ed è il punto più critico della prefazione rivolta agli italiani, fingeva di difendersi dall’ipotetica critica di essersi occupato di un autore italiano e non francese sostenendo che in realtà Petrarca era un autore internazionale: la riscoperta degli scrittori antichi da lui promossa indicava ai letterati di tutta Europa la strada da compiere per raffinare il gusto e ambire alla perfezione letteraria e morale e quindi egli apparteneva alla cultura europea nel suo complesso e non solo a quella italiana. De Sade citava, a sostegno della sua tesi, addirittura Voltaire, che aveva riconosciuto un debito della cultura occidentale nei confronti della Toscana e dei grandi autori trecenteschi, grazie ai quali l’Europa era uscita da un periodo di barbarie e inciviltà. Era, più che un’interpretazione europea di Petrarca che potrebbe anticipare prospettive comparatistiche, una ricostruzione che

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cercava di valorizzare, in un disegno storiografico complessivo, la centralità francese sulla linea di altre storie letterarie di ambito benedettino12 che avevano cercato di inglobare anche Boccaccio nello spazio culturale francese. Per Tiraboschi e per i letterati italiani, spinti a confrontarsi in modo sempre più drammatico (anche se per ora ancora nel chiuso dei gabinetti letterari) con il problema di cosa fosse l’Italia, di come riconoscersi in una cultura italiana, era chiaramente una ricostruzione inaccettabile. Tiraboschi, nella Prefazione al tomo V della Storia della letteratura, dedicato alle Belle lettere13, affronta de Sade sul versante erudito, cerca di dimostrare la qualità e il livello degli studi italiani su Petrarca e sgombra il campo da equivoci sulla nazionalità del poeta, sostenendo che egli era «un vanto dell’Italia» grazie al quale i francesi erano costretti a riconoscere la superiorità della letteratura italiana. All’interno di una concezione tradizionale in cui Italia è essenzialmente entità geografica e italiani sono tutti coloro che sono nati nel territorio italiano, egli considera Petrarca un eroe della tradizione italiana, «perfetto modello di poesia»14 e promotore dello studio dell’antichità, essendo egli «infiammato della gloria della sua patria»15. Il poeta è quindi un simbolo di italianità; è «l’autore del lieto stato, a cui giunse l’italiana letteratura» ed è lodato perché «accese in molti quell’entusiasmo per la gloria della sua patria da cui egli era compreso». Quelli che possono essere considerati «difetti» dei versi amorosi («concetti raffinati e pensieri più ingegnosi che giusti») sono imputabili «al gusto di que’ tempi» e soprattutto all’influenza dei provenzali, colpevoli, come i loro imitatori, i primi poeti italiani, di «seguire poetando più l’ingegno che la natura»16. La Storia di Tiraboschi sancisce dunque, nel richiamo al primato letterario italiano e nella lettura edulcorata e moraleggiante dei versi del poeta, un punto fermo nella fortuna di Petrarca dal quale ripartiranno negli anni successivi molti interventi. Non a caso nell’edizione della Società Tipografica dei Classici Italiani pubblicata a Milano nel 1805 a cura del padre Francesco Soave le poesie di

12 Rinvio per questo aspetto al saggio di G. Ricuperati, Ipotesi su Carlo Denina storico e comparatista, in Carlo Denina fra Berlino e Parigi (1782-1813), Giornata di studio, Torino, Accademia delle scienze, 30 novembre 2000, a cura di M. Cerruti e B. Danna, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2001, pp. 9-43; in particolare le pp. 1920. 13 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana del cavaliere abate Girolamo Tiraboschi, t. V, Dall’anno 1300 all’anno 1400, Roma, Luigi Perego, 1783. 14 Ivi, p. 475. 15 Ivi, p. 337. 16 Ivi, pp. 474-475.

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Petrarca saranno precedute dalla Vita di Francesco Petrarca tratta dalla letteratura italiana del cavaliere Tiraboschi e dalle Riflessioni del Cav. Tiraboschi sopra la vita di Francesco Petrarca scritta dall’abate de Sade. Nel libro dell’abate spagnolo Giovanni Andrés Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura 17, una compilazione enciclopedica che tratta tutte le letterature europee, Petrarca viene presentato all’interno del capitolo sulla Poesia lirica, che fa parte della sezione Belle lettere. Andrés sorvola sulle dispute relative all’appartenenza del poeta alla cultura italiana o a quella francese e sostiene conciliante che Petrarca è «il principe della moderna lirica, non sol dell’Italia ma di tutte le altre nazioni»18; evita anche di soffermarsi, come fa gran parte della critica settecentesca, su pregi e difetti dell’autore. Egli adotta invece una prospettiva filosofica e soprattutto morale, giungendo a conclusioni simili a quelle di Tiraboschi: Petrarca è il poeta degli «amori spirituali e puri», degli «affetti teneri e onesti dettati dalla ragione e non eccitati dall’impressione de’ sensi» ed è in grado di procurare ai lettori sensibili una «beata estasi»19. Un esito significativo, indice della importanza di un’interpretazione spirituale e moralistica del poeta, che è un aspetto centrale della sua fortuna settecentesca. Il secondo punto di osservazione della mappa ci porta fuori dall’Italia e riguarda la prospettiva estraniata dei critici che vivono per lunghi periodi in Europa e considerano Petrarca alla luce delle esperienze straniere e del dibattito europeo al quale prendono parte. Mi riferisco sostanzialmente a Giuseppe Baretti e a Carlo Denina. La posizione di Baretti è emblematica di una scrittura critica militante, calibrata sull’interlocutore e sul contesto; nelle opere dello scrittore il giudizio su Petrarca attraversa ambiti e contesti diversi e muta in relazione alla situazione specifica. La prima opera presa in considerazione, la più significativa per il suo spessore europeo, è l’Account of the Manners and Customs of Italy 20 pubbli-

17 G. Andrés, Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura dell’abate D. Giovanni Andrés, Parma, Stamperia reale, 1782-1799, 7 voll.; il capitolo sulla Poesia lirica è compreso nel II vol. 18 Ivi, p. 422. 19 Ivi, pp. 422-423. 20 Il titolo completo è An Account of the Manners and Customs of Italy; with Observations on the Mistakes of some Travellers with regard to the Country, London, T. Davies and L. Davis and C. Rymers, 1768. Sulle circostanze della stesura del libro cfr. C. Bracchi, Prospettiva di una nazione di nazioni: An account of the Manners and Customs of Italy di Giuseppe Baretti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998.

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cato a Londra nel 1768 (la traduzione in italiano si ha solo nel 1818 21), rivolto a un pubblico inglese e scritto per difendere gli italiani dalle accuse dei viaggiatori che nelle relazioni del loro viaggio in Italia avevano diffuso un’immagine negativa e superficiale del paese e degli italiani, accusati di essere corrotti e incolti. Baretti intende correggere questa visione approssimativa e stereotipata dell’Italia e si sofferma su vari aspetti della vita sociale e culturale del paese, cercando di dimostrarne la modernità e la ricchezza di cultura e tradizione. Egli compone così un testo enciclopedico, ricco di notizie e informazioni esposte in modo frammentario su vari aspetti della realtà italiana, che va collocato nel contesto specifico in cui fu ideato e scritto; dalla prospettiva londinese Baretti intende promuovere un’immagine dinamica dell’Italia, che nonostante le divisioni politiche e le diversità di regimi e culture, conserva un suo riconoscibile e vivo carattere nazionale. All’interno di questo progetto, la figura di Petrarca è utile a Baretti innanzitutto per arricchire di un progenitore illustre la cultura letteraria italiana, e, in seconda istanza, per spiegare e giustificare uno dei costumi italiani più deprecati dagli stranieri come il cicisbeismo. Si tratta di un richiamo a Petrarca che può sembrare paradossale; eppure Baretti si avvale del poeta per rivestire di una patina di legittimità e correttezza una moda tutta italiana come quella dei cicisbei che aveva suscitato il sarcasmo dei viaggiatori inglesi che la consideravano una prova della mancanza di civiltà degli italiani. Baretti articola così la sua difesa del cicisbeismo: egli cita il volume su Petrarca di François de Sade che aveva sostenuto che l’amore ai tempi del poeta era una passione onesta e spirituale; da questa premessa Baretti derivava il fatto che la tradizione italiana si fondava su principi di onestà e morale e che l’amore in Italia, anche sotto la veste apparentemente perversa e frivola del cicisbeo, aveva un fondamento spirituale; la figura di Petrarca veniva dunque spesa per dimostrare l’esistenza di una grande civiltà italiana che aveva testimoni autorevoli come appunto il poeta trecentesco il cui pregio veniva riconosciuto anche fuori dai confini del paese. Il problema del cicisbeismo va considerato nel contesto del libro che privilegia toni di amabile polemica e di intrattenimento piacevole; si tratta però di un problema secondario nell’economia del volume, dietro il quale si celano questioni più complesse: innanzitutto il desiderio di contrastare un’immagine immorale e tenebrosa dell’Italia, accreditata all’estero fin dai tempi di Machiavelli e particolarmente viva in Inghilterra dove fiorisce un genere come il romanzo gotico

21 G. Baretti, Gl’Italiani o sia relazione degli usi e costumi d’Italia, tradotta dall’inglese con note del traduttore, in Id., Opere, Milano, G. Pirotta, 1818.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

che privilegia ambientazioni italiane; in secondo luogo la difesa del carattere nazionale italiano di fronte al prevalere di modelli stranieri e al discredito di cui godeva l’Italia contemporanea. Tuttavia, al di là del caso specifico, che va ricondotto alle circostanze in cui l’Account fu ideato e scritto, l’episodio è indicativo della funzione, quasi sovrastimata in questo caso, che rivestì in questi anni la letteratura nella costruzione dell’identità degli italiani. Baretti parte da una prospettiva laica, molto diversa da quella gesuitico religiosa di Tiraboschi, ma il percorso è in parte coincidente: la letteratura, in questo caso attraverso Petrarca la cui fama era diffusa in tutta Europa, è considerata un elemento fondante della cultura nazionale italiana. La rivendicazione di una tradizione illustre dell’Italia ritorna anche nella Prefazione a Tutte le opere di Machiavelli, curate da Baretti sempre per il pubblico inglese nel 177222, dove il critico polemizza con Machiavelli che difendeva il primato fiorentino nell’ambito del volgare italiano, sostenendo invece che la lingua dei grandi scrittori trecenteschi è patrimonio comune e non può essere definita né toscano né fiorentino, ma italiano. Nei testi invece più militanti e polemici rivolti al pubblico italiano oppure destinati a querelles tra letterati, la prerogativa nazionale e italiana di Petrarca non lo salva da giudizi per lo più sommari che rivelano un atteggiamento di insofferenza appena trattenuta del critico nei confronti dello scrittore. Nel già citato Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire23, con il quale Baretti interveniva a favore di Shakespeare nella disputa su teatro francese e teatro inglese, il giudizio su Petrarca è superficiale e sbrigativo: «Nous avons aussi des vers du célèbre Pétrarque [...]. Cette poésie ne renferme guère de grandes choses. Ce ne sont que des petites pensées d’amour pour la plupart, des petits sentiments, des petites images»24. Gli strali più acuminati sono rivolti, come è consuetudine, ai petrarchisti come Biagio Schiavo la cui opera, nelle giovanili Lettere sul Dottor Biagio Schiavo da Este del 1747 (Biagio Schiavo era autore a sua volta di un Discorso in difesa di Petrarca del 1738), viene passata al vaglio senza pietà allo scopo di rilevarne con perizia tecnica tutti gli errori, le esagerazioni, le incongruenze25.

22 Tutte le opere di Niccolò Machiavelli, segretario e cittadino fiorentino, con una prefazione di Gius. Baretti, Londra, T. Davies, 1772. 23 G. Baretti, Discours sur Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire, Londres, J. Nourse, Paris, Durand neveu, 1777. 24 Si cita da Id., Opere, a cura di F. Fido, Milano, Rizzoli, 1967, pp. 861-862. 25 Cfr. Id., Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari, Laterza, 1911, pp. 1-29.

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Un giudizio scisso quindi quello di Baretti che ricorre a Petrarca e alla sua fama per dare fondamento a un’idea di Italia competitiva con l’Europa dal punto di vista culturale, ma prende le distanze da un modo di far poesia da lui giudicato privo di nerbo, eccessivamente «leggiadro»26, una definizione che poco concorda con la sensibilità di Aristarco Scannabue che, se ha il pudore di non soffermarsi troppo su Petrarca nelle pagine della Frusta, non ha tuttavia mai elogi espliciti per il poeta. L’altro letterato di profilo europeo qui preso in considerazione è Carlo Denina, che pubblica a Torino nel 1760 il Discorso sopra le vicende della letteratura27 un testo che propone una ricostruzione in prospettiva universale della storia letteraria28. La prima edizione è molto ridotta rispetto alla versione che vede la luce a Berlino nel 178429, e successivamente a Torino nel 1792, con il titolo Vicende della letteratura. La redazione berlinese non è soltanto un approfondimento analitico di quanto già prospettato in modo sintetico nel volume del ’60, ma modifica sostanzialmente la prospettiva complessiva, sia grazie alla conoscenza da parte di Denina dei testi di Bettinelli (in particolare Il Risorgimento) e di Tiraboschi, sia per l’ampliamento delle prospettive filosofiche e per la maggiore autonomia di giudizio che deriva all’autore dall’esperienza europea30. Ci limitiamo a considerare i cambiamenti del giudizio nei confronti di Petrarca tra le due redazioni; si tratta sempre di una valutazione sostanzialmente positiva, ma nell’elaborazione più matura del testo si percepisce un atteggiamento critico più disinvolto e spregiudicato, che risente di una concezione più definita della letteratura, meno normativa e più filosofica. Nel 1760 Petrarca è essenzialmente, senza grandi novità di giudizio rispetto alla tradizione settecentesca, il poeta inimitabile, che ha «interamente esausto il fonte di quella spezie di poesia, a cui s’appigliò. Tutto s’aggira in su quell’amore,

26 Cfr. Opere drammatiche dell’abate Metastasio, poeta cesareo, in «La frusta letteraria», III, 1 novembre 1763, ivi, p. 306. 27 Il Discorso sopra le vicende della letteratura fu ristampato a Glasgow in italiano nel 1763 assieme ad altri materiali, tra cui un Saggio sopra la letteratura italiana, scritti negli anni 1760-1762; questa edizione è stata riprodotta nell’edizione a cura di C. Corsetti, Roma, Librerie editrici universitarie Tor Vergata, 1988. 28 Cfr. l’analisi di F. Sinopoli, Storiografia e comparazione. Le origini della storia comparata della letteratura in Europa tra Settecento e Ottocento, Roma, Bulzoni, 1996. 29 C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura. Aggiuntovi il giudizio sullo stato della letteratura francese verso la metà del corrente secolo, la lettera al signor marchese Lucchesini e Pensieri diversi, Berlino, Spener, 1784-1785, voll. 2. 30 Cfr. G. Ricuperati, Ipotesi su Carlo Denina storico e comparatista, cit.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

che si chiama Platonico, ed in cui hanno più parte gli affetti del cuore, che i piaceri del senso»31, un giudizio, quest’ultimo, che apparteneva già a Gravina e che faceva parte dei consueti elogi al poeta. Petrarca è insomma qui il padre fondatore della lirica, il poeta dell’amore, il modello inimitabile, secondo un disegno critico assai comune e tradizionale. Il giudizio espresso invece nel Discorso dell’84, scritto dopo anni di esperienza europea e rivolto a un pubblico internazionale, è molto più articolato. La prospettiva storiografica complessiva del libro cambia decisamente e ci troviamo di fronte a un’analisi comparativa delle letterature di tutti i tempi e di tutti i popoli, all’interno della quale il giudizio su Petrarca nasce da una concezione critica molto più sviluppata, che si è confrontata con il dibattito europeo e con un’idea di letteratura diversa da quella precettistica e volta a un’astratta idea di bello che emergeva invece nella versione del 1760. Petrarca è sempre il «principe de’ nostri lirici»; vi è in lui però (e qui il linguaggio cambia) «un sentimento dominante, un carattere sì originale, un patetico; che propriamente innamora, nobiltà di concetti eziandio politici, e filosofici, erudizione sì scelta, e sì saviamente impiegata senza affettazione, che unendo tutto questo alla soavità della locuzione, egli è forse il solo libro italiano che meriti, come Orazio fra i latini, d’essere imparato a mente. Dove meno si pensi, si trovano lampi luminosissimi di scienze»32. Nei margini dell’edizione, Denina rinvia alle fonti del suo pensiero critico su Petrarca (Muratori, de Sade, Tiraboschi), ma l’elaborazione del materiale è nuova, soprattutto se vista in relazione al contesto complessivo del libro, all’idea di una letteratura come patrimonio universale. D’altronde l’anno di pubblicazione del Discorso sopra le Vicende della Letteratura rivisto è il 1784, solo un anno prima del Saggio sopra la filosofia del gusto di Cesarotti, all’interno del quale prende forma una nuova prospettiva estetica (e teniamo a mente questo 1784 perché ci troviamo di fronte a coincidenze cronologiche per la storia della fortuna di Petrarca assai significative). Ma torniamo per ora in Italia (ed è un terzo itinerario che attraversa questa mappa della critica settecentesca): dall’Europa ai particolarismi locali. In Italia infatti il dibattito critico e teorico è spesso condizionato dalle situazioni locali, da scelte di politica culturale, dall’esistenza di contrasti e connivenze tra stampatori e letterati, soprattutto laddove, come a Venezia,

31 C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura, ed. 1763, a cura di C. Corsetti, cit., p. 43. 32 Id., Discorso sopra le vicende della letteratura, ed. 1784, cit., p. 166.

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l’editoria è in pieno sviluppo. Ad esempio le Lettere virgiliane sono prima di tutto la risposta di un gesuita, lo sottolinea recentemente anche Tissoni33, alla pubblicazione presso l’editore veneziano Zatta, dietro il quale c’è Gasparo Gozzi, di un’edizione di Rime di Petrarca con il commento di Lodovico Castelvetro (1756), che era stato condannato dall’Indice e quindi inviso ai gesuiti, e di un’edizione di un altro libro “sospetto” come la Commedia di Dante (1757). La polemica di Bettinelli è condizionata quindi da questioni di politica culturale locale, pur essendo collegata a un dibattito di portata nazionale e internazionale. Un’altra conseguenza di questa dimensione locale del dibattito critico è che l’elaborazione teorica negli scritti legati a circostanze contingenti è spesso debole, perché l’intervento critico è a volte sopraffatto da questioni di natura personale o da intenti polemici; è quindi abbastanza normale che alla fin fine il discorso risulti per i lettori non contemporanei confuso e contraddittorio e che si presti a fraintendimenti, generati spesso da ambiguità volute. Mi limito a qualche esempio significativo per il caso di Petrarca. Legato alla realtà veneziana ma attento al dibattito nazionale, Gasparo Gozzi elogia il poeta trecentesco, senza tuttavia apportare contributi teorici significativi. Nel Dialogo tra Mercurio e Caronte con cui si inaugura l’«Osservatore veneto», Petrarca è citato tra i poeti pregevoli, ai quali si riconosce un ruolo di eccellenza, inferiore però a quello di Omero e Dante, unici veri maestri riconosciuti. Dante è nominato anche in un Dialogo tra Aristofane e Petrarca come «padre e maestro»34 dello stesso Petrarca, al quale viene riconosciuta una capacità ineguagliabile di raccontare il sentimento amoroso come un’esperienza spirituale e morale, secondo la strada indicata da Platone. Dante è, per riconoscimento di entrambi gli interlocutori, superiore a qualsiasi altro poeta, perché nel suo poema rappresenta l’intera esistenza umana, in tutte le sue sfumature. Anche Petrarca, descrivendo il suo amore per Laura, usa un linguaggio universale, nel quale si riconoscono i lettori, ma egli è il poeta esclusivamente dell’amore, della grazia e della gentilezza35, e il suo stile e la

33 R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), cit., p. 31. 34 G. Gozzi, L’Osservatore coll’aggiunta della Difesa di Dante, Milano, Sonzogno, s.d., vol. I, p. 166. 35 Nel corso del dialogo, che si finge avvenga nell’Oltretomba, Aristofane avverte Petrarca che l’amore platonico suscita ilarità sulla Terra; solo Dante, capace di usare toni satirici più adatti ad aggredire la sconfortante realtà contemporanea, potrebbe avere successo; concordi, i due interlocutori decidono di inviare presso i contemporanei, come maestro, Dante stesso.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

sua poesia sono troppo lontani dalla sensibilità contemporanea per essere apprezzati nel tempo presente. In questo modo Gozzi spiegava l’impopolarità di Petrarca tra i contemporanei; ne faceva un poeta riservato a pochi cultori, troppo raffinato per essere apprezzato al di fuori di una ristretta cerchia di amatori. Il percorso più interessante è quello di Bettinelli36. Il giudizio sulle poesie di Petrarca rimane sempre ambiguo; dopo le Virgiliane Bettinelli parla dello scrittore nel Dell’entusiasmo delle Belle Arti del 1765, dove Petrarca viene definito un poeta che suscita un «entusiasmo di secondo ordine»37, capace tuttavia di commuovere e inventare immagini meravigliose. Una svolta significativa avviene nel Risorgimento d’Italia, pubblicato nel 1775, dove Bettinelli valuta positivamente la carriera di filologo e studioso dell’antichità del poeta, che solo grazie allo studio di Cicerone, al quale però era giunto tardi, «dopo avere speso assai tempo ne’ versi giovanili d’amore e nella varia e incerta erudizione»38, aveva riscattato la produzione poetica giovanile. Su quest’ultima il critico esprime un giudizio mediamente negativo; Petrarca è infatti considerato soprattutto per la sua attività di filologo: «Ma non contento dell’arte poetica, che per sollievo dell’anima nata a gran voli e per intervalli trattava, le scienze ad un tempo e la più grave Filologia coltivò, divenendo in Italia il fondatore della letteratura e il padre del secol nostro»39. In questo caso la rivalutazione del profilo di Petrarca avveniva attraverso la sostanziale sovrapposizione alla fama di Petrarca poeta della sua figura di studioso e filologo, di umanista; solo dopo l’incontro con la sapienza degli antichi, vero «nudrimento» per la poesia, Petrarca, nonostante la natura artificiosa della sua poesia, ha fornito ai suoi versi «nuovi sensi e colori e nervo e sostanza»40. La lode di Petrarca coincideva in questo caso con la difesa degli scrittori antichi, ai quali, fin dalle origini, Bettinelli si ricollega. Ma c’è un ulteriore elemento che entra in gioco nella critica di Bettinelli; nel saggio Sopra lo studio delle belle lettere e sul gusto moderno di quelle

36 Cfr. A. Bonfatti, Il petrarchismo del Bettinelli, in «Lettere italiane», IV, 1952, 3, pp. 151-180. 37 Si cita da Dal Muratori al Cesarotti, vol. IV, Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, a cura di E. Bigi, [«La letteratura italiana. Storia e testi», 44, IV], Milano-Napoli, Ricciardi, 1960, p. 829. 38 Si cita da S. Bettinelli, Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il Mille, a cura di S. Rossi, Ravenna, Longo, 1976, p. 264. 39 Ivi, pp. 237-238. 40 Ivi, p. 438.

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del 1780, il critico difende il gusto italiano dall’invadenza della cultura francese ed eroe di questo processo di rivendicazione nazionalistica diventa ovviamente Petrarca, poeta secondo Bettinelli intraducibile, simbolo della particolarità della tradizione italiana e della differenza e peculiarità del genio nazionale. Petrarca quindi diventa l’emblema della memoria nazionale e di un’italianità che come abbiamo detto si riconosce sostanzialmente in questa fase nella tradizione letteraria; un giudizio quest’ultimo confermato nelle tarde Lodi di Petrarca pubblicate nel 1796. Gli ultimi interventi di Bettinelli si collocano quindi alla fine del secolo, in anni che segnano una svolta rispetto alla critica petrarchesca precedente. Ma prima di arrivare agli anni del tournant des lumières c’è un’ultima tappa da evidenziare, che si può classificare in modo più deciso come legata alla cultura dei lumi. Introduco il discorso su quest’ultima tappa con un’altra immagine emblematica come quella con cui ho dato inizio a questo intervento con l’ombra di Petrarca che, nelle Virgiliane, aleggiava attorno a Virgilio tra le anime degli Elisi. La citazione è tratta questa volta dal Caffè, e precisamente dalla Risposta alla Rinunzia al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri scritta da Cesare Beccaria a sostegno dell’intervento dell’amico41. Beccaria, sulla linea di Verri, condanna soprattutto, negli scrittori, la mancanza di originalità, i vincoli pretestuosi della normativa cruscante, il principio dell’imitazione, intesa come passiva assunzione di modelli prefissati, il «sacrificio dei pensieri alle parole». Egli propone, in chiave ironica, un’allegoria dell’opera letteraria vista come «una processione di tanti vuoti colossi di carta pista, tutti tremanti»42; la processione inizia con un «primo colosso» che si chiama «Esordio» ed è sempre sul punto di cadere perché in realtà si regge su parole vuote alle quali non corrisponde un pensiero; a questo segue un secondo colosso presentato in atto grave e posato, attorniato da figurine che «pare che interroghino l’uditore»: sono le «minutissime particelle che fanno il secreto dell’arte» ma che non vogliono dire nulla, appunto le figure retoriche artificiose. Infine c’è un terzo colosso di cui si compone l’opera che è composto da citazioni e indice; questo terzo colosso ha il busto di Cicerone, le cosce di un Santo padre, gli occhi formati da versi di Giovenale e il naso da versi di Petrarca. Il colosso «citazioni e indice» è insomma una sorta di summa della cultura laica e cristiana occidentale, in cui compare

41 C. Beccaria, Risposta alla Rinunzia, tomo I, foglio IX; si cita da «Il Caffè» 1764-1766, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, Torino, Bollati Boringhieri, 19982, t. I, pp. 104-106. 42 Ivi, p. 105.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

come autorità, a fianco di Cicerone e dei padri della chiesa, anche Petrarca. «Tutte queste statue – conclude Beccaria – esalano un odore narcotico che addormenta il volgo e fa solamente sbadigliare quelli che ammirano il capo d’opera»43. L’attacco è però rivolto chiaramente contro gli imitatori e la letteratura che privilegia la retorica e l’artificio a scapito delle idee; la polemica non colpisce direttamente Petrarca e gli altri poeti sui quali Beccaria in realtà non si pronuncia. Anche Alessandro Verri, in un’ironica palinodia alla Rinunzia, che ribadisce in realtà i principi già espressi44, conferma che il vero oggetto polemico del suo discorso sono il Vocabolario della Crusca e l’uso distorto e normativo che degli autori classici si fa nell’età moderna; Petrarca sembra anzi una vittima dei suoi cultori, sottoposto egli stesso a censure in nome di una grammatica astratta e vessatoria45. A parte questi interventi di Verri e Beccaria non ci sono sulla rivista ulteriori approfondimenti sulla figura del poeta: l’interesse principale del Caffè riguardava infatti più la prosa che la poesia e più la lingua della comunicazione che la lingua letteraria. A formulare una riflessione più completa su Petrarca, che costituisce parte dell’eredità che la critica settecentesca consegna ai successori, alla critica primo-ottocentesca, sarà Parini. Il quale, nelle Lezioni di Belle Lettere, scritte probabilmente tra il 1770 e il 1771, considera la figura complessa di Petrarca umanista, promotore culturale e padre della lingua italiana. Egli loda il poeta e lo giudica superiore a Dante, per aver introdotto nell’italiano, dal latino e dal provenzale, «graziosi vocaboli e gentilissime forme del dire, atte a nobilitare non soltanto la poesia, ma eziandio la Prosa, nel che adoperò egli con molto maggiore avvedimento che Dante non avea fatto prima di lui» 46. Laddove Dante aveva «con troppa libertà a dir vero usurpato e dall’Ebraico, e dal Greco, e dal Francese e dal Lombardo parole e modi del dire», Petrarca «più modesto castigato, serbando sempre le regole dell’analogia, arricchì notabilmente la nostra lingua di parole e maniere leggiadre, che quasi ben proporzionate membra, si aggiunsero e si consolidarono al corpo di essa»47. In un certo senso il giudizio su Petrarca veniva fatto

43

Ivi, pp. 105-106. A. Verri, Promemoria che serve a maggior spiegazione della rinuncia al Vocabolario della Crusca, ivi, pp. 243-245. 45 Cfr. ivi, le pp. 244-245, in cui Verri critica l’edizione del Canzoniere di Petrarca fatta a Firenze dalla Accademia della Crusca. 46 G. Parini, Lezioni di Belle Lettere, a cura di S. Morgana, in Parini e le Arti nella Milano Neoclassica, a cura di G. Buccellati e A. Marchi, Milano, Università degli Studi di Milano, 2000, p. 205. 47 Ibid. 44

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coincidere con la proposta di una lingua naturale, lontana da ogni «affettazione»48. Petrarca quindi per Parini deve essere valutato come tramite tra l’antico e il moderno, modello di gusto e di cultura indicato agli studenti per avvicinarsi, prima di studiare le regole e la grammatica, alla lingua letteraria italiana. Il tournant des lumières, l’elaborazione critica del Settecento maturo consegna quindi alla critica successiva una ricostruzione storiografica complessiva che attraverso le querelles soprattutto italo-francesi, attraverso il confronto con le letterature europee, sulla spinta di una nuova estetica e di una nuova concezione “filosofica” della letteratura, per ora appena accennata, considera non solo Petrarca ma sostanzialmente i quattro grandi autori italiani (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso), come un patrimonio fondamentale nella costruzione di un’identità italiana. Ne faceva una sorta di sintesi Melchiorre Cesarotti che, nel Saggio sopra la filosofia del gusto del 1785, giudicando, in un discorso rivolto all’Arcadia romana, la letteratura e la lingua italiane secondo il criterio della ragione e del gusto e meno dei precetti accademici e riconoscendo come modelli i quattro grandi classici, concludeva: «Perciò dei quattro grandi d’Italia parmi che Dante possa dirsi il poeta del genio, il Petrarca quello del gusto, l’Ariosto della verità, il Tasso della ragione; la lingua nostra deve al primo energia, gentilezza al secondo, al terzo facilità, all’ultimo maestà splendore ed aggiustatezza»49. Era in un certo senso un giudizio che convergeva con quello di Parini e che proponeva un disegno tradizionale della letteratura italiana senza radicali censure; Petrarca è il poeta del «gusto» e della «gentilezza», secondo un linguaggio critico tutto sommato tradizionale. Ricco di implicazioni è comunque il tentativo di definire un canone allargato ai quattro grandi autori della tradizione sul quale si fonderà la rivendicazione di un’identità culturale italiana nel primoOttocento. In conclusione ci sono due osservazioni da fare. La prima riguarda la considerazione, cui abbiamo accennato tante volte ripercorrendo le posizioni di Bettinelli, Parini, Denina, di Petrarca come let-

48 Cfr., per le teorie linguistiche di Parini, S. Morgana, Parini e la lingua italiana dai Trasformati a Brera, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, a cura di G. Barbarisi, C. Capra, F. Degrada, F. Mazzocca, Atti del convegno di Milano, 8-10 novembre 1999, in «Quaderni di Acme», 45, 2000, t. I, pp. 347-370. 49 M. Cesarotti, Saggio sopra la filosofia del gusto, 1785; si cita da Dal Muratori al Cesarotti, vol. IV, Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, cit., p. 477.

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Dall’Arcadia al tournant des lumières: Petrarca nella critica del secondo Settecento

terato complesso, allo stesso tempo poeta e filologo, scopritore degli antichi, tramite fondamentale tra l’antichità classica e la tradizione italiana, nodo cruciale quindi per tracciare un percorso nazionale italiano. Era una posizione che superava le polemiche degli anni centrali del secolo e risolveva l’ambigua oscillazione, mai totalmente eliminata nel corso del Settecento arcade, tra Petrarca e petrarchismo. Ma c’è un altro punto fermo, che riguarda maggiormente, in questo caso, il profilo dell’autore come poeta; dopo le polemiche, i giudizi riduttivi, i tentativi di conciliare la fedeltà alla norma e le ragioni del cuore e della fantasia, ci troviamo di fronte, alla fine del secolo, a un approccio articolato dal punto di vista critico. Già nella versione definitiva del Discorso sopra le vicende della letteratura di Denina veniva pronunciato un giudizio su Petrarca come poeta privo di «affettazione»50. Più specifica in questa direzione l’osservazione di Aurelio de’ Giorgi Bertola nel Saggio sopra la grazia nelle lettere e nelle arti del 1786 (pubblicato postumo nel 1822); anche Bertola riconosce che Petrarca è il poeta della «grazia», secondo un giudizio quasi universale, ma specifica che trattasi di «grazia grave», cioè, spiega ancora l’autore, della «grazia virgiliana»51. Le qualità di questa grazia sono diverse da quelle che ci potremmo immaginare e sono: la «sprezzatura», cioè possedere la grazia senza accorgersene, aspetto che si verifica quando «l’eleganza s’insinua come di furto»52 (e Bertola cita l’incipit del sonetto Se io avesse pensato che sì care / fosser le voci de’ sospir miei in rime); e le «transizioni» per spiegare le quali lo scrittore cita il sonetto Mai non fu in parte ove sì chiar vedessi, «nel quale – scrive Bertola – sembra l’autore andar via fuggendo dall’animo del lettore nell’atto che vi si attacca con una tenacità soavissima»53. Una grazia diversa quindi dai consueti giudizi di gentilezza, finezza, leggiadria; Bertola metteva in gioco la sua sensibilità e metteva in risalto i tratti più difficilmente imitabili della poesia petrarchesca, oltre alle consuete qualità di grazia e leggiadria. Nel giro di pochi anni, tra il 1784 e il 1786 con Denina, Cesarotti, Bertola, con sullo sfondo le posizioni del tardo Bettinelli e di Parini, ci troviamo di fronte a un giudizio su Petrarca che ha spostato l’attenzione dall’equivoco tra Petrarca e petrarchismo a un profilo più complesso dell’autore

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C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura, ed. 1784, cit., p. 166. Si cita da A. de’ Giorgi Bertola, Saggio sopra la grazia nelle lettere e nelle arti, in Dal Muratori al Cesarotti, vol. IV, cit., pp. 814-839. 52 Ivi, p. 817. 53 Ivi, p. 831. 51

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dal punto di vista morale e spirituale, lontano da ipotesi troppo normative e approcci precettistici alla poesia. La figura di Petrarca poeta e filologo emergeva quindi dalle ambigue polemiche settecentesche, dalle dispute e dai particolarismi locali, dalla complessa elaborazione arcadica e dalla riflessione storiografica; ne usciva confermata la sua figura di padre della poesia e della lingua e si rivalutavano essenzialmente due momenti: l’impegno filologico, grazie al quale si affermava una tradizione italiana erede di quella dei classici antichi, nella trasmissione della quale Petrarca aveva un ruolo fondamentale e, secondo momento, la qualità della naturalezza o «sprezzatura», o meglio ancora l’originalità priva di affettazione, spontanea; si relegava in questo modo sullo sfondo il colosso mostruoso di Beccaria, la creatura informe che si reggeva sull’imitazione deleteria, priva di giudizio, con quel minaccioso naso fatto di versi di Petrarca, simbolo della degenerazione di una letteratura vuota e ripetitiva dalla quale, seppur con fatica e in compagnia degli altri tre grandi classici – Dante, Ariosto e Tasso – la figura del poeta si distingueva; e il modo con cui Foscolo, qualche decennio dopo, entra nel cuore dell’officina petrarchesca, è reso possibile anche da questo complesso percorso tardo-settecentesco.

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«GLI ARDENTI VATI, E GL’INFELICI AMANTI» ALFIERIANI

1. Sul petrarchismo alfieriano Il rapporto Alfieri-Petrarca ha rilievo a tutto campo nell’ambito dell’interpretazione alfieriana1. Non sono solo le opere in versi, dalle rime alle tragedie, a mostrare i segni evidenti dell’assimilazione petrarchesca, ma anche certe opere in prosa: la Vita, che di tale assimilazione ripercorre le diverse fasi in chiave narrativa, dall’iniziale diffidenza nei confronti del «dicitor di arguzie e freddure» all’elezione dello stesso a modello lirico per eccellenza; l’Epistolario, con le sue testimonianze cronachistiche; persino un dialogo come La virtù sconosciuta, che pare ispirarsi al Secretum nel mettere in scena il Gori Gandellini nella parte di Agostino, a discutere con Vittorio, pseudo-Francesco, non più del tema religioso cristiano che aveva perseguitato Petrarca, ma del suo equivalente laico, la gloria immortale, vista come l’unico degno approdo dell’esistenza2. Notoriamente l’incontro di Alfieri con Petrarca non era stato dei più felici: […] nella Biblioteca Ambrosiana, datomi in mano dal bibliotecario non so più quale manoscritto autografo del Petrarca, da vero barbaro Allobrogo, lo buttai 1 Lo ha ribadito la giornata di studi Alfieri e Petrarca che si è svolta a Padova il 7 novembre 2002 e che ha visto la rappresentazione di Marziano Guglielminetti (Per i posteri), Manlio Pastore Stocchi (Alfieri e la forma-canzoniere), Giuseppe Velli (Alfieri lettore di Petrarca), Carla Molinari (Il petrarchismo delle tragedie alfieriane), Guido Santato (I “pellegrinaggi poetici” di Alfieri ad Arquà e a Valchiusa). Gli interventi sono ora pubblicati in «Annali alfieriani», VIII, 2005. 2 Lo spunto si deve a Franco Ferrucci, nella sua Introduzione alle opere scelte di Alfieri, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995, pp. III-XX (a p. IV).

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là, dicendo che non me n’importava nulla. Anzi, in fondo del cuore, io ci aveva un certo rancore con codesto Petrarca; perchè alcuni anni prima, quando io era Filosofo, essendomi capitato un Petrarca alle mani, l’aveva aperto a caso da capo, da mezzo, e da piedi, e per tutto lettine, o compitati alcuni pochi versi, in nessun luogo aveva inteso nulla, nè mai raccapezzato il senso; onde l’avea sentenziato, facendo coro coi Francesi e con tutti gli altri ignoranti presuntuosi; e tenendolo per un seccatore, dicitor di arguzie e freddure, aveva poi così ben accolto i suoi preziosissimi manoscritti3.

Nell’arco di tempo che nella Vita separa questa testimonianza del 1766 dai fitti richiami del 1783 (ultimo esplicito il ricordo della visita alla casa e alla tomba «del nostro sovrano Maestro d’amore in Arquà», dove Alfieri consacra «un giorno intero […] al pianto, e alle rime»; di lì a poco seguirà il pellegrinaggio in riva alla Sorga4), il ribaltamento di prospettiva nella considerazione di Petrarca è compiuto, e lo è nella maniera più feconda, come testimonia in parallelo la copiosa produzione lirica, si pure attenuata per understatement in «rime di piagnisteo»5 dal tardo autobiografo, perfettamente in linea con il fin troppo disincantato poeta che di sé aveva saputo stigmatizzare fin dall’inizio la facile vena imitativa («petrarcheggio e piscio sonetti», a Giovanni Maria Lampredi, 6 febbraio 17786). Tale produzione, ovviamente, è stata e resta il terreno privilegiato delle indagini sul petrarchismo di Alfieri, abbastanza dissodato sul versante che attiene alle relazioni che si possono stabilire tra le Rime e i Rerum vulgarium fragmenta, con qualche sporadica considerazione dei Trionfi che tuttavia, per il momento, non sono stati ancora sistematicamente affrontati nei loro riflessi alfieriani. Per contro, chi si sia confrontato con le Rime, soprattutto con quelle della Parte seconda, converrà della necessità di compierla prima o poi questa indagine, sollecitata da più e più suggestioni di lettura. Se ne consideri una, a titolo di esempio, proveniente dal sonetto XXXV scritto a Boboli sul finire del 1794, Del mio decimo lustro, ecco, già s’erge7, di cui è stato messo in evidenza il motivo ispiratore dell’immortalità ottenuta attraverso le opere e le gesta, ma che pure non impedisce l’annullamento conseguente alla morte: concetto molto vicino a quello classico di fama, per quanto in Alfieri corretto nella prospettiva 3 Vita, III, 1, p. 64. Si cita, qui e di seguito, da V. Alfieri, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, vol. I, Asti, Casa d’Alfieri, 1951. 4 Vita, IV, 10, p. 239 e IV, 12, p. 246. 5 Vita, IV, 12, p. 245. 6 V. Alfieri, Epistolario, a cura di L. Caretti, vol. I, Asti, Casa d’Alfieri, 1963, p. 34. 7 V. Alfieri, Rime, a cura di F. Maggini, Asti, Casa d’Alfieri, 1954, pp. 224-5 (anche di seguito per la citazione delle liriche).

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«Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani

materialista tipica dello scientismo immanentista e del meccanicismo del suo secolo8. Ebbene, per il verso conclusivo, «Tu che il morir secondo altera vieti», ancor più a proposito della pertinente «seconda morte» dantesca attesa dai dannati, o della «mors secunda» nello stagno di fuoco dell’Apocalisse, fonti entrambe segnalate9, si potrebbe indicare Triumphus temporis, 143, dove ciò a cui Alfieri allude è direttamente nominato: «Chiamasi Fama, ed è morir secondo». Questo per dire che esistono questioni ancora aperte in relazione al petrarchismo alfieriano, nonostante i contributi specifici di De Robertis, Fubini, Momigliano, Bosco, Debenedetti, Branca, Raimondi, Binni, Ramat (solo per citare i maggiori tra gli interpreti moderni e in ordine tendenzialmente cronologico di intervento10) ne abbiano ampiamente illustrato natura e forme, modificando la prospettiva di lettura ottocentesca che per esempio ammetteva un Falorsi convinto sostenitore del fatto che Alfieri «poté petrarcheggiare in vacui sonetti», ma che «tutto lo studio, che sul Petrarca fece […] gli valse in fin dei conti, assai poco»11. La sintesi critica cui si giunge sulla base delle ricognizioni novecentesche è invece l’assoluta originalità alfieriana nel reimpiego di Petrarca, assunto come maestro di lirica in virtù della «fede

8 L’interpretazione è di G. Nicoletti, Dalla «fonte delle rime» alfieriane: i sonetti fiorentini della Parte seconda, in Alfieri in Toscana. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Firenze, 19-21 ottobre 2000), a cura di G. Tellini e R. Turchi, vol. I, Firenze, Olschki, 2002, pp. 221-38 (in particolare alle pp. 230-2). 9 Rispettivamente: «Ch’a la seconda morte ciascun grida», Inf., I, 117; «Et Infernus et mors missi sunt in stagnum ignis: haec est mors secunda», Apocalisse, XX, 14 (ibidem). 10 G. De Robertis, Letture dell’Alfieri. Introduzione all’Alfieri [1928] e Le Rime [1933], in Id., Saggi, con una noterella, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 47-58 e 59-62; M. Fubini, Petrarchismo alfieriano [1931] e Appendice [1934], in Id., Ritratto dell’Alfieri e altri studi alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 1963, pp. 59-93 e 93-100; A. Momigliano, Alfieri lirico [1933], in Id., Studi di poesia, Presentazione di L. Russo, Messina-Firenze, D’Anna, 19603, pp. 125-30; U. Bosco, La lirica alfieriana, Asti, Casa d’Alfieri, 1943; G. Debenedetti, Le Rime: gesto mimico dell’ispirazione alfieriana [1945], in Id., Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977, poi Milano, Garzanti, 1995, pp. 181-245; V. Branca, Alfieri poeta dell’interiorità fra lirica e tragedia [1964] e La ricerca del linguaggio lirico [1948], in Id., Alfieri e la ricerca dello stile, con cinque nuovi studi, Bologna, Zanichelli, 1981, pp. 1-20 e 21-108; E. Raimondi, La voce tragica nel registro petrarchesco [1951], in Id., Il concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, pp. 191-241; W. Binni, La prima parte delle Rime alfieriane [1961], in Id., Studi alfieriani, a cura di M. Dondero, vol. I, Modena, Mucchi, 1995, pp. 209-68; R. Ramat, Il problema critico delle Rime [1964] e Motivi, svolgimento e unità delle Rime [1964], in Id., Vittorio Alfieri. Saggi, Firenze, Sandron, 1964, pp. 153-65 e 167-93. 11 G. Falorsi, Dopo riletta la Vita di Vittorio Alfieri, in «Rassegna nazionale», IX, 1° dicembre 1887, pp. 534-59 (alle pp. 543-4).

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nella varietà degli stili classificabili per generi»12, che in Alfieri è un prodotto della concezione razionalista della poesia; Petrarca, però, anche avvertito come intimamente consentaneo, per quanto a segnare la distanza storica e culturale tra i due autori valgano sia la formula crociana del proto-romanticismo alfieriano, che le categorie illuministiche dell’aristocraticismo, del titanismo, dell’anarchismo, più o meno discutibilmente applicate all’autore tragico. Si spiega per questa via quanto Alfieri afferma nel trattato Del principe e delle lettere commentando il primato di Petrarca, il quale «nel fraseggiare imitato con poca felicità, e con assai minore negli affetti, non è tuttavia niente sentito né imitato nell’alto e forte pensare ed esprimersi; anzi, sotto un tale aspetto, non è conosciuto se non da pochissimi»13: un Alfieri petrarchesco o un Petrarca «alfierico», com’ebbe per primo a riconoscere Bettinelli14? È certo che il petrarchismo alfieriano nella nostra tradizione poetica si pone come fondamentale momento di snodo verso la modernità. Ciò, si direbbe, in conseguenza della doppia fruizione tecnico-formale e psicologico-conoscitiva della lezione di Petrarca, la quale se da un lato detta allo ‘sprovveduto’ poeta del secolo XVIII le regole per dotarsi di una strumentazione canonica in termini di lessico, locuzioni, stilemi, soluzioni strofiche, prosodiche e rimiche, dall’altro risulta vivificata nelle sue componenti retorico-concettuali, sclerotizzate da secoli di uso e abuso, grazie all’investimento autobiografico che Alfieri compie su di essa. Fubini lo aveva scritto nel suo saggio dei primi anni Trenta con accenti che magari oggi suonano anche troppo emotivamente partecipati: L’imitazione dell’Alfieri non è imitazione letteraria come quella di molti poeti (il Monti ad esempio), i quali vagheggiano le belle immagini degli antichi libri,

12 Cfr. V. Branca, Alfieri poeta dell’interiorità fra lirica e tragedia, cit., p. 5: «Proprio fra razionalismo e neoclassicismo – non senza ascendenze barocche – si collocano le convinzioni che nell’Alfieri presiedono all’esercizio letterario più impegnativo. Ne discendono chiarissimi i motivi di una poetica fondamentalmente settecentesca: il culto esasperato della forma come unica condizione d’espressione, la ragionata e architettata attenzione al particolare mai sbaragliata dall’attenzione all’insieme e all’effetto, la salda e assoluta fede nei classici, la teoria e la pratica della imitazione malgrado le affermazioni e gli sdegni in contrario». 13 Del principe e delle lettere, III, 2, in V. Alfieri, Scritti politici e morali, a cura di P. Cazzani, vol. I, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, pp. 111-254 (la citazione è a p. 206). 14 Cfr. S. Bettinelli, Opere edite ed inedite in prosa e in versi, vol. XX, Venezia, presso Adolfo Cesare, 1801, p. 231. Lo ricorda E. Raimondi, La voce tragica nel registro petrarchesco, cit., p. 241, e si veda anche W. Binni, Il giudizio del Bettinelli sull’Alfieri [1963], in Id., Studi alfieriani, vol. II, cit., pp. 267-73.

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«Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani

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care al loro cuore, perché consacrate dalla tradizione, ma è rielaborazione di forme e di motivi compiuta da uno spirito che viene al contatto di un altro spirito riconoscendo sé medesimo15.

Le fasi dell’esercizio lirico di Alfieri sono state lumeggiate dalla critica novecentesca tenendo ben distinte la componente imitativa e quella esistenziale, con una progressiva svalutazione della seconda a vantaggio di una sempre più scientifica definizione della prima. Il caso estremo – e merita di essere segnalato perché si tratta di un contributo critico recente e in qualche misura rappresentativo delle tendenze ultime in argomento – è l’articolo di un giovane neo-alfierista dal titolo di per sé eloquente, Per una nuova considerazione del petrarchismo delle Rime alfieriane, dove attraverso l’esibizione di una ricca e in più luoghi originale campionatura di esempi (per quanto unilateralmente impiegati) si asserisce che il legame stabilito da Alfieri con il modello trecentesco «travalica soltanto in minima parte il mero aspetto stilistico, configurandosi in tal modo quale contiguità retorico-formale piuttosto che spirituale»16. La prospettiva critica tradizionale, oscillante tra forma e spirito, ne esce fin troppo radicalizzata, azzerando la pur confortata tesi che riconosce entrambe le componenti attive e cooperanti all’ispirazione alfieriana, per quanto non nella maniera candida e disarmata che certe confessioni della Vita vorrebbero accreditare. Questo è insomma il dilemma interpretativo posto dalle Rime in relazione alla componente petrarchesca e un contributo alla discussione potrebbe oggi venire dall’affrontare altre due questioni di quelle che si è detto ancora aperte in merito al petrarchismo di Alfieri. A porle sono un paio di manoscritti che sembrano poter dare suggerimenti al riguardo: il primo è conosciuto come Estratto di Petrarca. 1776 e documenta quel lavoro di comprensione e assimilazione dei Rerum vulgarium fragmenta che, come per lo studio degli altri autori d’elezione (Dante, Ariosto, Tasso), Alfieri ha raccontato nella Vita ricorrendo all’eloquente metafora dell’«invasamento», convinto com’era che sarebbe venuto il giorno in cui «tutte quelle forme, frasi, e parole d’altri», introiettate con il furore e l’approssimazione del neofita, gli sarebbero poi fuoriuscite «dalle cellule» del cervello, «miste e immedesimate coi suoi propri pensieri ed affetti»17. Il secondo manoscritto è una copia di mano di Luisa

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M. Fubini, Petrarchismo alfieriano, cit., p. 83. A. Vigiani, Per una nuova considerazione del petrarchismo delle Rime alfieriane, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Macerata», XXXV, 2002 [ma 2003], pp. 507-26: la citazione è a p. 507. 17 Vita, IV, 2, p. 196. 16

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Laura Melosi

Stolberg contessa d’Albany di una parte dei sonetti alfieriani del 1783. L’apografo, dal titolo completo Sonetti di Psipsio Copiati da Psipsia in Genzano / il dì diciassette ottobre 1783 Anno disgraziato / Per tutti due, è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, fino a poco tempo fa nel generale disinteresse degli studiosi di Alfieri, che di recente hanno invece potuto vederlo (o meglio rivederlo) esposto nella mostra della Biblioteca Laurenziana Il Poeta e il Tempo, nonché presentato nel relativo catalogo18.

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2. Estratto di Petrarca. 1776 Si sapeva dell’esistenza di questo postillato dal commento di Niccolò Giosafatte Biagioli alle Rime petrarchesche, uscito a Parigi nel 1821 e poi ripubblicato a Milano, da Silvestri, nel 182319. Nell’Avvertimento al primo tomo dell’edizione milanese, Biagioli dichiarava di aver arricchito il suo lavoro con note di lettura alfieriane, affidate ad un manoscritto datato 1776 e denominato da mano ignota «Studj di Vittorio Alfieri sul Petrarca», ma da Alfieri stesso indicato con il termine di «Estratto» nel margine superiore della prima carta e in almeno un luogo del Rendimento di conti da darsi al tribunal d’Apollo 20. Venutone in possesso, Biagioli lo esibiva nel suo Comento storico e letterario alle Rime: Il grande Alfieri ha fatto per suo studio uno estratto delle bellezze del Petrarca, sì come fece per Dante. Questo prezioso monumento, scritto intero di man propria d’Alfieri, offertomi a mio grand’agio dall’egregio sig. Thiébaut de Berneaud, l’uno de’ bibliotecari della Mazzariniana e dell’Instituto di Francia (e l’ebbe in caro dono da Alfieri medesimo suo amico) sta in presente in mia

18 Il Poeta e il Tempo. La Biblioteca Laurenziana per Vittorio Alfieri. Catalogo della mostra (Firenze, 8 ottobre 2003-11 gennaio 2004), a cura di C. Domenici, P. Luciani, R. Turchi, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, 2003. La scheda è la n° 68 ed è stata redatta da Laura Ghidetti. Va detto che il manoscritto era già stato esposto una prima volta nella Mostra degli autografi di Vittorio Alfieri che la stessa biblioteca fiorentina aveva allestito in occasione del primo centenario della morte dell’autore (se ne veda il catalogo, Prato, Tip. Giachetti, 1904, alle pp. 12-3). 19 Rime di F. Petrarca, col comento di G. Biagioli, Parigi, Dondey-Duprè, 1821, 3 voll.; poi Milano, Silvestri, 1823, 2 voll. 20 «1776. Torino, Pisa, Firenze. […] principiato a ricopiar Dante, e Petrarca, a guisa d’estratti». Ancora l’anno seguente: «1777. […] In tutto marzo, finito di tradurre l’intero Sallustio, e di ricopiar Dante quasi intero, e del Petrarca gran parte» (Rendimento di conti da darsi al tribunal d’Apollo, in V. Alfieri, Vita, cit., vol. II, p. 260).

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«Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani

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mano, ed è mia proprietà. V’ha in questo MS. molte note e critiche, fatte e scritte in margine dall’Alfieri; e di tutte queste cose ho io arricchito la presente edizione, ed offro ad ogni curioso di poter avverare tutto quello che io dico 21.

È infatti sulla base di questa edizione che fino ad anni non lontanissimi gli studiosi delle Rime hanno potuto formulare le loro considerazioni in merito alle postille alfieriane. Ma chi si è messo sulle tracce del manoscritto si è imbattuto in una vicenda piuttosto complicata e che tuttora non è giunta a completa chiarificazione, nonostante un contributo di Carla Doni del 1987 abbia aggiunto nuovi particolari alla conoscenza dei fatti, e successivamente Guido Santato sia tornato ad occuparsene22. L’Estratto di Petrarca si trovava probabilmente fra le carte e le proprietà confiscate ad Alfieri al momento della sua precipitosa fuga da Parigi, nell’agosto del 1792. Con modalità non troppo dissimili da quelle che sono state ricostruite circa l’affaire Ginguené (la discussa proposta di restituzione ad Alfieri di parte dei suoi libri parigini23), nel manoscritto dovette imbattersi un altro letterato francese, Arsène (o Arsènne) Thiébaut de Berneaud, che tentò non di ‘restituirlo’ ma di ‘venderlo’ («s’en defaire conveneblement») a Fabre

21 G. Biagioli, Avvertimento a Rime di F. Petrarca, cit., pp. IX-X. In nota: «Questo ms. s’intitola così: Studj / di / Vittorio Alfieri / sul / Petrarca / 1776». 22 Cfr. C. Doni, Dalla «poesia negata» alla «poesia ritrovata» (Vittorio Alfieri e i Rerum vulgarium fragmenta), in «Quaderni petrarcheschi», IV, 1987, pp. 287-329; G. Santato, Romanzesche vicende di due manoscritti alfieriani, in «Levia Gravia», III, 2001, pp. 5-15, in particolare le pagine conclusive. 23 Alfieri formula apertamente nella Vita, IV, 26, il sospetto che Ginguené si fosse appropriato della gran parte dei suoi libri lasciati a Parigi e confiscati dalle autorità francesi. La lettera con cui il 4 giugno 1798 Ginguené gli proponeva la restituzione di un centinaio di tomi, ma a parere di Alfieri «di tutti gli scarti delle più infime opere italiane», a fronte dei «mille seicento volumi almeno» di «classici italiani e latini» che avevano costituito la sua biblioteca parigina, anziché confortarlo aveva radicato in lui quella convinzione (la lettera si legge in V. Alfieri, Vita, cit., vol. I, pp. 314-6, in nota; segue la risposta di Alfieri dell’11 giugno). A questo riguardo, la pubblicazione dell’autobiografia alfieriana doveva sollevare non pochi strascichi polemici, come testimonia la stampa da parte dello stesso Ginguené delle Lettres de P.-L. Ginguené membre de l’Institut de France à un Académicien de l’Académie de Turin sur un passage de la Vie de Vittorio Alfieri, Paris, de l’Imprimerie de B. Colas, 1809. Sui rapporti tra Alfieri e Ginguené si vedano gli articoli di L. Neppi Modona, Note di Pierre-Louis Ginguené alla Vita di Vittorio Alfieri, in «Studi francesi», IX, 1965, pp. 62-75 e di S. Zoppi, Ginguené e Alfieri, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLI, 1969, pp. 553-70, in particolare pp. 567-70. Sull’intera vicenda fornisce nuovi e importanti particolari C. Del Vento, «Io dunque ridomando alla plebe francese i miei libri, carte ed effetti qualunque». Alfieri émigré a Firenze, in Alfieri in Toscana, cit., vol. II, pp. 491-578, alle pp. 500-2.

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per mezzo del segretario di questi, Blanc, futuro direttore della Bibliothèque Municipale di Montpellier, dichiarando di averlo ricevuto in dono da Alfieri in persona per l’intimità che si era tra loro stabilita negli ultimi mesi di vita dell’autore. Ecco quanto Thiébaut de Berneaud scriveva a Blanc in una lettera pubblicata da Mazzatinti:

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Quoique je tienne ce précieux manuscrit des mains d’Alfieri qui me le donna durant mon séjour à Florence en 1802, époque à la quel j’eus le bonheur de le voir presque journellement, et de vivre dans son intimité, je consentirais à m’en désaisir si je trouvais à m’en defaire conveneblement 24.

A quanto pare, Thiébaut de Berneaud aveva avuto davvero l’occasione di conoscere Alfieri il 6 febbraio 1803 (e non nel 1802)25. Nel giro di poche settimane il grande tragico lo avrebbe gratificato della sua amicizia e gli sarebbe stato prodigo di libri e autografi: un’edizione delle tragedie, due manoscritti di opere politiche, la minuta della lettera a Luigi XVI che accompagnava l’omaggio del Panegirico di Plinio a Traiano e per finire un «petit cahier – così sembra si fosse espresso Alfieri – qui vous aidera à mieux sentir la richesse de la langue italienne». Circa il contenuto: «il renferme mes études sur Petrarca; je l’ai écrit en 1776»26. Se rapportato alle consuetudini di Alfieri sullo scorcio della sua esistenza, questo modo di agire appare quantomeno singolare; di fatto, in dubbio sulla buonafede del proponente27, l’offerta venne declinata da Blanc, ma l’accettò nel 1821 per l’appunto Biagioli, che

24 G. Mazzatinti, Le carte alfieriane a Montpellier, in «Giornale storico della letteratura italiana», III, 1884, pp. 337-85: p. 351. 25 È lui stesso ad attestarlo in una memoria manoscritta intitolata Alfieri. Rélations de cet homme illustre avec l’auteur du présent Recueil, parzialmente riprodotta in A. Lumbroso, Deux lettres historiques. V. Alfieri à Louis XVI. O. Feuillet à Napoleon III, Roma, Tip. del Senato, 1898. 26 Dalla memoria di Thiébaut de Berneaud citata alla nota precedente (la citazione è alle pp. 18-9 dell’opuscolo di Lumbroso). Aggiunge in nota l’autore: «J’ai fait cadeau, dans l’année 1821, de cet autographe au professeur Biagioli. Il le dit [à] p. XXXII du 1er volume de sa belle édition in-8° des Rime di Petrarca col commento di G. Biagioli». 27 Mazzatinti ritiene che Fabre fosse convinto trattarsi di un’indebita appropriazione di carte da parte di Thiébaut de Berneaud, manoscritti confiscati a Parigi insieme con i beni di Alfieri e della contessa d’Albany e millantati per dono dell’autore. Ritiene inoltre che non tutti gli autografi alfieriani in possesso di Thiébaut de Berneaud fossero stati offerti a Blanc, temendo che «dal buon numero di quelle carte apparisse la loro non legittima derivazione e si potesse dubitare della soverchia generosità dell’Alfieri che avrebbe donato a un amico tanti autografi per affettuoso ricordo» (G. Mazzatinti, Le carte alfieriane a Montpellier, cit., p. 351).

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acquistò l’autografo forse senza porsi troppe domande sulle reali circostanze della sua provenienza nelle mani del venditore; il quale nel frattempo era divenuto conservatore della Bibliothèque Mazarine, ma si era astenuto dal depositare presso questo istituto tutte le preziose carte alfieriane di cui disponeva.Verosimilmente alla morte di Biagioli, nel 1830, l’autografo passò al duca di Devonshire, e a Chatsworth, nella collezione di famiglia, è rimasto fino al febbraio del 1982, quando è andato all’asta da Christie’s a Londra facendo perdere le tracce di sé28. Una copia xerografica delle 56 fotografie dell’Estratto è a disposizione degli studiosi presso la Fondazione Centro Studi Alfieriani di Asti, dove si trova inventariata al n° 3373. Superfluo dire che un’edizione critica delle 112 pagine del fascicolo in cui Alfieri ha trascritto in tutto o in parte 169 liriche di Petrarca, apponendovi 292 osservazioni a margine, sarebbe, più che utile, necessaria29. Intanto perché la riproduzione meccanica non fornisce alcuna indicazione sulla cronologia del commento rispetto alla trascrizione dei versi, se cioè ci sia stata contemporaneità tra le due operazioni o non si possa piuttosto delineare una stratigrafia interna alle annotazioni30. L’edizione dell’Estratto verrebbe poi finalmente a colmare la lacuna di una riproduzione chiara, ordinata e integrale delle annotazioni, perché coloro che fino ad ora se ne sono interessati non le hanno descritte nella loro totalità. Raimondi e Branca non potevano farlo, avendo lavorato sull’edizione di Biagioli che, oltre ad offrire una versione non completa delle postille, non le ha neppure pubblicate in modo corretto, compiendo diversi errori di trascrizione e in qualche caso addirittura inven-

28 Cfr. W. J. Van Neck, Saul. Testimonianze e curiosità, in «Annali alfieriani», III, 1983, p. 157, per la descrizione dell’autografo: ALFIERI (VITTORIO): «ESTRATTO DI PETRARCA 1776» AUTOGRAPH MANUSCRIPT containig extracts from Petrarch’s Sonnets 1-135 and Canzone 2-33, and, in the margins Alfieri’s observations and notes in Italian, many of the sonnets transcribed in full, in ink, including a title page 58 leaves (4 pp. blank, one line of text trimmed at foot), contemporary half calf, Devonshire monogram at head of spine, 8vo, 1776. Delle informazioni sulla nuova destinazione del manoscritto, promesse in tale sede, non si è più avuto notizia. 29 Lo ha preliminarmente dimostrato l’ampio contributo di C. Doni, Dalla «poesia negata» alla «poesia ritrovata», cit., che si basa comunque sulla riproduzione xerografica e non sull’autografo. 30 La prima applicazione sistematica di Alfieri sulle rime petrarchesche risale al 1775, come si legge nella Vita, IV, 1, pp. 186-7: «e così tutto il Tasso, la Gerusalemme; poi l’Ariosto, il Furioso; poi Dante senza commenti, poi il Petrarca, tutti me gli invasai d’un fiato postillandoli tutti, e v’impiegai forse un anno». All’altezza del 1776 Alfieri poi dichiara: «il Petrarca e Dante nello spazio di quattr’anni lessi e postillai forse cinque volte» (Vita, IV, 2, p. 190).

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tando di sana pianta note inesistenti nell’Estratto31. Carducci e Ferrari, nel loro commento al Petrarca del 1899, tennero in considerazione le osservazioni di Alfieri, ritenendole dettate «con molto gusto e con qualche annotazione acuta»32, e per questo indicarono sistematicamente le liriche da lui ricopiate per intero, o se solo in parte ne riportarono i versi. Ma anche loro si basavano sull’edizione Biagioli, e non c’è dubbio che per questa via le postille siano entrate nella tradizione dei commenti con molte riserve. Lo studio dell’Estratto ha portato significative novità in merito ad un problema a suo tempo sollevato da Branca, e cioè quale edizione delle rime Alfieri avesse effettivamente utilizzato per leggere e commentare Petrarca. L’ipotesi che l’autore tenesse sottomano l’edizione esemplata nel 1768 dal libraio parigino Marcel Prault sulla stampa padovana di Giuseppe Comino del 173233 è stata superata a favore dell’edizione cominiana stessa, nella quale è da riconoscere il primo dei due antigrafi dell’Estratto, presente nella biblioteca parigina dello scrittore. Il secondo antigrafo sarebbe l’edizione approntata da Muratori nel 1711 in Modena per Bartolomeo Soliani, nella nuova stampa del 1759 posseduta da Alfieri, come indica una nota posta sul foglio di guardia del volume in data 1776. Ma Alfieri consultò con certezza anche un’altra edizione, la Rovillio del 1574, di cui venne in possesso a Siena nel 1777, e almeno un altro commento oltre a quello muratoriano, opera di Giovanni Andrea Gesualdo34. Peraltro, al di là delle considerazioni che inducono a riconoscere in queste e non in altre edizioni che pure Alfieri ebbe nella sua biblioteca (descritta dal catalogo del 1783) quelle su cui lavorò, importa qui spostare l’attenzione sui commenti, perché è evidente che da essi, e in particolare da quello di Muratori, il postillatore trasse aiuti, nonché suggestioni, nello studio di Petrarca. Intuitivamente Raimondi ha sostenuto che «proprio al Muratori e al suo commento conducono […] le postille alfieriane al Canzoniere conservateci dal Biagioli: e le concordanze notevolissime di giudizio tra il poeta e l’erudito fanno persino 31 Per il confronto tra l’Estratto e la riproduzione delle postille nel commento di Biagioli si rinvia a C. Doni, Dalla «poesia negata» alla «poesia ritrovata», cit., pp. 298300. 32 «Vittorio Alfieri, ne’ suoi studi di lingua e poesia italiana, andò trascrivendo in certi quaderni quel che più gli piaceva del P. con molto gusto e con qualche annotazione acuta», G. Carducci, Prefazione a Le Rime di Francesco Petrarca di su gli originali, con il commento di G. Carducci e S. Ferrari, Firenze, Sansoni, 1899, p. XXXII; cfr. anche G. Santato, Romanzesche vicende di due manoscritti alfieriani, cit., p. 15 e n. 33 Cfr. V. Branca, La ricerca del linguaggio lirico, cit., pp. 49-50 n. 34 A queste conclusioni giunge C. Doni, Dalla «poesia negata» alla «poesia ritrovata», cit., pp. 300-8.

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pensare che il primo nella sua lettura ‘sperimentale’ tenesse presente le valutazioni e le distinzioni del secondo»35. Solo un esempio fra i numerosi proposti: il verso «Pace non trovo e non ho da far guerra» di RVF CXXXIV è postillato da Alfieri con la nota «da ammirarsi più che da imitarsi»36, osservazione in eloquente consonanza con una lunga tirata antibarocca di Muratori, che polemizza con «i begli Ingegni» del «Secolo passato prossimo» che non si limitavano a lodare la bellezza dei contrapposti di Petrarca, ma «cotanto perdutamente si rivolgevano ad imitarlo in questo, e a farsi scudo, e gloria della sua autorità seminando tutti i loro Componimenti di Contrapposti, […] massimamente in descrivere lo stato de gli amanti»: cosa che, osservava Muratori, «in que’ tempi di Gusto corrotto aveva un credito mirabile, ma oggidì per fortuna o gloria del buon Gusto, ove non sia con prudente riguardo e parsimonia, viene solennemente dileggiata da tutti i migliori»37. Con la tecnica scorciata che è tipica della scrittura alfieriana, la postilla testimoniata dall’Estratto condensa l’ampia digressione muratoriana in un precetto da mandare a memoria per non cadere in tentazione verseggiando in proprio. Un simile procedimento offre di per sé valide indicazioni sul carattere del commento di Alfieri: un commento allestito ad uso personale dello scrittore e non destinato al pubblico come quello leopardiano, a cui talora è stato accostato in maniera impropria, in virtù del contiguo avvicendamento storico dei due lavori lungo l’asse della tradizione esegetica petrarchesca. La natura delle postille alfieriane e la loro formulazione non pongono invece dubbi sul carattere privato e strumentale dell’Estratto: si tratta di annotazioni sul linguaggio lirico, di rilievi di carattere formale riferiti alla distribuzione della materia nelle quartine e nelle terzine di un sonetto o all’impiego della rima, di considerazioni intorno all’esordio e alla conclusione di un componimento, di studio dei mezzi tramite i quali Petrarca ottiene i suoi particolarissimi effetti musicali o costruisce le sue immagini più tipiche, di giudizi di lettura estemporanei e del tutto empatici. L’impressione generale è quella della parafrasi per l’esplicazione lessicale e sintattica e per la decodifica degli usi metrici, figurali e retorici petrarcheschi, muovendosi – e questo è il dato che conta – in base al proprio gusto personale, al fatto che certi versi vadano più o meno a genio al postillatore, in molti casi non risparmiando critiche ad un poeta che di lì a poco sarebbe stato eletto a nume tutelare.

35

E. Raimondi, La voce tragica nel registro petrarchesco, cit., p. 194. Alla p. 46 dell’Estratto. 37 E. Raimondi, La voce tragica nel registro petrarchesco, cit., p. 195. 36

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Le postille si infittiscono man mano che Alfieri procede nella trascrizione. Per avere un’idea del loro tenore, se ne propongono di seguito alcuni campioni, tratti dalla copia xerografica di cui si segue la numerazione delle pagine (56 in totale, avvertendo che ciascuna di esse riproduce due pagine dell’autografo alfieriano, indicate qui per comodità come f.s.=foglio sinistro, corrispondente al verso di una carta, e f.d.=foglio destro, corrispondente al recto della carta seguente)38. 1) Il sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi (RVF XC) è integralmente ricopiato a p. 29 f.d., con il numero di sequenza LXVIII. Al v. 4, «di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi» (ovvero di «vago lume»), Alfieri sente il bisogno di segnare come promemoria «per malattia» di Laura. Più oltre, il v. 12 «Uno spirto celeste, un vivo sole», allegorie di Laura, è glossato a margine con l’aggettivo «Divino», spiegazione semantica e non giudizio estetico. 2) Il sonetto Perseguendomi Amor al luogo usato (RVF CX), trascritto con il numero LXXXVI a p. 34 f.s., è glossato al v. 11, «che i raggi, ov’io mi struggo, eran presenti», con la nota esplicativa «gli occhi di Laura». 3) Interessante la chiosa alla canzone Perché la vita è breve (RVF LXXI), riprodotta integralmente con il numero XVIII alle pp. 21-23 dell’Estratto. Ai vv. 97-101, «Fugge al vostro apparire angoscia et noia, / et nel vostro partir tornano insieme. / Ma perché la memoria innamorata / chiude lor poi l’entrata, / di là non vanno da le parti extreme», Alfieri appone il laconico ma efficace commento «non penetrano tanto addentro come prima di vedervi», intendendo angoscia e noia. 4) Nel sonetto Come talora al caldo tempo sòle (RFV CXLI), che figura per intero alla p. 49 f.d. con il numero CIX, ai versi delle terzine («E veggio ben quant’elli a schivo m’ànno, / e so ch’i’ ne morrò veracemente, / ché mia vertù non pò contra l’affanno; // ma sì m’abbaglia Amor soavemente, / ch’i’ piango l’altrui noia, et no ’l mio danno; / et cieca al suo morir l’alma consente») sono apposte due chiose: la prima, «mio valore contro l’affanno di vedermi sprezzato», spiega il senso del v. 11; la seconda, «la noia di Laura, non i miei danni», chiarisce l’identità del referente del v. 13. Frequenti sono le postille che fermano l’attenzione sulla tecnica della versificazione petrarchesca e in particolare sul gioco delle rime: 1) il madrigale Non al suo amante più Dïana piacque (RVF LII), riprodotto con la specifica di «canzone X» alla p. 16 f.d. dell’Estratto, è così chio-

38 Per le citazioni petrarchesche ci si avvale dell’edizione del Canzoniere, testo critico e introduzione di G. Contini, annotazioni di D. Ponchiroli, Torino, Einaudi, 1964.

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sato: «questa è divina, e sarebbe ottava, se non fosse del quinto verso», andando a sottolineare l’interferenza della rima del v. 5, ripresa ai vv. 7-8, all’interno di quella che avrebbe potuto essere una più che regolare sequenza a rima alternata e chiusa a rima baciata, come nella più classica delle ottave, mentre qui lo schema metrico risulta del tipo ABA BCB CC (lo stesso accade anche per Or vedi, Amor, che giovenetta donna, RVF CXXI, p. 37 f. d., analogamente postillato da Alfieri «madrigale più che canzone»). 2) Il sonetto Quando fra l’altre donne ad ora ad ora (RVF XIII), trascritto integralmente a p. 4 f.s. con il numero XII, reca la nota a margine: «son particolari le rime delle terzine», che in effetti seguono il non consueto schema CDD DCC39. 3) Del sonetto Io son già stanco di pensar sì come (RVF LXXIV, p. 26 f.s.) Alfieri ricopia i vv. 1-2, 6, 8, ma soprattutto 10-11, 13 secondo emistichio e 14, notando cioè in particolare le rime delle terzine (lassi : parte : passi, e ancora carte : fallassi : arte). E vien da dire che tanto accortamente le ha notate da ricordarsene nel sonetto XCVI delle sue Rime: «Certo a me non l’ingegno, e meno l’arte, / Ministran voci a ragionar d’amore / Col pianto più, che coll’inchiostro, in carte». 4) Anche nell’altro sonetto Ahi bella libertà, come tu m’ài (RVF XCVII), trascritto per intero a p. 31 f.s., la postilla raccomanda «nota le rime della terzina» (sprona : come : persona). Ci sono poi i commenti che risentono del teorema stilistico del sonetto in chiusa ascendente caro al Muratori40: 1) il verso conclusivo del sonetto La donna che ’l mio cor nel viso porta (RVF CXI), integralmente trascritto tra la fine del f.s. e l’inizio del f.d. di p. 34, «che duol non sento, né sentì’ ma’ poi», è reputato da Alfieri «duro fine». 2) La terzina seconda di Amor, che nel penser mio vive et regna (RVF CXL), anch’esso integralmente trascritto tra la fine del f.s. e l’inizio del f.d. di p. 49, «Che poss’io far, temendo il mio signore, / se non star seco infin a l’ora extrema? / Ché bel fin fa chi ben amando more», reca la nota a margine: «inutile e ripete il già detto».

39 Presente una sola volta in Petrarca, come ha rilevato Roberto Fedi nella sua analisi delle affinità metriche fra i sonetti alfieriani della Parte prima e i sonetti del Canzoniere (cfr. Le Rime, in Letture alfieriane, a cura di G. Tellini, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana-Edizioni Polistampa, 2003, pp. 69-84). 40 Le ha notate anche Raimondi, La voce tragica nel registro petrarchesco, cit., pp. 199-200.

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Il fatto stesso che Alfieri trascriva per intero i componimenti o ne annoti solo alcuni versi è di per sé un esercizio critico. Ne sono eloquente dimostrazione: 1) il sonetto L’arbor gentil che forte amai molt’anni (RVF LX, p. 18 f.d.), annotato nei soli vv. 8-9 e nella seconda terzina: il tutto glossato a margine con le parole «del lauro di Laura freddura», che valgono come spiegazione ma anche come giudizio critico negativo. 2) Il sonetto Amor m’ha posto come segno a strale (RVF CXXXIII, p. 46 f.d.), incompleto anche nella riproduzione dei versi delle terzine annotate («I pensier’ son saette, e ’l viso un sole, / e ’l desir foco: e ’nseme con quest’arme / mi punge Amor, m’abbaglia et mi distrugge; // et l’angelico canto et le parole, / col dolce spirto ond’io non posso aitarme, / son l’aura innanzi a cui mia vita fugge»), così glossate a margine: «concetto, che anche bene espresso, sarebbe pur sempre una freddura». 3) Del sonetto Per mirar Policleto a prova fiso (RVF LXXVII, p. 26 f.d.) compaiono nell’Estratto solo le due quartine, con la glossa a margine «benché Policleto mill’anni mirasse a prova cogli altri» riferita alla prima, e la seguente «Simone pittore la vide e la pinse in paradiso prima di farsi uomo: idea alquanto ricercata» riferita alla seconda. Nota, tra l’altro, Biagioli riguardo al commento di Alfieri: Benché Alfieri, il grande Alfieri, ponesse qua e là alcune postille, non creder già ch’ei credesse che fossero per comparir mai in luce; però non è da meravigliarsi se pigliò qui tal granchio smisurato, quale non si vide mai. Avrei lasciata da parte questa sua postilla, ma non è male che si vegga come i più sommi si possano ingannare quando si lasciano trascorrere a quello che non è di loro pertinenza. Alfieri e i suoi pari hanno a poetare, e non a postillare; questa seconda fatica s’aspetta a noi, che non sapremmo far altro41.

In generale, a poco serve lamentare che l’Alfieri del postillato petrarchesco non sente la poesia, che nulla concede alle digressioni psicologiche delle liriche annotate e poco si appassiona alla fenomenologia amorosa in esse tanto insistentemente descritta42: non era questo lo scopo del commento in anni in cui la competenza tecnica alfieriana era ancora debole e l’aspirazione alla scrittura poetica sortiva al massimo in «rimerie (che poesie non ardirò di chiamarle)»,

41

Rime di F. Petrarca, vol. II, cit., p. 122. Non per nulla si è parlato di «poesia fraintesa» a proposito della lettura petrarchesca di Alfieri (C. Doni, Dalla «poesia negata» alla «poesia ritrovata», cit., p. 309 e sgg.). 42

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come dichiara l’autore all’inizio dell’Epoca quarta della Vita43. Fa eccezione il trattamento del tema della malinconia, con il quale già in questa fase del suo itinerarium ad Petrarcham Alfieri si scopre consentaneo, tanto da chiosare la seconda quartina del sonetto Poi che ’l camin m’è chiuso di Mercede (RVF CXXX) «Pasco ’l cor di sospir’, ch’altro non chiede, / e di lagrime vivo a pianger nato: / né di ciò duolmi, perché in tale stato / è dolce il pianto più ch’altri non crede», con un entusiastico «divina» (nell’Estratto XCIX, p. 45 f.d.). Quest’ultimo rilievo, proprio perché tocca una nota intima del poeta in consonanza con l’animo petrarchesco, introduce l’argomento del secondo manoscritto annunciato, l’inedito apografo dei cosiddetti sonetti alfieriani ‘della lontananza’. 3. Sonetti di Psipsio copiati da Psipsia «Il dì quattro di Maggio dell’anno 1783, che sempre mi sarà ed è stato finora di amarissima ricordanza, io mi allontanai adunque da quella più che metà di me stesso», scrive Alfieri nella Vita 44. Due mesi prima erano peggiorate le condizioni di salute di Carlo Edoardo Stuart, legittimo consorte della d’Albany, e i colloqui al suo capezzale, a Firenze, con il fratello cardinale Enrico di York, che fino a quel momento aveva concesso la sua protezione alla cognata, avevano sollevato lo scandalo sulla condotta della contessa45. La partenza da Roma, l’abbandono del «degno amore» e della laboriosa quiete di Villa Strozzi, per salvaguardare l’onore della contessa, gettano Alfieri in una cupa malinconia, dalla quale riesce a distrarsi solo con l’esercizio assiduo della comunicazione epistolare: Ma io frattanto, menomate o sopite in me tutte le mie intellettuali facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, che lo scrivere lettere […]: io sfo-

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Vita, IV, 1, p. 180. Vita, IV, 10, p. 237. 45 Alla separazione dei due amanti non fu estraneo papa Pio VI, da quanto si ricava da una lettera della d’Albany al cardinale di York: «Secondo il consiglio che mi avete dato […] ho indotto il conte Alfieri a lasciar Roma […]. Guardate, quante pene mi avreste risparmiato, ove, secondo che pel passato, si era convenuto fra noi, a me sola aveste comunicato le vostre intenzioni – ove non vi foste indirizzato, senza verun bisogno, al Papa; in una parola, ove in un moto subitaneo non vi foste lasciato andare a un procedere, il quale, me ne appello al vostro buon cuore, a quest’ora non ci può parere esser stato conveniente verso di me, tanto perché sono vostra cognata, quanto perché sono quella che sono» (riprodotta da E. Del Cerro, Vittorio Alfieri e la Contessa d’Albany, storia di una grande passione, Roma-Torino, Casa editrice nazionale Roux e Viarengo, 1905, pp. 70-1). 44

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gava il dolore, l’amicizia, l’amore, l’ira e tutti in somma i cotanti e sì diversi, e sì indomiti affetti d’un cuor traboccante, e d’un animo mortalmente piagato46.

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L’altra via di fuga è la poesia, il dischiudersi di «una nuova copiosissima vena delle rime affettuose»47, che quasi quotidianamente induce Alfieri a comporre liriche che si «affacciano con molto impeto e spontaneità alla sua agitatissima fantasia». Lettere e poesie si pongono dunque come aspetti formali distinti della stessa esigenza di sfogo, e non è un caso che nelle rime alfieriane sia stato riconosciuto una sorta di memoriale avantestuale della prova autobiografica più riuscita, avvicinando così l’esperienza poetica alle scritture dell’io48. Nella realtà, epistole e sonetti dovettero davvero correre insieme per le poste49, partendo dai luoghi del nuovo pellegrinaggio alfieria-

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Vita, IV, 10, p. 238. La prima fase della produzione lirico-amorosa per la d’Albany va infatti ricondotta alla primavera del 1778: «Andava anche scrivendo alcune rime d’amore, sì per lodare la mia donna, che per sfogare le tante angustie in cui, attese le di lei circostanze domestiche, mi conveniva passare molt’ore. E hanno cominciamento le mie rime per essa, da quel sonetto (tra gli stampati da me) che dice: Negri, vivaci, in dolce fuoco ardenti; dopo il quale tutte le rime amorose che seguono, tutte sono per essa, e ben sue, e di lei solamente, poiché mai d’altra donna per certo non canterò. E mi pare che in esse, (siano con più o meno felicità ed eleganza concepite e verseggiate) vi dovrebbe pure per lo più trasparire quell’immenso affetto che mi sforzava di scriverle, e ch’io ogni giorno più mi sentiva crescere per lei; e ciò massimamente, credo, si potrà scorgere nelle rime scritte quando poi mi trovai per gran tempo disgiunto da essa» (Vita, IV, 7, pp. 218-9). 48 Nota Branca al riguardo: «Il rapporto, a prima vista così suggestivo, tra la Vita e le Rime […] è […] un rapporto insolitamente rovesciato proprio per la prepotenza dell’esigenza lirica: la notazione in versi, la trasfigurazione degli episodi ha preceduto la narrazione autobiografica. Non si può respingere l’impressione che l’Alfieri, quando volle narrare di sé in prosa, abbia trovato, nelle Rime e nelle note che le accompagnano, una traccia generale e suggestive filigrane particolari» (Alfieri poeta dell’interiorità fra lirica e tragedia, cit., pp. 12-3). Si legga anche quanto scrive Binni: «In realtà le Rime, mentre costituiscono indubbiamente un completamento essenziale della autobiografia dell’Alfieri, un documento delle sue vicende dolorose e del suo animo tormentato dai diversi sentimenti legati a precise occasioni, hanno un valore, anche in tal senso, più profondo, evocando, sulla spinta delle varie occasioni, immagini profonde del suo animo poetico e del suo più intimo autoritratto (ed elemento caratteristico delle Rime è l’analisi acuta e tormentosa di se stesso, la volontà di autoritratto)» (La prima parte delle Rime alfieriane, cit., p. 214). 49 Dell’uso alfieriano di inviare ai corrispondenti epistolari i propri componimenti poetici è ad esempio testimonianza la lettera a Ottavio Falletti di Barolo del 14 luglio 1783, proprio per i due sonetti petrarcheschi di Arquà: «Au défaut du Sonnet Piémontais, si je ne m’en souviens pas entièrement, je vous en envoye deux Italiens que j’ai fait à Arqua au tombeau du Pétrarque; ils n’ont d’autre mérite que d’être faits sur l’endroit par un de vos amis, et c’est pour cela que je vous les envoye» (V. Alfieri, Epistolario, vol. I, cit., p. 155). 47

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no (l’Italia settentrionale, Siena, la Francia meridionale) per raggiungere la destinataria lontana che di quelle tracce sentimental-esistenziali seppe cogliere, oltre al valore affettivo, anche l’indubbia importanza letteraria. Per questo nell’autunno del 1783 si pose a ricopiare le liriche a lei indirizzate, nell’ambito di quel programma di esercitazione linguistica ed interpretativa che nello stesso periodo la portava a tradurre il Filippo in francese e a comparare l’Oreste con la tragedia omonima di Voltaire50. Tale è la genesi del manoscritto dei Sonetti di Psipsio Copiati da Psipsia, trascrizione delle liriche alfieriane composte fra il maggio e il novembre del 1783, quasi tutte d’argomento amoroso e ispirate dal terzo allontanamento di Alfieri dalla d’Albany. Corrispondono, con qualche non casuale lacuna51, alla sezione LII-XCVIII della Parte prima delle Rime, anche se la sequenza ne risulta profondamente alterata, come si avrà modo di osservare più avanti. Questo gruppo di sonetti si caratterizza per una sostanziale compattezza, data dal fatto di presentarsi come una sorta di “diario lirico” dell’ennesimo, questa volta coatto vagabondaggio alfieriano. Binni lo ha definito «un ciclo poetico intenso e continuo» dal punto di vista dell’ispirazione52; si aggiunga, un ciclo poetico di insistita, per certi versi esasperata referenzialità letteraria, perché qui Alfieri ci tiene in maniera particolare ad esibire il patronage della tradizione lirica maggiore sotto cui ha voluto collocarsi. Come intendere altrimenti i sonetti d’apertura, ispirati dal mini tour alle tombe dei grandi poeti italiani – prima quella di Dante a Ravenna, poi quella di Petrarca ad Arquà e infine quella di Ariosto a Ferrara – che il poeta non perde l’occasione di celebrare? Nel generale sconforto che gli deriva dal vedere i «funerei marmi» privi di onori adeguati, il moderno discepolo dei vati rende omaggio all’«Italo Omero» cantore di donne, cavalieri, armi e amori, si rivolge al «grande padre Alighier» per riceverne un sostegno morale nella battaglia che sta combattendo contro «invidia e viltà» degli uomini, ma è solo dal «Cigno

50 Per questi due lavori della d’Albany, che gettano luce sui rapporti intellettuali intercorsi fra Alfieri e la sua donna, cfr. più avanti la n. 59. La Vita rende nota l’insistenza del poeta affinché la d’Albany acquisisse la padronanza della lingua italiana: «A poco a poco pure spuntai, che l’amata imparasse perfettamente l’italiano sì per leggere che per parlare; e vi riuscì quanto e più ch’altra mai forestiera che vi si accingesse […]. Ma per quanto la mia donna non parlasse tosto altra lingua con me, tuttavia la casa sua sempre ripiena di oltramontaneria era per il mio povero toscanismo un continuo martirio…» (IV, 6, p. 217). 51 Le esclusioni hanno motivazione prettamente tematica: si tratta, infatti, dei sonetti LXVIII (sul non ricevere lettere dall’amata), LXIX (sul conseguente volgere gli occhi a un’altra donna: Alba Corner Vendramin), LXX (sul cavallo Fido) e LXXVI (deprecazione di Genova). 52 W. Binni, La prima parte delle Rime alfieriane, cit., p. 224.

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di Sorga» che impetra protezione e ispirazione nella difficile arte lirica. Quella a Petrarca del sonetto LIX è un’invocazione alla maniera classica al dio della poesia, non in spoglie apollinee, ma nelle vesti ben reali dell’autore dei Rerum vulgarium fragmenta53; una divinità con la quale Alfieri, per di più, condivide l’esperienza biografica profonda del tormento amoroso: LIX

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È questo il nido, onde i sospir tuoi casti, Cigno di Sorga, all’aure ivi spargendo? Qui di tua donna privo, in lutto orrendo, Del tuo viver l’avanzo a lei sacrasti? In quelle angosce, che sì ben cantasti, Io pure immerso (ahi misero!) vivendo, Se di mio supplicar te non offendo, Vena ti chieggio che a narrarle basti. Quella, che sola in vita mi ritiene, È tal, che ai pregi suoi stil non si agguaglia; Onde, a laudarla, lagrimar conviene: Ma di quel pianto, che a far pianger vaglia; Di quel, con che scrivendo le tue pene, Muovi d’affetti tanti in noi battaglia.

Non c’è dubbio che il nume tutelare di questa sezione lirica sia proprio Petrarca: di fatto, essa accoglie i quattro sonetti composti di getto il 29 ottobre 1783 durante il secondo pellegrinaggio petrarchesco, questa volta nei luoghi provenzali del poeta, tra Avignone e Valchiusa; sonetti dove il riferimento al modello è evidente fin dall’incipit citazionale («Rapido fiume, che d’alpestre vena», «Chiare, fresche, dolci acque», amene tanto) e dove il parallelo Vittorio-Francesco si instaura con modalità esplicite, quasi mimetiche:

53 Tra l’altro citato in avvio riprendendo da RVF CCCXXI, È questo ’l nido in che la mia fenice.

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LXXXIV Ecco ecco il sasso, che i gran carmi al cielo Innalzan più, che la sua altera fronte. Quindi il bel fiumicel d’amore ha fonte, Sacro, a par del Castalio, al Dio di Delo.

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Nobile invidia, e ch’io perciò non celo, Qui mi punge in pensar, che al mondo conte Fea queste spiagge, e le bell’acque, e il monte, D’un amante cantor l’ardente zelo. S’io non men d’esso, e in non men chiaro foco Ardo, e cantando, in pianto mi consumo, Fama alla donna mia niegherà loco? Deh! se in tuo caldo verseggiar mi allumo, Gran cigno, e se al mio dire ognor t’invoco, Non di me, il vedi, ma in te sol presumo.

Addirittura nel sonetto LXXXVI si assiste ad un vero e proprio coup de théâtre degno dell’autor tragico, ovvero l’entrata in scena di Laura in persona, annunciata dal fulgore che si conviene ad una creatura celeste; Laura, che con solidarietà tutta femminile nei confronti di Luisa ha interceduto presso il suo cantore, ottenendo per il novello poeta d’amore il dono dell’unico stile degno di un così alto soggetto, lo stile dolce-sublime dei Fragmenta:

LXXXVI Non pria col labro desïoso avea Attinto un sorso della limpid’onda, Che una gran luce dalla opposta sponda, Maravigliosa agli occhi miei, sorgea. Donna era tal, ch’ogni fulgor vincea; E mi diceva, placida e gioconda: Nessuna mai per carmi a me seconda Fu, da che il mio cantor mi ha fatto Dea:

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Ma pur, tanta mi appar colei che accenni Nelle tue calde sospirose rime, Ch’io stessa vo’ sue laudi omai perenni.

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Pari al soggetto avrai dolce-sublime Lo stil, che in don dal vate mio ti ottenni, Con cui negli altri ei la sua fiamma imprime.

In altri casi il referente petrarchesco non appare dichiarato, ma svolge un’altrettanto evidente funzione ipotestuale, come è stato a più voci notato per il sonetto LXXXIX, Là dove muta solitaria dura, in chiara relazione con RVF XXXV, Solo et pensoso i più deserti campi. Composta presso la Certosa di Grenoble, fondata dal santo concittadino di Alfieri, l’astigiano Brunone, la lirica intreccia il motivo dell’aspirazione ad una monacale solitudine con quello del doloroso vagheggiamento d’amore. Alla maniera di Petrarca, che misura «a passi tardi et lenti» i luoghi più romiti, Alfieri, «a passo lento, per irta salita»54, si immerge in un paesaggio che è la proiezione stessa del suo animo, in senso – e qui sta la novità – già tutto romantico55. La “mestizia” alfieriana è un sentimento cupo che non corrisponde esattamente alla malinconia pacata e per certi versi idillica di Petrarca: e non c’è calco strutturale che tenga, come dimostra il parallelo tra la prima terzina di entrambi i sonetti, con l’enumerazione petrarchesca di confidenti «monti et piagge / et fiumi et selve», che in quello alfieriano diventano «orridi massi», «nere / selve», «cupi abissi» e «sonanti / acque» incapaci di mitigare, semmai di acuire, l’«amorosa cura» del poeta. Un formidabile scatto di originalità – traduzione di un vero e proprio acquisto conoscitivo – registra poi la chiusa alfieriana, per via dell’attestazione nell’estrema fase elaborativa della variante gioje in sostituzione dei precedenti e alternativi pianto, doglia, pene, tutti riferiti all’amore («Non d’intender tai gioje ogni uom si vanti»): gioie, ovvero dolori d’amore, più spiccatamente connotati del dolce/amaro petrarchesco per l’astrazione dalla topica scontata del lamento amoroso e il ricondursi, invece, alla consapevolezza sensistico-settecentesca del dolore/godimento, del piacere che si nutre di affanno, per dirla nei termini che saranno di Leopardi (per

54 Ma nella Vita «a passo tardo e lento» se n’era andato alla volta di Piacenza e Parma nel 1776 (IV, 2, p. 190). 55 Lo ha notato Binni (La prima parte delle Rime alfieriane, cit., p. 239).

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quanto nella sua teoria del piacere i due stati siano successivi, mentre in Alfieri sono simultanei)56. In sintesi, Alfieri vorrebbe stare a Petrarca come Luisa a Laura, ma la proporzione richiede qualche distinguo alla prova dei rispettivi canzonieri, e non solo per la diversa indole dei personaggi in gioco. Ha scritto Fubini che l’Alfieri lirico d’amore «non canta, nota»57, condensando in tale formula una lettura delle Rime che individua nell’aspetto cronachistico dell’ispirazione giorno per giorno l’origine e il limite di questa esperienza, ciò che la àncora al piano delle occasioni solo ed esclusivamente personali, impedendole di assurgere a quel ruolo di simbolo universale della condizione amorosa che è proprio dei Rerum vulgarium fragmenta. Il giudizio è fin troppo severo, ma Alfieri paga l’aver oltremodo insistito nell’imitazione petrarchesca e non per «l’ambizione di una poesia purissima e perfetta», bensì per «chiarire a se stesso il suo animo», dice ancora Fubini, prendendo a prestito le movenze formali di un altro poeta, per quanto espressione massima del genere lirico. Anche Luisa, in quest’ottica, resta una «figura della realtà quotidiana», senza una fisionomia poetica propria che la connoti rispetto alle altre donne della poesia amorosa d’ogni tempo. Eppure, di fronte all’apografo fiorentino dei sonetti della lontananza, vien da dire che la d’Albany riaffermi la sua identità, attraverso il passaggio dal ruolo di ispiratrice manieristica a quello altrimenti implicato con la poesia alfieriana di copista. E allora veniamo al manoscritto conosciuto con il titolo Sonetti di Psipsio Copiati da Psipsia in Genzano / il dì diciassette58 ottobre 1783 Anno disgraziato / Per tutti due, un fascicolo di 20 carte di mm 23x19, artigianalmente cucito con un robusto filo di seta verde che nell’attuale stato di conservazione mostra diversi punti di cedimento. È il risultato dell’assemblaggio di un bifolio (cc. 2-3) più un duerno (cc. 4-7) più un sesterno (cc. 8-19), il tutto raccolto all’interno di un ulteriore bifolio con funzione di copertina (c. 1, foglio di guardia – c. 20). A partire da c. 8r (la prima del sesterno) e fino a c. 13r (l’ultima scritta del sesterno) in alto a sinistra compare la numerazione autografa 51-56 che indica trattarsi di fogli residui di un altro fascicolo pre-

56 Sulle implicazioni di questa variante non si è forse riflettuto abbastanza. Branca ha parlato genericamente di un effetto di «intimità dolorosa» che si otterrebbe con la sostituzione lessicale di gioje ai termini precedenti (cfr. La ricerca del linguaggio lirico, cit., p. 76), ma a parer mio l’intento di Alfieri ha a che fare con l’edonismo paradossale ad esempio di un Parini, che leggendo le tragedie alfieriane aveva provato una «mista al terrore acuta voluttà» tutta settecentesca (Il dono, v. 24). 57 M. Fubini, Petrarchismo alfieriano, cit., p. 66 e sgg. 58 Corretto su diecesette.

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numerato, del quale non si è peraltro trovata traccia, almeno in questo nucleo di documenti della d’Albany acquistati presso la libreria antiquaria Gonnelli e ora conservanti alla Nazionale di Firenze con la segnatura N.A. 89359. I sonetti alfieriani sono trascritti con inchiostro color seppia più o meno diluito da c. 2r a c. 13v, tendenzialmente due per pagina con qualche eccezione (il n. 1 e il n. 2 campeggiano da soli rispettivamente a c. 2r e c. 2v; il n. 23, unico caudato, a c. 8r). Si è già osservato che le 43 liriche sono riprodotte nell’apografo secondo una sequenza diversa rispetto a quella dell’edizione Maggini delle Rime, che è sostanzialmente cronologica60. Dall’analisi delle peculiarità del manoscritto (inchiostro, pennino, cartulazione) non si ricavano elementi di consistenza tale da far luce sul criterio che può aver presieduto all’ordine della trascrizione, e l’unico dato incontrovertibile resta la numerazione progressiva apposta dalla copista sicuramente in coincidenza con la copia dei singoli sonetti, il che esclude l’ipotesi di un successivo montaggio del testo. Alla luce di questi elementi, risulta assai difficile rintracciare nell’apografo una logica testuale, ammesso che ce ne sia una: forse, inizialmente, può esser stata l’idea della d’Albany di allestire una corona di sonetti di patente modulazione petrarchesca, celebrativi di una passione contrastata e di se stessa come figura poetica, al pari per l’appunto di Laura. Il che spiegherebbe l’avvio sul sonetto LXVII Là dove solo un monticel si estolle, scritto «Per Psipsia sul luogo della sua Nascita» il 18 luglio, come specifica la nota a margine presente solo in questa redazione (si ricordi che in RVF è il sonetto IV, un componimento d’esordio, a celebrare la Caumont di Laura); il proseguimento con il sonetto LXVI Alta è la fiamma che il mio cuor consuma del 6 luglio, ritratto elogiativo dell’oggetto d’amore; e poi l’inserimento in blocco dei sonetti provenzali (dall’LXXXII al XC, con l’esclusione di due), quelli prima ricordati, composti fra Brignolles, Avignone, Valchiusa e la Certosa di Grenoble dal 26 ottobre al 2 novembre, che esibiscono rubriche del tipo «Psipsio essendo al Valchiusa», «Arrivando alla Valchiusa», «Andando alla Certosa di Grenoble» 59 Oltre al fascicolo contenente i sonetti in questione, con la stessa provenienza e collocazione si trovano in BNCF anche il già ricordato scritto della d’Albany Tragedia di Oreste di Psipsio paragonata con quella di Voltaire da Psipsia, datato «Roma, domenica 16 novembre 1783», e una traduzione del Filippo datata 27 (o 29) ottobre 1783 (su di essi cfr. M. Pagliai, Introduzione a V. Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, pp. 41-7). 60 Nella tavola in calce al testo i sonetti sono 44, considerando la duplicazione del XCIII ai numeri 10 e 46. La data è quella autografa, riportata da Maggini insieme alle note dell’autore. Nell’ultima colonna si sono trascritte le note alfieriane copiate dalla d’Albany nel suo apografo.

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assai prossime alla maniera titolativa dei petrarchisti quattrocenteschi nei loro canzonieri. Ancora fino al quindicesimo componimento ricopiato, la d’Albany segue il viaggio del suo uomo attraverso le tappe del Frejus, di Le Luc, di Brignolles e il ritorno in Provenza (sono i sonetti LXXVII-LXXXI, con anticipazione del XCIII di Lione), ma a questo punto il filo cronologico si riavvolge su se stesso, si arretra al mese di giugno e al primo pellegrinaggio petrarchesco, che come si è detto aveva portato Alfieri nella «cameretta» di Arquà e sulle tombe degli itali vati. La sequenza definitiva delle Rime, all’interno di tale nuova sezione, risulta continuamente alterata, ma pur sempre compresa entro due date estreme riconoscibili, il 28 maggio del sonetto contro i critici malevoli delle tragedie e il 16-17 agosto dei due sonetti sulla corsa del Palio a Siena. E con ciò si arriva all’ultima tranche di dieci componimenti, che stavolta riproduce in perfetta successione le liriche composte tra il 31 ottobre e il 30 novembre, siglata dal sonetto XCVII in cui si celebra non più la donna amata, ma l’impresa parigina del volo «sul globo o pallon volante»: altro tema eccentrico rispetto alla dominante sentimentale del ciclo. Ci si può chiedere se questo finale denunci un cambiamento d’intenti in corso d’opera da parte della d’Albany, ma pare più verosimile ipotizzare che la configurazione dell’apografo rispecchi l’estro momentaneo della copista in un lavoro protrattosi nell’arco di qualche settimana. Infatti il 17 ottobre, giorno indicato nel frontespizio del manoscritto, la d’Albany dovette dare soltanto inizio alla trascrizione, proseguendola almeno fino al ricevimento del sonetto che reca la data estrema del 30 novembre. Che la successione non sia stata premeditata lo dimostrano due errori di salto compiuti nella numerazione (dal numero 30 si approda direttamente al numero 40 e dal 46 al 48) e soprattutto la duplicazione del sonetto XCIII, Io vo piangendo, e nel pianger mi assale (al numero 10 e al numero 46 dell’apografo), lirica particolarmente adatta ad impressionare la destinataria per la tensione drammatico-elegiaca di cui è pervasa, dettata com’è da un desiderio di morte liberatrice che però comporterebbe anche la morte dell’amata o una sua ancor peggiore condizione esistenziale. Ma se nell’economia del manoscritto la doppia trascrizione può dirsi un incidente, per noi è una fortuna, perché le varianti concordi dei numeri 10 e 46 attestano la presenza di un antigrafo unico per il sonetto in questione, proprio quello che al v. 11 recava nome in luogo di fama, lezione non attestata dagli altri testimoni conosciuti della lirica. Oltre all’importanza semantica della correzione, il dato è rilevante perché certifica che le lectiones singulares testimoniate dall’apografo, quando non si tratti di riconoscibili abbagli ortografici o prosodici dovuti all’insicurezza linguistica e metrica della d’Albany, non sono iniziative della copista. Nell’apografo dei sonetti di Psipsio a Psipsia si contano in tutto una ven-

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tina di varianti sostanziali, alcune delle quali strettamente lessicali come quella appena citata (ad esempio densa per fera, 29; piangendo per stentando, 48; innalzarsi per alto poggiando ecc.); altre invece sono varianti di disposizione dei termini all’interno del verso, del tipo inversione fra aggettivo e sostantivo (di tempio antico per d’antico tempio, 30; lento passo per passo lento, 8) o fra forme avverbiali (pur me per me pur, 53) ecc. Non è infrequente, in questi ultimi casi, trovar traccia di un complesso e prolungato lavoro variantistico attorno agli stessi versi negli autografi delle Rime (il ms. 10 e il ms. 13 della Biblioteca Laurenziana), a ribadire il fatto che le incertezze erano tali fin dall’origine. Il resto delle varianti trasmesse dall’apografo si possono classificare secondo quattro categorie: 1) varianti di interpunzione, abbondantissime e non sempre coerenti; 2) varianti grafiche di trascrizione, dovute alla scarsa padronanza della lingua da parte della copista, particolarmente evidente nell’uso degli accenti, degli apostrofi e delle maiuscole, ma anche refusi (es. fort per forte, 45; altra per alta, 50); 3) errori di comprensione della lettera che talvolta attestano la lectio facilior (dipingesti per dispiegasti, 27; ch’io te non altro ardentemente amava per ch’io se non altro ardentemente amava, 3), altre volte non danno senso (io tera per intera, 27; Il Divin vate alla mia chiusa valle per Il divin vate alla sua chiusa valle, 4; Fama alla Donna mia niegherai loco per Fama alla donna mia niegherà loco, 5); 4) errori di percezione metrica che portano alla formulazione di versi ipermetri (E dei sonanti piedi il Cielo rimbomba, 42; Io vo piangendo, e nel piangere m’assale del sonetto 10, ma corretto nel 46 che lo duplica). In conclusione, pur con tutti i limiti filologici fin qui dichiarati, il testimone apografo dei sonetti di Psipsio a Psipsia fa parte di quella tradizione extravagante della produzione lirica di Alfieri di cui è stata auspicata l’emersione per documentare «nuovi momenti e nuove dinamiche» nella composizione delle Rime, in considerazione dell’«estremo ed eccezionale valore» dato da Alfieri «ad ogni minimo saggio del suo impegno elaborativo»61. Pertanto la valorizzazione di questo manoscritto – che del resto dovrebbe entrare di diritto a far parte di un’edizione critica correttamente impostata secondo il criterio della completezza della recensio – non potrà che portare un ulteriore, non superfluo contributo alla conoscenza e alla definizione del libro alfieriano delle Rime. Quanto poi al senso generale dell’operazione ‘psipsiesca’, essa illustra a meraviglia il significato del nesso che Alfieri sta-

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V. Branca, La ricerca del linguaggio lirico, cit., p. 21 n.

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«Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani

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bilisce tra «gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» di tutta una tradizione poetica – sebbene alla propria omologazione con i poeti, e con Petrarca in particolare, giunga per gradi: ché nell’apografo della d’Albany e fino alle bozze di stampa delle Rime si sente ancora parte, niente più, che della schiera degli «infelici, ardenti, e rari amanti»62.

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Così legge il manoscritto al v. 14 del sonetto LXXXIX.

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Apografo Ed. Maggini Sonetto

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18 luglio [1783] 6 luglio [1783] 26 ottobre [1783] 29 ottobre [1783] 29 ottobre [1783] 29 ottobre [1783] 29 ottobre [1783] 2 novembre [1783] [2 novembre 1783] 5 novembre [1783] 23 ottobre [1783] [23 ottobre 1783] 24 ottobre 1783 [24 ottobre 1783] 25 ottobre [1783] 3 giugno 1783 2 giugno 1783 17 giugno 1783 17 giugno [1783] 2 luglio 1783 [2 luglio 1783] 18 giugno [1783] 31 maggio 1783 1 giugno 1783 22 giugno [1783] 22 giugno [1783] 6 luglio 1783 11 agosto [1783] 12 agosto [1783] 16 agosto [1783] 28 maggio 1783 2 giugno 1783 16 agosto [1783] 17 agosto [1783] 31 ottobre [1783] [31 ottobre 1783] 5 novembre [1783] 6 novembre [1783] 7 novembre [1783] 10 novembre [1783] 22-23 novembre [1783] 23 novembre [1783] 27 novembre [1783] 30 novembre [1783]

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LXVII LXVI LXXXII LXXXIII LXXXIV LXXXV LXXXVI LXXXIX XC XCIII LXXVII LXXVIII LXXIX LXXX LXXXI LVII LV LVIII LIX LXIII LXIV LX LIII LIV LXI LXII LXV LXXI LXXV LXXII LII LVI LXXIII LXXIV LXXXVII LXXXVIII XCIII XCIV XCI XCII XCV XCVI XCVIII XCVII

Là dove solo un monticel si estolle Alta è la fiamma che il mio cuor consuma So che in numero spessi, e in stil non rari “Rapido fiume, che d’alpestre vena” Ecco ecco il sasso, che i gran carmi al cielo “Chiare, fresche, dolci acque”, amene tanto Non pria col labro desioso avea Là dove muta solitaria dura Se all’eterno fattor creder potessi Io vo piangendo, e nel pianger mi assale Italia, o tu, che nulla in te comprendi Vittima (oimè!) di violente e stolte Chi vuol laudare la mia donna, tace Io d’altro tema in ver vorrìa far versi Deh! Dove indamo il vagabondo piede O di gentil costume unico esempio Chi mi allontana dal leggiadro viso? O cameretta, che già in te chiudesti È questo il nido, onde i sospir tuoi casti Ad ogni colle che passando io miro Ma se un di mai, quella in cui vivo amando “Le donne, i cavalier, l’arme gli amori” O grande padre Alighier, se dal ciel miri Dante, signor d’ogni uom che carmi scriva Non giunto a mezzo di mia vita ancora Deh! Quando fia quel di bramato tanto Malinconia, perché un tuo solo seggio Era l’ora del giorno, in cui l’estive Tutto vestito in negre nubi il Cielo Te chiamo a nome il di ben mille volte Non più scomposta il crine, il guardo orrendo Ecco, sorger dall’acque io veggo altera Oh quai duo snelli corridori alati Qual vive, qual dei due corsieri ha palma? Mentr’io più mi allontano ognor da quella Tanta è la forza di ben posto amore Io vo piangendo, e nel pianger mi assale Tu il sai, donna mia vera, e il sai tu sola Quei grande, che fatale a Roma nacque Quel benedetto di, che origin diede Non di laudarti sazio mai, né stanco Fole, o menzogne, ai leggitor volgari Il cor mel dice, e una inspiegabil nera D’arte a Natura ecco ammirabil guerra

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«Gli ardenti vati, e gl’infelici amanti» alfieriani

Note ed. Maggini

Note dell’apografo

Tra Bufalora e Milano Milano Tra Brignolles e Torves Tra Avignone e Valchiusa Tra Avignone e Valchiusa In Valchiusa alla fonte Tra Valchiusa e Lilla tornando Tra Grenoble e la Certosa

Per Psipsia sul Luogo della sua Nascita Per Psipsia Per Psipsia Psipsio andando al Valchiusa Arrivando alla Valchiusa Essendo a Valchiusa Ancora a Valchiusa Andando alla Certosa di Grenoble Essendo alla Certosa Per Psipsia Uscendo d’Italia in Ottobre 1783 Per Psipsia Per Psipsia Per Psipsia Per Psipsia Tra Psipsia e Psipsio Per Psipsia Giungendo alla Casa di Petrarca Psipsia Petrarca, e Psipsio Per Psipsia Per Psipsia alla Tomba d’ariosto Giungendo alla Tomba di Dante Perché l’autore non possa più poetare Per Psipsia Per Psipsia

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Lione Frejus Frejus Tra Le Luc e Brignolles-Provenza In piaza S. Marco Tra Mesola e Loriò Tra Padova e Arquà Tra Rovigo e Ferrara Tra Zurlesco, Lodi, e Marignano Tra Ferrara e Bologna Tra Imola e Faenza A Mesola Bologna Bologna Milano-Finito in Roma Siena Siena Siena Tra Pianoro e Loiano A Pilistrina Siena Siena Tra Oranges e…

Contro i Giornalisti alla vista di Venezia Per una corsa di Cavalli a Siena

Lione Tra Lione e Tarare Tra Tarare e Roannes Tra Neury e Montargis Parigi al Luxemborgo Parigi passeggiando Parigi Parigi. Sul globo o pallon volante

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IL MODELLO DI PETRARCA NEL DIBATTITO LINGUISTICO TRA SETTE E OTTOCENTO

«I legni antichi sono pasto de’ tarli; e gli antichi poeti, de’ comentatori» Luigi Carrer

Una premessa. Appartenendo alla schiera di coloro che, come diceva il padre Cesari, «son messi in croce, e chiamati per istrazio Linguisti»1, ho circoscritto il mio campo di studio alla ricezione di Petrarca nella sua specifica veste di modello linguistico tra la fine del secolo XVIII e la prima metà del XIX. Vale a dire (salvo qualche incursione a ritroso) dal 1783, quando la soppressione dell’Accademia della Crusca sancisce definitivamente la crisi del tradizionalismo rinascimentale, al 1842, anno in cui – con gli ultimi fascicoli della quarantana – prende corpo la riforma linguistica di Manzoni, improntata a un fiorentinismo di stampo inedito e a una nuova visione del problema della lingua come questione sociale. Giusto all’inizio degli anni Quaranta, d’altronde, entra in crisi quell’«identificazione del criterio linguistico con un criterio estetico-retorico, selezionante, in base alla sua natura conservatrice»2 che aveva portato per secoli a ignorare

1 A. Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, a cura di A. Piva, Padova, Antenore, 2002, p. 71. Cfr. M. Vitale, «Purista» e «purismo». Storia di parole e motivi della loro fortuna, in Id., L’oro nella lingua. Contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Milano-Napoli, Ricciardi, 1986, pp. 3-37, n. 40, p. 18. 2 M. Corti, Il problema della lingua nel romanticismo italiano, in Ead., Nuovi metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 161-92, alla p. 165.

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la diacronia in nome di canoni metastorici, e si registra l’insorgere di una diversa sensibilità storica, che (soprattutto fuori d’Italia) pone le basi per uno studio scientifico delle lingue romanze3. Solo in astratto, quindi, si può pensare – riguardo al periodo in questione – di tenere distinto il dibattito linguistico da quello letterario, quando si rifletta che la storia della “letteratura” ancora per tutto il Settecento e oltre, fino al Foscolo, è concepita generalmente come storia della “lingua” e che in funzione delle polemiche presenti vengono delineate particolari interpretazioni del passato4;

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ovvero, specularmente, che il problema dell’individuazione e della descrizione di una norma linguistica, nella storia dell’italiano, va riconnesso quasi sempre con l’analisi dei modelli letterari del passato, dai quali far discendere appunto i principî regolatori5.

Com’è noto, «tra neoclassicismo e preromanticismo al Petrarca non si guardò proprio come a un autore esemplare»6; a confermarlo, possiamo chiamare – fra i tanti testimoni dell’epoca – Francesco Torti, che nel suo Prospetto del Parnaso italiano (1806) parlava di un «idolo poetico, la cui divinità non è più oggi un domma di letteratura»7. Ciò vale anche dal particolare punto di vista della lingua: in séguito a una serie di spinte convergenti o a catena, infatti, Petrarca finisce con l’essere percepito come modello di stile (e non di lingua) e come modello poetico (ovvero di un linguaggio settoria-

3 Come nota mezzo secolo dopo V. Vivaldi (Le controversie intorno alla nostra lingua dal 500 ai nostri giorni, Catanzaro, Caliò, 1895, vol. II, p. 518), «mentre in Italia si continuavano a sdilinguire le quistioni già agitate fin dal secolo XVI e si combatteva accanitamente contro la Crusca e il suo Vocabolario; fuori d’Italia, animati da vero spirito scientifico, s’iniziavano gli studi sulle lingue romanze, che si continuano con mirabili frutti tuttavia; e questi studi avevano i loro seguaci anche presso di noi». 4 M. Puppo, Introduzione al vol. Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, Utet, 19662, pp. 9-100, alla p. 94. 5 P. Trifone, «Questione della lingua» e questioni di metodo critico, nella Storia della Letteratura Italiana, diretta da E. Malato, vol. XI (La critica letteraria dal Due al Novecento, a cura di P. Orvieto), Roma, Salerno editrice, 2003, pp. 267-83, alla p. 267. 6 E. Bonora, Francesco Petrarca, nell’opera I classici italiani nella storia della critica, diretta da W. Binni, vol. I (Da Dante al Marino), Firenze, La Nuova Italia, 1960, pp. 95-167, alla p. 119. 7 Cfr. M. Fubini, Petrarchismo alfieriano, in Id., Ritratto dell’Alfieri ed altri studi alfieriani, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pp. 59-93, alla p. 93, n. 1.

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Il modello di Petrarca nel dibattito linguistico tra Sette e Ottocento

le8), all’interno di un dibattito in cui gli àmbiti dello stile e della poesia hanno una posizione sempre più appartata. Non si tratta, com’è ovvio, d’un giudizio unanime; la percezione del modello linguistico petrarchesco si rifrange in una gamma di posizioni caratterizzate dal diverso schieramento in rapporto ad alcune antinomie fondamentali: Petrarca / Dante, arte / natura, norma / auctoritas, poesia / prosa. Proprio sulla base di questo procedimento per antitesi (petrarchesco quant’altri mai), si cercherà di ricostruire una vulgata critica assestatasi in alcune parti molto tempo prima, in altre ancora in notevole evoluzione, dando voce soprattutto agli atteggiamenti compresi fra i due opposti oltranzismi del Petrarca impugnato dal Petrarca. Più maturi riflessi del dottore Giampietro Pietropoli (Venezia, Alvisopoli, 1818) e delle Lodi del Petrarca dell’Abate Saverio Bettinelli (Bassano, Remondini, 1786). Pietropoli è «un arrabbiato censore»9 che del Petrarca tiene «per ottime quattro Canzoni e sette Sonetti; e senza livellare tutto il resto alle Sestine» (che detesta), giudica «come pessimi due buoni terzi de’ sonetti e la metà delle Canzoni». Inevitabilmente, «neanche la lingua si salva da questa opera di distruzione»10. «Era poco più di mezzo secolo che scrivevasi la lingua italiana quando Petrarca fiorì» – si legge nel Sommario del V saggio (Sulla lingua e l’eleganza di Messere) – «come adesso si vorrà egli insistere che questo bambolo del trecento offra il miglior modello del dire e del poetare?». Il Bettinelli delle Lodi, invece, è già quello che nella Dissertazione accademica sopra Dante (1800) avrebbe affermato: «niun dee conoscere il Petrarca meglio di me, come sapete, che posso dirmi suo famigliare»11. Nelle 8 Di «una lingua non lingua», come A. Quondam (Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, p. 22) definisce quella della tradizione lirica. 9 Si riferiva probabilmente a lui L. Carrer quando – nella nota A’ lettori che apre la sua edizione delle Rime di Francesco Petrarca (Padova, coi tipi della Minerva, 1837, vol. I, p. V) – ricorda che il Petrarca ebbe «a questi ultimi tempi un arrabbiato censore, che con la scurrilità d’un suo libro gli ha procacciato quell’ultimo grado di celebrità a cui salgono i grandi ingegni per le critiche de’ mediocri». In quest’opera, che la «Biblioteca italiana» considerò «ridevolissima e di ridevole titolo», Pietropoli – del quale ci rimangono anche una Confutazione de’ sistemi adottati nelle scienze fisiche (nel cui frontespizio viene definito «dottore in filosofia e medicina»; Milano, Silvestri, 1807) e un Matematica e poesia condannate dalla ragione. Paradosso del dottore G. P. (Milano, Destefanis, 1811-12) – si rivela un personaggio «o in cattiva fede, o fuor di senno», che «sfrutta le immagini e i modi poetici per far dello spirito, e si compiace di frizzi, di motteggi, di ingenue ironie» (C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, Napoli, Perrella, 1923, p. 180). 10 Ivi, p. 181. 11 Cfr. A. Bonfatti, Il petrarchismo critico di Saverio Bettinelli, in «Lettere italiane», IV, 1952, pp. 151-180, alla p. 153. Sulle altalenanti e contraddittorie posizioni assunte da

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Lodi, aperte da una parziale ritrattazione dell’aggressività antipetrarchesca delle Virgiliane12, la palingenesi assume toni accesamente enfatici13, così che Petrarca può essere raffigurato un po’ come l’Ettore dei venturi Sepolcri: «vivrà il Petrarca, risorgerà sinché viva lingua, e se questa perisca mai su le labbra, s’apriran scuole ad apprenderla su le carte per conoscer Petrarca, e il suo stile divino» (p. 51). È lui che «purgò la lingua e la poesia d’ogni lineamento straniero, diè al verso volgare il proprio suono e andamento, cribrò le rime, fissò i metri la locuzion la sintassi poetica» (p. 30) e «bene e a ragion però dell’italica poesia creator dee tenersi il Petrarca» (p. 17); anzi, «il titolo profanato in Italia ei sol merita di divino» (p. 49). 1. Petrarca / Dante Emerge qui tutto l’originario antidantismo14 di Bettinelli, che infatti poche pagine prima non esitava a riproporre l’immancabile confronto fra Dante e Petrarca, immaginando il primo come estatico (e un po’ invidioso) ammiratore del secondo: Oh se Dante ancor per poco fosse vissuto per udir quel mirabil concento purissimo del Canzoniere e per vedere l’erculea sua clava in un sì destro e pieghevol

Bettinelli nei confronti di Petrarca, cfr. anche la dura requisitoria di R. Tissoni, Il commento ai classici nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Padova, Antenore, 1993, pp. 7387. 12 «In tutte le mie opere mostrai grande affetto al Petrarca, e specialmente nel Risorgimento ove della Poesia, nelle Lettere di Virgilio, e nelle due prose sopra il Sonetto [...]. Le mie critiche nelle Lettere di Virgilio ben si vede, che miravano all’istruzione, e disinganno de’ giovani, come il resto per tutte le rime anche indegne del P. poste nel suo Canzoniere» (p. 3). 13 C. Dionisotti parla, a proposito delle Lodi, di un’operazione «sfacciata e maliziosa», anche se «il tentativo a quella data di rimettere il Petrarca sul trono della poesia italiana, per evitare una rivoluzionaria anarchia dantesca, non aveva possibilità di successo» (Varia fortuna di Dante, in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 255-303, alla p. 266). 14 «Un antidantismo che si connota anzitutto come antipopolarismo» (S. Gensini, Le idee linguistiche di Saverio Bettinelli: proposte per un riesame, nel vol. Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, a cura di I. Crotti e R. Ricorda, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 13-48, alla p. 22). Facile, per R. Tissoni (Il commento ai classici italiani, cit., p. 90 e n. 213), infierire sull’incoerenza di Bettinelli, che nel 1780 – in occasione del restauro della tomba di Dante a Ravenna – aveva composto un sonetto in cui giurava «eterna fede al buon Petrarca, e a Dante».

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Il modello di Petrarca nel dibattito linguistico tra Sette e Ottocento

arco cambiata per man d’amore, come a tal nuova grazia ed altezza placato avrebbe quel suo magistral sopracciglio a farsi terso elegante e passionato ed armonico (p. 22).

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Per quanto esasperati, ritroviamo gli elementi topici del parallelo tra i due poeti: la forza di Dante contro la leggiadria di Petrarca; la variegata ricchezza contro l’armonia selettiva. Questa idea di fondo a cui, dopo Contini, siamo abituati a pensare nei termini di pluri- e monolinguismo15, è ben presente al dibattito dell’epoca16 e si presta a essere declinata di volta in volta in maniera diversa, a seconda dell’ideale di lingua che il letterato intende propugnare. Si può allora insistere sull’idea di un Dante incòndito a fronte di un Petrarca levigato e dunque perfetto, come fanno – con toni diversi – Angelo Fabroni17, Luigi Carrer18 e Carlo Cattaneo, per il quale dietro Dante venne con più sottile e sollecita cura il Petrarca, a cui fu lieve fatica compiere quella sì bene augurata cernitura. E per ciò i secoli seguenti ebbe-

15 Il riferimento è al «famoso e poi forse anche abusato e banalizzato confronto» (P. Manni, Il Trecento toscano [Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni], Bologna, Il Mulino, 2003, p. 186) tra il suo «unilinguismo» («se non è dir troppo» G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, da ultimo in Id., Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1990, p. 173) e il «plurilinguismo» di Dante. Il monolinguismo di Petrarca è stato recentemente messo in discussione da voci autorevoli come quelle di M. Santagata (nell’introduzione alla sua ed. critica commentata F. Petrarca, Canzoniere, Milano, Mondadori, 1996, pp. XII-XCVI, alla p. XXXIV), di M. Ariani (Petrarca, nella Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, cit., vol. II, 1995, pp. 601-726, alle pp. 708-15) e di M. Vitale, La lingua del Canzoniere («Rerum vulgarium fragmenta») di Francesco Petrarca, Padova, Antenore, 1996, pp. 3-37 (in cui si insiste molto sulla varietas). «Quale che fosse la stratificazione del modello», tuttavia, «la sua ricezione, almeno dal Bembo in poi, è avvenuta nel solco di un rigoroso monolinguismo» (L. Serianni, Introduzione alla lingua poetica italiana, Roma, Carocci, 2001, p. 38). 16 Nitidamente formulata, ad esempio, in Foscolo: «invece di scegliere, come fa il Petrarca, le più eleganti e melodiose parole e frasi, Dante crea sovente una lingua nuova, e chiama quanti dialetti ha l’Italia a somministragli combinazioni» (cit. in M. Vitale, Il Foscolo e la questione linguistica del primo Ottocento, in Id., La veneranda favella, Napoli, Morano, 1988, pp. 391-441, alle pp. 412 e 421). 17 Il quale sostiene, nella sua Francisci Petrarchae vita (Parma, in Aedibus Palatinis, 1799), che Dante, per quanto grande, «saepe cum verbis tum sono subrustico refert antiquitatem, abiecta non semper vitat suique saepe oblitus interdum ima summis immiscet, a quibus vitiis tantum abfuit Petrarcha» (cfr. A. Bonfatti, Il Petrarca nell’ultimo Settecento, in «Lettere italiane», V, 1953, pp. 65-104, alle pp. 84-85). 18 «Se il Petrarca in varietà, forza, rapidità rimane vinto dall’Allighieri, forse all’Allighieri sta sopra per la eguaglianza e la morbidezza» (Le rime di Francesco Petrarca, cit., p. XI).

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ro più credenza in lui, ch’era pur di lunga mano il men forte, ma era il più fido19.

Ma si possono anche ribaltare i termini della questione, additando la selezione verbale come impoverimento e l’ingentilirsi della lingua come vezzo. L’opposizione tra Petrarca «d’un solo affetto e d’una sola melodia [...] signore» e Dante «pienissimo di quella musica la quale con varii e accomodati suoni imita ed esprime gli umani affetti» – per dirla con le parole del Giordani20 – può scadere allora nella percezione dei Rerum vulgarium fragmenta come esercizio combinatorio, quasi che Petrarca, «fatto cerna delle voci e de’ modi di dire più cari e armoniosi, ne tentasse tutti gli accozzamenti a veder fin dove e per quanto potesse capirvi il proprio concetto» (ancora Carrer21). O può sfociare in aperta insofferenza per l’uniformità linguistica vista come conseguenza di quella tematica; ciò che accade nelle scomposte reazioni di un Pietropoli22, ma anche nel caustico giudizio di Voltaire (per il quale Petrarca era «le plus fécond du monde dans l’art de dire toujours la même chose»23).

19 C. Cattaneo, Appendice o applicazione dei principii linguistici alle questioni letterarie, in Id., Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, raccolti e ordinati da A. Bertani, Firenze, Le Monnier, 1948, vol. I, pp. 238-72, alla p. 240. 20 Cfr. E. Garavelli, Pensieri e giudizi giordaniani sulla letteratura italiana, nel vol. Giordani Leopardi 1998. Convegno nazionale di studi, a cura di R. Tissoni, Piacenza, TIP. LE. CO, 2000, pp. 313-78, alla p. 376 e n. 303. 21 Il brano, tratto dall’articolo I petrarchisti, apparso nel 1838 nel «Gondoliere», è cit. in M. Fantato, Momenti della critica petrarchesca nella prima metà dell’Ottocento: Luigi Carrer, in «Lettere italiane», LV, 2003, pp. 79-105, alla p. 90. 22 «Tolleranza ancora inculcherei ai Lettori, se [il Rimario Petrarchesco] non li assaltasse in oltre colla monotonìa ossia col maggior supplizio dell’anima, il quale li accompagna da capo a fondo» (G. Pietropoli, Il Petrarca impugnato dal Petrarca, cit., p. 257). Siamo ben lontani dalle acquisizioni della più recente filologia, per cui, nei Rerum vulgarium fragmenta, «la varietas funziona come mixtio [...] e viene sistematicamente assunta come modulo retorico che, nell’ovviare le insidie del taedium [...], coniuga l’ornatum difficile come fusione di gravitas e mellificatio» (M. Ariani, Petrarca, cit., pp. 709-10). Non si dimentichi, tuttavia, che Petrarca era additato come maestro di variatio (stilistica e, più che altro, metrica) già dallo stesso Bembo, nel secondo libro delle Prose (Prose della volgar lingua. Gli Asolani. Rime, a cura di C. Dionisotti, Milano, Tea, 1989, pp. 71-309, alla p. 171). 23 Cfr. G. Folena, L’italiano come lingua per musica nel Settecento europeo, in Id., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi, 1983, pp. 219-34, alla p. 223. Si tratta di un giudizio fatto proprio anche dal giovane Alfieri, «facendo coro coi Francesi e con tutti gli altri ignoranti presuntuosi» che tenevano Petrarca «per un seccatore, dicitor di arguzie e freddure» (come si ricorda autoironicamente nella Vita, Epoca III, cap. 1; nell’ed. a cura di V. Branca, Milano, Mursia, 1982, p. 76).

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Allo stesso modo, si può capovolgere il discorso (tutto anacronistico e a posteriori) sulla modernità della lingua di Petrarca. Si può ammettere «che delle voci usate da Dante moltissime sono cadute in dimenticanza», laddove «di quelle usate dal Petrarca pressoché niuna è rimasta esclusa dal discorso moderno» (Carrer24) «ed ogni sua frase può essere, ed è tuttavia, scritta senza affettazione» (Foscolo25). Ma la causa va cercata – per Monti26 – nell’atteggiamento dei «timidi successori», che dalla «lussureggiante ricchezza verbale» di Dante trascelsero soltanto «le parole più delicate e le formole più gentili, restando neglette le più grandiose e magnifiche», così che queste «perdettero col tempo l’onestà del colore e la forza dell’espressione»27. Al centro della questione c’è la maggiore creatività linguistica riconosciuta a Dante, che lo rende l’unico vero «creatore dell’idioma italiano»28: conseguito avrebbe l’ardimento di Dante la stessa fortuna che l’omerico, se il Boccaccio e il Petrarca, siccome osserva il giudizioso giureconsulto Gravina, ereditando la lingua di Dante, l’avessero del medesimo sugo nudrita, e colle medesime cure allevata, finché l’uso dominatore delle parole assuefatti avesse gli orecchi italiani a quello che ora alcuni ardiscono appellare stravagante e barbaro stile29.

In forza anche dell’idealizzato «amor patrio» di Dante e dell’idolatrato modello italianista del De vulgari eloquentia30, il classicismo ottocentesco 24

L. Carrer, Le rime di Francesco Petrarca, cit., p. XI. U. Foscolo, Saggio sopra la poesia del Petrarca, in Saggi e discorsi critici, vol. X dell’Edizione Nazionale delle opere di Ugo Foscolo, edizione critica a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1953, pp. 235-60, alla p. 252. 26 Cfr. A. Dardi, Gli scritti di Vincenzo Monti sulla lingua italiana, Firenze, Olschki, 1990, p. 17. 27 Argomentazioni simili erano state usate da Gasparo Gozzi nella sua Difesa di Dante (se ne veda l’edizione annotata a cura di M. G. Pensa, Venezia, Marsilio, 1990): cfr. R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., pp. 84-87. 28 Cfr. A. Dardi, Gli scritti di Vincenzo Monti, cit., p. 16. 29 Ivi, p. 91. 30 Dell’amor patrio di Dante e del suo libro intorno il volgare eloquio è il titolo di una «Apologia composta dal Conte Giulio Perticari» (Opere del Conte Giulio Perticari di Savignano patrizio pesarese, Bologna, Tipografia Guidi all’Ancora, 1838, vol. I, pp. 159424). Sosteneva, ad esempio, U. Foscolo nella Lezione XIV delle sue Epoche: «or tornando con la memoria su le Epoche finora accennate della Letteratura Italiana apparirà chiaramente; – che dal tempo di Dante era maschia, libera, originale, perché derivava da un popolo liberatosi dalle tirannidi; – che al tempo di Petrarca e Boccaccio prese a divenire molle e effeminata perché l’Italia cominciava ad avere que’ costumi che la condussero alla servitù» (Saggi di letteratura italiana, vol. XI dell’Edizione Nazionale delle opere di Ugo Foscolo, 25

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erge a mito la capacità glottopoietica del demiurgo Dante31 e deprime il culto cinquecentistico della perfetta discretio verborum del Petrarca. Si verifica, così, una non ovvia convergenza tra i due filoni del tradizionalismo linguistico descritti da Vitale32. Anche i puristi, infatti, preferiscono la lingua di Dante a quella di Petrarca, sia pure con una motivazione opposta: l’aver Dante messo a frutto, senza filtri o prevenzioni, la «copia» e la «pieghevolezza» del fiorentino trecentesco, che – come sostiene Cesari nelle Bellezze – «ad ogni disparatissima idea [...] gli mettea innanzi la pronta parola e voce, o verbo, o modo di dire appropriatissimo a improntar sulla carta il concetto»33. Già per Salviati, d’altra parte, la Commedia era da considerarsi superiore al Canzoniere, in quanto «nelle rime del Petrarca, non è nel vero la purità, nell’opera della favella, la lode più principale, ma più tosto la leggiadria»34;

parte prima: Epoche della lingua italiana, edizione critica a cura di C. Foligno, Firenze, Le Monnier, 1958, p. 262). Considerazioni simili pongono le basi di quella che sarà l’interpretazione “risorgimentale” del confronto tra Dante e Petrarca, destinata a dominare tutto l’Ottocento, penetrando largamente anche nei manuali di storia della letteratura come «semplificatoria contrapposizione tra il Dante ‘ribelle’ e il Petrarca ‘obbediente alla legge’» (F. Danelon, Dal libro da indice al manuale, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994, p. 145). Ormai agli inizi del Novecento, V. Osimo (Antipetrarchismo moderno, in Id. Studi e profili, Milano, Sandron, 1905, pp. 25-31) riconosceva una ragione della scarsa fortuna di Petrarca «presso le presenti generazioni» nel fatto che «i due poeti soglionsi ancora da molti considerare come tali che non possa essere l’uno ammirato ed amato senza detrimento dell’altro» e «si fa torto all’elegiaco aretino di non essere stato del maschio stampo del fiorentino fuggiasco» (p. 29). 31 «Trovando egli al suo tempo scarsa la suppellettile dell’idioma per adornarlo, introdusse nel suo poema tutte quelle voci che stimò significanti e accomodate al bisogno, qualunque ne fosse l’origine. Altre ne fuse di conio proprio»: cfr. A. Dardi, Gli scritti di Vincenzo Monti, cit., p. 16. 32 M. Vitale, L’oro nella lingua, cit. (cfr. soprattutto Classicismo e purismo, pp. 39-66). Colpisce in particolare veder accomunate, su questo punto, le posizioni di Monti e di Cesari, per molti altri versi inconciliabili (sui difficili rapporti tra i due, cfr. G. Guidetti, La questione linguistica e l’amicizia del padre Antonio Cesari con Vincenzo Monti, Francesco Villardi ed Alessandro Manzoni, Reggio Emilia, Collezione Storico-letteraria, 1901, pp. 1-90). 33 A. Cesari, Bellezze della ‘Commedia’ di Dante Alighieri, a cura di A. Marzo, Roma, Salerno Editrice, 2003, vol. II, p. 609. Non si considera qui la posizione giovanile del Cesari poeta, che nella Prefazione alle sue Rime diverse (riproposta nel vol. Opuscoli linguistici e letterari di A. Cesari, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia, Collezione Storicoletteraria, 1903, pp. 10-17 col titolo Difesa dalle accuse per aver tolto ad imitare il Petrarca nel poetare) affermava: «io non posso, né voglio negare, che il Petrarca non sia de’ Toscani poeti, quello che più mi piace, e che in lui solo io non vegga raccoltamente tali bellezze, e così rare eccellenze, che in niuno altro trovo» (p. 11). 34 Cfr. M. Vitale, Il canone cruscante degli auctores e la lingua del canzoniere del Petrarca, Firenze, Accademia della Crusca, 1996, p. 9.

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di conseguenza, nella nota A’ lettori della prima Crusca si menzionano nell’ordine Dante, Boccaccio «e in terza sede Petrarca, il cui modello linguistico si giudicava meno puro sul piano della fiorentinità autentica»35. Petrarca, dunque, come «terzo lume della lingua»36, posto sul gradino più basso del podio delle tre corone, proprio quello su cui – con esibita modestia – lui stesso si era adagiato nella Senile V, 2. Il dogma trinitario sul quale si fonda la nostra lingua letteraria fa sì che la triade venga omaggiata con inevitabili riconoscimenti di prammatica. Ma insieme ai tanti casi in cui i tre nomi si presentano in ordine cronologico (ovvero neutro), non mancano quelli (più significativi) in cui l’ordine sembra rispecchiare una gerarchia interna. Tipico – appunto – l’atteggiamento di Cesari, che usa mettere in coda alla serie il nome di Petrarca, talvolta omettendolo, e definendo spesso il Trecento «il secolo del Boccaccio»37. Alle tre corone i classicisti annettono – si sa – i principali cinquecentisti, Ariosto e Tasso sopra agli altri; nel corso dell’Ottocento si assesta così, per la poesia, un canone fondato sui «quattro gran luminari», secondo l’espressione di Alfieri38. Un «quadrumvirato poetico»39 ben rappresentato dai fortunatissimi

35 Ibidem. Cfr. anche G. Dell’Aquila, La Crusca e Petrarca, in «Rivista di letteratura italiana», XIX, 2001, pp. 59-78. 36 Secondo la definizione annotata nel diario dell’Inferigno il 6 novembre 1610: cfr. M. Vitale, Il canone cruscante, cit., p. 9. 37 Qualche esempio. Per la prima fattispecie: «la Toscana è il fior dell’Italia, quanto alla lingua [...] finché Dante, il Boccaccio, il Petrarca, saranno toscani» (Antidoto pe’ giovani contro le novità in opera di lingua italiana [1828], in Id., Opuscoli linguistici, cit., pp. 577-619, alle pp. 606-8); «tre, soli i quali l’illustrarono e nobilitaron così, che fino ad ora bastarono, e basteranno poi sempre a renderla una delle più leggiadre e gentili: e furono Dante, il Boccaccio e il Petrarca» (Dissertazione, cit., p. 146); per la seconda, significativamente: «altro è la lingua ed altro è la poesia ed eloquenza [...] e però il privilegio e il segno della purità ed eleganza è tuttavia rimaso al secolo del Boccaccio e di Dante», o anche: «come avvien nel Boccaccio spezialmente, ed in Dante» (ivi, p. 22 e p. 74); per l’ultima tipologia: «dunque il fatto parla da sé: e ’l secolo del Boccaccio è ’l secol d’oro della lingua toscana» (ivi, p. 45) e cfr. anche E. Garavelli, Pensieri e giudizi giordaniani, cit., p. 317 e n. 20; inoltre: S. De Stefanis Ciccone, Il Boccaccio nelle discussioni linguistiche del primo Ottocento, in «Studi sul Boccaccio», VI, 1971, pp. 179-210. 38 Vita, Epoca IV, cap.1 (cit., p. 176). Così, ad esempio, nel Lamberti: «e se Dante, e se Petrarca, se l’Ariosto, se il Tasso non hanno tanto valore avuto da non cadere sotto siffatto peso, quale ingegno d’uomo mortale lo sosterrà?» (cfr. S. De Stefanis Ciccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo Ottocento, Firenze, Olschki, 1971, p. 40) o nel Leopardi del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica: «sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso?» (in Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni, con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1988, vol. I, pp. 914-48, alla p. 932). 39 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, cit., p. 259.

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Esempi di bello scrivere in poesia40, in cui Luigi Fornaciari antologizza – secondo proporzioni che non paiono casuali – 14 brani del Petrarca, 18 di Dante e di Tasso e 17 dell’Ariosto41. Ormai il dominio della lingua petrarchesca si riduce all’àmbito lirico: è soltanto a Dante che viene riconosciuto il titolo di «gran padre della lingua italiana»42, mentre – come sosteneva già Bettinelli nella quinta delle Lettere virgiliane – «vero merito fu del Petrarca il creare per una poesia nuova una lingua e uno stile affatto nuovo, e sol proprio degl’italiani»43. Questa drastica riduzione della sfera d’influenza petrarchesca è resa bene dalle parole di un purista come Puoti, il quale – nel suo Della maniera di studiare la lingua e l’eloquenza italiana (1831) – chiama Boccaccio «principe di tutti gli scrittori», Dante «padre della toscana favella, principe de’ poeti volgari» e Petrarca «principe de’ Lirici toscani», riprendendo il solito spunto per cui «se il gran padre Alighieri condusse la favella e l’italiana poesia a somma altezza, e loro diè nobiltà, forza ed evidenza, questi le ingentilì, e lor fe’ dono di soavità, morbidezza, e leggiadria»44. 40 Pubblicati la prima volta nel 1829 e adottati come libro di testo fino ai primi del Novecento: cfr. M. A. Frangipane, Gli Esempi di Bello Scrivere di Luigi Fornaciari nei programmi scolastici postunitari, in «Studi latini e italiani», I, 1986, pp. 162-82. 41 Scrive Fornaciari nella nota biografica del Petrarca: «le poesie di lui, con quelle dell’Allighieri, sono da studiare sopra quante mai se ne scrissero in Italia». Ma nell’introdurre l’opera diceva di aver allestito questa scelta «per la prima istruzione de’ giovani» perché il poco tempo dedicato alla poesia italiana «non venisse speso nella lettura de’ così detti Tre Autori, i quali nella più parte delle scuole d’Italia erano allora gli esempi del poetare» (si cita dagli Esempi di bello scrivere in poesia, scelti e illustrati dall’avv. Luigi Fornaciari, quinta edizione lucchese, con qualche nuova cura del compilatore, Lucca, Dalla tipografia Giusti, 1850, p. 351 e p. 3). 42 La definizione si trova in una lettera di Monti ad Andrea Mustoxidi del 9 ottobre 1817 (in V. Monti, Lettere d’affetti e di poesia, a cura di A. Colombo, Roma, Salerno editrice, 1993, p. 284). 43 Un giudizio complessivo che oggi gli storici della lingua si sentirebbero di sottoscrivere; si pensi alla conclusione del volume di M. Vitale, La lingua del canzoniere, cit., p. 542: «se il fiorentino Dante, con la eccezionale fortuna orale e scritta della sua stupefacente Commedia, ha foggiato la lingua degli italiani, il Petrarca ha creato il modello ammiratissimo dell’italiano letterario per tutto il corso della nostra storia linguistica». Ancora più nettamente: «Dante è la lingua italiana» (I. Baldelli, Dante e la lingua italiana, Firenze, Accademia della Crusca, 1996, p. 7); ovvero, «ove s’intenda ‘lingua’ nel senso di ‘lingua capace di tutti gli usi letterari e civili’, è indiscutibile che a Dante spettano i meriti del demiurgo» (B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Milano, Bompiani, 1994 [I ed. 1960], p. 167); mentre invece l’esperienza petrarchesca è «determinante per un ‘genere stilistico’», secondo una scelta di autolimitazione, grazie alla quale «Petrarca può assicurarsi una supremazia dittatoria nel suo proprio orto tanto concluso» (G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, cit., p. 191). 44 Si cita da Della maniera di studiare la lingua e l’eloquenza italiana, Parma, Fiaccadori, 1853, pp. 20, 41, 44; l’ultimo passo anche in L. Ricci, Critici del primo

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2. Arte / natura D’altra parte, il concentrarsi dei riconoscimenti su qualità come l’eleganza, la dolcezza, la leggiadria fa slittare sempre più la giurisdizione del modello petrarchesco dall’àmbito della lingua a quello dello stile. Continua, infatti, Puoti: «però molto possono e debbono aiutarsene i giovani per dar morbidezza, grazia ed armonia al loro stile, se si fanno a leggere con giudizio i suoi sonetti, e più ancora le nobilissime sue canzoni»45. Il fatto è che sono in molti nell’Ottocento – e tra questi un classicista come Giordani; romantici come Borsieri e Di Breme; persino Puoti e lo stesso Cesari46 – a essere convinti che per lo stile non possano fornirsi modelli precisi e men che meno un solo modello. Lo stile, insomma, tende a sfuggire alle prescrizioni e alle proscrizioni normative. E se è vero che, come vuole Melchiorre Cesarotti, «la lingua non dee confondersi collo stile, come suol farsi da molti»47, è anche vero che «forse in nessun autore come nel Petrarca la lingua si stringe allo stile in un nesso così profondo e indissolubile, rendendosi sfuggente a definizioni univoche»48. Senza contare che la distinzione «tra aspetti denotativi e connotativi dell’atto linguistico»49 era attiva all’epoca anche sul piano della lingua: «il bene scrivere ha due parti che vogliono al tutto distinguersi e ciò sono la purità della lingua e l’arte dello scrittore» dice Luigi Angeloni50, rifacendosi al suo maestro Cesari, secondo il quale bisognava non solo «schivar i solecismi», ma «imparar a scrivere con proprietà ed eleganza» (essendo quest’ultima

Ottocento legati alla questione della lingua, nella Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI, cit., pp. 603-23, alla p. 610, n. 22. 45 Della maniera di studiare la lingua, cit., pp. 44-45. 46 Cfr. rispettivamente P. Giordani, A un giovane italiano. Istruzione per l’arte di scrivere, in Id., Scritti, a cura di G. Chiarini, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 151-64 (ed E. Garavelli, Pensieri giordaniani, cit., pp. 331-36); S. De Stefanis Ciccone, La questione della lingua, cit., p. 112 e 124; B. Puoti, Della maniera di studiare la lingua, cit., p. 31; A. Cesari, Dissertazione, cit., pp. 76-77. 47 «Il pregio di essa consiste nell’esser ad un tempo ricca, precisa, abbondante di colori e d’atteggiamenti, pieghevole ad ogni argomento e genere di scritture. L’ufizio di essa è di presentar i materiali allo stile, e lo stile è l’arte di farne uso. Quindi può darsi nello scrittore medesimo, non che in vari, ottima lingua senza ottimo stile, benché uno scrittore non possa aver ottimo stile senza buona lingua» (M. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, a cura di M. Puppo, Milano, Marzorati, p. 28). 48 P. Manni, Il Trecento toscano, cit., p. 191. 49 E. Garavelli, Pensieri e giudizi giordaniani, cit., p. 315. 50 Cfr. S. De Stefanis Ciccone, La questione della lingua, cit., p. 38.

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qualità legata in particolare a certi «gruppi d’alcune parti d’orazione, che con un cotal giro chiudono alcuna sentenza»51). A differenza di termini come purità, proprietà o lo stesso ricchezza52, il campo semantico a cui fa capo l’eleganza si riferisce al versante della lingua in cui più evidente è il dominio del gusto: «intorno alla eleganza è il travaglio. Egli è inutile a dire per la milionesima volta; Questa eleganza essere un non so che, cioè una cosa che non può essere insegnata, ma che nasce con noi, e che la sente, a cui la natura la fa sentire»53. Nella Dissertazione, il Petrarca è elogiato per aspetti che partono da questo secondo livello della lingua e risalgono (saltando lo stile) fino a quello – tutto artificiale – dell’eloquenza: noi dunque nel Petrarca non metteremo in conto [...]; né la dolcezza (non mai prima né dopo sentita pari) del numero, né l’eleganza de’ modi e forme veramente attiche della sua lingua; non sono però qua e là de’ bellissimi tratti d’eloquenza maravigliosa?54

Tuttavia, «le deduzioni linguistiche del purismo conseguono a un particolare ideale stilistico di naturalezza, di proprietà nativa, di popolarità»55: si tratta di un primum stilistico interiorizzato e poi – si direbbe oggi in termini psicanalitici – rimosso, così che la depressione del concetto stesso di stile risulta falsata da quest’originario mito estetico. Se l’idea di purità unisce in sé quella di fiorentinità incontaminata e quella di «‘sermo purus’, tanto più valido quanto meno sottoposto ai colori e agli artifici dell’arte»56, l’ideale dei puristi non poteva certo essere la lingua di Petrarca, la cui fiorentinità è «trascendentale»57 e la cui natura si pone tutta sotto il segno dell’arte. Riesuman-

51

A. Cesari, Dissertazione, cit., pp. 115 e 49. Sulla diffusione di questi «categoremi» nella grammaticografia settecentesca, cfr. S. Telve, Prescrizione e descrizione nelle grammatiche del Settecento (in «Studi linguistici italiani», XXVIII, 2002, pp. 3-32 e 197-260; XXIX, 2003, pp. 15-48), alle pp. 15-19 del vol. XXIX. 53 Del modo facile, utile e dilettevole per imparare la lingua italiana (1828), in A. Cesari, Opuscoli linguistici, cit., pp. 566-76, alla p. 570. 54 A. Cesari, Dissertazione, cit., p. 155. Il concetto è ribadito, quasi con le stesse parole, nell’Apologia linguistico-letteraria contro Francesco Villardi (1828), in Id., Opuscoli linguistici, cit., pp. 543-65, alla p. 558. 55 M. Vitale, L’oro nella lingua, cit., p. 55, n. 33. 56 Ivi, p. 41. 57 G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, cit., p. 175. Come vuole M. Vitale (Il canone cruscante, cit., p. 18), «non a torto, per ciò, i Cruscanti avevano diffidato, iuxta propria principia, della lingua del canzoniere». 52

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do implicitamente il solito confronto, Francesco Ambrosoli poteva affermare, ormai quasi alla metà dell’Ottocento58:

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qui non si tratta di eleganza, o di ornamenti rettorici: io, benché amantissimo di questi studi, non posso augurare alla patria una gioventù generosa d’illustrarsi con quelle che un tempo chiamaronsi le veneri dello stile [...]; raccomandando a’ miei uditori di porsi in esempio la perspicuità dell’Alighieri [...] stimo di metterli per quella via che sola può indirizzare a comune vantaggio lo studio dei singoli cittadini.

«La principal dote dell’ottimo scrittore è di trasmettere le idee con chiarezza e precisione; ma Petrarca riesce enigmatico e inestricabile a noi medesimi italiani» scriveva Pietropoli59, ed era stavolta in buona compagnia. Molti dei suoi contemporanei, infatti, contrappongono alla perspicuità di Dante l’oscurità di Petrarca: non tanto Cesari, che anzi ebbe a polemizzare su questo punto col Leopardi60, quanto piuttosto coloro che vedevano nel Petrarca il precoce attestarsi di una maniera. «A taluno è paruto di chiamare il Petrarca precursore de’ pazzi secentisti» scriveva Carrer, e poi si scagliava anche lui contro i «giuochi d’ingegno», le «vôte eleganze», le «forme bizzarre» del Canzoniere: «un libro che abbonda di sì fatte gioje non so con qual fronte possa spacciarsi quasi a codice del gusto»61. È «il vizioso, il freddo, l’inutile» rimproverato al Petrarca già dal Bettinelli delle Virgiliane62, ma anche da Puoti («questo nobilissimo spirito trascorse pur talora in concetti troppo raf-

58 Di una dottrina circa l’ideale del Bello già esposta da Dante e dal Petrarca (1845 ca.), negli Scritti letterarj editi ed inediti di F. Ambrosoli, Firenze, Stabilimento Civelli, 1871, vol. I, pp. 377-88, alla p. 384. 59 Il Petrarca impugnato dal Petrarca, cit., p. 271. Poco sopra si affermava che «senza il fanatismo di coloro che han riguardato come reliquie persino le scancellature trovate nelle sue Carte, e segnalato monumento han creduto di trasmettere alla posterità [...], il depravato gusto per le antitesi, pelle metafore, per le allegorie degradato non avrebbe per più secoli la nostra letteratura; né il furore per le iperboli più sbardellate e pei giuochi più meschini di parole, acquistato non avrebbe tutto l’ascendente, di che abbiamo ancora a vergognarci» (ivi, pp. 262-63). 60 Sul ben noto botta e risposta, cfr. almeno R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., pp. 186-88. 61 Le rime di Francesco Petrarca, cit., p. IX; Cfr. anche M. Fantato, Momenti della critica petrarchesca, cit., pp. 85-88 e R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., pp. 152-53. 62 S. Bettinelli, Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana, in Id., Lettere virgiliane e lettere inglesi, a cura di E. Bonora, Torino, Einaudi, 1977, pp. 3-57, alla p. 33.

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finati, in pensieri più ingegnosi che giusti, ed in fredde allusioni»63); è il luogo comune per cui «scrisse il Petrarca con stil petrarchesco»64. E «La frusta letteraria» non era certo la sola a prendersela con «le bertucce di messer Francesco»65, né Bettinelli l’unico a pensare che «tutti or più or meno imitando il Petrarca lo travisarono in altro barbaramente» 66. Scriveva, ad esempio, il giovane Monti a Clementino Vannetti il 13 agosto 1785: «veramente io amo moltissimo Petrarca, e poco i Petrarchisti»67. Il meccanismo che agisce è quello, elementare, della saturazione: se «nel primo quarto del secolo scorso il culto pel Petrarca ebbe, senza dubbio, assai meno vigore che in seguito», è perché – annotava Carmelina Naselli ottant’anni fa68 – «si sentiva la stanchezza per quella vuota imitazione formale» nella quale «era andata a finire la restaurazione del culto del Petrarca, con ben altre speranze iniziata al principio del 700». Il petrarchismo arcadico, con i suoi eccessi (verrebbe qui da riesumare il calembour Arcadia/Arquadia coniato alla fine del Cinquecento dal veneziano Francesco Contarini69), provoca ovvie reazioni. Non sarà un caso che, dopo l’ondata cinquecentesca di deonomastici petrarcheschi dal valore più o meno ironico e spregiativo70, se ne registri una seconda proprio nel Settecento: petrarcheggiare (Bergantini), petrarchescata (Fagiuoli), petrarchismo e petrarcheggiante (Bettinelli) 71, ed è sempre Bettinelli che usa il plurale petrarchi («tante copie e di tanti Petrarchi, anzi 63

Della maniera di studiare la lingua, cit., p. 45. Come recita un verso apparso in alcune «capricciose stanze» attribuite a un «gentilissimo poeta milanese» nel n. 21 (1° agosto 1764) della «Frusta letteraria» (si cita da G. Baretti, La frusta letteraria, a cura di L. Piccioni, Bari, Laterza, 1932, vol. II, p. 158). 65 Ibidem. 66 S. Bettinelli, Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti e ne’ costumi dopo il mille, a cura di S. Rossi, Ravenna, Longo, 1976, p. 441. 67 V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-1931, vol. VI, p. 432. 68 Il Petrarca nell’Ottocento, cit., p. 6. 69 «La principale invenzione del Contarini [Fida ninfa, 1598] sembra essere stata quella di aver trasportato l’Arcadia dei pastori sui colli Euganei dei suoi ozi di villa, ad Arquà, trasformando l’Arcadia in Arquadia, una freddura ahimè presa terribilmente sul serio da lui e dai rimatori che gli fanno coro» (G. Folena, L’italiano come lingua per musica, cit., p. 247). 70 Ad esempio: petrarcalità (prima attestazione in Caro), petrarcherìa (Grazzini), petrarchescarìa e petrarchevole (Aretino), petrarchevolmente (G. Mauro), petrarchista (N. Franco): cfr. il Grande Dizionario della Lingua italiana, fondato da S. Battaglia, Torino, Utet, 1961-2003, s.vv. 71 Ivi, s.vv. Per petrarcheggiante, il GDLI riporta come prima attestazione un passo di Carducci; ma vd. Virgiliane VI (Dieci lettere, cit., p. 34): «Un branco di raccoglitori petrarcheggianti le corteggiavano, recando libri di versi con titoli eccelsi». Per petrarchismo (e 64

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pur d’un Petrarca moltiplicato in infinito»; Virgiliane VI72), a cui si può accostare il femminile petrarchessa del Goldoni («Oh pensate! La mia figliuola! La mia petrarchessa!»; Il poeta fanatico, at. III, sc. IV). L’insofferenza per il petrarchismo73 finiva – inevitabilmente – per coinvolgere anche Petrarca. Come spiega con straordinaria lucidità Leopardi nel suo Zibaldone il 20 aprile 1829, «a forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore»74. È per questo che Foscolo insisteva sul fatto che la lingua dei Rerum vulgarium fragmenta è più dell’autore che della nazione, e si potrebbe propriamente chiamare col nome di petrarchesca. Infiniti uomini di studio indefesso e d’ingegno s’applicarono ad imitarla, e tutti senz’eccezione riuscirono o mediocri verseggiatori, o scrittori ridicoli: e questa è la prova più convincente che la lingua di quelle poesie non può dare esempi, né regole, perché fuor d’ogni esempio, e d’ogni sistema e teoria di grammatiche75.

Frasi in cui l’aggettivo petrarchesco assume il valore particolare (tutt’altro che spregiativo) di un marchio di fabbrica inimitabile. 3. Norma / auctoritas Foscolo, d’altra parte, cercava di strappare Petrarca alla «normalizzazione e grammaticalizzazione»76 a cui il Bembo lo aveva sottoposto nelle due petrarchista), cfr. anche il Dizionario etimologico della lingua italiana di M. Cortelazzo e P. Zolli (seconda edizione in volume unico, a cura di M. Cortelazzo e M. A. Cortelazzo, Bologna, Zanichelli, 1999), s.vv. 72 Dieci lettere, cit., p. 36. 73 Si ricorre qui a questa comoda etichetta, ben consapevoli che «nozioni vulgate come quella di boccaccismo e di petrarchismo vanno problematizzate e riarticolate sul presupposto generale che ciascun modello, proprio in quanto tale, deve subire nella tradizione che innesca un processo di standardizzazione necessariamente riduttivo e semplificante [...], mentre insieme, in quella stessa tradizione, si verificano spostamenti e riassestamenti di valori e spesso, nelle zone meno controllate, rilevanti innovazioni», S. Bozzola, Purità e ornamento di parole. Tecnica e stile nei Dialoghi del Tasso, Firenze, Accademia della Crusca, 1999, pp. 10-11. 74 G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori, 1997, to. II, p. 3049. 75 Epoche della lingua italiana, cit., p. 183. 76 C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino, Einaudi, 1993, vol. I (Dalle origini al Tasso), p. 327.

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fasi successive dell’edizione aldina (a dispetto degli autografi che aveva sotto gli occhi)77 e delle Prose, che si presentano come «grammatica elaborata direttamente dall’Architesto»78, ma in realtà inaugurano la tendenza a «correggere in nome delle nuove ‘norme’ linguistiche pretese ‘petrarchesche’ proprio la lingua di Francesco Petrarca»79. Un atteggiamento che tradisce la lettera, ma osserva appieno lo spirito dell’opera di Petrarca (il quale, «rispetto alla propria tradizione, nega, o almeno limita»80) e proprio per questo è recuperato dai classicisti dell’Ottocento. Più di tutti dal Perticari, convinto da un lato che la perfezione dei modelli sia una «follia non [...] caduta giammai in altra mente che in quella de’ pedanti» (cioè dei puristi), dall’altro che «figura di rettorica non può sciogliere da precetto di Grammatica»81. Sulla scorta di questi princìpi, Perticari non esita a segnalare una serie di errori di lingua in cui sarebbe caduto il Petrarca, «il che pur vedesi da chi legga il canzoniere scritto per mano dello stesso Petrarca, che fu di Fulvio Orsino, ed ancora si guarda nella Biblioteca del Vaticano»82. Tra i passi rimproverati al Petrarca dai «suoi scrupolosi, quasi diceva sciagurati correttori» (Giovanni Rosini83), c’era – fin dalle origini della

77 Cfr. ivi, pp. 328-30 e almeno S. Pillinini, Traguardi linguistici nel Petrarca bembino del 1501, in «Studi di filologia italiana», XXXIX, 1981, pp. 57-76. 78 A. Quondam, Il naso di Laura, cit., 29. 79 C. Bologna, Tradizione e fortuna dei classici italiani, cit., vol. I, p. 332. 80 G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, cit., p. 171. 81 Degli scrittori del Trecento e de’ loro imitatori, in Id., Opere, cit., pp. 35-158, alle pp. 117-18. Secondo Perticari, bisogna «spiantare le fondamenta sulle quali il Bartoli pose quel suo libro del Non si può: onde con sapienza sofistica tentò persuadere che in lingua Italiana o leggi non sono, o l’arbitrio de’ buoni le infrange» (ivi, p. 99); principio che lo porta anche ad attaccare «l’autorevole Corticelli» giudicato «un ordinatore d’eccezioni e rarità di lingua» (ivi, p. 247). Da notare che si tratta proprio dei due autori di grammatiche preferiti dalla corrente purista: per Bartoli, cfr. A. Cesari, Antidoto pe’ giovani, cit., pp. 599602; per Corticelli (dichiaratamente fedele al canone di Crusca, cfr. almeno G. Patota, I Percorsi grammaticali, nella Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, vol. I [I luoghi della codificazione], pp. 93-137, alle pp. 117-20), valga l’indicazione di B. Puoti: «vorrei che i giovani non fossero poco solleciti dello studio della grammatica, e ponessero ben mente a scegliere la migliore, che è certamente quella del Corticelli» (Della maniera di studiare la lingua, cit., p. 4). 82 Degli scrittori del Trecento, cit., p. 101. Il ms. è – ovviamente – il Vat. Lat. 3196, essendo il 3195 (pure passato per le mani della famiglia Orsini) riemerso alla consapevolezza dei filologi solo nel 1886: cfr. M. Feo, Francesco Petrarca, nella Storia della letteratura italiana diretta da E. Malato, cit., vol. X (La tradizione dei testi, a cura di C. Ciociola), 2001, pp. 271-329, alle pp. 281-82 e già C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, cit., pp. 15-16. 83 Cfr. A. Dardi, Gli scritti di Vincenzo Monti, cit., n. 252, p. 463.

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Il modello di Petrarca nel dibattito linguistico tra Sette e Ottocento

nostra tradizione grammaticale – la famigerata crux della seconda quartina dell’attuale sonetto CXVI, là dove recita: «et ciò che non è lei / già per antica usanza odia e disprezza». Come ricordava con sarcasmo Alessandro Verri nel suo Promemoria, che serve a maggior spiegazione della rinuncia al Vocabolario della Crusca, il problema verteva su «come mai avesse usato il Petrarca quel lei nel caso retto. Ah poffare! un Petrarca reo di un errore di grammatica, con tanto scandalo de’ buoni?»84. La risposta dei cruscanti era stata – tra Sette e Ottocento – l’emendatio «e non è in lei», che peraltro recuperava un’antica proposta del Fortunio85. Monti, invece, si schiera in difesa della lezione tràdita, perché convinto che «per sospetto di una chimerica scorrezione grammaticale il delicatissimo sentimento del poeta sia stato miseramente tradito». Si guarda bene dal rinnegare, «come una delle più sante, la regola grammaticale che danna il pronome Lei in caso retto»; nega, piuttosto, «che quella regola rimanga infranta nella volgata». E, ricorrendo a una vasta messe di auctoritates grammaticali e letterarie, dimostra come «quel Lei del Petrarca sia un manifestissimo accusativo»86. Ma questa difesa con argomenti grammaticali è solo un episodio isolato, da guardarsi come l’altra faccia della censura del Perticari; o del commento petrarchesco del Soave (1805), pronto a partire all’attacco fin dal primo componimento: «Il Voi che pare isolato, la durezza del quarto verso, la cacofonia dell’undecimo, l’andamento prosaico del tredicesimo sono i principali difetti di questo Sonetto proemiale»87. Questo criterio, per cui «si vorrebbe insegnare al Petrarca quello che avrebbe dovuto dire in luogo di quello che ha 84 Cito dall’ed. Il Caffè ossia brevi e vari discorsi distribuiti in fogli periodici, a cura di S. Romagnoli, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. 174-75, alla p. 175. 85 Cfr. A. Dardi, Gli scritti di Vincenzo Monti, cit., n. 249, pp. 462-63. 86 Le citazioni ivi, rispettivamente alle pp. 472, 465, 471. 87 Le rime di M. Francesco Petrarca illustrate con note dal P. Francesco Soave, Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1805, vol. I, p. 199 (e cfr. R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit. pp. 116-19). Soave si scaglia, al solito, contro il presunto manierismo («Scherza sul nome di Lauretta o Loreta; ma è raro che da siffatti giuochi di parole esca nulla di buono», ivi, vol. I, p. 200; «è figura che molto debb’esser piaciuta a’ Secentisti», I 269), contro quelle che considera «metafore caricate» (I 203) o banali contraddizioni («sembra contraddire al primo verso» I 248). Accanto alle frequenti considerazioni eufonico-metriche («hiato, per dirla alla latina, ingratissimo» I 244, «Chiar per chiaro o chiaramente è tronco durissimo» II, 217, «Movrei per moverei è sillessi troppo aspra» II, 218), ben poco spazio è lasciato a osservazioni linguistiche che non siano meramente esplicative (secondo il tipo: «Nè farò io è in cambio di Nè ’l farò io» I, 236); tra le rare eccezioni: «Secretario è termine da prosa più che da verso» I 247, «Vien per vieni indicativo, e onde io vada per ove io vada, non sono maniere presentemente usitate», II 223, «Avulse è latinismo non adottato» II 237.

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Giuseppe Antonelli

detto»88, sopravvive bene ancora nel primo Ottocento, raggiungendo la sua acme nel solito Pietropoli, che – forte della sua “buona logica” – va ben oltre le censure del Perticari (accusato anzi di debolezza89) e afferma:

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se queste e tante altre [sc. sgrammaticature] io volessi qui raccogliere, una sterminata serie di solecismi compilerei, che non mai per tali dai giovani studiosi saranno considerati, quando tutto nel Cantor di Laura si porta alle stelle; e gli stessi errori di grammatica formano norma e legge90.

Pur nel suo parossismo caricaturale, l’atteggiamento di Pietropoli discende dal principio illuministico professato da Alessandro Verri nei Difetti della letteratura: «per errori di lingua io non intendo ciò che dissuona dalla autorità di qualche scrittore che viene proposto come modello, ma bensì ciò ch’è difforme dalle ben dedotte analogie di essa»91. Un atteggiamento tipico del tradizionalismo classicista, che invece è estraneo al tradizionalismo purista. Non del tutto a ragione, dunque, il Torti se la prende con «i nuovi Puristi de’ nostri tempi» i quali «gridano ad alta voce, che è d’uopo [...] ricondurre nel regno delle lettere gli antichi ceppi grammaticali» (Antipurismo)92. Il padre Cesari, rigidissimo assertore del modello trecentesco, rifiuta l’analogia e più in generale la grammatica intesa come norma astratta o appunto come logica metafisica; in lui il concetto stesso di norma è sostituito da quello di modello. L’imitazione è considerata come una continua tensione verso il recupero dell’irripetibile sorgività che caratterizza le fonti di lingua93 e alla

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C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, cit., p. 121. G. Pietropoli, Il Petrarca impugnato dal Petrarca, cit., p. 275. 90 Ibidem. 91 Il Caffè, cit., pp. 377-91, alla p. 388. 92 F. Torti, Il purismo nemico del gusto o considerazioni sulla prosa italiana, in Id., Antipurismo, nuova edizione, Foligno, Tomassini, 1829, pp. 23-190, alla p. 60. Sulla scarsa attenzione del Cesari per la grammatica come insieme di regole, cfr. C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli, 1908 [rist. anastatica, Bologna, Forni, 1963], pp. 494-95 e C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, cit., pp. 276-77. 93 Cfr. S. Timpanaro, Il Giordani e la questione della lingua, nel vol. II centenario della nascita di Pietro Giordani, Piacenza, Cassa di Risparmio, 1974, pp. 157-208, alle pp. 163-64; e M. Vitale, Il purismo di A. Cesari, in Id., L’oro nella lingua, cit., pp. 507-24, alle pp. 508-10 e 516-17. Più in generale, «è vero che il concetto della purità era stato un elemento permanente delle meditazioni e delle diatribe sull’italiano per tutto il Settecento», ma è alla fine del secolo che «nei richiami costanti alla natura che riflette l’ordine della ragione, era divenuto abbastanza agevole interpretare la naturalezza o naturalità del linguaggio come purità» (Id., «Purista» e «purismo», cit., p. 17). Se Cesari sostiene che «la naturalezza non è solo la madre della facilità, e della grazia, ma essa lo è ancora della chia89

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razionalità induttiva della grammatica universale non si contrappone una logica deduttiva, ma l’empirismo parcellizzato degli exempla in quanto tali. Nel secolo del Boccaccio «non c’era grammatica perché tutti parlavano bene; e le regole le diedero eglino alla grammatica (che da loro le prese)»94, quindi «è cosa non so se più lagrimevole, o infame, il sentir messo in beffa un Dante per qualche parola, per una desinenza»95: «chi vorrebbe citare al tribunale della grammatica Dante, che alla grammatica diede esso le regole?»96 (Dante, e altrove in contesti simili Boccaccio97; mai Petrarca). Sulla stessa lunghezza d’onda anche Puoti («ché l’esempio riesce di maggior pro che i precetti»98) e Giordani99; secondo Michele Colombo, poi, «la lingua non è retta da leggi, qual l’analogia, ma dall’uso degli scrittori donde la sua natura bizzarra»100. 4. Poesia / prosa A un livello più generale, la questione sub iudice è se la letteratura (e in particolare la poesia) debba essere soggetta alle norme grammaticali. Per Rosini, ad esempio, «il regolo del ‘non si può’ vale per l’uso comune, ma non per gli scrittori che ‘portano l’autorità seco stessi’, attingono o creano in base al ‘Gusto che reca in mano il Livello’»101. Persino Cesarotti è d’accordo sul principio: «meno ancor di tutto, la lingua scritta dovrà dipendere dal tribuna-

rezza, e della convenienza dello stile» Dissertazione, cit., p. 98), persino G. Perticari – che pure metteva in guardia dal «pericolo di cader nel vile cercando il naturale» – ammette che «niuno ha mai potuto vincere ancora gli antichi nelle parti della semplicità, della schiettezza, e in un certo candore di voci nate e non fatte, e in una certa breviloquenza e leggiadria, in che sono ancora singolarissimi da tutti» (Degli scrittori del Trecento, cit., p. 92). 94 Dissertazione, cit., p. 114. 95 Antidoto pe’ giovani, cit., p. 611. 96 Bellezze della Divina Commedia, cit., vol. I, p. 182; cfr. R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., p. 137. 97 Nel dialogo Le Grazie, ad esempio, il personaggio del Vannetti si scaglia contro l’abate Talìa, che aveva tacciato di obsoleti alcuni modi consigliati dal Cesari, affermando: «vuol costui adesso insegnar grammatica al Boccaccio? ovvero por Dante a leggere?» (Opuscoli linguistici, cit., pp. 256-340, alla p. 321). 98 Della maniera di studiare la lingua, cit., p. 18. 99 Per il quale L. Serianni ha parlato di «antinormativismo» (Annotazioni sulla lingua di Pietro Giordani, nel vol. Giordani Leopardi 1998, cit., pp. 239-70, n. 40, p. 252). 100 Cfr. M. Corti, Il problema della lingua, cit., n. 21, p. 173. 101 Ibidem.

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le dei grammatici» perché non «i grammatici formaron gli scrittori, ma gli scrittori i grammatici»102. E anche di questo giudizio si fa forte Giovanni Romani (Teorica della lingua italiana, 1826), per il quale è un dato acquisito «che nel linguaggio degli affetti, di cui si valsero soltanto i più rinomati Classici» del Trecento, «si possa parlare e scrivere senza un piano meditato di scienza grammaticale», ovvero essendo meno frenati «da leggi, e da grammaticali regolamenti»103. Più moderato di lui era Giovanni Gherardini, che nel quinto capitolo dei suoi Elementi di poesia (1820) scriveva: Tanto il poeta, quanto l’oratore significano le loro idée con le parole: la proprietà, la chiarezza, insegnate dalla logica, e la correzione, insegnata dalla grammatica sono egualmente necessarie ad ambedue. Ma il poeta [...] ama primieramente d’usar certe voci che assai di rado occorrono nel sermone sciolto104.

La differenza tra lingua della poesia e lingua della prosa va dunque cercata al livello del lessico: come racconta De Sanctis nella Giovinezza, Puoti nelle sue lezioni «faceva un minuto esame delle parole, parte benedicendo, parte scomunicando. ‘Questa è parola poetica, questa è plebea, questa è volgare [...]’»105. Ma la domanda sorge spontanea, e Francesco Fontana, nel suo Breve trattato del verso toscano per uso delle scuole (ristampato più volte tra il 1839 la fine dell’Ottocento), se la pone espressamente: 1. Quali sono le parole poetiche? R. Le parole proprie del verso sono da riputare quelle, che si veggono usate da’ migliori poeti i quali, dalla moltitudine delle voci il più bel fiore cogliendo, si sono quasi formati una propria lingua106.

La spiegazione prosegue, segnalando che la scelta avviene quando «ci abbia due voci, l’una poetica, e l’altra prosaica, del medesimo significato»;

102 M. Cesarotti, Saggio, cit., p. 28; cfr. M. Vitale, La questione della lingua, Palermo, Palumbo, 1978, p. 175. 103 Cfr. C. Trabalza, Storia della grammatica, cit., p. 442, n. 3. 104 Si cita dall’ed. Elementi di poesia compilati da Giovanni Gherardini, Terza edizione milanese riveduta dall’autore, Milano, dalla Stamperia Paolo Andrea Molina, 1847, pp. 18-19. 105 In F. De Sanctis, Opere, a cura di C. Muscetta, vol. I, a cura di G. Savarese, Torino, Einaudi, 1961, p. 44. 106 Si cita dall’ed. Prosodia della lingua latina. Con un breve trattato del verso toscano. Per uso delle scuole, Firenze, Felice Paggi, 1884, p. 90.

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Il modello di Petrarca nel dibattito linguistico tra Sette e Ottocento

una definizione contrastiva che prende corpo poco sotto, quando, rispondendo alla domanda «Si potrebbe egli avere alcun esempio di queste cotali voci prosaiche?», Fontana cita «biasimo, quieto, albero, martirio, desiderio [...] ed altre senza fine, in cambio delle quali il Poeta ama meglio dire: biasmo, queto o cheto, àrbore, martiro, desìro, desìre o desìo»107. Dato, poi, che le parole poetiche «per conto del suono, o della brevità, e talvolta della rima, riescono più acconce», Fontana accomuna queste scelte alle Licenze concedute a’ poeti in grazia della rima, facendo rientrare una serie di fenomeni fonologici («vedella per vederla») e morfologici («Così il Petrarca dice treme, in luogo di tremi congiuntivo») nella sfera non della lingua, ma della retorica108. La scarsa sensibilità diacronica porta da un lato a confondere lingua antica e lingua della poesia, dall’altro a considerare poetiche forme che, almeno fino al Cinquecento, «avevano larga circolazione nei testi antichi senza nessuna connotazione stilistica»109. La distanza che separa la lingua poetica da quella prosastica tende, intanto, ad aumentare: nel tardo Settecento la poesia «conferma e accentua la sua antica vocazione aulicizzante», perseguendo la «codificazione d’una lingua poetica marcata dalla separatezza, nel lessico nelle immagini nella grammatica, rispetto alla prosa»110. Complice il fatto che «il periodo poetico Italiano prese una forma costante fin dalla sua infanzia, portando per così dire l’impronta del genio nazionale – ma non accadde «così della nostra Prosa»111 – e complice la debolezza della tradizione boccacciana rispetto a quella petrarchesca112, «la lirica occupa una posizione strategica nella lunga durata del nostro sistema culturale d’Antico regime»113, al punto che «lo stesso topos storiografico dell’immobilità dell’italiano letterario [...] nasce per l’appunto dalla promozione della lingua poetica a italiano tout court»114.

107

Ibidem. Ad esempio, nella parte dedicata alle Figure poetiche, tra quelle di «accrescimento delle parole» troviamo protesi, epentesi e paragoge, tra quelle di «scemamento delle parole», aferesi, sincope e apocope (cfr. ivi, pp. 81-84). Per le citazioni riportate sopra: ivi, pp. 90, 85 e 87. 109 L. Serianni, Introduzione alla lingua poetica, cit., p. 37. 110 Ivi, pp. 252-53. 111 F. Torti, Il purismo nemico del gusto, cit., p. 81. 112 Su cui è ritornato di recente S. Bozzola, Purità e ornamento di parole, cit., pp. 202-3. 113 A. Quondam, Il naso di Laura, cit., p. 19. 114 L. Serianni, Introduzione alla lingua poetica, cit., p. 11. Per la precoce diffusione del topos, cfr. – ad esempio – A. Verri, Dei difetti della letteratura (cit., p. 388): «forse l’immobilità della nostra lingua, che da Petrarca sino a noi ha quasi nulla cangiato, ascriver debbesi alla immobilità delle nostre idee». 108

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Giuseppe Antonelli

Ma proprio in questo periodo la consapevolezza sempre più diffusa e incontrastata del carattere specialistico della lingua poetica115 sospinge la discussione sul modello petrarchesco in un’area marginale, periferica rispetto al nucleo della questione della lingua116. «Conciossiaché» chiariva il Cesari «nella prosa stia l’indole natural della lingua e l’uso proprio delle voci, e le maniere e frasi native»; è dunque importante che i giovani «sappiano ben conoscere la locuzione poetica dalla comune; e non prendano i traslati e le figure di quella, per maniere proprie di lingua»117. Come lui il Puoti, fedele seguace anche nell’idea che la poesia può servire soprattutto allo stile («né sol per la lingua studiar dobbiamo ne’ poeti; anzi di grande utilità ci possono ancor riuscire per ornare e colorire lo stile»118). Ancora più secca la formulazione che del concetto fa Giuseppe Manuzzi: «le lingue s’imparano ne’ prosatori, non ne’ poeti»119, perché – aggiunge Ambrosoli – «di versi e di verseggiatori non si amplia né si mantiene la civiltà delle nazioni»120.

115 Sul principio, già cinquecentesco, cfr. L. Serianni, Introduzione alla lingua poetica, cit., pp. 15-19 e bibliografia ivi indicata. All’idea di lingua «altra» e a sé rimanda esplicitamente anche una riflessione di Giordani: «parmi di poter conchiudere che siccome non si può scrivere bene in una lingua, se non si pensa in questa, così è della poetica» (cfr. G. Rabitti, Giordani e la poesia, Giordani poeta, nel vol. Giordani Leopardi 1998, cit., pp. 185-214, alla p. 209). 116 Non va dimenticato che «di prosa toscana petrarchesca si conserva in tutto e per tutto la letterina padovana a un Leonardo Beccanugi, più volte pubblicata dal Cinquecento a questa parte» (G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, cit., p. 173). 117 Dissertazione, cit., p. 125. Nella già citata nota «Allo stampatore» premessa agli Esempi di poesia (cit., p. 3) da L. Fornaciari, si dice che nelle «pubbliche scuole del suo collegio», lo studio della prosa italiana aveva un posto secondario rispetto a quello della lingua latina, e «assai minor luogo vi trovava lo studio dell’italiana poesia, alla quale appena si concedea qualche quarticello d’ora in alcun giorno della settimana». 118 Della maniera di studiare la lingua, cit., p. 40. 119 Come si espresse nell’elogio funebre del Cesari (1829), cfr. S. De Stefanis Ciccone, La questione della lingua, cit., p. 199. 120 Scritti letterarj, cit., vol. I, p. 250 (il passo è contenuto nella prolusione recitata all’Università di Pavia il 21 novembre 1842).

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Luigi Trenti

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RIFLESSIONI LEOPARDIANE SU PETRARCA

I. Si può forse usare una piccola allegoria per introdurre il tema, ampiamente studiato negli anni1, di questo intervento: la prima sequenza di battute del ben noto dialogo leopardiano tra due sorelle immortali, la Moda e la Morte, in cui l’una citando un verso petrarchesco di Spirto gentil (RVF LIII, 1 Si rinvia, tra i contributi generali sull’argomento, a: C. De Lollis, Petrarchismo leopardiano (1904), in Id., Scrittori d’Italia, a cura di G. Contini e V. Santoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, pp. 193-219; E. Pasquini, Leopardi e i poeti antichi italiani, in Leopardi e l’Ottocento, Atti del II Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 1-4 ottobre 1967), Firenze, Olschki, 1970, pp. 507-542, in particolare pp. 507-15 (qui spesso seguito nei giudizi critici, storiografici e interpretativi); E. Bonora, Leopardi e Petrarca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, Atti del IV Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati 13-16 settembre 1976), Firenze, Olschki, 1978, pp. 91-150; A. Frattini, Crisi del modello petrarchesco in Leopardi, in Atti 1978, cit., pp. 61731; L. Dall’Albero, «Petrarchismo» e memoria poetica in Leopardi, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXXXVII, 1983, 1-2, pp. 88-101; M. Santagata, cap. Petrarca e Orazio: due maestri per l’oggi, in Id., Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 45-66; V. Zaccaria, Nota sul “Petrarchismo leopardiano”, in «Atti e memorie dell’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti in Padova», CXI, 1998-1999, p. III, pp. 75-87; S. Carrai, Leopardi e il modello petrarchesco nei «Canti» dell’ultimo periodo recanatese, in Dall’Ateneo alla città. Lezioni su Giacomo Leopardi, a cura di M. Dondero, Roma, Fahrenheit 451, 2000, pp. 33-44; A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 88-135 (sezione dal titolo Leopardi tra Petrarca e Dante). Per altra bibliografia specifica cfr. le note seguenti. Tra i commenti più ricchi di riscontri petrarcheschi cfr. G. Leopardi, Canti, a cura di G. e D. De Robertis, Milano, Mondadori, 1978, e il commento Gavazzeni-Lombardi qui cit. alla nota 2.

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77) proclama: «“Passato è già più che ‘l millesim’anno” che sono finiti i tempi degl’immortali», e l’altra l’accusa di petrarcheggiare «come fosse un lirico italiano del cinque e dell’ottocento». Flagrante contraddizione di una Morte che confessa: «Ho care le rime del Petrarca, perché vi trovo il mio Trionfo, e perché parlano di me quasi da per tutto», salvo poi dichiararsi, poche battute più in là, «nemica capitale della memoria»2. Così al di sotto del dettato ironico leopardiano possono trasparire insieme e contemporaneamente una predilezione letteraria per consonanza tematica – quella per i Trionfi 3 – e una sorta di quadro storiografico. Quest’ultimo dipende in tutto e per tutto dalla trama di pensieri che Leopardi era venuto componendo sin dalla Lettera ai Sigg. compilatori della Biblioteca Italiana (1816) e poi via via nello Zibaldone in merito alle epoche della tradizione lirica italiana, sulla scorta – va ribadito – delle poetiche e delle storie letterarie settecentesche a sua disposizione, e in particolare dei testi del Muratori, del Gravina e della storiografia gesuitica (Tiraboschi, Bettinelli, Andrés). Da un lato, infatti, se il secolo petrarchistico per antonomasia è anche per Leopardi il Cinquecento, assai meno scontata e piuttosto significativa è l’accusa di petrarchismo rivolta all’Ottocento, una denuncia che allinea in

2 G. Leopardi, Operette morali, Edizione critica a cura di O. Besomi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979, pp. 53-54. Nel corso dello scritto si citerà da: Canti, introduzione di F. Gavazzeni, note di F. Gavazzeni e M. M. Lombardi, Milano, Rizzoli, 1998 (con riduzione delle maiuscole originali leopardiane a inizio verso); Zibaldone di pensieri, edizione critica e annotata a cura di G. Pacella, 3 voll., Milano, Garzanti, 1991 ( in forma abbreviata, Zib., seguita dalla numerazione leopardiana delle pagine; per le note al testo nel terzo volume: Zib. III ); Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, 2 voll. [con numerazione progressiva delle pagine], Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Tutte le altre citazioni leopardiane sono tratte, salvo diversa indicazione, da Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1976, vol. I. E a proposito del nesso negativo memoria-imitazione si confronti il seguente passo nelle Annotazioni all’ed. 1824 delle Canzoni: «E so bene anche questo, che fra gl’Italiani è lode quello che fra gli altri è biasimo, anzi per l’ordinario (e singolarmente nelle lettere) si fa molto più stima delle cose imitate che delle trovate. Insomma negli scrittori si ricerca la facoltà della memoria massimamente; e chi più n’ha e più n’adopera, beato lui» (Tutte le opere, I, p. 59). 3 Cfr. Zib. 261 (4 ottobre 1820), in cui si tratta comparativamente di poesie, «le quali conservano una certa luce negli argomenti più bui, dolorosi e disperanti; e la lettura del Petrarca, p. e. de’ Trionfi e della conferenza di Achille e di Priamo, dirò ancora di Verter, produce questo effetto molto più che il Giaurro, o il Corsaro ec. non ostante che trattino e dimostrino la stessa infelicità degli uomini, e vanità delle cose», su cui si veda E. Pasquini, Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., p. 513.

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un confronto paritetico di responsabilità passivamente imitatorie gli anni del poeta al secolo XVI, e quindi entrambi coinvolti in un processo irreparabile di moda e di morte 4. Mentre allo schema storiografico settecentesco (e arcadico) risalgono invece i due secoli, compresi tra i due menzionati e quindi omessi, il XVII e il XVIII, in quanto esponenti di decadenza e imbarbarimento letterario il primo e di parziale rinascita della poesia (più nei giudizi di condanna antibarocca e nelle teorie che non nella pratica) il secondo. In questo intervento quindi, dedicato alla poesia di Petrarca in Leopardi, mi soffermerò soltanto su alcuni momenti sintomatici di questa complessa relazione letteraria nel presupposto di dover isolare in fasi significative un processo non lineare ma quanto mai consapevole e selettivo, che prevede al suo interno anche radicali modifiche nel significato profondo e pure evidenti continuità, in virtù, si potrebbe dire, della inesauribile produttività di un classico a confronto con la magnitudine condizionante di una personalità d’autore, attivo qui nella sua prospettiva di poeta-critico, saggiatore di una vitalità letteraria plurisecolare. E la ricerca di senso di questo rapporto letterario potrebbe definirsi perciò come soltanto un esempio, di certo il più importante, di quell’ “essere in tradizione”, che in vario modo Leopardi intendeva e praticava in proprio5. Di qui la necessità di mantenere il discorso sul versante della riflessione leopardiana e da questa sommariamente o episodicamente (con qualche esempio applicativo) guardare al poetico, che volta a volta o la precede o la affianca o la segue. Con l’avvertenza scontata, inoltre, che il filo di questo rapporto attraversa l’opera – non solo poetica – leopardiana. Da ciò pure le tesi che qui si riprendono con qualche spunto, basate sul giudizio di fondo che il Canzoniere petrarchesco non sia nella ricezione leopardiana – se non per brevissimo tempo – un «codice di poesia» e di situazioni poetiche replicabili, bensì piuttosto un «altissimo modello» di lingua letteraria6, nella convinzione cioè di un radicale «irriducibilità» dei Canti – ma anche dei compositi e “stratificati” antecedenti del libro:

4 Questo aspetto è sottolineato dal saggio, puntuale e largamente condivisibile, di S. Carrai, Leopardi e il modello petrarchesco, cit., p. 34. 5 Sul «rapporto di Leopardi con la tradizione» cfr. M. Santagata, Petrarca e Orazio: due maestri per l’oggi, cit., p. 52: «Egli ha le idee ben chiare su cosa la tradizione significhi, in generale, per un autore e, in particolare, per un autore italiano. Prosatore o poeta che sia, questi è in ogni caso costretto a operare in un contesto nel quale la tradizione letteraria esercita un potere esorbitante». 6 E. Bonora, Leopardi e Petrarca, cit., p. 108.

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Canzoni e Versi – «a una nozione di “canzoniere” nel senso petrarchesco, con le sue connotazioni di (relativo) monostilismo, di circolarità e di recursività»7. Così come traspariva nel dettato ironico-antipedantesco dell’annuncio (1825) della edizione delle Canzoni, in nome di una distanza poetica ormai acquisita:

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Sono dieci canzoni, e più di dieci stravaganze. Primo: di dieci Canzoni né pur una amorosa. Secondo: non tutte e non in tutto sono di stile petrarchesco. […] in somma non si rassomigliano a nessuna poesia lirica italiana 8.

II. Vi è una sorta di polittico di riflessioni petrarchesche nelle prime cento pagine dello Zibaldone 9, che merita attenzione e analisi puntuale. Si tratta di almeno cinque brani autonomi, che sembrano costituire nella loro successione non casualmente ravvicinata nel giro di un paio di anni il filo di una meditazione continua, e perciò un nucleo importante di quella perimetrazione dell’opera petrarchesca, che è elemento caratteristico del Leopardi nei dintorni della «mutazione» del 1819 (Zib. 143-44, I luglio 1820). Del resto, se le prime riflessioni petrarchesche dello Zibaldone costituiscono un insieme abbastanza coerente e significativo, esse però si collegano strettamente all’officina delle prime canzoni, ma anche alla polemologia argomentativa del Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica e soprattutto all’intenso dialogo epistolare di questi anni col Giordani. Proprio in questo torno di anni e negli scambi di quest’ultimo fertilissimo rapporto intellettuale nasce, com’è noto, il proposito leopardiano di una rifondazione ex novo della lirica moderna, più volte espresso e poi negli anni significativamente sottinteso10. Il punto di arrivo di questo processo appena descritto è peraltro notissimo e consiste nel famoso passo del 28 novembre 1821, in cui è espresso con

7 Cfr. le pagine di L. Blasucci, Premessa, e Sul libro dei «Canti» (2000), in Id., Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 79 e 63-84, e in particolare p. 74, citazione a p. 8. 8 Tutte le opere, cit., I, p. 56. 9 Per la cronologia cfr. G. Pacella, Datazione delle prime cento pagine dello Zibaldone, in «Italianistica», XVI, 1987, pp. 401-09, e Id., Introduzione a Zib., cit., pp. XIV-XV. 10 Cfr. le lettere al Giordani del 19 febbraio 1819 (in Epistolario, cit., p. 259 ) e del 20 marzo 1820 (ivi, pp. 384-85); A. Tartaro, Leopardi, Roma-Bari, Laterza, 1978, pp. 50-57; L. Blasucci, Morfologia delle Canzoni (1993), in Id., I tempi dei «Canti», Torino, Einaudi, 1996, pp. 4-5.

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chiarezza secondo teoria sensistica11 e nel segno di Petrarca il paradosso leopardiano della originalità acquisita: […] P.e. io finchè non lessi se non autori francesi, l’assuefazione parendo natura, mi pareva che il mio stile naturale fosse quello solo, e che là mi conducesse l’inclinazione. Me ne disingannai, passando a diverse letture, ma anche in queste, e di mese in mese, variando il gusto degli autori ch’io leggeva, variava l’opinione ch’io mi formava circa la mia propria inclinazione naturale. E questo anche in menome e determinatissime cose, appartenenti o alla lingua, o allo stile, o al modo e genere di letteratura. Come, avendo letto fra i lirici il solo Petrarca, mi pareva che dovendo scriver cose liriche, la natura non mi potesse portare a scrivere in altro stile ec. che simile a quello del Petrarca. Tali infatti mi riuscirono i primi saggi che feci in quel genere di poesia. I secondi meno simili, perché da qualche tempo non leggeva più il Petrarca. I terzi dissimili affatto, per essermi formato ad altri modelli, o aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Zib. 2184-86).

Non meno importante, anzi decisiva, dal punto di vista teorico la conclusione del brano, nata da un momento ulteriore di riflessione: (Originalità quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s’è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l’originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benchè questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.);

in cui si coglie l’esplicita sottolineatura del paradosso e il rovesciamento delle tesi antistaëliane affermate nella Lettera ai Sigg. compilatori12, ove si sosteneva : «Io non veggo come si possa essere originale attingendo, e come un largo studio d’ogni gusto e d’ogni letteratura, abbia a menarne ad una originalità trascendente»13, riprendendo con impercettibile diversa sottolineatura i termini presenti nel secondo articolo staëliano di replica alle critiche 11 Due mesi prima, anche nel notissimo passo del 19 settembre 1821 (Zib. 1741-42), il «passaggio […] dall’erudizione al bello» è motivato nei termini della teoria dell’assuefazione ma dal punto di vista dell’origine, cioè della prima formazione classica leopardiana («Le circostanze mi avevan dato allo studio delle lingue, e della filologia antica. Ciò formava tutto il mio gusto: io disprezzava quindi la poesia. Certo non mancava d’immaginazione, ma non credetti d’esser poeta, se non dopo letti parecchi poeti greci». 12 Come osserva Pacella (Zib. III, p. 735 nota 2). 13 In Tutte le opere, I, cit., p. 880.

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(giugno 1816: «conoscere non trae punto seco di necessità d’imitare; al contrario quanto più l’intelletto acquista di forza per lo studio, tanto più diventa capace di una originalità trascendente»)14, poi ampiamente metabolizzati e fatti propri in Zib. 2184-86 e altrove. La diacronia dei «saggi» poetici nel passo citato ha ricevuto varie interpretazioni15 (ora proiettando l’intera scansione sul periodo creativo 1816-18, oppure riconoscendo tutte le tre fasi nei versi 1816-17 e 1818-21 dei Canti), ma quel che più conta nel testo è da un lato l’affermazione della nascita del poeta novus su un’esplicito tirocinio petrarchistico, benché narrato come contingente, dall’altro il riconoscimento della facoltà “mimetica”16 quale organo strutturante della personalità poetica, come era già teorizzato in Zib. 1364-65 (21 luglio 1821): La facoltà imitativa è una delle principali parti dell’ingegno umano. L’imparare in gran parte non è che imitare. Ora la facoltà d’imitare non è che una facoltà di attenzione esatta e minuta all’oggetto e sue parti, e una facilità di assuefarsi. Chi facilmente si assuefa, facilmente e presto riesce ad imitar bene. Esempio mio, che con una sola lettura, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomicisi subito l’immaginazione, e a rifarlo ec. [...] Or questo non è altro che facoltà d’imitazione, derivante da facilità di assuefazione.

Tanto più che poco tempo dopo, il 6 dicembre 1821, Leopardi avrebbe dettato le sue osservazioni sull’uso finalizzato ed economico delle letture: È cosa facilmente osservabile che nel comporre ec. giova moltissimo, e facilita ec. il leggere abitualmente in quel tempo degli autori di stile, di materia ec. analoga a quella che abbiamo per le mani ec. Da che cosa crediamo noi che ciò derivi? forse dal ricevere quelle tali letture, quegli autori ec. come modelli, come esempi di ciò che dobbiamo fare, dall’averli più in pronto, per mirare in essi, e regolarci nell’imitarli? ec. non già, ma dall’abitudine materiale che la

14 Il passo di Mme de Staël si legge in Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), a cura di E. Bellorini, nuova ed. a cura e con introduzione di A. M. Mutterle, vol. I, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 65; cfr. il cap. di S. Chemotti, Caratteri e limiti del Romanticismo italiano. Prospettive culturali e dibattito ideologico, in Storia letteraria d’Italia, Vallardi, nuova ed. a cura di A. Balduino, vol. X, L’Ottocento, a cura di A. Balduino, Padova, Piccin Nuova Libraria, 1990, to. I, pp. 503-629, in particolare pp. 538-46. 15 Cfr. E. Bonora, Leopardi e Petrarca, cit., pp. 91-99. Cfr. inoltre L. Blasucci, Sulle due prime canzoni (1961), in Id., Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 31-80 e in specie pp. 55-57. 16 E si vedano anche i pensieri di Zib. 1383-84.

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mente acquista a quel tale stile ec. la quale abitudine le rende molto più facile l’eseguir ciò che ha da fare. Tali letture in tal tempo non sono studi, ma esercizi, come la lunga abitudine del comporre facilita la composizione. Ora tali letture fanno appunto allora l’uffizio di quest’abitudine, la facilitano, esercitano insomma la mente in quell’operazione ch’ella ha da fare. E giovano massimamente quando ella v’è gia dentro, e la sua disposizione è sul train di eseguire, di applicare al fatto ec. Così leggendo un ragionatore, per quei giorni si prova una straordinaria tendenza, facilità, frequenza ec. di ragionare sopra qualunque cosa occorrente, anche menoma. Così un pensatore, così uno scrittore d’immaginazione, di sentimento (esso ci avvezza allora a sentire anche da noi stessi), originale, inventivo, ec. E questi effetti li producono essi non in forza di modelli (giacchè li producono quando anche il lettore li disprezzi, o li consideri come tutt’altro che modelli), ma come mezzi di assuefazione. E però, massime nell’atto di comporre, bisogna fuggir le cattive letture, sia in ordine allo stile, o a qualunque altra cosa; perchè la mente senz’avvedersene si abitua a quelle maniere, per quanto le condanni, e per quanto sia abituata già a maniere diverse, abbia formato una maniera propria, ben radicata nella di lui assuefazione ec. (Zib. 2228-30).

In sostanza, considerando i due brani del novembre-dicembre 1821 come una specie di bilancio dell’attività, retrospettiva e in fieri, si può dire che il discorso leopardiano storicizzi nella sua preistoria l’apprendistato petrarchesco, pur ammettendone la portata formativa, mirando piuttosto a un impianto teorico in cui il raggiungimento dell’originalità è concepito, sulla base di un dispositivo naturale, come un processo di dispersione del modello tra altri modelli, nella prospettiva fisiologica di una opacizzazione dei modelli che, se può ricordare il risultato di una tecnica specificamente umanistica in auge almeno dal Petrarca e Poliziano in poi, punta in definitiva alla identificazione di uno stile personale attraverso momenti diversificati di progettualità consapevole, da cui può derivare e legittimarsi la calcolata pratica degli “esercizi di lettura”. In questo ambito quindi teoria conoscitiva dell’«assuefazione» e retorica generale dettano i presupposti operativi dell’esercizio poetico, originato da una stretta relazione tra esperienza ricettivo-creativa e riflessione. Procedendo a ritroso, allora, si può dire che il pensiero leopardiano consegnato alle prime pagine dello Zibaldone si misuri subito con il lascito della tradizione di Petrarca e del petrarchismo antico e contemporaneo e insomma con l’intera (selezionata) tradizione poetica vivente ancora nella memoria letteraria e critica di primo Ottocento. Il polittico petrarchesco (1818-post 31 maggio 1820) si affianca infatti allo scrutinio definitorio delle maniere cinque-secentesche di poesia alta e sublime, e presuppone di fatto una lettura del

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Canzoniere, privilegiata nelle zone ritenute più congeniali alla ricerca poetica in corso e tuttavia mantenuta a un livello di tensione che già prospetta sin dall’inizio – per i dettagli poetici esaminati – piuttosto esiti emulativi e per così dire analogici, che non materialmente e passivamente imitativi. Il brano più famoso è senz’altro il primo (Zib. 23, del ’18): Quell’affetto nella lirica che cagiona l’eloquenza, e abbagliando meno persuade e muove più, e più dolcemente massime nel tenero, non si trova in nessun lirico, né antico né moderno se non nel Petrarca , almeno in quel grado: e Orazio quantunque forse sia superiore nelle immagini e nelle sentenze, in questo affetto ed eloquenza e copia non può pur venire al paragone col Petrarca: il cui stile ha in oltre (io non parlo qui solo delle canzoni amorose ma anche singolarmente e nominatamente delle tre liriche: O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.)17 ha una semplicità e candidezza sua propria, che però si piega e si accomoda mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire, (come in quel: Pon mente al temerario ardir di Serse ec.) così in tutto il corpo e continuatamente, come nelle varie parti e in quelle dove egli si alza a maggior sublimità e nobiltà che per l’ordinario: si piega alle sentenze (come in quel: Rade volte addivien che a l’alte imprese ec.) quantunque di quelle spiccate non n’abbia gran fatto in quelle tre canzoni: si piega ottimamente alle immagini delle quali le tre canzoni abbondano e sono innestate nello stile e formanti il sangue di esso ec. (come: Al qual come si legge, Mario aperse sì ‘l fianco ec. Di lor vene ove il nostro ferro mise ec. Le man le avess’io avvolte entro i capegli ec.).

L’orizzonte teorico di questi motivati giudizi è quello della poetica (il termine occorreva già nelle prime righe proemiali del Discorso18), indirizzata al fare proprio nel momento giudicante, e, per le categorie messe in gioco, sostanzialmente, anche se non interamente, tributaria della recente tradizione critica settecentesca e di primo Ottocento19. L’asse retorico-stilistico orienta quindi in modo prevalente gli elementi analitici dell’esame leopardiano. La circoscrizione di una poesia degli affetti,

17 Cfr. la lettera al Giordani del 19 febbraio 1819, in cui sono definite «le sole composizioni liriche italiane che si meritino questo nome», in Epistolario, cit., p. 259. 18 G. Leopardi, Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, a cura di R. Copioli, Milano, Rizzoli, 1998, p. 71. 19 Cfr. il par. di G. Bardazzi, L’attività critica dei poeti:Leopardi, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. XI, La critica letteraria dal Due al Novecento, coordinato da P. Orvieto, Roma, Salerno Editrice, 2003, pp. 639-46, in particolare per i riferimenti a Gravina (pp. 639-40).

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psicagogica, sia nel genere dei “movimenti” dell’animo più “teneri” (poesia amorosa), sia più estesamente dei più intensi e virili (poesia lirico-eloquente), cioè nella canzone lirica, delinea il profilo di un Petrarca esemplare, visto attraverso un comparatismo assoluto e indifferenziato di antico e moderno, che è poi il segno anche del piano estetico-retorico del discorso. Di qui l’insistenza e lo scavo su singole immagini e sentenze, rivelatrici di affetto, eloquenza e copia del dire, di qui pure l’identificazione del canone triadico stilistico interno al Canzoniere, composto da «O aspettata in ciel beata e bella, Spirto gentil che quelle membra reggi, Italia mia ec.» (RVF XXVIII, LIII, CXXVIII) e qualificato in complesso per il tono di «semplicità e candidezza sua propria» adattata «mirabilmente alla nobiltà e magnificenza del dire». Un canone, (già tassiano), dipendente senz’altro dalla apologetica bettinelliana espressa in Delle lodi del Petrarca (1786) nel quadro di una difesa tradizionalista e anti-esterofila20, e tuttavia diffuso nella critica tra i due secoli e in particolare nel Ginguené21, stimato dal Giordani («ingegnosissimo e giudiziosissimo») 22 e da Leopardi (Zib. 974, 20-22 aprile ’21: «eccetto il Ginguené, non credo che si trovi autore francese, massime oggidì, che abbia saputo o sappia giudicare con verità della lingua e letteratura italiana»). Dall’impulso iniziale di questo primo bilancio di valutazioni petrarchesche si sviluppano i successivi interventi di analisi, con riprese e nuovi incrementi di discorso, intervallati da un esigente e per lo più liquidatorio scrutinio della poesia eloquente esteso dal Testi (Zib. 23-24), al Filicaia (Zib. 24 e 26), al Chiabrera (Zib. 24-26, 27-28), al Guidi (Zib. 26-28), al Manfredi (Zib. 28) con l’interessante inclusione fuori registro del filone anacreontico (Zappi in Zib. 28) e una esplicita classifica consuntiva di valori e maniere (Zib. 28). Se il secondo brano petrarchesco (Zib. 24, del ’18), sempre nella prospettiva della «vera e animata e calda eloquenza», amplifica le qualifiche

20 Delle lodi del Petrarca dell’abate SAVERIO BETTINELLI, Bassano, [Remondini], 1786, p. 15. Come risulta dalla biblioteca familiare (Catalogo della biblioteca Leopardi, in «Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le province delle Marche», IV (1899), p. 47) Leopardi leggeva il testo di Delle lodi in S. Bettinelli, Opere edite e inedite in prosa e in versi, Venezia, A. Cesare, 1799: cfr. to. VI, p. 309. 21 P. L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, 9 tomi, A Milan, chez Paolo Emilio Giusti, 1820-21, II, 1820, pp. 498-502 (ed. presente nella biblioteca di Recanati; cfr. Catalogo della biblioteca Leopardi, cit., p. 177). Ma si veda la lettera da Pisa a Paolina del 2 maggio 1828: «Dì a Carlo che, per baratto di copie della Crestomazia, ho acquistato qui, fra certi altri libri, la Storia di Ginguené, edizione francese, che mi ricordo che egli leggeva con piacere» (Epistolario, cit., p. 1480); cfr. pure Zib. 4307-08. 22 G. Getto, Storia delle storie letterarie, nuova ed. riveduta, Firenze, Sansoni, 1969, p. 122.

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dell’«affetto», rilevando in aggiunta alla copia del dire i movimenti patetici, cioè «pieni toû páqouv» (con rinvio al Sublime), e le «immagini affettuose»23, l’accento del giudizio cade però qui sul ruolo plasmante che la dominante degli affetti svolge nel determinare la singolare qualità di “fusione” espressiva «delle sue Canzoni, (anche nominatam. quelle sull’Italia24)», vale a dire quella «mollezza e quasi untuosità come d’olio soavissimo», ovvero, in altri termini sinonimici, «quella morbidezza e pastosità che è cagionata dal cuore». Dall’esame contrastivo con i poeti di eloquio, di cui si è appena detto sopra, scaturisce quindi il terzo brano di Zib. 59-60 (del ’19), nel quale l’armamentario retorico di una intera stagione poetica è liquidato in modo sprezzante dal punto di vista di un ideale di stile, che si configura con formule definitorie piuttosto nette, ispirandosi a criteri di funzionalità e armonizzazione espressiva. Del resto nella trama argomentativa del brano spiccano altri elementi. La comparazione retorica con i cinquecentisti fa parte però, anzi è il primo livello, di un comparatismo complesso, in cui entrano in gioco il confronto totalizzante con i poeti latini e greci (negato il primo, ammesso il secondo), quindi il parallelismo tra Dante e Petrarca, enunciato come un primato di sobrietà ed essenzialità espressiva ma esemplificato soltanto nel secondo attraverso una scelta d’autore: l’iscrizione alfieriana (tratta da Triumphus Pudicitie vv. 136-37) posta in esergo alla Virginia, che non è solo un trascurato nucleo ispiratore dell’episodio di Virginia in Nelle nozze della sorella Paolina (vv. 76-90), bensì il segno di un occhio epigrafico leopardiano già qui operante come indirizzo di gusto e in seguito più volte emergente. L’ampia gittata del pensiero conduttore del brano si conclude infine su un piano di generalizzazione tecnico-compositiva col rilievo della categoria della «spontaneità» petrarchesca misurata questa volta in relazione alle costrizioni metrico-sintattiche imposte dalla rima. Quella miserabile lussuria di epiteti, sinonimi, riempiture, chevilles, ec. che forma il comunissimo orpello de’ nostri classici cinquecentisti (e credo anche nel Poliziano) però non paragonabili ai latini ma più ai greci quanto allo stile, 23

Con citazione del verso 63 di Spirto gentil: «E la povera gente sbigottita ec.». A questo proposito va notato come il canone triadico “eloquente”, enunciato in Zib. 23, e in parte indirettamente ribadito con il verso citato in Zib. 24 (di cui qui a nota 23), subisca una significativa riduzione (non motivata altrove) in Zib. 29: «Chi mi chiedesse qual sia secondo me il più eloquente pezzo italiano, direi le due canzoni del Petrarca Spirto gentil ec. e Italia mia ec. se concedessi qualche cosa al Tasso ch’era in verità eloquente, e principalmente parlando di se stesso, ed eccetto il Petrarca, è il solo italiano veram. eloquente». 24

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non si trova o più rara assai in Dante e nel Petrarca dove anzi trovi una misuratezza infinita di parole e castigatezza di ornati e significazione conveniente e opportunità di tutte le voci ec. come in quello del Petrarca messo dall’Alfieri avanti alla sua Virginia: Virginia appresso al fero padre armato Di disdegno di ferro e di pietate. Trionfo Castità. Così anche le rime del Petrarca sono molto più spontanee, e con ciò tutto quello che dipende nel verso dalla necessità della rima che alle volte fa aggiungere intieri versi che si potrebbero torre di netto ec. come nei cinquecentisti.

Nel quarto brano (Zib. 70, del ’19) sono fissate alcune categorie stilistiche importanti, che si possono considerare come una ulteriore messa a punto e per così dire un raffinamento della precedente esposizione: in un contesto espresso in forma dubitativa per qualificare in modo distintivo l’antica poesia greca e la sua omologa italiana, la polarità concettuale di natura e artificio, sottostante al dettato leopardiano, sembra tradurre la caratteristica di «spontaneità», già enunciata per la poesia petrarchesca, come «semplicità» “naturale”, avanzando subito dopo una parola chiave come «familiarità» (del linguaggio poetico) correlata e interpretata nel senso di «più vicina alla prosa»; definizioni terminologiche, entrambe destinate a successive meditazioni e precisazioni nello Zibaldone, ma che già qui in una fase incipitaria propongono una linea di riflessione sul linguaggio poetico tendenzialmente idealizzante, che non si esaurisce, sul versante operativo, nella ricerca stilistica delle canzoni-odi. La semplicità del Petrarca benchè naturalissima come quella dei greci, tuttavia differisce da quella in un modo che si sente ma non si può spiegare. E forse ciò consiste in una maggior familiarità, e più vicina alla prosa, di cui il Petrarca veste mirabilmente i suoi versi così nobilissimi come sono. I greci poeti sono un poco più eleganti, come Omero che cercava in ogni modo un linguaggio diverso dal familiare come apparisce da’ suoi continui epiteti ec. quantunque sia rimasto semplicissimo. Forse anche la lingua italiana, essendo la nostra fa che noi sentiamo questa familiarità dello stile più che ne’ greci, ma parmi pure che vi sia una qualche differenza reale.

Il quinto brano di Zib. 112-113 rappresenta invece una svolta tematica; il tema nuovo è infatti costituito da Petrarca poeta «d’amore», primo contesto esplicito dello Zibaldone a riguardo25, che perciò merita una certa attenzione. 25 E si veda il rifiuto autocensorio di leggere Petrarca espresso nel cosiddetto Diario del primo amore (1817), «comeché credessi che ci avrei trovato sentimenti somigliantissimi ai miei» (in Tutte le opere, cit., I, p. 359).

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Inoltre, nel passo (post 31 maggio 1820) il raffronto con indefiniti poeti d’amore «specialmente stranieri», si ricollega ad alcune tesi del recente Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica26 e in particolare alla definizione di Petrarca quale «sovrano poeta sentimentale», «in un tempo che non c’era né psicologia né analisi né scienza altro che misera e tenebrosa»27:

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La gran diversità fra il Petrarca e gli altri poeti d’amore, specialmente stranieri, per cui tu senti in lui solo quella unzione e spontaneità e unisono al tuo cuore che ti fa piangere, laddove forse niun altro in pari circostanze del Petrarca ti farà lo stesso effetto, è ch’egli versa il suo cuore, e gli altri l’anatomizzano (anche i più eccellenti) ed egli lo fa parlare, e gli altri ne parlano.

Ma la contestualizzazione più aderente alla singolarità di questo pensiero si trova piuttosto nei versi dei canti composti nello stesso anno: la canzone Ad Angelo Mai (gennaio 1820) e l’elegia-idillio Il sogno (circa dicembre 1820). Il filo petrarchesco, al di là dell’autobiografismo dell’io poetico, è infatti testimoniato dai versi 66-73 della canzone: «[…] E le tue dolci corde / susurravano ancora / dal tocco di tua destra, o sfotunato / amante. Ahi dal dolor comincia e nasce / l’italo canto. E pur men grava e morde / il mal che n’addolora / del tedio che n’affoga. Oh te beato, / a cui fu vita il pianto! […]»28, laddove «sfortunato amante» recepisce anche, drammatizzandolo, lo schema biografico diffuso dell’amore infelice petrarchesco, già per altro enunciato con precisione nella polemica antiromantica del Discorso («onde quelle immaginazioni che resistono eccellentemente ai sospiri di un poeta tenero e infelice per una donna di Avignone, non può far che non cedano tanto o quanto ai ruggiti d’un assassino per una turca [i. e. nel Giaurro di Byron]29»), e nella chiusa di un pensiero di Zib. 220-21 sul sentimento della 26 Per i vari contesti cfr. G. Leopardi, Discorso di un italiano, cit.: p. 96 (eclisse di Dante e Petrarca nel Seicento); p. 119 («un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca»: è la sequenza iniziale dei poeti nella canzone Ad Angelo Mai, vv. 61-75 e 106-20; vedi seguenti); pp. 120-21 (antiregolismo di Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, i «tre primi […] e similissimi agli antichi, e diversissimi»); p. 137 («E per esempio di quella celeste naturalezza colla quale ho detto che gli antichi esprimevano il patetico, può veramente bastare il solo Petrarca ch’io metto qui fra gli antichi, né senza ragione, perch’è loro uguale, oltreché fu l’uno dei primi poeti nel mondo appresso al gran silenzio dell’età media»; p. 138 («il sentimentale di Virgilio e del Petrarca»); p. 140 («dunque il Petrarca dove non parlò d’amore non fu poeta?»; p. 161 «vedo gran parte degl’italiani vergognarsi d’essere compatriotti di Dante e del Petrarca e dell’Ariosto e dell’Alfieri […]». 27 Ivi, pp. 129 e 128. 28 G. Leopardi, Canti, cit., pp. 134-35. 29 Id., Discorso di un italiano, cit., p. 99.

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«compassione» (21 agosto 1820, esatto e quasi ignorato antecedente e contrario della Saffo del ’22), in cui Leopardi sottolinea il «contrasto», che «ci sarebbe disgustosissimo» tra una bella poesia e un poeta brutto, «Molto più s’egli parla di se, delle sue sventure, dei suoi amori sfortunati, come il Petrarca ec.». Non di meno collimano i sintagmi della compassione in Il sogno: v. 63, «il misero amante»; v. 72, «o sventurato»; v. 90, «o sfortunato»; e come conferma per altro aspetto la situazione di un “disegno” del ’21 («Incontro di Petrarca morto, con Laura p. la prima volta. […]»30). Dopo questi pensieri i fili della riflessione leopardiana su Petrarca si complicano e snodano in nuove trame, ora episodiche e puntuali sulla scia delle occasioni di studio e di lettura, ora sequenziali secondo disegni riconoscibili di ordito e come tracce di questioni e preoccupazioni teoriche e pragmatiche più profonde. Si può dire con certezza che il motivo conduttore di più lunga durata, fino alle ultime annotazioni dello Zibaldone, sia costituito dalla meditazione sullo stile della poesia e in specie tra Zib. 1806 e 3415 sullo sviluppo delle implicazioni inerenti al concetto di «familiarità» (del linguaggio poetico), già inserita tra le qualifiche petrarchesche in Zib. 70, come si è visto. Eppure non va dimenticato che questo processo, qui appena delineato, presuppone in controluce le dinamiche filosofiche, che di lì a poco investiranno anche il circuito della riflessione letteraria e che si possono definire per Leopardi nella ricerca problematica, in un’epoca disamena («l’età del vero non è quella del bello»), di una lingua che «assuma le qualità che servono al vero, e ch’ella non ebbe mai» (Zib. 1360, 20 luglio 1821). Proprio il ’21 tuttavia si può cosiderare il vero snodo cronologico nella riflessione leopardiana31, non solo per l’importanza dei pensieri già esaminati (21 luglio, 28 novembre, 6 dicembre) ma per tutto un complesso di messe a punto concettuali che si delineano sul piano di una ricerca teorica segnata da una riconoscibile tendenza antiregolistica e antinormativa32, senza dire del

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Tutte le opere, cit., I, p. 370. Del resto, il distacco dal modello petrarchesco (pur rielaborato in forme nuove) della lirica eloquente, non solo ovviamente sul piano tematico e rappresentativo, è già nettissimo nelle canzoni del ’21: cfr. L. Blasucci, Morfologia delle Canzoni (1993), cit., pp. 343, in particolare pp. 26 sgg. Sul filo petrarchesco di alcune testure della poetica del «vago» e dell’«indefinito», oltre al notissimo «forse» di RVF L, 3 relativo alla leggenda degli antipodi (su cui Zib. 247-48, 1465, e Annotazioni all’ed. ’24 delle Canzoni, in Tutte le opere, cit., pp. 62-63; L. Trenti, Temi umanistici nella canzone ad Angelo Mai, in Leopardi e Roma, Atti del Convegno, Roma 7-8-9 novembre 1988, a cura di L. Trenti e F. Roscetti, Roma, Colombo, 1991, pp. 129-32) si veda almeno Zib. 1825-26 (3 ottobre ’21). 32 Così nel caso della “regolarità” poematica («Regolare non è assolutamente nessun poema. […] I generi ponno essere infiniti, e ciascun genere, da che è genere, è regolare, 31

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ricorso frequente a una terminologia critico-estetica. In ogni caso il percorso era già impostato sull’antico nella dialettica tra libera invenzione e norma letteraria:

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Omero che scriveva innanzi ad ogni regola, non si sognava certo d’esser gravido delle regole come Giove di Minerva o di Bacco, né che la sua irregolarità sarebbe stata misurata, analizzata, definita, e ridotta in capi ordinati per servir di regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi, e originali come lui. E si può ben dire che l’originalità di un grande scrittore, producendo la sua fama (giacchè senza quella, sarebbe rima[s]to oscuro, e non avrebbe servito di norma e di modello) impedisce l’originalità de’ successori. (Zib. 307-08, 8 novembre 1820).

III. Nel paradigma antico-moderno, perno filosofico sia del parallelismo storico e metastorico che del comparatismo letterario leopardiano, il concetto di originalità – con il suo etimo di ‘origine’ – svolge una funzione decisiva. Questo concetto non ha soltanto una connotazione di valore o di sottinteso cronologico, bensì configura lo schema logico di una filosofia della retorica che contrappone radicalmente la soglia di fondazione di una lingua-letteratura ai periodi di modellizzazione-imitazione. Di qui il pensiero dell’8 dicembre 1820 che motiva anche in senso politico questo tema dell’inizio: «[…] un’altra gran cagione dell’estinguersi che fece subitamente l’originalità vera e la facoltà creatrice nella letteratura italiana, originalità finita con Dante e il Petrarca, cioè subito dopo la nascita di essa letteratura, può essere l’estinzione della libertà, […]» (Zib. 392). Lo svolgimento conseguente dei presupposti appena enunciati culmina nella proclamazione secondo cui «Dante e Petrarca (sebbene non senza gran difetti di stile) furono nello stile più vicini alla perfezione che i cinquecentisti […] (tanto è vero che la poesia migliore è la più antica, all’opposto della prosa, dove l’arte può aver più luogo» (Zib. 700-01); e soprattutto che tra le tre corone «[…] nel secondo [Petrarca] massimamente ritrovo una forma ammirabilmente stabile, completa, ordinata, adulta, uguale, e quasi perfetta di lingua, degnissima di servire di modello a tutti i secoli quasi in ogni parte)» (Zib. 706). fosse anche composto da un solo individuo. Un individuo non può essere irregolare se non rispetto al suo genere o specie. Quando egli forma genere, non si dà irregolarità per lui»: Zib. 1672-73, 11 settembre ’21) oppure in quello della dissoluzione a fil di logica sensistica degli ur-generi basilari («Forza dell’assuefazione sull’idea di convenienza. L’uso ha introdotto che il poeta scriva in verso. Ciò non è della sostanza né della poesia, né del suo linguaggio, e modo di esprimer le cose. […] Ma in sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al verso»: Zib. 1695-96, 14 settembre 1821).

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Tuttavia l’impianto subisce notevoli mutamenti allorché la riflessione leopardiana vira il suo indirizzo, sia pure con oscillazioni e assestamenti, su alcune interrogazioni problematiche fondamentali: sul potere formante (creativo-fissativo) che la letteratura esercita su una lingua, nel momento in cui quest’ultima venga assunta e applicata consapevolmente in un progetto di letteratura. Una lingua non si forma né stabilisce mai, se non applicandola alla letteratura. Questo è chiaro dall’esempio di tutte. Nessuna lingua non applicata alla letteratura è stata mai formata nè stabilita e molto meno perfetta. Come dunque la perfezione dell’italiana starà nel 300? Altro è scrivere una lingua […] altro è applicarla alla letteratura. Alla quale l’italiano non fu applicato che nel 500. Nel 300 veramente e propriamente da tre soli […], il che ognun vede se si possa chiamare, perfetta applicazione alla letteratura. (Zib. 1037-38, 12 maggio 1821).

Eppure il requisito assoluto della applicazione di una lingua a una letteratura perfetta in tutti i generi, benché metta in rilievo l’inattuata perfezione del Tre e del Cinquecento di lingua e letteratura rispetto alle epoche della classicità greca e latina, è il segno di un discorso modernista di rifondazione da parte di Leopardi, che nella lirica eccettua il valore del solo Petrarca, identificato qui (Zib. 1056-58) nel genere elegiaco secondo lo schema dell’Ad Angelo Mai, non escludendo «una perfezione moderna in quello stesso genere [antico]». In questo senso l’attento scrutinio definitorio del ’21 sull’arte dei trecentisti (etichetta cumulativa dei grandi e dei minori) costituisce una chiara messa a punto sul periodo iniziale della letteratura d’arte, con esplicite riserve antipuristiche e antiregolistiche: così la semplicità piacevole dei trecentisti sembrerebbe barbara ed eccessiva in «chi scrivesse precisamente come loro» (Zib. 1417); dato che «Il piacere che si prova della purità della lingua in uno scrittore, è un piacere fattizio, che non nasce se non dopo le regole» (Zib. 1435); così l’«arte bambina» di Omero negli epiteti, messa a confronto con gli ornamenti dei trecentisti,«per indole naturale, semplicissimi» (Zib. 144950; ed anche 1470-72); e infine la «proprietà della favella», propria delle epoche e degli scrittori più antichi, «più vicini alle prime determinazioni de’ significati e formazioni delle parole», tanto più «rozzi» quanto più «propri» («Così i trecentisti ignorantissimi, rispetto ai cinquecentisti ec. Dante rispetto al Petrarca e al Boccaccio ec.»: Zib. 1483-84). È da queste premesse che scaturisce il giudizio risoluto e storicamente fondato – sulla scorta di Monti-Perticari – del 19 agosto ’21, secondo cui Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante, ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua it. alla letteratura. […] Ma gli altri

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due, non iscrissero italiano che per passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perché le credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente contro il parere e l’esempio suo, specialm. il Petr.) che la lingua italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura. (Zib. 1525-27).

Il giudizio rappresenta una svolta decisiva nel pensiero leopardiano: il riconoscimento di Dante «fondatore della lingua italiana» e la tematizzazione delle «materie gravi» (contenuti e generi in senso lato filosofici) eluse dal volgare poetico petrarchesco apre di fatto una fuoruscita dal modello che è, in prima istanza, ideologica e culturale, e anticipa come presupposto logico i pensieri già citati sulla “originalità paradossale”. E anche se la triade si ricomporrà immutata in Zib. 1993-98 (26 ottobre ’21), dove ai «tre sommi scrittori» si riconosce il merito di aver applicato la lingua «decisamente alla letteratura, all’altiss. poesia, alle grandi e nobili cose, alla filosofia, alla teologia» (e qui con significativo excursus dantesco), fermissima è la constatazione che, pur dopo «cinque secoli interi di letteratura», «l’Italia non ha letteratura propria moderna, né filosofia moderna». E il giorno prima, ragionando sui paradossi dello «stile moderno» e dello «stile antico», l’interrogativo bruciante era «Qual è dunque la natura de’ moderni? quale degli antichi?» (Zib. 1989). Tuttavia il filo petrarchesco non si recide nel ’21, sarà anzi sempre visibile nei testi poetici e in quelli di riflessione sulla poesia fino agli ultimi giorni di vita del poeta, al di là di due momenti di disinteresse e comprensibile distacco tra settembre ’26 e febbraio ’27. In un lungo e articolato brano teorico (Zib. 1806-12) in cui Leopardi affronta il tema dell’arcaismo come fatto di stile, vale a dire dell’eleganza che si fonda su elementi linguistici remoti «dall’uso volgare», il discorso si estende nel presupposto che «tutti i primitivi scrittori di qualsivoglia lingua» «non sono mai eleganti, bensì ordinariamente familiari»: Ma se noi non sentiamo perfettamente in essi il familiare, qualità delle lingue la più difficile a ben sentirsi in una lingua forestiera, e più in una lingua morta, lo sentiamo però ottimamente in Dante, nei prosatori trecentisti, escluso il Boccaccio, che introdusse nell’italiano tante voci, frasi, e forme latine, e nel Petrarca (v. un mio pensiero sulla familiarità del Petrarca), eccetto dov’egli pure si accosta ed imita (come fa, e felicemente, assai spesso) l’andamento latino. Questi e tutti gli scrittori primitivi di ciascuna lingua, doverono necessariamente dare un andamento, un insieme di familiarità al loro stile ed alla maniera di esprimere i loro pensieri, sì per altre ragioni, sì perché mancavano di uno de’

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principali fonti dell’eleganza, cioè le parole, frasi forme rimosse dall’uso del volgo per una tal quale, non dico antichità, ma quasi maturità. (Infatti è notabile che la vera imitaz. degli antichi quanto alla lingua, dà subito un’aria di familiarità allo stile). (Zib. 1809).

Ma l’argomentazione leopardiana è più stringente: avvertendo da moderni questa eleganza consegue che «vi sentiamo quello che non vi sentivano né gli stessi autori né i loro contemporanei, in quanto quelle voci o modi sono oggi divenuti eleganti col rimoversi, stante l’andar del tempo, dall’uso quotidiano, ma allora non lo erano» (Zib. 1810). Per cui se da un lato «familiarissimo è il Petrarca», dall’altro occorre tener presente che lo stesso fenomeno di eleganza dovuto alla rimozione dall’«uso comune e familiare» accade «principalmente […] nelle voci (o frasi) che sono oggidì esclusivamente poetiche» (Zib. 2640). In definitiva, come è detto in un pensiero del 17 maggio ’23 (Zib. 269899), «la lingua italiana illustre del 300, né si è mai perduta, e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei trecentisti che più si divisero dal parlar plebeo e dai particolari dialetti separati, […], quali sono il Petrarca, […], eccetto alcune poche e sparse parole o frasi, sono ancora moderni per noi, e la loro lingua è fresca e viva, come fosse di ieri. La differenza tra essi e noi sta quasi tutta nello stile e ne’ concetti». Nell’importante ripresa di Zib. 2837-41 si ribadisce che «i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare» e che oltre a praticare «una lingua domestica e rimessa», «non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere anche questo, per così dire, a mezz’aria, e di familiarizzarlo» (da cui l’eleganza «somma» avvertibile dai posteri in Petrarca, la sua «sprezzatura […] bellissima»). E ancora, mentre nei tempi moderni si dispone di «un linguaggio poetico tutto distinto», la «familiarità» che si sente nei poeti «primitivi» nasce dalla costrizione del poeta a servirsi «di uno stile e di una maniera che si accosti alla prosa». Ancora più importante la continuazione esplicita che Leopardi propone in Zib. 3009-17 (23 luglio ’23), elaborando il ricorso teorico alla “inflessione” del «familiare», con una dizione spiccatamente pragmatico-operativa, in cui il «familiare» assume la funzione del «pellegrino»: Resta dunque per allontanar dall’uso volgare le voci e le frasi comuni, l’infletterle e condizionarle in maniere inusitate al presente, ma dagli antichi nazionali, parlatori, prosatori, o poeti usitate, e dalla nazione ancor conosciute, e conservate di mano in mano negli scritti di quelli che cercando l’eleganza proccurarono

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di scostarsi mediocremente dal volgo. Per le quali cose tali inflessioni non producono né oscurità né ricercatezza, benchè riescano pellegrine e rimote dall’uso, e perciò producano eleganza. Questo mezzo è usitatissimo da’ poeti quando la nazione è colta, formata la letteratura, e quando la lingua scritta ha un’antichità. Con esso principalmente si forma, si compone, si stabilisce a grado a grado un linguaggio poetico che tuttavia più si va differenziando dal prosaico e dal familiare, finchè giunge a quel punto di differenza, oltre il quale non è bene che egli trapassi. (Zib. 3016).

Dopo l’ultimo importantissimo contesto di Zib. 4066-67 (8 aprile 1824) sui tre modi di usare la «maniera familiare» (nel presupposto che «quello che allora fu familiare nella lingua, or non lo è più, anzi è antico ed elegante, ovvero è arcaismo»), la teoria della lingua e dello stile familiare non ha altri apprezzabili sviluppi, tuttavia non subirà sconfessioni di fatto33, anche perché da questo periodo in poi sarà assente nello Zibaldone ogni spunto esplicito di poetica stilistica, anche se a veder bene non ne mancano esempi negli spogli linguistici leopardiani degli anni successivi34. Resta comunque intatto il risultato pratico che l’idea dello stile familiare unitamente a quella della originalità paradossale (o «trascendente») e i suoi corollari consentono: l’utilizzazione ininterrotta della lingua petrarchesca nell’opera poetica in divenire, al di là della distanza filosofico-concettuale (e non solo) ben presto maturata in Leopardi. Non a caso, anche subito dopo le fatiche del commento a Petrarca, in quello che da vari critici viene indicato come il punto di crisi definitiva del rapporto fra i due poeti, nei mesi tra l’episodio della lettera allo Stella del 13 settembre ’26 (non sufficientemente da tutti contestualizzata come “deterrente” nella situazione del rapporto editoriale né messa in relazione con la

33 Sull’impiego del registro “familiare” nei Canti cfr. L. Blasucci, I tempi dei «Canti», cit., pp. 190, 195 (negli idilli), p. 200 (per i testi della nuova stagione pisano-recanatese Blasucci parla di «linguaggio elegantemente piano e stilizzato»); e inoltre, da vari saggi, Id., Lo stormire del vento, cit., pp. 155 («verismo discreto» dei canti pisano-recanatesi), 162-63 («alta stilizzazione dell’archetipo petrarchesco» per il Canto notturno), 175-76 («Petrarca, fruito oltre i livelli linguistici comuni a tutta la lirica leopardiana, per alcuni specifici suggerimenti legati alla tematica dell’introspezione amorosa» per Il pensiero dominante). 34 Cfr. Zib. 4090, 4140, 4160, 4162, 4177, 4179, 4182, 4200, 4483, 4495. Interessante quest’ultimo contesto (26 aprile ’29), perché l’equivalenza ivi stabilita tra «pargoleggiare» e «vaneggiare» («v. vaneggiare anche nel Petr. Tr. del Tempo E vedrai ‘l vaneggiar di questi illustri») troverà impiego diversificato nel v. 59 della Ginestra («Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti») e in Aspasia v. 105 (dopo / un lungo vaneggiar, contento abbraccio / senno con libertà»).

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recente lettura – novembre 1825 – dei saggi foscoliani35, citati appunto nella lettera, che conteneva la sua «piccola apologia petrarchesca», cioè la Scusa dell’Interprete) e quello della ripresa del parere di Sismondi a fianco del parere di lord Chesterfield36 nel pensiero del 27 febbraio ’27 (Zib. 4249), i 35 In particolare per il «platonismo» petrarchesco: «Il platonismo poi del Petrarca a me pare una favola, poiché più d’un luogo de’ suoi versi dimostra evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri, sentimentale sì, ma non senza il suo scopo carnale» (in Epistolario, cit., pp. 1236-40, 1237 da cui si cita); cfr. inoltre Elenchi di letture leopardiane, a cura di G. Pacella, in Zib. III, p. 1155. Del resto già il Ginguené aveva espresso analogo dubbio: «Quelque délicate que soit dans toutes ses poésies l’expression de son amour, on voit que si Laure lui eût permis quelques espérances, il les eût portées très-loin: un sentiment purement platonique ne donne point les agitations et le trouble où on le voit sans cesse plongé» (P. L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, II, cit., p. 348). Viceversa, il Sismondi, che Leopardi aveva chiamato in causa nella lettera allo Stella (Epistolario, cit., p. 1237: «[…] e sono divenuto totalmente dell’opinione del Sismondi, il quale […] confessa che nelle poesie del Petrarca non gli è riuscito di trovare la ragione della loro celebrità») e sulla cui opera si suppone -senza prove certe- che ne avesse notizia indiretta da recensioni (cfr. la nota 4 del Pacella in Zib. III, p.1045), seguiva l’opinione corrente: «[…] Pétrarque enfin, dans ses rapports avec les autres femmes, n’était plus si réservé; mais il avait pour Laure un amour religieux, enthousiaste, tel que les mystiques le conçoivent pour la Divinité, tel que Platon l’avait supposé comme formant le lien entre les belles âmes, et tel que, depuis Pétrarque, la mode littéraire s’est plue à le représenter, lors même qu’on le sentait le moins» (J. C. L. Simonde de Sismondi, De la littérature du midi de l’Europe, 2 voll., Bruxelles, H. Dumont, 1837, I, p. 257). Di questo avviso anche B. Biral, La lettera allo Stella sul Petrarca (13 settembre 1826), cit., p. 275 n. 2. 36 Meno ancora si è notato, tranne il Pacella in Zib. III, p. 1045 n. 4, ed è piuttosto rilevante, che in Zib. 4249, il brano «Io, con licenza di Milord, non credo sia vera quest’ultima cosa, né che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca» è aggiunta posteriore di Leopardi, fatta nello stesso giorno dopo aver scritto lo sferzante e annichilente giudizio su Bembo-Cesari («Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell’800. […] Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente» ecc.), e si deve ricordare che il Cesari era stato uno dei critici dell’Interpretazione petrarchesca a cui il poeta aveva risposto nel novembre ’26 nella Scusa dell’Interprete («A chi mi dice che il Petrarca non è oscuro, domandando perdono rispondo che il sole non è chiaro»: Tutte le opere, cit., p. 986). Ora quindi nell’aggiunta Leopardi intende contestare (per l’oggi e per il «tempo» di Chesterfield) proprio il giuoco di parole tra Laura e lauro, come «an excellent piece of Italian wit», messo in bocca in modo lambiccato a «an Italian who should think no better of him than I do», consistente nel dire «that he reserved his Laura better than his Lauro»: non a caso Leopardi subito dopo questa frase aveva inserito nel testo inglese la parentesi esplicativo-correttiva in italiano «(alludendo alla coronaz. del Poeta in Roma)», da buon commentatore ancora in servizio. Per cui, in sostanza, l’approvazione di Leopardi era rivolta alla sola formulazione «Petrarca is, in my mind, a sing-song love-sick Poet» e la monotonia («sing-song») di un poeta ‘malato d’amore’ («love-sick»), parere condivisibile il 27 febbraio ’27 a soli due mesi dalla conclusione dell’«opera piena di fatica e di noia tale, che sol della memoria mi sgomento [RVF CCCXXIII, 48]» (Scusa dell’Interprete, in Tutte

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giudizi per così dire estetici e “storiografici” e quelli sulla poesia di stile si susseguono ininterrotti. Basterà citare quello assai famoso sul fatto che «le opere più insigni e più grandi […] furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una letteratura» soltanto per «il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di scrivere» (Zib. 4257, 17 marzo 1827); o quello di Zib. 4413, scritto tra 17 e 20 ottobre ’28: Alla p. 4372. Infatti la lingua ital. tra le mod. è considerata p. aver la più antica letteratura, perché ha i più antichi libri veram. letterarii, e che abbiano esercitata ed esercitino ancora un’influenza perpetua sulla lingua e letter. nazionale; […] Nondimeno è sempre vero che la lett. ital. è la più antica delle viventi, perché Dante, Petr. Bocc. sono i piu antichi classici fra’ moderni, i più antichi che si leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti d’Europa.

E infine i brani sulla poesia di stile, il quale, per essere apprezzato, richiede «un sensorio formatovi espessamente, e non innato» (Zib. 4271): sono, queste, le ultime riflessioni leopardiane consegnate al libro dei pensieri, tra cui Zib. 4440 (19 gennaio 1829), che però va citato in contesto, e non già isolato come avviene di solito, con tutto il corredo delle glosse e degli aggiustamenti correttivi leopardiani: Come in moltiss. altre cose, il nostro tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la poesia di stilea, la poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p. e. del Petrarca, ed ogni poesia che a™ pløv abbia stile e richiede poesia di cose, d’invenz., d’immaginaz.; nonostante che ad un sec. sì eminentem. civile, questa paia del tutto aliena, quella del tutto propria. a V. p. 4465. Alla p. 4440. (la quale, del resto, è anch’essa d’imaginaz., come ho detto altrove, ec.) (19. Feb. 1829.). (Zib. 4465). Dal detto altrove sulla poesia di stile, quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veram. poeti di stile, sarebbero stati poeti d’invenz., o p. meglio dire, d’invenzion di cose, in altri tempi; e ch’essi sono i veri poeti de’ loro secoli. ec. (10. Mag.). (Zib. 4503).

le opere, cit., p. 986; cfr. la lettera allo Stella del 27 dicembre ’26, in Epistolario, cit., p. 1282: «Le accludo l’Errata-Corrige intero del Petrarca»).

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Riflessioni leopardiane su Petrarca

Nessun dubbio quindi che nella prospettiva del giudizio storico Petrarca «poeta di stile» risultasse necessariamente per Leopardi poeta «d’invenzion di cose», ma «in altri tempi», “vero poeta del suo secolo”, nella dimensione cioè del “classico” per i moderni (secondo Zib. 307), come del resto era ben chiaro nella prefazione Ai lettori della Crestomazia italiana poetica (1828), in cui oltre al rifiuto di antologizzare un ristretto Parnaso di opere (di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Guarini, Parini: «poi, che il farle in pezzi, o il dire questo è il meglio che hanno, sia un profanarle»), l’inizio della poesia italiana è posto rigorosamente a partire «dagli autori del secolo decimoquinto, e non prima; perché de’ più antichi, fuori di Dante e del Petrarca, crede egli, e crederanno forse tutti, che quantunque si trovino rime, non si trovi poesia»37. Resta da dire, comunque, che la stessa «interpretazione» leopardiana del Canzoniere e dei Trionfi, edita a Milano dallo Stella nel 182638, senz’altro il testo più studiato nella seconda metà del Novecento in merito al “petrarchismo leopardiano” 39, dimostra la portata produttiva sul piano memoriale del 37 G. Leopardi, Crestomazia italiana. La poesia, Introduzione e note di G. Savoca, Torino, Einaudi, 1968, pp. 3-4. Sulla «perentoria e a prima vista stupefacente affermazione» di esclusione dei poeti due-trecenteschi cfr. E. Pasquini, Il Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., pp. 507 e sgg. 38 Se ne veda il resoconto della vicenda editoriale, tra gli altri, nello studio di R. Bessi, Leopardi commenta Petrarca, in «La rassegna della letteratura italiana», CIII (1999), 1, pp. 174-192. 39 G. Contini, Il commento petrarchesco di Carducci e Ferrari (1957), in Id., Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 635-45; E. Pasquini, Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., pp. 507-42; D. De Robertis, Il Petrarca di Leopardi, in «Il Tempo» (Roma), 27 agosto 1976; A. Noferi, Petrarca in Leopardi e la funzione di un commento, in F. Petrarca, Rime, con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, Introduzione di A. Noferi, Milano, Longanesi, 1976, pp. 9-51 (rist. dell’ed. Passigli, Firenze 1839); A. Frattini, Crisi del modello petrarchesco in Leopardi, cit., pp. 617-31; B. Biral, La lettera allo Stella sul Petrarca (13 settembre 1826) [1978], in Id., La posizione storica di Giacomo Leopardi, nuova ed. riveduta e ampliata, Torino, Einaudi, 1987, pp. 263-76; R. M. Ruggeri, Sinonimia e parafrasi nel commento leopardiano al canzoniere di Petrarca, in Leopardi e la letteratura italiana dal Duecento al Seicento, cit., pp. 759-770; A. Marini, Segni della poetica leopardiana nel commento alle «Rime» del Petrarca, in «La Rassegna della letteratura italiana», XCII, 1988, 1, pp. 61-76; L. Barbieri, Sul Leopardi interprete delle «Rime» petrarchesche, in «Q/3 Terzo quaderno veronese di filologia, lingua e letteratura italiana», a cura di G. Lonardi, Grafiche Panozzo-Lonigo [Vicenza], Libreria Universitaria Editrice, Verona 1988, pp. 103-120; G. Nencioni, Introduzione a F. Petrarca, Rime, con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1989 (rist. anast. dell’ed. F. Le Monnier, Firenze 1851); G. Lonardi, Liberare il prigioniero: note su commento e traduzione in Leopardi, in La corrispondenza imperfetta. Leopardi tradotto e traduttore, Atti del convegno di Trento (9-10 dicembre 1988), a cura di A. Dolfi e A. Mitescu, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 19-30; R. Tissoni, L’archetipo del commento divulgativo: l’«Interpretazione» petrarchesca di

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faticoso lavoro di commento leopardiano, dato che, come ha sostenuto Giovanni Nencioni, «una auscultazione del Commento non solo circolare, cioè instaurante attraverso il Canzoniere un colloquio di Leopardi con se stesso nel giro dei suoi diversi registri, […] ma radiale, cioè proiettante i registri leopardiani su tutta la loro fonte primaria e perenne, […] gremisce l’orecchio del lettore di echi, di riprese, di consonanze, d’involi petrarcheschi la cui presenza smentisce da sola l’affermazione delle “pochissime bellezze poetiche” del Canzoniere [nella lettera allo Stella]»40. Su quest’ultimo punto, vi è un luogo leopardiano decisivo: se è vero che nella prima fase creativa Leopardi ragionava sull’«imitazione» piuttosto nella prospettiva dell’autore come produttore e della sua fama, osservando come «massimamente in Italia in un tempo in cui l’imitare era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.), non si sia mai data nessun’imitazione che almeno agguagli l’opera imitata, e per conseguenza meritasse un posto compagno a quello dell’originale», e concludendo, dopo aver notato come l’imitazione una volta scoperta abbassi il valore della copia, con un’apostrofe dantesca «Laonde, o imitatori qualunque vi siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità, quando bene le vostre copie valessero effettivamente molto più dell’originale» (Zib. 143, post 27 giugno ’20). Nel pieno del periodo pisano-recanatese, al contrario, la sua riflessione si orienta «sull’effetto di feed-back che colpisce la ricezione delle grandi opere letterarie», «nel tentativo di restituire la durata (di senso e di valore) alla poesia, troppo banalizzata

Leopardi (Milano 1826), in Id., Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Edizione riveduta, Padova, Antenore, 1993, pp. 175-203 (cfr. il cap. Ricezione dell’«Interpretazione». Il giudizio di Carducci commentatore del Petrarca, pp. 204-211, e Il Petrarca della Minerva e le note del Carrer (Padova 1827), pp. 149-158); M. Dozon, Leopardi exégète de Petrarque, in Leopardi et l’Europe. Approches comparatistes, Atti del Convegno di Avignone (1-3 ottobre 1990), a cura di G. Barthouil, in «Annales Universitaires» Avignon, numéro spécial 1994 (contributo non letto); M. Santagata, cap. Petrarca e Orazio: due maestri per l’oggi, cit., pp. 45-66; M. Manotta, Leopardi. La retorica e lo stile, Firenze, Accademia della Crusca, 1998, pp. 149-157; A. Daniele, Giacomo Leopardi commentatore del Petrarca, in Id., La memoria innamorata. Indagini e letture petrarchesche, Roma-Padova, Antenore, 2005, pp. 248-52; E. Pasquini, Leopardi e il commento a Petrarca, in Leopardi e Bologna, Atti del Convegno di Studi per il Secondo Centenario Leopardiano, a cura di M. A. Bazzocchi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 187-205; R. Bessi, Leopardi commenta Petrarca, cit., pp. 174-192; V. Zaccaria, Nota sul “Petrarchismo leopardiano”, in «Atti e memorie dell’Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti in Padova, CXI (1998-1999), p. III, pp. 75-87. 40 G. Nencioni, Introduzione, cit., p. XXVI, che riprende e sviluppa la tesi di A. Noferi, Petrarca in Leopardi e la funzione di un commento, cit.

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nell’esperienza contemporanea, troppo proclive all’immediato consumo»41. Di questi presupposti è permeato infatti il notevole pensiero del 20 aprile ’29 (Zib. 4491-92), il cui obiettivo di fondo «non si risolve affatto in una grave limitazione poetica del Petrarca, come per lo più si è creduto, ma piuttosto, sulle orme di Baretti e Bettinelli, in un’incomprensione e condanna senza appello dell’intero fenomeno del petrarchismo»42: Altro ostacolo alla durata della fama de’ grandi scrittori, sono gl’imitatori, che sembrano favorirla. A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que’ suoi tanti pensierini pieni di grazia o d’affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perché sono in fatti comunissimi. Interviene agl’inventori in letteratura e in cose d’immaginazione, come agl’inventori in iscienze e in filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito.

Qui, quel che più conta, al di là dei riscontri concettuali evidenti con Zib. 4440 e seguenti, citati sopra, è proprio il capovolgimento o, se si vuole, la dovuta correzione per se stesso delle diplomatiche “confessioni” espresse nella lettera allo Stella del 13 settembre ’26 («Io le confesso che, specialmente dopo maneggiato il Petrarca con tutta quell’attenzione che è stata necessaria per l’interpretarlo, io non trovo in lui se non pochissime, ma veramente pochissime bellezze poetiche»), non intaccata dalla pur riconoscibile diminutio dei «pensierini», a cui si contrappone davvero, subito dopo, il «pensiero», che con il «sentimento» – per Leopardi – è sostanza dell’espressione: «quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec. che furono suoi propri e nuovi». La tesi “continuista” sin qui esposta, con qualche argomento, di una aderenza del poetare leopardiano alla parola (in senso lato) petrarchesca fa leva quindi su una serie di fattori concomitanti, l’immediata presa di distanza nel ’21 da una pratica servile dell’imitazione in favore di una teoria conoscitiva della competenza stilistico-letteraria (con annessa legittimazione della pratica degli “esercizi di lettura”), la formulazione di una teoria ad hoc retorico-stilistica, che fa coincidere il registro linguistico del «familiare» con lo stadio storico-primitivo della lingua letteraria nell’ottica di una poetica che codifica

41 42

A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, cit., pp. 115-16. E. Pasquini, Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., p. 512.

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in modo irrinunciabile per la lirica l’arcaismo (anche questo in senso lato) come fatto di stile. Tutto questo però sul piano ermeneutico si può verificare quasi sempre in una serie di constatazioni di scarti e di prese di distanza, come accade per es. in Alla sua donna, in cui “imponenti” riprese si presentano trasposte, ironicamente “velate” in una compagine ideologica dichiaratamente antimetafisica43. Anche se talvolta, a causa di stridenti contrasti di contesto, il procedimento delle «trasformazioni» lessicali o sintagmatiche del dettato petrarchesco può essere motivato piuttosto come estratto di un mero deposito memoriale in esempi pur suggestivi e invocabili di versi, quali «dal Pireneo all’ultimo orizzonte» tesaurizzato dalla “canonica” O aspettata in ciel (RVF XXVIII, v. 35), o il «nave da l’onde combattuta e vinta» del sonetto Più di me lieta (RVF XXVI, v. 2)44. Il processo, s’intende, è più visibile e marcato a partire dalle nuove fasi di poetica (canti pisano-recanatesi, versi dell’esperienza amorosa per Fanny, canti napoletani), e avviene attraverso un quasi sistematico processo di risemantizzazione e ricontestualizzazione, precocemente attivo45 anche in alcune zone di prelievo preferenziale, cioè da componimenti studiati o prediletti su cui è in causa una affinità proiettiva profonda46. IV. Un esempio di questo processo di decontestualizzazione, e in definitiva, di libera appropriazione e nuova intonatura ideologica, può esser dato dal verso che chiude la prima quartina del sonetto CCXXXI dei RVF: I’ mi vivea di mia sorte contento, senza lagrime e senza invidia alcuna; che s’altro amante ha più destra fortuna, mille piacer non vaglion un tormento47. 43 L. Blasucci, Petrarchismo e platonismo nella canzone Alla sua donna (1993), in Id., I tempi dei «Canti», cit., pp. 62-80, in specie pp. 73-77. Cfr. M. Santagata, Quella celeste naturalezza, cit., p. 104, sulla stessa canzone: «Petrarca era stato il punto di partenza per il poeta ‘pubblico’ delle canzoni, ora diviene un punto di arrivo privatissimo. Ma neppure su questo piano Leopardi può accreditarne la verità. In un giuoco amaro di identificazioni e di straniamenti, con questo testo egli, di fatto, si congeda dall’insieme di quella tradizione (di cui Petrarca è il simbolo) che era stata al centro delle sue preoccupazioni di poeta rinnovatore dell’antico». 44 E. Bonora, Leopardi e Petrarca, cit., pp. 118-19 e 131-32. 45 M. Santagata, cap. Petrarca e Orazio: due maestri per l’oggi, cit., pp. 45-66. 46 Cfr. in particolare per le riprese nei canti pisano-recanatesi: S. Carrai, Leopardi e il modello petrarchesco, cit.; P. Cataldi, Appunti su Leopardi, Petrarca e la fondazione della lirica moderna, in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», I, 1999, 2, pp. 85-93. 47 F. Petrarca, Rime, con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, cit., p. 318.

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Questo verso nell’Interpretazione è lasciato senza intervento esplicativo; ma in Zib. 4472, Leopardi lo trascrive e annota, rovesciandone i termini e il senso, e in più scrivendo il suo commento con un riconoscibile impulso ritmico (due settenari seguiti da una sentenza in prosa apparente, assimilabile però a un novenario):

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Mille piacer non vagliono un tormento. Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita. (14. Marzo. 1829.).

Quindi, dopo un intervallo di tempo indefinibile (la prima data, tre annotazioni dopo, è il 23 marzo), Leopardi aggiunge di seguito: «Questo verso racchiude una sentenza capitale contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i viventi». Ora, nella linearità del testo zibaldonico, il verso petrarchesco estrapolato da Leopardi e il suo commento si potrebbero rileggere unitamente come protasi e apodosi di una sorta di pseudosillogismo ipotetico espresso in forma interrogativa: “Se mille piacer non valgono un tormento, allora («Or») come può un piacere (un solo piacere) valere mille tormenti?”. Nella riscrittura leopardiana, in quella che ho definito la sua apodosi, un solo piacere (per costituzione necessaria e inesorabile della vita) equivale a \ ha il prezzo di mille tormenti. E se è vero che è possibile riformulare questo testo secondo altre sfumature di senso, tutte portano alla negatività filosofica leopardiana, appunto a quella che egli definisce, rileggendosi, «una sentenza capitale contro la vita umana», e su cui si esprime con accenti inconfondibili in tanti altri luoghi. Ancora, è piuttosto evidente che il verso petrarchesco è assunto e strumentalizzato in toto nella semantica e nella teoria leopardiana del piaceredolore, fondamentali nel corso del ’29, e portato a conseguenze estreme, che prescindono dall’esegesi della natura del «tormento» petrarchesco, come risultava nell’interpretazione tradizionale (per es. nel Gesualdo48) o in quella spiritualeggiante del Biagioli49.

48 Cfr. la nota che riporta la formulazione del Gesualdo, in F. Petrarca, Le Rime, a cura di G. Carducci e S. Ferrari, Presentazione di G. Contini, Firenze, Sansoni, 1984, p. 324: «Mille piaceri amorosi di questi amanti non vagliono quanto vale un suo tormento, un dolore ch’ei patisca per Laura, ché piú dolci erano a lui i tormenti ch’agli altri i diletti». 49 Rime di Francesco Petrarca, col comento di G. Biagioli, Milano, per Giovanni Silvestri, 1823, vol. II, pp. 321-22: «mille di quei diletti che più desidera ogni altro amante, non vagliono uno de’ suoi tormenti; perciocchè non agli effetti, ma sì alla cagione essendo

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Il sonetto petrarchesco50 è inciso tuttavia nella memoria leopardiana nei suoi punti salienti, al di là del verso 4 annotato e interpretato nello Zibaldone, ed è il caso di riportarne gli altri versi prima di evidenziarne le tracce e le parole-chiave: Or que’ begli occhi, ond’io mai non mi pento Delle mie pene, e men non ne voglio una, Tal nebbia copre, sì gravosa e bruna, Che ‘l Sol della mia vita ha quasi spento. O Natura, pietosa e fera madre, Onde tal possa e sì contrarie voglie Di far cose e disfar tanto leggiadre? D’un vivo fonte ogni poder s’accoglie. Ma tu come ‘l consenti, o sommo Padre, Che del tuo caro dono altri ne spoglie?51

Il luogo di riscontro alle dinamiche di pensiero sinora rilevate sul sonetto petrarchesco è costituito dal secondo e terzo «momento»52 della Quiete dopo la tempesta (composta tra 17 e 29 settembre ’29, sei mesi dopo l’annotazione dello Zibaldone), cioè in quelle partizioni gnomico-riflessive che seguono l’apertura rappresentativo-evocativa del canto. Più precisamente dal verso 32, alla fine dei sintagmi interroganti che aprono la seconda strofe, allorché «alla rappresentazione diretta subentra la riflessione sulla vanità del piacere generato dalla pura cessazione di un dolore»53. inteso, questa è tale che la somma di quante bellezze e virtù diffuse il cielo in altre donne, non aggiungono alla millesima parte della sua». 50 D’altronde componimento d’occasione secondo i commentatori e la rubrica tematica fissa del Marsand, che correda i testi del commento («Trema che il male sopravvenuto a Laura negli occhi, lo privi della lor vista»); cfr. F. Petrarca, Rime, con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, cit., p. 318. 51 Ivi, pp. 318-19. 52 Cfr. L. Blasucci, I tre momenti della «Quiete», in Id., I tempi dei «Canti», cit., pp. 123-40 (cfr. anche ibid. il saggio Partizioni e chiusure nelle prime “canzoni libere” [1993], pp. 105-22, in specie pp. 112-15). Inoltre: W. Binni, Lezioni leopardiane [1966-67], a cura di N. Bellucci con la collaborazione di M. Dondero, Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 52228; G. Lonardi, Per un restauro ‘classico’ della «Quiete dopo la tempesta», in Id., Classicismo e utopia nella lirica leopardiana (1969), Firenze, Olschki, 1986, pp. 111-45; M. Tropea, Lettura de «La quiete dopo la tempesta», in «Le Forme e la Storia», n. s., II (1990), 1, pp. 33-63; G. Tellini, Leopardi, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 191-96; A. Girardi, «La quiete» nella lingua poetica italiana, in «Lingua e stile», XXXVII (2002), 2, pp. 329-37. 53 L. Blasucci, I tre momenti della «Quiete», cit., p. 132; e sulla riflessione leopardiana e i suoi antecedenti, cfr. ibid., pp. 132-36.

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[…] Piacer figlio d’affanno; gioia vana, ch’è frutto del passato timore, onde si scosse e paventò la morte chi la vita aborria; onde in lungo tormento, fredde, tacite, smorte, sudàr le genti e palpitàr, vedendo mossi alle nostre offese folgori, nembi e vento O natura cortese, son questi i doni tuoi, questi i diletti sono che tu porgi ai mortali. Uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana prole cara agli eterni! assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor: beata se te d’ogni dolor morte risana.

L’interrogativo e la risposta desolata dello Zibaldone «Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita» si intonano certamente con i versi riflessivi della Quiete e la «sentenza capitale contro la vita umana» ha il suo corrispettivo nella sentenza della Quiete: «Piacer figlio d’affanno; / gioia vana». Così anche il «lungo tormento» del verso 37 (per cui si invoca l’identica clausola di RVF CCCLVI 6, ma si riferisce lì al «guardo amoroso», origine dei tormenti), è confrontabile con i «mille tormenti» della riscrittura leopardiana. Ma vi sono altri indizi fondamentali: in primo luogo, il dato situazionale del sonetto (la malattia agli occhi di Laura) entro cui si colloca l’allocuzione interrogativa alla Natura (con una maiuscola di risonanza leopardiana), identificata con uno stridente ossimoro «pietosa e fera madre» a cui segue la disarmata domanda, stupita e consapevole della contraddizione radicale della creazione «Onde tal possa e sì contrarie voglie / Di far cose e disfar tanto leggiadre?», elementi probabili tutti della sintonia leopardiana con questi versi.

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In secondo luogo, Leopardi, sulla scorta del commento del Pagello più che di altri54, leggeva il v. 12 del sonetto come una risposta della Natura e quindi i versi 10-14 come un dialogo tra Petrarca e la Natura personificata concluso da una domanda a Dio; così nell’Interpretazione spiegava : «Risponde la Natura. Da un vivo fonte, che è Dio, deriva e si raccoglie in me ogni potere ch’io ho». Per cui la “meravigliata” domanda o «apostrofe» finale («Ma tu come ‘l consenti, o sommo Padre, / Che del tuo caro dono altri ne spoglie?»: poi negli accenti di Sopra un basso rilievo, vv. 44-50) doveva essere da lui sentita come espressione, sia pure episodicamente espressa, di dubbio provvidenzialistico. In perfetta coerenza con i testi di quell’anno Leopardi aveva scritto l’11 aprile ’29: La natura, p. necessità della legge di distruz. e di riproduz., e p. conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialm. regolarm. e perpetuam. persecutrice e nemica mortale di tutti gl’individui d’ogni gen. e specie, ch’ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto med. in cui gli ha prodotti. Ciò, essendo necessaria conseg. dell’ord. attuale delle cose, non dà una grande idea dell’intelletto di chi è o fu autore di tale ordine. (Zib. 4485-86).

Perciò nella Quiete l’allocuzione petrarchesca, in ripresa strutturale, si fa apostrofe asseverativa sferzante e il «caro dono» si traduce in antifrastici «doni tuoi» e «diletti», e la domanda ansiosa petrarchesca rivolta alla “paterna” divinità – nella Starita corretta del periodo napoletano – diviene ironica e definitiva esclamazione («Umana / prole cara agli eterni!») «all’insegna di un’amara volontà di smascheramento»55. 54 Come si evince dalle annotazioni riportate in F. Petrarca, Le Rime, a cura di G. Carducci e S. Ferrari, cit., p. 325: «Onde ti viene tal possa, possanza, e sì contrarie voglie di far e poi disfar sì begli occhi? Secondo quello A domino bonum et malum, e Paolo (Rom. XIII) Non est potestas nisi a deo. Così il P[agello], seguito dal L[eopardi], dietro ai più vecchi commentatori che avevano tutti inteso che il p[oeta]. rivolga in questa prima terz[ina]. il discorso alla natura». E cfr. ibid. le note ai vv. 13-14: «Apostrofe del P[etrarca]. dalla Natura a Dio (P[agello]). Che altri, cioè, che la malattia, ne spogli del tuo caro dono di sì begli occhi (P[agello] )». Sul commento di Sebastiano Pagello, cfr. R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., pp. 150, 158, 176. Resta da dire che, nonostante i molti studi sull’interpretazione leopardiana, manca tuttora un completo lavoro di verifica sulle fonti esegetiche effettivamente utilizzate da Leopardi (il quale, nel luglio del ’26, denunciava al fratello Carlo l’utilizzo, peraltro scarso, del solo Biagioli, in Epistolario, cit., p. 1202), dovendosi rinviare in proposito all’antico contributo di D. Bianchi, Giacomo Leopardi commentatore del «Canzoniere», in «Giornale storico della letteratura italiana», LXIII (1914), pp. 325-27 e 339-40, su cui E. Pasquini, Il Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., p. 527 nota 19. 55 L. Blasucci, I tre momenti della «Quiete», cit., p. 140.

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Riflessioni leopardiane su Petrarca

Un altro esempio del libero riuso leopardiano di Petrarca può essere fornito da una tessera dei RVF inserita vistosamente in esergo alla più tarda Palinodia (1835) nel periodo napoletano. L’epigrafe petrarchesca della Palinodia ha infatti tratti enigmatici, in qualche misura non ancora analizzati56. Isolato dal suo naturale contesto il verso 4 della canzone Mai non vo’ più cantar com’io soleva (RVF CV) può preannunciare a buon diritto la nuova intonazione satirica e aggressiva dell’ultimo dei Canti (nell’edizione mancata 1835), tonalità contrassegnata – a seguire il filo semantico del verso – dall’abbandono del canto doloroso, dell’elegia («il sempre sospirar»: facendo così proprie le accuse dei detrattori) e dalla consapevolezza della sua sterilità («nulla rileva»). Tuttavia è proprio quel contesto ad essere significativo, poiché, nonostante il rifiuto leopardiano a commentare l’incomprensibile canzonefrottola57, come è detto nell’Interpretazione del ’26, Questa canzone (che che se ne fosse la causa) è scritta a bello studio in maniera che ella non s’intenda. Per tanto a noi basterà d’intenderne questo solo: e io non mi affannerò di ridurla in chiaro a dispetto del proprio autore[,]58

sono proprio i versi iniziali del testo petrarchesco a poter forse fornire un riferimento esplicito, una traccia allusiva, destinata all’unico degli Amici di Toscana menzionato «in chiaro» nei Canti: Mai non vò più cantar com’io soleva: ch’altri non m’intendeva; ond’ebbi scorno:

56 Cfr. A. Frattini, Crisi del modello petrarchesco in Leopardi, cit., p. 630: «Nella Palinodia, l’uso del Petrarca appare cambiato di segno, a cominciare dal verso premesso al canto come occhiello epigrafico, […] un verso accolto in un registro di intonazione dove l’austerità e gravità del contesto originale si ribalta in un clima di autocensura sottilmente ironica». Sul canto si veda L. Blasucci, Procedimenti satirici nella Palinodia (1995), in Id., I tempi dei «Canti», cit., pp. 162-76. 57 In un pensiero di Zib. 4182, scritto a Bologna il 5 luglio 1826 e cioè subito dopo l’uscita dell’Interpretazione, Leopardi stabiliva una connessione tra i generi “enigmatici”: «Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i greci. Demetr. de eloc., sect. 153», e notava gli sforzi esplicativi dei commentatori (di Aristofane) concludendo: «Gli Scoli antichi però, dánno loro un senso, e gli spiegano come il resto. Simili ai commentatori della frottola del Petrarca». Cfr. E. Pasquini, Il Leopardi e i poeti antichi italiani, cit., p. 518 e nota 125 a p. 537. Sulla perplessa e ingarbugliata tradizione esegetica di questo componimento si veda il consuntivo carducciano in F. Petrarca, Le Rime, a cura di G. Carducci e S. Ferrari, cit., pp. 148-49. 58 F. Petrarca, Rime, con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, cit, p. 188.

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Luigi Trenti

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e puossi in bel soggiorno esser molesto. Il sempre sospirar nulla rileva59.

E infatti anche qui, se si procede nella contestualizzazione biograficoretrospettiva, nei versi petrarcheschi primo e quarto, è leggibile la nuova direzione del canto poetico, con in più la denuncia della misinterpretazione del proprio dire poetico («ch’altri non m’intendeva») e lo «scorno», l’ammissione che anche in «bel soggiorno» (Firenze) si può avvertire di essere respinti da chi non si è capiti. Più di così Leopardi non poteva umanamente spingersi nell’allusione, anche se il verso 17 della canzone, «Intendami chi può, ch’i m’intend’io» lo autorizzava nel dire coperto ed oscuro: che davvero intendesse intenzionare il verso petrarchesco e la quartina in cui era racchiuso in un nuovo dettato esplicativo delle vere sue ragioni di distacco dagli Amici di toscana è ipotesi forse solo suggestiva e forse in parte inverificabile. Di fatto il «candido Gino», che pure era definito «spirto gentil» (v. 182) e distanziato, in qualità di destinatario, dagli ironizzati «eccelsi / spirti del secol» (vv. 198-99), mai seppe comprenderlo in vita del poeta, se non forse in una tardiva lettera a Fedele Lampertico, di solito ricordata60. In ogni caso, proprio nell’ultima Prefazione dell’interprete al commento petrarchesco, dettata nell’anno della morte, Leopardi sarebbe ritornato a scrivere sul suo commento petrarchesco, dichiarandone con superiore equilibrio i limiti filologici, ipotizzando il disegno imprecisabile per noi di una «storia dell’amore del Petrarca», condotta «adoperando a questo effetto non altra scienza che quella delle passioni e dei costumi degli uomini e delle donne»61. 59

Ivi, p. 186. N. Bellucci, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996, pp. 105-06 e 136 nota 27; Lettere di Gino Capponi e d’altri a lui, a cura di A. Carraresi, 6 voll., Firenze, Successori Le Monnier, 1882-90, IV, pp. 416-18 (lettera del 1875, in cui tra l’altro Capponi identifica Manzoni nell’«un de’ tuoi» della Palinodia). 61 G. Leopardi, Prefazione dell’interprete, in Id., Tutte le opere, I, cit., p. 985. Può essere interessante notare, tra le suggestioni ipotizzabili in merito oltre all’impulso dei saggi foscoliani, che tra i propositi del profilo petrarchesco di Ginguené vi era quello di «développer ce qui […] appartient à l’histoire du coeur humain» (P. L. Ginguené, Histoire littéraire d’Italie, II, cit., p. 306), come avrebbe sottolineato lo stesso Sismondi: «Pour faire goûter le charme des sonnets de Pétrarque, il faudrait, comme l’a si bien fait M. Ginguené, écrire l’histoire de son amour, et, renouvelant les émotions qu’il éprouvait, placer dans chaque circostance intéressante le sonnet qui était l’expression de son sentiment» (J. C. L. Simonde de Sismondi, De la littérature du midi de l’Europe, I, cit., pp. 257-58), proprio di seguito nella pagina (258) in cui ammetteva di non aver potuto gustare e apprezzare «ce 60

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Riflessioni leopardiane su Petrarca

Era l’ultimo contributo della lunga fedeltà al classico più legato alla storia della sua poesia, concluso con una apologia segnata da una punta polemica contro l’avversario dei suoi anni (il Tommaseo, identificabile per la recisa damnatio nominis) e da una “riverente” ritrattazione, sensibile e reattiva – al di là del caso personale – al mutato clima antipetrarca dei tempi:

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Se avessi potuto a bell’agio rivedere il Comento dall’un capo all’altro, e paragonarlo col testo, avrei fatto molte altre innovazioni: e certamente avrei scancellato ogni parola che io per baldanza giovanile lasciai scorrere, poco riverente verso il Petrarca; la stima del quale di giorno in giorno, nonostante i suoi mancamenti che tutti sanno, cresce in me tanto, quanto ella scema in qualche imbrattatore di fogli che non mi degno di nominare62.

charme qui a enchanté tous les peuples et toutes les générations, charme auquel, je l’avoue, je suis demeuré étranger», concludendo con il topos dei giuochi di parole petrarcheschi lauro, l’aura- (evocato subordinatamente nel giudizio di lord Chesterfield, che Leopardi aveva dichiarato «simile al parer del Sismondi» in Zib. 4242), motivo del primato dantesco: «Il résulte de ces jeux de mots, de ces personnifications continuelles d’êtres qui n’ont rien de personnel, qu’à mes yeux, du moins, Pétrarque est moins poète que le Dante, parce qu’il est beaucoup moins peintre». 62 G. Leopardi, Prefazione dell’interprete, cit., p. 985. Aggiungo qui alcune integrazioni bibliografiche alle note precedenti. Alla n. 33 di p. 154: cfr. inoltre G. Nencioni, La lingua del Leopardi lirico, in Id., La lingua dei «Malavoglia» e altri scritti di prosa, poesia e memoria, Napoli, Morano, 1988, pp. 369-98; V. Coletti, Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi, 1993, pp. 244-53; P. V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei «Canti» di Leopardi, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 8-9. Alla n. 52 di p. 162: cfr. L. Felici, La poesia senza nome e gli apologhi del borgo, in Id., L’Olimpo abbandonato. Leopardi tra «favole antiche» e «disperati affetti», Venezia, Marsilio, 2005, pp. 123-50, e in particolare le sezioni «La quiete» e «Il sabato» nel libro dei «Canti» e Il tema della tempesta e la teoria del piacere, pp. 127-30 e 130-36.

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William Spaggiari

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PETRARCA NEL CANONE DEI CRITICI ROMANTICI

Gli studi sulla fortuna di Petrarca nell’Ottocento, per lo più circoscritti alla ricezione da parte degli autori maggiori, hanno naturalmente privilegiato la posizione di Foscolo e Leopardi (stante la refrattarietà di Manzoni ad una piena intelligenza del poeta trecentesco), e poi, per la seconda metà del secolo, quella di De Sanctis e Carducci, relegando sullo sfondo le valutazioni, certamente disorganiche ma non irrilevanti, dei cosiddetti minori e, segnatamente, dei critici e dei polemisti della querelle classico-romantica. Precario rimaneva, per le meno fino al restauro operato da Carducci e alla sua rivalutazione della qualità letteraria di quella poesia, lo status dell’esegesi («culturalmente deficitaria; ma con addosso, poi, tanta presunzione di giudizio estetico»)1 e della sistemazione editoriale dei testi (con i mediocri commenti di Francesco Soave del 1805, di Romualdo Zotti del 1811, di Luigi Carrer del 1826-27; altro discorso sarebbe da fare per le Rime curate da Antonio Marsand nel 1819-20, da Giosafatte Biagioli nel 1821 e da Leopardi nel 1826); e del tutto marginale fu l’attenzione riservata ai Trionfi e alle opere latine. Tuttavia, il nome dell’autore del Canzoniere circolò con frequenza nella pubblicistica militante dei due schieramenti; per i classicisti come esempio tanto illustre della tradizione da dover essere affiancato senza discussioni a Dante (sul frontespizio della «Biblioteca italiana», dal 1817, cominciò ad apparire l’effigie di Petrarca), per i romantici come poeta del

1 R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca). Edizione riveduta, Padova, Antenore, 1993, p. 158.

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sentimento e del dramma spirituale, da collocarsi (non senza forzature) all’interno di una indifferenziata sequenza di modelli di ogni tempo, da Omero a Shakespeare, spesso valutati alla stregua di precursori della moderna sensibilità 2. Converrà dunque partire, per la loro particolare rilevanza all’interno della polemica e per le implicazioni non soltanto letterarie, dai manifesti romantici del 1816 di Ludovico di Breme, Pietro Borsieri e Giovanni Berchet; ai quali, sulla base di una acquisizione recente, si potrà aggiungere come quarto esempio, ma in realtà come capitolo cronologicamente preliminare, quella Introduzione alla «Biblioteca italiana» che il Borsieri dettò sul finire del 1815 e che, respinta dalle autorità austriache, ritornò in circolo

2 Cfr. C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, Napoli-Genova-Città di Castello-Firenze, Perrella, 1923 (sui primi polemisti romantici le pp. 203-18; sugli spunti petrarcheschi in Manzoni, soprattutto prima della conversione, le pp. 407-20); a questa documentata monografia, unica sull’argomento, si aggiungano G. Pepe, L’uomo Petrarca nella critica sociologica del Risorgimento, in «La Nuova Italia», V, 2, 20 febbraio 1934, pp. 51-56, e M. Sansone, Petrarca e il petrarchismo nella poetica romantica, in «Studi petrarcheschi», VII, 1961 (Petrarca e il petrarchismo. Atti del III Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana, Aix-en-Provence e Marsiglia, 31 marzo-5 aprile 1959), pp. 323-36. Si vedano anche i profili complessivi tracciati da C. Calcaterra, Il Petrarca e il petrarchismo, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, Marzorati, vol. III, 1949, pp. 167-274 (pp. 198-213 e 259-60); E. Bonora, Francesco Petrarca, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, vol. I, Da Dante al Marino, Firenze, La Nuova Italia, 1960, pp. 95-167 (pp. 124-38); B. T. Sozzi, Petrarca, Palermo, Palumbo, 1963, pp. 61-91 e 138-39. Utili riscontri in A. Quondam, Petrarchismo mediato: per una critica della forma antologia, Roma, Bulzoni, 1974; E. Bonora, Introduzione allo studio del Petrarca e del petrarchismo, Torino, Tirrenia stampatori, 1981; G. Izzi, Petrarchismo, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretto da V. Branca, Torino, Utet, vol. III, 19862, pp. 432-40; Petrarca e il petrarchismo: un’ideologia della letteratura, a cura di M. Guglielminetti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994. Per le edizioni primo-ottocentesche di Petrarca si ricorra a R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., pp. 98-89 (Biagioli), 102-04 (Zotti), 118 (Rime, a cura di Carl Ludwig Fernow, Jena, Frommann, 1806), 120-21 (Marsand), 117-19 (Soave), 149-58 (Carrer), 175-211 (Leopardi), 207 (Rime, a cura di Carlo Albertini, Firenze, Ciardetti, 1832). Altre edizioni del Canzoniere, prima della carducciana (parziale) del 1876 (Livorno, Vigo): Giovanni Rosini (Pisa, Tip. della Società letteraria, 1805), Antonio Meneghelli (Padova, Crescini, 1819 2), Antonio Buttura (Parigi, Lefevre, 1820), Gian Pietro Pietropoli (Venezia, Alvisopoli, 1833), Bartolomeo Sorio (Verona, Libanti, 1846), Paolo Emiliani-Giudici (Firenze, Società Editrice Fiorentina, 1847), Luigi Domenico Spadi (Firenze, Bettini, 1858), Giuseppe Bozzo (Palermo, Amenta, 1870), Giovanni Francesia (Torino, Oratorio di S. Francesco di Sales, 1870), Domenico Carbone (Torino, Beuf, 1874). Per il Petrarca latino, importante la raccolta di Poëmata minora quae extant omnia per cura di D. Rossetti, Milano, Società Tipografica de’ Classici italiani, 1829-34, 3 voll.

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Petrarca nel canone dei critici romantici

subito dopo, sotto altra forma, per una precisa volontà di rivalsa dello stesso autore nei confronti della censura, contribuendo così in maniera determinante allo sviluppo del dibattito romantico3. Dagli scritti programmatici di quell’anno cruciale ci si potrà poi spostare, fra gli estremi del noto articolo della Staël sulla maniera e l’utilità delle traduzioni e del sermone Sulla mitologia del Monti, ad altre emergenze petrarchesche nei carteggi dei polemisti e, soprattutto, nel foglio di punta del Romanticismo lombardo; nei suoi tredici mesi di precaria esistenza, e con cadenza bi-settimanale, il «Conciliatore» ospitò infatti dal settembre 1818 all’ottobre 1819 circa quattrocento articoli di una ventina di collaboratori accertati, senza contare le traduzioni, i pezzi anonimi, i contributi firmati con nomi di fantasia o con sigle di comodo4. Nel passaggio dall’età napoleonica alla Restaurazione, operante ancora la distinzione cesarottiana fra genio e gusto, a caratterizzare rispettivamente Dante e Petrarca5, abbastanza circoscritta risulta essere la fortuna di quest’ultimo e, in parallelo (per la moralità non ineccepibile), quella di Boccaccio; i

3 I testi sono raccolti in Manifesti romantici e altri scritti della polemica classicoromantica, a cura di C. Calcaterra, nuova edizione ampliata a cura di M. Scotti, Torino, Utet, 1979, pp. 99-147 («discorso» Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizj letterarj italiani del Breme), 260-387 (Avventure letterarie di un giorno o consigli di un galantuomo a vari scrittori del Borsieri), 392-416 (Introduzione alla «Biblioteca italiana»), 423-86 (Sul Cacciatore feroce e sulla Eleonora di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria di Grisostomo al suo Figliuolo del Berchet). Altre scelte antologiche: Discussioni e polemiche sul Romanticismo, 1816-1826, a cura di E. Bellorini, Bari, Laterza, 1943 (reprint a cura di A. M. Mutterle, ivi, 1975), 2 voll.; G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Con una antologia di testimonianze sul Romanticismo e un saggio introduttivo di F. Flora, a cura di E. Mazzali, Bologna, Cappelli, 1957 e 19702; F. Allevi, Testi di poetica romantica (1803-1826), Milano, Marzorati, 1960; M. Santoro, La polemica classicoromantica in Italia, Napoli, Liguori, 1963; A. Borlenghi, La polemica sul Romanticismo, Padova, Radar, 1968; R. Massano, Romanticismo italiano e cultura europea, Torino, Giappichelli, 1970; M. Scotti, Le poetiche romantiche, Roma, Elia, 1971; F. Figurelli, La prima teorizzazione della poetica romantica in Italia (1816-1820), Napoli, De Simone, 1973; M. Dell’Aquila, Primo romanticismo italiano. Testi di poetica e di critica, Bari, Adriatica, 1976. 4 Il Conciliatore, foglio scientifico-letterario, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1948-54, 3 voll.; si veda anche la ristampa anastatica (Sala Bolognese, Forni, 1981) dell’edizione originale (Milano, Ferrario, 1818-19). 5 «Dei quattro grandi originali d’Italia parmi che Dante possa dirsi il poeta del genio, il Petrarca quello del gusto, l’Ariosto della verità, il Tasso della ragione; la lingua nostra deve al primo energia, gentilezza al secondo, al terzo facilità, all’ultimo maestà, splendore e aggiustatezza» (Saggio sulla filosofia del gusto, 1785, in Dal Muratori al Cesarotti. IV. Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, a cura di E. Bigi, MilanoNapoli, Ricciardi, 1960, pp. 469-82, a p. 477).

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due autori, infatti, interpretano secondo il Borsieri «l’uno la gentilezza l’altro la corruzione della loro età»6. All’«impareggiabile Messer Francesco» fa ricorso, con quel suo «stile di ri-uso, privo di soluzioni personali» che lo costringe in non poche occasioni ad appoggiarsi agli auctores 7, il torinese Ludovico di Breme nel carteggio con gli amici, dal Caluso alla Staël a Ginguené, lodato per avere saputo tratteggiare correttamente, nel secondo volume dell’Histoire littéraire d’Italie, il dissidio interiore di Petrarca, spesso travisato, a suo avviso, dai commentatori8. Fra i prodromi di una considerazione romantica del valore del poeta, contro le letture dell’età dei Lumi (culminate nelle Virgiliane del Bettinelli) che ne avevano censurato l’elaborata freddezza, si può comunque ricordare un articolo scritto nel 1810 dal Borsieri (ma sotto la diretta sorveglianza del Foscolo), sui prelievi da altri testi, compresa la canzone «Spirto gentil», compiuti dal poeta didascalico Cesare Arici. Il recensore insiste su uno dei temi che saranno ampiamente dibattuti in seguito, quello dell’imitazione, cui possono ricorrere non i mediocri, che come l’Arici esauriscono in questo le loro capacità, ma soltanto coloro i quali anche «senza l’esempio degli altri riescirebbero per sé stessi scrittori non volgari»; come dimostra la distanza che intercorre fra Petrarca, strenuo lettore dei classici, e i suoi epigoni, che tanto studio hanno messo, e spesso invano, «nel poterlo rassomigliare»9. A scatenare, nel 1816, la polemica anche intorno al nome di Petrarca fu sufficiente un accenno di madame de Staël, già colpevole, secondo i difensori della tradizione, di una inammissibile e oltraggiosa ingerenza negli affari interni della letteratura italiana. Cercando di aggiustare il tiro dopo le reazioni suscitate dal suo articolo di qualche mese prima sulle traduzioni, la baro-

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Introduzione alla «Biblioteca italiana», in Manifesti romantici, cit., pp. 402-03. M. Pozzi, Lingua e stile di Ludovico di Breme. Appunti in margine alle lettere, in Ludovico di Breme e il programma dei romantici italiani. Atti del Convegno di studio (Torino, 21-22 ottobre 1983), Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984, pp. 49-69 (p. 52, dove è citato, fra l’altro, un passo di una lettera a Giuseppe Grassi del 16 ottobre 1816 in cui, non trovando parole convenienti per esprimere affetto e gratitudine, il mittente trascrive RVF, CLXX, 14; cfr. L. di Breme, Lettere, a cura di P. Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, p. 375). 8 Lettere, cit., pp. 172-73 (a Ginguené, 22 ottobre 1812), 262 (al Caluso, s. d., ma forse novembre 1814; o più probabilmente settembre 1813, cfr. S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa, Nistri-Lischi, 1980, p. 140), 416 (alla Staël, 1° aprile 1817). 9 Sui versi di Cesare Arici in morte di Giuseppe Trenti mantovano, in «Annali di Scienze e Lettere», I, 3, marzo 1810, pp. 415-26; poi in U. Foscolo, Lezioni. Articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura di E. Santini, Firenze, Le Monnier, 1933, pp. 405-12 (pp. 406 e 412). 7

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Petrarca nel canone dei critici romantici

nessa aveva citato Petrarca (con Dante, Ariosto e Tasso) per argomentare che i letterati italiani, a differenza degli scienziati circondati di fama universale (da Galileo all’ancor vivente Alessandro Volta), non godevano, allora, di particolare notorietà in Europa10. Da quel momento, le due fazioni in lotta faranno a gara per riesumare Petrarca, con un effetto di trascinamento derivante dal fatto che quel nome non poteva non essere paragonato o affiancato, per ragioni storiche, a quello di Dante, oggetto allora, grazie a Monti, di un consistente recupero; ma mentre i classicisti insisteranno in prevalenza sulle qualità dello stile e della lingua (come il torinese Davide Bertolotti, per il quale in «gran parte» del Canzoniere si può trovare la prova di «quanto la nostra favella mirabilmente si pieghi all’affettuoso e al patetico»)11, i romantici, che comunque (da Scalvini a Poerio) sempre gli anteporranno il «robusto» Dante, cercheranno di rivendicarne la concretezza dei sentimenti e la grandezza dell’animo, facendone un precursore della loro poetica in una serie di interventi che spesso finiscono col riprendere, o col tradurre letteralmente, le pagine della baronessa12. Nella prospettiva della sostanziale incomprensione romantica per le forme della letteratura umanistica, cui si preferiva contrapporre la stagione aurea di Dante e delle libertà comunali, il giudizio su Petrarca passa anche attraverso una svalutazione del petrarchismo e dell’età dell’imitazione, ribadita dalla Staël e da Schlegel, da Foscolo e Leopardi e, con altre ragioni, dal Monti, che nelle lezioni pavesi attribuisce qualche colpa al Petrarca stesso, «arbitro ed oracolo della lingua poetica», tanto da diventare poi un ostacolo «agl’ingegni che gli succedettero»13. Il fraintendimento, molto comune in area lombarda (si pensi alla manifesta insofferenza di Carlo Porta), trova un

10 In «Biblioteca italiana», a. I, to. II, giugno 1816, pp. 417-22; poi in Discussioni e polemiche, cit., vol. I, pp. 64-67 (p. 65). 11 Discussioni e polemiche, cit., vol. I, pp. 75-84, a p. 81 (in un articolo, siglato «D. T.», apparso su «Lo Spettatore» di Milano nel luglio 1816, col titolo La gloria italiana vendicata dalle imputazioni della signora baronessa di Staël-Holstein). 12 Per la versione da parte di Ludovico di Breme di un frammento della Staël (dal terzo capitolo del primo libro della Corinne ou l’Italie) su Petrarca, «valoroso poeta dell’italica indipendenza, […] presente a tutte le età», cfr. Manifesti romantici, cit., p. 141. 13 Lezione nona. Dante, in V. Monti, Lezioni di eloquenza e Prolusioni accademiche, introduzione e commento di D. Tongiorgi, testi e note critiche di L. Frassineti, Bologna, Clueb, 2002, p. 220; per la datazione (primavera 1802) cfr. la nota dei curatori, p. 73. Cfr. inoltre H. Heintze, Il Petrarca romantico di August Wilhelm Schlegel, in Il Romanticismo. Atti del sesto congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (Budapest e Venezia, 10-17 ottobre 1967), a cura di V. Branca e T. Kardos, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1968, pp. 457-64.

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William Spaggiari

interprete risoluto in Ludovico di Breme, che nell’estate 1816 scrive la pagina più infiammata contro umanisti, eruditi e seguaci del Petrarca:

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Noi, torno a dire, non figli né dei Barlaamo, né dei Crisolora, né di Gemisto Pletone, né di Giorgio da Trabisonda, né del Cardinal Bessarione e né tampoco figli dell’Aurispa o del Filelfo o di Marsilio Ficino, del Trissino, del Bibbiena, del Castelvetro ec., ma dell’Alighieri, per Dio! dell’unico, incomparabile, eterno Alighieri e del sublime trovator Petrarca, Tirteo insieme dell’Italia Italiana e non Latina: e di Ariosto lussureggiante romantico; e dell’infelice e nobilissimo Torquato […]14.

Di conseguenza, Petrarca deve essere accolto fra i grandi scrittori di ogni tempo, «che la natura mette in una stessa classe»15; l’ultimo in ordine di tempo sarebbe, secondo il Breme, Evariste de Parny, da poco scomparso, del quale romanticamente egli apprezza la vena esotica e primitiva, tanto da considerarlo «il principe dei lirici moderni in Francia»16. Si tratta di un procedimento di attualizzazione ben noto nella cultura romantica, che porterà il polemista, nelle Osservazioni del 1818 sul Giaurro di Byron, ad affiancare Petrarca (con la citazione degli ultimi quattro versi di RVF, CCCXXXVI) proprio al francese Parny per la comune indulgenza al patetico; di segno contrario le riflessioni di Leopardi, che in quello stesso anno, nel Discorso intorno alla poesia romantica composto in opposizione al «cavaliere» piemontese, insiste sulla «celeste naturalezza» del registro patetico di Petrarca, degno per questo di essere annoverato non fra i moderni, bensì «fra gli antichi, né senza ragione, perch’è loro uguale, oltreché fu l’uno dei primi poeti del mondo appresso al gran silenzio dell’età media»17. Ma l’oltranzista Breme andrà ancora oltre, con un ulteriore parallelo fra Petrarca e Byron; il segmento della «novella turca» del Giaurro (nella versione in terzine di Pellegrino Rossi) in cui la Grecia attuale è raffigurata come «un bel corpo umano, cui mancata fosse di fresco la vita», viene infatti messo a confronto col «miracolo d’ineffabile sensibilità» del Triumphus Mortis, del quale si cita (ed è circostanza insolita, nel contesto della polemica romantica) il passo conclusivo della morte di Laura18. 14 Manifesti romantici, cit., pp. 129-30. Su questa pagina cfr. A. Ferraris, Ludovico di Breme. Le avventure dell’utopia, Firenze, Olschki, 1981, pp. 108-10. 15 Manifesti romantici, cit., p. 133. 16 Lettera a Federico Confalonieri, 16 maggio 1814 (Lettere, cit., p. 227). 17 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, a cura di O. Besomi (e collaboratori), Bellinzona, Casagrande, 1988, p. 72. 18 Manifesti romantici, cit., pp. 200 e 217-18 (poi in appendice a G. Leopardi, Discorso di un italiano, cit., p. 192); cfr. Triumphus Mortis, I, vv. 160-68, in F. Petrarca,

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Modesta la presenza di Petrarca negli altri due manifesti romantici, meno ostentatamente normativi del «discorso» del Breme e visibilmente orientati verso un registro ironico e satirico. Nelle Avventure letterarie, del settembre 1816, il Borsieri cita frammenti delle rime, dalla definizione dell’Italia secondo la clausola di RVF, CXLVI, 13-14 (l’autore si rallegra che questi «bei versi» siano stati scelti nel 1807 dalla Staël come epigrafe della Corinne ou l’Italie) all’endecasillabo «tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco» (RVF, XL, 6), allora usufruito anche da altri, a indicare una via mediana in fatto di lingua, soprattutto in quell’area di romanticismo prudente che avvicina Borsieri, fra gli altri, al classicismo avveduto del lessicografo Giovanni Gherardini19. Nel sesto capitolo scende in campo, come personaggio centrale delle «avventure» ambientate nelle contrade della Milano 1816, niente meno che Vincenzo Monti, col quale il «galantuomo» protagonista del pamphlet, avendolo incontrato presso i bastioni di Porta Orientale, si incammina verso piazza della Scala e dal quale ascolta l’elogio della fantasia poetica di Petrarca e di Ariosto, che si irrobustì con la «lettura de’ Romanzi di cavalleria». Dunque, un Petrarca redivivo non trascurerebbe, secondo «l’ottimo Poeta» Monti, di leggere e meditare Shakespeare, Schiller e Calderón; stranieri sì, ma di valore universale. Valgono dunque anche per il Borsieri le parole che avrebbe scritto qualche anno dopo Paride Zajotti recensendo l’Adelchi: la grandezza del genio poetico è assoluta, e «ad una certa altezza si dilegua ogni differenza di nazioni e di tempi»20. Nella finzione narrativa il Monti, lodato come conoscitore degli scrittori stranieri, accomuna poi Petrarca ad un fervente imitatore contemporaneo, Thomas James Mathias, autore di una canzone (in italiano) in lode del poeta e del suo «soave pianto»21. Ai nobili versi dell’inglese Mathias, Trionfi, Rime estravaganti, Codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, introduzione di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, pp. 298-301. 19 Per le Avventure cfr. l’edizione da me curata, Modena, Mucchi, 1986, p. 34 (il verso sarà citato dal Borsieri, più tardi, anche nella Prefazione al volgarizzamento del Côrso de Leon o il masnadiere, romanzo del 1841 di George Payne Rainsford James, Milano, Borroni e Scotti, 1843, 4 voll., nel vol. I, pp. V-XX, a p. XX) e p. 89 (Staël); cfr. anche a p. 18 (per RVF, CCCXXIX, 8). Del Gherardini, si veda la recensione di uno scritto di Luigi Lamberti apparsa sul «Giornale italiano», 26 gennaio 1811, p. 108. 20 In «Biblioteca italiana», a. IX, to. XXXIII, marzo 1824, pp. 322-31 (p. 325), e to. XXXIV, maggio 1824, pp. 145-72; ora, non integralmente, in Discussioni e polemiche, cit., vol. II, pp. 200-13 (p. 203). 21 Avventure letterarie, cit., pp. 76-77, dove sono riportati 26 versi della canzone di Mathias a lord William Mansel «dottore di sacra teologia» a Cambridge (cfr. inoltre, di Mathias, l’Aggiunta ai componimenti lirici de’ più illustri poeti d’Italia, Londra, Becket, 1808, 3 voll., nel vol. II, pp. 3-5, e le Poesie liriche italiane, inglesi e latine, Napoli, Nobile, 1822, p. 37).

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a lungo attivo in Italia (morì nel 1835 a Napoli, dove era socio dell’accademia Pontaniana), si può affiancare il ritratto, letterariamente assai più debole e convenzionale, che del Petrarca delinea, poco più tardi, Giovanni Torti nelle terzine Sulla poesia; in una valletta solcata da «un vago fiumicel», alternando il pianto ai mesti sorrisi, il cantore di Laura appare confuso tra un «tenace affetto» terreno e ben «altri sospiri», nell’attesa di ottenere il perdono celeste («e pregherà, che almen prima che scocchi / l’ultimo stral, col dito onnipossente, / padre del cielo, la tua grazia il tocchi»)22. Nella successiva Lettera di Berchet, ultimo e più noto fra i documenti teorici del 1816, la perdita di rilievo di Petrarca appare ancora più chiara, non essendo il poeta riconducibile in alcun modo al registro parodistico e antifrastico della prosa «semiseria» di Grisostomo; il quale si limita infatti ad accostarne i «patimenti» d’amore a quelli di Anacreonte e Tibullo, a sottolineare l’impossibilità di definire «popolare» la poesia di Petrarca e Parini, autori ai quali tuttavia «bisogna pur far di cappello», e a difendere, da ultimo, le invettive dei poeti contro l’Italia (viene addotta la prima stanza della canzone «Spirto gentil») come manifestazione di tormentato amore di patria 23. Berchet rivendica poi a Petrarca (e, con lui, a Dante e Ariosto) il merito di aver saputo creare una nazione letteraria comune «a conforto delle umane sciagure», senza attendere, «per fiorire», l’unità politica24; è questo l’indizio di una considerazione patriottica che risulterebbe anche comprensibile, dati i tempi, ma che gli stessi romantici rinunciano a sviluppare. Più tardi, Cesare Balbo non esiterà anzi a biasimare il Petrarca semplice letterato e poeta elegiaco, nella cui preponderante lirica d’amore si disperderebbe anche la sostanza della componente politica del Canzoniere; dello stesso orientamento le riserve della storiografia laica e democratica, da Francesco Salfi (il cui Résumé de l’histoire de la littérature italienne ebbe ampia circolazione per tutto il secolo) a Giuseppe Ferrari a Paolo Emiliani-Giudici, fino a Settembrini25. Meno di due anni dopo, nel «Conciliatore», Petrarca è largamente sovrastato, anche nel semplice catalogo delle occorrenze, da figure egemoni come

22 Sulla poesia, Milano, Ferrario, 1818, in Discussioni e polemiche, cit., vol. I, pp. 381-98 (pp. 395-96; canto IV, vv. 46-75). 23 Manifesti romantici, cit., pp. 431, 478-79, 484. 24 Ivi, p. 445. 25 Una rassegna delle varie posizioni in G. Pepe, Petrarca nella critica sociologica, cit., pp. 52-54, e in E. Bonora, Francesco Petrarca, cit., pp. 129-33. Il capitolo petrarchesco del Résumé del Salfi (Paris, Janet, 1826, 2 voll., nel vol. I, pp. 61-78) si legge in Dal Muratori al Cesarotti, cit., pp. 976-84.

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Dante, Shakespeare, Alfieri; vale a dire quegli autori ai quali i romantici guardavano come modelli di forte sentire. Due soli brevi articoli gli vengono dedicati nei primi numeri del giornale; e in entrambi i casi nell’ultima colonna di stampa, generalmente riservata a pezzi brevi e non particolarmente impegnativi. Nel settembre 1818 Silvio Pellico segnala una raccolta di pensieri e sentenze sui piaceri della solitudine di Giovanni Zuccala, professore di estetica a Pavia, costruita su testi di autori antichi e moderni, compreso il Petrarca del De vita solitaria; sono evidenti, nelle rapide notazioni del redattore, l’insofferenza per un libro in lode di questa «orribilissima fra le calamità umane» e, insieme, il richiamo strumentale a Petrarca come pretesto per svolgere considerazioni d’altro genere, funzionali al consolidamento di una nuova moralità romantica26. In uno dei numeri successivi, nell’articolo Petrarca difeso da una critica di Hume, il Borsieri sostiene la legittimità (nel sonetto «Movesi il vecchierel») del parallelo, che al filosofo scozzese (nella dissertazione On the standard of taste, del 1757) era sembrato «ridicolous», tra il pellegrino che va a Roma per vedere l’immagine di Cristo nel velo della Veronica e il poeta che cerca in altre donne le sembianze del volto di Laura. Il paragone, scrive il Borsieri, è «convenientissimo allo spirito de’ tempi del Petrarca», quando molti pellegrini, a prezzo di «infiniti patimenti», si recavano a Roma per il giubileo; e il sentimento d’amore, nel suo grado sommo, «somiglia grandemente a quello della religione, e ne usurpa il sacro linguaggio»27. A proposito del famoso sonetto, già oggetto delle riserve di Tassoni, nelle Considerazioni del 1609, e del Muratori, editore delle rime nel 1711 (ma la conclusione era apparsa «troppo ardita e quasi impia» anche a Ludovico Beccadelli, nel 1569)28, si potrà notare per un verso la vicinanza tra la lettura del Borsieri e il di poco successivo commento del Biagioli29, e per l’altro il fatto che il pole-

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Il Conciliatore, cit., vol. I, pp. 111-12 (20 settembre 1818). Ivi, vol. I, pp. 266-68 (25 ottobre 1818). 28 Cfr. le Rime di Francesco Petrarca col comento del Tassoni, del Muratori, e di altri, a cura di L. Carrer, Padova, pei Tipi della Minerva, 2 voll., 1826-27, nel vol. I, pp. 5556; per il Beccadelli, F. Petrarca, Canzoniere, edizione commentata a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996, p. 71. 29 Rime di Francesco Petrarca col comento di G. Biagioli, Milano, Silvestri, 1823, 2 voll. (la prima edizione è «Parigi, presso l’editore, in via Rameau no. 8» [«dai torchi di Dondey-Dupré»], 1821, due tomi di cui il primo diviso in due parti), nel vol. II, p. 25 («La sembianza di colui che, ec.; Dante, nella Vita Nuova, di queste sacrosante reliquie dice: in quel tempo che molta gente va a Roma per vedere quella immagine benedetta, la quale Gesù Cristo lasciò a noi per esempio della bellissima sua figura. – Ch’ancor lassù, ec.; non a caso dice questo, ma sì a dichiarare che le simiglianze, le quali avvenevagli qua e là d’in27

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mista romantico, il quale già aveva apprezzato Hume come «illustre storico», vede nei vv. 10-11 un’allusione al volto del pontefice30; errore che ritornerà in Leopardi commentatore di Petrarca, ma non nella princeps, bensì nella seconda edizione, postuma, in vista della quale lo stesso curatore aveva predisposto modifiche nel 183631. È noto tuttavia che «le correzioni e le giunte […] furono in parte ispirate a Leopardi da altri, e […] non sono tutte felici»32; e che a ristabilire la correttezza provvide il postillatore dell’edizione lemonnieriana del 1845, ristampata nel 1847 e nel 1851, da identificare con ogni probabilità in Vincenzo Nannucci33. Petrarca è poi ancora ricordato dal Borsieri recensore della traduzione italiana, ad opera di Girolamo Pozzoli nel 1818, del controverso Account of the manners and customs of Italy che il Baretti aveva pubblicato a Londra nel 1768, per replicare ai maligni giudizi dei viaggiatori stranieri, e segnatamente alle Letters from Italy di Samuel Sharp, del 1767. Il compilatore denuncia la stravagante incoerenza e la mancanza di «filosofia» del letterato piemontese, là dove questi era arrivato a difendere, per esclusivo e ostinato amor di patria, l’istituto del cicisbeismo come derivazione dell’amore platonico e dell’antico «spirit of gallantry» cavalleresco per il tramite di Petrarca; il quale, essendo stato «the most favourite poet of Italy for these four last centuries», avrebbe di fatto codificato la figura di questi «adorers» della bellezza e delle virtù femminili34.

contrare, non potevano essere se non come esempio rispetto all’esemplare, dove può solo trovar posa il desiderio, e contento il cuore»). 30 Cfr. l’Introduzione alla «Biblioteca italiana» (Manifesti romantici, cit., p. 402), e la nota di Branca in Il Conciliatore, cit., vol. I, p. 267. 31 Rime di Francesco Petrarca colla interpretazione composta dal Conte Giacomo Leopardi, Milano, Stella, 1826, p. 38 («Il volto rappresentato nel Sudario»); Le Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi da lui corretta e accresciuta per questa edizione alla quale si sono uniti gli argomenti di A. Marsand e altre giunte, Firenze, Passigli, 1839, p. 750 («Chiama immagine di Cristo il papa»). 32 R. Tissoni, Il commento ai classici italiani, cit., p. 206 (e cfr. anche p. 195). 33 Cfr., per questo, G. Nencioni, Introduzione alla ristampa anastatica (1989) di Le rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi, migliorata in varj luoghi la lezione del testo, e aggiuntovi nuove osservazioni per cura dell’editore. Terza edizione, Firenze, Le Monnier, 1851, pp. I-XXXII, a pp. II-IV (e, a pp. 26-27, il sonetto con la nota della stampa Passigli e l’aggiunta del revisore fra asterischi: «Chiama immagine di Cristo il papa. *Intendi piuttosto la Veronica, […] ché nessuno ha mai creduto che il papa abbia la sembianza di Cristo […]*»). 34 Il Conciliatore, cit., vol. I, p. 162 (4 ottobre 1818); e cfr. An account of the manners and customs of Italy; with observations on the mistakes of some travellers, with regard to that country by Joseph Baretti, London, Davies, 1768, 2 voll., nel vol. I, pp. 102-06.

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La marginalità di Petrarca sul foglio azzurro parrebbe confermata, più che dalla estemporanea citazione di versi del Canzoniere35 (un’abitudine cui i compilatori si lasceranno spesso andare anche nelle confidenze epistolari)36, dalla debolezza delle osservazioni sugli studi filologici. Del poeta «invaghito de’ classici antichi» parla il Berchet, mentre Ermes Visconti accenna allo zelo di Petrarca e Boccaccio «nel diffondere fra noi la cognizione dei vecchi libri»; e già il Borsieri, nell’Introduzione alla «Biblioteca italiana» del 1815, aveva ricordato come Petrarca e Boccaccio fossero da considerarsi «benemeriti» per lo studio «delle lingue e de’ Codici antichi»37. Né viene taciuto dal Berchet, pur senza argomentazioni specifiche, l’apporto di Petrarca alla formazione della lingua e al consolidarsi delle «norme del buon gusto» dopo i «secoli rozzi»; e poco prima Ludovico di Breme aveva giudicato quella di Petrarca una lingua «tutta fiorente di pudore, tutta impressa d’illibati sospiri, bella, pura, smaltata»38. Importa poi notare come il Petrarca dei conciliatoristi risulti animato da concrete passioni, su cui insistono in particolare il Berchet e il manzoniano Visconti, per il quale i turbamenti del cuore costituiscono uno dei suoi «pregi più caratteristici»; ma va anche detto che, poco più oltre, è lo stesso autore delle Idee elementari sulla poesia romantica a catalogare Petrarca fra i campioni di una «tendenza contemplativa» con Ariosto, Milton e Klopstock, assecondato in questo dal Pellico lodatore della «delicatezza dei sentimenti di quell’esimio cantore dell’amore», i cui versi, al pari di quelli di Metastasio, commuovono «senza offendere i costumi»39. È noto, del resto, come l’argomento della «doppia natura» di Petrarca sia destinato a diventare uno dei luoghi comuni (e talora confusi) della critica romantica, se ancora Carlo Tenca, nel 1852, ritiene che il poeta trecentesco avesse saputo «idealizzare nella poesia il sentimento cristiano», rivestendolo di «forme plastiche» e riconducendo «l’ispirazione al bello umano, idealizzato nelle forme mortali»40.

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Il Conciliatore, cit., vol. I, p. 539; vol. II, p. 296; vol. III, p. 343. È il caso soprattutto di quanti, fra i romantici, dovettero subire il carcere e l’esilio. Fra i molti esempi, una lettera del Borsieri a Giovanni Arrivabene del 29 dicembre 1840 (cita RVF, XV, 14), in P. Borsieri, Avventure letterarie di un giorno e altri scritti editi ed inediti, a cura di G. Alessandrini, prefazione di C. Muscetta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1967, p. 330; per il Breme cfr. qui la nota 7. 37 Il Conciliatore, cit., vol. I, pp. 338 e 423, e la borsieriana Introduzione alla «Biblioteca italiana» in Manifesti romantici, cit., p. 402. 38 Il Conciliatore, cit., vol. II, pp. 538-40 (Breme), e vol. III, p. 178 (Berchet). 39 Ivi, vol. I, pp. 219-20 (Berchet), 398 e 401(Visconti); e vol. II, pp. 4 e 16 (Pellico). 40 Di una storia della letteratura italiana (1852), in C. Tenca, Saggi critici, a cura di G. Berardi, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 289-327, a p. 300 (recensione del Compendio della 36

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Meno prudente, in una considerazione che vorrebbe essere di più ampio respiro dopo le lacune della Lettera semiseria, si dimostra il già ricordato Berchet, che colloca Petrarca (con Dante, Ariosto e Shakespeare) fra quanti accettarono come uniche regole quelle «stabilite dalla natura e dalla ragione», e «si lasciarono andare alla prepotenza del loro genio, al bisogno delle anime loro, e riescirono grandi nella libertà»41. È l’avvio di quel processo di arruolamento del Petrarca fra i romantici ante litteram in cui si distinguono il Borsieri (i romantici «non calpestano l’eredità de’ maggiori», ma tengono come modelli i poemi di Dante e Ariosto «e il Canzoniere del Petrarca, tutti lavorati senza rispetto al codice d’Aristotele») e il Pellico: i romantici, e con loro Dante, Petrarca, Tasso, Ariosto, pensano che non sia lecito copiare gli antichi, ma imparare da loro a «dipingere nuovi quadri colla stessa arditezza di disegno e armonia di colorito»42. Ancora più chiaro sarà nel giugno 1819, poco prima della soppressione del «Conciliatore», il bresciano Giuseppe Nicolini, per il quale sono da considerarsi romantici la Commedia, il Canzoniere, il Furioso, la stampa Malespini della Gerusalemme (1580), la Bassvilliana, la Mascheroniana e Il Bardo della Selva Nera del Monti, nuovamente messo in campo a sua insaputa dai romantici, e oggetto per giunta di una specie di diffida: «è sperabile che non si sdegnerà [..] d’esser romantico; che se vuole sdegnarsene, si sdegni ad un tempo del suo genio, della sua gloria, e de’ suoi versi immortali»43. Un catalogo non diverso il Nicolini aveva prodotto nell’opuscolo Il Romanticismo alla China, del febbraio 1819; dove tuttavia il Goffredo «del mio gran Torquato» è accompagnato da una glossa che circoscrive il carattere romantico ad «una gran parte» del poema, e dove prudenzialmente, del Monti, è citata soltanto la Bassvilliana44. L’idea del Nicolini e dei conciliatoristi, di un Petrarca senza alcun dubbio romantico al pari di Omero e Shakespeare, non era nuova, se già nel

storia della letteratura italiana di Paolo Emiliani-Giudici, 1851, apparsa in cinque puntate sul «Crepuscolo» tra febbraio e marzo 1852). 41 Il Conciliatore, cit., vol. I, pp. 272 e 336. 42 Ivi, vol. II, pp. 50 (Pellico) e 73 (per l’attribuzione al Borsieri dell’articolo, siglato «Il Conciliatore», cfr. il mio In mezzo a’ lumi de’ Gonzaghi heroi. Note e ricerche di letteratura moderna, Catanzaro, Pullano, 1993, pp. 83-89 e 92-94). Petrarca è ricordato poi dal Borsieri (vol. I, p. 507) e ancora dal Berchet (vol. III, pp. 355 e 358, come fonte e modello del Labirinto, poema allegorico di Juan de Mena, del 1444). 43 Il Conciliatore, cit., vol. II, p. 676. 44 Il Romanticismo alla China. Lettera del signor X all’amico Y e risposta del signor Y all’amico X, pubblicate dal signor Z amico di tutti e due, Brescia, Franconi, 1819; ora in Discussioni e polemiche, cit., vol. II, pp. 50-61 (p. 60).

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1817 il classicista Carlo Giuseppe Londonio, allo scopo di sminuire il presunto valore innovativo della moderna scuola letteraria e di porre un argine agli ammaestramenti che venivano dagli stranieri, scriveva:

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La Divina Commedia, la Gerusalemme Liberata, l’Orlando Furioso e tutti i poemi modellati sullo stesso genere, le canzoni del Petrarca, gl’inni e molte altre poesie del magnifico Lorenzo, le odi del Filicaja, e, scendendo fino alla nostra età, i poemetti del Parini, le cantiche del Monti, parecchie tragedie d’Alfieri, ecc. attestano in modo solenne che il genere romantico non è nuovo in Italia, e che anzi non avvi forse paese in cui egli abbia avuto più insigni e fortunati cultori45.

Una argomentazione, come si vede, che avrebbe benissimo potuto trovare d’accordo gli avversari; ma se per Romanticismo, continuava il Londonio, si intende la rinuncia ai valori classici e alle immagini antiche, e l’impiego di un «meraviglioso» che sconfina nella più «screditata superstizione», allora meglio lasciare alle altre nazioni «la palma del sistema romantico»46. Anche Giovanni Gherardini, negli Elementi di poesia ad uso delle scuole del 1820, interviene nella questione, cogliendo il carattere equivoco del concetto romantico di modernità; tutte le opere dei secoli passati annoverate dai «nuovi critici» sono in realtà classiche proprio perché moderne, «trovandosi appunto in esse adempiuta la prima condizione di questo genere, cioè l’accordo […] de’ sentimenti del poeta cogli oggetti che lo circondano, colla religione, colle opinioni e coi costumi in cui egli vive»47. Ma se ne avvertirà l’eco ancora a lungo, soprattutto in area toscana, con Giovanni Rosini (i grandi autori moderni non sono paragonabili ai greci e ai latini, «e da questa dissomiglianza giudicandoli, Dante non solo, ma il Petrarca, il Poliziano, l’Ariosto ed il Tasso, sarebbero eminentemente romantici»)48, e poi con il tardivo ridestarsi della polemica susseguente alle sortite anti-romantiche di Vincenzo Monti nel sermone Sulla mitologia del 1825. Rimasto l’unico in attività fra i dispersi conciliatoristi, Giuseppe Montani replica al Monti nel fascicolo di ottobre della fiorentina «Antologia», domandandosi come mai il

45 Cenni critici sulla poesia romantica, Milano, Pirotta, 1817, in Discussioni e polemiche, cit., vol. I, pp. 212-33 (p. 231). 46 Discussioni e polemiche, cit., vol. I, pp. 231-32. 47 Ivi, vol. II, pp. 135-65 (dove sono pubblicate alcune parti degli Elementi, Milano, Grassi, 1820), a pp. 140-41. 48 Miscellanee di versi e prosa, in Opere, Pisa, Capurro, 1835-51, 10 voll., nel vol. IX (1843), p. 137.

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vecchio poeta abbia definito «audace» la scuola romantica, «che mette in teoria ciò ch’egli già ne insegnò colla pratica»:

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quella scuola, che potrebbe vantarlo tra’ suoi fondatori o piuttosto tra’ suoi restauratori, poiché alfine è la scuola di Dante e del Petrarca, dell’Ariosto e del Tasso; la scuola infine, che gli ha data più fama, e nella quale sarebbe giunto a chi sa qual grado di gloria, se gli avvenimenti, che hanno disposto di tanti destini, non l’avessero arrestato nella sua carriera49.

Già all’inizio del 1819, segnalando nella «Biblioteca italiana» il sermone Sulla poesia del Torti e le Idee elementari sulla poesia romantica del Visconti, entrambi pubblicati in opuscolo da Vincenzo Ferrario editore del «Conciliatore» (le Idee viscontiane erano apparse anche, in sei puntate, sul periodico), Paride Zajotti aveva cercato di rimettere ordine in questo imperversare di arbitrarie appropriazioni: L’affettuoso Petrarca assorto continuamente in un’estasi beatissima d’amore, che è uno stato interissimamente opposto al contrasto, non poteva aspettarsi le lodi che gli danno i romantici per aver espressa ne’ suoi versi la pugna tra l’amore e il dovere50.

Se Petrarca ha reso casto l’amore pagano, restituendolo alla «Venere celeste» (Zajotti non può fare a meno di citare i vv. 177-79 dei Sepolcri), la ragione andrà cercata nella filosofia platonica «sparsa a piene mani ne’ divini suoi versi, che da sì poeticissime dottrine trassero quella mirabile purità e delicatezza»51. Il vecchio motivo del Petrarca neoplatonico, rielaborato cinquant’anni prima dal Baretti in Inghilterra (e negato recisamente da Leopardi)52, viene ripreso, proprio in quell’anno 1819, anche dal giovane Rosmi-

49 La mitologia, sermone del cav. Vincenzo Monti, in «Antologia», XX, 1825, 58 (ottobre), pp. 102-40; poi in G. Montani, Scritti letterari, a cura di A. Ferraris, Torino, Einaudi, 1980, pp. 71-117 (p. 93). Sulla «lunga predica dissennata» del Montani (il quale «anzi che sdegno mi fa compassione»), il Monti si espresse duramente nella lettera a Domenico Valeriani del 24 dicembre 1825 (Epistolario, raccolto ordinato e annotato da A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1928-31, 6 voll., nel vol. VI, p. 150). 50 In «Biblioteca italiana», a. IV, to. XIII, febbraio 1819, pp. 147-69; poi in P. Zajotti, Polemiche letterarie, a cura di R. Turchi, Padova, Liviana, 1982, pp. 5-28 (p. 28). 51 P. Zajotti, Polemiche letterarie, cit., p. 28. 52 «Il platonismo poi del Petrarca a me pare una favola, poiché più d’un luogo de’ suoi versi dimostra evidentissimamente che il suo amore era come quello di tanti altri, sentimentale sì, ma non senza il suo scopo carnale» (ad Antonio Fortunato Stella, 13 settembre

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Petrarca nel canone dei critici romantici

ni, studente di teologia a Padova, in un articolo di polemica linguistica (di poco successivo alla pubblicazione del primo volume delle Proposta montiana) per il «Giornale dell’italiana letteratura», scritto in difesa della filosofia, «scienza ubertosa e magnifica»; ed è appunto in tale contesto che si fa notare come Petrarca avesse ricevuto influssi dalla scuola platonica53. Nonostante l’intensità della polemica e la rigidità delle contrapposizioni, Petrarca non diventa mai un concreto e originale tema di discussione, forse perché gli stessi classicisti, pur fermamente decisi ad accoglierlo per indiscutibili meriti nel Parnaso della poesia, sembrano trovarsi talvolta a disagio davanti all’uniformità di lingua e situazioni del Canzoniere; anche Pietro Giordani, sempre sollecito a suggerire ad amici e discepoli lo studio di testi letterari fra Tre e Cinquecento, non ne è particolarmente attratto, preferendogli la potente varietà di Dante54. Quasi del tutto assente è poi, su entrambi i fronti, una sia pur sommaria valutazione dei Trionfi (si pensi invece alla predilezione per il Petrarca visionario da parte di poeti stranieri attivi in quel periodo in Italia, come Byron e Shelley), delle opere latine, dell’assetto testuale del corpus degli scritti. Fra i polemisti, il Borsieri nel 1816 lamenta l’assenza di «commenti non grammaticali, ma filosofici e letterari» dei quattro poeti del canone (Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso)55; più motivate le attenzioni filologiche sull’altro versante, a cominciare da Giovanni Antonio Maggi, il letterato milanese di scuola montiana, secondo il quale il Petrarca era stato provvidenzialmente «sanato di tutte le sue piaghe» dal veneziano Antonio Marsand, curatore della valida stampa padovana delle Rime del 1819-20 in cui, appunto, larga parte avevano avuto i suggerimenti del Monti56. 1826, in G. Leopardi, Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 2 voll., nel vol. I, p. 1237). 53 «Giornale dell’italiana letteratura», s. II, vol. XXI, novembre 1819, pp. 193-234 (a p. 222); cfr. S. De Stefanis Ciccone, La questione della lingua nei periodici letterari del primo ’800, Firenze, Olschki, 1971, p. 254. 54 Cfr. E. Garavelli, Pensieri e giudizi giordaniani sulla letteratura italiana, in Giordani Leopardi 1998. Convegno nazionale di studi (Piacenza, 2-4 aprile 1998), a cura di R. Tissoni, Piacenza, Tip. Le. Co., 2000, pp. 313-78, a pp. 376-77; nello stesso volume si veda anche il contributo di G. Rabitti, Giordani e la poesia, Giordani poeta, pp. 185-213, a pp. 204 (Giordani raccomanda a Giovanni Marchetti, nel 1816, il «continuo studio in Dante e Petrarca» per «la purità e la chiarezza») e 207-08 (notizia di appunti giordaniani su Petrarca fra i mss. conservati alla Laurenziana). 55 Avventure letterarie, cit., p. 35. 56 In «Biblioteca italiana», a. IX, to. XXXV, settembre 1824, p. 322; citato da R. Bizzocchi, La «Biblioteca italiana» e la cultura della Restaurazione. 1816-1825, Milano, Angeli, 1979, p. 95.

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William Spaggiari

Lo strascico di polemiche suscitate dal Sermone montiano orientava ormai la disputa in altre direzioni. Con il suo sbrigativo protagonismo irrompeva sulla scena il ventitreenne Tommaseo, da poco approdato a Milano; basta un sonetto di Petrarca o un canto di Dante a far giustizia dei nostalgici delle favole antiche, proclamava nel febbraio 1826. Subito dopo, nel discorso Della mitologia, ribadiva che se Dante e Petrarca avessero «i campi del poetico regno misurati con l’occhio del Monti» non avremmo avuto «una poesia veramente italiana», ma solo poeti capaci di esercitare la loro immaginazione «in un mondo di scolorati fantasmi»57. «Oh Poeta, tu, ch’hai tanto pianto d’amore, hai tu veramente amato mai?»; così, molti anni dopo, Tommaseo, spesso malevolo verso la fragilità umana di Petrarca, al punto da metterne in dubbio la sincerità dei sentimenti, concluderà una ben nota pagina di Bellezza e civiltà, col ritratto di un uomo che sospira d’amore per la «figlia del sindaco d’Avignone» mentre abbraccia «una altra donna»58. Il moralismo dello scrittore dalmata, cui non erano estranei gli espedienti di un biografismo superficiale e pettegolo, annunciava un’epoca nuova; ma le esili incursioni petrarchesche dei polemisti romantici, più che dal perentorio esordio dei critici della generazione successiva, erano a quel punto soverchiate dalle letture antitetiche di Foscolo, nell’affresco storico e spirituale dei Saggi tradotti nel 1824, e di Leopardi, nella disciplina arida e nel «risparmio di parole» che sovrintende alla discussa e sofferta, ma editorialmente fortunata, Interpretazione del 182659.

57 Discussioni e polemiche, cit., vol. II, pp. 373-89 (Della verità poetica. Osservazioni, nel «Nuovo Ricoglitore», febbraio 1826, pp. 101-16), a p. 382, e pp. 390-410 (Della mitologia. Discorso sopra al Sermone del cav. Vincenzo Monti, Milano, Rivolta, 1826), a p. 394. 58 Bellezza e civiltà, o delle arti del bello sensibile. Studii, Firenze, Le Monnier, 1857, p. 363; sulla critica petrarchesca di Tommaseo cfr. C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, cit., pp. 215-18. 59 Gli Essays on Petrarch (London, Murray, 1823) furono tradotti da Camillo Ugoni (Saggi sopra il Petrarca pubblicati in inglese da Ugo Foscolo e tradotti in italiano, Lugano, Vanelli, 1824); per Leopardi cfr. qui le note 31 e 33 (del «risparmio di parole» nel «comento» Leopardi parla nella lettera allo Stella del 13 settembre 1826, cfr. Epistolario, cit., vol. I, p. 1237).

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Sandro Gentili

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GLI USI DEL PETRARCA NELLA POESIA DELL’OTTOCENTO

L’immagine di «una babele di linguaggi discordi»1, a cui per la poesia italiana dell’Ottocento con piena liceità fece ricorso Luigi Baldacci antologista dei «minori», se esclude, a priori, di dar credito alla categoria uniformante di «petrarchismo» (anche nell’accezione “debole” del Settecento2) e invita in suo luogo a una descrizione fenomenologica degli usi personali del Petrarca nel corso del secolo, non impedisce tuttavia di distribuire e raggruppare quegli usi, sia nella sincronia di situazioni culturali e geografiche omogenee, sia nella diacronia di poetiche o comunque di convenzioni di linguaggio, di forme e stile e di situazioni canoniche, che si realizzarono preferibilmente in relazione di dipendenza dalle maggiori esperienze poetiche contemporanee (Foscolo, Leopardi, più tardi Carducci), coagulandosi per breve tempo in moda o protraendosi in e talvolta acquistando i caratteri di tradizione. Usi non solo personali, dunque, ma anche mediati, riflessi, e in qualche modo dialettici, perché a seguito di un disuso, di una messa al bando, di un’eversione del sistema (che hanno un nome: Manzoni), e attivi perciò nell’ipotesi, ovviamente per chi la coltivò, di un suo riequilibrio al passato. In prima istanza, perciò, pongo il dato della soluzione di continuità, e il primo campo di riferimenti metodologici: sincronico. 1 Cfr. L. Baldacci, Introduzione a Poeti minori dell’Ottocento, to. I, a cura di L. Baldacci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958, p. IX. 2 Un’implicita conferma al giudizio trovo in Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura, a cura di M. Guglielminetti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994, che nell’antologia dei “petrarchisti” a Leopardi fa seguire Gozzano.

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Da Foscolo a Manzoni. La cancellazione, rapidissima e per unanime consenso, del modello di intellettuale e di letterato del Foscolo nella Lombardia restaurata3 e la sua sostituzione già alla fine del secondo decennio del secolo, altrettanto istantanea, dunque, e unanime, con il modello del Manzoni, dialogico, corale e plurilinguista dei primi Inni, e tragico, eterodossamente tragico, del Carmagnola, escludono per quell’area geografica, l’unica italiana letterariamente in sintonia con l’Europa, la prosecuzione dell’esperimento di selezionatissimo canzoniere mandata a effetto dal poeta a inizio Ottocento con i dodici sonetti (e le due odi) delle Poesie (1803), la sua possibile promozione a tradizione del moderno (lecita anche per la cospicua assunzione del canone petrarchista, dal Cinquecento, in primis il Casa, al tardosettecento, cioè Alfieri; per le odi opera invece il Parini). L’esile raccolta valeva, «prima ancora che in ragione della propria individualità stilistica», «fin nella sua consistenza numerica, quale traumatico correttivo nei confronti di esercizi ben diversamente corrivi, e insieme attestava un non pleonastico rispetto della tradizione lirica nazionale, omaggiata nel suo schema di maggior prestigio, il sonetto, e ancora parcamente tentata nella forma che per tutto il Settecento aveva costituito […] l’aspetto più genuinamente conservativo nella generale corruzione delle mode classicistiche, l’ode»4. I poeti, che nel primo decennio del secolo a vario titolo si erano formati e uniformati a quella scuola (e alcuni, nel contempo e, per quanto appena detto, senza incoerenza, a quella del Parini, dell’Alfieri e del Monti) – antico-moderna per lingua, conservazione, interna erosione e innovazione degli schemi metrici, eletta genericità tematica, corrispettiva aristocrazia formale, e per queste stesse ragioni intollerante delle corrività che si annunciavano di altro e opposto genere –, quei poeti, che si chiamavamo Silvio Pellico, Giovanni Berchet, Giovita Scalvini e Giovanni Torti (illegittimo includervi il primo Manzoni), la intesero conclusa con il Regno Italico e con l’esilio inglese di Foscolo, travolta nel crollo del napoleonismo e del programma neoclassico che ne aveva segnato l’età. La tempestivamente rude

3 Cfr. S. Gentili, Jacopo Ortis allo Spielberg (Foscolo in Borsieri e in Pellico), in «La Rassegna della letteratura italiana», 3, settembre-dicembre 1994, pp. 96-103; Id., “Demostene” e il “sofista pericoloso” (Foscolo in di Breme), in «Studi italiani», 14, luglio-dicembre 1995, pp. 123-34; Id., Foscolo nell’immaginario dell’Ottocento: due capitoli, in 7 studi per Vittorio Gatto, a cura di U. Dotti e S. Gentili, Napoli, ESI, 2003, pp. 35-59 (ora in Id., «Quaedam divina voluptas atque horror» e altri studi foscoliani, Roma, Bulzoni, 2006). 4 Cfr. F. Gavazzeni, Nota introduttiva a Poesie (1803), in U. Foscolo, Opere, to. I, a cura di F. Gavazzeni, Milano-Napoli, Ricciardi, 1974, p. 160.

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

sociologia di Grisostomo con la relativa mitizzazione di un pubblico borghese e di un livello di comunicazione adeguato all’auspicata promozione della sua cultura; il canone anticlassico, antiprecettivo e antimimetico sbozzato sulle colonne del «Conciliatore», appunto per quella destinazione borghese (cessata dopo secoli l’esclusività di gestione aristocratica della cultura); l’ethos cristiano fatto proprio da Manzoni, in cui si fa obbligo il sospetto verso «un’ontologia sostitutiva del Sacro per le vie di un eros sacralizzato»5, e non meno le scelte dell’innografo, che formalizzano il già adolescenziale e giovanile atteggiamento sperimentale riguardo ai generi consacrati, antiselettivo riguardo alla lingua e antilirico specificamente per la poesia, sanzionarono l’inattualità di quella proposta, il suo declino a breve scadenza e in loco irreversibile. Il più congruente progetto di moderno petrarchismo, contenutissimo e geloso della sua audacia e rarità e, anche perché consapevole della sua dimensione di assolutezza, proposto sub specie mortis6 (intendo per la posizione incipitaria di Alla sera nel microcanzoniere; e come tale infine eversore dell’altro, alfieriano, di rime-diario, a tacere del precedente ancora, le “occasionali” raccolte d’Arcadia), progetto che Ultime lettere di Jacopo Ortis, Sepolcri e Essay inglese già avevano o a breve avrebbero dotato di mito biografico e di apparato critico, cedeva il campo a un nuovo tipo di poesia e di retorica. Che basta, tanto è noto, compendiare nelle sue forme e nei suoi metri maggioritari, perfettamente antitetici al modello declinante e al metro principe dell’età neoclassica, l’endecasillabo sciolto, così come alle forme e ai metri petrarcheschi e petrarchisti: l’inno patriottico, la ballata medievaleggiante, la novella patetica, la tragedia byroniana, la canzone storica; le cadenze facili energicamente ritmate, i raggruppamenti di quattro od otto versi, con collegamento di rima tronca finale; la tendenza sliricizzante, romanzesca e narrativa, e l’opzione per la coralità epica impostata sul parisillabo; la densità timbrica, la parola teatralizzata della parenesi e del melodramma7.

5 Cfr. G. Lonardi, Introduzione a A. Manzoni, Tutte le poesie 1797-1872, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Venezia, Marsilio, 1992, p. 15. Per la documentazione del sospetto manzoniano verso il Petrarca ‘amoroso’ si rinvia ai noti luoghi del Fermo e Lucia, II, 1 e, con coinvolgimento del petrarchismo e in particolare del Costanzo, II, 11. 6 Cfr. al riguardo, ma con estensione in genere alla poesia italiana dell’Ottocento, C. Ossola, Introduzione a Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, Ottocento, Torino, Einaudi, 2002. 7 Cfr. in particolare V. Spinazzola, La poesia romantico-risorgimentale, in Storia della Letteratura Italiana, direttori: E. Cecchi e N. Sapegno, vol. VII, L’Ottocento, Milano, Garzanti, 1969, pp. 961-1067 (in particolare pp. 964-67). Si tratta a tutt’oggi del più organico panorama storiografico della nostra poesia ottocentesca.

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Il da sempre latente antipetrarchismo del Manzoni si realizza in opera a questo punto, in sintonia cronologica e ideologica con il movimento che si sta definendo come Romanticismo, e si presenta anzi, allo sguardo retrospettivo, come il positivo inveramento storico di premesse altrimenti declinate precipuamente in negativo: antipetrarchismo in forma di «congenita impossibilità di applicare a specie storiche sempre diverse lo stesso sistema di segni, a promuovere insomma a ogni costo l’identico rispetto all’altro da sé, l’autocelebrazione del monologo alla professione del dialogo», per «struttura culturale catafratta in organizzazione mentale rivolta all’esterno più che all’interno, disposta più a rispondere che ad assumere e sistemare». E se è vero che «tutto ciò non inerisce alla mente del Manzoni più di quanto non sia portato dai tempi», che cioè l’«antipetrarchismo è un fatto che va di pari passo al rinato culto dantesco di fine secolo», ciò serve non tanto a sottovalutare, perché fenomeno generazionale, la personale radicalità dell’intervento, quanto semmai a spiegare l’unanimità di apprezzamento – manzoniano, come prima montiano e foscoliano – delle canzoni politiche «del ‘romito di Sorga’»8. Finalmente Manzoni è «tra i poeti che modificano la propria prospettiva sull’asse cangiante della storia, piuttosto che tra quelli che perseguono la propria identità per iterazione, e per forza di lima»; è il poeta che spezza «lo spazio chiuso del dialogo d’amore petrarchesco» e nega «il tempo chiuso,

8 Cfr. F. Gavazzeni, Introduzione a A. Manzoni, Poesie prima della conversione, a cura di F. Gavazzeni, Torino, Einaudi, 1992, p. VIII (per l’omaggio manzoniano al Petrarca politico bastino l’adozione dello schema della canzone in Aprile 1814 e più in particolare del metro di RVF LIII in un testo di datazione relativamente alta come Il proclama di Rimini (aprile 1815); e quanto scritto al riguardo nel cap. V dell’Appendice alla Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla). Si ricorda che Monti sperimentò la canzone petrarchesca, ad esempio in Per il Congresso di Udine e in Per il Congresso Cisalpino di Lione (in contrasto appunto con lo scarso apprezzamento del Petrarca erotico come modello attuale; una conferma indiretta di quest’ultimo assunto la si può dedurre dal più autorevole interprete critico del ‘gusto’ del Monti romano, intendo il Francesco Torti del Prospetto del Parnaso Italiano, tutto incline, come il cantore di Basville, al versante dantesco della nostra tradizione e corrispettivamente ostile a Petrarca e al petrarchismo, con l’eccezione delle canzoni politiche). L’esaltazione delle canzoni “patriottiche” del Petrarca fu comunque un topos critico del primo Ottocento (nota è l’autorizzazione dei giovani Foscolo e Leopardi), che ebbe anche punte di esclusivismo, come nel Mazzini che del Canzoniere solo quelle diceva di ammirare (cfr. G. Mazzini, Scritti inediti e rari, Edizione Nazionale, vol. I, Imola, Galeati, p. 16). Una rassegna ancora utile, per la copia di notizie che pur indiscretamente accumula, sul Petrarca nell’Ottocento è quella di C. Naselli, Napoli-Genova-Città di Castello-Firenze, Perrella, 1923.

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

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acronico, dell’introspezione che passi solo per quel dialogo», che rifiuta cioè l’autobiografismo lirico, anche nelle forme alfieriane e foscoliane (come pur chiaramente dice la considerazione comparativa dei sonetti-autoritratto), il primato della lirica e le sue modalità di accesso al sacro, si apre al mondo degli uomini e degli anni, e persegue e d’autorità impone un diverso Altrove rispetto all’«alterità assente-presente del Femminile»9. Si trattò, insomma, di una soluzione di continuità, se si preferisce, di una rivoluzione. Non necessitano, perciò, esemplificazioni collaterali di poeti gravitanti nell’orbita del romanticismo milanese, à côté del grande eversore, per documentare i conti che si vollero definitivamente resi con il modello plurisecolare e a fortiori «cont i Arcad toscan, coj Petrarchista»10. A conferma dell’efficacia esemplare dell’opzione e della sua rispondenza alla cultura dell’ambiente, perché prospiciente sul versante storicista come tale sordo al paradigma del codice, bastino le parole in corso di polemica classico-romantica del teorico più lucido del gruppo manzoniano, Ermes Visconti, il quale dettò la massima fondante, secondo la quale i poeti moderni «devono essere uomini, cittadini e filantropi, non meri dotti, né retori; l’impulso poetico deve nascere dalle sensazioni della vita, e non dalle abitudini della scuola»11; o quelle, appena a posteriori, del più criticamente avvertito ed europeo dei critici militanti lombardi, Giovita Scalvini, che trasse le conseguenze di poetica con la consapevole fermezza che gli era propria: «Non vi è più quella poetica comune, fondata nelle condizioni d’indole e di civiltà di un popolo: quindi la

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Cfr. G. Lonardi, Introduzione, cit., pp. 14-15. Così il v. 8 del terzo dei Dodes sonitt all’abaa don Giavan sora la soa Dissertazion di poesij meneghinn stampada sul segond numer del giornal intitolaa Biblioteca Italiana di Carlo Porta, in C. Porta, Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1975, p. 382. E semmai saranno da addizionare due dati curiosi e significativamente concordi: la parodia del petrarchismo in uno degli esiti altissimi, ovviamente quella manzoniano-viscontiana (1817) del canto XVI della Gerusalemme liberata (per le cui complesse implicazioni cfr. G. Lonardi, Introduzione, cit., p. 30 sgg.), ma anche, giusto a latere e in perfetta sincronia, quella confezionata a Torino (1815-1817) da Vincenzo Gioberti di 3 sonetti del Petrarca, RVF CCLXVII, CCLXXIII e CCLXXXVII, divenuti Oimè ‘l bel muso, oimè ‘l furbetto sguardo, Che mescoli, che pensi e che pur guardi e Gattino mio, benché lasciato solo (furono pubblicati da C. Naselli, Petrarca nell’Ottocento, cit., pp. 323-24). 11 Cfr. E. Visconti, Idee elementari sulla Poesia romantica, in Il Conciliatore. Foglio scientifico-letterario, vol. I – Anno I (3 settembre 1818-31 dicembre 1818), a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1965, p. 362. Per un commento di questo passo cfr. A. Battistini e E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana. Direzione: A. Asor Rosa, vol. III, Le forme del testo, to. I, Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, p. 183. 10

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Sandro Gentili

tanta varietà delle dottrine, la loro discrepanza, i loro clamori, le loro guerre; quindi l’arte ha non so che di sperimentale»12. Un accertamento del decesso della norma in prima istanza petrarchesca cui la stessa opera poetica scalviniana non reca eccezione, come talvolta si è creduto basandosi sul registro alto, sull’incessante e mai terminato scrutinio del suo linguaggio (così diverso dall’approssimazione primoromantica): la destinazione precipuamente narrativa del suo endecasillabo sciolto, la sostenutezza montiano-foscoliana (ideologicamente classico-giacobina) delle scelte sintattiche e lessicali ne fa semmai un epigono malgré lui di quella lezione stilistica d’inizio secolo (ma sul versante dantesco-montiano) ormai politicamente ripudiata e non voluta o saputa sostituire, ma solo nella pratica poetica, con l’esempio del Manzoni europeo13. L’antipetrarchismo “milanese” è un dato sincronicamente unitario e diacronicamente irreversibile; azzarderei: fino a Rebora compreso. Tommaseo. Anche la più notevole esperienza poetica che l’altro importante polo romantico-moderato di primo Ottocento, la Firenze dell’«Antologia»14, abbia favorito e in un primo tempo contribuito a orientare letterariamente e ideologicamente, intendo quella di Niccolò Tommaseo, si alimenta del presupposto

12 Cfr. G. Scalvini, Foscolo Manzoni Leopardi. Scritti editi e inediti, a cura di M. Marcazzan, Torino, Einaudi, 1948, p. 212. 13 Come lo avvertì in confronto a Foscolo e a Leopardi, ivi, p. 206 sgg. È una condizione scissa, quella del critico-teorico e del poeta, che è propria anche del traduttore nel suo impegno più arduo, la versione del Faust, nella quale alla «idealità divulgativa ed educativa» della «‘popolarità’ romantica borghese» vanno congiunte «la coscienza rettorica, la disciplina formalistica di chi si formò nell’ambiente degli Arici, Monti, Niccolini e Foscolo […]» (cfr. G. Innamorati, Giovita Scalvini, scheda introduttiva all’antologia delle traduzioni, in Poeti minori dell’Ottocento, to. II, a cura di L. Baldacci e G. Innamorati, MilanoNapoli, Ricciardi, 1963, pp. 1188-89). Quanto detto, infine, sull’antipetrarchismo militante dello Scalvini non esclude nel grande critico l’altissima considerazione della poesia del Petrarca, attestata in più luoghi dei suoi scritti. 14 Di cui è un dato ovvio la devozione ‘locale’ al Petrarca, documentata sia in ambito critico, ad esempio dagli scritti del transfuga lombardo Giuseppe Montani, sia in ambito inventivo, perfino dal giovane Giuseppe Giusti («Anch’io sbagliai me stesso, e nel bollore / Degli anni feci il bravo e l’ispirato, / E pagando al Petrarca il noviziato / Belai d’amore»; cfr. A Girolamo Tommasi, vv. 61-64, in G. Giusti, Poesie, 2 voll., a cura di N. Sabbatucci, Milano, Feltrinelli, 1962, vol. I, p. 201).

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

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teorico della popolarità e si rende chiara a se stessa sulla base teorica dell’antitesi «herderiana fra poesia di natura e poesia d’arte». Un’antitesi posta o presupposta costantemente e sempre a svantaggio del secondo termine, svalutato con ostentazione (se non sempre con persuasione), si trattasse di Virgilio, di Petrarca o di Leopardi, al paragone dei canti greci, corsi e illirici, al cui livello sono collocati «soltanto i geni supremi dell’umanità: Omero, Dante, Shakespeare […]»15. Natura e popolo costituiscono la dittologia, si direbbe sinonimica, che permette la riattivazione gregaria della tradizione umanistica, su un fondamento ideologico comunque diseroicizzante, di manzoniana e storicistica considerazione dell’opera di elaborazione linguisticoletteraria delle genti meccaniche e di picciolo affare: Voi altri letterati e marchesi – la lettera è indirizzata all’amico Capponi – vi credete che tutta la progenie umana sia raccolta in voi soli; e che fuor di voi non sia vita. Ma per creare un terzetto di Dante o del Petrarca volevasi una lingua domata dal lavoro continuo di tre secoli almeno. Donde poteva egli il Petrarca attingere quell’idioma sì puro, se non dalla profonda e sempre fresca memoria degli anni innocenti, dal consorzio degl’Italiani, dalle letture de’ libri loro e de’ libri latini? Se voi mi direte che l’idioma del Petrarca, agli Italiani più limpido che quello del Tasso, è francese; io vi risponderò che il francese è tutto quanto italiano. E notiamo che la lingua di que’ due non è opera del loro ingegno, è creazione del popolo per molte e molte generazioni continuata. Egli è pregiudizio de’ tempi moderni il volere che i grandi scrittori creino la lingua, e i grandi uomini il secolo. Eglino sono il fiore dell’albero, la cima del monte: ma l’albero e il monte hanno radici16.

Il genio popolare permette, inoltre e ancora in positivo, di variare l’unitonalità, la solenne uniformità della letteratura colta («La letteratura letterata è un gran piano magnificamente coperto d’un bel manto di neve»17) e abilitarla non solo alla resa fedele, che è nel contempo omaggio religioso, dell’infinita varietà creaturale, ma anche e soprattutto alle vicende dell’io, alla sua

15 Cfr. M. Puppo, Introduzione, a N. Tommaseo, Opere, a cura di M. Puppo, Firenze, Sansoni, 1968, vol. I, p. XXXI. 16 Cfr. N. Tommaseo e G. Capponi, Carteggio inedito dal 1833 al 1874, per cura di I. del Lungo e P. Prunas, vol. II, Nantes-Bastia-Montpellier-Venezia (1837-1849), Bologna, Zanichelli, 1914, p. 303 (la lettera è datata [Venezia, 22 novembre 1845]). 17 Cfr. N. Tommaseo, Gita nel Pistoiese, in «Antologia», vol. 48, 1832, p. 271 (cit. in A. Ferraris, Aspetti della tematica romantica negli interventi del Tommaseo sull’“Antologia” fiorentina del Vieusseux, in Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, a cura di V. Branca e G. Petrocchi, Firenze, Olschki, 1977).

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storia nel mondo, alla stessa esplorazione dell’interiorità, che soggiacciono al progetto lirico-autobiografico che si concreterà nella raccolta definitiva (ma già prima e più parzialmente nelle Confessioni) e che reclama un procedimento e una strumentazione tali da consentire l’illuminazione frammentaria ma non disorganica del soggetto (forse è nella totalità biografica di questo progetto che va cercata la superstite devozione al modello-Canzoniere). Nell’ambito di questa poetica pluridiscorsiva l’unico recupero esplicito di Petrarca poteva avvenire sul piano della nobiltà delle forme, della struttura della canzone che possa provvisoriamente accogliere, disciplinare e convogliare la ricchezza della materia moderna (così esplicitamente in qualche luogo delle Memorie poetiche e in qualche lirica intonata a particolare solennità); e sul piano della poesia filosofica imparata ad apprezzare alla scuola padovana del Melan e cui infatti nel Dizionario estetico Petrarca è annesso, ancora insieme a Dante: «[…] la sapienza poetica e la filosofia siano tutt’uno; come lo studio delle astratte dottrine apra il varco ad una eloquenza poetica, e alla poesia filosofica, di cui Dante e Petrarca son figli»18. Ma gli schemi e il culto della forma, che tanto inteneriva De Lollis19, l’esercizio costante della sperimentazione metrica erano poi indirizzati alle cadenze popolareggianti, alla melodia mimetica del pianto e dell’estasi, all’illuminazione improvvisa e folgorante, alla contaminazione di slancio e meditazione, di soggetto e oggetto, di individualità e coralità, di lirica e teologia, che sarà tematizzata nella quinta e conclusiva parte della raccolta definitiva delle Poesie (1872). Una condizione sempre frammentaria e, nell’insoddisfazione della frammentarietà, poematica. Una tale operazione sembra esulare per statuto, appunto quale potenziale enciclopedia di forme e registri, dalla misura della selettività e della stilizzazione petrarchesche e richiede modelli e materiali iconografici e verbali di debordante e compiaciuta eterogeneità: dal canto popolare alla Bibbia, dalla Commedia alle esperienze in fieri del contemporaneo romanticismo francese, dall’inno alla preghiera, dalla didascalica alla narrativa, convogliate a celebrare la propria utopia dell’armonia cosmica, del concerto universale degli esseri diversi e solidali. E per conseguenza, o fosse la boria dell’ingegno, che traeva […] alle sottigliezze, alle ripetizioni leggiadre e ben velate, d’una medesima idea; o fosse l’imitazione, della quale il

18 Cfr. N. Tommaseo, Dizionario estetico, 4ª ed., Firenze, Le Monnier, 1867, col. 712. E cfr. al riguardo M. Pecoraro, La formazione letteraria del Tommaseo a Padova, in Niccolò Tommaseo nel centenario della morte, cit., pp. 307-30. 19 Cfr. C. De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, in Scrittori d’Italia, a cura di G. Contini e V. Santoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1968, p. 423.

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

Petrarca anch’egli, ch’era pure il modello, non seppe francarsi; o fosse la natura de’ metri, la canzone, la ballata, la sestina e il sonetto, restii per cagioni diverse alla svariata e piena e libera espressione della cosa più ardua ad esprimersi, la gradazione del sentimento; o fosse infine la natura stessa di quell’amore, frivolo, e troppo spesso sotto i veli platonici assai carnale,

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il modello petrarchesco di poesia erotica conclude all’estrinseco e al monotono, non consente recuperi se non episodici e strumentali. Niente di individuale e niente di universale in esso, «giacché la verità individuale se fedelmente espressa, non può non essere insieme la verità universale»20. Allora un secondo dato, dal secondo campo di riferimenti: diacronico. Se nel romanticismo dei milanesi (e in parte e per breve ora nella sua appendice toscana) si impone il silenzio, l’aggiramento e il movimento centrifugo rispetto all’unità del sistema – codice e retorica –, nel cui perimetro avevano compiuto le prime prove e di cui avevano sperimentato e ritenuto di decretare l’inadeguatezza comunicativa ed espressiva nel quindicennio 1815-1830; nei poeti che iniziarono a operare dopo il ’30 e in altra collocazione geografico-culturale la parabola si disegna come esattamente opposta: il movimento centripeto consegue all’apertura indiscriminata all’Europa romantica e ne grammaticalizza, previe autorizzazioni nazionali, le presenze in sé troppo eterogenee, difformi e divaricanti. La distinzione sottintesa non è irrilevante perché serve a escludere dal novero dell’inchiesta seguente sulla presenza petrarchesca chi aveva avuto la disinvoltura di trascurare quella rivoluzione tematica e metrico-linguistica e ciecamente procrastinato una propria arcadia romantico-metastasiana (anche lui, diciamo un Rossetti o un Sestini, e ben più a ragione degli antecedenti settecenteschi, desanctisianamente votato a morir cantando21). E impone di render ragione, nella prosecuzione del discorso, di altri modelli formalizzanti che si stanno istituzionalizzando in tradizione o anche solo in moda: si dica almeno il foscoli-

20 Cfr. N. Tommaseo, Della bellezza educatrice. Pensieri, Venezia, Co’ tipi del Gondoliere, 1838, p. 96. 21 Intendo i cosiddetti “melici” romantici, per cui rinvio in particolare alla caratterizzazione di L. Baldacci, Introduzione, cit., p. XVI: «la corrente melica della poesia del secolo XVIII, che sfocia poi nel mare romantico, è documentabile nel Rossetti come nell’esempio più vistoso»; ma comprende anche Sestini (significative le citazioni petrarchesche che precedono i suoi versi: «I versi del Petrarca […] citati dal Sestini vanno considerati come il tema sul quale il poeta, secondo l’abitudine cara agli improvvisatori, eseguirà le sue variazioni […], e per questo si devono considerare come parte integrante del contesto: un Petrarca ridotto a spunto sentimentale secondo un’abitudine arcadica», ivi, p. 179), certo Carrer e certo Prati.

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smo di recupero, che data dal quarto decennio del secolo e si localizza primamente nell’area veneta; e il leopardismo, soprattutto dal quinto all’ottavo e nell’Italia centro-meridionale, entrambi variamente interferenti ma comunque permissivi del possibile ripristino dell’esemplarità del Petrarca; in seguito e in ottica simile, aggiungerò qualcosa del carduccianesimo. Si vuol considerare, in altre parole, quel ritorno a Petrarca, a sua volta mediato dalle grandi esperienze di cui sopra, nella prospettiva di una letteratura, più in generale di una cultura, non più come a tutto il Cinquecento e oltre magistra, ma consapevolmente gregaria e importatrice, e al tempo stesso percorsa da crescente disagio per orgoglio patriottico (poi nazionalistico) e dunque insofferente del riconoscimento di un ruolo passivo, meramente ricettivo. Questo tecnica di volgarizzazione, di appropriazione nazionale, di autorizzazioni autoctone del moderno, avvenendo ora sull’asse della selezione, non esclude, anzi è complementare a una qualche forma di sazietà ingenerata dallo sperimentalismo e plurilinguismo, diciamo dantismo, dell’ultimo cinquantennio, suscettibile di ripensamento e di verifica critica anche per la mutata, in negativo, situazione storica. Da Foscolo a Petrarca. Per quanto concerne la vitalità, che a fine Settecento e inizio Ottocento i Rerum Vulgarium Fragmenta avevano recuperato in aristocratica opposizione al generalmente basso profilo dell’utilizzazione arcadica, e per quanto concerne la persistenza riflessa di quella vitalità nella cosiddetta “seconda generazione romantica” basti aggiungere al già detto la felice sintesi storiografica di Gilberto Lonardi: Da Alfieri a Leopardi, il dialogo con Petrarca si fa avventuroso scavo, nel «lirico», della violenza della lirica, di un primum che contiene la radice drammatica dell’eros, o perfino la sostanza, temerariamente scoperta come «una», di eros e frustrazione, di amore e morte (come in Leopardi). O ancora Petrarca è almeno sullo sfondo di una rinnovata applicabilità della lirica d’amore, come in Foscolo, alla divinizzazione neoclassica del Femminile, all’avventura direttamente vitale quale può esprimersi in un romanzo fatto di epistole (l’Ortis), ma anche in epistole orientate secondo traccia di romanzo (le splendide lettere d’amore foscoliane). […] un petrarchismo rinnovatosi in cerca della propria stessa matrice «arcaica» e tragica (Alfieri), o in cerca di esasperato autobiografismo erotizzato (Foscolo) o di una ellenizzazione al calor bianco del Parini amoroso (ancora il Foscolo, nelle Odi)22.

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Cfr. G. Lonardi, Introduzione, cit., pp. 14-15.

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

Quel che ci attende nell’immediato, relativamente cioè alla predetta generazione, appare molto più modesto del pregresso, ma meno modesto, nella cronologia degli usi di Petrarca e nella storia intertestuale della nostra poesia, di quanto imposto da una qualche inerzia critica degli ultimi decenni del Novecento; e comunque sensibile alle possibilità di recupero offerte da quei modelli, che qui specificamente interessano. A Luigi Carrer va il merito di un articolo, I petrarchisti (183823; con il pendant antologico dei Lirici italiani del secolo XVI, 1836; e il precedente del commento delle Rime, 1826-182724), in cui sono contenute sia la presa d’atto non scandalizzata, in piena stagione romantica, del fenomeno storico dell’imitazione, in particolare del più autorevolmente legiferante, appunto il petrarchismo, sia la deprecazione del sarcasmo storiografico di prammatica all’indirizzo dello stesso, incurante di mostrare «fin dove poteva congiungersi la vera passione con gli artifizi di questa poesia»25; la presa d’atto comporta invece «discrezione» nei giudizi, perché : «A bene scegliere un modello si domandano gusto e sapere, gusto e sapere si domandano a giudicare della bontà dell’imitazione»26. Il risultato più alto del fenomeno plurisecolare della poesia riflessa è individuato nel Casa e in Galeazzo di Tarsia, e proprio a Casa e Galeazzo è messa a fronte la lirica colta del Foscolo, imitatore e, quale sapiente imitatore, originale, di nuovo vigendo la categoria di “uniformità”, la liceità dell’idea di “modello”: «Non potrebbe aversi ciò anche per prova della grande verità della sua [di Foscolo] poesia, che fu quella di pressoché tutti i tempi e di tutti gli autori?»27. E naturalmente il Petrarca, avocato nel rispetto delle predette autorizzazioni storiche, è l’elegiaco e il melico, colto e celebrato nell’assoluto del civilizzante monologo d’amore, come nei Sepolcri: «E quei che tra i boschetti / E i fonti di Valchiusa / Cantò mesti diletti, / Onde tacea la Musa / Che ad Amor tolse il velo / Sotto il Romuleo cielo»28; in un ristretto canone di antico e moderno, in cui con evidenza perfino eccessiva tutto si tiene. Perché infine Carrer adatta alla sua tenue vena la massima sulla liceità della mimesi, sia per il recupero, esplicitamente dichiarato, della forma canzone («Movo, sciogliendo la canzon votiva / In quel

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Cfr. L. Carrer, Scritti critici, a cura di G. Gambarin, Bari, Laterza, 1969, pp. 243-47. Id., Rime di Francesco Petrarca col commento del Tassoni, del Muratori e di altri, 2 voll., Padova, pei tipi della Minerva, 1826-27. 25 Id., I Petrarchisti, cit., p. 246. 26 Ivi, p. 247. 27 Id., Vita di Ugo Foscolo, ivi, p. 570. 28 Id., A Paolo dottor Zannini: MDCCCXXXIV, in Id., Poesie, Firenze, Le Monnier, 1854, p. 180. 24

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grave tenor che tanto piacque / Di Sorga innamorata all’ombre e all’acque»29), sia e precipuamente nella forma sonetto (ben oltre Foscolo e l’attribuitagli discrezione nel temperamento di antico e moderno):

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I verdi colli, e l’odorata riva, / E l’aura dolce che dai colli spira, / L’incurvo salcio che ai venti sospira, / E a’ miei felici dì lieto fioriva, // E quanto preme il piede, e l’occhio mira, / Già di celeste voluttà m’empiva: / Di tanto bene al cor, ch’arde e delira, / Ahi ch’or soltanto la memoria è viva! // E qui, dico, la mia donna s’assise; / E qui, raggiante d’immortal bellezza, / Caramente dai bruni occhi sorrise. // Da indi si fuggì mia giovinezza / Come lampo, e dal mio fianco divise / Fur sempre la speme e l’allegrezza30.

Il nesso Carrer (e magari Revere)-Giovanni Prati fu istituito su base formale, segnatamente per la fattura del sonetto, dall’autorevolezza del Carducci contemporaneista, nel quale, però, l’istituzione della pedestre genealogia denuncia una qualche intenzione riduttiva del vate concorrente: «Anche nella lirica il Prati non fu propriamente iniziatore. […] egli procede […] per il sonetto pure dal Carrer e un po’ anche dal suo coetaneo Revere […]»31; in una promozione dell’oggetto di studio che sarà tanto più persuasa in corrispondenza della svolta classicista dello stesso nelle opere della maturità (quasi un’annessione gregaria al proprio programma restaurativo). Oggi possiamo dettagliare il giudizio sull’asse della durata storica e dire che la funzione-Petrarca ha per Prati il titolo di una raccolta: Memorie e lacrime (1844), situata giusto al discrimine fra il tentativo romantico-realistico milanese, sotto l’insegna manzoniana (e del Grossi e del Torti, a ricomporre la triade esplicitamente invocata dall’autore), e l’ultima stagione, intonata all’agevole, meglio che garrulo32, manierismo realistico-classicheggiante, cioè 29 Id., Nel giorno 25 gennaio MDCCCXL, ivi, p. 195 (in contesto polemico verso l’invasione romantica e la soluzione di continuità prodotta rispetto al canone nazionale dei 4 poeti: Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso). 30 Id., sonetto V, ivi, p. 65 (per cui cfr. RVF CXII e CXIII; e insieme le marcate reminiscenze delle Poesie foscoliane). Va da sé che il recupero ripristina l’attenzione al Settecento melico: «O lungo sconosciuta erma riviera / I miei guai vo narrando ai salci e agli orni, / E chiamo lei che il cor veder dispera. // Così meno in esilio e in pianto i giorni: / Deh! spiri l’aura omai di primavera, / Che a’ nidi suoi la rondinella torni» (sonetto II, ivi, p. 64; ma si notino due sintagmi petrarcheschi: RVF CCCXXXII e CCCLVI) e patetico: «Oh poggi! Oh solitarii boschi! / Dovean le gioie mie fuggir sì presto? / Ah che i felici dì sono i più brevi!» (sonetto VIII, ivi, p. 67). 31 Cfr. G. Carducci, Giovanni Prati, in Prose, Bologna, Zanichelli, 1909, p. 1059. 32 Come appariva all’insofferente De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, cit., p. 403.

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

ironico. Con Memorie e lacrime il moderatismo letterario del Prati seconda maniera progetta, talvolta realizza, l’assunzione di temi lirico-sentimentali romantico-europei nel perimetro della tradizione in prima istanza petrarchesca e foscoliana; la raccolta significa sia la correzione, per reazione letteraria latamente condivisa, della poetica precedente, sia la propedeutica, in attesa della discesa di un altro grado tonale, alla successiva, sia una crescente consapevolezza distintiva dei «generi», che comporta il rifiuto delle ibridazioni romantiche. La spavalda promiscuità linguistica della stagione non per nulla milanese, che era servita a dilatare l’immaginario della nostra lirica alle letterature europee fino ad allora oggetto di prelievi isolati (e si aggiunga in positivo con Baldacci: «Ma quanto alla capacità di suscitare il fantasma romantico, nessun poeta italiano ha conosciuto l’oltranza del Prati»33), prevedeva ritmemi popolareggianti, esperimenti di realismo borghese, lusso di colorismo, detriti di lessico colto, quasi di un Berchet al quadrato; basti, da Galoppo notturno: Sta la morte sulla groppa, / E il caval più non galoppa!… // E frattanto sulle pallide / Scarne guancie alla morente, / Che sussurra un dolce nome, / L’agil tinta ricompar; / E, levata in sulla coltrice / La persona amabilmente, / Le bellissime sue chiome / Ricomincia a inanellar34.

La correzione di rotta è radicale appunto in Memorie e lacrime, dove la fusione della tematica romantica, ma sul versante intimista, nel decoroso stampo della tradizione serve ad acclimatare, con inevitabile temperamento d’audacia, l’una nell’altra; ed elegge una forma unica: il sonetto, con funzione, diremmo, difensiva, stabilizzante (anche rispetto all’altra recente crisi metrica, prodotta dai Canti leopardiani35). Del quale sonetto, nella pagina

33 Cfr. L. Baldacci, Prati, Carducci e la poesia dell’Ottocento, in Giovanni Prati a cento anni dalla morte. Atti del Convegno, Trento 11-12 maggio 1984, a cura di A. Resta, Trento, 1984, p. 33. 34 Cfr. G. Prati, Nuovi Canti in Opere edite ed inedite del cav. Giovanni Prati, 5 voll., Milano, Casa Editrice Italiana di M. Guidoni, 1862-75, vol. II, 1863, p. 81. 35 Cfr., in prospettiva solo parzialmente diversa, G. Lonardi, Leopardismo. Saggio sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Firenze, Sansoni, 1974, p. 62: «A uno sguardo panoramico risulta intanto che un promontorio metrico generalmente refrattario si riconosce, al solito, nel secondo Ottocento: […] da Prati a Graf è in atto una correzione, una riforma metrica proprio di Leopardi, sintomatica quando si sorprenda in atto per temi suoi versati in tutt’altro recipiente metrico: il che si spiega anche probabilmente, per un Prati, come reazione a concorrenti spinte centrifughe, tra le quali poteva anche annoverarsi l’‘improvviso’ romano […] ».

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introduttiva, è delineata perfino una storia a uso personale, anche per la bipartizione della tematica a esso pertinente in erotica e civile-esistenziale36: Dante e Petrarca, anime divinamente amorose, dettarono sonetti pieni di così profonda e gentile tristezza da sforzar gli occhi alle lacrime. Dopo di loro questo componimento si mantenne, è vero, nobile ed illustre sotto la penna di altri scrittori, ma quella prima indole di semplicità e d’affetto non ebbe più. Solo negli ultimi tempi Foscolo e Carrer, lamentando i travagli della vita raminga e sconsolata, ricordarono un tratto quegli antichi maestri. Talché veramente questa forma di poesia sembra più opportuna che ogni altra a significare quella serie di malinconiche sensazioni ricevute o per memoria, o per presenza d’oggetti, le quali non a lungo durando nell’anima nostra, né uguali sempre, né sempre intense, hanno bisogno di ben poche parole e di radi sospiri per essere comunicate. Si direbbe che il mistero dell’anima che piange è schivo di rivelarsi intero agli uomini. E in questo pudico timore, che parla quasi accennando, c’è qualche sorta di delicata e vera grandezza37.

Anche in questo caso è sufficiente all’esemplificazione un rinvio circoscritto, e assato sul Petrarca, cioè il dittico mortuario La culla a ribaciar torna e sospira e Amo quell’altra ove si dorme in pace: il sonetto vi è ricollo-

36 Impostata ovviamente sul binomio Petrarca-Foscolo. Il nesso Petrarca-Foscolo appare anche visivamente all’interno della raccolta, perché a un sonetto dedicato al Petrarca, (che riporto: «Di vivo sol vestita e sfavillante / Una vid’io, come quaggiù non s’usa / Vederne molte; ed ogni stil ricusa / Di colorar le sue bellezze sante. // Oh! Per dritto laudarla, un solo istante / Fa che in me spiri la gentil tua musa, / Che tanto impietosì Sorga e Valchiusa, / O gran poeta ed infelice amante! // Ma stimar che tu m’oda è vana fede, / Anzi so che il mio prego a te non varca, / Colpa di lei che amasti nel bel velo. // Perché gelosamente ella s’avvede / Che se il canto avess’io del suo Petrarca, / Un’altra Laura ascenderebbe in cielo»; cfr. Opere edite ed inedite del cav. Giovanni Prati, cit., vol. I, 1862, p. 321; per cui RVF CCCLXVI, CLVII e XXVIII) ne seguono due dedicati al Foscolo (ivi, p. 320). Segnalo anche che nella raccolta Passeggiate solitarie il sonetto Ai colli Euganei (ivi, vol. II, cit., p. 196) accomuna i due poeti: «Due romite e pensose ombre talvolta / Su questi colli ragionando vanno, / Come suolsi in fra due ch’abbian disciolta / Volentier l’alma dal terrestre panno. // Un cantò della sua bella sepolta, / Che ancor ne resta la dolcezza e il danno. / L’altro è quel Greco che vagò per molta / Terra, imprecando al secolo tiranno. // Scambian quell’ombre alteramente orrende / Colloquii malinconici e gagliardi, / Una di sdegni, e l’altra d’amor vaga. // Finalmente ambedue partonsi, meste / Sovra l’uso mortale. Ahi di che dardi / Questo mutato secolo le piaga» (per cui RVF CXVIII). La netta partizione tematica fra Petrarca amoroso e Foscolo politico può infine considerarsi implicita denuncia del declino del paradigma primoottocentesco del Petrarca patriottico della canzoni. 37 Ivi, vol. I, cit., p. 289 (l’introduzione è datata: «Torino 1844»).

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cato nelle scansioni metrico-sintattiche canoniche (il partito antimelodico foscoliano è trasceso), il materiale lessicale aspira all’uniformità tonale su tendenza colta e la citazione è suggello eclatante dell’iniziativa di recupero, come al centro delle terzine del secondo: «Io quando sento come si consuma / in me il vigor della nascosta vita, / visibil cosa alle persone accorte, // d’una subita luce si alluma / l’anima vagabonda; e un’infinita / gioia mi prende in vagheggiar la morte»38; o ancora nel vero e proprio mosaico petrarchesco del sonetto VII della sezione Solitudine e raccoglimento dello spirito (Quel che dì che dentro agli occhi moribondi / Mi nuoterà la fuggitiva luce, / Della barchetta mia chi sarà duce / Sul mar che mena negli eterni mondi? // Rimembro io ben d’un cherubino il truce / Bando, e la pena delle offese frondi; / E so che a quei perduti orti giocondi / Nessun merito mio mi riconduce. // Pure ho speme, buon Dio, che tu sia mite / Ad un che amò, che delirò cercando / Suo bene in terra, e non trovò che duolo! // Ahimé! Signor, da tenebre infinite / I’ mi sento cerchiar, sino da quando / Il buon angelo mio mi lasciò solo!39),

la cui filigrana petrarchesca è stata puntualmente individuata da Finotti40, ma in cui è ancora da notare, congruentemente con il precedente esempio, la citazione topica di v. 3, «barchetta mia»: un invito al lettore a sapersi muovere con consapevolezza letteraria nelle situazioni istituzionali seriate prima e dopo l’occorrenza puntuale, un invito alla coscienza di “genere”. Nell’ultimo Prati, diciamo di Psiche, la scelta del nitore e della perspicuità classicistica, il piacere della nominazione familiare e dotta e peregrina al tempo stesso, che vuole significare possesso del quotidiano e consapevolezza del mistero, ma senza aperture di credito al simbolismo, senza l’instaurazione della dialettica di determinato e indeterminato, si avvale della tradizione, nella fattispecie del Petrarca, come di un contrappunto ironico, di un affettuoso allontanamento, di un segnale della degnazione e del trascendimento, da parte del poeta colto, della materia vile e amabile rassegnatamente assunta nel canto. Come nell’esemplare Piccole vite, avviata e proseguita su note di domestica esclamazione, di timbrica registrazione e annessione del reale («Come felice col suo mondo arcano / Lo sgricciolo pispiglia entro la siepe! / Come gioconda, al sol meridïano, / Su gli aspri tufi la lucerta repe!») e conclusa con una virata, un’altra patente citazione petrarchesca, colpo d’ala

38

Ivi, p. 293. Ivi, p. 294. 40 In Antologia della poesia italiana. Ottocento, cit., p. 340 (con rimandi a RVF CCLXIV, XXVIII, CCCLVI, CCCLXV, CCXIV, CCCXLIX). 39

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abilmente convogliato a dichiarare nientemeno che il proprio pathos cosmico: «con le stelle lontane ir lacrimando»41. Petrarchismo come suggello dotto, blasone di nobiltà imposto alla cronaca versificata della propria identità borghese; autopromozione sulla goduta e mestamente subita quotidianità, deposte per inattualità storica le giovanili ambizioni tirtaiche e le frustrate velleità filosofiche della maturità: una poetica delle piccole cose, redente dal cesello parnassiano, levigate, smaltate e benedette dalla tradizione. E anche poetica della monotonia, data l’unitarietà tematico-tonale del canzoniere della senile disillusione storica, ma una monotonia «che può essere, intendiamoci, anche il pregio connotante di quell’unità, come fu nel Petrarca»42. Quasi un inciso; per la funzione mediatrice delle innovazioni tematicoformali della lirica europea svolta tuttavia dal Petrarca e di cui con Prati si è illustrata una modalità in ambito inventivo, si potrà trovare un supporto documentario nelle traduzioni di pieno Ottocento, e pour cause nel traduttore più fortunato dell’epoca, Andrea Maffei43, petrarcheggiante in proprio su

41 Cfr. G. Prati, Psiche. Sonetti, Padova, Sacchetto, 1876, p. 479 (per cui cfr. RVF XXII). Il procedimento è più volte replicato; cfr. almeno la terzina finale di Libri: « E da voi prenderò lume e costanza, / Come dagli astri il peregrin del mare, / A fornir della via quel che m’avanza» (ivi, p. 13; RVF CV, CLXVIII, CCCLXV) e soprattutto la terzina finale del proemiale (una micropoetica) Psiche: «Or vien meco a veder qui sotto al sole / Lo andar del tutto: e ti ricorda sempre / Che il mondo alla speranza è poca riva» (ivi, p. 1; con ovvia allusione a RVF I). Risiede in questa antitesi tematico-tonale, che esclude a priori la possibilità della sintesi, il nucleo di ispirazione autentico della raccolta; quando infatti l’assunzione del modello è esplicita e integrale (come nella collana di 10 sonetti intitolata a Laura, ivi, pp. 190-99) il poeta scivola nell’omaggio convenzionale, nella deteriore arcadia. 42 Cfr. L. Baldacci, Prati, Carducci e la poesia dell’Ottocento, cit., p. 30. A conferma di quanto detto in questo paragrafo su Psiche, un documento di rilievo è rappresentato dall’ indirizzo al Lettore benevolo premesso alla raccolta, ulteriore spia dell’autoconsapevolezza formale e tematica dell’autore, anch’esso peraltro declinato su registro familiare: «In queste parecchie centurie di brevi componimenti, nati secondo il giro dei tempi e delle cose, c’è, press’a poco, la storia della mia anima e del mio pensiero. Tedii, ricordi, sospiri, sdegni, dubitazioni, conforti: ecco le fila d’un tessuto, al quale mancherebbe troppo se mancasse qualche grazia di stile. Perciò col nome di Psiche intitolo questo libro; e te lo raccomando come si raccomanda un amico, il quale in una carta di visita ti porta l’imagine di me stesso. Possa ella parerti non soverchiamente squallida né intristita: ché s’ella ti dovesse proprio parer così, credi in cortesia che la colpa non è di me solo» (pp. [III-IV]). 43 Una volta appunto compostosi e moderatosi il «proposito di ampliamento culturale, in senso antinazionalistico e anticlassico, iniziato dal romanticismo nella sua fase più programmatica e attiva» (cfr. L. Baldacci, Introduzione a Poeti minori dell’Ottocento, to. II, cit., p. XXIV). Sul Maffei oggi si dispone del bel volume L’Ottocento di Andrea Maffei, Museo Civico, Comune di Riva del Garda, 21 giugno-30 agosto 1987. Mostra a cura di M. Botteri- B. Cinelli- F. Mazzocca, Trento, 1987. Quanto al Maffei poeta (cfr. Liriche, quarta

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autorizzazione lui pure foscoliana, e perciò istitutore di un canone elegiaco in cui al poeta del Canzoniere è riservato il posto d’onore: «All’ombra delle selve, o in riva all’onde / dell’umile Valchiusa allor ti aggiri: / e con sì novo e mesto / suon di dolci sospiri / fai risentir le sponde / d’un fiumicel modesto, / che mai né il Tebro né l’Ilisso udìa / d’altra lira maggior pari armonia»44. Basti considerarne la versione del Lac di Alphonse Lamartine e la sua costrizione entro lo schema della canzone petrarchesca45: strofe di 10 versi (5 endecasillabi, 5 settenari), fronte di 6, sirma di 4 (2 piedi a rima alternata), con tendenza inevitabilmente diminutiva rispetto all’archetipo medievale, anche se, in questo caso, non tramite il cammeo parnassiano, quanto piuttosto tramite la melica della canzonetta settecentesca. Ma la contaminazione con il modello primo è anche lessicale e iconica e la memoria di RVF XXX, C, CXXIX e CXCV esibita; basti la prima strofa: «Così di riva in riva, / senza speme di posa o di ritorno, / in oscura agitati onda infinita, / arrestar non potremo un breve giorno / sul mar di nostra vita / la nave fuggitiva? / O lago! April rinasce, ed ecco il passo / già movo a questo lido, / già sull’amato sasso, / ov’ella il fianco riposò, m’assido» (per cui cfr. l’originale in quartine: «Ainsi, toujours poussés vers de nouveaux rivages, / Dans la nuit éternelle emportés sans retour, / Ne pourrons-nous jamais sur l’océan des âges / Jeter l’ancre un seul jour ? // Ô lac ! l’année à peine a fini sa carrière, / Et près des flots chéris qu’elle devait revoir, / Regarde ! je viens seul m’asseoir sur cette pierre / Où tu la vis s’asseoir !»46; e si potrebbe parlare di ripristino dell’etimo lirico, definire l’operazione nei termini di una traduzione petrarchista del liberamente petrarcheggiante Lamartine). Passiamo ad Aleardi, dunque in un contesto storico-geografico vicino a quello del Maffei e segnatamente del Prati (riguardo a quest’ultimo, fin troppo vicino per deprecabile abitudine di scuola, da Carducci in poi); e consideriamo, meglio del celebrativo e tardo (1874) Discorso su Francesco Pe-

edizione accresciuta, Firenze, Le Monnier, 1878) non ho nulla da aggiungere al giudizio di Spinazzola, La poesia romantico-risorgimantale, cit., p. 1001 : «A comporre versi propri si dedicò tardi, dopo il ’50: e furono soprattutto sonetti, bei sonetti classicamente educati sui migliori modelli, anzitutto quello petrarchesco». 44 Cfr. A. Maffei, Alla malinconia, in Liriche, cit., vv. 117-124. 45 Costrizione che non sfuggì a C. De Lollis, Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento, cit., p. 484. 46 Cfr. Lamartine, Œuvres poétiques, Texte établi, annoté et présenté par M.-F. Guyard, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), p. 38. E meriterebbe semmai una riflessione a parte l’incontro con il petrarchismo del testo tradotto, cioè con la sopravvivenza del modello petrarchesco nella lirica francese romantica.

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trarca47, le quartine (si badi: non già il sonetto) intitolate Sull’albo della contessa Laura R., che molto più appropriatamente servono a illustrarne il giudizio sul Canzoniere e sulla sua (in-)attualità: Laura, al tuo nome eresse un monumento / Il più gentil degl’Itali cantori; / Ma per la via di que’ sottili amori / Smarrîr talor le grazie il sentimento. // Egli era nato in una primavera / Di civiltà: cuori e canzoni allora / Eran freschi, erano lieti: in quell’aurora / Non presentiano il mesto della sera. // L’età pensosa, che successe, impose / Un nuovo accento di tristezza al canto, / Perché avesse a ritrar non so qual pianto, / Che dall’anima stilla e dalle cose. // Se il trovator della crudel francese / Dalle tombe d’Arquà risuscitasse / E la cetra a novelli inni temprasse / Per dir tue lodi, vergine cortese, // Pago or non fora a minïar concetti / Sugli occhi e il crin: ma scenderia profondo / Dentro al tuo cor, per rivelar quel mondo, / Ch’ivi tu serbi di potenti affetti48.

Petrarca miniatore meglio che pittore, concettoso meglio che pensoso, sottile meglio che profondo (quasi una parafrasi della polemica staëliana all’origine del dibattito classico-romantico e una posizione vicina al Tommaseo antipetrarchesco della Bellezza educatrice), inconscio delle lacrime delle cose e del mistero esclusivamente moderno della voluttà del dolore e delle armoniche dell’affetto femminile, configura un antimodello: e infatti, senza indulgere ancora sulle esigenze della flebile ed egotistica musa aleardiana, si consideri come le scelte metriche e ritmiche dei Canti si indirizzino giusto nella direzione del corrispettivo del non so che ignoto al poeta gentile della primavera della civiltà (e perciò, e semmai, autore da recuperare e inverare in chiave «sentimentale», come per certi aspetti aveva saputo fare Leopardi49). L’ostilità alla misura chiusa, segnatamente il rifiuto del recinto del sonetto, la contrazione e dilatazione del prediletto e quasi unicamente praticato endecasillabo, la contaminazione dei versi sono le spie più visibili dell’antipetrarchismo aleardiano e del suo partito persuasamente romantico: «l’endecasillabo aleardiano traduce la vibrazione affettivo-intellettuale in una vibrazione metrica e tende ad eludere ogni meccanica ripetizione di schemi

47 Cfr. A. Aleardi, Discorso su Francesco Petrarca letto a Padova il 19 luglio 1874, Padova, Sacchetto, 1874. 48 Id., Canti, quinta edizione, Firenze, Società Editrice, 1880, pp. 378-79. 49 Cfr. A. Battistini-E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, cit., p. 209: «Al modo in cui, nella finzione goethiana, Schiller trova che Werther legge Omero in chiave ‘sentimentale’, così nella realtà Leopardi legge Petrarca, Tasso e Virgilio». È lo stesso titolo di Canti apposto da Aleardi alla raccolta delle proprie poesie a indirizzare in questa direzione.

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ritmici, per dar luogo a una percezione vaga e indefinita nella sua sinuosa mutevolezza», facendo incontrare quinario e settenario a fine verso e a inizio del successivo, o viceversa; reintroducendo il parisillabo con l’accostamento, nelle stesse sedi estreme, di due quinari50; indulgendo, preferibilmente in sede esposta e con rilievo di pausa forte, al polisillabo gustato autonomamente nella sua sostanza fonica, nella sua forza eversiva della scansione canonica (fino al verso di due parole, come l’ultimo delle Lettere a Maria. L’invito: «Malinconicamente esuleremo»; ma la lirica è tutta contesta da tale scelta elativa: eternamente, / fastidita / Solitudine; Soavemente,; Purissimo; tanta / Serenitade; forti / Proponimenti; Esuberanze; Discernimento; D’Italïana; rispettosa / Lontananza; Antiveggendo; imprevidente.; romitamente; infinita / Lontananza; alternamente)51. La risoluzione, qui se non altro tecnicamente presimbolista, di dar voce all’indefinito esclude a priori, nell’ottica aleardiana, il modello petrarchesco; con il che si vuol dire che quel certo tipo di “linea veneta”, avviato sotto bandiera petrarchesco-foscoliana, si esaurisce con lui, che ha anche il coraggio di dichiararla conclusa, nel suo rifiuto di strutture stabilizzanti, di garanzie formali autoctone. E non lascia spazio a recuperi arcaizzanti né nel prosaico autoparodico del Betteloni, né nel parnasse scientifico dello Zanella. In questo caso l’uso-Petrarca ha anche funzione distintiva, serve a scindere una liaison (Prati-Aleardi) troppo pacificamente passata in giudicato. E non meno lo si potrebbe deputare a qualche utile revisione di sentenza storiografica: mi chiedo, ad esempio, se la forma senza forma di Aleardi (mutuo la definizione dal Carducci leopardista) non sia ben più di un passo avanti rispetto a certe opzioni metrico-ritmiche «scapigliate», dove non è infrequente, per dirla ancora con Battistini-Raimondi, che la «retorica dell’anarchia possa realizzarsi con una poetica di conciliazione»52. Mariani alcuni anni fa, più di recente Finotti53 hanno avuto buon gioco a sottolineare la coesistenza inerte, da una parte di crudo realismo, dall’altra di lessico aulicizzante e arcaismo metrico prelevati dal canone lirico più tradizionale, nell’opera di Emilio Praga, ad esempio nei sonetti di gusto prezioso di Penombre (Ottobre, per citare un caso); oppure in Tavolozza, per tutti XLVIII, Ma ritornato dalla

50 Cfr. F. Finotti, Antologia della poesia italiana. Ottocento, cit., p. 324 (con relativa esemplificazione). 51 Cfr. A. Aleardi, Canti, cit., pp. 103-11. 52 Cfr. A. Battistini-E. Raimondi, Retoriche e poetiche dominanti, cit., p. 232. 53 Cfr. G. Mariani, Storia della Scapigliatura, Caltanisetta-Roma, Sciascia, 1971, p. 223 sgg.; F. Finotti, Antologia della poesia italiana. Ottocento, cit., p. 369.

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lunga gita54, con le partizioni strofiche riassoggetate al periodo sintattico, il materiale linguistico patinato d’arcaico, le coppie sostantivo-aggettivo ostentatamente generiche (casa paterna, stanza romita, viaggio lontano; e qualcosa di simile potrebbe valere per il preraffaellismo di certo Camerana dell’Antologia ideale, incline alla ricomposizione e alla compensazione del dualismo scapigliato entro la struttura rassicurante della forma per eccellenza petrarchesca55).

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Da Leopardi a Petrarca. Qualcosa adesso sul leopardismo come vettore di presenze petrarchesche, stante una lettura di Leopardi assata sulla linea Petrarca-Metastasio, o, se si preferisce inversamente, a ritroso: idillio-arcadia-Petrarca; con Leopardi posto a garanzia dell’attuabilità di una modernità nazionale. L’esercizio di recupero riflesso è infatti adempiuto in misura minima da Alessandro Poerio, la cui poetica, intendo i Pensieri di varia letteratura (1827), è impostata non per nulla sulla decisa sottoposizione di Petrarca a Dante: Dante perché più indagatore e concentrato, abbraccia l’universalità del Creato; Petrarca, perché più curioso e vagante con l’ingegno, tocca svariatamente (abbraccia squisitamente) gli oggetti. In Dante era una individualità meravigliosa, che nulla in sé ne traeva, e sosteneva, tutto da quella distinto, tutto in quella vivente. Quindi nella Lirica del suo

54 Cfr. E. Praga, Opere, a cura di G. Catalano, Napoli, Rossi, 1969, rispettivamente alle pp. 329 (che cito: «Un lenzuolo di nebbia avvolge il cielo, / e la pioggia minuta e lenta cade; / le colline lontane han messo il velo, / e di fango si coprono le strade. // Piangono come vedove le biade, / e l’elegia, battendo stelo a stelo, / addormenta le selve e i nidi invade, / i nidi pieni di piume e di gelo. // Che narrano le gocce ai bruchi erranti? / Alle bucce che dice il vento fioco? / Oh nelle tombe scheletri grondanti, // oh beltà, robustezze, a poco a poco / scioglientesi coll’acqua, e vegetanti!… / E la gente sonnecchia intorno al foco»; per cui cfr. RVF CCLX e CCLXXIX) e 173. 55 Cfr. G. Camerana, Poesie, a cura di G. Finzi, Torino, Einaudi, 1968, pp. 3-62. I proclami di Arrigo Boito, e non solo il più noto («e non trovando il Bello / ci abbranchiamo all’Orrendo»), se letti precipuamente in ottica formale possono perciò interpretarsi come la rivendicazione di una ben altra coscienza personale del moderno e della necessità di una radicale innovazione del linguaggio, di ben altro attentato al decoro plurisecolare, in vista della realizzazione di una poesia appunto «Franca dai rudi vincoli / Del metro e della forma» (cfr. A. Boito, Dualismo, in Tutti gli scritti, a cura di P. Nardi, Milano, Mondadori, 1942, pp. 5-8).

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animo innestata l’epica delle notizie, o storia, la drammatica degli affetti e sentimenti. Petrarca aveva una individualità forte in se stesso, ma forte in riceverne altre e sostenerle, una individualità, che piuttosto tingea le cose esterne, che non se le appropriava convertendole in succo della sua natura. Così la mente di Petrarca è un trasparentissimo velo, attraverso cui veggiamo gli obbietti; quella di Dante un fulgidissimo specchio, in che quelli si riproducono. Finzione incorporata nella Verità, è Verità poetica. Chi più oltre di Dante l’aggiunse?56.

Il più significativo episodio del leopardismo anteriore alla metà del secolo (e meridionale) ha dunque luogo in divisa dantesca, come conferma a posteriori il Tommaseo autobiografo, quando ricorda che a mantenergli la «fiamma del Bello, giovarono i colloqui di Alessandro Poerio, solo col quale io potessi in Parigi ragionare d’alta poesia, di quella ch’egli con potente vocabolo chiamava ‘intensa’. Ma anch’egli tirava allora, come tutti tiriamo, alla poesia di concetto […]»57. E se è innegabile, con Folena, che «Poerio vagheggiò sempre, e raggiunse a tratti» la poesia «nutrita di pensiero e di moralità, civile ma insieme concentrata e vergine, pura di scorie oratorie»; è altrettanto vero che «condannava, sapendo di non esserne immune, l’effusione autobiografica e il soggettivismo dei contemporanei […]»58. Questa tensione verso una poesia «fortemente concettosa, religiosa, metafisica»59 lo inclina, appunto attraverso Dante, al Leopardi delle canzoni più ardue e argomentative e degli ultimi canti metaforici e cosmici; e riserva al Leopardi elegiaco-petrarchesco (tale nel giudizio d’allora) qualche zona minore e, direi, passiva, appunto di irrisolto autobiografismo; come – la metrica è prova dirimente – il sonetto L: Io men vo lento per selva romita / Ne’ passi ne’ pensier vagante e solo, / E mentre stampo di vestigie il suolo / Misuro e calco la trascorsa vita. // Penso quanta stagion m’è già sfiorita, / Penso degli anni e delle cose al volo, / Pien di memorie e di rimorso un duolo / M’assale e sgrida l’anima smarrita. // Non suoni o

56 Cfr. A. Poerio, Poesie, a cura di N. Coppola, Bari, Laterza, 1970, p. 708. Anche l’ode dedicata A Petrarca, ivi, pp. 24-27 ribadisce la preminenza dantesca (vv. 11-14: «Ti sovrasta un’altezza / Sola, colui che al fondo d’immortali / Secreti andò sicuro / Col raggio della mente»), pur nel contesto di un alto elogio del Petrarca volgare, erotico e politico. 57 Cfr. N. Tommaseo, Memorie poetiche in Opere, cit., to. II, p. 318. 58 Nella scheda annessa a A. Poerio, Poesie, cit. 59 Ibid.

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canti o balli od altra festa / Svia li pensieri con piacente inganno, / Qui è silenzio, che l’alma in sé profonda, // In quest’ombra a me il Ver si manifesta / Sento le colpe e riconosco il danno, / Ed un terror m’invade e me circonda60;

dove lessemi, ritmemi e stilemi petrarcheschi (RVF CCCV e CCVII) sono convogliati a preparare e accogliere temi leopardiani, cioè propri. Diversi e meno problematici i recuperi petrarcheschi del cosiddetto leopardismo di metà secolo e più specificamente dei poeti della «scuola romana», leopardiani di ben più supina osservanza. Si tratta, in qualche caso, di un’aggiunta in proprio alla poesia letterata di Leopardi, quasi un eccesso di zelo, come nell’isolato emiliano Agostino Cagnoli delle egregie Scene villesche, che mira perfino a trascendere l’esempio idillico in una oltranza di icasticità della lingua, sollecitata alla resa timbrica del reale e per ciò appoggiata a recuperi colti, estratti e intarsiati per la loro fermezza di rappresentazione e per tale partito frammentario ovviamente decontestualizzati: come l’incipit del sonetto: «Sempre che la solinga orma per questi / campi deserti io volga […]» (per cui RVF XXXV); o, appunto nelle Villesche, la seconda quartina di Il mattino: «Una riga di fumo all’aere galla / Su dal colmigno; ché solerte veccia / Desta il carbon, mentre alla spalla / Si tien un fanciullin che ancor sonnecchia» (per cui RVF XXXIII); o la prima quartina di Il mezzogiorno: «S’infuoca l’ora meriggiana; ed ecco / Di mezzo al ciel più grande il sole irraggia. / Ogni campo si fa squallido e secco, / E par che al suol fiamma dall’aere caggia» 61 (per cui RVF CXXXVI). O come nei fratelli Maccari, Giambattista, che (quando non arcaizza stilnovisticamente) varia con tessere petrarchesche (e dantesche e virgiliane) l’uniformità del discorso leopardiano e paiono destinate, quelle tessere, tanto sono ovvie, a una discretissima nobilitazione del dato, a una dimostrazione di equivalenza di popolare e letterario (come in Emilia, per cui RVF L; e RVF XXXIII specificamente per la strofa di seguito: «E poi che il pigro sonno le pupille / tacito preme, in molle e caldo letto / dolce è il fianco posar fra le tranquille / coltri, e dormire senz’alcun sospetto, / e alla nov’alba non udir le squille / su per le torri, e dentro al proprio tetto / la presta fante che il carbon ridesta, / e il novo cibo al suo signore appresta»62); e Giuseppe, nel quale la devozione leopardiana inclina a essere diluita e absorta nel dominante melismo, e la nettezza iconica della citazione è usata come correttivo dell’eccessiva facilità di quel melismo. Ma per «la scuola» si potrà ripetere, del sentore di Petrarca e di Arcadia che 60

Cfr. A. Poerio, Poesie, cit., p. 232. Cfr. A. Cagnoli, Poesie, vol. I, Reggio, Calderoni e Comp., 1844, pp. 89, 136, 137. 62 In Poeti minori dell’Ottocento, to. I, cit., p. 381. 61

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arcaizza e dilata il monolinguismo idillico-leopardiano, quanto detto da Baldacci per il solo Giuseppe:

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Quando poi si parla di una sua sensibilità costantemente esercitata sui classici, per sostenere che la sua sarebbe insomma una poesia della letteratura, bisogna dire che lo stesso idillio leopardiano, quando sia riprodotto con un senso tutto grafico, squisito e gracile, e con l’attenzione tutta rivolta al rilievo tipico e bozzettistico, in un clima di ecloga, converge naturalmente a soluzioni che potranno parere sei e settecentesche; o, per meglio dire, il Sei-Settecento, vinto e assimilato negli Idilli del Leopardi, torna a riemergere qui privo delle sue ragioni mitiche, in tutta una sua incontrollata evidenza letteraria63.

E viceversa rilevare come la preesistente koinè petrarchesca della tradizionale educazione letteraria arcadico-romana sia adattata, giusto un grado più in basso e fino all’inserto bozzettistico (il citato luogo di Giambattista), al nuovo linguaggio idillico, isolato tramite resezione e declassato per il ricorso a un moderato realismo e a stilemi di marchio domestico (basti l’abuso dei diminutivi), quasi che, secondo che di Leopardi felicemente scrisse De Lollis, l’arcaismo fungesse da spediente di naturalezza64. Si tratta (fatta eccezione per Poerio) di una lettura petrarchesca di Leopardi destinata a procurare una scissione e ricezione parziale sul piano dell’ideologia e a registrare una diminuzione del tasso di novità sul piano delle forme, misurando l’una e le altre sul metro della tradizione, della continuità nazionale: una lettura ancora attiva in Carducci e attiva nella linea che da lui con varietà di esiti si innerva nel Novecento, fino a De Lollis compreso65; ma che ha una clamorosa cesura già alla fine del secolo con Graf poeta e con Thovez poeta e polemista; a non dire dell’accostamento, che vale una smentita di quella lettura ottocentesca, nel Michelstaedter della Prefazione a La persuasione e la rettorica, che accoppia sì i due poeti, ma non più certo per il tasso di selettività linguistica, addirittura per la tragicità della concezione del mondo (ed è il Petrarca dei Trionfi): «[…] e agli Italiani lo

63

Ivi, p. 397. Cfr. C. De Lollis, Petrarchismo leopardiano, in Scrittori d’Italia, cit., p. 201. 65 Il De Lollis, appunto di Petrarchismo leopardiano, cit., pp. 193-219; di cui, in particolare, p. 219: «Tale è il caso del Leopardi, il quale ebbe comune col Petrarca non solo il fondo della natura poetica, che fu elegiaco nell’uno e nell’altro, ma anche un senso mirabile della dignità sempre vigilante sugl’impeti del sentimento, che mai, a lor volta, desistono dall’incalzare. La conciliazione, singolarissima, di quei due opposti elementi non poteva non cagionare conformità negli ultimi effetti […]». 64

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proclamò Petrarca trionfalmente, lo ripeté con dolore Leopardi – ma gli uomini furono loro grati dei bei versi, e se ne fecero generi letterari»66. Una prospettiva, dunque, quella che abbiamo non più che compendiato, a pieno titolo ottocentesca, perché nel Novecento, nei «due modi più frequenti» di approccio a Leopardi, «cioè quello classicista e quello simbolista», la lettura in ottica petrarchesca vale per il bisogno di ordine e di assolutezza, opposto ancora una volta dialetticamente al dantismo di fine Ottocento e di inizio Novecento, ma in cui la funzione-Leopardi è ormai prioritaria nell’«impersonare la soluzione monolinguista correlata per così dire a una poetica dell’ascesi tematica», mostrandosi di «ben altra convertibilità» della funzione-Petrarca. E l’eccezione in questo caso sarà rappresentata dal secondo Ungaretti, quando, individuato in Petrarca l’archetipo comune di Leopardi e Mallarmé, si sentirà perciò autorizzato a essere neoclassico senza rinnegare l’esperienza dell’avanguardia europea67. Da Carducci a Petrarca. Sono ricorsi più volte, nelle pagine precedenti, il nome e i giudizi di Carducci, e dal Carducci saggista voglio iniziare la trattazione di quest’ultimo capitolo; non censendo, cioè, né misurando l’incidenza linguistica e formale del Canzoniere sulla sua poesia (è già stato fatto segnatamente in sede di commento ed è noto quanto essa sia profonda fino da, e soprattutto in, Iuvenilia e Levia Gravia), ma facendo tesoro di due immagini petrarchesche che in momenti ravvicinati della sua opera l’interprete della nostra civiltà letteraria volle consegnare ai contemporanei, se non sbaglio, prima che ai posteri. Nel 1866-67, in Dante Petrarca e il Boccaccio, Carducci garantiva il ruolo esemplare del Petrarca, anche per il secolo in corso e al paragone del pur superiore e prediletto modello dantesco, come rappresentante supremo «dell’arte secondaria e di perfezionamento» e insieme del gusto del «patetico calmo, sereno, diffuso egualmente», come appunto nelle sue rime68. Ma qual-

66 Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1982, p. 35. Per una citazione dal Triumphus Eternitatis, ivi, p. 41. 67 Cfr. G. Lonardi, Leopardismo, cit., pp. 35 sgg. (alla cui lettura “diacronica” mi sono attenuto negli ultimi due capoversi). 68 Cfr. G. Carducci, Dante Petrarca e il Boccaccio, in Prose, cit., p. 204. Il giudizio apparentemente restrittivo va peraltro inserito nel contesto della rivendicazione del Petrarca poeta rispetto all’esclusività del culto dantesco del secolo diciannovesimo («Se il lettore dunque s’aspetta da me che io gli sacrifichi il Petrarca su l’ara di Dante, egli può fin d’ora

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Gli usi del Petrarca nella poesia dell’Ottocento

che anno dopo, in Presso la tomba di Francesco Petrarca (1874; vittoriosamente concorrenziale al già ricordato discorso dell’Aleardi69), non si asteneva dall’assumere l’ufficio di mitografo, attualizzando arditamente l’immagine del poeta che «si fa romito per più sicuramente scrutare tutti i seni del suo cuore ammalato, per inseguire a suo bell’agio con triste voluttà nello specchio della natura eternamente vario i fantasmi dell’amor suo e delle sue malinconie». Werther e Aroldo, Obermann e Renato, «fu il primo a denudare esteticamente la sua conscienza, a interrogarla, ad analizzarla; e ciò facendo avvertì, quel che è il significato vero e profondo della sua elegia, il dissido tra l’uomo finito e le sue aspirazioni infinite, tra il sensibile e l’ideale, tra l’umano e il divino, tra il pagano e il cristiano»70 (si ricorderà, e non è informazione gratuita, che nel frattempo erano stati dati alle stampe il Petrarca,1869, e, 1870-72, la Storia del De Sanctis: urgeva una presa di posizione adeguata all’avversario; ed è il periodo in cui Carducci si apre con minor sospetto che in passato alle contemporanee letterature europee). Detrarre conclusioni sullo sviluppo della sua stessa poesia, quale si articolò e modificò nel decennio compreso fra le due date e in particolare nelle prossime Rime nuove, è fin troppo ovvio; ma voglio invece sottolineare come con quel ritratto Carducci fornisse un mito fruibile al presente dai lirici e dai letterati del tempo, autorizzasse una motivazione al recupero attualizzante in chiave postromantica ovvero predecadente71; e infatti un tale mito ebbe durata lunga (da un lettore cronologicamente e idealmente vicino al maestro come Enrico Nencioni, che fece scivolare Petrarca sulla china decadente-estetistica della propria sensibilità: «non gli basta che l’idea, l’immagine, sia vera e viva, come bastava a Dante; vuol provare il piacere estetico (e in questo è essenzialmente il più

voltar parecchie pagine, perché s’inganna a partito»; ivi, p. 203) e all’oltranza della poetica romantica, e della solenne celebrazione del dotto di autorità europea («[…] la parte fatta dal Petrarca in Europa non ha riscontro […] se non alla parte di Erasmo nel secolo sedicesimo e del Voltaire nel decimottavo»; ivi, p. 217) e dell’umanista («[…] il Petrarca è anzi tutto il restauratore della gloriosa antichità, è il duce che pe ‘l deserto del medio evo incominciò il nostro esodo dalla servitù dei popoli barbari»; ivi, p. 228). 69 Cfr. al riguardo A. Brambilla, Petrarca tra Aleardi e Carducci. Appunti sulle celebrazioni padovane del 1874, in «Studi petrarcheschi», n. s., XV (2002), pp. 221-52. 70 Id., Presso la tomba di Francesco Petrarca, ivi, pp. 716 e 717. 71 Mentre a proprio modello riservava l’immagine complessiva tracciata nel discorso, con l’integrazione di quel primo dato, impostato sul “dissidio”, attraverso l’immagine del dotto che procede alla laicizzazione del latino, alla fondazione della repubblica delle lettere, alla promozione dell’idea d’Italia come espressione letteraria e tradizione poetica, alla fondazione culturale e alla profezia politica della nazione (cfr. rispettivamente, ivi, pp. 72324, 727, 728 sgg.): un autoritratto ideale.

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moderno dei nostri antichi poeti) di cercarla, carezzarla, contemplarla»72; fino a un discepolo eterodosso e irrequieto come il giovane Borgese fiorentino e non per nulla nazionalista, che ripetè il giudizio carducciano con variazioni minime dalle colonne del «Regno» di Enrico Corradini73). Mi limito a considerare due aspetti e due situazioni geografiche. Il petrarchismo di scuola carducciana ebbe nel luogo d’elezione, fra Bologna e Romagna, il nome di Severino Ferrari: il commento a due mani del Canzoniere, a fine secolo, siglò la condivisione e la solidarietà dell’esperienza. Per Ferrari la consapevolezza dell’unità di culto carducciano e culto petrarchesco (nell’ordine) è peraltro precoce e più volte attestata; come nel seguente passo di lettera al maestro, che ne rende manifesta la motivazione in primo luogo umanistica e la genesi riflessa: […] la sestina [Notte di maggio del Carducci] mi ha commosso pel numero, per le imagini, pel magistero della lingua e delle stile, quanto quelle del Petrarca. Infatti, quelle del Petrarca, che da qualche tempo ho raccolte nel mio petto, si son tutte ridestate cantando al richiamo della Sua […]74.

Anche quando, nei Bordatini, «il sogno umanistico continua nella direzione d’un idillio ‘borghese’, si confonde con esso», il dato della letterarietà è fondante, non meno per il primo che per il secondo versante, autorizzato infatti dal «Carducci vagheggiatore degli antichi sogni di bellezza fermati nei libri dei poeti o nei canti del popolo» ed erudito ricostruttore dei metri antichi75. L’ibridazione del Petrarca con il linguaggio popolareggiante degli strambotti e delle romanelle, in una complessiva professione di umanesimo (che deve rispondere anche a quella che per Serra era la sua selvatichezza di

72 Cfr. E. Nencioni, La letteratura mistica, in Saggi critici di letteratura italiana, Firenze, Le Monnier, 1898, pp. 24-25. 73 Cfr. G. A. Borgese, Centenario petrarchesco, in «Il Regno», I, 24 luglio 1904, 35, pp. 7-8. 74 Cfr. Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci, a cura di D. Manetti, Bologna, Zanichelli, 1933, pp. 60-61; sulla devozione ferrariana per Carducci e sul rispetto delle «leggi» apprese alla sua scuola è d’obbligo il rinvio alla pagine di R. Serra, Severino Ferrari, in Carducciana, a cura di I. Ciani, Bologna, il Mulino, 1996, «Edizione Nazionale degli Scritti di Renato Serra», vol. IV, pp. 43-76. Tutt’altro che gratuito, perciò, il giudizio di F. Felcini, Introduzione a S. Ferrari, Tutte le poesie, a cura di F. Felcini, Bologna, Cappelli, 1966, p. 24, secondo cui Ferrari fu «fedele più agli ideali di Juvenilia e di Levia Gravia che al resto dell’opera carducciana presa nel suo insieme». 75 Ivi, pp. 23 e 52.

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campagnolo) risulta così pienamente congruente con l’idea postcarducciana di modernità, classica e borghese76. Ma Ferrari fece anche di più, compiendo infine un passo indietro che sa molto di Juvenilia e Levia Gravia: nel 1901 diede alle stampe la raccolta, per l’editore carducciano ufficiale, lo Zanichelli di Bologna, dei suoi Sonetti (vi confluirono Maggio e Primavera fiorentina), intitolando il suo ultimo libro in vita al metro ufficiale assunto negli anni novanta, giusto quando Pascoli lo abbandonava definitivamente. Un’opzione formale che gli permise di confermare al Petrarca il suo ruolo iperletterario, modello dei modelli nel tessuto di citazioni da cui i sonetti erano composti, fosse posto in rilievo dalla sede incipitaria, a dare il motivo della composizione (V. Contemplazione: «Due vaghe stelle, anzi due vivi soli»77), o dalla collocazione in clausola, a riverberare a ritroso il suo prestigio sui versi precedenti (VI. «Perché pure un bel piè lo prema o tocchi»78). La Roma carducciana-bizantina-dannunziana si preparava, negli stessi anni, a una sua frigida degustazione di Petrarca, che si sarebbe protratta fino al nuovo secolo, ovviamente travalicando i desiderata del maestro, fra Giulio Aristide Sartorio e Angelo Conti, il «Convito» e la poesia inamidata del suo direttore Adolfo De Bosis79. Conti80, avendo carduccianamente rivendicato che l’«importanza ‘del primo uomo moderno’ non è stata sentita in nessuna età come in questa nostra che muore»; e avendo specificato, ma ora anticarduccianamente, che per «giungere ad abbracciare il complesso della figura, è necessario che l’indagine sia fatta non con criterii d’erudizione, ma con intelletto d’arte», riconobbe prefigurato nel Canzoniere il motto sperelliano «il verso è tutto» e incarnato in Petrarca il «signore del verso». Autore unius libri, antenato e consanguineo di Leopardi, l’altro maggior lirico della tradizione nazionale, nostro contemporaneo, se «la lirica quale espressione del

76 Cfr. L. Baldacci, Severino Ferrari, in Poeti minori dell’Ottocento, cit., p. 1074 (e ora Severino Ferrari e il sogno della poesia, a cura di S. Santucci, Introduzione di R. Cremante, Bologna, Pàtron, 2003). Su Il recupero antiquario delle forme romanze cfr. il cap. omonimo di M. Martelli, Le forme poetiche dal Cinquecento ai nostri giorni, in Letteratura italiana. Le forme del testo, to. I, Teoria e poesia, cit., pp. 601-10. 77 Cfr. S. Ferrari, Tutte le poesie, cit., p. 389 (RVF CCLIV e CCCXII). 78 Ivi, p. 390 (RVF CXCII). A Petrarca era anche dedicato un sonetto, ivi, p. 379. 79 Ricordo che fu il giovane carducciano-bizantino Giulio Salvadori, definendo la sua prima raccolta, Minime (1882), e volendo riferirsi alla diffusa contaminazione di arcaismo medievaleggiante e parnasse, il primo a usare la felice formula di «poesia inamidata». 80 Nel suo primo libro, Introduzione ad uno studio su Francesco Petrarca, Roma, Società Laziale Tip.-Editrice, 1892.

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sentimento (perenne) è sempre contemporanea», e perché uomo del dissidio fra individuo e natura; Petrarca è sentito e riproposto come un paradigma attuale. Mentre l’antico Dante compose il dissidio fra bisogno di vita e voce interiore con l’azione e le certezze che la giustificano, Petrarca, sempre «irrequieto e sdegnoso», lacerato interiormente, trovò la verità fuggendo la «moltitudine», e calmò il proprio contrasto con la contemplazione della verità che annulla l’individualità sofferente (un Petrarca schopenhaueriano!):

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In questo giudizio sulla vita, in queste affermazioni che ricongiungono la visione del grande poeta coi pensieri di tutti i grandi filosofi dell’umanità, in quest’accordo di pensieri immortali con immortali sentimenti, è fondata ed è nascosta la ragione per la quale l’opera di Francesco Petrarca, come ogni altra che la Verità illumina, non potrà morire81.

Sul primo numero del «Convito» (1895) e poi nel «Ragionamento» premesso alla Beata riva dello stesso Conti d’Annunzio avrebbe convalidato la lettura petrarchesca dell’amico, spostandola però, con ben altro senso dell’attualità, sul versante simbolista: Angelo Conti aveva già in varie occasioni enunciato i principali aforismi della sua dottrina estetica e in una succinta e densa Introduzione a uno studio sul Petrarca aveva già dato un ottimo saggio del suo metodo critico determinando i caratteri essenziali della poesia lirica ed estraendo imprevedute significazioni da quella musica infinita in cui i simboli petrarcheschi perdono sovente i recisi contorni e si dilatano oltre i limiti della parola.

Era quanto bastava per procrastinare le fortune degli estenuati stilnovismo e petrarchismo patrocinati della «Cronaca» sommarughiana; così fu per De Bosis, che nei «suoi versi si appoggia a quanto gli appare via via consonante alla sua sensibilità, adottando formule di stile e di linguaggio tipiche del tardo bizantinismo romano e dell’estetismo che veniva maturando». Fra esse uno «stilnovismo filtrato attraverso il gusto preraffaellita (che appare nel primo Salvadori, ma in toni più risentiti e vibranti, e ritorna nell’ultimo Nencioni, in toni romanticamente sfatti) gli consente di evocare atmosfere di erotismo sublimato (Vien ne la notte…)»82. La letterarietà di De Bosis aderisce a modelli eterogenei, non per preziosi tasselli culti da artefice peritissi-

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Ivi, pp. 9, 10, 13, 16, 31, 43, 44, 47. Cfr. E. Sormani, Bizantini e decadenti nell’Italia umbertina, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 60-61. 82

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mo, ma con piena fiducia espressiva nel modello volta a volta scelto, da appassionato dilettante. La sestina di una notte d’estate (nella raccolta intitolata Le rime sparse; ma sono effettivamente tali e la citazione è antifrastica) è certo musiva, nella riproposta della forma metrica riattivata da Carducci e relativa scuola, per il materiale iconico e linguistico compresso nelle sei strofe: la suggestione strutturante di RVF XXII promuove prelievi eterogenei e liberamente giustapposti, come nella contaminazione dantesco-leopardiana della V: «E pensai, mi sovvien: Chi più felice, / quegli che giunga a noverar le stelle / ad una ad una, e a leggervi con occhi / limpidi, o quei che del suo dolce capo / solva il mistero, il disiato riso / a lei baciando su fiorita zolla?»83. La struttura e la parola letteraria rarefanno e condensano l’esperienza narrata, si studiano di trasfigurarla in un colloquio eletto con la tradizione lirica nei suoi topoi erotico-naturalistici, nei suoi miti fondanti (basti l’elenco delle parole-rima: stelle, zolla, capo, felice, occhi, riso) in una presupposizione di contemporaneità, che limita, non dico annulla, il sospetto dell’archelogia erudita e dell’esibizione preziosa di un attardato parnasse 84. Ma a quell’altezza cronologica il petrarchismo novecentesco aveva già assunto – ci è noto dal capitolo precedente – un’altra immagine.

83 Cfr. A. De Bosis, Amori ac silentio e Le rime sparse, Milano, Studio Editoriale Lombardo, MDCCCCIV, p. 192 (per il sintagma finale una possibile suggestione è in RVF CCLXXIX). 84 Ma sono da tenere presenti (ivi) anche i sonetti: Ben per quante costringe isole il mare (p. 47); Poi che solinga l’anima s’accascia (p. 53); Ultimamente… (p. 163); Se nostro uman disio già non si frustri (p. 207).

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«IL GIORNALE DELL’AMORE»: DE SANCTIS LEGGE PETRARCA

Nel 1856 Francesco De Sanctis accetta la chiamata del Politecnico federale di Zurigo per un corso di letteratura italiana. Arriva nella città, resa illustre dal fior fiore dell’“emigrazione” tedesca e francese, con l’animo grato verso chi gli aveva offerto una eccellente occasione di lavoro, ma senza entusiasmo, anzi, con la segreta pena di chi teme di vivere un nuovo “esilio”, dopo le sofferenze per la prigionia del 1850 e il necessario soggiorno torinese, dove riprende gli studi letterari, dove riprende a insegnare ma, dove, non ottenne mai la cattedra. Zurigo diviene, dunque, ben presto il luogo dell’esilio (tema dantesco per eccellenza, molto caro, per questo, a De Sanctis), ma anche l’occasione per un’esperienza decisiva di un uomo deluso, senza casa e, come è noto, “di pochi libri”: Le cospirazioni, le barricate, il carcere duro, la deportazione per mare, la fuga, l’esilio; non una vita studiosamente trascorsa tra archivi e biblioteche. Viene facile il raffronto con la vita del Carducci, chiamato giovanissimo alla cattedra universitaria; o con quella dello stesso Croce, erudito e bibliofilo onnivoro, circondato da un’imponente libreria. La biblioteca di De Sanctis è quella dell’uomo senza casa, costretto a muoversi di continuo; potrebbe essere raccolta, in edizioncine di comodo, non sempre le più attendibili, in un piccolo zaino militare. Sono i libri letti nelle scarse ore di agio, dopo la giovinezza ormai lontana; scritti non più con i caratteri delle stampe che con i segni della memoria. I libri degli autori amati, che fa amare anche agli altri1. 1 Cfr. D. Isella, Introduzione al Convegno, in Per Francesco De Sanctis. Atti del Convegno di Studi nel centenario della morte, 2 dicembre 1983, Bellinzona, Edizioni Casagrande, 1985, p. 13.

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Non sarà certamente un caso che proprio nella prima lettera da Zurigo del 2 aprile 1856 rassicura se stesso e l’amico Marvasi sulla situazione delle biblioteche disponibili: «Mi sono abbonato al gabinetto di lettura, dove ci è una ogni specie di riviste e di giornali. Ci sono tre biblioteche; ed io ho il diritto di portarmi a casa tutt’i libri che voglio»2. Zurigo, inoltre, oltre a risolvere un problema di tipo economico, e sappiamo che non era questione da poco, doveva rappresentare anche il luogo ideale per un confronto intellettuale vivo e di respiro europeo. Purtroppo non sarà del tutto così e i toni altalenanti delle sue lettere tra picchi di ottimismo, molto rari, e di irritazione o amarezza, più frequenti, stanno a testimoniarlo3. 2 F. De Sanctis, Epistolario (1856-1858), a cura di G. Ferretti e M. Mazzocchi Alemanni (in «Opere di Francesco De Sanctis», a cura di C. Muscetta), vol. XIX, Torino, Einaudi, 1965, p. 150. Alla luce di quanto detto diventa molto importante sapere quali sono i libri che De Sanctis consulta nelle biblioteche zurighesi: cfr. la dettagliata analisi (provvista di un elenco dei libri presi in prestito, per schede ordinate secondo la data, della Stadtbibliothek, corrispondente all’attuale Zentralbibliothek) di O. Besomi, De Sanctis «in partibus transalpinis» ma non «infidelium»: letture zurighesi, in Per Francesco De Sanctis, cit., pp. 89-118. Sottolineiamo però almeno l’importanza di tre fra i volumi presi in prestito. E, precisamente, il 30 ottobre ’57 una vita del Petrarca di Carlo Leoni (La Vita di Petrarca. Memorie di C. Leoni, Padova 1843); la notissima edizione del Canzoniere petrarchesco: Rime con il comento del Tassoni, del Muratori e di altri, I-IV, Padova, pei Tipi della Minerva, 1826 (si tratta dei due volumi in quattro parti usciti in realtà tutti e quattro nel 1827 e poi nel 1837 ripubblicati dal Carrer, su cui si veda almeno R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), edizione riveduta, Padova, Antenore, 1993, pp. 12-13 e L. Tassoni, Dante e Petrarca nel Seicento, cap. IX, in Storia della Letteratura Italiana, vol. XI, La critica letteraria dal Due al Novecento, a cura di P. Orvieto, Roma, Salerno Editrice, 2003, p. 492; ma per le ricadute sia sul piano strettamente filologico, sia su quello dei contenuti, nel Saggio sul Petrarca, si veda soprattutto O. Besomi, De Sanctis, cit., pp. 96-99). Il 24 novembre dell’anno seguente prende in prestito la vita di Petrarca del Baldelli (G.B. Baldelli, Del Petrarca e delle sue opere, libri quattro, Firenze, presso Gaetano Cambiagi, 1797), e i Saggi sopra il Petrarca pubblicati in inglese da Ugo Foscolo e tradotti in italiano, Lugano co’ tipi Vanelli e comp., 1824 (dai quali De Sanctis, almeno apparentemente, vuole lasciar intendere di essere lontano, ché il ritratto foscoliano di Petrarca, doveva risentire troppo, ai suoi occhi, proprio di quella critica psicologica che attaccherà direttamente e, d’altra parte, i tentativi foscoliani di guardare anche al Petrarca latino, lo lasceranno del tutto indifferente). 3 Si vedano gli studi di R. Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-1860), in Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Roma-Bari, Laterza, 1984, vol. I, pp. 89-110 e Id., Tra spleen e catarsi. Gli anni zurighesi (1856-1860), in Per Francesco De Sanctis, cit., pp. 73-88: «Se tra i timori, la precarietà e le ambasce piemontesi poteva ancora farsi spazio qualche barlume di speranza per la vita futura, l’impatto con l’ambiente zurighese – non tanto ostile o irriguardoso, qual era quello torinese, quanto piuttosto malato di indifferenza o di alterigia – è invece più violento di ogni pur pessimistica previsione», p. 76. A entrambi i saggi si rinvia per la bibliografia precedente sull’argomento.

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«Il giornale dell’amore»: De Sanctis legge Petrarca

Ma quegli anni, quattro per la precisione, fino al 1860, tanto fecondi quanto controversi, furono fondamentali per l’elaborazione e la messa a punto del proprio metodo critico (riflette e rivede l’estetica hegeliana fonte di un eccessivo astrattismo, di un formulario rigido e di un atteggiamento troppo distaccato e intellettualistico nei confronti dell’arte4) e per la raccolta di materiali che saranno poi pubblicati, anche se a distanza di anni, come nel caso delle lezioni su Petrarca. Le prime impressioni sulla città, sugli intellettuali, sui colleghi, sono tutte sotto il segno negativo di chi si sente ed è straniero ma, di più, appunto, esiliato5. Solo si salvano, ma qualche tempo dopo, gli uditori e studenti che sono l’elemento più importante della sua permanenza (ricordiamo tra questi il bergamasco Teodoro Frizzoni e lo “scontroso” Vittorio Imbriani, napoletano, che trascrisse, dopo il collega, le lezioni su Petrarca ma che poi, nel tempo, oltre a rimuovere il maestro rimosse anche il Petrarca al quale senza dubbi preferì altri modelli)6.

4 S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis (1964), Milano, Feltrinelli, 1977. 5 R. Martinoni, Tra spleen e catarsi, cit., pp. 76-77: «Su questa trama si intesse gran parte delle lettere scritte da Zurigo, trapuntate (specie le prime) di rilievi e di ragguagli talora estemporanei o di poco momento (gli “orribili suoni” dell’idioma locale, l’esosità dei prezzi, la scarsa qualità delle vivande, le lungaggini burocratiche, la freddezze dei cuori, il conformismo gretto, a volte bizzarro, della gente): benché già traspaia in essi il desiderio di penetrare, talora senza mezzi termini, il carattere sociale (l’analisi culturale si svilupperà più gradualmente) della città, le sue abitudini, i suoi costumi, il culto della forma e dell’apparenza (“sotto quest’apparenza severa – osserva De Sanctis – circola il vizio: vi è la corruzione con l’ipocrisia di più”)». Si veda solo nella lettera a Virginia del 4 agosto 1857 quanto il sentimento nei confronti della città che lo ospita sia “raggelato”: «Ti ringrazio, mia brava Virginia, dell’affetto che mi dimostri, e spero vorrai continuarmelo, perché per me è cosa preziosissima. Ho finite le mie lezioni, ma non mi moverò di qua. Attendo un mio antico allievo di Napoli, proscritto egli pure, che verrà a farmi una visita. La sua compagnia sarà la sola gioia che avrò gustata in questo sepolcro, che si chiama Zurigo» (cfr. F. De Sanctis, Lezioni di scrittura. Lettere a Virginia Basco (1855-83), a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli, 2001, pp. 60-61). 6 Cfr. E. Bonora, Il «Saggio critico sul Petrarca», in F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, (Bari, Laterza, 1954) e poi ristampato Milano, Marzorati, 1971 da cui si cita, che, a proposito di Imbriani, e della “questione” Petrarca scrive: «Questi, poco dopo la morte di colui che gli era stato maestro, scriveva scandalizzato al De Meis: “Non posso far l’elogio del De Sanctis… Che dire d’un uomo che può scambiare per opera greca, le Aventures de Télémaque? Che scrive un volume sul Petrarca senza leggere mai che il Canzoniere?”. Altri pedanti, privi di quel lume di genialtà che era dell’Imbriani, e non giustificati da quel rigorismo che in lui faceva tutt’uno con la sua natura, fecero loro il rilievo che il De Sanctis non aveva tenuto conto delle opere latine del Petrarca», p. 24.

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Floriana Calitti

Inizia le lezioni di quattro ore settimanali il 24 aprile 1856: Dante, Petrarca, la poesia cavalleresca. Per il semestre invernale del 1857-1858 (19 ottobre-20 marzo) è annunciato un corso sul Petrarca di due ore settimanali e un ciclo straordinario di conferenze pubbliche dal 1858 al ’597. Quelle conferenze che saranno poi alla base, come è noto, del Saggio critico sul Petrarca, pubblicato a Napoli da Morano dieci anni dopo, nel 1869, con uno scritto introduttivo dal titolo La critica del Petrarca, già uscito nella «Nuova Antologia» del settembre 1868, e il cap. IX Morte di Laura già apparso ne «Il Politecnico» del maggio 1866. Una seconda edizione apparve nel 1883 prima della “famigerata” edizione curata da Croce del 19078. Il 31 dicembre del 1858 scrive ad Angelo Camillo De Meis: Documento acquistato da () il 2023/04/24.

[...] ho trovato in questo semestre un efficace antidoto alla noia nel corso pubblico. – Mi ci diverto e mi ci interesso -. Studio le impressioni che fo sul pubblico e ne sento col massimo gusto i giudizii: 1°) «Abbiamo capito, abbiamo capito»; – e ciascuno a fregarsi le mani. 2°) «Ha una straordinaria facoltà di parola. Pourquoi ça, Monsieur?» – «Parce que je suis une machine à leçons». – «Oh! Oh!» – «Alors, parce que Naples est le pays des improvisateurs» – «Oui, des poètes, nous avons compris». 3°) «Dee essere una testa stramba. Petrarca è il suo eroe, e finora non fa che dirne male. Mais c’est étrange, Monsieur! Pourquoi ça?» – «Parce que je me plais à dire mal de tout le monde». – «Vraiment? Vous nous faites peur!». 4°) «Il briccone! Ha abbassato il Petrarca per esaltarlo di più. Nous avons compris, maintenant!». Quello che più colpisce, sono i miei gesti e la mia chiarezza, e ci è tanta ingenuità che Fischer m’ha dimandato in che modo facevo e se potevo insegnarglielo. Fischer è divenuto il mio trombettiere, dice che l’Italia è la terra dell’entusiasmo e dell’eloquenza, che non sapeva che la critica vi fosse tanto innanzi e che vi si giudicassero i propri poeti con tanta imparzialità. Credeva che

7 F. De Sanctis, Epistolario, cit., vol. XIX, pp. 347, 354, 363, 368, 395, 396, 399, 400, 401, 405, 410 e S. Romagnoli, Lezioni zurighesi sul Petrarca e altri scritti, Padova, Liviana, 1955, pp. XI-XIII e poi in Id., Studi sul De Sanctis, Torino, Einaudi, 1962, pp. 121-38. 8 F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, Napoli, Morano, 1869; con la dedica «A mio padre Alessandro / e a mia moglie Marietta / i due miei amori / superstiti». Il Saggio ripubblicato nel 1883, sempre da Morano, conteneva una postilla all’introduzione, una appendice e due note. Poi Id., Saggio critico sul Petrarca, a cura di B. Croce, Napoli, Morano, 1907. Cfr. anche F. De Sanctis, Petrarca e la critica francese, in «Nuova Antologia di Scienze, Lettere ed Arti», vol. IX, settembre 1868, pp. 5-22; Id., Morte di Laura, in «Il Politecnico», serie quarta, parte letterario-scientifica, vol. I, (maggio 1866), pp. 735-48. Citiamo il Saggio dall’edizione inclusa nelle «Opere di Francesco De Sanctis», a cura di C. Muscetta, vol. VI: F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Gallo, con introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 1952.

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«Il giornale dell’amore»: De Sanctis legge Petrarca

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il Petrarca fosse il poeta platonico astratto dalla tradizione e di cattivo gusto, e che la forma non andasse al di là della cristallizzazione. Nell’ultima lezione (ritratto di Laura) ha toccato con mano che Laura non è un cristallo. Non avrei mai creduto che la piccola Zurigo potesse darmi sessanta, e forse più, uditori; e che si potesse prendere tanto interesse alle lezioni, che in poche settimane sono sparite tutte le copie del Canzoniere che si trovavano presso questi librai, di modo che Chablitz, che solo ne ha vendute dodici, ne ha fatto venire delle altre da Parigi. Viva dunque il Petrarca, e viva l’Italia! […]9.

Ma a distanza di anni da quelle lezioni zurighesi, a rinfocolare il De Sanctis lettore di Petrarca ci aveva pensato però un critico d’oltralpe, il Mézierès, professore di letteratura straniera a Parigi che, dopo uno studio dedicato a Dante, si era cimentato in una monografia10 su Petrarca, dalla notevole mole di circa quattrocentocinquanta pagine11, e, inoltre, la recensione di Alessandro D’Ancona che De Sanctis legge con avidità (e si comprende il perché, dato che già l’incipit dell’articolo è una lucida istantanea sulla critica italiana del periodo): Un nuovo scritto sopra il nostro maggior sarà certamente ben accolto dagli studiosi della nostra letteratura, sebbene il secolo sia vòlto di preferenza all’ammirazione ed al culto dell’altro gran luminare dell’italiana poesia nel decimoquarto 9

F. De Sanctis, Epistolario, cit., vol. XIX, pp. 533-34. Da sottolineare, semmai ce ne fosse bisogno, l’importanza che in sede teorica De Sanctis affida alla forma saggio, alla monografia, a quello che i francesi appunto chiamavano “studio”, su cui le fondamentali pagine di Contini sul De Sanctis come «il fondatore della critica letteraria in Italia nella sua forma attuale di saggio: una forma talmente connaturata alle nostre abitudini che si è involontariamente tratti a considerarla come un istituto perenne, mentre la sua origine è molto prossima», cfr. G. Contini, Letteratura dell’Italia unita, 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968, p. 4 e poi si veda anche dello stesso autore, Introduzione a F. De Sanctis, Scritti critici, Torino, UTET, 1949, poi in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 499-532. Di recente è tornato allo studio del saggio come “invenzione” di De Sanctis A. Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Venezia, Marsilio, 2002, in particolare le pp. 40-46 e 75-83: «Grande insegnante, efficace feuilletonista letterario, De Sanctis farebbe incontrare la tradizione saggistica che ha origine in Montaigne e Bacone con la moderna pratica dell’insegnamento e del giornalismo. La riflessione morale e l’analisi psicologica, fino alla descrizione degli autori come veri e propri personaggi, entra pienamente con De Sanctis nel campo della critica […]. Critica frontale, moralistica ed epica quella di De Sanctis. Il suo orizzonte è pedagogico e politico, il suo scopo è l’educazione democratica e nazionale, la sua tecnica mescola la delineazione del “carattere” del tipo umano, e la valutazione di ciò che rafforza o corrompe la coscienza di un popolo. Mette in scena e insegna. La critica desanctisiana è un teatro con didascalie efficaci e sempre bene in vista», pp. 78-79 e 81. 11 A. Mézierès, Pétrarque, étude d’après de nouveaux documents, Paris, Didier, 1868. 10

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secolo […]. Una donna d’alto animo e d’alto ingegno ebbe a dire che il Petrarca era stato insieme grandissimo filosofo, grandissimo poeta e grandissimo innamorato, e che bisognava possedere coteste tre doti da chi avesse voluto ben comprenderlo e acconciamente scriverne. Noi ripetiamo questa sentenza di Cristina di Svezia per riconoscere anche noi che il soggetto scelto dal Mézierès non è così facile come altri potrebbe credere a prima vista, dappoiché il Petrarca non fu soltanto fabbro di versi eleganti, né la sua poesia erotica è così esteriore e leggera, come la ridussero dappoi i suoi malcauti imitatori12.

D’Ancona, dopo questa premessa, e dopo aver dato ampio spazio anche alle pubblicazioni delle lettere di Petrarca da parte di Fracassetti da cui il Mézierès aveva tratto grande utilità, loda il lavoro del critico francese perché, a parte qualche lungaggine, ma tale soltanto per i lettori italiani che sanno a memoria il Canzoniere e non per i lettori stranieri, si addentra nelle minuzie della vita del cantore di Laura e nella sua opera più famosa, definita da Mézierès stesso «un corso di psicologia amorosa». E a riprova delle argomentazioni D’Ancona sceglie e riporta un lungo passo che traduce per i lettori della rivista: Così i bei versi del Canzoniere, la pittura originale e sincera della passione non soddisfatta, dell’amore non appagato, le tinte ideali di cui copre le piaghe dell’anima sua, gettandole sul dolor suo a guisa di velo, lo sforzo continuo per far trascorrere il pensiero dalla ragione dolorosa del sentimento in quella più serena dell’arte, il conforto ch’ei prova quando riesce ad esprimere come poeta ciò ch’ei sente come amante, tutto ciò forse noi lo dobbiamo alla virtù, all’eroismo di una donna. Se Laura avesse ceduto, non ci sarebber stati nel mondo se non due altri amanti felici. Essa resistette, e la sua resistenza valse a noi un gran poeta, a lei la gloria: essa ne conseguì l’immortalità13.

Torniamo al De Sanctis e alla sua di recensione – diremmo stroncatura – che ha il tocco raffinato dell’ironia pungente e garbata e che usa gli stessi spunti critici del D’Ancona per dirigerli verso tutt’altra direzione: È un libro scritto senza enfasi, con semplicità e vivacità, e che tu leggi intero d’un tratto come un romanzo. E lo diresti quasi un romanzo psicologico, dove sono indovinati e presentiti molti misteri dell’anima, che danno la spiegazione di parecchi fatti. A questo genere di storie intime il genio francese è acconcissimo, aiutato anche dalla lin12 A. D’Ancona, Recensione a Pétrarque, étude d’après de nouveaux documents, par A. Mézierès, in «Nuova Antologia», fascicolo III, marzo 1868, alle pp. 584-93; pp. 584 e 587 le citazioni. 13 Ivi, p. 590.

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gua che esprime le più delicate e fuggevoli gradazioni della vita interiore. Un lavoro simile si può fare con molta esattezza sul Petrarca, non essendo il Canzoniere che il ritratto della sua anima, e trovandosi nelle sue opere, e specialmente nelle Lettere, la sua vita rappresentata, direi, giorno per giorno […]. Il Canzoniere vi sta allo stesso titolo delle Lettere e de’ trattati filosofici; vi sta come prova e documento delle sue asserzioni. Non è la vita che serve al Canzoniere: è il Canzoniere che serve alla vita, o piuttosto al panegirico. Giacché l’ammirazione del critico francese si accosta molto alla superstizione. Con filiale cura copre di un manto pietoso le nudità del suo modello, tutto ciò che di fiacco era nel suo carattere, o di biasimevole fu nella sua condotta. Esagera i sentimenti, idealizza il carattere, poetizza gli accidenti più ordinari, par che narri e ti fa un sonetto in prosa: ti dà non un Petrarca intero e vero, ma un Petrarca mutilato dalla sua idolatria. Vorremmo nel suo modello un po’ meno del divino e un po’ più dell’umano. Un’alta imparzialità avrebbe provveduto meglio alla gloria dell’uomo, collocato sì alto che tentare apologie o palliare difetti è quasi un mancargli di riverenza. Ci è un monumento durevole da innalzare a Francesco Petrarca; c’è ancora dopo tanti lavori un altro lavoro a fare. Ed è la critica del Canzoniere14.

Non è necessario andare avanti per sapere quale opinione De Sanctis può avere di questo genere di operazione. La sua vorrebbe essere una critica attenta all’opera in sé15, non quella di un critico grammatico, né quella di un critico storico interessato per lo più all’ambiente, all’epoca in cui l’opera sorge, alle cause che possono averla determinata o ispirata: «De Sanctis vive tra il crollo della Retorica classica, che ebbe vigore fino al Romanticismo, e il nascere, oltre la fine del suo secolo, in opposizione alla cultura positivistica, di una nuova grammatica della poesia, dalla stilistica allo strutturalismo alla semiologia. La critica, in questo spazio, vuoto di qualsiasi scienza delle forme, quando non è critica storica accentua il suo carattere soggettivo; è critica fondata soprattutto su un ideale colloquio di spirito con il proprio autore. E in questo De Sanctis non ebbe pari»16. Con De Sanctis nasce una critica che staccatasi dalla retorica ha una piena consapevolezza del proprio metodo e delle implicazioni che il processo di assimilazione e “superamento” dei diversi referenti culturali e ideologici comporta: un giudizio senza esitazioni sul positivo e il 14 F. De Sanctis, La critica del Petrarca, in Id., Saggio critico sul Petrarca, cit., p. 13 e pp. 18-19. 15 Su cui N. Sapegno, Storia della critica petrarchesca, in Id., Petrarca, a cura di P. Stoppelli, Torino, Aragno, 2001, pp. 254-60 e 312-13. 16 D. Isella, Introduzione, cit., pp. 12-13 e cfr. anche P. Orvieto, Francesco De Sanctis, cap. V, in Storia della Letteratura Italiana, vol. IX, La critica, cit., pp. 679-709, a cui si rinvia anche per un aggiornamento bibliografico.

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negativo di un’opera, sulla sua forma intesa non come involucro esteriore, inerte, ma quasi come un organismo vivente, come l’opera stessa che, se guardata senza astrazioni, diventa un discorso completo, totale, a tutto tondo. Anche a rischio di dover tagliare o espungere dalla sua ricostruzione storica, dalla sua carrellata di uomini-ritratto, di uomini esemplari, e di doverlo fare non tanto dal punto di vista letterario, quanto da quello (in diretto contrasto con questo) della coscienza civile e morale degli italiani. Ciò che resta manchevole nel metodo di De Sanctis è che pur combattendo tutti i tipi di critica che si pongono al di fuori delle «situazioni»17 e dei caratteri, che danno informazioni su qualcos’altro che non sia il significato sostanziale di un’opera, che sono «mezze critiche» e che nascono da confusione e superficialità di giudizio, si ritrova spesso soltanto a vagheggiare questa presunta fedeltà al testo, e nei fatti poi a giudicarlo rigidamente e esclusivamente con i parametri delle sue famose coppie di categorie critiche a contrasto (arte/natura; reale/immaginario; parole/cose; forma/contenuto; poeta/retore; plastico/sentimentale; etc.): E n’è venuta la confusione delle lingue, un Petrarca ermafrodito, ora nobile patriota, fiero carattere, scrittore di altissime liriche, ora effeminato, manierato, artificioso; ora amante appassionato e addolorato, ora amante platonico, ora amante da burla. Questi mezzi giudizi nascono da mezze critiche, da critiche che considerano il Canzoniere sotto questo o quell’aspetto, ma non nel suo insieme, nella sua sostanza […]. Che cosa è la critica esterna o formale? Sono frasi, giri, inversioni, concetti, abitudini, maniere, metodi, distribuzioni, strappate violentemente all’opera d’arte e messe in mostra sotto il nome di modelli. Così son nate le regole; così è nata l’eleganza; così si è formata la rettorica. Che cosa è la critica psicologica? È l’autore isolato dalla sua opera e studiato ne’ fatti della sua vita, ne’ suoi difetti, nelle sue virtù, nelle sue qualità. Tale è il lavoro del Mézierès; e ne può nascere un giudizio più o meno esatto dell’uomo, non del suo lavoro […]. Dalla critica formale è uscito un falso Canzoniere, dove sono additate come belle le poesie più luccicanti di tropi, di antitesi e di concetti, le più lontane dal semplice, dal naturale e dal vero; e ne è uscito non il Petrarca, ma il petrarchismo, la corruzione del Petrarca. Dalla critica psicologica è uscito un Petrarca romanzesco, un sant’Agostino e un Abelardo mescolati, col suo misticismo, con le sue veglie, con le sue lotte interne, con le sue solitudini. Il sentimentalismo moderno è penetrato nel Canzoniere con non so quale odore di misticismo e di monachismo: Jacopo Ortis, che si tira dietro Adelaide e Comingio. Il romanzo spinto all’ultima punta ti dà il Petrarca di Lamartine,

17 Termine desanctisiano per eccellenza, di derivazione hegeliana, su cui si veda W. Binni, Amore del concreto e situazione nella prima critica desanctisiana, in Id., Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, pp. 99-116.

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dove Petrarca è Davide, e Laura è santa Teresa. Dalla critica storica è uscita una Laura simbolica e romantica ed il casto Petrarca, un ideale cristiano platonico della donna e dell’amore, una poesia tutta moderna, dove con velo candidissimo è coperta la nudità di Grecia e di Roma. Tutti mezzi giudizi, tutti falsi giudizi18.

Ci si può chiedere, infatti, non senza una punta di malizia di lettori moderni se De Sanctis sia riuscito sempre a non cadere in questi tranelli dei «mezzi giudizi», dei «falsi giudizi», dei giudizi astratti; certo è che soprattutto nel parallelismo oppositivo con Dante il dubbio diviene certezza, e la mannaia pregiudiziale che cade costantemente su Petrarca desta più di una perplessità. Del resto il binomio antitetico non nasce certo con De Sanctis, basti pensare alla Vite di Leonardo Bruni che fonderanno un parametro costante soprattutto sui risvolti civili, tradotto quasi sempre in una gerarchia che penalizzava Petrarca. Anche a partire proprio da Bruni Petrarca sarà sempre il pioniere dei nuovi studia humanitatis, ruolo che per De Sanctis sappiamo bene quanto poco contasse, e dunque quanto Petrarca restasse sempre “epigono” di Dante, e “iniziatore” della decadenza nazionale: da una parte l’impegno civile, dall’altra il disimpegno solipsistico. D’altronde per De Sanctis è proprio nella natura del “suo” Petrarca il punto nodale della questione: il “suo” Petrarca è tutto nel Canzoniere (come gli rimproverava Imbriani) e il Petrarca latino gli è addirittura estraneo19. Si veda almeno questo passo della Storia: In verità il Petrarca era tutt’altro che romano o latino, come pur voleva parere: poté latinizzare il suo nome, ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al 18

F. De Sanctis, Saggio critico, cit., pp. 21-23. In questo conforme alle posizioni europee (si vedano soprattutto Jean-CharlesLéonard Simonde de Sismondi, Histoire de la renaissance de la liberté en Italie, de ses progrès, de sa decadence et de sa chute, Paris, Treuttel-Würtz, 1832 ora in traduz. italiana in Id., Storia delle repubbliche italiane, presentazione di P. Schiera, Torino, Bollati Boringhieri, 1996 e E. Quinet, Les révolutions d’Italie, Paris, Chamerot, 1848, in traduzione italiana Le rivoluzioni d’Italia, Bari, Laterza, 1935, traduzione di C. Muscetta) malgrado il cap. su Petrarca (VIII. Il «Canzoniere») della Storia (cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di G. Ficara, Torino, Einaudi-Gallimard, 1996) si apra proprio con una ampia descrizione del Petrarca fondatore dell’Umanesimo «scopritore instancabile di codici» (p. 245), colui che aveva permesso all’Italia di uscire dalle tenebre del Medioevo: «Così appariva l’aurora del Rinnovamento» (p. 246). In realtà questa premessa porta ad una ancora più netta contrapposizione con Dante, poeta vero della coscienza civile e non poeta di una coscienza «puramente letteraria»: «Così si formò una coscienza puramente letteraria, lo studio della forma in sé stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto eleganza, forma scelta e nobile; maniera di scrivere artificiosa, che pare anche nelle sue canzoni politiche, come quella a Cola da Rienzo, opera più di letterato che di poeta, e perciò pregiata molto, finché in Italia durò questa coscienza artificiale» (p. 248). 19

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di fuori, ne’ fatti e nelle cose, è tutto vita attiva e virile, diresti non abbia il tempo di piegarsi in sé e interrogarsi. Al Petrarca sta male l’abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani, e ridevano. Non sentivano l’uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L’uomo c’era, ma più simile all’anacoreta e al santo che a Livio e Cicerone, più inclinato alle fantasie e alle estasi, che all’azione. Natura contemplativa e solitaria, la vita esterna fu a lui non occupazione, ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sé; il solitario di Valchiusa fu il poeta di sé stesso; Dante alzò Beatrice nell’universo, del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l’universo in Laura, e fece di lei e di sé il suo mondo. Qui fu la sua vita, e qui fu la sua gloria20.

E quel Petrarca, secondo De Sanctis, è senza forza, senza energia, sfibrato, fiaccato dall’amore per Laura, e nella sua poesia c’è un’assenza di reale, c’è un’assenza di passione, un’assenza di “sincerità”: Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante d’idealizzarsi nell’universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità, gli manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia […]. La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le dànno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l’immagine, e non la cosa, la sua soddisfazione non è intera, ci è in fondo un sentimento della propria impotenza […]. Manca al suo strazio l’elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento21.

E per De Sanctis tutto proteso ad acquisire con fermezza il senso del vivo, delle cose, contro il vuoto dell’artificio, dei formalismi, della parvenza vacua delle parole («Non ci è ancora l’individuo: ci è il genere» a proposito di Laura risucchiata in un astratta figurazione platonico-cristiana: «La chiama una dea; ed è una dea; non è ancor donna» 22), è impossibile schierarsi dalla parte di Petrarca, riesce a malapena a salvare della sua poesia i momenti che reputa meno “freddi”, quelli dove gli sembra che il solitario di Valchiusa riesca finalmente a dare libero sfogo alla sua immaginazione e alle sue “impressioni”. Nella poesia di Petrarca c’è un’assenza di reale perché manca la partecipazione emotiva, c’è la fredda immaginazione, la contemplazione tutta esteriore, non c’è il calore della fantasia. E la differenza tra fantasia e

20

Ibid. Ivi, pp. 254-55. 22 Ivi, p. 250. 21

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immaginazione è più volte chiarita nei Saggi critici. L’immaginazione, infatti, per De Sanctis, non è potenza creatrice, è piuttosto un dare forma a tutte le cose così come si presentano: «Vi rimane una facoltà interiore, piuttosto immaginazione di fantasia, la quale consiste in dare una forma a tutte le cose, secondo che le ci si presentano innanzi, l’una appresso l’altra»23. Eppure De Sanctis aveva tentato di difendere Petrarca perlomeno da chi lo leggeva attraverso la lente deformante, avvilente e screditante dei petrarchisti, anche se poi gli capitava spesso di accusarlo di aver scritto una poesia che aveva già in sé i germi della “malattia”. Bisogna determinare, scriveva alla fine della recensione al Mézières, in aperta polemica con il critico francese, «ciò che è vivo e ciò che è morto. E ci accorgeremmo che nel Petrarca è morto tutto ciò che è imitato ed imitabile»24. Ed è imitabile quella cristallina soavità, quei suoni eleganti, quell’armonia pulita, ma anche quei concetti, quelle antitesi, quei giochi barocchi, quei rebus, quei “trastulli”. Petrarca «è stato il grande arsenale dove tutti hanno attinto […]»25, Petrarca è divenuto un repertorio morto, un cadavere oltraggiato, come scrive nelle famose battute conclusive del Saggio: «Riapparve il Canzoniere per parecchi secoli, a spizzico, parole e pensieri, come un cadavere: lo spirito, che lo vivificava, era scomparso»26. Ma De Sanctis, malgrado i tentativi compiuti per liberare Petrarca dal giogo del petrarchismo, dalla fissa ripetitività dei “concetti”, delle “freddure”27, non riesce ad abbandonare l’idea, che tornerà anche nella Storia, che la malattia del petrarchismo fosse già tutta in Petrarca: I petrarchisti lo hanno spogliato, rubatogli tutto ciò che è possibile tòrre ad un poeta, concetti, frasi, parole, senza potergli rubare né la sua immaginazione, né il suo amore; ed hanno perpetuata una falsa immagine del Petrarca, che è passata per tradizione appresso gli stranieri. E se si sono accreditati i concetti, la

23

F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1965, vol. I, p. 104. Id., Saggio, cit., pp. 35-37. 25 Ivi, p. 61. 26 Ivi, p. 250. 27 Soprattutto quando si trattava di sottrarlo alle critiche troppo facili degli stranieri come si legge nella lettera a Pasquale Villari del 26 dicembre 1858: «Petrarca passa appo gli stranieri come il poeta de’ concetti e dell’astratto platonismo; anche il Vischer era di questa opinione. Nelle prime lezioni ho dato addosso al Petrarca ed ho fatto un severo esame de’ suoi difetti; il che ha delusa la comune aspettazione: ché attendevano da un italiano un panegirico e si preparavano a sorridere a mie spese. Ma io gli ho fatti un po’ ridere alle spese del Petrarca, ed ora il riso dà luogo all’ammirazione», cfr. F. De Sanctis, Epistolario, cit., vol. XIX, p. 525. 24

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colpa è del Petrarca; se prevalsero poi le freddure arcadiche, la colpa è ancora del Petrarca; e se la poesia finì in un puro giuoco di forme, in una ninna nanna, che addormentava l’Italia nel suo dolce far niente, la colpa è sempre del Petrarca28.

È in questa prospettiva di lettura che diviene centrale una dei temi più dibattuti del Saggio critico sul Petrarca, quello dell’unitarietà del Canzoniere: è impensabile sostiene De Sanctis che esista un ordine a priori costruito da Petrarca stesso, questo è frutto della “metafisica” dei critici che:

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[…] in mezzo alle stravaganze e agli accidenti del mondo si studiano nella loro impazienza di metterci essi un po’d’ordine; e, quando i fatti ripugnano, se la pigliano con Dio; [...]. Di buon’ora i critici si sono industriati ad ordinare le poesie del Petrarca meglio ch’egli non aveva fatto; e, appunto perché quest’ordine è impossibile, non trovi due che siano d’accordo. Quando poi, progredita la critica, dall’ordine materiale ed esteriore si passò all’ordine interno del contenuto, nacque facilmente l’illusione, che ci potesse essere un nesso in queste espansioni amorose. Confesso umilmente ch’io ho avuto questa illusione nei miei giovani anni; e che, esponendo il Canzoniere, mi parea di aver trovato un filo logico, un prima e un poi, o, per dir meglio, un post hoc ergo propter hoc: e feci una specie di romanzo critico, di cui forte mi applaudivo. E me ne sarei insuperbito, se avesssi saputo quello che ora so, che Leopardi ha avuto il medesimo pensiero29 […]. Ciò che è assurdo, è supporre un ordine a priori costruito dal Petrarca, come se gli fosse venuto in mente di fare un vero poema dell’amore. Ci è qui gran ricchezza di sentimenti, che si potrebbero considerare come i materiali ancora sciolti di un poema lirico; ma che sbalzan fuori giorno per giorno, secondo lo stato di un’anima agitata, senza scopo, senza direzione e senza connessione. Onde il Canzoniere, anzi che un poema, si potrebbe chiamare il giornale dell’amore, un giornale di tutti i fenomeni fuggevoli che appariscono nel nostro spirito, fissati in verso30.

28 Id., Saggio, p. 62. Cfr. anche Id., Storia, cit., p. 264: «È in abbozzo l’immagine anticipata de’ secoli seguenti, di cui fu l’idolo. L’arte si afferma come arte, e prende possesso della vita»; e la conclusione (di grande impatto) del capitolo, p. 265: «E l’illustre malato, abbandonato a’ flutti di questo doppio mondo, di un mondo che se ne va e di un mondo che se ne viene e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza, è Francesco Petrarca». 29 De Sanctis si riferisce alla prefazione alla seconda edizione del commento di Leopardi (1839), su cui Luigi Trenti, qui in questo stesso volume, alle pp. 166-67: «La forza intima, e la propria e viva natura loro delle Rime, credo che verrebbero in luce e che apparirebbero in un aspetto nuovo, se potessi scrivere la storia dell’amore del Petrarca conforme al concetto della medesima che ho nella mente». 30 F. De Sanctis, Saggio, cit., pp. 83-84. E cfr. anche Id., La giovinezza. Memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli, a cura di G. Savarese,

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«Il giornale dell’amore»: De Sanctis legge Petrarca

La parte di questa citazione in cui De Sanctis fa il mea culpa sull’aver anche solo per poco (e in età giovanile) accarezzato l’idea del romanzo critico è posta in exergo a un libro da chi, in anni più vicini a noi, ha dedicato molti dei suoi studi a seguire il racconto, la storia, di quei sparsi frammenti dell’anima di Petrarca, a seguire la costruzione e realizzazione di un progetto autobiografico chiaro, che rendesse evidente la chiusura del cerchio, la bipartizione e circolarità dei temi, la divisione su due piani (mondano-amoroso e ascetico-spirituale); mi riferisco, ovviamente, a Marco Santagata31. La “questione”, infatti, non può essere messa sullo stesso piano di tutte le polemiche che riguardano il Petrarca poeta, è la questione, e per uno come De Sanctis così attento alla storia, alla successione, ai tessuti connettivi, anche e vorrei dire, soprattutto dal punto di vista stilistico, proprio come cifra di una prosa che tende ad essere una narrazione continua, non è di secondaria importanza. Non accreditare il Canzoniere come libro unitario che ha una sua storia, che non è una semplice successione accidentale di fatti ma è invece un romanzo («Questo amore è dunque la prima pagina di un romanzo; ci manca il romanzo o la storia»32), è come abbattere il pilastro che aveva autorizzato sin nella primissima ricezione dei Rerum Vulgarium Fragmenta la sovrapposizione tra biografia e poesia. Autorizzazione cercata e voluta costantemente da Petrarca stesso. È come tornare alla famosa lettera del 1335-’36 (ma profondamente rimaneggiata all’inizio degli anni ’50), indirizzata all’amico Giacomo Colonna, in cui Petrarca si difendeva dalle accuse di insincerità: Quid ergo ais? finxisse me michi speciosum Lauree nomen, ut esset et de qua ego loquerer et propter quam de me multi loquerentur; re autem vera in animo meo Lauream nichil esse, nisi illam forte poeticam, ad quam aspirare me longum et indefessum studium testatur; de hac autem spirante Laurea, cuius forma captus videor, manufacta esse omnia, ficta carmina, simulata suspiria. In hoc uno vere utinam iocareris; simulattio esset utinam et non furor! Sed, crede michi, nemo sine magno labore diu simulat; laborare autem gratis, ut insanus videaris, insania summa

Torino, Einaudi, 1961, in «Opere di Francesco De Sanctis», a cura di C. Muscetta, cit, vol. I., cap. XXVI, La lirica, pp. 184-85: «Feci anche una curiosa ricerca. Avvezzo a guardare il di fuori nel di dentro, volli fare una storia del suo amore, cercando la successione e la gradazione dei sentimenti, e trovando così un prima e un poi in quelle poesie. Fu una volata d’ingegno, dalla quale uscirono una storia intima del poeta e una classificazione delle poesie, secondo lo stato dell’animo e la qualità dei sentimenti. Ciò piacque molto; ma più tardi mi parve un romanzo e non ci pensai più». 31 M. Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1992, Premessa, p. 9. 32 F. De Sanctis, Saggio, cit., p. 83.

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est. Adde quod egritudinem gestibus imitari bene valentes possumus, verum pallorem simulare non possumus. Tibi pallor, tibi labor meus notus est; […]33.

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Più volte De Sanctis torna a ribadire l’idea. E quando gli capita di abbandonarsi a seguire la grande varietà di gradazioni, ondeggiamenti, sentimenti e di segnarne alcune “tappe” si ravvede e scrive con fermezza: Ma questa è tutta una storia artificiale, costruita da me, che ho innanzi un contenuto fatto immobile, come un dizionario, capace d’essere analizzato ed ordinato. Tutto questo c’è, ma senza genesi e senza connessione. Le impressioni esterne, l’umore, gli accidenti, circostanze casuali svegliano sentimenti, che prima d’esser maturi e produrre i loro frutti sono già sostituiti da altri sentimenti. Quello che nell’ordine logico è il poi, ha potuto ben nella vita esser il prima; sentimenti anteriori rinascono, spariscono; ripullulano sempre34.

Non è un caso che sulla bipartizione del Canzoniere, De Sanctis di fatto sorvola o, al più (ma in realtà secondo una felice intuizione), la considera una sana frattura, utile al sentimento: la morte di Laura finalmente «pose fine a quel va e vieni, a quella dispersione ed indecisione di forze»35; la morte di Laura gli ispira un dolore vero, pieno, “fecondo”, che lo affranca dalla sterile autocommiserazione: «Laura è morta, la natura muore con lei, ma quando è stata mai sì bella? Appunto perché gli sembra morta, ha un significato, una nuova vita estetica, nuove forme, fresca e giovane, come fosse rinata. La sensibilità del poeta, divenuta più squisita, lo rende facile alle impressioni e alle emozioni»36. Eppure lo studio di De Sanctis svela più di una di queste intuizioni, molto interessanti anche nel loro precorrere i tempi (soprattutto nelle analisi dei testi poetici del Canzoniere): basti pensare, ad esempio, alle pagine dedicate a Chiare, fresche e dolci acque, che sembrano già prefigurare la definizione «canzone dei feticci» di Agosti37: Gli oggetti son dati l’uno appresso all’altro, come un pane sminuzzato, analizzati finamente, sicché sono immediatamente accessibili all’intelligenza e all’im33 F. Petrarca, Familiarum Rerum Libri, II, 9, 18-20 in Id., Opere, a cura di M. Martelli, Milano, Sansoni, 1975, p. 329, che per il testo latino delle Familiari segue l’edizione critica curata da V. Rossi e U. Bosco per l’Edizione nazionale delle opere di Francesco Petrarca, Firenze, Sansoni, 1933-1942. 34 F. De Sanctis, Saggio, cit., p. 99. 35 Ivi, p. 191. 36 Ivi, p. 201. 37 Cfr. S. Agosti, Gli occhi e le chiome. Per una lettura psicoanalitica del Canzoniere di Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 39-45.

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maginazione, a cui giungono accompagnati da melodia soave […]. Commosso da una vista che gli sveglia tante memorie, l’amante, calda già l’immaginazione, entra in colloquio con la natura, chiama ad uno ad uno tutti quegli oggetti, a cui si lega una ricordanza di Laura, li decora dei più gentili ed affettuosi epiteti, e comunicando con loro le sue pene, le sente già raddolcire38.

Oppure la centralità data a immagini tombali, come per la presenza del cimitero immaginato a Valchiusa, quasi un nuovo personaggio sulla scena, una “invenzione” di grande fascino e fortuna europea (basti pensare al sepolcro di Laura delle Memorie dell’oltretomba di Chateaubriand, o alla vita di Petrarca del de Sade): «Scontento della vita, si finge delle gioie nel sepolcro. Uno de’ misteri della natura melanconica è questo intrattenersi deliziosamente nel cimitero, e dipingersi le dimostrazioni d’affetto che vi riceverà il suo frale»39. Al di là di questi momenti il Saggio desanctisiano è per lo più proteso ad abbattere il mito di Petrarca: le pagine si fanno via via più vicine a piccole scene, a piccoli bozzetti, quasi sempre dissacranti e alle volte anche derisori; quadretti che indugiano in una serie di particolari narrativi e in similitudini molto ad effetto: Certe frasi convenzionali, certi difetti abituali penetrano qua e là nelle migliori poesie. Il Petrarca è un po’ come un uomo che per lunga usanza sta con la pipa in bocca anche nel punto che per vera commozione versa lagrime; o, per trovare un paragone meno indegno di lui, è come un critico disposto dal mestiere ad analizzare le sue impressioni quasi nel punto stesso che le riceve. Quei sentimenti egli è disposto a trasportarli nel regno dell’immaginazione, di attore trasformatosi facilmente in poeta. Ed ha la forza di porseli a distanza, di osservarli con una curiosità di artista, di ammirarli e di descriverli40.

Oppure: Poiché nella sua vita amorosa non c’è mai un io voglio, la situazione in fondo in fondo ha del comico, appena dissimulato. Questa irresolutezza è per lo più seria, perché genera strazio e ansietà; ma, quando il poeta l’esprime nella sua semplicità direttamente, il comico ne scoppia suo malgrado. In un sonetto racconta d’un suo incontro con Laura, la quale sembratagli più umana dell’usato,

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F. De Sanctis, Saggio, cit., p. 183. Ivi, p. 185. Per questo tema mi permetto di rinviare al mio Valchiusa locus locorum, in Spazi, geografie, testi, a cura di S. Sgavicchia, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 9-29. 40 Ivi, p. 101. 39

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si fece animo a volerle dichiarare la sua fiamma. [...]41. È una ironia che senz’accorgersene fa di se stesso. Supponete un timido adolescente, che innanzi alla sua diva sta goffo, ed apre la bocca e resta con la bocca aperta; l’imbroglio, che il volere e non osare dipinge sulla sua fisionomia, produce un riso involontario. Un uomo di spirito con un mezzo riso di falso compatimento potrebbe dirgli: – Poveretto! avevi tanto a dirle, che non hai osato cominciare42.

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Ancora qualche riga più avanti: Il Petrarca rassomiglia ad un povero diavolo, che, fattane una grossa, si ritira a casa, e si sfoga in veste da camera, e se la piglia con la testa: – E che testa di zucca che ho io! –. Va errando per la selva Ardenna, e col pensiero a Laura gli parea di veder non pur lei, ma con essa insieme le sue amiche. Niente di più poetico che questo gioco d’immaginazione. Un lettore prosaico potrebbe riflettere: – Forse erano alberi, e li prendea per donne –; e la situazione caduta nella realtà diviene ridicola per il contrasto subitaneo fra il parere e l’essere: – Parevano donne, ed erano alberi –. Ma il bello è che il Petrarca racconta la sua avventura in modo da metter proprio in rilievo questo contrasto, ed eccitare senza volerlo un riso irresistibile [...]43. «O pensier miei non saggi!», dice il poeta, disposto a rider di se stesso. Ma il comico è ben lontano dall’intenzione del Petrarca, il quale anzi tende al serio, e fino al tragico: ci capita per sorpresa. Il più delle volte è un po’ nel caso di Amleto. Riflette troppo: tutto il movimento è nel suo cervello; al di fuori le cose rimangono nello stesso modo. Senza un punto fermo intorno a cui moversi, in opposizione con se stesso, palleggiato dalle impressioni, la riflessione viene, après coup, a scusa e spiegazione, onde nasce una specie di sofistica dell’amore.

Nel passaggio dal Saggio critico sul Petrarca al capitolo, molto breve, peraltro, della Storia della letteratura italiana dedicato a Petrarca abbiamo già avuto modo di notare che non cambia la sostanza del giudizio di De Sanctis. Per di più tra le opere (tra la rielaborazione del corso zurighese e la

41 Il sonetto è il 117 per De Sanctis ma 169 dei Rvf, Pien d’un vago penser che me desvia, e i versi citati l’ultima terzina «Allor raccolgo l’alma, et poi ch’i’ aggio / Di scovrirle il mio mal preso consiglio, / Tanto le ho a dir che ‘ncominciar non oso». 42 F. De Sanctis, Saggio, cit., p. 118. 43 Ivi, p. 119. Il sonetto è il 176 dei Rvf Per mezz’i boschi inhospiti et selvaggi e i versi “incriminati” la seconda quartina «et vo cantando (o penser’ miei non saggi!) / lei che ‘l ciel non poria lontana farme, / ch’i’ l’ò negli occhi, et veder seco parme / donne et donzelle, et sono abeti et faggi».

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stesura della Storia44) intercorre appena un anno e dunque, di fatto, sono coeve. C’è da sottolineare che nella Storia compare, oltre al consueto paragone con Dante, quello con Santa Caterina che è invece del tutto assente nel Saggio. Probabilmente proprio per quel desiderio di fare “racconto”, di creare scene come quella di un ipotetico incontro tra i due ad Avignone, di connettere fili e intrecciarli, oppure per rendere meno monotona la descrizione della malinconia petrarchesca e per accentuarne i tratti poco virili: La malinconia è la musa cristiana, è il male di Dante e de’ più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno è già di un’altra natura e accenna a tempi nuovi. La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo, che poneva il fine della vita in un di là della vita che è la base della Divina Commedia […]. Non che profondarsi nel reale, e cercare di assimilarselo, l’anima tende a separarsene, e vivere in ispirito o in immaginazione, fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza all’ascetismo, alla solitudine, all’estasi e al misticismo. Questa era la malinconia di Caterina, quando dicea: Muoio e non posso morire. La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch’egli cerca di fabbricarsi ombre e simulacri di Laura, anch’egli cerca l’obblio e il riposo ne’ sogni dell’immaginazione. Quando la santa e il poeta s’incontrarono in Avignone, dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito […]. La malinconia di Caterina è l’impazienza del morire, di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura, la vita terrena, malinconia piena di forza e di speranza, che si scioglie nell’azione. La malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza, e della sua impotenza a conciliarla […]45.

La fonte di questo curioso accostamento potrebbe anche essere il Tommaseo che nell’“Introduzione” alle Lettere di Caterina del 1860 nel paragrafo intitolato Caterina autore, scriveva: [...] E se uno straniero anteponeva Caterina al Petrarca, io oserei scusare l’ardito giudizio, inquantoché meno stillato per l’ingegno, e più libero, da lei sgorga l’affetto; né i concetti lo freddano, sebbene l’ingegno a farsene artefice non le manchi. Lasciamo stare che, anche filosoficamente e civilmente parlando, l’a-

44 Per la genesi e la stesura della Storia si veda R. Mordenti, Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, in Letteratura Italiana. Le Opere, vol. III. Dall’Ottocento al Novecento, Torino, Einaudi, 1995, pp. 573-600. 45 F. De Sanctis, Storia, cit., pp. 259-61.

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mare Dio e tutta l’umanità, e l’universo, e il compiangere tutti i mali della terra, e l’offrirsi ostia di propiziazione per tutti, è più grande amore e dolore, che piangere delle ritrosie e brillare de’ sorrisi di Madama De Sade. Se non era la corte del papa in Avignone, il Petrarca non si sarebbe invescato nella grazie di cotesta signora, avrebbe scritte più canzoni all’Italia, e forse più virilmente operato per essa. Avignone e la corte del papa ci ha sottratti i tesori d’un ingegno e d’un ‘anima eletta: e Caterina, nata in Toscana e dimorante in Avignone, non avrà certamente ignorate le rime sparse del canonico amorosetto e compiantene nel maschio suo senno le vane speranze e il dolore vano46.

Petrarca è presente dunque in tutta l’opera di De Sanctis come esempio da non seguire: come intellettuale (il paragone con Dante finiva sempre per risolversi negativamente per Petrarca), come uomo (gli manca l’energia della lotta che è in Dante) e come poeta si perde nella fatuità dei giochi formali. E se anche volessimo fare la parte dei critici psicologici (proprio da De Sanctis tanto aborriti) e cercassimo nell’epistolario un cedimento, un uso del Petrarca poeta impiegato come modello del discorso d’amore, un uso del suo lessico, anche nelle lettere più intime, quelle dell’amore non corrisposto nei confronti di Teresa De Amicis; o quelle in cui Petrarca potrebbe entrare in un “canone”, in una rosa delle letture consigliate, come in quelle a Virginia Basco; al di là di qualche rapido e distratto accenno, non troveremmo molto47. A Virginia, novella sposa, scrive di leggere L’amour di Jules Michelet, il trattato pubblicato nel 1858 (un anno dopo Madame Bovary e Les fleurs du mal) che fece scandalo per una esaltazione eccessiva, quasi “morbosa” dell’amore coniugale, della monogamia indissolubile portata fino alla morte e oltre, con descrizioni a tinte forti della più intima fisiologia femminile. Baudelaire lo definì «ripugnante», e Barbey d’Aurevilly «pericoloso»: Leggo in questo momento un grazioso libro di Michelet, intitolato L’Amore. Cerca di acquistarlo, perché corrisponde alla tua nuova condizione, e ti farà pas46 N. Tommaseo, Lo spirito, il cuore, la parola di Caterina da Siena (1860), Roma, Edizioni Logos, 1979, pp. 123-24. 47 I suggerimenti riguardano i classici “morali” come Plutarco, oppure i ritratti femminili più compiuti, la Silvia di Leopardi, la Cecilia di Manzoni, Olimpia abbandonata di Ariosto, ecc. e «qualcuno de’ sonetti del Petrarca» da De Sanctis stesso annotati, ma, soprattutto il teatro, vedi F. Cacciapuoti, «Dunque scrivi», “Introduzione” a F. De Sanctis, Lezioni di scrittura, cit., pp. VII-XXIV. All’amico di sempre, al De Meis, confessava forse la più intima delle preoccupazioni, in cui è probabile che lo spettro petrarchesco può aver agito, e cioè che invece di un amore vero potesse trattarsi di una fascinazione, di una idealizzazione della giovane verso il Professore: «Se io non fossi per lei che una semplice figura poetica?», cfr. A. Croce, Prefazione a F. De Sanctis, Lettere a Teresa 1856-1857, a cura di A. Croce, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. XI-XII.

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sare de’ momenti felici. È la donna, messa su di un piedistallo, formato dall’uomo. Ci sentirai dentro fremere le arcane gioie del matrimonio48.

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Ma il ritratto di Petrarca uscito dalla penna del romanziere De Sanctis (si ricordi che si è sempre parlato di una fortunata definizione di Debenedetti della Storia come “romanzo” 49), se avrà la sua fortuna in campo storiografico e propriamente critico, contribuendo notevolmente a esaltare gli aspetti negativi della decadenza degli italiani (basti citare uno dei famigerati “ritorni” al De Sanctis, quello sulla questione del “realismo” del secondo dopoguerra50), dall’altra proprio per le sue qualità narrative, emergerà in luoghi più inattesi. Ad esempio, come ha mostrato con la consueta, elegante, arguzia Gennaro Savarese, in uno scrittore come Svevo, nel quale ha rintracciato e “svelato” alcune insospettate presenze proprio del Saggio critico sul Petrarca del De Sanctis51.

48 F. De Sanctis, Epistolario, cit., vol. XIX p. 527, a Virginia Basco Riccardi di Lantosca - Torino, da Zurigo, 27 dicembre 1858. 49 G. Debenedetti, Commemorazione del De Sanctis (1934), in Id., Saggi critici, Nuova serie, Roma, Edizioni del Secolo, 1945, pp. 1-23 (ma si veda la recente ricostruzione della questione di M. Panetta, Se la Storia possa definirsi romanzo in Paradigmi e tradizioni, a cura di A. Quondam, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 97-111. Si veda anche quanto scriveva C. Dionisotti, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 33: «E l’opera da lui composta in poco più di due anni, con furore di poesia valse a dare quel che nessuna raccolta di saggi poteva e poté dare: la rappresentazione coerente e drammatica di una letteratura viva nella vita di una comunità umana attraverso i secoli, chiusa, come gli uomini che la creano, nello spazio e nel tempo, ma retaggio di quegli uomini alle generazioni successive e lontane, parte, come risultato e precedente insieme di uno sforzo concorde di una continua comunicazione del presente col passato e l’avvenire […]»; C. Muscetta parlava di «un grande dramma» (C. Muscetta, Orazione conclusiva, in Francesco De Sanctis. Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Atti del Convegno Internazionale, Napoli, Firenze, Roma, 13-17 settembre 1984, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 686) e cfr. R. Mordenti, Storia della letteratura italiana, cit., p. 609: «Piuttosto che procedere linearmente per successioni e serialità, la scrittura della Storia vive di un continuo ed organico “va e vieni”, di un ininterrotto gioco di anticipazioni, variazioni, riprese e ritorni»; e gli Interventi di M. Palumbo e G. Ferroni in Atti del III Seminario di studi desanctisiani: “La storiografia letteraria di Francesco De Sanctis: pathos della scrittura e tecniche di attualizzazione”, a cura di M. Marandino, in Francesco De Sanctis, il critico, l’uomo, il politico, Atti dei seminari di studi desanctisiani, Parco Letterario Francesco De Sanctis, Avellino, Cresm Campania, 2001, pp. 211-38, ed. f.c. 50 Sulla fortuna del modello storiografico si veda S. Romagnoli, Francesco De Sanctis, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1964, vol. II, pp. 487-537. 51 Cfr. G. Savarese, Svevo, Saba e De Sanctis, in «grammata. Rivista-Annuario dell’Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Francesco De Sanctis”», S. Angelo dei Lombardi. Atti del Seminario di Studi Desanctisiani (18 ottobre 2002), n. 5, dicembre 2003, pp. 283-300.

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D’altra parte allo scrittore irpino il triestino Svevo (che indicava l’autore della Storia come colui che l’aveva indirizzato verso gli autori che erano rimasti modelli importanti della sua formazione umana e letteraria52 e che aveva colto – tra i primi – il paradosso di chi «pure avendo detto impossibile il fare una storia della letteratura italiana al punto in cui ci troviamo con i nostri studi, la fece senza attendere che quelli avanzassero [...]»53), aveva riconosciuto ufficialmente, in una lettera a Montale del 10 marzo 1926, una capacità esemplare: «[...] Lessi, prima di consegnarglielo il Suo articolo su Benco. Mi piacque enormente e confido piacerà anche a lui stesso. È nitido di quella nitidezza del nostro De Sanctis quando trapiantava un uomo intero nelle proprie parole»54. E una punta estrema del Petrarca «trapiantato» nelle parole di Francesco De Sanctis, un petrarchismo corroso dall’ironia sveviana, quasi un ribaltamento parodistico, è quello che si ripesca, ad esempio, in alcune pagine della Coscienza di Zeno. Non sarebbe piaciuto a Petrarca l’accostamento e la citazione “ludica” che segue, ma sarebbe piaciuto a De Sanctis di ritrovarsi, in controluce, in una tramatura sveviana come quella individuata da Gennaro Savarese. Nel capitolo sesto di La coscienza di Zeno, «La moglie e l’amante», in una delle pagine più belle del romanzo, Svevo scrive: Ma la paura d’invecchiare non mi lasciò più, sempre per la paura di consegnare ad altri mia moglie. Non s’attenuò la paura quando la tradii e non s’accrebbe neppure per il pensiero di perdere nello stesso modo l’amante. Era tutt’altra cosa, che non aveva niente a che fare con l’altra. Quando la paura di morire m’assillava, mi rivolgevo ad Augusta per averne conforto come quei bambini che porgono al bacio della mamma la manina ferita. Essa trovava sempre delle nuove parole per confortarmi. In viaggio di nozze m’attribuiva ancora trent’anni di gioventù ed oggidí altrettanti. Io invece sapevo che già le settimane di gioia del viaggio di nozze m’avevano sensibilmente accostato alle smorfie orribili dell’agonia. Augusta poteva dire quello che voleva, il conto era presto fatto: ogni settimana io mi vi accostavo di una settimana.

52 Si veda ivi, p. 284. Savarese riporta questo passo dal Profilo autobiografico: «Si trattava finalmente di conquistarsi un po’ di cultura italiana. Per vari anni passò quelle ore con Machiavelli, Guicciardini e Boccaccio. Poi fu introdotto nei suoi studii un qualche ordine dalla conoscenza delle opere di Francesco De Sanctis». 53 Ivi, p. 286 a proposito del saggio Settembrini e i suoi critici apparso sulla «Nuova Antologia» nel marzo 1869. 54 Ivi, p. 284.

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Quando m’accorsi di esser colto troppo spesso dallo stesso dolore, evitai di stancarla col dirle sempre le stesse cose e, per avvertirla del mio bisogno di conforto, bastò mormorassi: «Povero Cosini!» Ella sapeva allora esattamente cosa mi turbava e accorreva a coprirmi del suo grande affetto. Così riuscii ad avere il suo conforto anche quand’ebbi tutt’altri dolori. Un giorno, ammalato dal dolore di averla tradita, mormorai per svista: «Povero Cosini!» Ne ebbi gran vantaggio perché anche allora il suo conforto mi fu prezioso55.

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In un passo del Saggio critico sul Petrarca nel quale De Sanctis era intento, come sempre, a caratterizzare la «situazione» della malinconia petrarchesca, abbiamo appunto: Il carattere delle fantasie del Petrarca è una malinconia piena di grazia. Nella sua anima gentile non entra mai amarezza, rancore, niente di basso o di cupo. Le sue fantasie sono sfogo d’animo troppo pieno, che allevia e scioglie quel non so che di grave e d’amaro che il dolore vi condensa. Fantasticando, il poeta raddolcisce ed infiora la sua pena. Ha bisogno d’esser consolato, accarezzato, d’una realtà che gli rida, lo compatisca, di sentirsi dire: – Povero Petrarca!56.

55 I. Svevo, Romanzi, a cura di M. Lavagetto, con la collaborazione di F. Amigoni, N. Palmieri e A. Stara, Torino, Einaudi-Gallimard, 1993, p. 652. 56 F. De Sanctis, Saggio, cit., pp. 170-71. Sulle alterne vicende della “fortuna” ottocentesca di Petrarca nell’ottica della identità nazionale desanctisiana, si vedano ora le pagine di A. Quondam, Petrarca, l’italiano dimenticato, Milano, Rizzoli, 2004, in particolare pp. 229-72.

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IL PETRARCA DI CARDUCCI. CRONISTORIA DI UN COMMENTO SCOLASTICO

Bisognava darmi retta: pigliare un classico, annotarlo, vestirlo, spogliarlo, fargli dir bianco quando diceva nero e viceversa, eppoi presentarlo, tutto infronzolito della tua erudizione, al colto pubblico, col tuo bel nome stampatello, tutto fregi e svolazzi. Che bellezza! Ti avrebbero fatto cavaliere, saresti stato nominato ispettore di qualche cosa, e ora ti godresti il papato tranquillamente, in barba a chi ti vuol male1.

Il sarcasmo di Ida Baccini ben sintetizza il vivace movimento di torchi e inchiostri che animò l’editoria italiana postunitaria nel settore dei classici della letteratura commentati, in particolare di quelli destinati all’uso scolastico. Un settore il cui fermento può essere paragonato a quello di un altro ambito che ad esso procedeva parallelo, ovvero quello ministeriale, il mondo delle abilitazioni, delle patenti e delle cattedre, dei trasferimenti, dei posti vacanti e dei titoli, dei presidi, degli ispettori e dei provveditori, delle migrazioni di cervelli fra biblioteche, istituti d’istruzione secondaria e università. Anche la fortuna e la popolarità secondo-ottocentesche del Canzoniere di Francesco Petrarca, come quelle di altri classici della nostra tradizione letteraria, sono in gran parte affidate a uomini che vivono all’interno di queste Nelle note si fa uso delle seguenti sigle: LEN: Edizione nazionale delle opere di Giosue Carducci. Lettere, Bologna, Zanichelli, 1938-1968, 22 voll. OEN: Edizione nazionale delle opere di Giosue Carducci, Bologna, Zanichelli, 19351940, 30 voll. 1 I. Baccini, Gli amici di Giobbe, in Ead., La mia vita, Milano 1904, p. 234 n.

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dinamiche e che lavorano (chi affrontando infiniti facchinaggi filologici, chi limitandosi a scopiazzare il lavoro d’altri) per eliminarne o aggirarne gli ostacoli. Non è un caso che qualcuno abbia parlato, per questi anni cruciali nella storia dell’editoria e della scuola italiane, di «guerra dei manuali»2. I primi nomi che incontriamo nei cataloghi dello scolastico affiancati al Canzoniere di Petrarca sono quello di Giuseppe Finzi per la «Biblioteca italiana ordinata per le scuole normali e secondarie» dell’editore Paravia (1885); Camillo Antona Traversi per Carrara di Milano (1889); Lorenzo Mascetta per Carabba (1895); Mario Foresi per Salani; Giovanni Francesia per la castigata Tipografia e Libreria Salesiana nella «Biblioteca della gioventù italiana» (1892); Giuseppe Rigutini per Hoepli (1896); Andrea Moschetti per la «Biblioteca dei classici italiani annotati» di Francesco Vallardi (1908)3. Al centro di questo sistema la personalità di Giosue Carducci rappresenta un vero prototipo. Ma non vorrei confinare l’attività del poeta-professore, tanto meno quella del Carducci esegeta di Petrarca, nei grigi magheggi ministerial-editoriali che pure sono stati all’origine di numerose imprese d’alto livello. Al contrario, la straordinaria avventura petrarchesca di Carducci sem2 M. Raicich, Introduzione, in Id., Di grammatica in retorica. Lingua scuola editoria nella Terza Italia, Roma, Archivio Guido Izzi, 1996, p. XXII. 3 Rime scelte di Francesco Petrarca con note di Giuseppe Finzi, Torino, G. B. Paravia, 1885; F. Petrarca, Il Canzoniere con commento e note di Camillo Antona Traversi e Giovanni Zannoni, illustrato dal cav. N. Sanesi con 47 incisioni, Milano, Paolo Carrara, [1889]; Rime di Francesco Petrarca e d’altri del Trecento scelte ed annotate dal sac. Dott. Giovanni Francesia, Torino, Tipografia e libreria salesiana, 1892 (6a ed.); Il Canzoniere di Francesco Petrarca cronologicamente riordinato da Lorenzo Mascetta con illustrazioni storiche e un comento novissimo per cura del medesimo, Lanciano, Rocco Carabba, 1895; Le Rime di Francesco Petrarca con note dichiarative e filologiche di Giuseppe Rigutini, Milano, Ulrico Hoepli, 1896; Le Rime di Francesco Petrarca voltate in prosa col testo a fronte da Mario Foresi, Firenze, Adriano Salani, [1904]; F. Petrarca, Il Canzoniere e i Trionfi con introduzione, notizie bio-bibliografiche e commenti di Andrea Moschetti, Milano, Francesco Vallardi, 1908. Cfr. pure le seguenti altre edizioni scolastiche: Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi e con note di Eugenio Camerini, Milano, Sonzogno, 1876; Le Rime di Francesco Petrarca. Con prefazione di G. Stiavelli e con note di Leopardi, Ambrosoli, Camerini, Carducci ed altri, Roma, E. Perino, 1888; Antologia Petrarchesca. Sonetti, canzoni e luoghi dei Trionfi scelti dal canzoniere di Francesco Petrarca con note, commenti e prefazione di Guido Falorsi, Firenze, Bemporad, 1891; Rime del Petrarca scelte e commentate da Nicola Scarano, Livorno, Raffaello Giusti, 1908 («Biblioteca di classici italiani commentati per le scuole»); Il Canzoniere di Francesco Petrarca secondo l’Autografo con le note di G. Rigutini rifuse e accresciute per le scuole da M. Scherillo, Milano, Hoepli, 1908.

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

bra vivere in un mondo a parte, dove il commentatore si lascia sfuggire molte occasioni per fare commercio del suo Petrarca. Arriverà in ritardo per il centenario del 1874, troppo presto per quello del 1903. Non ci stupiscono queste sfasature se riflettiamo sul fatto che del suo altro grande amore letterario dopo Petrarca, di quell’Orazio che chiamerà «il mio santo padre»4, Carducci non riuscì mai a dare alle stampe un’edizione. Eppure vi lavorò tutta la vita, proprio come accadde per Petrarca. E anche di fronte alla storia della sua edizione del Canzoniere rimane al lettore la sensazione di avere a che fare con qualcosa di incompiuto, che procede a singhiozzo per decenni e che, anche quando finalmente giunge in porto con l’aiuto di Severino Ferrari, già c’è luce di tramonto attorno al Carducci, oramai vecchio e stanco per godere di glorie condivise, ancorché con il suo adoratissimo Biancofiore5. Fra l’altro Giovanni Mestica (per gli stessi torchi di Barbèra sui quali un tempo Carducci aveva dettato legge) lo ha battuto sul tempo con la sua monumentale edizione critica, così corre voce che stia per fare il Salvo Cozzo, mentre le edizioni diplomatica e fototipica del Modigliani e del Vattasso sono alle porte6. Insomma negli ultimi due decenni dell’Ottocento molti sollevano polvere attorno al Canzoniere mentre Carducci, che di fatto vi lavora da sempre, ha all’attivo solo un saggio di commento di una trentina di componimenti, qualche corso universitario, una memorabile commemorazione pronunciata ad Arquà il 18 luglio 18747. Il suo commento è pertanto attesissimo, improrogabile e urgente. Ma procediamo con ordine nel ricostruire le tappe di questo amore petrarchesco. 4

Lettera di Carducci a Lidia, Bologna 23 giugno 1874, LEN IX, p. 135. Sull’origine di questo soprannome di Severino Ferrari, cfr. Lettere di Severino Ferrari a Giosue Carducci, a cura di Dante Manetti, Bologna, Zanichelli, 1933, pp. XXXIIIXXXVI. 6 Le Rime di Francesco Petrarca restituite nell’ordine e nella lezione del testo originario sugli autografi col sussidio di altri codici e di stampe e corredate di varianti e note da Giovanni Mestica. Edizione critica, Firenze, G. Barbèra, 1896; Le Rime di Francesco Petrarca secondo la revisione ultima del poeta a cura di Giuseppe Salvo Cozzo. Con un ritratto e una tavola in fototipia, Firenze, G. C. Sansoni, 1904 («Biblioteca di opere inedite o rare di ogni secolo della letteratura italiana»); E. Modigliani, Il Canzoniere di Francesco Petrarca riprodotto letteralmente dal Cod. Vaticano Lat. 3195, Roma, Società filologica romana, 1904; M. Vattasso, L’originale del Canzoniere di Francesco Petrarca, Codice Vaticano 3195, riprodotto in fototipia, Milano, Hoepli, 1905. 7 Cfr. Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici, morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo col raffronto dei migliori testi e di tutti i commenti a cura di G. Carducci, Livorno, Vigo, 1876. Per i corsi universitari e le commemorazioni petrarchesche cfr. OEN XI, Petrarca e Boccaccio. 5

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Tutto era iniziato nel 1855, con il primo libro di Carducci normalista, una antologia della lirica italiana, l’Arpa del popolo, da distribuirsi in allegato alle «Letture di famiglia», rivista filantropico-pedagogica diretta a Firenze da Pietro Thouar8. In quel primo libro Petrarca è l’autore presente con il maggior numero di componimenti. Di poco posteriore è la scelta di Liriche italiane, pubblicate, assieme agli ‘amici pedanti’ Ottaviano Targioni Tozzetti e Giuseppe Torquato Gargani, nello stesso luogo e con lo stesso metodo, destinate alle giovinette italiane. Nel commento, i tre giovani compilatori si rifacevano a quello che era già un classico dell’esegesi petrarchesca, l’edizione Stella di Giacomo Leopardi: «abbiamo intieramente seguito il sistema adottato da Giacomo Leopardi nella pregevolissima sua interpretazione alle rime del Petrarca»9. Tuttavia da queste poche Liriche italiane, Petrarca è escluso, anche se una nota biografica in calce alla canzone Ad Angelo Mai recita: «Fu scrittore di prose latine e di poesie italiane e latine […]. Fu parlatore leggiadro e abbondante. Ebbe bella persona e piacevole aspetto; bianchi i capelli fin dalla giovinezza; vivo il colore infra il bianco e il bruno; gli occhi vivaci e la vista per lungo tempo acutissima; molto fu ricercato nel vestire»10. Un ritratto veramente ad uso esclusivo di vezzose fanciulle di buona famiglia. Per quanto succinto, possiamo considerare questo come il primo capitolo dell’attività esegetica di Carducci attorno al Petrarca. Il capitolo successivo sarà datato 1876, anno dell’edizione livornese di Vigo, il terzo ed ultimo uscirà nel 1899, anno del commento sansoniano Carducci-Ferrari11. Siamo dunque di fronte ad un impegno ultra quarantennale. In verità, come già è stato ricostruito da Roberto Tissoni, le prime trattative con l’editore Barbèra per un’edizione commentata del Canzoniere risalgono al 186012. Carducci ha appena 25 anni. Con varie interruzioni questo

8 L’arpa del popolo. Scelta di poesie religiose, morali e patriottiche cavate dai nostri autori e accomodate all’intelligenza del popolo con annotazioni di G. Carducci, Firenze, Tip. Galileiana di M. Cellini, 1855. 9 Ai lettori i dottori Ottaviano Targioni Tozzetti, Giosue Carducci e G. T. Gargani, in «Appendice alle Letture di famiglia», II, 1855-1856, 7, p. 407. 10 Liriche italiane, ivi, 12, pp. 731-32. 11 Le Rime di Francesco Petrarca di su gli originali commentate da Giosue Carducci e Severino Ferrari, Firenze, Sansoni, 1899 («Biblioteca scolastica di classici italiani» diretta da G. Carducci). 12 Cfr. R. Tissoni, Carducci umanista: l’arte del commento, in Carducci e la letteratura italiana. Studi per il centocinquantenario della nascita di Giosue Carducci. Atti del Convegno (Bologna, 11-13 ottobre 1985), a cura di M. Saccenti, Padova, Antenore, 1988, pp. 47-113; R. Tissoni, Il commento ai classici italiani nel Sette e nell’Ottocento (Dante e Petrarca), Padova, Antenore, 1993.

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

primo progetto andrà avanti fino al 1870. Nel frattempo Carducci cura per la gloriosa collezione «Diamante» di Barbèra, le edizioni di Salvator Rosa, Gabriele Rossetti, Cino, Monti, Poliziano, Lucrezio, Frescobaldi, quella dei Poeti erotici; Petrarca è sempre sul suo scrittoio, ma è un pensiero quotidiano che non decolla, un amore che resta privato, silenzioso. A nulla valgono le sollecitazioni e le minacce di Pietro Barbèra; Carducci protegge con veemenza il suo appannaggio sul poeta di Arquà, ma non lo congeda da sé: «ogni edizione del Petrarca che uscirà dai tipi del Barbèra sarà da me polverizzata»13. Le divergenze con l’editore fiorentino riguardavano proprio il commento. Evidentemente Barbèra aveva in programma un testo rapido, senza note, tutt’al più con brevi chiarimenti desunti da altri commentatori di successo; Carducci, al contrario, ha già in mente quell’organismo articolato di note filologiche, esegetiche, linguistiche, estetiche e di “riscontri”, basato a sua volta su numerosi commenti antichi e contemporanei. Un’edizione del testo petrarchesco che sia anche un’edizione dei commenti. Un libro scolastico sì, ma assai sofisticato, un lavoro complesso e ingombrante, anche tipograficamente, che a Barbèra evidentemente sembra poco economico e difficilmente smerciabile: […] l’affar del Petrarca mi aveva messo di mal umore, cosa a cui da qualche anno vado soggetto facilmente e furiosamente: […] Ma, come vuol Lei, io non lo voglio fare:[…] è un lavoro affatto inutile, simile a quei tanti che riempiono fastidiosi e inopportuni i cataloghi librari italiani. Si assicuri, signor Barbèra: il Petrarca intero non è libro per le scuole e forse né meno pei giovani: per le quali e pei quali basta a ogni modo il comento del Leopardi, che per chiarezza e sicurezza anche d’interpretazione è inarrivabile; né io sono tanto sfacciato imbrattacarte da osar di metter le mani in un lavoro del Leopardi. Dunque un lavoro nuovo, raccolto il meglio dei lavori varii, con qualcosa di più; […] Ma, se Ella stampa un de’ soliti Petrarchini fatti al solito modo dalla solita gente, io da buono italiano farò il maggior male possibile alla Sua edizione, screditandola con la critica, e stampando a conto mio una scelta delle cose del Petrarca per le scuole dei ginnasi e dei licei e pei giovani col comento a modo mio. E vedremo14.

Non solo non se ne sarebbe fatto nulla ma entrambi, Barbèra e Carducci, avrebbero fatto a modo loro, il poeta con l’editore Vigo di Livorno, Barbèra (anche lui realizzando la sua ambizione di editore colto) con l’intervento di

13 14

Lettera di Carducci a Pietro Dazzi, Bologna 2 dicembre 1866, LEN V, p. 49. Lettera di Carducci a Gaspero Barbèra, Bologna 21 maggio 1867, LEN V, pp. 115-16.

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Domenico Carbone che per i suoi tipi farà un nuovo impasto del commento leopardiano con l’aggiunta delle osservazioni inedite di Francesco Ambrosoli15. Certo è che Carducci dedicò gran parte dei suoi primi corsi universitari bolognesi a Petrarca, a cominciare da quello dell’anno accademico 1861-’62 con le splendide pagine sull’educazione paterna del poeta, mettendo in atto quella pratica viva del commento che caratterizzava le sue lezioni e che egli sognò di trasferire a piè pagina nel Canzoniere. Le fonti epistolari ci confermano un nesso strettissimo fra preparazione delle lezioni e commento (un circuito che trasporta l’informazione dall’appunto scritto del professore, attraverso l’oralità accademica, all’appunto scritto dello studente che a sua volta la restituirà all’oralità nell’esame finale), laddove quest’ultimo esprimeva la sintesi suprema della funzione insegnante, lo strumento principale e privilegiato per veicolare il rapporto fra maestro e allievo: «Il lavoro del Petrarca va avanti, e me ne occupo anche nelle lezioni: così maturo meglio la cosa»16. Di lezione in lezione, di componimento in componimento, cresce in Carducci quell’abitudine a stabilire un rapporto saldo fra la vita e la poesia di Petrarca, oltre all’attenzione vivissima sulla figura reale di Laura, alla quale un giorno penserà di dedicare un libro17. Carducci legge il Canzoniere come un romanzo, «la storia di un’anima e di un affetto»18 e vuole che il suo commento favorisca tale prospettiva: «farò del canzoniere una distribuzione per brevi parti, desumendola dalla vita del poeta, e riordinerò cronologicamente i componimenti, in modo che a leggerlo riuscirà il canzoniere e più chiaro e meno monotono e acquisterà una certa allettativa tra di romanzo psicologico e di storia»19. È questa una delle ragioni fondamentali per cui nell’edizione Carducci-Ferrari verrà conservata la bipartizione in vita e in morte di Laura. Sono i mesi fra 1867 e 1868, la fede repubblicana costa a Carducci, insieme ai colleghi Ceneri e Piazza, la sospensione per due mesi dall’insegnamento, con la minaccia ministeriale di un trasferimento all’Università di

15 Rime di Francesco Petrarca con l’interpretazione di Giacomo Leopardi e con note inedite di Francesco Ambrosoli, Firenze, Barbèra, 1870 («Nuova collezione scolastica secondo i programmi del Ministero della Pubblica Istruzione»). 16 Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 29 gennaio 1868, LEN V, p. 192. 17 Cfr. lettera di C. a F. Vigo, Bologna 21 ottobre 1874, LEN IX, pp. 226-27. 18 Lettera di C. a I. Del Lungo, Bologna 16 dicembre 1868, LEN V, p. 302. 19 Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 29 gennaio 1868, LEN V, p. 192.

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

Napoli. Il commento a Petrarca è un rifugio da quei tafferugli: «Io non so a chi possa far paura un uomo che a questi giorni comenta il Petrarca»20. La storia del commento va così sempre più intrecciandosi alle vicende pubbliche e private della vita di Carducci. Più passa il tempo, più quel lavoro si avvinghia alle sue giornate, alle sue ore nei freddi inverni bolognesi, tanto che sembra oramai difficile staccarsene, concluderlo, cederlo all’editore, al pubblico. La ricerca delle fonti è febbrile, non tanto per quanto riguarda la lezione del testo, quanto soprattutto per radunare il maggior numero di voci che nel passato abbiano chiosato il Canzoniere. A questo proposito Carducci mostra anche una visione chiara dei suoi destinatari, delle diverse tipologie di lettori cui può rivolgersi il libro, donde un diversificato comportamento tipografico: «Ma forse era meglio le varianti metterle in carattere anche più minuscolo in un ordine di note da sé: perché molti che leggono volentieri i comenti si annoiano con le varianti, e non c’intendono nulla; altri cercano soltanto quelle»21. Del resto ha in mente un «lavoro da tedesco»22 e non teme concorrenza, neanche quella di Francesco De Sanctis il cui Saggio, non ancora in libreria, già fa parlare di sé23; e Carducci, che poi nel suo commento non potrà fare a meno di lasciare la parola spessissimo (e con frequenti lodi) al «critico napolitano-francese», per ora lo liquida come «lavoro di fantasia»24. Alle biblioteche fiorentine (dove gli fanno da schiavi Carlo Gargiolli e Pietro Dazzi) chiede in prestito libri preziossimi che ha il privilegio di trattenere in casa per mesi e quando dal Ministero arrivano proteste e timidi ‘no’, Carducci ribadisce l’importanza del suo lavoro e quasi minaccia: Non insisterei questa volta, se non si trattasse che, dal mancarmi quei libri non possibili a trovare altrove, mancherebbe al mio lavoro, che fo specialmente per le Scuole Italiane, un po’ di quella esattezza scrupolosa che in sì fatte cose richiedesi […] chiedo all’E.V. il permesso di dire in certi luoghi del mio comento la ragione perché non ho potuto profittare di certi libri25.

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Ivi, p. 194. Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 29 gennaio 1869, LEN VI, p. 20. 22 Lettera di C. a G. Chiarini, Bologna 5 giugno 1868, LEN V, p. 228. 23 F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, Napoli, Morano, 1869. 24 Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 4 giugno 1868, LEN V, p. 225. 25 Lettera di C. al Ministro della Pubblica Istruzione E. Broglio, 8 agosto 1868, LEN V, pp. 242-43. 21

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Finalmente, a fine ’68, si comincia a stampare; le cose sembra vadano a gonfie vele tanto che il commentatore già pensa alla resa tipografica dell’«effigie della lingua antica» e si preoccupa di accenti e apostrofi con la certezza che il suo sarà «un Petrarca definitivo; un’edizione che deve essere un modello del come debbono esser fatte le edizioni de’ grandi classici italiani, quando son fatte non da ciarlatani né da arruffoni né da guastamestieri»26. Egli è convinto che il suo lavoro sia tale «quale nessuno è capace di farlo ora in Italia, ora che il Tommaseo è troppo vecchio»27. Ma i dubbi lo assalgono, l’ossessione della completezza, dell’aver visto tutto, la paura che qualcosa possa essergli sfuggito lo induce a scrivere al Sainte-Beuve e all’Hillebrand chiedendo loro aggiornamenti bibliografici: «ho messo mano a una edizione nuova del Petrarca con comento in cui si riordina il canzoniere secondo le epoche della vita e dell’anima. Avreste, insigne maestro, da suggerirmi qualcosa o da indicarmi qualche buon lavoro francese di cui potessi giovarmi?»28. Di giorno in giorno, quella che chiama «Petrarcologia»29, sembra diventare una vera e propria malattia da cui rischia di essere annientato: «Vieni, – scrive all’amico Giuseppe Chiarini – e vedrai il commento balena, che al fine m’ingoierà tutto vivo»30. Niente di peggio (e, forse, di meglio), per chi vuole essere anche poeta, di questo lavoro filologico, dal quale Carducci si distrae solo per quelle poche ore che quotidianamente dedica allo studio della lingua tedesca, quasi per impossessarsi maggiormente del carattere del popolo-filologo per eccellenza. Mai più, si ripromette, mai più commenti: Finito che avremo il Petrarca, – tuona con Barbèra – Le giuro che io non farò più mai commenti o edizioni critiche. Troppa fatica, troppo studio, troppo ammazzamento ci vuole. Questo Petrarca, se pur lo finiremo, riuscirà, senza dubbio, un modello del come si devon fare le edizioni de’ classici grandi. Ma poi, metteremo il suggello. […] voglio cominciare a scrivere opere anch’io. Non rida: me ne sento la forza, purché sapessi vincere la svogliatezza dello scrivere31.

Il 1870 è un anno cruciale, i rapporti con Barbèra si fanno più critici, subentrano altre occupazioni, sia per l’editore che per Carducci e soprattutto

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Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 16 dicembre 1868, LEN V, p. 303. Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 27 gennaio 1873, LEN VIII, p. 116. 28 Lettera di C. a C. A. de Sainte-Beuve, Bologna gennaio 1869, LEN VI, p. 22. 29 Lettera di C. a P. Dazzi, Bologna 15 gennaio 1869, LEN VI, p. 8. 30 Lettera di C. a G. Chiarini, Bologna 22 agosto 1868, LEN V, p. 250. 31 Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 29 luglio 1869, LEN VI, pp. 93-94. 27

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

questo «pover uomo che commenta il Petrarca dalla mattina alla sera»32 perde prima Ildegonda, l’adorata madre, poi il figlioletto Dante. La casa di via Broccaindosso, quella della «pargoletta mano», diventa una prigione di memorie dolorose e il lavoro filologico una tortura. A partire da quell’anno tra Firenze e Bologna cessano gli invii di bozze petrarchesche. Bisogna arrivare al 1873 perché Carducci ritrovi un po’ di lena attorno a questo lavoro. Già, perché nel 1872 ha incontrato Carolina Cristofori Piva, alias Lidia, e dal 1873 i due vivono una passione per descrivere la quale «questa stupida lingua italiana, non ostante il suo Petrarca, non ha termini»33. Eppure Petrarca, la sua vita, i suoi versi, Laura, faranno costantemente da battistrada al cammino di questo amore. Così il sogno ricomincia, il quinto centenario della morte si avvicina e insieme il desiderio di chiudere «il lavoro che mi ha occupato più o meno il meglio della gioventù»34. È proprio nelle lettera a Lidia che Carducci (tornato nell’anno accademico 1873-’74 a spiegare Petrarca ai suoi studenti) riprende a commentare il Canzoniere ratificando per sempre quel nesso fra arte e vita che amava riscontrare nel poeta di Arquà; è forse in queste lettere, più ancora che nel controllato prodotto finale, che va rintracciata l’anima del commento carducciano, il suono vero delle sue parole non filtrate da giudizi di altri: Ieri illustrai, come dicesi con superbissima pedanteria, il son. del Petrarca «Levommi il mio pensiero», e sbalordii veramente i miei uditori. Era il giorno della purificazione della B.V., e io purificai me e loro nell’idealismo delle visioni del Petrarca. Ma ripensa que’ due versi: Te solo aspetto; e, quel che tanto amasti E laggiuso è rimaso, il mio bel velo; di civetteria tanto celeste, e détti dopo un tutto teologico «Mio ben non cape in intelletto umano», détti dalla divina forma della donna francese col dito rivolto verso il nostro mondo. Cotesta immagine che ravvicina cielo e terra, cristianesimo e paganesimo, spirito e senso, piena di devozione e di baci, di rassegnazione e di desiderio rende forse la migliore imagine di quel che è tutt’insieme la poesia petrarchesca35.

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Lettera di C. a T. Mamiani, Bologna 15 aprile 1870, LEN VI, p. 189. Lettera di C. a Lidia, Bologna giugno 1873, LEN VIII, p. 218. 34 Lettera di C. a G. Barbèra, Bologna 22 novembre 1873, LEN VIII, p. 347. 35 Lettera di C. a Lidia, Bologna 3 febbraio 1874, LEN IX, p. 31. 33

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E ancora, il 9 febbraio 1874, sei giorni dopo, in una magistrale lezione epistolare, una vera e propria radiografia della sua didattica e del suo lavoro filologico: Mi ricordo ora che tu vorresti la esposizione del son. «Levommi». Ma, cara, delle mie lezioni su’ classici non scrivo che la sola parte filologica, i raffronti, le citazioni, le opinioni dei vari comentatori, le interpretazioni nuove, le nuove e varie lezioni ecc.: per la parte estetica e per la critica superiore, mi lascio andare a dire improvviso. […] e pure son tutti pensieri che vanno perduti, o sono soltanto raccolti negli appunti degli studenti, e scheletrati nei temi d’esame. Le lezioni che ho fatto su la canzone alla Vergine e su quel sonetto mi spiace proprio che non sieno state raccolte […]. Ma su via, piglia un Petrarca, cerca il sonetto. E nota subito il contrasto di armonia de’ primi due versi: nota che […]36.

Insomma, l’entusiasmo era tornato, quindi ancora tentativi con Barbèra, gli ultimi, e poi basta, chiusura definitiva, appena il tempo di concludere il «Diamante» del Menzini37. Con l’aiuto di Giuseppe Chiarini, Carducci contatta Francesco Vigo, emergente editore livornese, al quale espone con grande chiarezza cosa ha intenzione di fare: Nel luglio è il centenario del Petrarca. Vuol Ella pubblicare le rime storiche e morali da me nuovamente riviste su moltissimi testi e larghissimamente illustrate? Potrebbe venire anche un bel saggio tipografico. Un carattere diverso per le introduzioni o gli argomenti a ciascuna canzone o sonetto: il carattere del testo: il carattere per un tratto orizzontale sotto, di varianti: il carattere delle note veramente filologiche e critiche in colonna […]. Allo smercio può giovare e la circostanza del centenario e la novità e importanza vera del lavoro, che può servire anche per le scuole. Glielo cedo per 200 lire; ma a patto di avere le prime 100 il 10 del prossimo marzo38.

Niente da fare. Giunge il fatidico 18 luglio e Carducci non riesce a chiudere. Ancora gli mancano riscontri, verifiche, lezioni di testo. La conferenza che tiene ad Arquà è sì un successone, ma contemporaneamente molti pubblicano libri su Petrarca, riescono a rispettare la scadenza39; immancabili arri36

Lettera di C. a Lidia, Bologna 9 febbraio 1874, LEN IX, pp. 37-38. Satire, rime e lettere scelte di Benedetto Menzini, Firenze, Barbèra, 1874. 38 Lettera di C. a F. Vigo, Bologna 11 febbraio 1874, LEN IX, p. 41. 39 Sulla commemorazione di Arquà cfr. A. Brambilla, Petrarca tra Aleardi e Carducci. Appunti sulle celebrazioni padovane del 1874, in «Studi petrarcheschi», n.s., XV (2002), pp. 221-52. 37

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

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vano gli anatemi al vetriolo di Carducci che sente invaso il suo territorio e non risparmia ironie perfino sui gusti sessuali della concorrenza. Ecco quanto scrive a Gaetano Ghivizzani che sta per dare alle stampe il volume miscellaneo Francesco Petrarca e il suo secolo: Godo del tuo Petrarca; ma certi argomenti assegnati a certa gente mi danno cagione di molto diletto. Che cosa vuoi che sappia, che senta, che dica di Laura la tua Erminia, la quale non ha mai saputo né pensato né sentito nulla, né pure il gusto, credo, di farsi f…, che credo lo facesse e lo faccia per convenienza e per premeditazione? […] E quel pedante presuntuoso e ignorante del guercio Puccianti che vuoi tu che diavolo mésti circa la donna nel canzoniere del Petrarca; egli che non conosce né la donna, né il Canzoniere, né il Petrarca? […]. E il cavalierino Dazzi […] Con quella testicciuola da montoncino e con quelli studi da maestro elementare di IV? E Corradino [Gargiolli], ovvero Corradina, donde me l’hai tratto fuori marchese? Di marchese sbrodolan tutte le sue poesie stampate a Milano40.

Del resto di un fatto Carducci è convinto: «dopo il Foscolo, non c’è stato altri che capisca il Petrarca e la sua poesia come me»41. Il lavoro per Vigo giunge finalmente in libreria nel 1876: Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici, morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo col raffronto dei migliori testi e di tutti i commenti a cura di G. Carducci. Un bel volumetto, smilzo, che contiene solo 31 componimenti; infatti ne restano fuori più di trecento. Un punto d’arrivo, certo, costato non poche rinunce e un fastidioso senso di incompletezza, di non finito. Si compie infatti così, ma solo parzialmente, quel progetto educativo (anche se resta da appurarne l’effettiva diffusione nelle scuole), che è soprattutto un itinerario auto-formativo vissuto da una parte in forma del tutto privata e autoreferenziale, dall’altra come espressione di un pubblico ufficio, dell’insegnante, dello studioso rigoroso, modello prussiano. Un commento che tenta di tenere sotto controllo lezione del testo, ricerca delle fonti, critica storico-interpretativa, storico-linguistica (misurare la sopravvivenza o meno di certe forme nella parlata degli italiani contemporanei), ma che soprattutto eccelle, ed è questa la novità sottolineata dallo stesso autore, per la quantità dei commentatori consultati e collazionati. Un vero repertorio di giudizi e interpretazioni per il quale Contini ha giustamente parlato di commento dal

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Lettera di C. a G. Ghivizzani, Bologna 15 ottobre 1873, LEN VIII, pp. 313-14. Lettera di C. a Lidia, Bologna 25 gennaio 1875, LEN IX, p. 302.

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«carattere antologico»42. Quello di Carducci è un dialogo, un ragionamento continuo con la tradizione le cui opinioni sono vagliate accuratamente. È quanto egli espone anche nell’introduzione al volume (che sarà ampiamente conservata nell’edizione Carducci-Ferrari del 1899), dove traccia la celebre distribuzione dei commentatori petrarcheschi in quattro età. Ma torniamo ancora in casa Carducci. Certo sullo scrittoio del poeta dovevano essere rimasti tanti materiali, appunti, schede sul Canzoniere. E vi restarono, aumentando di volume, ancora per ventitré anni. Ventitré anni in cui si gioca tutta la carriera letteraria di Carducci, dalle prime Odi barbare, uscite nel 1877, l’anno successivo al Petrarca Vigo, a Rime e ritmi, l’ultima raccolta, del 1899. E forse non è un caso che proprio nel 1899 si concluda la storia dell’amore petrarchesco, con l’edizione Carducci-Ferrari. Il poeta e l’esegeta tacciono contemporaneamente a partire da questa data. Ancora una data sintomatica, sempre il 1876: appena pubblicato il volumetto dal Vigo, nell’estate, Carducci fa la conoscenza di Severino Ferrari. Questo giovane entra subito nella sua vita, e vi prenderà lo spazio di un figlio aiutandolo a compiere gli ultimi passi petrarcheschi. Ma per ricominciare a parlare di commento dobbiamo arrivare al 1892. Carducci è il direttore della Biblioteca di calssici italiani commentati per le scuole dell’editore Sansoni; allievi ed amici (con l’appoggio di Guido Biagi) si spartiscono volumi da curare. Qualche incertezza proprio sul Petrarca, già affidato alla coppia Guido Mazzoni-Tommaso Casini. Dopo i primi tentennamenti dei due studiosi, a Carducci basta poco per convincerli, senza strappi, di rinunciare all’impresa e per rimettere in gioco se stesso. Scrive a Severino: «Le rime del gran padre facciamole insieme. Io metto tutto ciò che avevo scritto […] e il pubblicato dal Vigo. Tu rivedi il mio e fai il resto. […] mettiamo ambedue i nostri nomi; fedeli peregrini che guardano alto il sole su la montagna»43. Tra un trasferimento e l’altro (Bologna, Macerata, Firenze, La Spezia, Reggio Calabria, Faenza, Palermo, Modena) Severino porterà a compimento l’opera del venerato professore. Anche qui si può parlare di un nuovo innamoramento, reciproco, fra allievo e maestro. Una relazione fatta di piccoli riti epistolari, di feticismi quotidiani, di scambi di reliquie petrarchesche, di tortellini e anitre selvatiche. Un dialogo scandito da un calendario a date fisse, quelle della vita di Petrarca.

42 G. Contini, Presentazione, in F. Petrarca, Le rime, a cura di G. Carducci e S. Ferrari, Firenze, Sansoni, 1984, p. XVII. 43 Lettera di C. a S. Ferrari, Bologna 11 novembre 1892, LEN XVIII, p. 126.

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Il Petrarca di Carducci. Cronistoria di un commento scolastico

Del prodotto finale si potrebbe parlare a lungo, se non che il dato più interessante che ne emerge è proprio la fedeltà all’idea originaria di Carducci, a quel metodo, stile, impaginazione del commento già tutti stabiliti negli anni Sessanta. Una fedeltà che può farci retrodatare di un trentennio questo libro del ’99, se è vero che, come scriveva Carducci a Isidoro Del Lungo già nel 1868, «Il comento contiene il fiore di tutti gli altri e di tutte le osservazioni particolari sul Petrarca, e raffronti molti co’ poeti latini e con Dante, e di quando in quando certe mie sciocchezze»44. E proprio con una di queste «sciocchezze» vogliamo chiudere, là dove affiora, nello stesso tempo discreta e burlona, la presenza del commentatore che talvolta riesce a smagliare la rete asettica dell’apparato critico renstituendoci quasi dal vivo lo spettacolo di una sua lezione accademica. Carducci sta commentando la canzone Che debb’io far? e, fra metafore e similitudini di tutti i colori, che scrutano a volo d’aquila la nostra tradizione letteraria, tratteggia profeticamente, a modo suo, forse più da poeta che pensa alla sua opera piuttosto che da interprete dell’opera altrui, il profilo di quella che sarà la critica delle varianti, già attribuendole facoltà di giudizio: Ma quante cancellature, quanti pentimenti, quante correzioni. […] Quante paglie dagli occhi della mente, quanti caprifichi dal fondo dell’anima, quante verruche e schianze e bubboni e calli bisogna lavare tergere radere dibarbar via dalla dizione e dalla consuetudine dello scrivere per arrivare alla disposizione e nettezza poetica. Il Petrarca […] e l’Ariosto, il Parini il Foscolo e il Manzoni furono di gran cancellatori: il Marini e il Frugoni e il Casti, no45.

44

Lettera di C. a I. Del Lungo, 16 dicembre 1868, LEN V, p. 302. F. Petrarca, Le rime, cit., p. 377. Per questo commento Contini ha parlato di «scolastico incunabolo della critica delle varianti», Presentazione, cit., p. XIV. 45

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LA RIVINCITA DELLA LETTERATURA. LA “FUNZIONE PETRARCA” IN CARDUCCI E NELL’ETÀ DEL METODO STORICO.

1. La rilettura di Petrarca da parte del romanticismo coincise col tentativo di difenderlo dalle accuse di artificiosità formale e retorica, per rivalutarlo in una prospettiva innanzitutto psicologico-affettiva, come poeta del sentimento e della passione. Si rispondeva così ai giudizi critici di concettismo, freddezza e cattivo gusto già avanzati da Voltaire in un articolo anonimo del 6 giugno 1764 sulla «Gazette littéraire», pubblicato all’indomani dell’opera del de Sade, e ribaditi dai suoi discepoli, come La Harpe1. Petrarca era dunque salvato dalla “letteratura” e apprezzato invece per la sua “naturalezza” e spontaneità ispirativa, sulla strada del Rousseau della Nouvelle Héloïse. Basterebbe pensare ai tre articoli di Berchet sulla Storia della poesia e dell’eloquenza del Bouterweck2 per rendersi conto di quanto anti-letterario divenisse il Petrarca romantico: Quantunque i primi poeti d’Italia non si abbandonassero interamente, come i Greci, a se medesimi ed al bisogno dell’anima loro, e non uscissero, come fece-

1 Cfr. L. Bertoli, La fortuna del Petrarca in Francia nella prima metà del secolo XIX. Note ed appunti, Livorno, Giusti, 1916. Relativamente all’Italia: C. Naselli, Il Petrarca nell’Ottocento, Genova, Perrella, 1923. 2 I tre articoli firmati da Grisostomo (Giovanni Berchet) uscirono nel 1818 sul «Conciliatore» del 1 e 15 ottobre, e del 12 novembre, e sono stati ripubblicati in Il Conciliatore, a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1954, vol. I, pp. 145-54, 212-22, 329-40, da cui si cita.

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ro i Greci, dalla sola scuola della natura; la poesia loro nondimeno emerse dal complesso de’ sentimenti che in essi destava la nuova civilizzazione; sentimenti che più forti quanto più freschi, crearono nella poesia un certo vigore di gioventù che l’una dopo l’altra spezzò le catene di cui il pedantismo l’aveva gravata. [...] La bella poesia italiana non si piegò umilmente, come la francese, alle regole vecchie; ma lottò sempre contro di esse. Dante, il Petrarca, l’Ariosto più che alle regole si lasciarono andare alla prepotenza del loro genio, al bisogno delle anime loro, e riuscirono grandi nella libertà3.

Il poeta del Canzoniere «era oltre ogni dire invaghito de’ classici antichi, tanto quanto della sua Laura. Ma [...] cantò il proprio amore com’ei lo sentiva»4. Quest’orientamento aveva il pregio di introdurre una cesura tra la storia di Petrarca e quella del petrarchismo, ma rischiava di ispirare saggi di eloquenza piuttosto che accertamenti testuali, e comportava la svalutazione della produzione latina petrarchesca, anche quando ne segnalava l’efficacia sull’umanesimo europeo5. Né tramontava col romanticismo tale dialettica tra letteratura e poesia, che era invece destinata ad una fortuna critica culminante nella teoresi crociana. Prima di Croce la si ritrovava in De Sanctis nel Saggio sul Petrarca6, ispirato ad un’antitesi tra retorica e naturalezza utilizzata come metro di giudizio per tutta la poesia petrarchesca, a seconda della sua prossimità all’uno o all’altro polo: nelle sue rime trovi tutto: l’erudito, il pedante, il retore, il letterato, il poeta; l’artificioso e il naturale, il fattizio ed il vero, il ricercato e lo spontaneo; qui concetti, metafore, antitesi, galanterie; là grazia, semplicità, affetto; esempli d’ottimo e di pessimo gusto7.

Sino all’affermazione, nella quale si compendiava un giudizio: «Il Petrarca è il più grande artista del Medio Evo: dico artista, e non poeta»8. Nella Storia De Sanctis ribadiva, opponendo Dante e Petrarca: «L’Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista»9. Nell’età del realismo le obiezioni settecen3

G. Berchet, op. cit., p. 336. Ivi, p. 338. 5 Cfr. la lezione dedicata e Petrarca da P. Emiliani Giudici, Storia della Letteratura Italiana, Firenze, Le Monnier, 1857 (2 ed.), vol. I, pp. 245-87. 6 F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca (1869), a cura di E. Bonora, Milano, Marzorati, 1971. 7 Ivi, p. 223. 8 Ivi, p. 224. 9 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, introd. di L. Russo, e a cura di M.T. Lanza, Torino, Einaudi 1970 (6 ed.), p. 255. 4

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La rivincita della letteratura. La “funzione Petrarca” in Carducci e nell’età del metodo storico

tesche dunque rinascevano, e la letteratura appariva come il pregio ma insieme il vizio della poesia petrarchesca, limitandone non solo la radice affettiva, ma gli effetti di realtà nell’animo del lettore:

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Troveremmo poesie più patetiche e più profonde, sentimenti di mano in mano più umani e più reali, ma non sempre con vantaggio dell’arte. Il Petrarca nelle maggiori tensioni dell’anima non dimentica mai d’essere artista: come Cesare muore con decoro, egli piange con grazia. La bellezza della sua forma è tale, che rattempera e rammorbidisce l’effetto che nasce dal fondo, qual è l’impressione che vi fa la piccola morta del Manzoni [...]10.

Era così che nella Storia desanctisiana Petrarca era eletto (con Boccaccio) primo «letterato in Italia»11, entro una prospettiva critica che continuava a giudicare con molte riserve le opere erudite e latine, opposte agli squarci di espansione lirica delle rime: Al Petrarca sta male l’abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non sentivano l’uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano12.

Non stupirà dunque che De Sanctis recensisse con insofferenza il volume di Mézières13, animato invece dalla volontà di rivendicare alla coscienza critica ottocentesca il Petrarca latino, maestro dell’umanesimo, rinnovatore dei classici. Il ‘Petrarca dei dotti’ per De Sanctis andava invece lasciato all’oblio, tra le scorie della storia: Qui ci sembra che il Mézières abbia preso un errore. Egli è partito da questa falsa base, che il Petrarca del Canzoniere è il Petrarca del volgo; che il vero Petrarca è molto di più, un erudito, un latinista, un patriota, un ristoratore degli studii, un grande ingegno ed un grande carattere; e ciò che resta a fare è ricostruire il Petrarca, reintegrare questa grande figure mutilata dal volgo. [...] Scendere sino al volgo e mantenervisi per molti secoli è il più sicuro indizio di un merito vero e superiore [...] Il volgo si appropria la Divina Commedia ed ignora il Convito; si

10

F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, cit., p. 227. Id., Storia della letteratura italiana, cit., p. 253. 12 Ivi, p. 256. 13 A. Mézières, Pétrarque. Essai d’après de nouveaux documents, Parigi, Didier, 1868. La prima ed. era uscita nel 1867, e una terza venne pubblicata nel 1895 (Paris, Hachette): su di essa esprimeva un giudizio sostanzialmente positivo il Bollettino bibliografico del «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXVIII (1896), pp. 250-251. 11

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appropria il Canzoniere ed ignora l’Africa. Passando attraverso i secoli, l’uomo lascia nel cammino la sua parte terrestre e individuale, impaccio e non via all’immortalità [...] L’umanità non cammina se non gittando lungi da sé tutto ciò che è inutile, accidentale, ripetizione, luogo comune, scoria, il troppo e il vano14.

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2. Né era a Petrarca che la scuola storica si doveva rivolgere come al proprio autore privilegiato. Il positivismo introduceva nella critica una sorta di verismo critico che si lasciava catturare da testi nei quali la forma potesse venir sciolta non tanto in un repertorio di scelte stilistiche e di figure retoriche, ma in una trama di riferimenti concreti alla storia, nella sua duplice articolazione cronachistica da un lato, culturale-filosofica dall’altro. L’autore ideale per questa linea d’azione era o pareva il Dante della Commedia piuttosto che il Petrarca del Canzoniere: basterebbe aprire, per averne una prova eloquente, i volumi nei quali sono ora raccolti molti degli Scritti di filologia e linguistica italiana e romanza di Pio Rajna15. Sarebbe stato, piuttosto, il Novecento, con gli studi per l’Edizione Nazionale, a sollecitare un’applicazione più assidua al Petrarca di studiosi legati al metodo storico, come lo stesso Rajna che nel 1909 avrebbe riconosciuto l’autografo della prima redazione del De ignorantia16. Anche il mito delle origini che attraversava gran parte del positivismo letterario, non pareva destinato a valorizzare gli studi petrarcheschi. La passione per il documento inedito vi si fondeva piuttosto con l’eco della passione romantica per la cultura popolare, sicché non era verso Petrarca che si indirizzavano gli interessi di uno dei principi della scuola storica, D’Ancona (maestro del Rajna), impegnato piuttosto negli anni Settanta del secolo a studiare le Origini del teatro italiano (Firenze, Le Monnier, 1877), e La poesia popolare in Italia (Livorno, Giusti, 1878). Le ricerche determinanti per un organico ripensamento dell’esperienza petrarchesca nascevano invece al di qua o al di fuori della scuola storica. Prima

14 F. De Sanctis, Petrarca e la critica francese, in «Nuova Antologia», IX (sett. 1868), pp. 5-22, poi nel Saggio critico sul Petrarca, cit., pp. 37-54. 15 P. Rajna, Scritti di filologia e linguistica italiana e romanza, a cura di G. Lucchini, premessa di F. Mazzoni, introd. di C. Segre, Roma, Salerno, 1998. 16 P. Rajna, Il codice hamiltoniano 493 della reale Biblioteca di Berlino, in «Rendiconti della reale Accademia dei Lincei, classe di scienze morali, storiche e filologiche», s. V, XVIII (1909), pp. 479-508.

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che nelle aule universitarie, era nelle biblioteche ottocentesche pubbliche e private, nel loro complessivo riordino, che assieme ad un Petrarca lirico in volgare riletto filologicamente, risorgeva un Petrarca latino e un Petrarca letterato. In Italia Carducci indicava chiaramente quale fosse la direzione da seguire nel 1876, con la Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici, morali e diversi 17:

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La prima cura di chi pubblichi e commenti l’opera di uno scrittore classico ha da essere intorno al testo. Qual è la lezione, non che piace più a me o a questo o quel critico, non che si faccia allettatrice improvvisa da questo o quel codice più o meno antico, più o meno bello, ma che uscì ultima dalla penna dell’autore?18

E proponendo di seguire l’edizione Marsand19, confrontata con le prime e più autorevoli stampe (la Valdezocco del 1472, l’Aldina del 1501, la Stagnino del 1513), Carducci insisteva sui collegamenti con una tradizione filologica e bibliografica che risaliva al primo Ottocento, e agli interessi bibliografici di Marsand – già determinanti per Mézières20 – affiancava quelli di Rossetti21 ripresi, valorizzati ed approfonditi dall’Hortis, non accademico di qualche università, ma «civico bibliotecario», come dichiarava nel frontespizio il suo Catalogo delle opere di Francesco Petrarca: Il testo del canzoniere di Francesco Petrarca offre una storia non difficile a tessere, grazie massimamente agli accuratissimi lavori del Marsand e al recente, non meno pregevole e utile, del sig. Attilio Hortis22. 17 G. Carducci, Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti storici, morali e diversi. Saggio di un testo e commento nuovo co’l raffronto dei migliori testi e di tutti i commenti a cura di G. Carducci, Livorno, Vigo, 1876, poi in Id., Archeologia poetica, Bologna, Zanichelli, 1908, pp. 303-364, da cui si cita. 18 Ivi, p. 305. 19 Le rime del Petrarca, edizione pubblicata per opera e studio dell’ab. Antonio Marsand, professore nella R. Università di Padova, Padova, Tipografia del Seminario, 1819-1820. 20 Cfr. nella prima ed. del Pétrarque, cit., pp. IX-X, i riferimenti alla raccolta del Marsand venduta a Carlo X e depositata presso la Biblioteca del Louvre, perduta dopo l’incendio del 1870, della quale la Biblioteca petrarchesca pubblicata dal Marsand nel 1826 (Milano, Giusti) costituiva il catalogo. 21 L’editore dei Poemata minora usciti a Milano, Società Tipografica de’ Classici Italiani, 1829-1834, 3 voll, ma anche il rinnovatore degli studi sul De viris con Petrarca, Giulio Celso e Boccaccio, illustrazione bibliologica delle vite degli uomini illustri, Trieste, Marenigh, 1828. 22 G. Carducci, Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti ecc., cit., p. 306. I “lavori” del Marsand citati in nota dal Carducci erano la bibliografia petrarchesca

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3. In Francia, come in Italia, furono dunque le biblioteche ad avere una funzione determinante nell’orientare gli studi petrarchisti. La Biblioteca Nazionale di Parigi, innanzitutto, nella quale i manoscritti venivano riordinati da Léopold Delisle, il cui Cabinet de manuscrits preparava il Pétrarque et l’humanisme del Nolhac, e il graduale recupero della biblioteca petrarchesca23. Altrettanto fondamentale era l’apertura della sala di studio della Biblioteca Vaticana, con un generale riordino di fondi del quale Nolhac, giovane borsista della Scuola Francese di Palazzo Farnese, poteva approfittare riconoscendo nel 1886 l’originale dei Rerum vulgarium fragmenta24: scoperta che poneva le basi per la moderna costituzione del testo, fondata sul rispetto non solo della lettera ma dell’ordine proposto dal Codice Vaticano Latino 3195, presto riprodotto dall’edizione diplomatica a cura di Ettore Modigliani (1904) e dalla fototipica, a cura di Marco Vattasso (1905)25, che mettevano a disposizione degli studiosi un materiale arricchito dalle contemporanee cure riservate al Codice Vat. Lat. 319626. Dalla fedeltà a quel manoscritto, solo in contenuta nel secondo tomo della sua edizione delle Rime del Petrarca cit. e la Biblioteca petrarchesca cit. Il lavoro «non meno pregevole e utile» dell’Hortis era il Catalogo delle opere di F.P. esistenti nella Petrarchesca rossettiana di Trieste, per opera di Attilio Hortis civico bibliotecario, Trieste, Appolonio & Caprin, 1874. Il Carducci ricordava anche gli Scritti inediti di Francesco Petrarca pubblicati e illustrati da Attilio Hortis usciti a Trieste, per la Tipografia del Lloyd austro-ungarico nel 1874. 23 Cfr. G. Billanovich, Petrarca e i classici, in AA.VV., Petrarca e il Petrarchismo, a cura di E. Caccia, Roma, Minerva, 1961, p. 24. 24 P. de Nolhac, Le canzoniere autographe de Petrarque, communication faite a l’Académie des Inscriptions & Belles-Lettres, Paris, C. Klincksieck, 1886. Sui rapporti con gli esponenti del metodo storico avviati dopo tale scoperta, cfr. Un’amicizia petrarchesca. Carteggio Nolhac-Novati, a cura di A. Brambilla, Padova, Antenore, 1988. 25 Il Canzoniere di Francesco Petrarca riprodotto letteralmente dal Cod. Vat. Lat. 3195, con tre fotoincisioni, a cura di E. Modigliani, Roma, Società Filologica Romana, 1904; L’Originale del Canzoniere di Francesco Petrarca codice Vaticano Latino 3195, riprodotto in fototipia a cura della Biblioteca Vaticana, con introduzione di M. Vattasso, Milano, Hoepli, 1905. 26 Cfr. l’ed. diplomatica e quella in facsimile del Vat. Lat. 3196: C. Appel, Zur Entwickelung italienischer Dichtungen Petrarcas, Halle, Niemeyer, 1891; F. Petrarca, Il Manoscritto Vaticano Latino 3196 autografo riprodotto in eliotipia a cura della Biblioteca Vaticana, Roma, Stab. eliotipico Martelli, 1895. In seguito: M. Pelaez, Trascrizione (con spiegazioni) del cod. Vat. Lat. 3196, in «Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano», II (1910), pp. 163-216; A. Romanò, Il Codice degli abbozzi (Vat. Lat. 3196) di Francesco Petrarca, Roma, Bardi, 1955. Sui rapporti tra il Vat. lat. 3195 e il Vat. lat. 3196, con importanti aperture metodologiche in prospettiva genetica e variantistica, cfr. A. Mussafia, Dei codici Vaticani Latini 3195 e 3196 delle ‘Rime’ di Petrarca (1900), ora in Id., Scritti di linguistica e filologia, a cura di A. Daniele e L. Renzi, Padova, Antenore, 1983, pp. 357-404.

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parte autografo ma tutto progettato e vagliato dall’autore, sarebbero nate le edizioni di Mestica (1896), di Salvo Cozzo (1904), Chiorboli (1924 e 1930), sino a quella di Contini (1949 e 1964). Proprio attraverso gli scavi nei fondi delle biblioteche, e la maturazione di una competenza paleografica e codicologica27, poteva avviarsi una recensio che apriva la strada anche alle edizioni moderne del Petrarca latino, come sempre Nolhac dimostrava nei suoi studi sul De viris28. Confermava l’autonomia degli studi petrarcheschi più avanzati rispetto al metodo storico, il fatto che nell’annunciare la scoperta di Nolhac sul «Fanfulla della Domenica» del 22 agosto 1886, Carducci la connettesse implicitamente non ad un nuovo orientamento positivistico della critica, ma ad una tradizione umanistica e filologica che risaliva all’aldina curata da Bembo (e – prima ancora – all’edizione Valdezocco). Era proprio dal Petrarca bembino che Carducci aveva tratto – già prima degli accertamenti di Nolhac – la convinzione di un ordinamento non arbitrario dei componimenti, e dell’esistenza di un codice autografo29. E sempre a scavi che precedevano la metodologia storico-positivistica, si connetteva un altro filone di ricerca, egualmente decisivo per il rinnovamento degli studi petrarcheschi: quell’interesse biografico che era destinato a promuovere una lettura parallela ed integrata di produzione latina e volgare. Sempre Carducci ne indicava la matrice non tanto in ricerche ottocentesche,

27 De Nolhac aveva ben chiara l’importanza di tale competenza per la ricostruzione della biblioteca di Petrarca e il ritrovamento dei suoi postillati. Si rivolgeva perciò agli “eruditi” allegando al Canzoniere autographe facsimili della scrittura petrarchesca. Cfr. la lettera a Novati del 12 aprile 1887, in Un’amicizia petrarchesca, cit., p. 6: «je pense qu’après ma publication des Fac-similés il y aura un érudit à Florence pour chercher à reconnaître tous le mss. portants des annotations de Pétrarque ou écrits par lui». 28 P. de Nolhac, Le «De viris illustribus» de Pétrarque. Notice sur les manuscrits originaux, suivie de fragments inédits, in «Notices et extraits des manuscrits de la Bibliothèque Nationale et autres bibliothèques, XXXIV (1890), pp. 61-148. 29 Cfr. G. Carducci, A Pietro de Nolhac, in «Fanfulla della Domenica», 22 agosto 1886, poi in Id., Ceneri e faville, III (1877-1901), Bologna, Zanichelli, 1902, p. 342, da cui si cita: «Mio signore, Ella nella sua dotta comunicazione ha deterso la memoria del Bembo e dell’Aldo da ogni ombra o di menzogna o di grossolano errore; ha, io credo e desidero, chiuso il periodo delle discussioni inutili su’l testo del Canzoniere; ha restituito all’Italia e al mondo civile la più preziosa reliquia personale d’un gran poeta: tutto ciò con argomenti e prove che a me paiono irrefutabili [...] Gratissimo di certo Le sono io, che amo di antico e fermo amore il Petrarca, che ho sempre creduto, pur non avendone notizia, all’esistenza di quell’autografo e primo codice». Cfr. anche Id., Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti ecc., cit, pp. 307-11.

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quanto negli studi settecenteschi di de Sade, senza i quali – diceva – non avrebbe: il Baldelli scritta la sua vita del Petrarca, che è poi lontana assai dall’essere un bel libro: senza la guida del De Sade, non avrebbe l’avv. Giuseppe Fracassetti compiuti i suoi lavori utilissimi intorno alle lettere familiari e senili del poeta. Se i commentatori poi del nostro secolo fossero ricorsi al De Sade avrebbero evitata la incuriosa e indolente fatica di coltivare tutti gli errori dei commentatori antichi con molti annesti di nuovi e propri30.

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4. Per la riconsiderazione di Petrarca nel secondo Ottocento, bisognerebbe parlare di un petrarchismo filologico e critico che nel nome di Petrarca e poi di Bembo ritrovava il lungo filo della propria tradizione. Non era affatto casuale l’insistenza carducciana sull’attività filologica di Petrarca e sulle sue ricerche di codici. Più in generale scriveva Carducci in Moderatucoli, prendendo di mira un giovane ed ancora sconosciuto Antonio Fogazzaro: penso fra me alle povere condizioni nostre: noi italiani fummo i primi dei popoli moderni a fissare la lingua nella grammatica, e oggi sgrammatichiamo peggio di un portofranco; inventammo la filologia, e non sappiamo più legger corrente il latino; demmo nome al galateo, e scriviamo come il signor A. F.31

La tendenza carducciana a valorizzare gli studi filologico-eruditi che continuavano a rampollare dalla tradizione sette-ottocentesca, si proponeva così come traduzione in pratica critica di un metodo che affondava le radici proprio nella lezione petrarchesca, rivitalizzata dall’attenzione verso la contemporanea filologia classica32, particolarmente di scuola tedesca.

30

Ivi, pp. 351-352. G. Carducci, Moderatucoli, in «Preludio» di Bologna, 24 agosto 1879, poi in Id., Confessioni e battaglie, II, Bologna, Zanichelli, 1902, pp. 36-45 (il brano cit. a p. 38). 32 Fondamentale anche nella formazione di Nolhac, sulla quale cfr. G. Billanovich, Nolhac e Petrarca, in Studi di letteratura e di storia in memoria di Antonio Di Pietro, Milano, 1977, pp. 315-31. Sui limiti invece che segnano la ricezione carducciana dei più avanzati studi di carattere filologico-grammaticale (anch’essi radicati al di qua del positivismo, nella lezione di Bopp, di Grimm, di Diez) cfr. le osservazioni di A. Daniele a premessa di A. Mussafia, Nota petrarchesca (1896), in Id., Scritti di filologia e linguistica, cit., p. 357. 31

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La rivincita della letteratura. La “funzione Petrarca” in Carducci e nell’età del metodo storico

Se Carducci proponeva una lettura filologica di Petrarca, se nei suoi interventi petrarcheschi connetteva le opere latine col Canzoniere e il Canzoniere con una tradizione che s’inarcava dai classici ai padri della chiesa sino a Dante, ciò si doveva – insomma – non tanto a suggestioni storicopositivistiche, quanto ad un originale innesto tra la vecchia tradizione erudita e un rinnovato umanesimo che proprio attraverso Petrarca proponeva una concezione della poesia come memoria testuale piuttosto che come sentimentale immediatezza, celebrando nella “letteratura” un essenziale fondamento di educazione civile, una forma dell’animo, una virtù laica. Basterebbe, per convincersene, rileggere lo splendido discorso pronunciato da Carducci, durante la preparazione del suo commento, ad Arquà Presso la tomba di Francesco Petrarca, il 18 luglio 187433. Vi si trovava il Petrarca filologo, capace di muoversi instancabilmente alla ricerca di una verità insieme letteraria e storica: Né all’antichità egli richiese pur la retorica e l’erudizione, ma ne ricercò come uom vivo la vita [...] volle anche scernere, secondo il poter suo, dalle preoccupazioni tradizionali il vero storico, del quale mostrò d’intendere bene il valore, presentendo l’età critica34.

E soprattutto vi si celebrava il Petrarca letterato, che aveva promosso la religione dell’arte ad un ruolo determinante nella pedagogia dell’Europa moderna: egli, vero padre del Rinascimento non solo perché promosse la ricerca degli antichi autori per tutte le città d’Italia e in Francia in Germania in Spagna in Inghilterra, non solo perché trasse di Grecia Omero e lo restituì all’occidente, ma più perché rese laico il latino di sacerdotale che era. Conversando nella lingua di Cicerone con gente d’ogni parte d’Europa, e per ogni parte dell’Europa meravigliata di quella classica novità di stile disseminando le sue epistole e i trattati ed i carmi, congiunse le nazioni occidentali, annodate prima dalla teologia, con un vincolo nuovo, il vincolo filosofico e letterario: fondò, nell’Europa soggetta ancora ai poteri ecclesiastico e feudale, una nuova potenza, fuor della chiesa e dello stato, tutta morale, tutta moderna, la repubblica delle lettere [...] Torna a mente il mito d’Orfeo, quando vediamo non tanto i re di Napoli e di Francia ammirati e stupiti innanzi a quest’uomo, e l’imperatore e i pontefici corteggiarlo, ma, che è più, i traditori i rissosi i sanguinolenti i bestiali signori d’Italia ammansati intorno

33 G. Carducci, Presso la tomba di Francesco Petrarca, Livorno, Vigo, 1874, poi in Id., Discorsi letterari e storici, Bologna, Zanichelli, 1905, pp. 237-63, da cui si citerà. 34 Ivi, p. 250.

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a lui, e l’immane Barnabò Visconti volerlo padrino del suo figliuolo, e Galeazzo, quel delle quaresime, carezzarlo. [...] E quando leggiamo come i giovinetti delle più superbe famiglie baronali lo scorgessero vestiti di rosso in Campidoglio, e come le mani dei Savelli dei Conti degli Annibaldi incallite dal maneggio della partigiania nelle battaglie civili si gloriassero di agitargli intorno corone di fiori, e i Colonna e gli Orsini si trovassero d’accordo un sol giorno per deporre la ghirlanda d’alloro su’l capo di questo figlio d’un notaio fiorentino [...] allora ci pare che un raggio dell’antica gloria illumini cotesta Roma ruinosa, la quale ringentilisce celebrando in Campidoglio la sacra del Rinascimento35.

Senza tali sollecitazioni e suggestioni carducciane sarebbe difficile comprendere la nuova attenzione verso l’Europa delle corti e dei letterati che tra Otto e Novecento si diffondeva anche tra gli studiosi di scuola storica: non solo il Cian e il Luzio con le loro ricerche sul Bembo e sulla corte mantovana, ma Francesco Novati, nelle pagine proprio su Petrarca e i Visconti36. Grazie a questa prospettiva anche la produzione latina acquistava nuovo risalto. Nel saggio Dante, Petrarca e il Boccaccio (1866-67) le lettere petrarchesche erano invocate da Carducci per delineare una figura fondante per la storia della civiltà occidentale, non meno di Erasmo e di Voltaire, che – quasi a postumo risarcimento – era non opposto, ma affiancato al poeta del Canzoniere: Cercate le epistole del poeta; e vedrete che la parte fatta dal Petrarca in Europa non ha riscontro [...] se non alla parte di Erasmo nel secolo sedicesimo e del Voltaire nel decimottavo. Quante le somiglianze tra questi tre legislatori della civiltà europea [...]37.

Quello che il Carducci scolpiva nelle sue pagine non era dunque un Petrarca malinconico cantore d’amore, quale rischiava ancora di essere quello desanctisiano, né il retore artificioso e manierato messo sotto accusa dall’illuminismo. Anche la letteratura diveniva una forma di eroismo. Essa era fondamento di una laica nobiltà spirituale, e strumento per l’elaborazione di

35

Ivi, pp. 249-253. F. Novati, Il Petrarca e i Visconti. Nuove ricerche su documenti inediti (estratto dal fascicolo di Luglio 1904 della «Rivista d’Italia»), Roma, Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, 1904. 37 G. Carducci, Dante, Petrarca e il Boccaccio (1866-67), in Id., Prose (1904), Bologna, Zanichelli, 1963, p. 219. Il confronto tra Petrarca e Voltaire era anche in G. Körting, Geschichte der Litteratur Italiens im Zeitalter der Renaissance, Leipzig, Fues’s Verlag, 1884, pp. 418-23. 36

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valori non solo erotici, ma civili e morali, al di là di quelli politico-nazionali apprezzati – sulla scia dei romantici – nella canzone All’Italia: Quando il principe di Metternich disse l’Italia essere una espressione geografica, non avea capito la cosa; ella era una espressione letteraria, una tradizione poetica [...] Ché anzi un oscuro cronista romagnolo descrivendo il danno dell’invasione [straniera del 1494] ricorda e commenta con voce di dolore la canzone profetica del Petrarca a rimproverio dei signori d’Italia, e con i versi inaugurali di essa canzone Nicolò Machiavelli conchiude il libro del principe38.

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5. Si comprende dunque che già nel saggio di edizione del 1876, Carducci reagisse al riduzionismo sentimentale di Petrarca, e intitolasse quella raccolta «Rime... sopra argomenti storici, morali e diversi». E tanto in quella edizione, quanto nel successivo commento infine pubblicato nel 1899 con la collaborazione di Severino Ferrari, egli poteva recuperare un poeta non più anacronisticamente contagiato dalla moderna «malattia del secolo», ma profondamente ancorato ad una ampia biblioteca classica, religiosa e teologica: la novità di Petrarca da sentimentale e psicologica si faceva perciò culturale e storica, e se da un lato riguardava la costruzione di un’identità moderna, dall’altro toccava una nuova percezione della fede. Ogni riferimento positivistico restava davvero sullo sfondo nel momento in cui Carducci – adeguandosi intimamente alla ratio filologica – lasciava umanisticamente parlare la struttura retorica del testo petrarchesco cogliendovi non un ornato artificioso, ma una mobilità di registri e di generi che proprio in quanto sapevano produrre una forma nuova, sapevano proporre anche un nuovo senso del divino. Petrarca, osservava il Carducci nel discorso Presso la tomba, «accosta a noi il divino, lo mette a parte dei nostri sentimenti, lo umanizza»39. Tale umanizzazione era sottolineata particolarmente nella Canzone alla Vergine come un effetto della partitura retorica, nella quale si incontravano l’inno e l’elegia, l’adorazione e il dialogo. Con i due registri formali si affiancavano anche due tradizioni culturali, teologica l’una e lirica l’altra, che non andavano isolate, ma misurate appunto nel loro mutuo rapporto, dato che la canzone era «inno ed elegia: e nell’inno tutto che la teologia disputò su la Vergine [...] nell’elegia un’onda di pianto»40. 38

G. Carducci, Presso la tomba di Francesco Petrarca, cit., p. 254. Ivi, p. 244. 40 Ivi, p. 248. 39

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Il Petrarca letterato e il Petrarca poeta si illuminavano dunque a vicenda, e anticipando il Nolhac del Pétrarque et l’humanisme (1892), proprio Carducci invocava la ricostituzione compiuta di una biblioteca petrarchesca che tornasse a stringere in unità i rivoli della sapienza pagana e di quella cristiana e volgare. Scriveva Carducci, indicando in alcuni punti fondamentali, già nel 1876, i principi che dovevano guidare l’annotatore del Canzoniere: La sostanza e le forme del Canzoniere impongono a un commentatore questi intendimenti o, meglio, questi doveri: I. ricercare e determinare il tempo, l’occasione, l’argomento di ciascuna poesia: 2. chiarire più specialmente gli accenni e le allusioni che il poeta abbia fatto qua e là ad avvenimenti della sua vita o del secolo, ai costumi alle credenze alla scienza dell’età sua: 3 interpretare il senso: 4. illustrare brevemente le erudizioni classiche: 5 ricercare i molti pensieri e locuzioni e colori e passi intieri che il P. padre del rinascimento derivò non pur da’ poeti ma da’ prosatori latini e dagli scrittori ecclesiastici, appropriandoseli e assimilandoli alla sua opera con arte ammirabile (pochissimo prese dai trovatori, cose insignificanti e formole): 6. raffrontare in certe proprietà e usi la lingua del lirico del trecento a quella massimamente di Dante e del Boccaccio e poi anche degli altri di quel secolo41.

Anche nell’applicazione di questo schema Carducci apriva con viva sensibilità filologico-stilistica la strada alla critica moderna, dimostrando una forte indipendenza dalle sollecitazioni della critica storica, strenuamente orientata verso la ricerca e spesso la sopravvalutazione delle fonti. Di fronte all’affermazione di Iacopo Mazzoni, nella Difesa della Commedia di Dante (Cesena, Verdoni, 1688) che Petrarca avesse versato nella sua poesia in volgare «dei modi e dei concetti di Dante più col canestro che con le mani», Carducci osservava: il Mazzoni voleva render probabile al gusto schifo de’ petrarcheschi d’allora e de’ tassisti principianti la terribilità dello stile dantesco, e per ciò facean bene a ingegnarsi di mostrare che il poeta barbaro e selvatico avesse pure delle gentilezze e delle grazie da giovarsene il Petrarca. Quei dotti ed eleganti uomini erano oltre di ciò dalla maniera di critica ch’ei tenevano indotti a trovar delle imitazioni da per tutto, ne’ riscontri casuali di certi vocaboli e di certe forme e

41 G. Carducci, Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti ecc., cit., pp. 362-363. Si noti come si aprisse al quinto e sesto punto il problema che avrebbe ispirato le ricerche di Nicola Scarano, sfociate nelle Fonti provenzali e italiane della lirica petrarchesca, Torino, Loescher, 1901.

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figure, non proprie a dir vero più di Dante che del Petrarca, ma appartenenti al fondo della lingua letteraria42.

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Che implicitamente comportava un’avvertenza metodologica non superflua all’epoca, e ancora attuale, tanto che non stupisce di ritrovarla più di cent’anni dopo sviluppata nel bel saggio di Santagata, Presenze di Dante comico nel Canzoniere43. Più congruente con la pratica del metodo storico era invece la cura per la tradizione interpretativa precedente, e la convinzione che ogni impresa critica dovesse costituirsi all’interno di una comunità scientifica che si estendeva diacronicamente, collegando le generazioni. Il Carducci scriveva nel 1876: Dopo la intera e sicura conoscenza della storia del testo, chi prende a commentare un autore ha da conoscere e da esaminare tutto ciò che prima di lui è stato fatto intorno alla esposizione e illustrazione di quello. Ciò è naturale, se bene gli ultimi commentatori italiani del Petrarca non ci abbian pensato44.

E proprio verso quella che oggi si chiamerebbe una “storia della ricezione” già si muovevano alcuni titoli pubblicati nella Bologna carducciana per la Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XII al XVII, ricca di approfondimenti sui volgarizzamenti e sui commenti di opere petrarchesche, e sulle fonti biografiche più antiche. Uscivano negli anni Sessanta la Vita di Francesco Petrarca scritta da incerto trecentista (Bologna, Romagnoli, 1861) già ristampata dal Marsand nella sua Biblioteca petrarchesca; La vita di Romolo composta in latino da Francesco Petrarca, col volgarizzamento citato dagli accademici della Crusca di maestro Donato da Pratovecchio, curata da L. Barbieri (ivi, 1862); Le vite di Numa e T. Ostilio, testo latino di Francesco Petrarca e toscano di maestro Donato da Pratovecchio, sempre a cura del Barbieri (ivi, 1863); il Comento a una canzone di Francesco Petrarca di Luigi Marsili, a cura di C. Gargiolli (ivi, 1863); i Ricordi sulla vita di messer Francesco Petrarca e di

42

G. Carducci, Dante Petrarca e il Boccaccio, cit., p. 231. M. Santagata, Presenze di Dante ‘comico’ nel Canzoniere (1969), in Id., Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 33: «In linea di massima, le riprese di carattere lessicale non sono probanti di un diretto rapporto fra Canzoniere e Commedia. È estremamente problematico, infatti, stabilire se esse scaturiscano da un vivo confronto con l’impasto linguistico del poema o siano mutuate attraverso altri canali [...] e in certi casi il canale potrebbe essere del tutto indipendente da Dante, identificarsi addirittura con la langue vera e propria». 44 G. Carducci, Prefazione alle Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti ecc., cit., p. 338. 43

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madonna Laura, scritti da Luigi Peruzzi loro contemporaneo (ivi 1866); e ancora i Fioretti de’ Rimedi contro fortuna di messer Francesco Petrarca volgarizzati per D.G. Dassaminiato, a cura di D. C. Stolfi (ivi, 1867). Importante tra tutti era il commento del Marsili, curato dal Gargiolli, che sarebbe stato utilizzato di lì a poco proprio dal Carducci per la datazione, risentitamente polemica nei confronti del De Sanctis, della canzone All’Italia45. Ma rilevanti erano anche i volgarizzamenti che sottolineavano una presenza del Petrarca nella tradizione italiana come non solo poeta amoroso, ma come maestro civile e morale.

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6. Alla ricomposizione unitaria della fisionomia petrarchesca contribuiva accanto a Carducci un altro critico, nel quale la lezione di De Sanctis si univa alle sollecitazione del metodo storico: quel Bonaventura Zumbini che nell’università napoletana, con D’Ovidio, cercava di conciliare magistero desanctisiano e carduccianesimo, finendo per trovarsi d’accordo più con Carducci che con De Sanctis. Nel 1878 uscivano i suoi Studi sul Petrarca, poi ripubblicati e arricchiti di nuove pagine nel 189546. Anche in Zumbini era il Petrarca letterato quello che tornava alla luce, grazie all’attenzione per i rapporti intertestuali che legavano l’opera in volgare e la produzione in latino, sistematicamente valorizzata47, e promossa ad una approfondita indagine soprattutto negli accertamenti attorno all’Africa, citata sulla base del testo recentemente prodotto da Francesco Corradini48. La prospettiva carducciana agiva ben più di quella desanctisiana, proponendo una concezione della letteratura – ovvero della filologia e della tradizione – come valore non solo estetico ma civile: la lingua non era che l’elemento formale di quella latinità ch’egli [Petrarca] vagheggiava, e che consisteva principalmente nella scienza delle cose antiche e 45 G. Carducci, Discorso su la canzone «Italia mia», in Id., Rime di Francesco Petrarca sopra argomenti ecc., cit., poi in Id., Archeologia poetica, cit., pp. 417-49: il riferimento al Marsili, a p. 438. 46 B. Zumbini, Studi sul Petrarca, Napoli, Morano, 1878, poi Firenze, Le Monnier, 1895, da cui si citerà. 47 In questa direzione andavano intanto anche gli studi di Körting (Petrarca’s Leben und Werke, Leipzig, Fues’s Verlag, 1878) positivamente recensiti da Zumbini sulla «Nuova Antologia» del 1 febbraio 1879, pp. 560-73. 48 In Padova a Francesco Petrarca nel quinto centenario della sua morte, Padova, Tipografia del Seminario, 1874. Cfr. G. Floriani, Francesco Petrarca. Memorie e cronache padovane, Padova, Antenore, 1993; A. Brambilla, Petrarca tra Aleardi e Carducci. Appunti sulle celebrazioni padovane del 1874, in «Studi Petrarcheschi», n.s., XV (2002), pp. 221-52.

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nell’opera di restaurare l’antichità stessa per quanto fosse possibile. Restaurarla nelle istituzioni politiche, negli studi, nella vita: farne una resurrezione civile e filologica, e insieme una riproduzione artistica mercè della poesia: ecco i sommi fini a cui intendeva, la vera latinità ch’egli sentiva di possedere come nessun altro contemporaneo avrebbe potuto49.

E quel che contava – ad estrema liquidazione della critica risorgimentale – era l’approfondimento che attraverso l’analisi dell’Africa Zumbini conduceva sulla concezione dell’impero in Petrarca50. Ne nasceva la critica all’idea – assai patriottica e risorgimentale – che Petrarca avesse mai voluto condannare l’impero, e un rafforzamento delle tesi carducciane riguardo alla canzone All’Italia, con la connessa contestazione che proprio all’impero si riferissero i celebri versi 76-77: «non far idolo un nome / vano, senza soggetto»51. Va rammentato che a sostenere tale interpretazione era allora un principe del metodo storico, come D’Ancona nel Concetto dell’unità politica nei poeti italiani con il quale Zumbini apertamente polemizzava: non possiamo non dissentire da un uomo di tanta autorità, qual è il D’Ancona. Secondo lui, il Petrarca finì col credere che l’impero fosse un altro idolo da atterrare, un altro simulacro bugiardo, al quale più non si potesse prestare omaggio52.

Né D’Ancona accettava senza resistenze gli argomenti storici e testuali addotti sia da Carducci sia da Zumbini, ristampando anzi il saggio negli Studii di critica e storia letteraria tanto che Zumbini nella seconda edizione degli Studi sul Petrarca tornava sulla questione con un’appendice53 ancora utile a ricordare quali fossero i limiti della scuola storica, là dove metodo e ideologia rischiavano di entrare in conflitto. D’Ancona infatti riconosceva il peso degli argomenti contrari alla sua interpretazione, eppure la manteneva, affermando che Zumbini trattava «della politica del Petrarca un po’ troppo a fil di logica», mentre quella di messer Francesco gli sembrava «tutta di

49

B. Zumbini, L’Africa, in Id., Studi sul Petrarca, cit., p. 159. Id., L’Impero, ivi, pp. 161-255. 51 G. Carducci, Discorso su la canzone «Italia mia», cit. 52 B. Zumbini, L’Africa, in Id., Studi sul Petrarca, p. 82. Lo Zumbini riassumeva così le tesi esposte da A. D’Ancona nel Concetto dell’unità politica nei poeti italiani, Pisa, 1876 (poi in Id., Studii di critica e storia letteraria, Bologna, 1880). 53 B. Zumbini, La data della canzone ‘Italia mia’ e il ‘Nome vano senza soggetto’, in Id., Studi sul Petrarca, cit., pp. 355-81. 50

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impressioni e di sentimento»54. Non è difficile vedere il circolo che continuava ad instaurarsi tra una immagine di Petrarca come poeta sentimentale, e una debolezza o almeno vaghezza metodologica propria della scuola storica: l’accertamento dei dati era funzionale ad una prospettiva critica che non veniva messa in discussione. Scindendo il fatto dall’interpretazione, la scuola positivistica non sapeva approdare ad un approfondito ripensamento della fisionomia petrarchesca rispetto all’epoca romantico-risorgimentale, tanto meno – è naturale – quando dalla fattualità storica, si scendeva a quella psicologico-fisiologica,55 o addirittura anatomico-fisiognomica56. Era piuttosto la scuola carducciana, di stampo umanistico-filologico, a ricercare e ritrovare in Petrarca quel rigore e quella complessità di letterato che si richiedevano ai suoi interpreti. Sulle orme di Carducci aveva buon gioco Zumbini a rispondere a D’Ancona, una volta ancora sollecitando ad una lettura integrata dell’opera petrarchesca come «vero... solo metodo» per la sua comprensione: La logica è del povero critico, e mandiamola via; ma i fatti consistono tutti in testimonianze del Petrarca stesso, e bisogna far loro di cappello. Sono testimonianze desunte da tutte le sue opere diligentemente studiate col particolar fine di cercarne i concetti politici. Fatica non certamente ardua per nessuno; ma tuttavia indispensabile ad ottenere quel fine. Nè, s’io non l’avessi conseguito pur così facendo, si potrebbe da ciò argomentare che il vero, il solo metodo da tenere non fosse quello57.

54

A. D’Ancona, Studii di critica e storia letteraria, cit., p. 85. Si pensi all’ampia monografia dedicata a Petrarca da Bartoli, nella quale da un lato il misticismo del Petrarca latino era considerato una “malattia” ricorrente, quasi una febbre terzana, e d’altra parte la polemica petrarchesca contro la curia avignonese trasformava il poeta (nei momenti di salute mentale) in precursore di Lutero e della Riforma. Cfr. A. Bartoli, I primi due secoli della letteratura italiana, Milano, Vallardi, 1880, pp. 433-554 (poi in Id., Storia della letteratura italiana, Firenze, Sansoni, 1884). Notava la mancanza di una prospettiva di tipo letterario piuttosto che psicologico-fisiologico già F. Torraca, nella sua recensione sulla «Rivista critica della Letteratura Italiana», I (1884), pp. 2-7. 56 G. Canestrini, Le ossa di Francesco Petrarca. Studio antropologico, Padova, Prosperini, 1874. Canestrini fu poi l’autore della Teoria di Darwin criticamente esposta, Milano, Dumolard, 1880, influente sull’avventato manifesto del darwinismo letterario e critico di U.A. Canello, Letteratura e darwinismo, Padova, Draghi, 1882. Cfr. C. Dionisotti, Appunti sulla scuola padovana, in Medio Evo e Rinascimento con altri studi in onore di L. Lazzarini, Padova, Antenore, 1979, II, pp. 327-48. 57 B. Zumbini, La data della canzone ‘Italia mia’ e il ‘Nome vano senza soggetto’, cit., p. 367. 55

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In questa stessa direzione – anche se con minore respiro critico – si muovevano le letture di D’Ovidio, più tardi raccolte negli Studi sul Petrarca e sul Tasso58. Ne usciva trasformato anche il genere letterario dello “studio”, come dimostrava l’intervento Sulla canzone «Chiare, fresche e dolci acque»59: quello di D’Ovidio non era più un saggio, a ben vedere, ma un commento puntuale, un’esposizione del testo, sempre mossa tra riferimenti intertestuali e dati biografici, con un insistente intreccio tra la critica estetico-interpretativa e le ragioni linguistico-storiche. E di nuovo era una concezione diversa della “funzione Petrarca” a venire in primo piano, proponendo l’immagine di un poeta-letterato ben consapevole delle proprie strategie, e rovesciando rispetto al primo romanticismo e allo stesso De Sanctis la critica in elogio. Solo così si giustificava l’applicazione di una strenua analisi testuale non solo ad un testo enciclopedico come quello dantesco, ma ad un testo lirico, qual era il Canzoniere: a taluni anche parrà che ogni commento cosiffatto sia soverchio e perfin dannoso. V’è di quelli a cui sembra che la poesia basti intenderla alla buona, e bisogni contentarsi di quell’onda d’armonia che essa lascia nell’orecchio e di quel tumulto d’immagini e di sentimenti che suscita nella mente e nel cuore. Il volersi anzi rendere esatto conto d’ogni parola, d’ogni concetto, d’ogni accenno, non fa a senso loro se non ammorzare la vivacità dell’impressione e rompere il fascino che appunto è, dicono, in quel non so che indistinto e vago, che forse dev’essere stato nell’intelletto stesso del poeta e certo è uno dei più grati effetti che l’opera sua produce. [...] Più grande è il poeta, più è giusto il presumere ch’egli sapesse bene quel che voleva dire [...] il rassegnarsi a quell’intendere che può anch’essere un frantendere [...] il considerare come necessità delle cose quella che è ignoranza o infigardaggine propria, e fare di codesta necessità non virtù ma vizio: tutto ciò è un precluder la via allo studio insistente, instancabile, amoroso, che solo ci può far gustare a pieno i capilavori della poesia60.

7. La filologia carducciana proponeva nella sua analisi di Petrarca un modo non solo di far critica, ma di far lirica. La filologia poteva intrecciarsi con l’ispirazione, le meditazioni religiose fondersi con i moti più individuali e segreti dell’animo, la poesia nascere dalla poesia. Era su un esemplare del commento carducciano che leggeva e sottolineava i versi di Petrarca Guido 58

F. D’Ovidio, Studi sul Petrarca e sul Tasso, Roma, A.P.E., 1926. Ivi, pp. 1-43. 60 Ivi, pp. 41-43. 59

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Gozzano riproponendo «a distanza di decenni, i Rerum vulgarium fragmenta come libro di apprendistato poetico per eccellenza, degno di stare accanto alla Commedia di Dante»61. Nell’attenzione del suo commento alla ricezione del Petrarca da parte della successiva tradizione poetica, Carducci preparava un più ampio campo d’applicazione di quel suo neo-umanesimo, con uno sguardo nuovo e indagatore rivolto alle variazioni e alle innovazioni del petrarchismo. Questo mutamento ampio di prospettive trovava sostegno nelle ricerche nelle biblioteche e negli archivi che preparavano le edizioni criticamente condotte non solo del Canzoniere ma delle opere latine del Petrarca nel primo Novecento: sempre più possibile era dunque l’lluminazione del Petrarca volgare attraverso quello latino. Biografia e recupero testuale divenivano così tutt’uno, indicando una strada che da Carducci, portava all’allievo Foresti che nei primi decenni del Novecento, nelle biblioteche prima di Bergamo (l’ “Angelo Mai”), poi di Brescia (la “Queriniana”), scavava e lavorava secondo non solo la pratica, ma l’etica del metodo storico: quella che Billanovich ha definito «l’arte di scavare nel sasso: cioè di perseguire a fondo le inchieste, tra edito e inedito»62. Nel Novecento, proseguendo in questa direzione, Foresti ne avrebbe dimostrato la vitalità oltre la soglia dell’idealismo riproponendola esemplarmente con gli Aneddoti della vita di Francesco Petrarca, nella propettiva di una piena integrazione, attraverso una ricerca storico-biografica, tra il Petrarca in volgare e quello in latino. Era proprio la linea che s’inarcava tra Nolhac e Foresti a produrre infine, nel pieno Novecento un radicale ripensamento di Petrarca, come rammentava Billanovich nel 1947, con la dedica a Giuseppe De Luca del Petrarca letterato63. Petrarca diveniva «una figura viva quasi interamente rinnovata, ben diversa da quella che l’ammirazione degli imitatori o lo sprezzo de’ detrattori ci han tramandata»: un «Petrarca letterato», ma liberato dalla secolare «ideologia della letteratura» – come l’ha chiamata il Guglielminetti – connessa alla tradizione petrarchista. Era uno sviluppo del tutto inatteso di ciò

61 M. Guglielminetti, Petrarca e il petrarchismo. Un’ideologia della letteratura (1977), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1994, p. 49. 62 G. Billanovich, Foresti e Petrarca (e Carducci), premessa a A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca (1928), nuova edizione corretta e ampliata dall’autore, Padova, Antenore, 1977, p. XIV. 63 G. Billanovich, Prefazione a Id., Petrarca letterato. Lo scrittoio di Petrarca, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, p. VI: «Di mese in mese mi divennero più amici che guide de Nolhac, Novati, Rajna, Cochin, Sabbadini, Burdach, Rossi, Foresti».

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La rivincita della letteratura. La “funzione Petrarca” in Carducci e nell’età del metodo storico

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cui già i romantici avevano aspirato: perché, appunto, il distacco tra Petrarca e Petrarchismo, significava non più l’allontanamento, ma la rivincita della letteratura nella lettura novecentesca di Petrarca. Avrebbe scritto Billanovich nella dedica del suo libro, che ad apparire era: un Petrarca più ricco e robusto, anzi tutto campione e maestro di erudizione e di ascetica, e poeta più vario, che il Petrarca quasi solo elegiaco, pregiato dai retori e dai verseggiatori del Cinque, del Sette o dell’Ottocento. La retorica rinascimentale, poi la retorica arcadica e romantica, mentre impoverivano la figura del Petrarca, logicamente restrinsero insieme la visione della sua fortuna. La storia del vero petrarchismo è ancora da rivelare quasi del tutto. Il petrarchismo giace come un fossile enorme entro secoli fondamentali nella vicenda culturale e spirituale dell’Occidente. E gli intellettuali a cui è negato da secoli persino di leggere in testi autentici e sufficienti il Secretum e il De remediis, stentano a distinguere la vastità di quella grande mole giacente, o nemmeno avvertono la presenza di quell’ingombro64.

E, riprendendo quel che già Carducci aveva scritto sulla funzione civile dell’umanesimo petrarchesco, scriveva ancora Billanovich a De Luca: tu ricordi, o carissimo, che per qualcuna delle nostre conversazioni di clienti del Petrarca abbiamo trovato questa conclusione: che l’avere guardato solo al Petrarca poeta, trascurando con dichiarato disprezzo il Petrarca letterato, poté sembrare un’acutezza ingegnosa ai lettori dell’età che è appena trascorsa; ma ora a noi appariva uno degli indizi più eloquenti del passaggio, sicuramente in discesa, per cui dalla retorica ancora turgida di attenzioni e di commozioni molteplici che animò i circoli dove si educarono l’Ariosto, il Bembo e il Castiglione poi scuole e lettori calarono, attraverso le strette dell’arcadia, al purismo secco che afflisse il nostro primo Ottocento e, forse più rinforzato che combattutto dagli acuti stimoli romantici, più gravemente il secondo. E forse ricordi ancora meglio che una sera, a salvarmi dal solito imbarazzo della scelta di un titolo, mi suggeristi di scrivere davanti a queste pagine Petrarca letterato: anzi tutto per mostrare che il loro tema centrale è il Petrarca dottissimo, lettore instancabile ma vigilatissimo, educatore e dettatore del Petrarca scrittore e poeta, e promotore di una scuola di lettere che si estese in tutta la vecchia Europa con un vigore e una vastità che nessun’altra consorteria letteraria poté poi raggiungere; ma più ancora per indicare subito una delle strade maestre dove passerà l’assalto che, riaggiustando le fratture provocate dalla scuola umanistica, dovrà condurci a

64

Ivi, pp. X-XI.

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riconquistare la visione dell’unità armoniosa della cultura e della letteratura nel Trecento65.

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8. Ma accanto a queste anticipazioni critiche, non contavano meno le anticipazioni di carattere poetico ed estetico proposte dagli interventi carducciani. Non si comprenderebbe infatti l’attenzione rivolta dal Carducci agli aspetti stilistici, metrici, retorici della poesia petrarchesca, se non la si connettesse ad una più generale immagine della poesia. Quella stessa immagine che nel saggio Delle ‘Rime’ di Dante indicava nelle liriche dantesche la testimonianza di successivi attraversamenti di varie tradizioni e scuole letterarie, aprendo così la strada all’idea tutta moderna che lo scrittore possa raccontare la storia della propria poesia nella poesia stessa, attraverso strategie formali e giochi allusivi. Dante non era un primitivo rispetto a Petrarca. Era anche lui poeta coltissimo, poeta “letterato”, giunto a rinnovare, non a creare una tradizione di forme poetiche: Chi considerasse Dante come un poeta primitivo, nel significato un po’ incerto e vaporoso che si dà a quell’aggiunto; chi lo chiamasse più determinatamente il creatore della nostra poesia e venisse ripetendo la ricantata imagine della lingua italiana uscita tutt’armata dal capo di lui come Pallade da quel di Giove; quegli mostrerebbe di non intendere né Dante né l’età di lui né la maniera di svolgersi d’una letteratura66.

Piuttosto che creazione immediata, sentimentale, la poesia tornava ad essere “letteratura”. Questa era la fisionomia del “poeta ideale” che Carducci delineava nel saggio Dante Petrarca e il Boccaccio, accoppiando la solitudine petrarchesca non tanto alla malinconia, quanto all’isolamento dello studioso e ad uno squisito proto-estetismo. Citando i versi del sonetto De l’empia Babilonia (RVF, 114), «Qui mi sto solo; e come Amor m’invita,/ or rime e versi, or colgo erbette e fiori», il Carducci li commentava osservando che il Petrarca veniva così ad allogarsi in quella [...] famiglia poetica di tempre squisitissime che elabora con lungo amore il sentimento ed è custode gelosa dell’arte perfezionatrice67.

65

Ivi, pp. XI-XII. G. Carducci, Delle ‘Rime’ di Dante (1865), in Id., Studi letterari (1874), Bologna, Zanichelli, 1907 (2 ed.), p. 20. 67 G. Carducci, Dante Petrarca e il Boccaccio, cit., p. 226. 66

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La rivincita della letteratura. La “funzione Petrarca” in Carducci e nell’età del metodo storico

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Era la stessa prospettiva che agiva nel congiungere Petrarca ed oblìo – parola così cara a Carducci, e così anticipatrice di un gusto fin-de-siècle – nel sonetto dedicato a Petrarca nei Levia Gravia, dove non era affatto l’amore per la donna, ma sempre quello per la poesia a dominare: Se, porto de’ pensier torbidi e foschi, ridesse un campicello al desir mio con poca selva e il lento andar d’un rio a l’aër dolce de’ miei colli tóschi, vorrei, là in parte ove il garrir de’ loschi mevi non salga e regni alto l’oblio, pórti un’ara con puro animo e pio ne la verde caligine de’ boschi. Ivi del sol con gli ultimi splendori ridirei tua canzon tra erbose sponde a l’onde a l’aure a i vaghi augelli a i fiori: gemerebber più dolci e l’aure e l’onde, più puri al sole i fior darian gli odori, cantando un usignol tra fronde e fronde.

La notte – non solo del singolo giorno ma della storia68 – era prossima a calare. Il paesaggio si faceva quasi irreale, tutto letterario: la poesia sembrava poter nascere ormai solo dalla poesia. Ridicendo i versi del Petrarca, e quasi sillabandone l’eco «a l’onde a l’aure ai vaghi augelli a i fiori», la foschia tornava brevemente a dissolversi, i fiori rivivevano sotto il sole, quasi che la letteratura fosse – come già aveva suggerito Leopardi – l’ultima illusione che il poeta potesse ancora difendere ed incarnare. Più delle singole ricorrenze testuali di Petrarca, era questa “funzione Petrarca” che il Carducci lasciava in eredità ai suoi lettori, a cominciare da d’Annunzio: l’ipotesi di una lirica assoluta, coincidente col museo della letteratura e delle sue forme, capace di sopravvivere alla morte hegeliana della poesia a patto di divenire tutt’uno con l’archeologia.

68 Rimando per questo valore simbolico del dato ambientale al mio cappello introduttivo a Carducci in Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, III, Ottocento-Novecento, Torino, Einaudi, 1999, pp. 406-13.

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Pietro Gibellini

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D’ANNUNZIO E PETRARCA

Nella sterminata bibliografia su D’Annunzio non si trova uno studio specifico sul suo atteggiamento verso Petrarca, un tema che non risulta neppur tangenzialmente toccato da contributi su argomenti circonvicini. Manca dunque la materia per imbastire un discorso, in occasione di questo centenario? Potrebbe lasciarlo supporre la notizia, da poco emersa, che l’Imaginifico, pronto a celebrare solennemente Dante, lasciò invece cadere l’invito a commemorare Petrarca rivoltogli dal comitato per le sue onoranze nel 19041. Vero è che nei cinquanta volumi dell’opera dannunziana, negli scritti sparsi e nelle lettere edite e inedite, il cantore di Laura compare, per lo più di sfuggita, in un’ottantina di luoghi. Poca cosa, rispetto a quella mole di pagine, anche se queste menzioni, riunite e collegate, ci sembrano offrire un materiale sufficiente per capire in quale considerazione l’Imaginifico tenesse il poeta laureato.

1 Cfr. G. d’Annunzio, Carteggio con Benigno Palmerio, a cura di M. M. Cappellini e R. Castagnola, Racconigi, Aragno, 2003, p. 166. La notizia si ricava dalla lettera di Palmerio del 10 aprile 1904: «Il presidente del Comitato per le onoranze a Petrarca in Arezzo, scrive a me pregandomi di sollecitare una tua risposta per il discorso commemorativo da te già promesso. È necessario che tu scriva subito». Presidente dell’Accademia era allora Gian Francesco Zamorrini.

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Pietro Gibellini

1. Gli scritti sparsi 1.1. Appunti, lettere e interviste Prendiamo l’avvio da un articolo apparso sul «Corriere della sera» nel 1946 dove è rievocato un colloquio con D’Annunzio, svoltosi al tempo della Capponcina:

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Il discorso deviò sulla letteratura italiana. Disse male del Carducci, un po’ meno del Pascoli. Disse che l’Italia aveva avuti, prima di lui, tre soli poeti: Dante, Petrarca e Leopardi; gli altri non erano stati che chitarristi 2.

Poiché chi scrive non è un giornalista qualunque, ma si chiama Umberto Saba, potrebbe nascere il sospetto che nel suo resoconto ci sia una licenza poetica. Ma un paio di carte lasciate nei cassetti del Vittoriale dal vecchio Vate conferma quello sceltissimo cànone. In una si legge: L’arte di scrivere è perduta. Citare alcuni versi di Dante, alcuni del Petrarca. Dire perché Alcyone è un gran libro di poesia3.

E nell’altra: Dov’è la poesia nella letteratura d’Italia? Nei primitivi, in certe notazioni in margine alle carte notarili – ma Ariosto, Tasso, tutto il resto! E Manzoni? E Leopardi? La poesia italiana comincia con 200 versi di Dante e – dopo un lungo intervallo – continua in me4.

Sono appunti acroni, ma certamente tardi, e il secondo probabilmente posteriore al primo, visto che la tendenza autocelebrativa del Gabriele attempato vi raggiunge il suo apice. Egli non nomina più, oltre a Leopardi, Petrarca, sempreché non lo metta nel mazzo dei «primitivi», comunque escluso dall’ulteriore selezione limitata alla poesia italiana, ridotta a duecento versi di Dante e, naturalmente, ai suoi, tutti forse, ma certo quelli di Alcyone, come fa supporre il primo appunto. 2 U. Saba, Il bianco immacolato signore, in «Corriere della sera», 24 nov. 1946, poi in Gabriele d’Annunzio. Volti e maschere di un personaggio, a cura di S. Costa, Firenze, Sansoni, 1988, pp. 112-116. 3 In P. Gibellini, Il ritorno di D’Annunzio, in «Italienisch», 20 (1988) pp. 1-11. 4 In G. d’Annunzio, Di me a me stesso, a cura di A. Andreoli, Milano, Mondadori, 1990, p. 217.

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D’Annunzio e Petrarca

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Ma che cosa pensava del poeta del Canzoniere, il quarantenne autore delle Laudi? Ce ne informa un’intervista rilasciata a De Amicis nel giugno 1902, in un periodo di intesa fra i due letterati, impegnati entrambi nella questione della lingua (a Edmondo, Gabriele dedica in quelle settimane l’Otre alcionio). D’Annunzio, partendo da Machiavelli e dal “machiavellismo”, vi fa un parallelo con Petrarca e il “petrarchismo” (distinzione su cui ritornerà poi) ed esprime per i due auctores, associati a Dante, la sua massima ammirazione: «La sua prosa mi brucia. È un colosso di forza e di bellezza. È una giovinezza immortale. Ma noi lo vediamo a traverso il ‘machiavellismo’, che ci altera i contorni della sua figura, come vediamo a traverso il ‘petrarchismo’ il Petrarca, che però [idest perciò] ci appare rimpicciolito e velato». E del Petrarca si professò innamorato ardentissimo. Quello che di lui e del Machiavelli gli pare che si possa dire anche di Dante, dal quale ci allontana l’insegnamento scolastico, che dovrebbe invece ispirarcene l’adorazione5.

Fondendo queste testimonianze, potremmo stilare le smilza classifica dei poeti italiani fatta da quel giudice non modesto né super partes: primo lui stesso, secondo Dante, terzo Petrarca, quarto Leopardi. Non vi entra Carducci, «maestro avverso» celebrato in vita e in morte (non senza rinvii al cantore di Laura, come vedremo), e neppure Pascoli, del quale Gabriele, «fratello maggiore e minore», aveva per primo segnalato le Myricae e, nonostante i travagliati rapporti, aveva rievocato commosso la scomparsa nella Contemplazione della morte. Poiché nel primo appunto citato D’Annunzio dichiarava di considerare la poesia che l’Italia aveva avuto “prima” di lui, l’esclusione non può attribuirsi a motivi anagrafici, ma d’ordine letterario. Già l’elogiativa recensione a Myricae terminava con una riserva sul linguaggio pascoliano, comparato, si badi, con quello di Petrarca: E noto la mancanza di quel mistero che soltanto la potenza occulta della musica crea intorno ai fantasmi poetici: – di quel mistero che è, per esempio, assai profondo in certi scritti e in certe sestine del Petrarca, dove le parole paiono divenire immateriali e dissolversi nell’Indefinito6. 5 E. De Amicis, Come parla e come scrive Gabriele d’Annunzio, in «La Tribuna», 10 (giu. 1902), poi in Interviste a D’Annunzio, a cura di G. Oliva, Carabba, Lanciano, 2002, p. 84. 6 G. d’Annunzio, L’arte letteraria nel 1892. La poesia, in «Il Mattino», 30-31 dic. 1892; poi in Scritti giornalistici, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, II (1889-1938), Milano, Mondadori, 2003, p. 121.

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(Il rimprovero alla poesia pascoliana, certo discutibile, di mancare di mistero, è imputabile per D’Annunzio al suo linguaggio, di eccessivo spessore materico, un difetto che sarà parodiato in un gustoso pastiche del Libro segreto)7.

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1.2. Le lettere Quello riportato dall’autore di Cuore è l’unico cenno a Petrarca che compare nel ponderoso tomo delle interviste rilasciate dall’Imaginifico. E non più di una manciata sono le sue presenze nel cospicuo epistolario, edito solo in parte e sparsamente, ma, almeno per il nucleo cospicuo del Vittoriale, regestato e corredato da un utile onomasticon. Si tratta per lo più di menzioni a scopo retorico o decorativo, come quella di una lettera aperta indirizzata nel 1904 a Enrico Corradini in risposta a un’inchiesta del suo giornale sui rapporti italo-austriaci, nella quale, Gabriele bersaglia gli imbelli che evocano strumentalmente il Petrarca di «Pace, pace, pace»8. È invece il Petrarca patriota a fare capolino in altre lettere semipubbliche e negli scritti politici, come in uno degli ultimi discorsi fiumani, pronunciato poco prima del «Natale di sangue» del 1920. D’Annunzio, che aveva risposto con una lettera imprudente all’invio fattogli da Attilio Hortis di vari scritti irredentisti e del catalogo dell’importante fondo petrarchesco Rossetti della biblioteca di Trieste, contrappone gli incerti politicanti italiani agli ardenti uomini adriatici, compreso quel mite Attilio Hortis che involontariamente avevo rischiato di compromettere con una epistola non abbastanza petrarchesca9. 7 Cfr. ID., Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire [1935], a cura di P. Gibellini, Milano, Mondadori, 1977, ed. accr. 1995, p. 95 e commento a p. 287. Si tratta della seguente quartina: «Le tue parole assempran le galline / d’un gallo senza cresta e senza canto. / N’esce il pensiere come l’ovo caldo / in premio alle massaie mattutine». Nel testo a stampa non compaiono altre indicazioni, ma nella stesura originale, scritta a lapis sul risguardo di un’edizione delle poesie di Verlaine, ai quattro versi seguiva, fra parentesi e con punto interrogativo, il nome di Pascoli. D’Annunzio, grande ammiratore invece del Pascoli latino, in un’intervista del 1911 mostra il proprio sdegno per la sua mancata premiazione in Campidoglio, «sul monte ove il Petrarca fu laureato poeta latino» (Come fu composto il San Sebastiano, in «Corriere della sera», 3 maggio 1911, ora in Scritti giornalistici, cit., II, p. 1456). Qui Petrarca è implicitamente lodato per i suoi versi latini, mentre, come vedremo, nel Secondo amante di Lucrezia Buti la lingua del Secretum verrà definita poco aurea. 8 Archivio Personale del Vittoriale (APV); cfr. Catalogo delle lettere di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, in «Quaderni Dannunziani», XLII-XLIII, 1976, p. 205. 9 G. d’Annunzio, La carta di Laverna, in «La vedetta d’Italia», 17 (dic. 1920).

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D’Annunzio e Petrarca

Più rilevante, anche sul piano letterario, è quanto Gabriele scrive al suo editore Emilio Treves il 24 febbraio 1901, inviandogli il manoscritto della Canzone in morte di Giuseppe Verdi:

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Sarai contento di vedere che questa volta la forma è tradizionale. Ho riprodotto quella della famosa «Italia mia, ben che ’l parlar sia indarno» [RVF 128]. Ma il vigor novo trasfigura le strofe petrarchesche10.

Petrarca è dunque riconosciuto maestro di metro da D’Annunzio, che sembra però ancora una volta ritenersi a lui superiore per la propria capacità di dare alle strofe un «vigor novo». Dopo averlo imitato nella canzone e (vedremo) nella sestina, egli pare averlo fatto anche in un sonetto, scritto in veneziano, alla Calmo, in lode di Olga Levi, l’amante del secondo soggiorno nella Serenissima. Così, in una lettera, le annuncia l’invio del componimento, peraltro non reperito, finora, tra le carte di Gabriele: nel ton che se convien a quel viseto, sul gusto del Petrarca xe el soneto e se volé sentirlo, ecolo qua…11.

Gli altri riferimenti epistolari a Petrarca, presenti in lettere ufficiali, sono poco più che sfoggi di erudizione. Il 23 dicembre 1922, indirizzando al cardinal Pietro Gasparri la prima copia del Libro ascetico della giovane Italia, con dedica autografa al papa («Alla Santità di Pio XI questo libro di dolore e di fervore divotamente offre Gabriele d’Annunzio * La Vigilia di Natale, 1922»), Gabriele spiega: Il libro è segreto, nel senso che Francesco Petrarca darebbe oggi all’epiteto. Perciò prego l’Eccellenza Vostra di difenderlo contro ogni curiosità malsana o importuna. Non sarà dato alla moltitudine se non fra alcuni giorni 12.

La stessa immagine D’Annunzio userà il 12 settembre 1923, quando scrive a Giovanni Beltrami, fiduciario di Treves, ricordandogli che con il contratto del 6 luglio 1921 per l’Opera omnia, ha ceduto all’editore, con il quale era in attrito, la cura di una grande e definitiva edizione di tutte le mie Opere scritte e ancor da scrivere, concette e ancor da concepire, fatta eccezione di quelle che il buon 10

Id., Lettere ai Treves, a cura di G. Oliva, Milano, Garzanti Libri, 1999, p. 228. APV; cfr. Catalogo cit., p. 540. 12 APV; cfr. Catalogo cit., p. 351. 11

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Petrarca chiamerebbe segrete, non destinate ad porcos, ma forse comprensibili e laudabili fra un paio di secoli13.

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Nel giorno dell’Epifania del 1930, invitando Umberto di Savoia a farsi, sulle orme di Vittorio Emanuele III, patrono della Compagnia del Retaggio, costituita a Gardone nel 1921 sotto il suo patrocinio con il fine «di preservare di rinnovellare e di propagare i più schietti caratteri della razza e le più costanti impronte della tradizione», il Vate accompagna la sua lunga lettera con un dono di enorme pregio, per un bibliofilo: Oggi la Compagnia offre alla Principessa Maria [Josè] Bèlgica, monimentum et pignus amoris, uno tra i più preziosi libri di Aldo Romano impresso in Vinegia nell’anno 1501 del mese di luglio e con somma diligenza tolto «dallo scritto di mano medesima del Poeta havuto da Messer Piero Bembo»: Le cose volgari di Messer Francesco Petrarcha. Sarà forse dolce rileggere in tanto pure ed armoniose pagine aldine il sonetto «Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra» [RVF 192]14.

Infine, in un telegramma, senza data ma assegnabile all’inizio del 1936, D’Annunzio informa Mussolini di aver abbracciato il principe Ermanno di Schoenburg rendendolo così italiano non tanto per territorio quanto per magnanimità, affinché dal Petrarca egli derivi e pregi il «Latin sangue gentile» [RVF 128, 74]15.

Dunque, a ciascuno il suo Petrarca: quello della discrezione al Vaticano, quello dei dolci versi e della cinquecentina più preziosa alla casa reale, quello dell’epos nazionale al duce bellicoso. 1.3. Gli articoli su riviste Negli articoli giornalistici i cenni a Petrarca, seppur marginali, si fanno più numerosi e meno fugaci. In un pezzo del 1886 intitolato Un ventaglio, dopo un breve cenno ai pittori Cabianca e De Maria, Gabriele si sofferma su Giulio Aristide Sartorio,

13

APV; cfr. Catalogo, cit., p. 85. APV; cfr. Catalogo, cit., p. 825. 15 APV; cfr. Catalogo, cit., p. 710. 14

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D’Annunzio e Petrarca

artista modernissimo che sa nello stesso tempo trarre alcune delle più belle e pure sue inspirazioni da Dante e dal Petrarca e dai minori poeti del dolce stil novo16.

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È il Sartorio della fase preraffaellita, sicché il discorso si sviluppa sulla Vita nova dantesca, il vangelo di quella scuola. Due anni più tardi, descrivendo l’accoglienza calorosa del pubblico romano ad Ambrogio Thomas, dopo essersi soffermato sul musicista commosso sul proscenio, lo sguardo dell’articolista corre verso le belle signore che stanno nei palchi, tra le quali la figlia del compositore, il cui volto gli rammenta quello della dama raffigurata nel tizianesco Amor sacro e amor profano della galleria Borghese. Di rado, assai di rado, un artefice umano è giunto a impregnar di tanto splendore una tela; e di rado, assai di rado, un volto muliebre così felicemente ha preso qualità dal vivo lume, come direbbe il Petrarca 17

scrive convocando pictura e poesis, che finiscono per diventare l’oggetto della lode. Sempre nel 1888, sulla scia del discorso e dei versi dedicati da Carducci a Jaufré Rudel, D’Annunzio, ripercorre il “mito” del poeta dell’Amor di terra lontana e nomina due volte, di sfuggita, Francesco: la prima quando dice che «dai trovatori passò la storia [di Rudel] al Petrarca; e ne discorsero due commentatori di lui e ne ragionarono filosofi ed estetici», la seconda quando accenna alla «scuola di Guascogna in cui grandeggia Arnaldo Daniello, ammirato ed imitato dall’Alighieri e dal Petrarca», dove il rilievo dato al provenzale scaturisce probabilmente all’interesse dannunziano per la sestina lirica18. E commentando poi la lirica carducciana osserva: Incomincia egli con un verso del Petrarca: «Giaufrè Rudel che usò la vela e ’l remo / a cercar la sua morte» tra i bellissimi del Petrarca [Trionfo d’amore IV, 52-53], meraviglioso, poiché sveglia un desiderio come di fantasia malinconicamente favoleggiata19.

16 G. d’Annunzio, Cose d’arte. Un ventaglio, in «La Tribuna», 16 nov 1886, poi in Scritti giornalistici, a cura di A. Andreoli e F. Roncoroni, I (1882-1888), Milano, Mondadori, 1996, p. 672 17 Id., Cronaca bizantina. Roma ad Ambrogio Thomas, in «La Tribuna» (11 feb. 1888), poi in Scritti giornalistici cit., p. 1051. 18 Id., Cronaca letteraria. Giaufré Rudel, in «La Tribuna», 9 apr. 1888, poi in Scritti giornalistici, cit., pp. 1124-1125. 19 Ivi, p. 1125.

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È questa, a ben vedere, la prima attestazione di stima incondizionata per il poeta di Laura incontrata nella nostra rassegna. Un paio di mesi dopo, nell’articolo sulla biblioteca del barone de la Roche-Lacarelle, la lista di preziosità bibliografiche menzionate con compiacimento alessandrino è così conclusa:

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In tutta quanta la biblioteca io sceglierei, per la mia felicità (e spero che un qualche lettore mio devoto mi voglia fare il principesco dono), la raccolta delle poesie di Francesco Petrarca, le quali il divino Attavante scrisse di sua mano e illustrò di mirabili disegni per la felicità del poeta Lorenzo de’ Medici20.

L’invito parentetico potrebbe essere uno dei rari tocchi autoironici del Vate, ma potrebbe anche celare il desiderio del bibliofilo di sollecitare qualcuno a fargli quell’omaggio. Certo è che il Duca Minimo, alias Gabriele, vuole distinguersi del raccoglitore di libri feticista disegnato in punta di penna nel 1887 nel primo dei Grotteschi e rabeschi, il quale, con i pantaloni sfilacciati, allunga come una tartaruga il collo per scrutare tra gli scaffali polverosi e, come Giovanni Grolier, il tesoriere di Francesco I, […] ha imaginato rilegature di non mai veduta bellezza: severe e pesanti come quella delle Epistole di Cicerone tutta di legno e di rame, che cadendo ferì profondamente alla gamba sinistra il Petrarca21.

Riferito dallo stesso Petrarca (Fam., XXI 10, 16-26), l’aneddoto serve qui a Gabriele, bibliofilo innamorato delle rilegature ma viveur e dandy, per allontanare umoristicamente da sé l’immagine di quel maniaco straccione. 2. Petrarca nella biblioteca del Vittoriale Al di là del loro limitato valore intrinseco, le menzioni nelle lettere e nelle pagine sparse mostrano che Petrarca fu una presenza costante nella lunga vita di D’Annunzio. Lo conferma il significativo nucleo di edizioni

20 Id., Cronaca letteraria. La biblioteca del barone de la Roche-Lacarelle, in «La Tribuna», (14 mag. 1888) poi in Scritti giornalistici, cit., p. 1177. 21 Id., Grotteschi e rabeschi, in «La Tribuna», (18 ott. 1887) poi in Pagine disperse, a cura di A. Castelli, Roma, Lux, 1913, p. 360.

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D’Annunzio e Petrarca

petrarchesche (di cui forniamo il catalogo in appendice a questo scritto) della biblioteca del Vittoriale, costituita dai libri raccolti dal Vate nella maturità (anche se vi figura un Petrarca veneziano del 1609, recuperato dai libri della Capponcina venduti all’asta) e da quelli del precedente proprietario della villa, il colto Heinrich Thode, cui appartennero l’edizione delle Rime del 1811, quella dei Sonette und canzonen (1904) e il saggio su Stil, Rhythmus und Reim in ihrer Wechselwirkung bei Petrarca und Leopardi di Karl Vossler (1903), che Gabriele, poco o punto esperto di tedesco, probabilmente non lesse. La biblioteca gardonese rivela la passione del bibliofilo, prima di quella del lettore: dell’opera di Messer Francesco conserva infatti due incunaboli, tredici cinquecentine, due stampe secentesche e due settecentesche, e altre successive. Il testo più rappresentato è il Canzoniere, edito da solo o congiuntamente ai Trionfi, secondo la consuetudine attestata dai due incunaboli del Vittoriale: quello con i Trionfi e le Rime, edito a «Venesia» da Pasquali Bolognese nel 1486, accompagnati dal commento di Bernardo Lapini gli uni e di Francesco Filelfo e Gerolamo Squarzafico le altre; e quello con le stesse opere e commenti, pubblicato pure a Venezia, per la cura di Gabriele Bruno e Girolamo Centone da Quarenghi, nel 1494. Vi si trovano poi Li Sonetti Canzone Triumphi, con il commento di Bernardo Lapini (1519), Le rime per la Bottega d’Erasmo (1549), il Petrarca lionese «con nuove e brevi dichiarazioni» (1551), quello con l’esposizione del Gesualdo (1554), quello con annotazioni tratte dalle prose del Bembo (1568), un altro lionese dove «si dimostra qual fusse il vero giorno et l’hora» dell’innamoramento, (1574), le Rime commentate da Vellutello, (1579), il ricordato Petrarca veneziano della Capponcina (1609), le Rime riscontrate sui codici dell’Estense (1711) e quelle impresse a Orléans (1786). Fra le edizioni moderne, dopo quella ricordata del 1811 con l’ex-libris di Thode, troviamo le Rime con note di Giacomo Leopardi e integrazioni di Eugenio Camerini (1882), i Trionfi a cura di Flaminio Pellegrini (1897), Le rime commentate da Giosuè Carducci e Severino Ferrari (1899), il Canzoniere riprodotto «letteralmente» dal Vaticano Latino 3195 (1904) a cura di Ettore Modigliani, un’edizione delle Rime a cura di Giuseppe Salvo Cozzo (1904) e una senza data dell’Istituto Editoriale Italiano; nonché la canzone politica Parma liberata dal giogo di Mastino della Scala, riedita e commentata da Francesco Berlan (1870). Si aggiungano la traduzione francese verseggiata dei Sonnets (1902), e quella dei Sonnets, Canzones, Sestines, Madrigaux et Triomphes (1932) con dedica a D’Annunzio del traduttore Ferdinand Bailly, e la monografia Laure et Pétrarque di Charles Weiss (1935), con dedica dell’autore.

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Le opere latine, oltre che nell’edizione basilese Opera que extant omnia (1554), figurano prevalentemente nei loro volgarizzamenti. Tra esse primeggia il De remediis utriusque fortune, la cui “fortuna” è del resto ben nota agli studiosi, presente in una giolitina nella versione di Remigio Nannini (De rimedi de l’una et l’altra fortuna, 1549), in un’altra stampa veneziana, sempre in traduzione (1584), in un De Remediis latino (1584), ancora nella traduzione di Remigio fiorentino (1607), poi in quella di Giovanni da San Miniato, sia nell’editio maior (De’ rimedii dell’una e dell’altra fortuna, 1867) che in quella antologica (Fioretti de’ rimedii contra fortuna, 1867). In volgare sono anche El secreto (1517), la Chronica de le vite de pontefici et imperatori romani (1534), La vita solitaria in un inedito volgarizzamento del Quattrocento (1879), L’autobiografia, il secreto e dell’ignoranza sua e d’altrui, con l’immancabile Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna, a cura di Angelo Solerti (1904), donde D’Annunzio attinse i passi del Secretum inclusi, come vedremo, nelle Faville del maglio. Quanto alle lettere, accanto all’edizione del testo latino curata da Giuseppe Fracassetti, Epistolae de rebus familiaribus et variae (1859-1863), ne abbiamo due in volgare tradotte dallo stesso Fracassetti: le Lettere (18631867) e le Lettere senili (1892), fonte delle citazioni inserite nella Vita di Cola di Rienzo. Oltre a confermarci la passione del “bibliomante”, come si definì D’Annunzio nel Libro segreto, il catalogo appena stilato ci dice qualcosa anche del lettore, seppure solo di quello d’età senile. Con gli usuali segni di lettura, qualche tratto a lapis, foglie rinsecchite e pagine con gli angoli piegati, egli rivela di avere tenuto fra le mani almeno tre delle sue edizioni: i due volumi settecenteschi delle Rime conservati nell’Officina, la stanza in cui si ritirava per lavorare (le altre stampe petrarchesche si trovano quasi tutte nell’aggraziata stanzetta del Giglio, presso il virginale, cui Gabriele accennerà in un passo del Compagno dagli occhi senza cigli, citato più avanti), il De remediis nel bel volgarizzamento di Giovanni da San Miniato del 1867 (anch’essa presente nell’Officina), e infine L’autobiografia, il Secreto e Dell’ignoranza sua e d’altrui con il Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna nella stampa solertiana del 1904. Quanto abbiamo detto della biblioteca del Vittoriale ci aiuta a capire molte cose sull’approccio di D’Annunzio al poeta aretino: la predilezione per il rimatore, l’attenzione alle forme metriche spesso esibite nei frontespizi delle edizioni in suo possesso, la preferenza accordata ai volgarizzamenti toscani rispetto alla prosa latina, e infine la provenienza dei rinvii disseminati nella sua opera.

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D’Annunzio e Petrarca

3. I romanzi 3.1. Il Piacere

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Gli articoli culturali e le cronache mondane sono, per la materia ma anche per la forma, il cartone preparatorio dell’estetizzante affresco del Piacere, il romanzo pubblicato nell’89, in cui il nome di Petrarca compare sei volte. La prima, quando Andrea Sperelli, il raffinato artista e amatore, chiara proiezione di Gabriele, contempla, in attesa di battersi in un duello, i giochi di luci e ombre del fogliame degli alberi, i quali, gentili come nelle amorose allegorie di Francesco Petrarca, gli facevano sospiri in sul capo ove regnava il pensiero del buon colpo22.

Nella pagina più celebre del libro, Andrea riconosce nel poeta del Canzoniere il maestro per eccellenza, da cui ha appreso l’arte e la gioia del verseggiare: Egli ascoltava in sé medesimo que’ suoni, compiacendosi delle ricche imagini, delli epiteti esatti, delle metafore lucide, delle armonìe ricercate, delle squisite combinazioni di iati e di dieresi, di tutte le più sottili raffinatezze che variavano il suo stile e la sua metrica, di tutti i misteriosi artifizii dell’endecasillabo appresi dalli ammirabili poeti del XIV secolo e in ispecie dal Petrarca. La magia del verso gli soggiogò di nuovo lo spirito; e l’emistichio sentenziale d’un poeta contemporaneo gli sorrideva singolarmente. – «Il Verso è tutto»23.

Per dare l’abbrivio alle sue composizioni, egli attinge ai rimatori prediletti, nella cui lista, fra gli stilnovisti minori e il Magnifico, sta Francesco: Quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno d’una intonazione musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai verseggiatori antichi di Toscana. Un emistichio di Lapo Gianni, del Cavalcanti, di Cino, del Petrarca, di Lorenzo de’ Medici, il ricordo d’un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e bene sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all’armonia

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Id., Il piacere, Milano, Treves, 1889, p. 147. Ivi, pp. 178-79.

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della prima strofa. Era una specie di topica applicata non alla ricerca delli argomenti ma alla ricerca dei preludii24.

Ho citato con ampiezza la pagina, perché la riprenderemo più oltre per capire la ragione e la funzione degli echeggiamenti poetici dannunziani. Per ora, un verso del Canzoniere (246,12) accende l’ispirazione di Sperelli, eccitato dal profumo delle rose (e di Donna Francesca):

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E nella memoria di Andrea cantava con insistenza, come una frase musicale, un verso del Petrarca: «Così partìa le rose e le parole» [RVF 245, 12]. Due mattine dopo, egli offerì in compenso alla marchesa d’Ateleta un sonetto curiosamente foggiato all’antica e manoscritto in una pergamena ornata con fregi in sul gusto di quelli che ridono nei messali d’Attavante e di Liberale da Verona. Schifanoia in Ferrara (oh gloria d’Este!), ove il Cossa emulò Cosimo Tura in trionfi d’iddii su per le mura, non vide mai tanto gioconde feste. Tante rose portò ne la sua veste Monna Francesca all’ospite in pastura quante mai n’ebbe il Ciel per avventura, bianche angelelle, a cingervi le teste. Ella parlava ed iscegliea que’ fiori con tal vaghezza ch’io pensai: – Non forse venne una Grazia per le vie del Sole? – Travidi, inebriato dalli odori. Un verso del Petrarca a l’aria sorse: «Così partìa le rose e le parole»25.

«Una sospirevole quartina del Petrarca» (RVF 85, 1-4) compare poi nelle scritte di innamorati o «contemplatori solitarii» sui pilastri del tempietto al Belvedere di villa Medici, nel quale Andrea si trova con Maria: Io amai sempre ed amo forte ancora, E son per amar più di giorno in giorno,

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Ivi, p. 180. Ivi, pp. 190-91.

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D’Annunzio e Petrarca

Quel dolce loco ove piangendo torno Spesse fïate quando Amor m’accora26.

Al contrario di molti riferimenti dotti, sfoggiati per esibire la ricercata cultura del protagonista (e dell’autore), le scelte menzioni del poeta laureato incidono sulla trama e sull’atmosfera della narrazione: rappresentano la distrazione estetica del duellante, illustrano la genesi del suo comporre, riflessa e musicale, connotano l’atmosfera elegiaca della passeggiata al tempietto.

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3.2. Il fuoco (e La Beata riva) L’altra opera narrativa in cui incontriamo Petrarca è il Fuoco, romanzosaggio ambientato a Venezia, in cui, fra l’altro, nei dialoghi di Stelio Effrena con Daniele Glauro, vengono trasposte le conversazioni di estetica di D’Annunzio con il critico Angelo Conti. Le stesse che vennero incluse da quest’ultimo in un trattato, uscito nel 1900, contemporaneamente al Fuoco, con una prefazione del Vate in cui il Canzoniere è evocato due volte. La prima per richiamare l’Introduzione a uno studio sul Petrarca in cui Conti aveva dato un ottimo saggio del suo metodo critico determinando i caratteri essenziali della poesia lirica ed estraendo imprevedute significazioni da quella musica infinita in cui i simboli petrarcheschi perdono sovente i precisi contorni e si dilatano oltre i limiti della parola27.

La seconda, a proposito del Saggio critico sul Petrarca, di Francesco De Sanctis, di cui loda le intuizioni estetiche ma condanna la scrittura per «i falli troppo palesi», «le difformità delle imagini che si seguono senza interruzione», la parola che non ha valore, «né come lettera né come suono». Gabriele vagheggia infatti come l’amico una figura di critico che emuli e continui l’opera dell’artista, ed è probabilmente infastidito dai rimproveri che l’irpino muoveva al poeta del Canzoniere perché gli ricordavano quelli si facevano a lui: il possesso di «facoltà assimilative» (memoria, lucidità) e la carenza di «facoltà produttive» (originalità, profondità, forza di trovar nuove idee, di

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Ivi, p. 391. Id., Ragionamento premesso ad A. Conti, La beata riva, Milano, Treves, 1900, pp. IV, XI-XIII. 27

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scartare l’accessorio e cogliere il sostanziale). Attaccandolo dunque, egli esalta implicitamente il critico-artista, Conti, e difende lo scrittore-artista, Petrarca / D’Annunzio. Non a caso, il primo cenno a Francesco del romanzo è nel dialogo tra D’Annunzio-Effrena e Conti-Glauro: al «dottor mistico», che elogia le rivelazioni di bellezza che Stelio si accinge a fare alla folla nel solenne discorso in palazzo Ducale, questi ripete «sorridendo le parole del Petrarca: – “Non ego loquar omnibus, sed tibi sed mihi et his… [De vita solitaria, II 15, 1]”»28. Ed è Glauro a citare poi il poeta di Laura, quando chiede all’amico se Wagner potrà avere una morte degna del suo sogno, disposta da quella

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volontà misteriosa che trasse l’aquila a scambiare per una rupe la fronte di Eschilo e condusse il Petrarca a spirare solitariamente su le pagine di un libro29.

Nella solitudine di Arquà, è poi immaginato Francesco, da Stelio che parla a Foscarina: «Un giorno vorrei andare con voi ad Arquà. I villaggi sono rosei laggiù come le conchiglie che si trovano nella terra a miriadi. Quando arriveremo, le prime gocce d’una pioggerella improvvisa toglieranno qualche petalo ai fiori dei peschi. Ci fermeremo sotto un arco del Palladio, per non bagnarci. Poi cercheremo la fontana del Petrarca, senza domandare a nessuno la via. Porteremo con noi le Rime nella piccola stampa del Missirini, quel libretto che tenete presso il capezzale e che omai non si può più chiudere perché s’è gonfiato di erbe come un erbario da bambola... Volete che andiamo, un giorno di primavera, ad Arquà?»30.

Preceduta dallo sfoggio del bibliofilo (con un lapsus nel nome dell’editore, «Gio. Maria Misserini», alludendosi al Petrarca uscito nel 1628, «di nuovo ristampato et di bellissime figure adornato e diligentemente corretto, con argomenti di Pietro Petracci»), la ricomparsa dell’autore del Canzoniere è accompagnata dall’evocazione dei celebri versi «Da’ be’ rami scendea / (dolce ne la memoria) / una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo» (RVF 126, 40-42), anche se, con il residuo di positivismo che sopravvive nel D’Annun28 Id., Il fuoco, Milano, Treves, 1900, p. 53. Citando Petrarca, il personaggio volge al futuro (loquar) il presente della fonte (loquor). 29 Ivi, pp. 268-69. 30 Ivi, pp. 365-66. D’Annunzio è registrato tra i visitatori della casa di Petrarca ad Arquà (come mi segnala Armando Balduino) in data 15 set. 1937, ma vi doveva certo essere stato anche in precedenza.

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D’Annunzio e Petrarca

zio décadent, la pioggia floreale si converte in precipitazione atmosferica e il «gentil ramo» (RVF 126, 4) si precisa botanicamente (memorabile quant’altra mai, la canzone avrebbe lasciato traccia pure nell’incipit di una novella del 1884, Ad altare Dei: «Dolce nella memoria. Quando le campane cominciarono a squillare»31). Alle parole di Stelio, qui Foscarina non risponde, ma quel dolce paesaggio sentimentale riaffiora nella sua mente dopo una ventina di pagine:

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Ella ripensò i Colli Euganei, i villaggi rosei come le conchiglie fossili, le prime gocce della pioggia su le foglie nuove, la fontana del Petrarca, tutte le gentili cose32.

Paesaggista dell’anima, il poeta aretino fa vibrare corde cui lei è particolarmente sensibile, dacché «in quelle imagini di primavera e in una sestina del Petrarca era per lei il medesimo incanto lontano»33. Foscarina ha infatti per libro da capezzale il Canzoniere, tra le cui pagine ha messo innumerevoli fiori e foglie, ma nel fraseggio sul suo autore con Stelio si limita a fargli da spalla. Quando però il discorso cade su una poetessa petrarchista, «Madonna Gasparina sospirante su l’orme del conte di Collalto», è lei, donna, ad assumere l’iniziativa: – Dolce e terribile sorte quella di Gaspara Stampa! Conoscete le sue Rime? Sì, le vidi un giorno su la vostra tavola. Miscuglio di gelo e di ardore. Di tratto in tratto la sua passione mortale, a traverso il petrarchismo del cardinal Bembo, getta qualche bel grido. Io so di lei un verso magnifico: Vivere ardendo e non sentire il male! [Rime 208, 6] – Vi ricordate, Stelio, – disse la Foscarina con quel sorriso inestinguibile che le dava la sembianza di una sonnambula – vi ricordate del sonetto che incomincia: Signore, io so che in me non son più viva, / E veggo omai ch’ancor in voi son morta...? [Rime 124, 1-2] – Non mi ricordo, Fosca34.

Certo, l’oblio di Stelio risponde a un gioco di ruolo fra lui, uomo, e Foscarina, che si riconosce in Gaspara Stampa, ardente e gelata dall’aristocratico

31 Pubblicata il 1° mar. 1884 sulla «Cronaca bizantina» e poi inglobata nel Libro delle vergini, ma esclusa dall’Opera omnia, la prosa narrativa si legge ora in Id., Novelle, a cura di D. Redaelli, Milano, Garzanti, 1995, pp. 171-80. 32 Id., Il fuoco, cit., p. 385. 33 Ivi, II, 9, p. 3. 34 Ivi, pp. 426-27.

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sciupafemmine Collalto-Èffrena. Comunque qui il petrarchismo, a differenza di quello dell’intervista a De Amicis, non è un difetto, ma un pregio, come essere «amico di Bernardo Cappello, di Iacopo Zane e d’altri patrizii petrarchisti» è uno dei meriti di Dardi Seguso, il leggendario costruttore di un organo di vetro35. Il Piacere e il Fuoco esauriscono il catalogo delle menzioni esplicite del poeta di Laura nei romanzi dannunziani, le quali provano quanto l’orecchio e la mente del loro autore ne fossero segnati. Nel primo, dove scaturiscono dalle riflessioni sull’arte del solitario Sperelli, esse assumono una coloritura preziosistica e pongono l’accento sulla perizia del verseggiatore, mentre nel secondo, dove affiorano nel dialogo intellettuale che Effrena-D’Annunzio intreccia con Glauro e Foscarina (come dire con Angelo Conti ed Eleonora Duse), il loro ventaglio si allarga dando luogo a considerazioni di più ampio respiro letterario e sentimentale. 4. Le Prose di ricerca 4.1. La vita di Cola di Rienzo L’opera in cui Petrarca compare più frequentemente è la Vita di Cola di Rienzo, pubblicata nel 1905-1906 in rivista e poi nel 1913 in volume, con la giunta del lungo Proemio autobiografico cui si deve la collocazione dell’opera fra le Prose di ricerca (che, nell’Edizione nazionale delle sue opere l’autore distinse dalle Prose di romanzo). Stendendola sulla falsariga dell’anonima Cronica scritta nel Trecento in volgare romanesco, che lesse nella veste toscana dell’edizione ottocentesca, D’Annunzio non mancò di consultare altre fonti: le missive di Cola edite dal Burdach, la cronaca dei Villani e, non ultime, le lettere di Petrarca, che egli trovava ampiamente riportate nell’apparato esegetico annesso da Zefirino Re alla sua edizione, ma che cita prevalentemente dalla traduzione italiana del Fracassetti di lui posseduta36. Cola si era infatti incrociato con Petrarca, che ne aveva appoggiato l’azione politica e aveva poi stretto amicizia con lui. Il poeta compare già nel primo capitolo dell’opera del neo-biografo, là dove illustra la colorita cornice storica in cui si svolse l’avventura del tribuno di Roma: Già Franceschino Malaspina aveva nominato il fosco fuoruscito procurator di pace al Vescovo di Luni; or Giovanni Visconti e il secondo Galeazzo commette35

Ivi, p. 500. Sulle fonti utilizzate da D’Annunzio, cfr. l’introduzione e il commento a Id., La vita di Cola di Rienzo [1913], a cura di P. Gibellini e M. Pertile, Milano, Mondadori, 1999. 36

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D’Annunzio e Petrarca

vano ambascerie solenni a Francesco Petrarca. E il nato di gente nuova, con la scorta dei cavalieri colonnesi, recando tra le salmerie la porpora regia donatagli da Re Roberto, entrava trionfalmente in Roma vedova37.

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Nel cap. VIII, commentando una notazione dell’Anonimo «in sua bocca sempre riso appariva in qualche modo fantastico», D’Annunzio attribuisce a Cola «un riso rivolto alla faccia del futuro», e giustifica la sua espressione citando due epistole di Francesco dagli accenti profetici (Varie 48 e 50): «Quest’uomo, credetelo, a voi fu mandato dal cielo» doveva i Romani esortare il Petrarca. «Come rarissimo dono di Dio voi veneratelo; e fate di profferire per la salvezza di lui le vite vostre». Di lui doveva sognare il cantore di Scipione Africano: «Nel mezzo del mondo, e su la cima di una scoscesa montagna parvemi vederti sublime tanto che quasi giungevi a toccare il cielo. Paragonata a quella l’altezza di tutti i monti ch’io vidi, e qualunque altra che descritta lessi o intesi, stata sarebbe profonda e bassa vallèa: l’Olimpo stesso dai poeti nell’una e nell’altra favella tanto esaltato si riduceva a quel confronto umile colle. Basse sotto i piedi a gran distanza avevi le nubi; vicino il Sole ti girava sul capo. Ti circondava uno stuolo d’uomini forti, in mezzo ai quali tu di tutti maggiore sovra soglio luminoso sedevi per sovrumana bellezza così splendente ed augusto, che Febo stesso pareva invidiarti...» 38.

Gabriele prosegue evocando il viaggio di Petrarca a Roma del 1341 e poi quello in cui strinse amicizia con il tribuno, del 1366-67 (sulla scorta di Fam. II, 121): Certo lo vide di lontano aggirarsi, in compagnia dei patrizii illustri, pel Gianicolo per l’Aventino pel Monte Sacro, «dove tre volte sdegnosa ai padri si ritrasse la plebe», o assidersi su la volta delle Terme diocleziane a contemplare lo spettacolo delle grandi ruine e a ragionare delle grandi memorie con Giovanni di San Vito. Certo lo acclamò, quattro anni dopo, in quell’inclito aprile che parve illuminare un nuovo e inopinato Natale di Roma, quando il popolo per un giorno scosse da sé l’onta della sua servitù, quando i nobili per un giorno si mondarono del sangue fazioso, e in festante concordia tutta la gente romana sollevò con un sol gesto verso la fronte del Poeta la ghirlanda composta del primo ramo reciso al giovinetto alloro ch’era per divenire l’arbore vittoriosa del Rinascimento39.

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Id., La vita di Cola di Rienzo, Milano, Treves, 1913, p. 6. Ivi, p. 31. 39. Ivi, p. 33. 38

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E ancora: nel cap. IX il poeta viene ricordato fra quanti nel 1352 premono sul papa «limosino» Clemente VI perché riporti a Roma il soglio pontificio e indica un nuovo Giubileo: Ma né gli argomenti degli ambasciatori né il carme di Francesco Petrarca valsero a smuovere il Limosino; che da signor magnifico ricompensò il cantore conferendogli un buon priorato in quel di Pisa e fece intendere che a sollievo della fame romana avrebbe concesso l’anticipazione del giubileo40.

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Con il suo nome, anche le sue espressioni di Petrarca affiorano nelle righe su Avignone, novella Babele, e sul sognato rilancio di Roma (cfr. Fam. XI, 6 e RVF 136-138): Nella Babilonia provenzale egli già assume l’aspetto dell’inviato dal Cielo, dell’eroe molto atteso. In tale aspetto compare a Francesco Petrarca, movendosi e atteggiandosi a similitudine del redentore ideale che il poeta s’era foggiato nel fuoco della sua mente […] Il tabellione si profferiva al rimatore come l’eroe capace di tradurre in opera l’alto concetto: come colui che voleva restituire al Popolo romano tutte le giurisdizioni e tutti gli uffici, tutti i privilegi e tutte le potestà ond’esso in qualunque tempo aveva investito altrui: come colui che voleva risollevare ricommettere e irrobustire di fresco cemento le ruine cagionate dall’orrida barbarie germanica e dalla morbida barbarie avignonese. […] «Se solo rimanesse nell’Urbe l’ignudo sasso capitolino» diceva il Petrarca «pur quivi durerebbe senza fine l’imperio». Incredibile fervore accendeva l’animo del Petrarca; e l’interna vampa sembrava renderlo cieco: «Quando ripenso» scriveva al notaro della Regola «quando ripenso il gravissimo santo discorso che mi tenesti l’altrieri su la porta di quell’antica chiesa, parmi avere udito un oracolo sacro, un dio, non un uomo. Così divinamente deplorasti lo stato presente, anzi lo scadimento e la ruina della repubblica; così a fondo mettesti il dito della tua eloquenza nelle nostre piaghe; che, ogni qualvolta il suono di quelle tue parole mi ritorna alle orecchie, me ne cresce il dolore all’animo, me ne sale la tristezza agli occhi; e il cuore che, mentre tu parlavi, ardeva, ora, mentre pensa, mentre ricorda, mentre prevede, si scioglie in lacrime, non già feminee ma virili, ma d’uomo che all’occasione oserà qualche cosa di pietoso secondo il potere a difensione della giustizia. E se anche per addietro io era col pensiero teco sovente, dopo quel giorno son teco più che sovente; e ora dispero, ora spero, ora ondeggiando tra speranza e timore dico in me stesso: “Oh se fosse mai! oh se avvenisse a’ miei giorni! oh se anch’io fossi a parte di sì grande impresa, di tanta gloria!”»41. 40 41

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Ivi, p. 34. Ivi, pp. 36-40.

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D’Annunzio e Petrarca

Nel cap. X viene ricordato il lamento di Francesco sul Rodano vorace, che «tutti per sé gli onori del Tevere rodeva e ingoiava» (da RVF 208, 1-2), cui segue un cenno a quel «Simone [Martini] sanese cui il Petrarca aveva posto in man lo stile per ritrarre Laura» e all’intercessione di «Messer Francesco» per ottenere da Cola il perdono del cardinale Giovanni Colonna42. Nel capitolo seguente torna una menzione del «gran sogno romano [che] ardeva custodito nel profondo petto di Francesco Petrarca»43, citato anche per il giudizio su Stefano Colonna, «divino giovane pieno dell’antica e vera romana grandezza»44, così come le lacrime del vecchio Colonna per i presagi di lutti familiari vengono evocate nel cap. XIII, sulla base di Fam. VIII, 145. Una lunga citazione (dalle Varie, 48) torna, et pour cause, nel cap. XIV, dove è descritta l’intensa attività cancelleresca del tribuno, dictator di epistole costellate di riferimenti all’antica gloria romana: Da prima non s’udiva stridere intorno a lui se non la penna d’oca; di poi s’udì stridere qualche ribechino, ché incominciarono venir d’ogni parte verso la grassa mensa tribunizia buffoni sonettatori cantatori e simil gente di corte a celebrare in rima il Camillo il Bruto il Romolo redivivi nell’Urbe. Forniva il Laureato, di lungi, le iperboli sonore. «Romolo fondò Roma; Bruto, che tante volte già nominai, la libertà; Camillo l’una e l’altra ebbe redintegrata. Or quale, o chiarissimo, da loro a te corre differenza se non questa: che Romolo una meschina città di fragile steccato ricinse, tu la città fra quante furono e sono grandissima d’inespugnabili mura hai circondato? Bruto da un solo, tu da molti tiranni usurpata la libertà rivendicasti? Camillo da recenti e ancor fumanti ruine, tu da rovine antichissime e l’una e l’altra, di cui già disperavasi, facesti risorgere? Salve a noi Camillo, a noi Bruto, a noi Romolo o qualunque altro sia nome onde ti piaccia chiamarti; salve, o fondatore della libertà, della pace, della tranquillità di Roma. Per te quelli che or vivono potranno liberi morire, liberi nasceranno per te quei che vivranno in futuro»46.

E nel cap. XXII D’Annunzio ricorda che il poeta aveva paragonato (Fam. VIII, 1, 7) l’eroe giovinetto Gianni Colonna «a Marcello diletto da Giove Ferètrio»47.

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Ivi, p. 43. Ivi, p. 45. 44 Ivi, pp. 47-48. 45 Ivi, p. 60. 46 Ivi, p. 63. 47 Ivi, p. 101. 43

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Ma quando, per la condotta riprovevole del tribuno, il sogno di Petrarca cade, ecco la lettera di rampogna a Cola (Fam. VII, 7) riempire una pagina cruciale del cap. XXIV:

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E il Petrarca, riconosciuta non senza rossore la vanità del suo lirico sogno, scriveva moltiplicando nella obiurgazione epistolare le figure e le sentenze: «Oh! che dirti potrei se non quello che Bruto diceva scrivendo a Cicerone? Sento vergogna di coteste vicende, di cotesta fortuna. Te dunque, che ammirò duca de’ buoni, oggi il mondo vedrà fatto satellite de’ ribaldi? Così per noi si mutaron le stelle, così nemico si fece il cielo? Dove n’andò quel Genio tuo salutare, col quale era fama che avessi tu continui convegni? Tanto eran grandi e incredibili le imprese tue. Ma a che m’affanno?... Io verso te correva, or volgo strada. Addio Roma, a te pure addio!»48.

L’ultima apparizione del cantore di Laura è nel cap. XXXI, là dove si parla del trasferimento di Cola prigioniero da Praga ad Avignone: Narrava il Petrarca a Francesco dei SS. Apostoli avere il Romano evitato il supplizio per l’opinione che si era sparsa nel volgo esser egli un famoso poeta e come tale e da sì nobile studio santificata non potersi senza sacrilegio offendere la sua persona. Dell’antico laudatore aveva chiesto notizia il prigioniero sul primo entrare nella città, forse sperandone qualche soccorso, o perché la calda amicizia in quegli stessi luoghi nata gli tornasse alla mente; ma erasi ritratto nella solitudine di Valchiusa ad ascoltare la melodia del suo cuore doglioso colui che mirato aveva bella nel bel viso di Laura la morte. «Poteva egli aver compiuto in gloria i suoi giorni sul Campidoglio, e si ridusse invece con onta immensa della Republica e del nome romano ad essere prima da un Boemo e poi da un Limosino in carcere sostenuto!» deplorava colui che un giorno aveva anelato di avvolgere le mani entro i capegli dell’Italia sonnolenta per isvegliarla49.

Sulla pagina vale la pena di fermarsi per più ragioni. C’è, innanzitutto, il riconoscimento del potere salvifico – qui in senso letterale – dell’arte, ricavato dalla lettera petrarchesca a Francesco Nelli (Fam. XIII, 6). Compare poi il dettaglio della vana speranza del prigioniero di trovare ad Avignone Petrarca, trasferito a Valchiusa dopo la morte di Laura, qui menzionata nel modo di Triumphus mortis (I, 172, «Morte bella parea nel suo bel viso»). Infine, l’irreversibile disillusione della speranza posta dal poeta nel tribuno, affidata a

48 49

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Ivi, pp. 106-107. Ivi, pp. 128-29.

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D’Annunzio e Petrarca

un passo di Fam. XIII, 6, e al rinvio per contrasto alla canzone «Spirto gentil» (RVF 53, 10-14: «Che s’aspetti non so, né che s’agogni, / Italia, che suoi guai non par che senta: / vecchia, otïosa et lenta, / dormirà sempre, et non fia chi la svegli? / Le man’ l’avess’io avolto entro’ capegli»). Da questo momento Petrarca sparisce dall’operetta dannunziana, che segue il protagonista nel suo ritorno a Roma e nella finale rovina. La storia dell’amicizia, dell’ideale alleanza e poi del divorzio tra Francesco e Cola, occupa un discreto spazio nella singolare biografia certo perché l’Imaginifico vedeva impersonate nel poeta aretino e nel tribuno due aspirazioni che dominarono la sua vita, l’eccellenza artistica e il restauro della gloria romana. Di lì a poco le avrebbe fuse e incarnate lui stesso, facendosi poeta-soldato, e in seguito perseguite separatamente, prima come bellicoso Comandante fiumano, emulo di Cola nella fluida oratoria e nel conio dei motti, infine come eremita del Vittoriale, dedito a trasferire nella scrittura i fragmenta del suo io. Come si è detto, il Proemio alla Vita di Cola determinò l’inclusione dell’opera nelle Prose di ricerca, quelle in cui Gabriele rifiutava i vincoli narrativi e aboliva i personaggi costruiti sulla sua immagine – come Andrea Sperelli e Stelio Effrena – per fare esplicitamente di sé l’oggetto unico della scrittura. Se in quella biografia Petrarca compariva come auctor rispettato da cardinali e signori, nonché come scrittore di lettere più o meno pubbliche (e solo indirettamente delle Rime), non stupirà che nel Proemio, dedicato all’amico Annibale Tenneroni, provetto conoscitore della letteratura due-trecentesca, sia messo in primo piano l’autore del De vita solitaria: Se Lapo di Castiglionchio mandò in dono al Petrarca un buon manoscritto, tu a me hai mandato un raro volgarizzamento della Vita solitaria ricordandomi come esso Poeta fosse solito dire, secondo Leonardo Aretino, che solo il tempo della sua vita solitaria poteva chiamar vita, perché l’altro non gli era stato vita ma pena ed affanno. Questo anch’io so50. 4.2. Gli scritti politici e le orazioni Tappa preparatoria della scrittura di ricerca è da considerarsi l’antologia delle Prose scelte, curata dall’autore (1906), dove accanto a passi di romanzi scorporati dall’organismo narrativo (fra cui L’apparizione dell’eroe, dal

50

Ivi, Proemio, p. LXXXVII.

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Fuoco, con il cenno a Petrarca spirante sul libro), D’Annunzio includeva discorsi celebrativi e commemorativi. Nell’Orazione agli Ateniesi, pronunciata il 9 febbraio 1904, compare il poeta del Canzoniere:

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È dolce cosa, è grande gioia per me poter parlare la lingua natale oltre mare, ed esser compreso e quasi direi riconosciuto nella regione sublime ove il mio spirito visse la sua vita più libera e più pura. La melodia italica suona interrottamente nel cerchio delle isole favolose: là dove l’ode di Saffo dal crin di viola sorvolava su le prore delle triremi come un messaggio della primavera, quasi non sembra estraneo l’accento che si eterna nella canzone del Petrarca; e all’olivo di Corcira e al mirto di Zacinto sembra intrecciarsi in corone ideali il lauro fiorentino51.

Egli viene convocato per ribadire il legame tra Atene e Firenze, già celebrato come continuità tra civiltà classica e umanesimo nel Fanciullo, un testo essenziale per definire la poetica di Alcyone, allora fresco di stampa (l’equivalenza tra l’ode saffica e la canzone petrarchesca sarà però smentita nelle Faville da D’Annunzio, che dichiarerà la sua preferenza per la cadenze elleniche). Già nell’Elogio di Enrico Nencioni (1896), rievocando l’amico sofferente, con il viso segnato da un «pensiero religioso», Gabriele paragona la volgare sedia che lo accoglieva allo scranno in stile Savonarola della casa di Arquà, sul quale la leggenda vuole che Petrarca sia spirato, chino sul libro prediletto: Ma egli [Nencioni] siede su una sedia che non è quella del Petrarca: forma volgare e goffa, che offende la delicatezza di quel corpo estenuato dalla malattia e dalla meditazione; e dietro il suo capo è una cortina cinerea che lascia intravvedere oltre il suo lembo uno spazio buio donde entrerà fra poco l’estrema Visitatrice52.

Meno fuggevolmente il poeta aretino compare nell’Orazione in morte di Giosuè Carducci (1907), che insieme a Severino Ferrari aveva procurato nel

51 Id., Orazione agli Ateniesi, in Id., Prose scelte, Milano, Treves, 1906, p. 3 sgg. (già Discorso agli Ateniesi, in «Il Marzocco», 29 mag. 1999). Mentre il testo originario reca «interrottamente», le edd. mondadoriane (Prose di ricerca, Milano 1980, III, p. 308 e Scritti giornalistici cit., II, p. 460) recano «ininterrottamente»: può essere l’emendamento di un refuso, oppure lectio facilior dell’avverbio con cui l’oratore potrebbe aver voluto indicare la presenza discontinua dell’idioma italiano nelle isola greche. 52 Id., Elogio di Enrico Nencioni, ivi, p. 38 sgg. (già Per la morte di un poeta, in «La tribuna», 1° set. 1896).

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D’Annunzio e Petrarca

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1899 un ammirevole commento del Canzoniere. Il Petrarca di Carducci, anzi il Petrarca che D’Annunzio evoca per lui, è il poeta bellicoso che si confà al paesaggio apuano di Valdicastello, in cui si trova la casa natale di Giosuè, fra rupi, torrenti e oliveti, «ove a Francesco Petrarca parve dovesse la vergine Pallade trasvolata dall’Attica piantare la sua asta per non più dipartirsi», giusta l’immagine di Africa, VI, vv. 856-86153. Paragonato poi con il Buonarroti, il vecchio leone maremmano viene esaltato per il suo amor patrio, mentre la prosopopea dantesca e petrarchesca dell’Italia, donna in carne e sangue, si fa tutta carducciana, anzi dannunziana: Perché, o cittadini, al Poeta del Saluto italico l’Italia fu «una persona» presente sempre, ch’egli abbracciava in totalità di vita, ch’egli sentiva infinitamente vivere: una persona reale e ideale, col suo corpo, col suo fiato, col suo istinto, con la sua volontà, con la sua mèta. Pareva che la virtù dell’eloquenza in ore solenni gli fosse moltiplicata dall’intensa visione di quell’aspetto. Quando ad esempio egli parlava di Dante in Roma o del Petrarca in Arquà o del Boccaccio in Certaldo, era manifesto com’egli vedesse nella confusa massa umana e terrestre disegnarsi una figura che pareva avere egli medesimo foggiato con le sue mani caduche […]. L’ira sua stessa di ammonitore e di castigatore pareva esercitarsi non sopra un fantasma vano ma sopra una materia cruda, in quella guisa che Dante trattava «la ghiaccia e il fuoco, la pece e il piombo, gli sterpi e i serpi, il fango e il sangue». Il grido del Petrarca: «Le man l’avess’io avolto entro’ capegli» [RVF 53, 14] si trasformò per lui in azione formidabile54.

Dietro l’azione c’è la forza dei nostri grandi poeti, che Gabriele addita come modelli, usando le parole di Giosuè: «Noi dobbiamo riprendere la tradizione dei nostri maestri, Virgilio, Dante, Petrarca, i quali trovarono l’arte moderna e il mondo nuovo», egli aveva detto, ancora augurando55.

53 Id., L’orazione e la canzone in morte di Giosuè Carducci, Milano, Treves, 1907, p. 8 (già Giosue Carducci commemorato da G. d’Annunzio, in «Corriere della sera», 25 mar.1907), Nel celebre passo su Magone (Africa, VI, vv. 839-918), Petrarca descrive il litorale delle Cinque Terre e dice appunto che su questi colli abita Minerva, che attratta dalla dolcezza dell’olio aveva lasciato Atene. 54 Ivi, pp. 11-12. 55 Ivi, p. 24. La citazione proviene dalle Prose scelte carducciane, Bologna, Zanichelli, 1904, pp. 13-14.

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Un Petrarca stimolo all’«azione formidabile» e all’amor patrio è quello che emerge anche dalle pagine del Comandante, a partire dall’opuscolo Contro uno e contro tutti dove, spronando gli italiani a non credersi vinti, ricorda con sdegno che «vien coronato col lauro petrarchesco di Pierre de Ronsard l’allegro viennese Lammasch che già ci pronostica e ci minaccia la rivincita nell’Alto Adige», così come è coronato di rose il presidente del tribunale che impiccò Cesare Battisti56. In Per l’Italia degli Italiani, un verso del poeta aretino è citato tangenzialmente, per esaltare la rapidità di intelletto:

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Misero il popolo che sarà masticato da sì lente mascelle! Miserum populum qui sub tam lentis maxillis erti! [Svetonio, Vita Tiberii, XXI] E mi torna da men lontano un verso di Francesco Petrarca: «Intelletto veloce come pardo…»57.

(In verità RVF 330, 5, reca «più che pardo», e il lapsus è indizio di una citazione fatta a memoria, che presuppone familiarità con la fonte). E successivamente un suo distico, opposto a un verso isolato, per insegnare a «ardire» in luogo di «ordire»: Meditate questi, che a me sembrano salati nel sale stesso del Mediterraneo: V’erano di lacciuo’ forme sì nuove… Che perder libertate ivi era in pregio! [RVF 214] E dedichiamo quest’altro ai negoziatori e ai ciurmatori d’ogni razza: Tanti lacciuol, tante impromesse false… [RVF 69]58.

Nel messaggio Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie, Gabriele scrive di aver adattato «à la louange de l’Italie un hémistiche de Pétrarque: Italia, Italia, oltra le belle bella» (RVF 289, 1: «L’alma mia fiamma oltra le belle bella»)59, mostrando di mettere il poeta della bellezza al servizio della patria. E nel Teneo te Africa Petrarca è citato come eponimo dell’espressione «Latin sangue gentile» («Ma la nostra amicizia temprata a tutte prove, come di un’arme direbbe il Petrarca del Latin sangue gentile» [RVF 128, 74])60, certo adatta a interpretare il pensiero di D’Annunzio se, all’inizio dello stesso 56

Id., Contro uno e contro tutti, Roma, La Fionda, 1919, pp. 132-33. Id., Per l’Italia degli italiani, Milano, Bottega di poesia, 1923, p. 173. 58 Ivi, p. 209. 59 Id., Aux bons chevaliers latins de France et d’Italie, s.n.t. [Officine del Vittoriale], p. 104. 60 Id., Non dolet Arria dixit. Teneo te Africa, Officine del Vittoriale degli Italiani, 1936, pp. 32-33 del facs. d’autogr. 57

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anno in cui viene pubblicato questo libello celebrativo della conquista d’Etiopia, essa compare nel telegramma scritto a Mussolini sopra citato. 4.3. Diari, memorie, confessioni

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4.3.1. Contemplazione della morte Ma la parte meno datata delle Prose di ricerca resta quella in cui l’epos oratorio cede all’esplorazione d’ombre: la Contemplazione della morte, le Faville del maglio, il Libro segreto. Nel diario della Contemplazione, seguendo a distanza l’agonia e la morte di Pascoli, D’Annunzio ricorda la visita che gli aveva fatto nell’umile casa, un’anti-Capponcina, e lo soccorre allora il Petrarca di «O cameretta che già fosti un porto», letticciuolo compreso (RVF 234): Poi [Pascoli] fece l’atto d’alzarsi, mi prese per mano e mi disse: «Vieni ora a vedere la cameretta che ho per te, quando tu la voglia». Un candore infantile ardeva in lui; e il primo verso del sonetto di Francesco Petrarca mi sonava nella memoria. Era una piccola stanza chiara, quasi una cella di minorita, con un di que’ letticciuoli che persuadono a serbare una sola attitudine per tutta la durata del sonno61.

E anche parlando dell’amico francese sulla cui fine verte la Contemplazione, egli cita Petrarca, sia pur di sfuggita, nell’intento di mettere in evidenza la fraternità letteraria tra l’Italia e la città di Bordeaux: Si chiamava Adolphe Bermond, nato su la Garonna, nella città vinosa ch’ebbe per sindaco il gran savio Michel de Montaigne reduce da Roma e per consigliere quel candido e invitto Etienne de la Boëtie imitatore del Petrarca e traduttore dell’Ariosto62.

4.3.2. Le faville del maglio I due tomi delle Faville del maglio e il Libro segreto formano una trilogia, la cui poetica è tratteggiata nell’Avvertimento che D’Annunzio appose al primo volume, Il venturiero senza ventura: Nel mio tempo fiorentino [...] ebbi per mano un libro d’un cronachista mercante del trecento: una semplice cronaca della sua casa e della sua bottega, una «brie-

61 62

Id., Contemplazione della morte, Milano, Treves, 1912, p. 24. Ivi, p. 34.

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ve menzione» de’ fatti segreti della compagnia e della mercatanzia, che a lui s’appartenevano, d’anno in anno. E nella prima carta del codice era scritto: «Questo libro è il Goro di Stagio Dati e chiamerollo Libro segreto». Allora presi una grande cartella di cordovano fulvo, una vecchia legatura vedova a cui non eran rimasti se non il dosso e le due tavole e il motto d’oro Regimen hinc animi [così s’intitolerà la sezione più cospicua del Libro segreto]. E dentro vi raccolsi i primi fogli rinvenuti nel libro della mente che viene meno. E, di tratto in tratto, altri ne aggiunsi. E da quel tempo tenni quel cordovano come il mio libro segreto63.

Conviene qui sottolineare che, accanto al registro del mercante Goro Dati, da cui poteva mutuare solo il titolo del futuro libro e il motto «a chiarezza di me», e la menzione del Dante rimatore (Rime, LXVII, 59), viene additato come modello Petrarca. Quale, se non quello del Secretum? M’è a noia la falsa modestia di Francesco Petrarca che, avendo istituito di scrivere quel suo colloquio intitolato Il Secreto, si schermiva così, come forse un tempo io mi sarei schermito: «Non che io voglia questo essere connumerato fra le altre mie opere, ovvero che io addomandi da questo gloria (la mia mente rivolge alcune cose maggiori), ma acciocché la dolcezza, la quale io presi una volta da quel colloquio, quante volte mi piacerà, io possa quello leggendo ripigliare»64.

La stessa opera riaffiora all’interno del Venturiero, o meglio nel Secondo amante di Lucrezia Buti (che nell’edizione definitiva verrà scorporato), dove D’Annunzio confronta la scrittura petrarchesca con la propria: Il poeta laureato di Arezzo non componeva i suoi dialoghi se non per arrivare a comprendere sé medesimo. «Fuggendo la moltitudine degli uomini, o mio libello, contento tu sarai di star meco, non dimenticando il tuo proprio nome, perché tu se’ il mio Secreto, e così se’ chiamato; e, come di ciascuna cosa in secreto studiata e significata ti ricordi, così in loco secreto la commemori». Ma gli mancava l’amor sensuale della parola, questa quasi ferina sensualità che un giorno fece dire alla terziaria di Romena [Eleonora Duse]: «Certe volte,

63 Id., Avvertimento, in Il venturiero senza ventura e altri studii del vivere inimitabile, Milano, Treves, 1924, p. XI. 64 Ivi. Questo brano e il seguente, tratti dalla chiusa del proemio di Petrarca al Secretum, riproducono, con varianti minime, la traduzione di Angelo Solerti dell’Autobiografia, il Secreto, dell’Ignoranza sua e d’altrui; Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna, Firenze, Sansoni, 1904, p. 38. Questa pagina, nella copia conservata al Vittoriale, ha l’angolo piegato e reca sul margine un segno a inchiostro nero di mano di D’Annunzio, che evidenzia il primo dei due passi e l’inizio del secondo.

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quando parli e t’abbandoni al tuo parlare, hai una bocca di fauno e uno sguardo di semideo». Per conoscer sé stesso, egli si specchiava nel suo latino scolastico, ahi, non come in làmina d’oro ma come in «piombato vetro» [Inf. XXIII, 25]! Il mio linguaggio per contro m’appartiene come il più potente de’ miei istinti: è un istinto carnale purificato ed esaltato dal fuoco bianco della mia intelligenza65.

Dunque se del Secretum è condivisa la poetica autologistica, uno scriver solo per sé e non per altri, lo scarto sta nella sensualità trasferita nella parola, ignota a Francesco, e, si direbbe, anche nella qualità della lingua, il suo poco aureo latino (della materia del libello petrarchesco, di cui non cita mai il titolo alternativo De secreto conflictu curarum mearum, D’Annunzio, che nella sua confessione versa tutt’al più problemi psicologici, mai etici, non pare accorgersi). Meno rilevanti gli altri cenni a Petrarca nel libro: nella pagina sulla musica di Ferrara, l’elenco di compositori, dopo quelli evocati con incipit anonimi, si conclude con Luzzasco Luzzaschi che «intona il secondo sonetto del Petrarca, Per fare una leggiadra sua vendetta» (RVF 2, 1) e con Girolamo Belli d’Aragona che veste di note un madrigale di Torquato Tasso66; nella digressione scherzosa sul Cruscante, al pedante canonico Bambini, «gran virgolatore», l’autore obietta che «il Petrarca non mai puntò né virgolò il suo Canzoniere per lasciar la “minuta faccenda” ai grammatici sfaccendati»67; infine una battuta, nel dialogo memoriale con Amaranta, al secolo Giuseppina Mancini, che gli ha chiesto di comporre nove liriche: «Nove sonetti? Non sono il Petrarca d’Arezzo, e neppure Guittone d’Arezzo. Sono appena Marabuttino»68. Nel Compagno dagli occhi senza cigli, secondo tomo delle Faville pubblicato quattro anni dopo il primo, la materia si frange in una miriade di immaginazioni e memorie. E così le menzioni di Petrarca, che compaiono come schegge minuscole e colorite: Non apro gli occhi, ma copro con entrambe le palpebre la vita che rifluisce in me69.

65 Id., Il secondo amante di Lucrezia Buti, ivi, pp. 310-311. Per la citazione petrarchesca, vedi la nota precedente. 66 Ivi, pp. 241-342. 67 Ivi, p. 383. 68 Ivi, p. 643. 69 Id., Esequie della giovinezza, in Il compagno dagli occhi senza cigli e altri studii del vivere inimitabile, Milano, Treves, 1928, p. 202.

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Lo scrittore è a occhi chiusi, come l’adolescente tozziano, intento ad auscultare sensazioni, memorie, fantasie: la donna canta suonando il piccolo virginale nel mio coretto circolare che da un lato porta su la sporgenza del dossale le più leggiadre stampe del Canzoniere di Francesco Petrarca e dall’altro le più gentili dell’Aminta di Torquato70.

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Qui il Canzoniere è una di quelle «leggiadre stampe» vagheggiate dal giovane Gabriele giornalista-bibliofilo, e poi possedute e custodite con altre cinquecentine dal recluso del Vittoriale nella stanzetta del Giglio, tempio delle sue laiche meditazioni e di deliri solipsistici. Quel libro, cristallizzato sullo scaffale, si scioglie in musica e ritmo nell’evocazione dell’ultimo incontro con Giuseppe Giacosa, il quale dice a Gabriele: Se io leggo in silenzio, se io recito ad alta voce la canzone del Petrarca Di pensiero in pensier, di monte in monte [RVF 129], o il Canto notturno d’un pastore errante dell’Asia, il mio bisogno musicale è pienamente appagato da tanta melodia e non cerca oltre71.

Questi gli replica contrapponendo alla «più ricca stanza d’una canzone petrarchesca, perfetta nella sua fronte e nella sua sìrima, nei suoi piedi e nelle sue volte e nella sua chiave», una strofe logaedica di Pindaro o uno stasimon di Eschilo, dichiarando che alla «dura constrizione del rimatore» egli preferisce la «libera creazione ritmica del cantore»: La strofe greca è una creatura vivente in cui pulsa la più sensibile vita che sia mai apparsa nell’aria. […] La misteriosa compenetrazione dei ritmi fluidi ti fa pensare talvolta al miracolo dell’arcobaleno, dove tu non sai scorgere il passaggio dall’uno all’altro colore se bene tu senta nel tuo occhio la molteplicità della gioia. La stanza, al confronto, pur quella che a Dante intonava il Casella, non è se non un organo meccanico duramente articolato72.

L’amico scuote il capo, e comincia: Di pensiero in pensier, di monte in monte mi guida Amor; ch’ogni segnato calle

70

Ivi, p. 203. Della malattia e dell’arte musica, ivi, p. 362 (già In memoria di Giuseppe Giacosa, in «La Lettura», ott. 1906). 72 Ivi, pp. 362-63. 71

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D’Annunzio e Petrarca

provo contrario a la tranquilla vita. Se ’n solitaria piaggia, rivo o fonte, se ’nfra duo poggi siede ombrosa valle, ivi s’acqueta l’alma sbigottita; e com’ Amor l’envita, or ride or piange, or teme or s’assecura…73.

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Avvolto nell’ampia veste bruna, Giacosa si abbandona alla melodia petrarchesca, mentre D’Annunzio, che nell’Orazione citata poco fa aveva considerato Petrarca una cerniera fra classicità greca e rinascenza, ora lo sente più lontano di Pindaro. In Alcione egli ha dichiarato infatti di essere l’«ultimo figlio degli Elleni», in dialogo con l’«ultimo figlio di Vergilio», Giovanni Pascoli. 4.3.3. Il Libro segreto. Ancor più franto nella struttura e nella scrittura, rispetto alle Faville, il Libro segreto lascia affiorare qua e là il nome di Petrarca, citato per la perizia metrica, inferiore però a quella del lirico di Alcyone: Non mi bastò un gioco di assonanze, e di consonanze intime, per dare al Fanciullo sette ballate che non arieggiano alcuna dello stil novo o del Petrarca?74.

Il capriccio può suggerirgli di ispirarsi a un verso del poeta laureato (RVF 126, 36) e a una sua reliquia: ‘S’e’ ti vien l’ùzzolo di far novellizia di Miser Francescho Petrarcha’ mi fischia il sottil tentatore ’puoi stravagantemente ispirarti da questa orliquia che tu noncuri. Amor la inspiri In guisa che sospiri... Giuro che mi è innanzi messa la reliquia da gran tempo negletta. ma come? non so. eccola.

73

Ivi, p. 360. Id., Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire, Milano, Mondadori, 1935, p. 40. Riproduciamo le singolatità grafiche del volume (apici semplici, minuscola dopo punto) salvo il corsivo, abolito da D’Annunzio e usato da noi nel riportare passi di questa e delle altre opere dannunziane per evidenziare le citazioni di Petrarca incorporate nel testo dell’Imaginifico. 74

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È sotto vetro, in una cornice ottagona d’ebano e d’oro, ’un brano verdastro di tunica di Francesco Petrarca tolto all’urna il 24 maggio 1843 da me C. Leoni’. né manca l’autentica notarile. ‘Coram me prolata et signata die Xl novembr. MDCCCLXXIII. ego doct. Gabriel Fantonius. Venetiarum p. notarius’75.

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Ma ancora una volta è al virtuoso del metro che D’Annunzio guarda, ponendo l’accento sulla canzone-sestina già richiamata nelle pagine sulle Myricae pascoliane, in quelle sul Jaufré Rudel carducciano e in un passo del Fuoco, nonché emulata nell’Isotteo e nel Paradisiaco: Laonde per quell’ùzzolo di novellizia i’ ho da una parte il brandello della tunica di Francesco Petrarca e la sua sestina provenzalesca: la canzona forse trovata dal difficilissimo Arnaldo Daniello, trattata poi squisitamente dal Gran Prete di Laura e poi da me non senza eleganza laboriosa. dall’altra parte i’ ho la sestina usuale, la stanza di se’ versi, rimati i due ultimi insieme, il primo col terzo, il secondo col quarto: ’metro poltrone quant’altro mai’ fu detto76.

Si osservi che, dietro a queste note, sta la consultazione di uno strumento assai frequentato da Gabriele, il vocabolario di Tommaseo, dove la sestina «usuale», quella narrativa, era, oltre che descritta con lo stesse parole qui impiegate, etichettata come «metro poltrone». Quello del Libro segreto, un monologo che ha per solo oggetto l’autore, è insomma un Petrarca in briciole, recuperato nella memoria grazie alla consuetudine con quel dizionario e alla presenza, nella casa-museo del Vittoriale, di rarità bibliografiche o di preziose reliquie. 5. Le poesie 5.1. Raccolte D’Annunzio, del resto, frammenta e lessicalizza nel suo linguaggio le fonti poetiche, quando le esibisca come citazione, quasi pietra dura incastonata nel metallo, lega preziosa cui l’oro petrarchesco conferisce chiarità. E il nome di Petrarca compare più volte a ingemmare i preziosi Versi d’amore, più che quelli di gloria, del Nostro. Nel Canto dell’ospite di Canto novo (II,

75 76

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Ivi, p. 43. Ivi, p. 45.

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D’Annunzio e Petrarca

11) la canzone di Petrarca apre, insieme al sonetto di Cino, ai distici elegiaci e alla strofa asclepiadea, il ventaglio dei possibili omaggi metrici alla donna: Vuoi tu, dolce Ospite (tu che virginea un dì specchiarono l’acque de l’Affrico!) nel sonetto di Cino udire le tue laudi?

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o che nel distico s’odano fremere vivi a te i liberi capelli e odórino i boschi ove mi segui snella come un’antilope? Vuoi tu ascendere (tu che d’aureole d’oro i crepuscoli cinser di Fiesole!) la canzon che il Petrarca constellò di sue lacrime? o che l’alcaica rompa da l’anima con un anelito al mare, ed agile i tuoi sogni persegua la strofe d’Asclepiade?77

Nel clima preraffaellita delle Due Beatrici, e della Chimera in generale, l’autore del Canzoniere entra nel dipinto che D’Annunzio stende a gara con Botticelli. Così, evocati Poliziano e la Primavera, fa la sua comparsa decorativa anche un Petrarca larmoyant: Or n’andavan così per la novella erba, per l’ombre de ’l beato lido, il damigello con la damigella, pensando Cino ed il Petrarca e Guido. Non così dolce il canto de’l Casella sonò ne l’alma de’l poeta fido, come in me quel leggero ondeggiamento de li alberi per l’aria senza vento78.

77 Id., Canto novo [ed. 1896]: Canto dell’Ospite, II, vv. 9-16 in Versi d’amore e di gloria, I, Milano, Mondadori, 1980, pp. 191-92. 78 Id., La Chimera [1890]: Due Beatrici, I, vv. 57-64, ivi, p. 449.

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L’eleganza che governa il Poema paradisiaco fa sì che il poeta aretino rappresenti il trait d’union tra le varie parti, accompagnandosi ad altri rimatori antichi nelle epigrafi che lo scandiscono, dettandone ritmo e registro79. Nel Prologo accanto a Benuccio Salimbeni («A fine di riposo sempre affanno») e a Frate Stoppa («Tre volte muterai, anzi che giunga / il colpo del martel che ti conficchi / nel core il Ben…»), ecco il Francesco di RVF 56, 8: «Tra la spiga e la man qual muro è messo?». A introdurre l’Hortus conclusus con Cino da Pistoia («Amor con lui parlava / del vostro grande orgoglio…») e Sennuccio del Bene («L’alta bellezza tua è tanto nova!») coopera in epigrafe l’encomiastico vocativo di RVF 267, 7: «Alma real, dignissima d’impero…». Hortus Larvarum è preceduto, oltre che dal Conte di Battifolle («Ben vi ricorda de’ perduti giorni; / dell’usate lusinghe...») e Saviozzo da Siena («Qui si vedrà tua dolce melodia»), dal trasognato Petrarca di RVF 49, 8: «... quasi d’uom che sogna...». Assente dagli esergo di Hortulus animae, il poeta del Canzoniere è citato nel testo, per gettare luce su un men noto verseggiatore veneto: Solo ne la memoria oggi mi canta unico il verso d’un poeta antico quasi obliato; che fu dolce amico al Petrarca nel tempo ch’ei patìa l’ontosa guerra da l’Amor nemico; quasi obliato; cui Marsilio vanta sovran maestro d’ogni melodia. «A vo’, gentil Francesco di Vannozzo, sovran maestro d’ogni melodia»80.

E nell’Epilogo i versi di Cino («Questo novello spirito, ch’appare / dentro d’una vertù gentile e forte...») e di Bindo Bonichi («Non tragga arcier in van, se vede ’l segno») sono preceduti da quello petrarchesco, adattissimo a un explicit, tratto com’è dal Triumphus mortis, II, 119-120: «... infin qui t’ho condutto / salvo (ond’io mi rallegro), benché stanco». Se nel Paradisiaco Petrarca accompagna il percorso a suo modo morale del poeta moderno (se tale può dirsi la nostalgia di purezza nata per la stanchezza di dissipazione) con un diagramma che va dalle Rime (specie quelle

79 Le citazioni furono attinte soprattutto alle Rime di Cino da Pistoia e degli altri stilnovisti, uscite a cura di Carducci presso Barbèra nel 1862. 80 Id., Poema paradisiaco [1893], Un verso, vv. 1-9 (in Versi d’amore, cit. infra), p. 538.

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D’Annunzio e Petrarca

consone agli stilnovisti che lo affiancano nelle epigrafi) ai Trionfi, in Elettra, il libro eroico delle Laudi, il cantore di Laura emerge nella zona pacifica delle Città del silenzio, con una funzione che ieri poteva dirsi decorativa e ora sembra invece suggestiva. Ecco dunque il settimo sonetto su Prato, dove Francesco appare non solo come architetto della canzone, ma anche come devoto discepolo di uno sfortunato maestro, parimenti omaggiato dal poeta moderno:

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O grande architettor della Canzone, più anni Convenevole il Grammatico, dal Bisenzio natìo maestro erratico, alunno t’ebbe in Pisa e in Avignone. La fame eragli al fianco assiduo sprone; e tu benigno al vecchierel salvatico fosti, quando per pane e companatico ei mise in pegno il bel tuo Cicerone. Non la foglia di lauro ma d’assenzio rugumando, ei tornò nel tardo autunno alla tua terra che gli diede un’arca. E dalla Sorga a lui verso il Bisenzio mandò la gloria il suo divino alunno. L’epitafio da te s’ebbe, o Petrarca81.

Nel primo, invero modesto, dei componimenti dedicati alla sua città natale, Petrarca compare ancora come maestro di canzoni, le quali, afferma Gabriele, con i sonetti di Guittone gli parlano d’amore: Arezzo, come un ciel terrestro è il lino cerulo, il vento aulisce di viola. Ove sono Uguccion della Faggiuola e il cavalier mitrato Guglielmino? Non vedo Certomondo e Campaldino, né Buonconte forato nella gola. Alla tua Pieve il balestruccio vola; in San Francesco è Piero, e il suo giardino.

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Id., Elettra [1903]: Le città del silenzio, Prato VII, in Versi d’amore e di gloria, II, cit.

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Non vedo nella polve i tuoi pedoni carpone sotto il ventre dei cavalli con le coltella in mano a sbudellarli. Van sonetti del tuo Guitton, canzoni del tuo Petrarca per colline e valli; e con voce d’amore tu mi parli82.

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Sonetto fiacco, in verità, in cui tuttavia può rilevarsi che, al rimpianto per le perdute glorie guerresche, D’Annunzio oppone la sua fede nella sopravvivenza della poesia amorosa, in un rinnovato elogio del Petrarca paesaggista del cuore.

5. 2 Poesie sparse Se il fantasma di Francesco spunta tra storia e memoria nelle silenziose città toscane, nel primo dei Sonnets cisalpins (1896) compare come maestro capace di dare al sonetto le curve flessuose d’un vegetale (e di un corpo femminile), cui il francofilo Gabriele dà forma nella lingua di Ronsard: Le page craintif Sonnet, page de l’art que mon maître Pétrarque m’enseigna dans l’odeur des lauriers florentins où je rêvai longtemps des merveilleux destins épiant le fil d’or aux doigts blancs de la Parque, je veux que ton corps léger se couche et s’arque comme une lèvre belle aux rires argentins pour offrir avec grâce à mes frères latins cet hommage en le règne où Ronsard est monarque. Le doux parler nouveau! Je sens ton corps plier sous la crainte et l’amour: tel le fin peuplier aux souffles du printemps sur nos lacs d’Italie, tel sur nos lacs le jonc et le roseau

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Ivi, Arezzo I.

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quand s’envola soudain de la tige l’oiseau. Je sens que tout ton corps léger tressaille et plie83.

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Oltre a questa lirica e a quella già ricordata, inclusa nel Piacere («Schifanoia in Ferrara (oh gloria d’Este!»), troviamo menzioni petrarchesche in nove sonetti inclusi nel Venturiero, scritti nello spirito della miglior Elettra e dedicati A Lorenzo Elàteo, ovvero al conte Mancini (di cui D’Annunzio aveva amato la moglie, la già ricordata Amaranta). Nel primo di quei testi, la villa in riva all’Arno in cui Gabriele è ospite gli dà lo spunto per evocare Petrarca Lorenzo, ospite sono in questo chiaro tuo palagio cui vegliano i cipressi, e si tace la piana erba sott’essi, e il bòssolo v’aulisce dolciamaro. E a piè dell’alta ripa il fiume caro alle Muse per gli umidi recessi mòdula carmi or gravi ora sommessi, ond’io sognando una nov’arte imparo. Dalle mura che dòmina il signore della canzone, par che in questa pace spiriti magni vengano a concilio. E il signor dell’ottava, il tuo maggiore, con noi per le pensose ombre si piace in ragionar d’Omero e di Vergilio84.

Se il poeta del Canzoniere (non nominato in questi versi ma, insieme a Guittone, nelle righe che li precedono) veniva celebrato come maestro del sonetto nei versi francesi appena citati, adesso, ancora una volta, è riconosciuto «signore della canzone», in piacevole conversazione con il «signore dell’ottava», Lorenzo de’ Medici. In tal modo, Gabriele fa di lui il tramite fra stilnovismo e rinascimento fiorentino, come ben sanno i lettori di Alcyone, il poema dove, come qui, l’Arno canta con voce melodiosa.

83 Id., Sonnets cisalpins, I, in Gabriele d’Annunzio à Georges Hérelle, Correspondance inédite, par Guy Tosi, Paris, Denoël, 1946, p. 308. 84 Id., Il venturiero, cit., p. 645.

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5.3. Echi petrarcheschi nel linguaggio lirico

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Al catalogo delle menzioni esplicite di Petrarca va aggiunto, per completezza di discorso, uno sguardo all’influenza che la sua poesia esercitò sul linguaggio dannunziano, e segnatamente su quello lirico. La ricerca è stata condotta con risultati fruttuosi, una volta superati i pregiudizi sui limiti dei «fontanieri», come li chiamava Carducci, e l’equivoco sui «plagi». Ma lo stesso Gabriele ci metteva sull’avviso, legittimando lo studio degli influssi accertabili nel suo linguaggio, in un articolo anonimo del 1895 in cui riassumeva lo studio che Melchior de Vogüé aveva dedicato alla sua opera, ravvivata alle «benefiche influenze» dei poeti delle Origini: Ricercando nella lingua e nello stile del poeta d’Isaotta le benefiche influenze dei maestri del dolce stil novo e segnatamente del Petrarca, il critico dotto e sagace [Vogüé] ammira l’arte sottile con cui questo moderno sa infondere le varie essenze della sua anima complessa nelle coppe d’oro cesellate dagli antichi orafi toscani85.

In uno studio ormai lontano (1976) sulle correzioni della Sera fiesolana86, osservavo che una reminiscenza del Canzoniere entrata quella lirica fece da reagente nel suo processo elaborativo. Infatti, alla forma iniziale dell’incipit, «Dolci sien le mie parole ne la sera / come il fresco fruscìo che fan le foglie», subentrò quella definitiva, «Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie», ascrivibile a una scelta d’ordine fonosimbolico e sinestetico ma non meno alla volontà di impiegare, con la ripresa-variatio dell’attacco della seconda strofa, «Dolci le mie parole ne la sera», la dittologia fresche et dolci dell’incipit di RVF 126 (di cui un remake apre uno dei Sogni di terre lontane, Lacus Iuturnae: «Settembre, chiare fresche e dolci l’acque / ove il tuo delicato viso miri»). Dopo Dante, certo il primo auctor di D’Annunzio (che mutua da lui i titoli delle sezioni della sua Opera omnia, «versi d’amore e prose di romanzo»), ma prima degli stilnovisti e dei laurenziani, c’è Petrarca, ai cui versi

85 [Id.], Il Rinascimento latino, in «L’Illustrazione italiana», (3 feb. 1895); ora in Scritti giornalistici, cit., vol. II, p. 350. La paternità del sunto dell’articolo di Vogüé, che era stato da poco pubblicato sulla «Revue des deux mondes», si ricava dal carteggio di D’Annunzio con l’editore (Lettere ai Treves, cit., pp. 150-51). 86 P. Gibellini, I pentimenti della «Sera». Saggio di un commento alle correzioni di “Alcione” [1976] in Id., Logos e Mythos. Studî su Gabriele d’Annunzio, Firenze, Olschki, 1985, pp. 31-84.

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D’Annunzio e Petrarca

egli attinge in certa misura e in modi diversi. Nel saggio appena citato, accennavo alle consistenza dei singoli prelievi, che possono ridursi a una tessera lessicale, svincolata dal contesto originario e reimpiegata con totale libertà, oppure estendersi a un distico e a uno stilema; e alla loro funzione, ora evocativa, ora di citazione vera e propria, seppur talvolta dissimulata dall’anonimato. Le reminiscenze petrarchesche possono accompagnarsi a quelle di altri autori, antichi o moderni, che se inglobate nello stesso remake ne modificano la tinta, ovvero, se fatte a distanza, producono suggestivi effetti cromatici d’insieme. Come nella Sera fiesolana, dove echi di poeti diversi, distanti di secoli, Francesco d’Assisi, Dante, Petrarca, Carducci, Pascoli, Verlaine, entrano come strumenti diversi in un concerto armonioso. Queste osservazioni sono state confermate nell’edizione delle principali raccolte poetiche dannunziane che coordinai in tempi più recenti (199587) per l’editore Einaudi, nella quale la ricerca delle fonti, peraltro già condotta da precedenti e benemeriti annotatori, ha prodotto risultati considerevoli88. Come si può ricavare dagli stralci dell’annotazione a quelle opere, il poeta delle Rime (e anche dei Trionfi) è richiamato undici volte per Canto novo, due per Intermezzo di Rime, diciassette per Isaotta Guttadàuro, nove per Elegie romane, undici per Poema paradisiaco e ben quarantacinque per Alcione, raccolta che del resto ha una mole uguale alla somma delle altre. Queste indicazioni quantitative sono di per sé eloquenti, poiché mettono in luce, per esempio, che la voce di Petrarca si assottiglia nel simbolista e decadente Intermezzo e si rinvigorisce invece nella medieval-rinascimentale Isaotta e nei testi primaverili e settembrini di Alcione, ispirati – come ci capitò di suggerire – alla poetica delle «dolci parole» (cui si contrappongono le «parole non umane» e il ritmo delle «melodie selvagge» dell’esplosione estiva). Ma la rassegna delle citazioni del poeta aretino permette anche di definire la modalità e la funzione del loro riuso da parte di D’Annunzio, più o 87 G. D’Annunzio, Versi d’amore. Canto novo, Intermezzo di rime, Isaotta Guttadàuro, Elegie romane, Poema Paradisiaco, a cura di P. Gibellini, Prefazioni e note di F. Finotti, R. Bertazzoli, D. Martinelli, Torino, Einaudi, 1995; Id., Alcione, a cura di P. Gibellini, prefazione e note di I. Caliaro, ivi, 1995. 88 Cfr. in particolare le edizioni commentate da E. Palmieri (Primo vere, Canto novo, Intermezzo, Bologna, Zanichelli, 1953; L’Isottèo-La Chimera, ivi 1955; Elegie romane, Poema paradisiaco, Odi navali, ivi 1959, Maia, ivi 1941, Elettra, ivi 1943, Alcyone, ivi 1944; Merope, ivi 1945; Asterope, ivi 1964), da M. Praz e F. Gerra (Poesie, Teatro, Prose, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966), da F. Roncoroni, (Poesie, Milano, Garzanti, 1978; Alcyone, Milano, Mondadori, 1982), da A. Andreoli e N. Lorenzini (Versi d’amore e di gloria, voll. I-II, Milano, Mondadori, 1982-84).

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meno analogo a quello da noi rilevato per la Sera. Egli sembra dunque operare nel modo di Sperelli poeta, descritto nel passo sopra citato del Piacere che, esteso all’intera poesia e limitato all’auctor di cui ci stiamo occupando, suonerebbe così: «Un emistichio, […] il ricordo d’un gruppo di rime, la congiunzione di due epiteti, una qualunque concordanza di parole belle e bene sonanti, una qualunque frase numerosa bastava ad aprirgli la vena, a dargli, per così dire, il la, una nota che gli servisse di fondamento all’armonia». Come l’ape polizianea che elabora il dolce miele suggendo dai fiori più svariati, Gabriele incastona nei suoi versi la lingua di Francesco per l’effetto di alone che essa, ricca di «mistero», come dice nell’articolo del 1892 su Myricae, vi riverbera. A lui, oltre che maestro di lingua e di metrica, Petrarca dovette apparire un sapiente architetto, capace di disporre i singoli fragmenta lirici in un percorso ideale e di organizzarli in libro, articolato in sezioni omogenee, scandite da testi-cerniera composti ad hoc. Questa attitudine poematica, esemplarmente esperita in Alcyone ma più o meno presente in tutte le raccolte dannunziane, induce a rileggere la pagina del Fuoco (che segue quella in cui sono evocati Petrarca e Gaspara Stampa), dove Foscarina, eccitata, chiede a Stelio: Vi ricordate di quella vostra bella imaginazione su l’Estate defunta? L’Estate giaceva nella barca funebre, vestita d’oro come una dogaressa; e il corteo la conduceva all’isola di Murano dove un maestro del fuoco doveva chiuderla in un involucro di vetro opalino affinché, sommersa nella laguna, ella potesse almeno guardare le ondulazioni delle alghe.... Ve ne ricordate? – Era una sera di settembre. – L’ultima di settembre, la sera dell’Allegoria89.

Se proponemmo di leggere Alcyone, storia della passione carnale per la nuda Aestas, presagita, inseguita, posseduta e alfine sparita, come riscrittura della Vita nova, racconto del mistico amore per Beatrice, non può vedersi in quella sequenza di liriche dannunziane in vita e in morte di Madonna Estate una riproposizione del Canzoniere? E la dialettica latente del Paradisiaco fra carne e bontà non finisce per accomunarlo alle rime di Francesco più che al prosimetro di Dante?

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Id., Il fuoco, cit., p. 427.

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D’Annunzio e Petrarca

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6. Conclusioni Qualcosa c’era dunque da dire su D’Annunzio e Petrarca. Un Petrarca menzionato o sottinteso, che conta soprattutto per il Canzoniere e, in misura assai minore, per i Trionfi. Quello latino, poco letto da Gabriele e comunque poco amato, lo interessa quasi esclusivamente per le Lettere, essenziali per dipingere il ritratto di Cola di Rienzo e il color temporale del suo sfondo, e il Secretum, recuperato dal maturo scrittore ripiegato su se stesso, fra memoria e immaginazione, fra confessione e stenografia dei propri moti mentali. Del poeta, rimossa la patina del petrarchismo, apprezza la raffinatezza metrica, il linguaggio armonioso, la forza di certe coppie oppositive e, nella fase più tarda, l’ardente appello al «Latin sangue gentile», e magari la celebrazione della scipioniana conquista dell’Africa (anche se nel Teneo te Africa cercheremmo invano un lamento di Magone, l’empatia con il nemico vinto). Questo, in sintesi, si ricava dalle menzioni esplicite. Altre ragioni d’interesse s’intuiscono, come nella pagina contro il Saggio petrarchesco di De Sanctis, nella quale, difendendo Francesco scrittore-artista, finisce per difendere se stesso. E, nonostante l’assenza di affermazioni precise al riguardo, si capisce che in molti tratti di Petrarca egli si doveva riconoscere: l’amore della gloria e l’idea dell’alto rango del poeta; il culto della classicità; la costante preoccupazione, nelle opere e nelle lettere, di costruire la propria immagine e il proprio mito per la posterità; la sperimentazione di forme e generi; la straripante presenza dell’io come oggetto della scrittura. Ma occorre anche dire che altrettanto cospicuo è il Petrarca che manca in D’Annunzio, o quello cui si mostra indifferente o sordo: è lo scrittore totalmente dedito (almeno in letteratura) a un’unica donna, l’uomo costantemente attraversato da dissidi morali, non tanto delle opere filosofiche e ascetiche, e nemmeno dei Trionfi (anche se Gabriele non ha mancato di scrivere il suo Trionfo della morte), ma del Canzoniere, di cui l’Imaginifico sembra apprezzare solo la levigata superficie formale, l’incantata descrizione della natura e l’opzione per la materia amorosa. E se l’egotismo di Francesco era fonte per lui di conflitti morali, quello di Gabriele, uomo cui era sconosciuto ogni rimorso, viene gioiosamente esaltato, o risolto tutt’al più in oscillazione psicologica tra eccitazione e melanconia. D’Annunzio, Narciso abbagliato dalle pagine di messer Francesco, polite come uno specchio, non seppe dunque verdervi che il proprio riflesso90. 90 Nelle citazioni ho indicato per lo più le edizioni originali: segnalo qui la presenza, per alcune opere citate, di edizioni commentate da aggiungere a quelle già segnalate: Il piacere, a cura di I. Caliaro, Milano, Garzanti, 1995; Il fuoco, a cura di N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1996; Prose scelte. Antologia d’autore (1906), a cura di P. Gibellini e G. Prandolini, Firenze, Giunti, 1995; La Chimera ed Elettra, in Versi d’amore e di gloria, cit., nonché A. Conti, La beata riva, a cura di P. Gibellini, Venezia, Marsilio, 2000.

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APPENDICE PRIMA Petrarca nella biblioteca del Vittoriale

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Riportiamo qui, disposte in ordine cronologico, l’elenco delle opere di Petrarca possedute da D’Annunzio al Vittoriale e la lista – certamente selettiva – dei saggi di materia petrarchesca, il cui completamento esigerebbe un vaglio capillare. Ringrazio per la cortese collaborazione la bibliotecaria del Vittoriale, Michela Rizzieri. [Trionfi, con commento di Bernardo Lapini da Siena e Canzoniere, con commenti di Francesco Filelfo e Gerolamo Squarzaficus], Venezia, Pelegrino de Pasquali bolognese e Domenico Bertocco, 1486 = Stanza del Giglio CI [Trionfi. Sonetti e Canzoni (a cura di Gabriele Bruno e Girolamo Centone)], Venezia, Pietro Quarenghi, 1494 = Stanza del Giglio CI, 33 / D El secreto in prosa vulgare, Siena, Simeone di Niccolò, 1517 = Giglio CIV, 8 /A Li Sonetti Canzone Triumphi del Petrarcha con li soi commenti… [Trionfi col commento di Bernardo Illicinio] Venezia, Gregorio de Grigorii per Bernardino Stagnino, 1519. = Stanza della Leda, tavolino, 8 / A e 20 / A. Copia con ex-libris «Lorenzo Monaci» e copia con ex-libris «G.d’A» e cartiglio a p. 158. Chronica de le vite de pontefici et imperatori romani…, In Vinegia, s.n.t., 1534 = Stanza del Giglio, CXXIII, 35 / A Le rime del Petrarca..., Venezia, Bottega d’Erasmo di Vincenzo Valgrisi, 1549. = Stanza della Leda, 3 / A. Ex-libris «G.d’A.» Opera di M. Francesco Petrarca, de rimedi de l’una et l’altra fortuna, ad Azone, tradotta per Remigio fiorentino, Venezia, Gabriel Giolito, 1549 = Stanza del Giglio, CXV, 56 / A Il Petrarca con nuove, e brevi dichiarationi insieme una tavola di tutte le sue rime, ridotte co i versi interi sotto le cinque lettere vocali, Lione, Guglielmo Rovillio, 1551. = Stanza del Giglio CXIV Il Petrarca con nuove, e brevi dichiarationi…, Lione, Guglielmo Rovillio, 1551. = Stanza del Giglio CXIV Francisci Petrarchae Florentini…opera que extant omnia…, Basilea, Enrico Petri, 1554 = Stanza del Giglio CI Il Petrarcha con la spositione di M. Giovanni Andrea Gesualdo, Venetia, Domenico Giglio, [1554] = Stanza del Giglio CXXI

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D’Annunzio e Petrarca

Il Petrarca con dichiarationi non più stampate, insieme con alcune belle annotazioni tratte dalle dottissime prose di Monsignor Bembo, Venezia, Nicolò Bevilacqua, 1568 = Stanza del Giglio, CXX Il Petrarca con nuove spositioni nelle quali, oltre l’altre cose, si dimostra qual fusse il vero giorno et l’hora del suo innamoramento, Lione, Guglielmo Rouillio, 1574. = Stanza del Giglio CII e CXX Il Petrarca con l’espositione di M. Alessandro Velutello, Venetia, s.n.t, 1579 = Corridoio Gamma, XXIII De Remediis utriusque Fortunae Libri II, Lugduni, Pesnot, 1584 = Stanza del Giglio, CXXIII, 41 / A De’ rimedi dell’una et l’altra fortuna... libri 2, tradotti da Remigio Fiorentino, vol. I, Venezia, Domenico Farri, 1584 = Scale, LVII, 14 / A De’ rimedii dell’una e dell’altra fortuna, libri 2 tradotti da Remigio Fiorentino, Venezia, Lucio Spineda, 1607 = Stanza del Giglio, CXI Il Petrarca di nuovo ristampato et diligentemente corretto, Venezia, Giovanni Alberti, 1609. = Stanza del Monco, XII bis, 17 / A • Sulla seconda di copertina «appartenente a G. d’Annunzio (Asta Capponcina)» Le rime riscontrate coi testi a penna della Libreria Estense, e coi fragmenti dell’originale d’esso poeta…, con comenti di Alessandro Tassoni, Girolamo Muzio e Lodovico Antonio Muratori, Modena, Bartolomeo Soliani, 1711 = Stanza del Giglio C Le rime, Orleans, C.A.I. Jacob,1786, coll. 2 = Officina, F / 3, 40 / A-41 / A. Nel vol. I angoli piegati alle pp. 12, 37, 61, 76, 82, 88, 97, 123, 165, 168; foglie seccate alle pp. 13, 77, 107, 123, 153; nel vol. II angoli piegati alle pp. 136, 148, 149; fiore seccato a p. 25 Le rime, tomo II, Venezia, Vitarelli, 1811. = Corridoio Studio, XXXVII, 10 / A. Ex-libris «Thode». Epistolae De rebus familiaribus et Variae […] studio et cura Iosephi Fracassetti, Forenze, Le Monnier; s. d. = Corridoio Gamma, XXIII Lettere volgarizate e dichiarate con note da Giuseppe Fracassetti; Firenze, Le Monnier, voll. 5, 1861-67 = Corridoio Gamma XXII, 7 – 11 De’ rimedii dell’una e dell’altra fortuna volgarizzati nel buon secolo della lingua per D. Giovanni Dassaminiato, a cura di Casimiro Stolfi, Bologna, Romagnoli, voll. 2, 1867 = Corridoio Gamma V, XXIII Fioretti de’ rimedii contra fortuna, di messer Fr. Petrarca, volgarizzati per D. Giovanni Dassaminiato ed una espistola di Coluccio Salutati al medesimo D. Giovanni tradotta in latino da Niccolò Castellani, Bologna, Romagnoli, 1867. = Officina, E / 3, IV, 6 / A. Angoli piegati alle pp. 66, 108, 157, 185, 198, 238, 240, 244, 248

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Parma liberata dal giogo di Mastino della Scala addì 21 maggio 1341, a cura di Francesco Berlan, Bologna, Romagnoli, 1870 = Camera Baccara, IV, 32 / A. Ex-libris «G.d’A». Catalogo delle opere di Francesco Petrarca esistenti nella Petrarchesca Rossettiana di Trieste aggiuntavi l’iconografia della medesima per opera di Attilio Hortis, Trieste, Apollonio e Caprin, 1874 = Scale, LXXVI (con dedica del compilatore a D’Annunzio, intonso; altra copia in Scale LXXXI). La vita solitaria; volgarizzamento inedito del secolo XV tratto da un codice dell’Ambrosiana, a cura di Antonio Ceruti. Bologna, Romagnoli, 1879 = Corridoio Gamma, XXIX Rime con l’interpretazione di Giacomo Leopardi e con note inedite di Eugenio Camerini, Milano, Sonzogno, 1882 = Stanza del Giglio, CXI Lettere senili, volgarizzate e dichiarate con note da Giuseppe Fracassetti Firenze, Le Monnier, 1892 = Stanza del Giglio XCIII I Trionfi secondo il Codice Parmense 1636, collezionato su autografi perduti edito da Flaminio Pellegrini. con le varianti tratte da un ms. della biblioteca Beriana di Genova a cura di D. Gravino, Cremona, Luigi Battistelli, 1897 = Stanza del Giglio CI Le rime di su gli originali commentate da Giosuè Carducci e Severino Ferrari, Firenze, Sansoni, 1899 = Stanza del Giglio XCIX Les sonnets de Pétrarque traduits en sonnets français, [par] Ernest Cabade, avec une preface de M. de Treverret, Paris, Lemerre, 1902 = Stanza del Giglio XCVIII Karl Vossler, Stil, Rhythmus und Reim in ihrer Wechselwirkung bei Petrarca und Leopardi, s.n.t. [estratto da: Miscellanea di studi critici in onore di Arturo Graf, Bergamo, Istituto di arti grafiche, 1903, pp. 453-8] = Stanza del Giglio, CXXVI, 39 / A Il Canzoniere riprodotto letteralmente dal Cod. Vat. Lat. 3195, a cura di Ettore Modigliani, Roma, Società Filologica Romana, 1904 = Stanza del Giglio CVIII L’autobiografia, il Secreto, dell’Ignoranza sua e d’altrui; Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna, a cura di Angelo Solerti, Firenze, Sansoni, 1904 = Stanza del Giglio, XCIV. Segni a matita e molti angoli piegati Sonette und Kanzonen. Die Auswahl, Übers., und Einl. dieser Ausg. besorgte Bettina Jacobson, Leipzig, Insel Verlag, 1904 = Officina, A / 3, I, 2.Exlibris «Daniela» Pétrarque, nouvelle traduction en vers et dans les formes originales de ses Sonnets, Canzones, Sestines, Madrigaux et Triomphes, Paris, Jeune Académie, 1932, vol. 2 = Stanza del Monco, XVII, 22-23 / A. Dedica

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D’Annunzio e Petrarca

del traduttore Ferdinand Bailly a D’Annunzio; biglietto da visita del traduttore Charles Weiss, Laure et Petrarque..., Paris, 1935 = Stanza del Giglio, CXXII, 13 / A. Dedica dell’autore a D’Annunzio Le rime, Milano, Ist. Edit. Italiano, s.d. = Stanza del Giglio XCVI

APPENDICE SECONDA

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Echi petrarcheschi nella poesia dannunziana Nel 1995 sono usciti nella collana «Einaudi Tascabili» due volumi contenenti le principali raccolte poetiche di Gabriele d’Annunzio, secondo il testo delle edizioni originali: Versi d’amore. Canto novo, Intermezzo di rime, Isaotta Guttadàuro, Elegie romane, Poema Paradisiaco, a cura di Pietro Gibellini, Prefazioni e note di Fabio Finotti, Raffaella Bertazzoli, Donatella Martinelli, Torino, pp. XLV-576 e Alcione, a cura di Pietro Gibellini, Prefazione e note di Ilvano Caliaro, pp. XLVIII-446. Stralciamo dalle prefazioni alle raccolte, dai cappelli ai singoli testi e dalle note di commento i passi in cui viene richiamata l’opera di Petrarca. Canto Novo (a cura di Fabio Finotti) Il suo “rinascimento” corrispondeva al risveglio di un’energia che palpitava in tutta la natura ma trovava il suo perfetto adempimento nell’uomo e nella sua civiltà: era, ancora, quel “Rinascimento” che da Petrarca a Poliziano, da Foscolo a Leopardi aveva trovato la sua strada maestra e la sua perfezione nella bibliofilia e nella filologia. I-3, 21-22 come da un freddo serto di lauri / la fronte china sentiami attorcere: sono evocate con ironia le saffiche – ricche di memorie oraziane (e cfr. qui vv. 9 e 14) e fondate sulla trasfigurazione poetica dell’amore e sulla petrarchesca identità tra il lauro e la donna – di Carducci, Rime nuove, Una rama d’alloro, 11-12 e 21-22: «Inchinandomi i fulgidi d’Orazio / carmi dicea / […] / Avvolta in serto, oh foss’io stata ombrella / a la tua fronte!». Ma la «fronte china», che qui cade tra «sonni e sogni» (v. 17) ironizza anche sull’incipit di Odi barbare, Sogno d’estate, 1-2: «Tra le battaglie, Omero, nel carme tuo sempre sonanti / la calda ora mi vinse: chinommisi il capo tra’l

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sonno». 26 d’aquila: capace cioè di sostenere la luce del sole: cfr. Petrarca, RVF 335, 59: «Tien pur li occhi, come aquila, in quel sole». I-6, 20 il van desio: cfr. Petrarca, RVF 1, 6: «fra le vane speranze e il van dolore»; Carducci, Odi barbare, Nella piazza di San Petronio, 20: «un desiderio vano». II-12 E dalla barca si compie un nuovo rito di consacrazione: il matrimonio col mare, col canto primordiale delle onde, con l’alitante fonte dell’ispirazione poetica alla quale “l’aura” – parola dopo Petrarca liricamente fatata – rimanda. 6-12 ritti, noi giovini, / noi felici, noi forti, / noi tutti a te con l’anima / / dati e co’ muscoli, ecco Adriatico / sacro, e le libere vele, ecco, a i brividi / a li aneliti a i fischi / tutte date de l’aura: la memoria petrarchesca già agiva in II-9, 39. III-11 E se nelle terzine, la musica della natura si fa più squillante, l’illusione di una rinnovata giovinezza ormai non si scompagna più da una nota elegiaca: il basso continuo legato al tema del “dileguare” – che fa sentire le sue note profonde nei componimenti precedenti – si arricchisce qui del tema petrarchesco della mancanza dell’amata il cui nome risuona nel vento, e col vento – fantasma insieme di luce e di suono – svanisce. III-13 L’“amour de lonh” cantato con echi di lunare petrarchismo leopardiano nutre una flora fantasmatica e fragile. 12-13 io vo pe’l lido ne la solitaria / notte: per il solitario vagabondare notturno, illuminato dalla luce lunare, cfr. il petrarchismo leopardiano della Vita solitaria, 91-95. III-15, 9-11 in lontananza, con la chiglia rotta, / solo, tra mare e ciel, ne la bufera: il naufragio del «gran vascel perduto» simboleggia il fallimento dell’orgoglioso matrimonio con l’infinito marino di Canto novo, I-13, 25-27 e II-12, sviluppando l’immagine petrarchesca del RVF 189, 1-2 («Passa la nave mia colma d’oblio / per aspro mare, a mezza notte, il verno») ripresa nell’agosto 1882 – otto mesi dopo la pubblicazione in rivista di questi sonetti, sul «Capitan Fracassa» del 1 dicembre 1881 – da Carducci, Rime nuove, Passa la nave mia (Da H. Heine’s «Verschiedene»): «Passa la nave mia con vele nere / con vele nere pe’l selvaggio mare». IV-1, 5 mar de lo sconforto: cfr. Petrarca, RVF 277, 5-7: «onde si sbigottisce e si sconforta / mia vita […] senza governo in mar che frange»: il mare è ormai solo promessa di morte per chi considera il naufragio una vittoria sul proprio destino (6: «naufrago invitto»): cfr. già Canto novo, III-15 e 16. Intermezzo di rime (a cura di Fabio Finotti) Sonetti di primavera, II, 3 amata da’l sol: cfr. Petrarca, RVF 188, 1-2: «Almo Sol, quella fronde ch’io sola amo, / tu prima amasti».

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D’Annunzio e Petrarca

I madrigali IV, 3-4 e in sen le scende per virtù d’incanti / una vergine pioggia di fiorami: cfr. Petrarca, RVF 126, 40-42: «Da’ bei rami scendea […] / una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo».

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Isaotta Guttadàuro (a cura di Raffaella Bertazzoli) E poi rinvii al Poliziano delle Stanze, a Lorenzo, a Tasso e Petrarca, ai francesi Flaubert e Gautier, qualche spunto da Carducci e da Swinburne. Il dolce grappolo III, 144 dolce ésca: è il grappolo d’uva; dolce soprattutto perché esca del guiderdone amoroso. La metafora dell’esca amorosa, propria del linguaggio petrarchesco e della tradizione petrarchistica, è spostata sul versante edonistico. La situazione ricorda la canzone «Chiare, fresche et dolci acque», del Petrarca (RVF 126) ed in particolare i vv. 40-52. Isaotta nel bosco. Il motivo della passeggiata, è svolto per la Noferi con un «linguaggio curioso e composito, di timbro arcaico, con ricordi addirittura stilnovistici, danteschi o petrarcheschi, che sfumano alla fine in un mondo cavalleresco o mitologico soltanto (e non “mitico” dunque, né “favoloso”)» (p. 310). Ballata IV. Il topos della bianchezza della mano è già in Petrarca, RVF 208, 12 «basciale ’l piede, o la man bella et bianca»; 326, 7: «ti bagna Amor con quelle mani eburne», ma soprattutto; per la comune idea di una qualità salvifica delle mani, RVF 366, 124-126: «se dal mio stato assai misero et vile: per le tue man resurgo, / Vergine» (la salvazione dall’amor sacro della canzone petrarchesca alla vergine è naturalmente spostata all’àmbito profano della ballata dannunziana). 10 piaghe mortali: cfr. Petrarca, RVF 128, 2-3: «a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio». Ballata XIII, 6 dolce atto: topos petrarchesco: «atto dolce». Ballata XIV, 16 dolce riso: stilema fortunato della poesia, già dantesco e petrarchesco, per tutti cfr. RVF 126, 58. 31-36 O donna ch’anzi vespro a me fai sera, / cui Laura è suora ne le rime d’oro, / deh foss’io, come il vago de la Luna, / addormentato, e alfin tra le tue braccia / mi risvegliassi e bevere il tuo fiato / potessi ancora, in letto alto di rose!: eco della sestina petrarchesca «Non à tanti animali il mar fra l’onde» (RVF 237): «Deh or foss’io col vago de la luna / adormentato in qua’ che verdi boschi, / et questa ch’anzi vespro a me fa sera, / con essa et con Amor in quella piaggia / sola venisse a starsi ivi una notte; / e ’l dì si stesse e ’l sol sempre ne l’onde» (vv. 31-36). – rime d’oro: il Canzoniere del Petrarca, cui tutto il passo si ispira. 37-39 Tu la Bella vedrai diman da sera / e a lei ricingerai le chiome d’oro, / canzon, nata di notte senza luna: il commiato è ancora petrarchesco: «Sovra dure

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onde, al lume de luna / canzon nata di notte in mezzo i boschi, / ricca piaggia vedrai deman da sera» (vv. 36-38). Nel testo dannunziano, il rapporto appare rovesciato. Cantata di calen d’aprile 153-154 I vaghi de la Luna / fan lai ne l’aria mite: cfr. Petrarca, RVF 237, 31-32: «Deh or foss’io col vago de la luna / adormentato in qua’ che verdi boschi» (Palmieri). Sono gli innamorati della luna, che mandano gemiti al cielo. Eco di Inf., V, 46: «E come i gru van cantando lor lai». Trionfo d’Isaotta Le fonti d’ispirazione sono da ricercare nel Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico (giusta l’indicazione del sottotitolo) e nel Trionfo d’Amore del Petrarca. Ancora presente il poemetto dell’Intelligenza. 85 Chiude il gran corteo la Morte: la sequenza richiama i Triumphi del Petrarca. Quattro sonetti al poeta Giovanni Marradi in onore della nona rima, IV Così Andrea Sperelli: «Egli ascoltava in sé medesimo que’ suoni, compiacendosi delle ricche imagini, degli epiteti esatti, delle metafore lucide, delle armonie ricercate, delle squisite combinazioni di iati e di dieresi, di tutte le più sottili raffinatezze che variavano il suo stile e la sua metrica, di tutti i misteriosi artifizii dell’endecasillabo appresi dagli ammirabili poeti del XIV secolo e in ispecie dal Petrarca. cantata di calen d’aprile». Elegie romane (a cura di Raffaella Bertazzoli) Prefazione. Il «van rimpianto» dell’esule, anche se laicizzato, ricorda il petrarchesco «van dolore», e allude a motivi, tutti giocati sul piano letterario: alla vanità di un tutto, destinato alla inesorabile caducità e alla sua risoluzione in «cenere fredda»; ma forse il «van rimpianto» rinvia anche all’idea di una reductio della poesia, che riconosce nel «verso vano» l’incapacità a legittimarsi per sé. Sogno d’un mattino di primavera. 41-52 chiostre: nell’ed. Zanichelli si legge chiostri (cfr. Forcella, 1937, n. 1340, p. 416); cfr. Petrarca, RVF 192, 8: «per questa di bei colli ombrosa chiostra». Villa Medici 17 piovente dolcezza de’ sogni!: cfr. Petrarca (RVF 192, 3): «Vedi ben quanta in lei dolcezza piove». Stilema già presente in Novelle della Pescara, La vergine Orsola: «quella gran pace luminosa piovente dal cielo sul fiume» e in Primo vere, Initium: «i raggi de ’l sol di settembre! / Piovon su’ nostri giovini / volti» (vv. 1-3). 25-26 quasi che d’odorato peplo e di veli ondeggianti / bella ivi errasse Cintia dietro vestigia note. : si rinnova il mito di Diana (Cintia) dea della caccia, coperta di veli e di un manto odo-

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roso (odorato). Cfr. Petrarca, RVF 185, 12: «Fama ne l’odorato e ricco grembo»; così anche in Foscolo e quasi sempre in Leopardi, come osserva Palmieri. Il viadotto. Gli elci dannunziani nereggiano secondo la più consueta delle tradizioni poetiche, da Virgilio a Petrarca, per arrivare ai coevi Carducci e Pascoli. Cfr. il binomio in Della Casa, Rime, LXI, 11: «Quando tra l’elci e le frondose querce». Villa Chigi 39 Tutta la notte, ahi, lunga! (parea che non fosse mai l’alba): in una lettera a Barbara dell’11 dicembre 1889 (Palmieri), si cita il verso petrarchesco, che viene qui emblematicamente rovesciato nel suo significato letterale e simbolico: «Con lei foss’io da che si parte il sole, / et non ci vedess’altri che le stelle, / sol una nocte, et mai non fosse l’alba» (RVF 22, 31-33). 49 occhi lassi: stilema già petrarchesco (RVF 14, 1; 127, 94; 158, 1). La sera mistica. Il Palmieri riconosce che il poeta parla «alla sua propria anima (come fa più d’una volta il Petrarca), distinguendo l’io-persona fisica dall’essenza spirituale che l’informa». Felicem Nioben! 1 Triste e pensoso: coppia aggettivale di eco petrarchesco, ma anche ripresa fonica del titolo ovidiano: Tristia. Poema paradisiaco (a cura di Donatella Martinelli) Prefazione. Il confronto con le raccolte precedenti segnala poi la persistente influenza di un petrarchismo intimista peraltro ben attestato in area simbolista (si pensi alla frequenza del topico «colloquio con l’anima»), già corroborato dalle letture di Schopenhauer e dell’Amiel, e nutrito nel Poema da certo gusto archeologico di stampo preraffaellita: insomma un Petrarca ritrovato attraverso il recupero degli stilnovisti e della dantesca Vita nuova. […] Esemplare, a livello metrico, l’assunzione in Suspiria de profundis della sestina, già rivisitata nell’Isotteo con quel gusto parnassiano di omaggio al modello petrarchesco, e ora riscoperta, con assoluta novità, quale veicolo di nonsense, offuscamento della memoria e angosciosa ossessione del sonno: in una chiave cioè assolutamente non allusiva. In vano. Con la citazione di Benuccio e di Petrarca si tocca il tema dello scacco esistenziale rappresentato dalle promesse mancate e dal negato frutto del proprio lavoro. Esortazione. […] Catulle Mendès, Exhortation, in Soirs moroses XIX, in particolare riprendendone gli ultimi versi: «notre volonté flasque / entre l’ennui de vivre et la peur de mourir»: anzi, osserva giustamente il Palmieri cui si deve la segnalazione, più che variazione sul testo del Mendès, il D’Annunzio produce una vera e propria continuazione dello stes-

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so («dove la lirica finisce incomincia il sonetto»). Già colte dalla Lorenzini le implicazioni con il son. 56 del canzoniere petrarchesco, da cui proveniva del resto la citazione posta in epigrafe, e riecheggiata qui ai vv. 12-14: identico il tema del tempo che fugge e non mantiene le promesse, dell’attesa la Lorenzini vi coglie una variazione del petrarchesco «Et or di quel ch’i’ ò letto mi sovene, / che ’nzi al dì de l’ultima partita / huom beato chiamar non si convene» (RVF 56, 12-14). Pamphila 4 piaga: già «la piaga che pute» nell’Innocente con evidente riferimento sessuale (Lorenzini), per singolare contrappasso di un’aurea metafora amorosa del Petrarca (e ricorda in Baudelaire la «blessure large et creuse» di À celle qui est trop gaie, 32). Un ricordo. L’impiego di parole-rima ricorrenti nelle quartine (ABBA ABBA) e nelle terzine (CDE ECD), è certo da ricondurre alla sperimentazione della sestina petrarchesca. Un verso. «Lo nomina appena il Maffei […] Pure sappiamo ch’egli [Francesco di Vannozzo] fu caro al Petrarca […] non solo […] ma co’ suoi consigli giovasse anche a vincere in esso l’amore di Laura, od altra passione non degna di lui […]». Suspiria de profundis. Metro: serie di tre sestine petrarchesche retrogradate. Epilogo. La prima epigrafe proviene dal Trionfo della morte del Petrarca, dove le parole sono «poste sulle labbra di Laura sub specie larvae» (Palmieri). Alcione (a cura di Ilvano Caliaro) Il fanciullo. 242 Elci nereggian: l’elce o leccio ha il fogliame verde scuro. Cfr. il taccuino XLII: «Un bosco di lecci nereggiante [litorale laziale, fine febbraio 1902]» (Taccuini, p. 434). «Ilce nera» è in Carducci (Odi barbare, Alle fonti del Clitumno, 34); «elce nera» in Pascoli (Myricae, Il maniero, 14; ma cfr. pure Campane a sera, 26-27: «l’Appennino / opaco d’elci»); un’«elce antiqua et negra» è comunque già in Petrarca (RVF 192, 10): ne è matrice Virgilio, Ecl., VI, 54: «ilice sub nigra». La sera fiesolana. 1-3 Fresche le mie parole ne la sera / ti sien come il fruscìo che fan le foglie / del gelso: il Fresche nell’incipit della prima strofa e dolci in quello della seconda fanno notoriamente coppia nella memorabile canzone petrarchesca Chiare, fresche et dolci acque. 18 Dolci: costituiva l’incipit della prima strofe nella stesura iniziale della lirica, come eco, con fresche, della celeberrima canzone petrarchesca, il cui primo verso ritornerà

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D’Annunzio e Petrarca

intero in Lacus Iuturnae, 1-2: «Settembre, chiare fresche e dolci l’acque / ove il tuo delicato viso miri». «Dolci parole» costellano il Canzoniere di Petrarca: cfr. RVF 158; 12, 162, 3; 200, 11 e passim. Beatitudine. 16-17 Nell’aerea chiostra / dei poggi: ricorda «gli aerei poggi / di Bellosguardo» di Foscolo, Le Grazie, I, 9-10; più genericamente chiostra / dei poggi è stilema petrarchesco (cfr. RVF 192, 8: «Gli occhi move / per questa di bei colli ombrosa chiostra») già in Carducci, 825: «Rise d’alma luce il sole / per questa chiostra di bei monti». Pace. 3 senza scorta: è nesso già corrente in Dante e Petrarca. La tenzone. 33 desio vano e feroce: cfr. Petrarca, RVF 62, 3: «con quel fero desio ch’al cor s’accese». Bocca d’Arno. Cfr. lo «sfrenato ardire» di Petrarca, RVF 23, 143. 51 Le nubi i monti i boschi i lidi l’acque: enumerazione di gusto petrarchesco. Intra du’ arni. 1 isola di Progne: isola delle rondini. Procne o Progne, figlia di Pandione re di Atene, andò sposa a Tereo re di Tracia, che invaghitosi della sorella di lei Filomela le usò violenza. Procne si vendicò imbandendo al marito le carni del loro figlioletto Iti. Tereo, scoperto l’atroce inganno, inseguì le due donne, ma gli dei trasformarono il re trace in upupa, Procne in usignolo e Filomela in rondine. D’Annunzio, come Petrarca (RVF 310, 3) e diversamente da Dante (Purg., XVII, 19-20), segue una tradizione seriore, rappresentata dagli scrittori latini, che invertono le due ultime metamorfosi (cfr. Ovidio, Met., VI, 424 ss.). 6-9 ripete / le antiche rampogne / al re fallace, / e senza pace: non è immemore di Dante, Purg., IX, 13-5: «Ne l’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso alla mattina, / forse a memoria de’ suo’ primi guai». Le rampogne sono gli aspri rimproveri (cfr. Petrarca, RVF 340, 76: «Il mio adversario con agre rampogne / comincia»). Le stirpi canore. 15 ispide come i dumi: spinose, aspre, come i rovi. Il Tommaseo-Bellini alle voci dumo e ispido cita Petrarca, RVF 360, 46-47: «Cercar m’ha fatto deserti paesi / fiere et ladri rapaci, hispidi dumi». Innanzi l’alba. Orione, gigantesco cacciatore figlio di Poseidone, anch’egli col cane mutato in costellazione (cfr. Ovidio, Met., VIII, 207: «strictumque Orionis ensem» e Am., II, 56: «ensiger Orion», nonché Petrarca, RVF 41, 10: «et Orïone armato / spezza a’ tristi nocchier’ governi et sarte»). L’alpe sublime. 17 Tonante: epiteto di Giove, corrente negli autori latini, ma cfr. anche Petrarca, RVF 24, 2: «l’ira del ciel, quando ’l gran Giove tona». L’oleandro. 10 chiare acque: ricorda, con il fresco del verso che segue, il memorabile incipit petrarchesco «Chiare, fresche et dolci acque». 48 io mi cinga del lauro trionfale: io sia poeta. Cfr. Petrarca, RVF 263, 1-2: «Arbor victorïosa triumphale, / honor d’imperadori et di poeti». 226 chioma bionda:

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bionda è la Dafne di Petrarca, cui è notoriamente caro il mito della ninfa Peneia: cfr. RVF 34, 1-4: «Apollo […] se non ài l’amate chiome bionde, / volgendo gli anni, già poste in oblio». 231 infiammato desìo: richiama Petrarca, RVF 34, 1-2: «Apollo, s’anchor vive il bel desio / che t’infiammava a le thesaliche onde». mi scampa ricorda Petrarca, RVF 35, 5: «Altro schermo non trovo che mi scampi». 274 arbore: cfr. Petrarca, RVF 41, 2: «l’arbor ch’amò già Phebo in corpo humano». 303 capelli, che m’avvinsero, ami: ricorda Petrarca, RVF 34, 3: «l’amate chiome». 357 al mio desio diversa: «diverso» costruito con «a» occorre in Dante (cfr., ad es., Inf., IX, 12: «le parole alle prime diverse»); oltreché in Dante, desìo è frequentissimo in Petrarca. 380 monti e valli e selve e fiumi e fonti,: polisindeto nel gusto di Petrarca, cui è caro il mito dafneo: cfr. RVF 71, 37: «O poggi, o valli, o fiumi, o selve, o campi» e RVF 288, 9-12: «monti […] piagge […] valli […] fonti». 387-388 il sacro / lauro: ricorda la «sacra fronde» di Petrarca, RVF 34, 7, ma anche Lucano, Phars., I, 287: «sacras poscunt Capitolio laurus»; cfr. Ditirambo I, 409-410: «il Lauro / che fu sacro ad Apolline». Bocca di Serchio. 116-117 triste peso: il peso della carne. Ricorda il «peso terren» di Petrarca, RVF 91, 8. 137 solitario: parola cara a Petrarca. 196 intentamente: cfr. Petrarca, RVF 343, 10: «Et come intentamente ascolta». Nico. 1 piè bianchi: attributo della donna cantata da Petrarca: cfr. RVF 165, 1: «Come ’l candido piè per l’erba fresca». A Nicarete. 12-13 il fior d’ibisco / che t’inghirlanda le tue dolci tempie: ricorda Catullo, Carm., LXI, 6: «cinge tempora floribus»; Dante, Purg., XXI, 90: «dove mertai le tempie ornar di mirto» e Petrarca, RVF 119, 103-5: «di verde lauro una ghirlanda […] intorno intorno a le mie tempie avolse»; t’inghirlanda è comunque un dantismo: cfr., ad es., Purg., XIII, 81: «perché da nulla sponda s’inghirlanda». Per il v. 12 vedi il sonetto precedente, v. 14 e nota relativa. Stabat nuda Æstas. 5-6 Più rochi / si fecero i ruscelli: il mormorio dei ruscelli si fece più fioco. Ricorda il «raucum […] murmur» dell’acqua in Virgilio, Georg., I, 109, riecheggiante in Petrarca, RVF 279, 3: «o roco mormorar di lucide onde». 7 gemette: allude all’effetto sonoro dello stillare della resina. Cfr. Dante, Inf., XIII, 40-1: «stizzo verde ch’arso sia / da l’un de’ capi, che da l’altro geme». Ditirambo III. 2 soavi: clausola frequente in Dante e Petrarca (di cui cfr. RVF 258, 4: «soavi fiumi»). 7 fianchi: corpo. Ricorda Petrarca, RVF 16, 5: «l’antiquo fianco» e Foscolo, Odi, A Luigia Pallavicini caduta da cavallo, 82: «l’agil fianco femmineo». L’asfodelo. 6 curvi fiumi rochi richiama i virgiliani «flumina […] curva»

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(Georg., II, 11-12) e «amnis / rauca sonans» (Aen., IX, 124-125), ma anche il «roco mormorar di lucide onde» di Petrarca, RVF 279, 3. 9 aspri e freschi e molli: enumerazione di gusto petrarchesco. Ad aspri, quanto al suono (cfr. le dantesche «rime aspre» di Inf., XXXII, 1), si oppone molli, ‘musicali’. Feria d’agosto. 17 impetra: ottiene (nel senso del lat. impetrare). Ditirambo IV. 34 folce: sostiene, conforta. Latinismo già petrarchesco (cfr. RVF 363, 13: «che pur col ciglio il ciel governa e folce») echeggiante in Carducci, Rime nuove, Primavere elleniche, II, 13: «nel giacinto il braccio folce», ove, come qui e prima in Poema paradisiaco, Psiche giacente, 6: «il bel chiomato capo folce», rima con «dolce». 80-81 stelle vaghe, ’erranti nei cieli’, ricorda Petrarca, RVF 287, 6: «le stelle vaghe et lor viaggio torto». Undulna. 104 nel grande oro della cesarie: nell’oro diffuso della sua chioma (lat. caesaries). L’oro della cesarie ha un precedente nella «cesarie d’oro» di L’Isottèo, Sestina, 24 e di Poema paradisiaco, Le foreste, 23, memore di Carducci, Rime nuove, Commentando il Petrarca, 11: «Va pe’ bei fianchi la cesarie d’oro» (Roncoroni), a sua volta della virgiliana «aurea caesaries» di Virgilio (Aen., VI, 659). L’otre. 29 dolci acque e fresche: eco del memorabile incipit petrarchesco «Chiare, fresche et dolci acque» (RVF 126). Lacus Iuturnæ. Non basta l’enunciato iniziale (dolce m’è ne la memoria, v. 3, di estrazione petrarchesca come l’incipit) a dare prospettiva, soprattutto interiore, al ricordo, la cui carenza è visibile nell’esteriorità dei riferimenti della memoria, nonché nel gusto della parola, nel linguaggio prezioso intonato sul registro delle Elegie romane. 1-2 chiare fresche e dolci l’acque / ove: chiara eco del memorabile incipit petrarchesco «Chiare, fresche et dolci acque, / ove …» (RVF 126). – 3 dolce m’è nella memoria: altra reminiscenza della citata canzone petrarchesca, v. 41: «dolce ne la memoria». Il novilunio. 117 come un cespo ad ogni fiato: come un cespo erboso o fiorito (cfr. Petrarca, RVF 160, 10-11: «quand’ella preme / col suo candido seno un verde cespo» nonché Pascoli: «i cespi / de’ glauchi garofani») ad ogni soffio di vento. Il commiato. 74 di sogni obliosi in van mi pasco: invano mi nutro di sogni che fanno dimenticare la realtà (della partenza). Cfr. Petrarca, RVF 93, 14: «ch’i’ mi pasco di lacrime, et tu ’l sai». 86 ai campi aridi ingrasso: concime per i campi infecondi. Per campi aridi cfr. Petrarca, RVF 64, 9-10: «ché gentil pianta in arido terreno / par che si disconvenga». 164 gentile sangue: di nobile stirpe. Cfr. Maia, Laus vitae, 5656-5657: «le vendette del gentile / mio sangue». Più determinato, il nesso occorre in Elettra, Al re giovine, 100: «vedemmo ancòra sul mondo / splendere il latin sangue gentile», memore di Carducci: «Sei tu, sei tu, latin sangue gentile, / che ne i pugnati campi su la

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Pietro Gibellini

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doma / Austria risorgi» (la cui fonte è Petrarca, RVF 128, 74); ma cfr. anche Pascoli: «Latin sangue, gentil sangue errabondo, / tu sei qual eri nel tuo giorno». 192 giglio del mare: il pancrazio, l’unico fiore degno, per l’aedo di Alcione, dei poeti, già consacrato all’Orfeo nordico, Shelley (vedi Anniversario orfico, 81 ss.).

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INDICE DEI NOMI*

Abelardo P., 222 Acampora G., 63, 64 Accorsi M. G., 35n. Acquaro Graziosi M. T., 52n. Agosti S., 228 e n. Agostino Aurelio, 87, 222 Albani A., 65-66 Albertini C., 170n. Aldrovandi E., 33 Aleardi A., 201-203 e n., 209 Alessandrini G., 179n. Alfieri V., 87-113, 123, 147, 148n., 177, 181, 186, 194 Algarotti F. 69 Allevi F., 171n. Amaranta, vedi Mancini G. Ambrosoli F., 127 e n., 136, 242 Amiel H. F., 319 Amigoni F., 235n. Anacreonte, 56, 176 Andreoli A., 274n., 275n., 279n., 309n. Andrés G., 71, 75 e n., 138 Angeloni L., 125 Anonimo Romano, 289

Antona Traversi C., 238 Arena S., 32n. Aretino P., 12, 128n. Ariani M., 119n., 120n. Arici C., 172, 190n. Ariosto L., 28, 63n.,84, 86, 91, 95n. 103, 123 e n., 124, 148n., 157, 171n., 173, 174, 175, 176, 179, 180, 181, 182, 183, 196n., 232n., 249, 252, 269, 274, 297 Aristofane, 80n., 165n. Aristotele, 11, 180 Arnaldi G., 40n. Arnaut Daniel, 279, 302 Arrivabene G., 179n. Artale G., 59 Asclepiade, 303 Asor Rosa A., 48n., 52n., 55n., 60n., 189n. Attavante degli Attavanti, 280, 284 Aurelio Severino M., 11n. Aurispa G., 174 Avena A., 40n. Azzolini P., 187n. Baccini I., 237 e n.

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L’indice, in cui sono inclusi gli editori e i tipografi oggetto di studio, non registra i nomi di Petrarca e di Laura (comprende però Laura de Sade), i nomi mitologici e i personaggi letterari.

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Indice dei nomi Baciocchi T., 41 Bacone F., 10, 219n. Bailly F., 281, 315 Balbo C., 176 Baldacci L., 185 e n., 190n., 193n., 197 e n., 200n., 207, 211n. Baldassarri G., 52n. Baldelli G. B., 216n., 258 Baldelli I., 124n. Balduino A., 142n., 286n Ballirani G., 42 Bambini cruscante, 299 Barbara vedi Leoni B. Barbarisi G., 84n. Barbèra G., 241n., 242n., 243n., 244 e n., 245n. Barbèra P., 241 Barbey d’Aurevilly J.-A., 232 Barbieri Lucia, 157n. Barbieri Luigi, 263 Bardazzi G., 144n. Baretti G., 56n., 69, 70, 71, 75-78, 128n., 159, 178, 182 Barlaam Calabro, 174 Barra A., 64 Barthouil G., 158n. Bartoli A., 266n. Bartoli D., 130n. Basco Riccardi di Lantosca V., 217, 232, 233n. Battaglia S., 128n. Battifolle conte di vedi Guidi Guido Novello conte di Battifolle Battisti C., 296 Battistini A., 11n., 12n., 29n., 189n., 202n., 203 e n. Baudelaire C., 28, 232, 320 Bazzocchi M. A., 158n. Beccadelli L., 177 e n. Beccanugi L., 136n. Beccaria C., 69, 82-83 e n. Bedori C. A., 35 e n. Bellati A. F., 33

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Belli d’Aragona G., 299 Bellini B., 321 Bellini L., 48 Bellorini E., 142n., 171n. Bellucci N., 162n., 166n. Beltrami G., 277 Bembo P., 50, 63n., 120n., 129, 155n., 257, 260, 278, 269, 281, 287, 313 Benco S., 234 Beniscelli A., 36n., 37n., 42n. Benuccio vedi Salimbeni B. Berardi G., 179n. Berardinelli A., 219n. Berchet G., 170, 171n., 176, 179 e n., 180 e n., 186, 197, 251-252 e n. Bergantini G. P., 128 Berlan F., 281, 314 Bermond A., 297 Bernardoni P., 35n. Berneaud A. T. de’, 92-94 e n. Bertani A., 120n. Bertazzoli R., 309n., 315, 317, 318 Bertola A. de’ Giorgi, 85 e n. Bertoldi A., 128n., 182n. Bertoli L., 251n. Bertolotti D., 173 Besomi O., 138n., 174n., 216n. Bessarione cardinale, 174 Bessi R., 157n., 158n. Betteloni V., 203 Bettinelli S., 67-68, 69, 70, 71, 78, 80, 81-82, 84, 85, 90 e n., 117-119, 127 e n., 128129, 138, 145n., 159, 172 Biagioli N. G., 92-95, 96 e n., 100, 161 e n., 164n., 169, 170n., 177 Bianchi D., 164n. Bibbiena vedi Dovizi B. Bigi E., 81n., 171n. Billanovich G., 256n., 258n., 268-270 e n. Binni W., 32n., 45n., 49n., 54 e n., 57n., 68 e n., 69n, 89 e n., 90n., 102n., 103 e n., 106n., 116n., 123n., 138n., 162n., 170n., 222n., 233n.

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Indice dei nomi Biral B., 155n., 157n. Bizzocchi R., 183n. Blanc P., 94 Blasucci L., 140n., 142n, 149n., 154n., 160n., 162n., 164n., 165n. Boccaccio G., 13, 14n., 18n., 27, 69, 74, 121 e n., 123 e n., 124, 133 e n., 151, 152, 156, 171, 179, 234n., 253, 262, 295 Boëtie E. de la, 297 Boito A., 204n. Bologna C., 129n., 130n. Bonconte da Montefeltro, 305 Bonfatti A., 81n., 117n., 119n. Bonichi B., 304 Bonora E., 67n., 69n., 116n., 127n., 137n., 139n., 142n, 160n., 170n., 176n., 217n., 252n. Bopp F., 258n. Borgese G. A., 210 e n. Borlenghi A., 171n. Borsellino N., 12n. Borsieri P., 125, 170, 171n., 172, 175 e n., 177-178, 179 e n., 180 e n., 183 Bosco U., 89 e n., 228n. Bossuet J.-B., 11 Bostichi Stoppa, 304 Botteri M., 200n. Botticelli S., 303 Bouhours D., 20, 35, 72 Bouterweck F., 251 Bozzo G., 170n. Bozzola S., 129n., 135n. Bracchi C., 75n. Brambilla A., 209n., 246n., 256n., 264n. Branca V., 54n., 89 e n., 90n., 95, 96 e n., 102n., 107n., 110n., 120n., 171n., 173n., 178n., 189n., 191n., 251n. Breme L. P. A. Gattinara di, 125, 170, 171n., 172 e n., 173n., 174, 175, 179 e n. Brettoni A., 68n. Brioschi F., 138n., 183n. Broglio E., 243n.

Brunelli B, 70n. Bruni F., 119n. Bruni L., 223, 293 Bruno G., 281, 312 Brunone di Asti san, 106 Bruto M. G., 291, 292 Buccellati G., 83n. Buonarroti M., 295 Buragna C., 60, 64 Burdach K., 268n., 288 Buttura A., 170n. Byron G. G., 148, 174, 183 Cabade E., 314 Cabianca V., 278 Caccia E., 256n. Cacciapuoti F., 217n., 232n. Cagnoli A., 206 e n. Calcaterra C., 170n., 171n. Calderón de la Barca P., 175 Caliaro I., 309n., 311n., 315, 320 Calmo A., 277 Caloprese G., 11-12 e n., 13, 15, 22, 60n., 61-62 e n., 64 Caluso vedi Valperga di Caluso T., 172 e n. Camerana G., 204 e n. Camerini E., 281, 314 Camillo M. F., 291 Campailla S., 208n. Camporesi P., 172n. Canello U. A., 266n. Canestrini G., 266n. Canevari G. T., 15n., 41 Capizzucchi Gabrielli P., 56n. Cappellini M. M., 273n. Cappello B., 288 Capponi G., 166 e n., 191 e n. Capra C., 84n. Capucci M., 33n. Carafa T., 65 Carbone D., 170n., 242 Carducci D., 245

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Indice dei nomi Carducci G., 96 e n., 128n., 161n., 164n., 165n. 169, 185, 196 e n., 201, 203, 208-209 e n., 210 e n., 213, 215, 237249, 251, 255 e n., 257-264 e n., 265 e n., 266, 268, 269, 270-271 e n., 274, 275, 279, 281, 294, 295, 304n., 309, 314, 315, 316, 317, 319, 320, 321, 323 Carducci I., 245 Caretti L., 88n. Cariteo vedi Chariteo Carli P., 17n. Carlo X, 255 Caro A., 128n. Carrai S., 137n., 139n., 160n. Carraresi A., 166n. Carrer L., 115, 117n., 119, 120, 121 e n., 127, 169, 170n., 177n., 193n., 195-196 e n., 198, 216n. Cartesio (Descartes R.), 10, 11 Casaregi G. B., 15n., 36, 41-42 e n. Casella, 300, 303 Casini T., 248 Castagnola R., 273n. Castellani N., 313 Castelli A., 280n. Castelvetro L., 11, 29n., 80, 174 Casti G. B., 249 Castiglione B., 269 Catalano G., 204n. Cataldi P., 160n. Caterina da Siena, 231, 232 Cattaneo C., 119-120 e n. Catucci M., 52n. Catullo Gaio Valerio, 56, 322 Cavalcanti G., 15, 283, 303 Cazzani P., 90n. Cecchi E., 187n., 49n. Ceneri G., 242 Centone G., 281, 312 Cerruti M., 74n. Ceruti A., 314 Cesare Caio Giulio, 253

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Cesari A., 115 e n., 122 e n., 123, 125-126 e n., 127, 130n., 132-133 e n., 136 e n., 155n. Cesarotti M., 79, 84 e n., 85, 125 e n., 133134 e n. Ceva T., 23 Chablitz editore di Zurigo, 219 Chariteo (Gareth B.), 44 Chateaubriand F.-R. de, 229 Chemotti S., 142n Chesterfield P. D. S. earl of, 155 e n., 167n. Chiabrera G., 41n., 48, 49n., 63n., 145 Chiarini G., 125n., 243n., 244 e n., 246 Chiorboli E., 257 Cian V., 260 Ciani I., 210n. Cicerone Marco Tullio, 81, 82, 83, 224, 253, 259, 280, 292, 305 Cimmino A., 27 Cinelli B., 200n. Cino da Pistoia, 15, 241, 283, 303, 304 e n. Ciociola C., 130n. Cipollini A., 31n. Clemente VI papa, 290 Cochin H., 268n. Cola di Rienzo, 223n., 288, 289, 290, 291, 292, 293, 311 Coletti V., 167n. Collalto C. di, 287, 288 Colombo A, 124n. Colombo M., 133 Colonna C., 59n. Colonna Giacomo., 227 Colonna Giovanni (di Stefano il Giovane), 291 Colonna Giovanni (di Stefano il Vecchio) card., 291 Colonna S. (il Giovane), 291 Colonna V., 58 e n. Comino G., 96 Compagnino G., 39n. Confalonieri F., 174n. Contarini F., 128 e n.

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Indice dei nomi Conte G., 25n. Conti A., 211-212 e n., 285 e n., 286, 288, 311n. Contini G., 98n., 119 e n., 124n., 126n., 130n., 136n., 137n., 157n., 161n., 192n., 219n., 247-248 e n., 249n., 257 Convenevole da Prato, 305 Copioli R., 144n. Coppola N., 205n. Cornelio T., 59, 60 Corner Vendramin A., 103n. Corradini E., 210, 276 Corradini F., 264 Corsetti C., 78n., 79n. Cortelazzo M. A, 129n. Cortelazzo M., 129n. Cortese N., 59n. Corti M., 115n., 133n. Corticelli S., 130n. Costa G., 22n. Costa S., 274n. Costanzo vedi Di Costanzo A. Cottignoli A., 35n. Cremante R., 211n. Crescimbeni G. M., 14, 18, 19 e n., 28, 52-53 e n., 54, 56n., 60n., 62 Crisolora E., 174 Cristina di Svezia, 9, 49, 53, 220 Cristofori Piva C., 239n., 245 e n., 246n., 247n. Croce A., 232n. Croce B., 31n., 215, 218 e n., 252 Crotti I., 118n. Crudeli T., 51-52 e n. D’Ancona A., 44 e n., 219-220 e n., 254, 265-266 e n. D’Andrea F., 59n. d’Annunzio G., 212, 271, 273-324 D’Ovidio F., 264, 267 e n. Dall’Albero L., 137n. Damiani R., 129n. Danelon F., 122n.

Daniele A., 158n., 256n., 258n. Danna B., 74n. Dante, 13, 14n., 15, 18 e n., 28, 29 e n., 41n., 63n., 67, 68, 69, 71, 72, 80 e n., 83, 84, 86, 91, 92 e n., 95n., 103, 117, 118 e n., 119 e n., 120, 121 e n., 122 e n., 123 e n., 124 e n., 127, 133 e n., 146, 147, 148n., 150, 151, 152, 156, 157, 167n., 169, 171 e n., 173, 174, 176, 177 e n., 180, 181, 182, 183 e n., 184, 191, 192, 196n., 198, 204, 205, 208n., 209, 212, 218, 219, 223 e n., 224, 231, 232, 252, 254, 259, 262, 263 e n., 270, 273, 274, 275, 278, 279, 295, 298, 300, 308, 309, 321, 322 Dardi A., 121n., 122n., 130n., 131n. Dati Goro di Stagio, 298 Dazzi P, 241n., 243, 244n., 247 De Amicis E., 275 e n., 288 De Amicis T., 232 De Biase C., 49n. De Bosis A., 211, 212-213 e n. De Lisle L., 256 De Lollis C., 137n., 192 e n., 196n., 201n., 207 e n. De Luca G., 268, 269 De Maria M., 278 De Meis A. C., 217n., 218, 232n. De Robertis D., 137n., 157n. De Robertis G., 89 e n., 137n. De Sanctis A., 218n. De Sanctis F., 134 e n., 169, 209, 215-35, 243, 252-254 e n., 264, 267, 285, 311 De Sanctis M., 218n. De Stefanis Ciccone S., 123n., 125n., 136n., 183n. Debenedetti G., 89 e n., 233 e n. Degrada F., 84n. Del Cerro E., 101n. Del Cossa F., 284 Del Lungo I., 191n., 242n., 249 e n. Del Vento C., 93n. Dell’Aquila G., 22n., 123n.

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Indice dei nomi Dell’Aquila M., 171n. Della Casa G., 11 e n., 12 e n., 13, 42, 59n. 61, 63n., 65, 186, 195, 319 Demetrio Falereo, 11, 165n. Denina C., 75, 78-79 e n., 84, 85 e n. Devonshire S. C. Cavendish duca di, 95 Di Costanzo A., 39, 44, 63n., 65, 187n. Diez F. C., 258n. Dionisotti C., 118n., 120n., 123n., 132n., 233n., 266n. Distaso G., 38n. Dolfi A., 157n. Domenici C., 92n. Donato M. P., 52n. Dondero M., 89n, 137n., 162n. Doni C., 93 e n., 95n., 96n., 100n. Donnini A., 43n., 44n., 45n. Dotti U., 186n. Dovizi B. da Bibbiena, 174 Dozon M., 158n. Dryden J., 51 Duse E., 288, 298 Emiliani-Giudici P., 170n., 176, 180n., 252n. Enrico di York cardinale, 101 e n. Erasmo da Rotterdam, 209n., 260 Ermogene di Tarso, 11 Eschilo, 300 Ettorri C., 31n., 32 e n., 33, 34, 52 Fabre F. X., 93 Fabrizi A., 54n. Fabroni A., 119 Fagiuoli G. B., 128 Falletti di Barolo O., 102n. Falorsi G., 89 e n. Fantato M., 120n., 127n. Fantonius Gabriel (Fantoni G.), 302 Fantuzzi P. E., 33 Fassò L., 88n. Fedi R., 99n. Felcini F., 210n. Felici L., 167n.

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Feo M., 130n. Fernow C. L., 170n. Ferrari G., 176 Ferrari S., 96 e n., 161n., 164n., 165n., 210211 e n., 239 e n., 240, 242, 248 e n., 261, 281, 294, 314 Ferrario V., 182 Ferraris A., 174n., 182n., 191n. Ferretti G., 216n. Ferroni G., 233n. Ferrucci F., 87n. Ficara G., 223n. Ficino M., 174 Fido F., 11n., 77n. Figurelli F., 171n. Filelfo F., 174, 281, 312 Filicaia V. da, 41, 48, 145, 181 Finotti F., 199, 203 e n., 309n., 315, 316 Finzi Gilberto, 204n. Finzi Giuseppe, 238 Fischer, vedi Vischer F. T. Flaubert G., 317 Flora F., 171n. Floriani G., 264n. Fogazzaro A., 258 Folena G., 17n., 120n., 128n., 205 Foligno C., 121n., 122n. Fontana F., 134-135 Forcella R., 318 Foresi M., 238 Foresti A., 268 e n. Fornaciari L., 124, 136n. Forti F., 22n., 33n., 37n. Fortunio G. F., 131 Foscolo U., 17 e n., 19, 86, 116, 117n., 121 e n., 129, 169, 172n., 173, 185, 186 e n., 188n., 190n., 194, 195, 198 e n., 249, 315, 319, 321, 322 Fracassetti G., 220, 258, 282, 288, 313, 314 Franceschetti A., 40n., 41n. Francesco d’Assisi, 309 Francesco di Vannozzo, 304, 320 Francesco I, 280

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Indice dei nomi

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Francesia G., 170n., 238 Francioni G., 82n. Franco N., 128n. Frangipane M. A., 124n. Frare P., 33n. Frassineti L., 173n. Frattini A., 137n., 157n., 165n. Frescobaldi D., 241 Frizzoni T., 217 Frugoni C. I., 249 Fubini M., 22n., 25n., 31n., 32n., 38n., 39n., 42n., 45 e n., 62n., 68 e n., 69n., 89 e n., 90-91 e n., 107 e n., 116n. Galeazzo di Tarsia, 195 Galilei G., 16, 173 Gallo N., 218n., 223n. Gambarin G., 195n. Garavelli E., 120n., 123n., 125n., 183n. Gargani G. T., 240 Gargiolli C., 243, 247, 263, 264 Garzadoro A., 40n. Gasparri P. cardinale, 277 Gassendi P., 11 Gautier T., 317 Gavazzeni F., 137n., 138n, 186n., 188n. Genette G., 22n. Gensini S., 118n Gentili S., 186n. Gerra F., 309n. Gesù Cristo, 177n., 178n. Gesualdo G. A., 96, 161 e n., 281, 312 Getto G., 145n. Gherardini G., 134, 175 e n., 181 Ghiazza S., 19n. Ghidetti E., 123n., 138n. Ghidetti L., 92n. Ghivizzani G., 247 e n. Giacosa G., 300, 301 Giannantonio P., 59n., 60n., 63n. Giannelli B., 61n. Gibellini P., 274n., 276n., 288n., 308, 309n., 311n., 315

Ginguené P. L., 93 e n., 145 e n., 155n., 166n., 172 e n. Gioberti V., 189n. Giordani P., 120, 125 e n., 133, 136n., 140 e n., 144n., 145, 183 n. Giorgetti Vichi A. M., 52n. Giorgio da Trebisonda, 174 Giovanartico di Porcia, 21 Giovanni da San Miniato, 282, 313 Giovanni di San Vito, 289 Giovenale Decimo Giunio, 82 Girardi A., 162n. Giusti G., 190n. Gobbi A., 42, 43n. Goldoni C., 129 Gonzales T., 33n. Gori Gandellini F., 87 Gozzano G., 185n., 268 Gozzi G., 69, 70, 71, 80-81, 121n. Graf A., 197n., 207 Grassi Girolamo, 33 Grassi Giuseppe, 172n. Gravina G., 10, 11, 12n, 13-20, 24n., 26, 54, 60n., 62-63 e n., 64, 69, 70n., 71, 79, 121, 138, 144n. Gravino D., 314 Graziosi E., 31n., 32 e n., 33-34 e n., 35n., 36 e n., 37n., 58n. Grazzini A. F., 128n. Grillo Pamphili T., 41, 56n. Grimaldi A., 49n. Grimm J., 258n. Grolier G., 280 Gronda G., 39n., 56n., 62n. Grossi T., 196 Guarini B., 56, 157 Guasti C., 19n. Guglielminetti M., 87n., 170n., 185n., 268 e n. Guglielmo degli Ubaldini, 305 Guicciardini F., 27, 234n. Guidetti G., 122n. Guidi A., 19 e n., 53-54, 58n., 145 Guidi Guido Novello conte di Battifolle, 304

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Indice dei nomi Guittone d’Arezzo, 299, 306, 307 Guyard M.-F., 201n.

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Happel C., 256n. Heintze H., 173n. Hillebrand K., 244 Hölderlin F., 28 Hortis A., 255, 256n., 276, 314 Hume D., 178 Ilicino B., 312 Imbriani V., 217 e n., 223 Innamorati G., 190n. Isella D., 32n., 39n., 189n., 215, 221n. Izzi G., 170n. Jacobson B., 314 Jaufré Rudel, 279 Juan de Mena, vedi Mena J. de Kardos T., 173n. Klopstock F. G., 179 Körting G., 260n., 264n. La Fontaine J. de, 51 Lamartine A. de, 201 e n., 222 Lamberti L. 175n. Lammasch H., 296 Lampertico F., 166 Lampredi G. M., 88 Lamy B., 22 e n. Landi P., 138n., 183n. Landucci S., 217n. Lanza M. T., 252n. Lapini B., 281, 312 Lapo da Castiglionchio, 293 Lapo Gianni, 283 Lavagetto M., 235n. Lazzarini D, 39, 50 Leers F., 56n. Lemene Francesco de, 25, 36, 38, 44, 56 Leonardo di Capua, 10, 59 Leoni B., 319

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Leoni C., 216n., 302 Leonio V., 54 Leopardi C., 145n., 164n. Leopardi G., 16 e n., 123n., 127, 129 e n., 137-67, 174 e n., 178, 183n., 182, 184 e n., 185 e n., 188n., 190n., 191, 194, 197n., 202 e n., 204, 205, 206, 207 e n., 208, 211, 226 e n., 232n., 240, 271, 274, 275, 281, 314, 315, 319 Leopardi P., 145n. Leuker T., 23n. Levi O., 277 Liberale da Verona, 284 Lidia, vedi Cristofori Piva C. Livio Tito, 224 Locatelli L., 33 Lombardi M. M., 137n., 138n Lonardi G., 157n., 162n., 187n., 188-189 e n., 197n., 194 e n., 208n. Londonio C. G., 181 Longino (pseudo), 21n. Lorenzini N., 309n., 311n., 320 Lubrano G., 59, 62n. Lucano Anneo Marco, 322 Lucchini G., 254n. Luciani P., 92n. Lucrezio Caro Tito, 11, 241 Lumbroso A., 94n. Luzio A., 260 Luzzaschi L., 299 Maccari Giambattista, 206, 207 Maccari Giuseppe, 206-207 Machiavelli N., 76, 77, 234n., 261 275 Maffei A., 200-201 e n. Maffei G., 320 Maffei S., 32n., 34, 39-41 e n. Magalotti L., 47 Maggi C. M., 14, 22n. 31-34, 35, 36, 38, 40 e n. Maggi G. A., 183 Maggini F., 88n., 108 e n., 112, 113 Magnani Campanacci I., 36n. Maier B., 39n., 44n., 54n., 56n.

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Indice dei nomi Maioli d’Avitabile B., 64 Malaspina F., 288 Malato E., 68n., 116n., 119n., 125n., 130n., 144n. Mallarmé S., 28, 208 Mamiani T., 245n. Mancini G., 299, 307 Mancini L. conte, 307 Manetti D., 210n., 239n. Manfredi E., 15, 21n., 34, 35n., 36, 38, 4247, 145 Manfredi F., 65 Manni P., 125n., 119n. Mannucci F. L., 32n. Manotta M., 158n. Mansel W. L. lord, 175n. Manuzio A., 278 Manuzzi G., 136 Manzoni A., 115, 166n., 169, 170n., 185, 186, 187 e n., 188 e n., 190, 232n., 249, 253, 274 Marandino M., 233n. Maratti F., 52, 58 Marcazzan M., 90n. Marcello M. C., 291 Marchetti A., 48 Marchetti G., 183n. Marchi A., 83n. Mari M., 51n., 56 e n. Mariani G., 203 e n. Marinari A., 233n. Marini A., 157n. Marino G., 9, 44, 249 Marsand A., 162n., 169, 170n., 183, 255 e n., 263 Marsili L., 263, 264 Marsilio da Carrara, 304 Marso A., 122n. Marta O., 11 e n. Martelli M., 211n., 228n. Martello G., 38 Martello P. J., 19n., 33, 36-39, 45 Martin H., 52n.

Martinelli D., 309n., 315, 319 Martini S., 291 Martinoni R., 216n., 217n. Marvasi D., 216 Mascetta L., 238 Massano R., 171n. Massei R. M., 39n. Massimiliano Emanuele di Baviera, 27 Mathias T. J., 175 e n. Mauro G., 128n. Mazzali E., 171n. Mazzatinti G., 94n. Mazzini G., 188n. Mazzocca F., 84n., 200n. Mazzocchi Alemanni M., 216n. Mazzoni F., 254n. Mazzoni G., 248 Mazzoni I., 262 Medici Lorenzo de’, 181, 280, 283, 307, 317, 318 Melan S., 192 Mena J. de, 180n. Mendès C., 319 Meneghelli A., 170n. Mengaldo P. V., 167n. Meninni F., 19n. Menzini B., 41, 48-50, 246 Merola N., 53n. Merolla R., 52n. Mestica G., 239, 257 Metastasio P., 56, 62n., 70 e n., 179, 204 Metternich-Winneburg K. W. L. principe di, 261 Mézières A., 219 e n., 220, 222, 225, 253 e n., 255 Michelet J., 232 Michelstaedter C., 207-208 e n. Migliorini B., 124n. Milan G., 52n. Milton J., 179 Misserini G. M., 286 Mitescu A., 157n. Modigliani E., 239 e n., 256 e n., 281, 314

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Indice dei nomi Molinari C., 87n. Molinari D., 45n. Momigliano A., 89 e n. Monsignani F., 34 Montaigne M. E. de, 219n., 297 Montale E., 234 Montani G., 181-182 e n., 190n. Monti V., 121, 122n., 124n., 128 e n., 131, 151, 171, 173 e n., 175, 180, 181, 182n., 183, 184, 186, 188n., 190n., 241 Mordenti R., 231n., 233n. Morei M. G., 56n. Morelli Timpanaro M. A., 52n. Morgana S., 83n., 84n. Moschetti A., 238 Muratori L. A., 9 e n., 10, 11, 14-15, 17n., 20-26, 27, 32 e n., 35 e n., 36, 37 e n., 46, 62n., 69, 71, 79, 96-97, 99, 138, 177, 313 Muresu G., 62n. Muscetta C., 39n., 179n., 216n., 218n., 223n., 227n., 233n. Mussafia A., 256n., 258n. Mussolini B., 278, 297 Mustoxidi A., 124n. Mutterle A. M., 142n., 171n. Muzio G., 22n., 313 Nannini R., 282, 312, 313 Nannucci V., 178 Nardi P., 204 Naselli C., 117n., 128, 130n., 132n., 170n., 184n., 188n., 251n. Negri F., 41n. Nelli F., 292 Nencioni E., 209-210 e n., 212, 294 Nencioni G., 157n., 158 e n., 167n., 178n. Neppi Modona L., 93n. Niccolini G. B., 190n. Nicoletti G., 48n., 89n. Nicolini G., 180 Nigro S. S., 60n. Noce H. S., 36n., 37n.

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Noferi A., 157n., 158n., 317 Nolhac P. de, 256 e n., 257 e n., 258n., 262, 268 e n. Notaro della Regola, vedi Cola di Rienzo Novati F. 257n., 260 e n., 268n. Oliva G., 275n., 277n. Omero, 13, 26, 27, 28, 29 e n., 69, 80, 147, 150, 151, 170, 180, 191, 202n., 259, 307, 315 Orazio Flacco Quinto, 79, 144, 315 Orfeo, 259, 324 Orsi G. G., 20, 21n., 34-35 e n., 36, 72 Orsini F., 130 Orvieto P., 116n., 144n., 216n., 221n. Osimo V., 122n. Ossola C., 187n., 271n. Ovidio Nasone Publio, 321 Pacca V., 175n. Pacella G., 16n., 138n., 140n., 141n., 155 e n. Pacello P., 64 Pagello S., 164 e n. Pagliai F., 17n. Pagliai M., 108n. Paleotti C., 31n. Palladio A., 286 Pallavicino P. Sforza, 16, 23 Palma Giovambattista di, 64 Palmerio B., 273n. Palmieri E., 309n., 318, 319, 320 Palmieri N., 235n. Palumbo M., 233n. Panetta M., 233n. Paolini Massimi P., 52, 53, 58-59 Paolino L., 175n. Paolucci G., 56n. Parenti G., 44n. Parini G., 69, 70, 83-84 e n., 85, 107n., 157, 176, 181, 186, 194, 249 Parmy E. de, 174 Pascoli G., 211, 274, 275, 276n., 297, 301, 309, 319, 320, 323, 324

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Indice dei nomi Pasquini E., 137n., 138n., 157n., 158n., 159n., 164n. Passerini G. L., 51n. Passerini Gaetana, 56n. Pastore Stocchi M., 40n., 87n. Pastorini G. B., 36 Patota G., 130n. Payne Rainsford J. G., 175n. Pecoraro M., 192n. Pedullà W., 12n. Pelaez M., 256n. Pellegrini F., 281, 314 Pellico S., 177, 179 e n., 180 e n., 186 Pensa M. G., 121n. Pepe G., 170n., 176n. Pepoli F., 34 Peregrini M., 23 Perticari G., 121n., 130 e n., 131, 132, 133n., 151 Pertile M., 288n. Petracci P., 286 Petrignani O., 34 Petrocchi G., 191n. Piazza P., 242 Piccioli B., 34 Piccioni L., 77n., 128n. Piccitto G., 39n. Piero della Francesca, 305 Pietropoli G. P., 117 e n., 120 e n., 127, 132 e n., 170n. Pillinini S., 130n. Pindaro, 63n., 300, 301 Pio VI papa, 101n. Pio XI papa, 277 Piva A., 115n. Placella A., 14n., 15n. Platone, 11, 23, 80, 155n. Pletone G. G., 174 Plutarco, 232n. Poerio A., 173, 204-206 e n., 207 Poliziano (A. Ambrogini), 143, 146, 181, 241, 303, 315, 317 Ponchiroli D., 98n.

Pope A., 51 Porta C., 173, 189n. Pozzi M., 172n. Pozzoli G., 178 Praga E., 203-204 e n. Prandolini G., 311n. Prati G. 193n., 196-200 e n., 201, 203 Prault M., 96, 309n. Properzio Sesto, 15 Prunas P., 191n. Puccianti G., 247 Puoti B., 124, 125 e n., 127-128 e n., 130n., 133, 134, 136 Puppo M., 116n., 125n., 191n. Quattromani S., 11n., 61 Quinet E., 223n. Quondam A., 13n., 18n., 27n., 43n., 55n., 56n., 59-60 e n., 61n., 62n., 63 e n., 64n., 65, 117n., 130n., 135n., 137n., 159n., 170n., 233n., 235n. Rabboni R., 52n. Rabitti G., 136n., 183n. Raicich M., 238 Raimondi E., 89 e n., 90n., 95, 96-97 e n., 99n., 189n., 202n., 203 e n. Rajna P., 254 e n., 268n. Rak M., 62n., 66n. Ramat R., 89 e n. Ranieri C., 42n. Re Z., 288 Rebora C., 190 Redaelli D., 287 Redi F., 16, 33, 47 Remigio Fiorentino, vedi Nannini R. Renzi L., 256n. Resta A., 197n. Revere G., 196 Ricci L., 124n. Richards I. A., 25n. Ricuperati G., 74n., 78n. Rigutini G., 238

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Indice dei nomi Rilke, R. M., 28 Rizzieri M., 312 Roberto d’Angiò, 289 Robertson F. G., 24n. Roche-Lacarelle S. de la, 280 Romagnoli S., 82n., 131n., 218n., 233n. Romani G., 134 Romani W., 29n. Romanò A., 256n. Romano Cervone A. T., 59n. Romolo, 291 Roncoroni F., 179n., 309n., 323 Ronsard P. de, 296, 306 Rosa S., 241 Roscetti F., 149n. Rosini G., 130, 133, 170n., 181 Rosmini A., 182-183 Rossetti D., 170n., 255, 276 Rossetti G., 193 e n., 241 Rossi C., 65 Rossi Pellegrino, 174 Rossi P., 41n. Rossi S., 81n., 128n. Rossi V., 228n., 268n. Rousseau J. J., 251 Ruffino A., 54n. Ruggeri R. M., 157 n. Ruschioni A., 9n., 24n., 32n. Russo L., 225n., 252n. Saba U., 274 e n. Sabbadini R., 268n. Sabbatucci N., 190n. Saccenti M., 31n., 240n. Sade J.-F.-P.-A. de, 72, 73, 74, 76, 79, 229, 251, 258 Sade Laura de, 232 Saffo, 149, 294 Sainte-Beuve C. A. de, 244 e n. Sala Di Felice E., 31n., 33n Salfi F., 176 e n. Salimbeni B., 304, 319 Sallustio Crispo Gaio, 92n.

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Salutati C., 313 Salvadori G., 211n., 212 Salvarani L., 54n. Salviati L., 122 Salvini A. M., 35n., 50-51 e n. Salvo Cozzo G., 281, 257 Sannazaro I., 56, 158 Sannia Nowé L., 31n. Sanseverino A., 56n. Sansone M., 170n. Santagata M., 119n., 137n., 139n., 160n., 175n., 177n., 227 e n., 263 e n. Santato G., 87n., 93 e n., 96n. Santini E., 172n. Santoli V., 137n., 192n. Santoro M., 171n. Santucci S., 211n. Sapegno N., 49n., 187n., 218n., 221n. Sartorio G. A., 211, 278, 279 Savarese G., 134n., 226n., 233 e n., 234 e n. Saviozzo, vedi Serdini S. Savoca G., 39n., 157n. Savoia Maria José di, 278 Savoia Umberto di, 278 Scalvini G., 173, 186, 189-190 e n. Scarano N., 262n. Scavuzzo L., 64 Schettini P., 60-61 e n. Schiavo B., 40, 77 Schiera P., 223n. Schiller F., 175, 202n. Schlegel F. von, 173 Schoenburg Ermanno di, 278 Scipione Africano Publio Cornelio, 289 Scopenhauer A., 319 Scotti M., 171n. Segneri P., 33 Segre C., 187n., 254n., 271n. Seguso D., 288 Sennuccio del Bene, 304 Serdini S., 304 Serianni L., 119n., 130n., 133n., 135n., 136n. Serra R., 210 e n.

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Indice dei nomi Sestini B., 193 e n. Settembrini L., 176 Severino M. A., 61, 64 Sgavicchia S., 229n. Shakespeare W., 77, 170, 175, 177, 180, 191 Sharp S., 178 Shelley P. B., 183, 324 Sinopoli F., 78n. Sismondi J.-C.-L. S. de, 155 e n., 166n., 167n., 223n. Soave F., 74, 131 e n., 169, 170n. Solerti A., 282, 298n., 314 Soliani B., 96 Solmi R., 39n. Somai A. A., 56n. Sorbelli T., 21n. Sorio B., 170n. Sormani E., 212n. Sozzi B. T., 69n., 170n. Spadi L. D., 170n. Spagnoletti G., 38n. Spinazzola V., 187n. Spinelli F. M., 12-13 e n. Spinola A., 42 Spinola G. A., 35-36 e n. Squarciafico G., 281, 312 Squarciafico S., 42 Staël Mme de, 141, 142n., 171, 172-173 e n., 175 e n. Stampa G., 287, 310n. Stampiglia S., 56n. Stara A., 235n. Stella A. F., 154, 155n., 156n., 158, 159, 182n., 184n. Stolberg L. contessa d’Albany, 92, 94n., 101 e n., 102n., 103 e n., 105, 107, 108 e n., 109, 111 Stolfi D. C., 264, 313 Stoppa frate, vedi Bostichi Stoppelli P., 221n. Stuart C. E., 101 Stuart P. D., 11 n.

Svetonio Tranquillo Caio, 296 Svevo I., 233, 234-235 e n. Swinburne A. C., 317 Syska-Lamparska R. A., 11n., 13n. Talia abate, 133n. Tansillo L., 65 Targioni Tozzetti F., 160 Targioni Tozzetti O., 240 Tartaro A., 140n. Tasso T., 19 e n., 24, 28, 46, 48, 49n., 56, 64, 84, 86, 91, 95n., 123 e n., 124, 146n, 148n., 157, 158, 171n., 173, 174, 180, 181, 182, 183, 191, 196n., 202n., 274, 299, 300, 317 Tassoni A., 19n., 22n., 26, 177, 313 Tassoni L., 216n. Tateo F., 19n., 33n., 37n. Tellini G., 89n., 99n., 162n. Telve S., 126n. Tenca C., 179 e n. Tenneroni A., 293 Teocrito, 56 Teotochi Albrizzi I., 17 Tesauro E., 23, 24 Testi F., 145 Thode H., 281 Thomas A., 279 Thouar T., 240 Thovez E., 207 Tibullo Albio, 15, 176 Timpanaro S., 132n., 172n. Tiraboschi G., 71, 72, 73-74 e n., 75, 77, 78, 79, 138 Tirteo, 174 Tissoni R., 37n., 68 e n., 80 e n.118n., 120n., 121n., 127n., 131n., 133n., 157n., 158n., 164n., 169n., 170n., 178n., 183n., 216n., 240 e n. Tommaseo N., 167, 184 e n., 190-193 e n., 205 e n., 231-232 e n., 244, 302, 321 Tommasi A., 15n., 41, 42

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Tongiorgi D., 173n. Torraca F., 266n. Torti F., 116, 132 e n., 135n., 188n. Torti G., 176, 182, 186, 196 Tosi G., 307n. Trabalza C., 132n, 134n. Trenti L., 149n., 226n. Treverret M. de, 314 Treves E., 277 Trifone P., 116n., 130n. Trissino G. G., 174 Tropea M., 162n. Tura C., 284 Turchi R., 89n., 92n., 182n. Ugoni C., 184n. Uguccione della Faggiuola, 305 Ungaretti G., 208 Valeriani D., 182n. Vallone A., 56n. Valperga di Caluso T., 172 e n. Van Neck W. J., 95n. Vandi G. C., 45 Vannetti C., 128, 133n. Vattasso M., 239 e n., 256 e n. Velli G. 87n. Vellutello A., 281, 313 Verlaine P., 276n., 309 Verri A., 68, 69, 82, 83 e n., 131, 132, 135n. Verri P., 69 Vico G., 10, 11 e n., 15 e n., 26-30, 62 e n., 64 Vigiani A., 91n. Vigo F., 241, 242n., 246 e n., 247, 248 Villani G., 288 Villani M., 288 Villari P., 225n. Viola C., 35n.

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Virgilio Marone Publio, 29 e n., 67, 82, 118n., 148n., 158, 191, 202n., 295, 301, 307, 319, 320, 322, 323 Vischer F. T., 218, 225n. Visconti B., 260 Visconti Giovanni, 288 Visconti Galeazzo II, 260, 288 Visconti H., 179 e n., 182, 189 e n. Vitale Matteo, 65 Vitale Maurizio, 115n., 119n., 122 e n., 123n., 124n., 126n., 132n., 134n. Vittorio Emanuele III, 278 Vivaldi V., 116n. Vogüé M. de, 308 e n. Volta A., 173 Voltaire, 27 e n., 73, 120, 209n., 251, 260 e n. Vossler K., 281, 314 Wagner R., 286 Weiss C., 281, 315 Zaccaria A. F., 41n. Zaccaria V., 137n., 158n. Zajotti P., 175, 182 e n. Zamorrini G. F., 273n. Zane I., 288 Zanella G., 203 Zanetti G., 275n. Zani T., 31n. Zanotti G., 34, 45n., 56 Zappi G. B. F., 33, 52, 53, 56-57 e n., 145 Zatta A., 71, 80 Zeno A., 34, 35n., 40, 41 e n. Zolli P., 129n. Zoppi S., 93n. Zotti R., 169, 170n. Zuccala G., 177 Zumbini B., 264-266 e n.

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2006 dalle GRAFICHE TEVERE Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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