Presenze femminili fra teatro e salotto. Drammi e melodrammi nel Settecento Lombardo-Veneto 9788862273152, 9788862273169

Lo studio s'inserisce nel contesto più ampio di un settore di ricerca dedicato alla cultura della rappresentazione

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Table of contents :
SOMMARIO
DONNE IN TEATRO DONNE PER IL TEATRO
Capitolo I LA CIVILTÀ DEL SALOTTO
Capitolo II PRESENZE FEMMINILI FRA MILANO E VENEZIA
Capitolo III SCENE PRIVATE E FIGURE DI DONNA : LA TRAGEDIA
Capitolo IV SCENE PUBBLICHE E DRAMMATURGIA FEMMINILE : IL MELODRAMMA
DUE LUOGHI FEMMINILI PER ECCELLENZA : IL SALOTTO E IL TEATRO
appendice iconografica
FONTI E BIBLIOGRAFIA
INDICE DEI NOMI
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Presenze femminili fra teatro e salotto. Drammi e melodrammi nel Settecento Lombardo-Veneto
 9788862273152, 9788862273169

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PR ES ENZE FE M M IN ILI FR A t eatro e salotto Drammi e melodrammi nel Settecento lombardo-veneto AR IANNA FRAT T ALI

b i bli ot ec a d i d r a m m at urg ia · 4. · st ud i

PIS A · R OMA FABRIZ IO SERRA E DIT O RE MMX

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BI B LI O T E CA D I D RAM M AT URG IA col la na diretta da a n namaria c asc etta

st u di · 4.

PR ES ENZE FE M M IN ILI FR A T EATRO e salotto Drammi e melodrammi nel Settecento lombardo-veneto AR IANNA FRAT T ALI

PIS A · R OMA FABRIZ IO SERRA E DIT O RE MMX

Pubblicazione edita con il contributo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (linea D3.2 2008). * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma, Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy i s s n 1 828 - 8 723 i s b n 978 - 8 8 - 6227 - 3 1 5- 2 i s b n e l ettron i co 9 78 - 8 8 - 62 2 7 - 3 1 6 - 9

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SOMMARIO 9

Donne in teatro donne per il teatro capitolo i · la civiltà del salotto i. 1. Un petit nombre choisi d’amis i. 2. Le figlie di Eva : tra storia delle donne e storia di gender i. 3. L’educazione femminile nel Settecento i. 4. I salons del lombardo-veneto : fra teatro e conversazione

13 21 26 34





capitolo ii · presenze femminili fra milano e venezia ii. 1. Francesca Manzoni “poetessa dell’Imperatrice” ii. 2. Luisa Bergalli drammaturga per i teatri veneziani ii. 3. Maria Teresa Agnesi : dal salotto ai teatri milanesi ii. 4. Minerva et Venus in una : Paolina Secco Suardo

47 52 57 62





capitolo iii · scene private e figure di donna : la tragedia  

iii. 1. Il dibattito sulla tragedia : da genere letterario a processo ermeneutico iii. 2. La scrittura tragica femminile : L’Ester di Francesca Manzoni iii. 3. Le goût de donner des tragédies : il salotto di Lesbia Cidonia iii. 4. Je parle des farces, où il n’y entre qu’une seule femme : eroine in scena  







69 73 96 109

capitolo iv · scene pubbliche e drammaturgia femminile : il melodramma  

iv. 1. La tragedia cantata iv. 2. L’Agide e l’Elenia di Luisa Bergalli : passioni femminili e conflitti maschili iv. 3. Ciro in Armenia di Maria Teresa Agnesi : verso la riforma viennese iv. 4. L’Insubria consolata : tracce di performatività in una festa teatrale

121 129 141 153

Due luoghi femminili per eccellenza : il salotto e il teatro

161

Appendice iconografica

167

Fonti e bibliografia

173

Indice dei nomi

181









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DONNE IN TEATRO DONNE PER IL TEATRO

Q

 esto studio s’inserisce nel contesto più ampio di un settore di ricerca dedicato alla u cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento, teso, nel suo complesso, a mettere in rilievo le discontinuità e le permanenze del fenomeno rispetto al xvii secolo. Da tale campo d’indagine emerge sempre di più il quadro di una Milano sfaccettata e poliedrica, in fecondo dialogo con il passato, ma già proiettata verso i fermenti del Secolo dei Lumi, all’interno di un costante intreccio fra l’influenza del dominio asburgico e l’indiscusso rapporto di fascino-repulsione per la cultura francese. La maggiore circolazione del libro a stampa, la nascita dei teatri pubblici a pagamento, la politica scolastica del governo di Maria Teresa, l’influenza del salon francese favoriscono la crescita culturale ed intellettuale di alcune figure femminili che animano i salotti di conversazione ; alcune di loro si confrontano in prima persona con la scrittura drammaturgica, specialmente per musica. Si sono individuate così una ventina di femmes savantes in area lombardo-veneta, che rappresentano un fenomeno rilevante di mediazione culturale fra le sale dei teatri e la cultura accademica, ospitando nei loro salons intellettuali, artisti e drammaturghi e (in taluni casi) vere e proprie rappresentazioni per un pubblico in miniatura. Alcune di queste donne erudite si cimentano infatti sul fronte della recitazione, mentre altre si dedicano alla scrittura per il teatro. Attraverso la ricostruzione delle loro biografie e l’analisi delle loro opere, si è cercato di stabilire una relazione fra la conversazione dei salotti letterari e la scrittura per la scena, seguendo il fil rouge della dialettica pubblico-privato.  

Il percorso d’indagine si divide in tre sezioni : la ricognizione del quadro storico filosofico in cui opera la donna erudita nel secolo e nell’area geografica di riferimento, con particolare attenzione alla storia delle forme teatrali e dei loro contesti ; la ricostruzione della biografia e della genesi dei testi composti in particolare da quattro figure femminili, tenendo presente il più ampio quadro della condizione della femme savante nel periodo esaminato ; l’analisi dei testi da loro scritti o rappresentati, con occhio particolarmente attento agli elementi di performatività presenti negli stessi testi. Concentrandosi sulle protagoniste femminili del salon, l’orizzonte della ricerca si colloca dunque fra la storia delle donne e la storia di gender : s’indaga infatti lo status dell’educazione femminile europea nel corso del secolo dei Lumi, per circoscrivere, in un momento successivo, il fenomeno all’area lombarda e a quella veneta. Si delinea quindi il quadro generale dei principali salons nelle due aree indicate e delle figure femminili che li animano, individuando, come detto, almeno una ventina di donne erudite nel contesto analizzato, alcune delle quali vere e proprie promotrici di compagnie filodrammatiche di dilettanti indirizzate principalmente verso la rappresentazione di tragedie francesi. Il focus dello studio converge poi Francesca Manzoni, Luisa Bergalli, Maria Teresa Agnesi e Paolina Secco Suardo, mettendone a confronto le biografie ; limitando infatti l’area di studio ad alcune personalità esemplari, si possono verificare nel dettaglio, attraverso esempi concreti, le tendenze e le considerazioni avanzate durante l’inquadramento del salotto letterario come elemento propulsore (sotto l’influenza francese) dell’estetica teatrale settecentesca in Italia. L’ordine in cui vengono presentate le quattro figure di riferimento segue un criterio esclusivamente cronologico, considerando il fenomeno della drammaturgia femminile lungo l’intero Settecento, dai fermenti letterari sollevati grazie ai philosophes ai primi venti preromantici che soffiano sul declinare del secolo.  









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donne in teatro donne per il teatro

L’ultima sezione del lavoro è quella strettamente dedicata alla drammaturgia femminile e all’analisi dei testi. Questa macro-sezione è a sua volta bipartita, occupandosi, in prima battuta, del rapporto fra donna erudita e scena privata, seguendo le declinazioni del genere tragico. Sono oggetto di analisi particolare, dunque, la scrittura di Francesca Manzoni con la sua Ester e l’attività teatrale del salotto di Paolina Secco Suardo. La Manzoni si cimenta infatti col genere perfettissimo della tragedia biblica nel 1733, dandola alle stampe presso il veronese Tumermani, lo stesso stampatore dell’acclamata Merope di Scipione Maffei. Aspirante attrice, ma consolidata poetessa, Paolina matura invece l’idea di recitare in un contesto privato più tardi, negli anni Settanta del secolo, mettendo probabilmente a frutto la pratica d’improvvisazione d’ascendenza arcadica, ma avvertendo anche l’esigenza forte di penetrare nel dibattito sulla tragedia francese classica e contemporanea. Si passa quindi ad esaminare la drammaturgia femminile per la scena pubblica del melodramma, attraverso i casi esemplari di Luisa Bergalli, nella prima metà del secolo, e di Maria Teresa Agnesi (compositrice anche delle musiche dei suoi drammi), nella seconda metà. Si analizzano dunque quattro libretti, rispettivamente due per autrice, alla luce delle riforme, dei dibattiti accademici, dei mutamenti di stile, del nuovo gusto del secolo. Com’è noto, il Settecento è anche e soprattutto il secolo del melodramma e le donne erudite, dal punto di vista letterario e musicale, si confrontano con il genere principe delle scene italiane, tenendo ben presenti le innovazioni apportate da Metastasio e Calzabigi alla librettistica contemporanea. S’intende usare dunque la parola genere nella duplice accezione che la lingua italiana consente : genere sessuale e genere letterario e teatrale. Altro filone d’indagine riguarda infatti il dialogo costante fra due generi per il teatro spesso (e non sempre a ragione) contrapposti nei dibattiti accademici settecenteschi : la tragedia e il melodramma. Le scene italiane del Settecento vedono infatti il trionfo dell’Opera, ma denunciano la mancanza del genere tragico, che trova invece fortuna nei teatri francesi. Così l’Italia, erede ideale della cultura classica (secondo un’ottica che discende dall’Umanesimo cinquecentesco), cede alla Francia la palma del tragico, non rassegnandosi però a questo passaggio di consegne. Numerosi dunque gli attacchi al dramma in musica e alle sue degenerazioni tardo-seicentesche sulla scena mossi da alcuni nostri intellettuali, mentre i riformatori dell’Opera seria rispondono a queste accuse assumendo la tragedia stessa come modello di riferimento. A partire dal secondo ventennio del Settecento, si teorizzano e si scrivono infatti “tragedie cantate”, che divengono espressione artistica di un’età moderna che guarda ancora alla classicità greca, ma conferisce un nuovo ruolo espressivo anche alla musica nell’economia del dramma. Abbiamo dunque privilegiato tragedia e melodramma nella scelta dei testi teatrali scritti (o interpretati) da donne, mantenendo costante la dialettica tra i due generi accanto a quella esistente fra scene private e pubbliche. D’altro canto, abbiamo lasciato da parte la commedia, come pure l’Opera buffa, per le quali occorrerebbe un’ulteriore trattazione specifica relativa alla loro diffusione nella pratica femminile, sia nelle sale a pagamento che nel contesto del salotto. L’osmosi fra teatro e salon si conferma comunque leit motiv dell’intera ricerca, mostrando come nel corso del secolo si emancipi la circolazione delle idee dalla chiusura dei consessi accademici. Prendono forma nuovi ambienti di discussione non necessariamente legati al rigido codice comportamentale d’Accademia o ai privilegi di classe. Il salotto, come il teatro, accoglie un’umanità più eterogenea che in passato e la donna erudita sembra essere protagonista di questo nuovo ordine sociale. All’interno del salon riunisce infatti artisti, intellettuali, funzionari politici, viaggiatori stranieri, animando una conversazione che va ben oltre la coquetterie e i pettegolezzi. In questo modo, le correnti di pensiero escono dai circuiti accademici tradizionali ed il teatro diviene luogo d’incontro e oggetto di discussione, evento mondano e momento di  



donne in teatro donne per il teatro

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aggregazione sociale e culturale. Nel salon si parla di politica, di scienza, di economia, ma si commentano anche gli spettacoli, talvolta si leggono e si rappresentano in anteprima testi che conosceranno di lì a poco gli onori delle scene. E il teatro all’italiana (come il salotto) si avvia a diventare, così, prima di tutto, secondo la definizione di Georges Banu, « teatro di donne », uno « spazio prioritariamente femminile », spazio chiuso, ma anche « astratto e intellettuale »1 in cui si riflette sempre più l’ordine di una comunità urbana : un ordine in via di grande rinnovamento, come testimoniano le rivoluzioni di fine secolo.  













1

  g. banu, Il rosso e oro : poetica della sala all’italiana, Milano, Rizzoli, 1990, p. 14.  

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Capitolo I LA CIVILTÀ DEL SALOTTO i. 1. Un petit nombre choisi d’amis

I

l salotto, come spazio fisico e come spazio ideale, assunse nel corso del xviii secolo sempre maggiore importanza all’interno delle residenze nobiliari, diventando fenomeno di grande rilievo dal punto di vista del costume e della cultura. Si configurò dunque come spazio sempre più istituzionale, passando da luogo della socialità e della conversazione a luogo di « scambio di idee e valori, in un intreccio dei piani della storia politica, letteraria, culturale e di genere ». 1 Aggiungendo a questo la crescente pratica teatrale in ambienti privati ed il fiorire di riunioni accademiche nelle sale patrizie, il salon si inserì a pieno titolo nel complesso e sfaccettato panorama della cultura settecentesca, preludendo alla sua grande fortuna nel corso dell’Ottocento. Al centro la figura femminile, che fece di tale spazio domestico il suo regno, accogliendovi letterati, artisti, accademici, scienziati, e coltivando una rete di relazioni attraverso forme comunicative private – lettere e memorie in primis – relazioni espresse attraverso questa nuova modalità sociale. Circoli d’intellettuali di impronta aristocratica, dunque, che favorirono il diffondersi di correnti d’opinione in campo filosofico e letterario, scientifico e artistico, ma anche, più tardi, salotti borghesi che si aprirono al dibattito politico ed al confronto culturale. Tale « civiltà della conversazione » 2 affondava le sue radici nell’Antico Regime francese, rappresentando lo specchio della società nobiliare ed obbedendo a « leggi severe che ne garantivano l’armonia su un piano di perfetta uguaglianza ». 3 Divenuta presto rito centrale della socievolezza mondana, poi nutrita di letteratura, la conversazione si era aperta alla riflessione filosofica, politica e allo scambio di idee in genere. Come osserva Benedetta Craveri, che ha ampiamente studiato la storia del fenomeno a partire dal xvii secolo, « la Francia non era dotata né di un sistema rappresentativo né di una sede istituzionale dove la società civile potesse esprimere le sue opinioni », 4 pertanto, la conversazione diventava « la sola agorà di cui la società civile potesse disporre ». 5 Situazione analoga possiamo riscontrare nella lombardia austriaca di un secolo più tardi, in cui il centralismo monarchico tendeva, a limitare il campo d’azione del ceto nobiliare, tenendolo legato all’amministrazione attraverso cariche che erano vagliate e “dispensate” di volta in volta dai Segretari plenipotenziari e Governatori regionali. Lo spazio di espressione del ceto dirigente rimaneva dunque confinato a luoghi circoscritti, anche se la moda del salon di conversazione si diffuse solo a partire dal xviii secolo, a causa della linea politico-culturale profondamente anti-francese perseguita, nel secolo precedente, dal governo spagnolo. Se Carlo Antonio Vianello osserva che l’avversione per il dilagare delle mode francesi in area lombarda aveva la sua radice nelle maniere libere dei cugini d’oltralpe, lo stesso deve però ammettere che, nel corso del Settecento milanese, « la poesia era divenuta un dovere mondano come le belle maniere » e se « imperando la moda tutti facevan versi e in tutte le  

























1   M. L. Betri, E. Brambilla, Premessa, in Salotti e ruolo femminile in Italia tra fine Seicento e primo Novecento, a cura di M. L. Betri ed E. Brambilla, Venezia, Marsilio, 2004, p. ix. 2 3   B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.   Ivi, p. 16. 4 5   Ivi, p. 17.   Ibidem.

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capitolo i

occasioni senza esser poeti […] per naturale reazione la generazione susseguente in attesa del Parini schierava già dei poeti, il Balestrieri, il Passeroni, il Tanzi, il Larghi, il Simonetta, il Soresi ». 1 Ecco dunque che la Milano mondana si divertiva nei salotti e nei teatri, « ma la mondanità non era tutta frivola », poiché le case e le ville del ceto patrizio « erano aperte a concittadini, a italiani d’altre regioni, a stranieri ; e quanto sontuosi erano i ricevimenti, altrettanto vivace era la conversazione ». 2 Al contesto storico-politico venutosi a delineare nel passaggio fra Sei-Settecento si aggiungano alcuni nuovi indirizzi che si manifestarono nell’edilizia abitativa milanese dell’età illuministica. I modelli di vita, come visto, si allontanavano da quelli tradizionali, almeno nelle coscienze più ricettive, e così accadeva per quelli dell’architettura. Punto di partenza, ancora una volta, Parigi, dove « l’architettura della magnificenza, promossa da Luigi xiv come esaltazione dello Stato, aveva interessato anche i privati negli ultimi decenni del secolo ». 3 Ma nei primi del successivo il diffondersi « della concezione dell’art de vivre volta al bonheur, a raggiungere cioè la felicità e il benessere nella società presente, aveva orientato a cercare nell’edilizia abitativa soprattutto la comodità e il lusso in luogo del fasto ». 4 Tale orientamento era stato recepito nei grandi centri europei, ma l’inizio del xviii secolo portò a Milano non tanto modificazioni macroscopiche del quadro urbano, quanto interventi sull’aspetto e sull’ordinamento interno delle abitazioni. In un manuale d’architettura civile stampato per la prima volta nel 1726 già si leggeva :  





















Dalle loggie si passa alla sala, questa ne’ palazzi antichi de’ Principi, o Ministri di Giustizia usavasi ben ampia, perché in essa da tali soggetti si dava l’udienza a chi ricorreva : adesso siccome l’uso è, che le sale servono per trattenervi la bassa servitù, si fanno perciò di mezzana grandezza, sempre però più grande dell’anticamere, che sieguono. Con tutto ciò, se il sito il permettesse, non ha dubbio, che molto conferirebbe alla magnificienza del palazzo una sala ben grande. 5  

Si intravedeva dunque la recuperata importanza del salone nell’architettura domestica, luogo di ricevimento e manifestazione di grandezza per gli ospiti che accedevano al palazzo o alla villa. Pertanto, con la mediazione austriaca, si introducevano nel capoluogo lombardo gli orientamenti francesi, più nella nobiltà che nella borghesia, « investendo la cultura, la moda, l’arredamento, i giardini, le carrozze, la tavola, fino a prevalere in anni neoclassici, cioè dopo il 1770 ». 6 A Milano alcuni palazzi vennero ristrutturati, e non mancarono indizi di una crescente attenzione ad una confortevole distribuzione dei locali, sulla linea dei maggiori architetti parigini. Alcune sale vennero destinate ad un uso specializzato : « la sala da pranzo è presente forse nel palazzo Cusani e certamente nel palazzo Sormani, dove è collocata tra il salone e la cucina, mentre una biblioteca affianca le camere da letto ». 7 Fu tuttavia nelle ville suburbane e nelle “ville di delizia” che si rintracciarono con maggiore evidenza « i sintomi di una civiltà più libera » ; 8 in pochi anni furono decine, infatti, gli edifici del genere sorti nella periferia urbana. Essi erano composti secondo uno schema che vedeva il palazzo, il giardino ed il cortile d’onore allineati lungo lo stesso asse, lasciando spazio laterale ai cortili dei rustici e delle scuderie. L’origine di questo schema stava « nella disposizione che, ormai diffusa in Europa,  

















1

  C. A. Vianello, Il Settecento milanese, Milano, Baldini e Castoldi, 1934, p. 197.   G. Seregni, La cultura milanese nel Settecento, Milano, Fondazione Treccani, ed. 1959, vol. xii, parte vii, p. 633. 3   G. Mezzanotte, Edilizia abitativa a Milano nell’Età Illumistica, in L’uso dello spazio privato nell’età dell’Illumini4   Ibidem. smo, a cura di G. Simoncini, Firenze, Olschki, 1995, tomo i, p. 25. 5   G. B. Amico, L’architetto pratico, in cui con facilità si danno le regole per apprendere l’Architettura Civile, e Militare, voll. 1-2, Palermo, Angelo Felicella, 1726 e 1750 ; vol. ii, parte ii. Dell’Architettura Civile, Capo Ottavo, Dei Palazzi, ed Abitazioni secolaresche, pp. 64-70, passim, citato in Appendice a L’uso dello spazio privato, cit., p. 636. 6   G. Mezzanotte, Edilizia abitativa a Milano, cit., p. 28. 7 8   Ivi, p. 30.   Ivi, p. 35. 2



la civiltà del salotto

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caratterizzava hôtel parigini e castelli francesi, eretti in gran numero a partire dai primissimi anni del secolo ». 1 Questa disposizione comportava un edificio aperto a U verso la strada e seguiva l’articolazione interna dei vani, « specializzati per il ricevimento, l’abitazione e il servizio » ; di conseguenza nascevano, separate dal salone, le così dette sale “specializzate” : la sala da pranzo, quelle destinate alla conversazione, al gioco, ai libri. Alla base di questa nuova disposizione degli ambienti nelle ville suburbane stava dunque un ideale di vita rivolto verso l’art de bien vivre, con il prevalere della morale laica e l’identificazione della felicità col benessere. Nel milanese ed in area lombarda seguono questo disegno architettonico (ravvisabile ancora oggi) la villa Brentani a Corbetta, Della Somaglia a Orio Litta, Alari a Cernusco sul Naviglio e Arconati a Castellazzo, tutte edificate o ristrutturate nella prima metà del Settecento. Segue la configurazione ad U anche la villa Arciducale di Monza, costruita su progetto di Piermarini a partire dal 1777 ; inoltre, nel parco di questo edificio, faceva la sua comparsa il primo giardino all’inglese della Lombardia. Palazzi e “ville di delizie” diventarono dunque, nel corso del xviii secolo, espressione di una società che inseriva felicità e agiatezza nell’etica nobiliare, estendosi in seguito a quella borghese. Al bien vivre si conformavano via via costumi ed etichetta e le abitazioni della classe elevata rispecchiavano dal punto di vista architettonico questa ricerca di maggiore agio e di bellezza. Gli ambienti adibiti alla convivialità e all’ospitalità si moltiplicavano, facendo dello spazio domestico luogo di rito sociale che, al di fuori della corte, trovava autonoma espressione. In tale contesto, poteva accadere che il salone divenisse luogo di auto-rappresentazione e, sempre più frequentemente, di teatro ; da parte sua, il palco teatrale si trasformava in appendice del salotto, talvolta addobbato e arredato secondo il gusto della famiglia che lo affittava per la stagione. Dal punto di vista etimologico, Benedetta Craveri osserva come la parola salon, 2 nell’accezione attuale di salotto, abbia fatto la sua comparsa solo alla fine del xviii secolo, per poi imporsi nel secolo successivo. Fino a quel momento « ci si serviva del termine ruelle, o si designava il rito per eccellenza della socievolezza, il ritrovarsi insieme per conversare (dal latino conversari, convergere), 3 facendo riferimento non tanto al luogo di ritrovo, quanto alle persone che vi s’incontravano. Le parole assemblées, cercles e compagnies erano usate per indicare ritrovi del genere, dunque l’uso di salon riferito a tali fenomeni aggregativi della prima metà del secolo risulterebbe anacronistico e non filologico. Data questa premessa di carattere linguistico, continueremo comunque ad impiegare il termine salotto riferito al fenomeno italiano, per esigenze di brevità e di chiarezza, tenendo presente però che esso conobbe la massima espansione solamente nel corso dell’Ottocento. Principale differenza tra la sociabilité 4 francese e quella italiana risulta essere la condizione socio-politica di partenza : la Francia è stata sempre contraddistinta da una forte unità nazionale ; l’Italia parcellizzata in stati regionali che hanno mantenuto parte della loro identità anche dopo l’unificazione. Per questo motivo, mentre le pratiche sociali italiane hanno continuato ad essere connotate da tradizioni cittadine e regionali diverse, la civiltà mondana francese si è posta, fin dall’inizio, sotto il segno della continuità, costituendo, assai preco 



















1

  Ivi, p. 36.   Cfr. A. Lilti, Le monde des salons. Sociabilité et mondanité à Paris au xviii siècle, Fayard, 2005, p. 8 : « Cette image complexe des salons, connotant à la fois des divertissements raffinés et la conversation philosophique, voire l’engagement militant d’une avant-garde intellectuelle, a sa source au xviii siècle, qui apparaît comme le siècle des salons par ecellence ». Il termine è impegato per il xviii secolo nel suo complesso, poiché, più avanti, lo studioso afferma che la Restaurazione bollò il fenomeno come retaggio dell’Antico Regime, decretandone la sparizione. 3   B. Craveri, Salons francesi e salotti italiani : proposte di confronto, in Salotti e ruolo femminile in Italia, cit., p. 539. 4   Termine introdotto nel vocabolario storico da M. Agulhon, Pénitents et Françe-Maçons de l’ancienne Provence, essai sur la sociabilité méridionale, Paris, Fayard, 1968. Per una ricognizione bibliografica più completa sulla storia del termine negli studi storici francesi e italiani cfr. Lilti, Le monde des salons, cit., p. 417, n. 10. 2









16

capitolo i

cemente, « uno degli elementi distintivi dell’unità nazionale ». 1 Altra differenza strutturale : « la presenza in Italia di un doppio modello di socievolezza, l’uno curiale, l’altro cittadino, l’uno aristocratico, l’altro borghese » ; 2 distinzioni che non si possono estendere alla civiltà mondana francese d’antico regime, nata e cresciuta al di fuori della corte e rappresentativa – quanto meno per tutto il xvii secolo – di un fenomeno di stampo aristocratico. Infatti, contrapponendosi ad un’ipotesi storiografica 3 che voleva la corte come centro propulsivo delle buone maniere e del gusto, una precedente linea interpretativa francese, oggi più seguita, vede nella nuova cultura mondana, elaborata in seno alla società nobiliare dei primi del Seicento, « un fenomeno autonomo e spesso polemico proprio nei confronti della corte ». 4 Individuando l’origine della conversazione nella repubblica ateniese del v secolo, Marc Fumaroli osserva come l’Ancien Régime, pur non avendo niente di democratico, avesse creato, proprio ai margini della corte, una sorta di « contro-istituzione » 5 nei circoli privati di Parigi dove si conversava, appunto. Si trattava di una cerchia « egualitaria », in una certa misura, all’interno della quale anche il letterato di umili origini poteva frequentare il principe, praticando il comune « sport della parola ». 6 Nel suo saggio De l’Allemagne (1810), Mme de Staël aveva già rilevato come fosse presupposto necessario del conversare francese l’istruzione della « piccola tribù di locutori esemplari » ; 7 l’esprit che presiedeva queste assemblee spontanee era dunque incompatibile con la pedanteria degli specialisti, ma anche con l’ingenuità dei dilettanti. In tale contesto, la corte come istituzione costituiva il tema e non il teatro della conversazione ; il luogo di questo gioco fra pari era ben definito : le sale di ricevimento, il giardino di una dimora privata. Il tempo era quello dello svago e l’arbitro di tale sport (prima “nazionale” e poi europeo) la padrona di casa. Pertanto, nato in stretta concomitanza dai momenti d’evasione della nobiltà dagli obblighi di corte, il salotto era « espressione di una socialità legata appunto allo svago, impregnata dell’utopia arcadica e accademica », un luogo d’incontro « distaccato dai legami familiari, dai ranghi e dalle professioni, un gioco di ruoli intensamente letterario ». 8 Fu l’Hôtel de Rambouillet ad inaugurare, nel xvii secolo, questa vita di società francese, detenendo per oltre quarant’anni il primato di « centro mondano ». 9 E il vero elemento di novità presente nella scelta di Madame de Rambouillet 10 « di aprire regolarmente le porte della sua casa a un certo numero di ospiti abituali consisteva nel fatto che tale decisione fosse dettata dall’idiosincrasia ». 11 Infatti, la nascita della vocazione mondana in lei coincideva con il ritirarsi dal teatro del mondo e col prendere le distanze, consapevolmente, dalla vita di corte. L’identificazione con un sovrano che, cessando di essere primus inter pares, era diventato geloso della propria autorità, escludendo la nobiltà dalla sfera politica, era ormai impossibile. E da quel momento in avanti sarebbe stato il modo di vivere, di divertirsi e di stare insieme a conferire all’élite nobiliare la certezza della propria superiorità ; « sarebbero state le bienséances, il corpo di leggi non scritte, ma più potenti di qualsiasi norma, a fornire il banco di prova un tempo riservato alle armi ». 12  



























































1

2   B. Craveri, Salons francesi e salotti italiani, cit., p. 540.   Ibidem.   N. Elias, La società di corte, Bologna, Il Mulino, 1980 (i ed.). 4   B. Craveri, Salons francesi e salotti italiani, cit., p. 540. 5   M. Fumaroli, Il Salotto, l’Accademia, la Lingua. Tre istituzioni letterarie, Milano, Adelphi, 2001. 6 7 8   Ivi, p. 154.   Ivi, p. 157.   Ivi, p. 170. 9   B. Craveri, La civiltà della conversazione, cit., p. 23. 10   Catherine de Vivonne (1588-1665), nata a Roma, era figlia ed erede di Jean de Vivonne, marchese di Pisani e sua madre Giulia era della nobile famiglia romana dei Savelli. Si sposò a dodici anni con Charles d’Angennes, visconte di Le Mans e in seguito marchese di Rambouillet. La giovane marchesa, dopo la nascita della figlia più grande, Julia d’Angennes, nel 1607, iniziò a riunire il suo famoso circolo. Si stabilì all’Hôtel Pisani, chiamato più tardi Hôtel de Rambouillet, che si trova vicino ai Grands Magasins du Louvre, a Parigi. 11 12   B. Craveri, La civiltà della conversazione, cit., p. 24.   Ivi, p. 28. 3

la civiltà del salotto

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In tal modo, la conversazione dell’Hôtel de Rambouillet (come di altri centri satelliti anche più altolocati) diventò laboratorio della lingua letteraria, imponendosi come « tribunale in materia di poesia, di prosa e di teatro ». 1 Fumaroli stabilisce infatti, sin dall’inizio del suo studio, una relazione stretta fra la conversazione e il teatro stesso, a partire dall’Atene del v secolo. Nella polis greca che assisteva agli agoni tragici di Sofocle ed Euripide « si parlava, si dialogava oralmente, e anche per iscritto », già prima di Platone. Così nei salotti francesi, e poi europei, a partire dal Seicento, il conversare decretava il bello stile e la buona lingua attraverso « scambi incessanti tra la conversazione, il dialogo teatrale, l’ascolto di poesia o di prosa » che dovevano necessariamente passare « la prova della lettura ad alta voce in una cerchia eletta ». 2 Pertanto, le prime commedie di Corneille, Racine e La Bruyére furono sottoposte alla prova del « gran mondo », assai spietato con i mediocri proprio attraverso « questo torneo arguto, questo duello dialettico ». 3 Di conseguenza, La Rochefoucauld, La Bruyére, il Molière del Misantropo - citando solo i più famosi - « braccano i vizi e le menzogne dell’animo che falsano la sportività del dialogo e nuocciono al suo successo, al conseguimento dell’esprit ». 4 In questo modo si può a ragione sostenere che fu la conversazione parigina ed elitaria a produrre un’immensa letteratura normativa, retorica ed etica ad un tempo, ma anche « dialoghi, opere teatrali e romanzi in cui dialoghi e conversazioni si mescolano alla narrazione ». 5 Tutti i generi letterari, dunque, che ambivano a regolamentare la conversazione ed a rappresentarla nella linea che discendeva, più o meno direttamente, dai dialoghi platonici e dal teatro greco nel suo complesso. Uno degli obiettivi principali della socialità francese sotto l’Ancien Régime era quindi la « chiave musicale », che governava « il gesto, la voce, il “tempo” del dialogo » 6 e all’inizio del Settecento tale obiettivo rimaneva ancora attuale. La scuola mondana preparava a formare l’esprit e ad esercitarlo con disinvoltura e per questo fine, naturale ed artistico allo stesso tempo, dava « il tocco finale al fior fiore dei letterati e dei nobili formati in collegio ed in convento ». 7 L’educazione delle fanciulle, dato il ruolo preminente che esercitavano nella scuola mondana, richiedeva attenzioni senza precedenti nella storia femminile. Questa École des femmes intesa da Molière nel senso della scholé greca (ambiente di svago in cui si diventava liberi) riuniva in conversazione « i “bennati” per sangue, talento e ricchezza, appartenenti ad entrambi i sessi, alle varie professioni, e alle varie età della vita » 8 al di fuori del convento, del collegio, e della corte.  















































Partendo da questa linea storiografica e spostandoci in Italia, sono state già messe in evidenza alcune differenze strutturali, di natura politica e culturale, fra la situazione francese e la situazione del nostro paese nei contesti storici esaminati. Pur avendo fornito il modello ideale della civile conversazione e della Repubblica delle Lettere, attraverso l’archetipo della corte rinascimentale, l’Italia si trovava, a partire dal xvii secolo, in una condizione di parcellizzazione politica che impediva l’elaborazione di una lingua e di una cultura unitarie e nazionali. Inoltre, mancava il presupposto della civiltà del salotto, ovvero quella libertà di cui godeva il sesso femminile in Francia e che non trovava riscontri nell’educazione e nella condizione delle donne italiane. Recenti studi 9 sulle connessioni fra salotti e ruolo femminile in Italia hanno portato ad una distinzione fra il salotto di socialità e conversazione e quello a specifica vocazione cul1

2   M. Fumaroli, Il Salotto, l’Accademia, la Lingua, cit., p. 170.   Ivi, p. 172. 4 5   Ibidem.   Ibidem.   Ivi, p 152. 6 7 8   Ivi. p. 176.   Ivi, p. 177.   Ivi, p. 178. 9   E. Brambilla, Dalle « conversazioni » ai salotti letterari (1680-1820), in Salotti e ruolo femminile in Italia, cit., pp. 545-552. 3





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turale e letteraria, solo quest’ultimo vicino al modello classico francese. Nell’Italia tra fine Seicento e la guerra di successione spagnola, « l’avvio delle ‘conversazioni’, ossia dei salotti di socialità mista femminile e maschile » rappresentava non solo una novità, ma quasi « una cesura nella storia italiana ». 1 Con l’arrivo del modello francese del salon a partecipazione mista dei due sessi, si allontanava la figura della donna letterata chiusa nei recinti della segregazione femminile, quali il convento o l’ambiente domestico. Tuttavia, la frequentazione tra i due sessi nei salotti italiani continuava a rimanere appannaggio delle donne coniugate ; ne erano infatti escluse quelle rimaste « signorine » e le giovani nubili, la cui “purezza” veniva ancora preservata in monastero. Questo aspetto differenziava l’Italia (e anche la Francia) dall’Inghilterra di fine Settecento e anche dalla stessa Italia del secondo Ottocento, quando erano proprio le nubili a essere presentate in società. Mentre persisteva « per tutto il Settecento il salotto mondano, serale e galante », emergeva con più fatica nel nostro paese, forse dagli anni sessanta o settanta, « il secondo tipo di salotto, quello propriamente letterario ». 2 Esso presupponeva infatti una donna educata alla mondanità, che incoraggiasse l’esprit alla francese, ma anche « un progetto di salotto come cassa di risonanza, di prova, di promozione di prodotti letterari, teatrali, musicali ». 3 Se in un primo tempo il sesso femminile richiedeva una letteratura di svago, a causa di un’educazione impartita in maniera parziale ed incompleta, questa letteratura d’intrattenimento era destinata a ben altri esiti. Si trattava « di generi minori, disprezzati dai dotti, come i ritratti, gli aforismi, i mémoires, la letteratura epistolare, i romanzi, ma che avrebbero presto generato dei capolavori », 4 diventando capisaldi della tradizione letteraria moderna. Tra i generi che trovarono grande spazio nella conversazione e nella lettura del salotto, il teatro in forma di libro era quello, per sua natura costitutiva, meno adeguato alla lettura personale, ma più adatto alle diffuse occasioni di lettura orale e collettiva nell’ambito delle accademie e dei salotti. Riproponendo ancora un caso milanese, si ricorda la dedica della Peruviana di Goldoni alla contessa Antonia Somaglia, in cui la casa del conte Antonio Barbiano di Belgioioso è indicata come ambiente di “prova” delle commedie goldoniane. Pertanto, la scena e il salotto, in stretta relazione fra loro, costituivano « i primari contesti di ricezione delle commedie, ascoltate a teatro dai comici, o nel corso di letture ad alta voce in adunanze private ». 5 E recenti studi 6 hanno messo in evidenza come il pubblico femminile, nel corso del Settecento, fosse proprio quello più assiduo nella lettura di testi teatrali e romanzi, tanto da divenire, a sua volta, topos letterario del melodramma sette-ottocentesco, dove la lettrice compare sovente in scena. Alla fine del xviii secolo, lo stesso Pietro Verri, nei Ricordi alla figlia Teresa, consigliava alla fanciulla letture di teatro per la loro natura particolarmente adeguata alla formazione del gentil sesso ; tra gli autori indicava Carlo Goldoni, Pietro Metastasio e il teatro francese in genere. Da questi scritti emergeva dunque un universo femminile che faceva del libro di teatro « una tipica lettura “da toilette” », 7 ma pur sempre utile per una signora di società. Seguendo il filo della stretta contiguità tra salon e storia letteraria e teatrale, sono stati individuati numerosi casi di salotti alla francese in tutta la penisola italiana. Tuttavia, limitandoci all’area lombardo-veneta, sembra confermato il ruolo centrale delle donne veneziane : spiccano infatti i nomi di Elisabetta Caminer Turra, nota pubblicista e traduttrice di teatro  









































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2 3   Ivi, p. 545.   Ivi, p. 551.   Ibidem.   B. Craveri, Salons francesi e salotti italiani, cit., p. 543. 5   S. Locatelli, Edizioni teatrali nella Milano del Settecento, Per un dizionario bio-bibliografico dei librai e degli stampatori milanesi e annali tipografici dei testi drammatici pubblicati a Milano nel xviii secolo, Milano, isu, 2007, p. 152. 6   M. Sirtori, Lector in musica. Libri e lettori nel melodramma di Sette e Ottocento, Venezia, Marsilio, 2006. 7   S. Locatelli, Edizioni teatrali, cit., p. 153 ; cfr. anche R. Turchi, Libri per la « Toelette », « Studi Italiani », xiv, 1-2, 2002, pp. 153-205. 4











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francese ; di Elisabetta Mosconi e di Laura Saibante. A Bergamo, Paolina Secco Suardo Grismondi, più nota Lesbia Cidonia in Arcadia, istituì un salotto piuttosto frequentato, come testimonia il nutrito carteggio con Saverio Bettinelli e Clementino Vannetti. E la veronese Silvia Curtoni Verza, parente di Scipione Maffei e corrispondente di Parini, radunò nella sua Villa di Chievo un salotto con vocazione prettamente teatrale, in cui si rappresentavano soprattutto opere francesi. E ancora Venezia primeggiava, in età napoleonica, con il salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, evoluto ormai pienamente della direzione del salon. Si trattava di « un’istituzione informale, ma contigua a istituzioni formali come le accademie, i giornali, le pubblicazioni ; una sociabilità dai progetti non solo mondani, ma anche letterari ed eventualmente politici, almeno nel senso della diffusione dei lumi » ; 1 di qui le premesse per il diffondersi dei salotti letterari durante la Restaurazione. Le donne veneziane, nel panorama italiano, godevano dunque di maggiore libertà espressiva, secondo una tradizione che derivava dalle letterate e cortigiane del Rinascimento, tra cui si ricorda la petrarchista Gaspara Stampa. La costituzione repubblicana, più egualitaria, era sicuramente all’origine di questo fenomeno, come testimoniano le somiglianze con il contesto genovese 2 dell’epoca. Ma l’atipica situazione veneta, poco repressiva nei confronti della condizione femminile, derivava anche dalla radicata tradizione anticuriale che aveva contraddistinto la Serenissima nel corso del Settecento. Inoltre, sono noti gli stretti rapporti della Repubblica veneta con le capitali europee, Parigi in primis, nel pieno Settecento, come testimonia il famoso viaggio di Voltaire sulla laguna, nell’estate del 1743. 3 Se a questo si aggiunge che Venezia era stata la prima città in Italia a vantare un teatro pubblico a pagamento, si capisce come la promiscua frequentazione delle sale teatrali avesse ulteriormente avvicinato classi sociali e sessi. Pertanto, la società veneta del Settecento costituiva un ambiente in cui si erano avviati processi di cambiamento economico e culturale che avevano contribuito, nel corso del secolo, all’emergere, in ogni campo, di personalità femminili. Nel 1723 fu la padovana Accademia dei Ricovrati 4 a lanciare il dibattito sull’opportunità o meno degli studi muliebri, dopo aver già accolto fra le sue schiere, nel 1669, la prima donna laureata al mondo, Elena Cornaro Piscopia, veneziana appunto. Nonostante mancasse l’istituzione di scuole pubbliche deputate agli studi del gentil sesso, prosperavano i luoghi di scambio culturale e le occasioni di lettura, basti pensare alle accademie, ai periodici, alle occasioni di andare a teatro per la prosa o per l’Opera ; senza trascurare il commercio librario che era ricco ed abbondante, permettendo la circolazione della cultura fra un pubblico sempre più ampio. Non meraviglia dunque la vivacità dell’intellighentia femminile veneta, che fu cifra costante del secolo, favorendo il proliferare dei noti salons alla francese, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Così, se la nascita della conversazione nei salotti veneti poteva discendere da una libera espressione del pensiero in un clima democratico, i salotti dell’area milanese sembravano derivare invece dal clima repressivo dell’Ancien Régime. Nella Francia del Re Sole la presenza di una monarchia accentratrice che aveva escluso la vecchia classe dirigente, relegandola ai margini del potere decisionale, aveva fatto scaturire la necessità da parte del ceto aristocratico di trovare nuovi contesti in cui rispecchiarsi pienamente, al di fuori ormai della corte. Nel caso specifico di Milano una situazione simile derivava dalla presenza di una monarchia straniera che aveva emarginato la vecchia aristocrazia locale per affidare  











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  E. Brambilla, Dalle « conversazioni » ai salotti letterari, cit., p. 551.   Cfr. C. Farinella, La « nobile servitù ». Donne e cicisbei nel salotto genovese del Settecento, in Salotti e ruolo femminile, cit., pp. 97-125. 3   Parigi/Venezia : cultura, relazioni, influenze, a cura di C. Ossola, Firenze, Olschki, 1998. 4   Discorsi Accademici di varj autori viventi intorno agli studj delle donne ; la maggior parte recitati all’Accademia de’ Ricovrati di Padova, Padova, Stamperia del Seminario presso Giovanni Manfré, 1729.  

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l’amministrazione dello stato ad homines novi, non compromessi coi vecchi governi e non aggrappati ad antichi privilegi. Anche nel capoluogo lombardo ci furono dunque salotti di richiamo, tra cui si ricordano quello di Maria Bicetti de’ Buttinoni e di Vittoria Serbelloni, frequentati da Parini e dai fratelli Verri ; la stessa Accademia de’ Trasformati in cui si formarono molti intellettuali dell’epoca era una colonia arcadica molto vicina ad un salotto letterario. Tuttavia, nel capoluogo lombardo, mentre andava di moda il salotto di socialità, sul versante delle lettere predominava il modello de Il Caffè, « la declinazione maschile della cultura dell’Illuminismo », 1 seppure con molte incursioni femminili. Sicuramente la forte tradizione curiale della Milano borromaica e spagnola del Seicento aveva sfavorito la promiscuità fra i sessi e relegato l’educazione femminile delle fanciulle d’alto rango all’interno dei conventi, almeno sino alla fine del secolo. Per questo motivo, alcuni casi di donne letterate si manifestarono, nel primo Settecento, solitamente in ambienti borghesi o di piccola nobiltà, dove la fanciulla, educata in maniera più “informale”, perché non destinata a matrimoni di alto lignaggio, poteva usufruire della biblioteca paterna o di precettori privati (spesso destinati ai fratelli). Più avanti, nella seconda metà del secolo, i costumi femminili divennero più liberi per l’influenza francese e veneziana e per la politica anticuriale di Kaunitz, che cercò di limitare il potere economico e politico degli ecclesiastici. Ritorniamo al salon come contro-istituzione in cui il conversare diviene collante sociale di un gruppo di pari, stabiliti tali non in base al censo o alla casta, ma alla comune capacità di esercitare il dialogos all’interno di un’agorà che predilige gli spazi privati a quelli della corte. Si possono esaminare alcuni aspetti di carattere metodologico che riguardano l’uso delle fonti per ricostruire l’attività letteraria del salotto e la sua stretta contiguità con la storia di gender e la storia del teatro. Come osserva Fumaroli : « la conversazione sta alla comunicazione come il concorso Jacques-Marguerite Long a un banale festival della canzone ». 2 E come ogni grande concorso ha la sua leggenda racchiusa in volumi ricchi di aneddoti, racconti, frasi celebri e incidenti ; oltre ad avere le sue “star” e i suoi celebri “stadi”. Ma la conversazione, intesa in questo senso specifico, possiede anche i suoi archivi, manoscritti o a stampa ; orale o effimera, essa si prolunga in forma scritta attraverso il genere epistolare in primis. Un’altra traccia della conversazione è costituita dalle Memorie, che Fumaroli definisce « improvvisazioni orali scritte ». Memorie e romanzi, dunque, ma anche raccolte poetiche, opere teatrali e singole poesie « anzitutto lette, giudicate, commentate di fronte a “buone compagnie” ». 3 Per questo motivo tale ambiente, così legato all’oralità, è stato « al tempo stesso il luogo dell’elaborazione e della ricezione di interi capitoli, e fra i più brillanti, della letteratura francese ». Quanto detto sulle testimonianze lasciate dall’oralità può essere esteso anche alla situazione italiana, nel suo complesso e, più nello specifico, all’area lombardo-veneta. Molti salotti infatti hanno prodotto raccolte poetiche, soprattutto rime d’occasione, alcune delle quali legate ad un’abitudine di improvvisare in tali consessi ; e Vianello stesso, riferendosi a Milano, racconta come fare versi fosse diventato comune abitudine mondana. Se la versificazione estemporanea fu sicuramente legata, in Italia, alla stretta vicinanza fra salotti letterari e riunioni accademiche, alla fine del secolo, riprendendo una tradizione che discendeva dalle poetesse-cortigiane del Cinque-Seicento, alcune donne fecero dell’improvvisazione poetica addirittura un mestiere ; tra le più note le toscane Corilla Olimpica e Fortunata Fantastici Sulgher. Sulla scorta di queste considerazioni, possiamo affermare l’esistenza di fonti scritte della  































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  E. Brambilla, Dalle « conversazioni » ai salotti letterari, cit., p. 551.   M. Fumaroli, Il Salotto, l’Accademia, la Lingua, cit., p. 155.

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  Ivi, p. 157.

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comunicazione orale che ci aiutano a ricostruire la memoria storica della conversazione all’interno del luogo ad essa consacrato, il salotto. In particolare, attraverso lo studio delle reti epistolari di donne 1 del xviii secolo, è stata delineata la presenza, in alcune aree geografiche italiane, di forme di socialità vicine a quella civiltà del salotto francese, già individuata da Fumaroli e Craveri. I carteggi femminili sembrerebbero riflettere, inoltre, quello che Daniel Roche 2 individua come passaggio da sociabilità nobiliare a sociabilità borghese, ovvero dalla socialità tipica dell’antico regime alle nuove forme della socialità culturale e intellettuale del Sette e Ottocento. Con tale strumento espressivo infatti, in Francia, le femmes savantes avevano consolidato « lo spazio consuetudinario e semipubblico dei loro salotti », venendo anche a costituire un’eco « continua, continuamente aggiornata, di quella civiltà della conversazione che aveva nella comunicazione orale il suo centro ». 3 Recenti studi storiografici 4 hanno favorito la pubblicazione di epistolari femminili settecenteschi, rendendo il fenomeno della corrispondenza fra donne centrale per la costruzione d’identità e memoria del salotto. Dall’analisi di questi carteggi è emersa, infatti, la centralità legittimante che le stesse femmes d’esprit attribuivano alla « costruzione e alla orchestrazione di un circuito epistolare, che dava voce di discorso, fissato in iscritto, ai silenzi fra un incontro e l’altro negli spazi della sociabilità organizzata ». 5 Al di là della consapevolezza o meno da parte delle autrici, lettere e diari, quest’ultimi più rari, costituiscono certamente la maggiore testimonianza dell’attività letteraria femminile in questo secolo. Affermazione confermata dal grande successo del romanzo epistolare e dal diffondersi di riviste e di giornali ad uso e consumo delle dame. Pertanto « gli epistolari, considerati in grandi reti allargate, in un sistema ampio di riferimenti, possono costituire uno strumento per misurare le profonde trasformazioni del senso del sé », 6 preludendo in questo modo alla possibilità di uno spazio in cui le donne potessero comparire ed esprimersi in pubblico, con un ruolo sociale sempre più definito. Ma, come vedremo in seguito, alcuni ingegni femminili sono addirittura riusciti ad evadere dal circuito domestico e salottiero per comparire sulla scena pubblica europea, a partire dai primi decenni del Settecento, confermando così una relazione osmotica fra salotto e teatro.  















i. 2. Le figlie di Eva : tra storia delle donne e storia di gender  

Nel suo excursus attraverso i fondamenti della storia delle donne, Gabriella Zarri 7 stabilisce come punto di partenza la voce “Femme” dell’Encyclopédie di Diderot, in cui i redattori, dopo aver ricordato come per secoli gli anatomisti avessero considerato la femmina un “uomo mancato”, dichiaravano che i diversi pregiudizi sulla presunta “inferiorità” femminile erano prodotto dei costumi dei popoli antichi e dei sistemi politici e religiosi. L’inferiorità della donna rispetto all’uomo appariva dunque « un problema eminentemente culturale » 8 e sorprendeva il numero di donne illustri per erudizione ed opere nell’antichità, come nell’età moderna, vista la scarsa attenzione dedicata all’educazione muliebre presso tutti i popoli. In Francia, furono le leggi rivoluzionarie ad affermare l’uguaglianza dei sessi, fino alla famosa Déclaration des droits de la femme (20 brumaio, anno ii, 10 novembre 1793), che proclamò l’ammissione della donna a tutti i posti ed uffici pubblici. Punti di partenza verso l’emancipazione femminile, ancora una volta, la Francia e il diciottesimo secolo.  



1   A. Contini, La memoria femminile negli archivi : i salotti attraverso i carteggi (secolo xviii), in Salotti e ruolo femminile, cit., pp. 29-64. 2   D. Roche, Sociabilità culturale e politica : gli anni della prerivoluzione, « Cheiron », n. monografico dedicato a 3   Ivi, p. 29. Sociabilità nobiliare e sociabilità borghese, a cura di M. Malatesta, 1988, pp. 19-42. 4   Cfr. A. Contini, La memoria femminile, cit., p. 50, n. 4. 5 6   Ivi, p. 30.   Ivi, p. 34. 7 8   G. Zarri, La memoria di lei. Storia delle donne, storia di genere, Torino, sei, 1996.   Ivi, p. 4.  







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Nella società settecentesca « come spesso accade quando il costume è più facile e libero, la donna s’era sciolta dai vincoli tenaci che la serravano ed era venuta ad aggiungere quella dolcezza e quella grazia che mancavano all’esistenza austera di un tempo ». 1 Il secolo dei Lumi fu pertanto « il primo grande tentativo attuato da un gruppo, riconoscibile nelle donne della nobiltà e successivamente dell’alta borghesia, di darsi un’identità culturale di cui fino a quel momento era privo ». 2 Nel Settecento le dame divennero protagoniste dei salons europei e alcune letterate, specialmente in Francia, pubblicarono « una notevole varietà di opere storiche ormai decisamente orientate verso l’uso di fonti documentarie o antiquarie ». 3 Le donne allargarono gradualmente, ma in misura crescente, il loro interesse dalla memorialistica alla storia politica, passando dalla storia particolare alla storia generale. Nei secoli precedenti, infatti, la ricerca documentaria era pressoché impossibile per il sesso femminile, visto che le fonti erano conservate nelle biblioteche monastiche e i dispacci di ambasciatori e principi erano inaccessibili. Dalla memorialistica alla storia, dunque, e, conseguentemente, dalla storia alla consapevolezza del sé e del proprio ruolo nella società. Ma la Francia già all’alba del Seicento vedeva le figlie di Eva ordire « una nuova congiura che, nel giro di un secolo, le avrebbe portate a conquistare un potere senza precedenti, destinato a rimanere unico nella storia d’Europa ». 4 In questa nazione, a differenza dell’Italia e della Spagna, le donne, fin dal periodo della Rinascenza, non vivevano isolate dagli uomini e tagliate fuori dalla vita sociale. Dal regno di Francesco I, infatti, la corte si era allargata, aprendosi sempre di più alla sua componente femminile, che, dai primi decenni del xvii secolo, non fu più costretta a conquistarsi, a poco a poco, « un problematico spazio d’influenza al di fuori degli stretti confini della sfera domestica ». 5 All’interno dei salons le signore assumevano progressivamente la guida della vita mondana ed iniziavano « a dettar legge in fatto di buone maniere, di lingua, di gusto, di loisirs, a definire cioè i tratti più fortemente distintivi dello stile nobiliare ». 6 Nella Lettre à D’Alembert sur les spectacles, pubblicata ad Amsterdam nel 1758, Jean Jacques Rosseau pronunciava una decisa sentenza sulla presa di potere del gentil sesso : « la società parigina era diventata un mondo alla rovescia, dove i rapporti naturali tra uomo e donna apparivano totalmente sovvertiti ». 7 Tuttavia, anche « l’affermazione delle donne sulla scena mondana, lungi dall’essere il risultato di un colpo di mano, rifletteva in primo luogo gli orientamenti della cultura maschile ». 8 Infatti, nel momento di ridefinire il proprio codice di riconoscimento, la nobiltà francese ritornava alle sue origini, recuperando il culto reso alla dama dalla civiltà cortese. Pertanto, l’hommage presentato alla donna e la posizione di privilegio assegnatole erano, in primis, « un’importante occasione di verifica dell’onore virile e, al tempo stesso, un segno evidente di distinzione sociale ». 9 Così, in nome di una concezione più esigente del piacere maschile, era auspicato uno scambio fra i due sessi : insegnare alle dame a farsi valere per rendere più interessante il gioco della « galanteria ». In tale contesto, la donna era definita ancora come « oggetto di rappresentazione costituito da un soggetto altro da sé », 10 nello specifico, il soggetto maschio ; ma questa rappresentazione del femminile sembrò parzialmente intaccarsi nel corso del Settecento. L’unità della ragione, posta dalla filosofia cartesiana, garantiva l’uguaglianza intellettuale dei sessi e lo  















































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  C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita di e l’opera sua nel tempo, Roma, Bertero, 1919, p. 8.   L. Ricaldone, Il secolo xviii come laboratorio della modernità, in Geografie e genealogie letterarie. Erudite, biografe, croniste, narratrici, épistolières, utopiste tra Settecento e Ottocento, a cura di A. Chemello e L. Ricaldone, Padova, Il 3   G. Zarri, La memoria di lei, cit., p. 23. Poligrafo, 2000, p. 45. 4 5   B. Craveri, La civiltà della conversazione, cit., p. 33.   Ivi, p. 34. 6 7   Ibidem.   Ivi, p. 35. 8 9   Ivi, p. 36.   Ivi, p. 37. 10   M. Crampe-Casnabet, La donna nelle opere filosofiche del Settecento, in Storia delle donne in Occidente, a cura di G. Duby e M. Perrot, Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. iii, p. 314. 2



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spirito dell’Illuminismo combatteva apertamente ogni opinione non fondata sulla ragione stessa. Inoltre, alcune donne, come detto, animavano salotti in cui si diffondeva il pensiero filosofico, contribuendo all’evoluzione della letteratura e alla diffusione delle scienze. La marchesa de Châtelet tradusse i Prinicipia matematica philosophiae naturalis di Newton e Madame Lepaute scrisse le Mémoires d’astronomie e una Table des longuers des pendules. Numerosi furono anche i casi italiani ; in area lombarda, si ricorda il salotto della contessa Clelia Borromeo del Grillo, appassionata collezionista di macchinari scientifici e minerali, e quello della matematica Maria Gaetana Agnesi, autrice di alcuni manuali di fama. Dal punto di vista dell’uomo-filosofo si stabiliva, comunque, un doppio discorso dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla donna e, conseguentemente, « un doppio modo di dire, descrivere, definire ». 1 Montesquieu e Rosseau diedero voce alle donne tramite le lettere di alcune dame del Serraglio nelle Lettere Persiane, e di Julie nella Nouvelle Heloise, pur non trattandosi, in realtà, di discorso femminile, ma di « una parola doppiamente maschile », 2 poiché assumeva la maschera dell’altro sesso. Pertanto, mettere in luce le virtù femminili, significava (anche nei discorsi dei filosofi “illuminati”) accentuare un’insormontabile differenza. Al di là dei numerosi trattati sull’educazione muliebre che fiorirono, come vedremo, nel corso del Settecento, e delle teorie filosofiche che si basavano sull’uguaglianza degli esseri umani, il punto di vista del soggetto maschio continuò ad essere dominante. Tuttavia, le regole della società della conversazione iniziarono ad imporre nuovi modelli culturali abilmente orchestrati da una figura femminile ; si trattò quindi di un doppio binario che, ridefinendo in termini espressivi e linguistici la società, ne ha gradualmente ridefinito anche le strutture relazionali. Sicuramente per le fanciulle i Lumi ci furono, anche se smorzati. Le ventate riformiste che attraversarono il diciottesimo secolo toccarono solo tangenzialmente la questione femminile, spesso limitandosi ad ammettere una parità di sessi sul piano intellettuale, che non sovvertisse, però, le condizioni materiali di base : matrimonio ed educazione dei figli, in primis. Fu comunque un dato di fatto la presa di coscienza da parte del mercato editoriale di un nutrito pubblico di lettrici, come testimonia la comparsa dei primi periodici destinati esplicitamente alle donne. Nazione-pilota ancora la Francia col suo « Journal des Dames », pubblicato a Parigi tra il 1759 e il 1778 tra i cui redattori alternatisi alla direzione erano state anche tre donne. 3 Il periodico, diffuso in vari paesi europei tra cui l’Italia, aveva lanciato in alcuni articoli, seppure con molte incertezze, la questione dell’eguaglianza dei sessi e fu emulato, nella seconda metà del secolo, dai primi periodici italiani destinati nello specifico al gentil sesso. A questi giornali si aggiungeva una nutrita serie di testi che, essendo rivolti anche, o esclusivamente, alle dame presupponevano un orizzonte d’attesa prevalentemente al femminile : « si trattava di scritti con caratteristiche molto diverse, sia dal punto di vista letterario sia da quello degli argomenti trattati ». 4 Erano pubblicazioni diversificate : dai saggi divulgativi alla letteratura d’invenzione (poesie, romanzi, opere teatrali), alla trattatistica di argomento morale o religioso, alla produzione minore di almanacchi e ricettari. Nell’Europa dei Lumi le donne che avevano accesso alla cultura scritta erano un’esigua minoranza, ma già i contemporanei percepirono chiaramente che erano più numerose che in passato. I Giornali eruditi, nati con lo scopo di informare i letterati sulle novità librarie divennero, nella seconda metà del secolo, « giornali d’opinione che si rivolgevano a un pubblico più va 



























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2   Ivi, p. 319.   Ivi, p. 320.   Cfr. E. Sturmia, Tra Lumi e Rivoluzione : i giornali delle donne nell’Italia del Settecento, in Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, a cura di S. Franchini e S. Soldani, Milano, Franco Angeli, 2004. In particolare, 4   Ivi, p. 181. sul « Journal des Dames », p. 190, nota 29. 3







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sto e prendevano posizione in merito ai principali dibattiti del tempo ». 1 Negli anni Settanta e Ottanta mutarono struttura e contenuti anche le gazzette ; alle notizie di politica estere si aggiunsero quelle di politica interna, cronaca locale, recensioni di libri. L’intento non era più solamente quello di raggiungere una ristretta cerchia di uomini politici, funzionari e diplomatici. Già Cesare Beccaria, dalle pagine de « Il Caffè », 2 si augurava che i giornali raggiungessero anche il pubblico femminile, perché, educando le donne alla virtù, si sarebbe potuto influire sull’intera società, visto l’ascendente esercitato dal gentil sesso sugli uomini. Iniziarono ad essere sempre più numerose, dunque, le lettrici, anche se più rari, ma significativi, i casi di donne impegnate come pubbliciste. Fra queste, Elisabetta Caminer Turra, che collaborò prima a Venezia e poi a Vicenza con « L’Europa Letteraria » e il « Giornale Enciclopedico ». I primi periodici femminili comparvero nelle città dove si pubblicavano più giornali ; i centri più attivi furono infatti Venezia, Firenze e Milano. Anche il teatro conquistava spazio maggiore in pubblicazioni del genere ; il « Giornale delle Dame » fu pubblicato a Firenze a partire dal luglio 1781 fino al dicembre dello stesso anno. Alle lettrici veniva presentato un ampio ventaglio di temi e tra questi vi erano recensioni di spettacoli e riflessioni su una forma d’arte che poteva essere risorsa meravigliosa per lo spirito o, al contrario, un intrattenimento scandaloso. Tutto dipendeva non solo dagli autori (Goldoni e Metastasio fra i più apprezzati), « ma anche dall’atteggiamento del pubblico, che non doveva fare del teatro un luogo di incontri mondani oppure una scusa per prendere parte, dopo lo spettacolo, a feste da ballo destinata a “guastare il cuore” delle giovani che vi partecipavano ». 3 Come si vede, alcuni mutamenti nella condizione femminile avvenuti nel corso del Settecento hanno cambiato in parte anche l’orizzonte d’attesa della letteratura, individuando nel pubblico muliebre una fetta consistente di di lettori sempre più allargata e diversificata. L’editoria ha dovuto pertanto tenere in debito conto il profilarsi di questi cambiamenti nella struttura sociale ed alcuni generi letterari hanno tratto profitto proprio dall’allargamento della cerchia di lettura. Fra questi, il romanzo in primis rispecchiò in pieno l’ascesa del ceto borghese dal diciottesimo al diciannovesimo secolo, rivolgendosi ad una cerchia di lettori più vasta rispetto a quella dei fruitori di letteratura dei secoli passati e diventando uno dei generi più letti dalle donne che avessero avuto accesso a qualche grado d’istruzione. Parimenti, il teatro diventò una forma di spettacolo destinata ad un pubblico sempre più vasto e diversificato, e l’apertura delle sale a pagamento consentì a spettatori e spettatrici la fruizione di una forma d’arte confinata, nei due secoli precedenti, all’interno della cerchia elitaria delle corti principesche o nelle piazze dei Comici dell’Arte. Come illustrato in precedenza, l’editoria teatrale iniziò a crescere e la lettura di alcuni autori ad alto contenuto “morale” ad essere consigliata anche alle giovani che si affacciavano al mondo dell’istruzione. Da fruitrici a protagoniste, le donne italiane incontrarono comunque numerosi ostacoli ad affermarsi sulle scene, come autrici o interpreti. Il pregiudizio legato alla perdita di moralità nel comparire alla ribalta o in veste pubblica continuava a permanere in parte anche nel secolo dei Lumi. Sicuramente, alcune comiche dell’Arte avevano sdoganato, alla fine del Cinquecento, l’immagine dell’honesta meretrix che accompagnava, da almeno un secolo, la donna sul palcoscenico. Isabella Andreini 4 e sua nuora, Virginia Ramponi, erano riuscite ad auto-rappresentarsi in una forma che consentiva loro di assumere i più vari ruoli sulla scena, man 



























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  Ivi, p. 183.   C. Beccaria, De’ fogli periodici, « Il Caffè », 1765, t. ii, foglio 1, ora in Il Caffè, a cura di S. Romagnoli, Milano, 3   E. Sturmia, Tra Lumi e Rivoluzione, cit., p. 192. Feltrinelli, 1960, pp. 291-295. 4   Per una rassegna bibliografica aggiornata sull’argomento, cfr. A. Frattali, Tra le avventure dell’Arlecchino Martinelli e gli “scherzi” della Diva Isabella, « Ariel », xxi, 2-3, 2006, pp. 119-127. 2









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tenendo quello di mogli e madri esemplari nella vita. Straordinariamente colte e dotate di incredibili capacità mimetiche, esperte cantanti e musiciste, le due comiche affermarono lo statuto dell’attrice professionista, mettendo parzialmente a tacere le accuse d’immoralità indirizzate alla loro categoria. Anche se, al di fuori delle piazze dei comici, le interpreti femminili trovarono raramente spazio sulle scene pubbliche almeno sino alla metà del Settecento. Per questo motivo, le donne di spettacolo in età moderna « tesero in genere a stabilire una tensione feconda tra strategico ossequio dell’idea di decoro femminile dominante e sottaciuta tutela della propria capacità di auto-espressione artistica ». 1 Un indirizzo di ricerca nato in anni recenti in Italia sta prendendo in considerazione proprio gli strumenti che le teorie della costruzione culturale del maschile e del femminile possono offrire alle arti della scena. Questo filone parte dalla considerazione che « mentre la storia delle donne spingeva e spinge a recuperare soggetti e campi di spettacoli che il canone storiografico ha marginalizzato, l’interesse per le teorie del gender ha portato a rivisitazioni di carattere metodologico ed ermeneutico » 2 nelle discipline teatrologiche. In particolare, a partire dalle teorie del « gender come rappresentazione » di Teresa De Lauretis 3 e da quelle circa la natura performativa della femminilità e della mascolinità di Judith Butler, 4 « si è esplorato in vari modi il legame fra teatro e gender », ovvero « fra i dispositivi di simbolizzazione e incorporazione del personaggio dell’arte scenica e le modalità rappresentative o performative, fatte di citazioni e ripetizioni, lungo le quali si invera l’identità di genere ». 5 In quest’area di studi che interseca quelli teatrali col pensiero femminista e la storia delle donne, un’attenzione particolare è stata dedicata al metodo, ovvero a come si debba studiare la storia delle donne di palcoscenico, siano esse attrici, registe, cantanti, danzatrici o drammaturghe. L’indirizzo di tale ricerca di apertura interdisciplinare ha trovato comunque un punto fermo nella discipline storiche e nella metodologia degli studi storici ; 6 di qui sono nati numerosi lavori di ricostruzione biografica su artiste appartenenti ai vari secoli : da Francesca Caccini 7 a Virginia Ramponi, 8 da Giacinta Pezzana 9 a Edith Craig. 10 Ovvio che, col cambiare della condizione femminile nel contesto storico, cambiano necessariamente anche le modalità auto-rappresentative e performative delle artiste. Nel caso del Settecento, non sono molti gli studi di area italiana dedicati a ricostruzioni biografiche di donne di palcoscenico, perché, come detto in precedenza, la situazione femminile nell’età dei Lumi fu ancora molto legata all’ambiente domestico, con rare incursioni sulle scene. Tuttavia, nel corso del secolo, numerose personalità di cantanti e attrici iniziarono progressivamente ad affermarsi, alimentando il fenomeno nascente del divismo. In questa sede, l’attenzione sarà però rivolta principalmente alle autrici drammatiche, dunque alle letterate, con alcuni sconfinamenti nel campo della performatività domestica e della recitazione dilettantesca all’interno del contesto del salon. In effetti, nonostante nell’Italia settecentesca le ortodossie e le gerarchie di genere fossero effettivamente entrate in crisi,  























1   A. Cecconi, R. Gandolfi, Presentazione : due giornate di studio a Roma, in Teatro e « Gender » : l’approccio biogra2   Ivi, p. 329. fico, « Teatro e Storia », xxi, 28, 2007, Roma, Bulzoni, p. 332. 3   T. De Lauretis, a cura di, Feminist studies : Critical studies, Londra, MacMillan, 1994. 4   J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, Milano, Feltrinelli, 1996 [ed. orig. 1993]. 5   A. Cecconi, R. Gandolfi, Presentazione, cit., p. 329. 6   La Società Italiana delle Storiche ha promosso l’iniziativa delle giornate di studio dal titolo generale Teatro e « gender » : l’approccio biografico, svolte presso l’Università di Roma Tre nel febbraio 2007 che hanno dato luogo alla pubblicazione del dossier omonimo sulla rivista « Teatro e storia » più volte citato in questa sede. 7   S. G. Cusick, Francesca Caccini, Musica (1587-c1646), University of Chicago Press, in corso di stampa. 8   Cfr. E. Wilbourne, « Verginia Andreini, detta Florinda », tra soggettività biografica e soggettività rappresentata, in Teatro e « Gender », cit., pp. 394-406. 9   L. Mariani, L’attrice del cuore. Storia di Giacinta Pezzana attraverso le lettere, Firenze, Le Lettere, 2005. 10   R. Gandolfi, La prima regista. Edith Craig fra cultura delle donne e rivoluzioni della scena, Roma, Bulzoni, 2003.  











   













   

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« la nicchia delle opportunità per le donne aperta dalla crisi della famiglia patrilineare e dalla nuova sociabilità aristocratica si sarebbe rivelata transitoria e limitata ». 1 Agli occhi dei visitatori stranieri la crisi della famiglia patriarcale italiana nel diciottesimo secolo era infatti già ben evidente. Numerose sono le descrizioni delle peculiarità famigliari in Italia : su tutte, la presenza dei cicisbei e dei cavalier serventi, che accompagnavano le dame nelle occasioni mondane. Il fenomeno aveva ascendenza francese, ma nel nostro paese veniva a scardinare una struttura famigliare in cui l’ordine era tradizionalmente mantenuto dalla donna nel ruolo di custode del focolare domestico. Un’altra particolarità italica del tempo sembrava legata alla nuova sociabilità aristocratica proveniente sempre dalla Francia ; si trattava del conferimento dei titoli dottorali ad alcune rappresentanti del gentil sesso, fra cui spiccava il nome della bolognese Laura Bassi, nel 1732, nota come maestra di Lazzaro Spallanzani. Altro segno che « la nuova possibilità per le donne di accedere alla vita intellettuale e accademica era dovuta alla diffusione in Italia della cultura aristocratica dei salons, e ai legami fra questa nuova cultura e i nuovi sviluppi scientifici ». 2  











i. 3. L’educazione femminile nel Settecento Nel diciottesimo secolo l’educazione diventò un soggetto di riflessione alla moda, vista la profonda fiducia dei philosophes in una pedagogia capace, a loro avviso, « di plasmare un essere sociale nuovo, spoglio dei vecchi pregiudizi e rivestito di nuova razionalità ». 3 Riformatori cattolici e pensatori dei Lumi si trovarono d’accordo : le madri degli uomini “nuovi”, essendone anche le prime educatrici, dovevano ricevere un’istruzione più consistente. Così, ancor prima che si aprisse un effettivo dibattito, l’abate di Saint Pierre nel suo Projet pour perfectionner l’éducation des filles, del 1730, aveva avanzato proposte innovative. L’idea era quella di istituire il “Bureau perpetue d’éducation publique”, vero e proprio Ministero della Pubblica Istruzione ante litteram, che sovraintendesse una rete di collegi per ragazze e ragazzi. Inoltre, il programma d’insegnamento avrebbe toccato tutte le scienze e tutte le arti per permettere alle fanciulle di sostenere adeguatamente la conversazione maschile. A partire dal 1760 il problema educativo, femminile e maschile, iniziò ad impegnare le coscienze illuminate tanto che, fra il 1715 e il 1759, vennero pubblicate 51 opere concernenti l’educazione, mentre, fra il 1760 e il 1790, ne vennero date alle stampe ben 161. Inoltre, nel 1762, due eventi stimolarono in profondità la riflessione sull’argomento : la pubblicazione dell’Emile di Rousseau e l’espulsione dei Gesuiti dalla Francia. L’ordine aveva infatti una rete ben funzionante di collegi sul suolo francese e la loro cacciata creò un vuoto da colmare al più presto. Stesse considerazioni si possono estendere alla Milano austriaca che, a causa della politica anticuriale di Kaunitz, vide diminuire notevolmente l’incidenza dei collegi gesuitici nel capoluogo lombardo, a partire dalla metà del Settecento. Nel contesto generale di dibattito pedagogico, l’educazione femminile venne dunque alla ribalta, concentrandosi, in prima battuta, sul luogo in cui questa doveva essere impartita e, in seconda, sulla scelta degli insegnanti e delle nozioni da trasmettere. Punto fondante delle argomentazioni fu la critica al convento, dove le fanciulle, sacrificate e prive di aria pura, non potevano certamente apprendere debitamente dalle monache, estranee alla vita coniugale, buoni rudimenti per il loro futuro di spose e madri. Ben inteso, infatti, che il Settecento, pur essendo secolo cautamente favorevole alle donne, non ne mise mai sostanzialmente  







1   G. Pomata, La storia moderna, in A che punto è la storia delle donne in Italia, a cura di A. Rossi-Doria, Roma, 2   Ibidem. Viella, 2003, p. 55. 3   M. Sonnet, L’educazione di una giovane, in Storia delle donne in Occidente, cit., Roma-Bari, Laterza, 1991, vol. iii, p. 126.

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in discussione il tradizionale ruolo domestico. Pertanto l’obiettivo dei più era impartire un’educazione-tutela con la quale gli uomini modellassero le donne secondo valori da essi fissati : l’obbedienza e la maternità su tutti. 1 Per tali motivi, il luogo privilegiato per un’educazione finalizzata quasi esclusivamente all’orizzonte domestico fu sicuramente la casa. Rousseau, col suo Emile, fu infatti assunto come punto di riferimento per quanti caldeggiavano l’istruzione privata, a dispetto delle già illuminate idee quintilianee sui difetti dell’educazione indoor. A quest’ultima si prospettarono però alcune alternative fuori dalle mura come la scuola primaria e la pensione laica ; di fatto la scuola femminile nacque per combattere la promiscuità che tendeva ad instaurarsi in quella maschile. Dato che era impensabile che fratelli e sorelle si sedessero agli stessi banchi per apprendere le stesse nozioni, « ecco moltiplicarsi e differenziarsi progressivamente i luoghi destinati all’educazione dei giovani ». 2 In questo modo, le condanne moralistiche della Chiesa contro la mescolanza dei sessi accelerarono l’apertura di scuole esplicitamente destinate all’educazione delle fanciulle. In primo luogo, la rivalutazione pedagogica del monastero fu il risultato delle istanze controriformistiche, che puntarono sull’effettiva necessità di istruire il gentil sesso, per renderlo meno frivolo e pigro. Gli istituti pionieri in questo settore per espansione geografica e precocità furono quelli delle Orsoline, che, fondati a Brescia da Angela Merici, nel 1535, si diffusero notevolmente in Francia tra il xvii e il xviii secolo. A tal punto che, alla vigilia della Rivoluzione, la congregazione contava « proprie sedi in 3000 città, con una particolare densità nelle valli del Rodano e della Saône, in Bretagna e nel Sud-Ovest ». 3 Tuttavia, il convento non fu l’unica risorsa offerta alle famiglie che preferirono l’internato in un collegio rispetto all’educazione domestica. Già a partire dalla seconda metà del Seicento in Gran Bretagna si formarono le boarding schools, imprese commerciali private e indipendenti fra loro ; mentre in Francia le maisons d’éucation risposero ad un’esigenza avvertita solamente verso metà del xviii secolo. Le pensioni private proponevano infatti « un sistema più simile al modello familiare e più attento ai nuovi valori emergenti come l’igiene, la natura o la vita privata ». 4 Nel Settecento, alcune boarding schools inserirono nei loro programmi d’insegnamento le lingue antiche e moderne, le scienze naturali, l’aritmetica, l’astronomia, la storia e la geografia. Tra queste, a Chelsea, la rinomata Abbey House School, alla fine del secolo, contò fra le sue sessanta ospiti anche Jane Austen. Visti gli elevati costi dei collegi, fu comunque la scuola primaria ad assorbire il maggior numero di allievi, gratuita o meno, situata in città o in campagna. Pertanto, l’istruzione elementare, sia maschile che femminile, riguardò la fascia più estesa della popolazione scolastica. La scuola primaria a pagamento era frequentata in prevalenza da figli di piccoli commercianti, che avevano maggiori necessità di imparare a leggere e far di conto per entrare nel mondo del lavoro. Ma, dietro l’impulso controriformistico, già a partire dal 1650, erano nate le scuole gratuite dovute soprattutto all’iniziativa dei curati e delle organizzazioni benefiche parrocchiali che li affiancavano. Per questo, nelle città come Parigi, la rete scolastica femminile si fece più fitta proprio giovandosi di tali apporti. In campagna, le spese di mante 

















1   Cfr. L. Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento. Aspetti e problemi, Torino, Tirrenia, 1987. Lo studio analizza attentamente gli aspetti principali della trattatistica sulla donna fiorita nel corso del Settecento. In particolare, l’autore prende in esame l’esistenza di un “altro Settecento”, quello cioè che si richiama al cattolicesimo e alla sua quantità di prediche, opere teologiche, trattati di morale, manuali per confessori, scritti apologetici che continuano a fiorire nel corso del secolo. Così, nonostante i rapporti talvolta antagonistici, dal discorso emerge come gli illuministi si fossero mantenuti in realtà in rapporto di contiguità e scambio con l’altro volto del diciottesimo secolo : « e forse, a proposito della donna, le loro posizioni non furono così avanzate come quelle da 2   M. Sonnet, L’educazione di una giovane, cit., p. 130. essi assunte in altri campi », p. 27. 3 4   Ivi, p. 135.   Ivi, p. 137.  





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nimento di una scuola non potevano duplicare i loro costi per aprire una sezione femminile e di solito si ricorreva alla soluzione mista. Se, al contrario, esisteva una scuola femminile, la comunità rurale non si accollava comunque la spesa di assumere un insegnante laico (come accadeva per quella maschile) almeno sino al 1750 e ci si collegava generalmente a congregazioni religiose di livello nazionale e regionale. Il prototipo : la congregazione delle Figlie della Carità, fondata da Vincenzo de’ Paoli nel 1633 a Parigi. Dato il poco tempo che le allieve trascorrevano effettivamente sui banchi (due o tre anni al massimo), il sapere concesso alle fanciulle non migliorò sostanzialmente dal punto di vista qualitativo, pur aumentando dal punto di vista quantitativo. Soltanto l’educazione famigliare, se organizzata in modo oculato, poteva garantire un livello di cultura comparabile a quella impartita dal collegio ai ragazzi. Per questo, molte donne che si distinsero per attività intellettuali ed artistiche nel corso del Settecento avevano ricevuto un’educazione domestica seguendo, insieme ai fratelli e col permesso di genitori “illuminati”, le lezioni impartite in casa da precettori privati. E, come vedremo nel dettaglio più avanti, ci furono casi di fanciulle erudite anche nel ceto borghese, visto che le nobili, aspirando ad un matrimonio di lignaggio, spesso apprendevano in maniera discontinua, entrando e uscendo dal collegio secondo i piani famigliari. Non così alcune pupille della media borghesia talvolta oggetto delle cure didattiche e pedagogiche di padri particolarmente attenti alla loro educazione. Dal punto di vista dei programmi di studio, di frequente i collegi includevano una strettissima serie di uffici religiosi che impegnavano le allieve per gran parte dell’orario scolare ; le competenze di lettura, infatti, erano frequentemente ritenute funzionali alla comprensione delle Sacre Scritture e delle preghiere. La scrittura corrispondeva solo ad un secondo momento della scolarizzazione al quale non tutte le ragazze avevano l’occasione di accedere. Inoltre, serpeggiava il timore di impartire alle fanciulle conoscenze superflue che potessero in qualche modo intaccare la loro formazione di future mogli obbedienti ; pertanto, l’istruzione religiosa era di gran lunga l’insegnamento più generosamente elargito. Tuttavia, quando la salvezza spirituale e morale delle allieve passava attraverso un lavoro che offrisse loro la capacità di mantenersi, la questione cambiava sostanzialmente e l’educazione delle giovani puntava soprattutto sull’amore per l’operosità, insegnando loro anche piccoli mestieri manuali. In questa direzione si orientarono le scuole primarie gratuite, ma anche i conventi iniziarono a diversificare il ventaglio di insegnamenti pratici. Quando le allieve erano destinate alle nozze borghesi, l’internato si prestava egregiamente, infatti, « all’apprendimento dei compiti di direzione di una grande dimora, divenendone quasi un laboratorio di prova ». 1 Così « mentre le allieve delle scuole di beneficenza si piegavano alla loro futura condizione di operaie, quelle dei pensionati conventuali » si ammantavano « di una veste di padrona ». I genitori aggiungevano alle spese di collegio degli “extra” per pagare maestri esterni, spesso organizzando veri e propri programmi à la carte : agli insegnamenti tradizionali si affiancavano lezioni di disegno, musica e danza. A tutto questo si aggiunsero le prove degli spettacoli teatrali regolarmente messi in scena dalle allieve. Dopo aver riscosso un grande successo a Saint Cyr, Athalie di Racine passò infatti nel repertorio di molti pensionati femminili. Al primo posto furono tenute in considerazione ovunque le arti dilettevoli, la musica in primis. Per alcuni musicisti gli internati conventuali rappresentarono vere e proprie rendite e vi dedicarono una gran parte della loro produzione componendo raccolte apposite di brani. Il fenomeno era esteso anche in Italia, se pensiamo al repertorio per violino e alle cantate per voce e basso continuo scritte da Antonio Vivaldi per le “putte” del conservatorio della Pietà di Venezia, dove insegnò fino al 1739.  



















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  Ivi, p. 150.

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Considerato l’ampio e multiforme dibattito che si sviluppò nel Settecento intorno agli studi femminili, 1 non stupisce dunque il considerevole aumento di artiste e poetesse rispetto al passato, aumento testimoniato anche dalle numerose presenze femminili in Arcadia. 2 Come detto, non mancarono le laureate ; 3 abbiamo ricordato Laura Bassi a Bologna, ma ritorneremo più volte su Maria Gaetana Agnesi, bambina prodigio e matematica di fama e su Elisabetta Caminer Turra, prima pubblicista italiana. Ma il dibattito sull’opportunità o meno degli studi muliebri si restrinse alle sole classi nobiliare e alto-borghese, poiché diviene difficile, allo stato degli studi attuali, azzardare ipotesi sull’effettiva istruzione delle donne appartenenti alla piccola e media borghesia. Tuttavia, negli ultimi decenni del secolo, si pose il problema dell’istruzione elementare generalizzata, « problema che portò tra l’altro, nella Lombardia austriaca degli anni ottanta, a riforme scolastiche nell’ambito delle quali furono aperte, anche se con risultati modesti, scuole femminili ». 4 In ambiente milanese, l’abate Pierdomenico Soresi, 5 nativo di Mondovì, ma vissuto quasi sempre nel capoluogo lombardo, membro dell’Accademia de’ Trasformati, aveva pubblicato, già nel 1774, un Saggio sopra la necessità e la facilità di ammaestrare le fanciulle. Nello scritto si sottolineava il fatto che gli studi, anziché indebolire nelle donne la consapevolezza dei propri doveri, ne rafforzassero la convinzione. Vero è che in tal modo si ribadiva il ruolo subalterno e domestico del gentil sesso, ma intanto s’incoraggiava quest’ultimo a studiare e si riteneva utile e benefica la sua partecipazione alle conversazioni, condannandone la segregazione. Restando in ambiente milanese, Giuseppe Parini dedicò un’ode, La laurea, alla dottorazione in giurisprudenza di Maria Pellegrina Amoretti, 6 giovane nobildonna ligure insignita dall’Università di Pavia per le sue doti di studiosa. Si trattò di un episodio « che rimase famoso per essere stato cantato dal gran poeta, e che in questo modo consacrava anche uffi 







1   Sull’argomento cfr. anche A. M. Rao, Il sapere velato. L’educazione delle donne nel dibattito italiano di fine Settecento, in Misoginia, a cura di A. Milano, Roma, Dehoniane, 1992, pp. 243-310. 2   Cfr. E. Graziosi, Presenze femminili : fuori e dentro l’Arcadia, in Salotti e ruolo femminile in Italia, cit., pp. 67-96. 3   Sulle donne laureate cfr. G. Natali, Il Settecento, parte i, Milano, Vallardi, 1955, pp. 166-167 : « Venendo a parlare delle donne scienziate ed erudite comincio con le professoresse di Bologna. Com’è noto, il Senato di Bologna più volte usò il privilegio, che aveva quella Università, di ammettere donne all’insegnamento. Laura Maria Bassi, bolognese originaria di Scandiano (1711-1778), laureatasi nel ’32, sostenne pubbliche tesi di filosofia alla presenza di cardinali e de’ più illustri scienziati di Bologna. Fu professoressa di filosofia, prima, e poi, dal 76, di fisica sino alla morte. Le fece onore un discepolo quale Lazzaro Spallanzani. F. M. Zanotti, nel t. ii dei Commentarii dell’Istituto di Bologna, descrisse alcune esperienze e scoperte di Laura Bassi nella fisica : ma di lei non ci restano per le stampe che alcuni componimenti poetici (due sonetti nella raccolta del Gobbi) ». 4   L. Guerci, La sposa obbediente. Donna e matrimonio nella discussione dell’Italia del Settecento, Torino, Tirrenia, 1998, p. 236. 5   Drammaturgo di un certo peso, soprattutto per la sua produzione di libretti per musica. Cfr. C. A. Vianello, La giovinezza di Parini, Verri e Beccaria, cit., pp. 259-260 ; Idem, Il Settecento milanese, cit., p. 197. Sulla sua dissertazione Dell’educazione del popolo minuto (1775), cfr. F. Venturi, Settecento Riformatore, vol. v, t. i, cit., pp. 787-790. 6   G. Natali, Il Settecento, cit., pp. 167-168 : « La laurea più famosa di tutto il Settecento fu quella cantata dal Parini. Maria Pellegrina Amoretti di Oneglia (1756-1786), che a dodici anni parlava le due lingue classiche e argomentava di metafisica in pubbliche discussioni, fu laureata a Pavia nel 77, in ragion civile, come allora si diceva, con la solennità che il novo spettacolo richiedeva. La mattina del 25 giugno, la candidata, occhiazzurra come Minerva, d’alta statura e di volto grazioso, in abito di corte, giubboncino, gran guardinfante e strascico di seta nera, guernito di fini pizzi, e con aria modesta, fu condotta in carrozza all’Università ; e, accompagnata da tutti i professori e dottori, si avviò alla Chiesa del Gesù, prescelta per dar luogo ai numerosi spettatori. Nelle logge erano riguardevoli personaggi e uomini illustri di lettere e di scienze : tra gli altri, il conte di Firmian e il cardinal Durini. La sua voce era un incanto : svolse la tesi tra applausi incessanti. Fu approvata per acclamazione ; e, dopo un discorso encomiastico, il rettore le porse le insegne del nuovo grado : i libri aperti e subito rinchiusi e l’anello d’oro, poi doni dell’Università : una corona d’alloro e una sciarpa, che le matrine le acconciarono al petto, e che portava ricamato in oro e a colori, sur un fondo di raso cremisino, lo stemma dello Studio di Pavia […] Morta a soli trent’anni, logorata dal soverchio lavoro, Maria Pellegrina lasciò un libro sul diritto delle doti, pubblicato dal suo cognato e amico Carlo Amoretti (De jure dotium apud Romanos, Milano, Galeazzi, 1788) ».  





























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cialmente l’entrata della cultura accademica nel mondo femminile », 1 fenomeno, come vedremo, prettamente settecentesco. Poiché Parini innalzava un vero e proprio inno alle doti intellettuali femminili, gli fu giustamente attribuita la definizione di « grande glorificatore della donna e difensore dei suoi diritti ». 2 Ed in effetti, il poeta scelse come amate o amanti, vere o presunte, donne di riconosciute qualità intellettuali o artistiche, alcune già ricordate in precedenza come animatrici di salotti d’eccezione o artiste di fama. Oltre alla letterata veronese Silvia Curtoni Verza, figurano, infatti, tra le dedicatarie di componimenti o lettere : la cantante romana Caterina Gabrielli, la ballerina Vittoria Pelusini, la contessa Castelbarco Simonetta, Cecilia Tron e Teresa Mussi. Parini manifestò inoltre ammirazione e deferenza per la poetessa improvvisatrice lucchese Teresa Bandettini Landucci, ma soprattutto per Elisabetta Caminer Turra, di cui lodò la bellezza e l’intelletto nell’ode La Magistratura del 1788. 3 Come si vede, si tratta in gran parte dell’intellighentia femminile del xviii secolo. Così, se da un lato il mondo femminile, nel corso del Settecento, si apriva e si svelava gradatamente all’occhio dell’uomo, dall’altro esso si avvicinava ad una serie di tematiche che fino a quel momento erano state di stretto appannaggio maschile. Fra queste, sicuramente la “nuova scienza” di Cartesio, Galileo e Newton che, sin dal 1737 si accostava al mondo muliebre attraverso la pubblicazione, da parte di Francesco Algarotti, del Newtonianismo, appunto, dedicato “alle dame”. Attraverso questi “assaggi” nacquero, infatti, più vocazioni, se consideriamo che Maria Gaetana Agnesi, prima grande matematica di tutti i tempi, con il suo manuale Istituzioni analitiche ad uso della gioventù italiana (1748), « raggiunse una fama a livello europeo » e già in tenera età « fu detta “oracolo setti lingue” e “sosteneva in latino dinanzi ai dotti tesi scientifiche” ». 4 Fatto innegabile, dunque, che le donne avessero un accesso più ampio e articolato alla cultura in generale nel diciottesimo secolo rispetto alle epoche precedenti. Certamente spesso si trattava di studi non sistematici e superficiali, riflesso di uno stato di cose « determinato soprattutto dai modi di diffusione di quella cultura (conversazioni nei salotti e alle toilettes, occhiate distratte alle ultime novità letterarie, esperimenti scientifici fatti più col gusto del gioco che con la serietà dovuta all’occasione) ». 5 Innegabile è comunque il progresso rispetto al passato in cui ci si accontentava che le donne sapessero leggere e scrivere, danzare e suonare, dedicandosi in ogni caso ai lavori domestici. Il cambiamento dei tempi era avvertito anche dagli intellettuali dell’epoca, fra cui Gasparo Gozzi, che non si può certo considerare un “femminista”, visti i turbinosi rapporti con la moglie letterata e drammaturga Luisa Bergalli. Il conte riconosceva infatti « l’importanza di un certo grado d’istruzione per le donne nella misura in cui esse erano uscite dal ristretto ambito familiare per entrare in un consorzio sociale allargato ». 6 Prendendo atto dello stato delle cose, Gozzi sentenziava dalle pagine della « Gazzetta Veneta » :  





























[…] Si cambiano di tempo in tempo i costumi degli uomini, come le fogge del vestire si mutano ; e siccome una volta le femmine solevano di rado uscire di casa e non v’avea conversazione comune fra uomini e donne, oggidì richiede l’usanza che spesso in compagnia si ritrovino, e si facciano altri ragionamenti che di un bucato, di telerie, o d’altri affari appartenenti alle masserizie di una famiglia. È dunque di necessità che le donne ancora acquistino qualche lume di dottrina, il quale serva a far sì che, trovandosi esse dove si ragiona di cose intellettive, non paiano cadute dalle nuvole, non sbadiglino, non sembrino morire di noia, o non aprano mai bocca. 7  

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  M. G. Melchionda, Il mondo muliebre nel Settecento, Venezia, Marsilio, 2000, p. 143.   G. Natali, La mente e l’anima di Giuseppe Parini, Modena, Vincenzi, 1900, p. 120. 3   Cfr. L. Ricaldone, Le donne in Parini, in L’amabil rito : società e cultura nella Milano di Parini, a cura di G. Barbarisi, C. Capra, F. Degrada, F. Mazzocca, Milano, Cisalpino, 2000, vol. i, pp. 187-203. 4   M. G. Melchionda, Il mondo muliebre nel Settecento, cit., p. 155. 5 6   Ivi, p. 156.   Ibidem. 7   Cfr. G. Gozzi, Risposta alla madre che domanda in qual modo debba allevare la sua figliuola, « Gazzetta Veneta », lxxxv, a cura di A. Zardo, Firenze, Sansoni, 1957, pp. 361-362. 2







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L’istruzione da impartire alle donne appariva, ancora una volta, finalizzata al piacere maschile, anche se varie furono le posizioni in merito all’argomento assunte dagli intellettuali del secolo. Fra le posizioni moderate, è opportuno segnalare quella di Gian Vincenzo Gravina, che nel suo Regolamento degli studi di nobile e valorosa donna 1 ammetteva lo studio delle discipline umanistiche, ma non quello delle scienze naturali. E l’argomento si manteneva vivo anche all’interno delle Accademie, come dimostra la proposta nel 1723 di Antonio Vallisneri, principe dell’Accademia dei Ricovrati di Padova : Se le donne si debbano ammettere allo studio delle scienze, e delle arti nobili. In questo dibattito intervennero almeno due rappresentanti del mondo intellettuale femminile ; la senese Aretafila Savini de’ Rossi, 2 già ricordata in precedenza a questo proposito, sosteneva, infatti, che le donne d’ingegno dovessero studiare indipendentemente dalla classe sociale di provenienza, in virtù del fatto che gli studi avrebbero migliorato l’adempimento dei doveri verso la famiglia. Nella stessa disputa intervenne anche Maria Gaetana Agnesi, inviando un’orazione in latino 3 che aveva già recitato all’età di soli nove anni in casa di suo padre. Più avanti nel secolo, Diamante Medaglia Faini intervenne sull’argomento nell’Accademia degli Unanimi di Salò con un’Orazione in cui sosteneva che ci fosse, « “tra i moltissimi vantaggi” che la donna traeva dalle “filosofiche esercitazioni”, l’imparare “quanto spetta al civile governo del picciolo regno suo ». 4 Le donne, dunque, « non si limitavano ad essere oggetto delle riflessioni altrui, ma tendevano nei limiti del possibile ad entrare direttamente nel vivo delle discussioni che in fondo le riguardavano in prima persona ». 5 L’Accademia, luogo dove nel Settecento si riceveva la consacrazione letteraria e la cultura era legittimata, fu sicuramente l’ambiente privilegiato per favorire l’accoglienza delle donne nell’empireo delle lettere e delle scienze. A tale proposito, alcuni studi recenti 6 si sono concentrati sulle presenze femminili in Arcadia, istituzione fondante del mondo della cultura nel diciottesimo secolo. Nata da una conversazione privata, la prima riunione informale fu capace, infatti, « di trasformarsi in accademia, per diramarsi poi in una serie di salotti, secondo un modello liberamente aggregativo che i collegamenti con le colonie esportarono un po’ ovunque in tutta Italia, costituendo una rete ». 7 Accanto all’istituzione accademica provvista di diplomi, gerarchie e statuti, maturò un’Arcadia concepita come salotto liberamente frequentato e fu questa capacità che permise alle donne di entrarvi. Si può dire che l’Arcadia ebbe una duplice anima, l’accademia-accademia e l’accademia-salotto e fu un segno del mutamento dei tempi « lungo un secolo che vide infittirsi la partecipazione femminile alla vita socievole e le donne uscire dai recinti per entrare in territori più sfrangiati e miscelli ». 8 Le prime aggregazioni femminili risalgono alla fine del Seicento ed ebbero soprattutto un carattere di rappresentatività, ovvero di onorificenza concessa per ragioni diplomatiche  



















1   Della ragion poetica libri due di Gio. Vincenzo Gravina con il Regolamento degli studi di nobile e valorosa donna, Venezia, Alvisopoli, 1829. 2   Apologia in favore degli studi delle donne, contra il precedente discorso del signor Gio. Antonio Volpi, scritta dalla signora Aretafila Savini de’ Rossi, dama senese, ad un cavaliere, in Discorsi accademici di varj autori viventi intorno agli studj delle donne ; la maggior parte recitati all’Accademia de’ Ricovrati di Padova, Padova, Stamperia del Seminario presso Giovanni Manfré, 1729, p. 55. Sull’intero dibattito, più nel dettaglio, cfr. L. Guerci, La sposa obbediente, cit., pp. 245-246. 3   Oratio qua ostenditur : artium liberalium studia a femineo sexu neutiquam abhorrere. Habita a maria de Agnesis suae nono non dum exacto die augusti 1727, Milano, Giuseppe Richino Malatesta, 1727. 4   L. Guerci, La sposa obbediente, cit., p. 247. 5   M. G. Melchionda, Il mondo muliebre nel Settecento, cit., p. 160. 6   E. Graziosi, Presenze femminili : fuori e dentro l’Arcadia, cit., ma cfr. Idem, Revisiting Arcadia. Women and Academies in eighteenth-century Italy, in Italys eighteenth century : gender and culture in the age of the Grand Tour, a cura di P. Findlen, W. Wassyng Roworth, C. M. Sama, Standford, Stanford University Press, 2009. 7 8   E. Graziosi, Presenze femminili : fuori e dentro l’Arcadia, cit., p. 67.   Ivi, p. 68.  









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e parentali. Tuttavia, attraverso le conversazioni informali, che andarono moltiplicandosi agli inizi del Settecento, le donne avevano assunto il riconosciuto ruolo di padrone di casa e di registe e coordinatrici della fitta rete di rapporti sociali che si era creata nei loro salotti. A questo si aggiunse il diffondersi dei costumi “alla francese”, che erano penetrati in Italia in quegli anni, specialmente a Milano, Napoli, Genova e Bologna. A Venezia, dove i salotti ebbero tanta parte nella seconda metà del secolo, la prima pastorella d’Arcadia, Felicita Tassis, fu insignita relativamente tardi, cioè nel 1704. Curiosamente, la città che più vide il fenomeno del salon in espansione tra il xviii e xix secolo non fu tra le prime ad annoverare pastorelle in Accademia. Nonostante ciò, anche se in ritardo di almeno un ventennio rispetto a Roma, « l’ambiente veneziano doveva poi offrire al riscatto femminile arcadico un pedagogo d’eccezione come Apostolo Zeno, una pupilla d’eccezione come la Bergalli e una serie di salotti letterari d’impronta arcadica ». 1 Nel 1700 il custode generale d’Arcadia decise di sancire per uomini e donne un’età minima (ventiquattro anni) e la nobiltà dei costumi come condizioni d’accesso, ma agli uomini era prescritto di essere conosciuti come eruditi in almeno una delle scienze principali, mentre alle donne era richiesto di professare in quel momento la poesia ; una richiesta più alta dunque. L’Accademia mirava tuttavia « non tanto alla secentesca e isolata eccezione, bensì a un’élite femminile capace di maneggiare gli strumenti della socializzazione ». 2 Nei salotti d’Arcadia si conversava, oltre ad ascoltare musica e a recitare testi propri e altrui e si praticavano giochi di parola che richiedevano una capacità di’improvvisazione. Per questo « l’accademia pretendeva non un diploma di poetessa, ma la destrezza nell’uso socializzato degli strumenti di comunicazione ». 3 In quegli anni si verificava inoltre un altro fenomeno di rilievo culturale e sociologico, la colonia romana promuoveva i coniugi Zappi e il loro salotto : un salotto borghese di un avvocato concistoriale di fama e di una donna dalla nascita irregolare e da poco legittimata dopo trascorsi sentimentali altrettanto discutibili. Pertanto, la vicinanza fra accademia e salotto si faceva garante anche dell’onestà e dei buoni costumi, gettandosi alle spalle una serie di scandali frutto di una vicenda seicentesca di sopraffazione nobiliare ; la Zappi era stata infatti sedotta in passato da un uomo di rango superiore al suo. L’accademia romana, « che con Crescimbeni aveva dato il manifesto letterario della nuova Arcadia dei salotti, con i coniugi Zappi aveva lanciato l’esempio e la pratica d’uso della conversazione galante ed erudita ». 4 A partire dal terzo decennio del secolo, tutta l’accademia divenne più indulgente nei confronti delle pastorelle da affiliare, secondo un dato di adeguamento sia alla più libera frequentazione dei sessi, sia ai costumi più liberi e disinvolti. A partire dall’abate genovese Carlo Innocenzo Frugoni, fondatore della colonia di Parma, si diffuse l’idea che l’onoreficenza non dovesse essere necessariamente legata ad una particolare abilità letteraria e nemmeno all’irreprensibilità dei costumi, ma solo al riconoscimento del successo di pubblico. Secondo Frugoni, il merito femminile per eccellenza era quello di piacere ad un pubblico di cui, ovviamente, gli uomini erano parte importante. Tuttavia, anche nella prima, più severa, Arcadia di Crescimbeni era precocemente entrata un’attrice : la ferrarese Elena Balletti Riccoboni (1715, Mirtinda Parraside) ammessa nella colonia veneziana degli Animosi. Era stata accolta per meriti letterari, sul precedente di Isabella Andreini, precoce e celebre esempio di Comica dell’Arte del secolo precedente, già ammessa nell’Accademia degli Intenti di Pavia, con il nome di Accesa. Con l’ammissione della ballerina Maria Rivière si giungeva poi a riconoscere anche l’eccellenza di un’arte non ver 























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  Ivi, p. 73.   Ibidem.

  Ivi, p. 74.   Ivi, p. 76.

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bale, trasformata in spettacolo ed applaudita da un pubblico cortigiano. Ma non fu sempre e comunque così evidente lo slittamento verso abilità non verbali che garantissero il successo. Certo è che una forte componente recitativa, improvvisativa e rappresentativa, potremmo dire performativa era presente, con alcuni limiti, sin dagli inizi dell’Arcadia. Le riunioni, infatti, toccavano la climax con la recita di poesie o testi drammatici e forse per questo motivo in molti salotti italiani si coltivò l’abitudine della rappresentazione accanto a quella della conversazione, rispondendo anche al cambiamento delle condizioni della socialità. A Bologna, nell’ambito della locale colonia Renia, le dame aristocratiche si esibivano frequentemente su palcoscenici dei palazzi cittadini, ottenendo anche l’apprezzamento di Carlo Goldoni. Il teatro di villa e di palazzo era un’occasione per le donne di accostarsi ad uomini di cultura per fruire dal vivo della letteratura, esponendosi sulla scena in una cerchia semi-privata. Talvolta « il travaso fra l’esperienza del salotto, quella del teatro e l’accademia era immediato, con un fenomeno di moderato divismo che si diffondeva per contagio fuori d’Arcadia, nei salotti aristocratici dove le dame recitavano per intrattenimento e per diletto »1. Un esempio di tale fenomeno, che analizzeremo nel dettaglio nel corso di questo studio, fu il gruppo coordinato dalla contessa Paolina Secco Suardo a Bergamo. Tra il 1774 e il 1776 la contessa, in Arcadia Lesbia Cidonia, dopo aver tenuto per alcuni anni un animato salotto di conversazione, riuscì ad organizzare una piccola filodrammatica di attori dilettanti. In quest’impresa l’intraprendente Lesbia si avvalse dell’aiuto del veronese Alessandro Carli, in quel momento uno fra i più aggiornati conoscitori di teatro in Italia. Negli stessi anni veniva acclamata e incoronata in Campidoglio l’improvvisatrice Maria Maddalena Morelli, in arte Corilla Olimpica, 2 cui venne concessa la nobiltà romana per meriti letterari, esempio di come la condizione di arcade, non più solamente sanzione di un’appartenenza ad alti ranghi, divenisse di fatto strumento di promozione sociale. Improvvisatrice, donna di spettacolo, poetessa di corte, Corilla rappresentò di fatto « il passaggio dall’Arcadia del Metastasio all’Arcadia filosofica e ispirata degli anni ottanta del secolo, promossa dal nuovo custode Pizzi ». 3 Sul piano del costume letterario, fu la prima a lanciare con successo l’immagine di professionista dell’improvvisazione legata al mondo della politica e della cultura militante. Sulla scia dunque della celebre attrice e performer d’improvvisazioni poetiche Isabella Andreini e lontana dalla figura della dama dilettante e salonnière, all’ombra di eruditi protettori. Pertanto, lo sfondo per questo nuovo tipo di poetessa « non era più il salotto letterario, con la sua idea di una letteratura legata all’intrattenimento di piccoli gruppi amicali, bensì un palcoscenico allargato, nelle intenzioni, a più città, dove si esibiva la poesia come spettacolo ». 4 Insieme e dopo di lei altre pastorelle imboccarono la medesima carriera, molte toscane, per la verità, tra cui si ricordano la già citata Teresa Bandettini e la livornese Fortunata Sulgher Fantastici. Per tutte loro l’inizio fu un salotto di provincia ma fu Roma il punto d’arrivo, corte d’Europa e gran teatro del mondo, facendo dell’improvvisazione una vera e propria professione.  











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  Ivi, p. 82.   Si tratta di uno pseudonimo, il suo vero nome fu Maddalena Maria Morelli ; nacque le 1728 a Pistoia da famiglia umile. Di particolare avvenenza e dotata di estro poetico non comune, fu fatta educare a Firenze dove fu poetessa della corte granducale dal 1765 al 1776 ; assistita da un ricco mecenate, fu condotta a Roma e nella capitale fu innalzata all’onore della doppia corona in Arcadia, dove sedette col nome di Corilla, ed in Campidoglio, nel 1776, col nome di Corilla Olimpica. Fu la più celebre improvvisatrice del secolo, ma a causa della salute malferma e di alcune vicende personali occorse in età avanzata morì a Firenze, ormai dimenticata dal suo pubblico. Cfr. G. Natali, Il Settecento, cit., pp. 157-158 ; G. Canonici Fiachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura, Venezia, Alvisopoli, 1824, p. 197 ; A. Ademollo, Corilla Olimpica, Firenze, C. Ademollo & C., 1887 ; S. Franchi, Prassi esecutiva e musicale e poesia estemporanea italiana : aspetti storici e tecnici, in Oralità, cultura, letteratura, discorso, a cura di B. Gentili e G. Paioni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, pp. 409-424 ; A. Di Ricco, L’inutile e meraviglioso mestiere. Poeti improvvisatori di fine Settecento, Milano, Franco Angeli, 1990. 3 4   E. Graziosi, Presenze femminili : fuori e dentro l’Arcadia, cit., p. 85.   Ivi, p. 86. 2

















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Tornando alla relazione osmotica fra salotto, teatro e accademia che si era instaurata nella seconda metà del secolo, altra esperienza significativa, ma a livello dilettantesco, fu quella veronese di Silvia Curtoni Verza. Sotto la guida dello stesso Alessandro Carli, che aveva dispensato consigli e manuali di recitazione per l’attività teatrale indoor della Secco Suardo, la Curtoni Verza aveva infatti trasformato il suo vivace salon nel trampolino di lancio di un gruppo di attori dilettanti. Anche nel salotto di Elisabetta Contarini Mosconi, frequentato da arcadi, si leggeva ad alta voce, si improvvisava e si recitava ; là convenivano Aurelio Bertola, Clementino Vannetti e Ippolito Pindemonte, già corrispondenti e frequentatori anche delle serate letterarie di Paolina, sia a Bergamo che nei soggiorni veronesi presso il cugino Girolamo Pompei. Concludendo, teatro e salotto, nel diciottesimo secolo, sembravano avere « le stesse radici in gruppi di elezione che tendevano a disseminarsi altrove, per ragioni di amicizia, di parentela o anche di rivalità e competizione, raggiungendo l’accademia » 1 e quindi Roma. Il caso dei circoli della Secco Suardo e della Curtoni Verza, non casualmente acerrime rivali. A volte, poteva succedere l’opposto, che da una città più vivace si esportassero altrove i costumi socievoli attraverso le politiche matrimoniali della classe aristocratica. Salotti e gruppi teatrali di città diverse incrementavano, così, confronti e rapporti attraverso le visite e i viaggi di un’aristocrazia che andava definendosi sovra regionale ed esterofila. I mediatori maschili della cultura erano spesso accademici, ma anche frequentatori di salotti, e per molte donne il salon costituiva dunque l’anticamera della celebrità e la consacrazione di un percorso educativo che aveva seguito vie spesso non convenzionali e tortuose.  





i. 4. I salons del lombardo-veneto : fra teatro e conversazione  

Se tracciamo un quadro generale delle presenze femminili di rilievo nel mondo culturale del nord-Italia del xviii secolo, può essere opportuno distinguere due aree geografiche di riferimento : quella lombarda e quella veneta. Si deve tener presente tuttavia che nel Settecento alcune città che attualmente sono in territorio lombardo si trovavano diversamente sotto l’influenza politica della Serenissima ed è il caso di Bergamo e Brescia. Vista la contiguità territoriale di queste due città con Milano, nonché la comune appartenenza alla regione Lombardia, si è deciso di inserire comunque questi due centri cittadini e le zone limitrofe sotto la stessa denominazione geografica. A partire da tale premessa e procedendo in ordine cronologico di apparizione nel contesto culturale ed artistico, una delle prime personalità di rilievo (che sarà anche oggetto di indagine specifica nel corso di questo studio) fu sicuramente quella di Francesca Manzoni. 2 Nata nel 1710 a Barzio 3 o a Milano, 4 la Manzoni, attestata come enfant prodige dai suoi biografi, era figlia di un notaio giureconsulto che possedeva una ricca biblioteca ed era particolarmente attento alla sua educazione. Fanciulla di origine borghese, dunque, e non destinata a matrimoni di alto lignaggio che prendessero il sopravvento sul suo percorso educativo, compromettendo una vocazione letteraria delineatasi sin dall’infanzia. Anche la sua permanenza in convento fu breve, poiché vi entrò solamente in età adulta, circa un anno prima del matrimonio con il conte Luigi Giusti, intellettuale veneto che aveva conosciuto nell’ambito di circoli letterari e accademie. Francesca Manzoni fu pastorella d’Arcadia a soli ventun anni e quando il gruppo mila 

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  Ivi, pp. 82-83.   Per una ricostruzione aggiornata della vita e dell’opera di questa scrittrice cfr. F. Strazzi, Francesca Manzoni : la poetessa dell’imperatrice, « Rivista di letteratura italiana », 3, 2005, pp. 143-154. 3   Lo sostiene G. Arrigoni, Francesca Manzoni Giusto, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo xviii di ogni provincia, a cura di E. De Tipaldo, Venezia, Alvisopoli, 1834-1841, p. 223. 4   F. Argelati, Biblioteca degli scrittori milanesi, ii, t. ii, Milano, Aedibus Palatinus, 1745, pp. 1783-1785. 2







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nese, che si riuniva nel giardino di Palazzo Pertusati, si sciolse, fu accettata nell’Accademia dei Filodossi. La sua fama di poetessa legata all’imperatrice Elisabetta Cristina di Brunswick Wolfenbuttel le permise l’affiliazione a diversi circoli letterari in tutta la penisola, anche se la morte precoce (avvenuta nel 1743, a soli trentatré anni) le impedì di essere tra i fondatori della rinata Accademia dei Trasformati. La Manzoni s’impose dunque nell’élite culturale del tempo come poetessa e drammaturga, mettendo in luce anche le sue qualità di musicista ; si distinse inoltre per alcune traduzioni in ambito teatrale e per un saggio di prosa agiografica. Autodidatta nello studio delle lingue classiche, la scrittrice coltivò il progetto giovanile di tradurre tutto il teatro euripideo ; progetto che non fu portato a termine, vista la brevità della sua vita, ma che alimentò un suo costante interesse per il teatro, testimoniato anche dalla composizione di una tragedia, Ester, pubblicata nel 1733. In seguito, la scrittura drammaturgica della Manzoni s’indirizzò decisamente verso le azioni sacre per musica, quattro delle quali furono composte per il teatro di Vienna e pubblicate dalla stamperia reale di Giovanni Pietro van Ghelen, riscuotendo l’interesse di Apostolo Zeno. Analogo percorso nell’ambito delle Accademie milanesi (l’Arcadia prima, i Filodossi poi) sembra che abbiano svolto anche le due sorelle Agnesi, Maria Gaetana e Maria Teresa. Provenienti dalla nobile e colta famiglia degli Agnesi di Montevecchia, le due fanciulle furono educate in casa, insieme ai fratelli maschi e alla terza sorella, Paola, e furono notate molto presto nei circuiti intellettuali della Milano del primo Settecento. La maggiore, Maria Gaetana, più volte ricordata nel corso di questo studio, si distinse precocemente come bambina prodigio per poi ottenere il riconoscimento dell’Accademia delle Scienze di Francia 1 per le sue Istituzioni Analitiche. Il suo nutrito epistolario contiene infatti numerose attestazioni di stima da parte di eruditi italiani ed europei, tra cui, degna di nota, è sicuramente una lettera della matematica Laura Bassi, già ricordata per i suoi meriti accademici conseguiti presso l’Ateneo bolognese. In una lettera datata 18 giugno 1749, 2 la Bassi si complimentava, infatti, per il trattato che aveva ricevuto in dono, testimoniando così la fitta rete di relazioni femminili che, nel corso del xviii secolo, attraverso i circuiti accademici ed eruditi, permetteva lo scambio di idee anche fra aree geograficamente distanti. La sorella minore di Maria Gaetana, Maria Teresa, si distinse nella musica, raggiungendo la fama come clavicembalista, cantante e librettista. Il viaggiatore francese Charles De Brosses, in visita a Milano, raccontava di aver visitato il salotto di casa Agnesi nel Luglio del 1739 e di essere rimasto impressionato dall’esibizione della giovinetta all’arpicordo, con alcuni pezzi di Rameau ed altri composti da lei stessa. Dopo aver debuttato con alcune opere al Teatro Ducale, Maria Teresa dedicò numerose raccolte di musica per tastiera e di arie all’omonima imperatrice asburgica. Sposata con Antonio Pinottini, ma senza figli, collaborò con un suo componimento drammatico per musica alle celebrazioni per il fidanzamento di Beatrice d’Este con l’arciduca Ferdinando, nel 1766.  



1   Il documento che attesta questo è conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano, all’interno dei venticinque volumi di miscellanee manoscritte relative a Maria Gaetana. La biblioteca raccoglie infatti l’intero fondo dedicato alla matematica milanese. 2   Biblioteca Ambrosiana, M. G. Agnesi, Ms, O. 201. Sup. ; si riporta qui la nostra trascrizione dall’originale : « Ricevei l’altro giorno per lo mezzo del nostro Sig. Benari il grazioso regalo d’un esemplare delle dottissime Istituzioni Algebriche, colle quali è piaciuto a Vostra Signoria Illustrissima d’arricchire non meno il Mondo letterato d’una compiuta, profonda ed utilissima opera che d’onorare in spezial maniera il sesso nostro, facendo in essa riflettere il singolar talento, onde è stata dal Sig. Iddio dotata e l’assidua cura e fatica indefessa con cui ha saputo coltivarlo, del che quantunque avesse sia date mille indubitate prove, questa però, che a perpetua memoria rimane, servirà meglio d’ogni altra a nostro particolar lustro, e decoro. Eccomi dunque a rendere con tutto l’animo divote grazie a voi Illustrissima per una tanta finezza, che si è degnata meco praticare, e che è stata da me incontrata con tale rispettoso aggradi mento, che non so bastevolmente esprimerle ».  







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Altra personalità di rilievo che si distinse per la partecipazione a varie Accademie settecentesche, fra cui l’Arcadia, gli Affidati di Pavia, i Filodossi e i Trasformati, fu Francesca de’ Buttinoni. 1 Nata a Treviglio nel 1712, si formò in un colto ed agiato ambiente famigliare, dove ebbe l’occasione di studiare privatamente con Gerolamo Barizzaldi, letterato e canonico trevigliese. Si trasferì con la famiglia a Milano nel 1740 e fu ammessa in Arcadia col nome di Filocara per le sue Rime raccolte nell’antologia del poeta dialettale Domenico Balestrieri, Lagrime in morte di un gatto. 2 Quest’opera, pubblicata nel 1741, raccolse componimenti diversi di accademici e poeti che si cimentarono a scrivere sulla morte del gatto del Balestrieri, per deridere la diffusa abitudine di comporre liriche per qualsiasi occasione. Accolsero lo spiritoso invito, fra gli altri, anche Francesca Manzoni ed il marito, Luigi Giusti. L’Accademia dei Trasformati favorì l’incontro tra Francesca Bicetti de’ Buttinoni e Giuseppe Maria Imbonati, fondatore dell’Accademia, incontro coronato dal matrimonio, nel 1754, e da ben otto figli. Uno di questi, Carlo, ebbe come precettore Giuseppe Parini, già legato alla famiglia di Francesca, visto che proprio il fratello medico di lei, Giammaria, era stato il dedicatario dell’ode pariniana L’innesto del vaiuolo. E con probabilità la Bicetti de’ Buttinoni 3 conobbe e frequentò le sorelle Agnesi e la Manzoni, ai tempi della comune affiliazione all’Accademia dei Filodossi. Nel contesto culturale milanese si distinse anche Clelia Del Grillo in Borromeo, 4 scienziata ed umanista ligure di nascita, trasferitasi nel capoluogo lombardo dopo il matrimonio. Figlia di un patrizio genovese devoto alla Spagna, giunse infatti a Milano nel 1707, a ventitré anni, a seguito del marito Giovanni Benedetto Borromeo, figlio del conte Cralo. I rapporti col suocero furono difficili sin dal primo momento, a causa del temperamento aperto e vivace della padrona di casa, che attirava molti stranieri e visitatori nel suo salotto. Il De Brosses, venuto a Milano nel 1739, visitò e descrisse nelle sue lettere il salotto di Clelia Borromeo (visitato, vent’anni dopo, e descritto dal Grosley) unitamente a quello di casa Agnesi, in cui filosofava, come detto, la giovinetta Maria Gaetana. Clelia era colta tanto da conoscere greco, latino, arabo, matematica e scienze naturali ed il suo palazzo divenne il convegno dei dotti e insieme il centro della riscossa contro l’Austria per ristabilire a Milano il governo spagnolo. Non era estranea infatti a finalità politiche filo1   Per un profilo della vita e delle opere cfr. F. S. Quadrio, Della Storia e della Ragione d’ogni poesia, Milano, Agnelli, 1739-’52, vol. iii, p. 66 ; P. Soresi, Saggio sopra la necessità e la facilità di ammaestrare le fanciulle, Milano, Agnelli, 1774 ; G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane, Venezia, Alvisopoli, 1824, p. 178 ; anonimo, Le donne più illustri del Regno Lombardo Veneto, Milano, Vallardi, 1828 ; Eroine, ispiratrici e donne d’eccezione, a cura di F. Orestano, in Enciclopedia Biografica e Bibliografica “Italiana”, Milano, Istituto Editoriale Italiano B. C. Tosi, 1940, serie vii, cit., p. 52 ; G. Seregni, La cultura milanese nel Settecento, in Storia di Milano, Fondazione Treccani, Milano, 1953-62, vol. xii, parte vii, p. 577 ; Dizionario biografico delle donne lombarde, a cura di R. Farina, Milano, Baldini e Castoldi, 1995, pp. 165-166. 2   D. Balestrieri, Lagrime in morte di un gatto, Milano, Marelli, 1741. Ora si legge anche con introduzione e note di A. Bellio, Azzate, Otto/Novecento, 1984. 3   G. Natali, Il Settecento, cit., p. 163 : « Di lei fanciulla già si recavano rime in esempio. Il Quadrio e il Mazzucchelli ; il Graziani e il Soresi la ricordavano tra le più illustri donne del loro tempo. Non ultima sua lode, aggiugeva il Soresi, “aver data la più virtuosa e nobile educazione a sette sue figliuole belle egualmente e ricolme di saviezza e d’ingegno” ». 4   Cfr. A. Giulini, Contributi alla biografia della contessa Clelia Borromeo Del Grillo, « Archivio Storico Lombardo », anno 46, 1919, pp. 583-592 ; Idem, A Milano nel Settecento : studi e profili, Milano, La famiglia Meneghina, 1926, pp. 33-42 ; Anonimo, A ricordo della contessa C.B.D.G., « Archivio Storico Lombardo », fasc. iii, 1920 ; G. Rovani, Cento Anni, a cura di B. Gutierrez, Milano, Rizzoli 1933 ; L. Tenca, Cinque lettere inedite di C.B.D.G. al matematico Guido Grandi, « Archivio Storico Lombardo », 78, 1953, pp. 273-280 ; G. Natali, Il Settecento, cit., pp. 134-135 ; W. Eastwood, Literature and Science, Oxford, 1955, pp. 157-164 ; Dizionario biografico delle donne lombarde, cit., pp. 383-384 ; A. M. Serralunga Bardazza, Clelia Grillo Borromeo Arese. Vicende private e pubbliche virtù di una celebre nobildonna nell’Italia del Settecento, Biella, Eventi&Progetti Eitore, 2005 ; Clelia Grillo Borromeo Arese. Un salotto letterario settecentesco tra arte, scienze e politica, Convegno di studi, a cura di A. Spiriti, D. Generali, E. Vaccari, Cesano Maderno, Palazzo Arese Borromeo, 29 novembre-1 dicembre 2007 (gli Atti sono in corso di stampa).  



















































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spagnole l’Accademia Clelia dei Vigilanti da lei presieduta, che si radunava nello stesso palazzo Borromeo, e in cui facevano esperienze il matematico Guido Grandi e il già più volte ricordato Antonio Vallisnieri. Dopo la breve restaurazione spagnola, tornata Milano all’Austria, la Borromeo si rifugiò a Bergamo. L’imperatrice ordinò il sequestro dei beni della nobildonna contro la quale s’iniziò un processo per cospirazione, senza però che fossero raggiunte le prove. Volendola relegata in Austria, le intimò di recarsi a Gorizia, se voleva salvi i suoi redditi. Ma donna Clelia rifiutò e si recò a Padova, anche se le ristrettezze in cui venne a trovarsi la indussero nel 1749 a presentare una supplica e a recarsi poi a Gorizia. Maria Teresa le accordò la grazia, e la Borromeo potè, dopo quattro anni d’esilio, tornare a Milano, dove s’impegnò attivamente perché nel teatrino del suo Palazzo fossero rappresentate opere teatrali contemporanee. L’importanza dei suoi studi trova conferma nella corrispondenza della nobildonna col Grandi, maggiore matematico del tempo, che le dedicò un’opera sulle curve floreali denominandole curve clelie in suo onore. 1 Rimanendo nell’ambito di erudite salonnières, a Milano nel palazzo di Porta Venezia, a Gorgonzola, o sul lago di Como, a Bellagio, era assai frequentato il salotto letterario della già ricordata Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni Serbelloni, 2 nata duchessa di Fiano e nipote di Benedetto XIV, coltissima dama, nella cui casa visse come precettore il Parini, che le dedicò l’ode Alla duchessa Serbelloni intorno a’ melanconici sapienti. Agli elogi del poeta milanese si unirono quelli di altri intellettuali, visto che il Goldoni le dedicò La sposa persiana, Giovanni De Gamerra, 3 nella sua Corneide, cantava il suo fare di virtù pompa e non di nobiltà e Pietro Verri confessava di dovere a lei la conoscenza della letteratura francese. 4 Fu infatti lo stesso Verri, celato sotto lo pseudonimo di Modonte Priamideo, a scrivere il proemio alla traduzione del teatro comico di Destouches pubblicata dalla duchessa. Un’altra gentildonna legata al Parini, che le dedicò La recita de’ versi e Il dono, fu la marchesa Maria Paola Castiglioni nata Litta 5 (1751-1846), donna di straordinaria cultura, che viaggiò in Europa in compagnia di Francesco Melzi d’Eril, e poi, ristabilitasi a Milano e sposata col nobile Giuseppe Castiglioni, iniziò a ricevere gli amici nel suo palazzo milanese e nella villa di Pessano. Il suo salotto diventò in breve tempo uno dei centri più frequentati dall’intellighentia riformatrice cittadina e la scrittrice veneziana Silvia Curtoni Verza la elogiò nei suoi Ritratti. 6 1   G. Grandi, Flores geometrici ex Rhodonearum, et cloeriarum curarum descriptione resultantes, Firenze, Tartinium & Franchium, 1728. 2   A. Ottolini, Pietro Verri e i suoi tempi, Palermo, Sandron, 1921 ; G. Carducci, Storia del “Giorno” di Giuseppe Parini, Bologna, Zanichelli,1882 ; M. Bandini Buti, a cura di, Poetesse e scrittrici, in Eciclopedia Biografica e Bibliografica “Italiana”, cit., s. vi, p. 98 ; G. Natali, G. Parini, uomo e poeta, Bologna, Cappelli, 1953 ; G. Seregni, La cultura milanese nel Settecento, cit., pp. 634-635 ; D. Chiomenti Vassalli, I fratelli Verri, Milano, Ceschina, 1960 ; Dizionario biografico delle donne lombarde, cit., pp. 817-818. 3   Poeta, autore drammatico e librettista livornese di nascita, avvenuta nel 1743. Nel 1760 divenne abate e fino al 1763 frequentò la facoltà di legge a Pisa. Fra il 1765 e il 1770 iniziò la carriera letteraria a Milano, dove era sottotenente nel reggimento Clerici a servizio dell’Austria. Fu diffusore della moda della pièce larmoyante di Nivelle De la Chaussée e Desthouches, che inaugurò pubblicando a Milano I Solitari, nel 1770. Amico di Pietro Verri, nel 1773 stampò Corneide, poema eroicomico in ottave che fu apprezzato anche da Voltaire. Inventore della “tragedia domestica pantomima” (variazione sulla tragedia borghese), teorizzò l’inserzione di una pantomima tra un atto e l’altro, sottolineata da una musica idonea. Nel 1775 divenne poeta di corte a Vienna, ma l’anno seguente tornò in Toscana. Fu direttore e amministratore del Teatro Nazionale di Napoli e poeta del Teatro Imperiale di Vienna sino al 1802. Oltre ai numerosi libretti, fra i suoi scritti, l’Osservazioni sull’opera e la traduzione in italiano di Die Zauberflöte di Mozart. Cfr. Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, diretto da A. Basso, Le biografie, Torino, utet, vol. ii, p. 434. È stato pubblicato da poco il quinto volume dei Testi per musica di Giovanni De Gamerra, nella collana diretta da A. L. Bellina, B. Brizi e F. Marri, a cura di M. Bizzarrini, E. Bojan, L. Boni, M. Caniato, C. 4   Cfr. G. Natali, Il Settecento, cit., pp. 136-37. Gansca. A. Vencato. 5   Oltre a Natali, cfr. anche Famiglie celebri italiane, tav. Castiglioni, viii, Milano, 1818-1819 ; R. Barbiera, L’amica del Parini, in Immortali e dimenticati, Milano, Cogliati, 1901 ; Eroine, ispiratrici e donne d’eccezione, cit., p. 228. 6   S. Curtoni Verza, Ritratti d’alcuni illustri amici di Silvia Curtoni Verza in Arcadia Flaminda Caritea, Verona, Gambaretti, 1807.  















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Non solo nell’area milanese, ma anche nei centri minori come Bergamo e Brescia furono numerose le presenze femminili all’interno del mondo accademico e dell’élite culturale settecentesca. Figura di spicco già ricordata a causa del suo vivace salotto fu la contessa Paolina Secco Suardo Grismondi 1 che, vissuta tra Bergamo, Verona e la villeggiatura di Redona, frequentò assiduamente i cenacoli letterari, ma si dedicò anche agli studi scientifici nell’ultima parte della sua vita. Protagonista di un viaggio a Parigi, nel 1778, in cui fu accolta con onori da Diderot e ricevuta da Voltaire, la contessa si spostò, nel 1793, a Pavia, su invito di Lorenzo Mascheroni, per essere iscritta ufficialmente all’Accademia degli Affidati e visitare l’Ateneo. Autrice di un intenso epistolario che avremo modo di analizzare in seguito, Lesbia Cidonia fu dedicataria di un epigramma di Parini intitolato Sei tu gentil Grismondi. Abile rimatrice d’occasione, la Secco Suardo intrattenne rapporti epistolari con molte altre donne celebri dell’epoca, fra cui si segnalano Fortunata Fantastici Sulgher, 2 Carlotta Marchionni e la pittrice Angelica Kauffmann, 3 che la ritrasse in un’opera perduta di cui si conserva una copia. Della provincia di Brescia era originaria Diamante Medaglia in Faini, 4 già nominata a proposito del dibattito sugli studi delle donne nel quale intervenne con un saggio che tracciava il piano adatto agli studi femminili. Nata in Val Sabbia nel 1724, si sposò col conte Antonio Faini da Salò da cui non ebbe figli e con cui trascorse quasi tutta la sua vita nella villa di Soiano. Uno zio arciprete le aveva insegnato la storia sacra e la lingua latina e da sola aveva iniziato a praticare la poesia. Ebbe come maestro di storia e filosofia Don Domenico Bonetti e di matematica il conte Giovan Battista Suardo di Brescia. Per meriti letterari 5 fu accettata nell’Accademia degli Agiati di Rovereto nel 1751, col nome di Dalinda e poi dagli Unanimi di Salò, dagli Arditi di Padova e infine dall’Arcadia, nel 1757, col nome di Ninfa Corcirense. Dopo essersi dedicata alla letteratura e agli scritti poetici, Diamante si dedicò alla storia e, ormai 1   A. Levati, Dizionario Biografico cronologico diviso per classi degli uomini illustri di tutti i tempi e di tutte le nazioni, Milano, Bettoni, 1821-1822 ; G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura dal secolo decimo quarto fino a’ nostri giorni di Ginevra, Venezia, Alvisopoli, 1824, pp. 217-218 ; L. Abrantès, Vite e ritratti delle donne celebri d’ogni paese, Milano, Andrea Ubicini, 1836-39 ; G. Biadego, Paolina Grismondi a Verona, in Da libri e manoscritti. Spigolature, cit., pp.75-97 ; G. Natali, Il Settecento, cit., p. 161 ; J. De Blasi, Le scrittrici italiane dalle origini al 1800, Firenze, Nemi, 1930, p. 316 ; Poetesse e scrittrici, cit., pp. 245-46 ; f. tadini, Lesbia Cidonia : società moda e cultura nella vita della contessa Paolina Secco Suardo Grismondi, Bergamo, Moretti e Vitali, 1995 ; Idem,Catalogo delle lettere e delle opere di Lorenzo Mascheroni, Bergamo, Stampa, 2000 ; M. Dillon Wanke, « ...correan a stuolo / ninfe e pastori ad ascoltare intenti ». Vita socievole della poesia nel salotto di Lesbia Cidonia, in Giacomo Quarenghi e il suo tempo, Atti del Convegno, a cura di S. Burini, Bergamo, Moretti & Vitali, 1995, pp. 157-174 ; Idem, Il ruolo ambiguo in Lo spazio della scrittura. Letteratura comparata al femminile a cura di T. Agostini, A. Chemello, I. Crotti, L. Ricaldone, R. Ricorda, Padova, Il Poligrafo, 2004, pp. 463-477. 2   Fortunata Sulgher Fantastici, Temira Parasside, livornese (1755-1824), a quindici anni fu applaudita in patria in un pubblico esperimento poetico. Andata sposa nel 1777 a Giovanni Fantastici a Firenze, fu la regina d’un salotto assai frequentato da letterati fiorentini e forestieri, tra i quali l’Alfieri. Nel 1782 la conobbe il Monti, che le confidò in lettere appassionate l’amore per quella giovinetta che gl’inspirò gli Sciolti a S. Chigi. La Fantastici fu donna coltissima, come dimostrano le sue traduzioni dal greco di Anacreonte. Nell’83 fece il suo primo giro artistico nell’Italia settentrionale. Lo Andrès, che la visitò in quell’anno, parla nelle sue Cartas familiares (i, 129) di Corilla, che vive di ricordi gloriosi, di Temira e di una Irene Parenti, inferiore alle due prime, ma insieme pittrice e poetessa. Nella primavera del 1792 era a Roma, dove conobbe De Rossi, la poetessa inglese Cornelia Knight e Angelica Kauffman, che la ritrasse in atto di recitar versi. Cfr. G. Natali, Il Settecento, cit., p. 158. 3   Cfr. W. Wassyng Roworth, Ancient Matrons and Modern Patrons : Angelica Kauffmann as a Classical History Painter, in Women, Art and the Politics of Identity in Eighteenth Century Europe, edited by M. Hyde and J. Milam, Ashgate, Burlinghton, 2003, pp. 188-210. 4   A. Brognoli, Elogi di bresciani per dottrina eccellenti, Brescia (1785), Forni, rist. anast. 1972 ; G. Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane, cit., p. 195 ; J. De Blasi, Le scrittrici italiane dalle origini al 1800,cit., p. 316 ; M. Bandini Buti, a cura di, Poetesse e scrittrici, cit., p. 22 ; G. Natali, Il Settecento, cit., p. 173 ; Storia di Brescia, promossa e diretta da G. Treccani degli Alfieri, Brescia, Banca San Paolo, Morcelliana, 1963-64, vol. iii, p. 267 ; Dizionario biografico delle donne lombarde, p. 726. 5   I suoi scritti furono raccolti, a quattro anni dalla morte, e pubblicati da Giuseppe Pontano preceduti da una biografia dell’autrice : Versi e prose di d.m.f. con altri componimenti di diversi autori e con la vita dell’Autrice, Salò, 1774.  









































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quarantenne, alla matematica. Nel suo saggio Degli studi convenienti alle donne sosteneva infatti l’apprendimento di quest’ultima materia, tracciando proprio un ipotetico piano di studi femminili. Rimanendo nell’ambiente bresciano, Bianca Uggeri Della Somaglia, 1 piacentina di nascita, si trasferì nella città lombarda nel 1764. Là istituì un salotto culturale che fu tra i più frequentati dagli intellettuali del luogo e dove si discusse di letteratura, teatro e filosofia illuministica. 2 Donna Bianca si adoperò particolarmente per fare rappresentare i più importanti testi di teatro contemporaneo, e il suo impegno in tal senso la condusse a fondare una compagnia di aristocratici denominata Teatro dell’Accademia, 3 secondo alcune fonti. Sulla funzione del teatro, infatti, anche Brescia fu divisa da due opposte correnti : alcuni lo ritenevano un incentivo al malcostume, altri un intrattenimento con implicazioni etiche e morali. 4 A loro volta, i sostenitori della seconda corrente si trovavano divisi : qualcuno riteneva, infatti, il melodramma unico genere connaturato alla natura e al gusto del popolo italiano, vedendo nella lingua metastasiana il suo esito migliore. 5 Diversamente sembra che si esprimesse la contessa Uggeri, sostenendo che in Italia potevano affermarsi autori drammatici da contrapporre con successo agli stranieri. E proprio per sostenere questa tesi la contessa si adoperò affinché fosse in seguito rappresentata l’Olimpia di Voltaire, chiedendo ed ottenendo, a causa della temporanea chiusura per restauri del Teatro dell’Accademia nel 1769, di usare per l’occasione il teatro dei Padri Somaschi. La tragedia fu rappresentata da una compagnia di nobili dilettanti, tra cui la stessa Uggeri nel ruolo di Olimpia che riscosse un clamoroso successo, suscitando paragoni con le interpretazioni delle attrici Adrienne Lecouvreur e M.lle Jeanne Catherine Gaussin. 6 La contessa scrisse in una lettera al fratello Giulio, allora a Roma, un resoconto del successo conseguito :  





Sei recite si sono fatte, tutte con concorso, ed un applauso, che non si poteva desiderar maggiore. Il vestiario e le decorazioni formavano uno spettacolo ugualmente magnifico ed elegante. Il Maestro Caretta ha superato se stesso nella musica dell’ouverture, e degli altri pezzi che servivano fra un atto e l’altro sempre corrispondenti alle situazioni in cui trovavasi la Tragedia. Abbiamo avuto molti Forestieri, un’approvazione non equivoca. Tutti gli attori hanno operato con impegno […]. 7 1   Sulla biografia della contessa, cfr. L. Ricci, Memorie della co : Cecilia Uggeri Duranti, Brescia, 1793, p. 16, n. i ; F. Gambara, Elogio istorico della Egregia Donna Contessa Bianca Uggeri, Brescia, Valotti, 1822, pp. 1-40 ; Dizionario biografico delle donne lombarde, cit., pp. 261-262. 2   Gli scambi di libri e d’opinioni costituivano argomenti di conversazione, unitamente all’arte drammatica e alla politica. Il salotto, infatti, godette di larga fama anche grazie alla corrispondenza mantenuta dalla Uggeri ed altri rinomati intellettuali nei cui nomi ci siamo già più volte imbattuti nel corso di questo studio. Fra questi, citiamo : Saverio Bettinelli, Anton Francesco Frisi, Giuseppe Bartoli, Ippolito Pindemonte. Nel suo nutrito epistolario, la contessa ricorda anche di aver letto e commentato con amici, tra cui lo stesso Bettinelli, gli epigrammi e le Lettere a Lesbia Cidonia, a testimonianza della stretta connessione e circolazione di idee tra i salotti dell’epoca ed anche tra le figure femminili che li animavano. 3   Nella Storia di Brescia, cit., p. 927 si parla di un Teatro dell’Accademia degli Erranti, già della Compagnia del Ridotto, poi fusasi con gli Erranti nel 1619 in cui, nel corso del Seicento, furono rappresentate alcune opere. Si aggiunge inoltre che nel 1739 questo teatro fu abbattuto ed eretto nella stessa ala il Teatro Grande. 4   Cfr. U. Vaglia, Bianca Uggeri della Somaglia, in Profili di donne nella storia di Brescia, a cura di F. Balestrini, Brescia, Giornale di Brescia, 1996, pp. 236-248. 5   D. Colombo, Il Dramma e la Tragedia d’Italia, dissertazione dedicata al co : Francesco Martinengo, Venezia, Antonio Zatta, 1794. 6   Cfr. G. B. Corniani, Alle Dame ai Cavalieri che rappresentano l’Olimpia del Signor Voltaire, poemetto, Brescia, 1770 ; U. Da Como, Albe di redenzioni sociali alla fine del sec. xviii, Brescia, 1921. Podestà di Brescia, il conte Roberto Corniani fu a sua volta autore di una commedia in cinque atti, intitolata Sofia. Sulle attrici citate cfr. H. Lyonnet, Dictionnaire des comédiens francaise, ceux d’hier : biographie, bibliographie, iconographie, Génève, Bibliothèque de la Revue Universelle internationale illustrée, 19 ?, 2 voll, vol. ii, pp. 103-104 ; cfr. M. I. Aliverti, La naissance de l’acteur moderne, Paris, Gallimard, 1998. 7   Dalle Lettere della contessa Bianca Capece della Somaglia Uggeri, Biblioteca Queriniana di Brescia, ms., ii, pp. 9394, ora cit. in U. Vaglia, Bianca Uggeri della Somaglia, cit., p. 240.  

















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Nella medesima sede menziona inoltre l’esecuzione di un’Accademia 1 per onorare i tragici presso il Collegio di Sant’Antonio e una sontuosa festa da ballo in Teatro promossa da una Compagnia di Cavalieri per lo stesso motivo. Si capisce la grande soddisfazione della Uggeri che, oltre ad aver collaborato all’allestimento e all’esecuzione della tragedia, aveva lavorato alla traduzione dell’Olimpia e alla modifica di alcuni versi suggeriti dal Cardinale Orazio Calini e da Carlo Roncalli « per rendere più vibrata la declamazione ». 2 Secondo la testimonianza di Francesco Gambara, la modifica del testo francese fu approvata dallo stesso Voltaire al punto che egli giunse a ritoccare, seguendo tali tracce, il testo originale. Il successo della prova tragica spinse il Calini a comporre, su incitamento della Uggeri, la tragedia Zelinda, ultimata nel 1772. Fu il primo testo tragico ad essere premiato al Concorso bandito dal Duca di Parma e in quella sede fu rappresentata in presenza dell’autore, ottenendo grande successo ; dopo la positiva replica di Bologna, non ebbe però la stessa fortuna a Milano e a Verona. A tal proposito, così si espresse la Uggeri in una lettera ad Alberto Pompei :  







Il cattivo incontro della Zelinda a Verona alla rappresentazione, lo attribuisco tutto alla poca abilità degli Attori, infatti a Milano è succeduto lo stesso per simile inesperienza, in Bologna al contrario ove è stata rappresentata con tutta quella esattezza di cui una volta ponno essere suscettibili i nostri Comici Italiani ha riscosso i maggiori applausi. Quello di cui avrei curiosità sarebbe di sapere il sentimento de’ Veronesi alla lettura, ove l’illusione non può operare né per il bene, né per il male. 3

Il Giornale delle Effemeridi Letterarie di Roma, dopo aver riconosciuto al Calini la « purezza e la nobiltà dello stile e dei versi », lamentava la mancanza di vis comica e l’imitazione di alcune scene della tragedia di Blanche et Guiscard di Bernard Joseph Saurin. Di questa accusa lo liberò Bianca scrivendo in una lettera 4 a Roncalli che il Calini non conosceva tragedie straniere simili in qualche misura alla Zelinda. Sempre Brescia annoverò fra la sua schiera di pastorelle altre due poetesse legate da reciproca amicizia e ricordate anche da De Lalande nel suo Viaggio : 5 Giulia Baitelli e Camilla Solaro d’Asti Fenaroli. 6 Entrambe lasciarono versi raccolti poi dallo stesso Carlo Roncalli nella sua scelta di autori bresciani. 7 La Baitelli approfittò a Padova dell’insegnamento di Domenico Lazzarini, apprendendo il greco e il latino e componendo sullo stile del Petrarca ; la Fenaroli coltivò la filosofia francese e scrisse alcuni sonetti. La fama di quest’ultima fu riportata alla luce da Angelo De Guberantis, che aveva avuto tra le mani il carteggio di Luigi Silva, fratello del più famoso Donato, con alcune gentildonne. Un volume dell’epistolario riportava lettere di dodici donne italiane, tra cui la già citata Francesca Bicetti Imbonati e la stessa Camilla Solaro Fenaroli. Nel contesto culturale veneziano sicuramente la figura di maggior spicco che operò nel primo Settecento fu quella di Luisa Bergalli, 8 di cui avremo modo di occuparci dif 







1   Termine impiegato nei secoli xvii e xviii per indicare una composizione equivalente alla cantata, dunque una forma musicale di genere vocale e strumentale ad una o più voci, con carattere sacro o profano articolata generalmente in diversi brani di andamento contrastante. Cfr. B. Nestola, Musica per le Accademie e Accademie per musica, in I luoghi dell’immaginario barocco, a cura di L. Strappini, Napoli, Liguori, 2001, pp. 273-283. 2   U. Vaglia, Bianca Uggeri della Somaglia, cit., p. 241. 3   Lettere, iii, p. 13 e p. 239, citata in U. Vaglia, Bianca Uggeri della Somaglia, cit., p. 242. 4   Lettere, iii, p. 84. 5   J. J. De Lalande, Voyage d’une françois in Italie, Paris, Desaint, 1769, 8 voll. 6   Cfr. G. Natali, Il Settecento, cit., p. 156. 7   C. Roncalli Parolino, Rime di varj autori bresciani viventi, Brescia, Pietro Pianta, 1761. 8   Per approfondimenti biografici, cfr. G. Mazzucchelli, Gli scrittori d’Italia cioè notizie storiche, e critiche intorno alle vite, e agli scritti dei letterati italiani, Brescia, Bossini, 1760, 2, ii, pp. 926-929 ; P. Nurra, Luisa Bergalli, « Emporium », ix, 1899, pp. 195-204 ; M. Mioni, Una letterata veneziana del secolo xviii , Venezia, Tip. Orfanotrofio di A. Pel 







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fusamente in seguito. In questa sede, ci limiteremo a ricordare che nacque nel 1703 da famiglia modesta, ma fu avviata agli studi da nobili veneziani che la tennero a battesimo e per questo ricevette un’ampia educazione, istruendosi nelle lettere con Antonio Sforza ed Apostolo Zeno e nella pittura con Rosalba Carriera. 1 Data la specifica vivacità dell’intellighentia femminile veneta, che fu cifra costante di tutto il Settecento, la Bergalli si distinse appunto per operazioni culturali che dimostrarono la fiducia da lei riposta nelle capacità creative femminili, e per la sua operosità, specialmente di traduttrice della drammaturgia latina e francese. Tornando all’incidenza della presenza femminile nell’ambiente culturale veneto, nella Guida per la città di Venezia, Giannantonio Moschini 2 menzionava l’esistenza di un’accademia poetica musicale formata proprio da nobili dame veneziane, notizia che non trova certa conferma. Dato sicuro, come detto, è che i salotti alla moda francese furono molto frequenti a Venezia e in provincia. Come ricorda, infatti, Giulio Natali, le donne veneziane del secolo diciottesimo gareggiavano con le francesi « per cultura, eleganza e disinvolta arte di conversare ; avide di libertà e di piaceri, ma franche e nemiche d’ogni infingimento ». 3 In particolare, tennero per molti anni « lo scettro della bellezza e dell’ingegno » a Venezia le due cognate Caterina Dolfin Tron e Cecilia Zeno Tron, la prima delle quali ebbe un salotto politico, la seconda mondano. Caterina Dolfin fu anche poetessa di fama, moglie prima di un Tiepolo e poi del procuratore Andrea Tron, divenendo una delle personalità più influenti della città lagunare ; Goldoni le dedicò La bella selvaggia e Luisa Bergalli le aveva dedicato i Componimenti Poetici delle più illustri rimatrici d’ogni secolo. 4 Lo stesso Gasparo Gozzi era legato alla procuratessa  











lizzato,1908 ; C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit. ; G. Natali, Il Settecento, cit., p. 156-57 ; voce Bergalli Luisa, a cura di C. Mutini, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1967, vol. ix, pp. 63-68 ; A. Lanaro, Luisa Bergalli Gozzi in Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di A. Arslan, A. Chemello, G. Pizzamiglio, Mirano, Eidos, 1991 ; L. Bergalli, Le avventure del poeta, a cura di L. Ricaldone, nota biografica e bibliografica di P. Serra, Manziana, Vecchiarelli, 1997 ; C. Limentani Virdis, Lo ‘statuto del femminile a Venezia nel tardo Settecento, in Gentildonne, artiste, intellettuali al tramonto della Serenissima, Atti del Seminario di Studio Venezia 24 Aprile 1998, Milano, Eidòs, 1998, pp. 63-75 ; F. Savoia, Una storia tutta da raccontare : Luisa Bergalli Gozzi (1703-1779), in Essays in Honor of Marga Cottina-Jones, a cura di L. Sanguinetti White, A. Baldi, K. Philips, Fiesole, Cadmo, 2003, pp. 109-122 ; F. Soldini, Luisa Bergalli Gozzi, in Carlo Gozzi 1720-1806. Stravaganze sceniche, letterarie battaglie a cura in F. Soldini, Venezia, Marsilio, 2006, pp. 30-35 ; Luisa Bergalli 1703-1779. Poetessa drammaturga traduttrice critica letteraria, a cura di A. Chemello, Mirano, Eidos, 2008. 1   Nacque a Venezia il 7 ottobre 1675 da Andrea e Alba Foresti. Il padre, legista nell’amministrazione privata del procuratore di S. Marco e pittore per diletto, incoraggiò la figlia nella passione per l’arte, facendola poi educare da buoni maestri. G. Natali, Il Settecento, cit., p. 174 : « Ricevé nel suo studio principi e principesse : ma in que’ tempi di frivolezza visse modesta, intenta solo all’arte e agli affetti della famiglia. Educò all’arte le sorelle. Le tra Carriera coltivavano la pittura la musica il canto, sapevano il latino e il francese. Rosalba si fece onore a Parigi, dove godé l’amicizia del Watteau, e a Vienna. Tornata a Venezia, educò all’arte molte allieve, tra le quali Luisa Bergalli, che in casa della Carriera fu conosciuta da Gasparo Gozzi. Rosalba ritrasse i più illustri personaggi della prima metà del sec. xviii, da Luigi XV al Metastasio, dal Law al Watteau, e le più belle dame veneziane ; e con la Donna della scimmia, che si ammira al Louvre, fissò la prima volta, secondo i De Goncourt, il tipo della donna piccante, secolo xviii ». Verso la fine del 1746 una malattia agli occhi, che già si era manifestata vent’anni prima, si aggravò improvvisamente, conducendola alla cecità completa. Morì a Venezia nell’aprile del 1757, lasciando come ultima immagine di sé l’Autoritratto delle Gallerie Veneziane, nel quale, stando a quanto dice lo Zanetti, ella volle rappresentarsi sotto le sembianze della Tragedia. Cfr. A. M. Zanetti, Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia, Venezia, P. Bassaglia, 1733, pp. 60, 346, rist. anast., Bologna, Forni, 1980 ; G. Gatto, voce : Rosalba Carriera, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., vol xx, pp. 745-49 ; B. Sani, Rosalba Carriera. Lettere, diari, frammenti, Firenze, Olschki, 1985. 2   G. Moschini, Guida per la città di Venezia all’amico delle belle arti, Venezia, Alvisopoli, 1815, 2 voll. 3   G. Natali, Il Settecento, cit., p. 135. 4   Stampata presso Antonio Mora, a Venezia, nel 1726.  





































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da grande amicizia, che dimostrò dedicandole il sermone Gl’incomodi della vecchiaia. 1 Caterina fece stampare a Padova nel 1767 una raccolta che conteneva, insieme a quelli di altri, fra cui Parini, alcuni sonetti in memoria del padre, intitolata Sonetti di Caterina Dolfino Tiepolo in morte di Giov. Ant. Dolfino P. V. Personalità di rilievo, vissuta fra Venezia e Vicenza, fu quella di Elisabetta Caminer Turra, 2 nata alla metà del secolo da Domenico Caminer, giornalista e compilatore di opere storiche. Educata in una scuola di cucito prima e tra i copisti del padre poi, la fanciulla mostrò grande predisposizione per le lettere, studiando il francese da autodidatta. E quando Domenico iniziò a pubblicare i fascicoli dell’ « Europa Letteraria », nel 1768, prese a collaborarvi, a soli diciassette anni, anche Elisabetta con traduzioni e poesie d’amore. A partire dal 1769, divenne la vera compilatrice del giornale, scrivendo articoli di storia, dottrine morali e scienze. Il periodico conteneva estratti di libri italiani e stranieri, con un interesse particolare rivolto agli enciclopedisti e ai filosofi francesi, ma senza trascurare pubblicazioni di viaggi, religione e storia contemporanea. Domenico Caminer si schierò da subito come difensore di Voltaire, mentre sua figlia dimostrò immediatamente di avere le idee chiare sulla riforma del teatro, questione che in quegli anni aveva diviso Venezia fra sostenitori di Goldoni, di Pietro Chiari e di Carlo Gozzi. Elisabetta aveva infatti recensito molte opere drammatiche di Bettinelli e Goldoni e si era dedicata alle traduzioni di teatro francese. Decisamente a favore della riforma goldoniana, seppure con qualche riserva, la Caminer ebbe il grande merito in campo teatrale di avere diffuso in Italia la commedia detta flebile o lacrimosa, genere di origine francese. 3 Si cimentò anche nella traduzione di drammi inglesi, spagnoli, russi e danesi scelti fra quanti circolavano tradotti dal francese. Tra il 1772 e il 1776 pubblicò dieci volumi di composizioni teatrali 4 tradotte « in maniera talvolta libera, talora accorciando o mutando l’azione dell’originale per adattarla alle esigenze delle scene e delle compagnie italiane, o per intonarla alla sensibilità del pubblico veneziano ». 5 L’impegno della Caminer non si fermò alle stampe, ma invase le scene, conquistandosi un pubblico sempre più numeroso e, mentre i letterati, fra cui Carlo Gozzi, avversavano il dramma borghese, Elisabetta richiamava il vasto pubblico che si affollava nei teatri, dimostrando che « l’acutezza dell’ingegno è fallace quantunque volte per qualunque modo fa torto alla rettitudine del cuore ». 6 Come detto, nelle sue traduzioni non fu sempre fedele all’originale, ma tenne conto in primo luogo della funzione pedagogica ed ideologica che quei drammi dovevano necessariamente svolgere, arrivando addirittura a cambiare il finale del Disertore di Louis-Sébastien Mercier, poiché a Venezia il pubblico non era abituato ad assistere alla durezza sanguinaria inflitta ai soldati che disertavano. Nel 1772 aveva sposato Antonio Turra, medico e botanico vicentino, e si trasferì a Vicenza, seppure continuando ad occuparsi in maniera attiva all’« Europa letteraria ». Quando  















1   Gasparo Gozzi scrisse diciotto Sermoni in endecasillabi sciolti dal 145 al 1781 ; Gl’incomodi della vecchiaia fa parte dei Sermoni di argomento soggettivo e fu pubblicato, insieme agli altri in Sermoni di Gasparo Gozzi veneziano, Verona, Bisesti, 1807. 2   Per un profilo bio-bibliografico e delle opere cfr. A. Colla, Elisabetta Caminer Turra in Le stanze ritrovate, cit., pp. 140-143. Ulteriori notizie anche in G. Natali, Il Settecento, cit., p. 171 ; Eroine, ispiratrici e donne d’eccezione, cit., p. 84 ; F. Fattoriello, Il giornalismo veneto del Settecento, Udine, I.d.e.a., 1933, vol. ii, pp. 280-285 ; Elisabetta Caminer Turra (1751-1796) : una letterata veneta in viaggio verso l’Europa, a cura di R. U. Lukoschik, Verona, 1998 ; C. M. Sama, Becoming visible. A biography of Elisabetta Caminer Turra (1751-1796) during her formative years, « Studi veneziani », 2002, n.s., xliii, pp. 349-388. 3   F. Chirico, Traduzioni e riforma teatrale del xviii secolo, in Tradizione e traduzioni. La cultura teatrale italiana nel Settecento tra classicismo e modernità, a cura di G. Zanlonghi, « Comunicazioni Sociali », xxvi, n. 2, 2004, pp. 170-183. 4   Composizioni teatrali moderne tradotte, Venezia, Savioni, 1772, 4 tomi ; Nuova raccolta i composizioni teatrali tradot5   A. Colla, Elisabetta Caminer Turra, cit., p. 142. te, Venezia, Savioni, 1774-1776. 6   Prefazione dell’autrice, in Composizioni teatrali moderne, cit., vol. i, p. ix, ora in Le stanze ritrovate, cit., p. 145.  





















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nel 1774 il periodico fu sostituito dal « Giornale Enciclopedico », in un primo momento lo gestì in società col padre e poi, nel 1777, ne rilevò la proprietà, trasferendolo a Vicenza. Il periodico, pubblicato settimanalmente, divenne uno dei maggiori fogli illuministici italiani, diffondendo nel nostro paese, oltre alla conoscenza di Voltaire, quella di Condillac, D’Alembert, Rousseau, Helvétius e Locke. Molto spazio fu dedicato anche alla cultura scientifica, a partire dal 1783, quando a Giovanni Scola subentrò nella direzione Alberto Fortis, 1 abate letterato, corteggiatore della Caminer sin dai tempi dell’« Europa letteraria ». Dal 1783 il periodico cambiò nome in « Nuovo Giornale Enciclopedico » e poi, nel 1790, in « Nuovo Giornale Enciclopedico d’Italia », nuovamente stampato a Venezia sotto la direzione della sola Caminer Turra. Anche nel periodo del Giornale Enciclopedico perdurò l’interesse di Elisabetta per il teatro, 2 prendendo ancora le difese di Goldoni contro Carlo Gozzi. In risposta, quest’ultimo la maltrattò nelle prefazioni alle sue opere teatrali ed in una lettera al Baretti la presentò, con una certa ironia, come :  

















[…] una giovinetta di buona indole, d’ottimo costume, pregiabile nella sua inclinazione alle belle lettere, che faceva qualche verso armonico e prometteva di ridurre in ornamento della nostra società. Fu eccitata a non contentarsi d’una cultura filologica e del rendersi capace d’una buona traduzione, ma a divenire capitan essa d’un giornale intitolato l’Europa Letteraria e a far la comparsa repentina d’un diluvio universale di scienza ; a far estratti e dar pareri a lodare ad assolvere magistralmente tutti gli scrittori e tutti i libri di tutte le materie. 3  

Per contro all’ironia gozziana, erano molti gli scienziati e i letterati italiani che elogiavano la Caminer e la stimavano pubblicamente, tra questi, Spallanzani, Monti, Pindemonte, Vannetti, Cesarotti, per citare i più noti ; nomi dunque ricorrenti fra consiglieri, collaboratori e corrispondenti delle letterate e salonnières sin qui ricordate. Il salotto vicentino di Elisabetta era, infatti, punto di riferimento di numerose figure di spicco dell’Illuminismo italiano e ad esso la pubblicista affiancò, nel 1780, anche una casa editrice, la Stamperia Turra, sotto la sua direzione una delle più attive della terraferma veneta tra gli anni Ottanta e Novanta del Settecento. Rimane da approfondire ancora quanto l’intensa attività di traduttrice della Caminer abbia influito sulle vicende del teatro italiano, ma sicuro è il successo delle sue traduzioni sulle scene veneziane. Durante il triennio giacobino, poi, esse costituirono un’importante parte del repertorio del teatro democratico, secondo il programma di educare il popolo alla libertà anche attraverso le rappresentazioni. La commedia borghese sembrò, così, particolarmente adatta a svolgere questa funzione pedagogica ed in tale contesto la Caminer ritornò all’onore delle scene e delle cronache. Il motivo sembrerebbe lo stesso che determinò la fortuna delle tragedie della libertà alfieriane a Milano negli anni del Teatro Patriottico e della dominazione francese, alla fine del secolo. 4  

1   Alberto Fortis (Padova 1741-Bologna 1803), studiò in patria e a Roma, con predilezione per le scienze naturali. Trovandosi presto a disagio nell’ambiente agostiniano, ottenne di svestirne l’abito, pur restando abate. Viaggiò molto per scopi scientifici e ne fissò i risulati in numerosi scritti. Su tutti, emerge dal punto di vista letterario la sua relazione del viaggio in Dalmazia. Nel 1796, democratico convinto, si stabilì a Parigi. Rimpatriato dopo la battaglia di Marengo, fu nominato prefetto della Biblioteca di Bologna. Cfr. Viaggiatori del Settecento, a cura di L. Vincenti, Torino, utet, 1968, pp. 445-495. 2   In Canonici Fachini, Prospetto biografico delle donne italiane, cit., p. 180, si riporta la seguente notizia : « Fu direttrice in Vicenza di un Teatro di Dilettanti, dove nell’assistere ad alcuni preparativi fu sventuratamente colpita nel petto dalla percossa di un soldato ubbriaco. Questa malaugurata combinazione fu la origine della sua malattia, che fra spasimi i più crudeli la condusse a morte in età ancora fresca ». Morì infatti di tumore al seno il 7 giugno 3   Citato in F. Fattoriello, Il giornalismo veneto del Settecento, cit., p. 281. 1796. 4   Cfr. M. G. Cambiaghi, ‘Rapida…semplice…tetra e feroce’ : la tragedia alfieriana in scena tra otto e novecento, Roma, Bulzoni, 2004.  







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L’accomunarsi dei due diversi destini non stupisce, se consideriamo che la Caminer fu lettrice attenta dell’opera d’Alfieri, come dimostra la sua Lettera sopra le prime tragedie d’Alfieri pubblicata a Torino nel 1793 fra i Saggi dell’Accademia degli Unanimi. Tragedia e commedia, dunque, nuovamente alla base di un programma di riforma del teatro in direzione etica e pedagogica, che ritrovava vigore in Italia, dopo gli interventi goldoniani di metà secolo, negli anni post-rivoluzionari. Sul finire del secolo, è stata già ricordata la notorietà dei due salotti veneziani di Giustina Michiel Renier, detta l’Antigone veneziana, e di Isabella Teotochi Albrizzi, la Stäel veneziana, presso i quali inizia a muovere i primi passi letterari Ugo Foscolo. Sulla Renier si può aggiungere che si distinse per la composizione di un’opera storica, Delle feste veneziane, anche se la pubblicazione di quest’ultima esce dai limiti cronologici che ci siamo assegnati, perché fu pubblicata dal 1817 al 1827. Entro i limiti, invece, l’operatività del salotto da lei animato, il più dotto del capoluogo lagunare, frequentato da personaggi di spicco come il Cesarotti e il Bettinelli. La Renier studiò le scienze e la botanica, ma si applicò anche nella traduzione, tra il 1798 e il 1800, di tre tragedie shakespeariane : Otello, Macbeth e Coriolano. 1 Un’altra personalità di rilievo in ambiente veneto è quella di Silvia Curtoni Verza, 2 veronese, nata nel 1751 da Antonio ed Elisabetta Maffei, stretta parente di Scipione, autore di Merope. Ricevette un’istruzione abbastanza superficiale in convento ed in seguito si sposò col conte Francesco Verza. In quegli anni il già ricordato Alessandro Carli aveva dato vita ad una compagnia teatrale nella città scaligera, ed in essa confluivano molti vivaci personaggi della Verona colta del tempo. Ricordata per le sue qualità attoriche, la Curtoni interpretò la parte della protagonista nella Berenice di Racine, nel 1774, e della stessa tragedia era stata traduttrice e dedicataria insieme a Ippolito Pindemonte. L’editore Maggi le rivolse il Discorso primo riguardante la recitazione scenica e una riforma del teatro (Verona, 1812), dove sono ancora rammentate le interpretazioni della Curtoni di quasi quaranta anni prima. L’interesse di donna Silvia per il teatro durò ancora qualche anno, poi si rivolse ad alimentare le amicizie e le conoscenze che animavano il suo salotto veronese ; il suo circolo fu definito un’accademia di belle lettere vera e propria e lo frequentarono assiduamente Pompei, Pindemonte e Bettinelli. Nel suo salon si leggevano i classici e si annunciavano le ultime novità letterarie, ma sembra che non mancassero i raduni scientifici con esecuzione di esperimenti chimico-fisici. Dopo la vedovanza, iniziò a viaggiare e a Milano, nel 1788, incontrò Parini, che ne rimase colpito e con cui ebbe una breve corrispondenza epistolare ; nelle Opere del poeta milanese sono contenute tre lettere indirizzate a lei e forse dello stesso anno è il sonetto pariniano Silvia immortal, benché dai lidi miei. In seguito, nei primi mesi del 1791, si recò a Brescia e poi a Venezia, dove fu ospite del salotto di Isabella Teotochi Albrizzi, 3 incontrandovi Foscolo, nel 1806. Nel 1807, su imitazione dell’Albrizzi stessa, pubblicò a Verona i Ritratti di alcuni illustri amici. 4 Ultimo cenno all’ambiente culturale veneto, ricordando Bianca Laura Saibante, 5 nata nel 1723 a Rovereto, oggi in Trentino, ma nel Settecento sotto l’influenza della Serenissima.  





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  Cfr. G. Natali, Il Settecento, cit., p. 170.   F. Petrucci, voce Silvia Verza Curtoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit, vol. 31 ; pp. 490-494 ; G. Biadego, Donna Silvia Curtoni Verza a Milano e a Napoli, in Da libri e manoscritti. Spigolature, Verona, Münster, 1885, pp. 107-116 ; Carteggio inedito di una gentildonna veronese, a cura di G. Biadego, Verona, Artigianelli, 1884 ; G. Natali, Il Settecento, cit., p. 162 ; Eroine, ispiratrici e donne d’eccezione, cit., p. 115 ; F. Uglietti, Una gentildonna veronese tra Rivoluzione e Restaurazione, Archivio Storico Curia Vescovile, 1983. 3   Cfr. Eroine, ispiratrici e donne d’eccezione, cit., p. 20. 4   I. Teotochi Albrizzi, Ritratti scritti da Isabella Teotochi Albrizzi, Brescia, Bettoni, 1807. 5   G. Natali, Il Settecento, cit., p. 160 ; Poetesse e scrittrici, cit., pp. 202. 2















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Fu alunna del Tartarotti ed istituì nella sua città natale l’Accademia degli Agiati, nel 1753. Si sposò l’anno successivo con Giuseppe Valeriano Vannetti, ma rimase vedova dieci anni dopo, dedicandosi con fervore agli studi e all’educazione di Clementino, suo unico figlio. Fu pittrice e poetessa ed un suo discorso sull’occupazione domestica delle donne fu pubblicato a Padova nel 1850.

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Capitolo II PRESENZE FEMMINILI FRA MILANO E VENEZIA ii. 1. Francesca Manzoni “poetessa dell’Imperatrice”

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opo alcuni lavori sette-ottocenteschi, 1 alcuni punti oscuri della biografia di Francesca Manzoni sono stati chiariti da uno studio di Francesca Strazzi, pubblicato sulla « Rivista di letteratura italiana » nel 2005. 2 Pertanto la nostra attenzione, partendo da alcuni dati acquisiti nel lavoro citato e integrati da informazioni raccolte in seguito a ulteriori verifiche sulle fonti documentarie, si concentrerà principalmente sull’unica tragedia composta dalla poetessa e pervenuta sino a noi, Ester, edita da Tumermani nel 1733. Numerose notizie in proposito sono state desunte dall’epistolario della Manzoni contenente la sua corrispondenza 3 con l’abate Marc’Antonio Zucchi, 4 in Arcadia Oraspe. Come detto, la Manzoni aveva intrapreso la carriera letteraria giovanissima e il viaggiatore francese Charles De Brosses, letterato e membro del parlamento di Digione, raccontò di lei negli appunti relativi al suo viaggio in Italia, avvenuto intorno al 1730. 5 In una lettera in cui descrive la Biblioteca Ambrosiana racconta, infatti, piuttosto stupito, di essersi imbattuto in una donna che lavorava « in mezzo ad un mucchio di libri latini ». 6 All’altezza del viaggio italiano del De Brosses, la fanciulla era già nota come “poetessa dell’imperatrice” (così  







1   Cfr. F. Argelati, Biblioteca degli scrittori milanesi, cit. ; G. Arrigoni, Francesca Manzoni Giusto, in Biografia degli italiani illustri, cit. 2   Cfr. F. Strazzi, Francesca Manzoni : la poetessa dell’imperatrice, cit. : la Strazzi cita il suo atto di battesimo conservato presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano, che la vuole battezzata, il giorno dopo la nascita, presso la chiesa di Santo Stefano Nossigia in provincia di Milano ; Archivio Spirituale, Educande Y 1821. 3   La miscellanea manoscritta consta di 249 fogli e si presenta composita, per lo più costituita da componimenti poetici della Manzoni stessa inviati all’abate per necessità encomiastiche e per consigli ed eventuali revisioni. Indicata con la numerazione 48.18 e conservata presso la Biblioteca Civica « Tartarotti » di Rovereto copre dunque un arco temporale che va dal maggio 1732 al maggio 1739. Quest’ultima data si riferisce ai fogli 242-245, poiché i successivi fogli n. 246-249 non appaiono datati. Nel periodo indicato, la Manzoni completò la stesura della sua Ester, prodigandosi poi per darla alle stampe presso Tumermani, oltre a collaborare alla raccolta antologica del Balestrieri (Lagrime in morte di un gatto, ma questo titolo non viene mai menzionato). Inoltre, compose e consegnò alcuni oratori, uno dei quali è esplicitamente indicato nelle lettere col titolo di Gedeone, la sua unica azione sacra di cui, fino allo stato attuale delle ricerche, si fosse conservata la musica composta da Nicola Porpora. Siamo entrati in seguito in possesso anche della partitura manoscritta di Ester, scritta da Carlo Arrigoni e conservata presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna. Tra i fatti d’interesse storico, si menziona l’incontro con l’Arciduchessa, senza nascondere l’ambizione della poetessa di essere presentata ufficialmente a corte. Tutto questo precedette il matrimonio (avvenuto nel 1741) col conte veneziano Luigi Giusti, che è spessissimo ricordato, specie nelle ultime lettere testimoni del grande affetto che la Manzoni nutriva già per lui. Per quanto riguarda gli avvenimenti storici, si parla dei bombardamenti franco-piemontesi nella zona del Castello di Milano, nel 1733 e dell’insediamento, appunto, dell’Arciduchessa in città, per la festa dell’Ascensione in Duomo, nel 1739. 4   Monaco olivetano proveniente da nobile famiglia veronese e noto negli ambienti accademici per le sue doti d’improvvisatore. Fu guida e maestro della Manzoni negli ambienti accademici e a lui la poetessa dedicò una raccolta di Festevoli versi per la riacquistata salute del Padre Marco Antonio Zucchi, nobile veronese, Rovedino, Pavia, 1733. Ricordato anche in F. S. Quadrio, Della storia e della ragione di ogni poesia, cit., 1752, t. vii, p. 16. 5   Gli “appunti di viaggio” furono raccolti in un’opera intitolata inizialmente Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740, in seguito ripubblicata con il titolo Lettres historiques et critiques sur l’Italie, Parigi, s. d. ; cfr. C. De Brosses, Viaggio in Italia : lettere familiari, prefazione di C. Levi, Roma-Bari, Laterza, 1992. 6   Ivi, p. 68, a proposito della Biblioteca Ambrosiana : « È aperta tutti i giorni, sera e mattina, e l’ho sempre trovata, a differenza delle nostre, piena di gente intenta allo studio ; ma trovai strano di vedere una donna lavorare in mezzo ad un mucchio di libri latini ; è la signora Manzoni, che ha titolo di poetessa dell’imperatrice. Tra poco vedrete che qui ci sono donne ancora più erudite ».  

























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la identifica infatti il letterato francese), titolo che Elisabetta Cristina (moglie di Carlo VI e madre di Maria Teresa) le aveva conferito per meriti poetici, senza che questo comportasse oneri compositivi specifici da parte della Manzoni. Allevata da un padre giureconsulto amante delle lettere classiche, 1 Francesca ricevette, con ogni probabilità, la sua prima educazione in casa da uno o più precettori privati ed ebbe la possibilità di frequentare la biblioteca di famiglia. È attestata, infatti, in tutte le biografie della Manzoni, la sua grande facilità nell’apprendimento delle lingue, tale da portarla alla conoscenza del latino e del greco sin dall’età di dodici anni e a quella successiva del francese e dello spagnolo, idiomi appresi probabilmente da autodidatta. Per quanto riguarda la possibile permanenza in un convento, ci sono molti dubbi sulla datazione di tale soggiorno, che appare piuttosto controversa. Tutte le fonti precedenti riportavano infatti come dato sicuro la permanenza della scrittrice in convento dal 1728 al 1741, ovvero dalla morte della madre al matrimonio con Luigi Giusti. La motivazione sembrava essere quella di trascorrere un periodo di tranquilla dedizione agli studi, lontana dalla vita mondana, dopo la scomparsa della guida materna. In realtà, la permanenza della Manzoni in convento durò un anno solamente 2 e la morte della madre potrebbe non essere avvenuta nel 1728, 3 ma successivamente. Tuttavia è certa la presenza della Manzoni nel convento di Santa Lucia in Porta Vercellina, a Milano, nell’anno 1740, visto che la Strazzi cita la domanda di ammissione rinvenuta presso l’Archivio Storico Diocesano di Milano e datata 18 dicembre 1739. Forse le fonti biografiche otto-novecentesche volevano avvolgere in un’aura di misticisismo la giovinezza della scrittrice, nota per la sua devozione e attiva nella riscrittura drammaturgica di argomenti esclusivamente biblici, allungando il suo periodo di permanenza in convento. L’Argelati 4 pone infatti l’accento sull’importanza dello studio dei testi sacri per la formazione culturale della Manzoni, studio svolto con rigore filologico, vagliando le fonti e confrontando quelle bibliche con quelle di natura storica. Dato certo è che la scrittrice era stata istruita nei dogmi e nei precetti della dottrina cristiana da Padre Giulio Redaello, curato di Santa Porta in Duomo. 5 Per trattare il tema di Ester (presente nella tragedia del 1733 e rielaborato per l’azione sacra del 1738), la poetessa vagliò infatti le fonti dei padri della chiesa, Sant’Agostino in primis, come quelle degli storici Bellarmino ed Erodoto. Fra i classici, studiò con particolare attenzione Euripide, in sintonia con il posto privilegiato che il tragediografo greco ebbe nel progetto di riforma del teatro tragico italiano nella prima metà del Settecento. 6 E forse fu proprio l’ammirazione per i personaggi femminili euripidei a guidare la Manzoni nella scelta di una donna come protagonista della sua prima prova tragica, L’Ester. 1   Cesare Alfonso Manzoni fu anche autore di un opuscolo in latino, intitolato Responsum terrarum squadrae consilii Vallissaxinae, etc (Milano, 1728, 4 tomi), con il quale tentò di difendere le ragioni del territorio della Valsassina contro la comunità di Lecco. 2   La Strazzi individua alcuni elementi di stranezza in questa breve permanenza della Manzoni in convento avvenuta, per giunta, in età avanzata (ventinove anni). Anche perché la risposta della Badessa, datata 1740, in cui si ratifica l’accoglienza della scrittrice tra le educande di Santa Lucia, indica il pagamento della prima retta da parte di Luigi Giusti, evidentemente già fidanzato con la Manzoni a quella data. 3   Nella lettera n. 228 della miscellanea roveretana, la Strazzi individua infatti nel saluto di commiato della Manzoni allo Zucchi (« i miei genitori vi passano il medesimo uffizio e vi salutano ») una prova del fatto che la madre della scrittrice fosse ancora viva il 23 dicembre 1733. 4   F. Argelati, Biblioteca degli scrittori milanesi, cit., p. 1784. 5   ASDdiM (Archivio Spirituale, sez. xii, Educande Y 1821). 6   Alcuni studi hanno messo in evidenza come il xviii secolo si distingua per il vivo interesse nei confronti della tragedia greca, soprattutto per quella euripidea. Lo attestano i numerosi volgarizzamenti, adattamenti o rifacimenti. Le traduzioni italiani si mantennero, però, sempre parziali, se si eccettua la traduzione di tutto Euripide compiuta da Michelangelo Carmeli tra il 1743 e il 1753. Cfr. E. Garioni, Le traduzioni dei tragici greci nel Settecento Italiano. La ‘riscoperta’ di Euripide e la fortuna dell’« Ecuba », « Comunicazioni Sociali », xxvi, 2, 2004, pp. 184-259.  











presenze femminili fra milano e venezia

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Il matrimonio con Luigi Giusti, avvenuto nel 1741, non frenò la vocazione letteraria della poetessa, visto che i coniugi avevano numerosi interessi comuni coltivati all’interno degli ambienti accademici e dei circoli che entrambi frequentavano. Si erano conosciuti, infatti, durante le riunioni dell’Accademia dei Filodossi ed erano ospiti abituali a Malgrate del salotto animato dal canonico Giuseppe Candido Augudio, 1 ricordato per aver introdotto anche il giovane Parini presso l’Accademia dei Trasformati. Lo stesso Augudio aveva commissionato al pittore Benigno Bossi 2 alcuni ritratti dei suoi colleghi accademici, tra i quali quello della Manzoni, datato 1743 (anno della sua morte) ed ora conservato presso la Pinacoteca Ambrosiana. Discendente da una nobile famiglia veneta, ma in declino, il Giusti aveva avuto una buona educazione umanistica, studiando con l’abate Lazzarini e frequentando Apostolo Zeno ; in particolare, l’amicizia con il librettista l’aveva spinto a cimentarsi col melodramma e nel 1734 ne compose due, di cui il secondo, Montezuma, fu musicato da Vivaldi. La conoscenza con la Manzoni avvenne l’anno seguente, quando il conte, trasferitosi a Milano per risanare le sue precarie condizioni economiche, iniziò a frequentare assiduamente circoli letterari ed accademie della città meneghina. In comune con la futura moglie aveva dunque la passione per la drammaturgia musicale e per le lettere antiche, visto che gli appartiene anche una traduzione delle Favole di Fedro. Nel 1740 la Manzoni e il Giusti, già fidanzati, 3 si cimentarono nella poesia a quattro mani, componendo e pubblicando due canzoni per la morte di Carlo VI, poi confluite in una miscellanea interamente dedicata all’elogio funebre del sovrano scomparso. 4 Il matrimonio tra i due letterati fu celebrato nel 1741 e l’anno seguente fu suggellato dalla nascita di un figlio, Pietro Paolo. 5 Dieci giorni dopo la nascita della secondogenita, Angela Maria, il 28 giugno del 1743, la Manzoni si spense e fu seppellita nella Chiesa di San Giovanni alla Castagna, dove era sepolto il padre, morto l’anno precedente. 6 Molti letterati ed amici la piansero ufficialmente, dedicandole alcuni versi ; fra questi, si ricordano Giancarlo Passeroni 7 e Domenico Balestrieri. 8  



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  Per altre notizie sul canonico Augudio cfr. C. A. Vianello, La giovinezza di Parini, Verri e Beccaria, cit., p. 97.   Nato ad Arcisate di Como nel 1727 e morto a Parma nel 1792. Decoratore, stampatore, pittore e collezionista italiano. Aveva appreso dal padre Pietro Luigi l’arte delle decorazioni in stucco, che rimase la sua principale attività. Fu incoraggiato da Charles-François Hutin, che si trovò a Dresda dal 1753 al 1757 e che seguì a Milano a Parma. La sua prima incisione all’acquaforte, basata su un lavoro di Bartolomeo Nazari (1693-1758), fu eseguita a Milano nel 1758. Lavorò a lungo a Parma come decoratore presso la corte dei Borboni e insegnante presso l’Accademia delle Belle Arti. Oltre a queste attività, lavorò soprattutto come ritrattista, illustratore e collezionista d’arte. Cfr. L. Fornari Schianchi, voce : Bossi, Benigno, in The Dictionary of Art, a cura di J. Turner, Londra, MacMillan, 1996, vol. 4, p. 470. 3   Nella lettera del 13 maggio 1739, foglio n. 242, la Manzoni rimprovera lo Zucchi perché spinge Luigi Giusti ad andare a Palermo, cosa che le causerebbe grande dolore dato che : « lontana da voi non ho altri, fuorché esso, che si meriti la confidenza, e l’amor mio ; né altri che lui, dacchè sono in città, io tratto, né veggo, di lui solo contenta, che ne sa per cento schiere di filosofi ». 4   Canzoni in morte di Carlo VI, Milano, Malatesta, 1740. Con prefazione dello stesso Giusti. 5   Piuttosto noto per l’amicizia con Pietro Verri, alla morte del padre, nel 1766, ne rilevò l’incarico presso il Dipartimento d’Italia a Vienna, occupandosi d’amministrazione per la corte asburgica e diventando membro del Consiglio Supremo di Economia. Cfr. s. meschini, voce Luigi Giusti, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., p. 189. 6   Dopo la morte della moglie, Luigi Giusti si fece ordinare sacerdote e si dedicò alla politica. Nel 1745 divenne segretario del ministro plenipotenziario della Lombardia austriaca, Gian Luigi Pallavicini. Dopo l’incarico, quasi dieci anni più tardi, di capo della segreteria del vice governo di Mantova, fu proposto a Kaunitz come segretario del Dispaccio nel Dipartimento d’Italia a Vienna. Stabilitosi pertanto a Vienna, il Giusti rivestì un ruolo preminente nella direzione delle riforme del sistema di governo patrizio della Lombardia, proteggendo, fra gli altri, Pietro Verri, e favorendone l’accesso agli uffici. Morì nel 1766. Cfr. E. A. Cicogna, Iscrizioni veneziane, iii, Venezia, 1830 ; S. Meschini, voce Luigi Giusti, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., pp. 186-189. 7   G. Passeroni, Il Cicerone, Milano, Agnelli, 1755. 8   D. Balestrieri, In morte della Signora Francesca Manzoni Giusto fra gli Arcadi Fenicia Lampeatica. Si allude all’ultimo suo componimento da me recitato nella prima nostra Adunanza. Elegia, Biblioteca Apostolica Vaticana, Roma, Ms. Patetta 534, cc. 87v-90r, vv25-29. 2













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Nell’arco di tempo trattato nell’epistolario, la drammaturga si dedicò alla composizione, in ordine cronologico, di una tragedia e di sei azioni sacre per musica, 1 queste ultime inviate tutte a Vienna e là edite presso Giovanni Pietro Van Ghelen tra il 1734 e il 1738. Il suo primo lavoro a stampa ad oggi posseduto, uscito nell’edizione veronese del 1733, 2 è la tragedia Ester, ripubblicata poi, nel 1751, a Venezia in una raccolta di teatro ebraico. 3 L’opera, suddivisa in cinque atti, è preceduta da un Ragionamento in cui l’autrice chiarisce alcune questioni filologiche, nonché i propri intenti compositivi. In particolare, citando alcuni fonti illustri, ma rifacendosi principalmente a Giuseppe Flavio, la poetessa spiega la sua insolita decisione di identificare il generico Assuero biblico, marito di Ester, con il sovrano Artaserse re di Persia, scelta che non ha precedenti nella trattazione del tema. Secondo i rilievi della Strazzi, comparirebbero nella biografia della Manzoni, solo come titoli, altre due tragedie Amata e Demorata, di cui al momento si sono però perse le tracce e probabilmente non furono mai date alle stampe. Apprezzata rimatrice d’occasione, secondo l’uso arcadico, la poetessa diede prova della sua facilità nella versificazione attraverso rime e componimenti, dati alle stampe singolarmente o all’interno di miscellanee. 4 Inoltre, nella raccolta roveretana, numerosi sono i componimenti poetici di vario genere, per lo più dedicati all’abate Zucchi e ai duchi di Lorena. 5 Altre opere di rilievo furono un saggio di prosa agiografica 6 e la traduzione dei primi cinque libri dei Tristia di Ovidio usciti postumi nel 1745. 7 Il saggio narra in dieci capitoli la storia di Suor Giovanna Eustachia della Croce, la sua vita e i suoi miracoli, secondo la tradizione agiografica. La Strazzi individua in questo lavoro due temi centrali e ricorrenti nelle introduzioni che precedono ogni capitolo : la fede e l’umiltà ; l’intento dell’autrice sarebbe dunque quello di « educare il lettore alla piena consapevolezza cristiana, ottenendo l’innalzamento dello spirito, anelante al miglioramento di sé ». 8 Sicuramente il desiderio di cimentarsi con l’agiografia conferma il costante interesse della Manzoni per la dottrina cristiana, nonché la sua devozione e la sua attenzione specifica nei confronti dell’oratoria religiosa stessa, tutti elementi che trovano riscontro nell’epistolario dell’autrice. Tornando alla drammaturgia manzoniana, il filone religioso rimase fonte primaria d’ispirazione, visto che l’azione sacra fu scelta come forma privilegiata d’espressione. Tale produzione s’inserì dunque, pienamente, nel contesto dei libretti d’Oratorio per musica del diciottesimo secolo, genere che vide Apostolo Zeno e Pietro Metastasio come suoi più illustri esponenti. Se Zeno dedicò i suoi ultimi anni alla composizione di testi per Oratorio 9 che seguissero di pari passo i suoi criteri di melodramma “riformato”, Metastasio dominò il genere  







1   Si tratta di Debbora, Abigaile, La Madre de’ Maccabei, Il Sacrifizio di Abramo, Il Gedeone e Ester. Informazioni in proposito si leggono in F. Milani, Le poesie milanesi di Francesca Manzoni e un lettore di teologia a Pavia, « Bollettino della Società Pavese di Storia Patria », xii, 1999, oltre che nel repertorio di Claudio Sartori. 2   F. Manzoni, L’Ester, Verona, Tumermani, 1733. 3   Idem, in Teatro ebraico, ovvero scelta di tragedie tratte d’argomenti ebraici, parte tradotte dal francese e parte originali italiane, ii, Venezia, Valvasense, 1757, pp. 5-110. 4   Oltre alle rime edite nella citata raccolta di Balestrieri e ai versi per la morte di Carlo VI, si ricordano i citati Festevoli versi per la riacquistata salute di padre Marco Antonio Zucchi. 5   Si riportano di seguito : Ragionamenti di Fenicia [ …] Pastorella Arcade, 9 maggio 1732, fogli nn. 1-4 ; Prosa di Fenicia […] poetessa A. Per invocazione ad una nobilissima improvvisata dell’Incomparabile Oraspe […] Poeta A., 1 maggio 1732, f. nn. 5-8 ; Orazionetta di Fenicia […] Pastorella d’Arcadia nanzi il Puerperio, f. nn. 9-18 ; Ottave di Fenicia al Valoroso Oraspe, 13 maggio 1732, f. nn. 21, 22 ; Raccolta di eleganti sentimenti dei divini versi d’Oraspe dalla sua Improvvisata tenuta il di 17 febbraio 1732 nell’Accademia Filidossa, f. nn. 23-27. 6   F. Manzoni, Vita della Veneranda serva di Dio, la madre Suor Giovanna Eustachia della Croce, fondatrice del monastero di S. Chiara, detto nella Rocca, della città di Vigevano, Milano, Vigoni, 1735. 7   Idem, I cinque libri di Tristezze di Publio Ovidio Nasone tradotti da una pastorella arcade, Milano, Agnelli, 1745. 8   F. Strazzi, Francesca Manzoni, cit., p. 154. 9   In tutto sono diciassette : il primo è il Sisara del 1719 e l’ultimo il Geremia del 1740, rimasto incompiuto.  















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componendo per la corte viennese il testo di otto libretti 1 da lui definiti “azioni sacre”. 2 Da notare che tale dicitura compare anche nei lavori di Zeno composti per la stessa Cappella di Carlo VI, divenendo indicazione comune in tutte le opere pubblicate dalla stamperia imperiale. Scritte nelle classiche due parti e in lingua italiana, ma tradotte in latino ed in inglese, laddove la prassi esecutiva lo richiedesse, le azioni sacre metastasiane divennero fonte di ispirazione per un gran numero di compositori del suo tempo in Italia ed in Europa. Senza addentrarci in una disquizione specifica su un genere, che, complesso ed articolato dalla sua nascita ai suoi esiti settecenteschi, richiederebbe una trattazione autonoma rispetto alla tragedia ed al melodramma, 3 ci limiteremo a segnalare in questa sede che la Manzoni s’inserì a ragione nel solco metastasiano, denominando “azioni sacre” i suoi sei lavori eseguiti alla corte viennese. Di questi, stampati a due a due rispettivamente nel 1734, 4 nel 1737 5 e nel 1738, 6 cinque risultano di attribuzione certa e l’ultimo, Ester, è anonimo, ma con una certa sicurezza firmato dalla stessa mano dei precedenti. Il primo libretto dato alle stampe, Debbora, reca ancora la dicitura “oratorio” in omaggio alla tradizione pregressa, mentre dall’Abigaile in poi, la definizione “azione sacra” compare in tutte le stampe della Manzoni, imitando la dicitura assunta da Metastasio per il suo primo testo, 7 La morte d’Abel, destinato anch’esso alla cappella imperiale di Carlo VI, nel 1732. Anche la controversa questione dell’attribuzione dell’Ester s’intreccia con le vicende delle azioni sacre metastasiane, in particolare dell’ultima, Isacco figura del Redentore, eseguita nel 1740, a ben cinque anni di distanza dalla precedente. L’8 febbraio 1738 Metastasio comunicava con sollievo a Stelio Mastraca di essere libero per quell’anno dalla composizione di oratorii, essendo stata proposta alla corte austriaca, da parte di un autore milanese, un’Ester. 8 Ne era probabilmente autrice proprio Francesca Manzoni, altri oratori della quale erano stati già rappresentati a Vienna e dati alle stampe presso lo stesso Van Ghelen. Dato che trova conferma anche nell’abitudine da parte della poetessa di inviare a due a due le sue azioni sacre per l’esecuzione presso la Cappella imperiale. Tra gli indizi interni al testo, troviamo sicuramente il tema di Ester, già affrontato dalla Manzoni nella sua tragedia di cinque anni prima ed il fatto che l’Assuero è identificato con Artaserse Longimano re di Persia, distaccandosi dalla tradizione e confermando invece quanto già fatto nella sua prima prova tragica, richiamandosi, nel Ragionamento, a Giuseppe Flavio. 1   Se ne riportano di seguito i titoli : Per la festività del S. Natale, La Passione di Gesù Cristo, Sant’Elena al Calvario, La morte d’Abel, Giuseppe riconosciuto, Betulia liberata, Gioas re di Giuda, Isacco figura del Redentore. Cfr. L. Bianchi, L’Oratorio in Italia, voce Oratorio, in Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, cit., vol. iii, pp. 434-436. 2   P. Metastasio, Oratori sacri, a cura di S. Stroppa, introduzione di C. Ossola, Venezia, Marsilio, 1996. 3   Cfr. A. Frattali, Ester fra tragedia e oratorio nella drammaturgia di Francesca Manzoni, in La cultura della rappresentazione nella Milano del Settecento : discontinuità e permanenze, Dies Academicus 2009, 26-27-28 novembre, Milano, Atti in corso di stampa. 4   Debbora, oratorio per musica da cantarsi nella cappella della S. C. e C. R. M. di Carlo VI imperatore, Vienna, Gio. Pietro Van Ghelen, 1734 ; Abigaile, azione sacra per musica da cantarsi nella cappella della S. C. e C. R. M. di Carlo VI imperatore, Vienna, Gio. Pietro Van Ghelen, 1734. 5   La Madre de’ Macabei, azione sacra per musica da cantarsi nella Cappella della S. C. e C. R. M. di Carlo VI imperatore, Vienna, Gio. Pietro Van Ghelen, 1737 ; Il Gedeone, cit. 6   Il sacrifizio di Abramo, azione sacra per musica da cantarsi nella Cappella della S. C. e C. R. M. di Carlo VI imperatore, Vienna, Gio. Pietro Van Ghelen, 1738 ; Ester, azione sacra per musica da cantarsi nella Cappella della S. C. e C. R. M. di Carlo VI imperatore, Vienna, Gio. Pietro Van Ghelen, 1738. 7   Il primo oratorio metastasiano in ordine cronologico, Per la festività del Santo Natale, reca infatti la dicitura “Sacro componimento drammatico”, ed era destinato al cardinale Ottoboni per l’esecuzione avvenuta nel Palazzo della Cancelleria Apostolica nel 1727. 8   Il fatto che Metastasio l’avesse rivisto prima dell’esecuzione, come dichiara nella sua lettera n. 130, fece sì che il libretto, musicato da Carlo Arrigoni, si trasmettesse privo del nome dell’autore, e che fosse attribuito a Metastasio dall’Allacci. Questa tesi è sostenuta da Sabrina Stroppa nella sua nota al testo di Isacco figura del Redentore, in P. Metastasio, Oratori sacri, cit., p. 276, oltre che dalla Strazzi stessa nel suo studio più volte citato in questa sede.  









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Concludiamo questo rapido excursus sulla produzione drammaturgica della Manzoni con due osservazioni : una di carattere tematico e l’altra di natura formale. A livello di temi, costante delle opere manzoniane è la predilezione per eroine femminili che, come osserva la Strazzi, « incarnano di volta in volta ideali della vita cristiana », in parte per « rispetto al clima quaresimale nel quale vennero rappresentate e in parte per esaltare la sovrana austriaca Elisabetta Cristina, alla quale erano dedicati anche questi lavori ». 1 E l’interesse per la questione femminile trova ulteriore conferma nel progetto incompiuto di scrivere una Storia universale di tutte le donne erudite di ogni secolo e di ogni nazione. Sulla scelta di privilegiare una forma poetica destinata alla musica influirono invece, con probabilità, le spiccate attitudini in questa direzione della Manzoni stessa. 2 La Strazzi azzarda infatti l’ipotesi che la fanciulla ritratta con uno spartito musicale in mano in un affresco sotto il portico della casa manzoniana a Barzio possa essere addirittura lei. Inoltre, testimoniano il costante interesse della poetessa per la musica alcune cantate scritte di suo pugno e conservate nella miscellanea roveretana. 3  









ii. 2. Luisa Bergalli drammaturga per i teatri veneziani La formazione di Luisa Bergalli avvenne nella società veneta del Settecento, ambiente in cui si avviarono processi di cambiamento economico e culturale che contribuirono all’emergere, in ogni campo, di numerose personalità femminili, come già detto in precedenza. In questo contesto, la Bergalli si distinse per alcune operazioni culturali che dimostrarono la fiducia da lei riposta nelle capacità creative delle donne, per il coraggio con cui assunse imprese teatrali talvolta rischiose e « per la sua strenua operosità, principalmente come provvida traduttrice (e interprete) di Terenzio, nonché di autori francesi (Molière, Racine, Anna Marie Du Boccage), in relazione anche al progressivo intensificarsi dei rapporti tra l’ambiente artistico-culturale italiano e quello d’oltralpe ». 4 Aveva, infatti, appreso la lingua francese dal padre, perfezionandosi poi negli studi del latino con Antonio Sforza e della letteratura con Apostolo Zeno. Protetta di Giacomo Antonio Gozzi, ne sposò, nel 1738, il figlio Gasparo, molto più giovane di lei, conosciuto forse, anni prima, nella casa della pittrice Rosalba Carriera, dove entrambi erano assidui. 5 L’attività della poetessa può, dunque, essere divisa in due fasi : la prima, precedente al matrimonio, la vide impegnata nella composizione di opere drammatiche e di erudizione che riscossero una certa fama ; la seconda, dopo le nozze, fu dedicata alla complessa amministrazione di una numerosa famiglia, che  







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  F. Strazzi, Francesca Manzoni, cit., p. 153.   La voce dedicata alla Manzoni in Dizionario Biografico delle donne lombarde, cit., p. 685 la definisce proprio come abile musicista. 3   Ms. 48.19, fogli 87-88, Se pur odo qui intorno, indicata con la dicitura « Cantata per musica » e Su la sponda gentil d’un fusco Dio, indicata con la dicitura « Cantata per musica à solo », dunque destinata ad un’esecuzione per voce sola con accompagnamento. Di grande interesse anche la presenza, nei fogli n. 134-163 di una tragicommedia pastorale scritta di pugno dalla stessa Manzoni. Si ricordi, a questo proposito, la volontà riformatrice che si fa strada, all’interno dell’Arcadia, a partire dall’ultimo decennio del Seicento per proiettarsi poi su tutto il secolo successivo. In particolare, le opposte posizioni di Vincenzo Gravina e Giovan Mario Crescimbeni, l’uno sostenitore di una tragedia civile, l’altro di una letteratura facilmente replicabile, che trova sintesi drammaturgica nella pastorale tragica, destinata a maggior successo. Cfr. C. Guaita, Per una nuova estetica del teatro. L’Arcadia di Gravina e Cre4   Per approfondimenti biografici, cfr. nota 8, pp. 40-41. scimbeni, Roma, Bulzoni, 2009. 4   A. Lanaro, Luisa Bergalli Gozzi in Le stanze ritrovate. Antologia di scrittrici venete dal Quattrocento al Novecento, a cura di A. Arslan, A. Chemello, G. Pizzamiglio, Mirano, Eidos, 1991, p. 129. 5   Per un approfondimento relativo alle varie figure che animarono l’entourage della Bergalli in quegli anni, cfr. P. Baratter, Dall’Accademia Gozziana all’Accademia dei Granelleschi : alcune figure di intellettuali nella Venezia del Settecento, tesi di dottorato, Università Ca’ Foscari Venezia, 2003 ; C. M. Sama, “On Canvas and on the Page” : Women Shaping Culture in Eighteenth-Century Venice, in Italy’s Eighteenth Century. Gender and Culture in the Age of the Grand Tour, cit., pp. 125-150, 383-393. 2















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la costrinse a lavorare per guadagno come traduttrice, impresaria e drammaturga. Di qui, l’accanirsi della critica ottocentesca 1 su questa figura femminile, complici le accuse espresse dal cognato Carlo nelle sue celebri Memorie inutili :  

Questa femmina di fervida e volante immaginazione, e per ciò abilissima a’ poetici rapimenti, volle per i stimoli d’un buon animo misti con quelli dell’ambizione, e della presunzione che aveva della sua attività, inoltrarsi a regolare le cose domestiche disordinate, ma i suoi progetti, e gl’ordini suoi non poterono uscire da’ ratti romanzeschi, e pindarici. Innamoratasi d’un dominio ideale, col desiderio di farci tutti felici, con verace disinteresse, altro non fece, che tessere delle maggiori infelicità a tutti gl’altri non meno che a se medesima. 2

In realtà, il febbrile lavoro del secondo periodo non fu certo avvertito dalla Bergalli come un progresso qualitativo, se lei stessa decise di pubblicare anonime quasi tutte le opere posteriori al biennio 1746-48, caratterizzato dalla sventurata gestione, intrapresa col marito, del teatro S. Angelo. In questa fase, « Luisa dette fondo a tutte le risorse della propria dote inventiva, mettendo a repentaglio un’intera carriera letteraria, nel vano tentativo di sanare una situazione familiare ed economica irrimediabilmente compromessa ». 3 Dopo aver composto numerosi drammi giocosi ed intermezzi, le traduzioni del teatro francese di La Motte, Duché (1751) 4 e Du Boccage (1756) 5 segnarono la fine della collaborazione letteraria della coppia Bergalli-Gozzi 6 e l’abbandono del tetto coniugale da parte di Gasparo. A partire da questo periodo, la poetessa si sottrasse ad attività culturali troppo impegnative, pur mantenendo rapporti con eruditi e letterati e contribuendo ad alcune miscellanee di rime : « Irminda Partenide – così fu chiamata Luisa in Arcadia – compose versi 7 per nozze, monacazioni e lauree, versi di encomio, di compianto, rime petrarchesche e satiriche » 8 fino al giorno della sua morte, avvenuta nel 1779, a causa di morbo nero. La prima fase produttiva della Bergalli (antecedente al matrimonio) comprende opere che si distinguono per il loro carattere innovativo, unito ad una solida preparazione filologica. Si tratta di lavori che rispondono a due tipi d’interessi, il teatro e l’erudizione, percorsi sul terreno comune della poesia. Se da un lato l’autrice si è cimentata, infatti, con la drammaturgia in versi, praticandone tutti i generi (melodramma, tragedia, commedia, azione sacra) ; dall’altro ha scandagliato itinerari filologici, pubblicando due edizioni critiche di rime, che le sono valse una discreta fama. Dopo l’esordio del 1725, a soli ventidue anni, col  











1   Gudizi negativi sono stati espressi dai maggiori critici letterari veneziani del periodo, in particolare, dal Tomaseo (Storia civile della letteratura, Roma, Loescher, 1872 e dal Malamani, Marito e moglie di cento anni fa, in « Nuovo Archivio Veneto », 1891, p. 10). Si legga anche P. G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubbica, vii ediz., vol. iii, Trieste, 1908, p. 392 : « I vapori letterari che invadevano i cervelli femminili, erano particolarmente infesti all’economia domestica, e il seppe Gasparo Gozzi, che ebbe per moglie Luisa Bergalli, in Arcadia Irminda Partenide, di dieci anni più vecchia di lui, la quale in luogo di curare i figli e la casa, traduceva le Amazzoni di madama du Boccage, con indosso una schiavina e in capo la parrucca del conte marito, per ripararsi dal freddo ». 2   C. Gozzi, Memorie inutili, a cura di P. Bosisio, Milano, led, 2006, p. 216. 3   P. Serra, nota biografica e bibliografica, in L. Bergalli, Le avventure del poeta, a cura di L. Ricaldone, cit., p. 88. 4   Il Gionata, e l’Assalonne di M. Duché, e i Maccabei di M. de La Motte, tragedie tradotte dalla lingua francese nell’italiana, in Teatro ebraico, cit. 5   Le Ammazzoni, Tragedia della Signora Du Boccage tradotta in versi martelliani, col testo francese, in Venezia appresso Pietro Bassaglia, 1756. Cfr. V. Gianolio, Les Amazones in italiana favella. Madame Du Boccage e Luisa Bergalli Gozzi, a cura di M. Margarito, S. Zoppi, Omaggio a Marcella. Studi in onore di Marcella Deslex, Torino, Tirrenia Stampatori, 1992, pp. 227-243. 6   Sui rapporti fra Luisa Bergalli e Gasparo Gozzi cfr. P. C. Begotti, Novità sui Gozzi e su Luisa Bergalli, « La Loggia », 10, 2007, pp. 95-101 ; Idem, Luisa Bergalli, i fratelli Gozzi e il Friuli. Nuove acquisizioni, « Memorie Storiche Forogiuliesi », 87, 2007, pp. 43-63. 7   Per un elenco esauriente di queste raccolte poetiche, cfr. P. Serra, nota biografica e bibliografica, in L. Ber8   Ivi, p. 89. galli, Le avventure del poeta, a cura di L. Ricaldone, cit., p. 93-96.  



















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melodramma Agide, 1 diede alle stampe, nel 1726, la raccolta, da lei curata, di Componimenti delle più illustri rimatrici di ogni secolo. 2 Dal 1728 al 1730 compose e pubblicò una tragedia, un melodramma ed una commedia, rispettivamente, Teba, 3 Elenia 4 e Le avventure del poeta ; 5 nel 1738 e nel 1739 videro la luce l’edizione critica delle Rime di Gaspara Stampa 6 e l’oratorio per musica Eleazaro. 7 Quest’ultima opera, definita “azione sacra” ed andata in scena a Vienna nella cappella imperiale, nel 1739, s’inserisce, ancora una vota, nel contesto della musica sacra eseguita a corte nel periodo di Quaresima. L’esecuzione e la stampa seguirono di un anno l’ultima azione sacra della Manzoni, l’Ester, colmando, come visto, un “buco” nella produzione Metastasiana per la cappella viennese. La contiguità esecutiva di questi due lavori potrebbe non essere casuale, visti gli intensi rapporti fra le due poetesse negli anni che precedettero la comune pubblicazione nell’antologia del Balestrieri. Forse (ma siamo attualmente nel campo delle ipotesi) fu la Manzoni a suggerire alla corte la Bergalli come librettista che la sostuisse per gli oratori del periodo quaresimale, anche se sappiamo che la poetessa veneziana era già ben inserita nell’ambiente austriaco, grazie ad Apostolo Zeno. Tuttavia, due elementi possono farci propendere per quest’ipotesi : il fatto che il 1738 segni l’ultima composizione della Manzoni per la corte asburgica (di lì a poco, infatti, entrò in convento, poi seguirono le nozze e probabilmente gli impegni famigliari, che non le impedirono di scrivere, ma forse di accettare commissioni pressanti) ; l’eccezionalità dell’azione sacra nella produzione drammaturgica della Bergalli (sembra si tratti di un’opera sola di questo genere fra i libretti della scrittrice). Da segnalare anche l’instancabile attività di traduttrice della poetessa veneta che, negli anni trenta, si concentrò sul teatro di Terenzio, 8 Racine 9 e Molière. 10 Esiste dunque una vicinanza cronologica fra la traduzione raciniana e la composizione dell’oratorio Eleazaro che può non essere casuale, dato che Racine fu tra le fonti primarie di Zeno e Metastasio per la composizione delle loro azioni sacre. Infine, come si deduce dalla cronologia delle opere, l’attività di drammaturga della Bergalli si affiancò a quella di filologa, nel comune, dichiarato, impegno di dimostrare che l’ingegno femminile aveva diritto di occupare un posto di rilievo nella Repubblica delle Lettere. Madre di cinque figli, morì di morbo nero, ai nostri giorni identificabile con una sindrome depressiva acuta dovuta forse alle difficoltà economiche incontrate in special modo dopo l’abbandono di Gasparo del tetto coniugale per convivere con una giovane crestaia. Un fil rouge lega dunque le protagoniste femminili della cultura settecentesca e sembra confermare la fitta rete di relazioni tra i membri dell’élite arcadica in tutta Italia, ma nella nostra analisi particolare, nell’area geografica lombardo-veneta. Dal carteggio della Manzoni con l’abate Zucchi, si evince un legame, almeno epistolare e letterario, con la Bergalli  





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  L. Bergalli, Agide re di Sparta. Dramma per musica, Venezia, presso Marino Rossetti, 1725.   Idem, Componimenti Poetici delle più illustri Rimatrici d’ogni secolo, in Venezia per Antonio Mora, 1726. Il testo è stato ripubblicato in ristampa anastatica, nel 2006, dalla casa editrice Eidos (Mirano-Ve), corredato di una nota critica e bio-bibliografica di Adriana Chemello. 3   Idem, La Teba. Tragedia, in Venezia per Cristoforo Zane, 1728. 4   Idem, L’Elenia, Dramma per musica recitato nel Teatro di Sant’Angelo, in Venezia per Alvise Valvasense, 1730. 5   Idem, Le Avventure del Poeta, Commedia, in Venezia appresso Cristoforo Zane, 1730. 6   Idem, Rime di Gaspara Stampa, in Venezia per Francesco Piacentini, 1738. 7  Idem, L’Eleazaro, Azione Sacra, cantata nell’augustissima Cappella della Sacra Cesarea e Cattolica real Maestà Carlo VI Imperadore de’ Romani, sempre augusto l’anno 1739. Musicato da Giuseppe Bonno in servizio di sua maestà Cesarea, Vienna, presso G. P, Van Ghelen, stampatore di corte. 8   Idem, Le Commedie di Terenzio tradotte in verso sciolto, in Venezia per Cristoforo Zane, 1733. Prima dell’edizione completa, le commedie erano state pubblicate separatamente tra 1727 ed il 1731. 9   Idem, Le Opere di M. Racine, in Venezia per Domenico Lovisa, 1736-37. 10   Idem, Molière. Misanthrope. Commedia tratta in versi italiani, Venezia, 1745. 2

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stessa. Ad accomunare le due donne, oltre che l’estrazione sociale e la vocazione poetica, fu l’epoca in cui vissero e pubblicarono : pressoché coetanee ed attive nella prima metà del secolo. La Bergalli esordì infatti molto precocemente con due libretti di drammi per musica destinati alle scene veneziane e pubblicati nel 1725 e nel 1727, di cui avremo modo di parlare a lungo in seguito. L’ambiente culturale in cui Luisa si formò fu il medesimo frequentato da Luigi Giusti, futuro marito della Manzoni, ed infatti entrambi furono allievi di Apostolo Zeno. Altro dato interessante che accomuna le due donne è il matrimonio, avvenuto in età non precoce per i canoni settecenteschi, con esponenti della piccola nobiltà veneta di grande cultura, ma di ristrette finanze : Luigi Giusti, appunto, e Gasparo Gozzi. Il 1738 sembra inoltre segnare un termine ante quem per le due autrici : anno in cui la Bergalli si sposò con Gozzi, esaurendo così la sua vena letteraria più felice sotto le pressioni delle necessità famigliari ; e anno in cui la Manzoni pubblicò l’ultima azione sacra di un ciclo di sei, tutte destinate alla Cappella imperiale di Carlo VI a Vienna. Inoltre, Carlotta Egle Tassistro, 1 autrice di una delle biografie primonovecentesche della Bergalli, riportava la notizia che Apostolo Zeno conservasse nella sua biblioteca personale i due drammi in musica dell’allieva veneziana proprio accanto alle azioni sacre della Manzoni. Ulteriori indicazioni, come detto, sono desunte dall’epistolario della poetessa milanese ; nel carteggio roveretano il nome della poetessa veneziana ricorre più volte, anche in virtù della comune collaborazione alla raccolta antologica del Balestrieri Lagrime in morte di un gatto, raccolta che registra peraltro numerose presenze femminili al suo interno. Nella lettera datata 1 ottobre 1732 Francesca chiedeva allo Zucchi un sonetto di risposta al suo, probabilmente da fare confluire nella raccolta di Balestrieri, esplicitamente citato. La Manzoni parla infatti di una « raccolta in cui dodici donne fanno ciascuna altrettanti sonetti ai quali sulla rima viene da un poeta risposto », 2 dichiarando di aver rifiutato la risposta e rischiando, così, di rendere difforme l’opera. Continuava poi come segue :  















Fecemi vedere gl’altrui componimenti : tra gl’altri di Bianca Sagrasi con risposta di Giampietro Zanotti, di Ippolita Canossa ed il Maestro Landi e d’altra con altre risposte d’uomini degni, attendendo dalla Maratti e Bergalli i loro colle risposte. Già mi avete intesa. Vorrei da voi la risposta per fare invidia a queste Signore ove non posso col mio sonetto, con quello che gli và congiunto. Non lo cerca il Balestrieri ; lo cerco io.  



Nella lettera successiva 3 la Manzoni ringrazia l’abate per averle scritto il sonetto di risposta, comunicando inoltre di aver composto l’anacreontica richiestale per la chiusura della raccolta, anche se poi di tale componimento, almeno nell’antologia del Balestrieri, non v’è traccia. La poetessa milanese ricorda la Bergalli nuovamente nella lettera del 23 ottobre 1733, alludendo ad un libro di cui le avrebbe fatto dono :  

Dalla Signora Luisa Bergalli ho ricevute bellissime ottave per ringraziamento al libro mandatole, nelle quali di voi parla degnissimamente, ed un’elegia, a sonetto, unita a quello del C. Gasparo Gozzi di lei dotto amico. Ad ambedue risponderò per l’ordinario venturo. 4

E ancora, nella successiva del 30 ottobre, 5 si scusa con l’abate Zucchi per non avergli inviato con sollecitudine i componimenti ricevuti dalla coppia citata, all’epoca ancora lontana dal 1

  C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, Roma, Bertero, 1919.   Ms. 48.18, foglio n. 210. 3   Ms. 48.18, foglio n. 211, lettera datata 11 ottobre 1732. 4 5   Ms. 48.18, foglio n. 217.   Ms. 48.18, foglio n. 219. 2



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matrimonio, ma già unita evidentemente da motivazioni di carattere professionale. All’incirca dello stesso periodo sembrano appartenere anche alcuni componimenti in latino, databili appunto 1732-1733, contenuti nella miscellanea 48. 19 1 e indirizzati da Gasparo Gozzi alla Manzoni ; trattasi, con probabilità, di scambio di versi su tema, secondo le usanze arcadiche. Queste note contenute nello scambio epistolare tra Francesca e Oraspe sembrerebbero supportare l’ipotesi di una strettissima collaborazione fra il gruppo di arcadi lombardo e quello veneto, con un legame preferenziale tra la componente femminile di entrambi. Tutto ciò trova conferma nelle opere a stampa collettive cui partecipano sia la Bergalli, sia la Manzoni. Le Lagrime di Balestrieri contengono, infatti, componimenti di numerosi personaggi veneziani e milanesi sin qui ricordati, tra cui Giancarlo Passeroni, il canonico Giuseppe Candido Augudio, il conte Giorgio Giulini, il conte Carlo Imbonati, l’abate Zucchi e, ovviamente, Luigi Giusti e Gasparo Gozzi. All’interno, non mancano le presenze femminili, tra cui si registrano quelle di Francesca Bicetti de’ Buttinoni, 2 animatrice della futura Accademia de’ Trasformati, e di Luisa Bergalli Gozzi. 3 Rispetto alle due dame, che compaiono con una coppia di componimenti ciascuna, la Manzoni ne firma uno solo, 4 a causa forse delle molteplici perplessità e dei numerosi tentennamenti che, come detto in precedenza, l’avevano accompagnata dopo la richiesta avanzata da Domenico Balestrieri e da Guido Riviera di contribuire alla raccolta. Altro dato interessante è la comune inclusione della Bergalli e della Manzoni in una raccolta di teatro, di cui avremo modo di riparlare in seguito, intitolata Teatro ebraico e pubblicata nel 1751 a Venezia. 5 Suddivisa in tre tomi, la pubblicazione include appunto tragedie tutte di argomento ebraico, alcune delle quali tradotte dal francese, altre originali italiane, precedute da un Avviso ai lettori che spiega il motivo di tale scelta :  



Chi non è accostumato a guardare ogni cosa nella superficie, ma penetra col suo pensiero alquanto a dentro, ed esamina con qualche attenzione, ritroverà che l’usanza delle sceniche rappresentazioni è stata dalle più illuminate nazioni coltivata, non solo per un trastullo del popolo, ma principalmente per utilità e per iscuola. 6

L’idea è dunque quella di eleggere la tragedia a genere privilegiato, ponendo la storia ebraica come centro d’interesse, per trarne più facilmente esempi adatti ad un intento che è dichiaratamente pedagogico :  

Molte persone Religiose, l’occupazione delle quali è l’educare giovanetti in lettere, e buoni costumi, mostrarono più volte desiderio, di dare a loro allievi qualche passatempo di Rappresentazioni, nelle quali non solamente non venissi il buon costume ad offendersi, ma miglior qualità, e più utile ne ricevesse. Conoscevano essi bene quanto l’esercizio del recitare giovi a coloro, che a ciò sono atti, e per la memoria, e per agevolarne la pronunzia, e per la disinvoltura del corpo stesso ; e quanto profitto apportino agli altri condiscepoli ascoltatori, i buoni e pii sentimenti rinserrati in una regolare azione. 7  

Di seguito, poi, l’editore aggiunge alcune considerazioni sulla scelta dei testi destinati alle pubbliche sale :  

1   Ms. 48.19, fogli nn. 35-36, De Phenicia Arcadie Nimpha Gaspar Gozzius ; fogli nn. 37-38, Doctissimo, atque Humanissimo Viro Gaspari Comiti Gozzio Phenicia. Si tratta di un botta e risposta, databile all’incirca agli ultimi mesi del 1732 o ai primi giorni dell’anno seguente, visto che il foglio che segue l’ultimo componimento è datato 7 gennaio 1733. 2   Altri canti le capre, altri le agnelle, p. 116 ; Corì fò la mia zet, incoeu i m’ha digg, p. 36. 3   Chi avesse nel capo la pazzia, p. 23 ; Possente Amor, che ne’gatteschi petti, p. 213. 4   Poiché, gente da ben, vi fu narrato, p. 94. 5   Teatro ebraico ovvero scelta di tragedie tratte d’argomenti ebraici, parte tradotte dal francese e parte originali italiane, 6 7   Ivi, tomo i.   Ibidem. cit., 1751-1752.  





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Compresi nello stesso tempo, che la necessità dei Teatri riduce gl’ingegni a valersi d’argomenti profani ; e in ciò sono essi lodevoli, che volontariamente privano d’una grandissima bellezza le Tragiche rappresentazioni, per non esporre la decenza di tali argomenti là dove ogni qualità di gente spensierata concorre. Ma dall’altro lato m’avvidi, che si potea conservare l’antica usanza, là dove si tratti d’un’onesta compagnia, che per suo ammaestramento desideri di recitare. 1  

Di qui la scelta antologica di un gruppo di testi italiani che abbiano suscitato grande approvazione o di traduzioni dal francese scelte nelle loro migliori versioni, o tra quelle che ancora non erano state tradotte. Le opere di Racine sono le più presenti, ma non mancano quelle di autori minori. L’apertura del volume è affidata alla traduzione di Gasparo Gozzi de La Marianne 2 di Voltaire, autore, come detto in precedenza, molto rappresentato nei circuiti privati, anche perché le scene pubbliche rimanevano quasi esclusivamente dedicate al teatro musicale e alla commedia (il caso di Maffei-Riccoboni con Merope è un’eccezione). Ma notevole ai fini delle nostre riflessioni è la composizione del secondo tomo, quasi esclusivamente sotto il segno della drammaturgia femminile. Il primo testo è infatti l’Ester di Francesca Manzoni, 3 seguita da due tragedie (tradotte dal francese) di Joseph François de Vancy Duchè e di una di Fénelon François de Salignac de la Mothe. I tre lavori tradotti in italiano 4 portano la firma di L. B. G., dunque, sciogliendo la sigla, Luisa Bergalli Gozzi, attribuzione confermata anche da alcune biografie della poetessa. Ecco dunque che le due pastorelle d’Arcadia si trovano accostate, ancora una volta, in un’opera antologica, e in questo caso in una miscellanea teatrale dedicata all’educazione dei giovani in collegio e alle esecuzioni di “oneste compagnie”. Anche la scelta del genere è significativa, perché la scrittura tragica è stata praticata sia dalla Manzoni che dalla Bergalli, accanto all’attività poetica d’occasione, ma soprattutto accanto alla drammaturgia musicale. Sembra quasi che il genere in questione, come del resto la produzione per musica, ben si adatti alle riflessioni e alla pratica poetica femminile del secolo. Dato certo è la vicinanza di queste due autrici nel contesto culturale in cui operano, nonché la loro fervida attività di traduttrici, l’ottima conoscenza della lingua francese e l’interesse per il teatro contemporaneo e per gli autori dei “Lumi”. Da rilevare inoltre la presenza di Racine all’interno del Teatro Ebraico con due tragedie tradotte in italiano, Athalie ed Ester. Si tratta infatti di testi strettamente legati al “femminile”, ma anche alla musica, visto che furono scritti alla fine del secolo precedente per il collegio di Saint Cyr ed eseguiti per la prima volta dalle allieve con l’ausilio degli strumenti e l’inserzione di numerose parti cantate. 5 ii. 3. Maria Teresa Agnesi : dal salotto ai teatri milanesi  

Rimanendo nell’ambito delle autrici attive per le scene pubbliche, Maria Teresa Agnesi, 6 già 1

  Ibidem.   La Marianne di Voltaire tradotta da Gasparo Gozzi, p. xiii. 3   L’Ester tragedia di Francesca Manzoni milanese, fra gli Arcadi Fenicia Lampeatica, p. 5. 4   Il Gionata tragedia del signor Duchè dell’Accademia Reale delle Iscrizioni tradotta dal francese da L. B. G., p. 111 ; I Macabei tragedia del Sig. Della Motte tradotta dal francese da L. B. G., p. 167 ; L’Assalonne tragedia del signor Duché dell’Accademia Reale delle iscrizioni. Tradotta dal francese da L. B. G., p. 237. 5   Cfr. J. Racine, Teatro, con saggio introduttivo, cronologia e commento di A. Beretta Anguissola con uno scritto di R. Girard, traduzioni di G. Raboni, M. Cucchi, M. De Angelis, L. Erba, R. Held, M. Luzi, Milano, Arnaldo Mondadori, I edizione I Meridiani, 2009. 6   Sulla vita e le opere cfr. G. M. Mazzucchelli, Maria Gaetana Agnesi, in Gli Scrittori d’Italia, cit., vol. I, pp. 198199 ; A. Levati, Maria Teresa Agnesi, in Dizionario delle donne illustri, Milano, Bettoni, 1821, i, p. 84 ; L. Anzoletti, Maria Gaetana Agnesi, Milano, Tipografia Editrice L. F. Cogliati, 1900, pp. 171,172, 184, 195 sgg. ; G. e C. Salvioli, 2











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ricordata più volte in precedenza, fu un’altra personalità femminile di rilievo nella Milano settecentesca, attiva sia dal punto di vista accademico che dal punto di vista teatrale, visto che alcuni suoi drammi per musica trovarono spazio proprio sul palcoscenico del Teatro Ducale, tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta del secolo. Si passa così dai teatri veneziani committenti privilegiati dell’opera della Bergalli, al centro propulsivo del melodramma milanese, il Ducale, committenza privilegiata per l’Agnesi. Nata il 17 ottobre 1720, terza figlia di Don Pietro Agnesi, nobile di grande cultura e professore di matematica all’Università di Bologna, e di Anna Fortunata Brivio. Bambina prodigio, come del resto la celebre sorella Maria Gaetana, iniziò a rivelare precocemente le sue doti di clavicembalista, non trascurando tuttavia lo studio delle lettere, del canto e della composizione. La sua prima opera, una cantata pastorale sul testo di Guido Riviera intitolata Il Ristoro d’Arcadia, 1 fu scritta nel 1747 2 in onore del governatore Gian Luca Pallavicini, e andò in scena al Ducale nello stesso anno. In seguito, Maria Teresa inviò a Francoforte La Sofonisba, 3 dramma eroico in tre atti per una possibile esecuzione in concomitanza con l’onomastico dell’imperatrice, che portava il suo stesso nome. 4 E al medesimo periodo appartengono collezioni di arie e pezzi strumentali dedicati ai regnanti di Sassonia ed Austria, mentre da alcune fonti 5 si ricava l’aneddoto che l’imperatrice Maria Teresa abbia effettivamente cantato la collezione di dodici arie inviatale dalla musicista milanese. Ricordiamo che l’imperatrice aveva avuto come precettore a corte Pietro Metastasio, come del resto le sue sorelle e le sue numerose figlie, tutte dotate di notevoli qualità canore. Sulle circostanze che possono aver favorito l’incontro fra le due donne sono state avanzate alcune ipotesi : 6 potevano infatti essersi incontrate durante la prima visita di Maria  

Bibliografia universale del Teatro Drammatico italiano, i, Venezia 1903, col. 770 ; C. Schmidl, Maria Teresa Agnesi, in Dizionario universale dei musicisti, Milano, G. Ricordi & C, 1937-38, vol. i, p. 17 ; G. Barblan, Il teatro musicale in Milano : il Settecento, in Storia di Milano (vol. xii, p. 983) ; S. D’Amico, Enciclopedia dello spettacolo, Roma, unedi, 1975-78 ; C. Burney, Memoires of the life and writings of the Abate Metastasio, New York, Da Capo Agnesi Press, 1971, vol. iii ; F. J. Fetis, Maria Teresa Agnesi, in Biographie universelle des Musiciens, Paris, Firmian-Didot, 1881, vol. i ; Don. A. Hennessee, Don L. Hixon, Women in music, London, Metuchen, 1993 ; R. Zanetti, La musica italiana nel ’700, Milano, Bramante, 1978, pp. 630-1102 ; P. Adkins-Chiti Donne in musica, Roma, Bulzoni, 1982 ; S. Simonetti, in dibi, cit., vol. I, pp. 443-444 ; R. Eitner, Maria Teresa Agnesi, in Quellen- Lexicon der Musiker, Leipzig, Breitkopf and hartel, 1900-1904, I, p. 52 ; C. De Jong, The life and keyboard works of M. T. A., Tesi di Laurea, Minnesota, 1979 ; S. Hansell, voce Agnesi, Maria Teresa, in The New Grove Dictionary of Music and Musicians, a cura di S. Sadie, London, Macmillan, 1980, vol. i, p. 157. 1   Il Ristoro d’Arcadia. Cantata Pastorale a 4 voci posta in musica da D. a. Maria Teresa Agnesi in ossequio di sua eccellenza il signor conte Giovan Luca Pallavicini, generale d’artiglieria, colonnello d’un reggimento di infanteria, governatore di Mantova […], Milano, Malatesta, 1747. Poesia da D. R. Guido Riviera eccetto le Arie e il Coro […] supplite da altri. 2   C. De Jong, The life and keyboard, p. 18 : « No concrete evidence remains of the compositions of Teresa Agnesi from the period encompassing her childhood to 1747. However, it is safe to assume that at least some of the few extant keyboard compositions were writting during this time ». 3   Complessa la questione della data di composizione del dramma e del luogo della sua effettiva esecuzione, cfr. R. L. Kendrick, La Sofonisba by Maria Teresa Agnesi : composition and female heroism between Milan and Vienna, in Il Teatro musicale italiano nel Sacro Romano Impero nei secoli xvii e xviii, Atti del Convegno Internazionale sulla musica italiana nei secoli xvii e xviii, Loveno di Menaggio, 15-17 Luglio, 1997, a cura di A. Colzani, N. Dubowy, A. Luppi, M. Padoan, Como, amis, 1999, pp. 341-362. 4   Il frontespizio recita : alla sacra cesarea real maesta’ / dell’augustissimo imperatore / francesco primo / la sofonisba / Posta in musica / Da D. na Maria Teresa Agnesi / per il nome gloriosissimo / dell’augustissima imperatrice / maria teresa / d’austria / regina d’ongaria, e di boemia &c. &c. &c. 5   Cfr. S. Simonetti, in dibi, pp. 443 : « La sua capacità artistica non soltanto si manifestò nelle numerose composizioni di musica vocale (Arie, Cantate, ecc., un libro delle quali dedicato all’imperatrice Maria Teresa d’Austria, e molte altre dedicate all’elettrice di Sassonia Maria Giuseppina) e strumentale (Sonate, Fantasie per cembalo, Concerti per pianoforte, ecc.), ma le consentì anche di affrontare, con esito felice, l’impegno di opere teatrali, le quali delineano una concezione operistica più severa del gusto corrente del tempo ». 6   R. L. Kendrick, La Sofonisba by Maria Teresa Agnesi, cit.  









































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Teresa a Milano nel 1739 (prima dunque della sua ascesa al trono). Un’altra occasione per instaurare un legame professionale con la casata asburgica poteva essere la visita di Augusto di Sassonia in città nel biennio 1738-1739, durante la quale egli aveva presenziato ad una serata accademica nel salotto di Pietro Agnesi. Stando alle testimonianze di Charles De Brosses il padre amava infatti esibire pubblicamente il talento delle figlie : « Mi han fatto entrare in un salone grande e bello, dove c’erano trenta persone di tutte le nazioni d’Europa disposte in circolo, e la signorina Agnesi seduta da sola con la sorellina su un canapé ». 1 E dopo aver decantato le qualità sorprendenti di Maria Gaetana, il diplomatico francese concludeva su Maria Teresa : « Dopo la conversazione, la sorellina suonò al clavicembalo, quasi fosse lo stesso Rameau, brani di Rameau e altri composti da lei stessa, e cantò accompagnandosi da sé ». 2 Del resto, qualunque sia stata la circostanza esatta in cui si sia stabilita la relazione, entrambe le sorelle Agnesi iniziarono a godere dei favori degli Asburgo, almeno a partire dagli anni Quaranta del secolo, poiché anche Maria Gaetana si avvalse del sostegno dell’imperatrice Maria Teresa per la pubblicazione delle sue Istituzioni analitiche, nel 1748. E con probabilità la figura mediatrice con la casata d’Austria fu quella di Pallavicini, dedicatario (insieme all’imperatrice) sia del Restauro di Maria Teresa, che delle Istituzioni di Maria Gaetana. La stretta relazione tra le due sorelle e la corte conferma anche l’intervento attivo da parte dell’imperatrice per sostenere le donne eccezionalmente dotate ; linea d’azione che s’inserisce in quella già svolta nel contesto milanese dalla madre Elisabetta Cristina, come dimostrato dalla biografia artistica di Francesca Manzoni. Legato alla composizione della Sofonisba, sicuramente il 1749 fu un anno di svolta nella carriera di Maria Teresa ; nei suoi Scrittori d’Italia, Mazzucchelli, all’altezza del ’49, 3 scriveva :  

















E ben chiara prova di tutto ciò è l’accettazione con la quale è stato accolto ed onorato di pregiatissimi segni d’aggradimento dalla Regnante Imperadrice Maria Teresa il Libro de’ suoi Componimenti alla medesima presentato e la sua Musica del Dramma della Sofonisba al vivente Imperador consacrato. 4

In quello stesso anno, infatti, sono numerose le attestazioni di stima nei confronti dei lavori della musicista milanese che si ricavano dall’epistolario della più nota sorella Maria Gaetana conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. 5 Molti sono infatti i corrispondenti stranieri della matematica che colgono l’occasione di allegare lettere di congratulazioni alla più giovane Maria Teresa per le sue composizioni :  

Mademoiselle Agnesi ! Votre lettre du 18 Juin m’est exactement perveniie avec les pieces de musique, qui y’étoient jointes. Le bon goût y regne, et l’art y est d’autant plus admirable, qu’il exprime parfaitment le sens naturel des paroles. Tout y est nouveau, et ne peut manquer de plaire aux amateurs de la musique. Comme c’est là une partie de mes amusements ; je vous laisse juger la satisfaction, que j’ai eiie en faisant executer vos compositions. 6  



Evidentemente, due fanciulle così istruite e versatili nella stessa famiglia suscitano stupori nel panorama culturale coevo e in molti si congratulano con entrambe, tra cui questo 1

2   C. De Brosses, Viaggio in Italia, cit., p. 80.   Ivi, p. 81.   Cfr. R. L. Kendrick, La Sofonisba, cit., p. 343 : « The publication date on Mazzuchelli’s book is 1753, but the censorial approval for the text dated 20 October 1749, and Mazzuchelli himself noted that mosto f the information contained in the book predated 1759. Thus it is likely that Agnesi destined La Sofonisba for the Empress’s nameday no later than the autumn of a748 or 1749 ». 4   G. Mazzuchelli, Gli scrittori d’Italia, Brescia, Gianbattista Bossini, 1753, vol. 1, pp. 200-201. 5   Fondo Maria Gaetana Agnesi in 25 volumi ; per le lettere citate la segnatura è O. 201. Sup. 6   mga, O. 201. Sup., foglio n. 120, lettera datata Dresda, 24 agosto 1749. 3









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non meglio identificato, ma evidentemente entusiasta Marie Antoine, autore di due lettere identiche inviate alle sorelle Agnesi, in cui cambia, ovviamente, l’oggetto dei suoi complimenti. Un’altra missiva, che reca la stessa data della precedente e lo stesso luogo di spedizione, Dresda, riporta ancora note si apprezzamento scritte da Joseph de Waekenbass. Questi assicura a Maria Teresa di aver presentato le Istituzioni e le composizioni di musica, rispettivamente, al principe e alla principessa (evidentemente dividendo secondo un’ottica di gender i due ambiti culturali) : « Je puis vous assurer, Mademoiselle, que l. l. a. a. r. e. lesont agrees avec d’autant plus de satisfaction, qu’elles ont reconnû par vostre attention l’attachement, que vous portes à leurs Augustes Personnes ». 1 E ancora, continuando la lista degli ammiratori, il 4 settembre 1750 il conte Riccati scrive da Treviso a Maria Gaetana per ottenere dalla sorella più piccola qualche composizione da inserire come esempio in un suo trattato di contrappunto. E nella lettera di ringraziamento per le arie e cantate inviategli, datata 23 settembre 1750, scritta alla stessa Agnesi, esprime un giudizio critico piuttosto preciso, tra i pochi che possediamo, visto che gran parte della sua produzione manoscritta è andata perduta. 2 Poco dopo la morte del padre, Maria Teresa sposò, il 13 giugno 1752, Pietro Antonio Pinottini da cui non ebbe figli. Continuò tuttavia la sua carriera di musicista e compositrice, tanto che una sua opera, Ciro in Armenia, fu eseguita, il 26 dicembre del 1753, al Regio Teatro Ducale di Milano. In più sedi si attesta l’attribuzione del libretto all’Agnesi stessa, 3 in virtù sicuramente della sua ottima educazione letteraria e della sua frequentazione del salotto paterno, come di alcune Accademie. Una Cantata per musica pubblicata nel 1756 riporta la dedica alla illustre e bella Donna Teresa Agnesi Pinottini : la musica è firmata da Pier Domenico Soresi mentre il testo è tratto dal citato poema di Gian Carlo Passeroni, Il Cicerone :  









Chi non crede, donne belle, che adornando il pronto ingegno meritar vi sia permesso onorata eternità ; venga e veda due sorelle del saper toccare il segno ed allora il vostro sesso tanta ingiuria non farà.  

Questa celebrazione poetico-musicale testimonia sicuramente la fama allora goduta dalle Agnesi nell’ambiente milanese e non solo. In effetti, le due fanciulle avevano avuto modo di farsi apprezzare non solamente nel salotto della casa paterna. Alcuni studi 4 ipotizzano, infatti, contatti frequenti fra le Agnesi e Laura Giulini, sorella del conte Giorgio Giulini, che in onore suo e del suo talento canoro organizzava vere e proprie serate musicali nella villeggiatura di Boffalora. 1

2   Ivi, foglio n. 121.   Cfr. Simonetti, in dibi, cit., p. 443.   De Jong, The life and keyboard, p. 29 : « The author esamine a copy of this opera in manuscript contained in the library of the Conservatory of Music in Milan. This score is incomplete, containing only Act ii and the last part of Act iii. According to a note in the catalog about this work, Eitner listed the only example as being houses in Dresden, Sächs. This copy was destroyed during World War ii so it is impossibile to make a comparison and verify the authenticity of this milanese manuscript. The Deden cpy was dedicated to Fredrick I of Saxony. A libretto was discovered in the Braidense library in Milan entitled Ciro in Armenia and is dedicated to the Duke of Modena ». 4   Su questo cfr. R. Carpani, Pratiche teatrali del patriziato e dei nobili a Milano, in Il teatro a Milano nel Settecento, a cura di A. Cascetta e G. Zanlonghi, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp. 375-431. Informazioni in proposito anche Nel secondo Centenario della nascita del conte Giorgio Giulini, Milano, Stucchi, Ceretti & C., 1916, vol. i, pp. 15-16. 3







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Al periodo 1754-1765 appartengono forse altri due lavori di Maria Teresa : Il Re Pastore, 1 sullo stesso libretto di Pietro Metastasio musicato da Mozart e l’Ulisse in Campania, una serenata a quattro voci, in due parti con sinfonia, su libretto con probabilità della stessa Agnesi. 2 Su queste due opere non abbiamo grandi informazioni, 3 ma della serenata possediamo il manoscritto conservato nella Biblioteca del Conservatorio di Napoli ; fatto che non stupisce se si considera la stretta rete di relazioni intercorse tra il capoluogo milanese e quello campano nel corso del Settecento, sotto il comun denominatore della casata asburgica. 4 In effetti, la reputazione dell’Agnesi valicò la pianura padana, scendendo proprio a Napoli, dove venne messa in scena la Sofonisba, composta anni prima per l’onomastico di Maria Teresa, e destinata inizialmente ad un’esecuzione privata. Lo studio di Kendrick si sofferma in particolare sugli elementi tragici di questo dramma per musica, primo esempio di opera seria scritto da una musicista italiana. La storia, tratta dalla campagna nordafricana di Scipione l’Africano, parla infatti della caduta della regina Sofonisba, culminata nel suo suicidio. L’argomento tragico sembrerebbe in effetti essere in contrasto con l’iniziale destinazione encomiastica del lavoro, inviato in Germania per l’onomastico di Maria Teresa. Ma forse l’Agnesi, questa seconda volta, voleva celebrare l’anno 1740 che vide l’imperatrice protagonista di un’azione militare per salvare il suo trono insidiato da ben due guerre di successione. 5 Intorno al 1740 (anno di morte dell’imperatore) lo stesso Metastasio aveva composto un quartetto di opere d’ispirazione senecana, tra cui spicca Il sogno di Scipione, musicato per la prima volta nel 1735, sempre sull’argomento della campagna d’Africa. Il tema svolto dal poeta cesareo era quello della virtù insidiata dai rovesci di fortuna e tra le interpreti spiccava il nome dell’allora arciduchessa Maria Teresa, esibitasi per il genetliaco del padre. Probabile che l’Agnesi, conoscendo il precedente metastasiano, abbia voluto, con la Sofonisba, dedicare il tema della constantia sapientis alla nuova imperatrice, messa alla prova da numerosi eventi bellici. La partitura manoscritta dell’opera 6 è conservata a Vienna in una copia e la sua lunghezza ben si adatta alla tragicità dell’intreccio, svolto nei tre atti canonici. Non risulta un libretto stampato ed il testo appare piuttosto semplice, forse opera di uno degli autori dell’Accademia dei Trasformati di cui la musicista faceva parte. 7 Kendrick ipotizza un poeta minore, come Pier Domenico Soresi, autore delle cinque cantate in onore dell’Agnesi, o proprio  



1   C. De Jong, The life and keyboard, p. 30, 31 : « A microfilm of this opera is in possession of this author obtained from Österreichische Nationalbiblioteck in Vienna, where the only copy exists. It is a large work with an orchestra score for winds, brass and percussion as well as strings. It is dated and does not contain a dedication, but the composer’s name is given as Maria Teresa Agnesi Pinottini, therefore it was written after her marriage in 1752. According to a letter this author received from Dr. Franz Grasberger, the Opernlexicon Franz Stieger says that this opera was given a private performance in 1756. This manuscript was in poessession of the Court Chaple and was obtained by the library from he Imperial House ». 2   Su quest’eventualità concordano la De Jong e Sven Hansell, curatore della voce dedicata a Maria Teresa sul New Grove Dictionary of Music et Musicians. 3   In L. Gualtieri, Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, Milano, Ronchi, 1857, p. 252 si trova menzionata un’olteriore opera Semiramide, soggetto usato nei libretti di Zeno e Metastasio. Ma ci deve essere stata una sovrapposizione con Nitocri, visto che entrambe le opere parlano di regine egizie. 4   Cfr. Storia della Musica e dello Spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di F. Cotticelli, P. Maione, Napoli, Turchini, 2003. 5   La De Jong parla infatti, in chiusura del manoscritto di una Licenza indirizzata all’imperatrice Maria Teresa durante la guerra dei Sette Anni. In effetti il 1740, in cui morì Carlo VI, non fu un anno facile per la giovane imperatrice che si trovò a dover fronteggiare ben due guerre di successione. 6   Österreichische Nationalbiblioteck, MS 19230, per due oboi, due corni, trombe e violini. 7   Il New Grove attribuisce il testo a G. F. Zanetti, che a me risulta uno stampatore, ma Sartori indica come autore Antonio Zanetti insieme a G. Zanetti ; Kendrick non esclude neppure Guido Riviera, autore del testo della prima opera dell’Agnesi.  







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Luigi Giusti, il marito di Francesca Manzoni, che, istruito da Apostolo Zeno, aveva tentato già, come visto, la strada del melodramma. La rappresentazione della Sofonisba fu seguita dalla produzione dell’Insubria consolata, un componimento drammatico per musica andato in scena nel 1766 nella Galleria del Palazzo Ducale di Milano all’interno del contesto delle celebrazioni festive per il fidanzamento di Maria Ricciarda Beatrice d’Este con l’Arciduca Ferdinando d’Austria. Nel 1770 Maria Teresa fu inclusa nella lista delle personalità di rilievo che Mozart, allora quattordicenne, doveva incontrare nella capitale lombarda. La De Jong ha riconosciuto, infatti, il nome della musicista nel diario di Leopold Mozart, 1 anche se indicato scorrettamente come “Billotina Agnesi”. Non rimane invece alcuna testimonianza dell’incontro effettivo fra i due musicisti, sicura è solamente la presenza del nome della fanciulla nel carnet d’impegni del genio salisburghese. L’ultima opera della clavicembalista milanese, Nitocri, fu rappresentata poco dopo il suo incontro con Mozart, nel 1771, a Venezia. La partitura è andata persa e non abbiamo al momento ulteriori indicazioni per affermare che sia effettivamente il suo ultimo lavoro ; non esistono, infatti, fonti successive a questa data e scarse sono le notizie biografiche dopo gli anni Settanta del Settecento. Sappiamo solamente che morì a Milano il 19 gennaio 1795, probabilmente in povertà ed un suo ritratto è conservato al Museo del Teatro La Scala e riprodotto nel volume della Storia di Milano. 2  

ii. 4. Minerva et Venus in una : Paolina Secco Suardo  

I contemporanei di Paolina Secco Suardo celebrarono più volte in versi la sua bellezza di Venere unita all’intelligenza di Minerva. L’affermazione e la risonanza vivissima del suo nome nella seconda metà del Settecento furono anche dovute in gran parte « alla sua posizione di destinataria di dediche e di omaggi, che nella società del tempo sancivano un prestigio assoluto e contavano più di una reale presenza nell’Olimpo letterario femminile tra Illuminismo e Neoclassicismo ». 3 Dato notevole è infatti che il percorso letterario e culturale della contessa bergamasca incroci quello dei principali eruditi e intellettuali del secolo. Scorrendo il nutrito indice dei corrispondenti 4 della Secco Suardo, s’incontra gran parte dell’intellighentia settecentesca italiana e francese : Ippolito Pindemonte, Clementino Vannetti, Girolamo Tiraboschi, Saverio Bettinelli, Antoine Marine Lemierre, Jerome De Lalande, Ruggero Giuseppe Boscovich, per ricordarne solo alcuni. E di grande rilevanza ai fini di questo lavoro è la rete di contatti al femminile : la poetessa Fortunata Fantastici Sulgher, la pittrice Angelika Kauffmann, la drammaturga Anne Marie Du Boccage. Nata Secco Suardo a Bergamo nel 1746, la contessa Paolina ebbe un’educazione prevalentemente letteraria, almeno nella prima fase. Sposò giovanissima, a soli diciotto anni, il conte Grismondi e si trasferì a Verona, dove, essendo figlia di una Carolina Terzi, fu avviata a nuovi studi nel colto ambiente frequentato dai cugini Pompei. Di nuovo a Bergamo, intorno al 1775, la contessa iniziò a tenere salotto, circondata da ammiratori e cavalieri che le si offrivano come interlocutori ed accompagnatori per il teatro e la fiera di Sant’Alessandro, secondo un’usanza d’oltralpe alla quale ormai non sfuggiva neppure un centro periferico come Bergamo. Al centro dell’attenzione cittadina per la sua eleganza e la sua vivacità intellettuale, la Secco Suardo avvertiva tuttavia i limiti dell’ambiente in cui viveva, sicuramente provinciale rispetto a Parigi, Venezia, Milano e la stessa Verona. 5  







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2   L. Mozart, Brief und Aufzeichnungen, i, Kassel, 1962, p. 322.   Vol. xii, xiv.   M. Dillon Wanke, Il ruolo ambiguo, cit., p. 467. 4   Indicativo sicuramente a questo proposito l’Indice alfabetico dei corrispondenti in Lettere a Paolina Grismondi, Biblioteca Civica Angelo Mai, mb 828-831, Alfa. 3. 41-44 da cui si traggono 97 nomi. 5   Cfr. F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., pp. 37-49. 3

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Verso la metà degli anni Settanta la contessa iniziò ad accarezzare l’idea di avvicinare la società culturale bergamasca al piacere del teatro, costituendo una compagnia filodrammatica in cui lei stessa potesse recitare. La moda (se così vogliamo indicare un fenomeno allora in espansione) proveniva ancora una volta dalla Francia ed aveva attecchito in molti salotti dell’area lombardo veneta come in tutta Italia. Abbiamo già passato in rassegna, nel corso di questo studio, alcune delle principali esperienze di salotti teatrali a Verona, Vicenza, Brescia e Milano. E su questo progetto della contessa torneremo in seguito, approfondendone esiti e repertorio. All’inizio del 1777 la Secco Suardo soggiornava nuovamente a Verona, ospite dei cugini Pompei, rimanendovi per l’intero anno : « il motivo ufficiale del soggiorno, espresso anche in un sonetto e ripreso da tutti i biografi, era di giovare alla sua incerta salute cambiando clima e respirando l’aria del Monte Baldo ». 1 La contessa aveva allora trentun’anni e dal punto di vista mondano si realizzava per lei « il primo trionfale ingresso nel bel mondo della cultura e dell’amore intrecciati » e cioè in quell’Arcadia femminile in cui alle donne veniva riconosciuta « la capacità di essere soggetto oltre che oggetto di cultura ». 2 In realtà, in questa fase, Paolina sperimentò ancora un momento di formazione poetica e di apprendistato letterario, seguendo i consigli di Gerolamo Pompei 3 e Clementino Vannetti. 4 All’interno del cenacolo veronese entrò in contatto con Ippolito Pindemonte e Alessandro Carli, ma anche Elisabetta Mosconi 5 e Silvia Curtoni Verza. La pratica dei versi la introdusse gradualmente nella vita pubblica e culturale, conferendole un ruolo che divenne sempre più ben delineato, come dimostra la nomina in Arcadia sotto lo pseudonimo di Lesbia Cidonia. Rientrata nel palazzo Grismondi a Bergamo, la contessa maturò l’idea di un viaggio a Parigi, ideale punto d’arrivo delle prove di recitazione del repertorio francese come delle conoscenze letterarie veronesi e delle aspirazioni poetiche. Nella primavera del 1778 Paolina partì alla volta della capitale insieme al marito, al cugino Alberto Pompei, e al cavaliere Mocenigo, ex ambasciatore della Repubblica di Venezia presso la corte parigina. Dopo la tappa torinese, la contessa entrò in Francia, dirigendosi verso Digione, con precisione la residenza di Montbard, dove risiedeva il conte di Buffon, 6 attivo come scienziato e letterato :  















Giunta a Digion andai espressamente a Montbard ove suole abitare il Conte Buffon, il quale avvertito del desiderio che mi aveva spinta a quel luogo per vederlo venne a levarmi al mio albergo, e mi volle 1

2   Ivi, p. 51.   M. Dillon Wanke, Il ruolo ambiguo, cit., p. 471.   Una parte del carteggio con Pompei è conservata presso la Biblioteca Civica di Verona, che verrà di seguito indicata con la sigla bvr. 4   Parte del carteggio tra la contessa e Vannetti è conservato presso la Biblioteca Civica “Tartarotti” di Rovereto, che indicheremo di seguito con la sigla bro. Si tratta del Ms. 7. 21 contenente Quarantaquattro lettere della Contessa Paolina Grismondi Suardo a Clementino Vannetti cc. 85. Gli estremi cronologici del carteggio sono 17 settembre 1783-8 ottobre 1794. La presenza del fondo custodito nella Biblioteca è dovuta all’origine roveretana di Clementino Vannetti, figlio di Bianca Laura Saibante, sulla quale abbiamo dato notizie in precedenza. 5   Nel fondo della bro, Ms. 7. 20, si trova una miscellanea composita in cui figurano sette lettere della Mosconi a Vannetti ed alcuni epigrammi della stessa Mosconi. 6   Francesco Tadini, nella sua biografia dedicata alla poetessa, ricostruisce alcuni degli argomenti delle conversazioni tenutosi nel salotto di Buffon ; tra questi la composizione di un’ode che Le Brun (non conosciamo nome di battesimo né date di nascita e di morte), conosciuto come il “pindaro francese” avrebbe dedicato al padrone di casa. Buffon ne avrebbe gradito, infatti, una traduzione italiana da parte della Secco Suardo, fatto che trova conferma nelle lettere indirizzate alla contessa dal conte Buffon e contenute in mmb 828, Alfa. 3. 41. della bbg, i cui estremi cronologici sono aprile 1778-gennaio 1780. Nel gruppo di lettere si parla infatti di alcune odi di M. Le Brun tradotte dalla contessa ; una di queste è riportata per intero proprio per essere tradotta. Ci sono anche due lettere indirizzate da Le Brun alla contessa in mmb 830, Alfa. 3. 43., datate 30 luglio 1780, poi stampate in Lettere di illustri letterati scritte alla celebre poetessa Paolina Grismondi nata contessa Secco Suardo, fra le arcadi Lesbia Cidonia, a cura di G. Labus, Bergamo, Mazzoleni, 1833, pp. 15-17, 17-19. Si parla nuovamente delle due odi tradotte da Paolina, lodandone le capacità letterarie e paragonandola alla poetessa greca Saffo. 3





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subito seco a pranzo fra una scioltissima compagnia, e non vi fu dimostrazione di gentilezza, e direi pur di affetto ch’egli non abbia continuato a usar verso di me. 1

Fatte le prove generali in provincia, la comitiva era pronta ad entrare nella movimentata vita culturale e mondana di Parigi, dove fu accolta con amicizia e deferenza da diplomatici e letterati. In particolare, ricorrono nell’epistolario i nomi del drammaturgo Lemierre, dell’astronomo Lalande, Montigny, 2 Mercier e l’abate Boscovich. 3 Non mancarono dunque le occasioni di partecipare a rappresentazioni teatrali, circoli e salotti. In particolare, la contessa ebbe la possibilità di accedere alla conversazione della poetessa e drammaturga Du Boccage, a cui offrì in dono alcuni suoi sonetti. Fu ricambiata con una nuova edizione delle stesse poesie, accompagnate da un biglietto :  

Daignez recevoir ces rimes, Madame, et la dernière édition des mes ouvrages ; je vois par les vers des Alpes (que vous avez eu la bonté de traduire) que vous n’aviez que la précédente. C’est une faible marque de ma reconnaissance, Madame, mais que peut-on vous offrir ? Vous avez tout, beauté, rang, naissance, jeunesse, grâces, richesses, esprit, talens, etc., etc. Voici des vers que l’abbé Boschovich a mis au bas de ceux, dont vous m’avez favorisée. 4  



Grazie all’interessamento di Lemierre, la Secco Suardo ebbe l’occasione d’incontrare Diderot e Voltaire, ormai molto anziano. Egli risiedeva presso il ponte reale verso il Faubourg Saint Germain, nel palazzo del marchese Villette, ma la contessa non riuscì a vederlo durante la sua prima visita, come scrive un po’ delusa all’abate Bettinelli :  

[…] sommi trovata a Parigi nel tempo in cui c’era Voltaire, è quando colà finì i suoi giorni. Abitava egli nella casa, come saprete del Marchese Villette, che ha un bel palazzo giù del ponte reale verso il borgo S. Germano. Andai alla prima per visitarlo, e non ebbi la grazia di poterlo vedere. Feci in tal occasione un picciolo epigramma, e lo lasciai vedere, perché pensai esser sicura fra tanti che poco o nulla intendono l’italiano. Lo farò qui trascrivere per aggiungervi una traduzione dell’Ab. Boscovich, la quale fu reputata felice. 5

Tuttavia, in seguito, scriveva ancora nella lettera, « fui ammessa a visitare Voltaire spesse volte, e fui accolta dallo stesso con segni di somma cortesia, e fu in tale incontro ch’egli mi fece presentare i pochi versi da lui dettati ». E aggiungeva, nella lettera successiva, molte note d’entusiasmo per l’incontro con Voltaire e con Benjamin Franklin, con l’unico rammarico di non aver visto Rousseau :  





Fui fortunata, e me ne compiaccio tuttora, essendo introdotta a visitare frequentemente il gran Voltaire, che allora faceva tanto romore a Parigi, e che appunto s’era colì portato nel tempo ch’io da Torino pensava di girmene per vederlo a Ginevra. Avrei conosciuto volentieri anche Rousseau ma non mi fu possibile il visitar quel selvatico per quanto me ne procurassero l’incontro e Lalande, e Lemierre, e Mercier che di lui si vantavano amicissimi. Tutti poi erano i francesi in quel tempo stesso intenti ad ammirare, e ad omaggiare anche l’americano Franklin che mi accolse, la prima volta che il vidi, 1   Lettera datata 1778 contenuta in uno dei cinque volumi di manoscritti della Suardo indirizzati a Saverio Bettinelli ora conservati presso l’Archivio privato dei conti Antona Traversi a Meda, che d’ora in poi indicheremo con la sigla ame. 2   Tre lettere datate agosto 1778, una in italiano (15 agosto), due in francese in mmb 830, Alfa. 3. 43. In quella datata 15 agosto dice di dispiacersi per la partenza della contessa da Parigi, « troppo breve da vero è stata la sua apparizione in Francia. Rassomiglia a quella degli angeli, vengono, abbagliano e spariscono » ; ma si augura un suo ritorno a breve nella capitale francese. 3   Dell’abate Ruggero Giuseppe Boscovich abbiamo alcune lettere manoscritte in mmb 828, Alfa. 3. 41. con estremi cronologici febbraio 1778- gennaio 1780. L’abate parla di alcune commissioni che gli sarebbero state affidate dalla contessa che avrebbe passato a Madame Du Boccage, trovandosi fuori da Parigi, nella villa del principe di Saverio di Sassonia, a nord della Senna. 4   Lettera xx, in Lettere di illustri letterati, cit., s. d. 5   ame, lettera manoscritta datata 1778.  





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con un bacio sonoro e veramente, come alcuni notarono scherzando ben da Quacchero. Essendogli stato dimandato in altra occasione se avrebbe amato di trattar con me degli affari suoi politici che lo avevano coinvolto a Parigi rispose Je deposerai l’Amerique à ses pieds. Oh a voi una simile espressione a voi è sonata mai ! Avete ben sentito dirvi che va superba di voi la vostra Mantova, che tutta l’Italia vi applaude, che il vostro nome è celebre in ogni parte, ma non vi sarete mai lusingato di vedervi offerta e deposta l’America a vostri piedi. 1  

La contessa ripartì da Parigi ai primi di luglio, per fermarsi poi a Strasburgo e fare ritorno a casa passando per la Germania. Arrivò dunque a Bergamo il 12 settembre, non senza aver fatto una sosta a Verona, dove si trattenne per tutto il mese di agosto per riposarsi dalle fatiche del viaggio. Rientrata in patria, mantenne viva una rete di contatti francesi che la portò ad essere al centro di uno scambio poetico molto intenso a cui partecipò (nonostante la salute talvolta precaria) con traduzioni e contributi in versi. Vedremo poi come la vicenda della Secco Suardo ben rappresenti un esempio d’importazione della conversazione francese nel salotto da lei animato nel palazzo Grismondi o nella villeggiatura di Redona. E come ingrediente portante della conversazione del salon fosse, in Italia come in Francia del resto, la promozione del teatro e dell’estetica teatrale. Sarebbero molti i filoni da seguire nella ricca biografia della contessa Paolina Secco Suardo ; molte le piste di ricerca aperte, infatti, dal nutrito epistolario, solo in parte stampato, epistolario che offre un quadro della cultura lombardo-veneta del Settecento piuttosto ampio e articolato. Numerosi i nomi eccellenti incrociati da Lesbia Cidonia, come le attestazioni di stima nei suoi confronti e la sua nutrita produzione poetica, 2 che le valsero una discreta fama nell’epoca in cui visse. Tuttavia, essendo stato già dedicato da Francesco Tadini un intero volume alla sua biografia, sembra più opportuno concentrarsi su alcuni filoni che sottendono questa ricerca e che si trovano ben rappresentati dall’esperienza letteraria della poetessa bergamasca. Di qui la scelta di concentrarsi sulla sua formazione culturale, sul viaggio parigino, sulla rete di contatti femminili ed, in seguito, sul teatro. Proprio le relazione fra salotto e teatro, così stretta nella vicenda artistica di una nobildonna (che, però, non sarà mai drammaturga), troverà infatti spazio più avanti, all’interno dell’analisi dei testi e del repertorio riconducibili al panorama femminile lombardo-veneto. Dunque, in questa sede, si concluderà la nota biografica con alcune osservazioni dedicate alle corrispondenti di Paolina Secco Suardo ; emergono, infatti, due nomi di rilievo : la poetessa livornese Fortunata Fantatici Sulgher e la pittrice Angelika Kauffmann. La Fantastici, trasferitasi a Firenze nel 1777 a seguito del matrimonio e là animatrice di un famoso salotto culturale, fu in corrispondenza con la contessa bergamasca dal dicembre del 1788 al novembre del 1795. 3 Potevano forse essersi conosciute nel 1783, durante il primo tour artistico della poetessa toscana nell’Italia settentrionale, in cui si era esibita nelle sue prove d’improvvisazione in numerosi salotti e circoli accademici. Sicuramente c’era stato un incontro nel 1788, visto che la contessa scrive a Clementino Vannetti nel settembre di aver percorso tutta la toscana, soffermandosi alcuni giorni a Firenze e di aver visitato, in quel contesto « la famosa Corilla, e la dolce e celebre Fantastici e questa ho pur udita cantar all’improvviso, con somma leggiadria, e con un’incredibile compiacenza mentre la prima più non vuole far sentire  







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  Ibidem. La lettera si trova pubblicata, anche se parzialmente, in F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., p. 79.   P. Secco Suardo Grismondi, Canzone della contessa Paolina Suardo Grismondi al sig.r Le Mierre, [1750] ; Idem, In morte di Andrea Pasta, Bergamo, Locatelli, [1750] ; Idem., Traduzione in ottava rima dell’Ode del Le Brun al conte Buffon. Epistola e i suoi versi, Bergamo, Locatelli, 1782 ; Idem, Per la morte di Girolamo Pompei fra gli Arcadi Dicilio Liciense, Bergamo, Locatelli, 1788 ; Idem, Poesie della contessa Paolina Secco Suardo Grismondi, Bergamo, Mazzoleni, 1820 ; Idem, Poesie della contessa Paolina Secco Suardo Grismondi tra le pastorelle arcadi Lesbia Cidonia, Bergamo, Mazzoleni, 1822 ; Sette lettere di P. S. S. G. , a cura di E. Zerlini, Bergamo, Mazzoleni, 1886 ; Undici lettere di P. S.S. a Fortunata Sulgher, a cura di L. A. Ferrai e V. Polacco, Padova, Tipografia Gallina,1896. 3   Le risposte della Paolina Secco Suardo sono pubblicate in Undici lettere a Fortunata Sulgher, cit. 2















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il suo canto ». 1 Mesi dopo, la testimonianza di quell’incontro nelle parole di Fortunata : « e quale è mai il valore che ammirate in me amabilissima Lesbia se altro non avete da me udito che pochi e languidi versi estemporanei, e gli avete uditi voi che siete la più dilicata, e la più modesta insieme delle figlie d’Apollo ». 2 Nella lettera datata dicembre 1788, Fortunata si scusa per non aver scritto da tempo, impegnata in un soggiorno di un mese nella capitale : « la voglia che là ebbi di veder molto ; le persone che mi si affollavano intorno. La necessità in cui mi era di cantare spesso furono il motivo per cui là non vi scrissi ». 3 Più avanti, la lettera fa riferimento alla conoscenza con la pittrice Kauffmann :  

















Vi voglio pur dare un’altra prova ed è che avendo conosciuto la celebre Angelica Kauffmann mi son trovata impegnata a dedicare a lei le mie composizioni poetiche, che stamperò ben presto per contraccambiare questa gentile amica di uno stupendo ritratto che di me a voluto regalarmi, fatto da lei con la maggior bravura del mondo. Se voi ne gradite un esemplare me ne farò un dovere, ma ditemi prima se sono ancora la vostra Fantastici, scusate se udite ciò che far debbo dei miei versi, e datevi la pena di osservare che mi è necessità il ricompensare con tanto poco là dove un tal ritratto meriterebbe 50 zecchini nella impazienza di ricevere i vostri per me consolanti caratteri mi confermo con la più tenera stima da voi amabile amica. 4

Nella lettera scritta la vigilia di Natale dello stesso anno, la Fantastici ribadisce la propria soddisfazione per le attestazioni di stima ricevute dall’aristocratica amica : « Io mi reputo oltremodo fortunata se veramente voi m’onorate della preziosa amicizia vostra e se degna mi reputate d’un favore sì segnalato ». E in una missiva dell’anno seguente, sottolinea l’impegno di Paolina nel sostenere l’ingegno delle donne nel panorama culturale maschile del secolo, adoperandosi con impegno per diffondere i versi propri e di altre pastorelle arcadi :  







[…] imparino una volta gli uomini a voi vicini che la solida cultura dello spirito unita alle grazie naturali d’un sesso per natura delicato, sensibile, ed avvezzo al freno della educazione più è adatto ad abbellire la società e a inspirare il buon gusto per le belle lettere, e la cultura negli uomini. Io vi giuro amica degnissima, che l’unica ricchezza di cui vi bramo possessora è che veramente voi possiate trovare nei vostri libri i vostri amici più veri, che non vi procurate affanni, che vi fate un grato dovere di difendere le donne che si distinguono, e accesa sempre più di nobile desio di gloria tentate solo d’oscurarle col merito, divenite anche improvvisatrice e vedrà il mondo se saremo amiche ; la senese Accarigi vene da l’esempio, ella è del vostro ceto. 5  

Come si legge, la frequentazione promiscua del salotto letterario di Paolina è individuata dalla Fantastici come fenomeno propulsore della pratica poetica femminile, anche se, tra le righe, s’intuisce come lo spessore intellettuale di una dama debba ancora una volta presentato positivamente solo in un’ottica androcentrica, e cioè come ulteriore stimolo per la cultura maschile. Da notare, inoltre, il riferimento diretto alla differenza di ceto fra le due corrispondenti : Fortunata si augura, infatti, che la pratica dell’improvvisazione poetica a livello, diciamo, professionistico possa diffondersi anche fra le nobildonne, interdette dalle esibizioni pubbliche a scopo di lucro. Scrivendo all’amica, qualche anno più tardi, la Fantastici ribadisce ancora l’importanza di una rete culturale di donne che si sostengano a vicenda, promuovendo il proprio intelletto e quello altrui, in un rapporto di solidarietà reciproca che le aiuti a farsi strada nel panorama culturale coevo : « Questo secolo vedrà qualche esempio di stima sincera fra di noi ; e l’am 







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  bro Ms. 7. 21, lettera datata 6 settembre 1788.   mmb 829, Alfa. 3. 42., lettera datata 24 dicembre 1788. 3   mmb 829, Alfa. 3. 42. 4   Ibidem. 5   Ibidem, lettera datata 26 ? 1789. 2



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mirerà, assicurandovi che se il nostro sesso non ottiene dagli uomini tutto quel riguardo, che pure li si dovrebbe, spesse volte è nostra, o mia dolce amica, la colpa ». 1 Continua, infatti, facendo riferimento a tutti quei pregiudizi maschili, che, a suo avviso, altro non sono che l’effetto di calunnie delle « finte indiscrete amiche » che carpiscono segreti ad altre dame per screditarle, invidiose, di fronte agli occhi maschili. Ma « violando le leggi dell’amicizia, mancano alle altre, ed a loro stesse », e quella che sembrerebbe una strategia vincente per tenere legati a sé i propri ammiratori, altro non si rivela che un danno auto inflitto per invidia senza alcun’altra ragione valida. Pertanto, la poetessa livornese si prodiga per mettere in contatto Paolina con altre dame dotate di qualità artistiche, perché crede fermamente che le somigli in quella inclinazione « per le donne che tentano una strada dove si fanno largo tra la folla di quelle che limitano il loro viaggio al tempio della moda e della galanteria ». 2 Così, è lei a suggerirle ripetutamente il contatto con la Kauffmann : « vi incanterà se arriverete a conoscerla, ed allora l’ameremo voi ed io, non è vero ? Ella avrà la mia dedica, io avrò il suo bellissimo ritratto ». 3 Del resto, sempre nel clima di questo scambio reciproco di favori, Fortunata aveva già annunciato in una precedente lettera 4 di aver recitato in settembre all’Accademia delle sestine da lei composte sull’estro poetico e di averle dedicate proprio alla sua aristocratica amica Lesbia Cidonia. Il contatto fra la pittrice austriaca Angelika Kauffmann 5 e la contessa bergamasca si stabilisce effettivamente qualche anno più tardi :  























Inaspettata ed altrettanto gradita a me fa la stimatissima di lei lettera, con la quale ella si degnò d’onorarmi. Ben vorrei meritare tanta gentilezza tanta espressione di bontà che [detta lettera] contiene. Notissimo mi è il di lei rispettabile nome, e già da gran tempo nutro il desiderio di conoscere una dama d’un merito così distinto, e veramente singolare – non dispero se vivo di veder compiute queste mie brame – intanto ho goduto, e godrò sempre sommo piacere in tutte le occasioni che mi si presentano di parlare di lei, con quel rispetto si giustamente al di lei merito dovuto. 6

Angelika fa riferimento agli elogi della Secco Suardo ad una sua opera presente nella cappella Colleoni di Bergamo, dimostrandosi fortemente lusingata e ringraziandola più volte. Fa inoltre riferimento ad un certo giovane pittore, Francesco Roncalli, protetto della signora di promettente talento ; probabilmente la contessa lo aveva indirizzato a Roma, nella bottega del Sig. Vitati, affidandolo alla supervisione della Kauffmann, che non si sottrae all’impegno : « se egli crede che il mio consiglio li possa giovare, mi farò piacere di comunicargli quei pareri, e quelle cognizioni per lunga esperienza acquistate ». Come si capisce, la rete di reciproci favori intessuta nel contesto di solidarietà fra ingegni femminili tanto auspicata dalla Fantastici sembra prendere forma nel sistema di relazioni della contessa bergamasca. Il suo salotto, condotto con instancabile impegno, rispecchia la sua fervente attività nella fittissima corrispondenza che la padrona di casa alimentava con una frequenza ed un’assiduità da far invidia all’attuale era delle telecomunicazioni. Oltre un  







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2   Ibidem, lettera datata 7 luglio 1792.   Ibidem, lettera datata 23 ottobre 1792. 4   Ibidem, lettera datata 7 luglio 1792.   Ibidem, lettera datata 23 ottobre 1792. 5   Cfr. G. G. De Rossi, Vita di Angelika Kauffmann pittrice, Firenze, Molini, Landi e comp., 1810 ; Omaggio ad Angelika Kauffmannn, a cura di O. Sander, Società per le belle arti ed esposizione permanente, 1992, Catalogo dell’esposizione tenutasi a Milano 27 novembre 1992-17 gennaio 1993 ; Angelika Kauffmannn e Roma, a cura di O. Sander, Roma, De Luca, 1998, Catalogo dell’Esposizione ; A. Gooden, Miss Angel : the art and the world of Angelika, Londra, Pimlico, 2005 ; A. Rosenthal, Angelika Kauffmannn : Bildnismalerei im. 18. jahrhundert, Berlin, Reimer, 1996 ; U. Naumann, Geträumtes Glück : Angelika Kauffmannn und Goëthe mit zahlreichen Abbildungen, Frankfurt, Inserl, 2007 ; G. Ardolino, Angelika Kauffmannn : (1746-1807), Milano, Spirali, 2008. 6   mmb 830 Alfa. 3. 43, lettera datata 23 luglio 1796. La lettera è pubblicata anche in Labus, cit., pp. 153, 154. Riportiamo in corpo del testo il manoscritto, in nota le varianti a stampa, fra parentesi quadri le parti espunte nell’edizione a stampa. 3













   





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centinaio, come detto, i corrispondenti, alcuni dei quali contattati quasi quotidianamente per anni ; è il caso di Saverio Bettinelli e Clementino Vannetti, per soffermarci sul materiale consultato più attentamente nel corso di questa ricerca. E numerosi gli scambi di lettere fra dame, anche di ceto diverso, a dimostrazione che il costituirsi della Repubblica delle lettere scavalca ormai i confini imposti dalle rigide gerarchie sociali dei secoli precedenti. Con la Secco Suardo siamo arrivati del resto agli anni della Rivoluzione Francese e dell’ascesa napoleonica.  

Capitolo III SCENE PRIVATE E FIGURE DI DONNA : LA TRAGEDIA  

iii. 1. Il dibattito sulla tragedia : da genere letterario a processo ermeneutico  

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enendo ben presente la complessità del dibattito sul genere tragico che anima drammaturghi e letterati nel corso del Settecento, saranno fornite solo alcune coordinate essenziali che permettano di comprendere la fortuna della tragedia nei salotti o nella drammaturgia femminile del secolo. Si considerano pertanto consolidate le acquisizioni di alcuni recenti studi 1 sulla nuova estetica teatrale settecentesca per la comprensione del dibattito coevo sulla poetica tragica, dibattito al quale non rimangono estranee o indifferenti drammaturghe e salonnières. Francesca Manzoni sceglie infatti questo genere per inaugurare la propria carriera teatrale, intuendone fin da subito alcuni limiti rappresentativi legati, nel suo caso, alla trattazione di materia sacra, così difficilmente “manipolabile” dalla fantasia dell’autore. Paolina Secco Suardo, in contatto con alcuni tra i principali “teorici” dell’epoca, da Calepio 2 a Bettinelli, 3 si misura, nel proprio salotto, con un repertorio francese che non si ferma ai “classici” Corneille e Racine, ma si avventura verso i contemporanei Lemierre e De Belloy. Punto di partenza imprescindibile per il dibattito settecentesco sul genere tragico è ancora la Poetica di Aristotele con le sue considerazioni divenute prescrittive. Secondo Peter Szondi, 4 la tradizione che fa capo al paradigma aristotelico si concentra principalmente sugli effetti del “tragico” sul piano estetico e su come essi siano in effetti raggiungibili. Pertanto, le teorie della tragedia nel Settecento 5 in Italia sembrano interrogare ancora con insistenza la Poetica per risolvere la spinosa questione della mancanza di consolidamento del genere, a fronte dello strapotere del melodramma sulle pubbliche scene. Tuttavia, i presupposti etici su cui era fondata la tragedia greca del v secolo non sussistono più nel xviii. L’immanenza del fato e la lealtà alla famiglia e alla polis rappresentavano ancora una possibilità per la corte francese di Luigi XIII e XIV, ma non trovano corrispettivi nell’età successiva. Per questo, dopo grande stagione classica francese di Corneille e di Ra1   Oltre allo studio di E. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, Modena, Mucchi, 1994, del quale si fanno propri molti concetti utili ad affrontare la questione della “tragedia” nel dibattito culturale e filosofico del xviii secolo, si segnala Guaita, Per una nuova estetica del teatro, cit., volume esclusivamente dedicato all’estetica teatrale elaborata in seno all’Arcadia. Cfr. anche G. Zanlonghi, La riforma della tragedia nel Settecento : l’identità italiana a teatro, in « Annali di storia moderna e contemporanea », xiii, 2007, pp. 25-65 ; R. Scrivano, Poetiche e storie teatrali nel Settecento italiano, in Teatro, scena, rappresentazione dal Quattrocento al Settecento, Atti del Convegno internazionale di Studi, Lecce, 15-17 maggio 1997, a cura di P. Andrioli, G. A. Camerino, G. Rizzo, P. Viti, Lecce, Congedo, 2000, pp. 367-376. Senza dimenticare le più lontane, ma illuminanti osservazioni di R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1995. 2   P. Calepio, Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia, Zurigo, Rordorf, 1732. 3   S. Bettinelli, Dell’entusiasmo delle belle arti, Milano, Galeazzi, 1769 ; (poi in Idem, Opere edite e inedite, Venezia, Cesare, 1799-1801, vol. iii-iv). 4   P. Szondi, Saggio sul tragico, a cura di F. Vercellone, introduzione di S. Givone, Torino, Einaudi, 1999. Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1961 ed è complementare alla Teoria del dramma moderno, già pubblicata nel 1956, ma tradotta in italiano per Einaudi nel 1962. 5   Cfr. E. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit.  









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cine, la tragedia settecentesca, ormai slegata anche dall’ideale della corte, cerca altre strade per riaffermare la propria valenza etica ed estetica. Punto di riferimento costante, ancora, la Francia. La comparsa in Italia, nel 1643, della traduzione del Cid di Pierre Corneille aveva segnato infatti la consapevolezza della superiorità della tragedia d’oltralpe su quella locale. Dalla metà del Seicento e per tutto il secolo successivo le traduzioni italiane dei classici francesi inizieranno a circolare sempre più numerose nel nostro paese, diventando termine di paragone imprescindibile per i nostri drammaturghi e prova d’attore quasi insormontabile per i nostri comici. Scipione Maffei, in aperta polemica con gli intrighi amorosi così centrali nelle opere teatrali francesi, propone nel 1713 Merope, una “tragedia senza amore”, o almeno senza amore fra una coppia di amanti. L’idea, elaborata per la prova della scena insieme al capocomico Luigi Riccoboni, 1 è quella di un’opera a lieto fine, che rispecchi il superamento dei conflitti ed il trionfo della giustizia poetica. L’eroe tragico dovrebbe suscitare compassione e terrore (come previsto dal paradigma aristotelico), al limite l’ammirazione, senza essere preda della passione amorosa. Il dissidio tra amore e dovere, alla base della tragedia di passioni da Corneille in poi, trova infatti molte resistenze da parte dei teorici italiani, che, Gian Vincenzo Gravina 2 in primis, fanno risalire ad esso la decadenza della morale stoica e del genere tragico nel suo complesso. Partendo da tali presupposti, si configura una tragedia illuministica che trova nel trionfo della giustizia e nella riappacificazione finale il suo punto d’arrivo. Una tragedia quindi sostanzialmente “atragica” che dal successo di Merope del Maffei s’impone « fino agli inizi degli anni Settanta, quando crolla l’ideologia dell’assolutismo illuminato e, contemporaneamente, si assiste ad un cambiamento del paradigma estetico » ; 3 fin dunque ai diversi esiti alfieriani. In quest’arco di tempo il lieto fine sembra prevalere nella struttura drammaturgica, ammettendo così la possibilità di un protagonista senza colpa ; l’eroe viene messo alla prova per poi trionfare, anche quando non è portatore di tematiche religiose. Del resto, già all’inizio del secolo Giovanni Mario Crescimbeni, 4 custode d’Arcadia, aveva mostrato la sua preferenza per un eroe virtuoso che fosse premiato nel finale. La tragedia ad esito funesto, provocando la disperazione e negando l’ordine del mondo, sembrava infatti non conformarsi più al principio di giustizia poetica e di equa distribuzione tra pene e colpe. Gli intenti sono chiari sin dal proemio dell’edizione di Merope 5 del 1745, dove Maffei sostiene che compassione e terrore possano essere provocate da personaggi diversi e non necessariamente dal solo eroe tragico, affrontando anche la questione della colpa veniale. 6 Roberto Tessari, nelle sue riflessioni “settecentesche”, assegna non a caso un posto di primo piano al connubio Riccoboni-Maffei, sostenendo che « per ripaslamare a misura della sensibilità contemporanea il mito di Merope, Scipione Maffei lo converte intenzionalmente in una fabula tutta incentrata sull’amore materno e su quei suoi risvolti che meglio possono divenire fonti di lacrime ». 7 Un’operazione di grande successo, dovuto però, non tanto al dispiegarsi « d’un ben calibrato programma di ri-proposta della tragedia classica ‘all’italiana’ », quanto al suo « felicissimo fallimento ». 8 La sua fortuna scenica risiederebbe infatti nella forma del dramma, ben lontana dal canonico « sublime teatrale quanto prossima ad alcun 





















1   L. Riccoboni, Histoire du théâtre italien [...] avec une dissertation sur la tragédie moderne, Paris, Pierre Delormel, 1728. 2   G. V. Gravina, Della tragedia, Napoli, Naso, 1715, ora in Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 530-531. 3   E. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., p. 8. 4   G. M. Crescimbeni, La bellezza della volgar poesia, Roma, Buagni, 1700, p. 102. 5   S. Maffei, La Merope. Tragedia. Con annotazioni dell’autore e con la sua risposta alla lettera del signore di Voltaire, Venezia, Bassaglia, 1745. Ora si legge a cura di S. Locatelli, Pisa, ets, 2008. 6   Cfr. E. Mattioda, Teorie della tragedia, cit., p. 206. 7 8   R. Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, cit., p. 18.   Ivi, p. 17.

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ché nei cui confronti sarebbe forte tentazione […] evocare l’etichetta d’una italicamente moderna tragédie larmoyante ». 1 Come già accennato, è soprattutto il contesto storico politico ad essere cambiato dalla Grecia dell’età di Pericle. Quella catarsi delle passioni che per Aristotele si raggiungeva attraverso l’unione di compassione e terrore viene profondamente messa in discussione dai teorici del Settecento, in virtù di un sostanziale mutamento dei costumi e dei presupposti etici e, in Italia soprattutto, della prospettiva cristiana. Così, tra i sostenitori della giustizia poetica in virtù di un ‘incivilimento’ dei costumi si schiera Pietro Metastasio, sostenendo, nel suo Estratto dell’arte poetica d’Aristotile 2 del 1747, la necessaria diminuizione dell’orrore in un contesto moderno di maggiore civiltà in cui, fra l’altro, si professa una religione monoteista. Alla base di tutto questo sta però il concetto d’identificazione dello spettatore con l’oggetto della rappresentazione, secondo cui (e in questo concorda con Corneille) è opportuno mettere in scena solo passioni positive e virtù da emulare. Ma sulla questione dell’immedesimazione la voce metastasiana rimarrà piuttosto isolata nel secolo, visto che la maggior parte dei teorici propende per il distacco dello spettatore dall’« oggetto rappresentato ». È stato osservato 3 come alla base del superamento della colpa tragica e dell’eliminazione del bagno di sangue finale ci sia il rifiuto illuministico del concetto di fato. Lo stesso Metastasio 4 ritiene inattuale l’eroe proposto da Aristotele, come la stessa catarsi, perché entrambi in contrasto col sensus communis. Proprio la difficoltà incontrata dai trattatisti italiani nel giustificare la catastrofe tragica li spinge dunque a privilegiare, nel corso del secolo, la tragedia a lieto fine. Saverio Bettinelli, nella sua lettera a Tiberio Roberti, 5 si rammarica che gli argomenti greci trovino ancora spazio sulle scene alla moda, condannando un fatalismo che rischia di coincidere con necessità e predestinazione ; l’abate rispecchia così pienamente la posizione assunta dall’ordine gesuita, in aperta polemica con le dottrine gianseniste. L’affermazione del libero arbitrio, centrale nella dottrina cattolica, deve infatti prevalere anche all’interno del codice tragico, assegnando con decisione al protagonista le responsabilità etiche del proprio agire. Come osserva Szondi, analizzando La vita è sogno di Calderón, « la religione cattolica professa la libertà del volere, e l’agire di Sigismondo non può pertanto essere predestinato ». 6 In questo modo, la tragicità del destino, peculiare dell’antichità, si trasforma in ambito cristiano nella tragicità dell’individualità e della coscienza. L’eroe greco compie inconsapevolmente il gesto terribile, proprio mentre tenta di evitarlo ; l’eroe del dramma cattolico, invece, prima della redenzione, « diviene vittima del proprio tentativo di sostituire alla realtà minacciosa, col proprio sapere e col proprio pensare, un’altra realtà che egli stesso crea ». 7 A prescindere dal fallimentare ed isolato tentativo da parte di Domenico Lazzarini di reinserire una prospettiva fatalista nella sua tragedia del 1720, Ulisse il giovane, 8 i concetti di fato e colpa (con conseguente catastrofe finale) sembrano essere reintrodotti nel codice tragico italiano da Vittorio Alfieri, negli ultimi trent’anni del secolo, quando i venti rivoluzionari minano alle fondamenta la fiducia nell’assolutismo illuminato come forma di governo idea 

















1

  Ibidem.   P. Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile e considerazioni su la medesima, Venezia, Zatta, 1783. Il saggio, scritto molti anni prima, fu pubblicato postumo. 3   E. Mattioda, Teorie della tragedia, cit., p. 177. 4   P. Metastasio, Estratto dell’arte poetica d’Aristotile, cit., p. 1031. 5   S. Bettinelli, Lettera al signor conte Tiberio Roberti sopra la tragedia del fu. Co. Ab. Roberti intitolata l’Adonia, in Idem, Opere, Venezia, Cesare, 1801, vol xx, pp. 222-224. Lettera datata 30 giugno 1788. 6 7   P. Szondi, Saggio sul tragico, cit., p. 89.   Ivi, p. 92. 8   D. Lazzarini, Ulisse il giovane, Padova, Gio. Battista Conzatti, 1720. 2

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le. Ma anche l’autore astigiano non è immune dal razionalismo che aveva pervaso la discussione sulla tragedia nei primi settant’anni del secolo ; nei suoi Agamennone e Oreste, intuisce infatti una differente natura della passione che muove i suoi personaggi ad uccidere rispetto alla “vendetta” dei primitivi. Come osserva Anna Barsotti, 1 a proposito dell’Oreste egli afferma che l’azione tragica non ha altro motore, se non la vendetta, ma aggiunge che « essendo la vendetta passione (benché per natura fortissima) molto indebolita nelle nazioni incivilite, ella viene anche tacciata di passion vile, e se ne sogliono biasimare e veder con ribrezzo gli effetti ». 2 Perché la vendetta sia sopportabile, acquistando “meraviglia” e “sublime”, deve essere giusta e l’offesa ricevuta “atrocissima” e non risarcibile da alcuna legge umana. Come vediamo, anche Alfieri si preoccupa d’inserire il principio di causalità all’interno della fabula tragica, riferendo ormai il fato al contesto “primitivo” del dramma greco. Al centro della tragedia ci sono ancora le passioni, ma il motore dell’azione è l’uomo, l’eroe dilaniato dal dissidio interiore, l’individuo che con il suo libero agire genera la catastrofe. Nel passaggio tra Sette e Ottocento il nucleo tragico si concentra dunque definitivamente sull’individualità : la tragicità risiede infatti nella coscienza. È stato osservato come la tragedia, nel corso del Settecento in Italia, tenda a correggere le passioni degli spettatori attraverso la rappresentazione sulla scena di passioni universali, esportando, così, in qualche modo, « saggezza ». Di qui, sembrerebbero discendere due effetti : « 1) importante non è il vero del personaggio ma il verisimile : ciò che egli diventa in mano all’autore per esprimere attraverso le sue passioni l’universale ; 2) progressivamente perde importanza la distinzione tra eroe storico ed eroe mitico ». 3 Quest’ultimo, infatti, tende progressivamente a diventare « soltanto un pre-testo per la rappresentazione dell’universale ». 4 Tale concetto si regge all’interno della concezione ciclica del tempo « dove l’eroe storico può avere valore paradigmatico anche per il presente visto che la storia non cambia ». 5 Ma quando questa concezione del tempo entra in crisi, alla fine del secolo, diventa più difficile assegnare ad un soggetto limitato nella storia un significato universale e « questa crisi nel percepire il tempo storico non conduce, come si potrebbe pensare, a un privilegia mento del soggetto mitico ma, direttamente, alla fine della tragedia classica come tragedia delle passioni ». 6 Procedendo in questa direzione, si arriva alla contrapposizione manzoniana, 7 ormai ottocentesca, della tragedia delle passioni al dramma storico. Il fine morale della tragedia classica è infatti quello di « moderare le passioni dello spettatore » ; tuttavia, « Manzoni rifiuta questa concezione della letteratura e le oppone la morale cristiana ». 8 Secondo l’autore di Adelchi, infatti, « la tragedia storica è il primo passo verso la tragedia della conoscenza e della verità » : 9  

















































una tragedia la quale, partendo dall’interesse che i grandi fatti della storia eccitano in noi, e dal desiderio che ci lasciano di sconoscere o di immaginare i sentimenti reconditi […] che questi fatti hanno fatto nascere inventa appunto questi sentimenti nel modo più verisimile, commovente e istruttivo. 10

Con Manzoni sembra dunque tramontare in Italia, definitivamente, il paradigma aristotelico. Si prefigura così quella che Szondi individua come la nascita della filosofia del tragico, attraverso il passaggio del tragico stesso da genere letterario a concetto generale. Dalla morte 1   A. Barsotti, Alfieri e la scena. Da fantasmi di personaggi a fantasmi di spettatori, Roma, Bulzoni, 2001, pp. 1072   Citato ivi, p. 107. 126. 3 4   E. Mattioda, Teorie della tragedia, cit., p. 332.   Ibidem. 5 6   Ibidem.   Ibidem. 7   A. Manzoni, Materiali estetici, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1988. 8 9   E. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., p. 333.   Ibidem. 10   A. Manzoni, Materiali estetici, cit., p. 1642.

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della tragedia classica nasce la possibilità propriamente filosofica di indagare i codici della tragedia stessa per trovare un varco di comprensione verso il senso dell’essere. La dialettica salvezza/annientamento, che Szondi individua come ricorrente in testi esemplari che vanno da Sofocle a Büchner, diventa dunque categoria interpretativa della realtà e dell’uomo. In questa nuova prospettiva le opere assumono soltanto funzione di esempio : ciò che si mette in scena è già nella vita e la tragedia assume lo scopo di agnizione della realtà, ossia di presa di coscienza che purifica l’eroe e, insieme a lui, lo spettatore. Snodo fondamentale, ancora la poetica tragica alfieriana, sospesa tra razionalismo del secolo dei Lumi e tensioni preromantiche ; il suo centro d’interesse si sposta infatti dall’ordine sociale all’uomo stesso. Per usare le parole di Raimondi :  





il teatro alfieriano è un teatro di morti, che abitano su strani abissi e che soprattutto servono a qualcuno che è in qualche modo lo scrittore. Lo scrittore per frequentare un mondo che è questo ed è altro, senza più assumere ipotesi di tipo religioso o trascendente, delega ad un universo di personaggi apparentemente mitici o storici l’esplorazione del niente, o meglio, l’esplorazione di catastrofi interiori. Egli esercita allora una specie di terapia, si potrebbe dire una specie di suicidio, che lo scrittore vive attraverso un test teatrale e di cui si libera quando l’atto si compie nel teatro. 1

I personaggi di Alfieri sono fantasmi al centro di un rito catartico, in cui « una proiezione dell’Io muore e, per così dire, l’Io si salva » : 2 l’io dell’autore, che si riflette come in uno specchio in quello dello spettatore. Liberatoria è in sé la scrittura teatrale, nel momento irripetibile in cui si fa atto compiuto sulla scena. Come si capisce, siamo ben oltre il confronto teorico con le unità aristoteliche, poiché si precorre già il territorio dell’inconscio. E siamo ben lontani anche dalla fortuna teatrale della Merope maffeiana, opera tutta concentrata sulle esigenze della scena : le abilità interpretative degli attori da un lato e la ricezione del pubblico (ormai poco avvezzo alle suggestioni del “sublime”) dall’altro. La parabola della tragedia settecentesca si apre dunque all’insegna del clamoroso successo dell’esperimento Maffei-Riccoboni, che si serve di lazzi d’attore per strizzare l’occhio alla tradizione di genere, imbonendo un pubblico tutto dedito al melodramma. Ma si chiude, in altra direzione, sotto il segno della tragedia alfieriana, percorrendo l’esplorazione onirica della realtà, uno dei grandi temi del secolo : « il viaggio nelle terre inesplorate o ancora poco esplorate comincia certamente con il Settecento, che non è soltanto il secolo della ragione, ma anche dell’esplorazione di tutto ciò che va sotto il termine ambiguo di crudeltà ». 3  













iii. 2. La scrittura tragica femminile : L’Ester di Francesca Manzoni  

Tra la Merope maffeiana e le tragedie di Alfieri, si colloca cronologicamente l’Ester 4 di Francesca Manzoni, pubblicata per la prima volta nel 1733 5 ed inserita nell’ambito di quel repertorio tragico milanese che vede in Giuseppe Gorini Corio il suo esponente di maggior rilievo. Non si tratta però della prima tragedia firmata da una mano femminile, perché, in ambiente veneziano, Luisa Bergalli aveva già pubblicato nel 1728 la sua Teba. Diversamente, però, dalla Bergalli, la Manzoni attinge alla materia sacra, cimentandosi su un terreno rischioso, secondo il parere già di Crescimbeni, perché tacciabile di eresia da parte della censura ecclesiastica. Ma tale scelta risponde pienamente agli interessi della poetessa, che vede nella Bibbia fonte costante d’ispirazione, rifacendosi ad essa anche in seguito, quando farà dell’azione sacra il suo genere prediletto di scrittura per il teatro. 1

  E. Raimondi, Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 74. 3   Ibidem.   Ivi, p. 75.   L’Ester tragedia di Francesca Manzoni tra gli Arcadi Fenicia…in Verona 1733, per Giovanni Alberto Tumermani Librajo con licenza de’ Superiori. Una copia è conservata nella Biblioteca Braidense di Milano e la seconda presso la Biblioteca Ambrosiana della stessa città. 5   Sulla genesi della tragedia cfr. A. Frattali, Ester fra tragedia e oratorio, cit. 2

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Non ci sono pervenuti documenti che attestino la messa in scena di Ester. Del resto, anche l’autrice, nell’edizione a stampa della sua opera, non dà indicazioni o precisazioni agli attori su come eseguire la tragedia. Probabile, come si deduce dal carteggio, che l’opera circolasse manoscritta in ambiente accademico ben prima di essere pubblicata. D’altro canto, traspare dall’epistolario la chiara volontà della scrittrice di inserirsi nel circuito del teatro di libro, come pure in quello di autori e compositori che ruotano intorno alla corte di Carlo VI. La dedica della stampa alla Sacra, Cesarea, Cattolica, Reale Maestà di Elisabetta Cristina Augustissima Imparatrice de’ Romani è infatti significativa in questo senso. Alla luce degli avvenimenti storici, la corte austriaca è la destinataria più adatta, poiché l’impero asburgico protegge zone di frontiera, quali la Croazia, la Transilvania e l’Ungheria, da sempre sotto la minaccia turca. Per questo, nessuno meglio dell’imperatrice Elisabetta Cristina sembra incarnare il ruolo di paladina dei valori cristiani : il personaggio di Ester e la sovrana hanno in comune infatti la « pietade religiosissima », la « circospetta prudenza » e l’« arrendevole compassione verso i miseri » ; 1 come pure la regalità e l’umiltà. Al momento della pubblicazione, la ventiduenne Manzoni è comunque ben consapevole dello spinoso cammino intrapreso, affrontando il genere tragico :  

















Gli si parrà, con ha dubbio, cosa nuova, ed insolita, […] ch’io di sì poca esperienza dotata, e di quello studio non per anco adorna, che si richiede, abbia l’animo mio rivolto alla tragica Poesia, che per giudizio dei dotti uomini fu mai sempre più sublime, e difficile componimento riputata. 2

Tuttavia, a ciascuno è permesso tentare un lavoro letterario impegnativo, un’« opera grande », a patto che questa fatica sia diretta « ad ottimo fine » ; in questo caso, l’ottimo fine deriva dall’argomento sacro, la storia di Ester, in cui si trattano « le meraviglie dello Signore Iddio nostro, che deprime i superbi, e gli umili esalta ». 3 Attenersi alla divina Scrittura sarebbe stata la cosa più semplice, ma l’autrice dichiara di aver inserito « qualche circostanza » della « profana storia » al suo lavoro, spostando così l’interesse dal piano della storia a quello dell’intreccio, e di conseguenza dal piano encomiastico devozionale a quello drammaturgico :  























Ma dacché per fare una Rappresentazione era d’uopo, tenuta l’inconcussa verità dei fatti dalla Scrittura narratici, il riggirargli sì, che la poetica tessitura al verosimile appoggiata, vi potesse aver loco, per fare alla medesima più pronta l’occasion sorgere, convenuto m’è prender partito, e dichiararmi quale dei Persiani Re io reputi essere l’Assuero, nel cui tempo visse, e di cui fu moglie la celebratissima donna. 4

Gli eventi indiscutibilmente veri della Scrittura devono essere dunque rielaborati in modo che la poesia possa avere luogo, una poesia che, appoggiandosi al noto criterio di verisimiglianza di ascendenza arcadica, possa dare luogo ad una « rappresentazione ». La Manzoni sposa qui le teorie di Gravina e Crescimbeni riguardo la necessità di sostituire al fatto vero il fatto verisimile per conferire interesse al testo drammatico, senza incorrere nelle macchinose astrusità del dramma barocco. La polemica è soprattutto nei confronti dell’opera in musica, e dei libretti, che tendevano a sacrificare la coerenza interna della trama a vantaggio del virtuosismo dei cantanti. La poetessa sembra essere già ben consapevole di queste discussioni nate in seno all’Arcadia nei primi anni del secolo ; lei stessa era stata accolta in Accademia molto giovane e frequentava da tempo molti intellettuali coinvolti nei dibattiti “riformatori”. Aveva forse letto in lingua originale la Poetica di Ari 





1   F. Manzoni, Alla Sacra, Cesarea, Cattolica, Reale Maestà di Elisabetta Cristina Augustissima Imperadrice de’ Romani, in Idem, Ester, cit., pagina non numerata. 2   Idem, Ragionamento d’intorno alla presente tragedia, in Idem, Ester, cit., P. I. 3 4   Ivi, p. ii.   Ivi, p. iii.

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stotele, come le tragedie di Euripide e conosceva quasi sicuramente le opere di Ludovico Antonio Muratori. 1 Appare probabile quindi che l’autrice abbia voluto inserirsi nel dibattito coevo sul genere tragico, elaborando un argomento biblico per il teatro, come dimostra l’uso del termine « rappresentazione ». In effetti, abbiamo già rilevato come nessuna messa in scena fosse prevista al momento della stampa, ma questo non esclude che la Manzoni pensasse ad inserirsi in un possibile repertorio di pubbliche letture o di esercitazioni di collegio, come in effetti potrebbe confermare la riedizione nel 1751 del testo nella citata antologia di Teatro ebraico. La scrittrice si misura infatti con i precetti aristotelici, dichiarando di aver rispettato le tre unità e scusandosi per le lunghe orazioni di Ester e del coro giustificate, a suo avviso, dal carattere sacro della rappresentazione e dalla sua funzione palesemente didascalica :  





dirò solo che mi lusingo le famose unità da Aristotile pretese aver serbate ; aggiungendo che, se lunghe troppo ed increscevoli, comecchè vicine al coro sembrassero le orazioni di Ester, prego il Lettore e l’Uditore non meno a ripensare che il maggior utile degli spettacoli sacri è l’udir ragionare i personaggi con formole traspiranti morale e pietà. 2  

La Manzoni cita esplicitamente gli « spettacoli sacri », facendo dunque cenno ad un’ipotetica messa in scena in ambito probabilmente di collegio, ambito che aveva visto la fioritura della spiritual tragedia proprio a Milano nel secolo precedente. Del resto, lo stesso Racine, autore del più illustre precedente di Ester, aveva composto il suo dramma per le esercitazioni di canto e di dizione delle giovinette di Sint-Cyr, non immaginando, in un primo momento, che il lavoro avesse poi una grande fortuna al di fuori delle mura del collegio femminile e sulle pubbliche scene. Quindi possiamo concludere che, se la Manzoni non pensò ad una circolazione del suo lavoro nei teatri a pagamento, pensò in un secondo momento e quasi sicuramente ad un circuito privato con funzioni didattiche, e con queste finalità, come abbiamo visto, l’opera fu edita postuma nella raccolta del 1751. Prendendo in esame l’argomento, la vicenda della regina Ester, tratta dalla Bibbia, ha una corrispondenza storica nell’anno 478, quando il re Assuero, su suggerimento di un cattivo consigliere, promulga un editto per sancire lo sterminio degli Ebrei, allora sotto il domino persiano. L’eccidio è sventato dalla seconda moglie del re, Ester, fanciulla ebrea scelta in seguito al ripudio della prima consorte Vasti, che aveva peccato di disobbedienza, non presentandosi al cospetto del sovrano durante un banchetto. La Manzoni cita direttamente dal testo biblico nella vulgata latina :  





Argumentum est humiliatio superborum, et exaltatio humilium, et liberatium giudeorum. Insignem parit difficultatem, immo crucem figit omnibus Scripturae sacrae interpretibus, et eorum penitus absorbet ingenia. 3

Sin dalla premessa, dunque, l’autrice si preoccupa di citare fonti e autori, presentando le sue scelte sotto l’ottica di un rigore filologico che giustifichi la difficile decisione di trattare una materia dotata d’« infallibilità intrinseca ». In questa prospettiva, il Ragionamento introduttivo si trasforma in una lunga trattazione storica, il cui soggetto principale riguarda il cambiamento del nome generico di Assuero in quello specifico di Artaserse Longimano. L’attenzione filologica dell’autrice si conferma del resto nel corso di tutto il dramma, ricchissimo di annotazioni a margine o in nota che attestino la plausibilità degli episodi rappresentati.  



1   L. A. Muratori, Della perfetta poesia italiana, Modena, Soliani, 1706 ; Idem, Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle lettere, Colonia [ma Napoli], Renaud, 1715 (ma la prima parte era apparsa nel 1708 a Venezia presso Pavino. 2 3   F. Manzoni, Ragionamento, p. xxix.   Ivi, p. iii.  

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In effetti, l’unica sezione del testo povera di riferimenti alle fonti è la scena vii dell’atto v, quella cioè in cui il servo Ataco racconta ad Ester ed Artaserse il supplizio del crudele Amano e della sua famiglia. Come pure la scena v dello stesso atto in cui s’instaura un incalzante dialogo fra le due protagoniste femminili della tragedia : Ester e Zara. Quest’ultima è la moglie del consigliere fraudolento Amano e « del suo consiglio fida esecutrice » ; 1 si tratta del terzo personaggio femminile del dramma, nonché dell’alter ego negativo della protagonista. Il rilievo dato dalla Manzoni a questa figura non corrisponde al testo biblico, dove non compare alcun cenno al complotto della diabolica coppia ordito ai danni della regina. Inoltre, nell’ultimo atto, il personaggio di Zara assume maggiore slancio tragico, tentando di ottenere salva la vita di almeno uno dei suoi figli ; in un secondo momento, vedendo tutto perduto, la donna si uccide di fronte al marito sul patibolo e ai figli svenati. Forse la Manzoni, quando si riferiva ad alcuni episodi di sua invenzione inseriti nella fabula biblica, intendeva proprio l’aggiunta del doppio complotto e la cruenta scena dell’esecuzione di Amano e della sua famiglia. In effetti, la Bibbia è un testo sacro a carattere narrativo, mentre la tragedia, stando alla sintesi aristotelica, ottiene i suoi effetti unendo compassione e terrore. Del resto, la poetessa era molto ammirata del teatro euripideo e delle sue figure femminili, tanto da progettarne una traduzione completa. Probabile quindi che l’indugiare sulle sorti tragiche di Amano e della sua consorte tendesse, nelle intenzioni compositive, a rafforzare proprio la componente di terrore che in una tragedia a lieto fine, come Ester si configura, avrebbe potuto risultare sminuita. Sicuramente, al momento della composizione, la Manzoni guardò alla fortuna della Merope maffeiana e al suo tentativo pienamente riuscito di eguagliare i successi dei tragici francesi sulle scene europee. Ma non solo, l’obiettivo della poetessa era, con probabilità, soprattutto quello di emulare, anche in misura più ridotta, la grande fortuna editoriale del teatro di Maffei, nell’ambito del teatro di libro e delle edizioni di lusso. Inoltre, l’intenzione d’inserirsi nel solco di Merope s’intravede già nella scelta di comporre una tragedia a lieto fine, comune ai più nell’Italia settecentesca, ma comunque discussa, come visto, nel corso del secolo. E l’esito lieto aveva appunto, all’inizio del Settecento, il suo pioniere in Scipione Maffei :  











Né già il terminarsi le tragedie colla rivoluzione di rea in buona fortuna, le rende di un tal nome men degne ; perché oltre l’averle spesso così terminati i Greci maestri, può per tutti gli esempi valere la non mai abbastanza ammirata e commendata Merope del marchese Scipione Maffei, gloria immortale della nostra Italia, e cotanto delle scienze tutte benemerito. 2  

In effetti, la matrice comune dei due artisti è il corpus di opere euripidee, considerando anche che fu proprio Euripide, con Alcesti, a varare l’idea della tragedia lieto fine. Come sappiamo, la Manzoni fu assidua lettrice del tragediografo greco e Maffei a lui certamente s’ispirò per trattare il soggetto di Merope, considerando il precedente del Cresfonte. Tuttavia, al di là della comune ispirazione classica e del finale lieto, i drammi della Manzoni e di Maffei non presentano altre affinità evidenti ; rimane certamente il fatto che in entrambi i casi la protagonista è una donna e che l’eroina non si trova coinvolta nell’azione principale al centro di un intrigo amoroso, 3 come accadeva invece nelle tragedie francesi.  

1

2   F. Manzoni, Ester, cit., iii, 1, p. 45.   Idem, Ragionamento, cit., p. xxxi.   Stefano Locatelli, nel suo volume dedicato a Merope, cit. p. 36, rammentando il « Giornale de’ Letterati » del 1713, in particolare un articolo dedicato alle notizie di Modena, osserva che : « due sono gli elementi che l’articolo mette in evidenza : l’efficacia teatrale dell’endecasillabo sciolto e l’assenza di “amorose passioni” ». Tuttavia osserva (introducendo una nuova proposta di lettura critica della tragedia) a p. 44 : « Credo che la fortuna della tragedia, così capace di appassionare gli spettatori, derivi anche dal fatto che il “furore” di Merope emerge con forza a seguito di un equivoco amoroso su cui è costruita la prima metà della tragedia. Un equivoco che, a quanto pare, è rimasto celato agli studiosi (o è stato da essi rimosso) e, nella sua sostanza, anche ai critici che sulla Merope 3

















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Elemento che accomuna sicuramente i due tragediografi a livello di contesto culturale in cui scrivono può essere la conoscenza di Giulio Cesare Becelli, grande sostenitore dell’opera di Maffei, e curatore dell’edizione del suo Teatro presso Tumermani, nel 1730. A tale stampa si rifà la Manzoni, pochi anni dopo, prendendo contatto con l’editore veronese ; del resto, la presenza di Becelli fra i revisori di Ester è testimoniata anche nelle lettere della giovane milanese all’abate Zucchi. Inoltre, lo stesso Maffei, nelle sue Osservazioni letterarie che possono servire di continuazione al giornale dei letterati d’Italia, 1 ricorda brevemente la tragedia della Manzoni, tessendo le lodi dell’autrice, che, a suo dire, « fa onore al gentil sesso ». Ma sicuramente il precedente più illustre dell’Ester manzoniana è ravvisabile nell’omonimo dramma di Racine, 2 pubblicato sotto la revisione dell’autore per la prima volta nel 1689. E non potendo ignorare il modello francese, la poetessa così scrive, a conclusione del suo Ragionamento :  







Ma senza diffondermi sopra ciò, ed addurre esempli di solenni uomini sì italiani, che Francesi, che di somiglievoli argomenti lodate Tragedie hanno fatte (anzi Monsieur de Racine prima di me fece l’Ester, cui benché io veduta non abbia, ottima cosa suppongo) vuò che mi vaglia l’autorità d’un degnissimo Letterato, il Signor Giulio Cesare Becelli, noto per l’opere sue eruditissime ovunque sono in pregio le buone Lettere. 3

Dopo un rapido passaggio, inserito per inciso, l’autrice si concentra sul trattato di Becelli, andando a giustificare la sua scelta di un’eroina cristiana come protagonista del dramma. Sembra difficile che la poetessa, a quella data, non avesse letto una delle tragedie raciniane più note e di maggior successo, ma è probabile che la giovanissima Manzoni volesse evitare in tutti i modi un improbabile confronto con un modello così ingombrante. In effetti, all’altezza della composizione della sua opera tragica, la scrittrice poteva avere usufruito della traduzione raciniana 4 del 1720 attribuita al senese Girolamo Gigli. Ma poteva avere anche letto Racine in lingua originale, visto che conosceva bene il francese. Come detto in precedenza, Esther 5 fu composta da Racine per le allieve del collegio di Saint Cyr per volontà di Mme de Maintenon prediletta di Luigi XIV. Il 26 gennaio 1689 l’opera andò in scena per la prima volta alla presenza del re e della sua corte ; le fanciulle, abbigliate con tuniche alla persiana tirate fuori dai magazzini di Versailles, eseguivano anche le parti maschili e numerose erano le arie e le sezioni cantate sulla musica di Jean Baptiste Moreau. In effetti, è possibile che la Manzoni avesse ricevuto notizia di tutto questo, visto che nel Ragionamento scrive, a proposito dei cori : « il Coro poi o si tralascia, o si canta, onde viene ad interrompersi la continuazione d’un tal devoto parlare ». 6 Da parte sua, Scipione Maffei aveva di proposito escluso le sezioni corali dalla sua tragedia, proprio per evitare momenti di stasi nell’azione o possibili esecuzioni “cantabili” (come invece era usanza dei tragici francesi). Al momento della composizione, la poetessa poteva avere in mente anche un’altra tra 







dibatterono nel corso della prima metà del Settecento (che lessero semmai gli elementi costitutivi di tale equivoco come incoerenza o imperizia autoriale). Probabilmente venne invece perfettamente colto, a quanto pare, dagli spettatori del tempo ». 1   Pubblicate sempre da Tumermani a Verona nel 1739. 2   J. Racine, Esther, tragédie tirée de l’écriture sainte, Paris, D. Thierry, 1689, ora in J. Racine, Teatro, cit. 3   F. Manzoni, Ragionamento, cit., p. xxx. 4   L’Ester tragedia cavata dalla sagra scrittura per monsù Racine, e volgarizzata, Roma, Salvioni, 1720. Si tratta di una tragedia in tre atti in prosa, cori in strofe rimate affiancate da passi di Salmi che hanno in parte offerto materia ai cori (prologo omesso). La versione è anonima e attribuita a Girolamo Gigli. Cfr. R. Carloni Valentini, Le traduzioni italiane di Racine, Milano, Vita e Pensiero, 1968. 5   Cfr. Commento e note, in J. Racine, Teatro, cit., pp. 1898-1912. 6   F. Manzoni, Ragionamento, cit., p. xxix.  

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gedia dedicata al medesimo argomento biblico, l’Ester di Federigo Della Valle. L’autore infatti, molto legato al contesto culturale della Milano controriformistica, aveva pubblicato questo dramma nel 1627, presso lo stampatore reale Melchiorre Malatesta, 1 unitamente ad un altro lavoro di ispirazione veterotestamentaria, Iudit. Le due tragedie recavano la dedica alla « Altissima Reina de’ cieli », in virtù del legame escatologico che legava le due eroine bibliche alla Madre di Gesù Cristo. A seguire, nel 1628, usciva La reina di Scotia, con dedica al « Sommo Pontefice e Signore Urbano VIII », il papa Barberini, concludendo un ciclo di lavori in cui « l’interesse dellavalliano tendeva a raggiungere un obiettivo ben più nobile, ancora legato, almeno sul versante della poetica, alle ragioni della pedagogia gesuitica, piegata ora alle esigenze di un ‘messaggio’ ottimistico (la figura dell’eroina della fede come singolare figura tragica) ». 2 Anche se l’Ester di Della Valle era stata composta molti anni prima, durante l’apprendistato piemontese, la stampa con Malatesta è indice di una volontà da parte dello scrittore d’inserirsi a pieno nella Milano spagnola e nella cerchia del governatore di Fuentes. Quasi un secolo dopo la Manzoni si trova a fare i conti con un’altra autorità straniera che domina il capoluogo lombardo, questa volta austriaca. Entrambi gli autori dunque devono rivolgersi, in tempi diversi, a sovrani che si professano cattolici e strenui difensori del cattolicesimo ed entrambi si rifanno alla tradizione gesuitica della tragedia spirituale, che in Milano aveva dato ampi frutti. Tuttavia, la poetessa non cita neppure fuggevolmente il precedente di Della Valle nel suo cospicuo apparato di note, né all’interno del Ragionamento. Eppure si può avanzare l’ipotesi che avesse letto la tragedia, visto che una copia della stampa del 1627 è conservata in Biblioteca Ambrosiana, ambiente in cui la Manzoni passava molte ore immersa nelle letture, come testimoniato da De Brosses, che proprio in quelle stanze la vide studiare in mezzo a mucchi di libri. 3 Il tema biblico della regina ebrea che sventa l’eccidio del suo popolo aveva, del resto, registrato un certo successo nella Milano secentesca ; sulla scia di Della Valle si rintraccia infatti un altro dramma della seconda metà del secolo firmato da Carlo Torre. 4 Si tratta di un lavoro poco conosciuto dal titolo La Pellegrina ingrandita ovvero la Regina Ester, pubblicato nel capoluogo lombardo nel 1666. 5 L’opera s’inserisce in un corpus di testi scritti ad uso di alcuni monasteri, quello di Santa Marta 6 in particolare, dove probabilmente furono anche rappresentati. 7 Torre definisce il suo lavoro con l’indicazione non specifica di « dramma scenico », strutturandolo in versi sciolti con un prologo cantato. L’autore, che aveva in precedenza collaborato con i comici dell’Arte, componendo anche due drammi in musica per il Regio Ducale Teatro, si cimentava sovente con argomenti biblici cercando di intrecciare episodi che valorizzassero le attitudini musicali delle monache. Non sappiamo se la Manzoni fosse a conoscenza del dramma scenico di Torre e se avesse avuto occasione di leggerlo ; dato di sicuro interesse è che anche quest’opera reca la dedica  



















1   F. Della Valle, Iudit, et Esther, Milano, Malatesta, 1627. Ora si leggono in Idem, Opere, a cura di M. Durante, Messina, Sicania, 2000, 2 voll. 2   M. Durante, Per una biografia culturale, in Opere, cit., p. 40. 3   C. De Brosses, Lettres familières, cit. 4   Cfr. A. Frattali, Ester fra tragedia e oratorio, cit. 5   C. Torre, La Pellegrina ingrandita ovvero la Regina Ester. Dramma scenico di Carlo Torre. Dedicato alla […] dell’imperatrice D. Margherita Teresa d’Austria, Milano, Monza, 1666. 6   La dedica alla « Sacra cesarea e real Maestà » firmata dalle Monache di Santa Marta di Milano così recita : « Ad esprimere le nostre obbligazioni, mentre da splendori della M. V. verrà illustrato il Monastero di Santa Marta, altro vi si richiede, che una semplice dedicazione d’un’opera scenica, tuttoché solo per la di lei persona ne sia stata ella composta ». 7   Cfr. R. Carpani, Educazione, edificazione, intrattenimento : tracce di teatro nei monasteri milanesi in età spagnola, in La Musica e il Sacro, xv Convegno Internazionale sul Barocco Padano, 14-16 Luglio 2009, Università Cattolica del Sacro Cuore Milano. Atti in corso di stampa.  











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ad una sovrana austriaca, l’imperatrice Margherita Teresa d’Austria. La Pellegrina è inoltre preceduta da un avviso al lettore in cui Torre si scusa preventivamente per alcuni anacronismi o elementi discosti dalle sacre scritture : « La poesia tanto più scenica porge di queste licenze, pur che si vegga il verisimile ». 1 Stessa giustificazione portata dalla Manzoni nel suo Ragionamento, il verisimile deve necessariamente sostituire il vero là dove sia la poesia (tanto più scenica) a richiederlo. Altro elemento di comunanza fra i due autori è sicuramente la pratica della musica e della librettistica, come pure, forse, l’idea di un’esecuzione in un contesto femminile, viste le virtù cristiane con forte valenza pedagogica incarnate dalla protagonista Ester, interpretata come figura mariae. Ricordiamo che il celebre precedente raciniano, prevedendo numerose parti cantate ad uso delle giovinette di Saint-Cyr, sarà spunto fondamentale per la Manzoni al momento di rivisitare il passo biblico per la Cappella di Carlo VI, nel 1738. Fra La Pellegrina e Ester non si riscontrano però, nell’insieme, consonanze di rilievo ; Torre sposta infatti la vicenda all’indietro nel tempo, giungendo a narrare il ripudio della prima regina Vasti e l’arrivo di Ester come pellegrina nel regno di Persia. La moglie di Amano, Zara, compare come confidente di Vasti stessa, cercando di consolarla e di esortarla alla vendetta contro il sovrano. Numerosi sono poi gli elementi comici inseriti nella fabula di La Pellegrina, lazzi da commedia dell’arte che indicano la frequentazione da parte dell’autore di compagnie d’attori professionisti e delle scene pubbliche. Passando alla definizione del carattere dell’eroe, Ester, come consuetudine nei drammi sacri, è un’eroina positiva, dotata di virtù eccezionale, dunque sopra il concetto di medietà. Per la sua particolare bellezza è stata scelta come sposa del re e, quando smette gli abiti luttuosi della penitenza per incontrarlo, il coro la celebra con queste parole : « O con qual arte le sue belle membra / coprì d’aurate vesti, / e ornò di gemme, e fior la crespa, e bionda chioma, / chioma, che tutta di fino or rassembra ? » (Atto ii, Scena vi, p. 41). Ma l’avvenenza fisica non è condizione sufficiente ; solo per il suo senso del dovere e la sua fiducia nella provvidenza sarà regina. Canta ancora il coro : « Spesso onestade mal si rassecura / con gran bellezza, e grazia altera, e vaga, / ma costei ne dimostra in suo gran senno / quali esser di beltà gl’impieghi denno » (ivi, p. 42). La sua bellezza e la sua onestà sono strumenti in mano alla divina provvidenza e sin dall’inizio è chiaro che la fanciulla è stata sollevata ad un grado regale per adempiere qualche progetto di Dio. Certamente si pone, in questo caso, il problema dell’eroe cristiano come protagonista della tragedia. In effetti, la Manzoni s’interroga preliminarmente su questo punto nel Ragionamento iniziale citando, in proposito, il trattato Della novella poesia di Becelli. Secondo il letterato, « noto per l’opere sue eruditissime », stando alla Poetica i martiri non sembrerebbero soggetti atti a formare la tragedia. Tuttavia, « ciò pruova che le Aristoteliche regole non sono più valevoli al nuovo costume, né alla nuova Religione, e perciò neppure alla novella Poesia » e « il nuovo costume, e la nuova Religione sottraggono la Poesia alle Greche, ed antiche regole ». 2 Il passo successivo è giustificare la presenza di un eroe che non sia martire, ovvero che non sacrifichi la propria vita per la fede, ma sia già ricompensato su questa terra per la sua fiducia nell’ordine provvidenziale voluto da Dio. Così argomenta la Manzoni :  





































Se i fatti dei santi Martiri sono argomento di Tragedia, i quali comechè santissimi, di felicità in miseria trapassare si rappresentano, perché non lo sarà la storia della sacra Eroina Esterre, che da miseria a felicità impensatamente viene sollevata, colla depressione dei suoi nimici, per quelle stesse vie, onde precipitarla tentavano ? Né già il terminarsi le Tragedie colla rivoluzione di rea in buona fortuna, le rende di un tale nome men degne. 3  

1

  C. Torre, Cortese Lettore, in La Pellegrina, cit., p. 8. 3   F. Manzoni, Ragionamento, cit., p. xxx.   Ivi, p. xxxi.

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Lungo l’asse felicità / infelicità percorribile in una doppia direzione si muove dunque la possibilità di rendere l’eroina biblica soggetto di tragedia. 1 La protagonista affronta infatti la prova rischiando la caduta e l’esito lieto della vicenda non ne sminuisce, a detta dell’autrice, la portata tragica. Tornando al carattere della protagonista, esempio biblico di donna forte e volitiva, rileviamo tuttavia come sia costantemente osservata, nel corso dell’intero dramma, secondo una prospettiva maschile : le sue virtù sono funzionali ad irretire il sovrano e a salvare il suo popolo. L’ancella Eurione dice infatti ad Ester, nel I atto, « cedon gli editti ove leggiadra donna / prieghi » (Scena i, p. 4), esortandola poi a cambiarsi e mettersi elegante per invitare Artaserse nelle sue stanze. La sua qualità morale principale, in perfetto stile arcadico, sembra essere la prudenza, seppure un po’ ridimensionata nella natura femminile, stando alle parole di Mamucano : « Ma sia pure / d’accortezza dotata, e di prudenza : / È donna alfine » (Atto i, Scena iv, p. 12). Si legga poi Mardocheo in merito alla prudenza :  















In giovenile core ogn’affetto suol toccar gli estremi. Non ben convien troppo timore, e ardire soverchio si condanna ancor ; dovria l’uno con l’altro con temprar prudenza. Prudenza ch’è il più nobile ornamento della mente dell’uomo : e a lui concilia rispetto. (Atto ii, Scena i, p. 25)  



Fonte di perplessità per il saggio zio è la gioventù della fanciulla : in un cuore giovanile, infatti, facilmente si toccano gli estremi del timore o dell’ardimento. La fiducia in Ester si basa su premesse che devono però ancora trovare conferma ; il suo essere donna ed essere giovane sminuiscono quella prudenza che sembra appartenere al suo cuore e permangono dubbi sulla sua regalità, che deve ancora essere rispecchiata dalla sua condotta. Ma Ester non è l’unica presenza femminile nella tragedia. Tralasciando l’ancella Eurione, personaggio che Lotman 2 definirebbe immobile, è Zara, la perfida moglie di Amano, a destare interesse nel corso del dramma. Nel terzo atto, proprio dopo il colloquio con la donna, Mamucano esprime un ulteriore giudizio sul gentil sesso : « Un’ombra vana / per lui ti diè tal pena. O quanto pronte / son le donne al timor, quanto al sospetto ! » (Scena i, p. 48). La donna sarebbe dunque più facile dell’uomo a temere e a sospettare, anche se, in questo caso, Zara è ragionevolmente sospettosa, visto che la fiducia che Artaserse ha riposto nel suo consorte Amano può essere effettivamente minata dall’amore che il re nutre per Ester. Nell’ultimo atto, infatti, proprio il re persiano a taccia di viltà Zara : « Una vil donna arresta / dei miei voler l’effetto ? » (Scena iv, p. 92). In effetti, la moglie di Amano rappresenta nel sistema di personaggi della tragedia manzoniana l’alter ego negativo di Ester ; se la fanciulla ebrea può ribaltare il giudizio comune  







   











1   Cfr. Aristotele, Poetica, Milano, Rizzoli, 1956, p. 64 : « Bisogna dunque che una favola ben costruità sia semplice piuttosto che doppia, come sostengono certuni, e passi non dalla infelicità alla felicità, ma, viceversa, dalla felicità all’infelicità, e non per scelleratezza, ma per un grave errore del personaggio ». In effetti, prendendo il testo aristotelico a norma il dramma a lieto fine con l’eroe perfetto sembrerebbe uscire dal campo del tragico, ma secondo le teorizzazioni tragiche del Settecento, la tragicità risiede nella possibilità della caduta del protagonista, che però non cade, ma si salva. Tutto questo perché al concetto di Fato si sostituisce quello cristiano di Provvidenza. 2   Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, a cura di E. Bazzarelli, Milano, Mursia, 1972.  





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sulle donne, manifestandosi all’altezza della missione affidatale, Zara compare sulla scena per confermare, almeno in prima istanza, una serie di stereotipi degli uomini sulla natura femminile. Se Ester è stata cantata dal coro del II atto come creatura bella, onesta e luminosa, il coro dell’atto successivo così presenta Zara :  

O di livore insano ripiena, iniqua Zara ! Chi vista avesse lei della nequizia interna cangiar in viso, e tutta sconvolta, accesa e brutta ! Certo d’irata donna la tetra, e fosca faccia non arreca minore a chi la guata orrore ! (Atto iii, Scena vii, p. 61)  





Il campo semantico dominante è sicuramente quello dell’oscurità : Zara è crudele ed invidiosa e questi elementi della sua natura si rispecchiano nel volto, scuro e brutto, segnato dall’ira in modo tale da suscitare addirittura orrore. La climax ascendente del sesto verso enfatizza infatti la bruttezza fisica della donna, specchio rivelatore di quella morale. Più avanti, il coro userà una similitudine zoomorfa, paragonandola ad « un orso irto, e villoso / che strage altrui minaccia » ; 1 e numerosi sono, nel corso del dramma, i paragoni dei personaggi negativi con il mondo animale. Zara rispecchierebbe dunque gli stereotipi di doppiezza e falsità attribuiti alle donne e sembrerebbe anche confermarli, macchinando la congiura contro Ester tramite lo stratagemma del falso biglietto. Nei piani della sua nemica la regina dovrebbe essere accusata di tradimento e giustiziata : alla congiura contro gli Ebrei si aggiunge quindi la congiura contro la sposa del re. Eroina negativa contro eroina positiva : giunti ad un punto del dramma, eliminare Ester diventa per Zara una questione soprattutto personale. Ma qualcosa scatta nella fin qui prevedibile macchina drammaturgica della Manzoni, perché in effetti, a metà del quinto atto, la moglie di Amano conquista un’imprevista ribalta. Così apostrofa il re, che la taccia di viltà : « or ben vedrai s’io celo / in fiacche membra un generoso cuore » (Scena iv, p. 93). E così continua prima di uscire di scena come previsto dall’unica didascalia esplicita di tutto il testo (« Se ne parte ») :  























Non può mancar d’escir di vita il modo a chi n’ave com’io, fermo il pensiero. Altro rimedio non riman che morte a tai sciagure. Il sostenerle lieve saria, quando per cui farlo vi fosse. Poiché di tanti figli un sol mi nieghi, non vuò in vita restare unico, avvanzo del tuo furore, e di miserie esemplo. (Ibidem)

Le parole di Zara pronunciate prima dell’uscita di scena adombrano i suoi propositi suicidi, ma non fanno certo pensare a quella viltà femminile cui alludeva Artaserse, cercando di zittirla. La donna, vedendo tutto perduto, cerca di salvare almeno uno dei suoi figli dalla strage 1   F. Manzoni, Ester, Atto iii, Scena vii, p. 61. La redazione del 1751 sostituisce la parola « strage » con « morte » confermando una tendenza di questa seconda stampa (non revisionata dall’autrice) ad attutire le espressioni più forti contenute all’interno del dramma.  







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che si prefigura per la sua famiglia, facendo appello anche alla proverbiale bontà di Ester. Ma la regina, compiangendola, dopo che è uscita dalla stanza, non le concede grazia : « Donna infelice, in me destan pietade / i mali tuoi, ma non sì ch’io non vegga / di Dio la man che ti castiga, e preme » (ibidem). Siamo ben lontani dalla morale evangelica, qui il castigo divino deve abbattersi su chi lo sfida già su questa terra. Tuttavia Ester, proprio nel momento in cui raggiunge lo scopo di salvare il suo popolo ed è riabilitata completamente agli occhi del re, sembra abbandonare i connotati dell’eroina tragica, che vengono assunti temporaneamente da Zara. Il suicidio della moglie di Amano, pur avvenendo fuori scena, secondo convenzione, rivive nelle parole del servo Ataco con una certa consistenza drammatica. L’episodio, occupando un’intera scena dell’atto conclusivo, assume grande rilevanza nell’economia del dramma. La Manzoni indugia, infatti, attraverso il racconto del servo, sui particolari della strage, in cui campeggia sicuramente l’arringa di Zara, che, sottraendo la spada ad una guardia, apostrofa Amano ai piedi del patibolo :  







Dirassi almeno ch’io morii da forte, né sopra viver volli al fatal crollo, delle nostre fortune, e di te invece, che bramoso d’onor, morir soffristi svergognato, ed infame. In questo dire nascoso tutto entro del seno il ferro, e senza lena, e moto a terra cadde. (Atto v, Scena vii, p. 99)

Echeggiano in queste parole molti sentimenti, ma non sicuramente la viltà : Zara non vuole sopravvivere alla vergogna e al dolore per i suoi figli orribilmente svenati da un popolo anche per lei straniero. La tradizione biblica vuole che la strage sia realizzata per mano degli ebrei, ma qui a compierla sono i persiani, lasciando, di proposito, agli israeliti una connotazione tutta positiva e confermando la prospettiva cristiana in cui la Manzoni colloca e svolge l’intero argomento del dramma. Tornando ad Ester, possiamo affermare che la tragicità sopravvive solo nelle pieghe del suo animo, prima di affrontare la prova, quando il dubbio la pervade più volte. Nonostante le qualità positive (umiltà e prudenza in primis) che la contraddistinguono sin dall’inizio della fabula, Ester è un personaggio mobile, che segue un percorso di formazione. La consapevolezza della regalità non è in lei, infatti, dato acquisito ma conquistato a poco a poco. Nel primo atto, di fronte ai doveri ed alle responsabilità a cui è chiamata, rimpiange la vita tranquilla di fanciulla umile e devota, in casa dello zio Mardocheo, che l’ha allevata come un padre :  



M’udisti sospirar la dilettosa vita privata, e l’umile abituro, che godei teco appo il mio zio, e padre, che padre fummi per amor. O dolce tranquilla vita ! O mia celletta ! O caro orticel mio diporto un tempo e cura ! Chi mi vi tolse ? E come io cangiai nel regal peso, che vie più divieni insoffribile ognor, ma a che piango il ben perduto, s’egli più non torna. (Scena i, p. 6)  







È lo stesso Mardocheo però a manifestare inquietudine di fronte alle esitazioni della fanciulla, tanto da interrompere con voce alterata il racconto di Ataco giunto a portargli notizie

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della regina. Così narra infatti il servo ad Ester e ad Eurione, nella seconda scena del dramma : « E che ? Ancor stassi / (Ei mi interruppe ad alta voce ) oziosa ? / Né il lutto universal del popol suo, / tante lagrime sparse, e ’l tanto umil / nostro chieder mercè punto la move ? » (p. 8). E così continua : « Le risovvenga che pervenne al trono / per mia condotta […] ah pensi ch’ella / non per sé sola, ma per tutti regna / che se non cura i nostri voti, il cielo / per altra via ne salverà, e gastigo / essa n’attenda » (p. 9). L’affetto paterno è sottomesso alla volontà divina : Ester è uno strumento nelle mani della Provvidenza, il suo volere non conta, il suo timore neppure ; è stata prescelta per il trono, non per il suo piacere, ma per il suo popolo. E di questo la fanciulla si mostra consapevole, dopo un momento di debolezza in cui ha sperato che si allontanasse da lei l’amaro calice :  























Ben merta pietà l’afflitto nostro Popolo. I’ ti protesto, Eurione mia, che l’udirmi narrar quanto dolore lo prema, e fieda, così m’ha commossa, che risoluta son di sollevarlo ad ogni costo. (Atto i, Scena v, p. 15)

Dopo il primo momento d’incertezza, la regina ritrova però coraggio e speranza nella fede, facendosi poi animo con queste parole, contenute nella lunga preghiera in chiusura di atto, prima dell’intervento del coro :  

Dunque o Nume Superno, in cui soltanto io tua ancella m’allegro, e’n cui confida l’Israelitica gente abbandonata, mi reggi in questa, ch’or rivolgi in mente, grande intrapresa, onde racquisti bella sicurtà il popol mio, ed io respiri da quel timor che mi distringe il core. (Scena vi, p. 21)

È evidente il tema dell’ancilla domini ed infatti il leit motiv della tragedia è proprio la volontà divina che innalza gli umili ed abbassa i superbi ; molti passi del testo ricalcano dunque il Vangelo di Luca 1-55, la preghiera di Maria all’angelo durante l’annunciazione. In tale contesto, Ester diviene figura Mariae, sottomettendosi con umiltà al comando divino e pregando, secondo i topoi del Magnificat. Tuttavia, la protagonista rimane ancora percorsa dal dubbio e la sua risolutezza cresce progressivamente nel corso del dramma. Talvolta Ester ricorre addirittura alla simulazione (altro stereotipo attributo femminile) per ottenere i suoi, in questo caso giusti, scopi ; si può dire pertanto che si macchi di peccati veniali, perché inseriti in un ordine provvidenziale. In effetti, già nella scena V del I atto, la fanciulla finge con Mamucano ; il consigliere le ricorda il ripudio di Vasti di cui lui stesso è stato fautore. La prima regina, rifiutandosi di obbedire al re, è stata ripudiata e questa sorte potrebbe toccare anche ad Ester, qualora disobbedisse. La fanciulla non vuole sentire la storia per bocca del ministro regale : « Questo fatto / sempre mi fè spavento, e ad ora ad ora sento mi spenge in sen qualunque brama / di ripugnare a ciò che il Re comanda » (Atto i, Scena v, p. 18). Uscito Mamucano, Eurione commenta così la finta arrendevolezza della sua padrona di fronte all’ambiguo consigliere : « O come ben con arte, Regina, l’arte di costui deludi » (ibidem). E non è tutto, nel secondo atto, sempre rivolta a Mamucano, che tenta di impedirle l’entrata nella sala reale, Ester pronuncia queste parole : « O vedi quanto in mente umana puote / antica impression ! E tu pur credi / che per dir degli Ebrei al Re mi porti, / quando tutt’al 























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tra è cagion, che a lui m’adduce, Eurione, entriam » (Scena iii, p. 31). L’intenzione è d’invitare a cena Artaserse ed Amano e smascherare le trame del cattivo consigliere. A Mamucano che cerca d’impedirle il passo, perché teme una simile macchinazione, dice, però, di non avere alcun secondo fine oltre l’invito, dissimulando dunque una seconda volta. Ma già nel terzo atto, i presupposti cambiano, Ester vede ormai come unica soluzione nel rimettere a Dio l’anima e il cuore ricolmi di tristezza e quando Ataco le fa notare che « costor con fraude / cercan tuo scempio », esortandola, « con arte eguale » a tentare di sopraffarli, lei risponde « O non sia vero ; / che io tal consiglio accolga : aita, e scorge / i giusti a lieto fin semplicitade, / ed i maligni in lor medesmo inganno / trovar rovina, e scorno […] Farò sol quanto / vorrà il gran Nume suggerirmi al core » (Scena iv, p. 55). Nessuna menzogna o artificio per fare la volontà di Dio, ormai la regina confida solo nella Provvidenza, anche a rischio di fallire e di perdere la propria vita. Tuttavia, prima di giungere alla risolutezza, la fanciulla è dubbiosa e incerta ; si legga la sua accorata e nostalgica preghiera nel i Atto : « Tranquilla vita ! O mia celletta ! O caro / orticel mio diporto un tempo, e cura ! » (Scena i, p. 6). Così la descrive Ataco a Mardocheo, sempre nel primo atto, con una similitudine marina : « È da pensieri / tristi agitata, come il mar dai venti, / né sa dove piegare, e a qual partito appigliarsi » (Scena ii, p. 8). E con queste parole, quando tutto sembra perduto, la regina si rivolge a Dio in preda all’angoscia :  



























   









Io posta son tra l’ombre terribili di morte, e nel profondo quasi un torbido lago, e ristagnante debil barchetta, e star mi veggio intorno di tua grand’ira i flutti, e tu gli aduni tutti sovra il mio capo. 1

Il paragone col mare rappresenta il leit motiv principale di Ester : questa volta il mare è Dio ed la regina ebrea una fragile barchetta in mezzo alla tempesta. Proprio tale stato d’animo, ricorrente nella protagonista fino alla prova conclusiva, la rende un’eroina tragica, in continuo dialogo e scontro con i propri limiti interni ed esterni. Nel corso del dramma si distinguono, dunque, diverse tonalità emotive che dipingono gli stati d’animo di Ester : si va dalla nostalgia, all’inquietudine, alla definitiva risolutezza. Superata la prova e smascherato il cattivo Amano, la protagonista esce dal campo della tragicità per avviarsi verso la sua conclusione lieta, mentre la palma dell’eroina passa di fatto in mano a Zara. La moglie di Amano diviene infatti protagonista assoluta della penultima scena del dramma in cui si verifica quel bagno si sangue che, unendo terrore a pietà, rappresenta una possibilità di catarsi. Forse la Manzoni, pur sostenendo la plausibilità del lieto fine nella tragedia, volle inserirsi nel solco della tradizione classica con una sorta di contro-finale con catastrofe in cui si realizzassero pienamente gli obiettivi dei grandi tragediografi greci. O forse la sensibilità della poetessa, pur collocandosi decisamente in un’orizzonte culturale rinnovato (anche dal pensiero cristiano) nella direzione di una maggiore civilizzazione dei costumi, non rimase immune dal fascino di quell’unione di pietà e terrore che aveva costituito per secoli l’obiettivo della tragedia. Analizzando la struttura tragica, secondo la definizione di Lotman « la cornice dell’opera  





1   Ivi, Atto iv, Scena i, p. 63. Da notare la variante dell’edizione del 1751, in cui si nota ancora un tentativo di attutire la violenza delle immagini : « Veggomi posta in mezzo alle profonde / terribili di morte ombre funeste, / quasi in torbido lago abbandonata / debil barchetta, e star mi veggo intorno / di tua grand’ira i flutti, e tu gli aduni / tutti sovra il mio capo ». Nella lettera ai lettori premessa alla raccolta del Teatro ebraico il curatore afferma di aver usato un manoscritto di mano dell’autrice procuratogli da Don Angelo Calogerà. Sembra infatti che la Manzoni abbia inviato a don Angelo la sua nuova versione di Ester con alcune varianti di suo pugno.  





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letteraria consiste di due elementi l’inizio e la fine ». 1 La vicenda di Ester inizia in medias res : da tre giorni è stato emanato l’editto che decreta lo sterminio degli israeliti e la regina confida all’ancella Eurione i suoi turbamenti in proposito. Ha ordinato infatti al suo popolo di pregare e fare penitenza, ma nulla è mutato in positivo. Unica soluzione sarebbe per lei presentarsi al cospetto del re ed implorare pietà. Tuttavia, il fatto di aver taciuto le sue origini ebraiche ad Artaserse, come pure la legge che impedisce ad alcuno di comparire (non annunciato) al cospetto del sovrano di Persia l’atterriscono. L’inizio ha « una funzione determinante di modello, esso è non solo la testimonianza dell’esistenza, ma anche il sostituto della posteriore categoria di causalità ». 2 Nello specifico contesto tragico indica chi per primo ha commesso una colpa e chiarisce la situazione e le sue origini. Nel dramma della Manzoni Artaserse si configura inizialmente come un re crudele, per aver emanato l’editto di sterminio, ma la colpa non è tutta sua, poiché è stato istigato con l’inganno dal suo consigliere favorito Amano. Però anche Ester è a suo modo colpevole, per aver taciuto di essere ebrea, contravvenendo quindi alla regola del regno che non permetterebbe al re di sposare una straniera. Tale infrazione nei confronti della legge dell’uomo è mitigata dall’obbedienza al disegno divino : il saggio zio Mardocheo ha spinto Ester alle nozze regali, intimandole di tacere le sue origini. Capiamo da subito che l’argomento del dramma è tra i più elevati : siamo in un contesto biblico e si profila la volontà divina come motore dell’azione. Se l’inizio del testo è legato in qualche modo alla formulazione della causa, « la fine rafforza il segno dello scopo ». 3 Nel caso di Ester l’ultima scena ribalta totalmente la situazione iniziale. L’editto è cambiato in favore del popolo ebraico, Amano è punito. Al consigliere fraudolento si sostituisce il consigliere buono Mardocheo. Ora sono Ester e Mardocheo ad avere il sigillo reale per emanare decreti e il potere di perseguitare i complici di Amano. In apertura Eurione diceva ad Ester : « In quanto alle di morte / imposte pene a chi al Re venne innanzi / senza ch’ei lo ricerchi, elle soltanto / pei sudditi esser denno : ei non conviene / che s’estendano a te ch’altrui sovrasti / tanto col grado, e che del Re sei donna » (Scena i, p. 5). In chiusura, Artaserse dice a Ester : « Regina, a tuo piacer forma le leggi » (Scena viii, p. 101). Le speranze iniziali sono confermate, perché Dio garantisce l’equa distribuzione di pene e premi, proteggendo il suo popolo, innalza gli umili, abbassa i potenti. Dio ha il potere di ribaltare le sorti dei suoi figli, premiando i giusti. In effetti, il senso profondo dell’intera vicenda è contenuto nel sogno premonitore che Mardocheo confida al sovrano nel finale ; si tratta di una licenza poetica, perché collocato non all’inizio, come nel testo biblico 4 con funzione premonitiva, ma alla fine a suggellare ciò che è accaduto. Così la Manzoni, concludendo il quinto atto, lascia a Mardocheo il compito di raccontare il proprio sogno, parafrasando l’episodio biblico :  

































Era il secondo anno del tuo impero, e ’l primo giorno del mese primo, quando udir mi parve voci, e tumulti, tuoni, e scuotimenti orribili del suolo, e per la terra pareami fosse duolo, ed scompiglio. Ed ecco duo draghi feroci in guerra muover e concitarsi al loro rumore e armarsi tutte le nazioni, acerba pugna contro dei giusti apparecchiando. […] Un picciol fonte d’improvviso crebbe 1

2

3

4

  Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, cit., p. 259.   Ivi, p. 258.

  Ivi, p. 256.   Est., 1, 1d-11.

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capitolo iii in un fiume regale, e riversando l’acque in copia n’andò fuor delle sponde. Sorse la luce, e ’l sole, ed i depressi furo esaltati, e depressi gli alteri.

Il cerchio si chiude, e forse per ragioni drammaturgiche la Manzoni postpone il sogno di Mardocheo, che nel libro di Ester è collocato all’inizio del racconto. Se la Bibbia si configura come un testo narrativo, potremmo dire anche epico, poiché racconta una vicenda in cui la collettività si riconosce, il testo drammatico, fondato sul dialogo, deve necessariamente mantenere la suspence per destare interesse. Trattandosi di materia sacra l’eventuale lettore o spettatore può immaginare il finale, tuttavia lo spostamento del sogno dall’inizio alla fine consente ancora di svolgere la fabula, salvando le aristoteliche categorie di peripezia ed agnizione e mantenendo vivi i sentimenti di pietà e terrore. Passiamo ad analizzare la struttura dello spazio del testo. L’unità di luogo è rispettata : tutto si svolge nel Palazzo reale secondo quanto prescritto dall’unica didascalia esplicita, che recita « La scena è in Susa capitale del regno, nel palazzo d’Artaserse ». Tuttavia si configurano, nel corso del dramma, ulteriori suddivisioni spaziali interne ; nei diversi meandri del palazzo si muovono infatti i personaggi. S’individuano in primo luogo le stanze di Ester, che sembrano costituire un luogo separato dal resto, dove la regina si sente protetta. Mamucano, nel secondo atto così parla di Ester ad Amano : « Ed or si sta, cred’io, nelle sue stanze / sola in silenzio, pur meravigliando d’esser per me tutt’or regina, e viva » (Scena ii, pp. 27-28). Ester si rivolge al marito con queste parole, invitandolo a cena : « Tu ne vien con Amano alle mie stanze, / ove a giocosa mensa il grave incarco / deporrai dei pensier noiosi » (Atto ii, Scena iv, p. 34). Artaserse, esortando Amano, dubbioso, ad accogliere l’invito : « …ma entriam, che la Regina / forse nostro tardar turba, ed affanna » (Atto ii, Scena vi, p. 40). Viene poi più volte nominato l’atrio della reggia, il luogo della sospensione e dell’attesa, attraverso il quale si può essere ammessi alle stanze reali. Ne parla Amano a Mamucano, la prima volta, nel secondo atto : « Io dissi : troppo a lei credesti : andarne / pur vuole al Re per aitar gli ebrei ; / mentre a qual altro fine or ne verria / nell’atrio onde si passa al regal soglio ? » (Scena ii, p. 30). Nel terzo atto è sempre Amano a nominare il luogo in cui vuole introdursi, non annunciato, al cospetto del sovrano per avere notizie sul colloquio di lui con Ester : « Il penetrai / anch’io ; ma il senno gioveracci, e l’arte. / Io nell’atrio porrommi, e pria del giorno / parlerò a lui. Per me non v’è divieto » (Atto ii, Scena iii, p. 51). E poi, nella scena quinta, Artaserse chiede a Mamucano : « Chi trovasi or nel vicin atrio ? » ; e Mamucano risponde : « Amano » (p. 56). Nell’atrio si fermano tutti i personaggi prima di avere accesso al sovrano, la soglia indica infatti, nella spazialità simbolica del testo, la distanza ideale che esiste tra il re ed i suoi sudditi, anche i più cari. Là si ferma Ester trattenuta da Mamucano quando vuole invitare Artaserse nelle sue stanze e là deve sostare anche il prediletto Amano in attesa di un’udienza. Oltre l’atrio ci sono le stanze reali, se ne intuisce la presenza, ma non vengono mai nominate esplicitamente ; da tali spazi si tiene generalmente lontana anche Ester, varcandone la soglia, non annunciata, una volta sola, nella quarta scena del secondo atto. Lo stesso episodio è riprodotto anche nell’azione sacra del 1738 : nel libretto, come nella tragedia, infatti, la regina si sente mancare, una volta al cospetto del marito, poiché teme la sua ira. Ma nella tragedia l’agnizione di Ester è differita : se nell’oratorio varcare la soglia prelude il momento della rivelazione delle vere origini della fanciulla, nel testo tragico bisogna aspettare il quinto atto. Rimanendo sempre all’interno del palazzo, s’individuano anche un giardino ed un’ala dell’edificio vicina alla pubblica piazza. Nel giardino si ritira Artaserse a meditare dopo che Ester ha svelato le trame di Amano ; così racconta Eurione ad Ataco che le chiede del sovra 







































































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no : « Artaserse sdegnato nel contiguo / giardino entrò » (Atto iii, Scena iii, p. 90). Si profila dunque un cortile interno attiguo alle stanze reali, dove il sovrano passeggia in preda alla rabbia per quello che ha appena scoperto. Dell’ala contigua alla piazza si parla invece nel quarto atto, quando Eurione arriva trafelata da Ester riferendole che una folla tumultuante si è radunata intorno a Mardocheo per ordine del re :  







Del tuo regale albergo in quella parte ch’un suo braccio sporge verso la via che guida alla gran piazza, e donde udir qual colà fassi strepito si può con agio ancor che l’occhio indarno vi tenti d’arrivar, m’er’io ritratta co’ miei soli pensieri afflitti. (Scena ii, p. 66)

Qui le indicazioni spaziali sono molto precise e lo svolgimento della fabula lo richiede, visto che sta per crearsi un fraintendimento importante per il procedere dell’azione : un braccio della reggia si allunga verso una via che conduce alla pubblica piazza ; questo fa sì che dall’interno si possa udire lo strepito della folla, ma non si possa vedere cosa accade. Così prosegue l’ancella nel suo racconto :  





sento da lungi di sonanti trombe un fragor replicato, un suon di palme, un confuso innalzar di mille voci, ma nulla ne comprendo, onde ivi cheta stommi attendendo se d’udir più oltre mi sia concesso. A note alfin distinte nomar ascolto Mardocheo, e ridirsi, non capii quale, ordin del re. (Ibidem)

Eurione sente confusamente, nel fragore generale, il nome di Mardocheo associato ad un ordine del sovrano e, ovviamente, pensa che l’anziano ebreo sia condotto al patibolo. Amano, infatti, prediletto del re, cova un rancore personale verso questo saggio, che non ha voluto sottomettersi alla sua autorità in pubblico. L’ancella continua :  

[…] Mi corse un gelido tremor per l’ossa, e poco mancommi a trambasciar, che ben intesi quanto basta a involarmi ogni speranza ; che non m’inganno, se ’l primiero a morte Mardocheo trascinarsi affermo, ed ora trovarsi avvolto negli estremi affanni, o già rimaso della vita privo. (Ibidem)  

In effetti, la particolare circostanza spaziale in cui il personaggio può udire, ma non vedere, genera un qui pro quo che sostiene la peripezia : Mardocheo sembra condotto al supplizio, in realtà (e noi lo sappiamo, ma le due fanciulle no) è condotto in trionfo. C’è quindi un mutamento della situazione in senso contrario al previsto : l’annuncio che avrebbe dovuto rassicurare Ester in realtà la terrorizza. In generale, potremmo dire che gli indicatori spaziali presenti nel testo distinguono ciò che sta dentro il palazzo da ciò che sta fuori ; tutto quello che appartiene alla regalità si svolge all’interno, tutto quello che da essa è escluso resta all’esterno. Così Mardocheo, prima di  





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capitolo iii

essere riabilitato dal sovrano, sta fuori, sulla soglia ; si legga Artaserse : « Or ben farai senza frapporre indugio / quanto dicesti a Mardocheo, che siede / nanti alla reggia » (Atto iii, Scena vi, p. 57). Una volta rientrato nelle grazie del re, lo zio di Ester accede nuovamente agli spazi interni del palazzo reale. Percorso inverso è quello di Amano ; nell’atto secondo Eurione dice : « Il consiglier perverso / o ai fianchi del monarca, o nel palagio / sempre s’aggira » (Atto ii, Scena iii, p. 30). Ma quando viene riconosciuto colpevole è sbattuto all’esterno, addirittura fuori della città, dove viene innalzato il suo patibolo, secondo il racconto di Ataco : « Io tosto trassi Amano / privo del nobil cerchio, ch’io ti porgo / e avvinto fuor della cittade, e quivi / fei recar la gran trave, ove sospeso / fu in alto » (Atto v, Scena vii, p. 97). E la stessa sorte spaziale tocca all’ambiguo Mamucano che, in virtù della sua nobile origine, non viene giustiziato, ma esiliato fuori dal regno, in un’isola lontana : « Dalla morte t’assolvo, ma all’esilio / ti danno invece ; fia l’Isola estrema / che bagna l’Eritreo la tua dimora » (Atto v, Scena vii, p. 96). Possiamo concludere che l’opposizione “aperto/chiuso” sia in Ester indizio essenziale di organizzazione spaziale del testo stesso. Il confine della reggia separa tutto lo spazio del testo in due luoghi che non s’intrecciano l’un l’altro, ma soprattutto è l’atrio a dividere semanticamente i personaggi in due gruppi : chi può oltrepassarlo e chi no, chi può entrare in dialogo con il re e chi no, chi può infrangere le leggi e chi no. Tuttavia, trovandoci di fronte ad una tragedia biblica, prevale decisamente l’asse verticale “alto/basso” : « quest’asse verticale organizza contemporaneamente anche lo spazio etico », 1 il male in basso, il bene in alto. L’intero testo drammatico è infatti disseminato di indizi che alludono alla verticalità, categoria che rispecchia dal punto di vista semantico il principio (prima biblico e poi evangelico) secondo il quale Dio abbassa i superbi e solleva gli umili. Tale concetto è infatti ripreso più volte nel corso dell’opera e ribadito dal coro finale : « E gli alteri deprime, erge gli umili, / poich’ei solo è Signor delle vicende / e sommo operator di meraviglie » (Atto v, Scena viii, p. 105). Il primo asse verticale presente nel testo vede il Cielo contrapposto alla Terra. Così prega Ester, nel primo atto : « Dunque, o Nume superno, in cui sol tanto / io tua ancella m’allegro, e’n cui confida / l’Israelitica gente abbandonata » (Scena vi, p. 20) ; e così le risponde il coro : « Sorgi gran Nume, sorgi, / e’l braccio a noi di tua pietade porgi » (ivi, p. 23). E ancora si legga Ester nell’ultimo atto : « Ben m’ebbe pietà il ciel, che non lasciommi /cadere in sì gran male » (Scena i, p. 87) ; e più avanti afferma « Non dorme providenza, ma ogni cosa / osserva, e in suo saver si riconsiglia : / solleva chi è depresso, ed i superbi / di confusion ricuopre » (Scena v, p. 93). E il coro suggella il finale con questo incipit : « Ecco che sorgea a noi novella luce / e di letizia ne circonda, e onore » (Scena viii, p. 103). Dall’alto, dunque, al basso ; si legga Amano (non a caso), nel terzo atto : « o quanto andrei volentieri a celarmi infino al giorno / nel cupo fondo d’orrida caverna » (Scena vii, p. 59). Ed Ester, nel momento di disperazione del quarto atto : « io posta son tra l’ombre / terribili di morte, e nel profondo, / quasi torbido lago, e ristagnante » (Scena i, p. 63). E ancora Amano : « Che non t’apri in voragini profonde / o terra, e non mi chiudi entro le cupe / tue viscere, ond’io celi un tanto scorno ? » (Scena iv, p. 73). Il secondo asse verticale, meno importante, ma significativo per comprendere la seconda pista di rilessione che percorre il testo, è quello della gerarchia re/sudditi, perché, durante lo svolgimento della fabula, solo la volontà regale può intersecare l’asse cielo/terra, anche se solo temporaneamente, perché nel finale essa deve comunque sottoporsi alla volontà divina. Avvengono alcuni ribaltamenti gerarchici : la verticalità travolge per esempio il personag 



































































































1

  Ju. M. Lotman, La struttura del testo poetico, cit., p. 265.



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gio del cattivo consigliere Amano, che la percorre più volte in direzioni opposte. Uomo di umili origini viene sollevato al grado di supremo consigliere e da lì ricacciato negli abissi dopo l’accusa di tradimento. E la sua pena è esemplare, poiché sarà innalzato sulla forca in una sorta di contrappasso ; così racconta il supplizio Ataco : « dei suoi figli fec’io (d’esser compianti degni se non avean tal padre) e a piedi / del legno, ond’ei pendea su gli occhi suoi / furon svenati, ivi di sangue un lago / formando, che’l suol poscia si bevve » (Atto v, Scena vii, p. 97). Come dominava gli altri con la frode ora li domina nella vergogna del tradimento. Percorso simile ma con ben diverso esito è quello di Ester : sollevata al rango di regina da umile condizione rischia in effetti la caduta, ma riesce a mantenere il suo rango, anzi lo innalza, perché riceve alla fine il sigillo regale (ovvero la possibilità di emanare leggi) insieme allo Zio Mardocheo. Nel terzo atto Ester riassume con queste parole parte della sua vicenda :  











Mi sgomenta poi dall’altro canto che morir io debba qual perfida, e inumana, che il più nero barbaro tradimento inventar seppe, persuadere, ordinar contro lo sposo, contro il Monarca, e tal Monarca, e sposo che dal più abbietto stato al più sublime soglio m’alzò del mondo. Oh cielo ? Io questo sofferire non so senza lagnarmi. (Scena iv, p. 54)  

E ancora si lamenta, nell’atto successivo, dei continui rovesciamenti della sua sorte :  

Infelice son io, tra pene vissa fino d’allora che cangiai fanciulla mio stato umil con lo regal splendore. Alzato al soglio entro mio cor me stessa vie più depressi, e ne andai mesta in viso mostrando i segni dell’interno affanno. (Scena i, p. 64)

Ma Ester ha anche la funzione di tramite nell’asse cielo/terra, in quanto strumento della provvidenza per salvare il popolo israelita. Diversamente da quello di Amano, che è stato innalzato dalla volontà di un uomo, il progredire di Ester nella gerarchia terrena è voluto da Dio e per questo è destinato al lieto fine. Visto che abbiamo esaminato le connotazioni spaziali presenti nella tragedia della Manzoni, aggiungiamo alcune osservazioni relative a quelle temporali : la fabula rispetta l’unità di tempo, iniziando al tramontar del sole e concludendosi nelle prime ore del giorno successivo. Pertanto, gran parte dell’azione si svolge di notte. Tutto ciò assume anche un significato simbolico secondo la mediazione dantesca che vuole la notte come momento del peccato e della paura e l’alba come scioglimento dell’esperienza di perdizione e disorientamento. L’antefatto viene raccontato nella prima scena da Ester ad Eurione : l’editto è stato emanato e la regina ha ordinato agli ebrei di pregare e digiunare per tre giorni e tre notti. Non esistono didascalie esplicite, ma indicatori temporali disseminati nelle battute dei personaggi. Così, nell’atto secondo, Ester si rivolge ad Artaserse con queste parole : « Se superba / non è la mia domanda, quando il sole / giunga all’occaso, verso cui già s’inchina / tu ne vien con Amano alle mie stanze » (Scena iv, p. 33). E nell’atto successivo Artaserse, in preda ai dubbi, dice a Mamucano :  











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capitolo iii Poiché ricusa questa notte il sonno aver meco dimora anco un momento, i’ ti chiamai perché men gravi l’ore mi passin che più al dì son vicine, mentre discosto il biancheggiar dell’alba mi sembra ch’esser non devrebbe. (Atto iii, Scena v, p. 55)

Nel quarto atto, evidentemente, è già l’alba, come si deduce dalla battuta di Ester : « Gli Ebrei che nosco in questo dì cadranno » (Scena ii, p. 59). E nella penultima scena del quinto la regina riassume la durata temporale dell’intera vicenda :  







Tu cangiasti l’aspetto in una notte alle vicende, onde s’i’avea cagione sul tramontar del sol di versar pianti, ecco che sul mattin liete avventure già mi s’ordian. […] Del tuo braccio divin la possa immensa io canterò : sarammi dolce impiego sorger col giorno, e di devote laudi, ed Inni far la tua pietà soggetto. (Scena vii, p. 99)  

Al concetto di spazio artistico è poi strettamente collegato il concetto di intreccio, poiché lo spazio è sempre dato all’uomo sotto forma di contenuto concreto e « alla base del concetto di intreccio c’è la rappresentazione dell’avvenimento ». 1 Si tratta di qualcosa che è accaduto, ma che poteva non accadere, in questo modo l’avvenimento è sempre la violazione di qualche divieto, è un fatto che ha avuto luogo sebbene non dovesse avvenire. Alla base dell’organizzazione interna degli elementi del testo c’è come regola un principio di « opposizione semantica binaria », 2 nel caso esemplificativo di Ester tra ebrei e non ebrei, anche se non esiste una vera e propria rappresentazione spaziale di tale opposizione, visto che il mondo ebraico penetra la reggia persiana che sembrerebbe essergli preclusa. C’è una linea inizialmente insuperabile che divide le due parti, ma alcuni personaggi come Ester, Mardocheo e Artaserse (che sposa un’ebrea) riescono a superare questo impedimento e a passare dall’altra parte, anche solo temporaneamente. Rispetto all’idea di Fato, o meglio (in un contesto cristiano) di Provvidenza, esiste dunque una divisione ideale tra buoni/ cattivi, ovvero tra chi varca i limiti della separazione razziale e chi non è in grado di varcarli. Varcare quel limite significa anche inserirsi a pieno titolo nel disegno divino, per restituire al popolo eletto, quello ebraico, la salvezza prima e la libertà poi. In tal modo, si distinguono due gruppi di personaggi, quelli mobili e quelli immobili. Quelli immobili rientrano nella classificazione e la confermano : per esempio, Amano e Zara oltrepassano le regole peccando di hybris e sono annientati ; per la trasgressione vengono puniti, non riescono cioè a varcare l’impedimento. Eppure il perfido consigliere si ritiene al di sopra delle leggi del destino e degli uomini, come confessa a Mamucano in un impeto di tracotanza :  













Ti sembr’io forse uom da cedere al fato ? Uom da pentirmi e vergognarmi del mi’oprar. Quand’anco dovessi confessar ch’ei sia delitto ?  



1

  Ivi, p. 274.

2

  Ivi, p. 280.

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Farei torto al talento altero, e indomito che in sorte mi toccò, se non mostrassi infrangibile orgoglio, e non avessi ardire da cozzar col fato, e mille opre audaci eseguire in onta al cielo ; che mi fulmini pur : altro non puote che togliermi la vita, ed io la vita non curo, e stimo dopo un sì palese tormentoso disnor. (Atto iv, Scena v, p. 75)  



Essere uomo di « talento altero » e « indomito » qui non basta per superare l’impedimento : nella tragedia biblica non è più chiamato in causa il fato, ma la provvidenza, dunque siamo in un ordine di valori ancora superiore. Sempre nella categoria di personaggi immobili troviamo Ataco ed Eurione, rispettivamente servo ed ancella di Ester, che si muovono, diversamente dall’altra coppia, all’interno del loro limite, senza mai oltrepassarlo. Questa condizione li mantiene tuttavia nel ruolo comprimario di funzioni dell’azione, perché raccontano ciò che è successo e conservano per tutto il dramma il ruolo di aiutanti del protagonista. I personaggi mobili differiscono da quelli immobili nella misura in cui hanno diritto di compiere azioni proibite ad altri ; in base a questa misura si stabilisce chi è l’eroe principale, colui cioè che ne ha pienamente diritto. Secondo questa definizione, oltre ad Ester, gli altri personaggi mobili della fabula sono, in ordine d’importanza nello svolgimento dell’azione, Artaserse, Mardocheo e Mamucano. Questi riescono a passare da un campo semantico all’altro del tutto o parzialmente : in effetti Mamucano viene punito con l’esilio e questo sembrerebbe un fallimento. Ma considerando la condotta del funzionario del re, costantemente in bilico fra bene e male per tutto il dramma, avere la vita salva costituisce già un parziale successo, un riconoscimento di colpa non totale. Il movimento dell’intreccio è determinato dall’avvenimento, cioè dal superamento del limite proibito. Quest’ultimo « si può concentrare nell’episodio principale, che è l’intersezione del principale limite topologico con la sua struttura spaziale ». 1 Nel caso dell’Ester il limite principale è la condizione della protagonista di appartenente ad una razza considerata colpevole di tradimento ; la regina si è sposata tacendo le sue origini, eludendo così la legge che impedisce al re un matrimonio con una donna non persiana. Su questo s’innesta l’editto che vuole lo sterminio degli ebrei e che, automaticamente, condannerebbe a morte anche la regina stessa. Se Ester non avesse sposato il re di Persia oppure se si fosse limitata a tacere, avvallando lo sterminio del suo popolo, non ci sarebbe stato avvenimento anche in presenza di azione : infatti « lo spostamento dell’eroe all’interno dello spazio a lui assegnato non costituisce un avvenimento ». 2 Sulla base della gerarchia delle opposizioni binarie si forma una scala di limiti semantici e pertanto « si presenta la possibilità di oltrepassare i limiti proibiti, cioè episodi subordinati che sono sviluppati sulla gerarchia del movimento dell’intreccio ». 3 Nella fabula di Ester si rintraccia così il passaggio di Mardocheo da presunto traditore a consigliere privilegiato ; di Mamucano da consigliere fraudolento a pentito ; di Artaserse da buon sovrano a tiranno (e da tiranno nuovamente a buon sovrano, traducendo l’editto di sterminio in editto di liberazione). Esiste però un’opposizione semantica binaria fondamentale, sulla cui base è costruito il continuum narrativo del testo ed un avvenimento principale rappresentato dall’infrazione del limite proibito dalla classificazione di base. L’opposizione è quella, come detto,  

































1

  Ivi, p. 281.

2

  Ibidem.

3

  Ibidem.

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capitolo iii

fra ebrei e non ebrei, o vedendola in prospettiva rovesciata, fra persiani e non persiani. Ester infrange infatti una legge della Persia, presentandosi al cospetto di Artaserse non annunciata e mettendo in moto una serie d’infrazioni successive. Questo accade già nel secondo atto, scena quarta, quella con la più alta concentrazione di personaggi come si evince dallo schema sottostante :  

Scena i Scena ii Scena iii Scena iv Scena v Scena vi

Ataco, Mardocheo Amano, Mamucano Ester, Eurione, Mamucano Artaserse, Ester, Eurione, Mamucano Artaserse, Mamucano Artaserse, Amano + Coro

Mamucano ha cercato, nella scena precedente, di dissuadere Ester in tutti i modi dal presentarsi, non annunciata, al cospetto del re : « Egli è ben vero / che non dovrai esser per te gli editti, / ma chi n’accerta ? Del periglio l’ombra / per fin si fugga » (Atto ii, Scena iii, p. 32). Ester fa fronte al consigliere reale, apostrofandolo con parole dure : « Me giusto pensiero / dee stringer più di mia salute, e vita ; / lascia tu dunque ch’io sola vi pensi » (ibidem). Ma proprio in quel momento, a parte, confessa il suo sgomento : « (Ohimé, che veggio…qual sembiante…oh Dio !) » (ibidem). Evidentemente Artaserse si sta dirigendo verso di loro e ancora una volta le parole di Eurione hanno la funzione di didascalia : « E che hai regina ? Il re ver noi sen viene / or d’uopo è farsi core » (ibidem). Il timore di Ester è grande, perché ricorda il ripudio di Vasti giudicata colpevole di disobbedienza nei confronti del re anche se nel rispetto delle leggi persiane ; ora lei sta addirittura trasgredendo le leggi stesse e l’esito felice dell’azione non è scontato. Nella scena successiva accade ciò che poteva non accadere, Artaserse vede Ester dove non si aspettava di vederla e lo stupore è sottolineato dall’uso del deittico : « E come qui / Ester mia sposa ? Ma che fia ? Che miro ? / Qual tema, qual pallor sì d’improviso…/ Donne ben la reggete » (Atto ii, Scena iv, p. 32). La sospensione è rimandata tuttavia al quinto atto, in cui abbiamo nuovamente un’alta concentrazione di personaggi in quasi tutte le scene, come si evince dallo schema seguente :  















































Scena i

Artaserse, Ester, Amano

Scena ii

Zara

Scena iii

Eurione, Ataco, Zara

Scena iv

Artaserse, Eurione, Ataco, Zara

Scena v

Ester, Artaserse, Eurione, Ataco, Zara

Scena vi

Artaserse, Ester, Eurione, Mamucano

Scena vii

Artaserse, Ataco, Ester, Eurione

Scena viii

Mardocheo, Artaserse, Ataco, Ester, Eurione + Coro

Dunque la Manzoni colloca nella prima scena del quinto atto l’agnizione. Possiamo pertanto concludere che nella tragedia compaiono due avvenimenti, corrispondenti a due infrazioni : uno nel ii atto (di cui abbiamo già parlato) ed uno nel v, in cui avviene effettivamente il riconoscimento di Ester. Artaserse ed Amano si trovano a cena nelle stanze della regina ed il sovrano, vedendo la sposa preoccupata, le dice : « Io ben ravviso, / per quanto con letizia il cor ascondi, / che un amaro pensier ti turba e pugne » (Atto v, Scena i, p. 83). Le ha offerto metà del suo regno, ma la fanciulla non sembra rasserenata finché rivela : « la vita o sire, /  











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cerco, per me la vita, e pel mio popolo » (ibidem). E, dopo una lungo monologo di Ester sulla natura della sua infelicità e la crudeltà dell’editto, il sovrano sembra ancora non capire : « Quale vaghezza oggi ti muove / a parlar d’ira, a ragionar di morte ? / Di tentar il mio amor forse piacere / così ti prendi ? » (ivi, p. 84). Ed Ester risponde : « Or sappi dunque / ch’io sono ebrea, ed Israello e ’l popolo / ch’io ti domando » (ivi, p. 85) ; l’agnizione è completa ed il re vive un attimo di sgomento, prima di arrivare alla conclusione che la sua sposa è ancora una volta al di sopra delle leggi : « O cieli, / che intendo ! Io dunque…le persiane leggi…/ eh che parl’io ? Dicasi pur che rotte / io l’ho : per te ben si potea far tanto » (ibidem). La protagonista è stata nuovamente sul punto di passare da un campo semantico all’altro, da innocente a colpevole, da prediletta del re a traditrice. Ma questo ancora una volta non accade, il limite è stato spostato e la catastrofe non si compie, poiché ciascuno nel corso dell’ultimo atto viene premiato o punito a seconda dei propri meriti e delle proprie colpe. Si segue, in questo caso, il principio di giustizia poetica e, secondo la teoria formulata da Szondi nel suo saggio sul tragico, si esce proprio da quest’ultima categoria, poiché la tragicità permane solo fino al momento della prova dell’eroina. Passando al sistema dei personaggi, se dalla morfologia della fiaba di Vladimir Propp risulta il personaggio come un’intersezione di funzioni strutturali, in questo testo si individuano due linee : una femminile ed una maschile. Nella linea femminile, Ester riveste il ruolo dell’eroina, Eurione dell’aiutante, Zara del cattivo ; in quella maschile Artaserse è l’eroe, Ataco l’aiutante, Amano il cattivo. Sicuramente la linea femminile è prevalente, ma in una prospettiva, come abbiamo visto, prettamente maschile. Dopo aver superato il limite, il protagonista entra poi in un “anticampo” semantico posto in relazione con quello iniziale e, affinché il movimento si fermi, il protagonista deve fondersi con esso, trasformandosi da personaggio mobile in immobile. Ester (insieme a Mardocheo, che fiancheggia l’eroina) riceve da Artaserse il sigillo regale e si assesta nella nuova posizione di potere diventando immobile. I personaggi della tragedia sono otto : tre donne e cinque uomini. Quattro sono positivi : Ester, Eurione, Mardocheo, Ataco. Di questi Eurione ed Ataco sono al servizio della regina e dunque ascrivibili al suo campo semantico. Altri quattro sono negativi, ma di questi due (Artaserse, Mamucano) passano da un campo semantico all’altro (negativo/positivo) nel corso del dramma, ed altri due (Amano e Zara) rimangono nel campo della negatività. Alla coppia reale Artaserse/Ester si contrappone quella diabolica Amano/Zara. Per quanto riguarda il modello spaziale del mondo, il sistema dei personaggi si divide chiaramente in due settori, richiamando la prima opposizione semantica binaria presente nel dramma : ebrei e non ebrei pagani. Tutti gli ebrei sono connotati positivamente, come Eurione, Ester e Mardocheo ; i personaggi non ebrei possono invece passare da un campo all’altro, ovvero passare da una connotazione negativa ad una positiva nel momento in cui passano dalla parte degli israeliti. Pertanto, in quest’ultimo gruppo si possono collocare Artaserse e Mamucano. Nel sistema dei personaggi e nella struttura dell’intreccio, si può identificare in generale un sistema di sdoppiamento interno al testo : una coppia di servi, una di consiglieri, una coppia di amanti positiva, una negativa. C’è poi un rapporto speculare tra Amano e Mardocheo, alternati nella fortuna presso la corte, il trionfo dell’uno decreta infatti la disfatta dell’altro. Amano, di stirpe amalecita, odia da sempre il popolo ebraico e Mardocheo in particolare, che non riconosce il suo potere. L’anziano saggio è infatti colui che si rimette solamente alle leggi del suo Dio, mentre il consigliere del re, salito ai più grandi onori da un’origine oscura, disprezza il fato e gli dei, peccando di tracotanza. Il sistema di sdoppiamento si riflette anche nell’intreccio : c’è un doppio tradimento, ovvero la congiura contro gli ebrei (ordita da Amano) cui si sovrappone quella contro Ester (ordita da Zara), e una doppia falsa  















































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calunnia, cioè quella contro gli ebrei (accusati di sedizione) e quella contro Ester (accusata di tradimento). Esiste anche una sorta di personaggio collettivo : il coro, costituito da donzelle ebree al seguito di Ester che conclude con funzione commentativa ogni atto ; a volte si divide in due semicori che dialogano fra loro, ma non dialoga mai coi personaggi, rappresentando così, (diversamente da quanto accadeva nella tragedia greca) uno spazio di riflessione dell’autore. Maffei aveva escluso dalla sua Merope le sezioni corali, perché disturbavano l’unità d’azione del dramma, ma la Manzoni non sembra seguirlo su questa strada, mantenendole in chiusura di atto e strutturandole in lunghe strofe di endecasillabi e settenari. E in questa prassi sembra già avvicinarsi al melodramma ; anche nell’azione sacra del ’38, infatti, disattendendo le prescrizioni del trattato di Arcangelo Spagna 1 dedicato agli oratori, conserverà l’abitudine seicentesca di usare cori specifici, divisi in tre sezioni : donzelle giudee, guardie reali, giudei. Per quanto riguarda un’ipotesi di messa in scena, in generale, nel testo sono scarse le didascalie esplicite e si deducono elementi di scenografia verbale nei dialoghi fra i personaggi ; d’altra parte, la prassi del genere tragico non richiedeva solitamente un grande numero di didascalie come invece accadeva per il melodramma e l’unico “dramma scenico” dedicato al tema di Ester con un altissimo numero d’indicazioni sceniche è la Pellegrina di Carlo Torre, autore che aveva elaborato evidentemente la sua drammaturgia a ridosso della scena. Non così la Manzoni, che ha concepito il suo lavoro teatrale per un circuito prettamente accademico, senza intrattenere rapporti diretti (per quanto ne sappiamo) con chi avrebbe dovuto rappresentarlo. All’interno dell’Ester si ravvisano, tuttavia, ipotetiche indicazioni di costumi : si parla infatti delle vesti misere, da penitente, di Ester all’inizio del dramma, e di quelle ricche e ornate indossate per recarsi al cospetto d’Artaserse. Nel primo atto la regina si rivolge ad Eurione con queste parole : « Eurione, tosto / fa che s’appressin i più vaghi, e ricchi / ornamenti, ch’io vuò deporre / abiette spoglie » (scena V, p. 18). Anche per Mardocheo si rende necessario un cambio d’abito nel suo passaggio da pellegrino penitente a eroe salvatore del re. Quando Artaserse chiama a sé Amano per chiedergli quali onori tributerebbe ad un fido collaboratore del regno, il consigliere risponde :  



















Quel ch’è sì caro ai Numi che trascelgano a tanto, orni le membra con le più ricche aurofregiate vesti che te cuopron, Signore, nei dì solenni ; dei regali destrieri al più bizzarro, bardato alteramente il dorso prema, e cinga al crine il tuo diadema. (Atto ii, Scena vi, p. 57)  

Peccato che il re non stia parlando di lui, ma di Mardocheo, il suo più acerrimo nemico e rivale e amaro sarà il risveglio di Amano, quando capirà a chi sono destinati questi onori da lui stesso suggeriti. Tra gli elementi di scenografia verbale, nel quinto atto si fa cenno ad una statua all’interno del palazzo, dietro alla quale si nasconde Zara, vedendo arrivare Eurione :  

Qui l’attendo. Egli indugiare non può a tornarsi dal regal convito. Ma un servo d’Ester qua s’accosta, e viene 1   A. Spagna, Discorso intorno agli oratorii, in Oratori overo melodrammi sacri, Roma, Gio. Francesco Buogni, 1706, 2 tomi. Nel primo tomo compare anche La superbia abbattuta nel trionfo di Ester.

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Eurione ancora a questa volta. Io voglio celarmi dietro a quella statua, e tutto di là esplorar. (Scena ii, p. 89)

Con probabilità la Manzoni aveva in mente uno spostamento effettivo di Zara in scena, come si deduce dall’uso dei deittici. Si configura infatti una distanza fra la donna e la statua, che orna una delle logge del palazzo ; lei dice di attendere Amano « qui » e parla di un servo che s’accosta « qua ». Dichiara poi di volersi nascondere dietro a « quella statua » e di spiare, non veduta, da « là ». È evidente il configurarsi di due piani spaziali tra i quali avviene lo spostamento del personaggio nel corso della scena citata. Esistono inoltre degli oggetti esplicitamente menzionati nel corso del dramma, oggetti per lo più simbolici, perché rappresentano il potere ed il favore del re ; sono il diadema, il sigillo reale, lo scettro. La carta che i personaggi negativi si passano tra le mani è al contrario, il simbolo del tradimento ; su di essa, infatti, sono vergate le parole che dovrebbero incriminare Ester. C’è un esplicito riferimento a questo oggetto nelle parole di Zara a Mamucano : « Questa / carta i’ dettai, e tal la scrisse, il cui / carattere con quel d’Ester s’incontra » (Atto iii, Scena i, p. 46) ; e più avanti, nelle parole di Mamucano : « I modi ben fingesti : così appunto / parlerebbe in tal caso la regina. / Ma che far si volea di questa carta ? » (ivi, p. 47). Per questo forse la Manzoni aveva previsto un foglio che i personaggi effettivamente si passassero l’un l’altro. In generale, gli oggetti cui si allude sulla scena appartengono tutti al campo semantico della regalità e per questo passando di mano in mano disegnano una linea ideale del potere. Il diadema viene strappato ad Amano per essere consegnato a Mardocheo ; lo scettro e il sigillo reale arrivano nelle mani di Ester ; la carta fasulla su cui erano vergate parole di tradimento della regina nei confronti di Artaserse finisce per inchiodare colei che ha architettato l’inganno, Zara. Si potrebbe parlare addirittura di correlativi oggettivi del Potere che, spostandosi in scena, disegnano una trama di significati, ma soprattutto una linea netta che separa bene e male. Alla fine, concorrono tutti al bene e finiscono in mano ai personaggi positivi, decretandone il trionfo. La regalità, in questo caso, sembrerebbe coincidere con la giustizia ed il potere temporale, in mano alla provvidenza, assecondare la volontà divina. Indagare il significato originario di regalità nel contesto biblico non è oggetto di questo studio, ma sicuramente la Manzoni, come altri nel primo Settecento, cercava in Ester un esempio di possibile conciliazione tra potere temporale e potere spirituale. Oppure voleva esemplificare la vanità del potere stesso, sballottato da una mano all’altra, in un continuo altalenare della sorte e della storia, che lascia sommersi alcuni, salvati altri. Ed in effetti lo stesso Artaserse, che prima di emanare l’editto era stato un buon sovrano, gradito al popolo, si tramuta in tiranno per poi essere di nuovo colto da rimorsi, non apparendo un esempio di coerenza nella condotta regale. L’impressione complessiva è infatti che si lasci trascinare, soprattutto nella scelta dei suoi collaboratori, da una buona dose di emotività, o addirittura di opportunismo, ma non possiamo saperlo fino in fondo. Il personaggio, nell’insieme, risulta piuttosto schematico, un mero ingranaggio nella macchina dell’azione, confuso dai suoi consiglieri e pronto a cambiare le regole del gioco quando la situazione lo richiede. Forse è la condizione stessa di regalità ad essere instabile, portando infelicità e solitudine a chi la detiene ; e in questo senso ci illuminano le parole di Mamucano : « Come delusi siam qualor felici / appelliamo i gran re ? Stan nelle corti / le cure, ed i travagli, e non già soli / noi ministri, e vassalli in mezzo al core / ne sentiam le punture » (Atto i, Scena iii, p. 11).  





















































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capitolo iii iii. 3. Le goût de donner des tragédies : il salotto di Lesbia Cidonia  

La contessa inizia verso la metà degli anni Settanta a maturare l’idea di costituire una compagnia filodrammatica a Bergamo e di recitare lei stessa. La volontà è quella di introdurre nella città ai piedi delle Alpi, ancora un po’ “provinciale”, a suo dire, il piacere del teatro ed il gusto per i tragici francesi. Sicuramente è stata influenzata in questa direzione dall’ambiente veronese in cui simili iniziative hanno preso progressivamente piede nel corso del secolo ; non solo, anche la confinante Milano offre esperienze di salotti “teatrali” e le più distanti Brescia e Vicenza non sono prive di esperimenti teatrali di un certo rilievo. Inoltre, esperienze del genere non erano estranee alla sua famiglia di provenienza, visto che l’unico teatro presente a Bergamo nel secolo precedente, dal 1686 al 1695, fu proprio il Teatro Secco Suardo. Lesbia Cidonia non rimane insensibile al dibattito sul genere tragico che ha animato le sedute accademiche nel corso del secolo, coinvolgendo uomini di teatro e di libro ; in effetti, tra i suoi corrispondenti spicca il nome di Giuseppe Calepio, che le scrive, il 2 ottobre del 1775 :  





Madame Je m’acquitte de mon devoir : voici les plumes, que j’ai eu l’honneur de vous couper. Dureront-elles plus long-temps que les vôtres ? Je ne voudrais pas Madame, pour vous en couper des autres, et vous servir au moins en ce peu de chose. Bon Dieu ! Combien d’heureux qu’elles feront ! 1  







Il tono è galante e testimonia una certa intimità fra i due nobili esponenti della cultura bergamasca e sicuramente le riflessioni di Calepio in merito al paragone fra i tragici francesi e quelli italiani non possono essere rimaste sconosciute alla contessa. Al di là delle riflessioni teoriche sul teatro, Paolina accarezza sicuramente l’idea di recitare in prima persona all’interno di una filodrammatica di dilettanti ; nella seconda metà del Settecento la pratica del teatro coinvolge infatti aspiranti interpreti di nobile rango in molte città venete e lombarde. Come osserva Tadini, « a Verona Marianna Malaspina recitava l’Ipermestra di Gerolamo Pompei, Teresa Pellegrini il Mitridate e Camilla Strozzi la Zaira, a Brescia Bianca Uggeri recitava l’Olimpia e a Mantova Adelaide Arrivabene l’Ines di Castro ». 2 Inoltre, nel 1774, il nobile veronese Alessandro Carli 3 ha già realizzato nella sua città una piccola scuola d’arte drammatica, in cui spicca il nome di Silvia Curtoni Verza, distintasi nella Bérénice di Racine. L’esperienza teatrale di Verona non può certo sfuggire alla Secco Suardo, assidua frequentatrice della città veneta e idealmente in competizio 





1   « Madame, provvedo al mio dovere : ecco le penne che ho avuto l’onore di tagliare per voi. Dureranno più delle vostre ? Non lo vorrei, Madame, per tagliarvene altre e servirvi almeno in queste piccole cose. Dio Mio ! Quanti uomini saranno felici ! ». La lettera è citata nella traduzione di F. Tadini, Lesbia Cidonia, cit., p. 39. 2   Ivi, p. 40. 3   Nato a Verona il 21 febbraio 1740 da nobile famiglia frequentò gli studi liceali dai padri gesuiti e completò la sua formazione a Venezia. Tra il 1766 e il 1767 compì un lungo viaggio attraverso l’Europa toccando due tappe d’obbligo per un giovane colto dell’epoca, Parigi e Ferney, dove la residenza di Voltaire attirava gli intellettuali europei come la meta di un pellegrinaggio. In quel periodo il filosofo francese era dedito soprattutto alle ricerche teatrali e nella capitale i due attori Lekain e M.lle Clairon stavano conferendo grande fama alle sue opere più note. Nella ristretta cerchia dei frequentanti il castello di Ferney il Carli partecipò ad animate discussioni sull’arte tragica, sull’intreccio, sui mezzi espressivi del teatro e le tecniche di rcitazione. Tornato a Verona agli inizi del 1768 si dedicò dunque al teatro, mettendo in scena, l’anno seguente, il Telone ed Ermelinda, che affrontava per la prima volta in Italia un teme nazionale e medievale. Non riscosse però grande successo né quest’opera tragica, né la successiva, I Longobardi, dedicata a Cesare Beccaria e, dopo l’ulteriore fallimento dell’Ariarato, nel 1773, l’autore si ritirò dalle scene. Così, nell’inverno del 1774 diede vita ad una compagnia costituita da vari uomini di cultura, che ebbe come animatrice la contessa Silvia Curtoni Verza e fu per parecchi anni il tramite a Verona della conoscenza del teatro francese. Cfr. F. Piva, Voltaire e la cultura veronese nel Settecento : il conte A. C., « Aevum », xlii, 1968, pp. 316-331 ; P. Preto, voce Carli, Alessandro, in dibi, cit., vol. 20, pp. 148-149.  







   









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ne con la Verza. Quest’ultima infatti, protagonista di un animato salotto, diventerà ben presto una temibile rivale in amore di Paolina, contendendole l’ammirazione d’Ippolito Pindemonte. L’esperimento veronese è sicuramente il modello a cui si riferisce Lesbia Cidonia per assecondare la propria vocazione teatrale ; le manca il repertorio e la tecnica, ma può ricorrere allo stesso Carli, rispolverando così una vecchia amicizia. Riallaccia dunque i contatti già nel settembre del 1774 :  



Monsieur Je ne sais pas où commencer cette lettre, et pourtant c’est à vous Monsieur à qui elle doit être adressée. Peut-il m’ être encore permis après un siècle de silence de me rappeler à votre souvenir ? C’est depuis bien longtemps que je médite de vous écrire, mais la crainte de vous être importune m’a toujours retenue […]. 1  

La risposta del Carli tarda ad arrivare, ma ad anno nuovo, nel febbraio del 1775, la contessa, non dandosi per vinta, riprende l’argomento che le interessa, la filodrammatica :  

Mon cher Ami Vous êtes de mes amis ; l’amitié bannit loin d’elle tout égard et cérémonie ; trêve donc de complimens. J’ai besoin de vous, apprêtez-vous à m’obliger. Pour tuer le temps, pour me déliver le plus qu’il est possible d’un mortel ennuy qui sans-cesse m’obsède, je veux tâcher d’introduire dans mon oisif Pays le goût de donner des tragédie ; à cet objet je me suis mise à la tête d’une troupe de jeunes seigneurs qui avec moi se prêteront à étudier. Y réussirons-nous ? 2  







La Secco Suardo è appena all’inizio dell’opera ed è desiderosa d’imparare. La volontà è quella di scuotere la sua “pigra” città e di ammazzare il tempo, tutto è ancora incerto, ma il repertorio è già definito : sarà la tragedia il banco di prova per la neofita compagnia. La lettera prosegue su questi accorati toni :  



Voilà ce que j’ygnore encore puisque nous n’avons pas à la tête une personne qui soit capable de nous bien diriger, et nous instruire. Hélas : que n’êtes vous ici ! Écrivez-moi votre écolière malgré le long espace qui nous sépare. Ayez la complaisance encore de me donner d’autres instructions. 3  



Emerge dalle parole della contessa il desiderio di imitare la Verza, anche a costo di farsi istruire a distanza ; forse vorrebbe conoscere quella Lettera sulla recitazione che Carli pubblicherà solo anni dopo, insieme alle sue Tragedie, 4 ma che, con ogni probabilità, circolava già negli ambienti intellettuali ed accademici. Carli, che a Parigi aveva frequentato la cerchia di Voltaire e aveva già tentato più volte le scene tragiche, sembra rappresentare per la Secco Suardo quasi una figura proto-registica, tra le informazioni che la giovane poetessa vuole avere da lui ci sono infatti indicazioni di scenografia e costumi :  



1   « Monsieur, non so da dove cominciare questa lettera, eppure è proprio a voi che va diretta. Mi è ancora permesso, dopo un secolo di silenzio, di richiamarmi al vostro ricordo ? È da molto che penso di scrivervi, ma il timore di importunarvi mi ha sempre trattenuta […] ». Le lettere della contessa ad Alessandro Carli sono conservate presso la Biblioteca Civica di Verona ; quella qui riportata è pubblicata in Tadini, Lesbia Cidonia, cit., p. 42. 2   Ivi, p. 43 : « Carissimo, siete amico e l’amicizia bandisce ogni riguardo e cerimonia, basta dunque con i complimenti. Ho bisogno di voi, preparatevi a rendermi obbligata. Per ammazzare il tempo, per liberarmi il più possibile da una noia mortale che mi opprime senza sosta, voglio tentare di introdurre nel mio pigro paese il piacere di recitare tragedie. A questo scopo mi sono messa alla testa di un gruppo di giovani nobili che con me si impegneranno a studiare. Ce la faremo ? ». 3   Ibidem : « Ecco quello che ignoro ancora, perché non abbiamo una persona in grado di dirigerci e di istruirci. Ahimè, perché non siete qui ! Scrivetemi dunque, caro amico. Datemi qualche istruzione. Insegnatemi se è possibile studiare da sola, fatemi diventare la vostra allieva nonostante la distanza che ci separa. Compiacetevi di darmi altre istruzioni ». 4   A. Carli, Lettera sulla recitazione, in Idem, Tragedie, Verona, Mainardi, 1812, pp. 1-24.  











   









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capitolo iii

Je voudrois savoir si dans les habits, que je crois faits selon les nations, vous y mêlez de l’or ou de l’argent ou bien si vous habillez de simple stoffe. Je souhaiterois savoir encore quelles ont été les farces que vous avez débitées ici, si vous avez les traductions, et sincèrement si vous auriez difficulté de me les envoyer. Je parle des farces, où il n’y entre qu’une seule femme, et de celle-ci après les avoir copiées je vous en fairoi la restitution. 1

Ma è il ruolo di protagonista femminile che sta particolarmente a cuore all’ambiziosa contessa ; chiede testi in cui ci sia solo una prima donna, ripensando forse alla lodata interpretazione della Curtoni Verza ed esigendo la ribalta tutta per sé, in una compagnia in cui evidentemente si prefigura come unica fanciulla a calcare la scena. Di lì a poco, Carli risponde alla lettera, inviando anche un testo indicato genericamente come farsa da inserire in un possibile repertorio. Non abbiamo indizi per chiarire di quale opera si trattasse, visto che non possediamo (almeno allo stato attuale delle ricerche) le risposte del nobile veronese, né la biografia dedicata a Lesbia fornisce indicazioni in merito. Forse Carli acclude alla lettera una delle sue Tragedie e così, il 26 febbraio, la gentildonna scrive per ringraziare :  



[…] Je vous remercie de la gentille lettre que vous avez eut la bonté de m’écrire, et de la farce que vous m’avez envoyée, que je fairai copier, puisque vous me le permettez, et que je vous renverrai après. Vous me comblez d’éloges que je sais ne pas mériter. Vous me flattez, et je n’aime pas du tout la flatterie dans mes amis. 2

Con ogni probabilità il gentiluomo ha inserito nella missiva degli elogi alla bellezza e all’intelligenza della contessa, sperando, in qualche modo, di arginarne lo zelo ed eludere le indicazioni richieste su costumi e recitazione ; ma la Secco Suardo non vuole assolutamente rinunciare a tali istruzioni :  



Je vous ai demandé des instructions parce que j’en connais la nécessité ; comment réussir dans un art où je ne connois pas les principes ? Non mon ami, Je ne suis pas modeste, mais vraie. Vous ne voulez donc pas me donner des instructions, vous les croyez inutiles ; en effet dans une lettre que peut-on apprendre ? Je viendrai moi même à Verone, apprêtez-vous à me donner de grandes leçons. Que de jolies choses vous pourriez m’apprendre ! 3  









Evidentemente, non si tratta solo di un capriccio di una signora annoiata, ma di un progetto culturale a cui la bella accademica tiene molto e per questo è disposta a recarsi a Verona per apprendere in presenza i rudimenti della recitazione. Nel 1777 Paolina soggiorna effettivamente nella città veneta per un anno intero, facendosi contagiare dal suo vivace ambiente culturale e stringendo nuove amicizie e relazioni. Il tono delle lettere a Carli diviene più confidenziale, passando dal “voi” al “tu” e alludendo ad alcune liasons del gentiluomo veronese di cui la contessa sarebbe a conoscenza. Con tono di malinconico rimpianto ella scrive il 12 settembre probabilmente dello stesso 1777 (la lettera non riporta l’anno), dopo il rientro a Bergamo :  

1   F. Tadini, Lesbia Cidonia, cit., p. 43 : « Vorrei sapere se negli abiti, che credo fatti secondo i costumi delle nazioni, mescolate oro e argento oppure usate semplice stoffa. Desidererei sapere ancora quali farse avete recitato lì, se ne avete la traduzione e se in tutta sincerità avete difficoltà a spedirmele. Parlo di testi in cui c’è una sola donna ; dopo averli copiati ve li restituirò ». 2   Ivi, p. 44 : « Vi ringrazio della lettera gentile che avete avuto la bontà di scrivermi e della farsa che mi avete inviato. La farò copiare poiché me lo permettete e ve la restituirò dopo. Voi mi colmate di elogi che so di non meritare. Mi adulate e io non amo l’adulazione dagli amici ». 3   Ivi, p. 45 : « Vi ho chiesto istruzioni perché ne conosco la necessità. Come riuscirei in un’arte di cui non conosco nemmeno i principi ? No, caro amico, non sono modesta ma realista. Non volete darmi istruzioni ? Le credete inutili ? In effetti in una lettera cosa si può imparare ? Verrò io stessa a Verona, preparatevi a darmi grandi lezioni. Ah, quante cose carine potrete insegnarmi ! ».  

























   

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J’ai quitté cette ville charmante, mon cher ami, huit jours plutôt que je ne comptois, et sans pouvoir vous dire adieu. Mon coeur en a souffert, et j’ai maudit bien mille fois des critiques combinaisons, qui m’entraînoient de cet amaible séjour, que j’aime, et que je préfère à tous les climats de la terre. Je suis dans ma Patrie au sein de mes amis, des amis qu’une longue absence m’a rendu encore plus chers ; mais ceux-ci ne peuvent pas, un seul moment, me faire oublier ceux que j’ai laissés à Verone. 1  

Ma la permanenza nella « patrie » sarà breve, perché, nella primavera successiva, la bella Lesbia sarà nuovamente in partenza, questa volta per Parigi, dove i suoi orizzonti teatrali e culturali si allargheranno ulteriormente. Il primo frutto concreto del progetto teatrale di Lesbia Cidonia è rappresentato dalla rappresentazione nella città bergamasca d’Hypermenstre del tragediografo francese Antoine Marin Lemierre. Non è facile datare esattamente questo evento, tuttavia esiste una traduzione della tragedia stampata nel 1776 a Bergamo. Il fatto stupisce perché nella raccolta de Il Teatro Moderno ed applaudito, 2 pubblicata a Venezia nel 1799, compare, nel trentaduesimo tomo, proprio una traduzione “inedita” in lingua italiana dello stesso testo ; nessun cenno ad una stampa precedente, che invece è conservata presso la Bibliothèque Nationale de France a Parigi. Tale edizione presenta una nota introduttiva non firmata, ma esplicitamente indirizzata Alla Signora Contessa Paolina Secchi Suardi [sic] Grismondi in cui si lascia intuire che la traduzione e la stampa della tragedia siano da ricondurre proprio alla contessa :  







Qualunque fu la ragione, che muova a dar in luce questa tragedia dall’originale francese tradotta nel volgar nostro italiano, essa certamente si debbe a Voi, Signora contessa Paolina. Un teatro aperto alla vostra patria, fornito di quanto può farlo piacente a gli spettatori, e atto ad ogni maniera di spettacoli ; una Compagnia di giovani Cavalieri, che su vi salgono a dar dietro a voi mostra del lor valore nel recitare : ciò fu vostro pensiero da prima, né d’alcuna sollecitudine non mancasse di poi fino a dato compimento ad ogni cosa. 3  



Lo stampatore è in effetti bergamasco e l’operazione editoriale sembra essere stata fatta ad uso e consumo della filodrammatica locale così fortemente voluta da Lesbia Cidonia in quegli anni. Nella dedicatoria si parla di un « teatro » con tutti i crismi, addirittura « aperto » e dotato del necessario, sembrerebbe un teatro non circoscritto ad un salotto nobiliare o un teatrino improvvisato nel palazzo. La prefazione prosegue alludendo al vivace salotto della contessa e alle doti intellettuali di lei ; si fa cenno anche alle sue qualità espressive :  











L’indole vostra e lo studio gli atti vostri e i modi tutti reggendo, v’han fatto sempre con ammirazione grandissima riguardare. Or quanta e quale facciano voi altresì colassù comparire, e di che meravigliosa guisa sostenere i tanti e sì diversi caratteri, che alla molteplicità e varietà delle teatrali Opere messe in iscena sono richiesti ; già nol tace la sempre spessissima audienza, la Nobiltà e le più colte persone di Bergamo. 4  

1   Ivi, p. 47 : « Ho lasciato questa città incantevole, mio caro amico, otto giorni prima di quanto contavo e senza potervi dire addio. Il mio cuore ne ha sofferto e ho maledetto mille volte le coincidenze che mi facevano allontanare da questo piacevole luogo che amo e preferisco a tutti i climi della terra. Sono nella mia Patria in mezzo ai miei amici, agli amici che una lunga assenza mi ha resi ancor più cari. Ma questi non possono farmi dimenticare un solo momento quelli che ho lasciato a Verona ». 2   Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse che godono presentemente del più alto favore sui pubblici teatri, così italiani, come stranieri ; corredate di notizie storico-critiche e del Giornale dei Teatri di Venezia, Venezia, Stella, 1796-1801, tomi 1-61. 3   L’Ipermestra tragedia del Signor Lemierre tradotta dal francese, Bergamo, Francesco Locatelli, 1776. 4   Ibidem.  







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capitolo iii

E più avanti si parla delle circostanze che hanno condotto alla traduzione dell’opera di Le mierre, che, sapendola apprezzata anche fuori dalla Francia, per riconoscenza ha composto un sonetto indirizzato alla gentildonna bergamasca :  

Quanto è alla presente tragedia, che fu la prima ad essere recitata : un amico del Signor Lemierre, il quale aveva in Parigi potuto a lui senza veruna adulazione congratularsi delle somme lodi, che gli venivano dall’Ipermestra ; estimò, né in vano, che al Teatro del quale egli non è piccola parte, e non meno alla contratta amicizia servito avrebbe, procacciandone la traduzione ed esponendola sulla Scena. L’illustre autore uditone la novella, dettò quel verace Inno al merito vostro indiritto, il quale a tutti caro fu grandemente fuorché alla vostra modestia. Egli contento che la sua Ipermestra fosse da’ parigini con grande consenso e plauso ricevuta, e in piccol tempo appresso per tutta la Francia rappresentata, e ciò che non quasi spesso addiviene, ritornata fu’ principali teatri più volte, e in Parigi medesimo con la brama e col diletto di prima sentita ; non potè non recarsi a grandissimo onore il vederla ora, vostra mercé, fuor del natio paese nota e egualmente prezzata. 1  





Dato certo è la scelta di Lemierre come primo tragediografo ad inaugurare la scena della filodrammatica bergamasca ; ciò non stupisce perché il dramma è dominato da una sola figura femminile (se si eccettuano ancelle e confidenti), quella di Ipermestra. La tragedia è infatti ispirata al mito greco di Danao e delle sue cinquanta figlie costrette a sposare i cugini di Tebe per poi assassinare i loro consorti durante la prima notte di nozze seguendo l’ordine paterno. Unica a trasgredirlo, Ipermestra, che salva il marito Linceo dall’atroce vendetta di Danao. Il sonetto di cui parla la dedicatoria è riportato sul frontespizio della stampa, ma compare anche accluso ad una lettera che lo stesso Lemierre spedisce alla contessa anni più tardi, nel 1788 :  



A la dame* / qui a joué le rôle / d’Hypermenstre / à Bergame Illustre & divine inconnuë mes vers sont imbelli par vous je porte mon front dans la nuë vous m’aurez fait mille jaloux. Recevez mon hymne, elle est duë a des talents sì precieux loin de moì le Ciel vous fit naïtre soyez pour moi semblamble aux Dieux qu’on adore sans le connoitre. Lemierre, auteur de l’Hypermenstre à Paris. *Madame Pauline Grismondi née Comtesse Secco Suardo. 2

Ovviamente il componimento poetico risale ad anni prima, ma l’autore francese lo ripresenta, unito alla lettera, per farsi perdonare una latitanza epistolare a suo stesso dire un po’ eccessiva ; parla addirittura di un anno intero senza rispondere alla nobildonna e si giustifica dicendo di aver voluto approntare alcune modifiche ad una tragedia inedita da spedirle. Possiamo però collocare (a questo punto con discreta certezza) la rappresentazione d’Ipermestra a Bergamo tra il 1776 e il 1778. Nel sonetto Lemierre parla di una « illustre e divina sconosciuta », ma sappiamo dall’epistolario di Bettinelli che incontrò la contessa durante il tour parigino del ’78. La dedicatoria della stampa del ’76 lascia delle ambiguità sul fatto che il dramma sia stato già messo in scena o meno. Anzi, nella parte iniziale si allude all’ipotesi  





1

  Ibidem.   La lettera cui è accluso il sonetto è pubblicata in Lettere di illustri letterati scritte alla celebre poetessa Paolina Grismondi, cit., p. 29 ed è datata 25 ottobre 1788. 2

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che la traduzione sia stata approntata e stampata proprio per essere recitata dalla nobile compagnia. Probabile dunque che l’edizione del testo preceda la sua messa in scena, collocabile quindi in anni successivi, ma sicuramente non dopo la primavera del ’78. Ricordiamo inoltre che la contessa trascorse l’intero 1777 a Verona per apprendere i rudimenti della recitazione ; si può ipotizzare pertanto che la rappresentazione della tragedia sia collocabile al suo rientro in patria, ma prima della nuova partenza, dunque tra l’autunno del 1777 e la stessa primavera del 1778. Sicuramente i rapporti con l’autore francese continueranno ancora per almeno un decennio, visto che verrà più volte ricordato in alcune lettere dei primi anni Ottanta e poi ancora nel 1788. Nel 1779, però, dopo aver incontrato Lemierre a Parigi, Paolina lamenta un’improvvisa interruzione dei contatti e chiede notizie a Jerôme De Lalande, che le risponde, il 12 maggio :  



Le P. Boscovich et Madame de Boccage qui j’ai le plaisir de parler quelquefois de vous, Madame, sont enchantés de votre souvenir, mais ils n’ont point reçu les lettres dont vous me parlez. A l’égard de M. La Mierre je le vois rarement, ce qui fait que je ne peux guère vous donner de ses nouvelles ; je sais seulment que ses fastes vont paraître, mais il paraîtra en même temps un poëme de Roucher, les 12 mois, dont l’object est presque le même, et qui peut-être fera tort à celui de notre ami La Mierre. La tragédie de la veuve de Malabar n’a point encore été donnée, on prépare l’Agatocle de Voltaire, c’est sa dernière tragédie, et elle n’est pas inférieure à plusieurs des précédentes. 1  

Molte sono le informazioni contenute in queste righe ; sappiamo infatti che La veuve de Malabar di Lemierre non è ancora andata in scena e che la precederà l’ultimo lavoro di Voltaire. In effetti La veuve era stata rappresentata per la prima volta a Parigi dai Commedianti Francesi il 30 luglio del 1770, ma ritorna in teatro il 29 aprile del 1780 per essere poi stampata nello stesso anno. E dunque, un anno più tardi rispetto alla lettera di De Lalande. Non sappiamo se la contessa abbia pensato di rappresentare questo testo, la cui traduzione italiana compare anni dopo, nel 1798, all’interno del Teatro moderno applaudito. Certamente l’argomento che vede una sola eroina campeggiare sulla scena avrebbe potuto rispecchiare le sue ambizioni, ma l’ambientazione esotica con tanto di pira sacrificale su cui viene bruciata la vedova poteva creare non pochi problemi ad una rappresentazione diciamo “casalinga”, seppure delle migliori e delle più curate. Paolina avrebbe potuto leggerla in francese e con probabilità la conosceva, dato che il testo, pubblicato per la prima volta nel 1780 e poi una seconda nel 1786, era molto noto, a tal punto da essere oggetto di parodia da parte della Comédie Italienne già nel 1780. Tuttavia, recitarla in una lingua straniera avrebbe messo in crisi attori navigati, figuriamoci una compagnia di dilettanti di provincia e per questo l’ipotesi che sia stata rappresentata a Bergamo sembrerebbe da escludere. Ci sono invece testimonianze (esigue purtoppo) di altre rappresentazioni, oltre a quella di Ipermestra ; almeno due sarebbero infatti i testi francesi allestiti dalla filodrammatica bergamasca in un arco di tempo collocabile all’incirca tra il 1778 e il 1783 : la Gabriella di Vergy di De Belloy e il Cid di Corneille. La scelta di queste due tragedie non stupisce, perché entrambe contemplano parti femminili di rilievo e la contessa interpretava ovviamente il ruolo della prima donna. La sua fama d’attrice arrivò sino a Milano e, stando alle testimonianze di  





1   Ivi, pp. 21-22 ; la traduzione è mia come da qui in poi per tutte le lettere citate direttamente da manoscritto : « P. Boscovich e Madame de Boccage ai quali ho avuto il piacere di parlare qualche volta di voi, Madame, sono incantati dal vostro ricordo, ma non hanno potuto ricevere le lettere di cui mi parlate. Riguardo a Lemierre, lo vedo raramente, cosa che m’impedisce quasi sempre di dargli vostre notizie ; so solamente che stanno per comparire i suoi fasti, ma, nello stesso tempo, comparirà anche un poema di Roucher, I dodici mesi, il cui argomento è pressoché lo stesso e potrebbe fare un torto a quello del nostro amico Lemierre. La tragedia de La vedova di Malabar non è ancora potuta andare in scena, ma si prepara l’Agatocle di Voltaire, la sua ultima prova tragica, e non è inferiore alle precedenti ».  









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Giuseppe Beltramelli, 1 accorsero a vederla molte nobili dame, tra cui la Serbelloni e la Castiglioni Litta, 2 note appassionate e promotrici di teatro. Non abbiamo rinvenuto nell’epistolario di Lesbia Cidonia riferimenti espliciti a queste rappresentazioni ; rimangono solo cenni entusiasti alle doti interpretative di lei contenuti in alcuni componimenti d’elogio. Giovan Lorenzo Brini dedica infatti un sonetto « Alla Egregia Dama Donna Paolina Grismondi nata contessa Secco Suardo che in nobile compagnia recita varie Tragedie con universale ammirazione ». 3 Beltramelli le dedica un sonetto che recita : « Mira come a sua voglia agita i cori / costei, e come sugli affetti impera / forzando il muto spettatore al pianto ». 4 A questi versi farà eco Ippolito Pindemonte in un elogio in morte della contessa stampato nel 1801 :  













Ove la coturnata in pien teatro tragedia innalza il doloroso accento, volò l’impaziente ospite dotta, e mirò quelle Fedre e quelle Alzire dagli occhi trar del popolo commosso non falso pianto con lamenti falsi. Ma da te non fu allor, sublime amica, quell’arte appresa : era in te pria che il Brembo cangiassi con la superba Senna, e Italia già visto t’avea le scene, di barbari istrioni ahi ! Fatte preda, le scene ornar visto t’avea più volte d’inusitata melpomenia luce. 5 (vv. 87-99)  



Altri indizi dell’attività teatrale della Secco Suardo si trovano nelle lettere che le invia proprio Ippolito Pindemonte, nei primi anni Ottanta. Il 22 giugno del 1782 infatti le scrive : « E voi che fate voi ? Qualche cosa di meglio, qualunque sia, senza verun dubbio. So che fra poco ne farete una ottima, avendo inteso dalla Contessa Uggeri, dimorante ora in Venezia, che tra poco calzerete il coturno ». 6 Il 16 settembre dell’anno successivo, Pindemonte le chiede notizie sull’attività teatrale, che sembra aver avuto una battuta d’arresto o almeno non avere suscitato particolari impressioni negli ambienti intellettuali : « Voi vi divertirete al teatro che sento essere interessante : ma non sento ch’abbiano effetto le meditate recite, ciò che interesserebbe anche più. Scrivetemi su ciò qualche cosa ». 7 Quasi un mese più tardi, il 9  















1   Cfr. M. Dillon Wanke, Giuseppe Beltramelli. Una controfigura della cultura bergamasca, in La cultura fra Sei e Settecento, Modena, Mucchi, 1994, pp. 147-170. 2   Sull’omonima contessa bergamasca così scriverà infatti la Paolina Castiglioni Litta all’abate Fontana, il 9 gennaio 1793 : « Sappia solo la valorosa donna che quelle lodi le ho sempre tributate d’innanzi, gliele ripeto in ogni pienezza, per i nuovi bellissimi versi ch’ella m’ha fatto arrivare, e che bisogna essere ben tardo e insensibile per non riconoscervi tutta la delicatezza, e nobiltà, di un pennello toccante e insieme dignitoso […] che se la fortunata combinazione del nome avesse versato sopra di me quel merito che non ho mai saputo acquistarmi, allora sì che questo sarebbe il sommo miracolo, e il capo d’opera della magia ! ». La lettera è conservata, manoscritta, in bbg, 3   Conservato in ame, fondo manoscritti. Alfa. 3. 42, 829, n. 21. 4   G. Beltramelli, Elogio di paolina Secco Suardo Grismondi, ame, ms. 5   Questi versi sono citati in M. Dillon Wanke, Giuseppe Betramelli, cit., p. 169, n. 57. In tale sede e in altri luoghi del saggio la studiosa attribuisce però l’elogio ad un’ipotetica esibizione della contessa sulla scena parigina. A noi sembra molto più probabile invece che si riferiscano a rappresentazioni avvenute in Italia, visto che Pindemonte parla delle visite di Lesbia Cidonia ai teatri di Parigi, ma ribadisce, nei versi seguenti, che l’apprendimento dell’arte della recitazione da parte della nobildonna è fatto precedente alla sua visita nella capitale francese. Anzi, il componimento citato sembra ulterioriormente confermare la possibile rappresentazione di Ipermestra prima del viaggio parigino, poiché, come si legge nei versi del poeta, le scene italiane avevano già acclamato Paolina prima che lei 6   Lettere di illustri letterati, cit., p. 73. assistesse alle rappresentazioni d’Oltralpe. 7   Ivi, p. 77.  



   

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ottobre, le scrive nuovamente ; ha saputo che la salute della contessa è precaria, impedendole di calcare le scene : « Duolmi che non siate contenta di vostra salute, e che non abbiate potuto andar sulle scene. Certo ch’io non avrei resistito al desiderio di sentirvi recitare, se ho resistito a quello d’udir con voi una bell’opera ». 1 Nella lettera del 9 ottobre Pindemonte parla anche di un’affiliazione di Paolina ad una nuova Accademia, ma non ci dà indicazioni di quale sia. Sicuramente la poetessa fu accolta nell’Accademia de’ Dissonanti, come testimonia Gerolamo Tiraboschi in una missiva del 21 novembre 1792. Sembra che dalla metà degli anni Ottanta le precarie condizioni di salute della Secco Suardo le impedissero di calcare troppo spesso le scene. Per contro, l’attività poetica non diminuisce, anzi s’intensifica, come dimostrano le testimonianze di stima di alcuni intellettuali ed accademici. In particolare, Tiraboschi le scrive :  









Scrivendo ad una valorosa poetessa, non debbo tacerle, che in questi giorni abbiam qui avuta una valentissima improvvisatrice, la signora Teresa Bandettini lucchese, la quale solo da pochi mesi in qua ha cominciato a dar saggi di questo suo raro talento. Ella era già stata udita a Mantova e in Parma, e gli elogii, con cui ne aveano scritto il Sig. Ab. Bettinelli, e il Sig. Angelo Mazza, (quali nomi in poesia !) ne avean destata molta ammirazione. Posso nondimeno dirle sinceramente, ch’essa l’ha superata ; e che la sua felicità, e la sua eleganza di stile, i suoi voli di fantasia, e la sua erudizione nella mitologia principalmente, son cose singolari. 2  



L’accostamento con la Bandettini e con le sue doti d’improvvisatrice fa riflettere. L’attività d’improvvisare versi inizia a diffondersi nel corso del secolo, ma risulta ancora appannaggio di artiste che provengono dal ceto medio. Abbiamo già letto le esortazioni rivolte da Fortunata a Paolina, perché anche lei si dedicasse alla pratica di versi all’improvvisa. La Fantastici vorrebbe infatti che la pratica si diffondesse anche fra le nobildonne. Forse, verso la fine del secolo, la Secco Suardo iniziò a convogliare le sue qualità istrioniche verso un’attività a lei da sempre congeniale, la poesia ; probabile dunque che usasse le sue doti attoriche per improvvisare versi in pubblico e per questo la pratica del teatro si sia spenta a poco a poco. Non si spense però la fama del salotto culturale che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, divenne imprescindibile punto di riferimento per molti intellettuali aperti alla cultura francese e « punto di raccordo col più vasto mondo letterario italiano ». 3 Anzi, dopo l’esperienza teatrale, il salon subì un’evoluzione sostanziale da ritrovo alla moda della nobiltà cittadina a luogo di un sempre più deciso impegno nel campo della cultura. Attraverso i suoi numerosi corrispondenti, la contessa portava, infatti, in casa del conte Beltramelli (dove si svolgeva il più delle volte la conversazione) o nella villeggiatura di Redona « le primizie letterarie, le mode correnti, i fatti e i personaggi che riempivano la cronaca ». 4 Su questo influirono sicuramente i soggiorni a Verona e a Parigi, ma anche l’apprendistato epistolare presso un maestro come Saverio Bettinelli. 5 L’abate gesuita s’interessò con una certa costanza alla Secco Suardo dal 1782 e la loro corrispondenza durò per ben diciannove anni, con cadenza quasi giornaliera. A muovere la nobildonna verso tale relazione era stata, principalmente, la curiosità, unita ad un pizzico di vanità per aver cooptato anche questo illustre corrispondente fra i suoi “trofei” epistolari ; ma non mancava in lei il desiderio di approfondire la propria esperienza culturale attraverso il confronto con un personaggio famoso del mondo letterario coevo, oltre che esperto conoscitore di teatro. Da parte sua, il brillante e bizzoso abate cercava una discepola da istruire al buon gusto e alla razionalità illuministica. Meditava infatti proprio in quegli anni un libello per educare il gusto delle nobili fanciulle alle lettere, dissuadendole dal dedicarsi con entusiasmo  











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2   Ivi, pp. 77-78.   Ivi, pp. 119-120. 4   F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., p. 152.   Ivi, p. 147. 5   Cfr. Saverio Bettinelli. Un gesuita alla scuola del mondo, a cura di I. Crotti e R. Ricorda, Roma, Bulzoni, 1998.

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alle numerose raccolte di versi amorosi che, imitando la moda francese, proliferavano senza particolari meriti artistici. E la contessa, in effetti, non fu l’unica donna illustre con la quale Bettinelli intrattenesse una relazione epistolare ; si ricordano infatti, tra le sue corrispondenti, Silvia Curtoni Verza, Teresa Bandettini Landucci e Giustina Renier Michiel. 1 In una lettera del 1783, Pindemonte, scrivendo a Lesbia, fa esplicito riferimento alla sensibilità verso l’educazione femminile dimostrata dall’abate gesuita in quegli anni : « molto dei versi vostri e di voi ho parlato a Mantova con Bettinelli […]. Vi avrà forse scritto che sta ora lavorando un libretto per le donne, e forse avrete già veduto alcuno de’ suoi dialoghi, che andranno in quel libretto inseriti ». 2 L’idea confluirà probabilmente in un corpus di scritti pubblicati tra il 1785 ed il 1796 3 e tutti scrupolosamente citati nelle Lettere su i pregj delle donne. 4 Fra queste operette, si segnalano in particolare le Lettere di Diodoro Delfico a Lesbia Cidonia sugli epigrammi, pubblicate a Bergamo nel 1788, 5 in cui l’abate svolge per l’allieva “ideale” un lungo discorso relativo al genere poetico in questione, dalle origini francesi alle mediocri imitazioni italiane, spesso proprio ad uso delle dame. Nonostante il suo atteggiamento costantemente polemico nei confronti delle tendenze esterofile, Bettinelli, grande ammiratore degli epigrammi di Voltaire, si era recato personalmente a fare visita al filosofo nella residenza di Ginevra. Dall’incontro aveva ricavato una forte impressione e lo “scandaloso” pellegrinaggio verso il guru dell’illuminismo gli era costato anche una severa punizione da parte dell’Ordine. Quest’episodio testimonia l’atteggiamento ambivalente dell’abate, costantemente in bilico, nel corso della sua carriera, tra esigenza di rinnovamento e posizioni conservatrici. Bettinelli aveva infatti partecipato con entusiasmo alle attività dell’Accademia dei Pugni milanesi, abbandonando poi l’impegno rinnovatore dell’Accademia per arroccarsi su posizioni più conservatrici in poesia, come in politica dopo la rivoluzione francese e l’invasione napoleonica. L’abate vedeva forse nell’educazione letteraria di Paolina la possibilità concreta di affinare il gusto poetico di un’intera generazione di fanciulle dotate di rango ed intelletto ; l’intera riflessione teorica di Bettinelli su questi temi era infatti rivolta al ceto nobiliare. L’idea nasceva con probabilità dalla convinzione gesuitica che la morale trovasse fondamento nell’organizzazione della conoscenza. Di qui l’importanza degli studi e delle scelta di letture adeguate soprattutto per la donna, elemento portante del sistema famigliare e dunque dell’intera società. In tutti i suoi scritti dedicati alle dame è pertanto evidente l’intenzione di porre le basi di una morale che, senza attentare in alcun modo all’istituzione della famiglia, sia comunque attenta alle nuove esigenze della larga componente femminile che va a costituire il pubblico di lettori nel xviii secolo. La corrispondenza con la contessa bergamasca, avviata quando l’abate ha compiuto settant’anni, già contiene indizi di una fase di pensiero in cui sono in parte sopiti per lui gli interessi storici e politici, ma si mantengono ancora vivi quelli letterari. Da parte sua, Lesbia aveva già allargato i suoi orizzonti, visitando il capoluogo francese ed incontrando molte personalità di rilievo, fra cui appunto Lemierre, Buffon, lo stesso Voltaire e persino Goldoni. Di ritorno dal tour la nobildonna si era dedicata al teatro, suscitando ammirazione e stabilendo relazioni e recitare aveva sicuramente giovato alla sua pratica della conversazione. Del re 









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  Cfr. L. Ricaldone, Bettinelli e le donne, in Saverio Bettinelli, cit., pp. 95-107.   Lettere di illustri letterati, cit., p. 74. 3   S. Bettinelli, Carteggio a penna corrente tra due amiche, Guastalla, 1785 ; Idem, Lettere su i Fiori e i Cagnolini, Cremona, 1786 ; Idem, Lettere su le bell’Arti, Venezia, 1793 ; Idem, Del dominio delle Donne e della Virtù, Parma, Stamperia 4   Idem, Lettere su i pregj delle donne, Venezia, Cesare, 1800. Reale [1787]. 5   Cfr. M. Dillon Wanke, “Bagatellando” : Le Lettere di Diodoro Delfico a Lesbia Cidonia sopra gli epigrammi, in Saverio Bettinelli, cit., pp. 165-195. 2









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sto, la passione teatrale aveva fin dagli esordi connotato anche « in una sorta di inarrestabile crescendo, la cultura delle élites nobiliari e alto borghesi della Francia dell’Antico Regime ». 1 Nella vicina Milano le nuove idee illuministiche espresse attraverso « Il Caffè » iniziavano ad influire in campo economico, giuridico e sociale, ma a Bergamo trovavano ancora « una tenace e talora fanatica opposizione in nome all’attaccamento alla fede dei padri ». 2 Il dibattito culturale doveva apparire ben misera cosa rispetto ai salotti di Parigi e alle accademie veronesi e la contessa sentiva il bisogno di trovare nuovi interlocutori che alimentassero le sue riflessioni letterarie e non solo. Nel 1782 la Secco Suardo, tramite le sue conoscenze influenti ed altolocate, sostenne la doppia candidatura di un altro gesuita, Lorenzo Mascheroni, alle cattedre di filosofia e di fisica del Collegio Mariano di Bergamo. L’abate aveva introdotto il metodo galileiano ed applicato la matematica alla fisica, nella prospettiva di ampliare gli studi astronomici. La contessa, pur non abbracciando in toto le idee illuministiche e mantenendo posizioni moderatamente conservatrici in ambito religioso, non tollerava tuttavia l’atteggiamento di chiusura manifestato dalle gerarchie ecclesiastiche locali, adoperandosi quindi attivamente per una maggiore apertura nell’insegnamento delle scienze. La cultura francese rimaneva comunque, sul piano filosofico e letterario, un punto indiscusso di riferimento per la poetessa e la corrispondenza fra Lesbia e Bettinelli (Diodoro Delfico) in Arcadia, prende avvio subito con uno scambio di pareri sulle letture “adatte” al cuore e alla mente di una signora :  













Monsieur […] Sentirei allora darsi qualche loda alla sensibilità, alla tenerezza del cuore che certamente io ho, e della quale mi glorio, e che pur son costretta a vedere da tanti negletta, e quasi rimproverarla. Troverei pur allora chi non si riderebbe di me se fra i miei liberi più letti vedesse il Richardson, l’Éloïse e le opere di tante celebri donne di Francia che sì dolcemente parlano con l’anima. 3

In realtà la nobildonna manifesta un particolare apprezzamento per alcuni romanzi-chiave dell’illuminismo europeo : la Pamela di Richardson e La nouvelle Héloïse di Rousseau ; letture all’epoca giudicate “scandalose”. Non possiamo stabilire in questa sede quanto il suo nobile corrispondente le ritenesse adatte alla giovane poetessa. Nei Dialoghi d’Amore 4 del 1796 condannerà proprio i romanzi e l’uso delle donne di sottrarre tempo alla famiglia per dedicarsi alla lettura, ma più di dieci anni prima, ai tempi in cui ricevette la lettera di Paolina è improbabile che avesse già formulato tale condanna. Le due opere citate nella missiva hanno comunque come protagonista una donna, più precisamente una donna “in formazione”, che svolge un percorso educativo e che si ritrova, alla fine di tale percorso, più saggia e più istruita. Non sappiamo quanto Paolina sapesse che tali letture erano ritenute da molti sconvenienti, o quanto voglia effettivamente dichiarare tale consapevolezza ; le ricorda infatti come opere che suscitano « tenerezze del cuore », parlando all’anima. Fa leva dunque sull’aspetto emotivo della sensibilità femminile, intuendo, con probabilità, che la lettura di quei romanzi la renderà più gradita a Bettinelli proprio perché la identificano come desiderosa di “formarsi” e di apprendere. E così continua nella lettera del 1783 :  











E pur l’amor dei libri appresso a molti è difetto, e credesi ch’essi non altro facciano che guastar lo stile, ed il cuore. La sua lettera è piena di quel sentimento che splende in tutte le sue opere le quali sono 1   B. Craveri, La conversazione come teatro, in Le passioni in scena. Corpi eloquenti e segni dell’anima nel teatro del xvii 2   F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., p. 140. e xviii secolo, Roma, Bulzoni, 2009, p. 219. 3   ame, lettera datata 16 aprile 1783. 4   I Dialoghi d’Amore sono xxiv e si trovano nei tomi v e vi delle Opere edite ed inedite in prosa e in versi dell’Abate Saverio Bettinelli, ii edizione riveduta, ampliata e corretta dall’autore, Venezia, Cesare, 1799-1801, tt. xxiv. Cfr. E. Sala Di Felice, I Dialoghi d’Amore : conversazioni di fine secolo, in Saverio Bettinelli, cit., pp. 165-191.  

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sempre dirette ad incoraggiare altrui allo studio delle lettere, ad additare la vera strada, a soffiarne ogni pregiudizio […].

Leggendo queste parole, sembra improbabile che l’abate avesse già formulato i suoi severi giudizi sulle letture femminili ; è evidente infatti che Lesbia Cidonia cerca di compiacerlo e di rendersi interessante ai suoi occhi. Del resto, la virata “reazionaria” di Bettinelli ed il suo ripiegamento su un classicismo d’ascendenza arcadica maturarono dopo i dolorosi fatti della rivoluzione francese. Ma agli inizi degli anni Ottanta Paolina sembrava ancora essere certa che le letture d’oltralpe si accordassero ai gusti dell’abate. L’interesse del Bettinelli, fino all’82 molto discontinuo e distratto, si focalizzò su di lei leggendo proprio una sua traduzione dal francese ; si trattava di un’ode di Le Brun e l’aspirante maestro aveva forse scorto nella nobildonna, per la prima volta, una promettente “discepola”. Dall’epistolario si evince come, negli anni a seguire, la Secco Suardo percepisse sempre più angusta, almeno culturalmente, la sua patrie, manifestandosi particolarmente desiderosa di estendere i suoi contatti con i più vivaci centri di Pavia, Milano, Verona e Venezia. Bettinelli rappresentava sicuramente un legame di prestigio in questo senso, in contatto con il mondo letterario e filosofico del nord Italia ed esperto conoscitore di teatro. Così si lamenta Paolina : « Voi siete nel mezzo dei divertimenti, a concorso di forestieri, agli spettacoli superbi. Ed io sono qui nella mia solitudine e non avete voi pietà di me, della vostra affettuosa figlia ». 1 E già in passato, durante un breve viaggio a Piacenza, si era lagnata del fatto che l’unico svago fosse stato il teatro la sera, ma allestito con « meschinissimi divertimenti ». 2 La conversazione epistolare fra l’abate e la nobildonna ben rispecchia dunque il tenore della conversazione che avveniva nel salotto della contessa. Il carteggio verte infatti su argomenti letterari e teatrali, avventurandosi raramente verso questioni storico-politiche. Paolina è avida di notizie sugli spettacoli più belli e le letture più alla moda, soprattutto in Francia ; Bettinelli è ansioso di fornirle indicazioni che le permettano di affinare il gusto, senza cadere vittima della letteratura “rosa”, di vacuo intrattenimento. Gli unici eventi mondani di rilievo a Bergamo, nel 1784, sembrano essere il passaggio del re di Svezia in primavera (che però riparte velocemente rendendo vani gli sforzi delle autorità locali per accoglierlo) e la fiera di Sant’Alessandro, nel periodo estivo. Così la contessa scrive, il 26 marzo del 1784 :  

















Quantunque il Re di Svezia abbia passata la notte in Bergamo pure s’è lasciato veder quasi meno dell’Imperatore ch’altro qui non fece che cambiar cavalli. Il nostro Podestà aveva fatto illuminare riccamente ed ornare il teatro, con abbondanza, a dir il vero, di rinfreschi, e così pure aveva apparecchiata una superba cena, per quanto dicesi, ma tutto invano, che il Re arrivato andò a letto. Partì il giorno seguente. Verso il mezzo giorno, ed io che volli pur incontrarlo l’ho veduto, ed ho avuto il piacere di ricuoterne un cortesissimo saluto. Eccovi tutto descritto il passaggio di questo monarca. 3

La delusione della cittadinanza e delle autorità per il rapido e sbrigativo passaggio del re è grande, accogliere una personalità di tale rilievo non è infatti evento da poco per la cittadina ai piedi delle Alpi. Anche Paolina si mostra palesemente delusa : « Già avete udito dall’altra mia come poco ho veduto il Re di Svezia, ed era andata vana quella lunga mia toeletta, siccome andò vano l’apparecchio di un armonioso cembalo, e l’invito di varie colte persone per la venuta dell’abate Bertola ». 4 La nobildonna invidia il vivace contesto culturale e mondano in cui vive l’abate, anche la fiera di Mantova, evento che nel corso del Settecento assume sempre maggiore importanza, è ben altra cosa da quella di Bergamo : « È quasi una  







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  ame, lettera datata 8 giugno 1784.   ame, lettera datata 6 novembre 1783. 3   ame, lettera datata 26 marzo 1784. 4   ame, lettera datata 9 giugno 1784. 2



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crudeltà il dipingermi in sì vivace modo i divertimenti della vostra patria, ed il numeroso concorso di belle dame che hanno veduta la vostra Fiera brillante, mentre io non ho potuto esser di tanti piaceri a parte ». 1 E, concludendo, aggiunge anche un’amara considerazione sulla condizione femminile : « S’io fossi un uomo, sarei volato subito a visitarvi in sì lieti tempi, ma per esser donna conviemmi sopportare pazientemente il peso de’ nostri ceppi, quantunque per dire il vero io ne abbia meno di molte altre ». A partire dai primi anni del Settecento, le fiere, soprattutto nell’area padana, crebbero in effetti moltissimo per cercare di rimediare ai danni economici della guerra di successione spagnola incentivando lo scambio di merci. Al fine di attirare ulteriori visitatori, anche dalle aree limitrofe, i contesti fieristici, che duravano quasi quindici giorni, iniziarono ad offrire rappresentazioni teatrali ed opere in musica. 2 L’estendersi del fenomeno del teatro forain proveniva del resto da Parigi, dove, dopo l’ordinanza del 1697 che poneva fine all’attività del Théâtre Italien, i teatrini delle due fiere di Saint-Germain e Saint-Laurent intrapresero un significativo processo di emancipazione. 3 Tornando all’Italia, la contessa Grismondi partecipava annualmente alla fiera di Sant’Alessandro, durante la quale non mancavano rappresentazioni di teatro musicale ; per questo l’evento era atteso con ansia da parte della dama : « intanto vo incontro ai giorni più lieti della mia patria, cioè alla nostra fiera per la quale già si è apparecchiata un’opera assai bella, per quanto sperasi, onde dovremmo avere un buon concorso di forestieri, e del tumulto non indifferente »4. In particolare, l’anno 1784 sembra distinguersi per l’alta qualità delle manifestazioni musicali legate al contesto fieristico bergamasco ; la cantante scritturata è addirittura contesa da Milano, piazza ben più prestigiosa, e la Secco Suardo, preoccupata di perderla nelle trattative, scrive a Bettinelli :  



















Volete nuove del Teatro. Oggi è arrivata persona di Milano a chiedere al nostro impresario perché a Milano si ceda la Marichelli che per la nostra opera è accordata. Sarebbe per noi una sventura, mentre non sarà tanto facile ritrovar un’altra donna che quella agguagli nel canto. Spero, ma non senza timore, che i Milanesi non la vincano. Ad ogni modo l’opera sarà ancor non indegna d’esser vista da voi, se mai vi sentiste un tal desiderio. 5

Ma l’evento non corrisponde alle aspettative : alcune contingenze guastano infatti la festa, in primis la pioggia che scoraggia molti visitatori. Anche l’esecuzione dell’opera desta perplessità nella nobildonna, perché i cantanti sono, a suo dire, sicuramente talentuosi, ma i balli, che nel diciottesimo secolo trovano sovente collocazione tra un atto e l’altro, sebbene eseguiti « da brave persone », sono risultati « mal ideati e confusi ». 6 Molti sono dunque gli accidenti che possono rovinare uno degli eventi più attesi dell’anno : il maltempo, la grandine, la concomitanza di altre fiere che offrono spettacoli più allettanti. È vero che le manifestazioni fieristiche erano in genere distribuite dalla primavera all’autunno cercando di evitare sovrapposizioni che sottraessero visitatori, ma è vero anche che talvolta la stretta contiguità temporale con altri eventi di maggiore richiamo poteva far saltare ad alcuni forestieri l’appuntamento bergamasco. In effetti, l’offerta della città orobica non risultava essere delle migliori, stando alle parole della contessa, che spesso lamenta con Bettinelli la mancanza di nomi di grido e le precarie condizioni del teatro stesso, che portano molti visitatori a preferirle Crema. E a proposito del teatro cittadino, nel 1786, una  











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  ame, lettera datata 23 giugno 1784.   Cfr. M. Calore, Tempo di fiere, tempo di teatri, in Il tempo a teatro. Attori, drammaturgie, eventi dal Settecento all’età della regia, a cura di Paola D. Giovannelli, Bologna, clueb, 2007, pp. 1-19. 3   R. Guardenti, Le fiere del teatro. Percorsi del teatro forain del primo Settecento, Roma, Bulzoni, 1995. 4   ame, lettera datata 31 Luglio 1784. 5 6   ame, lettera datata 4 agosto 1784.   ame, lettera non datata. 2

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capitolo iii

contrariata Lesbia Cidonia scrive : « Noi all’incontro abbiamo avuto un’opera appena mediocre in un teatro che non fa che sorgere dal terreno, e solamente coperto per quest’anno da tele, sinché non era divertimento molto sano ». 1 E l’anno successivo denuncia ancora « una turbolenza insorta ad interrompere la costruzione del nostro teatro ». 2 In effetti, a Bergamo mancò sino al 1791 un riconoscimento architettonico del fenomeno teatrale ; prima di quella data, erano adibiti agli spettacoli edifici provvisori, costruiti annualmente per le due principali stagioni : quella del carnevale e quella della fiera. Dal 1788 la poetessa si dichiarava dunque in cerca di nuovi stimoli. Intraprese così un lungo tour nelle principali città lombarde ; fra queste ci furono Crema, Milano, Pavia e, passando per Genova, si diresse in Toscana, alla volta di Livorno e poi di Firenze. 3 Nelle città toscane ascoltò le improvvisatrici Fortunata Fantastici e soprattutto la Corilla Olimpica, 4 una vera celebrità che però aveva già diradato le proprie esibizioni. Obiettivi principali del viaggio : assistere alle rappresentazioni teatrali, stringere nuove conoscenze, rinsaldare le vecchie. Nel frattempo, continuava il processo di formazione del gusto poetico intrapreso da Bettinelli nei confronti dell’altolocata discepola ; gli epigrammi erano stati pubblicati dallo stampatore locale, Locatelli (lo stesso che aveva pubblicato la traduzione di Ipermestra), tuttavia non si arrestava lo scambio di versi tra la contessa e l’abate :  





















Carissimo Dopo di aver gustate sì belle vostre produzioni come avrò io il coraggio di mandarvi i meschini miei versi. Pure li ho malamente ricopiati, e li avrete per la via di Milano, se potrò colì ricapitarli a persona amica acciò vi sien costà trasmessi con sicurezza. Ho consegnato la copia degli epigrammi pel Prof. Fontana al nostro Professor Mascheroni che già vorrebbe esser partito per Pavia. Parlerò al libraio Locatelli tosto che sarà tornato a Bergamo acciò abbiate alcune copie degli epigrammi e acciò ne mandi altrove. Avete voi veduta una traduzione di Orazio fatta dal Sig. Gio. Pezzoli gentiluomo bergamasco. O quanto ne sentirei volentieri il parer vostro. Per dirvela nettamente io trovo il povero Orazio piuttosto tradotto in arabo che in italiano […]. 5

Nel 1792 venne in effetti pubblicata presso una stamperia di Bassano una nuova raccolta di epigrammi destinati dall’abate alla Secco Suardo, dal titolo, simile al precedente, Lettere a Lesbia Cidonia sopra gli epigrammi del sig. Abate Saverio Bettinelli sotto il nome di Diodoro Delfico. Attraverso Bettinelli ed almeno un altro centinaio di corrispondenti della contessa giungevano dunque al salotto bergamasco « le primizie letterarie, le mode correnti, i fatti e i personaggi che riempivano la cronaca ». 6 Tuttavia, la Secco Suardo ci teneva particolarmente a ribadire, ogniqualvolta parlava del suo salon, di non aver mai posseduto lo spirito di coquetterie. Al contrario, lo spirito era quello d’istituire un intimo circolo d’intellettuali ; così aveva infatti dichiarato nel 1784 : « un petit nombre choisi d’amis a toujours fait le bonheur, et le charme de mes jours ». 7 In questa, a suo dire, ristretta cerchia passavano comunque importanti avvenimenti del secolo : l’ode dedicata da Monti al signor di Montgolfier, la traduzione delle Odi di Orazio di Clementino Vannetti, le tragedie di Alfieri, le esibizioni dei cantanti  













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2   ame lettera datata 16 ottobre 1786.   ame lettera datata 28 luglio 1787.   ame lettera datata 6 ottobre 1788 : « Perseguitata da una terzana volli tentar di sprezzarla coll’andare alla Villa di Beltramelli, e di là passare a Crema per udir Pacchierotti che ancora faceva buone pruove del suo valore. Ebbi poca molestia dalla mia febbre onde poche poste correndo alla giornata passai a Milano, indi a Pavia, e facendo animo più forte continuai il viaggio fin a Genova. Colì mi son trattenuta per tredici o quattordici giorni libera d’ogni male, e ammirando quella superba città superbamente da voi cantata nel poemetto che subito restituita alla patria ho letto di nuovo, e con nuovo piacere prestato ». 4   Ibidem : « Senza che mai si avesse pensato a ritorno, si fece colì il disegno di andarvi per mare, e così s’intraprese da Livorno la via della Toscana che ho visitata con infinito contento. A Firenze oltre alla Corilla, ho veduta alcune volte la Fantastici cortesissima che molto si compiacque di vedersi da voi celebrata nell’opera vostra di cui 5   ame lettera datata 28 ottobre 1789. le presentai un esemplare ». 6 7   F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., p. 147.   ame lettera datata 16 giugno 1784. 3













scene private e figure di donna: la tragedia

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Pacchierotti e Babini, gli Annuari poetici e le raccolte di versi. Alla luce di tutto questo, si può a ragione affermare che il salotto di Lesbia Cidonia, seppure in una realtà provinciale, « era una finestra aperta […] sul più vasto mondo letterario politico e culturale della Serenissima e, più in generale, dell’Italia settentrionale ». 1  



iii. 4. Je parle des farces, où il n’y entre qu’une seule femme : eroine in scena  

Nel repertorio tragico del salotto di Paolina Secco Suardo sono attestati tre titoli : Ipermestra di Antoine Marin Lemierre, 2 la Gabriella di Vergy di Pierre Laurent Buyrette de Belloy e il Cid di Pierre Corneille. Perché la nobildonna scelse proprio queste tre opere francesi da recitare in un contesto privato ? Alcune ipotesi possono essere avanzate in merito alla questione, anche se il motore primario fu probabilmente il rilievo dato alla protagonista femminile in queste tragedie, che si configura in tutte come un’eroina portatrice di una forte carica emotivo sentimentale. Sulla rappresentazione della prima opera teatrale abbiamo numerose testimonianze indirette, sulle altre due, purtroppo, poco o niente ; ciò non stupisce, visto che con l’autore di Ipermestra, Lemierre, la contessa aveva stretto conoscenza diretta e corrispondenza epistolare. 3 Come detto in precedenza, i rapporti tra Paolina e lo scrittore francese erano iniziati all’incirca nel 1776 e si erano mantenuti vivi almeno sino al 1788. Dopo avere rappresentato Hypermenstre in traduzione italiana, tra l’autunno del 1777 e la primavera del 1778 (quindi, con probabilità, nel periodo di carnevale, come d’abitudine all’epoca), i due letterati si erano conosciuti a Parigi e i loro rapporti epistolari, seppure sporadici, continuarono per almeno altri dieci anni. Nel 1786 Paolina fece stampare da Locatelli un’epistola in versi dedicata Al Signor La Mierre [sic] dell’Accademia Francese ; si trattava di un invito in Italia in cui si elogiavano le doti letterarie di un tragediografo che godeva allora discreta fama ; era infatti entrato stabilmente, proprio con Hypermenstre, nel repertorio del teatro di Faubourg Saint Germain. Così si legge nella lunga epistola :  











O fra bende regali, e in mezzo a ferri di sangue ancor fumanti Egli s’aggira cinto il coturno, e all’affollate genti spettacol nuovo dalle Scene appresta, che i cuor più duri a pietà mova, e chiami largo sugli occhi mal frenato il pianto più nobil premio, e più verace applauso che gli altri gridi, e il batter palma a palma ? Ma perché mai, Sirito gentil, la troppo  

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  F. Tadini, “Lesbia Cidonia”, cit., p. 147.   Poeta drammatico nato a Parigi nel 1733. Di umili origini, grazie ai sacrifici paterni ebbe comunque una buona istruzione, distinguendosi già in alcuni concorsi universitari con composizioni latine poi inserite in una raccolta intitolata Musae Rhetorices. Le sue qualità impressionarono M. Dupin, Ministro delle Finanze, che lo prese con lui come segretario ; in seguito a ciò, Rousseau, anni dopo, lo indicherà nelle Confessions come uno scriba, anche se Lemierre era allora già conosciuto come autore di più di un genere. L’Académie Française lo premiò, nel 1753, per il suo poema intitolato Tendresse de Louis XIV pour sa famille. Cfr. Biographie Universelle (Michaud) Ancienne et Moderne, Paris, Chez Madame C. Desplaces, 1861, vol. xxiv, pp. 84-97 ; P. A. Vieillard, voce Le Mierre Antoine Marin in Nouvelle Biographie Générale, Publiée par MM. Firmin Didot Frères, sous la direction de M. le D’Hoefer, 1967, vol. 29-30, pp. 606-607 ; Œuvres Choisies de A. M. Le Mierre, de l’Académie Française, précédées d’une Notice sur la vie et les ouvrages de cet auteur, a cura di R. Perin, Parigi, Stamperia di Maugeret Fils, 1810 ; J. Boncompain, Auteurs et Comédiens au xviii siècle, préface d’A. Decaux, Libraire Académique Perrin, 1976, pp. 155, 159 ; A. Marin Lemierre, Théâtre, edition critique par F. Marchal-Ninosque, Paris, H. Champion, 2006 ; R. Bret-Vitoz, L’espace et la scène : dramaturgie de la tragédie française 1691-1759, Oxford, Voltaire Foundation, 2008. 3   Cfr. W. Proglio, Paolina Grismondi e l’autorità culturale della Francia, in Metamorfosi dei Lumi 4. L’autorità e le prove della storia, a cura di S. Messina e V. Ramacciotti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007, pp. 73-87. 2















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capitolo iii lusinghiera tua sede, e i dolci studj non lasci almen per poco, e a che non vieni questo a veder non men caro alle Muse non men degno di Te suolo felice, che Appennin parte, e il Mar circonda, e l’Alpe ? 1  

Lemierre, nel 1786, andava nuovamente incontro ad un grande successo ; riprendeva, infatti, con una modifica nel quinto atto, il Guillaume Tell, 2 sorpassando, con questa ripresa, anche la fama della Veuve de Malabar. 3 Ciò non stupisce poiché l’argomento del Guillaume, la liberazione della Svizzera, alla vigilia della rivoluzione francese, veniva probabilmente sentito dal pubblico come particolarmente attuale. Ricordiamo inoltre che questa tragedia vide come suo primo interprete, nel ruolo di Guillaume, il grande Lekain, 4 attore particolarmente attivo verso una riforma del Théâtre Français che rispettasse maggiormente sia la direzione spettacolare sia una recitazione più naturalistica. Nell’ottobre del 1788 il drammaturgo scrive alla Secco Suardo, scusandosi di un intero anno di silenzio :  



Madame, Je suis presque aussi honteux de vous écrire que je serais de paraître devant vous, après avoir laissé passer une année entière sans répondre à votre charmante lettre et à toutes les marques de bontés que vous m’y donniez. J’attendais pour vous faire réponse que je pusse vous envoyer au même temps une tragédie que les comédiens devaient remettre au théâtre, qui n’a pas encore été imprimée qui, et ne peut l’être avant qu’elle ait reparu quelques changements. 5 1   bro, ac. 55, Al Signor Le Mierre dell’Accademia Francese. La contessa Paolina Secco Suardo Grismondi. Tra le Arcadi Lesbia Cidonia, Bergamo, Locatelli, 1786, p. 4. 2   Andò in scena nel 1766, lo stesso anno di Artaxerce (quest’ultimo ispirato ad un libretto di Metastasio, che aveva a sua volta tratto il soggetto da Justin), ma non fu parimenti ben accolto dal pubblico, forse a causa della novità dello spettacolo. Contrariamente a quanto accadeva nella tragedia francese del periodo classico, Lemierre metteva in scena personaggi di umili origini, i contadini svizzeri che ragionavano dell’indipendenza repubblicana. Voltaire, interrogato sulla qualità dell’opera dichiarò : « niente da dire ; è scritta nella lingua dei paesi ». L’argomento è tratto dagli Annali Elvetici e si tratta di un dramma senza amore, mentre l’unico personaggio femminile, Cleofe, recita un ruolo secondario rispetto al rilievo dato all’epoca alle prime attrici sulle scene. Henri Louis Lekain nel ruolo principale contribuì a salvare il dramma dal fiasco completo ; questo celebre attore si affezionò tanto a questa parte che due anni dopo volle rimetterlo in scena, malgrado tutte le disposizioni contrarie del regolamento dei commedianti. Nella ripresa del 1786 Lekain fu sostituito da Larive, che interpretò il ruolo con calore ed energia. Cfr. A. M. Lemierre, Guillaume Tell, texte établi, présenté et annoté par R. Bret-Vitoz, préface de P. Frantz, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2005. 3   La veuve de Malabar, ambientata in Indonesia, fu accolta freddamente nel 1770, ma apprezzata dieci anni dopo con entusiasmo e da lì destinata ad entrare nel repertorio insieme ad Hypermenstre e Guillaume. Per l’argomento di questa tragedia Lemierre fece appello esclusivamente alla sua immaginazione : la scena ambientata sulla costa di Malabar, dentro un tempio dedicato a Brama, in una città il cui nome è sconosciuto. Il Grande Sacerdote annuncia che una personalità indiana di rilievo ha terminato la sua vita e che la vedova (come usanza dell’India) dovrà seguirlo sulla pira che brucierà i suoi resti. I primi quattro atti furono molto applauditi, ma il quinto ne raffreddò il successo : nella prima messa in scena, infatti, la vedova andava incontro al suo destino scendendo nella fossa delle fiamme e la sua morte dunque avveniva lontana dagli occhi degli spettatori. La tragedia fu tradotta in italiano col titolo La vedova del Malabar da Francesco Albergati Capacelli e pubblicata nel Teatro moderno ed applaudito da Stella a Venezia nel 1798. Ispirò anche un « ballo storico » in quattro atti del coreografo Louis Henry intitolato Il sacrificio indiano o sia La vedova del Malabar andato in scena al Real Teatro S. Carlo di Napoli nell’autunno del 1819. 4   Nel gennaio del 1759, sostenuto da Voltaire, scrisse un Mémoire qui tend à prouver la nécessité de supprimer les banquettes de dessus le théâtre de la Comédie Française, en séparant ainsi les acteurs des spectateurs. Si legga M. Fazio, Il rinnovamento del Settecento fra attori e autori, in Breve storia del teatro per immagini, Roma, Carocci, 2008, p. 167 : « Alla riapertura del teatro dopo la Pasqua 1759 le banquettes sulla scena del Théâtre Français erano scomparse. Tutto lo spazio sul palcoscenico ora era destinato alla rappresentazione » ; e ancora, si legga a p. 168 : « Diderot, che negli Entretiens e nel Discours sur la poésie dramatique aveva reclamato l’eliminazione delle banquettes dalla scena, accoglie con viva soddisfazione la riforma del Théâtre Français promossa da Voltaire e Le Kain ». Cfr. anche F. J. Talma, Réflexions sur Lekain et sur l’art théâtral, con prefazione di P. Frantz, Paris, Desjouquères, 2002. 5   Lettere, cit., p. 29 : « Madame, sono così vicino al sentimento della vergogna nello scrivervi come lo sarei di  



































scene private e figure di donna: la tragedia

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Forse quella « tragedia che i commedianti devono rimettere in teatro e che non è ancora stata stampata e non può esserlo prima di aver apportato alcuni cambiamenti » è proprio il Guillaume Tell, anche perché, durante gli anni rivoluzionari, Lemierre si ritirò dalle scene e si trasferì a Saint-Germain de Laye, dove morì nel 1793 afflitto da patologie mentali. Nella lettera inviata alla contessa nel 1788 parla dunque diffusamente di una tragedia da rimettere in scena che avrebbe voluto inviarle contestualmente alla missiva. Lo scrittore ribadisce ancora :  





Si-tôt que la tragédie dont j’ai l’honneur de vous parler sera imprimée, je vous la ferai passer. Adieu Madame, comptez toujours sur un éternel souvenir de ma part, et sur les sentiments tendres et respectueux avec lesquels je serai toute ma vie. 1

Se non è Guillaume la tragedia di cui parla, potrebbe essere Virginia, scritta in quegli anni e mai rappresentata per il timore di accendere troppo le passioni rivoluzionarie. Ma il fatto che l’autore scriva di « rimettere in scena » un testo e di apportarvi alcune modifiche ci fa propendere con una certa sicurezza per Guillame, ristampato nel 1810 nei dieci volumi di Œuvres choisies della collezione Didot. La scelta di Lemierre come drammaturgo di riferimento per il salotto teatrale della Secco Suardo ci conduce ad alcune riflessioni sul repertorio che nel salotto stesso venne rappresentato. Se il teatro francese, stabilito a Parigi per volontà di Luigi XIII, aveva attirato da oltre un secolo un pubblico di letterati in cerca di piaceri più nobili del semplice intrattenimento, il clamore suscitato da Corneille, Racine e Molière risvegliava, all’inizio del xviii secolo, la curiosità generale e attirava nuovi spettatori. Di conseguenza, le sale venivano ingrandite ed il pubblico pagante, nobile ma anche di origine borghese, non sempre possedeva un livello culturale particolarmente elevato. I drammaturghi si trovarono costretti a puntare di più sull’intreccio, complicato e ricco di colpi di scena, tanto da prendere talvolta il sopravvento sulla caratterizzazione dei personaggi. 2 Hypermenstre 3 ben rappresenta un modello di questo nuovo genere : il ritmo è elevato e l’interesse cresce scena dopo scena ; le situazioni si succedono con una rapidità che lascia lo spettatore senza fiato ; le passioni (almeno secondo il giudizio di René Perin) sono « ben dipinte » e i personaggi « ben sviluppati ». 4 L’intreccio, di matrice classica ovidiana, racconta la vicenda dei fratelli Danao ed Egipto che, dopo aver regnato insieme a Menphi, entrano in conflitto. Danao è dunque costretto a rifugiarsi ad Argo, dove usurpa il trono. Egipto, dopo alcuni anni, desidera riconciliarsi col fratello e gli propone i suoi cinquanta figli da maritare con le sue figlie. Danao rifiuta ma presto viene attaccato ad Argo dal fratello e costretto ad acconsentire ai matrimoni. Per vendicarsi di questo oltraggio e sulla scia di un oracolo che gli ha predetto la morte per mano di uno della sua stirpe, ordina alle figlie di sgozzare i rispettivi sposi la prima notte di nozze, ordine eseguito da tutte ad eccezione d’Ipermestra, innamorata del marito Linceo.  

















comparire davanti a voi dopo aver lasciato passare un anno intero senza rispondere alla vostra affascinante lettera e a tutti i segni di benevolenza che in quella sede mi avete donato. Attendevo per rispondervi di potervi inviare contemporaneamente una tragedia che i commedianti dovevano rimettere in scena, che non è stata ancora stampata e che non può esserlo prima di essere aggiustata con alcuni cambiamenti ». 1   Ibidem : « Se la tragedia di cui ho avuto l’onore di parlarvi sarà stampata, ve la farò trasmettere. Addio Madame, contate tutti i giorni su un eterno ricordo da parte mia, e su tutti i sentimenti teneri e rispettosi con i quali io sarò per tutta la mia vita ». 2   Cfr. E. F. Jourdain, Dramatic Theory and Practice in France, 1690-1808, Londres, Longmans & Co, 1921 ; M. De Rougemont, La vie théâtrale en France au xviiie siècle, Paris-Genève, Champion-Slatkine, 1988. 3   Cfr. Noces sanglantes : Hypermenstre, du Baroque aux Lumières, quatre tragédies de Gambauld 1644, Abeille 1678, Riupeirous 1704, Lemierre 1758 présentées par J. N. Pascal, Perpignan, Presses universitaires, 1999. 4   R. Perin, Œuvres choisies, cit., tomo i, p. v.  











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capitolo iii

Théodore de Riupeirous aveva già messo in scena questo dramma in Francia prima di Le mierre, nel 1704 : nella sua tragedia Linceo lascia Memphi per mettere il suo coraggio alla prova in terre straniere. Casualmente approda ad Argo proprio nel momento in cui i suoi fratelli stanno per sposare le cugine. Ipermestra promette al padre di obbedire all’ordine dello sterminio, ma scopre che lo sposo destinatole è lo straniero di cui ha suscitato l’amore ; la fanciulla supplica dunque il cugino e promesso sposo di fuggire. Linceo accetta la proposta, ma viene arrestato e condotto al supplizio, che non si compie grazie ad un’insurrezione popolare che lo salva. Lemierre, diversamente dal suo predecessore, immagina Ipermestra che non acconsente di far parte dell’azione criminosa delle sorelle, preservando così la suspence del dramma. Quando l’azione inizia, in medias res, la giovane principessa è infatti la sola, fra tutte le Danaidi, ad ignorare il disegno paterno. Nella scena ii del i atto i due cugini si avviano sicuri al matrimonio e lo spettatore freme a causa della loro sicurezza perché, a differenza dei due protagonisti, conosce i propositi criminosi di Danao. Nel secondo atto (scena ii) avviene infatti la crudele rivelazione che provoca la reazione indignata d’Ipermestra la quale allora finge col padre di acconsentire al suo ordine. E la simulazione continua nella scena vii, quando chiede a Danao di potersi ritirare per piangere lo sposo morto di sua mano : « O mio padre !...Rimira…il tutto è fatto…/o pena troppo amara !...Io sì potei… ». 1 Nella scena v del iv atto la suspence cresce ulteriormente, perché Danao ha scoperto tutto e i due sposi (Linceo addirittura in catene) sono condannati a morte dal sovrano, nonostante l’uno cerchi disperatamente di salvare l’altra. Quando, nella scena iv del v atto, Ipermestra, incatenata, dopo aver supplicato il padre, che non recede dai suoi crudeli propositi, lo ripudia provocando la sua ira, in lontananza si ode uno strepito d’armi. Si sta preparando una sedizione contro il tiranno, la plebe è dalla parte di Linceo e fa irruzione nel palazzo reale. La scena finale produce un grande effetto di pietà e terrore : Ipermestra è imprigionata dal padre e Linceo, furente, fa irruzione alla testa dei soldati. La fanciulla, divisa tra l’amore filiale e quello coniugale, supplica pietà per Danao, ma il tiranno, sottraendo la spada ad un suo consigliere, si uccide. La principessa vorrebbe togliersi la vita, ma Linceo la trattiene, togliendole la spada di mano : « Piangi, cara Ipermestra. È questo giorno / degno d’eterno lutto. E al solo sposo / dona il poter di rasciugarti il pianto ». 2 Come si capisce, il ritmo del dramma di Lemierre è sostenutissimo ; nello svolgimento della fabula sono presenti la pietà e il terrore che devono condurre, secondo Aristotele, alla catarsi finale. L’intreccio è ricco di colpi di scena, cambiamenti di fronte, simulazioni ed il dialogo fra i personaggi è serrato, con pochi monologhi e l’assenza del coro. Sapientemente costruita dal punto di vista drammaturgico, questa tragedia, andata in scena per la prima volta nel 1758, non uscì mai dal repertorio del teatro del Faubourg Saint-Germain fino alla sua ultima rappresentazione. La parte d’Ipermestra divenne ben presto cavallo di battaglia delle prime attrici francesi e forse per questo incuriosì la contessa Secco Suardo, così ansiosa di far emergere le sue qualità attoriche in una parte principale. Il soggetto ovidiano della figlia di Danao, esempio di fedeltà coniugale, aveva avuto risonanza in Italia nel Settecento anche grazie alle numerose rivisitazioni nel melodramma. Si ricorda infatti l’Ipermestra di Antonio Vivaldi, su libretto di Antonio Salvi, per il Teatro della Pergola di Firenze, nel 1727 ; 3 non solo, il soggetto fu trattato in un celebre libretto metastasiano dato alle stampe nel 1724 e più volte musicato. Senza dimenticare che Paolina aveva di sicuro conosciuto l’argomento anche attraverso la versione tragica di Girolamo Pompei,  

























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2   Si cita dalla traduzione italiana del 1776, p. lxii.   Ivi, Atto v, Scena viii, p. xciv.   Il dramma per musica su libretto di Antonio Salvi andò in scena anche a Venezia al Teatro San Giovanni Crisostomo nel 1724 e a Milano al Regio Ducal Teatro nel 1728. 3

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pubblicata a Verona nel 1767, 1 e anche per l’affetto che la legava, a Pompei da tempo era ansiosa di interpretare l’eroina ovidiana. Nel repertorio del salotto teatrale bergamasco compare anche la Gabrielle de Vergy di Pierre Laurent Buyrette de Belloy, 2 tragedia anch’essa incentrata su un’eroina femminile. Si tratta di un testo che, messo in scena nel 1777 a Parigi, fu inizialmente applaudito per la sua novità. De Belloy aveva esordito nel 1765 col grande successo di Le siège de Calais, ma il suo secondo lavoro, andato in scena a Parigi nel 1771, Gaston et Bayard, non aveva replicato il clamore di Le Siège. Così, l’autore mancò dai teatri per alcuni anni e, stretto dalle difficoltà economiche, compose La Gabrielle per la celebre Mademoiselle Clairon, 3 una delle innovatrici della tecnica attorica francese coeva e la sola, a suo dire, che potesse creare la parte principale. Il ritiro dalle scene della grande attrice spinse il drammaturgo a non far rappresentare il dramma, facendolo precedere, nel 1772, da Pierre le Cruel, un fiasco completo, che lo allontanò definitivamente dal teatro, gettandolo in uno stato di profonda prostrazione. Tuttavia La Gabrielle, messa in scena postuma, riscosse grande successo di pubblico e editoriale e fu più volte ristampata ed inclusa in raccolte antologiche di teatro francese dell’epoca. De Belloy, come Lemierre, fu un autore che interpretò bene la scena del suo tempo ed il gusto degli spettatori ; l’argomento dei suoi drammi è tratto dalla storia nazionale, e la fabula è sempre ricca di colpi di scena, allontanandosi decisamente dal verosimile ed articolandosi in situazioni sempre più incalzanti. I due drammaturghi francesi si leggono vicini in raccolte antologiche in cui compaiono anche De Latouche, Saurin e Diderot, principali rappresentanti della comédie larmoyante e della tragedia borghese. 4 Inoltre, sia Ipermestra sia La Gabrielle de Vergy compaiono tradotte nel Teatro moderno ed applaudito, andando a costituire, evidentemente, un repertorio contemporaneo molto apprezzato anche in Italia.  

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  L’Ipermestra di Girolamo Pompei, Verona, D. Ramanzini, 1767.   Membro dell’Académie Française, nato a Saint Flour in Auvergne il 17 novembre 1727 e morto il 5 marzo 1775. Fu allevato a Parigi presso uno dei suoi zii, celebre avvocato in Parlamento ed iniziò la carriera d’ufficio. Tuttavia, preso da una grande passione per le lettere, espatriò in Russia per esercitare la professione di commediante. Di ritorno da questo paese, fece rappresentare a Parigi nel 1759 la sua tragedia Titus, su modello de La clemenza di Tito di Metastasio, che fu un fiasco alla prima rappresentazione e non fu più rappresentata dopo. In seguito compose Zelmire, imitando l’Issipile sempre di Metastasio, che andò in scena a Parigi nel 1769, riscuotendo un successo dovuto soprattutto all’interpretazione di Madamoiselle Clairon. La Siège de Calais, tragedia rappresentata nel 1765 gli procurò alcuni riconoscimenti da parte della città di Calais, fra cui un ritratto esposto all’Hotêl de Ville ed una bottiglia d’oro con la scritta lauream tulit, civicam recepit. Dopo l’insuccesso del suo ultimo lavoro Pierre le Cruel, andato in scena a Parigi nel 1772, il drammaturgo cadde vittima di un profondo stato depressivo che lo condusse alla morte. Luigi XVI, davanti al quale fu rappresentata per la prima volta le Siège de Calais, venuto a conoscenza del triste stato in cui verteva il suo autore, gli mandò un sussidio unito ad una colletta di un gruppo di commedianti. Cfr. Nouvelle Biographie Générale, cit., vol. v-vi, pp. 287-288 ; M. Prevost, voce Belloy Pierre Laurent Buyrette de, in Dictionnaire de biographie française, diretto da M. Prevost e R. D’Amat, tomo vii, Paris-vi, Libraire Letoouzey et Ane, 1956, p. 641 ; L. S. Auger, Notice sur la vie et les ouvrages de De Belloy, in Œuvres choisies de de Belloy, Parigi, Didot, 1811, tomo i, pp. 5-14. 3   Appartiene con Lekain ad una generazione di attori che verso la metà del xviii secolo, rinnovarono l’arte degli attori nella direzione di un maggiore naturalismo sulle scene coadiuvato da un’azione quasi proto registica del drammaturgo. Fu autrice delle Mémoires de Mlle Clairon, actrice du théâtre français, écrits par elle-même, Paris, Ponthieu, 1822 ; E. Dabcovich, Die Selbstdarstellung einer Schauspielerin (M.lle Clairon), in Formen der Selbsdarstellung. Amlekten zu emer Geschichte des liberarischen selbsforhaits Festgabe für Fritz Neubert, Berlin, Duncker (e) Humblot, 1956 ; Cfr. J. Richtman, Mademoiselle Clairon : actress-philosopher, in Studies au Voltaire and the Eighteenth century, Oxford, Baubury, 1976, vol. cliv, pp. 1813-1824 ; C. Mengès, Diderot et le portrait de Madamoiselle Clairon en Médée, gravé par Beauvarlet, « Litteratures », Toulouse, Presses universitaires du Mirail, 1989, pp. 15-23 ; M. I. Aliverti, Poesia fuggitiva sugli attori nell’età di Voltaire, Roma, Bulzoni, 1992 ; R. Tessari, Dai lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 2000, vol. ii, p 256 ; M. Fazio, Il rinnovamento del Settecento, cit., p. 169. 4   Œuvres de Guimond Latouche, Lemierre, Saurine, Diderot, Rochon de Chabannes, De Belloy, Paris, Baudouin Frères Libraires, 1828 ; La veuve de Malabar è pubblicata a p. 62, Le Siège de Calais e Gabrielle de Vercy sono pubblicate, rispettivamente, a p. 383 e 447. 2

























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capitolo iii

La traduttrice del dramma di De Belloy è Elisabetta Caminer Turra e la tragedia era già comparsa nelle sue Composizioni teatrali moderne ed applaudite del 1772. Il frontespizio dell’opera fa riferimento ad una rappresentazione avvenuta al Teatro Sant’Angelo di Venezia nell’autunno del ’71. Pertanto, la Secco Suardo poteva avere letto la tragedia in italiano ed aver già udito gli echi della messa in scena veneziana quando iniziò a pensare al repertorio per la sua filodrammatica. Dall’epistolario risulta un contatto tra la contessa ed il padre di Elisabetta, il giornalista e redattore Domenico Caminer ; nell’autunno del 1783 quest’ultimo le scrive parlando di composizioni per le quali ha fatto da tramite, composizioni indirizzate a Paolina perché potesse farne una copia ad uso personale. 1 La pessima grafia non permette di capire quali fossero le composizioni citate ed i loro titoli, ma non è azzardato pensare a lavori teatrali, visto che in quegli anni il salotto della Secco Suardo era ancora attivo in tal senso. E forse (ma non possiamo provarlo in alcun modo) uno di quei testi era proprio La Gabriella di Vergy tradotta da Elisabetta. Dato da rilevare è come la raccolta della Caminer sia, non casualmente, dedicata ad una dama, sua eccellenza Contarina Barbarigo Zorzi ; la scelta di un destinatario femminile sembra essere infatti costante di molte opere firmate da donne (e non solo) nel corso del xviii secolo. L’idea comune a queste scrittrici potrebbe essere trovare una mecenate particolarmente attenta alle virtù artistiche del gentil sesso e pronta ad incoraggiarle : « È ben picciolo difatti questo tributo per quella, cui la rara coltura dello spirito, l’amore pelle lettere e pelle belle arti, fra le quali V. E. coltiva e abbellisce la Musica e la Pittura ». 2 La Gabriella di Vergy è invece specificamente dedicata al conte Pietro Cattaneo, ministro del re di Prussia presso la Serenissima ; così scrive la Caminer : « La Gabriella de Vergy vi è, gentilissimo signor conte, in certo modo dovuta, attesa la costante preferenza che le avete data sopr’a tutte le opere teatrali ch’io ho tradotte ». 3 In chiusura della dedicatoria, la traduttrice aggiunge : « io mi ristringo a presentarvi semplicemente come un contrassegno del mio rispetto gli avvenimenti tragici di questa vostra prediletta contessa ». La Caminer sta alludendo alla protagonista, contessa di Fayel, e non è dato sapere se ci sia anche qualche allusione alla vita privata di Cattaneo ; dato certo è che il titolo nobiliare dell’eroina coincide con quello della Secco Suardo che la portò sulle scene con la sua filodrammatica : una contessa dunque che interpreta il ruolo della contessa, in un gioco di specchi che fa del teatro metafora della realtà, con tutte le finzioni e le simulazioni che in essa comunemente avvengono. Ma veniamo all’argomento della tragedia : La Gabriella si svolge nella Francia capetingia durante un attacco del feroce Saladino ; ecco dunque che De Belloy consolida la tendenza (già avviata da Lemierre con Guillaume Tell) di preferire alla classicità la storia nazionale dei popoli, per avvicinare maggiormente le vicende rappresentate all’identità nazionale. La scena è in Borgogna nel castello di Autres ed i primi quattro atti si rappresentano in una galleria che comunica con gli appartamenti di Fayel e di Gabriella. La protagonista ha sposato il conte seguendo la volontà paterna, ma da sempre è innamorata di Rodolfo di Coucy e l’azione inizia proprio con l’arrivo dal campo di battaglia della notizia che quest’ultimo è morto eroicamente per salvare il suo sovrano, anche se il cadavere non è stato rinvenuto. Gabriella, sola in scena, dà sfogo al suo cuore con un lungo monologo, di cui si riporta l’incipit : « Nell’atroce suo affanno appien s’immerga / questo misero cor. / Il solo bene che mi resta è il dolor. / Egli m’è dolce / perché innocente, ormai più non verranno / a turbarlo i rimorsi ». 4 La fanciulla indugia sui ricordi tenendo fra le mani un biglietto su cui l’amante  





































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  mmb, Alfa. 3. 42. 829, lettera datata 6 novembre 1783.   E. Caminer Turra, Composizioni teatrali moderne, cit., tomo ii, p. 1. 3   Ibidem. 4   Ivi, Atto ii, Scena iv, p. 37.

2

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scomparso ha vergato parole di fuoco dedicate a lei, la donna della sua vita che non ha mai potuto sposare. Il primo colpo di scena avviene quando giunge notizia che Rodolfo è sopravvissuto : si scatena la rabbia del conte, poiché egli crede che Gabriella abbia mentito di proposito sulla sorte del vecchio amante e medita vendetta. L’antefatto della vicenda si chiarisce ulteriormente all’inizio del iii atto : Rodolfo appare per la prima volta sulla scena e racconta il suo amore con la contessa, nato quando erano ancora ragazzi prima che, orfana di madre, fosse costretta a sposare il conte di Fayel. Sicuramente questi argomenti rappresentavano per la Secco Suardo materia vissuta in prima persona, visto che, giovanissima, aveva sposato il conte Grismondi, nutrendo sin dalla prima adolescenza una passione (corrisposta) per il cugino Girolamo Pompei. Anche se, all’epoca in cui mise in scena il dramma di De Belloy, la passione per il cugino era forse già sfumata in favore di quella per Ippolito Pindemonte. Nel iv atto Fayel si riconcilia con Gabriella a patto che prometta di non vedere più Rodolfo ; da qui in poi il dramma ruota intorno a questa promessa fatta dalla protagonista al marito : « da ogni ombra di delitto, il nostro amore / diverrà illustre e virtuoso ». 1 Lo spettatore non sa se l’adulterio abbia mai avuto luogo, ma l’eroina insiste in più punti sulla purezza del suo amore facendo intuire che la passione è rimasta allo stato platonico. Anzi, di fronte all’ipotesi di non vedere più il suo innamorato la donna si mostra quasi sollevata, liberata dai vincoli di una relazione che in qualche modo incrina la sua fedeltà coniugale. Se Ipermestra è assunta, nella classicità come nelle riprese successive, a simbolo dell’amore fedele verso il coniuge, Gabriella, pur scossa da un sentimento al di fuori dai vincoli del matrimonio, sembra non cadere mai in tentazione adulterina. E per questo si presenta come un’eroina particolarmente adatta a essere portata sulle scene da una signora nobile e sposata, seppure famosa per le sue liaisons, anche solo epistolari. Nella vicenda de La Gabriella tutto sembra rimanere infatti sul piano spirituale o intellettuale. Ancora una volta il teatro può essere stato dunque per la Secco Suardo uno strumento comunicativo per veicolare significati relativi alla sua vita privata e forse mettere a tacere le male lingue. L’eroina del dramma conquista del tutto la scena nel pirotecnico finale : l’atto quinto si presenta infatti particolarmente ricco di colpi di teatro e di ribaltamenti improvvisi di fronte. Diversamente da Ipermestra, Gabriella trova la morte col veleno dopo aver visto il cuore di Rodolfo, ucciso in duello da Fayel, deposto in un vaso che il marito con crudeltà le ha donato all’inizio dell’atto. Tuttavia, il cattivo viene punito, perché si uccide a sua volta sconvolto dal rimorso per quello che è successo. Si capisce dunque come il ruolo della contessa nell’ultimo atto provocasse non poche suggestioni, costituendo una vera e propria prova d’attrice : nella prima scena Gabriella è sola, chiusa in una prigione, seduta presso un tavolo di pietra illuminato dalla luce di una lampada. La sua solitudine fisica ben rappresenta il suo cuore diviso e lacerato dall’attesa e l’atmosfera cupa e spoglia prepara al bagno di sangue finale, che puntualmente si verifica. Il testo drammatico presenta numerosissime didascalie esplicite nell’originale francese come nella traduzione della Caminer ; per questo forse si prestava particolarmente ad essere messo in scena anche da una compagnia di non professionisti, che poteva trarre già dal testo indicazioni utili a riprodurre sia la scenografia sia le dinamiche attanziali. Anche l’ambientazione, un palazzo nobiliare, ben si adatta ad una rappresentazione indoor, non necessariamente in un vero teatro, e del resto, stando alle testimonianze della Secco Suardo, Bergamo non ne possedeva ancora uno nei primi anni ottanta del Settecento. 2  

















1

  Ivi, p. 74.   Indicazioni preziose in merito allo stato dei teatri bergamaschi nel xviii secolo si possono trarre da F. Fantappie’, Per i teatri non è Bergamo sito: la società bergamasca e l’organizzazione dei teatri pubblici tra ’600 e ’700, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2010. 2

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capitolo iii

Possiamo concludere dunque che la filodrammatica bergamasca attinse principalmente alla drammaturgia francese contemporanea, con la sola eccezione del Cid di Pierre Corneille. 1 Quest’ultimo, messo in scena per la prima volta nel 1637, apparteneva infatti al repertorio “classico” del teatro d’oltralpe, seppure suscitando un acceso dibattito in relazione al presunto mancato rispetto, all’interno del testo, delle unità aristoteliche. 2 In generale, comunque, la tragedia francese del xvii secolo si proponeva di trattare una storia nobile e dolorosa di personaggi di alto lignaggio. 3 Seguendo questa linea, Corneille rimase per lungo tempo il modello di tragedia storica e complessa, dove i grandi interessi politici s’imponevano sulla passione amorosa, 4 mentre Racine 5 rappresentò, diversamente, il modello in cui era la passione a dominare la scena. Quello che colpiva (e colpisce tuttora) nei drammi raciniani era infatti « la misteriosa semplicità della sua poesia » 6 ed il suo linguaggio si alimentava essenzialmente della « passione amorosa, argomento principale delle tragedie profane ». 7 Per tali caratteristiche, Racine divenne punto di riferimento costante anche di librettisti come Zeno e Metastasio, che ne trassero sovente ispirazione per i loro drammi da mettere musica. 8 Senza addentrarci in questa sede in una disamina delle caratteristiche tematiche e formali della tragedia classica francese e di Corneille in particolare, vogliamo solamente aggiungere qualche osservazione relativa all’inclusione di quest’ultimo all’interno del repertorio del salotto teatrale di Paolina Secco Suardo. L’argomento del dramma è storico e la presenza del mondo arabo incombente, come nella Gabrielle de Vercy di De Belloy ; la pressione del mondo turco si manteneva del resto attuale anche nel xviii secolo e gli spettatori potevano facilmente collegare i fatti del passato con quelli a loro contemporanei. A differenza della Gabrielle, però, nel Cid spiccano due figure femminili di un certo rilievo : Donna Urraque (o l’Infanta di Spagna) e Chimène. Di conseguenza, durante la prima rappresentazione francese 9 del dramma, l’attrice principale, M.lle de Beauchâteau, creò la parte dell’Infanta di Spagna, mentre quella di Chimène fu affidata alla seconda attrice, la Villiers. In questo caso non siamo di fronte ad un testo teatrale scritto per una prima donna, ma il titolo della tragedia fa direttamente riferimento all’eroe spagnolo Rodrigo, chiamato « cid » dagli arabi, ovvero « signore ». Anche il Cid, come l’Hypermenstre e la Gabrielle è stato composto da un drammaturgo per una specifica compagnia teatrale, nel caso di Corneille la compagnia della Marais, dove Mondory, 10 vero e proprio creatore della parte di Rodrigue e Chapelain, grande critico  



















1   G. Couton, Notice, in P. Corneille, Œuvres completes, a cura di G. Couton, Paris, Gallimard, 1980, pp. 14501477. 2   In risposta a tutto ciò Corneille pubblicò, nel 1660, il Discours des trois unités, in cui sosteneva l’unità di luogo generale, ma introduceva il cambiamento di luogo particolare di scena in scena. 3   Cfr. M. C. Hubert, Il teatro classico, in Il teatro francese dal medioevo al Novecento, a cura di A. L. Franchetti e M. Lombardi, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 55-102. 4   Cfr. M. C. Canova-Green, A. Viala, Le xviii siècle : un siècle du théâtre, in Le Théâtre en France, a cura di A. Viala, Paris, puf, 2009, pp. 249-251 ; G. Davico Bonino, I Maestri del Grand Siècle : Corneille, Molière, Racine, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, cit., vol. i, pp. 515-667. 5   J. Racine, Teatro, cit. 6   R. Girard, Poesia e religione nel teatro di Racine, in Racine, Teatro, cit., p. xi, traduzione it. di A. Beretta Anguissola. 7   Ibidem. Cito ancora : « Cominciamo dal linguaggio. Quello di Racine trae alimento essenzialmente da tre campi. Il primo è la passione amorosa, argomento principale delle tragedie profane. Il secondo è la violenza fisica, cruenta, militare. Il terzo è la mitologia, il religioso pagano. Questi ultimi due campi sono al servizio del primo. Forniscono le metafore che descrivono la passione amorosa ». 8   Cfr. A. Trigiani, Il teatro raciniano e i melodrammi di Pietro Metastasio, Torino, Tipografia torinese, 1951 ; A. Chegai, L’esilio di Metastasio. Forme e riforme dello spettacolo d’opera fra Sette e Ottocento, Firenze, Le Lettere, 1998. 9   Incerta la data, 7 gennaio del 1637 o 9 gennaio (più probabile perché era un venerdì). L’opera andò in scena al Teatro del Marais con Guillaume Gilberts, detto Mondory nel ruolo del Cid. 10   Cfr. F. Bouquet, Corneille et l’acteur Mondory, Rouen, imp. De Cagniard, 1869 ; G. Mongrédien, L’acteur Mondory et les origines du Marais, « Mercure de France », febbraio 1925.  



















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dell’epoca trovarono un accordo per rendere il successo della rappresentazione addirittura leggendario. Se è vero che il Cid appartiene al repertorio “classico”, è anche vero che si tratta di un dramma che scatenò, all’epoca della sua messa in scena, un vero e proprio dibattito letterario ed estetico : la querelle du « Cid ». 1 Intorno ad esso sorsero infatti questioni di carattere pratico (la retribuzione dei commedianti e le gelosie dei gesuiti confratelli di Corneille) ma anche dottrinale. Quest’ultime richiamano le questioni nate in Italia intorno al Pastor Fido : a Corneille viene infatti contestato il mancato rispetto dell’unità di luogo, come la non originalità dell’argomento e l’inverosimiglianza della fabula. 2 Il Cid fu stampato senza grandi cambiamenti in edizioni separate fino al 1644 e nel 1648 in una raccolta di Opere con delle varianti significative : in questa edizione il sottotitolo iniziale tragicommedia fu sostituito con tragedia, forse perché il primo genere era passato di moda, forse per invocare l’autorità del genere tragico su questo testo così discusso. 3 Paolina Secco Suardo poteva possedere una traduzione del dramma fra le molteplici che furono stampate in Italia a partire dal 1679 circa. Curiosamente la contessa ha preferito la tragedia di Corneille alle molte di Racine costruite intorno ad eroine femminili ; un’indicazione che giustifichi tale scelta potrebbe risiedere nell’argomento centrale del dramma, il conflitto tra amore ed onore fra Rodrigo e Chimène. I due devono agire vendicando l’onore dei rispettivi padri, perché se non seguiranno l’onore anche l’amore che li unisce svanirà ; poco importa se così facendo ostacolano continuamente la loro relazione. Se l’amore, nella visione di Corneille, si basa infatti sulla stima, non perseguendo l’onore la stima si perderà e, di conseguenza, si perderà la passione amorosa. Esiste, come detto, la parte di una seconda donna, Donna Urraque o l’Infanta di Castiglia innamorata a sua volta di Rodrigo e destinata a rinunciare al suo amore in favore della coppia protagonista. Si tratta di « un personaggio straordinario, per quella passionalità fremente che tutto lo pervade : solo la secolare stupidità dei capocomici poté sopprimere questo ruolo in numerose messinscene ». 4 Dilaniata da un combattimento interiore, è disposta ad andare incontro alla morte piuttosto che abbassarsi ad un amore che svilirebbe il suo rango ed è lei « ad enunciare, anche a nome dei coprotagonisti, la formula che tutti li accomuna, quella del dimidiamento : “Sento l’anima mia in due parti divisa” ». Non sappiamo effettivamente quale parte abbia creato Paolina quando la rappresentò con la sua compagnia di dilettanti, ma è probabile che avesse scelto d’interpretare Chimène, l’eroina principale. L’Infanta di Castiglia, infatti, pur essendo un personaggio importante all’interno del dramma, favorendo con la sua generosità la difficile unione fra i due giovani innamorati, non ebbe nella tradizione rappresentativa sufficiente rilievo (sovente, come detto, fu addirittura soppressa) da stuzzicare la fantasia di una nobildonna che sino a quel momento aveva prediletto ed interpretato drammi con una sola protagonista femminile. Chimène è infatti dei due protagonisti del Cid « quella che nella sua lacerazione tra Amore e Onore, cioè tra libertà e soggezione, tra individualismo e schiavitù alle regole, sentiamo più  



























1   Le Cid fu accusato di plagio (da Guilhem de Castro) ed inverosimiglianza (non era ritenuto verisimile che una fanciulla sposasse l’assassino di suo padre) dai noti drammaturghi Jean Mairet e Georges de Scudéry, quest’ultimo protetto del cardinale Richelieu. Corneille, nel 1637, replicò alle Observations di Scudéry con una Lettre apologétique ; poi fece appello all’ancor giovane istituzione dell’Académie française. L’Accademia rispose con Les sentiments sur la tragi-comédie du Cid il 20 dicembre del 1637, con data 1638, dando sostanzialmente torto a Corneille. Il drammaturgo, profondamente scosso da questa sentenza entrerà tuttavia a far parte dell’Accademia quasi dieci anni dopo, nel 1647. 2   Nel 1660, all’interno del Discours du poème dramatique, Corneille si difendeva citando questo passo della Poetica di Aristotele : « È verisimile che molte cose siano contro il verisimile. Un’arte realista e non moralista. Questo è l’obiettivo ». 3   Cfr. G. Couton, Notice, in P. Corneille, Œuvres completes, Paris, Gallimard, 1980, pp. 1450-1477. 4   G. Davico Bonino, I Maestri del Grand Siècle, cit, p. 538.  







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“nostra contemporanea” : ed è anche della tragedia il personaggio teatralmente più efficace ». 1 Se per teatralità s’intende quell’« irruenza » che è il corrispettivo in scena del « divincolarsi angoscioso del personaggio nella necessità di una scelta ». 2 Per questa vicenda c’è però un lieto fine, poiché i due innamorati riusciranno ad unirsi in matrimonio ed in tutti i drammi scelti da Lesbia Cidonia gli amanti rimangono uniti (anche se nel caso de La Gabrielle ad unirli è la morte). Altra costante è la presenza di un’eroina che si mantiene casta e fedele, mettendo avanti l’onore e la parola data alla passione. Forse alla contessa interessava un personaggio femminile che facesse trionfare la ragione sul sentimento non potendoli conciliare ; e forse il sentimento amoroso per lei trovava le sue necessarie fondamenta proprio nella stima.  













Possiamo a ragione concludere che il repertorio tragico della filodrammatica di Paolina Secco Suardo fosse ben lontano dalle scelte operate da Bettinelli nei suoi Dialoghi d’amore. Alla fine del secolo, in un’attenta disamina del collegamento fra teatro e morale, l’abate aveva infatti condannato piuttosto drasticamente « i moderni generi teatrali, che gli parevano omelie ; i romanzi e le commedie lagrimose ». 3 Non solo, aveva ribadito, la fondatezza della sua polemica antifrancese, giungendo a dichiarare Parigi « decaduta dal ruolo di nuova Atene a quello di seconda Troja ». 4 Ai moderni generi teatrali d’oltralpe attinge invece la Secco Suardo, evidentemente ansiosa di mettere in scena tragedie dove le romanzesche peripezie del cuore fossero centrali. Ma anche particolarmente ricettiva nei confronti del nuovo corso della tragedia francese che, se non trovava ancora pronto il pubblico italiano dei teatri a pagamento, forse poteva essere a poco a poco assimilato all’interno del suo progetto di teatro privato. Certo, a prima vista, la poetessa sembra così uscire da quel percorso di educazione del gusto al quale era stata avviata da Bettinelli : quest’ultimo, seppure disposto a tollerare qualche licenza da parte degli artisti della scena, si dimostrò, al contrario, piuttosto severo con gli autori di testi drammatici. Metastasio, a suo avviso, aveva degradato la poesia a schiava del teatro ; Alfieri, pur capace di suscitare entusiasmo e teso verso il sublime, era colpevole di un eccesso di passione che sottendeva contenuti eversivi. 5 I giudizi verso il teatro d’oltralpe di seconda generazione furono ancora più duri. L’ottica dell’abate era decisamente, nell’ultima fase, aristocratica e prettamente letteraria : ciò che andava in scena per soddisfare un pubblico “misto” (socialmente parlando) era necessariamente ben altra cosa rispetto alla poesia. Lesbia Cidonia, pastorella d’Arcadia di nobile casato, prese sulla scena direzioni ben diverse da quelle indicate da Bettinelli : la filodrammatica bergamasca di cui faceva parte scelse infatti testi contemporanei, romanzeschi e lagrimosi, scritti dai loro autori per le esigenze della scena, anche se incentrati sulla complessa relazione che intercorre fra amore e stima. Là dove la compagnia di Paolina scelse il repertorio amoroso, la passione rimase costantemente guidata dalla ragione, non allontanandosi poi molto (almeno nei contenuti) da quel percorso educativo previsto da Bettinelli per la giovane dama. La contessa rimase però costantemente attenta al nuovo gusto del tempo e gli echi delle scene francesi non la lasciarono indifferente ; nella nuova Comédie-Française militavano infatti, a partire dagli anni cinquanta-sessanta, attori di primo piano, che segnarono una decisiva svolta nella recitazione drammatica del secolo, come Mademoiselle Clairon e Lekain. E anche il Cid di Corneille, frutto del secolo precedente, era stato composto per il teatro e per una compagnia specifica  



















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  Ivi, p. 540.   G. Macchia, L’amore e l’onore, « Quaderni di Venetoteatro », n. 5, 1984, citato in G. Davico Bonino, I Maestri 3   E. Sala Di Felice, I Dialoghi d’Amore, cit., p. 170. del Grand Siècle, cit., p. 540. 4 5   Ivi, p. 168.   Cfr. ivi, pp. 172-175. 2





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e dalle vicende teatrali fu profondamente segnato il suo percorso di elaborazione e rielaborazione. Forse la bella contessa bergamasca assimilò da Bettinelli l’iniziale curiosità nei confronti della filosofia dei Lumi, ma non l’ultimo ripiegamento verso posizioni molto conservatrici. Pur muovendosi all’interno di un’ideologia moderata in campo politico, Paolina si mostrò infatti costantemente progressista in campo culturale. Le sue battaglie per l’insegnamento galileiano delle scienze nel collegio mariano di Bergamo ne sono palese dimostrazione. Il fatto di essere una poetessa apprezzata non la portò ad arroccarsi su posizioni accademiche e letterarie che ponessero la poesia al di sopra di tutte le altre arti. Amò il teatro in ogni sua forma e lo seguì sempre con attenzione, promuovendo come attrice opere contemporanee che non avrebbero trovato spazio nei cartelloni dei teatri pubblici italiani. Forse la contessa intuì ciò che a Bettinelli sfuggiva : il fatto che il testo letterario e drammatico e la sua trasposizione scenica non fossero in antitesi, ma anzi si fondessero nell’evento spettacolare. Citando Mario Baratto : « non è forse un caso che tra i quattro grandi autori cui, in generale, le storie della letteratura tendono a dare particolare rilievo nel Settecento, tre di essi, Metastasio, Goldoni e Alfieri, siano, esclusivamente o in parte cospicua, scrittori di teatro ». 1 Il xviii secolo è in Europa contraddistinto da un processo osmotico fra scena e letteratura come mai era avvenuto prima in tempi moderni. Se non si riuscì in Italia a far risorgere i fasti della tragedia greca, si riuscì però a farne riemergere le motivazioni : il teatro era nuovamente un evento sociale, anche quando circolava sotto forma di libro. Si leggano, a tal proposito, le parole di Pindemonte rivolte a Paolina :  











Riguardo alla letteratura, il libro di cui si parla più qui, e che deve per l’argomento interessar voi, è il primo tomo delle tragedie del conte Alfieri, di cui si parlava a Milano quando io v’era, e che lessi appunto colà. Forse l’avete veduto. Certamente queste tragedie hanno più bellezze che difetti, e si distinguono particolarmente per forza di caratteri e di sentenze, e per grande semplicità di condotta. 2 1

  M. Baratto, La letteratura teatrale del Settecento in Italia, Verona, Neri Pozza, 1985, p. 12.   Lettera datata 8 giugno 1783, stampata in Labus, cit., p. 75.

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Capitolo IV SCENE PUBBLICHE E DRAMMATURGIA FEMMINILE : IL MELODRAMMA  

iv. 1. La tragedia cantata

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l Settecento vide nascere e svilupparsi la drammaturgia musicale « in senso moderno », 1 nella direzione, cioè, di un tipo d’opera in cui il testo letterario non fosse più l’unico responsabile del progetto teatrale nel suo complesso. Il nodo centrale della questione era il ruolo della musica all’interno di tale progetto : nel melodramma d’inizio Seicento essa era sicuramente ancillare alla parola ; ma nel corso del secolo il canto prese il sopravvento, relegando in secondo piano il testo letterario. Pertanto, nel primo ventennio del Settecento, Apostolo Zeno varò una riforma librettistica che ridimensionasse la componente musicale e restituisse alla parola il suo ruolo nell’economia del melodramma. Il poeta fu mosso dunque primariamente dalla volontà di restituire ai testi nati per il teatro musicale una dignità letteraria fondata su criteri di verosimiglianza e razionalità, di matrice arcadica ed illuministica. 2 Analizzando il progetto di Zeno sotto il profilo strutturale, obiettivi primari furono coerenza e unità stilistica del dramma, in contrasto con gli esiti dell’opera seicentesca, che « aveva costruito attorno al nucleo centrale del tema amoroso uno spettacolo ridondante, sfarzosamente scenografico, pieno di episodi decorativi e rispondenti all’unico criterio della varietà spettacolare ». 3 Nella prassi del secolo xvii era ormai svolto sulla scena secondo un convenzionalismo di modi che favoriva solo l’esecuzione musicale, inceppando il libero svolgersi dell’azione poetica. Pertanto, la discussione settecentesca sul melodramma nacque dal desiderio di contrastare questa prassi, appellandosi ad un sistema formale in cui poesia, musica e spettacolo si potenziassero reciprocamente e concorressero ad un medesimo fine, di natura etica. L’intento del melodramma « riformato » fu anche quello di evitare l’alternanza di serio e di comico e la « divaricazione di registri espressivi » 4 presenti nell’opera barocca, agendo, in primo luogo, sull’apparato allegorico-mitologico, come sull’elemento soprannaturale, al fine di ridimensionare la spettacolarità a vantaggio di una « rigorosa linearità d’impostazione » 5 più consona alla trasmissione di valori morali. Il pensiero di Zeno, indirizzato verso una rivalutazione delle qualità etico-estetiche del libretto era infatti quello di accostare il melodramma al modello tragico, almeno nei contenuti, preservando, però, l’happy end, che  























1   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, cit., p. 1123 ; cfr. anche L. Bianconi, Introduzione, in La drammaturgia musicale, a cura di L. Bianconi, Il Mulino, Bologna, 1986, pp. 7-51. 2   Si legga E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, Torino, Einaudi, 1990, p. 11 : « Vi è un che di paradossale nella storia della musica e delle idee musicali nel Sei-Settecento : da una parte si osserva in tutta l’Europa un rigoglioso sviluppo della musica in tutte le sue nuove forme vocali e strumentali nate dalla disgregazione del mondo della polifonia rinascimentale ; dall’altra un’ostinata negazione della sua esistenza ». 3   P. Gallarati, Zeno e Metastasio tra melodramma e tragedia, in Metastasio e il melodramma, a cura di E. Sala Di Felice e L. Sannia Nowé, Atti del seminario di studi, Cagliari 29-30 ottobre 1982, Padova, Liviana, 1985, p. 90. 4 5   Ibidem.   Ivi, p. 90.  











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nel teatro musicale era obbligo di genere. 1 Nei libretti del maestro (come, successivamente, in quelli di Metastasio 2), l’intento compositivo si concentrò, dunque, sulla corrispondenza parola/musica, nell’ottica di una ritrovata verosimiglianza dell’azione. Riassumendo dunque la vicenda dell’opera settecentesca, il testo poetico, percepito ancora all’inizio del secolo come prodotto letterario abbellito dalla musica, alla sua fine divenne « libretto » d’Opera, vale a dire « uno scheletro destinato a sorreggere l’organismo drammatico definito dalla musica ». 3 La componente musicale stessa iniziò allora a plasmare i personaggi e i loro rapporti, come pure « l’andamento dell’azione, il tempo e lo spazio dello spettacolo, il ritmo interiore e quello esteriore della vicenda ». 4 Nata nel Seicento, in concomitanza con il dramma shakespeariano e la tragedia raciniana, l’Opera si trovò, fin dalle origini, a subire il confronto pressante con il teatro di prosa, ma, nel corso del secolo successivo, essa si emancipò decisamente, liberandosi progressivamente dai vincoli ideologici e strutturali che allo stesso teatro la legavano. Il dibattito sul melodramma si è nutrito pertanto, nel corso del Settecento, di un fitto ed inestricabile intreccio interdisciplinare, coinvolgendo scrittori, musicisti, uomini di spettacolo e filosofi. La storia del teatro e la storia dell’opera di questo secolo sono strettamente legate e diviene difficile studiare l’una senza imbattersi nell’altra, visto che molti librettisti furono anche drammaturghi e numerosi cantanti influenzarono profondamente lo stile di recitazione dell’epoca. Del resto, esisteva già una forma di spettacolo seicentesca in cui l’artista in scena riassumeva in sé le qualità della cantante e dell’attrice : Isabella Andreini, Virginia Ramponi, e Vittoria Piissimi ne furono esempi celebri. Si può a ragione sostenere, infatti, che le prime cantanti ad esibirsi pubblicamente per un pubblico pagante fossero proprio le comiche dell’Arte. Rimanendo in ambito interdisciplinare, si considerino, dal punto di vista letterario, le innovazioni metriche che il poeta savonese Gabriello Chiabrera inaugurò, all’inizio del xvii secolo, proprio « a richiesta di musici ». 5 Le sue strofette di versi brevi, rimati fra loro, con struttura a refrain, s’ispiravano ai metri greci, rappresentando, così, esperimenti di metrica barbara che stabilivano la musicabilità come principio fondante del verso. La parola si faceva, dunque, canto e la “cantabilità” diventava qualità della parola poetica, decretando la fortuna della canzonetta anacreontica nel melodramma sei-settecentesco. 6 Ai “recitativi” intessuti di versi sciolti, endecasillabi e settenari, si alternavano pertanto “arie” costruite su strutture strofiche di versi brevi fra cui, per la prima volta, anche i parisillabi assumevano dignità letteraria. Le innovazioni metriche varate da Chiabrera ebbero del resto grande fortuna nelle arie metastasiane, in un processo osmotico fra musica e poesia che segnò in maniera significativa il grande successo del melodramma in Italia. Esiste indubbiamente una specificità che la presenza della musica apporta all’aspetto drammaturgico del testo, dovuta anche al fatto che le parole vengono sovente ripetute, decretando una diversa scansione del tempo drammatico. Esemplificativa in questo senso è la trasformazione subita dall’aria a partire dalla fine del Seicento : come osserva Paolo Fab 



















1   Cfr. E. Sala Di Felice, Zeno : da Venezia e Vienna ; dal Teatro impresariale al teatro di corte, Firenze, Olschki, 1990. 2   Cfr. La cultura fra Sei e Settecento. Primi risultati di una indagine, a cura di E. Sala Di Felice, L. Sannia Nowé, Modena, Mucchi, 1994 ; Il melodramma di Pietro Metastasio : la poesia la musica la messa in scena e l’opera italiana del Settecento, a cura di E. Sala Di Felice, R. Caira Lumetti, Roma, Aracne, 2001. 3 4   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1124.   Ibidem. 5   L’espressione si trova nella prefazione a Maniere de’ versi toscani, pubblicati il 27 febbraio 1599 ; con le medesime intenzioni, il poeta pubblicò anche gli Scherzi e Canzonette Morali. Ora si leggono entrambe le raccolte in Maniere, Scherzi e Canzonette Morali, a cura di G. Raboni, Parma, Guanda, 1998. 6   Cfr. A. Frattali, Lo Scherzo Barocco nel secolo del « recitar cantando », in I luoghi dell’immaginario barocco, (Siena, 21-23 ottobre 1999), a cura di L. Strappini, Napoli, Liguori, 2001, pp. 261-272 ; Idem, Lo Scherzo Barocco : origine poetiche e prime espressioni un musica, « Soglie », iv, n. 3, dicembre 2002, pp. 28-42.  





















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bri, l’« intercalare » o « ritornello », ripetuto circolarmente « da capo », a fine stanza, era stato esposto ad un processo di dilatazione. Esso si era dunque via via ritagliato « una propria compiutezza melodico-armonica tale da farne un membro sempre più autonomo dell’articolazione formale ». 1 Questo processo portò progressivamente alla stesura di un’aria bipartita, cioè organizzata in due sezioni per lo più asimmetriche con i rispettivi versi in clausola rimati fra loro ed autonome dal punto di vista concettuale. La struttura dell’aria A-B-A’ risultava dunque « temporalmente bloccata » : 2 la ripresa della prima parte, che ripeteva le parole dell’inizio, riportava infatti il personaggio al punto da cui era partito, « mandando in fumo qualsiasi tentativo di evoluzione sentimentale ». Il tempo della musica andava a sovrapporsi, dunque, al tempo della recitazione, opponendo la circolarità alla linearità ; da qui nacquero molti interrogativi, tra i quali, il primo riguardava l’effettiva compatibilità del canto con le ragioni del teatro. Le riforme librettistiche di Zeno e Metastasio nacquero in prima istanza per rispondere a questa domanda, con l’obiettivo di ristabilire con chiarezza i ruoli di musica e testo nell’economia dello spettacolo d’opera. Se Zeno arrivò (in fine di carriera) a rifiutare addirittura l’unione di musica e teatro, considerando impossibile per il melodramma raggiungere l’alto livello espressivo della tragedia recitata, diversamente, Metastasio vide nella musica una nuova potenzialità espressiva che aggiungeva (anziché sottrarre) valore al testo drammatico stesso. Il cuore del dibattito stava nel modo di intendere la mimesis aristotelica, dogma indiscusso quanto ambiguo e soggetto a diverse interpretazioni almeno sino alla seconda metà del Settecento. La musica, in effetti, presentava « un’altra anomalia rispetto al mondo riconosciuto delle arti belle » : 3 l’imitazione della natura veniva da essa esercitata in maniera estremamente ridotta – cioè a livello onomatopeico - « o in maniera nebulosa e confusa sotto forma di imitazione dei sentimenti ». Partendo da un concetto già esistente nella polifonia rinascimentale, quello di pittura sonora 4 o madrigalismo, secondo il quale la linea melodica e la struttura armonica sottolineavano i concetti espressi dal testo poetico, Metastasio intuì fra i primi nel suo secolo che la musica poteva costituire un surplus di significato, di cui il semplice testo da recitare era privo. Ma a tali acquisizioni il poeta romano giunse attraverso una strada già aperta da Apostolo Zeno con le sue modifiche apportate alla drammaturgia dei libretti nella prima metà del Settecento. Tentando di conferire almeno un ordine ai rapporti fra musica e dramma, Zeno 5 collocò le arie, ovvero i momenti di sospensione del tempo lineare della fabula, prevalentemente a fine scena, favorendo così il graduale imporsi dell’ingresso 6 (brano intona 





































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  P. Fabbri, Metro e canto nell’opera italiana, Torino, edt, 2007, p. 41.   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1126. 3   E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, cit., p. 17. 4   La produzione madrigalistica del Rinascimento (e, in misura minore, i mottetti e le messe dello stesso periodo) era stata il luogo tipico di tali espedienti (i “madrigalismi”, appunto), che trovavano proprio fondamento estetico nella teoria dell’imitazione della natura e ragion d’essere in una musica i cui destinatari fossero in primo luogo gli esecutori stessi. Così, nei madrigali e mottetti del xvi secolo, esisteva una classe di motivi in cui l’immagine visiva delle note supportava e rinforzava quella uditiva della musica o, al limite, produceva un’immagine parallela. L’espediente più diffuso era l’impiego, al di là dei principi mensurali del color, delle note bianche e nere come traduzione visiva di vocaboli quali “chiaro”, “luce”, “giorno”, o “tenebre”, “oscuro” e simili. E nell’impiego di scale ascendenti o discendenti in corrispondenza di vocaboli evocanti l’idea del “salire” o del “discendere” si può cogliere l’intenzionalità grafica che si sovrappone, spesso con valore prioritario, all’immagine musicale : Cfr. A. Einstein, The Italian Madrigal, Princeton, Princeton University Press, 1971, p. 235. 5   In realtà, la “riforma” del libretto attribuita generalmente al solo Zeno fu il risultato di un movimento collettivo che vide importanti contribuiti anche da parte di altri librettisti della prima metà del secolo. Per una ricognizione critica sull’argomento, cfr. f. giuntini, I drammi per musica di Antonio Salvi. Aspetti della « riforma » del libretto nel primo Settecento, Bologna, Il Mulino, 1994, in particolare, p. 9, nota 1. 6   Cfr. a questo proposito p. j. martello, Della tragedia antica e moderna [1714], in Scritti critici e satirici, a cura di H. S. Noce, Bari, Laterza, 1963, pp. 186-313. 2







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to dal cantante prima di entrare tra le quinte) sull’escita (brano intonato ad inizio scena, dopo l’uscita dalle quinte). Quest’accorgimento strutturale aveva la finalità d’interrompere il meno possibile lo svolgimento dell’azione e di presentare, allo stesso tempo, l’espressione statica dell’affetto come una normale conseguenza di ciò che era accaduto prima. I fatti avvenivano nelle sezioni di recitativo secco, dove i dialoghi, appena intonati, erano sostenuti dall’accompagnamento musicale del solo basso continuo. Metastasio fece tesoro di questo processo di “regolarizzazione” voluto dal suo predecessore alla corte viennese, affidando al recitativo lo svolgimento di un intreccio complesso, ma svolto in maniera organica e conseguente. Come osserva Gallarati, in questo tipo di dramma sono attivati, alternativamente, « due canali percettivi : quello verbale del testo dei dialoghi e quello musicale delle arie ». 1 Mentre i versi sciolti dei recitativi trapassano in quelli rimati delle arie, l’azione si sposta infatti sulla contemplazione e « il tempo oscilla tra la velocità del dialogo e la staticità dell’aria ». 2 In questa doppia natura consisteva per Metastasio 3 la specificità del melodramma rispetto alla tragedia ; il grande poeta (ma anche uomo di teatro estremamente attento ai meccanismi drammaturgici dei suoi libretti) riteneva che la forza di tali testi consistesse proprio nel fatto che ad essi si aggiungesse la musica. La componente ludica o edonistica diventava così fondamentale innesco di un meccanismo di decodificazione da parte dello spettatore, che lo conduceva dolcemente ad assimilare un messaggio di natura etica « basato sul riconoscimento di una spinoziana armonia cosmica ». 4 Fin dalle sue origini, il melodramma si è confrontato con la tragedia antica, vedendo nel teatro greco dell’età periclea il punto d’intersezione ideale fra recitazione e musica, fra testo drammatico e azione. Gli esperimenti della Camerata de’ Bardi a Firenze agli inizi del xvii secolo erano volti proprio al recupero di quel sottile equilibrio fra canto e declamazione che nella Grecia antica sembrava essere realmente esistito. Tuttavia, l’apparato musicale di quei drammi era andato irrimediabilmente perso nei secoli successivi a causa della mancanza di un sistema di notazione tramandabile e l’unica testimonianza di ciò che era stato sopravviveva solamente nella differenziazione dei metri all’interno del testo drammatico. In Italia, già alla fine del Cinquecento ci furono esperimenti tesi verso la restaurazione della tragedia classica, ripristinando l’antica unione di musica e parole. Si ricorda l’opera di Andrea Gabrieli allorquando venne aperto, nel 1585, il Teatro Olimpico di Vicenza : per la rappresentazione inaugurale dell’Edipo tiranno di Sofocle, nella traduzione di Orsatto Giustiniani, compose la musica per i “Cori” in stile omoritmico, accordale, declamatorio. 5 L’ambizione umanistica di resuscitare antiche forme di spettacolo unita all’assunzione di forme teatrali attuali e convenienti arrivò progressivamente a definire, dunque, un nuovo stile monodico e a determinare una corretta maniera di recitar cantando. Molti furono, all’inizio del Seicento, i tentativi in questo senso : dalla Rappresentazione di Anima e di Corpo nell’oratorio filippino della Chiesa Nuova a Roma, con le musiche di Emilio de’ Cavalieri, alla messa  



















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  P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1127.   Ibidem. Cfr. anche id., Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, Torino, edt, pp. 19-51. 3   Cfr. E. Sala Di Felice, Metastasio. Ideologia, drammaturgia, spettacolo, Milano, Franco Angeli, 1983. La studiosa sostiene (p. 14) che, il poeta romano, pur caldeggiando un’idea logocentrica di teatro in cui fosse il tessuto verbale (non necessariamente scritto, anche solo detto, recitato o cantato) l’unico capace di generare la fabula agenda, fosse artista dotato di specifiche doti teatrali. Tali doti avrebbero favorito « la diffusione di uno stile metastasiano, anche musicalmente individuato, che poggiava evidentemente sull’efficacia della suggestione che dai libretti s’irradiava sulle altre componenti dello spettacolo ». 4   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1127. 5   Cfr. N. Pirrotta, Andrea Gabrieli e i cori dell’« Edipo Tiranno », in Scelte poetiche di musicisti, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 46-63. 2









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in scena a Firenze, per le nozze di Maria de’ Medici ed Enrico IV di Francia, dell’Euridice di Ottavio Rinuccini, sulla musica di Jacopo Peri. 1 Nel xviii secolo il problema se la tragedia greca fosse interamente cantata o se si cantassero solo i cori iniziò ad assillare anche gli stessi teorici della tragedia settecentesca. Tale problematica acquistò nuova forza in tutta Europa « grazie alla fortuna del melodramma e ai tentativi di giustificarlo o di condannarlo come corruttore del buon gusto e della funzione mimetica dell’arte ». 2 Attenendoci all’ambito italiano Ludovico Antonio Muratori, prima di decidere di eliminare la Dissertazione musicale dal suo trattato sulla perfetta poesia italiana, aveva espresso la convinzione che i cori fossero cantati, ma che i dialoghi « fossero accompagnati da una diversa intonazione ritmica più vicina alla declamazione ». 3 Pier Jacopo Martello nel suo L’impostore o Della tragedia antica moderna arrivò ad esporre la medesima teoria ; tuttavia, la posizione di Martello di fronte ai Greci è decisamente a favore dei moderni, prendendo a pretesto la riflessione sulla musica antica « per giustificare l’introduzione in Italia del verso corrispondente all’alessandrino francese », 4 il martelliano, più adatto alla declamazione. Per rispondere alle accuse d’inverisimiglianza, emerge la preoccupazione costante, da parte dei teorici del melodramma e non solo, di dimostrare che la tragedia antica fosse interamente cantata, visto che proprio su tale eventualità si basava la rivalutazione esteticomoralistica dell’opera in musica. Il confronto con i Greci rimase dunque di primaria importanza (almeno sino alla fine del secolo) per rispondere a chi sosteneva l’inverosimiglianza del melodramma a causa della presenza del canto. Nel suo Saggio sopra l’opera in musica, Francesco Algarotti (già ricordato come autore del Newtonianismo per dame 5), per la prima volta, dava come certa la derivazione del melodramma dall’antica tragedia : « l’intendimento de’ nostri poeti fu di rimettere sul teatro moderno la tragedia greca, d’introdurvi Melpomene accompagnata dalla musica, dal ballo e da tutta quella pompa che a’ tempi di Sofocle e di Euripide solea farle corteggio ». 6 Naturalmente, anche Metastasio riprendeva la questione nel suo Estratto dell’arte poetica d’Aristotele, riferimento costante per tutti i teorici dell’epoca, arrivando ad esporre una vera e propria « prova “fisica” della necessità del canto nella tragedia » : 7  

























Ora una voce che, per essere udita da un popolo a cui si parli, dee essere così eccessivamente dal suo natural sistema alterata, ha bisogno d’esser regolata diversamente nel diverso ordine delle nuove sue proporzioni […]. Questo nuovo regolamento è la musica : e questa musica è così necessaria a chi parla ad un pubblico, che, se l’arte non la somministra, la suggerisce la natura8.  

La questione della mimesis si riproponeva dunque con forza nella poetica metastasiana : « or avendoci Aristotele insegnato e provato non esser la poesia che una imitazione, per poter far uso profittevole della cognizione di questa indubitata verità è necessario di avere un’idea chiara e distinta della natura per correre il rischio di attribuire ad essa gli oggetti, gli obblighi e le funzioni della copia ». 9 Come si legge, ad essere messo in discussione è ora il concetto stesso di natura ovvero di ciò che l’arte debba effettivamente imitare e sempre più spesso i filosofi del secolo « si servono del termine espressione non in alternativa o in opposizione  







1   Cfr. C. Gallico, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, Torino, edt (1978), 1991, p. 113 ; L. Bianconi, Il Seicento, Torino, edt (1987), 1991. 2   F. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., p. 217. 3 4   Ivi, p. 218.   Ivi, p. 221. 5   F. Algarotti, Newtonianismo per dame ovvero dialoghi sopra la luce e i colori, Napoli, 1737. 6   Idem, Saggio spora l’opera in musica (1762), ora in Idem, Saggi, a cura di G. Da Pozzo, Bari, Laterza, 1963, pp. 152-153. 7   F. Mattioda, Teorie della tragedia nel Settecento, cit., p. 229. 8 9   P. Metastasio, op. cit., in Opere, cit, vol. ii, pp. 977-978.   Ivi, p. 982-983.  

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ad imitazione, ma interscambiando i due termini come sinonimi o quasi ». 1 Proprio a partire dalla riflessione sulla musica, sembrerebbe profilarsi l’idea che imitare la natura possa significare anche imitare i sentimenti dell’uomo. Riprendendo la questione del confronto con i Greci, occorreva giustificare l’happy end del dramma in musica, impresa, tuttavia, non difficile, visto che, verso la metà del Settecento, il lieto fine si era largamente esteso anche al repertorio tragico italiano. Rifacendosi al citato principio di giustizia poetica, Antonio Planelli 2 sosteneva infatti, alla fine del secolo, che il melodramma (col conseguente esito felice) migliorasse la stessa tragedia, rendendola fruibile al pubblico moderno che non poteva sopportare il bagno di sangue finale. Dello stesso avviso, come abbiamo letto in precedenza, era stato anche Pietro Metastasio, ritenendo l’happy end la più degna conclusione di un dramma in una società civilizzata nei costumi, grazie all’introduzione della morale cristiana. Inutile ricordare che nei libretti metastasiani il principio di giustizia poetica con l’equa distribuzione di premi e condanne è garantito (a livello di meccanismi drammaturgici) da un “buon sovrano” illuminato, una risposta settecentesca al tiranno del mondo greco. Ranieri de’ Calzabigi nella sua Dissertazione su le poesie drammatiche del sig. abate Pietro Metastasio 3 si rifaceva ancora una volta alla Grecia classica, verificando la sopravvivenza o meno delle regole aristoteliche nel dramma per musica nato da Apostolo Zeno e fissato da Metastasio. 4 Riguardo alle poesie di quest’ultimo, affermava : « adornate di musica sono poesie musicali ; ma senza l’unione di questo ornamento sono vere, perfette e preziose tragedie da compararsi alla più celebri di tutte le altre nazioni ». 5 Secondo Calzabigi, il poeta romano poteva essere la vera risposta italiana alla tragedia francese del grand siècle, almeno nel 1755, l’anno della Dissertazione ; in seguito, infatti, nella sua Risposta di don Santigliano 6 sembrò capovolgere tutte le posizioni assunte in merito, tacciando l’opera metastasiana d’illegittimità estetica. 7 Di quest’ultimo tenore anche il giudizio (prettamente letterario) di Bettinelli che nel suo Discorso sulla poesia italiana, più o meno negli stessi anni, addirittura compiange il poeta cesareo per essersi dedicato al genere melodrammatico, piegando la poesia alle esigenze della scena. Alfieri, alla fine del secolo, accantonò con decisione la questione della tragedia cantata sostenendo, in una lettera allo stesso Calzabigi, che non riguardasse in alcun modo i tragediografi moderni : « Ma se la tragedia, signor Calzabigi stimatissimo, non canta fra i moderni, poco sappiamo se cantasse fra gli antichi ; e poco altresì importa il saperlo ». 8 Il tragediogra 



















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  E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, cit., p. 19.   A. Planelli, Dell’opera in musica. Trattato, Napoli, Campo, 1772. 3   Apparve come introduzione alle Opere di Metastasio nell’edizione curata da Calzabigi stesso, Parigi, Quillan, 1755-1769, ora si legge in R. de’ Calzabigi, Poesie, Livorno, Stamperia dell’enciclopedia, 1774, vol. ii. 4   Cfr. p. gallarati, Calzabigi e il ‘caso Metastasio’, « Nuova Rivista Musicale Italiana », xiv, 1980, pp. 497-538 ora in Idem, L’Europa del Melodramma. Da Calzabigi a Rossini, Torino, Edizioni dell’Orso, 1999. 5   R. de’ Calzabigi, Poesie, cit., p. 151. 6   Idem, Risposta che ritrovò casualmente nella gran città di Napoli il licenziato Don Santigliano di Gilblas, y Guzman, y Tormes, y Alfarace discendente per linea paterna, e materna da tutti quegli insigni Personaggi delle Spagne ; alla critica ragionatissima delle Poesie Drammatiche del C. de’ Calsabigi, fatta dal Baccelliere D. Stefano Arteaga suo illustre compatriotto, Venezia, Dalla Stamperia Curti, 1790, ora in Idem, Scritti teatrali e letterari, a cura di A. L. Bellina, 2 tt., Roma, Salerno, 1994. 7   Paolo Gallarati, nel suo saggio dedicato all’argomento, mette a confronto, punto per punto, i due testi programmatici di Calzabigi ritenuti tradizionalmente dalla critica letteraria contradditori fra loro. Lo studioso ne rileva, al contrario, la complementarietà sostenendo che la Dissertazione presenti quelli che per Calzabigi sono gli aspetti positivi dei drammi metastasiani e che la Risposta proceda in modo speculare. Se il primo scritto esalterebbe gli aspetti razionalisti del teatro metastasiano, il secondo ne condannarebbe quelli barocchi : due facce dunque della stessa medaglia. 8   V. Alfieri, Risposta dell’autore, in Idem, Parere sulle tragedie e altre prose, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978, p. 230. 2









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fo piemontese individuava infatti nel melodramma la sostanziale congiunzione tra piacere musicale e appagamento morale dello spettatore ; tale appagamento era causato proprio dal lieto fine. Nel lieto fine Alfieri (e non solo lui, come abbiamo osservato in precedenza) vedeva però l’indebolirsi dello spirito tragico ; la « tragedia cantata » procurava, infatti, non « l’entusiasmo libertario, ma l’assopimento dell’animo ». 1 Si preannuncia così l’avvento di un nuovo paradigma estetico, volto a valorizzare la passione e l’emotività ; quello che per Diderot è il passaggio dall’estetica dell’imitazione a quella dell’espressione. 2 In tale mutato orizzonte, il melodramma dovrà trovare nuovamente la sua giustificazione di genere, giustificazione ormai lontana dalla filologia e dal confronto con gli antichi. Al di là delle questioni di poetica sin qui esposte, con il procedere del secolo l’Opera, nella sua doppia veste di seria e comica (ma in questa sede ci occuperemo esclusivamente di quella seria), aveva assunto le caratteristiche di un’impresa economica e dato vita ad un sistema produttivo condizionato dalle leggi del mercato e della moda. Fra la seconda metà del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, una posizione di primo piano spettava dunque ai cantanti e alla loro tecnica vocale, definita bel canto, vale a dire stile particolarmente ricco di fioriture e di abbellimenti. 3 Su richiesta del pubblico pagante attratto da questi nuovi divi del palcoscenico, le arie avevano ripreso spazio nell’economia del dramma e il da capo veniva sovente sfruttato dagli interpreti per dare prova di virtuosismo vocale. Questa prassi dilagante spinse Metastasio, nel 1765, a dichiarare, nella lettera a Giovanni di Chastellux, che la musica doveva nuovamente servire la poesia o sparire dal teatro, limitandosi « a regolare l’armonia d’un concerto, o a secondare i passi d’un ballo, ma senza impacciarsi più de’ coturni ». 4 I delicati equilibri fra musica e dramma erano nuovamente sfuggiti al controllo dei “riformatori” e con l’andare del secolo il progetto di rappresentare il tragico in musica andò via via perdendosi nella complessa macchina dello spettacolo settecentesco. Le perplessità suscitate dai meccanismi di cui il dramma musicale si serviva generarono due ordini di reazioni : da un lato coloro (principalmente librettisti) che mettevano in scena vere e proprie parodie o satire dell’opera seria ; dall’altro, letterati che pubblicavano saggi e trattati in cui mostravano seria preoccupazione per il destino del melodramma. Fra i primi ritroviamo i nomi di Pietro Metastasio, 5 Giovanni De Gamerra, 6 Francesco Albergati Capacelli, 7 ma soprattutto Carlo Goldoni 8  





















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  Ibidem.   D. Diderot, Sulla poesia drammatica, ora in Idem, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, 1980, p. 244 : « La platea del teatro è il solo luogo dove le lacrime dell’uomo e del malvagio si mescolino. Là il malvagio si irrita contro le ingiustizie che egli stesso ha commesso, compatisce i mali che ha causato, e s’indigna contro un uomo del suo stesso carattere. Ma l’impressione è fatta ; resta in noi, volenti o nolenti ; e il malvagio se ne va dal teatro meno disposto a fare il male che se fosse stato rimproverato da un oratore severo e duro. Il poeta, il romanziere, l’autore di teatro, vanno al cuore in modo indiretto, colpendo l’anima tanto più sicuramente e fortemente, in quanto essa si dispiega e si offre spontaneamente al colpo. Le pene che mi commuovono sono immaginarie, d’accordo ; però mi commuovono ». 3   Cfr. A. Basso, Storia della musica, Torino, utet, 2004, vol. ii, pp. 980-997. 4   Lettera a Francesco Giovanni di Chastellux del 15 luglio 1765, cit. in P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1128. 5   L’impresario delle Canarie (Napoli, 1724) è un testo satirico costituito di due intermezzi inseriti fra un atto e l’altro de La Didone abbandonata, messi in musica da Domenico Sarro che di quel primo dramma per musica del poeta romano era il compositore. 6   Il librettista livornese, nel pubblicare il testo della propria Armida (Milano, 1771) aggiunse alcune proprie Osservazioni sopra l’Opera in musica, sottolineando la necessità che il librettista possedesse anche competenze musicali. 7   Su tema compose due commedie : Il saggio amico del 1769 e Il ciarlatore maldicente. 8   Compose alcuni fra i più spiritosi libretti concepiti come parodia dell’opera in musica. Oltre ad un giovanile intermezzo rappresentato a Feltre con musiche di ignoto e intitolato La cantatrice, si ricordano : la commedia in tre atti Il teatro comico (Milano, 1750) ; il dramma giocoso Le virtuose ridicole (con musiche di Baldassarre Galuppi, Venezia, 1752) ; la commedia in cinque atti L’impresario di Smirne (Venezia, 1759) ; il dramma giocoso in tre atti La bella verità (musiche di Piccinni, Bologna, 1762). 2























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e Giuseppe Parini. 1 Da segnalare, in tale contesto, Simeone Antonio Sografi che diede alle stampe nel 1794 a Venezia la farsa Le convenienze teatrali, primo pannello del dittico concluso da Le inconvenienze teatrali e andato in scena a Padova nel 1800. Come vediamo, il passaggio di secolo avveniva sotto il segno delle convenienze ed inconvenienze teatrali, 2 dramma giocoso sui meccanismi del teatro che Donizetti (su testo di Domenico Gilardoni, rielaborato da Sografi ) musicò nel 1827. La crisi di metà secolo produsse « diversi tentativi di riforma che intendevano strappare la tragedia per musica al suo destino di opera-concerto e restituirle un carattere drammatico, riducendo e restringendo le arie, inserendo cori e balli per spezzare la rigida alternanza di cori e recitativi ». 3 In ambito francese, scoppiò una vera e propria guerra, destinata a durare due anni, dopo la messa in scena all’Opéra dell’intermezzo in due parti di Giovan Battista Pergolesi, La serva padrona. Si trattò della celebre Querelle des Buffons, 4 lunga contesa tra i sostenitori della superiorità dell’opera in musica francese e i partigiani dell’opera buffa italiana. Ma l’intervento più radicale in ambito europeo fu quello di Ranieri de’ Calzabigi e Cristoph Willibald Gluck, 5 che, a Vienna, con Orfeo ed Euridice (1762), Alceste (1767) e Paride ed Elena (1770), « realizzarono un nuovo tipo di opera seria, sfruttando la calamita della musica per attirare l’attenzione non solo sui momenti lirici, ma sul dramma stesso ». 6 Nella prefazione di Alceste, scritta a titolo programmatico, Calzabigi spiega la necessità di ridurre il divario tra recitativo ed aria, a suo avviso, principale responsabile della perdita d’interesse del recitativo stesso a vantaggio dell’esecuzione virtuosistica del pezzo chiuso. In direzione solo apparentemente opposta alla riforma metastasiana (diversi erano forse i mezzi, ma simili gli obiettivi), Calzabigi e Gluck spostarono dunque la collocazione dell’aria dalla chiusura di scena al centro del dialogo e costituirono il dramma in « vasti quadri scenici in cui i brani solistici, cori e balli, ripetuti a distanza » incarnavano « le tappe fondamentali dell’argomento mitico con un andamento solenne e rituale ». 7 Il recitativo secco fu poi sostituito con l’accompagnato, sostenuto quindi da micro-sezioni orchestrali ed intessuto di versi sciolti e liberamente rimati in modo da conferire interesse al dialogo. Sul piano dei contenuti, la complicata fabula dei testi metastasiani, basata sul fiorire delle vicende secondarie da quella principale, si trasformò nella semplicità e nella chiarezza rappresentativa dell’unica vicenda trattata dal poeta livornese nei suoi libretti. Intessuti su un’idea centrale simbolicamente rappresentata dal protagonista, gli intrecci di Alceste e Orfeo accantonavano quindi ogni elemento secondario per evidenziare la tesi sottesa ai due drammi : l’amore coniugale nel primo e la potenza del canto nel secondo. Se Paolo Gallarati sostiene che, analogamente a quelli di Metastasio, i drammi per musica di Calzabigi non si possono ancora definire “libretti” nel senso di testi drammatici strettamente connessi al loro abito musicale, si può a ragione dire che l’Opera si spostava, tra xviii e xix secolo, in questa direzione. Per la prima volta, infatti, dalla nascita di questo genere teatrale, poeta e musicista lavoravano in maniera sinergica (e non separatamente) per pro 

















1

ca.

  Autore di poesia satirica sull’argomento. Si ricorda l’ode L’evirazione ( 1769) diffusa sotto il titolo de La musi-

2   Il dramma musicato da Gaetano Donizetti è stato oggetto di una recente ripresa presso il Teatro alla Scala di Milano, per la regia dell’attore Antonio Albanese. La direzione è di Marco Guidarini, le scene di Leila Fteita e i costumi di Elisabetta Gabbione. 3   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1128. 4   Cfr. A. Jona, L’opera italiana in Francia e la Querelle des Buffons, « Quaderni di Teatro », viii, n. 29, 1985, pp. 33-34 ; M. Cooper, L’opera in Francia, in Storia della musica, Milano, Feltrinelli, 1962, vol. iii, p. 225 ; R. Tessari, Dai Lumi della Ragione ai roghi della Rivoluzione francese, cit., pp. 265-269 ; Idem, Teatro e spettacolo nel Settecento, cit., pp. 107162 ; E. Fubini, Gli Enciclopedisti e la musica, cit., pp. 25-28. 5   Sugli anni viennesi del musicista cfr. G. Pestelli, L’età di Mozart e di Beethoven, Torino, edt (1979), 1991, pp. 77-84. 6 7   P. Gallarati, La nascita della drammaturgia musicale, cit., p. 1129.   Ibidem.  











scene pubbliche e drammaturgia femminile: il melodramma

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durre un effetto globale in cui la musica completasse le pause del testo, sottolineandone anche i significati principali. Esperienza simile a quella, di poco successiva, che vide la collaborazione Mozart-Da Ponte nell’ambito della commedia in musica tardo-settecentesca. Si sono delineati sin qui, per sommi capi, alcuni aspetti del melodramma settecentesco che troveranno espressione concreta nella prossima analisi di alcuni esempi di libretti composti da drammaturghe per i teatri pubblici, coprendo cronologicamente il corso dell’intero secolo. In questo arco di tempo il pendolo oscilla tra poesia e musica alla ricerca di una difficile fusione che avverrà, con totale compiutezza, solo nell’opera ottocentesca. La drammaturgia musicale vera e propria appartiene al xix secolo, ma nasce e pone le sue fondamenta nel xviii, quando letterati e musicisti iniziano ad interrogarsi seriamente sulle implicazioni drammaturgiche dell’opera. Ci siamo concentrati unicamente sul nostro paese, tralasciando importanti manifestazioni d’oltralpe come la tragédie lyrique, 1 che pure ebbe grande influenza sulla riforma viennese di Gluck-Calzabigi. E ci siamo limitati alla disamina delle problematiche attinenti all’Opera seria, lasciando da parte l’Opera buffa, fenomeno dagli esiti grandemente significativi nel corso del secolo, che richiederebbe una trattazione a parte. In generale, abbiamo concentrato la nostra attenzione sui rapporti fra Opera seria e tragedia nel corso del Settecento, perché tali generi costituiscono il focus di questa ricerca sulla drammaturgia femminile, in continua oscillazione fra dimensione pubblica e dimensione privata. Qualche ambiziosa signora approda infatti alle scene pubbliche con il melodramma, genere in cui l’espressione dell’emotività diviene dominante, nonostante i tentativi teorici di ingabbiare musica e libretto in categorie precostituite. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che l’opera in musica si confaccia particolarmente ad una drammaturgia femminile che trova spazio nei teatri veneziani e milanesi ; d’altro canto, la tragedia rimane perlopiù confinata nell’ambito accademico, o delle recitazioni di collegio o in teatri privati, a causa forse degli ostacoli sociali che impedivano ad una donna sposata di contrattare con capocomici e impresari. Diversamente, nell’opera, la prassi settecentesca voleva libretto e musica composti in tempi diversi, azzerando spesso qualsiasi contatto diretto tra l’autore e i futuri esecutori della partitura musicale. 2 Nel xviii secolo la metafora teatrale si estende ai più diversi campi del sapere, il rito sociale diviene spettacolo e lo spettacolo diviene rito sociale, in un gioco di sguardi fertile di risultati artistici. Se il concetto di speculum sta alla base della poetica seicentesca, richiamandone sdoppiamenti e artificio, quello di théatron domina tutto il Settecento e la donna di cultura che guarda e si fa guardare diviene indiscutibilmente nuova protagonista del suo salon, del rito sociale, delle scene.  

iv. 2. L’ Agide e l’ Elenia di Luisa Bergalli : passioni femminili e conflitti maschili  

Esamineremo, in questa sede, due drammi per musica di Luisa Bergalli3 appartenenti agli anni venti del Settecento, ovvero alla sua fase produttiva antecedente al matrimonio con Gasparo Gozzi, dopo il quale la vena creativa sembrò in parte inaridirsi. Così Maria Mioni descrive la gioventù della poetessa, così fertile di successi letterari :  

1   Cfr. P. Gallarati, La Lulliade e lo scontro con l’opera francese, « Nuova Rivista Musicale Italiana », xiii, 1979, pp. 531-563, ora si legge in Idem, L’Europa del melodramma, cit., pp. 23-66. 2   Diverso il caso di Metastasio alla corte viennese, che sovrintendeva personalmente alle messe in scena in quella sede, anche se non poteva intervenire sovente nelle numerosissime riprese dei suoi fortunati libretti. 3   Cfr. A. Frattali, La drammaturgia per musica di Luisa Bergalli : L’Agide e l’Elenia, « Ariel », xxiii, 2, 2008, pp. 83-101.  









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capitolo iv

[...] passò, dunque, la sua giovinezza studiando severamente, in una dolce intimità coi suoi maestri, sprezzante della vita gioconda e frivola delle giovinette dell’età sua, e, raro esempio di attività, in un tempo di ozii infecondi, a ventidue anni appena, nel 1725, diede prova non ispregevole del suo ingegno con l’Agide re di Sparta, dramma per musica, che fu anche il primo, scritto da donna. 1

Nel 1725, Apostolo Zeno si ritirò infatti all’ultimo momento da una commissione per il teatro Giustiniano di San Moisé, lasciando andare in scena a Venezia, al suo posto, l’Agide re di Sparta2 dell’allieva Luisa Bergalli, su musica di Giovanni Porta, che ottenne buoni consensi, tra cui un elogio comparso poco dopo sul « Giornale dei Letterati d’Italia ». Lo Zeno riporta le parole di una persona dotta (probabilmente egli stesso, ma l’elogio non è firmato) relative al melodramma in oggetto : « Scrive la signora Luisa, con facilità, con chiarezza e dolcezza di verso e con elevatezza e verità di sentimenti e pensieri ». 3 Nel 1730 il successo fu replicato, al teatro Sant’Angelo, dall’Elenia, 4 musicata da Tommaso Albinoni. Testimonia il credito di cui la scrittrice godeva nella società veneziana colta del tempo anche l’epistolario di Metastasio ; 5 da qui si evince che, presso l’amministrazione austriaca, fu proprio l’intercessione della poetessa (autrice di un’azione sacra rappresentata a Vienna) a mettere in moto il tentativo (poi fallito) di far assumere il marito Gasparo alla direzione delle poste di Venezia, nel 1770. 6 Da queste premesse si capisce come la Bergalli fosse pienamente inserita in un ambiente intellettuale dove si discutevano i principi fondanti di una « nuova » drammaturgia basata sulla centralità della parola per la scena, nella linea di riforma tracciata proprio da Apostolo Zeno. Le scene veneziane rappresentavano inoltre una tappa obbligata per i più grandi drammaturghi e musicisti del secolo e le esigenze del pubblico pagante, degli impresari e delle compagnie influenzavano profondamente il lavoro dei letterati che approntavano i testi. Pertanto Venezia, « ove la musica era il parlar famigliare », si configurava come città dove poteva accadere che « uno spirito femminile intento ad ogni manifestazione d’arte, si lasciasse trarre dalla corrente melodiosa della poesia musicale ». 7 L’interesse della Bergalli per la drammaturgia è da collocare pienamente i quel dibattito sul rinnovamento del teatro italiano, che ha coinvolto molti dei ricordati intellettuali del periodo, a livello nazionale, come Muratori, Zeno, Metastasio e Goldoni. Alcune idee portanti della « riforma » del melodramma sono dunque riconoscibili nei due  



























1

  M. Mioni, Una letterata veneziana del secolo xviii, cit., p. 24.   Si riporta l’elenco degli interpreti e degli altri collaboratori di scena, che compare alle pp. 8,9 del testo a stampa : Agide re di Sparta, il Sig. Angelo maria Cantelli, virtuoso di S. A. S. il Sig. Principe di Mantova ; Timocla, la Sig. Chiara Orlandi mantovana ; Damida, Il Sig. K. Antonio Gaspari veneto, virtuoso di S. A. S. il Sig, Principe di Armestat ; Antianira, la Sig. Stella Fortunata Cantelli ; Filoastro, la Sig. Anna Giro mantovana ; Gilippo, il Sig. Felice Novello veneziano. La musica è del famoso Sig. Giovanni Porta. 3   C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., 32. 4   Si riporta l’elenco degli interpreti e degli altri collaboratori di scena, che compare alle pp. 8,9 del testo a stampa : Teseo, il Signor Casimiro Pignoti di Recanati virtuoso di S. M. Reale di Polonia, ed Elettorale di Sassonia ; Elenia, La Sig. Giovanna Gasparini bolognese virtuosa di S. A. S. il Sig. Principe Filippo Langravio d’Assia d’Armstat ; Ariana, la Sig. Anna Maria Peruzzi bolognese virtuosa della Sereniss. Principessa Ereditaria di Modena ; Alindo, la Sig. Dorotea Loli bolognese virtuosa di S. A. S. il Sig Principe Filippo Langravio d’Assia d’Armstat ; Ismene, la Sig. Maria Santina Cattanea di Venezia ; Clearco, il Sig. Mariano Lena di Luca, virtuoso di S. A. Ser. Il Sig. Prencipe Filippo Langravio d’Assia d’Armstat ; Pirito, il Sig. Lorenzo Moretti di Venezia. Balli : Sign. Gaetano Grossatesta. Scene : Sign. Antonio Mauro Veneto. 5   P. Metastasio, Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1951-’54. 6   Cfr. L. Ricaldone, La scrittura nascosta. Donne di lettere e loro immagini tra Arcadia e Restaurazione, Fiesole, Cadmo, 1996, p. 195. 7   C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., p. 30. 2



































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libretti per musica composti dalla Bergalli tra il 1725 e il 1730 : l’Agide e l’Elenia. 1 Già nella prima opera, esito di un lungo lavoro preparatorio, « son seguite le norme d’arte che il maestro aveva affermate ». 2 Tra queste, sono state individuate nel testo : « semplificazione dell’intreccio, “conformità” dei caratteri, unità dell’azione, eliminazione o almeno riduzione dell’inverosimile » ; tuttavia, pur seguendo le linee generali tracciate dal programma di Zeno, il libretto mantiene caratteristiche sue proprie e « riflette gli interessi e la personalità della Bergalli, prima scrittrice a cimentarsi nel genere del melodramma ». 3 Sempre Apostolo Zeno, caldeggiando la scelta di personaggi eroici, nello stile dell’antica tragedia greca, così scrive a Luisa negli anni in cui la giovane inizia a cimentarsi col genere drammatico : « lodovi poi sommamente che, lasciati i soggetti favolosi e comuni vi siate appigliata agli eroici, i quali più degli altri portano la fantasia a dire cose grandi e sublimi e dove meglio s’intreccia col nobile l’amoroso ». 4 Tuttavia, pur traendo il suo nucleo storico dalla guerra fra Cassandro re dei Macedoni ed Agide re di Sparta, la vicenda, ispirata ad una novella di Giraldi Cinzio, 5 mette in evidenza l’ingegno delle donne e l’azione è incentrata sulla generosità di due figure femminili, Antianira e Timocla. L’antefatto racconta l’uccisione del re macedone da parte della valorosa guerriera spartana Antianira ; Agide, che aveva promesso grandi ricompense a chi gli avesse consegnato la testa del nemico, decide di premiare la vincitrice con la mano del proprio figlio, Damida. Ma il principe non può acconsentire alla richiesta del padre, perché innamorato della figlia del re ucciso, Timocla, condotta come schiava a Sparta. A questa complicazione, si aggiunge la gelosia di Gilippo, comandante d’armi di Agide, fermamente convinto di ostacolare l’amore di Damida e ad ottenere la mano della fanciulla prigioniera. Dopo aver cercato complicità in Antianira (delusa dal rifiuto del promesso sposo) e in Filoastro (antico amante della guerriera, ora messo da parte), lo spregiudicato Gilippo cerca di far condannare a morte Damida, con l’accusa di alto tradimento. Fortunatamente Antianira, supplicata da Timocla, riesce, con l’aiuto di Filoastro, a sventare la congiura e a salvare Damida dall’ingiusta morte. Il lieto fine vede le doppie nozze di Damida con Timocla e di Filoastro con Antianira, accostando felicemente un’unione dettata dall’amore ad una dettata dal dovere. L’intreccio è articolato in colpi di scena concatenati fra loro e diviene difficile rintracciare un avvenimento principale. Sicuramente la prima infrazione evidente si verifica subito nel primo atto, scena vii, la scena (non a caso) con la massima accumulazione di personaggi : Gilippo, Damida e Timocla. Gilippo ha appena annunciato alla coppia di amanti che il re Agide ha destinato il principe alle nozze con la guerriera Antianira. Damida dovrebbe obbedire al comando paterno, ma vi si sottrae con queste parole : « Digli, che il mio rispetto, e il mio dovere / ben far mi ponno a ogn’altra legge, a ogn’altro / suo comando ubbidir, ma digli…a questo…/ digli…a questo non mai » (p. 16). 6 Si prefigura così l’opposizione binaria fondamentale che percorre il testo, quella padri/figli : Damida disobbedisce ad Agide ed innesca la catena degli eventi che porteranno addirittura alla sua incarcerazione. Lo scoglimento totale della vicenda avverrà solamente nel terzo atto, scena ix, quando una folla acclamerà il principe vivo, di fronte ad Agide e Timocla che lo credono già morto. Filoastro ha inaspettatamente ammesso le sue colpe e liberato Damida dai ceppi e dal capestro.  



































1

92.

  Cfr. P. D. Stewart, Eroine della dissimulazione. Il teatro di Luisa Bergalli, « Quaderni veneti », n. 19, 1994, pp. 73-

2





  C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., p. 32.   P. D. Stewart, Eroine della dissimulazione, cit. , p. 81. 4   A. Zeno, Lettere, cit., iii, p. 389. 5   Hecathommithi, ovvero cento novelle di M. Giovanbattista Giraldi Cinthio nobile ferrarese, parte ii, Venetia, Fabio & 6   Si cita direttamente nel testo. Agoston Zoppini fratelli, 1583. 3



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L’azione del dramma si svolge sempre nel Palazzo Reale, ma sono indicate due mutazioni di scena per atto. Pur essendo rispettata l’unità di luogo, le vicende si collocano all’interno di spazi distinti dello stesso palazzo : dall’entrata con archi trionfali, al cortile adorno di statue, dal salone col troni agli appartamenti reali ; e infine dal parco delizioso ai siti rimoti apparecchiati per le nozze. Si prevedeva dunque una complessa scenografia, anche se non compare citato esplicitamente sul libretto il nome dell’architetto delle scene. In particolare, l’ultima mutazione di scena del terzo atto prevede un cambiamento a vista perché recita : siti rimoti, che ad un cenno si aprono, e comparisce luogo sontuoso, ch’era apparecchiato per le nozze d’Antianira. In effetti, quando Antianira, nell’ultima scena, intona il recitativo « che si veggano omai le pompe altere, / che apprestate già furo a’ miei sponsali / Timocla, se ti tolsi il genitore » (p. 56), la didascalia indica : s’apre luogo sontuoso. È probabile dunque il movimento di spezzati o quinte mossi da tiri orizzontali e, come si capisce, la vicenda si conclude, anche visivamente, in grande pompa con gli sponsali reali che verranno di lì a poco celebrati. Passando al carattere dei personaggi, la Bergalli, come Zeno, pone in scena eroi dotati di forza virtuosa ed altri che ne abusano per scopi malvagi : Damida non cede al comando paterno per rispettare il legame d’amore, ma non si ribella alla volontà di Agide quando viene condannato a morte ; Gilippo è, al contrario, un personaggio totalmente privo di scrupoli, al punto di far uccidere un innocente pur di raggiungere il suo scopo. Quando Filoastro, preso dai rimorsi, tarda a collaborare con la crudele macchinazione ordita dal compagno, appellandosi al concetto di « virtù », Gilippo lo convince con queste parole : « Cessa da questi / nomi, che alla grand’opra ostacol fanno. / Lasciane a me la cura, e scoprirai / Più bel d’ogni virtude il nostro inganno » (ii, 11, p. 38). 1 Ma la novità di carattere tematico più evidente è stata individuata proprio nel rilievo dato alle eroine, capaci di forti passioni : 2 Timocla ed Antianira, nonostante siano mosse dall’amore per lo stesso uomo, cedono entrambe davanti al senso della propria dignità e alla ragion di stato. La prima, celando la sua passione, quando essa potrebbe danneggiare il suo amato, la seconda, salvando Damida dalla condanna e risolvendosi di sposare Filoastro, per consentire al principe di sciogliere la promessa e legarsi alla donna che realmente ama. Si può pertanto parlare di « eroine, quasi sempre veramente degne di questo nome, e centro dell’azione, anche se dal titolo del dramma questa parrebbe accentrarsi altrimenti ». 3 Per il resto, è evidente come la struttura dell’opera ruoti intorno alla doppia coppia d’amanti (una legata da affetto reciproco e l’altra disgiunta), già presente nei libretti dello Zeno come eredità della tradizione pastorale. Nei libretti del maestro, come in quelli dell’allieva, la necessità di « riequilibrare socialmente le coppie » e di far, per quanto possibile, « coincidere dovere e ragione » 4 si traduce spesso nel meccanismo drammaturgico dell’agnizione, o in mutamenti improvvisi nell’animo dei personaggi, alla ricerca di una ricomposizione dei ruoli, che deve obbligatoriamente condurre al lieto fine. In particolare, la trama dell’Agide, svolta nei tre atti canonici, deve il suo scioglimento a cambiamenti repentini di stato d’animo : Timocla si scopre improvvisamente innamorata di colui che l’ha fatta prigioniera ; Antianira decide di rifiutare l’amore di Damida e promette in maniera inaspettata la sua mano all’antico amante ; Filoastro recede dai propositi criminali, rivelando ad Antianira le trame di Gilippo. Questi colpi di scena, che conducono velocemente alla risoluzione degli eventi, sono forse alla base del giudizio che la Mioni formula sull’opera :  















































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  Per la citazione sintetica indichiamo l’atto in numeri romani e la scena in numeri arabi.   Cfr. C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., pp. 28-29. 3   Ivi, p. 33. 4   E. Sala Di Felice, Zeno : da Venezia a Vienna, cit., p. 78. 2





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Degno di nota è il fatto che l’autrice osserva nel suo lavoro una giusta unità di tempo e di luogo, un certo ordine, una proporzione giusta nel disegno ed una perfetta verisimiglianza nei fatti e nei personaggi. È vero che non ci rappresenta quella lenta e progressiva preparazione del cuore allo sfogo delle passioni, e quel graduale svolgersi dell’azione, che è legge per la tragedia e per la commedia ; ma, dovendo adattare il componimento alla musica, dovette essere semplice nell’intreccio e facile nell’azione. 1  

Nella scena vi dell’Atto i, Timocla risponde con fierezza a Damida, che cerca di confortarla, dichiarandole il suo amore : « Un mio nemico / m’è fin con la pietà sempre odioso » (p. 14) ; ma, già nella scena xiii, la fanciulla, protagonista di un soliloquio, dichiara i suoi reali sentimenti : « Ah ! Sì caro Damida, / poiché mi volle tua nemica il Fato, / io celerò quale mi rese Amore » (p. 22). Antianira, dopo aver inutilmente sperato nelle nozze fra Gilippo e Timocla, si trova faccia a faccia con Damida, afflitto dalla lontananza di Timocla, e, inaspettatamente, canta, nel recitativo : « Taci ; più non ti ascolto ; / che quale dal tuo labbro uscire io n’oda / rifiuto, o pentimento, / l’uno previene il mio, l’altro nol voglio » (ii, 9, p. 34). Di qui il commento di Damida nella scena successiva, ormai rimasto solo : « Oh ! Se anch’io così poco, / come amasti tu me, Timocla amassi, / in preda a tante pene or non sarei » (p. 35). E ancora Antianira sorprende, cantando, rivolta a Filoastro, le parole dell’aria con cui esce di scena nel primo Atto :  



































Tu degno oggetto dell’alto affetto mio non fosti mai : né ingiusta or sono, se ti abbandono ; grata fui troppo allor, quando t’amai. (i, 4, p. 13)  



Si confrontino, infatti, con i versi di recitativo dell’Atto iii, con cui la guerriera convince l’antico amante ad aiutarla a sventare la congiura contro Damida : « Vo’ salvar l’innocente, e non l’amato : / in prova, ch’io non mento / sarà tua la mia fede / tuo l’amor mio tue… » (4, p. 47). Tuttavia, i repentini mutamenti d’animo della vera protagonista del dramma si spiegano forse con l’affetto che prova per il suo principe, sentimento che la conduce a salvarne la vita, anche a costo di sacrificare il proprio amore. Filoastro, infatti, già poco convinto della scellerata congiura ordita da Gilippo, si risolve ad aiutare Antianira solamente dopo che lei promette di sposarlo. Tale condizione smorza l’entusiasmo del canonico lieto fine, ed in questa malinconia, che adombra lo spirito dell’eroina, si intravede da parte della Bergalli un nuovo modo di trattare la consuetudine « inamovibile » dell’happy end, ed un « qualche segno del suo spirito nuovo ». 2 Il secondo libretto per melodramma composto dalla poetessa veneziana, l’Elenia, probabilmente pronto nel cassetto già da tempo, conquistò la scena cinque anni dopo il primo tentativo drammatico e da esso non appare molto dissimile. Tuttavia, è stato osservato che « questa secondogenita opera ha maggiore robustezza e più spedita e sicura procede », pur conservando « quel senso di indomita e femminile fierezza che gli anni non son valsi ad affievolire nello spirito dell’autrice ». 3 L’Opera, allestita al Teatro Sant’Angelo di Venezia, prevedeva la presenza di Balli d’invenzione del coreografo Gaetano Grossatesta e un notevole dispiego di mezzi canori, visto l’impiego di molti virtuosi italiani in servizio presso le principali corti ; solo tre, infatti, gli interpreti veneziani. Da notare la presenza della virtuosa bolognese Dorotea Loli che cantò en travesti nel ruolo di Alindo, probabilmente con voce di  

























1

  M. Mioni, Una letterata veneziana del secolo xviii, cit., p. 27.   C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., p. 33.

2



3

  Ivi, p. 35.

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capitolo iv

contralto o mezzosoprano, come talvolta consuetudine dell’epoca nel ruolo di un secondo innamorato. Il libretto, diversamente dall’Agide, reca l’indicazione dello scenografo, Antonio Mauro Veneto, a cui si dovettero le sette mutazioni di scena presenti nei tre atti. L’azione (qui spostata da Sparta ad Atene) sembra svolgersi, per la maggior parte, negli stessi ambienti dell’Agide : il Palazzo Reale con sale, giardini e prigioni. Unica eccezione il loco rimoto e il tempio con ara in cui prende avvio la vicenda. In questo testo, dove la protagonista è l’Arianna mitologica, si conferma una predilezione della Bergalli per i tipi femminili ; l’intreccio degli affetti non lega più quattro, ma sei personaggi, così la trama si complica e gli incidenti si moltiplicano, tralasciando la fedeltà alla tradizione del mito e conferendo all’eroina « un aspetto più umano e sminuito a confronto di quello che la leggenda le attribuisce ». 1 La vicenda inizia con l’arrivo di Ariana ad Atene proprio nel momento in cui Teseo, che l’ha sedotta e abbandonata a Nasso, sta per sposare Elenia, figlia di Pirito, re dei Lapiti e suo amico. S’intrecciano le vicende di tre coppie : Alindo ed Elenia ; Clearco ed Ismene ; Teseo ed Ariana. Le complicazioni della trama nascono dall’amore non ricambiato di Teseo per Elenia e di Clearco per Ariana : Elenia è, infatti, segretamente, amante di Alindo, primo ministro del suo promesso sposo ; mentre il fratello di Elenia, Clearco, è innamorato di Ariana e la conduce da Nasso ad Atene, nonostante la fanciulla continui a meditare vendette contro Teseo. Di conseguenza, l’eroina mitologica impedisce le nozze fra l’amante traditore ed Elenia, che ne approfitta per riacquistare la sua libertà e sposare l’uomo che ama. Teseo, fallito in maniera fortunosa il tentativo di uccidere Ariana relegata in carcere, si pente e ritorna al suo antico amore. Infine, Clearco, amato dalla principessa reale Ismene, le si concede nel finale, che culmina in un triplice matrimonio, rispettando ancora la regola del lieto fine e ricomponendo in maniera accettabile l’antinomia dovere/passione. L’intreccio si svolge in tre atti e l’avvenimento si colloca nel i Atto, Scena viii, in cui sono presenti tutti i personaggi principali : Elenia, Teseo, Pirito, Ismene e Ariana. Si stanno per celebrare gli sponsali fra Teseo ed Elenia, celebrati dal coro iniziale e il principe d’Atene canta questi versi di recitativo : « Vieni, cara, sì vieni, / ed il sagro liquor sul labbro asperso / renda compiuta omai… » (p. 19). La sospensione del verso è dovuta all’intervento di Ariana che li separa, come recita la didascalia, pronunciando queste parole : « Ferma, perverso / questa non sarà tua » (ibidem). Si verifica, così, l’infrazione principale del dramma, il matrimonio stabilito dal re Pirito non si celebra, perché viene bruscamente interrotto dalla bella sconosciuta che per questo finirà in catene. Anche qui, come nell’Agide, lo scioglimento conclusivo può avvenire solo grazie ad una serie di colpi di scena (tra cui l’agnizione), equivoci o scambi di persona e mutamenti repentini d’animo da parte dei personaggi. In particolare, la Stewart individua come fondamentali « le finzioni di Elenia che si dichiara responsabile dell’aggressione di Ariana contro Teseo e successivamente dell’evasione di questa dalla prigione dove era stata rinchiusa, provocando così la costernazione di Teseo e la furia di Pirito ». 2 Da parte sua, anche Ariana si rende protagonista della dissimulazione, nascondendo la propria identità, fingendosi uomo (all’inizio del dramma) e denunciando il tradimento di Teseo in termini comprensibili a lui solo (nell’atto secondo). Del resto, il meccanismo della finzione è espediente drammaturgico rilevante già nella trama dell’Agide, dove Timocla, nascondendo sino alla fine il proprio amore, cerca disperatamente di salvare Damida dall’accusa di disobbedienza paterna. Motore primario dell’interesse della Bergalli per queste donne è dunque la loro capacità di fronteggiare situazioni  

































1

  Ibidem.   P. D. Stewart, Eroine della dissimulazione, cit., p. 84.

2



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difficili : « in esse il dissimulare è un’altra prova della loro forza d’animo e della loro abilità di “spedire qualche cosa d’importanza” quando ci si mettono ». 1 Si potrebbe riflettere se la dissimulazione sia da considerarsi in toto un valore, una « prova di forza d’animo », come sostenuto dalla Stewart. O meglio, tale visione potrebbe risultare forse anacronistica, poiché, nel primo ventennio del Settecento, difficilmente poteva essere considerata una virtù, almeno nella prospettiva maschile ancora predominante. Anche Ester, nella tragedia della Manzoni, dissimula più volte e l’arte di fingere, come la propensione al sospetto suonano prerogative tipicamente femminili (con un velo neanche troppo celato di disprezzo) in bocca ai personaggi maschili del dramma. Una cosa sembra essere certa : in questi testi primo-settecenteschi per il teatro composti da autrici donne (come li abbiamo sin qui analizzati) l’unica arma a cui può far ricorso l’eroina per mantener fede ai propri propositi è proprio quella della finzione, al di là di ulteriori considerazioni sul codice etico-comportamentale dell’epoca. Tornando all’intreccio, è stata rilevata dalla critica ottocentesca una certa inverosimiglianza nello scioglimento drammatico anche nell’Elenia, tuttavia, ancora una volta, scusata per « il genere del componimento essenzialmente lirico, e perciò richiedente trapassi d’affetti, e concisione dell’opera chiusa nella brevità dei tre atti sacramentali ». 2 Inoltre, è stato osservato come l’autrice abbia « cercato di giustificare, spesso con ricorso all’espediente degli a parte, il cambiamento d’animo di Teseo e d’Ariana in modo da rendere psicologicamente credibile la loro trionfale riunione alla fine ». 3 Si leggano, di seguito, i versi del recitativo in cui Elenia si accusa falsamente :  





















(M’incolperò, ma per restar fedele.) Teseo, non ti stupir : son’io la rea, che a costei contra tè la destra armai ; ed io, che di prigion testè la trassi. E tutta l’ira sopra di me cada. (ii, 8, p. 31)  



Siamo quasi alla fine del ii Atto, dopo che il rito nuziale di Teseo ed Elenia è stato interrotto bruscamente dall’irrompere di Ariana, quasi alla fine dell’atto precedente ; la principessa denuncia le sue reali intenzioni (inizialmente di difficile comprensione) nel primo endecasillabo, posto tra parentesi e quindi, secondo convenzione, non udito dagli altri personaggi sulla scena. Ancora, nel recitativo dell’ultimo Atto, Ariana muta velocemente il suo stato d’animo nei confronti di Teseo pentito, tornando ad amarlo in maniera del tutto inaspettata :  



Io vo’ svenarti, indegno, (ma dove sei mio sdegno ?) Di te, perverso amante, un atto sol di pentimento è dunque le mie giust’ire a disarmar possente ? Mori, spietato, mori ; che il tardo tuo dolor di avermi offesa or non compensa i tardi pianti,e gli aspri tormenti rei, che abbandonata un giorno sopra l’infausto lido, sparsi per te, per te soffersi, infido. (iii,11, p. 45)  





1

  Ivi, p. 91.   C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., p. 38. 3   P. D. Stewart, Eroine della dissimulazione, cit., p. 84. 2



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capitolo iv

La fanciulla è in procinto di ferire l’amante traditore, le sue parole esprimono il più feroce odio nei suoi confronti, ma il verso inserito tra parentesi rivela il vacillare dei propositi omicidi e la scomparsa del rancore, in aperto contrasto con la didascalia che lo precede (in atto di ferirlo). Ancora una volta, dunque, l’espediente dell’a parte svela i reali sentimenti del personaggio, giustificando il successivo, repentino, mutamento di stato d’animo. Di fronte a Teseo penitente, infatti, Arianna depone i suoi propositi di vendetta, scoprendosi nuovamente confusa, ma innamorata e cantando un endecasillabo che, ricco di sospensivi, risolve il dramma : « Sì sì ; ma che ?…non so…crudele…hai vinto ». Se dal punto di vista tematico e strutturale sono comunque presenti, sia nell’Agide che nell’Elenia, alcune infrazioni alla « riforma » settecentesca del libretto (come le frequenti mutazioni di luogo ed i colpi di scena ad effetto), dal punto di vista metrico la versificazione appare conforme al nuovo stile, nei recitativi, come nei pezzi chiusi. 1 La poetessa si cimenta, infatti, nella rima agile e melodiosa delle arie in chiusura di scena (predilette da Zeno), dimostrando padronanza dei metri anacreontici. Ricordiamo che le possibilità offerte dalla lirica anacreontica avevano mutato, nel corso del Seicento, l’organizzazione metrica dell’aria, che, da un modello strutturale a base endecasillabica, era passata a comprendere tutte le misure, dal trisillabo all’endecasillabo, inclusi decasillabo e novenario. Inoltre, con la necessità di una maggiore corrispondenza verso/musica, un ruolo sempre più importante era giocato dalla terminazione dei versi e dalla loro accentazione ; in particolare, nel corso del Settecento, acquistò rilievo la desinenza tronca, come perfetta conclusione della musica in battere, per lasciare l’uditorio in sospensione. Quest’abitudine, presente nella tradizione del melodramma fin dai suoi albori, trovò, nel corso del xviii secolo, definitivamente, conferma normativa nei trattati di Martello e di Quadrio. 2 Come già osservato da Paolo Fabbri, 3 parallelamente all’espandersi del suo profilo formale nella struttura bipartita con da capo, l’aria stabilì anche la sua collocazione a fine scena, chiamandosi ingresso. 4 L’idea era quella di dare maggiore rilievo alla partenza del personaggio quando entrava tra le quinte, favorendo così il successo personale dell’interprete, ma facendo dell’aria anche « il culmine di ogni parziale segmento drammaturgico ». 5 Uno dei tratti fondamentali della « riforma » settecentesca favorì il graduale imporsi degli ingressi sulle escite e sulle medie (cantate a metà scena) al fine di interrompere il meno possibile lo svolgimento dell’azione e di presentare, contemporaneamente, l’espressione statica dell’affetto, l’effusione lirica, come una normale conseguenza dell’azione precedente. Ecco dunque che « il prevalere dell’unica aria d’entrata a fine scena, unitamente al fenomeno […] della riduzione nel numero complessivo delle scene, comporta anche la progressiva diminuzione del numero dei pezzi chiusi all’interno del libretto ». 6 Questi mutamenti trovano pieno riscontro nelle due opere della Bergalli : nell’Agide le arie sono tutte d’ingresso, tranne una media cantata in duetto da Agide e Timocla, quasi alla fine del iii Atto, nella Scena ix, quando compiangono insieme la morte di Damida, proprio un attimo prima dello scioglimento dell’intera vicenda con l’acclamazione popolare del principe ancora vivo. Lo stesso accade nell’Elenia, dove l’unica media è cantata dalla protagonista  





























1   A. Frattali, L’Elenia di Luisa Bergalli Gozzi : genesi e versificazione di un libretto settecentesco, « Soglie », x, 2, 2008, pp. 32-49. 2   F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, cit., ii, p. 337. 3   P. Fabbri, Metro e canto, cit., p. 45. 4   Cfr. P. J. Martello, Della tragedia antica e moderna, cit., pp. 285-286. 5   P. Fabbri, Metro e canto nell’opera italiana, cit., p. 45. 6   F. Giuntini, I drammi per musica di Antonio Salvi, cit., p. 94-95.  





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Ariana nella scena conclusiva dell’opera, 1 in cui il dispiegarsi del canto accompagna l’azione di sollevare il pentito Teseo, caduto in ginocchio, in modo dunque funzionale all’impianto drammaturgico. Si capisce, dunque, come, in entrambi i drammi, la presenza del pezzo chiuso a metà scena sia appannaggio dei momenti di particolare intensità drammatica, in cui l’azione velocemente si avvia verso il suo scioglimento finale. Tornando al numero delle arie, sono rarissimi i pezzi d’insieme ; nell’Agide sono ridotti a due cori che aprono e chiudono il dramma (uno 2 celebra il trionfo di Antianira vincitrice, l’altro 3 inneggia alla gioia per le doppie nozze) e al duetto 4 citato. Nell’Elenia sono presenti due cori (il primo 5 precede il rito nuziale di Teseo ed Elenia, il secondo 6 chiude l’opera), un terzetto 7 (quasi alla conclusione del secondo Atto), ed un duetto 8 (nella terz’ultima scena del terzo Atto) distribuiti pressoché simmetricamente all’interno del dramma ed in momenti particolarmente significativi di esso, come vedremo in seguito. Anche in quest’aspetto, dunque, le due opere riflettono in pieno lo spirito riformatore dell’epoca, se, come osserva ancora Fabbri a proposito dei libretti degli anni venti e trenta, « sparuti risultano pure i pezzi d’assieme, ridotti perlopiù a un coretto conclusivo che inneggia o sentenzia ». 9 La tensione arcadica verso un teatro più tragico nei contenuti e più disciplinato nella forma si riconosce, dunque, sia nella presenza minima dei pezzi chiusi (uno per scena, salvo qualche isolata trasgressione) che nella loro organizzazione in forme sempre più simmetriche. Le due strofe tendono a pareggiarsi nello stesso numero di versi e il taglio è generalmente isometrico, assecondando una forma che, prediletta da Zeno, diverrà acquisizione stabile di Metastasio. La Bergalli rispecchia in pieno questa tendenza, privilegiando stanze tetrastiche in cui le non frequentissime combinazioni polimetriche scelgono misure della minore estraneità reciproca possibile, come settenari e quinari, ottonari e quadrisillabi. Lo schema esecutivo è quello tripartito A-B-A’, con ripresa da capo della prima sezione arricchita di abbellimenti da parte del cantante, a scopo espressivo ed ornamentale. Procedendo in questa breve panoramica rivolta alle caratteristiche formali di libretti della Bergalli in rapporto con la riforma del dramma primo-settecentesco, si passa necessariamente ad esaminare l’altra componente fondamentale del testo per musica, il recitativo, deputato allo svolgimento dell’azione e per questo costruito in misure flessibili dal punto di vista metrico-accentuativo. Fin dalle origini, « il tipo di verso adottato a maggioranza per recitare cantando era stato quello imperante nella pastorale cinquecentesca […] cioè l’endecasillabo preferibilmente piano, intero o rotto che fosse ». 10 Questo accadde perché la lingua del teatro in versi sciolti amava riprodurre l’andamento della prosa, mentre « il suo addobbo sonoro si contentava di apparire poco più che un’amplificazione del parlato e delle sue qualità foniche ». 11 Non stupisce che nell’ottica « riformata » si limitassero i pezzi chiusi, soggiogati al virtuosismo canoro, e si affidasse l’impianto drammaturgico del testo a recitativi secchi, 12 nell’intenzione di fare del melodramma la forma ancora mancante di teatro tragico italiano. 13  

















1

  Si tratta di Chi l’offesa mano ardita (iii, 11), cantata da Ariana. 3   Viva questa alta guerriera (i, 1).   Il soffrir d’anime oneste (iii, 11). 4 5   Figlio oh dei ! Deh ! Mi rispondi (iii, 9).   Da tua bella immortal fede (i, 8). 6   Ritorni il caro giubilo (iii, 11). 7   Io taccio, ma per poco (ii, 8). Cantano Ariana, Teseo ed Elenia, ovvero il triangolo principale di personaggi del 8   Quanto caro tu mi sei (iii, 8). Cantano Ismene e Clearco. dramma. 9   P. Fabbri, Metro e canto nell’opera italiana, cit., p. 62. 10 11   Ivi, p. 7.   Ivi, p. 8. 12   P. Gallarati, Zeno e Metastasio tra melodramma e tragedia, cit., p. 92 : « ove l’attributo non è solo da riferirsi alla povertà dell’accompagnamento strumentale, ma anche alla “secchezza” della declamazione che, eliminando il cantabile, aumenta la velocità del decorso esecutivo, e si avvicina alla concitazione di un vero parlato, adatto ad un dialogo che viene spezzato in battute più brevi, lontane dalla verbosità del melodramma barocco ». 13   Cfr. ivi, pp. 89-104. 2











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Da questi principi non si discostano i recitativi dell’Agide e dell’Elenia, poiché l’andamento discorsivo di endecasillabi e settenari porta avanti l’azione, privilegiando lo svolgimento del dramma rispetto all’esecuzione virtuosistica dei pezzi chiusi. Pertanto, pochi sono gli elementi “orecchiabili” presenti in questi versi, a vantaggio di un recitar cantando supportato dagli accordi del solo basso continuo. Tuttavia, seppure isolate, sono presenti ripetizioni, quando la reiterazione di una battuta serve a ribadire un concetto importante per l’impianto drammaturgico, come accade nella scena x del primo Atto dell’Agide, in cui il re spartano canta, rivolto a Gilippo, i seguenti versi :  

Scopri in chiari, e veri accenti quanto ti è noto, e pensa, che il vero a tuo gran danno o taci, o menti. (p. 19)

Con la medesima formula il feroce comandante delle guardie sigla la scena, dopo aver insinuato in Agide gravi dubbi sulla lealtà di suo figlio :  

Intanto, s’ama la tua nemica te ne assicura, e poi con troppo tuo cordoglio, e mio tormento vedrai, se i suoi delitti o taccio, o mento. (p. 20)

Oppure, la ripetizione di un verso serve a raggiungere la climax drammatica, come nella concitata scena viii del secondo Atto dell’Elenia, in cui lo scambio « Barbaro, non parlar/ (Dei, che tormento !) », ripetuto fra Ariana e Teseo, serve ad alimentare la curiosità di Elenia riguardo al tradimento del suo promesso, ma sgradito, sposo, ai danni della principessa cretese. Come da tradizione, gli sciolti sono irregolarmente punteggiati di rime baciate, con valori di clausole letterarie, probabilmente in corrispondenza delle cadenze armoniche. Tuttavia il distico in baciata precede quasi sempre l’esecuzione dell’aria, preparando il brusco passaggio dall’incalzare del dialogo all’oasi lirica e limitando la propria presenza a quella particolare posizione per non interrompere il frenetico e complesso snodarsi della trama ; differentemente avveniva nella tradizione del melodramma seicentesco « dove il recitativo, attraverso l’uso frequentissimo della rima, si avvicinava non di rado alla suscettibilità melica dell’aria ». 1 Partecipando al processo che s’ispira alla tragedia classica, l’autrice riserva tuttavia poco spazio alla funzione corale, mossa forse dalla necessità di condensare l’azione nei tre atti del melodramma ; 2 nella tragedia greca gli atti canonici sono cinque, ma l’azione cantata richiede una maggiore brevità, legata essenzialmente a necessità esecutive. Inoltre, a causa della difficile comprensibilità del testo musicato, l’intreccio deve essere semplificato per consentire allo spettatore di seguire la vicenda e di porre attenzione alle passioni messe in scena, anziché solamente al bel canto. Di qui, il giudizio della Tassistro :  















Così nell’Agide come negli altri drammi per musica, la Bergalli mantenne sempre un tono levato, ed acconcio al carattere eroico della azione, sfrondandola di quegli elementi di comicità che avevano formata una delle maggiori anomalie del melodramma secentesco, togliendole l’ingombro di azioni 1

  Ivi, p. 92.   Si legga, in proposito, M. Mioni, Una letterata veneziana del secolo xviii, cit., p. 27 : « A differenza degli altri poeti si astenne dal coro, ma si attenne invece alla misura di solito adottata dai buoni scrittori di melodrammi, cioè ai tre atti ». 2







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secondarie che l’adduggiava, o almeno semplificandola fino al limite consentito dalle esigenze tiranne del pubblico, degli impresari, degli attori. 1

Eliminate le azioni secondarie, il dramma procede più spedito verso la sua risoluzione, affidando il suo scioglimento a sei-sette personaggi principali ; non sono presenti infatti figure secondarie, quali messaggeri, ancelle, balie o confidenti (numerose nel melodramma di fine Seicento), lasciando ai protagonisti il compito di esplicitare al pubblico il detto e il nondetto. Per quanto riguarda la scelta dei personaggi, la Bergalli sceglie sempre soggetti storici o mitologici, pur rivisitandoli alla luce della propria sensibilità, in linea con i suggerimenti di Zeno, rivolti a valorizzare le finalità educative del melodramma e a ridimensionarne quelle puramente edonistiche. La predilezione dell’autrice per le protagoniste femminili le pone al centro di un sistema di valori in cui la passione amorosa si coniuga necessariamente al dovere civile, subordinandosi spesso alle necessità di Stato. Come nei libretti del maestro, in nome della tradizione consolidata dell’opera in musica, questa deve concludersi con la felicità generale, per cui le coppie devono « trovare, possibilmente, un assetto coniugale, quantunque talvolta dissonante con le inclinazioni esibite nello svolgimento della pièce ». 2 In questa direzione si muovono pertanto le vicende del dramma, sostituendo la catarsi della tragedia classica con un lieto fine che, per essere educativo, deve trovare il giusto compromesso tra soddisfazione e sublimazione delle passioni. Per questo, nelle opere della Bergalli, come in molte composte da Zeno nel periodo viennese, il conflitto che muove l’intreccio è spesso basato sull’opposizione fra l’amore dei giovani e l’autorità dei padri ; dunque, tra « nuova società famigliare » fondata « sulla libera scelta amorosa » 3 e vecchio ordine costituito. La soluzione a questo sistema di contrasti è la rinuncia alla passione da parte dei giovani, là dove la ragion di Stato lo richieda, ed all’autoritarismo 4 da parte dei vecchi, là dove non sia dettato da criteri di equità e di giustizia. Elemento di novità è il risalto dato alle donne in questi testi, vere e proprie artefici del proprio destino e registe dell’azione che, come detto, con dissimulazioni e colpi di mano, danno un decisivo contributo alla ricomposizione dell’equilibrio finale nella direzione a loro più confacente. L’opposizione binaria fondamentale padri/figli acquista nuove sfumature, se consideriamo che, nell’Agide, come nell’Elenia, i padri sono anche re. Già a proposito delle opere di Zeno, la Sala Di Felice osserva come, durante la sua attività di poeta cesareo presso la corte di Carlo VI, il librettista si ponga continuamente il problema inerente al potere monarchico, facendo propria « l’idea della regalità come servizio ». 5 Nei libretti della Bergalli il contrasto fra l’essere un buon padre ed un buon re tormenta i personaggi di Agide e Pirito, portandoli a commettere anche grandi, seppure temporanee, ingiustizie nei confronti dei propri figli. Al centro, per entrambi, c’è l’intenzione di imporre un matrimonio diplomatico, che favorirebbe un’alleanza, e di sventare un matrimonio d’amore che rovinerebbe i progetti paterni e regali. Nella prima opera della poetessa la conflittualità è più dura : Agide non solo avversa l’amore di Damida per Timocla, ma crede alle false accuse che vogliono il figlio futuro usurpatore del trono paterno. L’equivoco porta all’estrema conseguenza, la condanna a morte del principe : « [...] Ah ! Del mio core / paterne tenerezze, / Deh ! Tacete una volta ; a voi scusarlo / non lice : oggi morrà [...] » (ii, 14, p. 42). I sentimenti paterni non basterebbero dunque a salvare la vita del giovane presunto cospiratore ; il dovere regale pone, infatti, al primo posto la salvezza dello Stato. Forse, sotto l’eccessiva credulità di Agide, si nasconde la  





































1

  C. E. Tassistro, Luisa Bergalli Gozzi : la vita e l’opera sua nel tempo, cit., p. 32. 3   E. Sala Di Felice, Zeno : da Venezia a Vienna, cit., p. 81.   Ivi, p. 112. 4   Ivi, p. 95 : « L’assoluto arbitrio del monarca non poteva non porsi in termini almeno problematici quando era così fervido in tutta l’Europa il dibattito sull’origine legale del potere e sul dovere del sovrano di garantire l’equità, 5   Ivi, p. 93. la giustizia ».  

2









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paura di Laio, alla base della tragedia edipica : essere ucciso dalla propria prole e perdere precocemente il potere. Del resto, ricordando l’Antigone sofoclea, Creonte scambia i propositi suicidi di Emone per minacce alla propria vita, perseverando nell’equivoco anche quando il figlio, davanti al cadavere della promessa sposa, estrae la spada, rivolgendola, invece, contro sé stesso. Se più volte, nel corso del dramma, Agide è chiamato « tiranno » da Timocla e « padre crudele » da Antianira (nonostante quest’ultima sia la favorita del re, come futura nuora), i toni si attenuano nell’Elenia, dove la figura regale smette i panni del tiranno famigliare, ma è relegata in secondo piano. Nell’intervallo di tempo che intercorre tra la composizione delle due opere, le figure femminili vengono decisamente alla ribalta, sminuendo il ruolo del padre/ padrone che Agide ancora deteneva con una certa decisione. Pirito, infatti, pur osteggiando i matrimoni di entrambi i figli e punendo Elenia per la sua disobbedienza, è in parte giustificato dal gioco di inganni che vuole la fanciulla accusatrice di sé stessa. L’equivoco non nasce dunque da maldicenze di terzi, ma da volontà della stessa futura infelice sposa. Nella dinamica dell’intreccio sono le donne a muovere l’azione : l’avvenimento è infatti generato da un’infrazione di Ariana e lo scioglimento affidato alla stessa principessa cretese ; Elenia, pur di sfuggire ad un matrimonio non gradito sfida la prigione e l’ira paterna ; Ismene strappa l’amato Clearco all’amore di vecchia data per Ariana. Tuttavia, seppure ridimensionato, nell’Elenia si presenta ancora il dilemma tra paternità e regalità, quando, solo in scena, alla fine dell’Atto primo, Pirito canta, nella sezione di recitativo che precede il suo ingresso :  

















Credo alla figlia, e credo al mio sospetto ; e intanto nel mio cor fanno battaglia di giudice il dovere, e quel di Padre ; e ancor non so quale dei due prevaglia. (p. 23)  



Pur cedendo alla ragion di stato ed imprigionando Elenia, il re cambia immediatamente i suoi intenti non appena gli viene prospettata la possibilità che Teseo sia un traditore, dimostrandosi molto più propenso di Agide a credere all’innocenza dei figli ed alla malafede dell’elemento estraneo alla famiglia. Nel finale, accetta tutte le richieste matrimoniali che i giovani gli propongono ed è solo il repentino perdono di Ariana nei confronti di Teseo (e non la volontà regale) a risolvere l’incidente diplomatico che vorrebbe il sovrano d’Atene privo di una sposa. Dall’Agide all’Elenia, si smorzano quindi i toni del conflitto generazionale, come del potere monarchico : la ragion di Stato trova così migliore riscontro nel concetto di giustizia e i rapporti famigliari hanno nuovi spazi di dialogo. Il contrasto dovere/pietà, che ha il suo archetipo nell’Antigone, si risolve nella razionalità e nell’equilibrio di matrice illuministica, proponendo un finale che, astenendosi dal bagno di sangue della tragedia greca, renda ugualmente il melodramma specchio di « una molteplicità di comportamenti umani esemplari », che ne facciano « una scuola di vita ». 1 Se nella società sofoclea la disobbedienza dei figli veniva punita con la morte e l’inflessibilità dei padri con l’eterno rimorso, nell’Europa settecentesca gli uomini e le donne di teatro si rifanno ad un nuovo sistema di valori, più aperto al dialogo tra generazioni. Ecco dunque che la Bergalli si dimostra sensibile ritrattista del mondo delle passioni femminili, ma anche attenta osservatrice dei conflitti maschili, in una panoramica di eroi ed eroine che, sullo stesso piano, sperimentano una catarsi senza catarsi, pienamente giustificata dalla levità del verso musicato. Così sentenzia, infatti, il coro finale dell’Agide :  











1

  Ivi, p. 113.

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Il soffrir d’anime oneste suole pace alfin trovar. Anche dopo le tempeste spunta il sol più lieto in mar. (iii, 11, p. 57)

iv. 3. Ciro in Armenia di Maria Teresa Agnesi : verso la riforma viennese  

Nel caso di Maria Teresa Agnesi, ci troviamo di fronte una musicista e poetessa che, come Luisa Bergalli, compose i suoi lavori per i teatri pubblici. Se per la Bergalli abbiamo preso in considerazione i teatri veneziani, qui ci occuperemo invece del contesto spettacolare milanese, non escluso il Regio Ducal Teatro. Abbiamo deciso di concentrarci in particolare su due drammi per musica appartenenti alla maturità dell’autrice lombarda : il Ciro in Armenia, andato in scena nel 1753, e L’Insubria consolata, rappresentato nel 1766, in occasione del fidanzamento di Beatrice d’Este con Ferdinando d’Austria. 1 Entrambe le opere ebbero come motivo portante l’encomio della casata asburgica e d’entrambe è attestata con una certa sicurezza la mano dell’Agnesi sia nella composizione della partitura che del libretto. 2 Si tratta inoltre di drammi poco analizzati, visto che l’interesse degli studiosi è stato rivolto principalmente alla Sofonisba, l’unico lavoro della compositrice che addirittura “espatriò” a Napoli, oltre ad essere (come già detto in precedenza) la prima opera seria composta interamente da una donna. Il Ciro, definito nel frontespizio del libretto dramma per musica, andò in scena nel Carnevale del 1754 (precisamente il 26 dicembre del 1753) e porta la dedica al « signor Duca di Modena, Reggio, Mirandola ecc. Amministratore e Capitano Generale della Lombardia austriaca ». 3 La stampa del libretto è contestuale alla rappresentazione che ebbe luogo in un pubblico teatro a pagamento, ma con una destinazione decisamente encomiastica, visti i numerosi contatti tra la musicista e la corte asburgica a partire dagli anni Quaranta del Settecento. Dobbiamo aggiungere, però, che l’Agnesi, a differenza di altri musici e librettisti (tra cui ricordiamo Zeno e Metastasio) non ebbe mai alcun incarico ufficiale presso la corte (o almeno così non risulta). Condizione che accomuna l’artista milanese con la poetessa Francesca Manzoni, che spedì regolarmente per quattro anni (dal 1734 al 1738) a Vienna azioni sacre destinate alla Cappella di Carlo VI, senza che questo comportasse alcun riconoscimento o impegno ufficializzato. Non così, come è noto, per Metastasio, che fu vero e proprio poeta di teatro alla corte viennese, « il cui compito non si esauriva nella  







1   G. Borrani, Diario Milanese (1737-1784), ms. conservato in Biblioteca Ambrosiana con segnatura N. 1-25 Suss., pp. 10-12 : « Il detto mese fu per questo pubblico un mese di feste, e di allegrezza per gli Sponsali già contratti tra sua Altezza Reale l’Arciduca Ferdinando d’Austria figlio della nostra Sovrana, e la Serenissima Principessa Maria Beatrice d’Este figlia del Principe Ereditario di Modena adunque giunsero qui le loro Altezze Serenissime il Sig. Principe, e la Sigra Principessa Ereditarj di Modena, genitori della detta sposa. Sua eccellenza il Sig. Co. Carlo di Firmian Ministro Plenipotenziario ec. trascelto dalle loro Maestà Imperiali come loro ambasciatore straordinario per contrarre i detti sponsali a nome del detto reale Arciduca partì da questa città, e portossi al Monastero dei PP. Cirstercensi di Chiaravalle distante 4 miglia, ed ivi pernottò, e nel dì seguente vi fu trattenuto a lauto pranzo. Poi verso le ore 22 […], come se venisse da Vienna col detto carattere, fece il pubblico suo ingresso dalla Porta Romana, dove trovovorsi schierate due Compagnie della Milizia urbana con copioso concerto di Stromenti a fiato [...].Con tale magnifica comparsa passò dal Corso di Porta Romana a quello di P. Tosa, quindi a quello di P. Nuova fra liete acclamazioni dell’affollato popolo, e portossi a smontare al suo Palazzo ». 2   Cfr. C. De Jong, The life and keyboard, p. 29 ; S. Hansell, voce Agnesi Maria Teresa, in The New Grove Dictionary, cit. Si rimanda inoltre all’intera nota bio-bibliografica dedicata alla compositrice nel del cap. iii del presente lavoro. 3   Ciro in Armenia, dramma per musica da rappresentarsi nel Regio-Ducal Teatro di Milano, nel Carnovale dell’Anno 1754, Milano, « nella regia Ducal Corte, per Giuseppe Richino Malatesta stampatore regio camerale », 1753.  











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composizione del testo poetico, ma investiva la sua realizzazione scenica, alla cui direzione era preposto ». 1 La dedica del Ciro in Armenia, firmata dai Cavalieri Delegati, non fornisce alcuna indicazione supplementare, se non che il dramma per musica fu eseguito all’interno della stagione di Carnevale del Regio Ducal Teatro sotto la protezione, appunto, del Duca di Modena. Il libretto fornisce note relative ai cantanti, agli scenografi, agli autori dei balli e dei costumi, 2 ma niente che riguardi l’autore delle musiche e del testo, che però, in questo caso, possono a ragione attribuirsi alla stessa persona. Sulla « Gazzetta di Milano », numero lii dell’anno 1754 compare questa notizia :  







È pronto per essere rappresentato per la prima volta sopra di questo Regio Ducale Teatro il primo Dramma per l’entrato Carnovale, intitolato ciro in armenia, poesia di nuovo composta da un celebre autore milanese, e concorrendo a renderlo più aggradevole la perizia degli attori, come la proprietà delle decorazioni inventate, ed eseguite dal rinomato Giambattista Ricardi col suo compagno il signor Antonio Ghezzi ; ed essendovi altresì il Vestiario molto bene adattato all’invenzione del più volte nominato sig. Francesco Mainini ; abbiamo tutto il fondamento di sperare che sarà per incontrare l’universale approvazione. 3  



Come si legge, l’opera sta per aprire addirittura la stagione del Carnevale e con un notevole dispendio di mezzi, visto il coinvolgimento di scenografi e costumisti di fama ; nel frontespizio del libretto si aggiunge anche la notizia della presenza di Balli, composti per l’occasione dal « Sig. Giuseppe Salomone detto di Vienna ». Nessuna nota, però, sull’autore di musica e libretto, nella « Gazzetta » si allude appunto ad « celebre autore milanese ». Avanzando un’ipotesi, si può forse ascrivere la reticenza del giornale al fatto che l’autrice è donna, circostanza mai verificatisi prima, almeno nei teatri a pagamento. Visto che il dramma non era ancora andato in scena quando fu pubblicata la notizia in « Gazzetta », non è dunque da escludere una certa cautela preventiva nel rivelare il nome dell’autrice di musica e libretto. Non così accade per L’Insubria consolata, 4 per la quale esiste invece una nota della « Gazzetta » comparsa, questa volta, dopo la rappresentazione, che riporta esplicitamente il nome della musicista :  























Nella sera di venerdì scorso ebbe luogo nella sala detta della Galleria di questo Ducale Palazzo un magnifico componimento drammatico allusivo alla pubblica promessa di sua altezza serenissima la Signora Principessa Maria Ricciarda d’Este con sua altezza reale il Sig. Arciduca Ferdinando Carlo d’Austria, il di cui titolo fu l’Insubria consolata, posto in musica dalla virtuosissima signora Donna Teresa Agnesi Pinottini, ed eseguito dalli virtuosi cantanti Signora Galli, e Signori Reina, Piatti, ed Albuzio, avendo incontrato tutto il più desiderabile aggradi mento non solo delle loro Altezze Serenissime, che da un numero ragguardevole di Nobiltà d’amendue li sessi, ammessa a questo nobile, e virtuoso trattenimento. 5

In effetti, tra il Ciro e L’Insubria, la ripresa napoletana della Sofonisba, nel 1765, aveva consolidato definitivamente la fama dell’Agnesi, rendendo il suo nome più noto al pubblico. 1

  E. Sala Di Felice, Metastasio, cit., p. 13.   Si riportano di seguito i nomi : Inventore, e pittore delle scene il sig. Gio. Battista Ricardi, con compagno Sig. Antonio Ghezzi ; Tigrane : Sig. Gio. Tedeschi, detto Amadoro ; Palmide : Signora Colomba Mattei ; Arsace : Sig. Litterio Ferrari ; Ciro : Sig. Domenico Luino ; Semira : Signora Camilla Mattei ; Araspe : Sig. Antonio Priori ; Compositore de’ Balli il Sig. Giuseppe Salomone detto di Vienna ; il vestiario è rara invenzione del Sig. Francesco Mainini. 3   Ragguagli di vari paesi per il mercoledì 26 dicembre 1753, « Gazzetta di Milano », lii, l’annata in questione si trova conservata presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. 4   L’Insubria consolata. Componimento drammatico per la pubblica solenne promessa di S. A. Serenissima la Signora Principessa Maria Ricciarda Beatrice d’Este con S. A. Reale il Signor Arciduca Ferdinando d’Austria, Milano, appresso Giuseppe Galeazzi Regio Stampatore, 1766. 5   « Gazzetta di Milano », xx, la notizia riguarda il mercoledì 14 maggio 1766. 2







































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Inoltre, è opportuno tenere presente il mutato contesto esecutivo : L’Insubria non fu infatti eseguita al Regio Ducal Teatro, come il Ciro, ma « nella sala detta della Galleria » del Palazzo Ducale. Quindi, non in un teatro pubblico a pagamento, ma nella sala di un palazzo per la corte e le autorità locali ; la recensione parla infatti delle « Altezze Serenissime » e di « un numero ragguardevole di Nobiltà d’amendue li sessi, ammessa a questo nobile, e virtuoso trattenimento ». E in questa particolare circostanza, oltre che nell’accresciuta fama della musicista, potrebbe risiedere la decisione della « Gazzetta » di esplicitare, senza reticenze, il nome dell’Agnesi. Un contesto protetto, ad uso della corte, meglio si prestava nel Settecento alla prova delle scene di una signora sposata e di nobile rango. Non metteremo in discussione in questa sede l’attribuzione di partitura e libretti delle due opere in oggetto alla stessa Maria Teresa Agnesi ; abbiamo infatti già fornito in precedenza i dati bio-bibliografici relativi alla composizione dei due lavori, dati che daremo dunque per acquisiti. 1 Ci riserviamo invece di fornire alcune ulteriori osservazioni sulle rispettive partiture del Ciro e dell’Insubria, vista l’oggettiva difficoltà di reperirle, perché rimaste manoscritte, cosa che accadeva non di rado nel Settecento (almeno per i lavori dei musicisti non famosi). Allo stato attuale delle ricerche, del Ciro in Armenia è conservato solo il iii atto 2 (peraltro mutilo) presso il Conservatorio « Giuseppe Verdi » di Milano. 3 Il manoscritto è ragionevolmente autografo, viste le numerose cancellature 4 che testimoniano il suo stato di work in progress. Diversamente, la partitura dell’Insubria consolata è conservata integra in ogni sua parte, manoscritta, ma quasi sicuramente di mano di un copista, presso il Site Richelieu della Bibiothèque Nationale de France a Parigi. 5 Così, se i libretti delle due opere sono stati regolarmente stampati, la trasmissione della musica ha avuto un percorso difficoltoso ed incerto, che testimonia, ancora nella seconda metà del secolo, la persistenza della dittatura della parola 6 sulla componente musicale dello spettacolo. Passiamo ad alcune osservazioni sul concetto di “autorialità” : i libretti di Luisa Bergalli sono dati alle stampe esplicitamente firmati dall’autrice ; quelli di Maria Teresa Agnesi, pur essendole attribuiti, non recano alcuna indicazione della sua identità. Per quanto riguarda  





























1   Da aggiungere un intervento, i cui Atti sono ancora in corso di stampa, di S. E. Stangalino, Ciro in Armenia di Maria Teresa Agnesi : il problema di un’attribuzione, i Convegno di Studi, In-audita musica. Intrecci femminili tra melodia e armonia, Novara, Conservatorio « Guido Cantelli », 7-8 marzo 2008. 2   Il ii atto della partitura manoscritta è conservato presso il fondo musicale dell’Archivio Borromeo sull’Isola Bella, ma non è stato possibile sino ad ora consultarlo. Ci risulta dal catalogo generale delle opere la seguente collocazione MS. AP. 06, con le indicazioni delle voci e dell’organico orchestrale : Araspe (A), Arsace (T), Ciro (S), Semira (S), Tigrane (S), Palmide (S) ; ob1, ob2, fl, cor1, vl1, vl2, vla, bc. All’incipit musicale riportato dalla scheda corrisponde il seguente incipit testuale : All’armi nostre in mano voi di quell’onde, il medesimo che compare nel libretto a stampa. Stando alla scheda, l’organico voci sembrerebbe costituito da quattro soprani, un tenore e un contralto, mentre nella stampa compaiono quattro interpreti maschili e due femminili. In sostanza, stando alla stampa, nessuno avrebbe cantato en travesti, tuttavia, la lettura delle chiavi è resa nella partitura oggettivamente difficile dalle numerose cancellature e dalla calligrafica non chiara. 3   Contenuto nel fondo Noseda con segnatura z. 6. 2. Sarà d’ora in poi indicato con la sigla MACvIII. 4   Una scena intera viene addirittura spostata : nella partitura, alla fine della vii, c’è un monologo di Semira che appare cancellato per intero e collocato (probabilmente in un momento successivo) tra l’viii e la seguente, ovvero dopo un dialogo fra Ciro e Semira, in cui la principessa cerca di convincere il fratello a recedere dai suoi propositi di vendetta. Probabilmente l’Agnesi aveva pensato in un primo momento di rendere il colloquio fra i due conseguente alla riflessione della fanciulla (come in effetti accade nella redazione a stampa del libretto dove il monologo di Semira si colloca addirittura nel ii atto). Probabile dunque che quello che abbiamo visionato non sia l’unico testimone della partitura e sicuramente non è la versione definitiva, che, anche se non stampata, generalmente veniva affidata alla mano di un copista. 5   La indicheremo con la sigla MABnf. Questo testimone non è quasi sicuramente di mano dell’autrice ; la grafia è chiara e ordinata e l’opera è completa in ogni sua parte, senza alcuna cancellatura. 6   L’espressione appartiene a Metastasio. Cfr. E. Sala Di Felice, Metastasio, cit., p. 19.  















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la musica, solo L’Insubria possiede una dedica indirizzata dall’Agnesi ai regnanti d’Austria, che identifica dunque, senza dubbi, il nome della musicista. Con probabilità, come già detto in precedenza, la Lombardia austriaca manteneva, rispetto alla Repubblica veneta, una maggiore cautela sull’inserimento di donne artiste in contesti pubblici. A Venezia, infatti, come dimostra il caso Bergalli, gli impresari dei teatri affidavano, già nella prima metà del Settecento, i libretti dei propri drammi per musica ad una signora sposata, rivelandone apertamente l’identità. A Milano, nella seconda metà del secolo, ciò poteva anche accadere, ma garantendo l’anonimato dell’autrice, forse per non esporsi ad eventuali critiche pregiudiziali legate al fatto che fosse donna, che condizionassero in qualche modo l’esito della rappresentazione. Inoltre, se la Bergalli componeva i suoi drammi, cercando d’ingraziarsi qualche nobile locale, ma senza alcun evidente progetto encomiastico, l’Agnesi inseriva l’elogio della casata asburgica in tutti i suoi lavori, sin dagli esordi. Sotto questo aspetto, la sua esperienza è direttamente assimilabile a quella di Francesca Manzoni, quasi un ventennio prima ; cambiano le dedicatarie, perché cambiano ovviamente i tempi : da Elisabetta Cristina a Maria Teresa, a Beatrice d’Este. Evidentemente le autrici milanesi tenevano a porsi sotto l’ala protettrice di sovrane e principesse asburgiche (o legate agli Asburgo) particolarmente attente alle qualità artistiche femminili. Sono note infatti l’abilità canora e le competenze musicali delle figlie di Carlo VI (Maria Teresa in particolare), che si esibivano sovente a corte in azioni teatrali composte dallo stesso Metastasio. 1 La Repubblica veneta, non soggetta al dominio straniero né a condizionamenti ecclesiastici, vista la sua tradizione anticuriale, si mostrò, invece, per tutto il secolo generalmente più aperta al diretto intervento delle donne nei più vari campi del sapere e dell’arte. Forse è eccessivo accostare le novità contenute dell’opera di Maria Teresa Agnesi a quelle della riforma Gluck-Calzabigi, che pur si stava preparando alla metà del secolo, ma sicuramente la nostra musicista si mostrò, nel corso della sua attività, sempre molto attenta al gusto musicale del suo tempo. Sono state rilevate, infatti, alcune caratteristiche ricorrenti nella sua opera, come l’uso di recitativi accompagnati, alcuni mutamenti significativi nella direzione della tecnica vocale e una costante volontà di far coincidere espressione musicale e qualità drammatiche dell’argomento e dei personaggi. 2 La cosa non stupisce visti i trascorsi di Gluck a Milano, alla scuola di Sammartini dal 1737, come detto già in precedenza ; per il Teatro Ducale il musicista aveva composto diverse opere, dal 1741 al 1745, tra cui si ricordano l’Artaserse e il Demoofonte su libretto di Metastasio. Non ci addentreremo in un’analisi della partitura, perché di oggettiva difficoltà, viste le poche pagine di musica al momento in nostro possesso. Ma terremo conto sicuramente della specificità dell’Agnesi che è innanzitutto una musicista, prima di essere anche poetessa e drammaturga. Sappiamo che le competenze musicali facevano comunque parte del bagaglio culturale di molti librettisti del xviii secolo (pensiamo a Metastasio allievo di Porpora a Napoli, ma anche alla Bergalli e alla Manzoni, istruite in questo campo) ; diversamente, qui parliamo di una clavicembalista con buone competenze letterarie.  







1   Cfr. E. Sala Di Felice, La florida e canora famiglia di Maria Teresa, in La Festa Teatrale nel Settecento : dalla corte di Vienna alle corti d’Italia, Convegno di Studi 13-14 novembre, 2009, Reggia di Venaria. Gli Atti sono in corso di stampa. 2   Si legga C. De Jong, The life and keyboard, cit., p. 31 : « Some of her innovations actually parallel those of Gluck who is created with writing the first “reformed” opera, Orfeo ed Euridice, in 1762. She was very concerned with bringing out the essential dramatic qualities of the subject and the personalities of the characters by means of musical expressions. In Ciro in Armenia (1753) and Il Re Pastore, the “secco” recitative is all but absent in favor of an accompanied expressive type. These were elements quite novel even in 1766. The singers and their vocal technique were so higly revered that one often has to search an eihteenthcentury opera program for the name of the composer ».  







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Partiremo ugualmente dal libretto e da un’iniziale anomalia che occorre premettere : solo un’aria 1 della partitura manoscritta (di cui possediamo al momento solo il ii Atto) corrisponde alla stampa. Per il resto, il testo scritto sotto la musica è completamente diverso da quello edito, anche se i personaggi e le situazioni sono gli stessi. L’argomento è tratto dal ii e iii libro della Ciropedia di Senofonte e l’antefatto vuole Ciro di Persia, alleato col re di Media, sul punto di muovere guerra all’Assiria. Arsace, re d’Armenia e vassallo dei Medi, si allea allora con gli Assiri, vedendo nella guerra un’occasione per liberarsi dal tributo ; da qui la decisione di Ciro di muovere guerra anche all’Armenia. L’azione del dramma inizia quando Arsace e Palmide, sua futura nuora, sono in fuga dall’esercito persiano. Ciro li raggiunge, prendendoli entrambi come ostaggi e innamorandosi perdutamente della bella principessa. Il dramma, che si snoda nei tre atti canonici del genere, vede il principe Tigrane (amico d’infanzia di Ciro) arrivare ignaro in Armenia per le nozze con Palmide e trovare la sua terra occupata. Dopo aver scongiurato a lungo invano il re di Persia, in nome dell’antica amicizia, di liberare padre e fidanzata, Tigrane ottiene finalmente il gesto di clemenza tanto invocato. L’avvenimento si colloca nel iii atto, l’unico di cui possediamo la musica dalla scena vi, che non corrisponde, però, nella numerazione delle scene del libretto a stampa. 2 L’ambientazione, fino alla scena x, è quella delle Logge corrispondenti a diversi appartamenti, indicata dalla didascalia. Semira, principessa di Persia e sorella di Ciro, è innamorata di Tigrane, ma decide di rinunciare, vista la fedeltà incrollabile del principe armeno alla sua promessa sposa. L’atto si apre col confronto fra le due donne ; Semira, mossa a compassione dalla principessa prigioniera, decide d’intercedere presso il fratello, che però non mostra segni di cedimento. Solamente nella scena v, dopo il colloquio con Tigrane, Ciro sembra afflitto da gravi dubbi : « Ma qual divenni io mai ! Son’io, che voglio ? / Od altri vuole da me ? A un tempo stesso / un istesso pensier scaccio, ed accoglio ! E giusto il trovo, e’l trovo ingiusto insieme » (iii, 5, p. 46). Fino all’ultima scena si mantiene, però, la suspence, poiché non sappiamo realmente quale risoluzione prenderà il re di Persia : Tigrane, infatti, per salvare la vita del padre, decide di rinunciare alla fidanzata, assecondando le condizioni volute da Ciro stesso. Nella scena xi i prigionieri armeni sono condotti al maestoso Tempio del Sole ; tutto sembra predisposto per un sacrificio, poiché compare un’ara in posizione centrale e all’intorno un gran numero di sacerdoti, come indicato dalla didascalia. Come osserva Mercedes Viale Ferrero : « nelle opere serie il “Tempio” aveva una sua connotazione significativa ben precisa » ; 3 semanticamente alludeva infatti al potere religioso, come il Trono al potere civile, entrambi oggetto di venerazione ed obbedienza. Qui Arsace è pronto a farsi immolare per amore del figlio e Tigrane a cedere Palmida per salvarlo ; tutto è sospeso e concitato fino a quando Ciro, rivolto a Palmide, le dice « vieni » e la prende per mano. Il panico si scatena fra gli Armeni, la fanciulla teme di essere immolata, Tigrane si ribella e Ciro pronuncia, nel recitativo, queste minacciose parole : « Spargete, o Sacerdoti, / al gran Nume dell’Asia incensi, e voti » (p. 57). La didascalia a questo punto recita : si desta la sacra Fiamma, e s’ode una breve Sinfonia, dopo la quale Ciro avendo per mano Palmide canta questi versi « […] In questo giorno, in cui  















































1   Atto iii, Scena vii, p. 51, Se per sì dolce amore, cantata da Palmide. Nel manoscritto la scena è sempre la vii e Palmide è sola in scena. Diversamente, nel libretto, la fanciulla è con l’innamorato Tigrane ; tuttavia l’aria che canta prima di uscire di scena è la stessa della partitura. Si tratta dell’unica porzione di testo che corrisponde esattamente nelle due redazioni del dramma per musica. D’ora in poi s’inserirà l’indicazione sintetica di atto in numeri romani e di scena in numeri arabi direttamente in corpo del testo. 2   I fogli della partitura riportano un recitativo più aria di Arsace, che rivela la sua decisione di morire per salvare figlio e nuora dalla vendetta di Ciro. Nella redazione a stampa tale proposito del vecchio re viene invece espresso in una scena collettiva del ii atto, dopo che Ciro, di fronte ai prigionieri armeni, ha imposto a Tigrane la scelta fra la vita di Arsace e la mano di Palmide. 3   M. Viale Ferrero, Le scene dei teatri musicali di Milano negli anni di Parini, in L’amabil rito, cit., p. 815.  

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/ con sacro nodo all’ara tua rimane / Palmide unita al tuo fedel Tigrane » (ibidem). Fin qui tutto poteva succedere, il re di Persia, che aveva imposto a Tigrane, nell’atto precedente, 1 la crudele scelta tra il padre e la sposa può infatti passare, in questa sezione del dramma, da un campo semantico all’altro : da buon sovrano, cioè, a Tiranno ; 2 questo non accade e ci si avvia nel consueto lieto fine, suggellato da un coro che esalta la grandezza di Ciro :  







Vanti l’Asia i pregi tuoi, o dell’Asia luce, e amor, o maggior de’ sommi Eroi, o de’ Numi imitator. (iii, 11, p. 58)

Un po’ differenti il tono e il metro del coro finale, armonizzato a quattro voci in tempo ternario, che leggiamo nella partitura manoscritta :  

Di qualche cosa è spesso cagione il vizio ancora quando nel vizio stesso germoglia la virtù. L’odio nel nostro petto cangiò talor d’aspetto e fu virtù talora più che in amor non fu. 3

Dal punto di vista metrico, si tratta di settenari e non di ottonari (come nella versione a stampa) e dal punto di vista tematico, non si celebra la grandezza del buon sovrano, ma si trae la morale della vicenda, concludendo che dal vizio spesso germoglia la virtù e che quest’ultima vale ben più dell’amore. Nel manoscritto si pone dunque l’accento sul comportamento non virtuoso di Ciro e sulla sua redenzione finale, senza alcun tono celebrativo della sua regalità. In questa versione l’aspetto etico e quello pedagogico del dramma sono in primo piano, circostanza che trova conferma nella tessitura melodica con le ripetizioni delle parole « vizio istesso » e « virtù » appartenenti entrambi (con significati opposti) al campo semantico della morale. In effetti, l’intera scena xi del libretto a stampa differisce non poco dalla versione manoscritta ; il luogo dove si svolge la conclusione è però lo stesso, il Tempio del Sole con l’ara nel mezzo e i sacerdoti intorno. È pertanto evidente che si sta parlando del medesimo dramma e che, nonostante le grandi differenze tra libretto e manoscritto, l’argomento sembra in generale coincidere in ambedue le versioni. Si noti però l’aggiunta nella didascalia della partitura che vuole Palmide in abito bianco, come vittima sacrificale. La fanciulla ha deciso infatti di perdere la vita al posto di Arsace per non cadere vittima delle brame di Ciro ; con queste sue parole si apre la scena : « Ove siete o Ministri ? / affrettatevi al colpo ; / io morir deggio / la vittima son io ; / eccomi pronta il sacrificio è mio ». Ci sono evidenti echi dell’ episodio mitico d’Ifigenia, con l’ara al centro della scena, che mantiene la doppia simbologia del luogo dell’Imeneo e del sacrificio e la fanciulla vestita di bianco. Il pubblico poteva riconoscere dunque la vicenda omerica e le sue rivisitazioni tragiche, ma qui è cambiata di segno : si attende il sacrificio, si celebreranno le nozze. La differenza tra il testo a stampa e la partitura non è da poco, perché nel libretto Palmide  

























1   Atto ii, Scena x, p. 35 : « Tigrane, io dono / la libertà di lei, / o la vita del Padre a merti tuoi. / Che posso far di più ? Scegli qual vuoi ». 2   Così l’aveva apostrofato Semira, nella scena iii dello stesso atto, p. 43 : « L’arte più fida de’ Tiranni è questa : / chiamare il Ciel de’ lor delitti a parte ». 3   MACvIII, Atto iii, Scena ultima ; la trascrizione, secondo criteri conservativi, è mia.  

















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non si offre mai come vittima sacrificale : si nega a Ciro, ma in alcun modo vuole perdere la vita, anzi, nel ii atto, arriva addirittura (per poi pentirsi subito) a caldeggiare il sacrificio spontaneo di Arsace 1 per salvare il proprio matrimonio con l’amato Tigrane. Nell’ultima scena, quando Ciro la chiama a sé, la principessa è terrorizzata dall’idea che voglia sacrificarla ed esplode : « Oh (Ciel !) / dunque fra voi / come vittima all’ara / tratta sarà una regal Donzella ? » (iii, 11, p. 57). Nel manoscritto, il ruolo di Palmide possedeva uno spessore tragico che nel libretto è andato perso ; anzi, in quest’ultima versione, la fanciulla si presenta costantemente indecisa e timorosa, tendenzialmente incline a scegliere la via più facile. In più, nulla resta nel dramma edito della rocambolesca scena finale in cui è Araspe a sventare un vero e proprio eccidio, dissuadendo Ciro con la notizia di una possibile insurrezione della plebe : « Signor provvedi a te stesso ed al Regno / la morte di Tigrane la plebe sollevò / trattenni a forza il tumulto fin or ». 2 In generale, l’Agnesi ha attenuato i caratteri tragici di tutti i personaggi principali, mantenendo la suspence, ma ridimensionando le componenti di pietà e terrore contenute nella prima versione del dramma. Così facendo, Ciro risulta, nella redazione finale del suo personaggio, un sovrano giusto che ha rischiato di cedere ad una veniale tentazione amorosa e Palmide una giovane che cerca di assumere un ruolo attivo nel compiersi del suo destino solo quando, nella scena II dell’ultimo atto, scongiura Semira d’intercedere per lei presso il re. Il ruolo della fanciulla contesa tra il sovrano di Persia e il promesso sposo risulta pertanto molto ridimensionato nel passaggio dal manoscritto alla stampa, mentre rimane costante il carattere audace e virtuoso di Semira. È la sorella di Ciro infatti a muovere l’azione, conducendola al suo scioglimento finale ; la fanciulla, rinunciando dignitosamente all’amore per Tigrane, difende la principessa prigioniera (nonostante sia sua rivale in amore) e convince il sovrano a recedere dai suoi propositi. Passiamo ad alcune note sulla struttura drammaturgica del libretto che (come dimostrano le numerose cancellature del manoscritto) è stata più volte ritoccata dall’autrice. Innanzitutto, si rileva la presenza di molte didascalie esplicite, in quasi totale assenza di didascalie implicite, soprattutto per quanto riguarda le indicazioni temporali e spaziali. L’unità di luogo non è solo parzialmente osservata perché i mutamenti di scena sono numerosi, almeno tre nel i e ii atto e solamente due nel iii ; l’azione si avvia all’aperto, in una selva montuosa e si chiude all’interno delle logge reali e del tempio del sole. Ciò non stupisce perché a quest’altezza di secolo le mutazioni di scena erano numerose e in questo caso gli scenografi Ricardi e Ghezzi (che allestiranno, un anno dopo anche il Lucio Vero di Zeno-Jommelli) lavoravano in un teatro già avvezzo alle dimensioni imponenti delle creazioni con prospettiva ad angolo dei fratelli Galliari. 3 In generale, nel I atto sono più numerosi gli elementi di scenografia verbale, a cominciare dalla scena ii, in cui Araspe incita i suoi soldati all’inseguimento di Arsace : « Ove più folta, Amici, / l’ampia selva s’oscura, e a fuggitivi / favorevol’è più, ciascun s’affretti » (p. 4). Per continuare con la scena vii, ambientata sulle spiagge del fiume Arasse, dove Araspe intravede dalle fronde del bosco le truppe dell’ignaro Tigrane avanzare sulle acque del fiume : « Ma quai per entro quelle piante ombrose / aurei legni rimiro / calar pe’l fiume, e d’aste folgorar, e di scudi ? E chi è colui, / che sull’adunca prora / appar fra tutti sì leggiadro, e altero ? » (p. 9). Il ii atto è introdotto da una lunghissima didascalia spaziale che ambienta l’azione in una vasta campagna, da un lato della quale si vede la Reggia d’Armenia ; sopra le mura sono schierati  









































1   Atto ii, Scena xii, p. 37 : Palm. « Ma’l genitore / volontario non more ? » Tigr. « e tu saresti / sì crudel di soffrirlo ? 2   MACvIII, Atto iii, Scena ultima. / E capace tu sei / di stringermi al tuo sen reo di tal colpa ? ». 3   Cfr. M. Viale Ferrero, La scenografia del ’700 e i fratelli Galliari, Torino, Edizioni d’arte Fratelli Pozzo, 1963.  



   

   





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il popolo e le macchine belliche separati dall’esercito persiano, raccolto su un gruppo di colline, dal fiume Arasse. Si allude esplicitamente ad una scena di guerra : Alle porte della città si rinnova il combattimento. Riesce ad alcuni Armeni di ricoverarsi nella Città e d’impedirne l’ingresso a’ vincitori. Si noti inoltre l’uso dei deittici 1 nei versi del recitativo cantato da Araspe, schierato con l’esercito di fronte alla città assediata : « All’armi nostre invano / voi di quell’onde disputate il varco. / Breve ritardo alla fortuna nostra saran pur queste mura » (ii, 1, p. 21). Gli Armeni stanno perdendo sul fronte del fiume e su quello della città ed Araspe sottolinea l’opprimente vicinanza del suo esercito con il deittico « queste » : si trova infatti sotto le mura, ad un passo dalla vittoria. E, nella scena successiva, il luogotenente persiano, rivolto a Ciro (che sta entrando nella città ormai occupata col carro trionfale) ribadisce : « Il superato Arasse, / e queste mura dome / accrescon nuova fama al tuo gran nome » (p. 23). Il deittico sottolinea che la sottomissione è ormai definitivamente avvenuta ; le mura alludono, ancora una volta, in modo metonimico, all’intera popolazione armena. Nel iii atto si può confrontare la didascalia esplicita dell’ultima scena del manoscritto con quella del libretto ; pur essendo sostanzialmente simile, la partitura possiede maggiori indicazioni verbali di scenografia : Magnifico tempio con ringhiere ripiene di popolo dal quale vi discende un’ininterrotta scala ad un porticato con doppie colonne. Ara nel mezzo colla statua di Giove, con apparati di sacrificio, ministri e sacerdoti. Forse l’autrice aveva in mente un apparato scenografico più elaborato di quello effettivamente presente sulla scena, oppure sono intervenute ragioni di spazio nella stampa perché, nel libretto le indicazioni appaiono drasticamente ridimensionate. È improbabile però che il palcoscenico del Ducale non potesse ospitare scala e loggiato, visto che i Fratelli Galliari, che vi lavoravano proprio in quegli anni, erano chiamati “quelli delle colonne”, a causa della loro nota predilezione per alcuni elementi architettonici, fra cui, appunto, scale e colonne. Tuttavia, mancano nel libretto a stampa le ringhiere da cui si sporge il popolo e la scala che conduce al doppio porticato ; non v’è cenno alla statua di Giove, ma compare un trono vicino al quale si radunano i Grandi di Persia. Inoltre, mentre nel manoscritto si allude esplicitamente all’altare sacrificale, nel libretto si parla genericamente di « ara » ; in effetti la vicenda dell’uccisione di Palmide non compare più nell’ultima redazione, prefigurandosi solo per un attimo nella citata scena in cui Ciro prende improvvisamente per mano la fanciulla di fronte allo stupore generale, per poi condurla al rito nuziale con Tigrane. Nel complesso, troviamo il libretto dell’Agnesi ricchissimo d’indicazioni sceniche, con una dettagliata descrizione dei luoghi e numerose didascalie che indicano le azioni che i personaggi devono compiere. Come si evince dagli esempi riportati, si prefigurano addirittura scene di massa ed azioni simultanee, prevedendo, evidentemente, un consistente dispendio di mezzi. Interessante, rispetto agli altri libretti sin qui analizzati, nelle didascalie della versione a stampa, l’indicazione d’intermezzi strumentali che accompagnano l’azione sulla scena, in particolare di tre sinfonie. La prima si colloca nella scena viii del primo atto, in cui la didascalia recita : « Si vedono venire per il Fiume molti legni magnificamente ornati, dal principale de’ quali al suono di lieta Sinfonia sbarca Tigrane con alcuni Armeni » (p. 9). Tigrane, già intravisto attraverso la selva da Araspe nella scena precedente, arriva, ignaro di tutto, in pompa magna da una missione in terre straniere. L’inserzione della musica è giustificata dalla drammaturgia, perché la sinfonia accompagna il principe armeno con l’esercito schierato come accadeva sovente al rientro o alla partenza delle truppe.  







































1   Interessante a livello semantico anche l’uso dei deittici nella scena xii del i atto, quando Ciro rivela a Tigrane l’identità della fanciulla di cui si è innamorato, p. 14 : « E questa, o Ciro, / è quella, che t’accese, e tu pretendi / su quel cuore, o Signor, su quella mano ? ». Lo stupore di Tigrane nello scoprire che la donna di cui gli ha parlato Ciro è la sua Palmide è sottolineato dal deittico « questa », mentre « quella » allude alla lontananza di donna fantomatica che si era prefigurato in precedenza. Nella mente del principe armeno le due donne non possono coincidere perché questo significa ammettere che Ciro aspira alla mano della sua amata.  



   









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Nell’atto successivo, scena II, compare un’altra esplicita indicazione di presenza di strumenti, sempre in didascalia : « Vedesi venire Ciro sopra carro trionfale con al fianco Semira, preceduto da molte schiere, e da bellica Sinfonia » (p. 23). La capitale armena è stata espugnata e l’esercito di Ciro fa la sua entrata trionfale al suono di una sinfonia, che qui viene definita esplicitamente « bellica », diversa dunque da quella che accompagnava Tigrane. In effetti, mentre il principe armeno rientrava lietamente nella sua patria, il sovrano di Persia entra da vincitore in una città appena sottomessa al suo esercito. Non può mancare poi l’inserzione musicale anche nell’atto iii, quando, nell’ultima scena, Ciro dà ordine ai sacerdoti di avviare il rito nuziale : « si desta la sacra Fiamma, e s’ode una breve Sinfonia » (p. 57). Anche qui la presenza della musica, esplicitata direttamente nel testo, trova piena giustificazione nell’economia del dramma, poiché accompagna il rito delle nozze. A queste didascalie esplicite si può aggiungere inoltre la presenza d’indicazioni foniche presenti nel dialogo ; si legga, nel I atto, Palmide : « Salvati, o padre, / delle nemiche squadre / il fremito già senti ormai vicino » (i, 1, p. 3). Nel tessuto verbale si allude così all’elemento del suono, facendo prevedere, nella rappresentazione, un cozzare di armi e un fragore in lontananza. Si tratta del suono reale di qualcosa che sta accadendo, dunque pienamente giustificato dal punto della drammaturgia. Le indicazioni riguardanti la musica, o anche solo rumoristiche, sono dunque particolarmente numerose in questo libretto. Non stupisce che l’Agnesi, da musicista, riservasse una specifica attenzione al ruolo della componente strumentale del dramma, facendolo concorrere con decisione alla riuscita dello spettacolo e inserendolo in maniera pertinente a colmare i vuoti lasciati dalle parole. La presenza di sinfonie che accompagnavano l’azione era prassi diffusa nel melodramma settecentesco, ma l’indicazione esplicita di tali inserzioni musicali nel libretto stampato non era così frequente (dando per scontato evidentemente che l’intero dramma fosse accompagnato dalla musica). Le sezioni strumentali del Ciro in Armenia sembrerebbero conquistare così la dignità della parola scritta, arrivando addirittura alla trasmissione all’interno del canale editoriale. La musica accompagnava di fatto l’intera Opera, ma in questo caso essa assume carattere tematico anche all’interno del libretto, inserendosi a pieno titolo nel contesto dell’azione per connotare alcune scene di massa. Si tratta di un cambiamento significativo nella concezione del melodramma, che rimanda direttamente agli intenti riformatori di Gluck-Calzabigi delineatisi già alla metà del secolo. Inoltre, il frequentissimo uso delle didascalie esplicite nell’opera dell’Agnesi può indicare, da un lato, una codificazione di genere e, dall’altro, una maggiore partecipazione del librettista all’allestimento della rappresentazione. Questo accadeva già con Metastasio, che disseminava i suoi testi drammatici d’indicazioni scenografiche che ne facilitassero la transcodificazione, anche in contesti lontani da quello per il quale lo spettacolo era stato inizialmente concepito. 1 Siamo di fronte ad un poeta di teatro, « il cui compito non si esauriva nella composizione del testo poetico, ma investiva la sua realizzazione scenica, alla cui direzione egli era preposto ». 2 Elena Sala Di Felice sottolinea « l’autorevolezza di latitudine europea » conferita all’abate romano dal ruolo di poeta cesareo. La studiosa rileva la frequenza, in alcune lettere dell’epi 































1   E. Sala Di Felice, Metastasio, cit., p. 16 : « Ci troviamo dunque di fronte ad un testo poetico caratterizzato da una forte carica conativa, elemento qualificante del discorso del testo drammatico (secondo la Ubersfeld), che si rivolge in modi impressivi agli altri operatori teatrali : scenografi, attori, costumisti, e via seguitando. Una tale cura è nel Metastasio insieme previdente e prevaricante, almeno nelle intenzioni, poiché presiede alla costruzione di un testo disponibile al massimo grado all’alienazione spettacolare, ma insieme teso a prefigurare in tutti i particolari uno spettacolo, o addirittura una serie di spettacoli, dominati dalle intenzioni del poeta-dittatore ». 2   Ivi, p. 13.  







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stolario metastasiano, di quelle che potremmo chiamare addirittura « istruzioni di regia » (usando il termine con la cautela dovuta agli anni e al contesto cui ci riferiamo) sia per gli spettacoli da allestire in altre corti, sia per quelli destinati ai teatri a pagamento. Se è vero che « la dicotomia tra l’autore del testo letterario e quello del testo spettacolare è un fenomeno ben più tardo », molti librettisti, soprattutto del primo Settecento, erano poeti o drammaturghi che scrivevano su commissione i loro versi senza avere alcun contatto con chi li avrebbe poi musicati e portati sulle scene. Non sappiamo se l’Agnesi abbia presieduto alla realizzazione spettacolare del suo Ciro al Regio Teatro Ducale. L’ipotesi non è da escludere a priori, visto che l’Opera è stata allestita nella principale sala pubblica della sua città ed eseguita da musicisti che probabilmente conosceva ; certo è che la sua condizione femminile, ma soprattutto sociale, poteva anche precluderle il contatto diretto col teatro e con l’orchestra. Ricordiamo, infatti, che l’Agnesi, pur essendo nota a Milano e nella corte, non rivestì mai alcun incarico ufficiale, dunque non sappiamo se abbia scritto il Ciro in Armenia su commissione. Le accurate indicazioni spaziali e scenografiche contenute nelle didascalie del libretto fanno pensare con ragionevole certezza alla volontà, da parte dell’autrice, di vincolare il più possibile i movimenti dei cantanti e la collocazione spaziale dell’azione all’autorità della parola scritta. La particolare attenzione alla pertinenza delle inserzioni strumentali nello sviluppo della fabula è sintomo inoltre della nuova concezione della musica come ingrediente necessario a veicolare con maggiore efficacia i significati del testo drammatico verso il pubblico. Rispetto alle indicazioni di Apostolo Zeno, il libretto prende altre direzioni, collocandosi semmai nel solco metastasiano, con anticipazioni di alcuni aspetti della riforma viennese. Nella gestione del rapporto fra recitativo e aria, l’Agnesi non segue infatti il rigido schema del pezzo chiuso collocato a fine scena, ma lo pone sovente a concludere un gruppo di scene, avvicinandosi, appunto, più a Metastasio che a Zeno. In generale, infatti, la struttura di questo libretto vede l’aria eseguita dal personaggio che esce dal palco, pertanto, nelle scene in cui non è previsto alcun ingresso tra le quinte, non è inserita alcuna pausa nello scorrere dell’azione. Si rileva inoltre la presenza di arie in uscita, poste in apertura di scena, come quella cantata da Tigrane, quando, nel secondo atto, fa irruzione nella galleria della reggia di suo padre Arsace :  











Dov’è l’idol del mio core ? Dove son le luci amate ? Chi mi guida al caro Ben ? Chi dà pace al mio dolore ? Patrie mura voi pietade, voi di me sentite almen ! (ii, 4, p. 25)  









Compaiono, inoltre, nel corso del concitato dialogo svolto dal recitativo, alcuni pezzi intermedi, le cosiddette arie medie, di cui notiamo la frequenza in conclusione del II atto ; in primo luogo, segnaliamo il duetto fra Palmide e Tigrane :  



Palm. Lungi da sguardi miei dove, mio dolce amore ? Tigr. Dove sol regni orrore, dove io non vegga il dì. a 2. Perché infelici, o Dei, esser dobbiam così ! (ii, 12, p. 38)  



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E, a pochi versi di distanza, troviamo nuovamente un pezzo chiuso cantato sempre da Palmide, ma senza da capo :  

Barbara, quest’ancor dovea soffrir da te il mio fedele amor, la mia costante fe ! (Ibidem)  

Ancora, nell’atto successivo, si trova un’aria media cantata da Tigrane, la cui prima strofa recita così :  

Ah come vuoi ch’io freni le smanie del cor mio, o forse a queste (oh Dio) ti spiace d’insultar. (iii, 4, p. 40)

Il pezzo prevede un’altra strofa senza da capo ; dopo averlo cantato, Tigrane esce dal palco e segue un recitativo di Ciro che intima ad Araspe di radunare tutti nel tempio ; si chiude così, sugli incerti propositi del sovrano, l’intera scena. In generale, nel Ciro in Armenia, l’inserzione delle arie all’interno dell’azione sembra sottolineare i toni sentimentali del dramma ; tali pezzi, infatti, trattano l’argomento amoroso e sono eseguiti spesso dalla coppia d’innamorati Tigrane-Palmide. Non sono rare, inoltre, alcune sezioni di recitativo arioso, individuate da gruppi di versi rimati fra loro, che, pur non costituendo una struttura chiusa, fanno pensare ad un’esecuzione più lirica che declamata. Un esempio di questo si trova nell’atto secondo, ed è affidato sempre a Tigrane, che implora un gesto di benevolenza da parte di Ciro : « Ah mio Signor, per quello, / che ti s’aggira in volto / lampo di sovrumana alta fortuna, / per quante su’l tuo capo / e speranze, e virtudi il Cielo aduna, / per l’adorata tua dolce Mandane, / senti pietà del povero Tigrane » (ii, 10, p. 34). E ancora, più avanti, nella scena finale dell’ultimo atto, con tutti i personaggi riuniti presso il tempio del sole, ancora Tigrane canta una lunga sezione di versi liberamente rimati :  













[…] al patrio regno la principessa torni arbitra del suo core, e de suoi giorni. Della vita del padre a me fa dono, ed in lor vece prigionier tuo sono e se a placarti interamente, o Ciro qualche sangue versar oggi conviene entri ’l vindice ferro in queste vene. Pensato avresti mai, che un dì potesse un tal gioco di me prender la sorte, ch’io pregar ti dovessi a darmi morte. (iii, 11, p. 55)

Si tratta nuovamente di una supplica del principe armeno al re persiano e pertanto possiamo azzardare un collegamento tra i contenuti sentimentali del testo ed un’ipotetica, ma probabile resa musicale più “piena”, dal punto di vista timbrico. 1 Tuttavia, non possiamo fornire 1   Oltre al basso continuo, che normalmente accompagnava l’intonazione del recitativo “secco”, possiamo pensare all’inserzione di archi o di oboi, per sottolineare maggiormente la componente emotiva dei versi sciolti rimati.

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indicazioni in proposito, visto che le poche pagine di spartito tuttora conservate raramente ricalcano il testo che leggiamo nella versione a stampa del libretto. Ad ogni modo segnaliamo che nei libretti primo-settecenteschi della Bergalli tali sezioni di versi liberamente rimati non esistevano ; la divisione tra aria e recitativo era piuttosto netta (nella direzione voluta da Zeno) ed il distico di endecasillabi in rima baciata compariva solo prima del pezzo chiuso. L’Agnesi sembra dirigersi invece (e in tempi precoci) verso quel ripensamento della rigida separazione fra recitativi ed arie che troverà in Calzabigi e nella riforma viennese la sua compiuta espressione. L’intento è quello di attirare l’attenzione dello spettatore sulle sezioni dialogate del melodramma, evitando un’eccessiva concentrazione sui virtuosismi del cantante nell’aria d’ingresso. Non è un caso che le arie del Ciro inserite nel corso dell’azione non prevedano alcun ritornello, evitando così la struttura A-B-A’, per convogliare l’effusione lirica del pezzo chiuso direttamente sugli accenti declamati del recitativo. Dal punto di vista drammaturgico, ciò non compromette lo svolgimento lineare del tempo dell’azione, né la verisimiglianza di quanto accade in scena come sarebbe accaduto con un cantante che avesse ripetuto più volte la stessa strofa. Inoltre, l’inserimento di lunghe sezioni di versi liberamente rimati nello svolgersi del dialogo conferisce al recitativo stesso la possibilità di veicolare significati emotivamente connotati, conferendo maggiore interesse all’intero tessuto verbale del dramma. La presenza delle arie di paragone in questo libretto non è consistente come accadeva in quelli della Bergalli ; i pezzi chiusi del Ciro in Armenia sono infatti strettamente connessi all’azione, presentandosi come loro naturale conseguenza e sottolineandone i significati. Se è vero che la poetessa veneziana inseriva le arie di paragone nel testo in modo che trovassero piena giustificazione dal punto di vista drammaturgico, è anche vero che spesso, nella prassi settecentesca, tali pezzi erano usati invece come vere e proprie “zeppe”. Queste arie svolgevano topoi e similitudini, risultando pertanto intercambiabili, e prestandosi bene ad essere spostate da una scena all’altra, senza possedere necessariamente un’attinenza con l’azione che le precedeva. La prima aria di paragone del Ciro compare nel I atto, quando Araspe, in procinto di allontanarsi per eseguire gli ordini del sovrano, gli suggerisce di riflettere sulla triste sorte di Tigrane, che sta per rientrare vincitore in terre straniere, ma ignaro che la sua Armenia è stata sottomessa :  





Tal rimane mietitore, che da grandine nimica stesa vede al primo albore la speranza, e la fatica del suo cuor, della sua man. Torna ai figli, ed alla sposa, con lor piange, ognor si lagna, sgrida il Cielo, e neppur’osa quella vedova campagna rimirare da lontan. (i, 4, p. 7)

Come si legge, la similitudine del contadino che piange con la sua famiglia il suo raccolto distrutto dalla grandine rispecchia il futuro stato d’animo del principe armeno, quando vedrà la sua terra occupata dall’esercito persiano, dopo averla strenuamente difesa per mare, in lidi lontani. E più avanti troviamo anche un’aria di tempesta, cantata da Palmide, disperata per la crudele scelta che Ciro ha imposto a Tigrane :  

Se fiera nube oscura funesto vel distende,

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col vento il ciel congiura, tuona, ed i lampi accende, e un nembo poi diffonde in su le torbid’onde dell’agitato mar. Felice quel nocchiero, che in mezzo a tal periglio, sebben non salva intero il lacero naviglio, tutto non perde almeno, e a qualche porto in seno poi giunge a respirar. (ii, 10, p. 35)

Il testo, pur svolgendo il tradizionale motivo della nave in tempesta, ben si adatta alla situazione specifica in cui si trova il personaggio, che spera di scampare alla sua triste e penosa condizione, senza perdere tutto ciò che un tempo gli apparteneva. Concludendo, l’attenzione che l’autrice dedica all’azione in scena è minuziosa e il suo interrompersi (in virtù dell’effusione lirica del pezzo chiuso) deve essere logica conseguenza di quanto accaduto prima. Le arie di paragone inserite nel libretto sono pertanto un omaggio alla tradizione di genere, ma in perfetta sintonia con lo stato d’animo del personaggio che sta cantando in quello specifico momento, solitamente prima di entrare fra le quinte. D’altro canto, il tessuto verbale del testo drammatico si presenta fluido nel suo passare dall’aria al recitativo, mirando alla rappresentazione di un’Opera in musica che sia interessante in ogni sua parte per la vista e per l’orecchio dello spettatore. iv. 4. L’Insubria consolata : tracce di performatività in una festa teatrale  

La « Gazzetta di Milano » del 14 maggio 1766 parla dell’Insubria consolata come di un « magnifico componimento drammatico allusivo alla pubblica promessa di sua altezza serenissima la Signora Principessa Maria Ricciarda d’Este con sua altezza Reale il Sig. Aciduca Ferdinando Carlo d’Austria ». 1 E la medesima dicitura di « componimento drammatico » compare sul frontespizio del libretto, edito, nello stesso 1766, presso il Regio Stampatore Giuseppe Galeazzi. Come detto in precedenza, la rappresentazione fu allestita, per l’occasione, nella Sala della Galleria del Palazzo Ducale e non nel Teatro Regio Ducale, come indicato nello studio di Carolyn De Jong. 2 Si trattò pertanto di un allestimento privato, o di una festa teatrale 3 (la  











1   La descrizione degli eventi festivi riportata in « Gazzetta » corrisponde con precisione alle cronache del Borrani. La data della promessa risulta sabato 26 aprile, con la pubblica udienza alle ore 18. L’atto viene stipulato al Palazzo Ducale. Si legga « Gazzetta di Milano », xviii, Milano, Mercoledì 30 aprile 1766 : « Dopo di che passate le loro Altezze Serenissime con sua Eccellenza il Sig. Plenipotenziario Straordinario nella Tribuna, e tutta la nobiltà nella Chiesa di San Gottardo in questo Ducale Palazzo, allora il detto Monsignore della Puebla, con l’assistenza di altri tre vescovi, e dell’insigne Regio Capitolo di Santa Maria della Scala […] venne intonato il Te Deum cantato a più cori di scelta musica sotto il giulivo suono di timpani, e trombe e reiterato sparo delle artiglierie di quella Reale Fortezza […] alla sera venne data una gran festa da ballo nel Salone della Ringhiera. [...] Alla sera si divertirono in questo Ducale teatro col dramma Olimpiade posto in musica dal celebre Sacchini, che tanto per gli attori, quanto per le decorazioni ne riportò l’universale aggradi mento, e dopo il detto Dramma vi fu festa da ballo in abito in maschera ». Si legga anche g. borrani, Diario Milanese, cit., p. 25 : « E per ultimo alla sera nel Salone delle ringhiere vi fu magnifica festa da ballo, aperta dal Ser.mo principe Ereditario con la Principessa Sposa sua figlia, e proseguita poi dai Cavalieri, e dalle Dame in abito di etichetta ; si fecero poi in essa dodici portate, cioè 6 di gelati, e 6 di confetture, e canditi, e furono distribuiti alle donne superbi mazzi di fiori ». 2   C. De Jong, The life and the keyboards, cit., p. 31 : « This opera was followed closely with a production in Milan at the Teatro Ducale in 1766 of Insubria consolata. The musical score of this opera, probably on tha composer’s own libretto, is lost ». La partitura, come detto non è persa ma conservata alla Bibliothéque Nationale de France. 3   Definito come un genere operistico dell’alto periodo Barocco, coltivato specialmente a Vienna. Si distingue  



























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dicitura componimento drammatico appartiene infatti a questo genere di componimenti per musica), ma comunque per la corte e per la nobiltà locale, e non di una recita pubblica in una sala a pagamento. Per la sua esplicita destinazione encomiastica (oltre che per alcune caratteristiche strutturali) l’opera dell’Agnesi sembra appartenere alla forma della cantata, 1 dato che i personaggi sono allegorici e lo sviluppo dell’azione è già determinato sin dall’inizio. Si potrebbe più precisamente definire una festa teatrale, visto l’accento posto da questo genere di spettacoli proprio sull’aspetto encomiastico-celebrativo. 2 Caratteristica dell’azione o festa teatrale nel Settecento è la suddivisione interna in una o due parti, senza divisione di scene e la collocazione in un contesto festivo (genetliaci, nozze, onomastici prevalentemente 3). Secondo la definizione che ne dà Michael Talbot, 4 feste e azioni sono infatti riconducibili a cantate a più voci e serenate sei-settecentesche, trattando un soggetto mitologico o allegorico, ma con una particolare attenzione agli aspetti coreografici, scenografici e orchestrali. A differenza dei drammi per musica, feste e azioni non necessitano di peripezie o intrecci complessi, secondo una dinamica centripeta che segue una costruzione a tesi. In generale, possiamo affermare che questo tipo di spettacolo del Sei-Settecento possiede molte affinità con oratorio o azione sacra, funzionando con un simile meccanismo drammaturgico. Tutte le caratteristiche elencate sono presenti nell’Insubria consolata : non compare la suddivisione in scene, i personaggi non possiedono un portato sentimentale autonomo e la struttura drammaturgica segue una logica a tesi. Insubria è disperata perché non conosce il suo destino e si consulta con Imenéo che, lasciandola in compagnia del Genio Estense e del Genio Austriaco, è chiamato in Cielo per ricevere una rivelazione. Al suo ritorno, Insubria può tranquillizzarsi, il matrimonio di Beatrice d’Este e di Ferdinando d’Austria è già scritto  

dal dramma per musica (nome assegnato alla maggior parte delle Opere in questo periodo) per il soggetto tipicamente allegorico e la produzione concepita per un matrimonio importante, onomastici, genetliaci. Termini simili ma meno comuni sono azione teatrale e componimento drammatico. La prima festa teatrale di rilievo fu Il pomo d’oro di Francesco Sbarra con musica di Antonio Cesti, rappresentata per le celebrazioni nuziali dell’imperatore Leopoldo I e Margherita Teresa di Spagna nel 1668. Durante i successivi cento anni poeti come Nicolò Minato, Pietro Pariati, Apostolo Zeno e Giovanni Pasquini scrissero molti libretti viennesi di questo genere, musicati da musicisi locali, tra cui Draghi, Fux, Caldara e Hasse. Questo tipo do componimento iniziò il suo declino a partire dalla metà del secolo xviii. L’ultimo importante poeta di feste fu Pietro Metastasio, ma quando cessò di lavorare per il teatro, intorno al 1767, questo genere progressivamente scomparve. Cfr. O. Jander, voce Festa teatrale, in The New Grove Dictionary, cit., vol. 6, p. 504. 1   Forma musicale di genere vocale e strumentale le cui origini risalgono agli inizi del sec. xvii. Può essere a una o più voci, avere carattere sacro o profano, e si articola generalmente in diversi brani di andamento contrastante. Divenuto genere comunissimo (a cavallo fra il sec. xvii e xviii ne vennero prodotte a migliaia dai più rinomati maestri italiani) la cantata fu poi coltivata anche all’estero (specie in Francia) conservando la struttura a una o due voci con basso continuo realizzato dal cembalo, anche se non mancarono i tentativi di ampliare il discorso facendo intervenire uno o più strumenti obbligati, cioè dialoganti con le voci, o addirittura impiegando soli, coro e orchestra. 2   Questa manifestazione spettacolare, che affonda le sue radici nel Cinquecento e vede nel Seicento il suo massimo splendore, tende in genere a perdere d’importanza nella seconda metà del Settecento. Sull’argomento e sulla situazione italiana nel periodo barocco cfr. C. Molinari, Le nozze degli Dei. Un saggio sul grande spettacolo italiano del ’600, Roma, Bulzoni, 1968 ; L. Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, G. Einaudi, 1977 ; M. Fagiolo Dell’Arco, S. Carandini, L’effimero barocco. Struttura della festa nella Roma del ’600, Roma, Bulzoni, 2 voll., 1977-1978 ; Feste barocche. Cerimonie e spettacoli alla corte dei Savoia tra Cinque e Seicento, Milano, Silvana, 2009. 3   Per ulteriori approfondimenti si rimanda all’intervento di A. Chegai, Configurazione scenica e ritmo drammatico nelle feste teatrali di Metastasio, in La Festa Teatrale nel Settecento, cit. Nel repertorio metastasiano lo studioso inserisce una distinzione fra genetliaci, a cui furono in genere dedicate feste e onomastici, per i quali andarono in scena drammi ; si stabilisce così una gerarchia fra i due tipi di festeggiamento, visto che i drammi per musica prevedono un intreccio più complesso, con svolgimento di peripezie. Nello schema disegnato da Chegai feste, azioni, e drammi si avvicenderebbero dunque non casualmente, ma seguendo un sistema di mutua compensazione. 4   Cfr. M. Talbot, The chamber cantatas of Antonio Vivaldi, Woodbridge-Venezia, Boyosell-Fondazione Giorgio Cini, 2006 ; Idem, Aspects of the secular cantata in late baroque Italy, Farnham : Ashgate, 2009.  











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nei siti celesti e anche i due Geni gioiscono della futura unione. I contenuti del dramma, come si vede, sono prettamente di natura morale-didascalica e il lieto fine è d’obbligo. Il dialogo fra i personaggi possiede solo una funzione argomentativa : essi espongono la necessità di un matrimonio che salvi Insubria dai suoi affanni ; l’annuncio delle nozze reali è la diretta conseguenza di quanto esposto prima nel dramma. Di quest’opera possediamo l’intera partitura 1 e sono minime le varianti fra la versione manoscritta sotto le parti musicali e quella stampata nel libretto da Galeazzi. L’organico orchestrale è composto da due sezioni di violini, due di trombe, una di viole, oboi, corni e basso continuo. Tutto questo rientra nella struttura generale dell’orchestra settecentesca che eredita dal Cinquecento la scrittura a voce piena degli archi (violini e viole) e dal Seicento il trio di fiati (oboe, tromba e corno) con parti solistiche. Sappiamo che ai tempi in cui l’Agnesi compose Ciro e Insubria l’orchestra del Ducale contava ben trentadue strumentisti ed era una delle maggiori d’Europa. 2 Non abbiamo nessuna indicazione invece degli interpreti dei quattro personaggi, ma dalle chiavi musicali deduciamo la presenza di tre soprani (Imenéo, Insubria, Genio Estense) ed un tenore (genio Austriaco). L’attribuzione della voce tenorile al solo Genio d’Austria potrebbe voler conferire connotazione virile a colui che tutela e rappresenta, in quest’opera, la casata regnante, mettendone in evidenza dunque la forza e il potere. Il dramma è introdotto da una sinfonia iniziale e una seconda sinfonia compare tra le due parti, non sappiamo se accompagnata da balli, perché non ne abbiamo alcuna indicazione esplicita nella partitura e nel libretto. Una prima osservazione può riguardare la componente timbrica dell’accompagnamento orchestrale : i personaggi sono infatti connotati da un loro specifico “colore” musicale, come dimostra l’inserimento degli oboi quando i due Geni entrano in scena. 3 E sempre gli oboi sottolineano i momenti particolarmente solenni 4 o quelli di esplosione emotiva da parte dell’affranta Insubria, sfinita dall’incertezza riguardo alla sua sorte ; questo accade, per esempio, nella prima parte, quando canta l’aria Voi conoscete pure dai toni patetici e dolorosi. 5 Generalmente gli oboi venivano impiegati per conferire all’ambiente sonoro un clima pastorale con toni amorosi, non stupisce dunque che l’Agnesi li impieghi in questa sede per i momenti d’intensità emotiva in un componimento che prefigura un legame d’amore tra la casata estense e quella asburgica. Ciò dimostra, ancora una volta, la volontà della musicista di fondere il più possibile nel componimento drammatico il tessuto verbale con quello sonoro, sintomo ancora embrionale di un atteggiamento che, passando per la riforma viennese, troverà molto tempo dopo la sua più compiuta espressione nel Wor-Ton Drama wagneriano. Nel caso dell’Agnesi sarebbe certamente eccessivo parlare di consapevolezza, visto che i tempi non erano ancora maturi per mutamenti sostanziali nella concezione del melo 







1

  MABnf. Come detto, si tratta quasi sicuramente di un testimone di mano di un copista.   Cfr. G. Barblan, La musica in Milano nei secoli xvii e xviii , cit., p. 968 ; C. A. Vianello, Teatri, spettacoli, musiche, cit., p. 291. 3   L’Insubria consolata, cit., p. 9. I Geni entrano in scena cantando l’aria, armonizzata a due voci, O felice almo soggiorno. Gli oboi li doppiano all’ottava, in stile omoritmico, mentre il Genio Estense si permette qualche fioritura in più con scale veloci. 4   Ivi, p. 26. L’aria cantata dal Genio Austriaco prima della felice conclusione del componimento, Vedi quell’alma, e poi, presenta nella partitura l’esplicita indicazione di Maestosa e vede suonare proprio gli oboi e i corni al posto degli archi. Si ricorda che i corni suonavano spesso nei pezzi che rievocavano situazioni militari o di caccia, ma uniti agli oboi sembrano immergere l’intera aria in un clima pastorale-amoroso, come voluto dal testo che celebra la gioia d’Insubria di fronte al volto della principessa estense. 5   Ivi, p. 14. L’aria, organizzata in due sezioni, vede nella prima (corrispondente alla prima strofa) i violini che accompagnano il canto, con gli oboi che entrano in imitazione, mentre nella seconda (seconda strofa) l’organico si svuota, lasciando solo i violini ad accompagnare il patetico sfogo di Insubria. 2



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dramma ; sicuramente, però, qualcosa stava lentamente cambiando nel gusto musicale della metà del secolo, portando verso una decisiva rivalutazione della componente sonora dell’Opera, non solamente nella direzione del canto. Ricordiamo infatti che la musica strumentale nasce proprio nel Settecento, dopo essere stata per secoli concepita come imitazione e accompagnamento di quella vocale. Punto decisivo di svolta in questa direzione è la scrittura mozartiana che nelle sue feste teatrali come L’Ascanio in Alba (1771) e Il sogno di Scipione (1776) prevede un ampliamento dell’organico orchestrale che, arrivando a cambiare la sintassi strutturale delle arie, porta la strumentazione alla ribalta anche dal punto di vista semantico. 1 Passando al rapporto fra aria e recitativo, prendiamo in esame anzitutto la struttura metrica dei pezzi chiusi ed il loro abito sonoro. Possiamo affermare, in generale, che tutte le arie si presentano bipartite secondo la forma canonica A-B-A’ e che il trattamento musicale a loro riservato dalla compositrice corrisponde perfettamente a questa bipartizione con refrain. La prima sezione A viene infatti brevemente introdotta dagli strumenti che portano la melodia, in genere i violini primi (o gli oboi nei casi sopra citati). La strofa intonata dal cantante presenta un accompagnamento orchestrale più “pieno” rispetto al recitativo che la precede, anche se non completo dal punto di vista dell’organico. Quasi sempre suonano solo gli archi ed una sezione di fiati (a scelta le trombe e gli oboi, più raramente i corni), con il basso continuo del solo clavicembalo, visto che non abbiamo indicazioni di altri strumenti nella linea del basso (ad esempio il violone, frequente nel xviii secolo). La prima sezione, che corrisponde alla prima strofa viene ripetuta più volte ; segue poi una breve sezione strumentale che introduce la sezione B, corrispondente alla seconda strofa. Questa viene trattata diversamente dalla prima, poiché in genere l’organico si svuota, lasciando il canto libero di emergere, ma in un clima più “intimo”, che prelude l’esplosione del da capo con trilli e fioriture dei violini, ma soprattutto del cantante. Tutto questo corrisponde alla poesia del struttura drammatico, dove la prima strofa espone il tema generale del pezzo chiuso, di norma scaturito dal dialogo o dal monologo che lo precede e la seconda ne sviluppa una parte, declinando il concetto principale nella specifica situazione del personaggio. Prendiamo come esempio un’aria di tempesta cantata da Insubria, dopo che il Genio Estense le ha fatto il nome di Beatrice come futura reggitrice di Milano ; la prima strofa espone il tema generale :  







Se del porto il nome ascolta il nocchier tra la tempesta, la speranza in lui si desta, va solcando allegro il mar. 2

Il topos è quello ricorrente nel melodramma del nocchiero in mezzo alla tempesta, che intravede il porto in lontananza e spera di evitare il naufragio ; si legga ora la seconda strofa :  



Se la pace al cor m’è tolta, se infierisce il mio tormento, mi conforto allorchè sento quel bel nome a risonar.

La riflessione viene dunque spostata dal piano generale a quello personale, cioè declinata nella situazione specifica che il personaggio sta vivendo ; la dimensione in cui si colloca lo sfogo diviene pertanto più intima. Tali significati del testo poetico trovano piena giustifica 

1   A tal proposito, cfr. l’intervento di M. H. Schimdt, L’orchestra e le sue funzioni nelle feste teatrali di Mozart, in La Festa Teatrale nel Settecento, cit. 2   L’Insubria consolata, cit., p. 21.

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zione nel trattamento sonoro del pezzo : la sezione A è introdotta dall’organico pieno, mentre la sezione B vuole solo i violini ad accompagnare il canto. Generalmente le parole-rima della prima sezione sono suscettibili di più ripetizioni da parte del cantante, per sottolinearne maggiormente la componente ritmica cui corrisponde anche la pregnanza semantica. In particolare la parola « mar » è trattata musicalmente negli archi con scale discendenti di semicrome, che rievocano, dal punto di vista sonoro, le onde agitate dalla tempesta. Da rilevare inoltre un cambio di tempo (non insolito nelle arie bipartite) tra la due sezioni : binario nella prima, ternario nella seconda, a sottolineare maggiormente la diversità di ambiente emotivo in cui le due strofe si collocano. Occorre soffermarsi brevemente anche sulla collocazione dell’aria stessa all’interno della struttura drammaturgica del libretto : contrariamente a quanto accade nel Ciro, dove prevalgono ancora le arie in ingresso collocate a fine scena, nell’Insubria i pezzi chiusi sono spesso intermedi, ovvero collocati all’interno del recitativo. Si tratta della prassi dominante nelle cantate a più o voci e serenate, che, come detto, rientrano nel genere della festa teatrale seisettecentesca. In questo modo, l’aria assume la funzione di formalizzazione di un discorso in atto e non liberatoria, come accade nel dramma in musica. Si prenda a titolo d’esempio, ancora una volta, il pezzo chiuso Voi conoscete pure cantato da Insubria e collocato quasi alla fine della prima parte :  











Voi conoscete pure o Dei la sorte mia, eppur tardate, eppure per me non v’è pietà. Chi la mia sorte intende, chi vede le mie pene, il sospirato bene negar non mi potrà. 1

Insubria è scoraggiata dall’attesa e canta la sua angoscia, ma il Genio Austriaco, nel recitativo che segue lo sfogo di lei, l’apostrofa direttamente con queste parole : « Insubria mi perdona ; / col tuo lungo timor, co’ tuoi sospetti / il nostro zelo offendi ». Sono presi in esame dunque i contenuti dell’aria, che, collocata in posizione media, non prelude all’uscita di scena del cantante, assumendo così una funzione persuasiva, ma non aggiungendo di fatto significati nuovi a quanto detto in precedenza. La frequenza di questa collocazione dell’aria a metà del recitativo all’interno del libretto non stupisce, visto che, come detto in precedenza, i personaggi non sono connotati psicologicamente e non sono portatori di qualità sentimentali ed emotive specifiche. Passiamo al recitativo : nel caso dell’Insubria consolata il dialogo, intonato dai cantanti con qualche rara fioritura sulle cadenze, è accompagnato dal basso continuo, che però non si limita a sostenere con accordi la melodia, ma inserisce scale e arpeggi negli intervalli del testo. Ciò non stupisce, visto che l’Agnesi era una clavicembalista e dunque particolarmente attenta a dare rilievo a questo strumento nell’organico orchestrale, non riducendolo ad un sostegno armonico. Sono presenti anche in quest’opera, come nel Ciro in Armenia, sezioni di recitativo arioso, che qui possiamo verificare (possedendone l’intera partitura) come accompagnato addirittura dall’intera orchestra. Canta Insubria, in dialogo con gli archi che riempono con scale veloci i puntini di sospensione del testo :  







Che veggio, oh dio ! Che veggio ? Ecco s’aprono i cieli ; ecco una striscia di bianchissima luce  





1

  Ivi, p. 14.





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capitolo iv nell’aere penetra, e una lucida via segna per l’etra. Oh dio ! L’alma nel mio petto mi balza : che sarà ? Chi scende mai tra cotanto diluvio di faville, e di rai ? Deh fosse Imene. Ah sarebbe egli mai ! Imene…Oh dio ! Sento chi mi risponde… Ah dall’eterna gioia Questo mio core è oppresso. Certo Imeneo mi sembra… È desso, è desso. 1  











L’annuncio delle solenni nozze è stato fatto ed Imenéo scende dal Cielo a confermare la lieta notizia. Si tratta di un momento d’intensa emozione per Insubria, sottolineato dall’accompagnamento dell’intera orchestra con l’indicazione di fortissimo sui primi tre versi, quando si aprono le nubi e s’intravede una luce abbagliante. I versi sono liberamente rimati e, pur non andando a costituire una struttura chiusa, descrivono un momento di particolare carica emotiva nello svolgersi della fabula ; precedono infatti un’aria cantata da Imenéo, dopo la sua solenne apparizione. Da notare che, dopo l’impegno orchestrale nell’intera sezione di recitativo, Insubria canta sola gli ultimi tre versi, quelli appunto che descrivono le sue sensazioni più intime e richiedono pertanto un clima musicale più rarefatto. L’unico personaggio femminile, pur essendo allegorico e non avendo pertanto una connotazione sentimentale autonoma, è tuttavia quello che mostra maggiore umanità fra i quattro. In Insubria è infatti presente una componente emotiva che agli altri manca : essa trepida, teme, si dispera e infine gioisce. In generale, possiamo concludere che la frequenza di sezioni ariose di recitativo, come la prevalente collocazione mediana dell’aria, conferiscono continuità al componimento drammatico, portando avanti il discorso encomiastico senza interruzioni volte solamente a valorizzare i virtuosismi vocali dei cantanti. Ciò che conta, infatti, è il continuum narrativo e lo svolgimento della tesi, le nozze felici tra la casata estense e la casata d’Austria, dunque il discorso deve snodarsi di seguito attraverso il dialogo dei personaggi, con un’alternanza di aria/recitativo sempre più fluida e conseguente. L’aria in ingresso non è infatti così necessaria in questo tipo di componimenti in cui tutti i personaggi (che sono pochi, solo quattro, anche per ragioni di simmetria) sono quasi sempre in scena, con rare uscite dal palco. Ancora una volta si dimostra la padronanza dell’Agnesi dei diversi generi musicali del tempo ; numerose le differenze di trattamento infatti del dramma in musica e della festa teatrale, due generi come abbiamo visto ben distinti nel panorama musicale settecentesco. L’ultimo gruppo di versi citato, l’arioso « Che veggio, oh dio ! Che veggio ? » è significativo anche sotto un altro punto di vista, quello dello spettacolo vero e proprio nella sua componente visiva. Nel contesto della festa teatrale, infatti, la scenografia assumeva grande importanza ; tutti gli “affetti”, occhi, orecchi e cuore dovevano essere coinvolti nell’evento celebrativo in scena e la sua espressività doveva risultare da tutte queste componenti. 2 La sezione di recitativo accompagnato trascritta in precedenza prefigura nell’Insubria consolata un apparato scenografico piuttosto imponente : si parla infatti di cieli che si aprono e di un alone luminoso che accompagna la discesa d’Imeneo dal cielo. Gli elementi di scenografia verbale contenuti nel testo cantato da Insubria fanno pensare ad una vera e propria scenografia complessa, con fondali semoventi e una macchina che cala Imenéo dall’alto nella  

















1

  Ivi, pp. 22-23.   Cfr. intervento di M. Viale ferrero, « Potrà dirsi questo Dramma uno sforzo della Musica e delle Arti italiane per agguagliare i Greci » : Alessandro e Timoteo a Parma, 1782, in La Festa Teatrale nel Settecento, cit. 2



   

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sala. Sappiamo che il dispendio di mezzi in questo senso era componente imprescindibile dell’Opera settecentesca, lo stesso non si può dire per il teatro di prosa. Vero è che in questo caso il componimento drammatico non andò in scena al Ducale, dove esisteva la reale possibilità di mutazione di scene a vista con fondali, fondalini, spezzati o quinte. Non è da escludere tuttavia la costruzione di una struttura provvisoria con scenografia nella Galleria del Palazzo Ducale dove fu rappresentata l’Insubria, come accadeva sovente in altre sedi nel caso di celebrazioni festive e banchetti. Siamo di fronte ad un componimento per musica che fu definito « magnifico » da chi ebbe il privilegio di assistervi nella sala della Galleria. Oltre a quello citato, il testo è disseminato infatti di indicazioni di movimento dei personaggi all’interno del dialogo. Nella prima parte, ad esempio, dopo l’aria cantata da Insubria, Sento, che l’alma, Imenéo, evidentemente vedendo in lontananza avvicinarsi i due Geni, l’apostrofa con queste parole : « Taci, donna, non più : vedi, che a noi / s’accostan ragionando / i due Geni cortesi » ; 1 e si noti anche l’uso del deittico, a stabilire una precisa collocazione spaziale d’Insubria, distinta da quella dei due personaggi citati : « Né senza grazie mai volgono il piede / a questa, ove soggiorni, inclita sede ». 2 Più avanti, il Genio Austriaco indica Insubria a quello estense : « Vedi come negli occhi / le scintilla il desio ; / come cupida stende / a noi ambedue le palme » ; 3 è evidente che la donna si sta muovendo verso di loro con le braccia tese. E, ancora, Imenéo si rivolge ai Geni mostrando loro gli oggetti che simbolicamente lo contraddistinguono, forse fisicamente presenti nelle sue mani : « Esponete, parlate, / alfin datele pace ; / ecco pronti i miei nodi, ecco la face ». 4 La mimica del volto d’Insubria, poi, è richiamata nell’ultima parte, quando viene a conoscenza che Beatrice d’Este è destinata al governo di Milano ; così la indica il Genio Austriaco : « Alfin su quella fronte, / su quegli occhi, e quel labbro, / ove il duolo regnò, spuntar si vede / un placido sereno ». 5 La fanciulla, finalmente, sta sorridendo. Si può ipotizzare pertanto un componimento drammatico per musica dotato di una complessa scenografia ; questa fu evidentemente adattata alla sala del Palazzo Ducale per celebrare la solenne promessa di fidanzamento tra Ferdinando d’Asburgo, destinato alla reggenza di Milano e Beatrice d’Este. Uno spettacolo in grande pompa, dunque, cui concorse un organico orchestrale di tutto rispetto per accompagnare l’azione e il canto dei personaggi sulla scena, come si evince anche dalla partitura. Il fatto che l’Agnesi fosse stata scelta per comporre testo e musica in vista di questa rappresentazione è un’indicazione importante della stima che la musicista dovette godere da parte della casata austriaca e dell’intera cittadinanza milanese. Nel contesto dei sontuosi festeggiamenti per la solenne promessa di Beatrice e Ferdinando (che allora erano bambini), la festa teatrale rappresentata nella Sala della Galleria non deluse le attese degli spettatori dell’epoca. Testo e partitura dell’Insubria consolata confermano un’attenzione specifica alla struttura drammaturgica dell’opera. Inoltre, il testo drammatico si presenta non solo adeguatamente supportato, ma addirittura integrato, nei toni e nei significati, dal suo ‘abito’ musicale, ormai sulla strada intrapresa nel melodramma riformato di Gluck-Calzabigi.  













































1

  Ivi, p. 8.   Ibidem.

4

2

  Ibidem.

3

  Ivi, p. 12.   Ivi, p. 21.

5



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DUE LUOGHI FEMMINILI PER ECCELLENZA : IL SALOTTO E IL TEATRO  

G

iunti al termine della nostra incursione all’interno del salon e dei suoi molteplici rapporti con la scena pubblica e privata, emerge con chiarezza come la figura della donna colta ne sia protagonista, dirigendone e orchestrandone l’armonico funzionamento. Questo fenomeno, in Italia tipicamente settecentesco, pone le sue radici nella Francia di Luigi XIV e proietta la sua luce sull’età napoleonica, delineando, così, una lunga durata che copre quasi tre secoli. L’influsso della moda e della cultura francese si fa sentire rapidamente nei dominii della Serenissima e più lentamente in quelli asburgici ; nel territorio milanese incontra infatti maggiore resistenza, diventando comunque riferimento imprescindibile, nel corso del xviii secolo, per una casta nobiliare che vuole ridefinire il proprio status e per una classe borghese ormai in decisiva ascesa. Da parte sua, l’impero degli Asburgo, ed il governo di Maria Teresa in particolare, favorisce lo sviluppo dell’ingegno femminile, facendosene promotore secondo un progetto pedagogico di stampo gesuitico. Tale progetto, ispirato alla ratio studiorum, vede infatti nella pratica dell’arte (nel teatro e nella musica in particolare) un valido strumento per affinare le capacità comunicative utili in società, così come in famiglia. In collegio, i giovani rampolli dei ceti dirigenti fanno della pratica teatrale una vera e propria palestra d’oratoria, preparandosi alla vita pubblica. In famiglia, le giovinette sperimentano le proprie capacità musicali ed espressive sotto l’attenta guida di abati che faranno di loro le future conduttrici del focolare domestico e delle conversazioni culturali. Ricordiamo inoltre gli sforzi di Maria Teresa per attivare una rete d’istruzione più capillare anche per i ceti meno abbienti ; per la sovrana, che aveva avuto come precettore Pietro Metastasio, la cultura e la conoscenza rappresentano la via migliore per coltivare la virtù dei giovani e la loro capacità d’inserirsi nel mondo. Ecco dunque che la donna sapiente, di ceto nobiliare, ma anche borghese (sempre più smanioso di emulare l’antica classe dirigente) conquista nuovi spazi nel corso del Settecento. Sposata o sotto la tutela paterna, provvista di una buona educazione e di una solida cultura, esce gradualmente dalla dimensione privata per acquistarne una pubblica. Questo passaggio è mediato dal luogo del salon, ancora interno alla casa, ma già aperto all’esterno, poiché vi convergono letterati e artisti, politici ed alti prelati, tutti uniti nel nome di quella Repubblica delle lettere prefigurata da Ludovico Antonio Muratori nei primi anni del secolo. Anche la nuova scienza galileiana conquista spazio all’interno della conversazione : ancora osteggiata nei collegi, essa è infatti sempre più presente nei consessi accademici e negli esperimenti da salotto. Se il Settecento può essere definito dunque il secolo delle donne letterate, sicuramente è anche il secolo delle donne scienziate, là dove la scienza stessa diviene visione e paradigma conoscitivo del mondo. Tra gli esempi più noti, quelli di Laura Bassi a Bologna e di Maria Gaetana Agnesi a Milano, matematiche di fama ; ma ad interessarsi di scienza ci furono anche pastorelle d’Arcadia e salonnières come Paolina Secco Suardo e Clelia Borromeo Del Grillo, particolarmente attive nel fare del proprio salotto un canale di diffusione del metodo galileiano e della fisica applicata alle scienze della terra. Ma il Settecento è soprattutto il secolo del teatro e del trionfo della donna sulla scena. Già presente nello spazio extravagante della Commedia dell’Arte, l’interprete femminile conquista ora, definitivamente, la ribalta dei teatri pubblici con la danza, il canto, la recitazione.  







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due luoghi femminili per eccellenza: il salotto e il teatro

Nella struttura a specchio della sala all’italiana, la donna sul palcoscenico si riflette nello sguardo della donna spettatrice, finalmente protagonista del palco di famiglia. Non si tratta più della cortigiana, dell’honesta meretrix, o dell’occasionale spettatrice di una festa destinata alle nozze degli Dei, ma di una professionista o di una frequentatrice abituale di un rito collettivo, destinato ad un pubblico pagante. Il teatro all’italiana può essere infatti definito, secondo le parole di Georges Banu, « il teatro dello spettatore » e « dalle origini, tale teatro si appoggia sull’attività del pubblico, osservato e osservante, costantemente, come un attore, al quale si rivela questo spazio di gioco che si estende dal vestibolo alla scala fino al sipario e, a volte, fino alla scena stessa ». 1 E al centro di questo spazio di gioco c’è la figura femminile. Il fenomeno si riflette necessariamente sulla drammaturgia ; come visto, molte donne animatrici di salon e frequentatrici di teatri si cimentano nella scrittura per il teatro stesso : emblematici i casi di Francesca Manzoni e Luisa Bergalli. Ma esistono riflessi sulla pratica scenica, poiché alcune femmes savantes sperimentano la recitazione, per lo più in sale private, come nel caso di Paolina Secco Suardo o Silvia Curtoni Verza. Avvengono anche significativi spostamenti nella direzione opposta, dal palcoscenico al salotto : pensiamo alle ballerine Teresa Fogliazzi e Vittoria Peluso, tanto per rimanere in ambito milanese. Per chiudere con le musiciste che sono approdate alla scrittura per i teatri pubblici, dopo un lungo training nel proprio salotto di conversazione : il caso più eccellente è quello di Maria Teresa Agnesi. Nel corso del Settecento sembrano configurarsi dunque due luoghi “femminili” per eccellenza : il salotto e il teatro. All’interno di essi la donna si mostra e si specchia, aprendo nuove prospettive nella visione dell’ordine sociale, tradizionalmente concepito secondo un principio ordinatore di natura maschile. Se la sala teatrale settecentesca diviene lo spazio in cui si riconosce « l’ordine di una comunità urbana », condensando in sé « l’organizzazione completa della città », 2 il salotto diviene spazio in cui si riconosce l’ordine di una comunità intellettuale, che non necessariamente ricalca le gerarchie del secolo precedente. Il salotto e il teatro, dunque, come luoghi di una democrazia culturale che, abbandonando gradualmente una struttura sociale ereditata dall’Antico Regime, si proietta verso qualcosa di profondamente rinnovato. E la donna colta, come la donna artista, al centro di questi due spazi, sembra traghettare dolcemente l’ordine vecchio verso quello nuovo. Forse per questo motivo la scrittura femminile, relegata per secoli all’interno delle mura domestiche e delle celle di convento, arriva, nel Settecento, a vedere la luce, mostrandosi particolarmente ricettiva verso le novità in tutti i campi del sapere ad un pubblico di lettori e spettatori. Negli epistolari delle dame colte si riflette la vivacità della loro conversazione ; essa si configura, sempre più nel corso del secolo, come principio ordinatore del discorso, creando una nuova lingua ed un rinnovato modo di esercitare l’arte oratoria. Se il conversare, come sostiene Marc Fumaroli, 3 era nato nella Francia d’Ancien Régime come spazio d’espressione privilegiato per una nobiltà esclusa dalla corte, in area lombardo-veneta si conferma, cento anni dopo, alternativa valida ai consessi Accademici, strappando la circolazione delle idee ai circoli chiusi per pochi iniziati. All’interno di questo processo di verbalizzazione della cultura scritta, la donna, ben educata e ben istruita (quasi sempre da abati gesuiti di larghe vedute in campo pedagogico e didattico) riesce, in direzione opposta, a far confluire nella scrittura i riflessi di questa nuova arte del conversare, conquistando la dignità della stampa e delle scene. Se la drammaturgia rispecchia il dialogos e la conversazione, verbalizzando e fissando sulla pagina le azioni che si svolgono sulla scena, il teatro musicale diventa banco di prova privilegiato della scrittura delle donne erudite.  



























1

2   G. Banu, cit., p. 12.   Ivi, pp. 19-20.   Cfr. M. Fumaroli, Il salotto, l’Accademia, la lingua : tre istituzioni letterarie, cit.

3



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Ciò non stupisce, poiché il Settecento è anche e soprattutto il secolo del melodramma e delle grandi riforme, da Zeno a Metastasio, da Gluck a Calzabigi. L’Opera seria è il genere principe per l’espressione degli « affetti », colpendo così un’immaginario femminile più proteso, rispetto a quello maschile, verso una declinazione sentimentale dello spirito. Inoltre, l’educazione musicale era inclusa da sempre nel (talvolta esiguo) bagaglio culturale delle fanciulle di rango, che imparavano, sin da piccole, a cantare, accompagnandosi con strumenti. Se una più approfondita cultura letteraria e scientifica fu per la maggior parte delle donne conquista precipua del Secolo dei Lumi, le attitudini musicali erano state, al contrario, adeguatamente coltivate fin dal Cinquecento, sia nelle giovani destinate al matrimonio che in quelle destinate alla corte. In tale contesto nascono i libretti di Luisa Bergalli per i teatri veneziani, le azioni sacre di Francesca Manzoni per la Cappella viennese di Carlo VI, i melodrammi e le feste teatrali di Maria Teresa Agnesi per il Teatro Ducale a Milano. Opere tutte ricettive dei nuovi venti riformatori, attente ai mutamenti di stile, alle discussioni di genere, ai dibattiti culturali, al nuovo gusto del secolo ; forse proprio perché in queste, distribuite nell’arco di tutto il Settecento, si riflettono cento anni di conversazione, di discussione su tutto ciò che cambia e che deve cambiare nella società, come nelle lettere e nell’arte. Un’ulteriore riflessione merita il rapporto fra la donna colta e il genere tragico nel corso del xviii secolo. La tragedia, accanto all’Opera in musica, è infatti praticata dal gentil sesso sia dal punto di vista della drammaturgia che da quello della recitazione. Esaminando in primo luogo la scrittura per il teatro, in area lombardo-veneta, composero tragedie Luisa Bergalli e Francesca Manzoni, ma il fenomeno (stando alle ricerche attuali) non supera la metà del secolo. Come abbiamo visto, sono solo due le opere che hanno ricevuto la dignità della stampa, una per autrice, la Teba e l’Ester, rispettivamente nel 1728 e nel 1733. Pochi e isolati dunque gli esempi di scrittura tragica da parte di una mano femminile, più diffusi invece i tentativi di rappresentare la tragedia in un contesto privato. Per quanto riguarda infatti la recitazione, numerosi nel nord Italia i casi di attrici di nobile rango che si cimentano con la tragedia francese sui palcoscenici di un teatrino privato o all’interno del salon. Da Silvia Curtoni Verza a Paolina Secco Suardo Grismondi, a Bianca Uggeri Della Somaglia ; dunque a Verona, Bergamo e Brescia, passando per i celebri salotti milanesi e di villeggiatura della marchesa Litta, il fenomeno è piuttosto diffuso a partire dalla seconda metà del secolo. Seguendo un’ottica di gender, sembrerebbe quasi che, per la donna erudita, là dove finisce la drammaturgia inizi la recitazione, venendo il gesto a colmare i vuoti lasciati dalla parola. In questo studio abbiamo analizzato un caso significativo per ognuna delle due direzioni indicate : la scrittura tragica di Francesca Manzoni con la sua Ester e l’attività del salotto teatrale di Paolina Secco Suardo. Per quanto riguarda la tragedia, abbiamo osservato come essa s’inscriva pienamente nel clima di riflessione sui rapporti fra teologia e politica, che anima la Milano colta del primo Settecento. Come ha messo in rilievo Annamaria Cascetta, la riflessione sul concetto di sovranità, problematica urgente della contemporaneità settecentesca, nello specifico contesto milanese s’innesta sulla materia biblica della spiritual tragedia coltivata all’interno dei collegi nel secolo precedente. La Manzoni sicuramente condivide tutto questo, cimentandosi con la forma di scrittura più alta per il teatro, col genere perfettissimo, la tragedia biblica. Là dove l’eroina, moglie innamorata e sovrana, rappresenta una possibile conciliazione fra potere temporale e potere spirituale, tra sovranità e teologia. La discussione a lei contemporanea sulla rinascita del genere tragico coinvolge sicuramente la giovane drammaturga, ma non la travolge. Pur preoccupandosi di giustificare dal punto di vista formale le sue scelte, la Manzoni è molto più preoccupata di giustificare dal punto di vista storico e filologico l’urgenza  









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di una materia che pone con forza la questione femminile all’interno del dibattito sulla regalità. Passando al salotto teatrale di Lesbia Cidonia, esso non è immune da riflessi arcadici e da riverberi dei consessi accademici. Improvvisare versi in pubblico è pratica diffusa delle Pastorelle d’Arcadia ed alcune fra queste ne faranno un vero e proprio mestiere, come la celebre Maddalena Morelli, in arte Corilla Olimpica. Ma in Paolina l’idea di recitare per un pubblico miniaturizzato e selezionato non nasce solo dalla pratica dell’improvvisazione ; essa affonda radici nell’esigenza di penetrare nel dibattito sulla tragedia francese classica e contemporanea. Come si è visto, il fascino della cultura d’oltralpe si fa sentire fortissimo nella seconda metà del Settecento in tutto il nord Italia e i venti rivoluzionari soffiano anche nelle città più piccole e provinciali. I visitatori italiani dei teatri francesi osservano e raccontano con stupore il silenzioso e attento pubblico parigino e le tecniche di recitazione degli interpreti sulla scena. Echi di tutto ciò rimbalzano dai teatri alle lettere, dai resoconti di viaggio ai salotti, animando e nutrendo la conversazione. Il dibattito sulla liceità o meno delle liasons amorose nelle tragedie classiche francesi coinvolge, come detto, nutrite schiere di intellettuali in seno all’Arcadia e non solo ; uomini di lettere e di teatro s’impegnano a fornire risposte alla citata querelle e Scipione Maffei, coadiuvato dalla troupe di Riccoboni, trionfa sui palcoscenici italiani con Merope, un esempio di tragedia senza amore. Ma sulle scene private la tragedia francese seicentesca di Corneille e Racine, come quella contemporanea di Voltaire e Lemierre, restano protagoniste. Lo scontro di grandi passioni e gli intrecci ricchi di colpi di scena affascinano l’immaginazione d’intraprendenti Pastorelle conduttrici di salon, ormai troppo strette nei panni di compassate poetesse d’Accademia. L’imitazione della natura, principio cardine della mimesi artistotelica, vira inevitabilmente verso l’imitazione degli affetti, prefigurando un decisivo cambiamento del paradigma estetico ; molto spesso infatti, nella trattatistica settecentesca, il termine “espressione” si sovrappone a quello d’“imitazione”. Di pari passo, la tecnica di recitazione adottata da una nuova generazione d’attori d’oltralpe (che vede in Francia i suoi massimi rappresentanti in Lekain e Mademoiselle Clairon) si muove verso un maggiore verità nell’interpretazione. Si tratta dei decisivi cambiamenti nella direzione di una mimesi che sia soprattutto espressione della profondità dell’animo. A partire da questi presupposti estetici, la figura femminile conquista la ribalta ed è lo stesso Diderot a rappresentare, ne Le fils naturel, una donna (né moglie né madre) che dichiara apertamente i propri sentimenti. Constance, sorella di Clairville, provocata dall’improvvisa risoluzione di Dorval di abbandonare la casa, perché innamorato della donna sbagliata (Rosalie, già promessa a Clairville stesso) gli dichiara d’amarlo. Nel primo Entretien fittizio che accompagna il dramma, Diderot, fingendo di dialogare con lo stesso Dorval, manifesta perplessità sulla dichiarazione d’amore di Costance, poiché « le donne – afferma – non ne fanno mai » ; 1 si tratta di quella reticenza, che unita ad una dose di simulazione viene, come visto, tradizionalmente attribuita dall’immaginario maschile all’animo femminile. Ma Dorval replica così a quest’obiezione : « supponiamo che una donna abbia l’anima, l’elevatezza e il carattere di Constance, che abbia saputo scegliere un uomo giusto, e vedrete che confesserà i suoi sentimenti senza timori ». Siamo nel 1757 e la donna di grande virtù d’animo e di carattere può dichiarare ormai apertamente ciò che sente ; di conseguenza, l’attrice sulla scena ricrea col gesto e con la voce quel momento rivelatore del sentimento, facendo appello alla sua sensibilità, che in questo  



















1   D. Diderot, Dorval e io o Dialoghi sul Figlio Naturale, ora in Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, p. 90.

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caso è da intendersi nell’accezione di tatto e gusto, di vera e propria percezione sensibile. 1 Grandi attrici come Mademoiselle Gaussin e Clairon impressionano gli spettatori francesi e i viaggiatori stranieri interpretando le parti femminili delle tragedie di Voltaire e Shakespeare ; le signore che calcano le scene private non restano insensibili agli echi di questi successi, sempre più desiderose di emularli per il loro pubblico in miniatura. Nel caso di Paolina Secco Suardo, profondamente legata alla vita teatrale d’oltralpe anche attraverso la sua corrispondenza col tragediografo Lemierre, la scelta si concentra su testi teatrali francesi in cui brilla una sola protagonista. Si tratta sempre di una donna di carattere appunto, appassionata, che ha scelto l’uomo giusto, preferendogli solamente l’onore. In questi ruoli la contessa riconosce forse le proprie emozioni, le molte rinunce (ma anche i molti privilegi) di una vita costretta in una gabbia dorata. Le precarie condizioni di salute, il legame con uno sposo anziano, la stessa condizione femminile le impediscono infatti di spiccare quel volo artistico e passionale al quale si sente da sempre portata. Ma quel volo rivive almeno due volte sulla scena, nel ruolo d’Ipermestra e di Gabriella di Vergy, due spose che difendono il proprio sentimento amoroso e il proprio onore. Lesbia Cidonia, dotta poetessa d’Arcadia e vigile sentinella dei fermenti di un’epoca, calzando i coturni per il pubblico del suo salon ci conduce idealmente verso i fermenti preromantici del volgere di secolo.  

1   Sul concetto di “sensibilità” in Diderot, cfr. Y. Belaval, L’esthétique sans paradoxe de Diderot, Paris, Gallimard, 1950 ; P. Alatri, Introduzione al Pardosso sull’attore, Roma, Editori Riuniti, 1972. La sensibilità stessa per Diderot sembra portare infatti l’attore e l’autore in due direzioni opposte : se con essa s’intende infatti la capacità di percepire il sensibile, il risultato sarà sublime, ma se essa incarna solamente una sensiblerie morbosa, un’eccessiva dipendenza dai moti irrazionali dell’anima, il risultato sarà mediocre.  



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Fig. 1. Stampa allegorica Venezia 1790 - Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli - Milano.

Fig. 2. Prospetto del Gran Teatro di Milano in occasione delle Maestose Feste di Giubilo per la nascita di Pietro Leopoldo Arciduca d’Austria, 28 maggio 1747. Marc’Antonio dal Re - Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli.

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Fig. 3. Ritratto di Francesca Manzoni, matita nera gesso bianco su carta 400 x 300 mm. Iscrizione sulla cornice in alto franca manz acad transformat/resist/6/junii/1743 ; in basso : francesca manzoni giusti mediolanensis n. inv. 948. Pittore lombardo serie “uomini di conto o per lettere o per ministero ed arti” - Pinacoteca Ambrosiana.  



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Fig. 4. Ritratto a mezzo busto della poetessa veneziana Luisa Bergalli (1703-1799) con Lyra e la sua traduzione di Terenzio. Pittore Veneziano della prima metà del xviii secolo (nella cerchia di G. A. Pellegrini, Venezia 1675-1741). Olio/Tela, doublé, 75 x 60 cm, cornice del xviii sec. Comunemente attribuito a Rosalba Carriera.

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Fig. 5. Ritratto ad olio di Maria Teresa Agnesi ricondotto alla vulgata di Rosalba Carriera, fine del sesto, inizio del settimo decennio del Settecento - Museo Teatrale alla Scala.

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Fig. 6. Lapide commemorativa con busto di Paolina Secco Suardo Grismondi collocata sulla casa natale della poetessa a Bergamo in via San Salvatore, opera dello scultore Andrea Paleni.

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1   Non s’inserisce la prima edizione ma l’edizione consultata. Le prime edizioni sono indicate per esteso nelle note relative alle opere.

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INDICE DEI NOMI

Adkins-Chiti Patricia, 58

Abrantès Laure Saint-Martin Permon Junot d’, 38 Ademollo Alessandro, 33 Agnesi Maria Gaetana, 23, 29-31, 35, 57-60, 161 Agnesi Maria Teresa, 9, 10, 35, 57-62, 141, 142, 143, 144, 162, 163, 170 Agnesi Pietro, 58 Alatri Paolo, 165 Albanese Antonio, 128 Albinoni Tommaso, 130 Alembert d’ Lerond Jean Baptiste, 43 Alfieri Vittorio, 38, 71, 72, 73, 108, 118-119, 126-127 Aliverti Maria Ines, 39, 113 Alonge Roberto, 113 Amoretti Carlo, 29 Amoretti Maria Pellegrina, 29 Andreini Isabella, 24, 32-33, 122 Andrioli Paola, 69 Angennes d’ Charles, 16 Angennes d’ Julia, 16 Anzoletti Luigi, 57 Anzoletti Luisa, 57 Ardolino Giuseppe, 67 Argelati Filippo, 34, 47-48 Arrigoni Carlo, 47, 51, Arrigoni Giuseppe, 34, 47 Arrivabene Adelaide, 96 Arslan Antonia, 41, 52 Auger Louis Simon, 113 Augudio Giuseppe Candido, 49, 56 Austen Jane, 27

Baitelli Giulia, 40

Baldi Andrea, 41 Balestrieri Domenico,14, 36, 47, 49, 50, 54-56 Balestrini Fausto, 39 Balletti Riccoboni Elena, 32 Bandettini Teresa, 30, 33, 103-104 Bandini Buti Maria, 37-38 Banu Georges, 11, 162 Baratter Paola, 52 Baratto Mario, 119 Barbarigo Zorzi Contarina, 114 Barbiano di Belgioioso Antonio, 18 Barbiera Raffaello, 37 Barblan Guglielmo, 58, 155 Barizzaldi Gerolamo, 36 Barsotti Anna, 72

Bartoli Guseppe, 39 Bassi Laura, 26, 29, 35 Basso Alberto, 37 Bazzarelli Eridano, 80 Beccaria Cesare, 24, 29, 49, 96 Becelli Giulio Cesare, 77, 79 Begotti Piero Carlo, 53 Belaval Yvon, 165 Bellarmino Roberto, 48 Bellina Anna Laura, 37, 126 Beltramelli Giuseppe, 102 Beretta Anguissola Alberto, 57, 116, 174 Bergalli Luisa, 9-10, 30, 32, 40-41, 52, 53-58, 73, 129141, 143-144, 152, 162-163, 169 Bertola Aurelio, 106 Betri Maria Luisa, 13 Bettinelli Saverio, 19, 39, 42, 44, 62, 64, 68-69, 71, 100, 103-108, 118-119, 126 Biadego Giuseppe, 38, 44 Bianchi Lino, 51 Bianconi Lorenzo, 121, 125 Bicetti de’ Buttinoni Maria, 20, 36, 40, 56 Bizzarini Marco, 37 Bojan Enrica, 37 Boncompain Jacques, 109 Bonetti Domenico, 38 Boni Laura, 37 Borrani Giambattista, 141, 153 Borromeo Del Grillo Clelia p. 23, 36, 37, 161 Borromeo Giovanni Benedetto, 36 Boscovich Ruggero Giuseppe, 62, 64, 101 Bosisio Paolo, 53 Bossi Benigno p. 49 Bouquet François, 116 Brambilla Elena, 13, 17, 19-20 Bret-Vitoz Renaud, 109-110 Brini Giovan Lorenzo, 102 Brivio Anna Fortunata, 58 Brizi Bruno, 37 Brognoli Antonio, 38 Brunelli Bruno, 130 Buffon Georges-Louis Leclerc, 63, 65, 104 Burney Charles, 58 Butler Judith, 25

Caccini Francesca, 25

Caldara Antonio,154 Calderón de la Barca Pedro, 71 Calepio Pietro, 69, 96

182

indice dei nomi

Calini Orazio, 40 Calore Marina, 107 Calzabigi de’ Ranieri, 10, 126, 128-129, 144, 149, 152, 159, 163 Cambiaghi Mariagabriella, 43 Camerino Giuseppe Antonio, 69 Caminer Turra Elisabetta, 12, 24, 29, 30, 42-44, 114, 115 Caminer Domenico, 42, 114 Caniato Monica, 37 Canossa Ippolita, 55 Canova Green Marie Claude, 116 Cantelli Angelo Maria, 130 Cantelli Stella Fortunata, 130 Carandini Silvia, 154 Carducci Giosuè, 37 Carlo VI d’Asburgo, 49-51, 54-55, 61, 74, 79,139, 141, 144, 163 Carmeli Michelangelo, 48 Carpani Roberta, 60, 78 Carriera Rosalba, 41, 52, 169-170 Cascetta Annamaria, 60, 163 Castiglioni Giuseppe, 37 Castiglioni Litta Maria Paola (o Paolina ), 37, 102 Cattanea Maria Santina, 130 Cecconi Annamaria, 25 Cesarotti Melchiorre, 43-44 Cesti Antonio, 154 Chegai Andrea, 116, 154 Chemello Adriana, 22, 38, 41, 52, 54 Chiabrera Gabriello, 122 Chiari Pietro, 42 Chiomenti Vassalli Donata, 37 Chirico Fabrizio, 42 Cicogna Emanuele Antonio, 49 Colla Alberto, 42-43 Colombo Domenico, 39 Colzani Alberto, 58 Condillac Bonnot de Étienne, 43 Contarini Mosconi Elisabetta, 19, 34, 63 Contini Alessandra, 21 Cooper Martin, 128 Corio Gorini Giuseppe, 73 Corneille Pierre, 17, 69-71, 101, 109, 111, 116-118 Corniani Giovanni Battista, 39 Couton Georges, 116-117 Craig Edith, 25 Crampe-Casnabet Michele, 22 Craveri Benedetta, 13, 15-16, 18, 21-22, 105 Crescimbeni Giovanni Mario, 32, 52, 70, 73, 74 Curtoni Verza Silvia, 19, 30, 34, 37, 44, 63, 96, 98, 104, 162-163 Cusick Suzanne G., 25

Da Como Ugo, 39

Da Ponte Lorenzo, 129 Da Pozzo Giovanni, 125 Davico Bonino Guido, 113, 116-118, De Angelis Milo, 57 De Belloy Pierre Laurent, 69, 101, 109, 113-116 De Blasi Jolanda, 38 De Brosses Charles, 35, 47, 59, 78 De Gamerra Giovanni, 37, 127 De Guberantis Angelo, 40 De Jong Carolyn, 58-62, 141, 144, 153 De la Chaussée Pierre Claude Nivelle, 37 De la Motte Fénelon François, 53, 57 De Lalande Jérôme, 40, 62, 64, 101 De Latouche Henri, 113 De Lauretis Teresa, 25 De Riupeirous Théodore, 112 De Rossi Giovanni Giacomo, 38, 67 De Scudéry Georges, 117 De Tipaldo Emilio, 34 De Waekenbass Joseph, 60 Della Valle Federigo, 78 Destouches P. Néricault, 37 Di Ricco Alessandra, 33 Diderot Denis, 21, 38, 110, 113, 127, 164-165 Dillon Wanke Matilde, 38, 63-63, 102, 104 Dolfin Tron Caterina, 41-42 Donizetti Gaetano, 128 Du Boccage Anna Marie, 52-53, 62, 64, 101 Duby Georges, 22 Duché Joseph François, 53, 57 Durante Matteo,78

Eastwood Wilfred, 36

Einstein Albert, 123 Eitner Robert, 58, 60 Elias Norbert, 16 Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbuttel, 35, 48, 74, 144 Erba Luciano, 57 Erodoto, 48 Este Maria Ricciarda Beatrice, 62, 142, 153 Euripide,17, 48, 75, 76, 125

Fabbri Paolo, 123, 136-137

Fagiolo Dell’Arco Maurizio, 154 Fantappiè Francesca, 115 Fantastici Sulgher Fortunata, 20, 33, 38, 62, 65-67, 103, 108 Farina Rachele, 36 Farinella Carlo, 19 Fattoriello Francesco, 42-43 Fazio Mara, 110, 113 Fedro, 49 Ferdinando d’Asburgo, 35, 62, 141-142, 154, 159

indice dei nomi

183

Ferrari Litterio, 142 Ferrai Luigi Alberto, 65 Fétis François Joseph, 58 Flavio Giuseppe, 50-51 Fogliazzi Teresa, 162 Fornari Schianchi Lucia, 49 Fortis Alberto, 43 Foscolo Ugo, 44 Franchetti Anna Lia, 116 Franchi Saverio, 23, 33 Frantz Peter, 110 Frattali Arianna, 24, 51, 73, 78, 122, 129 Frisi Anton Francesco, 39 Frugoni Innocenzo, 32 Fubini Enrico, 121, 123, 126, 128 Fumaroli Marc p. 16, 17, 20, 21, 162 Fux John Joseph, 154

Goldoni Carlo,18, 24, 33, 37, 41-43, 104, 119, 127, 130 Gozzi Carlo, 42-43, 53 Gozzi Gasparo, 30, 41-43, 53, 55-57, 129 Grandi Guido, 36-37 Gravina Vincenzo, 31, 52, 70, 74 Graziosi Elisabetta, 29, 31, 33 Grilli Marialuisa, 127 Grossatesta Gaetano , 130, 133 Guaita Camilla, 52, 69 Gualtieri Luigi, 61 Guardenti Renzo, 107 Guerci Luigi, 27, 29, 31 Guidarini Mario,128 Gutierrez Beniamino, 36

Gabbione Elisabetta 128

Hasse John Adolf, 154 Helvétius Claude-Adrien, 43 Hennessee Don A., 58 Hixon Donald L., 58 Hubert Marie Claude, 116 Hutin Charles-François, 49

Gabrieli Andrea, 124 Gabrielli Caterina, 30 Galeazzi Giuseppe, 142, 153 Gallarati Paolo, 121-124, 126-129, 137 Galliari Bernardino, Fabrizio e Giovanni Antonio, 147-148, 179 Gallico Claudio, 125 Galuppi Baldassarre, 127 Gambara Francesco, 39-40 Gandolfi Roberta, 25 Gansca Cristina, 37 Garioni Ettore, 48 Gaspari Antonio K., 130 Gasparini Giovanna, 130 Gaussin Jeanne Catherine, 39, 165 Generali Dario, 36 Gentili Bruno, 33 Ghezzi Antonio, 142 Gianolio Valeria, 53 Gilardoni Domenico, 128 Gilberts Guillaume, 116 Giovannelli Paola D., 107 Girard René, 57, 116 Girardi Cinzio Giovanbattista, 131 Giro Anna, 130 Giulini Alessandro, 36 Giulini Giorgio, 56, 60 Giulini Laura, 60 Giuntini Francesco, 123, 136 Giusti Angela Maria, 49 Giusti Luigi, 34, 36, 47-49, 55-56, 62 Giusti Pietro Paolo, 49 Giustiniani Orsatto, 124 Givone Sergio, 69 Gluck Cristopher Willibald, 128, 129, 144, 149, 159, 163

Hansell Sven, 58, 61, 141

I

mbonati Carlo, 56 Imbonati Giuseppe Maria, 36

J

ommelli Niccolò, 147 Jona Alberto p. 128n Jourdain Eleanor Frances, 111

Kauffmann Angelika, 38, 62, 65-67 Kaunitz Wenzel Anton, 20, 26, 49 Kendrick Robert, 58, 59, 61 Knight Cornelia, 38

L

a Bruyére Jean, 17 Lagravio D’Assia Filippo, 130 Lanaro Anna, 41, 52 Larghi Pier Cesare, 14, 174 Lazzarini Domenico, 40, 49, 71 Le Brun Charles, 63, 65, 106 Lecouvreur Adrienne, 39 Lekain Henri Louis, 110, 113, 118, 164 Lemierre Antoine Marine, 62, 64, 69, 99-101, 104, 109-114, 164-165 Lena di Luca Mariano, 130 Lepaute Nicole Reine, 23 Levati Ambrogio, 38, 57 Levi Carlo, 47 Lilti Antoine, 15 Limentani Virdis Caterina, 41 Litta Calderara Margherita, 37, 102, 163 Locatelli Stefano, 18, 70, 76

184

indice dei nomi

Locke John, 43 Loli Dorotea, 130, 133 Lombardi Marco, 116 Long Jacques Marguerite, 20 Lotman Jurij Mihalovic, 80, 84-85, 88 Luigi XIV di Borbone p. 14, 69, 77, 113, 161 Luino Domenico, 142 Luppi Andrea, 58 Luzi Mario, 57

M

acchia Giovanni, 118 Maffei Elisabetta, 44 Maffei Scipione 10, 19, 57, 70, 73, 76, 77, 94, 164 Mainini Francesco, 142 Mairet Jean, 117 Malatesta Melchiorre, 21, 78 Malaspina Marianna, 96 Manzoni Alessandro, 72 Manzoni Cesare Alfonso, 48 Manzoni Francesca, 7, 9-10, 34-36, 47-52, 54-57, 59, 62, 69, 72, 74-79, 81-82, 84-86, 92, 94-95, 135, 141, 144, 162-163, 168 Marchionni Carlotta, 38 Margarito Mariagrazia, 53 Margherita Teresa d’Asburgo, 78-79 Maria Teresa d’Asburgo, 9, 48, 58-59, 61, 144, 161 Mariani Laura, 25 Marri Federico, 37 Martello Pier Jacopo, 123, 125, 136 Martinengo Francesco, 39 Mascheroni Lorenzo, 38, 105, 108 Mastraca Stelio p. 51 Mattei Camilla, 142 Mattei Colomba, 142 Mattioda Enrico, 69-72, 125 Mazza Angelo, 103 Mazzucchelli Giovanni Maria, 40, 57, 59 Medaglia Faini Diamante, 31, 38 Mengès Claude, 113 Mercier Louis-Sebastién, 42, 64 Merici Angela, 27 Meschini Stefano, 49 Messina Simone, 78, 109 Metastasio Pietro, 10, 24, 33, 41, 50-51, 54, 58, 61, 71, 110, 113, 116, 118-119, 121-130, 137, 141-144, 149150, 154, 161, 163 Mezzanotte Gianni, 14 Milano Andrea, 29 Minato Nicolò, 154 Mioni Maria, 49, 129-130, 132-133, 138 Molière Jean Baptiste, 17, 52, 54, 111, 116 Molinari Cesare, 154 Molmenti Pompeo, 53 Mongrédien Georges, 116

Montesquieu Charles Louis, 23 Monti Vincenzo, 38, 43, 108 Moreau Jean Baptiste, 77 Morelli Maddalena (in arte Corilla Olimpica), 20, 33, 38, 65, 108, 164 Moretti Lorenzo, 130 Moschini Giannantonio, 41 Mozart Leopold, 62 Mozart Wolfang Amadeus, 37, 61-62, 128-129, 156 Muratori Ludovico Antonio, 75, 125, 130, 161 Mussi Teresa, 30 Mutini Carlo, 41

Natali Giulio, 29-30, 36-38, 40-42, 44 Naumann Ursula, 67 Nestola Barbara, 40 Newton Isaac, 23 Novello Felice, 130 Nurra Pietro, 40

Orlandi Chiara, 130 Ossola Carlo, 19, 51 Ottolini Angelo, 37

P

adoan Maurizio, 58 Pagliai Morena, 126 Paioni Giuseppe, 33 Pariati Pietro, 154 Parini Giuseppe, 14, 19-20, 29-30, 36-38, 42, 44, 49, 128, 130, 145 Pasquini Giovanni, 154 Passeroni Giancarlo, 14, 49, 56, 60 Pellegrini Teresa, 96 Pelusini (o Peluso) Vittoria, 30 Pergolesi Giovan Battista, 128 Peri Jacopo, 125 Perin René, 109, 111 Perrot Michele, 22 Peruzzi Anna Maria, 130 Pestelli Giorgio, 128 Petrucci Francesco, 44 Pezzana Giacinta, 25 Philips Kristin, 41 Piccinni Niccolò, 127 Pignoti Casimiro, 130 Pindemonte Ippolito, 34, 39, 43-44, 62-63, 97, 102104, 115, 119 Pinottini Antonio, 35 Pirrotta Nino, 124 Piva Franco, 96 Pizzamiglio Gilberto, 41, 52 Planelli Antonio, 126 Platone, 17 Polacco Vittorio, 65

indice dei nomi Pomata Gianna, 26 Pompei Alberto, 40, 63 Pompei Girolamo, 34, 63, 65, 112-113, 115 Pontano Giuseppe, 38 Porpora Nicolò, 47, 144 Porta Giovanni, Preto Paolo, 96 Prevost Michel, 113 Priori Antonio, 142 Proglio Wilma, 109 Propp Vladimir, 93

Quadrio Francesco Saverio, 36, 47, 136 Quondam Amedeo, 70

R

aboni Giulio, 52, 122 Racine Jean, 17, 28, 44, 52, 54, 57, 69, 75, 77, 96, 111, 116-117, 164 Raimondi Ezio, 73 Ramacciotti Valeria, 109 Rambouillet de Madame (Catherine de Vivonne), 16 Rameau Jean-Philippe, 35, 59 Ramponi Virginia, 24-25, 122 Rao Anna Maria, 29 Redaello Giulio, 48 Renier Michiel Giustina, 44, 104 Ricaldone Luisa, 22, 30, 38, 41, 53, 104, 130 Ricardi Giovan Battista, 142 Ricci Ludovico, 39 Riccoboni Luigi, 32, 57, 70, 73, 164 Richardson Samuel, 105 Rinuccini Ottavio, 125 Riviera Guido, 56 Rivière Maria, 32 Rizzo Gino, 69 Roberti Tiberio, 71 Roche Daniel, 21 Roncalli Francesco, 67 Roncalli Parolino Carlo, 40 Rosenthal Angela, 67 Rosseau Jean Jacques, 22, 23 Rovani Giuseppe, 36

Sagrasi Bianca p. 55

Saibante Bianca Laura, 19, 44, 63 Sala Di Felice Elena, 105, 118, 121-122, 124, 132, 139, 142-144, 149-150, Salomone Giuseppe, 142 Salvi Antonio, 112, 123, 136 Salvioli Giovanni, 57 Sama Catherine M., 31, 42, 52 Sammartini Givanni Battista, 144 Sanguinetti White Laura, 41

185

Sannia Nowé Laura, 121-122 Sarro Domenico, 127 Sartori Claudio, 50, 61 Saurin Bernard Joseph, 40, 113 Savini De’ Rossi Aretafila, 31 Savoia Francesca, 41, 154 Sbarra Francesco, 154 Schmidl Carlo, 58 Schmidt Manfred Hermann, 156 Scola Giovanni, 43 Scrivano Riccardo, 69 Senofonte, 145 Serbelloni OttoboniVittoria, 20, 37, 102 Seregni Giovanni, 14, 36-37 Serra Paolo, 41, 53 Sforza Antonio, 41, 52 Shakespeare William, 165 Silva Donato, 40 Silva Luigi, 40 Simoncini Giorgio, 14 Simonetti Saverio, 58, 60 Sirtori Marco, 18 Sofocle, 17, 73, 124-125, 140 Sografi Simeone Antonio, 128 Solaro d’Asti Fenaroli Camilla, 40 Soldani Simonetta, 23 Soldini Fabio, 41 Soresi Pierdomenico, 14, 29, 36, 60, 61 Spagna Arcangelo, 22, 36, 94 Spallanzani Lazzaro, 26, 29, 43 Spiriti Andrea, 36 Staël de Madame (Anne-Louise Germaine Necker), 16 Stampa Gaspara, 19, 54 Stangalino Sara Elisa, 143 Stewart Pamela D., 134 Strappini Lucia, 122 Strazzi Francesca, 47-48, 50-52 Stroppa Sabrina, 51 Strozzi Camilla, 96 Suardo Giovan Battista, 38 Szondi Peter, 69, 71-73

Tadini Francesco, 38, 62-63, 65, 96-98, 103, 105,

108-110 Talbot Michael, 154 Talma François Joseph, 110 Tassis Felicita, 32 Tassistro Carlotta Egle, 22, 41, 55, 130-133, 135, 138139 Tedeschi Giovanni, 142 Tenca Luigi, 36 Teotochi Albrizzi Isabella, 19, 44 Terenzi Amerigo, 169

186

indice dei nomi

Terenzio Afro Publio, 52, 54 Terzi Carolina, 62 Tessari Roberto, 69-70, 113, 128 Tiraboschi Gerolamo, 103 Torre Carlo, 78-79, 94 Trigiani Aurora, 116 Tron Andrea, 41 Tron Cecilia, 30 Tumermani Antonio, 10, 47, 50, 73, 77 Turchi Roberta, 18 Turner Jane, 49

Ubersfeld Anne, 149

Uggeri Della Somaglia Bianca, 15, 18, 39-40, 163 Uglietti Francesco, 44

Vaccari Ezio, 36

Vaglia Ugo, 39-40 Vallisnieri Antonio, 37 Van Ghelen Giovanni Pietro, 51 Vannetti Clementino, 19, 34, 62-63, 65, 68, 108 Vannetti Giuseppe Valeriano, 45 Vencato Anna, 37 Veneto Antonio Mauro, 130 Vercellone Federico, 69

Verdi Giuseppe, 143 Verri Pietro, 18, 37, 49 Verza Francesco, 44 Viala Alain, 116 Viale Ferrero Mercedes, 145, 147, 158 Vianello Carlo Antonio, 13-14, 20, 29, 49, 155 Vieillard Pierre Ange, 109 Vincenti Leonello, 43 Viti Paolo, 69 Vivaldi Antonio, 28, 49, 112, 154 Voltaire François-Marie, 19, 37-40, 42-43, 57, 64, 70, 96-97, 101, 104, 110, 113, 164-165

Z

anetti Anna Maria, 41 Zanetti Antonio, 61 Zanetti Roberto, 58 Zanlonghi Giovanna, 42, 60, 69 Zanotti Giampietro, 55 Zarri Gabriella, 21-22 Zeno Apostolo, 32, 35, 41, 49-52, 54-55, 61-62, 116, 121-123, 126, 130-132, 136-137, 139, 141, 147, 150, 152, 154, 163 Zoppi Sergio, 53 Zorzi Ludovico, 154 Zucchi Marc’Antonio, 47-50, 54-56, 77



co mp osto, in car atter e dan t e mon oty pe, da l la fabr izio serr a editore, p i s a · rom a . imp ress o e r ilegato in i ta l i a n e l la t i p o g r afia di ag nan o, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) . * Novembre 2010 (cz2/fg13)

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BI B LI O T E CA D I D RAM M AT URG IA col la na diretta da a n namaria c asc etta 1. Fabrizio Fiaschini, L’«incessabil agitazione». Giovan Battista Andreini tra professione, cultura e religione, 2006, pp. 220, con figure in bianco / nero (studi). 2. Il corpo glorioso. Il riscatto dell’uomo nelle teologie e nelle rappresentazioni della resurrezione, Atti del II Simposio internazionale di studi sulle Arti per il Sacro, Roma, Pontificia Università Lateranense, 6-7 maggio 2005, a cura di Claudio Bernardi, Carla Bino, Manuele Gragnolati, 2006, pp. 160 con figg. in bianco /nero (materiali). 3. Roberta Carpani, Scritture in festa. Studi sul teatro tra Seicento e Settecento, 2008, pp. 168, con figure in bianco / nero (studi). 4. Arianna Frattali, Presenze femminili fra teatro e salotto. Drammi e melodrammi nel Settecento lombardo-veneto, 2010, pp. 192, con figure in bianco / nero (studi).