Alchimia e chimica nel Settecento. Antologia di testi 8893570114, 9788893570114

La chimica del Settecento è una scienza soggetta a rapide e profondissime trasformazioni. Per molti versi questi cambiam

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Alchimia e chimica nel Settecento. Antologia di testi
 8893570114, 9788893570114

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STORIE DELLA SCIENZA Collana diretta da Marco Beretta

ALCHIMIA E CHIMICA NEL SETTECENTO Antologia di testi

a cura di Francesca Antonelli e Marco Beretta

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla siae del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da aidro, corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.aidro.org

Progetto grafico Alberto Lameri Impaginazione Marco Agnisetta ISBN formato PDF: 978-88-9357-207-1 Copyright © 2018 Editrice Bibliografica via F. De Sanctis, 33/35 - 20141 Milano Proprietà letteraria privata - Printed in Italy

INDICE



Introduzione di Francesca Antonelli e Marco Beretta 7 Bibliografia di base 56 Criteri editoriali 58



Pierre-Joseph Macquer - Antoine-Alexis Cadet de Vaux 59 Sulla pietra filosofale (1760 ca) 60 Trasmutazione del ferro in argento (1777) 74



Torbern Bergman 79 Saggio sull’utilità della chimica applicata ai diversi bisogni della vita umana (1779) 81



Antoine Laurent Lavoisier 139 Prima [e Seconda] memoria sulla natura dell’acqua e sulle esperienze con cui si è preteso provare la possibilità della sua conversione in terra (1770-1773) 140



Marsilio Landriani 171 Ricerche fisiche sulla salubrità dell’aria (1775) 172



Antoine Laurent Lavoisier - Jean-Baptiste Meusnier de la Place 177 Svolgimento delle ultime esperienze sulla scomposizione e la ricomposizione dell’acqua



fatte dai Signori Lavoisier e Meusnier, dell’Académie des Sciences (1786) 179

Antoine Laurent Lavoisier 197 Dettagli storici sulla causa dell’aumento di peso subito dalle sostanze metalliche, quando le si riscalda durante l’esposizione all’aria (1792) 198



Armand Séguin - Antoine Laurent Lavoisier 205 Prima [e Seconda] memoria sulla traspirazione degli animali (1790-1792) 207





Jean-François-Xavier Fabre Du Bosquet Samuel Wolsky 231 Le mie idee sulla natura e sulle cause dell’aria deflogisticata, sulla base degli effetti che essa produce sugli animali, prolungandone la vita (1785) 233 La matematica ermetica svelata (1821) 242



Misure e Glossario 245



INTRODUZIONE 1 di Francesca Antonelli e Marco Beretta

La chimica entra in scena. L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert Nel Settecento la chimica non era ancora una disciplina scientifica pienamente legittimata. Diversamente dall’astronomia, la matematica e la fisica, che ormai godevano di un prestigio filosofico indiscusso, la chimica veniva ancora guardata con sospetto. Proprio nel momento in cui Denis Diderot (1713-1784) e Jean d’Alembert (1717-1783), con la pubblicazione dell’Encyclopédie, proponevano una radicale riforma del sapere, il legame ancora stretto tra chimica e saperi esoterici, l’uso di un linguaggio tecnico impreciso e spesso misterioso e le frequenti accuse di ciarlatanismo in cui incorrevano anche gli autori più celebri sembravano destinare questa scienza ai margini del movimento illuminista. A complicare le cose si aggiungevano altre caratteristiche tipiche della chimica settecentesca, che nell’insieme parevano allontanarla dai principi filosofici dei Lumi. Tra queste vi era innanzitutto uno scarso grado di teorizzazione: benché fin dal Rinascimento fossero proliferate un’infinità di ipotesi sulla natura dei princìpi primi 1  Anche se l’opera è stata preparata insieme dai due curatori, i paragrafi 1 e 4 dell’introduzione sono stati scritti da Francesca Antonelli, 2 e 3 da Marco Beretta. Le note ai testi di Macquer e Cadet de Vaux, Bergman, Landriani, Séguin e Lavoisier sono di Antonelli, mentre le restanti sono di Beretta. Tutte le traduzioni sono di Antonelli, ad eccezione del testo di Lavoisier e Meusnier de La Place, ripreso con lievi modifiche da Ferdinando Abbri (a cura di), Memorie scientifiche. Metodo e linguaggio della nuova chimica, Roma, Theoria, 1986, pp. 127-141. Il volume è dedicato all’amico Ferdinando Abbri.

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della materia e sulle cause delle principali reazioni, non si erano formulate ancora teorie di carattere generale, come invece era successo in fisica con Descartes e Newton.2 Va poi tenuto presente che la chimica non era un corpo di sapere uniforme coltivato da scienziati uniti dalle stesse finalità, né le sue pratiche si manifestavano attraverso un’unica, ben definita professione. Competenze di tipo chimico facevano infatti comunemente parte del repertorio della storia naturale, della medicina e della farmacia, come della tradizione ermetica e in particolare dell’alchimia. Infine, la frequente subordinazione delle arti chimiche a sollecitazioni di natura economica faceva della chimica una scienza ibrida, una sorta di misto tra tecnica e teoria, troppo spesso finalizzata a fini pratici se non addirittura industriali. Questo conflitto di interessi contrapponeva la curiosità naturale all’espressa esigenza di ricavare un profitto materiale dalla conoscenza, aspetto che oggi viene considerato una virtù della scienza ma che allora poteva facilmente suscitare disprezzo. A partire da un esempio tratto delle arti chimiche è possibile mettere meglio in luce queste molteplici tensioni. Fin dal Rinascimento la farmacia fu una disciplina regolata da una corporazione professionale che, pur essendo in stretto collegamento con le facoltà mediche, aveva ampi margini di autonomia. Dentro le farmacie si allestivano laboratori nei quali non si preparavano solo i rimedi approvati dalle facoltà mediche, ma anche farmaci la cui ricetta rimaneva segreta e di cui i creatori decantavano, attraverso precise strategie di marketing, improbabili proprietà terapeutiche. Nel Settecento le farmacie parigine, tra la più rinomate d’Europa, proponevano ancora rimedi a base di urina ed escrementi umani, frammenti di mummie egizie, polveri che potevano guarire a distanza (anche di diversi chilometri), calcoli animali, diverse ricette di oro potabile, oli ricavati dalle lingue delle vipere e

2  I numerosi tentativi che si susseguirono dalla seconda metà del Seicento di applicare i risultati della fisica cartesiana e newtoniana alla fisica non sortirono mai gli effetti sperati.

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Alchimia e chimica nel Settecento

delle lucertole, estratti dalle pietre preziose, che seguendo una tradizione antichissima fungevano sia da amuleto che da rimedio terapeutico; vi si trovava poi un ricchissimo campionario di acque minerali, provenienti da varie regioni di Francia, le cui proprietà miracolose si contendevano un mercato floridissimo.3 In mancanza di una conoscenza adeguata dei principi patologici delle malattie, i farmacisti erano costretti a ricorrere a rimedi empirici i cui effetti erano per lo più casuali. Quando alcuni pazienti guarivano, meglio se altolocati e famosi, le virtù del rimedio acquisivano rapidamente una tale celebrità da oscurare tutti gli insuccessi. Le corporazioni dei farmacisti prevedevano che il sapere venisse trasmesso attraverso l’istituzione di un collegio municipale che aveva il compito, tra gli altri, di vigilare sui prodotti e sui comportamenti dei propri afferenti. Il collegio esercitava il controllo di concerto con le facoltà mediche, a cui spettava l’ultima parola sulla validità terapeutica di un nuovo rimedio. I farmacisti dunque erano dei chimici ma, costretti dentro i limiti imposti dalla loro corporazione professionale, non potevano esercitare la propria scienza in totale libertà, costantemente sollecitati a soddisfare le esigenze dei medici accademici da un lato e della clientela che frequentava le loro officine dall’altro. Tali vincoli si allentarono solo nella seconda metà del Settecento quando, un po’ in tutta Europa, si cominciarono a introdurre nuove terapie per la cura delle malattie e si capì che la manipolazione dei principi attivi delle piante, dei minerali e degli animali poteva effettivamente rivelarsi come uno strumento estremamente efficace solo attraverso una rigorosa analisi chimica dei principi attivi. Anche se le corporazioni professionali dei farmacisti vennero abolite solo con la Rivoluzione francese e dunque dopo il 1789, il ruolo dei farmacisti prese a cambiare molto prima

3  Per un campionario esaustivo dei rimedi che si potevano trovare nelle farmacie parigine del Settecento si veda Alfred Franklin, La vie privée d’autrefois. Les médicaments, Paris, Plon, 1891.

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Figura 1 - Il laboratorio di chimica del celebre farmacista parigino GuillaumeFrançois Rouelle. Diderot, d’Alembert, Encyclopédie, vol. 20 (Parigi, 1763)

e Parigi, capitale europea della scienza e della filosofia, fu il laboratorio privilegiato ove si sperimentò un nuovo modo di praticare e insegnare la chimica. A partire dai primi anni ’60, infatti, alcuni intraprendenti farmacisti parigini, in tutto poco più di un centinaio, cominciarono a istituire corsi liberi di chimica a cui potevano accedere tutte le persone interessate, senza distinzione di genere, censo o educazione. Durante le lezioni, tenute sia in anfiteatri molto affollati sia nei laboratori retrostanti le botteghe, si facevano esperimenti e dimostrazioni che, non sorprendentemente, catturavano facilmente l’attenzione del pubblico. Effervescenze, distillazioni, combustioni, detonazioni e altre operazioni comuni combinavano tratti spettacolari con pratiche la cui utilità era spesso molto familiare alla stragrande maggioranza dei partecipanti. Non va dimenticato che intorno alla metà del secolo un laboratorio di chimica non era troppo differente da una cucina ben attrezzata. Tra questi corsi i più popolari furono senz’altro quelli tenuti da Guillaume-François Rouelle (1703-1770). Dimostratore di chimica (al servizio del professore di medicina) presso il Jardin des Plantes dal 1742, Rouelle seppe dare alla sua scienza una popolarità enorme, grazie soprattutto a delle lezioni durante le quali non si limitava semplicemente a spiegare i principi teorici, ma proponeva con grande sagacia esperimenti spettacolari, a 10

Alchimia e chimica nel Settecento

Figura 2 - Un’esplosione durante una lezione di chimica di Rouelle in una ricostruzione ottocentesca

volte pericolosi, che conquistarono in breve tempo tutta Parigi, facendo improvvisamente diventare la chimica una scienza alla moda. Tra le migliaia di allievi di Rouelle, si annoverano anche molte celebrità tra cui Diderot, che fu autore della più completa versione del corso del maestro,4 Jean-Jacques Rousseau (1712-1778),5 Paul-Henri Thiry d’Holbach (1723-1789) 6 e Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794). Nel 1761 i corsi di chimica tenuti a Parigi avevano goduto di un auditorio di oltre 1.100 persone e poco più di trent’anni dopo queste superarono le 3.100.7 Per uno strano paradosso la 4  Su Diderot e la chimica François Pepin si veda La philosophie expériementale de Diderot et la chimie, Paris, Garnier, 2012; su Diderot e il corso di Rouelle si veda Marco Beretta, Rinman, Diderot, and Lavoisier: New Evidence Regarding Guillaume François Rouelle’s Private Laboratory and Chemistry Course, “Nuncius”, 26 (2011), pp. 355-379. 5  Bernadette Bensaude-Vincent, Bruno Bernardi (a cura di), Jean-Jacques Rousseau et la chimie, Paris, Corpus, 1999. 6  Su d’Holbach e gli altri philosophes si veda Marco Beretta, I Philosophes e la chimica. All’origine del materialismo scientifico, in Marco Beretta, Felice Mondella e Maria Teresa Monti (a cura di), Per una storia critica della scienza, Milano, Cisalpino, 1996, pp. 11-48. 7  John Perkins, Chemistry Courses. The Parisian Chemical World and the Chemical Revolu-

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chimica, che non era ancora disciplina universitaria, era divenuta d’un tratto la scienza più popolare, attirando su di sé l’attenzione dell’opinione pubblica e delle menti migliori della capitale. In questi anni la chimica veniva insegnata anche in altri contesti produttivi, come ad esempio quello legato allo sfruttamento dei giacimenti minerari; anche in questo caso la trasmissione e diffusione del sapere tecnico avveniva al di fuori del contesto universitario e, almeno fino alla seconda metà del Settecento, senza una vera organizzazione scientifica. Sull’onda della rapida espansione economica dell’Europa del Settecento, il crescente fabbisogno di metalli e minerali favorì rapidamente il nascere di un’accesa concorrenza tra Paesi che erano in possesso di importanti risorse minerarie (Svezia, Francia, Germania e Inghilterra) e, di conseguenza, di una committenza verso le accademie scientifiche e altre istituzioni affinché venissero istituiti dei corsi avanzati di chimica mineralogica. Sorsero così collegi minerari in cui l’insegnamento della chimica occupava un ruolo centrale.8 Divenne ben presto chiaro che un’approfondita conoscenza di chimica poteva aiutare a risolvere una moltitudine di problemi di cruciale importanza. Durante la Guerra dei sette anni (1756-1763) le autorità militari francesi, che all’inizio pensavano di comandare l’armata di gran lunga più potente, furono meravigliati nell’assistere ai progressi ottenuti dagli olandesi nella produzione di una polvere da sparo che permetteva ai moschetti in dotazione della propria armata una gittata decisamente più lunga di quella usata dai francesi. Per migliorare la produzione della polvere, sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo, occorreva formare chimici capaci di affrontare il problema non più empiricamente ma attraverso un approccio scientifico pianificato. tion, 1770-1790, “Ambix”, 57 (2010), pp. 27-47. 8  Sul ruolo sociale ed economico della chimica si veda lo studio classico di Charles C. Gillispie, Scienza e potere in Francia alla fine dell’ancien régime, Bologna, Il Mulino, 1983, a cui è seguito un secondo volume intitolato Science and polity in France: the revolutionary and Napoleonic years, Princeton, Princetron UP, 2004.

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Arti minori, ma non per questo di secondaria rilevanza economica, come l’arte tintoria, l’arte distillatoria, l’arte conciaria e l’arte vetraria, tutte regolate dall’esistenza di corporazioni professionali, beneficiarono anch’esse di questo rinnovato clima economico, sottolineando così, in modo ancora più pervasivo, l’importanza centrale assunta dalla chimica. Nonostante la portata di questi sviluppi, l’organizzazione del sapere chimico, come abbiamo visto, era ancora molto frammentata e moltissimi intellettuali di spicco, dentro e fuori l’Académie Royale des Sciences di Parigi, non guardavano ancora alla chimica come a una scienza autentica. Troppe erano le contraddizioni teoriche e troppo pochi i veri scienziati che la praticavano. Intorno alla metà del secolo Denis Diderot comprese però che la chimica, anche in questa sua forma embrionale, avrebbe potuto rivelarsi come una formidabile alleata della riforma del sapere filosofico e scientifico che aveva in mente. Come Francis Bacon (1561-1626), che più di un secolo prima aveva riconosciuto agli alchimisti un ruolo profondamente innovativo nella riforma in senso sperimentale del sapere scientifico, Diderot, che nella redazione dell’Encyclopédie si era esplicitamente ispirato proprio a Bacon, disponeva ora di molti nuovi elementi e risultati per poter condurre il proprio progetto in porto. Come è noto e chiaro fin dal sottotitolo dato all’opera,9 il principale obiettivo riformatore dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert risiedeva nel porre al centro della riforma del sapere settecentesco una nuova idea di scienza naturale che, abbandonata la predilezione esclusiva per la speculazione teorica, la collegasse alle arti e ai mestieri e ne favorisse l’emancipazione dai vincoli corporativi. Viceversa le invenzioni e i contributi delle tecniche potevano offrire alla scienza nuovi e promettenti campi di indagine la cui ricaduta, come aveva già visto Bacon, non consisteva solo nell’allargamento degli orizzonti cono9  Diderot e d’Alembert, Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Paris, Briasson, 1751-1765.

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scitivi, ma anche e soprattutto nei benefici economici che dai progressi tecnico-scientifici poteva trarre la società. La chimica, impegnata come era in settori di ricerca che avevano quasi tutti ricadute importanti sull’economia, si presentava come la scienza ideale a incarnare il disegno diderotiano. In effetti, nella Spiegazione particolareggiata del sistema delle conoscenze umane, che seguiva il Discorso preliminare di d’Alembert, Diderot affidava alla chimica un ruolo centrale: La chimica è imitatrice e rivale della natura. Il suo oggetto è quasi tanto esteso quanto quello della natura stessa: essa o decompone gli enti o li fa rivivere o li trasforma.10

Se nel Discorso preliminare d’Alembert aveva rivendicato alle scienze esatte un ruolo guida nella riforma del sapere, Diderot privilegiava un programma filosofico alternativo con un triplice obiettivo: in primo luogo dare un fondamento esplicitamente anti-metafisico alla scienza e privilegiare così quelle discipline, come la chimica, che nella loro prassi sperimentale mettevano in relazione diretta le manifestazioni recondite dei fenomeni naturali con le sensazioni umane; in secondo luogo, la possibilità, attraverso esperimenti chimici, di ottenere artificialmente prodotti identici a quelli naturali, rivelando così un metodo per dominare la natura non basato più soltanto sulla conoscenza passiva delle sue leggi, ma incentrato sui processi sperimentali capaci di ricrearla; infine, Diderot pretendeva dalle scienze un coinvolgimento diretto nella trasformazione materiale ed economica del mondo e la chimica, grazie alle sue numerose relazioni con tantissime arti, sembrava rappresentare un esempio ideale da cui partire.11 Il ruolo ricoperto nell’Encyclopédie dalla chimica e delle 10  Diderot e d’Alembert, Encyclopédie, Paris, Briasson, 1751, vol. 1, p. xlviii. Tutta l’Encyclopédie (testi, tavole ad alta risoluzione e supplementi) è disponibile on-line sul sito http://encyclopedie.uchicago.edu/. 11  Sulla chimica nell’Encyclopédie si veda Christine Lehman, François Pepin (a cura di), La chimie et l’Encyclopédie, “Corpus. Revue de philosophie”, 56 (2009), pp. 1-250.

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scienze a essa affini (mineralogia, farmacia ecc.) venne studiato da Diderot con la massima attenzione e le principali voci vennero affidate a scienziati e filosofi di tutto rilievo. Il primo volume dell’Encyclopédie usciva nella primavera del 1751 sollevando immediate e accesissime reazioni, tanto che nel febbraio dell’anno successivo Diderot fu costretto a interrompere temporaneamente la pubblicazione. Nei primi due volumi le voci di chimica erano state affidate a Paul-Jacques Malouin (17011778), un chimico autorevole, ma piuttosto anziano, dell’Académie Royale des Sciences. Significativamente, nella voce “Alchimie” Malouin legittimava la possibilità della trasmutazione dei metalli vili in oro, un’idea del resto ancora largamente condivisa da molti membri dell’Accademia scientifica parigina. Tuttavia, il tono di Malouin risultava ancora troppo accademico ed erudito per rispondere efficacemente all’ambizioso disegno culturale concepito da Diderot. La pausa imposta dalla censura alla pubblicazione dell’Encyclopédie consentiva così al filosofo francese di raccogliere le idee sul proprio progetto e di ripensarlo radicalmente. Nel 1753, contemporaneamente alla concessione a riprendere la pubblicazione dei volumi, Diderot pubblicava un pamphlet, intitolato De l’interprétation de la nature, nel quale rivedeva in modo molto più radicale la gerarchia dei saperi che era stata presentata nel prospetto dell’Encyclopédie due anni prima. In primo luogo Diderot sferrava un attacco diretto contro la matematica e la geometria, accusandole di basarsi su principi astratti se non addirittura metafisici e di aver così rinunciato ad aderire ai dati dell’esperienza sensibile. Ispirato da Bacon, Diderot prefigurava un’imminente “rivoluzione delle scienze” che, guidata da una nuova filosofia sperimentale, permettesse all’uomo di comprendere i misteri della materia, della sua evoluzione nonché dei meccanismi grazie ai quali era possibile riprodurre, attraverso metodi artificiali, i prodotti della natura. Diversamente dalle scienze astratte che si fermavano alla superficie dei corpi, la nuova filosofia aveva il compito di penetrare nei loro aspetti più reconditi e di rivelare le forze occulte che sprigionavano quell’energia spontanea INTRODUZIONE

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Figura 3 - Ritratto del medico e filosofo tedesco Georg Ernst Stahl, autore della teoria del flogisto

e dinamica che generava i fenomeni vitali. Benché nel disegno di riforma del sapere scientifico di Diderot convergessero idee provenienti da ambiti diversi, in particolare dal trasformismo biologico, dalla fisica sperimentale e dalla filosofia materialista e sensista inglesi, la chimica vi giocava un ruolo centrale. Per Diderot lo scopo ultimo della sua operetta era infatti mostrare che la materia era costituita da un numero indefinito di enti del tutto eterogenei non riconducibili ai quattro elementi aristotelici. Dalla combinazione di questi enti si generavano e dissolvevano spontaneamente i corpi, sia organici sia inorganici, secondo un ciclo che non poteva essere coartato alla rigidità delle leggi meccaniche e, ancora meno, a un’idea più o meno esplicita di disegno provvidenziale della natura. Spettava quin16

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di alla chimica risolvere i misteri circa la composizione delle materie originarie e le loro differenze qualitative. La filosofia della materia sviluppata nella prima metà del secolo dal medico tedesco Georg Ernst Stahl (1659-1734) offriva a Diderot il quadro teorico di riferimento entro cui sviluppare le proprie riflessioni. Secondo Stahl, la materia era costituita da una complessa gerarchia di corpi misti che, in misura differente, erano composti di princìpi chimicamente attivi quali lo zolfo, il mercurio e il sale, ed erano suscettibili di essere alterati dall’azione del fuoco grazie alla presenza di quantità variabili di un principio, il flogisto, che li rendeva più o meno infiammabili. In Francia tale teoria era stata introdotta da Rouelle, che come abbiamo visto non era solo il più popolare dei professori di chimica d’Europa, ma sarebbe stato di lì a poco anche il maestro dello stesso Diderot.12 Forte di queste convinzioni, che avevano portato alla rottura con d’Alembert,13 Diderot aveva modo di riprendere la pubblicazione dei volumi dell’Encyclopédie dando grandissimo rilievo alla chimica e alle arti a essa connesse. Per le voci di chimica generale Diderot decise di sostituire Malouin con Gabriel-François Venel (1723-1775), un chimico molto più avveduto sui recenti progressi della scienza e allievo di Rouelle. Nel 1753 Venel compilava la lunga voce Chimie rivendicando con orgoglio alla propria scienza un ruolo centrale nella società e nella geografia dei saperi. Venel inoltre prefigurava l’avvento di un’imminente rivoluzione, capitanata da un “nuovo Paracelso” capace di offrire una sintesi di tutte le pratiche e arti che fino allora erano ancora frammentate. Significativamente, Diderot aveva affidato la compilazione di oltre 800 voci di chimica mineralogica al filosofo materialista d’Holbach, anch’egli allievo di Rouelle, il quale nel 12  Diderot seguì il corso di chimica di Rouelle per tre anni, dal 1754 al 1757. 13  D’Alembert era non solo uno dei più autorevoli matematici di Francia, ma si era anche fatto attivo promotore della diffusione del newtonianesimo. Gli attacchi violenti di Diderot contro la matematica e la rivalutazione di scienze qualitative come la chimica non potevano che generare contrasti sempre più profondi.

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1770 pubblicherà nel Système de la nature una filosofia della materia che, come mostra il passo seguente, era dipendente dall’interpretazione che Diderot e Rouelle avevano dato della chimica stahliana: Riconosciamo dunque che la materia esiste da se stessa, agisce con la sua propria energia e non si annienterà mai. Diciamo che la materia è eterna e che la natura è stata, è e sarà sempre occupata nel produrre, nel distruggere, nel fare e disfare, nel seguire le leggi che risultano dalla sua esistenza necessaria. Per tutto ciò che fa, la natura ha bisogno solo di combinare elementi e materie essenzialmente diverse, che si attirano e si respingono, si urtano o si uniscono, si allontanano o si avvicinano, si tengono insieme o si separano. È così che essa fa nascere piante, animali, uomini, esseri organizzati, sensibili e pensanti, come esseri sprovvisti di sentimento e di pensiero. Tutti questi esseri agiscono nella loro rispettiva durata secondo le leggi invariabili, determinati dalle loro proprietà, dalle loro combinazioni, dalle loro analogie e dalle loro dissomiglianze, dalle loro configurazioni, dalle loro masse, dai loro pesi.14

Se l’enorme influenza culturale dell’Encyclopédie contribuì a scardinare l’assetto del sapere scientifico tradizionale e a portare la chimica in primo piano, l’immagine che di questa scienza veniva offerta era ancora piuttosto tradizionale e, come detto, si basava su teorie e concetti sviluppati nella prima metà del secolo. Inoltre Diderot, seguendo quanto sostenuto nelle sue lezioni da Rouelle, aveva tenuto un atteggiamento molto ambiguo nei confronti dell’alchimia tanto che, accanto alle numerose illustrazioni del laboratorio e degli strumenti di chimica pubblicate nel ventesimo volume, aveva affiancato una rappresentazione della Grande Opera tratta dall’opera alchemica di Libavius. Del 14  Paul-Henry Thiry d’Holbac, Système de la nature (1770), trad. it., Sistema della Natura, Torino, UTET, 1978, p. 496.

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Figura 4 - Emblema della pietra filosofale pubblicato da Diderot nelle tavole della sezione di chimica dell’Encyclopédie, vol. 20 (Parigi, 1763)

resto Venel, nell’articolo Chimie, aveva confermato la legittimità scientifica dell’alchimia scrivendo: Quanto all’arte di trasmutare i metalli, o alchimia, si può considerarla come accompagnata sempre da scienza e non separare il sistema dalla pratica alchemica. Il titolo di filosofo, di saggio, al quale aspiravano in ogni tempo i ricercatori della pietra divina, la segretezza, lo studio, la mania di scrivere ecc. tutto ciò annuncia gli scienziati, le persone di teoria. I più antichi libri alchemici di qualunque autenticità contengono una teoria comune sia alla chimica segreta o alchimia sia alla chimica positiva e per quanto frivola la si supponga non è potuta nascere che presso dei sapienti, dei filosofi, dei ragionatori ecc.15 15  Gabriel François Venel, Chimie, in Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des

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L’idea di una stretta relazione tra le teoriche alchemiche e lo sviluppo della chimica moderna era largamente condivisa da molti altri chimici, Rouelle in primis, e non sorprende dunque che Diderot individuasse in questa genealogia la possibilità di dare una dignità filosofica unitaria a un insieme di saperi tecnici. Una conferma dell’influenza di questa visione che val la pena richiamare in questo paragrafo viene da un breve scritto di Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), composto intorno al 1760 e dedicato alla pietra filosofale,16 ove si sostiene la compatibilità della trasmutazione dei metalli con le più recenti scoperte della chimica. Macquer, che di formazione era un medico, era divenuto in questo periodo il chimico più autorevole di Parigi. Autore di due fortunatissimi manuali di chimica,17 fu incaricato dalle autorità governative di sovrintendere e migliorare i processi chimici adottati nelle manifatture di porcellane a Sèvres e in quella degli arazzi di Gobelin. Combinando un’insuperata conoscenza di processi chimici industriali con un dominio della teoria della composizione delle sostanze, Macquer fu capace di innumerevoli importanti scoperte, molte delle quali confluirono, nel 1766, nel suo fortunatissimo Dictionnaire de chymie, l’opera chimica forse più venduta e tradotta del Settecento. In quanto medico e apprezzato funzionario di stato, Macquer ricopriva un ruolo di primo piano anche all’interno della Académie Royale des Sciences di Parigi e, tra i membri della sezione di chimica, era sicuramente quello che godeva di maggior prestigio. Diversamente da Rouelle, la sua reputazione non era confinata tra le mura della capitale francese ma si estendeva a arts et des métiers, Paris, Briasson, 1753, vol. 3, p. 425, trad. it. Chimica (Encyclopédie, 1753). Introduzione, traduzione e note di Ferdinando Abbri, Siena, Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici, 2003, pp. 69-70. 16  P ubblicato da Christine Lehman, Alchemy Revisited by the Mid-Eighteenth Century Chemists in France. An Unpublished Manuscript by Pierre-Joseph Macquer, “Nuncius”, 28 (2013), pp. 165-216 e tradotto nella presente antologia alle pp. 59-74. 17  Pierre-Joseph Macquer, Élémens de chymie théorique, Paris, Hérissant, 1749; Id., Elemens de chymie-pratique [Texte imprimé], contenant la description des opérations fondamentales de la chymie, avec des explications & des remarques sur chaque opération, Paris, Hérissant, 1751, 2 voll. I due volumi vennero tradotti in italiano rispettivamente nel 1782 e nel 1774.

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tutta Europa, dove Macquer si impose, anche grazie a una fitta rete di corrispondenze, come scienziato di fama. Tuttavia, nonostante questo brillante curriculum, la posizione di Macquer nei confronti dell’alchimia, benché conservata tra carte che non osò mai rendere pubbliche, non era profondamente dissimile da quella dei suoi contemporanei. Nello scritto prima richiamato e pubblicato in questa antologia,18 il medico francese metteva in guardia i lettori dal credere, come facevano gli alchimisti antichi, di poter trovare facilmente una formula capace di rendere possibile la trasmutazione dei metalli in oro. Al tempo stesso però, rifacendosi alle più recenti scoperte di Stahl, per il quale i metalli altro non erano che dei composti di terra e di flogisto, diceva possibile, almeno in linea teorica, trasmutare i metalli più ricchi di questo principio; di conseguenza si poteva a suo avviso sperare, grazie al progresso delle tecniche d’analisi, di riuscire un giorno a convertire anche sostanze più omogenee quali l’oro e l’argento. Il testo in questione, che pur comprendeva manifestazioni di cautela e scetticismo, rivelava nel complesso una deliberata volontà di non abbandonare il sogno degli alchimisti e anzi, ammantandolo con la serietà delle più recenti teorie della materia, ne prefigurava una nuova vita, finalmente legittimata da solide argomentazioni scientifiche e sperimentali. Il dibattito in cui lo scritto di Macquer si innestava trovava vigore e sostegno, come abbiamo visto, nell’Encyclopédie, ma veniva di tanto in tanto incoraggiato anche da pubblicazioni minori: è il caso ad esempio di un articolo apparso nel 1777 nel popolarissimo “Journal de Paris”, in cui si dava credito a diversi episodi di trasmutazione alchemica.19 In sintesi, se da un lato la chimica settecentesca stava diventando una scienza autonoma e sempre più in vista, i suoi contenuti erano ancora largamente condizionati da nozioni e pratiche che al di fuori della comunità dei chimici erano fortemente contestate. Per molto tempo gli storici della scienza 18  Alle pp. 60-74. 19  Pubblicato in questa antologia alle pp. 74-77.

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Figura 5 - Ritratto del medico e chimico scozzese Joseph Black

hanno pensato che, già nella seconda metà del diciassettesimo secolo, l’alchimia avesse perso gran parte della legittimità scientifica e che durante l’età dei Lumi non ci fossero che tracce marginali della sua influenza. In realtà, la posizione espressa da Diderot e da molti altri philosophes era tutt’altro che secondaria, e la ricerca della pietra filosofale e delle tecniche di trasmutazione dei metalli vili in oro fu un’occupazione ancora molto diffusa tra i chimici parigini fino alla seconda metà del Settecento.

2. I gas e un nuovo scenario per la chimica Come abbiamo visto, intorno al 1760 la chimica era diventata, almeno a Parigi, una scienza di grande popolarità. Fu tuttavia fuori dalla capitale francese che si realizzarono alcune importantissime scoperte destinate a cambiare completamente il volto di questa scienza. La principale di queste riguardava la natura composta dell’aria. 22

Alchimia e chimica nel Settecento

Vannoccio Biringuccio (1540), Jean Rey (1630), René Descartes (1637), John Mayow (1680) e Stephen Hales (1727) avevano già osservato nelle loro opere che l’aria giocava un ruolo importante in molti processi chimici. Si sapeva, ad esempio, che era la causa dell’aumento di peso dei metalli sottoposti a calcinazione, che veniva assorbita dalle piante in grandi quantità e che la sua parte più pura si combinava con il sangue durante la respirazione. Queste osservazioni e intuizioni rimasero però, di fatto, a lungo isolate. Fino alla metà del Settecento la maggior parte dei chimici e dei medici continuò infatti ad aderire alla teoria aristotelica dei quattro elementi, pensando l’aria come una sostanza semplice. Attraverso una serie di esperimenti quantitativi effettuati tra il 1753 e il 1755, Joseph Black scoprì quella che chiamò aria fissa (anidride carbonica). Per conseguire la laurea in medicina presso l’Università di Edimburgo, Black presentò una tesi dal titolo De humore acido a cibis orto et agnesia alba in cui proponeva di determinare le virtù mediche della calce viva. Nei suoi esperimenti Black aveva usato della magnesia alba (carbonato di magnesio), simile alla terra calcarea: sottoponendo questa sostanza all’azione del calore ottenne una notevole quantità di gas e, attraverso un’ingegnosa serie di esperimenti, fu in grado di ricostituire la quantità originale di magnesia, dimostrando così che l’aria fissa era uno dei suoi ingredienti costitutivi. Nonostante questa scoperta fosse stata accolta con grande stupore dalla comunità dei medici, ci vollero comunque diversi anni prima che si capissero le sue possibili conseguenze sul piano chimico. È significativo che i primi protagonisti della chimica pneumatica non furono medici, farmacisti e neppure chimici, bensì filosofi naturali. L’analisi, l’identificazione e la classificazione dei gas potevano in effetti essere operate solo da coloro che avevano grande familiarità con strumenti scientifici talmente complessi e con standard di precisione tanto elevati che, all’inizio degli anni ’60 del Settecento, potevano essere trovati esclusivamente nei laboratori di fisica. Non è quindi un caso INTRODUZIONE

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Figura 6 - Ritratto di Joseph Priestley

se tra la fine del 1760 e l’inizio del 1770 gli esperimenti e le scoperte più importanti nella chimica pneumatica furono realizzati da due scienziati inglesi, Henry Cavendish (1731-1810) e Joseph Priestley (1733-1804), nessuno dei quali era un chimico. Cavendish era un ricco aristocratico, che durante la sua lunga e prolifica carriera scientifica si era distinto principalmente per delle ricerche in fisica sperimentale, matematica e astronomia. Era stato anche un abile inventore di strumenti scientifici ed era riuscito con successo a migliorare significativamente gli standard di precisione usati nelle esperienze. Una delle sue prime pubblicazioni (1766) fu una breve memoria dedicata all’analisi dell’aria in cui, tra le altre cose, annunciava la scoperta di un’aria infiammabile (idrogeno) fino ad allora sconosciuta. Anche se la memoria di Cavendish fece sensazione e la Royal Society, la più importante accademia scientifica inglese, gli conferì la Copley Medal, negli anni successivi il filosofo naturale ingle24

Alchimia e chimica nel Settecento

se si occupò di chimica pneumatica solo occasionalmente. Nel 1783 fece un’altra importantissima scoperta intuendo la natura composta dell’acqua ma, ancora una volta, il suo approccio interdisciplinare alla ricerca sperimentale non gli permise di vedere le conseguenze rivoluzionarie a cui i suoi risultati potevano condurre in ambito chimico. Anche per Priestley, teologo, storico e filosofo naturale, l’interesse per la natura dei gas non era prettamente chimico e si innestava in un più ampio programma di fisica sperimentale, incentrato sulla natura dell’elettricità e di altri fluidi elastici. Priestley non aveva alcuna intenzione di dimostrare che l’aria atmosferica fosse costituita da molti gas differenti, ma le sue eccellenti qualità di sperimentatore lo condussero, suo malgrado, a offrire una visione del tutto nuova della natura di questi corpi volatili. Nel 1772 presentò alla Royal Society le Observations on different kinds of air, anch’esse premiate con la medaglia Copley. Diversamente da quanto accadde per Cavendish, il riconoscimento della Royal Society incoraggiò Priestley ad approfondire sistematicamente i suoi esperimenti di chimica pneumatica. Tra il 1774 e il 1775 pubblicò gli Experiments and observations on different kinds of air, testo molto disordinato ma ricchissimo di scoperte, quali quelle dell’aria flogisticata (l’azoto) e dell’aria deflogisticata (l’ossigeno), oltre che di esperimenti ingegnosi e di nuovi strumenti, come la lente ustoria, che applicati a questo settore di indagine cambiavano decisamente l’orizzonte sperimentale della chimica tradizionale. Fu per la compresenza di questi elementi che l’opera di Priestley, diversamente da quella di Cavendish, ebbe un successo immediato, innescando in tutta Europa un susseguirsi di ricerche sulla natura dei gas e sulle proprietà chimiche dell’aria atmosferica. Nel giro di pochi anni si pubblicarono moltissime opere sulle conseguenze dei gas sulla salute dell’uomo, sul loro ruolo chimico nella fisiologia delle piante e nella respirazione degli animali e sul possibile sfruttamento delle loro caratteristiche da un punto di vista tecnico. L’infiammabilità e la leggerezza dell’idrogeno, ad esempio, potevano servire a INTRODUZIONE

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costruire macchine per volare, le mongolfiere, o a produrre su scala industriale acque minerali gassate, i cui effetti terapeutici erano stati oggetto di numerosi studi. Ad ogni modo, perché divenisse chiaro il potenziale rivoluzionario della scoperta dei gas, occorreva che a occuparsene fossero principalmente i chimici. Uno dei primi a esplorare questo settore di ricerche da questo punto di vista fu lo svedese Torbern Bergman, professore di chimica all’Università di Uppsala dal 1768. Bergman era arrivato alla chimica attraverso un percorso di studi originale, assai differente rispetto a quello dei chimici suoi contemporanei, in genere improntato alla medicina e alla farmacia. Bergman aveva studiato storia naturale con Carlo Linneo, il padre della botanica moderna, dal quale aveva imparato l’importanza di dotare la scienza di un linguaggio preciso e di sistemi di classificazione naturalistica coerenti. L’insegnamento di Linneo gli aveva inoltre fatto comprendere l’importanza dell’analisi chimica del mondo minerale. Parallelamente agli studi naturalistici Bergman aveva approfondito anche la fisica e l’astronomia, due materie sulle quali concentrò la propria attenzione durante i primi anni ’60. Questi studi lo spinsero ad approfondire l’opera fisica di Newton, di cui divenne ben presto uno dei più accesi sostenitori. L’approccio matematico e quantitativo nell’indagine dei fenomeni naturali costituì uno dei più importanti contributi di Bergman al rinnovamento della metodologia della chimica. Guidato dalle scoperte di Priestley, Bergman capì che i gas rappresentavano la chiave per rinnovare la chimica da cima a fondo e per liberarla definitivamente da quel retaggio ambiguamente legato all’alchimia che solo pochi anni prima veniva guardato con benevolenza dalla maggior parte dei chimici europei. Anche se si distinse per scoperte rilevanti, il suo contributo chimico più importante si rivelò nello sforzo di cambiare l’orizzonte epistemologico e sperimentale della propria scienza. Il chimico svedese aveva compreso che, con la scoperta dei gas, l’introduzione di nuovi strumenti di fisica e il conseguente innalzamento degli standard di precisione costituivano gli elementi necessari 26

Alchimia e chimica nel Settecento

Figura 7 - Ritratto del chimico svedese Torbern Bergman

per pervenire ad analisi rigorose e attendibili sugli ingredienti dei corpi, e che tale approccio non riguardava solo la chimica pneumatica, ma doveva essere esteso a tutte le reazioni chimiche. L’applicazione del metodo e degli strumenti della fisica all’analisi chimica costituiva una novità di grande importanza che, come vedremo nelle pagine che seguono, spalancava le porte a una nuova e rivoluzionaria filosofia della materia. Consapevole del carattere innovativo della propria impostazione, nel 1779 Bergman presentava all’Accademia Reale delle Scienze un lungo saggio,20 immediatamente pubblicato e tradotto in varie lingue europee, nel quale illustrava in modo si20  Torbern Bergman Anledning til Föreläsningar öfver chemiens beskaffenhet och nytta, samt naturlige kroppars almännaste skiljaktigheter, Stockholm, Uppsala, 1779. Il testo di Bergman fu tradotto in tedesco, in inglese e in italiano; una nuova traduzione è pubblicata in questo volume alle pp. 79-138.

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stematico la sua concezione della chimica, descrivendo le principali operazioni e suddivisioni disciplinari di questa scienza. Rispetto alla voce Chimie scritta da Venel per l’Encyclopédie le novità erano moltissime, benché la più importante da ricordare in questa sede sia la trasformazione radicale della scienza in un corpo di nozioni saldamente ancorato a criteri di indagine quantitativi e il conseguente abbandono di credenze, quale quelle alchemiche, che affondavano le loro radici in una visione qualitativa e filosofica della materia. Oltre a questo opuscolo, che potremmo definire di carattere dottrinario e programmatico, Bergman aveva pubblicato alcune memorie più specifiche, nelle quali aveva tentato di quantificare le affinità chimiche tra le sostanze, applicando così le leggi di attrazione concepite da Newton per spiegare i moti celesti al mondo microscopico delle particelle e degli atomi. Influenzato dalla riforma della nomenclatura botanica introdotta da Linneo, che stabiliva delle regole grammaticali precise per la suddivisione delle piante, in specie, generi e famiglie, Bergman propose una radicale riforma dei nomi usati nella denominazione dei sali che, pur non avendo immediato successo, ispirò la riforma complessiva della nomenclatura chimica realizzata da Lavoisier e i suoi collaboratori nel 1787. L’importanza delle riforme introdotte da Bergman nella chimica è attestata anche dalla sensazionale carriera di un farmacista tedesco, Carl Wilhelm Scheele (1742-1786), che dopo essersi trasferito prima a Stoccolma e poi nel laboratorio di Bergman a Uppsala diede prova di straordinarie capacità sperimentali, inanellando una serie di scoperte, la più rilevante della quali quella dell’ossigeno (1773), che lo consacrarono in breve tempo come il più abile chimico d’Europa, tanto che Thomas Beddoes (1760-1808) dichiarò maliziosamente che la più importante scoperta di Bergman fu quella di Scheele. Al di là di questi aneddoti, quello che qui preme sottolineare è come Bergman, trasformando profondamente l’arte della sperimentazione chimica e ancorandola a procedure rigorose, avesse non solo favorito una nuova stagione di 28

Alchimia e chimica nel Settecento

Figura 8 - “Una lezione sperimentale sul potere dell’aria”. Caricatura inglese sulle ricerche chimiche sui gas (1802)

scoperte ma anche contribuito a delineare una nuova identità epistemologica del sapere chimico. Nonostante queste incontestabili innovazioni Bergman non seppe liberarsi della cornice teorica stahliana, quella stessa teoria che Diderot e Rouelle avevano messo a fondamento del loro sistema chimico per contrapporla con successo al matematismo newtoniano e, più in generale, a tutti i tentativi di ridurre la chimica al rigore della fisica. In virtù della sua efficacia esplicativa, la teoria del flogisto di Stahl era in effetti un sistema difficile da sostituire. Bergman vedeva la chimica dei gas come una parte importante ma non ancora fondativa della nuova scienza e fu probabilmente per questa ragione che non riuscì a estendere efficacemente il suo metodo a tutte le arti chimiche. Per giungere a questo risultato non occorreva comunque aspettare molto e un corrispondente di Bergman, da molti suoi contemporanei considerato più un fisico che un chimico, avrebbe presto raccolto la sua eredità sviluppando una teoria che, prima della fine del secolo, avrebbe rapidamente conquistato le comunità scientifiche europee. INTRODUZIONE

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3. Un nuovo Paracelso? Lavoisier atto I È chiaro che la rivoluzione che porrà la chimica nel rango che merita, che la porrà almeno accanto alla fisica matematica, che questa rivoluzione, dico, non può essere effettuata che da un chimico abile, entusiasta e pieno di ardimento che trovandosi in circostanze felici potrà risvegliare l’attenzione dei filosofi, inizialmente mediante un’ostentazione fragorosa, mediante un tono deciso e perentorio, in seguito mediante ragioni se le prime armi hanno intaccato il pregiudizio. Ma aspettando che questo nuovo Paracelso avanzi coraggiosamente […], cercheremo di presentare la chimica secondo un punto di vista che possa renderla degna degli sguardi dei filosofi e faccia loro comprendere che essa potrebbe diventare qualcosa nelle loro mani.21

La rivoluzione chimica vagheggiata da Venel nel 1753 non era lontana dall’avverarsi, ma le modalità della sua realizzazione e la fisionomia culturale del suo protagonista sarebbero state molto differenti da quelle da lui auspicate. Condividendo con Diderot il disprezzo per la matematica e le scienze esatte, Venel sperava che la crescente importanza della chimica si affermasse attraverso una rivoluzione capace di liberarla dai quei tentativi velleitari che avevano cercato di introdurre metodi e teorie ricavate dalla fisica, in particolare quella newtoniana. Allo stesso tempo l’evocazione di un nuovo Paracelso tracciava il profilo di una figura sì innovativa e rivoluzionaria, ma pienamente dipendente da una tradizione medico-chimica-alchemica che durante il Rinascimento aveva diffuso in tutta Europa un enorme interesse per temi e pratiche sperimentali radicate in una visione qualitativa, a tratti metafisica, della materia. La rivoluzione chimica, che si andava profilando dai primissimi anni ’70, apriva invece un orizzonte teorico completamente diverso 21  Gabriel François Venel, Chimie, in Encyclopédie trad. it. Chimica (Encyclopédie, 1753), cit., p. 22.

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da quello prospettato da Venel: il suo principale protagonista, Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794), aveva una formazione scientifica incentrata sulla fisica sperimentale, esattamente opposta a quella tracciata dall’enciclopedista. Lavoisier aveva studiato matematica e astronomia con Nicolas La Caille (1713-1762), fisica sperimentale con Jean Nollet (1700-1770) e chimica con Rouelle. La sua principale guida nello studio delle scienze fu però Jean-Etienne Guettard (17151786), medico dotato di una cultura scientifica molto vasta che, alieno dalle mode, aveva istruito Lavoisier ad attenersi a un rigoroso metodo sperimentale. Fu proprio l’apprendistato con Guettard, dedicato soprattutto all’indagine chimica del regno minerale, a permettere al giovane Lavoisier di farsi notare, e progressivamente inserirsi, nella comunità chimica parigina.

Figura 9 - Ritratto di Lavoisier

INTRODUZIONE

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Al contempo la formazione nelle scienze esatte lo spinse ad affrontare temi, quali ad esempio quello dell’illuminazione delle strade, che rivelavano la sua familiarità con metodi e strumenti di rilevazione molto più precisi di quelli adottati dai chimici del tempo. Influenzato dai principi filosofici dell’Illuminismo, Lavoisier avrebbe peraltro più volte espresso una posizione molto critica contro quei saperi pseudoscientifici, come il mesmerimo, la rabdomanzia e altre credenze che avevano conquistato l’opinione pubblica della capitale. Nel 1768, anno in cui venne eletto membro aggiunto dell’Académie Royale des Sciences di Parigi, Lavoisier, appena ventisettenne, decise di esordire con la risoluzione di un problema chimico che aveva poco a che vedere con quelli che aveva affrontato fino ad allora: la presunta trasmutazione dell’acqua in terra. La questione occupava un posto di rilievo nella tradizione alchemica e aveva assorbito i chimici e i fisici della Parigi di quegli anni. Chiedersi se l’acqua potesse convertirsi direttamente in terra, senza l’aggiunta di ulteriori sostanze, non significava infatti solo domandarsi se le piante potessero nutrirsi di sola acqua ma anche, in un’ottica più allargata, discutere della filosofia della materia che si intendeva adottare. Va inoltre considerato, come già detto, che l’alchimia era ancora una disciplina tutt’altro che sorpassata. Ma cerchiamo di capire meglio il contesto da cui scaturì l’interesse di Lavoisier per questo argomento.22 Nel 1767 su “L’Avantcoureur”, il principale settimanale parigino per le notizie scientifiche, apparve un lungo resoconto favorevole riguardo a un esperimento, attribuito a un certo Constantini, sulla trasmutazione del mercurio in oro.23 L’articolo fu quasi certamente scritto dallo speziale parigino Pierre-François Dreux, che nel 1767 aveva pubblicato una traduzione delle let22  Per un ulteriore approfondimento si veda Marco Beretta, Transmutations and Frauds in Enlightened Paris. Lavoisier and Alchemy, in Marco Beretta, Maria Conforti(a cura di), Fakes!? Hoaxes, Counterfeits and Deception in Early Modern Science, Sagamore Beach, Science History Publications/USA, 2014, pp. 69-108. 23  “L’Avantcoureur”, 1767, pp. 329-331.

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tere sull’alchimia di Johann Friedrich Meyer (1705-1765).24 Un anno prima Dreux aveva tradotto il lavoro di Meyer sull’acidum pingue,25 uno dei primi libri di chimica pneumatica applicata alla medicina, che attirò immediatamente l’attenzione di molti scienziati francesi, incluso Lavoisier. Nelle sue lettere Meyer aveva confermato che la ricetta di Constantini sulla trasmutazione dei metalli in oro funzionava, ma che il procedimento sperimentale era troppo costoso per essere pratico, obiezione che richiamava quanto affermato da Macquer qualche anno prima. Nella prefazione alla sua traduzione francese Dreux aggiungeva che ulteriori esperimenti sulla trasmutazione potevano far luce sui misteri della composizione della materia, benché ammonisse che i chimici, diversamente dagli antichi alchimisti, dovevano guardarsi dal cadere in indagini senza scopo e fraudolente come la ricerca della pietra filosofale o dell’elisir di lunga vita. Che Parigi stesse diventando un terreno fertile per una rinascita dell’alchimia lo dimostrano altre ricerche che fecero molto scalpore. Nello stesso numero de “L’Avantcoureur”, un autore anonimo riferiva degli esperimenti compiuti dallo speziale Jean-François Demachy (1728-1803) per ridurre a tre i quattro elementi aristotelici e convertire l’aria in acqua e l’acqua in aria.26 Secondo Demachy, l’aria liberata dai corpi non era altro che acqua trasformata e il fenomeno della fissazione dell’aria osservato da Stephen Hales e da altri filosofi naturali inglesi era in realtà dovuto all’acqua che si era trasmutata. Nel 1767 Demachy aveva acquisito una notevole reputazione sia come farmacista27 sia come traduttore dell’opera di chimica

24  Johann Friedrich Meyer, Lettres alchymiques ... à M. André [i.e. Andreae] ... Mises en françois par le traducteur des Essais de chymie sur la chaux vive, etc., Paris, Hérissants, 1767. 25  Johan Friedrich Meyer, Essais de chymie sur la chaux vive, la matière élastique et électrique, le feu et l’acide universel primitif, Paris, Cavelier, 1766, 2 voll. 26  “L’Avantcoureur”, 1767, pp. 297-299. 27  Su Demachy si veda l’introduzione a Jean-François, Histoires et Contes, précédés d’une Etude Historique, Anecdotique et Critique sur sa vie et ses œuvres, ed. Léon Gabriel Toraude Toraude, Paris, Carrington, 1907; Maurice Bouvet, Charles Guyotjeannin, Les manuscrits de Demachy à la Faculté de Pharmacie de Paris, “Revue d’histoire de la pharmacie”, 139 (1953), p. 163-167.

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mineralogica di Johann Heinrich Pott (1692-1777).28 L’autorità di Demachy era ampiamente riconosciuta dall’autore del resoconto, il quale giustamente sottolineava come queste osservazioni aggiungessero nuove prove alle discussioni sulla presunta trasmutazione dell’acqua in terra in corso presso l’Académie Royale des Sciences. Diderot, Malouin, Venel, Rouelle, Dreux, Demachy e Meyer non possono essere considerati alchimisti nel senso tradizionale del termine, ma con le loro opere hanno certamente legittimato idee appartenenti alla tradizione alchemica. La credibilità della trasmutazione chimica rafforzava inoltre la convinzione nella continuità della chimica settecentesca con un sapere la cui tradizione datava l’antichità più remota e che da sempre vantava promesse grandiose. La reputazione de “L’Avantcoureur” (1760-1773) era poi sufficiente per attirare l’attenzione della comunità scientifica parigina e non sorprende dunque che Lavoisier, consapevole dell’importanza di utilizzare canali di comunicazione autorevoli per mettersi in vista, vi avesse pubblicato i suoi due primi lavori: il primo (1768) era dedicato alla rigenerazione della testa delle lumache e il secondo (1769) all’aurora boreale.29 Desideroso di dimostrare le sue capacità, il giovane chimico francese stava aspettando un’occasione più adatta per distinguersi e questa opportunità gli venne proprio da un problema direttamente correlato all’alchimia. Fu infatti l’articolo de “L’Avantcoureur” testé menzionato a ispirarlo ad approfondire la questione della trasmutazione degli elementi. All’epoca la questione della trasmutazione, come accennato, aveva sollevato, anche all’interno dell’Académie, ampie discussioni e durante una seduta pubblica, tenutasi nel 1767, il fisico Jean-Baptiste Le Roy (1720-1800) constatava che la questione “meritava la più 28  Dissertations Chymiques, Paris, Hérissant, 1759, 4 voll. 29  William A. Smeaton, L’avant-coureur. The journal in which some of Lavoisier’s earliest research was reported, “Annals of Science”, 13 (1957), pp. 219-234; Marco Beretta, Dalla rigenerazione animale alla fisiologia della respirazione: il dialogo tra Lavoisier e Spallanzani, in Walter Bernardi, Marta Stefani (a cura di), La sfida della modernità. Atti del convegno internazionale di studi nel bicentenario della morte di Lazzaro Spallanzani, Firenze, Leo S. Olschki, 2000, pp. 277-292.

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attenta considerazione”, poiché rovesciava l’idea antichissima secondo la quale l’acqua era un elemento inalterabile.30 Dopo una lunga digressione e la presentazione di argomenti teorici e sperimentali, Le Roy concludeva senza esitazioni che una tale trasmutazione era impossibile. Anche se il tema affrontato atteneva a un tema eminentemente chimico, gli esperimenti e le convinzioni di Le Roy riflettevano l’approccio e la prospettiva teorica di un fisico. In effetti, i membri della sezione di chimica dell’Académie, la maggior parte dei quali simpatizzava con l’idea che la trasmutazione tra le sostanze fosse possibile, non potevano lasciare a un fisico la soluzione di un problema tanto importante senza intervenire. Questa circostanza rivela il motivo per cui Lavoisier decise di celebrare il proprio debutto all’Académie affrontando un tema molto caldo e proponendo una soluzione originale. La complessa cronologia degli esperimenti di Lavoisier sulla trasmutazione dell’acqua nella terra è già stata esaminata in dettaglio31 e quindi qui concentreremo la nostra attenzione principalmente sul metodo sperimentale e sulle conclusioni dell’intervento del chimico francese.32 Il punto di partenza di Lavoisier erano le esperienze a favore della trasmutazione e, in particolare, quelle condotte intorno alla metà del Seicento dal medico e alchimista Jean Baptiste Van Helmont (1580-1644). In un testo pubblicato nel 1648, Van Helmont aveva osservato che un salice fatto crescere in sola acqua aveva comunque acquisito, nel corso di cinque anni, 74 chilogrammi in più rispetto al peso iniziale: da ciò aveva concluso che l’acqua, in questo lasso di tempo, si era convertita in terra, senza aggiunta né perdita di altre sostanze. Questo esperimento venne ripetuto successivamente da moltissimi altri scienziati e restò per molto tempo la prova più autorevole e convincente della possibilità della trasmutazione 30  Histoire et Mémoires de l’Académie Royale des Sciences de Paris, 1767, p. 14. 31  Andrew N. Meldrum, Lavoisier’s Early Work in Science 1763-1771, “Isis”, 20 (1934), pp. 396-425; Ferdinando Abbri, Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica nel Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 77-96. 32  Le memorie di Lavoisier sulla trasmutazione dell’acqua in terra sono entrambe pubblicate nella presente antologia.

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tra gli elementi. Lavoisier, mescolando sapientemente innovazioni audaci e riferimenti alla tradizione alchemica, proponeva un modo completamente diverso di condurre l’esperienza. In primo luogo metteva in evidenza come l’acqua piovana generalmente utilizzata per questi esperimenti contenesse di per sé, in misura variabile, piccole quantità di materia solida. Il primo passo fu quindi quello di purificare quanto più possibile il proprio campione, mediante successive distillazioni. Dopodiché sottopose l’acqua così ottenuta, ritenuta purissima, a una distillazione prolungata per 101 giorni. Per fare questo utilizzò uno strumento ideato dagli alchimisti, il cosiddetto pellicano, così chiamato in ragione della sua forma, simile a quella di un pellicano intento a pizzicarsi il ventre con il becco. Lo strumento era comunemente utilizzato per la circolazione e la distillazione dei fluidi ma, diversamente dalla pratica corrente, Lavoisier decise di pesarlo prima e dopo l’esperienza, sia vuoto che con l’acqua. Dato inizio alla distillazione notò che, fin dalle prime settimane, si era formata una piccola quantità di

Figura 10 - Una delle prime illustrazioni del ‘pellicano’, tratta da Hieronymus Brunschwig, Liber de arte distillandi de simplicibus (Strasburgo, 1500)

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Alchimia e chimica nel Settecento

materia solida. Il 1° febbraio 1769 svuotò il pellicano, versando l’acqua in un altro recipiente di vetro e, pesato lo strumento vuoto, trovò che era sensibilmente più leggero di quando aveva cominciato l’esperimento. Dopo aver fatto evaporare l’acqua che era stata rimossa dal pellicano, pesò la piccola quantità di materia trovata e accertò che il suo peso era uguale a quello perso dal pellicano. Ciò dimostrava che una porzione minima del vaso, sottoposta all’azione del calore per un lungo periodo di tempo, si dissolveva nell’acqua ed era, di conseguenza, responsabile della formazione della terra. Non vi era quindi stata alcuna trasmutazione, ma solo un normale fenomeno di dissoluzione. In questo esperimento Lavoisier si era servito anche di una bilancia di precisione, commissionata per l’occasione al costruttore di strumenti parigino Nicolas Chemin e di un idrometro di propria concezione, con il quale aveva misurato a più riprese il peso specifico dell’acqua. L’uso di questi strumenti fisici era in linea con l’approccio metodologico di Le Roy, anche se Lavoisier si era preoccupato di adattarne la funzione e l’uso alle circostanze specifiche che un esperimento chimico sollecitava. Il risultato ottenuto per questa via non solo metteva in discussione l’autorità di una categoria alchemica ancora molto in voga, ma rivelava soprattutto che l’analisi quantitativa della materia, favorita dall’uso sistematico di strumenti di precisione, poteva condurre a risultati originali. Tale approccio si basava inoltre su un assunto, che Lavoisier avrebbe esplicitato solo nel 1789, per cui la massa della materia impiegata in una reazione, indipendentemente dalle modificazioni a cui è soggetta, rimane costante.33 L’esatta determinazione del peso 33  È il cosiddetto principio di conservazione della massa, che avrebbe trovato la sua più celebre formulazione del Traité élémentaire de chimie, pubblicato da Lavoisier del 1789: “[…] perché nulla si crea, né nelle operazioni dell’arte né in quelle della natura e si può porre come principio che in tutte le operazioni si ha un’uguale quantità di materia prima e dopo l’operazione, che la qualità e quantità dei principi è la stessa e che non si verificano che cambiamenti e modificazioni. Su questo principio è fondata tutta l’arte di fare esperienze in chimica: si è costretti a supporre in tutte una vera eguaglianza o equazione tra i principi dei corpi che si esaminano e quelli che si ottengono mediante l’analisi”. Antoine Laurent Lavoisier, Traité élémentaire de chimie, Paris, Cuchet, 1789, pp. 140-141.

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delle sostanze coinvolte in una reazione diventava dunque una condizione necessaria della sperimentazione chimica. L’alchimia, al contrario, stabiliva i propri principi senza tener debito conto dei dati ponderali e privilegiava una visione prettamente qualitativa della materia.

Acqua, aria e vita: una rivoluzione semplice Con le sue memorie contro la trasmutazione Lavoisier aveva raccolto molti consensi tra i membri della sezione di fisica e matematica dell’Académie, ma molti chimici continuarono a vedere nella trasmutazione un fenomeno del tutto plausibile, rifiutando i dati ricavati dalla quantificazione ponderale delle reazioni. La chimica infatti, contrariamente alla fisica, veniva ancora concepita come una scienza eminentemente qualitativa, che dove mancava in precisione guadagnava in profondità. A essa spettava quindi penetrare i meandri più reconditi della materia e andare al di là delle apparenze superficiali dei corpi, a cui la meccanica e la fisica erano invece costrette. Lavoisier non era per nulla di questo avviso, pur essendo consapevole che la chimica non poteva essere automaticamente ridotta a una scienza fisica. Occorreva innanzitutto cambiare radicalmente il piano d’indagine e, partendo dalla scoperta dei gas, costruire, attraverso nuovi strumenti e apparati, una teoria generale della materia completamente diversa da quella delineata a Stahl all’inizio del Settecento. Nei i primi anni ’70, subito dopo la presentazione delle memorie sulla presunta conversione dell’acqua in terra, Lavoisier focalizzò la propria attenzione sulla natura specifica dei gas e sulle loro proprietà di fissarsi nei corpi e di alternarne la composizione chimica. Per la descrizione dettagliata della genealogia della teoria di Lavoisier si rimanda ad altri studi; 34 qui preme esaminare brevemente alcune tappe che possono aiutare il lettore a comprendere il significato rivoluzionario dei testi presentati in questa antologia. 34  Si veda la bibliografia di base alle pp. 56-57 della presente antologia.

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Dopo la scoperta del ruolo chimicamente attivo dei gas (1772), Lavoisier cominciò a ideare metodi sempre più rigorosi e innovativi per la loro precisa identificazione. Con la scoperta dell’ossigeno, realizzata in maniera indipendente da Scheele (1773) e Priestley (1774), Lavoisier comprese che questa parte dell’aria atmosferica ricopriva un ruolo fondamentale sia in numerosissime operazioni chimiche, sia nelle funzioni fisiologiche fondamentali che accompagnano la vita dell’uomo. L’ossigeno spiegava ad esempio l’acidità dei corpi, i meccanismi della combustione e della calcinazione dei corpi, la respirazione animale e il colore del sangue. La proprietà dell’ossigeno di fissarsi nei corpi e di presentarsi, dunque, sotto forma solida apriva inoltre un orizzonte di ricerca molto promettente, innescando l’idea che tutti i corpi, a temperature diverse, potessero trovarsi in tre differenti stati: solido, fluido e gassoso. La misurazione precisa della temperatura durante le reazioni chimiche, abitudine che Lavoisier aveva assunto fin dalle sue prime ricerche, implicava un approccio alla sperimentazione sempre più complesso. Constatati i limiti intriseci della termometria, tra la fine del 1782 e i primi mesi del 1783 Lavoisier, insieme al fisico Pierre Simon Laplace (1749-1827), aveva elaborato un nuovo metodo per determinare quantitativamente il calore specifico dei corpi, dando vita a un settore di ricerche, la calorimetria, che mandava definitivamente in frantumi l’idea che il calore, in quanto sensazione, non potesse essere sottoposto a un’indagine oggettiva. Infine, la natura volatile dei gas rendeva necessaria l’introduzione di nuovi strumenti di rilevazione estremamente sensibili e la predisposizione di esperimenti molto complessi e laboriosi. Se tali idee si presentarono con chiarezza alla mente di Lavoisier già nei primissimi anni ’70, fu solo quando si poté trasferire negli ampi locali dell’Arsenal, doveva aveva assunto l’incarico di Direttore delle polveri, che fu finalmente in grado di allestire un laboratorio di chimica profondamente innovativo. La peculiarità di questo spazio risiedeva soprattutto nella combinazione di strumenti recuperati dalla chimica tradizionale, quali forni, apparati distillatori, storte, matracci, alambicchi e crogioINTRODUZIONE

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li, con strumenti presi dalla fisica sperimentale, ossia termometri, barometri, idrometri, bilance di precisione e macchine elettriche, a cui si univano strumenti interamente nuovi, come il calorimetro e il gasometro, macchina che Lavoisier costruì in collaborazione con Jean-Baptiste Marie Meusnier de La Place (1754-1794) per i rivoluzionari esperimenti sull’acqua realizzati tra il 1783 e il 1786. Il laboratorio dell’Arsenal divenne ben presto uno dei centri più importanti della ricerca chimica in Europa attirando, negli anni, un numero crescente di visitatori e aspiranti collaboratori. Coadiuvato dalla moglie, Marie-Anne Pierrette Paulze (1758-1836), disegnatrice, traduttrice, assistente di laboratorio e nota salonnière, Lavoisier raccolse attorno a sé un gruppo di giovani promettenti, molti dei quali, dopo aver iniziato aiutando nelle esperienze, avviarono la propria carriera da chimici professionisti. Le sedute sperimentali qui organizzate erano per di più spesso accompagnate da eventi mondani come cene, concerti e rappresentazioni teatrali, che nel complesso facevano dell’Arsenal un importante centro di sociabilità, oltre che di scienza. Nel 1796 il medico Antoine François Fourcroy avrebbe lasciato un vivido ricordo di quei ritrovi, di cui era stato diretto testimone: Due volte alla settimana Lavoisier teneva degli incontri a casa sua, ai quali erano invitati gli uomini che più si erano distinti nella geometria, nella fisica e nella chimica; delle conversazioni istruttive, degli scambi simili a quelli che avevano preceduto l’istituzione delle accademie divennero qui il centro di tutta la conoscenza. Si discutevano le opinioni di tutti gli uomini più illuminati d’Europa; si leggevano i passi più sorprendenti e più nuovi delle opere pubblicate dai nostri vicini; si confrontava la teoria con l’esperienza […]. Priestley, Fontana, Blagden, Ingenhousz, Landriani, Jacquin figlio, Watt, Boulton e altri chimici e fisici illustri d’Inghilterra, Germania e Italia si trovavano qui riuniti a Laplace, Lagrange, Borda, Cousin, Meunsier, Van40

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Figura 11 - La macchina elettrica, la bilancia di precisione e altri strumenti di fisica appartenuti a Lavoisier

dermonde, Monge, Guyton e Berthollet. Per il resto della mia vita non potrò dimenticare le ore fortunate che ho trascorso in quei dotti colloqui, a cui ho avuto il piacere di essere ammesso; tutto ciò che vi ho ascoltato e raccolto, utile per il progresso delle scienze e per la felicità degli uomini, non uscirà mai dalla mia memoria. Tra i grandi vantaggi di queste riunioni, quello che più mi ha colpito e la cui inestimabile influenza si è presto fatta sentire all’interno dell’Académie des Sciences e di conseguenza in tutte le opere di fisica e di chimica pubblicate negli ultimi vent’anni in Francia, è l’armonia che si è instaurata tra la maniera di ragionare dei matematici e quella dei fisici. La precisione, il rigore del linguaggio, delle espressioni e del metodo filosofico dei primi sono passati a poco a poco nella mente dei secondi; questi si sono corretti alla luce degli insegnamenti degli altri e modellati, in qualche modo, sulla loro forma. L’interesse che i matematici francesi hanno mostrato per le scoperte e per il progresso della chimica è divenuto una INTRODUZIONE

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fonte di guadagno per questa scienza; essi si sono avvicinati ai chimici e hanno esaminato con cura i loro principi e ragionamenti; hanno avanzato loro delle obiezioni, hanno posto delle difficoltà da risolvere e hanno preteso un’esattezza nelle esperienze prima di allora sconosciuta. Molti di loro, e soprattutto Meusnier, Laplace, Vandermonde e Monge, hanno partecipato a lavori chimici importanti e immaginato macchine e strumenti per risolvere problemi prima insolubili. […] Questa scuola, in cui ognuno era allievo e maestro al tempo stesso e in cui la vera fratellanza e l’amore del bene costituivano un legame naturale, ha preso avvio nel 1769 e si è prolungata fino al 1792. La sua grande attività è durata soprattutto dal 1776 al 1788. Questi otto anni sono stati segnati dalle scoperte più notevoli, dai lavori più brillanti e dai cambiamenti più singolari e felici nel cammino e nei fondamenti della scienza chimica.35

Fu in queste felici circostanze che maturarono le condizioni per i famosi esperimenti sulla natura composta dell’acqua. L’occasione di queste esperienze cruciali nacque non solo da considerazioni teoriche che Lavoisier andava da tempo facendo sulla costituzione della materia ma anche, soprattutto, dalla sensazionale scoperta dei due inventori e imprenditori della carta di Lione, i fratelli Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier, che nel 1783 provarono la possibilità di far volare palloni aerostatici riempiti di gas infiammabile.36 La notizia si diffuse rapidamente e già alla fine di quell’anno vennero organizzati a Parigi i primi voli con passeggeri a bordo. Sull’onda dell’entusiasmo generale l’Académie Royale des sciences della capitale istituì una commissione, capeggiata da Lavoisier, il cui scopo era di migliorare le condizioni tecniche della nuova macchina, 35  A ntoine-François Fourcroy, Chymie, Encyclopédie méthodique - chimie, Paris, Panckouke, 1796, vol. 3, pp. 425-426. 36  Sul tema si veda la recente monografia Marie Thébaud-Sorger, L’Aérostation au temps des Lumières, Rennes, Presses Universitaires de Rennes, 2009, con un’ampia bibliografia.

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Figura 12 - Caricatura della moda delle mongolfiere (1784)

di lì a poco battezzata con il nome di Mongolfiera. In particolare venne prestata attenzione allo studio dell’idrogeno, il combustibile che rendeva possibile il volo, e alla possibilità di produrre questo gas allo stato puro. Fu in questo contesto tecnico che Lavoisier e alcuni suoi collaboratori svilupparono l’idea di lavorare sulla combustione del gas infiammabile in presenza di ossigeno. Il sostegno finanziario dell’Académie favorì senz’altro l’organizzazione di questi esperimenti, nel complesso estremamente costosi. Il loro risultato clamoroso e inaspettato sarebbe però stato difficile da accogliere senza resistenza. Già la scoperta che l’aria atmosferica fosse costituita da diversi gas era stata difficile da digerire per molti chimici, ma che l’acqua potesse essere un elemento composto di due arie (idrogeno e ossigeno) era filosoficamente inconcepibile. A conferma di questo ostacolo, epistemologico e psicologico INTRODUZIONE

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insieme, è utile accennare brevemente agli esperimenti, realizzati dal fisico comasco Alessandro Volta (1745-1827) nel 1776, sulle arie infiammabili e più in generale sui gas. Volta era un fisico sperimentale conosciuto in Europa per i suoi esperimenti sull’elettricità e per gli strumenti ingegnosi che era stato capace di costruire. Ispirato dalle scoperte di Priestley, in particolare quella dell’aria deflogisticata (ossigeno), decise di estendere le proprie indagini alla chimica pneumatica, ripetendo e ampliando le esperienze del collega inglese. Nell’estate del 1776 pubblicava quindi un opuscoletto, intitolato Proposizioni e sperienze di aerologia, che concludeva con queste profetiche parole: Quest’aria deflogisticata saluberrima promette grandissimi vantaggi ad uso della vita: e sì questa, come tutte le altre nuove scoperte sulle proprietà chimiche dell’Aria, e le Arie fattizie ci mettono sulla via di penetrar più addentro alla natura dell’Aria atmosferica, di cui potrem forse giungere a scoprire l’origine e la formazione. Priestley che in questi ultimi anni ha fatto passi da gigante in sì bella carriera; ci ha già proposte su tal oggetto delle idee e viste luminosissime, sicuramente tocchiamo all’epoca, in cui la Chimica dell’aria va a partorire una gran rivoluzione nella Scienza naturale.37

Nel corso delle sue ricerche sulla chimica delle arie, Volta si era imbattuto nella scoperta di un nuovo gas, il metano o, come lo aveva battezzato, aria infiammabile nativa delle paludi. Al fine di comprendere cosa differenziasse questo gas dall’idrogeno sul piano delle caratteristiche chimiche, ideò uno strumento, la pistola elettrica, grazie al quale poteva osservare l’intensità della fiamma prodotta dal gas quando messo a contatto con dell’elettricità. Volta riempiva quindi le pistole, piccoli recipienti di vetro così chiamati per via della loro forma, di idrogeno e ossigeno e, attraverso una scintilla elettrica innescata 37  Aggiunta alle opere e all’epistolario di Alessandro Volta, Bologna, Zanichelli, 1966, p. 62.

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da due elettrodi posti alle estremità superiori dello strumento, produceva una combustione violenta tra i due fluidi. Dopo diversi tentativi notò che, alla fine della combustione si formava una specie di rugiada, di cui non riuscì a spiegare l’esistenza se non attribuendola a un’infiltrazione di umidità esterna.38 Volta aveva di fatto scoperto che l’acqua era un composto di due gas, l’idrogeno e l’ossigeno, i quali sottoposti a combustione generavano l’elemento liquido. Tuttavia la sua adesione all’idea, di origine aristotelica, per cui l’acqua era un elemento semplice gli impedì di riconoscere che dalla combinazione di due arie poteva effettivamente risultare una sostanza liquida e di comprendere, quindi, il significato del proprio esperimento. Fu forse in ragione di questa frustrazione che negli anni successivi il fisico comasco diradò il suo entusiasmo per la chimica pneumatica e ritornò con crescenti successi a occuparsi dei fenomeni elettrici.39 Ad ogni modo, durante un viaggio che compì a Parigi nella primavera del 1782, Volta ebbe modo di incontrare molti scienziati tra i quali Lavoisier, con cui si soffermò, presso l’Arsenal, su diversi esperimenti. Tra questi è probabile che vi fosse anche una dimostrazione del funzionamento della pistola elettrica, perché nell’inventario degli strumenti in possesso del chimico parigino si trovano diverse pistole voltiane. Sia che Volta avesse mostrato direttamente i propri strumenti a Lavoisier, sia che quest’ultimo ne avesse solo letto il resoconto a stampa, la sua interpretazione dei risultati fu completamente differente e non fu difficile per lui riconoscere che la combustione dell’idrogeno in presenza di ossigeno dava l’acqua come risultato. In primo luogo la natura composta dell’acqua confermava sperimentalmente l’ipotesi di Lavoisier sul ruolo determinante dell’ossigeno nella combustione dei corpi; in secondo luogo dimostrava l’ipotesi lavoisieriana su come le variazioni di calore fossero capaci di 38  P ur adottando strumenti differenti anche Macquer, nel 1777, era giunto alle stesse conclusioni di Volta e, come lui, non fu in grado di interpretarle correttamente. 39  Culminati nel 1799 con l’invenzione della pila elettrica, uno strumento che, paradossalmente, il chimico inglese Humphrey Davy usò per l’elettrolisi dell’acqua.

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determinare cambiamenti di stato della materia; infine rivelava la centralità dei gas nelle reazioni chimiche. Esperimenti che mostravano la natura composta dell’acqua vennero realizzati nel 1783 anche da Henry Cavendish e Gaspard Monge, ma fu Lavoisier il solo a dare un’interpretazione corretta e generale della portata che si poteva ricavare da questo sorprendente risultato. Ciò nonostante, a parte i fisici e i matematici, agli occhi dei chimici le prime esperienze sulla natura composta dell’acqua parvero tutt’altro che conclusive e fu per questa ragione che, tra il 1783 e il 1785, Lavoisier concepì una procedura sperimentale estremamente complessa e rigorosa, capace di presentare l’intero ciclo della decomposizione e composizione dell’acqua, con il fine di mostrare non solo la vera natura dei suoi costituenti, ma anche la conservazione della materia prima, durante e dopo l’esperienza. Tale esperimento in grande è riproposto in questa antologia e rimandiamo al testo per ulteriori approfondimenti. La controversia innescata dagli esperimenti di Lavoisier e Meusnier de la Place fu enorme e, a partire dal 1785, i seguaci della nuova teoria dell’ossigeno incominciarono ad aumentare. Il consenso intorno alle scoperte di Lavoisier era però tutt’altro che unanime. Lavoisier intensificò dunque i propri sforzi e nel 1787, insieme ad alcuni collaboratori che nel frattempo si erano convertiti alle sue idee, pubblicava una nuova nomenclatura,40 ispirata alla logica del filosofo illuminista Etienne Bonnot de Condillac (1714-1780), dove eliminava tutti i vecchi nomi chimici per sostituirli con quelli dei gas e dei loro composti. D’un tratto i termini usati da secoli da alchimisti, farmacisti, tintori e chimici di ogni sorta, venivano cancellati e al loro posto comparivano nomi del tutto nuovi, per lo più coniati dallo stesso Lavoisier pochi anni prima. È questo il momento in cui fanno la loro comparsa i nomi di ossigeno, idrogeno, azoto, calorico, ossidi ecc. Non contento di questa rivoluzione linguistica nel 1789, pochi mesi prima dello scoppio della Rivoluzione politica, La40 Méthode de nomenclature chimique, Paris, Cuchet, 1787.

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voisier pubblicava il suo Traité élémentaire de chimie, nel quale riassumeva in forma sintetica tutte le scoperte che, grazie alla nuova filosofia della materia, erano state realizzate negli ultimi due decenni. L’immagine della chimica che ne usciva era completamente differente da quella tratteggiata da Venel e Diderot poco più di vent’anni prima nell’Encyclopédie. Nei testi lavoisieriani essa appariva infatti come una scienza rigorosa, saldamente ancorata ai metodi e agli strumenti di precisione, che non concedeva nulla alle vecchie teorie qualitative e che, pertanto, aveva espunto qualsiasi riferimento teorico, sperimentale e terminologico all’alchimia. La Rivoluzione chimica però non era ancora terminata e nel 1790 Lavoisier, insieme a un suo giovane collaboratore, Armand Séguin, intraprendeva una serie di fondamentali esperimenti dedicati alla respirazione e traspirazione nell’uomo. Anche se era nota da tempo la funzione dell’aria nella respirazione, le scoperte di Lavoisier – e in particolare il ruolo che il chimico assegnava all’ossigeno – gli avevano fatto comprendere che questa funzione fisiologica dell’organismo altro non era che una combustione chimica durante la quale sopravveniva uno scambio tra ossigeno e anidride carbonica. Già nelle Expériences sur la respiration des animaux del 1777 Lavoisier era giunto alle seguenti conclusioni: Del resto qualunque sia l’opinione che venga ammessa, ovvero che la parte respirabile dell’aria [l’ossigeno] si combina con il sangue o si trasforma in acido cretoso aeriforme [l’anidride carbonica] passando nei polmoni, o che si ritenga (come sono portato a credere) che entrambi questi due effetti abbiano a verificarsi durante l’atto della respirazione, si potrà sempre, riferendosi solo ai fatti, considerare provato: 1° che la respirazione ha effetto soltanto sulla parte di aria pura, di aria eminentemente respirabile contenuta nell’aria atmosferica; che il surplus, cioè la parte mefitica, è un mezzo puramente passivo, che entra nei polmoni e ne esce quasi come vi era entrato, senza cambiamento e senza alterazione; INTRODUZIONE

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Figura 13 - Disegno di Madame Lavoisier relativo agli esperimenti di Lavoisier e Séguin sulla respirazione sotto sforzo (1790 circa)

2° che la calcinazione dei metalli in una quantità data di aria atmosferica avviene, come ho detto più volte, solo fino a che la porzione di vera aria, di aria eminentemente respirabile che essa contiene, non sia stata esaurita e combinata con il metallo; 3° che, ugualmente, se si chiudono degli animali in una quantità data di aria, vi periscono quando hanno assorbito o convertito in acido cretoso aeriforme la gran parte della porzione respirabile dell’aria, e quando quest’ultima è stata ridotta allo stato di mofetta; 4° che la specie di mofetta che rimane dopo la calcinazione dei metalli è identica, sulla base delle esperienze da me fatte, a quella che resta dopo la respirazione degli animali, purché sia stata spogliata, mediante la calce o gli alcali caustici, della sua parte fissabile, cioè dell’acido cretoso aeriforme che conteneva; che queste due mofette possono essere sostituite l’una all’altra in tutte le esperienze e quantità di aria eminentemente respirabile uguale a quella che hanno perduto. Una nuova prova di questa ultima verità è che sia 48

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che si aumenti sia che si diminuisca, in una quantità data di aria atmosferica, la quantità di aria vera, di aria eminentemente respirabile che essa contiene, si aumenta o si diminuisce nella stessa proporzione la quantità di metallo che vi si può calcinare e, fino ad un certo punto, il periodo di tempo nel quale gli animali vi possono vivere.41

Più di dieci anni dopo queste osservazioni, Lavoisier tornava sull’argomento, estendendolo alla respirazione e traspirazione umana.42 In questi scritti il corpo veniva esplicitamente descritto nei termini di una “macchina”, i cui principali “regolatori” erano respirazione, traspirazione e digestione. Diversamente dalla tradizione meccanicistica però, queste funzioni venivano qui presentate come il frutto di continue scissioni e combinazioni tra ossigeno, carbonio, idrogeno e calore: si trattava quindi di processi la cui natura era essenzialmente chimica. In questa prospettiva i fenomeni della vita potevano effettivamente essere oggetto di quantificazione, ma questo genere di calcolo non poteva più prescindere dalla conoscenza delle leggi sottostanti alle reazioni chimiche tra le sostanze. Le osservazioni quantitative sul consumo di ossigeno sotto sforzo e a riposo fecero inoltre intravedere a Lavoisier l’impatto che tali scoperte potevano avere sulla società e sulla possibilità di determinare lo sforzo richiesto dalle singole professioni. A tal proposito scriveva: In tutte queste esperienze la temperatura del sangue resta, in maniera piuttosto costante, sempre la stessa, salvo 41  Esperienze sulla respirazione degli animali e sui mutamenti che subisce l’aria passando per i loro polmoni, trad. it. Ferdinando Abbri in Lavoisier, Memorie scientifiche. Metodo e linguaggio della nuova chimica, Roma, Theoria, 1986, p. 60. 42  A ntoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Premier mémoire sur la respiration des animaux (1789), in Antoine Laurent Lavoisier, Œuvres, 6 voll., vol. 2, Paris, Imprimerie Impériale, 1862, pp. 688-703; Antoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Second mémoire sur la respiration des animaux (1791), “Annales de chimie”, 91 (1814), pp. 318334; Armand Séguin, Antoine Laurent Lavoisier, Premier mémoire sur la transpiration des animaux, par Séguin et Lavoisier (1790), in Antoine Laurent Lavoisier, Œuvres, vol. 2, pp. 704-714; Antoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Second mémoire sur la transpiration des animaux, “Annales de chimie”, 90 (1814), pp. 5-28. Le due memorie sulla traspirazione sono pubblicate in questa antologia alle pp. 205-229.

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Figura 14 - Disegno di Madame Lavoisier relativo agli esperimenti di Lavoisier e Séguin sulla respirazione a riposo (1790 circa)

qualche frazione di grado. Il numero delle pulsazioni delle arterie e quello delle inspirazioni varia invece in misura davvero notevole. A questo riguardo siamo riusciti a determinare due leggi della più grande importanza. La prima è che l’aumento nel numero delle pulsazioni è, in modo piuttosto esatto, in ragione diretta della somma dei pesi sollevati ad una data altezza, ammesso che la persona sottoposta all’esperienza non si avvicini troppo al limite delle proprie forze, perché allora si troverebbe in uno stato di sofferenza ed uscirebbe dalla sua condizione naturale. La seconda è che la quantità d’aria vitale consumata, a condizioni normali, quando l’uomo ne respira quanto ne ha bisogno, risulta da inspirazioni e pulsazioni, cioè a dire in ragione diretta del prodotto delle inspirazioni per le pulsazioni. Parliamo per ora soltanto di rapporti. Si capisce infatti che il consumo assoluto deve necessariamente variare in individui diversi, in base alla loro età, alla loro forza fisica, al loro stato di salute e alla loro abitudine a lavori di fatica; ma non è meno vero che esiste, per ogni persona, una legge 50

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che non si smentisce qualora le esperienze siano condotte nelle stesse circostanze e ad intervalli di tempo tra loro poco distanti. Queste leggi sono sufficientemente costanti perché si possa determinare, sottoponendo un uomo ad un esercizio faticoso ed osservando l’accelerazione prodotta nella sua circolazione, a quale peso, sollevato ad una data altezza, corrisponde la somma degli sforzi da lui fatti durante l’esperienza. Questo genere di osservazioni conduce a confrontare impieghi di forze tra cui sembrerebbe non esservi alcun rapporto. Si può scoprire, ad esempio, a quante libbre di peso corrispondono gli sforzi di un uomo che recita un discorso, di un musicista che suona uno strumento. Si potrebbe persino esaminare ciò che di meccanico vi è nel lavoro di un filosofo che riflette, di letterato che scrive, di un musicista che compone. Questi effetti, considerati come puramente morali, hanno qualcosa di fisico e di materiale che permette, sotto questo rapporto, di compararli con quelli dell’uomo di fatica. Non è dunque senza una certa esattezza che la lingua francese ha confuso, sotto la comune denominazione di lavoro, gli sforzi della mente e quelli del corpo, il lavoro dello studio e il lavoro dell’operaio.43

Da complesso di saperi e pratiche discusso, non sempre all’altezza delle aspettative, in poco più di due decenni la chimica era diventata una scienza capace di dominare una quantità enorme di problemi le cui ricadute avevano ripercussioni rivoluzionare sia in ambito tecnologico che scientifico. A questo proposito è interessante riportare le parole che Lavoisier scrisse nel 1793, come estremo tentativo per salvare l’Académie des Sciences dalla chiusura voluta dall’Assemblea costituente:

43  A ntoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Premier mémoire sur la respiration des animaux, cit., pp. 696-697.

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Non oltraggeremo i rappresentanti della nazione francese discutendo, davanti a loro, dell’utilità delle scienze e delle arti in un grande Stato. Oggi sappiamo che la forza e la potenza delle nazioni non dipendono solo dalla fertilità del loro terreno, dalla loro estensione, dalla loro popolazione, dalla ricchezza e dalla libertà dei loro individui. La potenza delle nazioni include indubbiamente tutti questi elementi, ma spetta all’industria farli operare e renderli un tutto organizzato. L’industria è la vita di uno Stato civilizzato; senza di essa le terre resterebbero incolte, i pascoli senza bestiame; senza di essa la lana dei nostri greggi non si trasformerebbe in stoffe preziose destinate a vestirci; in breve, non esisterebbe produzione di alcun tipo. Ma questa industria, che mette in moto tutto, che dà vita a tutto, prende a sua volta forza da un impulso primario proveniente dalle scienze. Non parliamo qui dell’industria individuale; parliamo dell’industria considerata nel suo insieme, dell’industria nazionale; di quella industria che ha procurato all’Inghilterra l’alto grado di prosperità di cui gioisce. In effetti, poiché dato il grado di perfezione a cui sono condotti oggi i procedimenti delle arti, le grandi fabbriche non possono sostenere la concorrenza che per mezzo di grandi macchine; poiché una parte delle arti, in particolare quella della tintura, sono continuamente obbligate di invocare l’aiuto della chimica, non è evidente che non si può sperare nel successo, di nazione in nazione, se non ci si occupa senza sosta di perfezionare le scienze matematiche, fisiche e chimiche che devono servire da guida ai costruttori e agli artisti nelle loro costruzioni e preparazioni?44

La risposta non poteva che essere positiva. Ai suoi occhi la chimica era ormai una scienza che, forse ancor di più del44  A ntoine Laurent Lavoisier, Observations sur l’Académie des sciences (1793), in Antoine Laurent Lavoisier, Œuvres, vol. 4, Paris, Imprimerie Impériale, 1868, pp. 616-617.

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le altre discipline quantitative, poteva rivendicare un ruolo di primo piano nello sviluppo dell’economia e dell’industria della Francia rivoluzionaria. Una nuova era stava in effetti nascendo e i chimici avrebbero giocato un ruolo centrale nella politica della ricerca ma Lavoisier, ghigliottinato pochi mesi dopo, non avrebbe potuto vederla. Cosa era successo, nel frattempo, all’alchimia? Un sapere che, come abbiamo visto, fino a pochi anni prima aveva continuato ad affascinare larghe fasce dell’opinione pubblica, nonché la maggior parte dei membri della sezione di chimica dell’Académie des sciences. Lavoisier aveva smantellato con esperimenti sempre più convincenti e prove quantitative incontrovertibili le pretese di poter giungere alla trasmutazione delle sostanze. Non contento delle prove sperimentali il chimico francese aveva anche epurato il linguaggio della chimica da qualsiasi riferimento alla tradizione alchemica, demarcando così in modo molto rigido il perimetro linguistico della nuova scienza. La rapida affermazione delle idee di Lavoisier in tutta Europa non fece diminuire immediatamente il numero degli adepti, ma ne sancì la definitiva espulsione dall’ambito della scienza ufficiale. Non solo. Il successo della teoria di Lavoisier costrinse gli alchimisti a interrogarsi sulla validità dei fondamenti della propria disciplina e a delineare nuovi obiettivi. Data la dimostrata impossibilità della trasmutazione tra le sostanze, agli alchimisti non restava che concentrare la propria attenzione sulle ricette per la prolongatio vitae. Fin dall’antichità la ricerca dell’elisir di lunga vita era stata infatti uno degli obiettivi principali della Grande Opera e non mancarono occasioni, soprattutto a partire dal tardo medioevo, in cui gli alchimisti trovarono tra i medici validi e autorevoli alleati. Ancora nel Settecento vennero pubblicate moltissime opere che avevano per oggetto il prolungamento artificiale della vita e contenevano ricette che erano state tramandate dai tempi più antichi. Tra queste si possono menzionare, a titolo di esempio, le opere del medico tedesco Christoph Wilhelm Hufeland INTRODUZIONE

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(1762-1832), professore di patologia a Berlino e membro di molte rinomate accademie scientifiche europee. Dopo essersi invaghito di alcuni scritti di alchimia cinese e approfonditi gli studi della tradizione alchemica occidentale, Hufeland pubblicava nel 1796 un libro intitolato Makrobiotik oder Die Kunst, das menschliche Leben zu verlängern, dove mescolando prescrizioni mediche di buon senso con stravaganti ricette alchemiche assicurava ai propri pazienti la possibilità di prolungare la vita fino ad almeno 200 anni.45 L’opera ebbe una risonanza notevole e, come tante altre di questo genere, non faticò a trovare un ampio pubblico di entusiasti e a essere tradotta in molte lingue europee. Benché i fondamenti scientifici e sperimentali sui quali si reggevano le ipotesi di Hufeland fossero del tutto inconsistenti, l’autorità del metodo scientifico era ancora insidiata dalla popolarità di metodi alternativi e non era facile liquidare tali credenze. È all’interno di questa cornice che sono da considerare i contributi pubblicati alla fine di questa antologia. Pur non essendo opera di medici, questi testi mostrano come l’opera di Lavoisier avesse contribuito a orientare gli alchimisti verso lo studio dell’arte di estendere la durata della vita. Nel 1785 un oscuro adepto dell’arte sublime, Jean-François-Xavier Fabre du Bosquet, pubblicava un piccolo trattato, di cui riportiamo ampi estratti, nel quale individuava il fine ultimo dell’alchimia non più nella trasmutazione e perfezionamento dei metalli ma nel prolungamento dell’esistenza. Dopo la scoperta dell’ossigeno, o aria deflogisticata, e l’individuazione delle sue proprietà nella respirazione umana, secondo du Bosquet il raggiungimento dell’elisir di lunga vita era finalmente a portata di mano. Sarebbe stato sufficiente, per giungere a questo scopo, respirare solamente ossigeno! Così, la sostanza a cui Lavoisier aveva affidato un ruolo centrale nella costruzione della nuova chimica diventava altrettanto fonda45  Sul tema nella sua generalità si veda Gerlard J. Gruman, A History of Ideas About the Prolongation of Life, New York, Springer, 2003.

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mentale nella riforma dell’alchimia. Le prove addotte da du Bosquet per sostenere la propria tesi, espressa in un linguaggio vago e allusivo, erano inesistenti, ma il suo tentativo di adattare l’alchimia ai principi e alle scoperte di Lavoisier è estremamente interessante e ci rivela come, alla fine del Settecento, i risultati della scienza ufficiale contribuissero ad arricchire e stimolare la cultura contemporanea. Anche l’alchimista polacco Samuel Wolsky, che in gioventù aveva conosciuto Lavoisier, invitava gli adepti ad abbandonare il sogno impossibile della trasmutazione e a riformare l’alchimia sulla base delle scoperte del chimico francese. Quelli di du Bosquet e Wolsky erano stati estremi tentativi di dare una patina di scientificità a un corpo del sapere ormai totalmente estraneo alla chimica post lavoisieriana e, più in generale, alla scienza. Anche se l’alchimia continuò a esercitare ancora un grande fascino per tutto l’Ottocento,46 la sua influenza era ormai confinata ben al di fuori della comunità scientifica.

46  Sull’alchimia nell’Ottocento si veda Louis Figuier, L’alchimie et les alchimistes: essai historique et critique sur la philosophie hermétique, Paris, Hachette, 1860.

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Bibliografia di base La migliore introduzione in italiano alla ricostruzione della chimica nel Settecento è tutt’ora lo studio di Ferdinando Abbri, Le terre, l’acqua, le arie. La rivoluzione chimica del Settecento, Bologna, Il Mulino, 1984. Abbri ha anche curato due ottime antologie di classici della chimica: La chimica del Settecento, Torino, Loescher, 1978, e Elementi, principi e particelle: le teorie chimiche da Paracelso a Stahl, Torino, Loescher, 1980. Sulla chimica nell’Encyclopédie si vedano Christine Lehman, François Pepin (a cura di), La chimie et l’Encyclopédie, “Corpus. Revue de philosophie”, 56 (2009), pp. 1-250 e, in italiano, Gabriel-François Venel, Chimica (Encyclopédie, 1753), Introduzione, traduzione e note di Ferdinando Abbri, Siena, Dipartimento di Studi Storico-Sociali e Filosofici, 2003. Sull’alchimia nel Settecento si veda lo studio recente di Didier Kahn, Le fixe et le volatil: chimie et alchimie, de Paracelse à Lavoisier, Paris, CNRS, 2016, con ampia bibliografia. Questo studio può essere utilmente accompagnato dalla lettura del libro di William Eamon, La scienza e i segreti della natura: i libri di segreti nella cultura medievale e moderna, Genova, EICG, 1999. Sul ruolo chimico dei gas e Joseph Black si veda lo studio di Arthur Donovan, Philosophical chemistry in the Scottish Enlightenment: the doctrines and discoveries of William Cullen and Joseph Black, Edinburgh, University Press, 1975. Su Cavendish, Christa Jungnickel and Russel McCormmach, Cavendish: the experimental life, Lewisburg, Bucknell, 1999; su Priestley, Robert E. Schofield, The enlightened Joseph Priestley: a study of his life and work from 1773 to 1804, University Park, The Pennsylvania State University Press, 2004. Su Bergman si veda Torbern Bergman’s Foreign Correspondence, Stockhom, Almqvist & Wiksell International, 1965. Per quanto riguarda Lavoisier la letteratura è vastissima: l’edizione nazionale delle opere, benché incompleta, è Oeuvres de Lavoisier, Paris, Imprimerie Impériale et Imprimerie Natio56

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nale, 1862-1893, 6 voll.; a questa edizione si devono aggiungere i Mémoires de chimie, Paris, 1803, 2 voll. pubblicati dalla moglie. In italiano è disponibile una raccolta di scritti, a cura di Ferdinando Abbri, sotto il titolo di A. L. Lavoisier, Memorie Scientifiche, Roma, Theoria, 1986, e A. L. Lavoisier, Opuscoli fisici e chimici, a cura di Marco Ciardi e Marco Taddia, Bologna, Bononia University Press, 2005. La corrispondenza, ancora in corso di stampa, è stata raccolta nella Correspondance, Paris, A. Michel-Hermann, 19552012, 7 voll. Per la bibliografia delle opere si vedano gli eccellenti contributi di Denis I. Duveen e Herbert S. Klickstein, A Bibliography of the Works of Antoine Laurent Lavoisier 1743-1794, London, Wm. Dawsons & Sons, 1954; Denis I. Duveen, Supplement to a Bibliography of the Works of Antoine Laurent Lavoisier 17431794, London, Dawsons of Pall Mall, 1965. Le migliori biografie sono quelle di Edouard Grimaux, Lavoisier 1743-1794, Paris, Alcan, 1888, e la più recente di Jean Pierre Poirier, Lavoisier. Chemist, Biologist, Economist, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1996; in italiano una biografia succinta è stata pubblicata da Marco Beretta, Lavoisier. La rivoluzione chimica, Milano, Le scienze, 1998.

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Criteri editoriali Nell’edizione dei testi che seguono abbiamo preferito mantenere le note esplicative al minimo, rimandando il lettore all’introduzione generale e alla nota introduttiva che precede ciascun testo. In fondo al volume si troverà inoltre un glossario in cui sono raccolti termini e unità di misura della chimica settecentesca, tradotti nel linguaggio moderno. Per quanto riguarda le traduzioni, al fine di favorire la lettura si è scelto di modernizzare la punteggiatura, mentre nomi e titoli di opere citati dagli autori dei testi compaiono nella dicitura originale. Tutti i testi sono stati tradotti per intero, all’infuori di Le mie idee sulla natura e sulle cause dell’aria deflogisticata, sulla base degli effetti che essa produce sugli animali, prolungandone la vita di Fabre du Bosquet e La matematica svelata di Wolsky, di cui si riportano solo alcuni estratti. Sostanziali emendamenti sono stati necessari per Sur la pierre philosophale di Macquer, il cui originale resta allo stato di appunto manoscritto: in questo caso si sono espunte ripetizioni e cancellature integrando, quando possibile, le aggiunte ai margini all’interno del testo. Qualora si sia ritenuto di dover aggiungere uno o più termini per dare maggiore senso alla traduzione, si è fatto uso di parentesi quadre. Tutte le traduzioni sono di Francesca Antonelli, eccetto Svolgimento delle ultime esperienze sulla scomposizione e la ricomposizione dell’acqua fatte dai Signori Lavoisier e Meusnier, dell’Académie des Sciences di Lavoisier, ripreso con minime modifiche da Ferdinando Abbri (a cura di), Memorie scientifiche. Metodo e linguaggio della nuova chimica, Roma, Theoria, 1986, pp. 127-141. Ringraziamo Ferdinando Abbri per averci concesso l’autorizzazione a usare la sua traduzione.

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Nota ai testi I due scritti che seguono costituiscono due esempi del dibattito, ancora molto vivo nella seconda metà del Settecento, intorno alla trasmutazione dei metalli in oro e in argento. La straordinaria celebrità di Cagliostro (1743-1795), portato in trionfo dall’aristocrazia parigina, è solo un indizio della popolarità dell’alchimia nella capitale francese. Come illustrato nell’introduzione, l’alchimia era una disciplina tutt’altro che dimenticata e tra i suoi sostenitori si trovavano anche molti protagonisti dell’Illuminismo e scienziati di indiscusso prestigio. Tra questi ultimi dobbiamo annoverare senz’altro Pierre-Joseph Macquer, una delle massime autorità in campo chimico. Il testo che presentiamo, pur assai attento a distinguere l’attività dello scienziato dal sogno folle e, in non pochi casi, deliberatamente fraudolento, degli antichi alchimisti, non nega che alcuni concetti da loro proposti possano trovare una conferma sperimentale all’interno di una più rigorosa filosofia della materia, quella delineata dalla teoria del flogisto di Georg Ernst Stahl. Per Macquer i metalli non erano elementi semplici ma erano costituiti, in proporzioni diverse, da un principio infiammabile, il flogisto, e una terra più o meno vitrificabile. Una volta svelate, attraverso l’analisi chimica, le proporzioni di questi ingredienti il progetto della trasmutazione dei metalli diveniva a suo dire possibile. La notizia apparsa sul “Journal de Paris” del 1777, quasi vent’anni dopo quanto scritto da Macquer, rivela che il sogno di trasmutare i metalli in oro o argento era ancora vivo anche tra chi, come il farmacista Azéma, faceva parte integrante della comunità scientifica parigina. Gli esempi in effetti si potrebbero moltiplicare. 59

Sull’alchimia nel Settecento si vedano i seguenti studi: Allen G. Debus, “Alchemy in the Age of Reason,” in Allen G. Debus, The French Paracelsians, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 156-182; Marco Beretta, Transmutations and Frauds in Enlightened Paris. Lavoisier and Alchemy, in M. Beretta, M. Conforti (a cura di), Fakes!? Hoaxes, Counterfeits and Deception in Early Modern Science, Sagamore Beach, Science History Publications/USA, 2014, pp. 69-108; Didier Kahn, Le fixe et le volatil: chimie et alchimie, de Paracelse à Lavoisier, Paris, CNRS, 2016.

Pierre-Joseph Macquer Sulla pietra filosofale1 Un grande poeta, profondamente colpito dagli eccessi a cui arrivano gli uomini per la voglia di accumulare ricchezze, ha esclamato con entusiasmo filosofico: Quid non mortalia pectora cogis, auri sacra fames! A cosa non costringi tu il cuore dei mortali, sete d’oro! Virgilio aveva ragione: dall’epoca della fondazione delle società, l’oro è diventato il segno rappresentativo di tutti i beni e quasi il solo mezzo per procurarseli. Il desiderio di possedere dell’oro dev’essere il motivo naturale della gran parte delle azioni e dei crimini dell’uomo. È questo desiderio ad aver condotto degli avidi guerrieri ai confini della Terra, per portare devastazioni e desolazione a popoli innocenti, possessori del metallo che è causa delle loro sfortune e dei misfatti dei loro conquistatori. È la sete di ricchezza a dirigere le azioni dell’insaziabile pubblicano, la cui scandalosa opulenza cresce ogni giorno grazie ai bisogni dello Stato e all’impoverimento del popolo. Essa è l’anima delle manovre oscure dello squallido usuraio, il quale è per il singolo ciò che il finanziere è per il pubblico. È essa, infine, a tormentare lo stravagante e laborio1  Il manoscritto di Macquer sull’alchimia, databile intorno al 1760, è conservato presso la Bibliothèque Nationale de France di Parigi; la presente traduzione è stata fatta sulla base dell’edizione recentemente pubblicata da Christine Lehman, Alchemy Revisited by the Mid-Eighteenth Century Chemists in France. An Unpublished Manuscript by Pierre-Joseph Macquer, “Nuncius”, 28 (2013), pp. 165-216.

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so alchimista, che mosso da frivole speranze insegue ricchezze illusorie, consumandone di reali, e che anche in mezzo alla più vergognosa indigenza a cui lo riduce la sua mania, crede sempre di poter creare i tesori più immensi. Tutti questi tipi d’uomo, e tanti altri ancora, sono amanti dell’oro e veri cercatori della pietra filosofale. Gli alchimisti non meritano tuttavia di essere confusi con gli altri, dai quali si differenziano non facendo del male a nessuno se non a se stessi e mancando sempre il proprio scopo; gli altri, invece, raggiungono senz’altro i loro obiettivi e sempre a spese altrui. Tra tutti i cercatori d’oro i nostri poveri alchimisti sono dunque i meno colpevoli e i più sventurati. Si potrebbe poi aggiungere, a loro discolpa, che quasi tutti presentano una buona dose di follia particolare ed è sufficiente aprire i loro libri per convincersene. Dato che si riempiono delle più belle speranze, realizzate ai loro occhi a causa della vivacità della loro immaginazione e della violenza dei loro desideri, non provano alcuna fatica nel fare le più magnifiche promesse. Un accademico, importante matematico e [uomo] di grande intelligenza2 ha detto: Il segreto del rimedio universale va di pari passo con quello della pietra filosofale, come se l’uno non potesse essere tanto prezioso senza l’altro. Tutti coloro che sanno produrre dell’oro sono infatti anche in grado di prolungare la [durata della] vita fino a diversi secoli. Dopo aver esercitato questa arte per qualche centinaio di anni in Europa, [tali uomini] si ritirarono presso il Mogol e, coperti di stracci, percorsero ed arricchirono tutte le regioni della Terra.3

Questo scienziato non ha in realtà ben completato il quadro, lasciandosi sfuggire il tratto che più contraddistingue la follia di questi uomini. Sarebbero infatti ben modesti se si ac-

2  Pierre Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759). 3   Lettres de Mr de Maupertuis, Dresde, chez George Conrad Walter, 1752, Lettre XII. Sur la pierre philosophale, p. 82.

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contentassero di così poco. Una volta pervenuti a segreti tanto meravigliosi, nulla deve parere impossibile, [tanto da volersi procurare, per il medesimo mezzo, tutta la felicità immaginabile. Così molti alchimisti, nei loro scritti, assicurano che un vero adepto, dopo aver goduto delle più grandi ricchezze e della più perfetta salute per tutto il tempo che ha voluto, se ne andrà dritto in cielo, per gioire di tutti i beni dell’altro mondo, quando quelli del nostro non avranno per lui più alcun gusto. Si farebbe fatica a comprendere come simili stranezze siano potute entrare nel cervello di un numero piuttosto grande di persone, se non fosse che questa singolare specie di filosofia fu in vigore in tempi oscuri, giustamente detti “secoli dell’ignoranza”. Allora le opinioni più folli trovavano dei sostenitori e la cupidigia, unita a una cieca devozione, faceva sì che la religione influisse sulle cose a lei più diverse. Io credo del resto che gli alchimisti dei giorni nostri, meno devoti e ambiziosi, non arrivino tanto lontano con le loro speranze. Se questi ultimi bruciano del carbone, se consumano i loro averi e talvolta quelli degli altri, non è per trovare il rimedio universale, né per ottenere la vita eterna, [quanto piuttosto] per produrre dell’oro in quantità e a basso costo. C’è da capire se le loro pretese, benché modeste rispetto a quelle dei loro predecessori, non siano anch’esse una follia. L’accademico che ho già citato ritiene che si trattino “da folli”, così dice, “coloro che cercano la pietra filosofale e si ha ragione [di farlo]. È troppo poco probabile che si trovi [tale pietra], mentre lo è molto di più rovinarsi nel cercarla”.4 Questo giudizio ci sembrerebbe molto sensato qualora si supponesse che colui che cerca di produrre dell’oro non abbia altro scopo oltre a quello di arricchirsi. Ma ciò è ugualmente vero nel caso in cui le sue mire siano puramente filosofiche? Si può dare dell’insensato a un uomo che lavori alla pietra filosofale cercando unicamente di risolvere uno dei problemi più belli e difficili della fisica? Sì, si risponderà di rimando, se si dimostra che ciò è impossibile. È questo quindi ciò che occorre 4   Lettres de Mr de Maupertuis, cit., p. 81.

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esaminare. Se si crede, non dico ai libri degli alchimisti, ma alle testimonianze di un gran numero di persone fidate e disinteressate, questo problema è tutt’altro che impossibile ed è già stato risolto più di una volta. Su questo tema si sono scritte mille storie ricche di dettagli, molte delle quali sono state confermate da testimoni oculari ed hanno tutte le sembianze della verità. I sostenitori della possibilità della pietra filosofale se ne compiacciono e, quando si obietta loro la scarsità di risultati ottenuti da tutti coloro che affermano di possedere questo segreto, rispondono che il suo utilizzo è stato impedito da ragioni particolari, oppure che la spesa superava il profitto, senza tuttavia considerare tale operazione come meno dimostrata dai fatti. […] Con la pietra filosofale accade lo stesso che per tutte le cose celebri e a cui gli uomini prendono un vivo interesse: è molto raro che coloro che vi si pronunciano lo facciano con sangue freddo e imparzialità, che sarebbe tuttavia prerogativa di tutte le discussioni veramente filosofiche. Gli autori che scrivono su queste materie appaiono divisi in due classi distinte e tra loro opposte: in una vi si trovano solo detrattori appassionati, mentre l’altra è tutta composta da apologeti animati da un entusiasmo eccessivo. Noi cercheremo di evitare entrambi gli estremi, in quello che abbiamo da dire oggi sulla pietra filosofale o sull’arte di produrre dell’oro. Questo tema ha, come tutti gli altri, un lato positivo e uno negativo. È bene considerarlo ugualmente sotto l’una e sotto l’altra faccia. La prima, più importante, se non unica questione che si presenta è quella di sapere se l’arte di produrre l’oro sia qualcosa di reale o assolutamente chimerico, se essa possa essere dimostrata possibile o impossibile e se di conseguenza coloro che vi si sono applicati e che vi lavorano ancora si occupino solo di una cosa vana e illusoria, o se invece vadano considerati come filosofi impegnati a risolvere un problema molto difficile ma al tempo stesso interessante e ragionevole. Immaginiamo solo due modi di risolvere la questione. Il primo è di capire se essa possa essere giudicata sulla base di 1. PIERRE-JOSEPH MACQUER - ANTOINE-ALEXIS CADET DE VAUX

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famosissime proiezioni e trasmutazioni. Il secondo, nel caso in cui il primo dovesse risultare dubbioso e insufficiente, è di esaminare la natura stessa della cosa e di vedere se essa abbia o meno carattere di impossibilità, di assurdità o di contraddizione. La maggior parte dei sostenitori della pietra filosofale ha approfondito ben poco il secondo metodo di cui parliamo e si è attenuta al primo, considerandolo più decisivo; in fisica è in effetti la prova dei fatti, chiara e ben dimostrata, a essere la più forte e a dispensare dal bisogno di tutte le altre. Nella storia della filosofia ermetica dell’abate Langlet du Frenoi,5 si possono trovare diverse storie di trasmutazioni metalliche. Questo uomo erudito, lui stesso sostenitore della pietra filosofale, ha raccolto in questo libro i fatti più celebri e, indubbiamente, quelli che gli sono parsi più accertati. Tra gli altri, [egli elenca] la celebre trasmutazione realizzata a Praga nel 1648 dall’Imperatore Ferdinando III (p. 35), [le trasmutazioni] di Helvetius I, medico del principe d’Orange (p. 46) e la storia di un certo Lile provençal (pp. 68-95). Bisogna riconoscere che in queste storie si riportano dei fatti che parrebbero abbastanza circostanziati e persino in grado di convincere coloro che non esigono il grado ultimo dell’evidenza. Ma non è così che funziona un fatto in fisica, perlomeno quando è un vero filosofo o un vero fisico a considerarlo. Più si riflette sulla natura di queste esperienze e più si nota chiaramente che le testimonianze storiche, anche le più accertate, non bastano a dimostrare la realtà di un fatto naturale isolato, unico e indipendente da tutto il resto come è quello in questione. È quindi necessario esserne stati a propria volta testimoni e aver preso, in aggiunta, tutte le precauzioni possibili per non cadere in errore, a causa di abili inganni o per via della natura stessa della cosa. La mancanza in queste storie di un pubblico sufficiente, la credulità e la scarsa conoscenza, l’amore per il

5  Nicolas Lenglet Du Fresnoy (1674-1755), autore di un’Histoire de la philosophie hermétique. Accompagnée d’un catalogue raisonné des écrivains de cette science, Paris, Coustelier, 1742-44, 3 voll.

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meraviglioso, l’interesse personale di coloro che vi hanno fatto da testimoni se non addirittura da attori sono motivi ragionevoli per sospendere il giudizio sulla questione. E ciò è talmente vero che, a chi sia tentato di dare piena fiducia ai fatti prima menzionati, si potrebbero presentare altri fatti, retti da prove altrettanto convincenti, a cui però nessun uomo che non sia del tutto ingenuo e ignorante darebbe alcun credito. Basti per questo l’esempio seguente, tratto dagli scritti del Padre Kirker.6 Questo scienziato gesuita, curioso di approfondire un’infinità di questioni interessanti legate alle profondità della Terra ma incapace di verificare in prima persona i fatti che intendeva chiarire, sollevò una serie di domande all’interno di una memoria, la cui risposta fu affidata a coloro che lavoravano nelle celebri miniere d’oro e d’argento di Schemnits e Cremnits in Ungheria. Si replicò punto per punto alla maggior parte dei suoi interrogativi, con grande chiarezza e precisione e quasi sempre in modo che parrebbe conforme alla verità, poiché le risposte [date allora] risultano confermate dalle osservazioni della storia naturale, della chimica e della fisica fatte più tardi. La sua inchiesta ebbe in qualche modo carattere giuridico e le risposte date furono oggetto di un resoconto ufficiale il quale, firmato da dieci testimoni, parrebbe dotato di tutta l’autenticità che è possibile accordare alle testimonianze degli uomini. Ora, una delle questioni del Padre Kirker era quella di sapere se in questi sotterranei si incontrassero davvero piccoli demoni e folletti che, secondo l’opinione popolare, ne erano gli abitanti. La risposta dei funzionari fu non solo del tutto affermativa, ma anche supportata da circostanze e dettagli notevoli. Essi dissero di aver visto spesso nelle miniere questi piccoli demoni o folletti, da loro chiamati pigmei, e che il loro incontro era per di più di buon auspicio per i minatori; [riferirono anche che] questi esseri sotterranei non erano per nulla malevoli ma solo pazzerelli, frivoli e maliziosi e si divertivano a fare scherzi agli uomini, dando schiaffetti, facendo lo sgambetto, spostando le 6  Athanasius Kircher (1602-1680).

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scale e gli strumenti e spegnendo le fiaccole, per poi apparire e scomparire, una volta compiuti questi dispetti, al suono di grandi risate (Kirker, Mundus subterr.). Com’è facile notare, questi fatti sono tutti tanto attestati quanto le storie sulle trasmutazioni, ma quale uomo istruito vi potrebbe mai credere? Nell’attesa, dunque, che la possibilità di produrre dell’oro sia verificata come si deve, ossia dimostrata di fronte agli occhi di tutti per via di qualche esperienza pubblica, chiara e autentica, si vedranno dubitare tutti coloro per i quali l’amore del meraviglioso e del bene non sostituisce affatto la dimostrazione e non basta a rendere creduli e sciocchi di fronte a qualche gioco di prestigio. [Questi uomini] si contenteranno di esaminare da un punto di vista filosofico la natura stessa della cosa e di riflettere sul secondo modo di chiarire la questione. […] Ecco come ragiona lo scienziato prima citato7 al fine di provare che non si può dimostrare l’impossibilità di produrre dell’oro. 1. O tutta la materia è omogenea, e allora i vari corpi della natura si differenziano solo nella forma e nell’organizzazione delle parti di tale materia; 2. O tutte le parti della materia si riducono a un dato numero di specie che sono gli elementi di tutti i corpi, e allora i corpi si differenziano solo per la quantità e la diversa combinazione di tali ingredienti; 3. O tutte le parti della materia sono tanto varie quanto i diversi corpi della natura, e allora ciascun corpo sarà composto di parti intimamente simili ad esso: così l’oro non sarà formato che da parti d’oro, il ferro da parti di ferro, il legno da parti di legno ecc. [Stando alla] prima supposizione, sarebbe azzardato dire che è impossibile dare alle parti della materia che compongono un dato corpo un’altra forma e un’altra organizzazione e non servirebbe nulla di più per convertire del piombo o della lana 7  Maupertuis.

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in oro. [Stando alla] seconda, non si può affermare di non poter arrivare a trovare le quantità e le combinazioni elementari necessarie alla produzione dell’oro. [Stando alla] terza, si sarebbe ancor meno certi di poter assicurare che nessun corpo naturale, a eccezione dell’oro, contenga delle parti aurifiche e che sia impossibile estrarne da esso. Sotto qualsiasi aspetto si consideri la pietra filosofale, dunque, non se ne può provare l’impossibilità. È questa una dimostrazione a cui è difficile opporsi. Osserverò, tuttavia, che la terza supposizione è enunciata in modo tale da apparire in contraddizione con le conseguenze che se ne traggono. Se infatti il ferro è formato esclusivamente da parti di ferro, il legno da parti di legno e così via per tutti gli altri corpi della natura, è evidente che si potrebbe con ragione affermare, all’opposto di Maupertuis, che nessun corpo naturale contiene delle parti d’oro a eccezione dell’oro stesso, e che [da tutti gli altri corpi] non sarà possibile ottenere nient’altro che delle parti del tutto simili a essi. D’altronde questa supposizione è assolutamente estranea al nostro problema: non si tratta di sapere se è possibile estrarre dell’oro dai diversi corpi che già lo contengono, [questione] su cui non vi è alcun dubbio. L’oro ha le proprie miniere come tutti gli altri metalli; sono state scoperte quelle di Potosi e se ne troveranno forse di ancora più ricche e abbondanti. Il problema della pietra filosofale non consiste quindi nel saper trovare e sfruttare le miniere d’oro, quanto nel produrre davvero dell’oro, ossia convertire dei corpi che non solo non lo sono affatto, ma che non contengono neanche un atomo di questo metallo. [Ad ogni modo], senza ricorrere a quest’ultima supposizione, che pare del tutto fuori luogo, la dimostrazione [di Maupertuis] non è meno buona se ci si attiene alle prime due. Per chi, su questo oggetto, desiderasse avere qualcosa di più di una dimostrazione esatta ma molto concisa, aggiungeremo che facendo ricorso all’analogia, che è di così grande utilità nelle ricerche di fisica, si potrebbe pensare che la seconda affermazione sia una verità piuttosto che una supposizione. Se si dà uno sguardo alla moltitudine quasi illimitata dei 1. PIERRE-JOSEPH MACQUER - ANTOINE-ALEXIS CADET DE VAUX

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corpi che ci offre la natura e si riflette sulle loro proprietà, si noterà che non ve ne è alcuno che non assomigli più o meno a tutti gli altri e che, al tempo stesso, non ne differisca per un numero più o meno grande di proprietà particolari. Se si considera, inoltre, che non esiste corpo le cui proprietà non si approssimino molto a quelle di un altro e che quest’ultimo si avvicina a sua volta a un altro ancora, da cui si differenzia di poco e così via, si vedrà che le produzioni della natura formano delle specie di serie, che si sarebbe tentati di credere illimitate, data l’immensità dell’universo. E allora la mente del naturalista incerto, e come perduto in questo abisso, non trova più un punto fisso a cui appigliarsi per formare generi, classi e divisioni. Egli si trova obbligato a guardare a ogni specie di corpo come a un ammasso di elementi, simili tra loro ma isolati e senza alcun rapporto reciproco, benché siano di fatto molte le loro relazioni con gli elementi vicini. È questa una specie di contraddizione inevitabile, che dimostra contemporaneamente i limiti del nostro intelletto e il carattere infinito degli oggetti a cui esso rivolge le sue speculazioni. Queste riflessioni, tali da farci perdere la speranza di cogliere il vero sistema della natura, non devono tuttavia impedirci di compiere ogni sforzo per pervenire [a tale conoscenza]. Come infatti insegna di giorno in giorno l’esperienza, simili fatiche non sono mai inutili e, senza voler risalire fino alle cause e all’ordine originario delle cose a cui non arriveremo mai, possiamo, limitandoci a oggetti più alla nostra portata, fare un’infinità di scoperte pratiche, di ordinaria utilità e persino capaci di condurci a teorie raffinatissime. Perciò, anche a rischio di allontanarci dal vero disegno della natura, è sempre bene osservare e cogliere i principali tratti di somiglianza tra le sue diverse produzioni, guardare ai corpi analoghi come facenti parte di uno stesso genere o di una stessa classe e sulla base delle loro proprietà comuni ipotizzarne altre da scoprire. Questo è quello che si dice procedere per analogia. È vero che quest’ultima non è mai assolutamente sicura, poiché capita che non conduca affatto dove si intendeva andare; ciò nonostante è 68

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una guida di cui non bisogna mai lamentarsi, perché perlomeno porta sempre in luoghi in cui è facile arrivare. Ecco dunque le congetture che si potrebbero fare sulla base di queste idee e il programma delle esperienze, sistematiche e ragionate, che si delineano a partire da conoscenze certe e già acquisite sull’oggetto di cui trattiamo. Esiste in natura una data specie di corpi che differiscono da tutti gli altri ma si assomigliano tra loro per pesantezza, opacità e splendore, il quale è effetto delle prime due proprietà. La densità di questi corpi, unita alla loro perfetta opacità, li rende infatti i più adatti a non essere attraversati dai raggi della luce e, di conseguenza, capaci di riflettere tali raggi da ogni punto della loro superficie meglio di qualsiasi altro corpo. Ciò provoca un particolare tipo di splendore, detto brillantezza metallica, motivo per cui si dà il nome di sostanze metalliche a tutti i corpi nei quale si rileva. Tuttavia queste sostanze, benché simili per le proprietà fondamentali sopra menzionate, si differenziano tra loro sotto vari punti di vista. Ve ne sono alcune che, in aggiunta alle qualità metalliche generali, presentano quella di estendersi senza rompersi sotto i colpi del martello, [hanno cioè la proprietà] della duttilità; esse non possono essere distrutte né per l’azione del fuoco più violento, né tramite altri mezzi conosciuti. Tali sono l’oro e l’argento. Se tutte le altre sostanze metalliche fossero analoghe, in questo, a questi due metalli, dovremmo limitarci a qualche conoscenza circa le loro proprietà e, non avendo alcun mezzo per decomporli e conoscerne i principi, la nostra cognizione della loro natura sarebbe molto incerta. Potremmo forse considerarle delle sostanze semplici, ma allora dovremmo necessariamente convenire sull’impossibilità di produrre qualcosa di simile per mezzo dell’arte. Fortunatamente non siamo ridotti a tanto poiché, a eccezione dell’oro e dell’argento, non esiste sostanza metallica che non possa essere scomposta e poi ricomposta, riunendo i principi che erano stati separati, tanto da riprodurre il metallo [iniziale]. Da tutte queste esperienze di decomposizione e ricomposizione risulta che i metalli sono formati da una terra più o 1. PIERRE-JOSEPH MACQUER - ANTOINE-ALEXIS CADET DE VAUX

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meno vitrificabile e dal principio di infiammabilità chiamato dai chimici flogisto, che ad essa si unisce e si combina. Questo principio si trova nello zolfo, nel carbone e, in breve, in tutti i corpi combustibili. La chimica fornisce i mezzi per farlo passare da un corpo all’altro ed è in questo modo che è possibile riprodurre i metalli distrutti. Con queste semplici nozioni si ha un’idea dei principi che entrano nella composizione dei metalli e non solo di quelli che è possibile scomporre e riprodurre, ma anche di quelli che a oggi appaiono indistruttibili, come l’oro e l’argento. Dato infatti che questi ultimi possiedono tutte le proprietà metalliche, per via di analogia si può ragionevolmente credere che essi siano formati dagli stessi principi degli altri metalli e che, quindi, se non si è riusciti a scomporli è verosimilmente perché l’unione dei loro principi è infinitamente più intima e più perfetta. Basta appena una riflessione su quanto detto, per intravedere l’immensa e magnifica carriera che si apre a coloro i quali vogliano intraprendere indagini sistematiche e ragionate su questo importante argomento. Possiamo ridurre tutto a due problemi principali. 1. Tutti i metalli sono composti dal principio infiammabile combinato con una vera terra. È perciò evidente che, qualora si cerchi di produrre o formare un metallo, si dovrà combinare tale principio con le diverse specie di terra. 2. In tutti i metalli il principio infiammabile e la terra si trovano uniti l’uno all’altra in maniera molto meno intima e perfetta di quanto non lo siano nell’oro e nell’argento. Ciò potrebbe dar luogo a una ricerca ulteriore, il cui scopo sarebbe quello di perfezionare tutte le materie metalliche che non sono né oro né argento, conferendo ai loro principi il grado di unione di cui non dispongono. Questo secondo tipo di lavoro sarebbe probabilmente il più difficile, poiché mirerebbe direttamente a produrre i metalli più perfetti. C’è inoltre ragione di credere che, anche qualora vi si riuscisse, non si arriverebbe comunque a convertire tali metalli in argento o in oro. A confermare questa idea sta il fatto che, dopo aver scomposto i metalli distruttibili, si nota 70

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che le terre [che li compongono] sono tutte diverse le une delle altre ed è quindi sensato supporre che anche l’oro e l’argento abbiano ciascuno una propria terra, di natura particolare. Da ciò si potrebbe [allora] concludere che le vere trasmutazioni sono impossibili e che tutto ciò che si potrà fare sulle sostanze metalliche imperfette si riduce al conferire loro la duttilità e l’indistruttibilità dell’oro e dell’argento, senza tuttavia renderli simili sotto ogni aspetto all’uno o all’altro di questi due metalli. Volendo produrre direttamente dell’argento o dell’oro, sarà dunque forse inopportuno imitare i chimici antichi, i quali hanno quasi tutti lavorato sulle materie metalliche imperfette, nell’intento di migliorarle e convertirle in oro. Si dovrà invece cercare di fare nuove combinazioni del flogisto con diverse specie di terre non metalliche perché, anche se la natura non ha convertito tutto ciò che esiste in argento o in oro, nulla impedisce di credere [che vi siano] delle specie di terre proprie a entrare nella composizione di questi [due] metalli e si potrebbe sperare di trovarle con un numero più o meno grande di esperienze. Ammetto che tutto suggerisce che un simile lavoro sarebbe estremamente lungo, difficile e dispendioso. Non bisogna poi nascondere che, nonostante si siano fatte pochissime prove finalizzate a combinare il principio infiammabile con delle terre pure mai prima entrate nella composizione di un metallo, quanto finora sperimentato in questo senso sembra dimostrare che il principio infiammabile rifiuti di combinarsi con [simili sostanze]. Questa è un prima ed enorme difficoltà che si presenta, la quale tuttavia non apparirà insormontabile a chi conosce la ricchezza di risorse della chimica. A questo riguardo, osserverò innanzitutto che la difficoltà rilevata nell’unire il principio infiammabile a delle terre non metalliche non dimostra affatto che la cosa sia impossibile. Si riscontra infatti la stessa difficoltà con le terre dei metalli, quando questi sono stati scomposti tramite una combustione troppo lunga o una calcinazione a fuoco aperto e, ciò nonostante, è certo che tali terre possano unirsi al flogisto, dato che lo erano già prima di esservene state separate. 1. PIERRE-JOSEPH MACQUER - ANTOINE-ALEXIS CADET DE VAUX

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In secondo luogo, sottolineerò che anche qualora si dimostri l’impossibilità di combinare il principio infiammabile con una terra pura, non si dovrà per questo rinunciare al vedere queste due sostanze unirsi per formare un metallo. La chimica offre infatti un rimedio a questo inconveniente: come sanno coloro che conoscono i principi di questa scienza, quando si vuole combinare e unire insieme due sostanze che si rifiutano di farlo, è possibile ottenere [questo effetto] facendo ricorso a una terza sostanza, che ha uguale facilità e disposizione a unirsi sia all’una che all’altra. Questa terza sostanza funge da legame ed è detta intermedio. Si domanderà senz’altro quale sia la sostanza che può fare da intermedio per unire il principio infiammabile e la terra producendo dei metalli. Ma si capirà anche che rispondere a questo interrogativo vorrebbe dire dare una soluzione pressoché completa al problema, mentre da ciò siamo ancora ben lontani. Coloro i quali vorranno occuparsi di queste ricerche avranno da scoprire proprio questo e non potranno ragionevolmente sperare di riuscirvi se non si faranno guidare dai principi della chimica fisica. Ci accontenteremo quindi di esortarli a cominciare, prima di tutto, dall’istruirsi in questa scienza, che è la sola in grado guidare le ricerche e in mancanza della quale si finirà per procedere a caso. Ciò è successo a quanti hanno lavorato a questo problema prima che la chimica fosse abbastanza avanzata da poter essere ridotta in principi. Essi non hanno fatto altro che accumulare un ammasso confuso di esperienze mal organizzate da cui non è risultato niente e che si è avuto per giunta cura di rendere del tutto inutili per mezzo di descrizioni enigmatiche e incomprensibili. Tutto quanto concerne la composizione o il perfezionamento dei metalli rappresenta dunque un cammino assolutamente nuovo e un lavoro da ricominciare sulla base di nuovi principi. È inoltre singolare, ma non per questo meno vero, che questi principi si trovino nelle opere dei chimici moderni, i quali non dicono una parola sulla pietra filosofale, [mentre 72

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mancano] in quelle degli antichi, per cui essa rappresentava la pressoché unica preoccupazione. Poiché la nostra intenzione è di dare dei consigli al riguardo, concluderemo ricordando il migliore e più essenziale tra questi, ossia che malgrado la speranza di successo che è possibile nutrire lavorando su principi migliori degli antichi, resta vera e rigorosa l’affermazione di Maupertuis, secondo la quale è ben poco probabile trovare la pietra filosofale, mentre lo è molto di più rovinarsi nel cercarla. Qualora dunque si abbia in progetto di ottenere dell’oro, converrà quindi guardarsi bene dal tentare di produrlo, perché ciò sarebbe il modo più sicuro per mancare il proprio obiettivo. Al contrario, si dovrà intraprendere questo genere di lavoro con la ferma convinzione di consumarne e, per di più, in una misura sempre maggiore rispetto quanto immaginato inizialmente. La sola speranza che è ragionevolmente possibile concepire, impegnandosi in questo tipo di ricerche, è di contribuire al progresso di una scienza tanto interessante quale è la chimica, per mezzo di scoperte capaci di gettare nuova luce sui punti più essenziali della sua teoria. Per le anime di una certa elevatezza, questa è una ricompensa più lusinghiera di tutto ciò che le ricchezze hanno di più seducente. Se mi è poi permesso di anticipare qualche promessa a chi vorrà seguire questi lavori, [dirò che] tutto concorre a indicare che non si potrà che preannunciargli delle fatiche di questo tipo: l’esperienza quotidiana dei chimici insegna che i corpi più facili a comporre sono anche quelli che si decompongono più facilmente. Si ha perciò motivo di credere che, nel caso in cui si riuscisse a realizzare una parte delle speranze offerte dalla chimica sulla composizione dei metalli, si comincerebbe dal produrre del piombo, dell’antimonio e forse qualche altro metallo sconosciuto e ancor meno prezioso, che tuttavia lo diverrebbe infinitamente grazie al lume fornito dalle esperienze di cui sarebbe il risultato.

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Sono stati dimenticati i nomi di un’infinità di Cresi8 che non hanno lasciato alcuna traccia della loro inutile esistenza. Quello dell’illustre Stahl, [invece], il quale ha dimostrato al mondo erudito i principi dello zolfo, componendo egli stesso questo minerale mediante l’unione dei suoi elementi, vivrà e sarà onorato fintantoché si coltiverà la scienza che egli ha tanto contribuito a far progredire. La gloria che accompagna simili scoperte deve essere la sola motivazione dei nostri alchimisti moderni, se questi non vogliono incorrere nella vergogna e nella sfortuna finora associate al loro nome. Bisogna, in altre parole, che come esseri liberi dai bisogni e dai desideri degli uomini volgari essi trascurino le ricchezze date dal produrre dell’oro e che la scoperta di qualche nuova verità divenga, per loro, la vera pietra filosofale.

Antoine-Alexis Cadet de Vaux Trasmutazione del ferro in argento9 17 agosto 1777 Il Gabinetto di Storia Naturale [appartenuto al] defunto Sig. Geoffroi,10 farmacista dell’Académie Royale des Sciences, messo in vendita dal Sig. Azema,11 suo successore, domiciliato in rue Bourtibourg, offre agli amateurs oggetti degni di curiosità; tra gli altri, un magnifico minerale di rame setoso,12 8  Il riferimento è a Creso, il re della Lidia, celebre per la sua ricchezza. 9   Transmutation de fer en argent, in Abrégé du Journal de Paris, ou Recueil des articles les plus intéressans insérées dans le Journal, 1777, ristampato nel 1789, 2, pp. 30-32. L’autore di questa comunicazione e soprattutto della lettera che ne segue, entrambe apparse anonime, è con tutta probabilità il farmacista Antoine-Alexis Cadet de Vaux (1743-1828) il quale, nel 1777, era stato uno dei fondatori del “Journal de Paris”. 10  Étienne-François Geoffroy (1672-1731), uno dei più celebri farmacisti di Francia che, nel 1718, aveva presentato una celebre memoria sulle affinità chimiche tra le sostanze che, nella seconda metà del secolo, verrà ripresa con successo dal chimico svedese Torbern Bergman. 11  Bernard Azéma divenne maître apothicaire nel 1753. Teneva regolarmente dei cours d’expériences chymiques presso il Jardin des apothicaires di Parigi. 12  Malachite.

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uno di argento incastonato in una ganga di quarzo, un rosario d’ambra i cui grani sono grandi come noci. Ma ciò che è senza dubbio più straordinario sono tre chiodi da carretto13 convertiti, mediante la trasmutazione, in argento: uno per la testa, uno per la punta e il terzo per intero. La restante parte è suscettibile di essere attratta dal magnete, proprietà che cessa spostando la pietra [magnetica] lungo il chiodo e facendola arrivare alla parte trasformata in argento. Questa operazione è stata realizzata nel laboratorio del Sig. Geoffroi, alla presenza di questo grand’uomo e di diversi chimici, tutti ben istruiti contro il ciarlatanismo dei produttori di pietre filosofali, e dunque sotto gli occhi di testimoni che sarebbe stato difficile ingannare. Siccome bisogna credere a quello che si vede e questi scienziati hanno realmente visto la trasmutazione dei chiodi in argento, [effettuata] immergendo quest’ultimi in un liquido che l’Autore del fenomeno ha ovviamente tenuto nascosto, citeremo questo fatto come un problema da risolvere in merito alla possibilità della pietra filosofale. (Questo annuncio ha dato luogo alla lettera seguente, indirizzata agli autori del giornale). Arrivando ieri dalla campagna, Signori, ho visto nel vostro giornale del 17 di questo mese che il Sig. Azema, mastro farmacista, mette in vendita il Gabinetto di Storia Naturale del defunto Sig. Geoffroi, suo predecessore, dove si trovano soprattutto tre chiodi da carretto i quali, dal ferro, sono stati convertiti in argento, uno per intero e gli altri due in parte, presso [il laboratorio dello] stesso Sig. Geoffroi, sotto i suoi occhi e sotto quelli dei molti abili chimici, tutti ben istruiti contro ogni ciarlatanismo: di qui voi concludete [affermando] la possibilità della trasmutazione. Tutti coloro che conoscono il Sig. Azema garantirebbero solennemente della sua perfetta integrità. Ma quanti curiosi che 13  Chiodi usati per fissare le ruote dei carri.

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non lo conoscono hanno letto nelle memorie dell’Académie des Sciences, di cui il Sig. Geoffroi era membro, una sua dissertazione del 15 aprile 1722,14 in cui negando la possibilità della trasmutazione (in verità senza riportare né contraddire alcuna delle ragioni avanzate per affermare tale possibilità) e raccontando in buona fede tante frodi praticate al riguardo, mette in questa stessa classe il chiodo esposto nel Gabinetto del Granduca di Firenze, per metà convertito in oro e per metà rimasto di ferro; e tali sono (aggiunge) quelli che presento oggi alla Compagnia, metà argento e metà ferro. E [tuttavia] il Sig. Azema ci parla di chiodi convertiti dal ferro in argento, sotto gli occhi dello stesso Sig. Geoffroi il quale, per quanto ne sappiamo, sembrerebbe essere piuttosto un testimone avverso al dire del Sig. Azema. Ma dando per un attimo credito al Sig. Azema, qui troviamo il celebre Sig. Geoffroi ugualmente convinto di essersi sbagliato nel 1722, quando aveva affermato che la trasmutazione era qualcosa d’impossibile, e [colpevole] di non aver reso alla verità, che egli avrebbe pubblicamente offeso, il risarcimento che ogni uomo onesto le deve. Il celebre Jean-Frédéric Helvetius,15 Primo Medico degli Stati Generali d’Olanda, nonno del Sig. Helvetius, Primo Medico della defunta Regina, ha lasciato un buon esempio [di come si debba agire] in questi casi. Al pari del Sig. Geoffroi, Helvetius aveva pubblicamente negato nei propri scritti la possibilità della trasmutazione, senonché nel 1666 si convinse del proprio errore per via di un’esperienza diretta. Grazie a mezzo grano di elisir, che gli era stato dato da uno sconosciuto, egli trasmutò con le proprie mani sei grosse di piombo e due grosse d’argento in vero e proprio oro e, per rendere omaggio alla verità, l’anno seguente pubblicò il suo Vitulus aureus, dedicandolo agli Stati Generali. Il Sig. Azema non avrebbe dovuto, anche solo per il proprio interesse, correggere l’errore del Sig. Geoffroi e togliere 14  Étienne-François Geoffroy, Des supercheries concernant la pierre philosophale, in Mémoires de l’Académie royale des sciences (1722), p. 61-70. 15  Johann Friedrich Schweitzer (1630-1709), medico e alchimista meglio noto sotto il nome latinizzato di Helvetius.

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ogni dubbio sollevato dalla dissertazione del 1722 sulla realtà di questi chiodi, che oggi egli presenta, come provenienti dal Sig. Geoffroi e veramente convertiti in argento sotto ai suoi occhi? Non avrebbe dovuto, per questo, non lasciar credere al pubblico che questi chiodi che egli presenta come prodotto dell’arte, non sono gli stessi che il Sig. Geoffroi aveva presentato nel 1722 all’Académie come prodotto di una frode? È sufficiente per lui affermare che furono molti [ad aver assistito alla] trasmutazione di questi chiodi, senza riferire la data né citare almeno qualcuno di tali abili testimoni? Che il Sig. Azema sia creduto sulla parola da quanti lo conoscono è cosa buona e giusta; ma [la tale parola] non basta a coloro che non lo conoscono, né [è sufficiente] a convincere l’Académie che, come il Sig. Geoffroi, ha sempre negato questo fatto. Egli deve quindi a se stesso, così come al pubblico, dei chiarimenti su questa questione, i quali non potranno che essere molto interessanti.

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2. TORBERN BERGMAN

Nota al testo Torbern Bergman fu uno dei primi professori di chimica in Europa a esser privo di una formazione medica o farmaceutica: formatosi all’Università di Uppsala, aveva studiato soprattutto storia naturale, matematica, fisica e astronomia. In storia naturale aveva avuto come maestro Carlo Linneo, scienziato che aveva cambiato il volto della botanica con un nuovo, rivoluzionario sistema di classificazione. In matematica e in fisica aveva subìto, per tramite dei suoi insegnanti, l’influsso della rivoluzione scientifica newtoniana e, non a caso, nel 1758 difendeva una tesi intitolata De attractione universali. Nei primi anni ’60 si era occupato di geografia fisica, distinguendosi anche in questo campo come uno scienziato versatile e rigoroso. Fu certamente a causa della sua reputazione scientifica, già riconosciuta in molti paesi europei, che nel 1767 il Re di Svezia Gustavo III gli conferì l’incarico di ricoprire la cattedra di chimica. Da allora Bergman si impegnò con grande efficacia a riformare il metodo e le tecniche sperimentali della chimica tradizionale. L’innovazione introdotta nei metodi di analisi chimica lo condusse a comprendere meglio la natura di diversi metalli e minerali; fu inoltre il primo a identificare l’anidride carbonica nelle acque minerali e a favorirne la produzione artificiale. Ispirato da Newton, Bergman tentò di applicare la legge di gravitazione universale al mondo infinitamente piccolo, pubblicando nel 1775 un trattato sulle affinità chimiche tra le sostanze in cui tentava una quantificazione della forza di attrazione tra le particelle. L’opera ebbe un tale successo da spingere Johann Wolfgang Goethe a scrivere uno dei suoi più celebri romanzi, Le affinità elettive (Die Wahlverwandtschaften, 1809). Era la prima vol79

ta in cui il tema dei rapporti amorosi veniva trattato seriamente come l’effetto di una reazione chimica dominata dalle leggi dell’attrazione. Il testo che qui presentiamo, pubblicato per la prima volta nel 1779,1 offre una sintesi delle idee promosse dal chimico svedese e, contemporaneamente, una fotografia abbastanza fedele dello stato generale a cui erano giunte allora le conoscenze di chimica. Con uno stile tipicamente linneano, Bergman espone in modo sistematico la struttura della chimica attraverso 342 aforismi, nei quali troviamo una definizione generale della scienza, una descrizione analitica delle più importanti arti chimiche e un resoconto dei principali ingredienti dell’analisi (metalli, sali, terre, sostanze infiammabili, acqua e arie). Se si confronta questo testo, presentato all’Accademia reale delle Scienze di Stoccolma, con l’articolo Chimie scritto da Gabriel-François Venel per l’Encyclopédie poco più di 20 anni prima, non si può non rimanere stupiti dagli enormi progressi realizzati in questo settore delle scienze, sia sul piano dell’analisi chimica che su quello degli elementi conosciuti, il cui numero appare cresciuto esponenzialmente. Va inoltre sottolineato l’orgoglio con il quale Bergman, consapevole del significato storico di queste acquisizioni, rivendica alla chimica un ruolo di primo piano tanto a livello teorico quanto, soprattutto, a livello socio-economico. Nonostante tutte queste novità, Bergman rimane ancora legato molto saldamente ai principi della teoria del flogisto ed è per questo che, ad esempio, considera i metalli come dei corpi composti di un principio terroso e di un principio infiammabile (il flogisto, appunto), non distaccandosi così da quella filosofia della materia che qualche anno prima aveva suggerito al suo amico Macquer la possibilità della trasmutazione dei metalli.2

1  Torbern Bergman Anledning til Föreläsningar öfver chemiens beskaffenhet och nytta, samt naturlige kroppars almännaste skiljaktigheter, Stockholm, Uppsala, 1779. Il chimico fiorentino Giovanni Fabbroni, sotto lo pseudonimo di Giuseppe Tofani, tradusse questa e altre dissertazioni dello scienziato svedese in Torbern Bergman, Opuscoli fisici e chimici, Firenze, Tofani, 1787-1788, 2 voll. La collezione più completa delle opere di Bergman è stata raccolta negli Opuscula physica et chemica, Holmiae, Upsaliae, Officinis librariis Magni Sweder, 1779-1790, 6 voll. 2  Si veda il testo di Macquer presente in questa antologia.

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Saggio sull’utilità della chimica applicata ai diversi bisogni della vita umana3 Visione generale della chimica 1. Sotto il nome di scienza della natura, intesa nel suo senso più ampio, è compresa ogni sorta di conoscenza intorno alla natura dei corpi, sia essa acquisita per tramite dell’osservazione o dell’esperienza. Tre sono i gradi attraverso cui passa questa branca della scienza, nel suo procedere verso la perfezione e altrettanti sono i rami in cui essa si divide, i quali vengono considerati come tra loro distinti, benché i limiti che li separano siano talvolta molto ambigui e difficili da determinare. 2. La prima di queste tre scienze è detta storia naturale. Il suo oggetto è l’indagine, mediante scrutinio attento, dell’aspetto esteriore dei corpi naturali e, in particolare, della loro forma. Lo scopo è individuare, per quanto possibile, una serie di tratti specifici che permettano di distinguere in ogni tempo e senza equivoco un corpo dall’altro. Ecco ad esempio il modo in cui uno storico della natura o naturalista, come viene chiamato, esamina una pianta: egli osserva a quale genere, a quale specie e a quale varietà la pianta appartiene, facendo leva su una serie di caratteristiche già note; osserva se la pianta cresce più comunemente in uno spazio aperto, esposto alla luce oppure in ombre; se essa si rivolge o meno verso il sole, se fiorisce o meno a una certa ora del giorno ecc. 3. La filosofia naturale (o filosofia meccanica, come può essere detta affinché sia distinta dalla chimica) penetra più in profondità nella natura intima e nell’essenza dei corpi; con l’aiuto dell’esperienza indaga le proprietà dei corpi e individua le leggi, o regole generali, in base alle quali tali proprietà si manifestano. A questo scopo il naturalista, non soddisfatto di os-

3  La traduzione è stata realizzata tenendo soprattutto presente la versione inglese, pubblicata con il titolo di An Essay on the Usefulness of Chemistry and its Application to the Various Occasions of Life (1779), London, J. Murray, 1783.

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servare le apparenze esibite dai corpi lasciati a se stessi, interroga la natura più intimamente ed esercita il proprio ingegno ponendo i corpi in una varietà di situazioni nuove e artificiali. Vediamo allora (utilizzando sempre lo stesso esempio), come un uomo dedito a questo ramo della scienza considera una pianta: egli rileva la quantità della sua traspirazione mediante una bilancia; ne delinea i condotti interni per mezzo di liquidi colorati; esamina l’influenza della luce sulla sua prosperità ponendola nell’oscurità ecc. 4. In terzo e ultimo luogo viene la chimica, che non si accontenta di indagare le proprietà dei corpi ma ricerca le cause di tali proprietà, esaminando gli ingredienti dei corpi e la loro composizione. Così (seguendo sempre lo stesso esempio), nell’esaminare una pianta alla maniera del chimico si scoprirà quanto sale, olio, acqua, terra ecc. vi sono contenuti, come anche a quale delle parti che la compongono siano da attribuire l’odore, il gusto e altre sue proprietà e virtù. 5. La chimica è quindi quella scienza che esamina le parti che costituiscono i corpi, in riferimento alla loro natura, alle loro proporzioni e al loro modo di combinarsi. 6. Le particelle che vengono separate l’una dall’altra tramite l’analisi chimica, o per via di decomposizione di un corpo, si chiamano principi, elementi o parti costituenti. 7. Esistono di conseguenza due vie per dividere i corpi, una meccanica e una chimica, alle quali corrispondono altrettanti tipi di elementi o parti costituenti. 8. Gli elementi meccanici o particelle sono in sé della stessa natura del corpo intero, da cui non si distinguono in nulla se non nella loro massa; se dunque si polverizza un pezzo di gesso, lo si riduce in una moltitudine di pezzi più piccoli, ciascuno dei quali è una particella o elemento meccanico del totale. Queste sono le cosiddette particelle integranti. 9. Si chiamano elementi chimici quelle parti di natura tra loro diverse che, se messe insieme, si riuniscono in un unico corpo. La terra calcarea o calce, l’acido aereo e l’acqua sono quindi gli elementi chimici del gesso. 82

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10. Siccome gli elementi in cui un corpo può essere ridotto tramite una prima analisi chimica si trovano solo di rado in un perfetto stato di semplicità, si possono concepire diversi ordini di elementi. 11. Gli elementi in cui un corpo si risolve alla prima analisi chimica possono essere detti principi prossimi o elementi del dato corpo: tali sono ad esempio lo zolfo, il mercurio o l’argento vivo rispetto al cinabro. 12. Scomponendo ulteriormente ciascuno dei menzionati principi prossimi del cinabro, è possibile ottenere i suoi principi intimi o remoti, i quali possono essere a loro volta considerati principi prossimi dei corpi che componevano [in precedenza]. I principi prossimi dello zolfo sono quindi il flogisto e l’acido vitriolico, mentre quelli del mercurio sono il flogisto e la calce metallica del mercurio; di conseguenza l’acido vitriolico, il flogisto e la calce del mercurio sono i principi remoti del cinabro. 13. Se i principi in cui è stato scomposto un corpo sono incapaci di ulteriore scomposizione, possono essere detti principi primari, principi ultimi o elementi. 14. La divisione o risoluzione di un corpo nei suoi principi o elementi è detta analisi chimica; per sintesi chimica si intende invece il ricondurre insieme tali principi, tanto da ricomporre un corpo della stessa natura di quello analizzato. 15. È solo allora che si può essere sicuri di conoscere quali sono le vere parti costituenti o elementi di un dato corpo, ovvero quando analisi e sintesi sono tra loro perfettamente coerenti. 16. La natura di un corpo non dipende solo dalla natura dei suoi elementi, ma anche dalla proporzione in cui essi si trovano al suo interno e dal modo in cui si combinano. La marna dei nostri campi contiene gli stessi elementi del topazio; ciò nonostante le proprietà di questi due corpi sono nell’insieme diverse. 17. La coesione esistente tra gli elementi di un corpo dipende dalla forza con cui questi si attraggono tra loro ed è proporzionata a tale forza. 18. Tutti i corpi della natura si attraggono. 2. TORBERN BERGMAN

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19. Tra i corpi celesti questa attrazione si esercita per mezzo di un’unica, semplice legge; tra i piccoli corpi che compongono il nostro globo questa forza è invece diversa e dipende dalla natura dei medesimi. 20. Se tre diverse particelle A, B e C si incontrano e due di esse si uniscono in modo da escludere la terza, si parla di attrazione elettiva semplice. 21. Se la particella A, benché unita con la particella C, abbandona questa unione per unirsi con la particella B quando questa le viene presentata, si dice che A possiede una più forte attrazione per B che per C. Se quindi, ad esempio, si versa dell’acido vitriolico sul sale comune, si vedrà che l’alcali minerale del sale ha una maggiore attrazione per l’acido vitriolico che per l’acido marino, con il quale era prima combinato, poiché abbandona quest’ultimo per unirsi al primo. Si ritiene per questo che l’acido vitriolico abbia una più forte attrazione per l’alcali minerale di quanta ne abbia l’acido marino, motivo per cui il primo di questi acidi espelle il secondo dalla sua base. 22. Le relazioni esistenti tra le varie sostanze, per ragioni di concisione e comodità, si rappresentano riportando tali sostanze (espresse da determinati simboli) una sopra all’altra, in colonne; le diverse colonne riunite insieme compongono le cosiddette tavole dell’attrazione o dell’affinità. 23. Se si uniscono insieme più di tre corpi che esercitano l’uno sull’altro un’attrazione, si parla di attrazione composta; in particolare, si tratta di attrazione doppia qualora il numero dei corpi che agiscono reciprocamente in questo modo sia quattro. 24. Quando due sostanze sono combinate insieme, l’aggiunta di una terza sostanza non causerà la loro separazione, a meno che quest’ultima non abbia una forza di attrazione maggiore verso una di esse rispetto a quella con cui si trova già unita. Quando ad esempio la terra calcarea è sciolta nell’acido nitroso, l’aggiunta del solo alcali volatile caustico non separa le sostanze, perché l’attrazione dell’alcali per l’acido non è tanto forte quanto lo è quella della terra calcarea. 25. Tuttavia, la separazione che non può essere prodotta 84

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mediante l’aggiunta della terza sostanza si verifica spesso qualora si combini quest’ultima a una quarta sostanza. Si prenda della terra calcarea pura, come nell’esempio precedente, per aggiungervi ora dell’acido aereo: mentre l’acido aereo agisce sulla terra calcarea, l’alcali agisce sull’acido nitroso, facendo diminuire la coesione della terra con l’acido nitroso tanto da permettere all’alcali volatile di unirsi con l’acido nitroso ed espellere la terra. 26. Per l’esercizio di questi due tipi di attrazione, la semplice come la doppia, è necessario che almeno una delle sostanze coinvolte sia allo stato fluido. Dato che questa fluidità può essere di due diverse forme, si distinguono altrettante vie attraverso le quali si realizza l’attrazione, ossia la via umida e la via secca. 27. Si parla di via umida quando almeno una delle sostanze si trova già naturalmente fluida nel calore dell’atmosfera, o comunque in un calore non di molto maggiore rispetto a quello dell’atmosfera. Tale è il caso degli esempi sopra menzionati. 28. Si parla di via secca quando, per produrre il necessario grado di fluidità, si espongono le sostanze (già in stato asciutto) a un grado considerevole di calore ulteriore, per esempio quello di un combustile che brucia. Così, se si unisce il cinabro a della limatura di ferro e vi si applica un certo grado di calore, il mercurio contenuto nel cinabro si liquefà, lasciando lo zolfo (che è l’altro elemento del cinabro) in combinazione con il ferro, dato che lo zolfo attrae il ferro con più forza di quanto lo faccia il mercurio. Questo è un caso di attrazione semplice. Se poi si mescola il vitriolo di mercurio (mercurio unito ad acido di vitriolo) con dell’alcali minerale salitum (sale comune) e li si espone a un certo grado di calore, si avrà una nuova combinazione tra le sostanze componenti, la quale deriva da un’attrazione elettiva doppia. L’acido marino del sale comune si unisce infatti con l’argento vivo del sale mercuriale e forma un nuovo composto detto sublimato corrosivo, mentre l’alcali minerale del sale comune si combina con l’acido vitriolico del primo sale mercuriale formando con esso ciò che chiamiamo sale di Glauber o alcali minerale vitriolato. 2. TORBERN BERGMAN

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29. L’intero sistema di questa serie di attrazioni elettive, tanto le semplici quanto le doppie, può essere rappresentato in maniera comodissima, tale da essere compreso in una sola occhiata, mediante le tavole sopra menzionate: per loro tramite l’intera teoria delle attrazioni, la quale forma un importante ramo della chimica, appare nella sua veste più chiara.4 30. Dato che tutte le operazioni chimiche sono riducibili ad analisi e sintesi, ossia decomposizione e ricomposizione delle sostanze, e dato che queste operazioni dipendono dalle leggi che regolano questa specie di attrazione, sembra che nella conoscenza di queste leggi risieda per così dire la chiave della scienza chimica. 31. La chimica, nella misura in cui getta luce sul generale corso della natura e sulle cause dei vari fenomeni esibiti dai corpi, può essere detta chimica pura [chemia pura], cioè generale, o chimica filosofica. 32. Quando invece la chimica entra in più o meno minuti dettagli e si applica all’uso, insegnandoci sia come i diversi tipi di corpi, in base alle loro rispettive nature, possano essere impiegati a vantaggio dei vari bisogni della vita, sia come questi corpi possano essere preservati e migliorati, o addirittura prodotti quando non disponibili, si parla di chimica applicata [chemia applicata], mista, particolare o popolare, come si usa dire per le matematiche in casi analoghi. 33. La chimica, come la matematica, può inoltre essere distinta in chimica volgare [chemia vulgaris] o elementare, la quale si occupa dei più grossolani e palpabili elementi dei corpi, e chimica trascendente [chemia sublimior], la quale pur non trascurando i più grossolani e palpabili elementi trova il modo, per tramite di metodi specifici, di raccogliere ed esaminare gli elementi di più fina tessitura, che per via del loro grado di sottigliezza sarebbero altrimenti impercettibili ai nostri sensi, evaporerebbero e sfuggirebbero alle nostre ricerche. Per certi versi, 4  Torbern Bergman, Disquisitio de attractionibus electivis, “Nova Acta Regiae Societatis Scientiarum Upsalensis”, 2 (1775), pp. 161-250.

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questi elementi più sottili possono essere considerati, come corrispondenti agli infinitesimali della geometria più sublime5 o geometria trascendente. 34. La chimica trascendente richiede dei talenti particolari, sia per immaginare che per eseguire quelle esperienze che meglio si prestano a perseguire la verità con certezza. A seguito dei rapidi progressi fatti dalla chimica negli ultimi dodici o quindici anni, è diventato ormai evidente quanto imperfette debbano essere le conoscenze di coloro i quali scelgono di confinarsi nell’ambito della chimica volgare. Non deve tuttavia meravigliare che degli uomini, privi del talento e della pazienza necessari a ricerche così delicate, cerchino un palliativo per le loro mancanze nel disprezzo di tali indagini, a cui danno il nome di sottigliezze. Non deve sorprendere che una sostanza, la quale costituisce spesso una gran parte del corpo all’interno della quale è trovata, fino a occuparne metà del peso se non di più, possa essere considerata non degna di attenzione e in quanto tale trascurata. Un uomo che considera la natura con così poca attenzione di certo non saprà, infatti, che tutto ciò che osserviamo si verifica in conformità a determinate leggi e che le più piccole circostanze hanno le loro ragioni, così come le più grandi. Nel sistema della natura ogni fenomeno è connesso con tutti gli altri, tanto che in questo ramo della scienza non esistono sottigliezze o, comunque, anche tali sottigliezze non sono affatto da disprezzare. 35. Dato che adoperiamo continuamente le diverse sostanze per venire incontro ai nostri bisogni, non è necessario uno studio molto approfondito per cogliere in linea generale l’uso di questa scienza, il cui oggetto è l’indagine delle diverse circostanze che concorrono alla composizione dei corpi e alla loro differenziazione. Ad ogni modo, al fine di dare un’idea più precisa e dettagliata della sua utilità, può essere opportuno distinguere la chimica popolare in diversi rami secondari e riservare, a ciascuno di essi, una separata considerazione. 5  Allusione al calcolo infinitesimale di Newton.

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36. I diversi tipi di corpi a noi familiari possono essere resi atti all’uso sotto tre riguardi, ossia in relazione alla nostra salute, al nostro sostentamento e infine ai piaceri e alle comodità della vita. 37. Di conseguenza la chimica popolare può essere suddivisa in tre rami, ovvero la medica, l’economica e la tecnica.

Chimica medica 38. L’oggetto della chimica medica sono quelle sostanze capaci di essere rese utili alla nostra salute. Visto però che i modi in cui tali sostanze possono essere adattate a questo scopo sono diversi, questo ramo della chimica è a sua volta suscettibile di varie suddivisioni che verranno di seguito tutte enumerate, nonostante la natura di quest’opera permetta che le si tratti solo da un punto di vista molto generale. 39. La chimica medica punta sostanzialmente a due oggetti: in primo luogo alla conoscenza delle proprietà chimiche dei corpi viventi, alla salute dei quali si propone di esser utile; in secondo luogo alla conoscenza delle varie sostanze con la cui natura contribuisce, in più o meno larga misura, al medesimo scopo. 40. La prima di queste suddivisioni costituisce ciò che possiamo chiamare chimica fisiologica. Il suo scopo è innanzitutto conoscere la struttura e la composizione dei corpi, liquidi o solidi, di cui è composto il corpo umano, sia in stato di salute che in malattia; secondariamente, a spiegare i diversi processi chimici che avvengono in ogni parte del corpo, come la digestione, la preparazione del chilo, del fiele, del succo pancreatico ecc. 41. Questo ramo è tuttavia ancora nella sua infanzia benché, da un lato, il coltivarlo non possa che essere del più grande vantaggio per la medicina e, dall’altro, l’averlo trascurato abbia dato origine a molte di quelle idee assurde che abbondano in questa scienza. È sufficiente un solo esempio: si sono scritte intere opere sulla produzione della pietra nella vescica ritenendo88

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la sempre formata dalla terra calcarea, sebbene con la più scrupolosa analisi si sia poi scoperto che questa terra non è che la centesima parte del totale. Si potrà quindi giudicare da questo quanto ben fondati fossero molti di quei rimedi che, seguendo tale idea, furono proposti per eliminare la pietra dalla vescica. 42. L’altro grande ramo [della chimica medica] riguarda la conoscenza delle proprietà chimiche delle varie sostanze ritenute utili o dannose per la salute e può essere detto chimica farmaceutica. 43. Questo secondo ramo può comprenderne di ulteriori che può essere utile distinguere. 44. A questo ramo appartiene, in primo luogo, la conoscenza delle parti costituenti o ingredienti dei diversi corpi di cui si fa uso sia per scopi medici che al fine della nutrizione. Le sostanze che assumiamo continuamente per nutrirci non producono cambiamenti tanto rapidi e notevoli quanto quelli delle medicine; ad ogni modo, nel lungo tempo la loro influenza sulla nostra salute è troppo evidente perché non vengano qui considerati. 45. È inoltre necessario capire come si separano le parti utili delle sostanze medicinali da quelle inutili o nocive che a esse possono essere unite; come le parti utili così separate si possano preparare, sia da sole sia insieme ad altre, in modo tale da renderle meno sgradevoli e dar loro una forma più comoda. Questa branca passa comunemente sotto il nome di farmacia, la quale richiede grandi conoscenze se considerata, come dovrebbe, alla stregua di una scienza. 46. Per quanto riguarda l’acqua e l’aria, benché ciò che concerne le proprietà di queste due sostanze possa propriamente situarsi sotto una delle precedenti divisioni (si veda § 44), il loro uso è così necessario ed estensivo da meritare ciascuna una separata considerazione. 47. L’oggetto del ramo idrologico della chimica è indagare la natura dei vari tipi di acqua in base alle molteplici ed eterogenee sostanze che possono esservi contenute, le quali sono la causa delle differenze che si osservano tra i medesimi. 2. TORBERN BERGMAN

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48. Questo ramo della scienza ci offre quindi una serie di metodi per imitare tramite l’arte tutte quelle acque che si trovano naturalmente cariche di diverse sostanze, qualora lo si ritenga opportuno: ad esempio quando non le si possono avere dove se ne ha bisogno, o comunque non a un prezzo così basso. 49. L’acqua ha a che fare con quasi tutto ciò che mangiamo e costituisce la maggior parte di tutto ciò che beviamo. La sua presenza all’interno di diverse sostanze non può perciò che avere qualche conseguenza, più o meno grande, in ogni circostanza. 50. Il ramo aerologico della chimica, il cui oggetto è l’indagine della natura e delle proprietà dei diversi tipi di aria, non è meno interessante del precedente. Siamo circondati su ogni lato da questo elemento, nel quale viviamo come fanno i pesci nell’acqua. Le diverse modificazioni di cui l’aria è suscettibile non hanno solo un’influenza importante sulla respirazione, processo così intimamente connesso alla nostra salute, ma sono anche indispensabili al continuo movimento dei polmoni, specie di mantici tramite i quali si mantiene accesa la fiamma della vita. Non basta peraltro che i polmoni siano tenuti distesi da un qualsiasi tipo di fluido elastico: è necessario che quest’ultimo sia presente in una data quantità e che sia, inoltre, di natura particolare. Di tale quantità, la parte che è perfettamente pura e che è la sola adatta alla respirazione rappresenta sempre una piccola proporzione, la quale raramente supera un quarto della massa atmosferica; il resto non solo non è adatto alla respirazione ma, preso isolatamente, porrebbe fine alla vita in pochi istanti. 51. Lo stato dell’aria cambia di molto tra una situazione bassa rispetto a una elevata, o in luogo aperto rispetto a uno chiuso, ma anche all’interno della stessa stanza, dove tutto è esattamente lo stesso: non è quindi di poca importanza conoscere queste differenze che, per quanto riguarda la respirabilità, possono essere misurate alquanto precisamente per mezzo

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di uno strumento di nuova invenzione, detto eudiometro.6 52. Tanto basta a mostrare che, senza l’aiuto della chimica, l’arte medica non può che restare molto lontana dalla perfezione.

Chimica economica 53. Nell’economia rurale vi sono alcuni metodi i quali, al fine di produrre il loro effetto in ogni circostanza, necessitano di essere più o meno diretti dalla chimica: elencheremo alcuni dei principali. 54. In linea generale si ritiene che questo ramo della chimica abbia due oggetti: in primo luogo la produzione delle materie prime e, secondariamente, il loro trattamento al fine di trarne il massimo vantaggio. 55. Le materie prime del regno vegetale che costituiscono l’oggetto dell’economia rurale sono ogni sorta di grani, radici e frutti, così come i fusti e le foglie delle piante erbacee, ad esempio il fieno, la canapa, il lino e nei climi più temperati l’uva, le olive ecc. 56. Per ottenere questi prodotti è necessario seguire regole precise: in particolare deve essere loro procurato un adeguato tipo di terra, o in alternativa si deve rendere tale la terra che si ha a disposizione per tramite dell’arte, se l’agricoltore vuole che le sue fatiche siano ricompensate. 57. I vegetali hanno bisogno, oltre che della terra in cui crescono, di materie atte a nutrirli e capaci soprattutto di contribuire alla formazione delle loro parti solide. Perché tali materie possano essere trasportate dalle radici è tuttavia necessario l’aiuto dell’acqua, che è il veicolo più adatto a questo scopo. 58. Una buona terra deve quindi contenere in primo luogo una quantità sufficiente di materiale nutritivo e, in aggiunta, una sufficiente quantità d’acqua, affinché faccia sia da nutri6  Si veda il testo di Landriani in questa antologia.

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mento essa stessa che da via di trasporto per il nutrimento proveniente da ulteriori sostanze. 59. Le terre minerali che si trovano più facilmente nel suolo comune sono l’argilla, la sabbia e la terra calcarea; a esse sono mescolate una maggiore o minore quantità di sostanze vegetali, che quando purificate perdono la loro tessitura organica. 60. Di queste tre terre non ve ne è alcuna che, da sola, sia sufficiente al mantenimento dei vegetali. In un buon suolo si trovano quindi sempre dei miscugli, o almeno due terre insieme. 61. Tra queste terre l’argilla è quella che trattiene acqua più a lungo; dopodiché viene la terra calcarea e infine la sabbia, che si secca più velocemente di tutte. Da ciò segue che in base alle diverse proporzioni in cui queste terre si trovano a essere unite, si rilevano differenze rispetto alla loro capacità di trattenere acqua. In questo caso si deve considerare tanto lo strato più profondo del terreno quanto quello che forma la sua superficie. 62. È ovvio che anche la terra migliore resta sterile e quasi senza vita in mancanza di acqua, mentre la più desiderabile è quella in cui il miscuglio si adatta bene al tempo, rispetto all’umido e alla siccità: gli incidenti insoliti possono difficilmente essere impediti dalla previdenza dell’uomo. 63. Ma l’influenza della situazione è tale che lo stesso miscuglio ha effetti diversi in luoghi differenti. La questione più importante è quindi quella di scoprire quale miscuglio sia più adatto alla situazione in un dato luogo. 64. Se l’agricoltore è in grado distinguere le diverse specie di terra [presenti] nel proprio terreno e di giudicare le proporzioni in cui esse si mescolano, così come un minatore giudica il contenuto delle sue miniere, nel giro di pochi anni riuscirà, per mezzo di debite osservazioni e riflessioni, a determinare quale miscuglio sia più consono alla sua situazione. 65. Coltivare del grano in un campo e produrne la più grande quantità possibile, sono due questioni diverse. La prima può essere risolta senza bisogno di una vasta conoscenza; 92

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ciò non è vero per la seconda, a meno che si non abbia una straordinaria fortuna. 66. I possibili usi della chimica nell’agricoltura sono davvero considerevoli, ma i limiti del mio progetto non mi permettono di fare null’altro che menzionare brevemente i principali. Alla chimica spetta di distinguere le diverse specie di terra in base alla loro natura e alle loro proporzioni; determinare quale di esse è più adatta a determinati scopi; verificare le qualità dei vari tipi di concime, indicare i metodi adeguati per utilizzare questi ultimi e produrli in giusta quantità; trovare il metodo migliore per valorizzare un suolo povero; realizzare, per tramite di misture tra terre diverse, ciò che non può essere fatto dalla sola concimazione. 67. L’agricoltura, che è la più onorevole e antica delle professioni, non ha ricevuto miglioramenti essenziali dal tempo dei Romani. La ragione non è che essa ha già raggiunto la sua perfezione, quanto piuttosto che non vi si è mai applicata una sufficiente mole di scienza naturale. Finora l’obiettivo è stato quello di dare ai campi l’aspetto di un’aiuola fiorita in un giardino: bisogna allora che governare un campo sia semplice quanto innaffiare un giardino, altrimenti l’uomo scoprirà a proprie spese l’inadeguatezza di questo metodo. 68. Una volta ottenuti i prodotti dell’agricoltura, l’aiuto della chimica è ancora essenziale affinché questi si conservino e si migliorino. 69. La produzione della birra, del pane, del sidro, del vino e dell’aceto sono tutte operazioni chimiche le quali, per via del bagaglio di conoscenze che richiedono, finiscono in molti casi per fallire o per essere portate avanti con poco profitto. A questo settore appartiene inoltre la produzione e la conservazione del lievito. 70. Altri utili rami dell’economia rurale sono quelli relativi alla preparazione e alla produzione di sciroppi a partire da varie sostanze contenenti materia zuccherina, alla preparazione dell’amido, della farina e del semolino a partire dalle patate ecc. 71. La preparazione del lino e della canapa in maniera tale 2. TORBERN BERGMAN

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da ricavarne il filo più sottile, forte e soffice, il candeggio dei tessuti al fine di renderli perfettamente bianchi senza indebolirne la forza, la protezione del legno dalla putrefazione, il trattamento dei pannelli di legno e della carta da parati in modo da renderli resistenti al fuoco ecc. sono tutti problemi che possono essere risolti dalla chimica. 72. Dal regno animale l’agricoltore ricava materie prime quali uova, carne, sego, lana, crine, penne, pelli, latte, miele, cera ecc. Se necessario, mediante l’arte chimica molte di queste materie possono essere conservate in buono stato per un considerevole lasso di tempo, o addirittura essere riportate allo stato iniziale dopo che hanno iniziato ad alterarsi. 73. Manipolando le materie prime si ottengono burro, formaggio, zucchero, filato, lino, spago, corde e tanti altri articoli, la cui lavorazione può essere portata avanti con maggiore facilità e successo se si conoscono la natura chimica e le proprietà dei diversi materiali. 74. Ulteriori casi in cui l’agricoltore può trarre grande vantaggio dalla conoscenza della chimica verranno trattati all’interno della successiva classificazione. 75. Una gran quantità di operazioni possono essere praticate tanto in piccolo, da parte delle famiglie, quanto in grande, dando lavoro ad altrettante manifatture o professioni; tali operazioni possono essere comprese sotto il capitolo della chimica tecnica.

Chimica tecnica 76. Grandissima è l’utilità della chimica nelle arti e nelle manifatture. Alcune di queste non sono nient’altro che una catena di processi chimici, dall’inizio alla fine; altre dipendono principalmente dalla meccanica in determinati stadi, per poi richiedere il supporto della chimica in altri momenti. 77. Premesso questo, la chimica tecnica può dividersi ulteriormente in cinque rami, in conformità con l’organizzazione 94

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dei corpi: chimica alurgica, relativa ai sali; chimica geurgica, relativa alle terre; chimica teiurgica, relativa ai corpi sulferei; chimica metallurgica, relativa ai metalli; chimica opificiaria (si veda § 144), relativa a diversi tipi di arti e manifatture. 78. In origine, le arti e le manifatture erano un lavoro diretto in larga misura dal caso; il loro miglioramento, rispetto ad allora, è frutto di continue e successive esperienze, che le hanno portate al grado di perfezione che attualmente vi rileviamo, senza necessariamente fare appello alle scienze. Ciò nondimeno prova che il loro successo poggia su certe verità chimiche o assiomi, su alcuni fatti generali che è compito della chimica insegnare e spiegare. Dalla chimica dunque, [le arti e le manifatture] non possono che ricevere grandi lumi: alcune di queste li hanno già ricevuti, ma ne avrebbero indubbiamente beneficiato di più se non fosse per quel velo di mistero con il quale l’interesse privato cerca di coprire gli impieghi remunerativi. 79. L’oggetto del ramo alurgico della chimica è insegnare l’arte di preparare e purificare i diversi tipi di sali (si veda §§ 162-191). 80. A questo ramo appartiene quindi la preparazione degli acidi minerali, tra i quali i più richiesti nel commercio sono: l’acido che si ricava dal vetriolo, o zolfo, detto acido vitriolico; l’acido che si ottiene dalla polvere da sparo o nitro, detto anche acido nitroso; l’acido che si prepara dal sale comune, ossia acido marino o acido muriatico. Tra gli acidi vegetali quello dell’aceto è l’unico ad essere preparato in grandi quantità, mentre la preparazione degli altri è limitata ai laboratori chimici e alle botteghe degli speziali. 81. Gli alcali fissi, come quello della potassa o della soda, sono facilmente acquistabili. L’alcali volatile si trova invece quasi esclusivamente nelle botteghe degli speziali. 82. Certi sali neutri, inclusi quelli perfettamente saturati (si veda § 183), come il sale di Glauber, la polvere da sparo, il sale comune e il sale ammoniaco (si veda § 184) e quelli sovrasaturati, come il tartaro e il borace (si veda § 185), vengono prodotti e purificati in grande quantità, mentre gli altri vengono 2. TORBERN BERGMAN

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preparati soprattutto nelle botteghe degli speziali. 83. Lo zucchero può essere considerato come un tipo di sale vegetale essenziale, di questi tempi consumato in considerevole quantità. L’arte di raffinarlo è comunque ancora suscettibile di ricevere molto lumi dalla chimica. 84. Dei sali terrosi composti (si veda § 188) messi in commercio, la natura prepara da sé il gesso (si veda § 200) e, in determinate zone, il sale amaro (si veda § 202), mentre l’allume è prodotto esclusivamente per via artificiale (si veda § 204). 85. I sali metallici che si trovano in commercio sono tutti preparati artificialmente. I principali sono il vitriolo blu, o vitriolo del rame; il vitriolo verde, o vitriolo del ferro; il vitriolo bianco, o vitriolo dello zinco; il sublimato corrosivo, o mercurio combinato con acido marino; lo zucchero di saturno, o aceto combinato con il piombo; il verde rame, o aceto [combinato] con il rame. 86. Nella preparazione della maggior parte di questi sali, si sono fatti recentemente molti progressi per mezzo della chimica. In particolare, oggi siamo in grado di ottenere degli acidi minerali con molta meno fatica e con minore spesa, ed è da sperare che si facciano ancora nuove scoperte sulla preparazione di queste sostanze. 87. La chimica geurgica comprende tutte quelle preparazioni in cui la terra costituisce l’ingrediente principale. La terra calcarea, quella argillosa e quella silicea vengono impiegate per l’agricoltura e per diversi altri scopi. 88. Se si versa dell’acqua su delle pietre calcaree, prima cotte o infuocate, esse si riducono in una polvere che è l’ingrediente principale per formare la calcina utilizzata per la muratura. Se vi si mescola un po’ di manganese (si veda § 259) si otterrà della calcina nera, utile soprattutto nei muri eretti sott’acqua. 89. È dalla chimica che apprendiamo la natura del cambiamento in cui è coinvolta la pietra calcarea sottoposta a combustione: [sappiamo] ad esempio che si libera una certa quantità di acido aereo, di acqua (i due costituiscono insieme poco 96

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più della metà del peso della pietra calcarea) e di materia del calore (si veda § 297). Consapevoli di questo, non disponiamo solo di giuste nozioni circa le proprietà di questa terra, ma siamo in grado anche di definire, con maggiore esattezza, delle regole per farla bruciare, farla spegnere, per meglio conservare le sue proprietà e, infine, per utilizzarla traendone il massimo vantaggio. 90. La terra argillosa o argilla, quando preparata con una certa quantità di acqua, possiede un grado di tenacità che rende possibile modellarla in varie forme. Se la si cuoce, essa si contrae in misura considerevole ed è allora soggetta a incrinarsi, a meno che non la si mescoli con una sufficiente quantità di sabbia. Non solo questo miscuglio ma l’argilla stessa si indurisce moltissimo quando esposta al fuoco e, grazie a questa proprietà, è stata utilizzata per produrre una varietà di cose utili, le quali si differenziano tra loro rispetto alla bontà dei materiali, alla qualità del lavoro artigianale e alla bellezza della forma. 91. Tutti conoscono l’utilità dei mattoni e delle tegole per gli edifici: i primi servono per comporre la sostanza dei muri, i secondi per coprire i tetti. 92. Quanto ai mattoni, che devono essere composti e contornati di una buona calcina, non si richiede una grande preparazione dell’argilla ed è sufficiente che quest’ultima sia ben impastata e ben cotta; una maggiore attenzione è invece richiesta per quei mattoni che devono essere esposti alle intemperie. 93. Tanto più l’argilla è pura, tanto più è adatta a fare dei mattoni e delle tegole poiché, contraendosi di meno, è anche meno disposta ad assorbire l’acqua [piovana], che nelle stagioni fredde tende a sfaldare le particelle in cui si introduce, logorando pian piano tutta la sostanza del mattone. 94. Qualora nell’argilla sia presente un po’ di materia calcarea, le tegole costruite con tale materiale non sono capaci di resistere a lungo [alle intemperie], perché le particelle calcaree finiscono per sciogliersi e lasciare aperti dei fori, che si riempiono d’acqua; quest’ultima forma delle piccole mine le quali, gelandosi, fanno esplodere la sostanza che le circonda. A questa 2. TORBERN BERGMAN

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imperfezione si rimedia ricoprendo la superficie [delle tegole] con una sostanza vetrosa, per mezzo del fuoco e, talvolta, di un po’ di sale comune, utilizzato in fase di cottura. Questa verniciatura è molto efficace rispetto al problema in oggetto. 95. In queste e tante altre circostanze che hanno luogo nell’arte di produrre mattoni e tegole si possono trovare efficaci soluzioni grazie alla chimica, la quale permette di rimediare alla scarsa qualità dell’argilla. 96. Dall’argilla comune si produce inoltre una varietà di vasellame, sia smaltato che non smaltato. 97. Il vasellame, quando coperto con una specie di smalto, forma le cosiddette ceramiche di Delft. 98. Da un tipo di argilla marrone-rossastra, contenente del ferro, si producono diversi utensili, la maggior parte dei quali non smaltati: in tale stato la terra è detta da alcuni terra sigillata. 99. Da quei tipi di argilla noti per essere resistenti al fuoco si producono crogioli, muffole e una varietà di recipienti utilizzati in chimica. 100. I recipienti prodotti con l’argilla più fina, resistente al fuoco e opaca, spesso smaltati, sono detti ceramiche. 101. Una terra bianca e resistente al fuoco, semi-trasparente, sottoposta al calore, quando ricoperta con uno smalto di terra cristallina forma la cosiddetta porcellana. La produzione di questa sostanza richiede un tipo di argilla che resiste al fuoco e che diventa bianca con la cottura, unita a un’altra terra che in Cina chiamano petuntse, la quale serve a portare la prima a uno stato di mezza fusione, condizione necessaria per la sua semi-trasparenza. 102. L’argilla più pura è sempre mescolata con una quantità considerevole di terra silicea; più ve ne è, meno è necessario aggiungervene per impedire che l’argilla si incrini durante la cottura. 103. La terra silicea, portata a fusione con l’acali, forma il tipo più comune di vetro. 104. Il vetro può essere reso di diversi colori, per mezzo di 98

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calci o terre metalliche mescolate con gli altri suoi ingredienti prima della fusione: il vetro così colorato è detto fluorescente. 105. Quando l’aggiunta metallica è di natura tale da privare il vetro della sua trasparenza, la massa prende il nome di smalto. 106. Una massa di questo tipo, essendo bianca e semi-trasparente, è stata denominata falsa porcellana. Anche le comuni bottiglie di vetro possono essere trasformate in una sostanza che assomiglia moltissimo, sia nell’aspetto che in altre proprietà, alla vera porcellana: è la porcellana di Réaumur, così chiamata in onore del suo inventore. 107. Per essere portate a perfezione, tutte queste operazioni richiedono tanta conoscenza e tanta pratica, relativamente al metodo più adeguato per mescolare, lavorare, cuocere [le sostanze] ecc. 108. Al ramo teiurgico della chimica appartengono certe preparazioni che contengono una grande quantità di flogisto. Esse si distinguono in varie specie, in base alla natura degli altri ingredienti che le compongono. 109. Lo zolfo (si veda § 212) si applica a un’infinità di propositi ed è ottenuto dalla pirite solforosa, per via di distillazione. 110. Il fosforo dell’urina (si veda § 215), che è un genere particolare di zolfo, è finora stato utilizzato solo per esperimenti chimici. Benché ancora molto costoso, può essere prodotto a poche spese con i giusti materiali e con il dovuto metodo. 111. Dai semi di diverse piante si ricavano, tramite pressione, dei tipi di olio chiamati grassi, oppure oli vegetali spremuti (si veda § 229). Alcuni di essi si seccano con il tempo, mentre altri no: di conseguenza si prestano a usi differenti. Esistono poi determinati processi mediante i quali renderli più adatti ai rispettivi utilizzi. 112. I grassi del regno animale si ottengono mediante liquefazione (si veda § 226). Lo spermaceti è una sostanza fluida di questo tipo, in passato ricavata dal cervello di certe specie di balene; il suo prezzo è considerevolmente diminuito da quando 2. TORBERN BERGMAN

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è stato trovato un metodo per estrarlo dal comune olio prodotto dallo stesso pesce. Lo spermaceti purificato costituisce la migliore sostanza a oggi nota per produrre le candele. 113. I grassi, sia animali che vegetali, quando combinati con i sali alcalini formano diverse specie di saponi, la cui qualità varia in base alla natura degli ingredienti. 114. Gli oli essenziali (si veda § 226) si ottengono soprattutto per via di distillazione, sebbene alcuni di essi, come ad esempio l’olio di arancia o di limone, si ricavino per semplice pressione. I principali oli essenziali, preparati in grandi quantità, provengono dalle spezie indiane e sono tutti suscettibili di varie manipolazioni. La chimica però non è solo in grado di scoprire la frode, ma anche di determinare la quantità e la qualità delle materie spurie. 115. Le acque profumate si preparano disciogliendo gli oli essenziali nello spirito di vino. 116. L’acquavite, lo spirito di vino (si veda § 233) e l’alcol (si veda § 234) sono spesso preparati in grandi quantità; vi sono però diversi tipi di etere (si veda §§ 231-232) prodotti quasi esclusivamente nei laboratori chimici e nelle botteghe degli speziali. 117. La preparazione della polvere da sparo (si veda § 236) è un soggetto di grandissimo interesse, visto che l’arte della guerra, così come viene praticata nei tempi moderni, ne dipende in larghissima parte. I tre principali obiettivi sono di produrre della polvere della migliore qualità, al minore costo e nella maniera più sicura. 118. A questo ramo appartengono anche i diversi stratagemmi finalizzati a produrre i differenti tipi di combustile di cui si fa uso sia in guerra che per diletto. Questa arte è comunemente chiamata pirotecnia, o arte dei fuochi d’artificio. Il suo principale obiettivo è produrre un bel fuoco di colore verde, per cui la chimica offre varie soluzioni. 119. Dato che i colori dei corpi dipendono dalla riflessione, dalla trasmissione e dalla rifrazione dei raggi della luce e dato che i cambiamenti subiti dalla luce in tali circostanze dipendo100

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no dal flogisto contenuto nelle sostanze, ne deriva che i diversi metodi per fissare i colori sui corpi appartengono al ramo teiurgico della chimica. 120. Tintura è il nome dato a quell’arte per cui, impregnando una sostanza con un liquido appositamente preparato, le si fa prendere un dato colore. La preparazione a cui si sottopone la sostanza da tingere, [basata sull’utilizzo] di certi sali e finalizzata a fissare al meglio il colore, è detta mordente. 121. Questa arte è distinta in vari rami, secondo la natura delle sostanze che devono essere tinte; le principali sono lana, seta, cotone e lino. Queste sostanze differiscono moltissimo rispetto alla facilità di ricevere il colore: la lana è la più semplice [da tingere], segue poi la seta; il cotone ed il lino, invece, ricevono e trattengono il colore con difficoltà. 122. Il lino, perché possa prendere date tinte, deve essere impregnato tramite qualche sostanza animale. Siccome così facendo la sua natura si avvicina a quella della lana, questo processo può essere detto animalizzazione. 123. La qualità di una tinta non consiste solo nella sua bellezza e nel suo splendore, ma anche nella sua capacità di non alterarsi al sole e alle intemperie, a cui si possono aggiungere, specialmente per quanto riguarda i panni di origine vegetale, la capacità di sostenere l’azione del sapone senza scolorire. 124. Per mezzo della chimica si sono fatte di recente molte scoperte, sia rispetto alla varietà dei colori, sia rispetto alla loro resistenza ed efficacia. Basteranno pochi esempi: la seta può ormai ricevere lo scarlatto più splendente, il cotone il rosso di levante e il lino il nero. In vari casi l’azzurro di Berlino può essere sostituito con l’indaco; quest’ultimo colore, molto costoso, può inoltre ora essere usato con maggior vantaggio di prima. 125. La pittura è un’operazione diversa dalla tintura. Nella prima si distende una sostanza di una qualche densità sopra quella che si vuole colorare, mentre nella seconda, per mezzo di una specie di attrazione, la sostanza in questione viene coperta con uno strato meramente superficiale di particelle atte a riflettere i colori che si desiderano. Il metodo mediante il quale 2. TORBERN BERGMAN

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si colorano il legno, il corno, la pelle, l’osso ecc. può essere concepito come qualcosa a metà strada tra i due [appena citati]. In quest’ultimo caso, talvolta si lava semplicemente la sostanza con la tintura colorante, talvolta la si tiene in infusione. 126. Quel metodo di dipingere in cui si utilizzano colori secchi è detto a pastelli ed è stato anch’esso di recente perfezionato in merito alla resistenza. Nelle forme più comuni di pittura, i colori sono prodotti mescolando olio e acqua o spirito di vino, a seconda dell’uso che si intende farne. In tutti questi casi, è solo la produzione dei colori e la loro adesione alla sostanza con cui si dipinge che attiene al settore della chimica. Il disegno delle figure pertiene a un’arte particolare, che non deve essere confusa con quella che si occupa della natura e della preparazione dei colori. 127. A questo ramo appartengono anche diversi tipi di inchiostro colorato; tra questi, si chiamano simpatici quelli che restano invisibili fino a che non li si fa comparire mediante calore o altri mezzi. Con questi inchiostri si possono produrre molti effetti interessanti nei disegni. 128. Il nero e altri colori usati dai pittori e dagli incisori, e con i quali si stampa tramite tavole o caratteri, richiedono grande esattezza nella composizione. 129. Rimuovere i colori dalle diverse sostanze per avere un bianco perfetto è un’altra operazione possibile. A questo scopo si impiegano vari metodi: ad esempio la sbiancatura per il lino e i fumi di zolfo per la seta e per la lana. 130. Vi è un altro metodo per applicare i colori per fusione, o per via secca. Esempi in questo senso sono forniti dai colori usati per la ceralacca. I vetri colorati si producono mescolando del vetro comune a delle calci metalliche e possono essere resi opachi o trasparenti a proprio piacimento. In questo modo si applicano anche i colori alla porcellana, poi fissati mediante cottura. 131. Questo stesso metodo si usa anche per decolorare le sostanze fusibili, siano esse opache o trasparenti. Per ottenere del vetro non colorato è talvolta necessario utilizzare, oltre 102

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ai materiali ordinari, del nitro e spesso anche del manganese: entrambi attirano fortemente il flogisto. Quando si impiega del nitro, l’acido combinato con il flogisto che dà il colore alla massa evapora. Al contrario il manganese, combinato con una certa porzione di flogisto lo trattiene e forma, con esso, un composto privo di colore, benché in altre proporzioni si ottenga invece un colore particolare. 132. Il poter preservare le sostanze infiammabili dall’accensione è senza dubbio un oggetto importantissimo, sul quale di recente si sono spesi molti studi e, stando a quanto dimostrato dalle esperienze, non senza successo. I legnami delle fabbriche possono essere resi resistenti al fuoco per lungo tempo, ricoprendoli con dell’argilla. Il legno e la carta, ben impregnati con una soluzione di alcali minerali, non prendono fuoco. L’allume, il comune sale marino ecc. producono lo stesso effetto. Le soluzioni di sale marino sono inoltre dotate della proprietà di non gelare facilmente, motivo per cui possono essere utilizzate per spegnere incendi nelle stagioni fredde. Un modo di far questo è riempire, con dell’acqua in cui è disciolto il sale, dei sottili cilindri o sfere di ferro che, gettati con forza tra le fiamme, esplodono cospargendo la soluzione dappertutto. 133. Sotto il ramo metallurgico della chimica sono compresi i metodi mediante i quali i metalli vengono estratti dai minerali, purificati e resi utilizzabili in diverse circostanze. 134. L’oggetto di determinare la purezza dei metalli e di altre sostanze minerali, attraverso esperienze di basso costo, forma un’arte particolare che è detta arte del saggio. 135. Questi esperimenti sui minerali sono di grande importanza, poiché per loro tramite possiamo determinare, con una piccola spesa, se convenga o meno lavorarli. 136. Trovare il procedimento meno costoso e più adatto per fondere un minerale, sulla base della sua natura e delle caratteristiche del luogo [in cui esso si trova], è un problema chimico e non uno dei più facili da risolvere. 137. Molti metalli, dopo essere stati estratti dai loro minerali, devono essere sottoposti ad altre operazioni, prima di 2. TORBERN BERGMAN

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essere resi perfettamente puri. Il ferro devo essere fuso nuovamente e battuto con il martello; il rame deve essere raffinato; l’argento e l’oro devono essere separati prima dagli altri metalli vili e poi l’uno dall’altro. 138. Il ferro viene migliorato di molto mediante conversione in acciaio. 139. Formare i metalli composti richiede grandissima cura, sia per evitare sprechi durante l’operazione, sia per produrre un composto che abbia le proprietà richieste, sia [infine] per prevenire qualunque perdita a cui potrebbe andare incontro l’acquirente o il venditore, non conoscendo l’esatto valore [del metallo]. 140. Il rame combinato con lo zinco produce, secondo le diverse proporzioni impiegate, ottone, tombaca, similoro e altri miscugli; combinato con lo stagno dà il metallo detto da campane. Quest’ultimo può essere mescolato anche con l’oro e con l’argento per essere reso più duro. Lo stagno unito al piombo forma il peltro, mentre unito al mercurio forma quella sostanza che, applicata dietro a delle lastre di cristallo, dà il nome agli specchi. 141. Il saggio è necessario per indagare la natura di tutti questi diversi composti e, in particolare, quelli che hanno l’oro, l’argento o lo stagno come ingredienti. A questo scopo, in molti Paesi sono stati scelti degli appositi funzionari detti saggiatori, il cui compito è di vigilare sulla bontà e sull’autenticità di tali oggetti. 142. Ai metalli si dà una data forma mediante la fusione o battendoli con il martello. In queste operazioni è necessario sapere come gestire il fuoco per essere certi che, nel primo caso, la massa riceva il giusto grado di fluidità e, nel secondo, che essa non sia né calcinata dalla violenza del fuoco, né rotta sotto i colpi del martello. 143. In alcuni articoli costruiti in metallo [accade che] la superficie di questo debba o essere lustrata o coperta con qualche altro metallo. Così, per esempio, il rame viene coperto con lo stagno, l’argento viene bollito fino a essere sbiancato, l’ottone 104

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viene ricoperto di foglie d’argento e l’argento d’oro. Quest’ultimo prende colori differenti quando mescolato con diverse leghe. 144. Vari metalli richiedono inoltre delle saldature, affinché si possano unire tra loro più pezzi; essi hanno inoltre bisogno di speciali rivestimenti per essere preservati dagli effetti corrosivi dell’aria e dell’acqua. Rivestire il rame con qualcosa che lo renda più sicuro di quanto non facciano i rivestimenti di stagno, preparare tale rivestimento con sostanze capaci di preservarlo dalla ruggine innocue per la salute ecc. sono problemi di non poca importanza per l’umanità. 145. Il ramo della chimica opificiaria e manifatturiera tratta dei lumi che certe arti e manifatture possono richiedere [a questa scienza], benché non ne dipendano direttamente. 146. A questo ramo appartengono, in particolare, i diversi processi per preparare pellicce, pelli, cuoia e pergamene, le quali richiedono tutte diversi metodi di preparazione per essere rese atte all’utilizzo. 147. Le pellicce si preparano con del grasso e con una soluzione di sale marino. Quelle pelli di cui si usa solo il cuoio vengono preparate con calcina o acque acide, al fine di rimuovere il pelo e il grasso; la rigidità viene poi loro conferita mediante astringenti, mentre la morbidezza per via di sostanze grasse. 148. Questi processi, quando condotti nella maniera comune, richiedono un tempo considerevolmente lungo, il quale può però essere abbreviato di molto con un’adeguata conoscenza del soggetto. Attualmente il cuoio viene preparato in quattro settimane e non più in quattro mesi come si usava in precedenza. 149. Nella manifattura della lana quest’ultima deve essere ben ripulita, l’ordito deve essere ben stretto e il panno compattato. 150. Nella manifattura della seta quest’ultima deve essere privata della sua rigidità, il che non è altro che un’operazione chimica. 151. Nella manifattura di lino esistono diverse operazioni, anch’esse di ambito chimico. A questo ramo può essere ugual2. TORBERN BERGMAN

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mente ricondotta la produzione di vari tipi di carta. 152. Diversi tipi di glutine, colla e pasta si usano per scopi differenti. 153. Agli incisori è necessaria una data specie di vernice perché il rame non si corroda. Questa vernice deve essere prodotta in modo tale da essere facilmente rimossa a lavoro finito. 154. Per smacchiare i tessuti bisogna conoscere, in ogni specifico caso, non solo quali soluzioni siano adatte per disciogliere e rimuovere la sostanza estranea, ma anche quali di queste siano tanto delicate da non danneggiare il colore o la stoffa. 155. Il modo migliore e più economico per proteggere il legno dalla putrefazione e per tenere lontani i vermi da quella parte delle navi che resta sott’acqua, il metodo più semplice per scoprire la manomissione di vini ed altre merci ecc. sono oggetti dalle grandi conseguenze per il pubblico. Molti più esempi verranno alla mente a chi vorrà porre una qualche attenzione alla questione, che noi qui tralasceremo. 156. Da tutto quello che è stato finora detto sembra evidente che si effettuano, tanto all’interno delle famiglie come nelle varie manifatture, una molteplicità di operazioni la cui natura è indubbiamente chimica. Tuttavia è vero che non tutte le arti devono i loro progressi a questa scienza. Alcune di queste devono la loro prima scoperta al caso, a seguito della quale rimasero, per molto tempo, in uno stato di stallo e inerzia. Alla fine arrivò un qualche uomo, che per una felice combinazione di coraggio e ingegno introdusse qualche miglioramento e lo mise a profitto. Fu così che quei metodi, inizialmente imperfetti e mal congegnati, sono stati condotti, per mezzo di lenti e ripetuti sforzi e sostenuti da osservazioni accidentali, a uno stato di perfezione molto più avanzato di quello che nei primi tempi si poteva sperare. Questo processo si è compiuto molto lentamente, da un lato perché le persone che vi presero parte, essendo prive di qualsiasi conoscenza scientifica, non avevano altra scelta se non il seguire le vie della loro cieca esperienza; dall’altro lato perché, dato che il successo dell’arte è tutto ciò su cui si fonda la sussistenza dell’artigiano, quest’ultimo manten106

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ne queste pratiche segrete, le quali finivano spesso per morire insieme al loro stesso inventore. 157. Il disporre di precisi resoconti dei progressi delle arti, ma in particolare del loro stato attuale, sarebbe sicuramente da considerare come un grande passo verso il loro miglioramento. Solo per questo mezzo la chimica potrebbe venire a conoscenza di molti straordinari fenomeni, prima di allora noti solo all’interno delle manifatture. La chimica, da parte sua, lungi dall’essere ingrata, sarebbe sempre pronta a dare in cambio una grande mole di utili suggerimenti e spiegazioni a chi ritenesse opportuno consultarla. È evidente che, lasciando da parte quei cambiamenti meccanici che interessano solo la configurazione delle superfici e che quindi non hanno nulla a che vedere con il nostro oggetto, non vi può essere altra maniera d’operare sui corpi che separare i loro componenti per poi ricomporli nuovamente. Ma queste separazioni e combinazioni si effettuano nel rispetto delle leggi dell’attrazione elettiva (si veda § 30) ed è quindi dalla conoscenza di queste leggi che derivano i più grandi lumi e la più efficace assistenza nelle operazioni. Un chimico non può infatti creare la materia elementare; può però, per tramite dei metodi che la scienza gli insegna, porre quella stessa materia in determinate circostanze che, secondo le proporzioni e i processi impiegati, permettano di combinarla in una varietà di modi diversi. Per questa via diviene possibile produrre dei corpi, simili a quelli già preparati dalla natura o del tutto nuovi, e modificarli affinché si adattino agli usi a cui si intende destinarli.

Dei corpi naturali in generale 158. Tale è la varietà dei corpi che compongono la sostanza del nostro globo che essa non può, a un’ispezione attenta, che suscitare la nostra ammirazione per la potenza infinita del Creatore. 159. Da un punto di vista generale, questi corpi possono essere divisi in due grandi classi. La prima comprende quei 2. TORBERN BERGMAN

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corpi composti di vasi e condotti, i quali trasportano o conservano i diversi succhi destinati a contribuire alla crescita e al nutrimento dei rispettivi corpi. Questi corpi sono detti organizzati e sono a loro volta distinti in corpi capaci di sensazioni e di volontà, ossia gli animali, e corpi privi di tali facoltà, ossia i vegetali. 160. L’altra grande classe comprende i corpi non organizzati. Questi corpi sono composti di parti superficialmente coerenti, i quali non dispongono di vasi interni o condotti per il trasporto dei succhi nutritivi ma crescono tramite la semplice giustapposizione [di materia]. Essi compongono tutti gli esseri organici, nei quali essi possono essere risolti. I corpi organici sono opera esclusiva della natura; i corpi non organici possono essere prodotti anche tramite l’arte. 161. I corpi non organizzati possono essere distinti in sei specie: 1. sali; 2. terre; 3. sostanze infiammabili; 4. metalli; 5. acqua; 6. aria. Le ultime due potrebbero forse, non senza ragione, essere inseriti in una o nell’altra delle classi precedenti; tuttavia, finché non se ne avrà una conoscenza più profonda, può essere opportuno considerarle separatamente.

Dei sali 162. Il nome di sale può essere dato a ogni corpo che provoca un sapore pungente sulla lingua e che si combina con l’acqua tanto da non richiedere, per esservi disciolto, più di un peso cinquecento volte maggiore al suo, quando essa è bollente. 163. Il sapore e la solubilità sono proprietà delle quali è difficile fissare i limiti. La prima dipende dalla perfezione dei nostri organi, tanto che ciò che pare insipido all’uno può sembrare sapido all’altro; [il sapore] non può quindi essere mai misurato in maniera esatta. 164. Quanto alla solubilità, il grado con cui è posseduta dai corpi è anch’esso abbastanza difficile da determinare, poiché dipende in parte dalla superficie del corpo da dissolvere 108

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e in parte dal calore del liquido [in cui il sale viene disciolto]. In molti casi succede che una porzione del corpo in questione possa essere fatto disciogliere solo se ridotto in polvere; qualora anche il metodo meccanico risultasse inefficace vi si può pervenire per mezzo della chimica, ossia facendo disciogliere il corpo in un solvente per poi separarlo mediante precipitazione. La maggiore o minore velocità con cui si ottiene la soluzione di un corpo qualunque dipende soprattutto dalla grandezza della sua superficie; più quest’ultima è grande e più numerosi sono i punti di contatto tra il solvendo e il solvente, e in tal proporzione aumenta anche la reciproca forza d’attrazione. 165. L’acqua è tanto più sottile e penetrante quanto più è calda. Di conseguenza una sostanza che non si scioglie in acqua fredda è spesso disciolta in acqua calda, mentre una sostanza che non si scioglie nemmeno in acqua bollente può essere disciolta in recipienti chiusi, nei quali l’acqua può raggiungere temperature ancora più alte. 166. Sulla base di queste considerazioni è facile accorgersi che si potrebbe stabilire, con sufficiente accuratezza, un limite alla luce del quale distinguere i corpi salini da quelli che non sono tali. Potrebbero infatti essere detti salini quei corpi che vengono disciolti senza il bisogno di essere polverizzati più di quanto non si riesca a fare per via meccanica e senza una quantità di acqua superiore a cinque volte il loro volume, fatta bollire in recipienti aperti. 167. I sali possono essere distinti in primo luogo in sali semplici, ossia quelli che la chimica non è ancora riuscita a scomporre e, in secondo luogo, in sali composti, dei quali si conoscono già l’analisi e la sintesi. 168. I sali semplici sono o acidi o alcali. 169. Acido è il nome dato a quei sali che sono agri al gusto, che cambiano in rosso il colore dei succhi blu dei vegetali e che producono effervescenze quando vengono uniti al gesso. 170. Questi sali sono ulteriormente suddivisi in sali minerali, ottenuti principalmente dal regno minerale; sali vegetali, ottenuti dal regno vegetale; sali animali, ottenuti dal regno 2. TORBERN BERGMAN

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animale; sali comuni, ottenuti da tutti quanti i regni. 171. Gli acidi minerali finora conosciuti sono sei: il vitriolico, il nitroso, il marino, lo spatico, l’arsenicale e il boracico. Tutti questi acidi differiscono tra loro in base all’odore, al peso specifico e alla volatilità ma, in maniera ancora più evidente, per via dei diversi gradi delle loro forze attrattive e dei composti che formano con gli alcali, le terre e i metalli. 172. Esistono certamente una grande varietà di acidi vegetali, benché se ne conoscano solo pochi: questi sono gli acidi che si trovano nello zucchero, nel tartaro, nell’acetosella, nel succo di limone e nell’aceto. 173. Il numero degli acidi animali a oggi conosciuti è ancora più piccolo: comunemente se ne distinguono due, ossia l’acido che si trova nelle formiche e l’acido che è l’ingrediente caratteristico del fosforo. Quest’ultimo tuttavia si trova in grande quantità non solo nel regno vegetale, ma anche in certe sostanze minerali. 174. L’acido aereo si trova in tutti e tre i regni in grandi quantità. 175. I sali alcalini hanno un sapore particolare che, essendo simile a quello della liscivia delle ceneri del legno, può essere detto liscivioso. Essi mutano in verde il colore blu dei succhi dei vegetali e si combinano facilmente con gli acidi. 176. Di alcali se ne conoscono soltanto tre, due dei quali sono fissi e uno volatile. 177. L’alcali fisso vegetale si ottiene comunemente dalle ceneri degli alberi con foglie decidue, ma nella forma più pura si ottiene dal tartaro bruciato. 178. L’alcali fisso minerale si trova naturalmente puro in diversi luoghi e può essere ugualmente estratto dalle ceneri delle piante marine, in particolare dalla soda. 179. L’alcali volatile più puro si ottiene dal sale ammoniaco; quello meno puro si ottiene invece dalle sostanze animali e vegetali. Questo sale ha un sapore acre e un odore sgradevole. 180. Gli alcali fissi, quando bruciati, perdono una porzione di quella quantità di acido aereo con la quale sono general110

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mente in più o meno larga misura combinati. Per mezzo della calce viva, che ha più forte attrazione dell’acido sottile, [gli alcali fissi] possono essere interamente privati [dell’acido aereo] e allora si dicono caustici. In questo stato sono acri e corrosivi, attraggono fortemente l’umidità, producono calore, ma non fanno effervescenza con gli acidi. Quanto più acido aereo contengono tanto più il loro sapore si attenua, più semplice diviene il portarli ad uno stato di cristallizzazione e più violenta si fa l’effervescenza quando un acido più forte espelle quello aereo. 181. I sali composti si distinguono in sali neutri e sali medi; i primi non formano alcun precipitato con l’aggiunta di un alcali, i secondi sì. 182. Neutro è un epiteto dato a quei sali che consistono in un acido unito a un alcali. In una simile combinazione il primo è spesso detto mentstruum e il secondo base. 183. Se i sali componenti sono perfettamente saturi gli uni degli altri, il composto si chiama sale perfettamente neutro; di questo genere sono la maggior parte dei sali che né rispetto al loro gusto, né rispetto alla loro azione sulle altre sostanze assomigliano ai sali semplici. 184. Dei sali perfettamente neutri si conoscono soprattutto i seguenti. L’acido vitriolico combinato con l’alcali vegetale fisso dà ciò che si chiama tartaro vitriolato, o più propriamente alcali vegetale vitriolato; con l’alcali fisso minerale dà il sale di Glauber, o più propriamente alcali volatile vitriolato. L’acido nitroso con l’alcali vegetale dà il nitro, o alcali vegetale nitrato; con l’alcali volatile dà il nitro infiammabile, o alcali volatile nitrato. L’acido marino con l’alcali vegetale dà il sale digestivo di Silvio, o più propriamente alcali vegetale salato; con l’alcali minerale dà il sale marino comune; con l’alcali volatile dà il sale ammoniaco, o alcali vegetale salato. L’acido acetoso, o acido dell’aceto, con l’alcali vegetale forma la terra foliata tartari, o alcali vegetale acetato; con l’alcali minerale forma l’alcali minerale acetato; con l’alcali volatile forma lo spiritus mindereri, o alcali volatile acetato. 185. Alla classe dei sali imperfetti appartiene il tartaro, 2. TORBERN BERGMAN

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che consiste in alcali vegetale combinato con una maggiore porzione di acido del tartaro rispetto a quella necessaria alla sua saturazione. Saturando l’acido con l’alcali si ottiene un sale perfettamente neutro, comunemente chiamato tartaro tartarizzato, tartaro solubile o più propriamente alcali vegetale tartarizzato. Il borace consiste in alcali minerale non perfettamente saturato con l’acido boracico. 186. I sali neutri composti si distinguono inoltre in doppi, che sono quelli più comuni; in triplici, i quali sono composti da tre elementi, come è il caso dal sale della Rochelle o di Seignette; in quadruplici ecc. ecc. 187. Si dicono sali medi quei sali dei quali solo uno degli elementi [che li compongono] è salino, mentre l’altro non è da solo solubile in acqua ma è reso tale dall’unione con l’elemento solubile. 188. Se la base è una terra (si veda § 192), il composto può essere chiamato sale terroso; se è un metallo, sale metallico (si veda § 239). Questi ultimi [i sali metallici] possono essere quasi tutti riconosciuti per mezzo dell’alcali flogisticato, il quale precipita i metalli disciolti negli acidi sotto un particolare colore. 189. Ciascuno di questi generi si distingue a sua volta in duplici, triplici e così via. 190. I sali metallici espongono tuttavia un’altra peculiarità, che deriva dalla natura del menstruum: alcuni metalli sono infatti solubili tanto nell’alcali che nell’acido. 191. Nelle nostre ricerche sulla natura chimica dei corpi bisogna iniziare dai sali, altrimenti sarebbe come costruire un edificio senza le fondamenta. I sali sono presenti in ogni parte dell’economia della natura e sono poche, o forse nessuna, le operazioni che possono realizzarsi senza di essi. Al tempo stesso però, le forme in cui rispettivamente si manifestano sono spesso molto diverse. Alcuni sali possono trovarsi già in forma secca, altri non possono essere portati a tale stato senza tornare quasi immediatamente liquidi per via dell’umidità dell’aria: questi ultimi sono detti sali deliquescenti. Altri sono suscettibili di cristallizzazione, ma di questi se ne danno alcuni i quali 112

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all’aria asciutta perdono una parte dell’acqua presa con la cristallizzazione e diventano opachi e farinosi. Alcuni richiedono poca acqua per essere disciolti, altri molta ecc.

Delle terre 192. Terra è il nome che si dà a quella specie di materia solida che rimane inalterata in un fuoco incandescente senza sciogliersi né volatizzarsi, benché si riduca in una polvere sottilissima; essa è inoltre solubile, all’interno di recipienti aperti, in una quantità d’acqua mille volte più grande del proprio peso. 193. In molti casi le terre si manifestano di natura salina, tanto da risultare solubili per mezzo della macchina di Papin;7 lo stesso effetto si rileva nel quarzo. Nello stato in cui si trovano nel suolo sono sempre combinate con un acido, con il quale formano, in base alla loro natura, un dato sale terroso (si veda § 188). Per evitare confusione sarà comunque opportuno disporle sotto una classe diversa da quella dei sali terrosi, facendo riferimento alla distinzione sopra enunciata (si veda § 192). 194. Le terre si distinguono in semplici o primitive e in composte o derivate; quest’ultime sono quelle terre formate da due o più terre semplici. 195. Di terre semplici se ne conoscono con certezza solo cinque: terra ponderosa; terra calcarea o calce; magnesia; terra argillosa o gesso; siliceo o terra cristallina. Tutte queste terre possono essere facilmente distinte l’una dall’altra sulla base dei fenomeni che si verificano qualora le si combini con l’acido vitriolico. 196. Nessuno è finora mai riuscito a decomporre queste cinque terre, né a farle trasmutare l’una nell’altra. 197. La terra ponderosa unita all’acido vitriolico forma uno spato ponderoso, il quale non è solubile in una quantità di acqua bollente pari a mille volte il suo peso. 7  Pentola a pressione.

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198. Per quanto ne sappiamo, questo tipo di terra si trova molto raramente. Sotto molti riguardi assomiglia alla terra calcarea, ad esempio quando si unisce all’acido aereo, o quando produce delle effervescenze al contatto con altri acidi; inoltre, come la terra calcarea, essa perde la sua parte di acido aereo mediante l’esposizione al fuoco e diviene solubile in acqua, dalla quale però si separa a contatto con l’aria aperta, alla maniera del cremor calcis; infine, quando calcinata, rende caustici gli alcali, si combina con lo zolfo ecc. 199. Sotto altri aspetti, comunque, la terra ponderosa si mostra assai diversa dalla terra calcarea: unita agli acidi nitroso e marino forma dei sali, i quali sono suscettibili di cristallizzazione e richiedono una grande proporzione di acqua per essere disciolti. Al tempo stesso i composti che forma con l’acido acetoso sono deliquescenti: in entrambi i casi, i fenomeni esibiti dalla terra calcarea unita con il medesimo acido sono completamente diversi. In aggiunta, l’attrazione che la terra ponderosa ha per l’acido vitriolico è tanto forte da separare quest’ultimo dall’alcali vegetale, cosa che non si verifica con la terra calcarea, per non parlare poi di tante altre circostanze. 200. La terra calcarea, combinata con l’acido vitriolico fino al punto di saturazione, forma il gesso, che è solubile in una quantità di acqua bollente pari a cinquecento volte il suo peso. Il gesso è noto per la sua proprietà di formare, dopo una leggera cottura, una dura massa insieme all’acqua. 201. La terra calcarea si trova in grande abbondanza ma è spesso saturata con l’acido aereo, il quale produce il fenomeno dell’effervescenza quando vi si versa un acido più forte. Questa terra si trova disciolta nella maggior parte delle acque, per mezzo di una porzione eccessiva di acido aereo. Sottoponendola a combustione la terra perde tale acido, oltre che una porzione d’acqua con cui era combinata, ed entra in combinazione chimica con una data quantità di materia del calore, prendendo allora il nome di calce viva: prodotto assolutamente necessario per la muratura. Siccome questa terra ha una maggiore attrazione per l’acqua che per la materia del calore, quando la calce 114

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viva entra in contatto con la prima abbandona la seconda; in questo modo si produce una grande quantità di calore sensibile, il quale converte una parte dell’acqua assorbita in vapore. Da ciò segue che qualora la terra calcarea si trovi in forma di pietra, la si vedrà ridursi in una polvere sottile. 202. La magnesia saturata con l’acido vitriolico forma un sale amaro, noto sotto i nomi di sale d’Inghilterra, di Epsom, di Seydschitz o di Seidlitz. Benché questi sali conosciuti sotto nomi diversi differiscano tra loro in ragione di alcune sostanze eterogenee in essi combinate, la magnesia vitriolata è il loro ingrediente caratteristico e principale. 203. La magnesia raramente può essere trovata da sola; esistono però vari tipi di pietre di cui costituisce una parte. È spesso contenuta in acque fresche, per mezzo di una quantità di acido aereo in esso disciolto; [è inoltre presente] in grandi quantità nelle acque marine, dove si trova unita con l’acido marino. Quando saturata con dell’acido aereo, produce delle effervescenze al contatto con un acido più forte. Sottoposta al fuoco perde facilmente l’acido aereo, ma non diviene solubile in acqua, come invece fa la terra calcarea. Le si può far disciogliere lo zolfo, ma con difficoltà e in piccole dosi. 204. L’argilla pura disciolta con una leggerissima sovrabbondanza di acido vitriolico forma l’allume. 205. Questa terra si trova in grandi quantità in natura, ma è spesso mescolata con una porzione più o meno grande di materie eterogenee, in particolare sabbia o terra silicea. La tenacità che mostra quando mescolata in giuste proporzioni a queste ultime due sostanze, unita alla sua proprietà di indurirsi con la combustione, la rende adatta a farne dei mattoni, tegole e molti altri oggetti. 206. I quattro tipi di terre sopra descritti possono anche essere chiamati assorbenti, in quanto assorbono tutti una quantità di acido aereo, producendo un’effervescenza all’applicarvi di un acido più forte; tale effervescenza è comunque meno abbondante nel caso dell’argilla. 2. TORBERN BERGMAN

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207. La terra silicea non viene disciolta dall’acido vitriolico, ma dall’acido spatoso. 208. Questa terra si trova ovunque in grandi quantità: nei cristalli delle rocce e nel quarzo trasparente è perfettamente pura. Si fonde molto velocemente con gli alcali per via secca e, con questa unione, forma quella materia utilissima per le manifatture che chiamiamo vetro. Che l’acido spatico sia una parte costituente della terra silicea è indubbio; quale sia la sua base non è tuttavia del tutto noto. Sembra, comunque, che sia la sesta parte dell’acqua, visto che unendo quest’ultima all’acido menzionato si può produrre la terra in questione per via artificiale, anche in forma cristallina. 209. Di due o più di queste cinque specie di terre semplici si trovano composte quasi tutte le pietre a eccezione del diamante, il quale a fuoco aperto evapora, o meglio brucia, poiché scompare con una piccola fiamma, lasciando qualche segno di fuliggine. Questa pietra, che è la più dura e rara delle sostanze conosciute, presenta la maggiore resistenza a tutti i solventi e contiene un tipo particolare di terra che può essere detta terra nobile, la cui natura deve ancora essere chiarita attraverso diligenti ed esatti esperimenti. Piuttosto diversa è la natura del rubino, dello zaffiro, del topazio e dello smeraldo: ognuno di essi è composto di argilla, terra silicea e terra calcarea, della quali la prima è la più abbondante, mentre l’ultima è presente in piccolissime quantità. I diversi colori di queste pietre, ovvero rosso, blu, giallo e verde, derivano tutti dal ferro, che deve probabilmente questa varietà ai cambiamenti in esso provocati da differenti proporzioni di flogisto.

Delle sostanze infiammabili 210. A questa classe appartengono tutti i corpi che, bruciandosi, si consumano. 211. Il fondamento della proprietà dell’infiammabilità risiede precisamente in una materia molto sottile, che gli anti116

Alchimia e chimica nel Settecento

chi chiamavano flogisto: essa è talmente sottile che se non si trovasse in combinazione con altre sostanze sarebbe del tutto impercettibile ai nostri sensi. È comunque possibile far passare questa materia da un corpo all’altro, in base alle leggi dell’attrazione elettiva, ed è dai cambiamenti che per tal via ci offre, e solo per questi, che ne conosciamo la natura. Il flogisto è probabilmente presente in più o meno in tutti i corpi; tuttavia rende infiammabili solo quelli in cui si trova in abbondanza e con i quali, al tempo stesso, non è unito così fortemente da non poter esserne espulso e liberato nell’aria in date circostanze. 212. Il flogisto unito all’acido vitriolico fino al punto di saturazione forma ciò che è comunemente detto zolfo. 213. Se lo zolfo viene disciolto in un alcali, il composto [che ne deriva] è detto fegato di zolfo o hepar sulphuris. Questa sostanza ha l’odore delle uova avariate, soprattutto quando vi si aggiunge un acido; in tal caso lo zolfo precipita. Il fegato di zolfo si scioglie nell’acqua e nello spirito di vino. 214. Le soluzioni dello zolfo in diversi tipi di olio sono dette balsami di zolfo; hanno un odore sgradevole e si presentano più o meno densi o spessi in base alla proporzione di zolfo in essi disciolto. 215. Il fosforo è anch’esso una specie di zolfo, ma si consuma da sé all’aria libera tanto lentamente e delicatamente che le lettere scritte con esso continuano a far luce nell’oscurità per molto tempo. Esso è composto da flogisto e un particolare tipo di acido il quale, prendendo il nome dal composto in questione, viene chiamato acido fosforico. Questa specie di zolfo deve essere conservata in acqua, poiché all’aria aperta si consuma in fretta. 216. Di tutti gli altri acidi non ve n’è alcuno che sia stato possibile combinare al flogisto in modo tale da formare dello zolfo solido. 217. Piroforo è il nome dato a una polvere composta di allume e di una piccola quantità di flogisto; essa comincia a bruciare non appena viene esposta all’aria. Questo fenomeno dipende probabilmente da qualche principio epatico, prodotto 2. TORBERN BERGMAN

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durante la preparazione della polvere. 218. Fosforo di Bologna è il nome dato allo spato ponderoso o spathum ponderosum (si veda § 197), che è stato infuocato sopra i carboni ardenti e ha così ricevuto la facoltà di attrarre una data quantità di luce, la quale viene poi trasmessa nell’oscurità. 219. Il fosforo di Balduino possiede la stessa proprietà, ma è preparato con del gesso disciolto nell’acido nitroso, poi asciugato sul fuoco e spinto sino ad un certo grado di incandescenza. 220. Lo spato fluoro, o fluor spathosus, quando scaldato, produce una bella luce fosforica, che si rileva anche in altre sostanze, benché in maniera più debole. Lo zucchero, il minerale detto pseudogalena ecc. fanno luce se sfregati nell’oscurità. 221. Olio è il nome dato a certi liquidi untuosi, i quali non si mescolano con l’acqua, sono suscettibili di combustione, liberano una grande quantità di fiamme e di fumo bruciando e lasciando dietro di sé del carbone dopo la combustione. 222. Gli elementi che compongono [gli oli] sono flogisto, acido aereo e acqua. 223. [Gli oli] si distinguono in due specie, ossia grassi e essenziali. 224. Grassi sono gli oli privi di odore e di sapore, non solubili nello spirito di vino né volatili nel calore dell’acqua bollente. 225. Se questi oli vengono distillati con un grande calore, acquisiscono un odore e un sapore di bruciato e divengono solubili nello spirito di vino: in questo stato sono detti empireumatici, o talvolta oli filosofici. 226. Il sego, il burro e altri grassi animali sono simili agli oli grassi sotto diversi riguardi. 227. Gli oli essenziali hanno un sapore e un odore forti e quest’ultimo è per lo più gradevole. Sono solubili nello spirito di vino e volatili nel calore dell’acqua bollente. 228. Il principio a cui gli oli essenziali devono il loro odore è un sottilissimo fluido oleaginoso, detto spiritus rector; esso evapora con il tempo e, in proporzione a questa evaporazione, gli oli perdono il loro odore e divengono più viscidi e pesanti. 118

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229. L’olio animale di Dippel non deve essere confuso con i comuni oli animali menzionati in § 226: questo è ottenuto dalle sostanze gelatinose degli animali per mezzo della distillazione. Inizialmente presenta un colore marrone scuro, una tenace consistenza e un odore empireumatico; per mezzo di ripetute rettificazioni può tuttavia essere portato a un grado di limpidezza tale da assomigliare all’etere (si veda § 231), salvo poi tornare marrone quando entra in contatto con l’aria. 230. Gli oli si infiammano a seguito dell’applicazione di acido nitroso: è questa una piacevole e singolare esperienza da produrre mediante l’unione di due fluidi freddi. 231. Etere è il nome dato a un olio sottile, il quale si combina con una quantità di acqua pari a dieci volte il suo peso, ha un odore piacevole e rinfrescante e brucia fortemente, dando alcuni segni di fuliggine ma senza lasciare alcuna traccia di carbone. La sua volatilità è così grande da trasformare l’acqua in ghiaccio in una stanza calda [mentre evapora], poiché ogni evaporazione produce freddo in proporzione alla velocità con la quale si effettua. L’etere sottrae l’oro dalla soluzione dell’acqua regia e ha inoltre la proprietà di disciogliere la resina elastica. 232. Il liquore anodino di Hoffmann è una soluzione di etere nello spirito di vino. 233. Lo spirito di vino è un fluido infiammabile che si combina con l’acqua in qualsiasi proporzione, brucia senza produrre fuliggine e senza lasciare carbone. 234. Esso consiste in flogisto e acqua i quali, probabilmente, sono tenuti insieme grazie all’intervento di un acido; quando privato di tutta l’acqua superflua viene chiamato alcool. 235. Dei corpi capaci di deflagrare con grande violenza e frastuono, esistono diverse preparazioni: le tre che seguono sono le più importanti. 236. La polvere da sparo è un composto fatto di nitro, zolfo e carbone in date proporzioni: il primo di questi ingredienti vi si trova in maggiore quantità, comunemente costituisce 3/4 del totale. Il carbone e lo zolfo non servono che a far bruciare il nitro più velocemente, poiché è il nitro da solo, propriamente parlan2. TORBERN BERGMAN

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do, che produce l’esplosione. Questo sale brucia con grande violenza qualora tocca un corpo infiammabile in stato di ignizione. 237. La polvere fulminante, o pulvis fulminans, è un miscuglio di tre parti di nitro, due di alcali del tartaro ed una di fiori dello zolfo. Essa esplode con gran fracasso quando fusa in un cucchiaio di ferro posto sopra al fuoco. Pare che questo effetto dipenda dalla detonazione del fegato di zolfo generato durante la fusione, poiché il nitro unito con metà del suo peso di fegato di zolfo produce lo stesso rumore. 238. L’oro fulminante, o aurum fulminans, consiste di oro disciolto in acqua regia e precipitato con l’alcali volatile. Questo precipitato, quando edulcorato, asciugato poi scaldato con un dato grado di calore, produce uno strepito prodigioso. Può essere preparato anche in modo tale da esplodere, semplicemente scuotendolo in un piccolo pezzo di carta.

Dei metalli 239. I metalli sono corpi opachi e splendenti, i quali si presentano più pesanti di tutti gli altri: i più leggeri pesano sei volte più dell’acqua, mentre alcuni arrivano fino a quasi venti volte il peso di quest’ultima. 240. I metalli ad oggi noti sono quindici, ossia l’oro, il cui peso specifico è all’acqua, come 19 1/4 a 1; il platino, come 18; l’argento vivo, come 14; il piombo, come 11; il bismuto, come 9 4/10; il rame, come 8 8/10; il nickel, come 8 5/10; l’arsenico, come 8/10; il ferro, come 8; il cobalto, come 7 7/10; lo stagno come 7 1/10; l’antimonio, come 6 7/10; la manganese, il cui peso specifico non è ancora stato determinato con certezza.8 241. I metalli sono composti formati da flogisto e ciascuno dalla rispettiva terra. Queste diverse terre metalliche si dicono calci del rispettivo metallo e non hanno alcuna somiglianza con le terre descritte precedentemente (si veda §§ 192-209). 8  Nota all’ed. inglese: Secondo le ultime scoperte del Sig. Bergman è circa 6 8/30.

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242. Quei metalli in cui il flogisto e la calce si attraggono con tanta forza da non essere separati dall’azione del fuoco sono detti metalli nobili. Essi possono essere calcinati per via umida; tuttavia, quando vi si applica un certo grado di fuoco, tornano da sé, senza bisogno di alcuna aggiunta, alla loro forma metallica. 243. A questo gruppo appartengono l’oro, il platino e l’argento. 244. Vili o basici sono invece quei metalli che, sottoposti al fuoco, perdono la loro forma metallica e mutano in una polvere simile alla terra; quest’ultima non riassume, mediante il fuoco, la sua forma metallica senza il contatto con un corpo infiammabile. 245. A questo gruppo appartengono quindi tutti gli altri metalli fuorché l’argento vivo, che è per così dire di una natura intermedia tra i metalli nobili e metalli vili: da un lato, come questi ultimi, può essere calcinato per mezzo del fuoco, mentre dall’altro può, come i primi, recuperare la propria forma metallica senza alcuna aggiunta. 246. Alcuni metalli sono malleabili ed è a questi solo che, propriamente parlando, spetta il nome di metalli. L’oro può essere esteso fino a un grado sorprendente, tanto che 651,590 pollici cubi di superficie possono essere coperti da un solo pollice cubo d’oro. Il piombo è il meno malleabile. Il platino, l’argento, il rame e il ferro lo sono in misura intermedia. 247. L’argento vivo è un metallo tanto quanto gli altri, poiché quando è ridotto a solido per via del gelo diviene malleabile quanto il piombo. 248. Semi-metalli è il nome dato a tutte le sostanze metalliche che si rompono sotto l’azione del martello. Lo zinco è il più malleabile tra loro e non si lascia polverizzare tanto velocemente quanto gli altri, ossia bismuto, nickel, arsenico, cobalto, antimonio e manganese. 249. Il bismuto, l’antimonio e l’arsenico mostrano una struttura a sfoglia; gli altri appaiono invece più o meno di una grana meno fina. 2. TORBERN BERGMAN

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250. Il colore dei metalli è vario. L’oro è giallo; il rame è di un giallo rossastro; il nickel e il bismuto tendono al rosso biancastro; il platino, l’argento, l’argento vivo, lo stagno e l’antimonio sono bianchi; il piombo, lo zinco, il ferro, il cobalto, l’arsenico e il manganese vanno verso il blu o il verde. 251. I metalli richiedono gradi molto diversi di calore per fondersi. L’argento vivo ne richiede così poco che raramente il calore dell’atmosfera non basta a tenerlo in stato di fusione. Gli altri presentano gradi di fusibilità secondo l’ordine seguente: stagno, bismuto, piombo, zinco, arsenico, antimonio, argento, oro, cobalto, nickel, rame, ferro, manganese e platino. Quest’ultimo, senza una previa preparazione, può essere portato a fusione solo per tramite di uno specchio ustorio. 252. È un fatto notevole che alcuni composti di diversi metalli diventino più fusibili di quanto non siano i diversi metalli che li compongono: piombo, stagno e bismuto, combinati in certe proporzioni, sono fusibili al semplice calore dell’acqua bollente. 253. Sei sostanze metalliche sono suscettibili di essere volatilizzate tramite l’azione del fuoco: argento vivo, arsenico, zinco, antimonio, piombo e rame. 254. Lo zinco e l’arsenico sono infiammabili e il primo arde con una bellissima fiamma verde. Il rame e l’oro mostrano anch’essi uno splendore verdastro. 255. Tutte le sostanze metalliche sono capaci di combinarsi con lo zolfo, eccetto lo zinco e l’oro; quest’ultimi non possono unirsi a tale sostanza se non tramite l’aggiunta di un terzo ingrediente, il quale deve avere un’attrazione con entrambi gli elementi che si vogliono combinare. 256. Una sostanza metallica si dice essere stata mineralizzata quando, combinandosi con lo zolfo, perde la sua forma metallica. 257. Le calci metalliche possono essere vetrificate e in tal stato danno diversi colori che sono usati negli smalti. 258. L’arsenico bianco è la calce del semimetallo così detto, il quale si discioglie in acqua. Può anche essere interamente 122

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privato di flogisto e allora diviene null’altro che un acido particolare. Questo ci dà motivo di sospettare che altre calci metalliche siano tutte ugualmente acidi particolari, che continuano a contenere la quantità di flogisto che è necessaria per coagularli e renderli in forma solida. Tramite la riflessione e la perseveranza, forse, potremo un giorno riuscire a superare quella attrazione che ci ha finora impedito di separare gli acidi dalle altre calci metalliche. 259. Quando alle calci metalliche si fa perdere una grande porzione di flogisto, esse divengono insolubili agli acidi, o perlomeno non si disciolgono se non con parecchia difficoltà. Tanto meno possono sciogliersi le sostanze metalliche quanto più fortemente queste ritengono la loro intera quantità di flogisto. Perché la soluzione abbia luogo, è necessario che il metallo ne possieda una certa quantità; una dose maggiore o minore impedisce ugualmente questo effetto. Un esempio importante è quello della manganese che, quando è nella sua forma metallica, deve sempre abbandonare una parte del suo flogisto per essere disciolto; quando invece è nella forma di una calce bianca non ha alcun bisogno di questa perdita; infine, quando è calcinato fino a diventare nero, non è in alcun modo attaccato dagli acidi, a meno che non le sia restituito una data quantità di flogisto. 259. La scienza che fornisce chiari ed evidenti caratteri alla luce dei quali distinguere diverse specie di sali, terre, corpi infiammabile e sostanze metalliche è detta mineralogia.

Dell’acqua 261. L’acqua è una sostanza che esiste dappertutto, tanto che la metà della superficie terrestre ne è ricoperta. 262. Possiamo difficilmente farci un’idea generale di un corpo fluido costituito da particelle infinitamente sottili e solide che, per via della loro sottigliezza e della debolezza della loro forza attrattiva, si muovono così facilmente le une sulle altre da tendere, nell’insieme, a formare e mantenere costantemente 2. TORBERN BERGMAN

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una superficie orizzontale. Qualcosa di simile si osserva nella sabbia, la quale in certi luoghi è tanto sottile da permettere che un uomo vi sprofondi. Se poi gli interstizi di un tale fluido sono riempiti con un altro più sottile, le particelle acquisiscono un grado di mobilità ancora maggiore: questo è precisamente il caso dell’acqua. 263. Il calore è quel principio che aumenta la fluidità, non solo dell’acqua ma di qualsiasi altra sostanza. In base alla quantità con cui è presente nell’acqua, quest’ultima ci appare sotto tre diverse forme. 264. Se la quantità di calore nell’acqua è talmente piccola da non far salire il mercurio del termometro di Celsius sopra il grado segnato come 0, le particelle dell’acqua perdono la loro mobilità, ossia la loro facoltà di strisciare le une sulle altre; si uniscono [allora] con maggior forza e formano una massa solida, chiara ed elastica, più leggera dell’acqua stessa, nota sotto il nome di ghiaccio. 265. Che le particelle in tale occasione tendano a cristallizzarsi o a disporsi in un certo ordine è evidente. Questa è inoltre una delle principali ragioni per cui la massa del liquido si estende e occupa uno spazio più grande. 266. Nel momento in cui il ghiaccio si liquefà si nota che contiene tanto calore sensibile quanto ne indica il termometro di Celsius, quando il mercurio è [al grado] 72. Questa quantità di calore costituisce il minimo necessario perché tale sostanza torni allo stato fluido; ogni ulteriore aggiunta ne aumenta proporzionalmente la fluidità. 267. Allo stato fluido l’acqua è suscettibile di compressione, benché in minimo grado. 268. Le particelle acquose, quando ricevono una porzione sovrabbondante di calore sensibile, superiore a quello necessario per portarle allo stato liquido, si convertono in vapori elastici. Questo cambiamento avviene a temperature molto alte, ossia quando la massa arriva al calore dell’acqua bollente. A tal grado di calore, una data quantità di acqua si espande fino a occupare quattordicimila volte lo spazio ricoperto in precedenza, 124

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aumentando proporzionalmente i propri punti di contatto con la materia del calore, la quale diviene quindi capace di unirvisi in misura ancora più grande. Questa sembra essere la ragione per cui si produce quel raffreddamento che si rileva sempre nelle evaporazioni. L’unione della materia del calore e dell’acqua viene comunque nuovamente distrutta con la refrigerazione. 269. Dato che a ogni grado superiore allo 0 si generano continuamente dei vapori, le particelle non hanno bisogno di grandi quantità di calore per assumere una forma elastica. Questa elasticità è però minore quanto minore è la quantità del calore che vi si combina. 270. Se ci si chiede quale di queste forme (si veda §§ 264269) sia la più naturale all’acqua, la risposta sarà che lo sono tutte. Qual è invece la forma in cui l’acqua si trova più pura e libera da corpi estranei? Indubbiamente il ghiaccio. 271. Se le particelle primarie elementari dell’acqua siano tra loro omogenee o eterogenee, è difficile da decidere con certezza. Ciò nonostante quest’ultima opinione non sembra essere incoerente con il piano seguito dalla natura in rispetto ad altre sostanze. 272. Che queste particelle, nel comune corso della natura, possano essere modificate a tal punto da perdere il loro stato ordinario sul piano della facoltà attrattiva e apparire in forma di terra, non parrebbe di per sé incredibile. È tuttavia sufficientemente evidente che gli esperimenti finora citati a sostegno di questa supposizione non provano in alcun modo questa possibilità. 273. La forza dissolvente dell’acqua è una delle ragioni per cui essa si trova sempre più o meno carica di particelle eterogenee; alcune di queste, per via della loro sottigliezza, vi restano sospese, mentre altre vi vengono forse veramente disciolte. 274. Per via meccanica l’acqua può essere mescolata con qualsiasi altra sostanza solida, quando quest’ultima è ridotta a un certo grado di sottigliezza. Queste sostanze possono rimanere sospese in essa, qualora l’attrito che devono vincere per depositarsi sul fondo sia maggiore del sovrappiù del loro peso 2. TORBERN BERGMAN

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specifico rispetto all’acqua. 275. Da un punto di vista generale, le sostanze che l’acqua può contenere in soluzione possono essere distinte in volatili e fisse. 276. Alla prima classe appartengono l’aria pura (si veda § 283), l’acido aereo (si veda § 337) e l’aria epatica (si veda § 308). 277. Alla seconda classe appartengono diversi tipi di sostanze solubili e per lo più composte, quali i sali neutri e i sali medi: ad esempio l’alcali vegetale vitriolato o, più comunemente, l’alcali minerale vitriolato. Allo stesso modo vi si trovano i vari composti dell’acido vitriolico con la terra calcarea, la magnesia e talvolta l’argilla, il ferro, il rame e lo zinco; i composti dell’acido nitroso con l’alcali vegetale; talvolta quelli della terra calcarea con la magnesia; raramente quelli dell’acido marino con l’alcali vegetale; spesso quelli di questo stesso acido con l’alcali minerale, la terra calcarea e la magnesia; [infine] quelli dell’acido aereo con l’alcali minerale, la terra calcarea, la magnesia e il ferro.

Dell’aria 278. Il fluido invisible che circonda il nostro globo è comunemente chiamato aria, o più precisamente atmosfera. Tale fluido è un miscuglio di diverse sostanze, che tra loro si somigliano nell’essere sottili, elastiche, trasparenti e, sul piano del peso specifico, quasi ottocento volte più leggere dell’acqua; queste sostanze si differenziano tuttavia moltissimo sotto altri riguardi. 279. Recentemente si è iniziato a includere, sotto il nome di arie, tutte quelle diverse sostanze le quali, essendo di natura trasparente, elastica, omogenea, sottile, leggera e fluida, non perdono la loro forma aerea nel più grande freddo a cui le si possa esporre. Quando la natura di tali sostanze sarà pienamente nota, le si potrà senza dubbio collocare nelle divisioni prima menzionate (si veda § 161), come è già stato fatto per la maggior parte di esse (si veda §§ 308-342). Nel frattempo 126

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sarà opportuno chiamarle con il loro nome attuale, il quale ha il vantaggio di mostrarcele tutte a partire da un unico punto di vista. 280. Vapore è il nome che può essere dato a tutti quei fluidi elastici che, al freddo, perdono la loro forma area, per poi riassumere di nuovo quella liquida, che gli era propria prima che il calore gli conferisse un grado straordinario di sottigliezza ed elasticità. Con il raffreddamento i vapori dell’acqua si decompongono in gocce, le quali consistono anch’esse d’acqua. Lo stesso accade ai vapori di molte altre sostanze. 281. Esistono moltissimi tipi di vapori diversi. Tutti i corpi che si trovano naturalmente liquidi nel calore dell’atmosfera possono essere portati a tale stato per mezzo di un calore maggiore; anche i solidi possono subire questo cambiamento, sebbene non per la totalità della loro massa ma solo rispetto ad alcune parti. In base alla natura del suolo, del clima, delle situazioni e a una varietà di altre circostanze, l’atmosfera deve quindi divenire una specie di luogo d’incontro per una moltitudine di vapori differenti. Tali vapori danno origine non solo alla nebbia, alla pioggia, alla grandine e alla neve ma anche, secondo le loro diverse qualità e misture, a vari tipi di luce, esplosioni e lampi, i quali possono essere compresi sotto il nome generico di meteore. 282. Lasciando da parte i vapori, che cambiano continuamente sia in qualità che in quantità, l’atmosfera (per quanto ne sappiamo) contiene ovunque e in ogni momento tre diversi tipi di fluido aereo, ossia l’aria pura o deflogisticata, l’aria flogisticata e l’acido aereo. Il miscuglio composto da queste tre sostanze può essere chiamato aria comune. 283. In prossimità della superficie della Terra l’aria pura costituisce non più di 1/4, o al massimo 1/3, del volume di una data quantità d’aria; essa è inoltre l’elemento più importante per tutto ciò che respira. 284. È questa la sola aria adatta a essere respirata dagli animali; essa è inoltre necessaria al fuoco, che in sua mancanza cessa immediatamente. 2. TORBERN BERGMAN

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285. L’aria pura possiede queste proprietà, ossia il servire alla respirazione e alla combustione, per otto volte di più rispetto all’aria comune (si veda §§ 226-228). 286. La natura dell’aria pura, per quanto riguarda la sua origine, non è ancora ben conosciuta. La sua forte propensione ad attrarre il flogisto dà motivo di supporla di natura acida; tuttavia non provoca alcun cambiamento nel colore di una tintura di tornasole. Ad ogni modo, l’aria pura contiene dell’acido aereo, il quale può esserne separato mediante l’elettricità o per mezzo di sostanze che le diano del flogisto. 287. Oltre alla parte di acido aereo che entra nella composizione dell’aria pura, l’atmosfera ne contiene una piccola parte allo stato libero e non combinato; questa parte, tuttavia, solo di rado costituisce più di 1/16 dell’intera massa di aria comune. 288. Questa piccola porzione di acido aereo può essere facilmente separata dal resto dell’aria, facendola semplicemente passare attraverso un liquido formato da alcali caustico o acqua di calce. È inoltre a causa di questo acido che tale liquido, se esposto all’aria aperta, perde gradualmente la sua causticità fino a cristallizzarsi, mentre l’acqua di calce forma una pellicola terrosa sulla superficie. 289. L’acido aereo non è adatto alla respirazione, tanto che uccide gli animali istantaneamente, mettendo al tempo stesso fine a ogni irritabilità, compresa quella del cuore. È in aggiunta capace di estinguere il fuoco in un istante. L’acqua lo assorbe con una tale facilità da poterne ricevere in quantità uguale alla propria massa, divenendo così acida [anch’essa]. 290. La terza e ultima componente dell’aria comune, la cui proporzione è maggiore delle prime due messe insieme, è anch’essa inadatta alla respirazione e alla combustione, ma non viene assorbita dall’acqua. 291. La vera natura e la composizione di questa parte dell’aria sono ancora da determinare. Tuttavia, poiché l’aria pura diviene incapace di mantenere la respirazione e la combustione dopo essere stata respirata e sfruttata per bruciare delle sostanze, processi in cui si sviluppano grandi quantità di flogi128

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sto, si può con ragione considerarla come flogisticata. Se le cose stanno realmente così, chi ha abitato il globo subito dopo la sua creazione deve aver respirato un’aria molto più pura di quella che abbiamo noi oggi a disposizione, la quale è stata alterata per diverse centinaia di anni da animali, fuochi, putrefazioni ecc. Non potrebbe forse essere questa la causa della longevità dei primi abitanti del nostro globo? 292. Qualora fosse vero che la quantità di aria pura è oggetto di una diminuzione continua, verrebbe subito da pensare che, con il passare del tempo, tutti gli animali finirebbero soffocati e tutti i fuochi sarebbero spenti. Ma la natura ha probabilmente preparato dei rimedi per purificare e ricostituire, almeno in parte, l’aria corrotta. È stato supposto che una delle vie stabilite per ottenere tale effetto sia l’agitazione dell’acqua, processo realizzato in larga misura dal continuo movimento del mare; un’altra potrebbe essere la vegetazione, per cui le piante, crescendo, separerebbero e assorbirebbero la materia alterata. Questa importante questione sarà chiarita, si spera, da ulteriori e più accurati esperimenti. 293. Benché l’aria pura, combinata con una certa dose di flogisto, sembri costituire lo stesso tipo di sostanza nociva che risulta dalla respirazione e che è nota come aria flogisticata, vi sono ragioni per credere che la materia del calore (quella sostanza che è indispensabile a ogni essere vivente), sia ugualmente prodotta dall’unione dell’aria pura con una data proporzione di flogisto. Che gli stessi elementi, combinati in maniera diversa, possano produrre corpi differenti, è già stato provato a sufficienza in varie circostanze. 294. È stato inoltre dimostrato da una moltitudine di esperimenti che il calore non consiste solamente in un movimento interno, che ha luogo tra le particelle di diversi tipi di sostanze che sono suscettibili di produrlo o di assorbirlo. Esso è piuttosto una sostanza sui generis, un particolare tipo di fluido sottile, il quale penetra o pervade tutto, anche i corpi più densi; di conseguenza, in base alla sua quantità, produce negli animali quelle sensazioni che chiamiamo freddo, tepore e caldo. 2. TORBERN BERGMAN

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295. ll fuoco non è dunque altro che uno stato dei corpi infiammabili, in cui la parte più grande del flogisto, che entra nella loro composizione, viene strappato via per mezzo dell’aria pura, che [lo preleva] con forza e violenza dalle particelle con cui era prima combinato. Questo è quindi il modo in cui una grande quantità di calore, o ciò che noi chiamiamo fuoco, deve necessariamente prodursi (si veda § 293). Per quanto riguarda la fiamma, essa è generata dall’aria infiammabile (si veda § 298) che in queste occasioni si separa dai corpi infiammabili in grande quantità e prende fuoco molto rapidamente. 296. Quanto alla luce prodotta nelle stesse circostanze, sembra probabile, sulla base di molti esperimenti e osservazioni, che si tratti di una sostanza composta da calore e da un’eccessiva dose di flogisto. Chi considererà la varietà delle forme con cui l’acqua ci si mostra, dallo stato liquido a quello dei vapori, [e noterà] che ciò dipende esclusivamente dalla diversa quantità di calore in essa contenuta, difficilmente reputerà incredibile che una differente porzione di flogisto possa convertire il calore in luce, sebbene non siano ancora note le ragioni su cui si basa questa proposizione. 297. Il calore, essendo una sostanza, è soggetto come tutte le altre sostanze alle leggi dell’attrazione. Di conseguenza, quando è presente nei corpi in modo da formare una delle loro parti costituenti, ossia quando si trova in stato di combinazione con gli altri elementi che li compongono, cela interamente la sua capacità di produrre la sensazione del caldo, che rimane come sospesa; succede lo stesso con le proprietà di un acido combinato con un alcali. 298. Aria infiammabile è il nome dato a quel tipo di fluido elastico il quale, applicandovi un corpo acceso, prende fuoco immediatamente e produce una fiamma. Se si riempie una bottiglia di aria infiammabile pura, la si potrà accendere e far deflagrare più volte prima che l’aria sia consumata. 299. Questa aria può essere accesa non solo mediante una fiamma, che funziona sempre, ma anche con dei carboni ardenti, con un ferro infuocato, o ancora con delle scintille elettri130

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che, come quelle prodotte dalla collisione tra la felce e l’acciaio. Si possono quindi caricare delle piccole pistole con dell’aria infiammabile, a cui poi si dà fuoco con l’elettricità; in questo caso bisogna che le scintille siano più forti di quelle sufficienti ad accendere lo spirito di vino. 300. Mescolando l’aria comune con dell’aria infiammabile si produce una deflagrazione durante l’accensione ed entrambe si consumano con questa esplosione. 301. L’aria infiammabile mescolata con l’aria nitrosa (si veda § 321) deflagra con una fiamma verde, mentre con l’acido aereo non si mescola affatto. 302. Una scintilla elettrica, passando attraverso l’aria infiammabile, appare di un rosso violaceo. 303. L’aria infiammabile si ottiene da tutti e tre i regni della natura, spesso senza bisogno di altro processo rispetto alla semplice applicazione di calore. Tuttavia ogni regno produce un’aria infiammabile di odore diverso. È inoltre possibile ottenere dell’aria infiammabile da certi metalli per mezzo dell’azione dell’acido vitriolico e dell’acido marino. Il contatto di questa aria con l’argento ne imbrunisce la superficie. 304. L’aria infiammabile ottenuta dai corpi organici si distingue facilmente, sulla base di date circostanze, da quella estratta dai corpi non organici. Al fine di produrre la più forte esplosione, l’aria infiammabile ottenuta dei minerali richiede un miscuglio di non più di 2/3 del suo volume di aria comune e solamente la metà di aria pura. In quest’ultimo caso l’esplosione è tra 40 e 50 volte più rumorosa. L’aria infiammabile estratta dai corpi organici richiede invece un’aggiunta di aria pura di quantità tra le 10 e le 20 volte maggiore rispetto al suo volume, perché si verifichi la deflagrazione. Per quanto riguarda la fiamma, il primo tipo di aria ne produrrà una rossa, mentre il secondo una blu. 305. Smuovendo il fondo di paludi, stagni e fiumi, il cui suolo sottostante contiene sostanze in putrefazione, si solleverà tanta aria infiammabile da prendere fuoco sulla superficie dell’acqua se vi si applica un qualsiasi corpo in combustione. 2. TORBERN BERGMAN

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Sembra sia questa aria, quando mescolata al resto dell’atmosfera e accesa dall’elettricità delle nuvole, a occasionare i fenomeni noti sotto il nome di aurore boreali e stelle cadenti. 306. In questa aria crescono i vegetali, i quali però non ne aumentano l’infiammabilità. Gli animali vi muoiono e una candela accesa, qualora vi venga immersa, si spegne. 307. La natura e la costituzione di questa aria non sono oggi ancora note. Che in essa sia contenuto del flogisto è comunque fuori da ogni dubbio. Che essa contenga inoltre della materia del calore, si rileva dal calore sensibile che si libera al momento della deflagrazione. Tuttavia, poiché tale aria non può passare attraverso il vetro, come fanno invece il calore e la luce, è ragionevole supporre che vi sia contenuto anche qualche elemento, a meno che non si voglia attribuire la differenza in questione alle proporzioni e alla modalità di combinazione dei suoi componenti. Si dice anche che, per mezzo di una lunga agitazione nell’acqua, l’aria infiammabile possa essere resa atta alla respirazione e simile all’aria comune. 308. La composizione dell’aria epatica è leggermente meglio conosciuta: essa consiste di zolfo, che con l’aiuto del flogisto si unisce alla materia del calore. Che questi siano i suoi elementi costitutivi lo si può dimostrare per mezzo della sintesi come dell’analisi. È da notare che lo zolfo, in questo caso, è reso talmente sottile da prendere la forma di un fluido elastico e invisibile. Questa ha [inoltre] la proprietà di imbrunire l’argento. 309. Questo tipo di aria si ottiene non solo dall’epar sulphuris, applicandovi dell’acido, ma anche dallo zolfo, quando unito con della limatura di ferro, e da tutte le galenas. La natura genera questa aria in molti luoghi e in considerevoli quantità: la si trova ad esempio in diverse acque minerali, come quelle di Aix-la-Chapelle ecc. 310. A causa della sua scarsa attrazione per il flogisto, l’acido marino è il più adatto alla produzione dell’aria epatica. L’acido nitroso è invece il meno adeguato: la sua potente attrazione per il flogisto fa sì che quest’ultimo non possa rimanere in stato libero, rendendo impossibile la combinazione tra 132

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lo zolfo e la materia del calore [necessaria alla formazione di aria epatica]. Tale acido è persino capace di distruggere questa unione, quando già formata, motivo per cui offre un mezzo per separare lo zolfo dalle acque epatiche. 311. L’acqua distillata assorbe un po’ di più del suo volume di aria epatica e acquista, in tal modo, gli stessi spiacevoli odori e sapori di questo fluido elastico. 312. L’aria epatica spegne una candela quando questa vi viene immersa. Quando invece vi si aggiungono 2/3 di aria comune il miscuglio può prendere fuoco: in tal caso si osserva il depositarsi di una polvere sulfurea ed è possibile percepire un odore di acido vitriolico flogisticato. 313. Sono stati scoperti vari modi per produrre per portare dei sali semplici, come l’acido vitriolico, l’acido nitroso, l’acido marino, l’acido spatico, l’acido acetoso e l’alcali volatile, allo stato aereo: ciascuno di essi deve essere considerato separatamente. 314. L’acido vitriolico, anche quando puro, può essere ridotto in forma di vapore per mezzo dell’azione del fuoco; tuttavia, con il raffreddamento, tali vapori perdono la loro elasticità e tornano allo stato fluido. Ad ogni modo, aggiungendovi una qualsiasi sostanza in cui è contenuto del flogisto, si ottiene facilmente un’aria permanente, detta aria acida vitriolica. 315. Questo fluido elastico non deve essere fatto passare attraverso dell’acqua, con la quale si unisce immediatamente formando un acido vitriolico flogisticato. Conservato in recipienti pieni di mercurio mantiene invece la forma elastica, anche alle più fredde temperature. 316. Questo fluido aeriforme ha una forte attrazione per l’acqua e, di conseguenza, il ghiaccio che vi si immerge si liquefà istantaneamente; allo stesso modo converte la canfora in un olio liquido. 317. Quando si fa passare una scintilla elettrica attraverso un volume di questa aria vitriolica, le parti del vetro in cui è contenuta si coprono di una fuliggine nera, che diviene più densa quanto più spesso si ripete l’esperienza. 2. TORBERN BERGMAN

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318. Nell’aria vitriolica le candele si spengono e gli animali muoiono. 319. Questa aria vitriolica non è altro che dell’acido vitriolico privato della sua acqua in eccesso e unito non solo al flogisto, ma anche alla materia del calore. Non sono però stati ancora trovati dei mezzi per caricarla con del flogisto in modo tale da mascherarne interamente l’acidità. Queste proprietà sono peraltro molto deboli, come lo sono nell’acido nitroso e nell’acido marino allo stato aereo. 320. L’acido nitroso presenta una notevole avidità per il flogisto, con il quale forma vari composti, in base alle diverse proporzioni con cui i due ingredienti si combinano. Tra questi, tratteremo qui solo di quelli che appaiono sotto la forma di fluido elastico e che come tali si conservano anche al freddo. 321. Quando si applica dell’acido nitroso a un corpo che contiene del flogisto si produce, spesso senza bisogno del minimo calore esterno, un fluido elastico che può essere raccolto nell’acqua come nel mercurio e che ha comunemente il nome di aria nitrosa. 322. L’acqua assorbe una certa proporzione di questa aria e ne scompone gradualmente una parte, quando la si tiene a contatto per un lungo tempo. 323. In questo caso l’acido che entra nella composizione dell’aria nitrosa è così perfettamente saturato con il flogisto da non riuscire ad alterare il colore del tornasole. 324. Tanto gli animali quanto i vegetali muoiono se immersi in questa aria. Una candela, inoltre, vi si spegne; quando tuttavia [l’aria] contiene una quantità di flogisto superiore a quella necessaria alla saturazione dell’acido, la fiamma della candela cresce e diviene leggermente verdastra, per poi estinguersi. Questo eccesso di flogisto nell’aria nitrosa si produce lasciando quest’ultima a contatto con della limatura di ferro, oppure facendovi passare una scintilla elettrica. 325. Questa aria resiste alla putrefazione e in misura molto maggiore rispetto all’acido aereo. 326. Ma il più notevole dei fenomeni legati a questa aria 134

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è quello che si verifica quando è unita all’aria comune (si veda § 283): l’attrazione dell’aria per il flogisto è tanto forte da portarne via, in questo caso, anche alla stessa aria nitrosa, la quale così perde la forma aerea e torna a essere del comune acido nitroso. Durante l’unione tra queste due arie, una quantità di calore sensibile si diffonde nell’intera massa, si produce un colore marrone rossastro e la somma degli spazi occupati da entrambe si riduce molto. Una data misura di aria pura può persino assorbire dell’aria nitrosa per tre volte il proprio volume, prima che lo spazio che essa occupa aumenti di molto. 327. L’aria comune, contenendo una porzione di aria pura, indispensabile affinché essa mantenga la combustione e la respirazione, presenta delle somiglianze con l’aria nitrosa, seppur in misura minore (si veda § 326). In generale, l’aria comune non è suscettibile di assorbire più della metà del suo volume in aria nitrosa senza occupare evidentemente uno spazio molto più grande. 328. In nessuna delle arie inadatte alla respirazione si osserva la comparsa di un colore rosso o la diminuzione di volume, durante la loro unione con dell’aria nitrosa. Di conseguenza quest’ultima rappresenta un mezzo eccellente per valutare la purezza dell’aria atmosferica. L’aria atmosferica è infatti sempre tanto più pura quanto più grande è il cambiamento che manifesta mescolandosi con l’aria nitrosa: su questo fatto si fonda l’invenzione dei vari tipi di eudiometro (si veda § 51). 329. Quando si applica dell’acido vitriolico concentrato al sale comune si produce una specie di aria che, se raccolta mediante dell’argento vivo, rimane inalterata. Essa è immediatamente assorbita dall’acqua, alla quale si unisce nella forma del comune acido marino. Questa aria è generalmente detta aria acida marina e presenta chiaramente i segni dell’acidità. 330. Al pari dell’acido vitriolico, questa aria liquefà il ghiaccio e la canfora; fa inoltre spegnere una fiamma, la quale appare blu nel momento in cui si estingue. 331. La scintilla elettrica trasmessa attraverso questa aria ne diminuisce un po’ il volume; ciò nonostante la parte più 2. TORBERN BERGMAN

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grande viene assorbita dall’acqua. 332. Siccome né l’acido puro vitriolico né il nitroso posso essere portati alla forma di arie permanenti senza aggiungervi del flogisto e tale aggiunta non è necessaria nel caso dell’acido marino, si sarebbe tentati di credere che il flogisto sia una parte costituente dell’acido marino: fatto che è peraltro suggerito anche da altre osservazioni. 333. L’acido marino può essere privato del suo flogisto, sia tramite l’acido nitroso che tramite il manganese. In questo stato si presenta sotto la forma di un’aria di un marrone rossastro, senza alcuna acidità e senza alcuna particolare inclinazione a unirsi con l’acqua ecc. Si parla allora di acido marino deflogisticato. Aggiungendovi nuovamente del flogisto è possibile fargli recuperare tutte le proprietà del comune acido marino. 334. Dallo spato fosforico, per mezzo dell’acido vitriolico, si può espellere un’aria molto simile a quella ottenuta dall’acido vitriolico stesso; questa aria acida spatosa non è stata però ancora sufficientemente esaminata. 335. Dell’aceto fortemente concentrato produce, semplicemente bollendo, un’aria acida da raccogliere mediante mercurio, essendo immediatamente assorbita dall’acqua: essa è detta aria acetosa. 336. L’olio assorbe fino a dieci volte il proprio volume di questa aria. Esso diviene così più sottile e più chiaro, il che è esattamente l’opposto dell’effetto che vi producono gli acidi minerali, i quali danno all’olio un colore più scuro e una maggiore tenacità. 337. L’acido aereo somiglia sotto vari riguardi alle altre arie ottenute dagli acidi sopra menzionati (si veda §§ 314-336). D’altra parte però non è così velocemente assorbito dall’acqua e non precipita la calce dall’acqua di calce, per non parlare di molte altre proprietà per cui si distingue da tali acidi. Al tempo stesso, ragionando per analogia, sembra molto probabile che il flogisto sia una delle sue parti costituenti (si veda § 332). Benché questo fatto debba essere chiarito dagli esperimenti, sembra indubbio che si tratti di un acido sui generis come gli altri 136

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[fin qui nominati]. Il flogisto può esserne evidentemente separato e la loro unione può inoltre essere dimostrata sia tramite la sintesi che tramite l’analisi; ciò nonostante non è mai venuto in mente a nessuno di rifiutare all’acido marino uno spazio particolare tra i veri acidi. 338. Dall’alcali volatile caustico si può inoltre ottenere un tipo d’aria per mezzo del semplice calore. Questa aria alcalina deve essere raccolta mediante mercurio, poiché è assorbita dall’acqua e allora non sarebbe più distinguibile da una comune soluzione alcalina. 339. Quando si applica questa aria alcalina a una qualsiasi aria acida, il composto diviene visibile nella forma di una nuvola che si deposita in forma di cristalli salini, i quali hanno la natura dei sali ammoniacali in base alle diverse specie di arie acide utilizzate. L’aria nitrosa e l’aria infiammabile danno piccoli segni di alterazione [a seguito dell’unione con l’aria alcalina], benché vi si noti qualcosa di simile alla precipitazione. 340. Una candela immersa nell’aria alcalina si spegne, ma al momento dell’estinzione la fiamma si dilata e diviene giallastra. 341. L’aria alcalina discioglie il ghiaccio molto velocemente ma non viene assorbita dagli oli. 342. Le scintille elettriche, passando attraverso questa aria, ne aumentano il volume a ogni scossa. In questo caso la sua infiammabilità cresce in proporzione all’aumento della massa, mentre diminuisce la sua disposizione a essere assorbita dall’acqua. 343. Quando ci sarà perfettamente nota la composizione delle varie sostanze sopra menzionate, allora e non prima, sarà tempo di formarsi una giusta idea circa gli elementi dei corpi e di rispondere alla domanda se tutte le cose siano o meno create da uno, due o qualche altro piccolo e determinato numero di elementi. A questo riguardo può essere opportuno osservare che sebbene un dato metodo ci possa apparire, rispetto alle nostre capacità, come il più facile da perseguire, non si potrà concludere che esso sia necessariamente anche quello effetti2. TORBERN BERGMAN

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vamente perseguito dalla natura. Il nostro compito è innanzitutto quello di assicurarci la conoscenza della natura dei corpi tali quali essi sono: solo allora potrà essere il momento di interrogarsi in merito alla loro origine. Impariamo quindi con Newton a salire, mediante esperimenti e osservazioni, dai fenomeni alle loro vere cause e non a scendere, con Cartesio, da cause meramente immaginate a fenomeni conosciuti, i quali non possono che essere, in questo secondo caso, alterati e distorti affinché coincidano con l’ipotesi precostituita.

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Alchimia e chimica nel Settecento



3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

Nota ai testi Nell’agosto del 1771 Lavoisier pubblicava, nelle Observations sur la physique, il suo primo breve contributo sulla disputa relativa alla presunta conversione dell’acqua in terra. Il tema, come abbiamo esposto nell’introduzione, era di grande attualità e in questa breve dissertazione il chimico francese illustrava le implicazioni teoriche dell’argomento nel modo seguente: “Gli antichi ammettevano quattro elementi, cioè a dire quattro materie primitive e inalterabili, che entravano più o meno nella composizione di tutti i corpi; queste materie primitive erano l’aria, l’acqua, la terra e il fuoco. Questa idea è stata adottata da quasi tutti i fisici, diciamo quasi tutti perché qualcuno tra i moderni l’ha rigettata e ha pensato che le sostanze che si ritenevano elementi primitivi e inalterabili erano essi stessi composti di altre sostanze e potevano cambiare forma”. Tale cambiamento di prospettiva era stato favorito da alcune esperienze che sembravano dimostrare la possibilità di trasmutare l’acqua in terra. “Se tale asserzione fosse vera”, continuava Lavoisier, “rivolterebbe tutte le idee accettate e distruggerebbe irreversibilmente tutta la certezza che ci si può attendere dalle analisi chimiche”. Dopo la pubblicazione di questo primo estratto, Lavoisier tornava sulla questione nel 1773 pubblicando nei Mémoires de l’Académie des sciences due articoli sul medesimo argomento, tradotti nelle pagine che seguono, nei quali sviluppava il tema sia sul piano teorico che su quello sperimentale. Nel primo, in particolare, Lavoisier metteva a frutto le sue scoperte sul ruolo chimicamente attivo dell’aria e sottolineava come questa, combinandosi con le piante, ne costituisse un ingrediente fondamentale. Da questo momento in avanti, l’analisi chimica dell’ac139

qua e dell’aria assorbiranno l’attenzione dello scienziato francese. Nei testi che seguono Lavoisier identifica gli autori a cui fa riferimento con nomi francesizzati o latinizzati. Senza intervenire sul testo, abbiamo messo in nota i nomi moderni degli autori non citati nella nostra introduzione generale. Per una ricostruzione esauriente delle fonti della controversia si rimanda il lettore allo studio di Abbri.1

Prima memoria sulla natura dell’acqua e sulle esperienze con cui si è preteso provare la possibilità della sua conversione in terra2 La questione della trasmutabilità degli elementi fra loro, e in particolare quella della conversione dell’acqua in terra, è troppo interessante per la fisica ed è stata discussa da un numero troppo grande di autori celebri, perché io possa esimermi dal presentare qui una sintesi delle scoperte fatte in questo ambito, prima di entrare nel dettaglio delle esperienze di cui devo rendere conto. Non parlerò per nulla di ciò che i filosofi dell’antichità hanno scritto sugli elementi. L’esposizione delle loro opinioni mi costringerebbe a una ricostruzione eccessivamente lunga, la quale farebbe del resto poca luce sulla questione che devo trattare. Passo a ciò che interessa specialmente i fisici. Voglio parlare dei fatti. Le prime esperienze con cui si è preteso dimostrare la possibilità della trasformazione dell’acqua in terra sono di due specie: le une per mezzo della vegetazione delle piante, con l’aiuto della sola acqua, le altre per via di distillazioni ripetute e attraverso diverse manipolazioni chimiche. 1  Ferdinando Abbri, Le terre, l’acqua, le arie, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 65-108. 2  Il titolo originale è Premier mémoire sur la nature de l’eau, et sur les expériences par lesquelles on a prétendu prouver la possibilité de son changement en terre. Par M. Lavoisier, in Histoire de l’Académie royale des sciences…pour l’année 1770, Paris, Imprimerie Royale, 1773, pp. 73-82.

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Jean-Baptiste Van Helmont3 è il primo ad averci fornito esperienze notevoli nel primo di questi due generi, intendo dire sulla vegetazione; se ne trova il resoconto alla pag. 108 delle sue Opere nell’edizione d’Elzevir. Egli riferisce di aver messo 200 libbre di terra essiccata al forno in un vaso di argilla, di aver inumidito questa terra con dell’acqua piovana e di avervi poi piantato un tronco di salice del peso di 5 libbre. Passati cinque anni, il medesimo albero pesava 169 libbre e 3 once. Lo stesso autore assicura di non esservi servito, per innaffiare l’albero, che di acqua piovana o di acqua distillata. Aggiunge inoltre di aver preso la precauzione di coprire il vaso con una lamina di stagno, perforata da diversi buchi, per paura che la polvere dell’atmosfera si depositasse sulla terra e vi si mescolasse. Trascorsi cinque anni e avendo fatto seccare la terra al calore del forno, vi rilevò una diminuzione in peso di sole due once: [in totale] erano dunque 164 libbre di legno, corteccia e radici, ovvero parti solide che a suo avviso avevano avuto origine dall’acqua. Nel Chemista Septicus di Boyle,4 pag. 95 e seguenti e nel trattato del medesimo autore, il de Origine formarum sezione seconda, si trovano delle esperienze più o meno simili. Boyle ha portato zucche e cocomeri a grandezze davvero considerevoli, senza che la terra in cui queste piante erano cresciute paresse aver contributo, con la propria sostanza, alla loro crescita. Delle mente che aveva fatto crescere nella sola acqua si sono addirittura rivelate tanto profumate quanto quelle che erano state coltivate in campo aperto. Le stesse esperienze sono state fatte in Svezia dal Sig. Trieval5 e poi realizzate ancora in Inghilterra dal Sig. Miller,6 il quale le ha rese pubbliche nelle Transactions Philosophiques, vol. 37, n. 418. Il Sig. Eller7 le ripeté, con la più grande cura, su zucche e bulbi di giacinto; si veda Mém. Acad. de Berlin, anno 1746, pag. 45. Benché questi ultimi fossero cresciuti nel3  Jan Baptist van Helmont (1580-1644). 4  Robert Boyle (1627-1691). 5  Mårten Triewald (1691-1747). 6  Philip Miller (1691-1771). 7  Johann Theodor Eller (1689-1760).

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la sola acqua distillata pura, Eller nondimeno ne ottenne delle piante perfette che, all’analisi, hanno dato gli stessi risultati del solito e una quantità notevolissima di terra. Tanti altri celebri fisici si sono recentemente occupati dello stesso oggetto e hanno esteso, variato e moltiplicato le esperienze; si possono consultare quelle dei Sigg. Gleditsch8 e Bonnet,9 riportate nei Mémoire des Savans étrangers presentati a questa Accademia, t. I, pag. 420 e i Commentaires di Leipsic, t. I, pag. 34. Si può guardare anche nell’Histoire de l’Académie, anno 1749, pag. 272 e nella Physique des Arbres del Sig. du Hamel,10 t. 11, pag. 198 e seguenti per una serie di esperienze molto interessanti, che confermano quelle dei diversi autori citati qui in precedenza. Potrei inoltre parlare delle esperienze fatte dal Sig. Krafft11 e descritte nei Mémoires modernes de l’Académie de Petersbourg, t. II, pag. 231. Questo autore ha seminato dell’avena e della canapa in della sabbia essiccata, in pezzi di carta straccia, nel tessuto di lana e nella paglia; ha poi inumidito queste sementi con dell’acqua pura e ha [infine] osservato che [le piante] erano cresciute con uguale velocità e all’incirca con lo stesso successo di quelle seminate in campo aperto. Tuttavia, siccome queste vegetazioni non sono state fatte per mezzo di acqua pura, non se ne può concludere niente né a favore né contro la possibilità di una trasformazione dell’acqua in terra. Lo stesso può essere detto delle esperienze del Sig. Charles Alston,12 riportate nel suo Essai de Botanique d’Édimbourg. Sulla base di fatti così costanti, così numerosi e [rilevati] da osservatori tanto celebri, si sarebbe forse in diritto di concludere che la terra che circonda le piante è solo accidentale per la vegetazione, che non passa nei filamenti dei vegetali, in breve che non concorre con la propria sostanza alla crescita delle piante e alla formazione delle loro parti solide. Si potrebbe però anche 8  Johann Gottlieb Gleditsch (1714-1786). 9  Charles Bonnet (1720-1793). 10  Henri Louis Duhamel du Monceau (1700-1782). 11  Georg Wolfgang Krafft (1701-1754). 12  C harles Alston (1685-1760).

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concludere, come fa il Sig. Valerius13 nei suoi Élémens d’Agriculture, edizioni Yverdon, 1776, pag. 83 e come pensano alcuni fisici, che l’acqua si trasforma davvero in terra tramite l’operazione della vegetazione. Ciò non pare [però] assai ben dimostrato e addirittura ripugna all’idea che normalmente si ha dell’acqua e, in generale, di tutti gli elementi. Che due molecole di materia si uniscano e che ne risulti un nuovo corpo, diverso da ciò che ciascuna molecola era separatamente, non è niente che la fisica non ammetta e che non quadri con le esperienze conosciute. Quando infatti si combina dell’acido vitriolico concentrato con dell’olio di tartaro, ne risulta una massa concreta di tartaro vitriolico, sebbene le due sostanze che entrano nella combinazione siano fluide prima del miscuglio. Ma che una massa d’acqua, senza addizione né perdita di sostanza, possa convertirsi in una massa di terra è qualcosa che ripugna a ogni idea accettata e che non sarà possibile ammettere fintantoché non vi si sarà forzati da esperienze molto dimostrative. La difficoltà di una conversione dell’acqua in terra non è poi la sola che si presenta nell’opinione del Sig. Vallerius. Le piante non sono composte solo di acqua e di terra, ma contengono anche degli oli, delle resine, delle parti saline e odoranti contenute nei succhi acidi e alcalini ecc. Non basterà quindi affermare che l’acqua muta in terra nella vegetazione: bisognerà concludere anche che essa si trasforma in tante sostanze particolari quante se ne trovano in tutte le piante a noi note, il che non è confermato da alcuna esperienza. La conversione dell’acqua in terra è dunque a oggi solo una supposizione infondata, che non illumina se non flebilmente i misteri della vegetazione, e non si può fare a meno di ricorrere a un’altra causa per spiegarne i fenomeni. Bisogna riconoscere, del resto, che per quanto numerose e ben fatte siano le esperienze sopra citate, la gran parte di esse lascia ancora a desiderare in qualche cosa: nella maggioranza dei casi si è utilizzato solo acqua comune, acqua della fontana o acqua di fiume, ma si sa, grazie alle analisi dei chimici, che tali acque 13  Johan Gottschalk Wallerius (1709-1785).

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contengono sempre una quantità piuttosto considerevole di terra calcarea, di selenite e di diversi sali. L’esperienza del salice di Van Helmont e quella dei bulbi di giacinto del Sig. Eller sono le uniche due esperienze che siano mai state fatte, con acqua piovana la prima e con acqua distillata la seconda. In riguardo alla prima, tuttavia, si può dire che Van Helmont non ha precisato i dettagli da lui presi per procurarsi dell’acqua piovana pura: quella che si ricava dalle grondaie e che ha lavato i tetti delle case contiene spesso diversi sali e io ho constatato che era sempre meno pura di quella ricavata dai vasi di ceramica o di porcellana, posti in luoghi lontani da qualsiasi edificio. Infine, anche qualora raccolta con tutte le precauzioni possibili, l’acqua piovana contiene sempre una piccola porzione di sale marino, come risulta dalle esperienze di Borrichius,14 da quelle del Sig. Margraff15 e da quelle di cui renderò conto io stesso nella seconda parte di questa memoria. Riconosco che vi è un’enorme sproporzione tra la piccola parte di sale che si può trovare nell’acqua piovana, per poca che sia la cura riposta nel raccoglierla, e il peso di 164 libbre acquisito in cinque anni dal salice di Van Helmont. Al tempo stesso però, è da considerare che la totalità di questo peso dovrebbe essere dovuto alla terra. Se Boyle avesse fatto l’analisi di questo albero, ne avrebbe [invece] tolto quasi tutto in flegma e la reale quantità di terra che avrebbe ottenuto sarebbe stata indubbiamente pochissima. È vero che nessuna di queste obiezioni può essere rivolta all’esperienza sui bulbi di giacinto fatta dal Sig. Eller, il quale ha utilizzato esclusivamente acqua distillata a bagnomaria. Egli ha tuttavia rilevato, mediante l’analisi, un eccesso di terra pari a sette o otto grani: ora, è possibile che la fiala o la caraffa in cui era contenuta l’acqua abbia fornito questa piccola quantità di terra dalla propria sostanza e ciò diverrà ancora più probabile sulla base delle esperienze presentate nella seconda parte di questa memoria. 14  Ole Borch (1626-1690). 15  Andreas Sigismund Marggraf (1709-1782).

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C’è poi un’altra fonte da cui i vegetali traggono la maggior parte dei principi scoperti con l’analisi. Dalle esperienze dei Sigg. Hales,16 Guettard, du Hamel e Bonnet sappiamo che le piante non solo operano una considerevole traspirazione, ma esercitano anche, attraverso la superficie delle foglie, una vera suzione, per mezzo della quale esse assorbono i vapori diffusi nell’atmosfera. Nelle ricerche del Sig. Bonnet sulla funzione delle foglie nelle piante si potranno trovare una serie di esperienze estremamente ingegnose, con le quali egli pare dimostrare che è principalmente per questa via che avviene la nutrizione dei vegetali. “Le foglie”, dice questo fisico, “sono per i rami ciò che è il capillizio radicale è per le radici: l’aria è un terreno fertile, da cui le foglie attingono abbondantemente nutrimento di ogni tipo; la natura ha dato a queste radici aeree una grande superficie, affinché esse siano in condizione di raccogliere più vapori, esalazioni ecc.”. Si dirà forse che se l’aria è la fonte da cui i vegetali traggono i diversi principi scoperti dall’analisi, questi stessi principi devono esistere e devono essere trovati nell’atmosfera. Risponderò che sebbene non vi siano ancora esperienze dimostrative di questo tipo, non si potrà dubitare che la parte più bassa dell’atmosfera, quella in cui crescono le piante, sia estremamente composta. In primo luogo, è probabile che l’aria che ne costituisce la base non sia affatto un ente semplice, un elemento, come pensavano i primi fisici. Secondariamente, questo fluido è il solvente dell’acqua e di tutti i corpi volatili che esistono in natura e sarò effettivamente in grado di far vedere più avanti, in una memoria che sto preparando sulla natura dell’aria, che l’evaporazione e la dissoluzione nell’aria sono due processi molto simili. Infine, indipendentemente dai diversi corpi che si trovano combinati nell’aria e che questa in qualche maniera dissolve, i sali e i corpi più solidi vi confluiscono ugualmente, per tramite dell’acqua, benché in piccola quantità. Poiché, infatti, le piogge che cadono dalla regione elevata dell’atmosfera 16  Stephen Hales (1677-1761).

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contengono del sale marino, come risulta dalle esperienze sopra citate, a maggior ragione deve trovarsi una grande quantità di sali diversi nella parte inferiore dell’atmosfera. Indipendentemente da queste diverse sostanze, estranee all’aria, non si può dubitare che questo stesso fluido entri in proporzione considerevolissima nel tessuto dei vegetali e che contribuisca di molto alla costituzione delle sue parti solide. Dalle esperienze del Sig. Hales e da tante altre, fatte in questo modo, risulta che l’aria esiste in due maniere nella natura: talvolta si presenta sotto forma di fluido molto rarefatto, dilatabile ed elastico, quale è quello che respiriamo; talvolta si fissa nei corpi, vi si combina intimamente e perde, allora, tutte le proprietà che aveva in precedenza. In quest’ultimo stato l’aria non è più un fluido ma funge da solido ed è solo tramite la distruzione dei corpi con i quali si combina che torna al suo primo stato di fluidità. Si possono vedere, al riguardo, le ingegnosissime esperienze descritte nella Statique des végétaux. Dall’analisi risulta che il peso del legno di quercia è costituito per circa un terzo d’aria, che il legno di guaiaco ne contiene in misura ancora maggior e che la quantità di questo fluido contenuta nelle diverse specie di legno è sempre, all’incirca, proporzionale alla loro densità. Queste esperienze sono troppo costanti per poter essere messe in dubbio; esse sono state, per di più, ripetute un gran numero di volte di fronte agli occhi di un intero pubblico nelle lezioni del Sig. Rouelle. Ecco quindi due fonti da cui i vegetali cresciuti nella sola acqua hanno potuto trarre i principi rilevati dall’analisi: prima di tutto l’acqua stessa e la piccola porzione di terra estranea che si trovava necessariamente in tutte quelle che sono state impiegate, in secondo luogo l’aria e le sostanze di ogni tipo di cui essa è carica. Le esperienze fatte sulla vegetazione delle piante per mezzo dell’acqua non dimostrano dunque, in alcun modo, la possibilità di una trasformazione dell’acqua in terra. Passo alle esperienze chimiche che sono state fatte sullo stesso argomento. Le prime esperienze un po’ sistematiche che siano state 146

Alchimia e chimica nel Settecento

fatte sulla natura dell’acqua sono quelle di Borrichius. Questo autore, [in un esperimento riportato] nel suo libro dal titolo de la Science d’Hermès & des Égyptiens, ha raccolto 100 libbre di acqua piovana, 100 libbre di acqua di neve e 100 libbre di acqua di grandine e ha notato, facendole evaporare, che esse divenivano rossastre sul finire dell’operazione; portando a termine l’evaporazione ha poi ottenuto una polvere di terra, dalla quale ha tratto, tramite lavaggio, una piccola porzione di sale marino; questa polvere, lavata e messa in seguito sotto un vaso semicilindrico, è parsa contenere dello zolfo. Questo autore è stato il primo ad avere sottoposto la stessa acqua a distillazioni ripetute e ha sostenuto che, reiterando queste operazioni, la si può totalmente convertire in una terra solida e insipida. Più o meno nello stesso periodo in cui Borrichius faceva queste esperienze in Danimarca, Boyle se ne occupava in Inghilterra. Pare che quest’ultimo non avesse avuto alcuna conoscenza delle esperienze di Borrichius; [tuttavia], proprio come lui, ha notato che a ogni distillazione l’acqua lasciava sempre una notevole quantità di terra. Boyle assicura [inoltre] che queste distillazioni sono state ripetute fino a duecento volte e che a seguito di questa noiosa operazione, eseguita con cura in un alambicco di vetro, un’oncia d’acqua aveva dato sei dramme di terra bianca, leggera, insipida e insolubile nell’acqua. Da ciò il fisico inglese concluse che l’acqua può convertirsi in terra mediante la distillazione (si veda Boyle, de Origine formarum, pp. 259-273). Becher17 e Stahl non si sono occupati di alcuna esperienza particolare sulla natura dell’acqua e si potrebbe persino dire che, in qualche modo, sono entrambi caduti in errori grossolani circa la natura di questo elemento. L’uno e l’altro erano convinti che l’acqua, attraverso una serie di distillazioni ripetute, acquisisse una qualità corrosiva, o almeno questo è quello che si legge nel primo lavoro di Stahl, intitolato Fundamenta Chimiæ dogmaticæ et experimentalis, che egli ha più tardi parzialmente rinnegato. 17  Johann Joachim Becher (1635-1682).

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

147

Stahl pensava inoltre che l’acqua, mediante la distillazione, potesse essere portata a un grado di sottigliezza tale da penetrare la sostanza del vetro. Era, del resto, per la fede in un chimico antico che aveva adottato questa opinione. Spettava a Boërhaave18 soppesare queste idee e riportarle al loro esatto valore. Alla fine del suo Traité sur l’eau si possono vedere le sue esperienze su questo oggetto: ne risulta che l’acqua non cambia affatto di natura attraverso la distillazione, che non diventa un acido né un alcali e che non si rende né più corrosiva né penetrante. Il Sig. Boërhaave ha d’altronde osservato, come Borrichius e Boyle, che a ogni distillazione della medesima acqua restava un residuo terroso, ma non ha pensato di doverne concludere che l’acqua si trasformasse davvero in terra. Egli sottolinea anche che Boyle ha ripetuto la distillazione della stessa acqua solo tre volte ed è solo sull’autorità di un chimico che riporta, senza decidersi formalmente su questo oggetto, che un’oncia d’acqua aveva dato 6 dramme di terra. Il Sig. Boërhaave suppone che la polvere che fluttua continuamente nell’aria abbia potuto mescolarsi con l’acqua durante la distillazione, formando così la piccola quantità di terra rilevata in essa dai chimici. L’esperienza del Sig. Geoffroi,19 riportata nei Mémoires de l’Académie (anno 1738, pag. 208), sembrava capace di demolire, nella mente dei fisici, l’opinione del Sig. Boërhaave. Geoffroi ha distillato venti volte la stessa acqua e ne ha regolarmente ricavato un sedimento terroso, benché abbia sempre impiegato, aggiunge, delle cucurbite20 di vetro nuove e ben pulite, con lo stesso capitello e lo stesso recipiente sigillati con della vescica.21 Il Sig. Margraff, in una dissertazione sulla terra che si trova nell’acqua pura, pubblicata nei Mémoires de l’Académie de Berlin (anno 1756), ha eliminato in maniera ancora più decisiva 18  Herman Boerhaave (1668-1738). 19  Claude Joseph Geoffroy (1685-1752). 20  La cucurbita era un recipiente per raccogliere i fluidi, parte dell’alambicco [N. d. c]. 21  Pellicola sottile ottenuta da viscere animali ed utilizzata per chiudere ermeticamente i recipienti [N. d. c].

148

Alchimia e chimica nel Settecento

i dubbi che potevano restare circa la polvere dell’atmosfera. Egli ha sufficientemente dimostrato che la terra dell’acqua non poteva venire dai corpi fluttuanti nell’aria: non soltanto, infatti, ha ottenuto la stessa terra distillando l’acqua in una storta di vetro sigillata ermeticamente con il suo recipiente, ma ha fatto anche vedere che si otteneva lo stesso risultato sottoponendo l’acqua a una forte agitazione in recipienti chiusi. Quest’ultima esperienza era già stata fatta dal Sig. Eller nel 1746 (si veda Mém. de l’Acad. de Berlin, 1746, p. 47). Infine il Sig. Le Roy di questa Académie, in una memoria letta in una seduta pubblica del 1767, ha sostenuto che le esperienze di Borrichius, Boyle, Boërhaave e Margraff non provassero in alcun modo la possibilità della conversione dell’acqua in terra. Il Sig. Le Roy pensa che ogni tipo di acqua contenga una quantità di terra piuttosto considerevole; che questa terra sia unita tanto intimamente all’acqua da passare pressoché interamente durante la distillazione pur separandosene in piccola quantità a ogni nuova distillazione; che, infine, sia questa piccola porzione di terra ad aver finora sedotto i fisici e aver fatto loro credere che l’acqua si trasformasse in terra. Non possiamo negare che l’opinione del Sig. Le Roy sia suscettibile di molte difficoltà. In fin dei conti, se questa terra è estranea all’acqua, quest’ultima non dovrebbe poco a poco purificarsi, per mezzo di un certo numero di distillazioni? Non dovremmo osservare una diminuzione progressiva nella quantità [di terra] che se ne separa [dall’acqua]? Infine, non dovrebbe esserci un termine al di là del quale non poterne più ricavare? Eppure, stando alle esperienze descritte da Boyle, duecento distillazioni non sono state sufficienti a separare tutta la terra dall’acqua, mentre il Sig. Margaff, alla quarantesima e alla cinquantesima distillazione ha sempre ottenuto all’incirca la stessa quantità di terra che rilevava dalle prime. Questo è ancora oggi lo stato di dubbio e di incertezza in cui versano i fisici rispetto all’origine della terra lasciata dall’acqua a ogni distillazione. Non mi resta, dopo aver reso esposto l’opinione di ciascuno di loro, che rendere conto delle esperien3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

149

ze di cui mi sono occupato io stesso ed è ciò che mi propongo di fare nella seconda parte di questa memoria.

Seconda memoria sulla natura dell’acqua e sulle esperienze con cui si è preteso provare la possibilità della sua conversione in terra22 L’obiettivo che mi ero inizialmente posto, nelle esperienze di cui renderò conto, era semplicemente quello di constatare quale fosse il grado ultimo di purezza a cui può essere portata l’acqua mediante un certo numero di distillazioni e quali fossero i cambiamenti in essa occasionati dalla ripetizione di queste operazioni, sia in termini di peso che di altre qualità. Questi esperimenti mi hanno gradualmente condotto molto più lontano di quanto mi aspettassi, [tanto che] mi sono trovato in grado di risolvere, per via di esperienze decisive, una questione interessante per la fisica: sapere se, come è stato pensato da qualche filosofo antico e come tutt’ora ritengono alcuni chimici dei nostri giorni, l’acqua può convertirsi in terra. Dato che il mio scopo era esaminare la natura dell’acqua, determinare se essa contenesse della terra e infine verificare l’effetto in essa provocato da una serie di distillazioni successive, per le mie esperienze era necessario che recuperassi dell’acqua in quantità sufficiente e per quanto più possibile pura. L’acqua piovana, raccolta con le giuste precauzioni, mi è sembrata la più adatta ai miei propositi. Essa non è, infatti, che un’acqua distillata dalla natura; l’elevazione a cui giungono i vapori acquei nell’atmosfera, prodigiosa se confrontata a quella dei nostri vasi distillatori, mi è parsa un mezzo decisamente appropriato a liberarli da tutte le parti saline e terrose che potrebbero 22  I l titolo originale è Second mémoire sur la nature de l’eau et sur les expériences par lesquelles on a prétendu prouver la possibilité de son changement en terre. Par M. Lavoisier, in Histoire de l’Académie royale des sciences…pour l’année 1770, Paris, Imprimerie Royale, 1773, pp. 90-107.

150

Alchimia e chimica nel Settecento

Figura 1 - Aerometri usati da Lavoisier durante le esperienze sull’acqua del 1768 e del 1769. Il primo strumento a sinistra venne inventato dello stesso chimico francese

esservi presenti in dissoluzione. L’acqua piovana che si ricava dalle grondaie è ben lontana dall’avere la purezza di cui parlo. Ho per giunta dimostrato che quella colata da tetti ricoperti d’ardesia conteneva una piccola porzione di sale vitriolico, molto simile al sale di Glauber; il medesimo sale si trova in tutte le sorgenti che sgorgano dalle montagne di scisto e ardesia, come ho riferito in delle memorie precedenti che non sono ancora state pubblicate. Ho quindi pensato che per disporre di acqua piovana esente da ogni sospetto fosse necessario ricavarla direttamente dall’atmosfera. A questo fine ho preparato dei grandi vasi di vetro e di ceramica smaltata e ho atteso, prima di esporli all’aria, che avesse piovuto per un po’ di tempo, cosicché l’atmosfera risultasse libera da ogni corpo estraneo che in essa poteva fluttuare. Ho poi sciacquato i vasi con l’acqua piovana stessa e li ho posti in uno spazio lontano da alberi ed edifici. Per lento che sia questo metodo, con un po’ di pazienza sono riuscito a raccogliere una quantità di acqua pari a circa 12 libbre. Il criterio che considero più sicuro per valutare la purezza dell’acqua è il suo peso: la mia prima esperienza è stata dunque 3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

151

quella di esaminare l’acqua raccolta mediante l’aerometro. Mi sono servito, per questo, di uno strumento estremamente sensibile e già noto all’Académie, il quale segna 4 libbre 7 once 5 grosse e qualche grano d’acqua a 10 gradi e 1/4 del termometro di Réaumur, ossia alla temperatura dei sotterranei dell’Osservatorio. L’acqua piovana così esaminata si è dimostrata sempre un po’ più pesante dell’acqua della Senna distillata una sola volta; l’eccesso era di circa un grano sul bacino dell’aerometro, ovvero di 1/41240, che espresso in decimali corrisponde a 0,0002425: riporto qui i dettagli dell’esperienza.

Prima esperienza libbre

once

grosse

grani

Peso dell’aerometro

4

7

3

56,50

Quantità ponderale di cui è stato necessario caricare il bacino dell’aerometro per farlo scendere fino al segno nell’acqua piovana, mentre il termometro segnava 17 gradi 7/10

0

0

1

21,90

Peso totale del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 17 gradi 7/10 del termometro

4

7

5

6,40

Correzione per via di sottrazione finalizzata a ridurre questo peso a quanto avremmo ottenuto a 18 gradi dello stesso termometro, sulla base di tavole elaborate tramite esperienze

0

0

0

2,00

Peso del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 18 gradi del termometro di Réaumur

4

7

5

4,40

Peso di un pari volume di acqua distillata alla stessa temperatura

4

7

5

Differenza

152

Alchimia e chimica nel Settecento

3,60 0,80

Seconda esperienza libbre

once

grosse

grani

Peso dell’aerometro

4

7

3

56,50

Quantità ponderale di cui è stato necessario caricare il bacino dell’aerometro per farlo scendere fino al segno nell’acqua piovana, mentre il termometro segnava 17 gradi 7/10

0

0

1

30,80

Peso totale del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 17 gradi 7/10 del termometro

4

7

5

15,30

Correzione per via di sottrazione finalizzata a ridurre questo peso a quanto avremmo ottenuto a 18 gradi dello stesso termometro, sulla base di tavole elaborate tramite esperienze

0

0

0

10,45

Peso del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 18 gradi del termometro di Réaumur

4

7

5

4,85

Peso di un pari volume di acqua distillata alla stessa temperatura

4

7

5

3,60

Differenza

1,25

Differenza in base alla prima esperienza: 0,80 Differenza in base alla seconda esperienza: 1,25 Differenza media: 1,02 Questa operazione preliminare mi ha subito fatto capire che l’acqua piovana sulla quale avevo operato non era del tutto pura benché, comunque, si avvicinasse molto a esserlo. Per conoscere con precisione la natura e la quantità delle sostanze estranee in essa presenti in dissoluzione, ho fatto ricorso all’evaporazione. Ho quindi messo 11 libbre di questa acqua in un alambicco di vetro bianco, utilizzato per la prima volta; ho disposto la distillazione a bagnomaria a un calore molto moderato e ho proseguito fino a che le 11 libbre d’acqua contenute nell’alambicco non si sono ridotte a qualche oncia. L’acqua restante ha cominciato a intorbidirsi e ho notato che sulle pareti interne 3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

153

dell’alambicco si era depositato un sottilissimo strato di terra; vi erano inoltre alcune scaglie della stessa terra che galleggiavano nel liquido. Ho dunque tolto l’acqua dall’alambicco, l’ho versata in un vaso di vetro e ho continuato a farla evaporare, sempre per mezzo del solo calore del bagnomaria, fino a farla seccare. Sul fondo di questo recipiente ho trovato un volume piuttosto considerevole di una terra bianco-grigiastra ed estremamente leggera, che si dissipava al minimo soffio. Il tutto pesava esattamente 4 grani 1/4, ossia due quinti di grano per ogni libbra d’acqua. Siccome questa terra pareva facilmente inumidirsi al contatto con l’aria, ho ritenuto che fosse impregnata di una piccola porzione di acqua madre;23 l’ho quindi lavata con un po’ di acqua distillata e, dopo averla nuovamente essiccata, mi è parsa del tutto priva di umidità e più bianca. Evaporata l’acqua impiegata per il lavaggio, ho ottenuto dei piccoli cristalli cubici di sale marino, chiaramente distinguibili alla lente d’ingrandimento e facilmente riconoscibili al gusto. Questi cristalli erano ugualmente impregnati di una piccola quantità di acqua madre e mi è sembrato, per quanto ho potuto osservare in una così piccola quantità, che si trattasse di un sale marino a base terrosa. La terra così lavata e seccata aveva perduto circa un grano del suo peso e si trovava ridotta a 3 grani 1/5: il grano che mancava corrispondeva precisamente al peso della parte salina che era stata separata mediante il lavaggio. Da questa esperienza risulta che l’acqua piovana che avevo fatto evaporare conteneva, per ogni libbra, circa tre decimi di grano di una terra insipida e leggerissima e un undicesimo di grano di sale marino, in parte a base d’alcali fisso e in parte base terrosa. Una volta compiuta questa prima analisi dell’acqua piovana, mi premeva esaminare l’acqua che avevo ottenuto dalla distillazione. L’ho quindi sottoposta, innanzitutto, alla prova ordinaria dell’aerometro e ho rilevato che essa non era più leg23  Acqua residua che si rileva a seguito della cristallizzazione di un sale o di un’altra sostanza.

154

Alchimia e chimica nel Settecento

gera dell’acqua della Senna distillata una sola volta, ma era anzi di poco più pesante: la differenza si è rivelata essere, abbastanza costantemente, di 0,00000072.24 Ho raccolto con cura tutta questa acqua e l’ho sottoposta a una nuova distillazione, a cui ne ho fatta seguire una seconda, una terza, una quarta ecc., continuando così fino all’ottava. Il risultato di queste operazioni è esposto in dettaglio in una tavola posta alla fine di questa memoria. Al termine di ogni distillazione determinavo il peso specifico dell’acqua che era passata nel recipiente e vedevo con sorpresa che, malgrado a ogni operazione si separasse una quantità piuttosto considerevole di terra, il peso specifico [dell’acqua] non diminuiva di molto, o che comunque [questa diminuzione] non corrispondeva neanche lontanamente alla quantità della terra che ottenevo. Da questa esperienza ho creduto di poter concludere che di due cose l’una: o la terra che avevo separato con la distillazione era di natura tale da poter essere tenuta in dissoluzione nell’acqua senza aumentarne il peso, o perlomeno senza aumentarlo quanto le altre sostanze; oppure questa terra non si trovava ancora nell’acqua nel momento della pesatura, ma si era formata durante la distillazione stessa ed era quindi un prodotto di questa operazione. Per decidere con certezza quale di queste opinioni fosse da adottare, la via che mi è parsa più sicura è stata quella del ripetere precisamente le stesse esperienze in dei recipienti chiusi ermeticamente, tenendo esatto conto del peso del recipiente e di quello dell’acqua che avrei impiegato. Nel caso in cui la materia del fuoco fosse passata attraverso il vetro e si fosse combinata con l’acqua, si sarebbe infatti dovuto necessariamente rilevare un aumento nel peso totale delle materie, ossia acqua, terra e recipiente, a seguito di un gran numero di distillazioni. I fisici sanno infatti che la materia del 24  Nota dell’autore: Dall’epoca di questi esperimenti ho avuto modo di capire che questa leggera differenza dipendeva dal fatto che l’acqua della Senna era stata distillata in un alambicco di metallo, mentre l’acqua piovana in un alambicco di vetro. Sembra che quest’ultima avesse disciolto una parte della sostanza del coperchio, il che apparirà ancor più probabile sulla base delle esperienze contenute nel seguito di questa memoria.

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

155

fuoco aumenta il peso dei corpi con i quali si combina. La stessa cosa non doveva invece verificarsi se la terra si fosse formata alle spese dell’acqua o del recipiente. Si sarebbe però allora dovuta necessariamente rilevare una diminuzione di peso, in una o nell’altra di queste due sostanze, e tale diminuzione avrebbe dovuto essere precisamente uguale alla quantità di terra separata. Con in mente questo piano, avevo pensato di far costruire un alambicco di vetro, dotato di un recipiente di un solo pezzo; il mio progetto era di fornirlo di una sola apertura, destinata a introdurvi dell’acqua; avrei poi sigillato ermeticamente l’alambicco tramite una lavorazione a lume.25 Non ci ho messo molto a rendermi conto di quanto un simile strumento fosse difficile da realizzare e quanto sarebbe stato fragile e scomodo nell’utilizzo. In questa esperienza il mio scopo era unicamente quello di distillare, di coobare dell’acqua su se stessa, per un gran numero di volte: mi è quindi sembrato di poterci riuscire con un metodo molto più semplice, ossia servendomi del pellicano degli alchimisti.26 Come si sa, questo strumento non è che un alambicco di vetro a due becchi, ma diversamente da un alambicco ordinario il becco è [qui] un tubo dritto, finalizzato a condurre il liquido dal capitello27 al recipiente. Nel pellicano questo tubo è ricurvo ed entra nella pancia della cucurbita, dove porta il liquido man mano che questo si condensa nel capitello. Ho pensato che una digestione, o piuttosto una coobazione prolungata, per mezzo di questo strumento, equivalesse a delle distillazioni ripetute. Ho quindi fatto costruire un pellicano di vetro bianco, di capacità sufficiente, e ho fatto chiudere l’apertura superiore, la sola che si trovasse in questo recipiente, con 25  Tecnica orafa che, attraverso la concentrazione di una fiamma fatta passare da un piccolo cannello, permetteva di direzionare con precisione un calore violento e, come nell’operazione descritta da Lavoisier, saldare due pezzi di vetro e sigillare l’alambicco. 26  Apparato usato dagli alchimisti per la distillazione e rappresentato nella figura 10 dell’introduzione. 27  Ovvero il coperchio che, per la sua forma particolare, veniva chiamato capitello (chapiteau).

156

Alchimia e chimica nel Settecento

un tappo di cristallo ben adattato al collo del recipiente. L’ho poi accuratamente lavato con dell’acqua distillata e l’ho fatto asciugare fino a che non restava più alcuna traccia di umidità. Al contempo mi ero munito di una bilancia molto precisa, realizzata dal Sig. Chemin, costruttore della Monnaie.28 Questa bilancia era estremamente sensibile e, anche quando caricata di cinque o sei libbre, bastava meno di un grano a farla oscillare. Malgrado la cura presa nella sua realizzazione, lo strumento non era del tutto privo di difetti; qualora si cambiassero i piatti dopo aver stabilito un perfetto equilibrio tra i pesi, si rilevava sempre qualche differenza. Da ciò non poteva tuttavia derivare alcun errore, perché prendendo una media tra le due pesature si otteneva sempre, anche a diversi giorni di distanza, lo stesso risultato; a malapena si trovava qualche piccola frazione di grano di differenza. È con questa bilancia che ho determinato il peso del pellicano. Riporto di seguito, in maniera dettagliata, le operazioni mediante le quali ho stabilito che il peso [del pellicano] era in media di una libbra dieci once sette grosse e ventuno grani. Dettaglio delle operazioni fatte per constatare il peso del pellicano vuoto, con il suo tappo

Prima operazione libbre

once

grosse

grani

Peso rilevato nel bacino A

1

10

7

19,50

Peso rilevato nel bacino B

1

10

7

24

Peso medio

1

10

7

21,75

28  La zecca di Parigi.

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

157

Seconda operazione libbre

once

grosse

grani

Peso rilevato nel bacino A

1

10

7

19

Peso rilevato nel bacino B

1

10

7

23,50

Peso medio

1

10

7

21,25

Peso reale dedotto trovando una via di mezzo tra i due pesi medi

1

10

7

21,50

Determinato con la massima precisione possibile il peso dello strumento, vi ho versato la stessa acqua che avevo fatto passare attraverso otto distillazioni successive; ho fatto in seguito scaldare il tutto in bagno di sabbia,29 preoccupandomi di togliere di tanto in tanto il coperchio di cristallo affinché si liberasse una parte dell’aria contenuta nel recipiente, per paura che questo, dilatandosi per via del calore, si fratturasse. Quando ho notato che l’aria si era sufficientemente dilatata, ho chiuso ermeticamente il pellicano con il coperchio di cristallo e l’ho ritirato dal bagno di sabbia; l’ho poi pesato con la stessa bilancia di cui mi ero servito in precedenza. Sui due piatti [della bilancia] ho trovato esattamente il peso totale di: 5 libbre 9 once 4 grosse 41,50 grani Si è visto che per la tara, ossia per il peso del recipiente, avevo avuto: 1 libbra 10 once 7 grosse 21,50 grani Per il peso dell’acqua contenuta nel pellicano mi restavano quindi: 3 libbre 14 once 5 grosse 20,00 grani Dopo aver ben stabilito questi pesi ho rivestito il tappo e tutto il contorno del collo del pellicano con un sigillante grasso, composto di argilla, olio di lino cotto e ambra; vi ho poi messo sopra una vescica umida e ho stretto tutto con un gran numero di giri di corda. Prese tutte queste precauzioni, ho posto il 29  Cioè sottoposto al calore della sabbia preventivamente riscaldata. Si tratta di una tecnica molto usata.

158

Alchimia e chimica nel Settecento

recipiente nel bagno di sabbia, ma l’ho coperto solo fino a due dita al di sotto della superficie dell’acqua per poter osservare cosa accadeva durante l’operazione. Infine ho acceso, sotto il bagno di sabbia, un fornello a sei bocche, che ho tenuto sempre attivo con del buon olio d’oliva, asciugando i residui ogni dodici ore. Con questi accorgimenti sono riuscito a mantenere, per centouno giorni consecutivi, l’acqua contenuta nel pellicano a un calore più o meno costante di 60-70 gradi sul termometro di Réaumur, il quale segnava 85 in acqua bollente. Era il 24 ottobre 1768 quando cominciai questa operazione. I primi giorni osservavo con grande assiduità, al fine di cogliere i vari cambiamenti verificatisi nell’acqua. Passarono più di venticinque giorni senza che potessi notare nulla di rilevante e cominciavo a perdere ogni speranza di successo quando, il 20 dicembre, vidi dei piccoli corpi galleggiare nell’acqua, muovendosi piuttosto velocemente. Erano moltissimi, ma così sottili da risultare quasi impercettibili: munito di una potente lente di ingrandimento, capii che questi piccoli corpi non erano altro che delle lamelle o fogli di terra grigiastra, estremamente sottili e di figura irregolare. Queste lamelle parevano avere una direzione determinata; salivano lungo uno dei lati del recipiente per poi scendere dall’altro, tracciando un percorso chiaramente circolare. Più tardi ho avuto occasione di scoprire che esse salivano sempre dalla parte in cui il calore del bagno di sabbia era più forte, per poi precipitare dall’altra. Nei giorni successivi questi fogli o queste pagliuzze non sembravano essere aumentate di numero, ma moltissimo in grandezza: ve ne erano alcune che parevano avere, circa, fino a due linee30 di lunghezza per una larghezza di poco inferiore. Erano sempre incredibilmente sottili e di figura assolutamente irregolare. Queste pagliuzze davano un aspetto torbido all’acqua, tanto più che il loro colore diveniva di un grigio sempre un po’ più definito man mano che acquisiva30  C irca 4,5 mm. La ligne era un’unità di lunghezza adoperata prima dell’introduzione, alla fine del Settecento, del sistema metrico decimale.

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

159

no consistenza. Dall’inizio di dicembre fino al 15 o al 20 dello stesso mese non ho rilevato alcun aumento importante, né nel numero, né nella grandezza di queste pagliuzze. Il loro numero mi pareva anzi, inizialmente, essere diminuito, ma realizzai [poi] che questa diminuzione apparente veniva dal fatto che una parte di esse cominciava a depositarsi sul fondo del vaso; [le pagliuzze] continuarono quindi ad appesantirsi e a depositarsi per tutto gennaio, cosicché alla fine del mese nel liquido non se ne vedevano più. Benché la terra fosse così depositata, l’acqua sovrastante restava ancora torbida, ma fu facile osservare che a farla apparire tale era un piccolo deposito o foglio terroso finissimo, che ricopriva le pareti interiori del recipiente: vedendo l’acqua attraverso questa specie di nuvola, l’occhio si illudeva facilmente e attribuiva all’acqua il difetto di trasparenza che veniva, in realtà, dal corpo interposto. Infine il primo febbraio, vedendo che la quantità di terra accumulata era considerevole e temendo un qualche incidente con il recipiente, che mi avrebbe fatto perdere in un istante il frutto di un’operazione portata avanti per più di cento giorni, ho creduto fosse tempo di porre fine all’esperienza. Ho [quindi] spento il fornello e, quando i vasi si furono raffreddati a sufficienza, ho aperto il pellicano e tolto, con la più grande cura, tutto il sigillante che circondava il tappo. Dopodiché non mi restava nulla di più urgente che constatare nuovamente il peso [del pellicano e dell’acqua insieme], senza togliere il tappo: trovai che pesava 5 libbre 9 once 4 grosse 41 grani 3/4, come si vede dal dettaglio che segue. Dettaglio delle operazioni fatte per determinare il peso del pellicano e dell’acqua in esso contenuta, dopo una digestione continuata per centouno giorni libbre

once

grosse

grani

Peso rilevato nel bacino A

5

9

4

44,50

Peso rilevato nel bacino B

5

9

4

39,00

160

Alchimia e chimica nel Settecento

libbre

once

grosse

grani

Peso medio

5

9

4

41,75

Peso medio del pellicano e dell’acqua in esso contenuta prima della digestione

5

9

4

41,50

Differenza

0

0

0

0,25

Questo peso differisce solo di un quarto di grano da quello determinato prima dell’operazione. Una piccola differenza deve in realtà essere guardata come assolutamente nulla, poiché la precisione stessa della bilancia non è abbastanza grande da poter rilevare una così piccola quantità. Si può [dunque] già considerare come costante, sulla base di questa esperienza, che la digestione continuata per cento giorni non provoca né un aumento, né una diminuzione di peso all’acqua che vi viene sottoposta. Questo risultato si accorda perfettamente con un’esperienza di Cristophe Clavius.31 Egli mise dell’acqua in un matraccio che sigillò ermeticamente, segnando con un diamante l’altezza a cui arrivava l’acqua in quel momento; a distanza di ventiquattro anni lo si poteva osservare ancora sospeso nello studiolo del Padre Kircher,32 pieno [d’acqua] come lo era all’inizio. Rilevato il peso del pellicano e dell’acqua in esso contenuta, ho provato ad aprire lo strumento ed è solo con una certa fatica che ci sono riuscito, a causa della pressione che l’aria all’esterno operava sul tappo. Ci si ricorderà, infatti, che prima di chiudere definitivamente il recipiente lo avevo riscaldato, con lo scopo di dilatare l’aria in esso presente e impedire che l’espansione di questa ne provocasse la frattura. Non appena il tappo è stato sollevato abbastanza perché si stabilisse una comunicazione tra l’aria all’esterno e l’aria all’interno del recipiente, si 31  Christophorus Clavius (1538-1612). 32  Athanasius Kircher (1602-1680).

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

161

produsse un fischio e ho notato che [nello strumento] entrava una quantità piuttosto considerevole di aria. Questa operazione mi ha confermato che l’aria non era penetrata all’interno del recipiente durante la digestione e che quindi l’esperienza aveva soddisfatto il mio obiettivo esattamente come se fosse stata in un recipiente chiuso ermeticamente. Non avendo trovato alcun aumento nel peso totale delle materie, era già naturale concludere che né la materia del fuoco, né qualsiasi altro corpo esterno fosse passato attraverso la sostanza del vetro per combinarsi con l’acqua, formando della terra. Restava da determinare se quest’ultima avesse origine dalla distruzione di una porzione di acqua o da quella del vetro. Nulla era più facile da stabilire: con le precauzioni che avevo preso, si trattava in effetti soltanto di determinare se fosse il peso del recipiente o quello dell’acqua in esso contenuta ad avere subito una diminuzione. Ho quindi svuotato il pellicano e ho messo accuratamente da parte, in un flacone di cristallo, l’acqua e la terra che esso conteneva. Ho asciugato molto attentamente il recipiente e, dopo essermi assicurato che non vi restasse alcun residuo di umidità, l’ho posato sulla bilancia notando, in due operazioni fatte a distanza di diversi giorni l’una dall’altra, che aveva perso 17 grani 4/10 del suo peso. Dettaglio delle operazioni fatte per constatare il peso del pellicano vuoto con il suo coperchio, dopo la digestione

Prima operazione libbre

once

grosse

grani 9,25

Peso rilevato nel bacino A

1

10

7

Peso rilevato nel bacino B

1

10

6

7,50

Peso medio

1

10

7

21,75

162

Alchimia e chimica nel Settecento

Seconda operazione libbre

once

Peso rilevato nel bacino A

1

10

grosse 7

grani 4,50

Peso rilevato nel bacino B

1

10

7

7,50

Peso medio

1

10

7

4,25

Peso reale dedotto trovando una via di mezzo tra i due pesi medi

1

10

21

4,12

Peso medio del pellicano prima della digestione

1

10

7

21,50

Differenza

0

0

0

17,38

Ciò dimostrava che era la sostanza stessa del recipiente ad aver fornito la terra separatasi dall’acqua durante la digestione e che si era operata una semplice dissoluzione del vetro. Per portare a termine i miei obiettivi mi restava tuttavia da confrontare il peso della terra che si era separata durante la digestione con la diminuzione di peso provata dal pellicano. Queste due quantità dovevano naturalmente essere uguali e, nel caso in cui si fosse rilevato un considerevole eccesso di terra, sarebbe stato necessario concludere che non era dal solo vetro che essa proveniva. Per compiere questa comparazione, ho innanzitutto separato la terra che si era depositata sul fondo dell’acqua durante i cento giorni della digestione, del peso di 4 grani 9/10. Questa quantità era assai poco considerevole rispetto alla diminuzione di peso provata dal pellicano, ma non potevo affermare nulla prima di aver esaminato l’acqua che era stata in digestione in questo recipiente. Avevo infatti motivo di sospettare che essa contenesse in dissoluzione una certa quantità della stessa terra. Per chiarirmi le idee al riguardo ho cominciato con l’immergere l’aerometro [nell’acqua] e ho osservato che, a temperatura uguale, sul bacino dello strumento occorreva aggiungere circa quindici grani in più rispetto all’acqua della Senna distillata; il peso dell’acqua così coobata stava all’acqua ordinaria distillata nel rapporto di 100037 a 10000000. Riporto qui il dettaglio del calcolo e dell’operazione. 3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

163

Dettaglio dell’operazione fatta per determinare il peso specifico dell’acqua dopo essere stata tenuta in digestione per cento giorni

Prima esperienza libbre

once

grosse

grani

Peso rilevato nel bacino A

1

10

7

4,50

Peso rilevato nel bacino B

1

10

7

7,50

Peso medio

1

10

7

4,25

Peso reale dedotto trovando una via di mezzo tra i due pesi medi

1

10

21

4,12

Peso medio del pellicano prima della digestione

1

10

7

21,50

Differenza

0

0

0

17,38

libbre

once

grosse

grani

Peso dell’aerometro

4

7

3

56,50

Quantità ponderale di cui è stato necessario caricare il bacino dell’aerometro per farlo scendere fino al segno nell’acqua piovana, mentre il termometro segnava 17 gradi 7/10

0

0

1

65,10

Peso totale del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 17 gradi 7/10 del termometro

4

7

5

49,60

Correzione per via di sottrazione finalizzata a ridurre questo peso a quanto avremmo ottenuto a 18 gradi dello stesso termometro, sulla base di tavole elaborate tramite esperienze

0

0

0

1,86

Peso del volume di acqua piovana segnato dall’aerometro a 18 gradi del termometro di Réaumur

4

7

5

51,46

Seconda esperienza

164

Alchimia e chimica nel Settecento

libbre

once

grosse

grani

Peso di un pari volume di acqua distillata alla stessa temperatura

4

7

5

38,75

Differenza

0

0

0

14,94

Prima differenza: 15,08 Seconda differenza: 14,94 Differenza media: 15,01 Il peso in eccesso mi annunciava già che questa acqua non era pura ma che aveva, [invece], qualche sostanza in dissoluzione: per determinarne la natura e la quantità, ho fatto ricorso all’evaporazione. Ho di conseguenza versato tutta l’acqua in un alambicco di vetro, nuovo e [composto] da un solo pezzo, chiuso nella sua parte superiore con un tappo di cristallo e ho distillato [l’acqua] a bagnomaria. Ho interrotto l’operazione verso la fine e ho versato la piccola porzione d’acqua che restava in una capsula di vetro; dopo aver portato avanti l’evaporazione fino a siccità, ho ottenuto 15 grani 1/2 della stessa terra sopra descritta. Se a questa quantità si aggiungono i 4 grani 9/10 che si sono trovati separati sul fondo del pellicano, si avranno 20 grani 4/10 per la quantità totale della terra che si era separata durante i cento giorni della digestione. La diminuzione del peso del pellicano era però di soli 17 grani 4/10: nella quantità di terra rilevata vi era dunque un eccesso di tre grani, la cui origine non può essere attribuita alla dissoluzione delle parti del pellicano. Non sarà difficile, riflettendo un po’ sulle circostanze dell’operazione, immaginare quale sia l’origine di questo eccesso e persino come si dovesse essere formato. Si è infatti potuto notare che l’acqua, uscendo dal pellicano, era stata versata in un flacone di cristallo, nel quale era stata distillata. Ora, queste diverse operazioni non possono essere state realizzate senza che ne sia risultata una dissoluzione di una piccola parte della sostanza di questi due recipienti. È poi probabile anche che una piccola porzione d’acqua si sia combinata con la terra nella cri3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

165

stallizzazione e abbia contributo ad aumentarne il peso. Dalle esperienze contenute in questa memoria risulta: 1. Che la maggior parte, o forse la totalità, della terra che si separa dall’acqua piovana attraverso l’evaporazione è dovuta alla dissoluzione dei recipienti all’interno dei quali è stata raccolta e fatta evaporare. 2. Che questa acqua contiene, per ogni libbra, appena un ventesimo di grano di sale marino, per cui la si può sempre considerare come purissima nella maggioranza delle operazioni chimiche. 3. Che la differenza di peso che si osserva tra acqua piovana, acqua della Senna o acqua della fontana distillata una sola volta e sottomessa otto volte consecutive alle stessa operazione è pressoché insensibile; di conseguenza nella pratica, come anche nelle operazioni più delicate, è possibile considerare come assolutamente pura l’acqua della fontana, l’acqua della Senna o l’acqua piovana che è stata distillata, tutt’al più, una o due volte ad un calore moderato e in un alambicco di metallo. 4. Che l’acqua non muta affatto di natura, né acquisisce alcuna nuova proprietà per via di distillazioni ripetute; essa non può essere in alcun modo portata, come credeva Stahl, ad un tale grado di sottigliezza da poter passare attraverso i pori del vetro. 5. Che la sostanza stessa del vetro è suscettibile di dissoluzione nell’acqua e che esiste, come per tutti i sali, un punto di saturazione al di là del quale la soluzione non può più avere luogo. 6. Infine, che la terra che Boyle, Eller e Magraff hanno ottenuto dall’acqua non era altro che del vetro ottenuto con l’evaporazione, di modo che le esperienze su cui hanno fatto leva questi fisici, lungi dal dimostrare la possibilità di una conversione dell’acqua in terra, spingerebbero piuttosto a ritenere che essa sia inalterabile. Prima di terminare questa memoria, mi resterebbe da rendere conto delle esperienze che ho fatto su questa terra 166

Alchimia e chimica nel Settecento

che si separa dall’acqua, sia per distillazione che per coobazione, ma sono costretto ad ammettere che esse sono ancora decisamente incomplete. La piccola quantità di terra che ho raccolto, malgrado le numerose distillazioni, non mi ha permesso di sviluppare [tali ricerche] quanto avrei voluto e sono stato obbligato a rimandare l’esecuzione di questo lavoro. Dirò quindi solamente che se si getta un pizzico di questa terra in un liquido acido, essa provoca un leggero moto di effervescenza, il quale tuttavia termina presto, e che la terra si deposita sul fondo del liquido senza sembrare sensibilmente alterata. Aggiungerò inoltre che questa terra è infusibile o quantomeno difficilissima a fondersi, poiché il fuoco a cui l’ho sottoposta, più che sufficiente per fondere il vetro più duro e refrattario, non l’ha nemmeno ammorbidita. Riconosco che quest’ultima circostanza potrebbe costituire un’obiezione piuttosto forte contro quanto ho riferito in questa memoria, se fosse possibile argomentare contro dei fatti. Si può in effetti obiettare che se questa terra fosse una porzione di vetro disciolto e ottenuto dall’evaporazione, essa dovrebbe conservare la proprietà essenziale che caratterizza il vetro, [ossia] la fusibilità. Finora non sono riuscito a scoprire la ragione di questo fenomeno; essendo però importante non lasciare alcuna incertezza sulle verità fondamentali e soprattutto su quelle che riguardano la natura degli elementi, mi sono deciso a ripetere una seconda volta l’esperienza della coobazione dell’acqua, per quanto lunga e noiosa essa sia; me ne sto occupando proprio nel momento in cui si pubblica questa memoria e comunicherò quanto prima i risultati che avrò ottenuto all’Académie. Tavola in cui si presenta il risultato di otto distillazioni successive di una stessa acqua. Nella terza colonna si è supposto essere 10000000 il peso dell’acqua della Senna, utilizzata come termine di comparazione; essa era stata distillata una sola volta in un alambicco di vetro e conservata in una bottiglia dello stesso materiale.

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

167

Qualità e quantità dell’acqua sottoposta a distillazione

Differenza nel numero di grani con cui si è dovuto caricare l’aerometro, confrontato con l’acqua di Senna distillata

Peso specifico, supponendo 10000000 per l’acqua di Senna distillata

Totale del residuo lasciato da ogni acqua a seguito della distillazione

2 libbre di acqua piovana raccolta in vasi di vetro e ceramica smaltata

+1,07

10000259



0, 390

9 libbre 11 once di acqua piovana distillata una volta

+0,80

10000194

2

0,208

8 libbre 12 once d’acqua piovana distillata due volte

0,00

10000000



0,176

8 libbre di acqua piovana distillata tre volte

-0,25

9999940

1

0,0125

7 libbre 7 once di acqua piovana distillata quattro volte

-0,35

9999915

1

0,0152

7 libbre di acqua piovana distillata cinque volte

0,50

9999879

1

0,160

6 libbre 9 once di acqua piovana distillata 6 volte

-0,60

9999855

0,133

6 libbre 3 once di acqua piovana distillata 7 volte

-0,75

9999818

0,122

168

Alchimia e chimica nel Settecento

Quantità di residuo per ogni libbra d’acqua

Qualità e quantità dell’acqua sottoposta a distillazione

Acqua distillata 8 volte Quantità totale del residuo separato dall’acqua piovana dopo otto distillazioni successive

Differenza nel numero di grani con cui si è dovuto caricare l’aerometro, confrontato con l’acqua di Senna distillata 0,55

Peso specifico, supponendo 10000000 per l’acqua di Senna distillata

Totale del residuo lasciato da ogni acqua a seguito della distillazione

Quantità di residuo per ogni libbra d’acqua

9999867

12

1,466

Sembra che la diminuzione di peso provata dall’acqua a seguito della seconda distillazione sia [in realtà] soltanto apparente. In precedenza si è già detto di aver utilizzato, come termine di comparazione, l’acqua della Senna distillata una sola volta in un alambicco di metallo; dopo ogni confronto, si riversava questa acqua in un flacone di cristallo, utilizzandola poi [nuovamente] per tutte le [altre] comparazioni; di conseguenza l’agitazione subita a più riprese da questa acqua distillata nell’essere riversata nel flacone deve aver favorito la dissoluzione del vetro. È quindi molto probabile che sia l’acqua della comparazione ad aver acquisito del peso, piuttosto che l’acqua piovana ad aver perso il suo. Si può allora considerare come costante che dopo la prima o tutt’al più la seconda distillazione, l’acqua non diminuisce di peso, a prescindere dal numero delle distillazioni a cui la si sottopone successivamente.

3. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

169



4. MARSILIO LANDRIANI

Nota al testo La scoperta dei gas e l’identificazione del loro ruolo chimicamente attivo in moltissime reazioni contribuirono in modo decisivo a dare alla chimica un’enorme visibilità, attirando l’attenzione di scienziati, anche molto celebri, provenienti da altri settori disciplinari. Fu in particolare la scoperta dell’ossigeno (1774), chiamato aria deflogisticata da Priestley, aria di fuoco da Scheele e ossigeno da Lavoisier, a generare un interesse senza precedenti e a far sentire la necessità di fondare una nuova disciplina, la chimica pneumatica. Con l’isolamento dell’ossigeno Lavoisier e molti altri chimici non esitarono a intravedere l’avvento di una vera a propria rivoluzione scientifica. In effetti, poco dopo la sua scoperta, Priestley, Scheele e Lavoisier avevano compreso, pur entro prospettive teoriche molto differenti tra loro, che questo gas era una sostanza chiave per comprendere operazioni chimiche fondamentali quali la calcinazione, la combustione e la respirazione. Si capì subito, inoltre, che l’ossigeno era la parte respirabile dell’aria atmosferica e che una sensibile alterazione della sua quantità poteva avere gravi effetti sulla respirazione e sulla salute. È inoltre sull’onda dell’entusiasmo innescato da questi dibattiti che venne perfezionato l’eudiometro, strumento pensato per misurare la salubrità dell’aria degli ambienti chiusi. Anche se la vita di questo apparato fu piuttosto breve, tra il 1774 e primi anni del secolo successivo ne vennero costruiti di tutte le fogge. Il primo tra questi fu l’eudiometro realizzato nel 1775 dal fisico milanese Marsilio Landriani (1751-1815) e presentato in un libretto, intitolato Ricerche fisiche intorno alla salubrità dell’aria (Milano, 1775), di cui riportiamo l’introduzione. Landriani pensava che la determina171

zione precisa della quantità di ossigeno presente negli ambienti chiusi potesse portare una rivoluzione nell’ambito della medicina benché, come correttamente rilevò poco dopo Alessandro Volta, questo dato designi esclusivamente la maggiore o minore respirabilità di un dato ambiente, mentre nulla dice circa la salubrità dell’aria. Ad alterare la salubrità dell’aria sono infatti altri gas o la presenza di particelle morbose. Al di là di questa importante distinzione, le ricerche di Landriani costituirono il primo passo verso l’analisi chimica dell’inquinamento atmosferico e rivelarono immediatamente la ricaduta socio-economica delle recenti scoperte sulla natura dei gas atmosferici.

Ricerche fisiche sulla salubrità dell’aria La chimica dell’aria per le molte importanti scoperte che in essa giornalmente si fanno, oramai divenuta l’occupazione di tutti i fisici dell’Europa, talmente verso la metà dell’anno scorso irritò la mia curiosità, che sospesi per un momento gli altri miei studi mi vidi forzato a gettarmi nel vasto campo di queste nuove sperienze: e siccome l’arte dello sperimentare facilmente induce passione, la curiosità divenne in breve un’occupazione ed occupazione tale, che molte sere del Carnevale furono passate in solitudine a sperimentare unitamente al celebre Professore D. Pietro Moscati,1 il quale da molto tempo si occupa con successo, come in tutte le altre cose, anche in questo genere di esperienze. Nacque fra le altre idee in conversando quella ancora di interessare la pubblica curiosità coll’esame della salubrità dell’aria dei diversi quartieri di questa città, e specialmente del ridotto del teatro che sospettavasi infetta quanto quella dei sepolcri. Vari quindi furono i comuni tentativi per eseguire questo utile progetto, il quale come ognun vede esige una delicatezza che va fino allo scrupolo. A tal effetto non si tralasciò di esaminare gli apparati tutti finora conosciuti, e si tentò di migliorarli con vari artifici e spese ancora: ma il tutto inutilmente. Poiché la natura di queste esperienze non ci lasciava accontentare del1  Pietro Moscati (1739-1824).

172

Alchimia e chimica nel Settecento

la mediocrità trattandosi di risultati che sì da vicino interessavano la pubblica salute: altronde io non mi sapeva fin d’allora persuadere che l’aria fissa contenuta nell’aria atmosferica fosse un elemento di salubrità, come da Priestley si supponeva, né abbastanza quindi vedea sicuro il giudizio dell’aria nitrosa come comunemente adoperavasi ad indicare la salubrità od insalubrità delle arie. Perlochè da me stesso mi feci con attenzione a confrontare e combinar esperienze, ed anche a farne delle nuove per esaminare in che mai consistesse la salubrità dell’aria, ed il come l’aria nitrosa la potesse indicare. Le nuove e belle sperienze ultimamente pubblicate dal suddetto Dr. Priestley,2 quantunque mi dessero tutti quei lumi che mi mancavano circa l’analisi dell’aria nitrosa, pure abbastanza non mi soddisfecero riguardo all’uso di essa come indice delle delicate differenze della salubrità dell’aria. Poichè né il suo apparato, quantunque il più esatto di quanti sinora io mi conosca, non ha né quella esattezza, né quella comodità cotanto necessaria per ben eseguire queste sperienze, né è sempre vero che il massimo di diminuzione dell’aria atmosferica indichi sempre il massimo di salubrità, anche nella supposizione che l’aria fissa in quella contenuta sia un elemento di salubrità. Perlochè io mi determinai principalmente a migliorarne l’apparato, ed immaginai quindi una comoda macchinetta con cui far esattamente si potessero queste esperienze. Questa macchina ebbe l’onore poi nel mese di marzo di essere presentata a questo nostro illuminato Ministro S.E. il Sig. Conte di Firmian,3 il quale l’accolse con quella umanità che rende cotanto ammirabili le altre rare virtù che adornano questo illustre mecenate. Molti amici poi a’ quali la mostrai, e specialmente il Professor Moscati, mi consigliarono a renderla pubblica. Ma essendomi pervenuta notizia che in Firenze il rinomato Sig. Abbate 2  Joseph Priestley, Observations on Different Kinds of Air, “Philosophical Transactions”, 62 (1772), pp. 147-264; tradotto in italiano con il titolo Osservazioni del dott. Priestley sopra differenti specie d’aria, tradotte dall’Inglese, da Gio. Francesco Fromond, coll’aggiunta di varie annotazioni consultate coll’Autore (Milano, 1774). 3  Carlo Giuseppe di Firmian (1716-1782), a cui Landriani dedicava la sua opera.



4. MARSILIO LANDRIANI

173

Felice Fontana4 ne avea immaginate e costruite sette, come egli stesso ne scrisse al Moscati, sgomentato dalla fertilità di queste invenzioni andai temporeggiando finattanto chè comparissero, et in tanto vieppiù meditai su di queste materie. E siccome nelle scienze nuove egli è facile a far qualche scoperta, così a me ancora riuscì di farne alcuna che tosto comunicai al Moscati, il quale anche si compiacque di parteciparle col disegno e descrizione della mia macchinetta al suddetto Sig. Fontana, e mi animò fortemente a seguitarle. Da questi impulsi e dalla speranza che potessero essere di qualche utilità sono nate queste mie ricerche che ora si azzardano a tentare la pubblica indulgenza, poiché elleno sperano di potersela meritare per questo riguardo. Ecco quanto elleno contengono. Esposta brevemente la storia della scoperta dell’aria nitrosa e delle sue principali proprietà, e rilevati alcuni difetti dell’apparato Priestleyano, viene la descrizione ragionata dell’Eudiometro, che con tal nome io chiamo la mia macchinetta da Eudios parola greca significante bontà dell’aria, accompagnata delle avvertenze più necessarie per la costruzione. Queste avvertenze necessariamente conducono all’analisi dell’aria nitrosa, che si dimostra con decisive esperienze altro non essere che aria comune, tenente in dissoluzione dell’acido nitroso combinato col flogisto, sostanza oramai nota per aver bisogno di qui definirla. Quindi per indicare il come quest’aria agisca sulla comune si annunziano le belle congetture del Sig. Dr. Priestley circa la formazione della nostra atmosfera, le quali, quantunque soggiacciano a varie difficoltà che ivi si rilevano, pure non turbano la spiegazione da lui data circa l’azione dell’aria nitrosa sulla comune: poiché con varie esperienze si dimostra che il flogisto contenuto nell’aria nitrosa si unisce colla comune, che da questa combinazione viene precipitata l’aria fissa in essa contenuta, e che le dimensioni dell’aria comune sono contratte dal flogisto. 4  Felice Fontana (1730-1805).

174

Alchimia e chimica nel Settecento

Dimostro poi che questa contrazione varia, secondo la maggior o minor quantità di flogisto contenuto nell’aria nitrosa, che questo sopraccarico di flogisto si ottiene con cavar l’aria nitrosa dai metalli collo spirito di nitro fumante e con altri processi ancora, e ne do la spiegazione di tutti questi fenomeni appoggiata alle note proprietà del flogisto e dell’acido nitroso, mostrando quindi la necessità in cui i fisici sono di convenire in assegnare non meno un comun metodo che s’indica onde procurarsi un’aria nitrosa sempre caricata di una costante dose di flogisto, che del limite di saturazione dell’aria nitrosa colla comune: a questi principi si subordinano tutte le altre diminuzioni dell’aria comune prodotte dagli altri processi. Posto dunque che l’aria nitrosa fa precipitar l’aria fissa, e che la maggior o minor diminuzione dell’aria comune residua dipende dal maggior o minor flogisto che essa contiene, si inoltra ad esaminare se l’aria fissa ed il flogisto sieno o no elementi d’insalubrità dell’aria. E primieramente si dimostra che una delle principali funzioni dei polmoni è la perspirazione5 insensibile del flogisto, perspirazione né definita per anco né calcolata da alcuno dei fisiologi, che questa perspirazione varia secondo i diversi stati del corpo umano, e secondo l’attitudine dell’aria comune a riceverlo. In secondo luogo si esamina se l’aria fissa in quanto è contenuta nell’aria comune sia un elemento o no di insalubrità, ed esposte ed esaminate le ragioni in contrario addotte, si dimostrano chiaramente gli equivoci che hanno preso alcuni fisici in supporla salubre. Ed in questa occasione con varie nuove esperienze si pruova che l’acidità dell’aria fissa proviene dall’acido con cui si cava, che la fissa può migliorare lo stato dell’aria, quando non è legata coll’umido aereo, e ciò con neutralizzare gli alcali volatili in quella dispersi: ma che ciò far non può quando è tenuta in dissoluzione dall’umido aereo, e quindi si dilucidano vari fenomeni importanti della cristallizzazione 5 Termine che indicava la traspirazione insensibile e cutanea, oggi caduto in disuso.



4. MARSILIO LANDRIANI

175

non meno che altri fenomeni della natura finora mal conosciuti e spiegati, come per esempio le variazioni del barometro, problema in fisica ancor irresoluto, la salubrità delle meteori, delle stagioni, dei venti non peranco abbastanza e convenevolmente esaminate, oltre ad altre nozioni fisiche per lo passato ignorate, perché dipendenti da questa teoria. Veduto adunque che l’aria fissa ed il flogisto sono elementi dell’insalubrità dell’aria, si passa a provare che l’aria nitrosa può indicare la quantità di questi vizi contenuti nell’aria comune: ed a tal fine si danno le più necessarie ed importanti avvertenze per fare le sperienze eudiometriche, sperienze sicuramente più utili ed importanti di tutte le meteorologiche finora fatte, mentre non si limitano alla sola sterile curiosità di sapere di quante linee o pollici il barometro ed il termometro sieno stati più alti un giorno dall’altro, ma indicano la maggiore o minore respirabilità dell’aria, di un vento, la salubrità di una stagione ecc., e che bene studiati posson prevenire infiniti abusi, e forse anche pronosticare e riparare le più terribili epidemie. Ecco il poco che io ho fatto: e mi riputerò abbastanza ricompensato se queste mie ricerche potranno interessare le utili premure dall’ottimo Governo a cui fortunatamente siamo affidati, od ecciteranno qualche ingegno più felice a pubblicarne delle migliori. Noi abbiamo ragion di sperarlo: li rapidi progressi fatti in questa parte della chimica in sì poco spazio di tempo, gli sforzi di tanti fisici che vi cospirano, la probabilità, anzi la moral certezza di fare scoperte anche maggiori, ci fanno sperare che la natura debba prepararci una di quelle fortunate epoche, che dopo un lungo lasso di tempo cangiano in un tratto la faccia delle scienze.

176

Alchimia e chimica nel Settecento



5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

Nota al testo Gli esperimenti sull’analisi e sintesi dell’acqua hanno una storia e una cronologia molto complesse. Attorno a essi scoppiò una delle più vivaci controversie scientifiche del Settecento. Nella memoria che qui presentiamo, Lavoisier e Meusnier ricordano a grandi linee le tappe e i protagonisti di queste operazioni. Le esperienze descritte dai due autori furono realizzate tra il 26 e il 28 febbraio 1785 all’Arsenal di Parigi, residenza di Lavoisier e sede del suo laboratorio: qui vennero seguite da una commissione nominata dall’Académie des Sciences, il cui compito era quello di verificare la correttezza delle procedure sperimentali adottate e dei risultati ottenuti.1 Non è questa la sede per dilungarci su un evento tanto complesso da aver dato luogo, fino alla prima metà dell’Ottocento, a varie ripercussioni e polemiche.2 Basti qui sottolineare che gli esperimenti di Lavoisier e Meusnier, eseguiti con il gasometro, macchina che avrebbero successivamente perfezionato ma che già allora vantava standard di precisione assolutamente inediti per la chimica, costituirono uno spartiacque fondamentale. È inoltre sicuramente a partire da quanto riferito

1  Sull’organizzazione internazionale di questo monitoraggio si veda Denis I. Duveen, Herbert S. Klickstein, A Letter from Berthollet to Blagden relating the Experiments for a Large-scale Synthesis of Water Carried out by Lavoisier and Meusnier in 1785, “Annals of Science”, 10 (1954), pp. 58-62; sui protocolli sperimentali Maurice Daumas, Denis I. Duveen, Lavoisier’s relatively unknown large-scale decomposition synthesis of water, February 27 and 28, 1785, “Chymia”, 3 (1950), pp. 113-129. 2  David Philip Miller, Discovering Water. James Watt, Henry Cavendish and the Nineteenth-Century “Water Controversy”, Bodmin, Ashgate, 2004. Sulla cronologia degli esperimenti di Lavoisier, uno dei lavori migliori è ancora quello di Maurice Daumas, Lavoisier. Théoricien et expérimentateur, Paris, Puf, 1955.

177

nel testo di seguito tradotto che la controversia entrò nel vivo. A innescare il dibattito non furono soltanto gli esiti di queste esperienze, che incontestabilmente rivelavano la composizione dell’acqua in idrogeno e ossigeno, ma anche le modalità con cui esse furono condotte. L’affidarsi senza tentennamenti ai raffinati e rigorosi metodi sperimentali della fisica e la meticolosa, quasi ossessiva, enfasi posta sulla centralità dei dati ponderali sembravano infatti oscurare le tecniche d’analisi privilegiate dai chimici nei secoli precedenti. Come sottolineato verso la fine del saggio, Lavoisier e Meusnier pensavano ora alla chimica come a una scienza rigorosa, che nulla aveva da invidiare alle scienze esatte. Per giungere ai risultati esposti in questa memoria, Lavoisier aveva lavorato per più di due anni e già nel giugno 1783 aveva concluso, dopo esperimenti a cui avevano assistito numerosi scienziati, che l’acqua non era una sostanza semplice ma era composta da “aria infiammabile e aria vitale”. A seguito di queste scoperte furono pubblicate due memorie fondamentali,3 che rivelano l’evoluzione degli esperimenti e degli apparati che condussero alle esperienze del 1785, quelle che qui pubblichiamo. Negli anni successivi Lavoisier continuò a perfezionare gli strumenti, in particolare proprio il gasometro, senza però riuscire a ottenere risultati sensibilmente più precisi di quelli presentati nell’articolo del 1786.

3  Antoine Laurent Lavoisier, Mémoire dans lequel on a pour objet de prouver que l’eau n’est point une substance simple, un élément proprement dit, mais qu’elle est susceptible de décomposition et de recomposition (1784), in Mémoires de l’Académie des sciences (1781), pp. 468-494 e Mémoire où l’on prouve par la décomposition de l’eau, que ce fluide n’est point une substance simple, & qu’il y a plusieurs moyens d’obtenir en grand l’air inflammable qui y entre comme principe constituant. Par M.rs Meusnier et Lavoisier (1784), in Mémoires de l’Académie des sciences (1781), pp. 269-283.

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Alchimia e chimica nel Settecento

Svolgimento delle ultime esperienze sulla scomposizione e la ricomposizione dell’acqua fatte dai Signori Lavoisier e Meusnier, dell’Académie des Sciences4 La composizione dell’acqua era stata supposta dopo che molti fisici francesi e inglesi avevano osservato che bruciando insieme aria vitale e gas idrogeno risultava una quantità considerevole di acqua. Cavendish, della Royal Society di Londra, è, secondo il rapporto di Blagden,5 segretario di questa stessa società, il primo autore di questa osservazione; ma egli non arrivò alla conclusione che l’acqua era composta da queste due sostanze. D’altra parte è certo che Lavoisier, Laplace e Monge non erano a conoscenza del lavoro di Cavendish quando si occuparono simultaneamente della stessa esperienza, durante il mese di giugno del 1783, che venne da loro compiuta, senza fornirsi reciprocamente informazioni, con strumenti diversi. I primi due mostrarono a Parigi che questa acqua era perfettamente pura; il terzo, a Mézières, che il suo peso era assai vicino a quello dei due fluidi riuniti. Era già qualche mese che Lavoisier, da solo, aveva ottenuto, mediante combustione dell’aria vitale in una bottiglia piena di gas idrogeno, una quantità considerevole di un liquido insipido come l’acqua distillata.6 Poco dopo Lavoisier e Meusnier provarono che era ugualmente possibile scomporre l’acqua, mettendola a contatto con dei corpi sui quali essa potesse agire allo stato di vapore incandescente; le loro esperienze sono state pubblicate nel maggio del 1784. In seguito hanno deciso di porre queste due verità assolutamente al di sopra di ogni dubbio e hanno ripetuto i due tipi di esperimenti con attenzioni sfortunatamente ancora sco4   Développement des dernières expériences de la décomposition et recomposition de l’eau, faites par MM. Lavoisier et Meusnier, de l’Académie des Sciences, “Journal Polytipe des sciences et des arts” (27 febbraio 1786), 1, pp. 21-44, ristampato in Antoine Laurent Lavoisier Œuvres, vol. 5, pp. 320-334. La traduzione italiana, a cura di Ferdinando Abbri, apparsa in Lavoisier, Memorie scientifiche a cura dello stesso Abbri, Roma, Theoria, 1986, pp. 127-141, è stata in alcuni punti leggermente modificata. 5  Charles Blagden (1748-1820). 6   Nota degli Autori: Si vedano i Mémoires de l’Académie des sciences, anno 1781.

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nosciute nei laboratori. Hanno, allo stesso tempo, scomposto l’acqua, operando su grandi quantità e il gas idrogeno, prodotto in questa operazione, è stato subito usato per la ricomposizione. Queste esperienze avvennero il 28 e il 29 febbraio 1785, alla presenza di una commissione numerosa, proposta a questo scopo dall’Académie des sciences, di oltre trenta scienziati, fisici, geometri e naturalisti, sia stranieri sia membri dell’Académie. Lavoisier e Meusnier si proposero di farne conoscere i dettagli nei Mémoires de l’Académie.7 Nell’attesa l’importanza della scoperta per le scienze li ha indotti a consentirci di darne un estratto assai ampio per eliminare tutti i dubbi che potrebbero nascere intorno a questa questione. Questo estratto vale anche come risposta alle obiezioni pubblicamente rivolte contro di loro da parecchi fisici francesi, inglesi e italiani. Ci occuperemo dapprima dell’esperienza della decomposizione, cominciando con una veloce descrizione dell’apparato. Ritorneremo in seguito su ogni sua parte, dando i dettagli relativi all’esattezza e alle precauzioni che abbiamo adottato per evitare errori in merito alle quantità e alla natura dei prodotti; infine renderemo conto dell’esperienza e dei risultati. Osserveremo lo stesso ordine nell’esperienza di ricomposizione e termineremo queste osservazioni con le conclusioni che la sana logica ci costringerà a tirare. A è un imbuto di vetro, destinato a contenere l’acqua che si vuole scomporre. Questo imbuto è chiuso in B e in C da due rubinetti di rame che vi sono esattamente incollati. La parte inferiore del canale del rubinetto C termina con un tubicino conico DE, la cui estremità E, assai sottile, non permette all’acqua contenuta nel recipiente che di uscire goccia a goccia. Per valutare la velocità con la quale le gocce si susseguono, questo imbuto è montato su un tubo di vetro GF, attraverso il quale si vede l’estremità E del tubicino DE. La parte inferiore del tubo GF è solidamente incastrata in una ghiera F di rame rosso, che 7  Ma questo resoconto non è mai stato pubblicato e i protocolli di laboratorio sono andati perduti.

180

Alchimia e chimica nel Settecento

5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

181

è saldata al canale IH fatto dello stesso metallo. Il tubo ricurvo GKL mette in comunicazione la capacità GHI con la parte inferiore e vuota del recipiente A e il rubinetto K regola a volontà questa comunicazione. Il canale IH è lutato in I con un tubo ricurvo di rame giallo IM, che si può chiudere mediante il rubinetto e che si incastra in M nella macchina pneumatica P. L’altra estremità H dello stesso canale è unita, mediante una saldatura forte, alla canna di fucile HO, che attraversa il braciere del forno inclinato Q. Questa canna di fucile è perfettamente pulita all’interno ed è riempita da una grande quantità di strisce di lamiera nuova di ferro. Per evitare l’ossidazione della superficie esterna della canna di fucile, quest’ultima è avvolta da tre giri strettissimi di fil di ferro, i cui interstizi sono riempiti da polvere di carbone. Questi tre giri di fil di ferro sono anche ricoperti da parecchi strati di terra per fabbricare stoviglie, che è stata applicata con un pennello dopo essere stata sciolta in acqua. Quando uno strato era steso, veniva subito fatto seccare, poi si applicava il secondo e così via fino a che lo spessore di questa specie di intonaco era tanto considerevole da non lasciar dubbi sull’alterazione di peso che la canna avrebbe potuto subire a causa del contatto con l’aria esterna. L’estremità di questa canna è anche unita in O, mediante la stessa saldatura forte, a un tubo RO di rame rosso, il quale si incastra nella parte superiore della serpentina RS, costruita secondo l’uso di stagno. L’altra estremità S della serpentina entra in un tubo di latta che si adatta in T a una delle due giunture della boccetta V; l’altra giuntura W riceve un tubo di latta WX, che è saldamente attaccato in X con il sifone di rame XYZ. Questo sifone si inserisce in Z sotto la campana a della vasca pneumato-chimica b; è fissato alla vasca mediante un morsetto g e comunica in Y mediante un rubinetto con il tubo di vetro Yd, funzionante da barometro ‘da saggio’,8 e immerso in d nel 8  Il baromètre d’épreuve usato da Lavoisier e Meusnier non era finalizzato a misure la pressione atmosferica, bensì a rilevare la pressione all’interno dei tubi dell’apparato.

182

Alchimia e chimica nel Settecento

mercurio contenuto nella piccola bottiglia f. Lo stesso sifone è munito anche di un altro rubinetto e il quale si usa per separare a richiesta le campane a dal resto dell’apparato. Essendo così tutto disposto, si è introdotta nell’imbuto A, del quale era nota la tara, una quantità nota di acqua distillata, perfettamente purificata dall’aria. Questa acqua riempiva l’imbuto fino a un’altezza pari a tre quarti circa. Si è poi acceso il fuoco nel fornello Q, si sono chiusi i tre rubinetti BC ed e e si è messa in azione la macchina pneumatica P, per fare il vuoto in tutto l’apparato. Questa precauzione era indispensabile per parecchie ragioni: 1° per evitare il miscuglio dell’aria dei recipienti con il gas idrogeno che si voleva ottenere; 2° per assicurarsi, grazie alla tenuta dei luti nel vuoto, che questi non lasciassero sfuggire la più piccola quantità possibile di gas idrogeno e che non permettessero l’ingresso dell’aria esterna negli strumenti; 3° infine, per essere certi che la piccola quantità di aria contenuta nei recipienti non contribuisse in nulla all’ossidazione interna della canna da fucile. Si comprende ora l’utilità del tubo GKL; è servito a rarefare l’aria racchiusa al di sopra dell’acqua nella parte superiore del recipiente A, in modo che la sua elasticità, non essendo superiore a quella dell’aria residua all’interno dell’apparato, non potesse spingerci dentro l’acqua con violenza attraverso l’orifizio E del tubicino. Essendo il vuoto tanto perfetto quanto poteva esserlo, il mercurio si è innalzato a 28 pollici9 nel barometro da saggio YF; ma non è rimasto costantemente a quest’altezza; discendeva di un quarto di linea circa al minuto e ciò mostrava che una certa quantità di aria rientrava negli strumenti ma si trattava di una quantità così piccola, in verità, che poteva essere trascurata senza tema di errore. Quando la canna di fucile divenne rossa e il calore comuCome in altri strumenti ideati da Lavoisier, esso funge da manometro. 9   Nota degli Autori: Il barometro era quel giorno a 28 pollici 1 linea ½.

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nicato fino al tubo IH divenne sufficiente a ridurre l’acqua in vapore, si è aperto il rubinetto C e l’acqua contenuta nell’imbuto ha iniziato a cadere goccia a goccia attraverso il piccolo orifizio E. Nel momento in cui l’acqua toccava le pareti del tubo IH, si vaporizzava e riempiva tutta la parte calda dell’apparato. Quando si era formata una certa quantità di vapore e, per contatto con il ferro rovente, abbastanza gas idrogeno da equilibrare il peso dell’atmosfera, si è osservata la caduta del mercurio del barometro fino al suo livello f. Si è allora aperto il rubinetto che comunicava con le campane a e che è segnato con c nella figura. Il vapor acqueo, attraversando la canna di fucile, ha provato il grado di calore dell’incandescenza e in questo stato ha attaccato la canna del fucile e le strisce di lamiera in essa contenute, senza poter attaccare il resto dell’apparato perché, in generale, il vapore agisce sui metalli solo quando è molto caldo e il rame rosso gli resiste indipendentemente dalla sua temperatura: ora tutte le parti lontane dal fornello sono fredde e i tubi IH, OR, contigui alla canna di fucile, sono stati appositamente costruiti come abbiamo indicato in precedenza con rame rosso. Il vapor acqueo, che passava nella canna di fucile, non vi restava un tempo tanto lungo da poter essere scomposto interamente; la maggior parte di questo vapore era portato via con il gas idrogeno: occorreva perciò conoscere esattamente la quantità di quest’acqua per avere, sottraendola da quella che era uscita dall’imbuto, il peso dell’acqua scomposta. A questo scopo si è obbligato il gas idrogeno a percorrere la serpentina RT, nel refrigerante della quale si manteneva accuratamente la temperatura del ghiaccio fondente mediante un miscuglio di acqua e ghiaccio. La parte non scomposta del vapore si condensava in questa serpentina e si depositava nella bottiglia V, a eccezione della piccola quantità di acqua necessaria per umettare l’interno degli apparecchi e di quella tenuta in dissoluzione dal gas idrogeno; vedremo in seguito come si è potuto tener conto di quantità così difficili da determinare. Quanto al gas idrogeno, siccome indipendentemente dal suo grado di raffreddamento è permanentemente allo stato aeriforme, fluiva per il 184

Alchimia e chimica nel Settecento

tubo WXZ per fermarsi nella vasca pneumato-chimica in cui poteva essere raccolto nel modo ordinario, nelle campane a, misurate con grande esattezza. libbre

once

grosse

grani

Il peso dell’acqua uscita dall’imbuto A, durante questa esperienza, è risultato pari a

2

13

4

61

Quello dell’acqua nel flacone tubulare W a

2

9

5

3

L’acqua scomparsa pesava dunque

0

3

7

58

dalla quale occorre sottrarre, per avere la quantità d’acqua realmente scomposta, quella che è rimasta dopo l’esperienza nella canna di fucile e quella che l’idrogeno ha portato con sé. Quanto all’umidità rimasta nella serpentina si è dispensati dal considerarla perché prima dell’esperienza la si era umettata e fatta gocciolare così a lungo che si è aspettato di pesare il flacone tubulare dopo l’esperimento. Dopo l’operazione si è spogliata la canna di fucile dal sigillante di terra grassa e dai tre strati di fil di ferro che si erano in parte calcinati. La superficie stessa della canna è risultata ricoperta da un leggero strato bronzeo, che il filo di ferro aveva portato via in qualche parte e che era così sottile che un leggero strofinamento con la lima metteva in luce il ferro dolce. Da ciò si è concluso che la variazione di peso proveniente dall’ossidazione esterna doveva essere nulla. La superficie interna di questa canna e le strisce di lamiera erano invece profondamente calcinate, erano divenute molto fragili e presentavano una specie di cristallizzazione nella loro frattura, quale è stata descritta nella prima memoria da Lavoisier e Meusnier.10 10  A ntoine Laurent Lavoisier, Jean-Baptiste Meusnier, Mémoire où l’on prouve par la décomposition de l’eau, que ce fluide n’est point une substance simple, & qu’il y a plusieurs moyens d’obtenir en grand l’air inflammable qui y entre comme principe constituant. Par M.rs Meusnier et Lavoisier (1784), in Mémoires de l’Académie des sciences (1781), pp. 269-283.

5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

185

libbre

once

grosse

grani

La canna pesava in questo stato, prima di essere privata dall’umidità osservata nello smontarla

7

3

7

59

Dopo essere stata perfettamente seccata

7

3

7

17

L’acqua scomparsa pesava dunque

0

0

0

42

libbre

once

grosse

grani

Questa stessa canna che, dopo essere stata seccata, pesava

7

3

7

17

Prima dell’esperimento

7

0

7

36

Il suo peso era dunque aumentato di

0

2

7

53

Al quale aggiungendo il peso di tutto il gas idrogeno ottenuto in questa operazione

0

0

3

32

Si ha per il peso dei due principi che costituiscono l’acqua

0

3

3

18

Ma la quantità d’acqua scomparsa è, dopo averne sottratto 42 grani d’acqua ritrovati in natura nella canna di fucile, pari a

0

3

5

16

C’è dunque rispetto ai due principi separati dall’acqua una mancanza di

0

0

2

3

Questo deficit è dovuto interamente a due cause: in primo luogo, la perdita di gas idrogeno e di acqua in vapore che, nonostante le attenzioni poste da Lavoisier e Meusnier, si è verificata in maniera impercettibile a causa di buchi invisibili che si sono formati, durante l’operazione, in parecchi punti della canna di fucile tormentata dal calore; poi, la piccola quantità di acqua tenuta in vapore anche nelle campane dal gas idrogeno, del quale essa alterava a lungo la trasparenza prima di precipitare. Ma poiché si ignorano quali siano le quantità rispettive di acqua e gas idrogeno che sono andate perdute, benché si cono186

Alchimia e chimica nel Settecento

sca la loro somma, non si avrà da questa esperienza la quantità precisa di ciascuno dei principi contenuti in una quantità data di acqua; si potrà determinare soltanto i limiti di questa quantità, cioè si determinerà quali sono il valore massimo e quello minimo che essa possa avere. Se si suppone infatti che tutto il deficit che abbiamo riscontrato deriva dal gas idrogeno si troveranno 19 libbre di questo gas per quintale di acqua; attribuendo invece al vapor acqueo non scomposto la perdita di 2 dramme 3 grani, il quintale d’acqua conterrà 13 libbre di gas idrogeno. Per formare 100 libbre d’acqua, occorreranno dunque non meno di 81 e non più di 87 libbre di quella parte costituente che si è fissata nel ferro e che ne ha aumentato il peso. Siccome il ferro era ossidato e siccome tutti gli ossidi metallici sono combinazioni di metalli con la base dell’aria vitale e, d’altra parte, una moltitudine di fenomeni aveva già fatto presagire a Lavoisier e Meusnier che l’acqua era composta dalle basi del gas idrogeno e dell’aria vitale, questi due fisici furono naturalmente indotti, per una fortissima analogia, a credere che il principio, sottratto all’acqua dal ferro, fosse la base dell’aria vitale. Questa era stata la conclusione della loro prima esperienza, meno esatta di questa, pubblicata nel marzo del 1784, sull’analisi dell’acqua. La sintesi di questo fluido, che andiamo ora a descrivere, porrà questa verità nella più grande luce. L’apparato del quale Lavoisier e Meusnier hanno fatto uso per ricomporre l’acqua consisteva (fig. 2) di due casse AB, di latta, sospese sopra a due altre casse CD, più grandi delle prime e piene di acqua. Queste due specie di grandi recipienti contenevano l’uno l’aria vitale, l’altro il gas idrogeno, destinati all’esperienza. Si potevano progressivamente rinnovare i fluidi contenuti nelle casse, facendoli entrare mediante i tubi fissi in rame EF, GH, per mezzo di campane rovesciate IK, i cui tubicini erano dotati di rubinetti FH e che erano saldamente fissati alle vasche LM. La quantità di fluidi contenuti in queste casse era calcolabile per ogni loro posizione mediante un limbo graduato che rendeva conto dei loro movimenti. Queste casse erano caricate con pesi più o meno considerevoli che facevano 5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

187

188

Alchimia e chimica nel Settecento

sortire i fluidi aeriformi con maggior o minor velocità dai tubi NO, chiudibili a volontà mediante i rubinetti PQ. Questi sgorgatori terminavano al di sopra dei rubinetti con i calici RS, nei quali erano incollati col mastice esattamente i tubi di rame RT, ST, sigillati con i giunti ricurvi TV, UX. Questi giunti contenevano alcali fìsso secchissimo e frantumato in modo grossolano, destinato a sottrarre ai fluidi aeriformi la più grande quantità possibile di umidità della quale si erano saturati a causa della loro permanenza al di sopra dell’acqua nella vasca pneumato-chimica. Dopo aver introdotto l’alcali in questi giunti si decise di turare ciascuna estremità con una piccola palla di cotone per impedire che il flusso dei fluidi aeriformi trasportasse qualche particella d’alcali; in seguito si era determinato con precisione il loro peso. I giunti si incastravano in VX nei tubi di rame Vy, Xy, che erano sorretti dagli sgabelli qr e si allungavano in Y nel pallone a, dove doveva avvenire la combustione dei due fluidi aeriformi. Ma questi due tubi comunicavano con il pallone in maniera diversa; quello che doveva portarci il gas idrogeno terminava con un tubicino o cannello bc, forato in b con un foro piccolissimo, che penetrava fino al centro del globo. L’altro tubo, quello che forniva l’aria vitale, terminava al cerchietto Y, che faceva parte della capacità interna del globo. Vicino al globo si trovava una pompa pneumatica d, con la quale si poteva fare il vuoto mediante il tubo efgY, attraversato da un rubinetto g. A questa macchina pneumatica era stato adattato un tubo di scorrimento klmn, per portare l’aria che la macchina sottraeva al globo in una campana p piena di acqua, montata su un apparato pneumato-chimico o, disposto a tal scopo vicino alla macchina. Si era sistemato nel globo centrale un eccitatore st, che era in corrispondenza con il becco del cannello sopra descritto, in modo che applicandovi una macchina Suvx, si stabiliva una corrente continua di scintille tra l’eccitatore e il becco del cannello al fine di accendere il gas idrogeno appena entrava in contatto con l’aria vitale. Si poteva poi, per mezzo di un anello s, allontanare questo eccitatore senza aprire il globo e rimetterlo, a volon5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

189

tà, di fronte al cannello per riaccendere il gas idrogeno nel caso in cui si fosse spento, il che, per inciso, non si è mai verificato. Sui tubi che mettevano in corrispondenza ogni cassa con il globo erano state praticate le deviazioni a angolo retto Zy, Wz, chiuse con i rubinetti 1, 2 e alle estremità delle quali si poteva sistemare un pallone di vetro 3, per pesare i fluidi aeriformi in modo da riconoscere se la circostanza dell’essiccamento mediante l’alcali influiva sul loro peso specifico. Si era infatti posto il globo del centro in modo accurato, perché pesandolo di nuovo dopo l’operazione si potesse ottenere la quantità del prodotto della combustione dei due fluidi aeriformi. Questo globo era nuovo, era stato lavato con acqua distillata e poi asciugato perfettamente. Era chiuso con un luto affidabile e saldamente abbracciato da una imbastitura di filo di ferro grosso 4, 5, 6, 7, 8, i cui piedi 5, 6, ecc. erano, come tutti i supporti delle altre parti dell’apparato, bloccati sul pavimento del laboratorio. Dopo aver montato in questo modo l’apparato ed essersi assicurati che non vi fosse alcuna imperfezione capace di nuocere al successo dell’esperienza, si è introdotto nella cassa B, che era in comunicazione con il recipiente bc, il gas idrogeno purissimo ottenuto dall’acqua nell’operazione precedente. Nello stesso tempo si è riempita l’altra cassa A con l’aria vitale che era stata liberata dal precipitato rosso e purificata, facendole fare effervescenza col passare attraverso l’alcali caustico in liquore, dalla piccola porzione di acido carbonico o di acido nitroso che poteva contenere. In seguito, con i rubinetti 1, 2, P e Q chiusi e gli altri tre aperti, si è fatto il vuoto con la pompa d nel globo e in tutti i tubi adiacenti, poi si è interrotta la comunicazione dell’apparato con la pompa, chiudendo il rubinetto g e si è aperto quello p della cassa ad aria vitale per far passare questo fluido che è venuto a rimpiazzare nel pallone l’aria comune che era stata pompata via. Infine dopo aver posto la palla dell’eccitatore sotto la punta del cannello, si è aperto il rubinetto Q per far sì che il gas idrogeno, spinto da una forza equivalente alla pressione di due pollici d’acqua prodotta dal 190

Alchimia e chimica nel Settecento

peso con il quale la cassa B era stata caricata, potesse sortire attraverso l’orifizio capillare del cannello e prendere subito fuoco grazie alla corrente di scintille elettriche che veniva nel frattempo mantenuta in vita. Quando la combustione ha avuto inizio si è tolto l’eccitatore e si è lasciata proseguire l’esperienza da sola, avendo precauzione di rinnovare i fluidi aeriformi nelle casse prima che queste fossero completamente vuote. Durante questa combustione si è vista l’acqua, subito in vapore, oscurare il globo, depositarsi in gocce, rigare tutta la superficie interna, raccogliersi infine nella parte inferiore in quantità sempre più considerevole che ha cessato di accrescersi solo al termine dell’esperienza.

In questo esperimento, il volume dell’aria vitale fornita dalla cassa era pari a quello di una quantità d’acqua Al quale si deve sommare la capacità del globo che corrisponde a Per cui il volume totale dell’aria vitale impiegata è di

libbre

once

grosse

grani

218

15

5

23 e

40

1

2

19

259

0

7

45 e

In base a pesate molto esatte, compiute nel pallone segnato 3 prima che l’aria vitale fosse passata attraverso l’alcali secco, un volume di quest’aria rappresentato da 35 libbre 1/2 d’acqua, pesa 6 grosse 12 grani. La totalità dell’aria fornita era dunque pari a 5 once 5 grosse 12 grani 1/2, da cui bisogna dedurre il peso del residuo aeriforme ritrovato nel globo dopo l’esperienza. Questo globo era stato chiuso al momento in cui la combustione aveva avuto termine e conteneva un’aria riscaldata, di conseguenza non era più interamente pieno d’aria quando ha ripreso la sua temperatura originale: si è misurata la quantità d’aria necessaria per completare il riempimento di questo globo dopo il suo raffreddamento. 5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

191

libbre L’estremità della cassa ha indicato che mancava un volume d’aria rappresentato da

once

grosse

grani

2

5

0

46

La capacità del globo è di

40

1

2

19

Il volume del residuo, dopo la combustione, è perciò soltanto di

37

12

1

45

once

grosse

Avendo trovato, d’altra parte, che un volume di questo residuo, corrispondente a quello di 35 libbre ½ d’acqua, pesa 6 dramme, ne risulta per il peso totale del residuo

grani

0

6

24

Che defalcato il peso dell’aria fornita, che è di

5

5

12

Dà per il peso netto dell’aria vitale impiegata

4

6

60

Così il peso della totalità dei fluidi aeriformi consumati è di

5

5

28

Dal quale bisogna sottrarre libbre once dramme grani quello dell’umidità rimasta nell’alcali dei giunti TV, UX Acqua sottratta dall’alcali all’aria vitale: 35 grani ¼ Acqua sottratta dall’alcali all’idrogeno 44 grani ¼

0

1



Il peso dei soli fluidi aeriformi è dunque di

5

4

20 ½

Avendo pesato, dopo l’esperimento, il globo in cui si era compiuta la combinazione di questi due fluidi aeriformi, si è trovato che la quantità d’acqua formata era

5

4

51

Da ciò risultava che l’acqua prodotta, rispetto al peso dei gas riuniti impiegati per produrla, è in eccesso di

0

0

30 ½

Questo risultato del tutto opposto a un deficit, lungi dall’essere sfavorevole a ciò che si voleva provare, mostra invece l’esattezza di questa operazione. Questa differenza deriva unicamente dal fatto che si è attribuito ai fluidi aeriformi un peso specifico minore rispetto a quello che avevano nelle casse. 192

Alchimia e chimica nel Settecento

Si sono infatti pesati questi fluidi in un pallone la cui temperatura era la stessa di quella dell’aria ambiente, la quale, essendo più elevata di quella all’interno delle casse, ha necessariamente rarefatto i fluidi contenuti in questo pallone; questa dilatazione, accresciuta dal contatto con le mani e dalla vicinanza di persone che lavoravano alla determinazione dei pesi specifici dei fluidi aeriformi, è stata sufficiente a far apprezzare il peso totale dei fluidi impiegati in una misura inferiore di 50 grani rispetto al peso reale. Segue dal resoconto della perdita di aria vitale e di gas idrogeno che l’acqua contiene per quintale 15 libbre di gas idrogeno e 85 libbre di aria vitale; si vede con soddisfazione che quest’ultima cifra si mantiene entro i limiti ad essa prescritti dalla precedente esperienza di scomposizione dell’acqua. Del resto l’acqua ottenuta in questa operazione era sensibilmente acida e faceva virare verso il rosso la carta blu. Avendola esaminata con i procedimenti più delicati della chimica, si è riconosciuto che conteneva 5 grani d’acido nitrico secco per oncia. Questa acidità sembra a un primo colpo d’occhio sovvertire tutto ciò che si è affermato sui principi costituenti dell’acqua; ma con un po’ di attenzione si vedrà subito che non è per questo meno necessario che l’acqua sia composta delle basi dell’aria vitale e del gas idrogeno. Quanto alla spiegazione della produzione dell’acido nitrico in questa esperienza, è assai semplice dopo la scoperta di Cavendish sulla natura di questo acido. Questo fisico eccellente ha osservato che eccitando per molto tempo una serie continua di scintille elettriche in un miscuglio di gas azoto e di aria vitale, si arriva a produrre acido nitrico. Ora l’aria vitale impiegata per formare l’acqua conteneva un dodicesimo di gas azoto e di ciò ci si è assicurati mediante il saggio eudiometrico; dunque nella nostra esperienza si incontravano i due principi dell’acido del nitro e il calore necessario a realizzare la loro combinazione. Così l’acido ha dovuto prodursi, unirsi all’acqua che via via si formava e questo è ciò che si è effettivamente verificato. Queste due grandi esperienze sono accompagnate da una 5. ANTOINE LAURENT LAVOISIER - JEAN-BAPTISTE MEUSNIER

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moltitudine di altre circostanze che Lavoisier e Meusnier si riservano di illustrare dettagliatamente nella loro opera, nella quale faranno scomparire, mediante un calcolo rigoroso, tutte le differenze che sembrano sussistere fra i loro risultati. Ma la descrizione appena fornita del loro lavoro e delle precauzioni prese per renderlo concludente è più che sufficiente a mostrare la certezza della proposizione che avevano intenzione di provare: l’acqua non è un elemento, è invece composta da due principi distinti, la base dell’aria vitale e quella del gas idrogeno e questi due principi entrano nell’acqua nel rapporto di 85 a 15. I limiti posti da questo Journal ci costringono a sopprimere le conseguenze sublimi che possono essere dedotte da queste esperienze al fine di spiegare, in maniera chiara e facile, un gran numero di fenomeni tra i più importanti. Termineremo questo estratto con una breve riflessione sull’esattezza che si deve introdurre nelle esperienze di chimica. Questa scienza, separata per lungo tempo da tutte le altre, ha creduto di poter fare a meno dei pesi e delle misure ai quali la fisica generale è debitrice delle sue scoperte più belle. Otteneva i suoi risultati da qualche vago rapporto tra certe proprietà dei costituenti rispetto a quelle del composto. Questo metodo non può essere sicuro perché le sensazioni non rendono esattamente conto di ciò che ci colpisce finché non offrono rapporti suscettibili di precisione. Ora, rapporti di questo tipo non si manifestano per nulla tra sapori, odori ecc. Queste proprietà possono, tutt’al più, servire per distinguere e per riconoscere subito qualche sostanza, ma come possono assicurarci che abbiamo raccolto tutti i principi del corpo che ci eravamo proposti di analizzare? È necessario ricorrere a mezzi meno ingannatori, cioè alla determinazione del volume e del peso di ciascuna parte costituente del corpo del quale si indaga la natura e alla comparazione di questi volumi e pesi tra di loro e con quelli dei corpi stessi. Questi strumenti sono i soli in grado di svelare i principi delle sostanze naturali; si dovrebbe perciò esigere dai chimici il loro uso rigoroso in tutte le esperienze. È vero che dedicandosi alla misurazione e al calcolo di tutto si rendono assai più difficili e più lunghe le 194

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operazioni della chimica; ma tutto questo aumento di lavoro è compensato dal vantaggio immenso di non essere più costretti a ritornare sui propri passi.

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Nota al testo Tra il 1792 e il 1793 Lavoisier cominciò a preparare una nuova edizione dei suoi scritti. Il progetto venne drammaticamente interrotto dal suo arresto alla fine di novembre del 1793 e degli otto volumi che dovevano comporre l’opera solo due, uno dei quali incompleto, furono stampati e distribuiti privatamente con il titolo di Mémoires de chimie et de physique da Madame Lavoisier dopo il 1803.1 La relazione che qui presentiamo fu scritta intorno al 1792 e costituisce un significativo documento autobiografico attraverso il quale Lavoisier, nell’offrire uno sguardo retrospettivo sulla rivoluzione chimica, rivendica la paternità della teoria dell’ossigeno. Dopo i successi ottenuti con gli esperimenti sull’analisi e sintesi dell’acqua (1783-1785), la riforma della nomenclatura (1787) e la pubblicazione del Traité élémentaire de chimie (1789), alcuni collaboratori di Lavoisier, in particolare Fourcroy e Guyton de Morveau, recentemente convertiti alla nuova chimica, iniziarono a presentare quest’ultima come il risultato di un lavoro collegiale. Lavoisier ignorò queste insinuazioni fino a che, forse presentendo gli eventi che avrebbero presto portato alla sua esecuzione, sentì il bisogno di precisare il proprio ruolo. I tentativi di sminuire il contributo scientifico di Lavoisier erano cominciati molto tempo prima quando, nel 1775, il farmacista parigino Pierre Bayen pubblicò un articolo sull’importante periodico scientifico Observations sur la physique in cui contestava la presunta novità dell’os-

1  Su quest’opera si veda Marco Beretta, Lavoisier and his Last Printed Work: the Mémoires de physique et de chimie (1805), “Annals of Science”, 58 (2001), pp. 327-356.

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servazione di Lavoisier circa la causa, attribuita all’ossigeno, dell’aumento di peso delle calci metalliche. Secondo Bayen il primo scienziato ad avere questa intuizione era stato Jean Rey (1583-1645), medico fino ad allora rimasto nell’oscurità il quale, nel 1630, aveva pubblicato un’opera intitolata Essays sur la recherche de la cause pour laquelle l’estain et le plomb augmentent de poids quand on les calcine. Lavoisier si difese immediatamente dall’attacco con una lettera in cui dichiarava di non essere a conoscenza dell’opera di Rey, come del resto dimostrava la diversità degli esperimenti da lui condotti. La controversia però non cessò e nel 1777 l’opera di Rey venne ristampata a Parigi. È sicuramente per questa ragione che Lavoisier, in questo breve scritto, insiste molto nel distinguere il significato delle sue scoperte da quello attribuito da alcuni suoi detrattori a Rey. Lavoisier arricchì il proprio saggio con la trascrizione della nota sigillata che aveva consegnato all’Académie des sciences nel 1772, quando già si sentiva di rivendicare la portata rivoluzionaria delle proprie osservazioni sulla calcinazione dei metalli.2

Dettagli storici sulla causa dell’aumento di peso subito dalle sostanze metalliche, quando le si riscalda durante l’esposizione all’aria3 In questa memoria non intendo affatto presentare una storia completa delle opinioni che sono state via via adottate, dai fisici e dai chimici, sulle cause dell’aumento di peso subito dalle sostanze metalliche sottoposte all’azione del fuoco. Questa relazione servirà semplicemente a mostrare quanto l’ingegno umano sia suscettibile di perdersi, qualora si abbandoni allo spirito di sistema e con quale facilità il ragionamento ci inganni, quando le sue operazioni non sono costantemente corrette dall’esperienza. 2  Henry Guerlac, Lavoisier. The Crucial Year. The Background and Origin of His First Experiments on Combustion in 1772, Ithaca-New York, Cornell University Press, 1961. 3  Antoine Laurent Lavoisier, Détails historiques, sur la cause de l’augmentation de poids qu’acquièrent les substances métalliques, lorsqu’on les chauffe pendant leur exposition à l’air in Id., Mémoires de physique et de chimie, Paris, 1805, vol. 2 , pp. 78-87.

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Uno degli autori che più anticamente hanno scritto su questo argomento è un medico pressoché sconosciuto di nome Jean Rey, vissuto all’inizio del XVII secolo a Bugue, in Périgord e corrispondente dell’esiguo numero di persone che allora coltivavano le scienze. Descartes e Pascal non erano ancora comparsi sulla scena; non si conoscevano né il vuoto di Boyle, né quello di Torricelli, né la causa della salita dei liquidi lungo i tubi vuoti d’aria; la fisica sperimentale non esisteva e nella chimica regnava l’oscurità più profonda. Ciò nonostante Jean Rey, in un’opera sulla ricerca della causa per cui il piombo e lo stagno aumentano di peso quando li si ossida, pubblicata nel 1630, sviluppò delle idee così profonde, così simili a tutto ciò che l’esperienza avrebbe in seguito confermato, così conformi alla teoria della saturazione e delle affinità, che per molto tempo non ho potuto esimermi dal sospettare che i suoi saggi fossero stati redatti in una data molto posteriore rispetto a quella riportata sul frontespizio. Jean Rey, dopo aver con successo isolato, non tramite fatti (poiché a quel tempo l’arte di fare esperienze era ancora nella sua infanzia), ma per via di ragionamenti molto convincenti, le diverse cause alle quali si poteva attribuire l’aumento di peso degli ossidi metallici, si spiega così nel suo XVI Saggio: A questa domanda dunque, basandomi sui fondamenti posti prima, rispondo e sostengo gloriosamente che l’aumento di peso deriva dall’aria che nel recipiente è stata resa più spessa, pesante e adesiva dal forte e prolungato calore del forno. Tale aria si mescola con la calce (grazie anche alla continua agitazione) e si attacca alle sue parti più sottili, così come l’acqua appesantisce la sabbia che vi viene versata e agitata per inumidirla e ottenere un’adesione perfetta tra i suoi più minuti granelli.

In questa opera Jean Rey si oppone all’opinione di Cardano (libro V de La Subtilité) sull’aumento di peso degli ossidi 4

4  Girolamo Cardano (1501-1576).

6. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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metallici, a quella di Scaligero5 e a quella di Cesalpino,6 i quali attribuivano questo aumento a una cenere condensata e riflessa dal forno che, a loro avviso, ricadeva sul metallo. Egli mostra inoltre che l’aumento di peso non deriva dal recipiente, né da qualche principio emanato dal carbone, né dall’umidità diffusa nell’aria. Non si capisce esattamente come, senza esperimenti e facendo a meno di un gran numero di dati preliminari, Jean Rey sia potuto arrivare a queste conclusioni con la sola forza del ragionamento. Sembra che sul finire del secolo scorso, quando Boyle e alcuni altri autori suoi contemporanei crearono una scienza nuova e sconosciuta agli antichi, la fisica sperimentale, l’opera di Jean Rey fosse caduta interamente nell’oblio. Boyle non ne fa alcuna menzione nel suo Traité de la pesanteur de la flamme et du feu, apparso nel 1670, cioè circa quarant’anni dopo la pubblicazione dell’opera di Jean Rey. A quell’epoca, basandosi su qualche esperienza illusoria, Boyle sosteneva ancora che l’aumento del peso subito dai metalli con l’ossidazione fosse dovuto alla fissazione del fuoco. Lemery,7 osservatore preciso e scrupoloso, ha sposato la stessa opinione: è ugualmente all’unione dei corpuscoli ignei, combinati con il metallo, che attribuiva sia la loro conversione in ossidi, sia l’aumento del peso che accompagna questa operazione. Charras,8 contemporaneo di Lemery, attribuiva questo aumento agli acidi del legno e del carbone, che supponeva penetrare la sostanza dei recipienti e combinarsi con il metallo. Da allora lo stesso acido del legno e del carbone si è ripresentato sotto il nome di acido pingue, di acido igneo e sotto altre denominazioni che sarebbe superfluo ricordare. Stahl non poteva ignorare il fatto dell’aumento di peso dei metalli esposti al fuoco. Tuttavia non solo non ha minimamen5  Joseph Justus Scaliger (1540-1609). 6  Andrea Cesalpino (1519-1603). 7  Nicolas Lemery (1645-1715). 8  Moyse Charas (1619-1698).

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te tentato di spiegarlo, ma lo stesso sistema a cui ha ricondotto tutta la teoria chimica e al quale dopo di lui è stato dato un così grande sviluppo si trova interamente in contraddizione con questo fatto fondamentale. Stahl supponeva che i metalli fossero un composto di una terra metallica e di un principio infiammabile che ha chiamato phlogiston o flogisto; sosteneva che essi perdessero questo principio mediante l’ossidazione e che non potessero tornare allo stato metallico a meno che non venisse loro restituito ciò che avevano perso. Era difficile comprendere come i metalli acquisissero del peso pur perdendo, come sostenuto da Stahl, una parte della loro sostanza e, reciprocamente, come diminuissero in peso nel momento in cui recuperavano uno dei principi che avevano perso. Questa era una delle principali difficoltà che potevano essere opposte al suo sistema, difficoltà che tuttavia non gli ha impedito di avere un effimero successo. Guyton-Morveau9 ha fatto degli sforzi infruttuosi per rimediare a questa contraddizione, nella dissertazione che ha pubblicato su questo tema sotto il titolo di “Digressions académiques”: ha supposto che il flogisto pesasse meno dell’aria atmosferica ed ha concluso che tutti i corpi che ne acquisiscono devono perdere una parte del proprio peso, mentre quelli ai quali si toglie del flogisto devono acquisirne. Questa spiegazione sarebbe stata sostenibile se l’aumento del peso subito dagli ossidi metallici fosse stato di pari quantità a quello dell’aria liberata o, che è lo stesso, se fosse scomparso pesando i metalli nel vuoto. Ma questo aumento è decisamente troppo grande perché lo si possa attribuire a questa causa, dato che in certi metalli supera un terzo del loro peso. È dunque necessario abbandonare la spiegazione data da Guyton de Morveau, oppure immaginare per il flogisto un peso negativo, una tendenza ad allontanarsi dal centro della Terra, supposizione che si trova in contraddizione con tutti i fatti accettati e riconosciuti dai seguaci di Stahl. 9  Louis-Bernard Guyton-Morveau (1737-1816)

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Questo era lo stato delle conoscenze prima che una serie di esperienze, intraprese nel 1772, sui diversi tipi di arie o di gas che si liberano nelle effervescenze e in tante altre operazioni chimiche non fecero conoscere in maniera dimostrativa quale era la causa dell’aumento del peso subito dai metalli sottoposti all’azione del fuoco. Ignoravo allora quello che Jean Rey aveva scritto nel 1630 e, quando lo conobbi, non potei che guardare alla sua opinione al riguardo come a un’affermazione vaga, propria a fare onore al genio dell’autore, ma che non dispensava i chimici dal constatarne la verità per tramite dell’esperienza. Ero giovane, e avevo appena iniziato la carriera scientifica; ero avido di gloria, e ho creduto di dover prendere qualche precauzione per assicurarmi la proprietà della mia scoperta. A quei tempi c’era una corrispondenza abituale tra gli scienziati di Francia e d’Inghilterra e regnava tra le due nazioni una sorta di rivalità, che dava importanza alle nuove esperienze e spingeva talvolta gli scrittori dell’una o dell’altra a contestarle al loro vero autore. Ho quindi ritenuto di dover depositare lo scritto seguente in forma sigillata, tra le mani del segretario dell’Académie, il primo novembre 1772. Questo deposito è stato aperto nella seduta del 5 maggio seguente, come menzionato in testa dello scritto. Era formulato in questi termini: Sono circa otto giorni che ho scoperto che lo zolfo, bruciando, lungi dal perdere del peso ne acquista. Ciò significa che da una libbra di zolfo si poteva ottenere più di una libbra di acido vitriolico, fatta astrazione dall’umidità dell’aria, e lo stesso vale per il fosforo. Questo aumento di peso deriva da una quantità prodigiosa di aria che si fissa durante la combustione e che si combina con i vapori. Questa scoperta, che ho constatato con esperienze che considero decisive, mi ha spinto a ritenere che ciò che si osservava nella combustione dello zolfo e del fosforo, poteva verificarsi in tutti i corpi che acquistano peso tramite la combustione e la calcinazione e mi sono persuaso che l’aumento in peso delle calci metalliche proveniva dalla 202

Alchimia e chimica nel Settecento

stessa causa. L’esperienza ha completamente confermato le mie congetture. Ho effettuato la riduzione del litargirio nei recipienti chiusi con l’apparato di Hales ed ho osservato che, al momento del passaggio della calce allo stato di metallo, si liberava una quantità considerevole di aria e che quest’aria formava un volume mille volte più grande della quantità di litargirio impiegato. Questa scoperta mi pareva una delle più interessanti tra quelle fatte dopo Stahl ed ho creduto di dovermene assicurare la proprietà, facendo il presente deposito tra le mani del segretario dell’Académie, affinché rimanga segreta fino al momento in cui pubblicherò le mie esperienze. A Parigi, questo primo novembre 1772 Firmato Lavoisier

Unendo questa prima nota a quella che avevo depositato all’Académie il 20 ottobre precedente, riguardante la combustione del fosforo, alla memoria che ho letto all’Académie nella seduta pubblica di Pasqua nel 1773 e infine a quelle che ho pubblicato successivamente, è facile notare che a partire dal 1772 avevo già concepito l’intero sistema che ho in seguito pubblicato sulla combustione. Questa teoria, a cui ho dato numerosi sviluppi nel 1777 e che da allora ho portato allo stato in cui è oggi, ha cominciato a essere insegnata da Fourcroy solo nell’inverno del 1786-1787 ed è stata adottata da Guyton-Morveau in un’epoca posteriore. Nel 1785 Berthollet scriveva ancora all’interno del sistema del flogisto. Questa teoria non è dunque, come sento dire, la teoria dei chimici francesi, ma è la mia, ed è questa una proprietà che reclamo dinanzi ai miei contemporanei e alla posterità. Altri vi hanno senz’altro aggiunto dei nuovi gradi di perfezione, ma non mi si potranno contestare, io spero, tutta la teoria dell’ossigenazione e della combustione, l’analisi e la decomposizione dell’aria operata dai metalli e dai corpi combustibili, la teoria dell’acidificazione, delle conoscenze più esatte su tantissimi acidi e in particolare gli acidi vegetali, le prime idee sulla com6. ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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posizione delle sostanze vegetali e animali e [infine] la teoria della respirazione, a cui Séguin ha concorso con me. Questa raccolta presenterà tutti gli scritti sui quali io mi baso, con la rispettiva data: il lettore giudicherà.



7. ARMAND SÉGUIN ANTOINE LAURENT LAVOISIER

Nota al testo A partire dal 1774, quando Lavoisier comprese la centralità dell’ossigeno nei fenomeni fisiologici e in particolare nella respirazione animale, cominciò a interessarsi ai temi attinenti alla fisiologia, l’anatomia e la medicina, tre discipline con cui aveva scarsa dimestichezza, ma che sapeva sarebbero stare completamente rivoluzionate dalle scoperte che via via si andavano facendo nella chimica pneumatica. Già nel 1777 Lavoisier aveva compreso che la respirazione era analoga a una combustione lenta di una parte dell’idrogeno e del carbonio contenuti nel sangue che aveva come conseguenza la liberazione del calorico, l’elemento indispensabile al mantenimento del calore animale. Contemporaneamente aveva notato, prima di altri, che l’ossigeno costituiva il gas che rendeva possibile la respirazione. A ogni modo, benché avesse manifestato a più riprese l’intenzione di tornare sull’argomento, negli anni ’80 preferì concentrarsi su altri esperimenti, come quello sulla composizione e scomposizione dell’acqua, il cui esito era comunque complementare alle ricerche che desiderava condurre in fisiologia. Fu quindi solo nei primi anni ’90, dopo aver seguito un corso di anatomia e aver approfondito meglio i contenuti dei principali studi che i medici avevano dedicato alla questione, che decise di riprendere gli esperimenti sulla respirazione, su basi interamente nuove.1 Aiutato 1  Su questo importante capitolo di storia della chimica: Frederic Lawrence Holmes, Lavoisier and the Chemistry of Life. An Exploration of Scientific Creativity, Madison, The University of Wisconsin Press, 1985; Charles A. Culotta, Respiration and the Lavoisier Tradition: Theory and Modification, 1777-1850, “Transactions of the American Philosophical Society”, 62 (1972), pp. 3-41; Johann Peter Prinz, Lavoisier’s Experimental Method and his Research on Human Respiration, in Marco Beretta (a cura di), Lavoisier

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dal suo assistente di laboratorio Armand Séguin (1767-1835), abilissimo costruttore che ideò la maggior parte dei nuovi strumenti, Lavoisier fu in grado di terminare diverse memorie sulla respirazione2 e sulla traspirazione umana, aprendo così la strada alla corretta interpretazione di queste fondamentali funzioni fisiologiche. Le memorie che qui presentiamo sono relative alla traspirazione e, ancora una volta, vi si noterà l’applicazione del principio di conservazione della materia, assunto da cui Lavoisier fa dipendere la validità della propria interpretazione. È la consueta attenzione ossessiva ai dati ponderali, inoltre, a giustificare anche in questo caso la costruzione di strumenti sempre più accurati e complessi. Di questi strumenti ed esperimenti sono rimasti quattro disegni,3 realizzati da Madame Lavoisier e destinati a illustrare la collezione delle opere che il marito aveva in animo di stampare nel 1793 e che non fu mai ufficialmente pubblicata. Si tratta di illustrazioni molto innovative poiché mettono in evidenza la crescente complessità della sperimentazione chimica e la necessità di ricorrere, al tempo stesso, all’assistenza di molti scienziati e all’impiego di nuovi apparati. A questo proposito è interessante notare che Lavoisier fu uno dei primi scienziati a pubblicare le proprie scoperte in collaborazione con i propri assistenti.

in Perspective, Munich, Deutsches Museum, 2005, pp. 43-52; Marco Beretta, Imaging the Experiments on Respiration and Transpiration of Lavoisier and Séguin: Two Unknown Drawings by Madame Lavoisier, “Nuncius”, 27 (2012), pp. 163-191; Francesca Antonelli, Weighing Authority: Lavoisier’s and Séguin’s Reassessment of Santorio’s Experiments on Transpiration, in corso di pubblicazione. 2  La memoria sulla respirazione, scritta in collaborazione a Séguin, apparve prima in lingua italiana, tradotta dal farmacista veneziano Vincenzo Dandolo (1758-1819) nel quarto volume della sua traduzione del Traité élémentaire de chimie di Lavoisier: Antoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Sulla respirazione dissertazione inedita del Sig. Lavoisier diretta a Vincenzo Dandolo E dallo stesso portata dal francese nel’italiano idioma con alcune note illustrative, in Lavoisier, Trattato elementare di chimica, Venezia, Zatta, 1791-1792, 4 voll., vol. 4, pp. 5-30. 3  Due sono pubblicati nelle pagine che seguono, e altri due, che si riferiscono agli esperimenti sulla respirazione umana, sono pubblicati nell’introduzione al presente volume alle pp. 48 e 50.

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Prima memoria sulla traspirazione degli animali4 Nella memoria che abbiamo letto nella seduta pubblica del 13 novembre scorso abbiamo mostrato che la macchina animale è governata da tre regolatori principali: La respirazione, che operando nei polmoni, e forse anche in altri punti del sistema, una combustione lenta di una parte dell’idrogeno e del carbonio contenuti nel sangue determina una liberazione di calorico, assolutamente indispensabile al mantenimento del calore animale. La traspirazione, che provocando una perdita dell’umore traspirabile facilita la liberazione di una data quantità di calorico, necessaria alla dissoluzione di tale umore nell’aria circostante; di conseguenza, tramite il raffreddamento continuo prodotto da questa liberazione, essa impedisce che l’individuo raggiunga un grado di temperatura superiore a quello fissato dalla natura. La digestione, che fornendo dell’acqua, dell’idrogeno e del carbone al sangue restituisce regolarmente alla macchina quanto perso attraverso la traspirazione e la respirazione; in seguito essa respinge fuori, attraverso le deiezioni, le sostanze che ci sono nocive o superflue. Gli effetti di queste diverse cause variano in ragione di un’infinità di circostanze ed entro dei limiti anche piuttosto estesi. È così, tramite [cioè] dei mezzi variabili i cui effetti tra loro si compensano, che la natura perviene a quello stato di equilibrio e di regolarità che costituisce lo stato di salute. L’uomo si trova in un clima freddo? Da una parte, a causa della maggiore densità dell’aria, il contatto [con il sangue] all’interno dei polmoni aumenta; si scompone una maggiore quantità d’aria e si libera più calorico, il quale va a riparare alla 4  Il titolo originale è Premier mémoire sur la transpiration des animaux, par Séguin et Lavoisier (14 aprile 1790), in Antoine Laurent Lavoisier, Œuvres, vol. 2, Paris, Imprimerie Impériale, 1862, pp. 704-714. La prima edizione francese della memoria è pubblicata con lo stesso titolo in Mémoires de l’Académie Royales des Sciences…pour l’année 1790 (1797), pp. 601-612.

7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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perdita causata dal raffreddamento della temperatura esterna; al tempo stesso diminuisce la traspirazione, si ha meno evaporazione e dunque meno raffreddamento. Lo stesso individuo passa in una temperatura molto più calda? Ecco che si verifica l’effetto opposto. L’aria, essendo meno densa, riduce il proprio contatto con il sangue, si scompone in minore quantità, mentre si libera meno calorico; si ha una traspirazione più abbondante, si perde una maggiore quantità di calorico, cosicché si mantiene quel grado di calore pressoché uniforme che si osserva negli animali che respirano. Finché la variazione di questi effetti non oltrepassa i limiti fissati dalla natura e finché i mezzi di compensazione sono sufficienti, l’animale è nello stato di salute. Se però la respirazione toglie ai polmoni più o meno idrogeno e carbonio rispetto a quanto la digestione ne fornisca, se la traspirazione e il raffreddamento che essa comporta, con il concorso dell’aria circostante, non tolgono tutto il calorico proveniente dalla scomposizione dell’aria vitale operata nei polmoni o in qualsiasi altro punto del nostro sistema, l’economia animale è presto turbata e il sangue cambia di qualità, a causa di eccesso o di difetto di idrogeno, di carbonio o di entrambi. Abbiamo fatto vedere come, in queste circostanze, la natura rallenti o acceleri il movimento della circolazione, come aumenti o diminuisca la quantità di sangue che passa in un dato tempo nei polmoni, con quale energia essa lotti contro gli ostacoli e come riesca a superarli, quando non è disturbata nel suo cammino. È soprattutto sui fenomeni della respirazione che abbiamo richiamato l’attenzione dell’Académie, nelle nostre memorie sulla respirazione degli animali. Oggi presenteremo l’inizio di un lavoro molto esteso sulla traspirazione e passeremo successivamente in rassegna, in altre memorie, tutte le più importanti funzioni dell’economia animale. Si dà in genere il nome di traspirazione a un’emanazione principalmente acquosa, che esala di continuo dal corpo degli animali, che sfugge alla vista e che diviene sensibile solo nel 208

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momento in cui cessa di trovarsi in dissoluzione nell’aria. Non è soltanto attraverso i pori della pelle che ha luogo questa emanazione; una quantità considerevole di umidità viene [infatti] anche esalata dai polmoni ad ogni espirazione. Distingueremo quindi qui la traspirazione cutanea, quella che si fa attraverso la pelle, dalla traspirazione polmonare. Santorio5 è il primo ad aver intrapreso delle esperienze sistematiche sulla traspirazione.6 Prima di lui gli effetti di questa funzione erano supposti piuttosto che conosciuti. Egli si sedeva su una sedia trasformata in bilancia che porta il suo nome e determinava la quantità della propria traspirazione misurando la perdita di peso subita. Ma quest’uomo, così giustamente celebre, tanto encomiabile per il suo zelo e la sua pazienza, al quale noi riconosciamo di averci aperto la carriera, mancava di una grande quantità di dati riservati ad altri secoli. Allora non si conoscevano affatto i fenomeni della respirazione, la formazione dell’acqua e dell’acido carbonico che l’accompagna; si ignorava l’esistenza di due tipi di evaporazione, una che si fa per via di dissoluzione nell’aria, l’altra che ha luogo per la semplice combinazione di calorico con il liquido che si intende vaporizzare. Non si sapeva neanche che le cause principali che influenzano la respirazione sono la densità più o meno grande dell’aria, la sua temperatura e il suo grado di secchezza o di umidità. Santorio, privo di queste conoscenze, ha confuso tutti gli effetti e ha considerato come semplice un risultato molto composto. Del resto il suo strumento era tanto impreciso da dargli appena l’esattezza delle once nelle pesature. Queste riflessioni sono applicabili [anche] alle esperienze fatte da Dodart7, di cui lo storico dell’Académie Fontenelle8 ci ha tramandato i principali risultati. 5  Santorio Santorio (1561-1636), 6  Nel De statica medicina (1614). 7  Denis Dodart (1634-1707). 8  Bernard le Bovier de Fontenelle (1657-1757), Éloge de M. Dodart, in Histoire de l’Académie Royale des Sciences, année 1707 (pub. 1730), pp. 182-192.

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Non si può negare un sentimento di stupore quando si pensa che è su delle esperienze, diciamo, tanto grossolane, che degli abili medici hanno in larga misura fondato la loro teoria e la loro pratica, come osserva lo storico dell’Académie. È allora che si capisce quanto siano preziose queste istituzioni pubbliche, che in date epoche riuniscono gli studiosi dediti a ogni genere di scienze. È lì che gli ingegni si perfezionano, per tramite della discussione o addirittura della contraddizione, che delle scienze tra loro apparentemente molto distanti si rischiarano a vicenda e che, infine, si forma questo metodo divenuto comune a tutte le scienze, lo spirito d’analisi. È soprattutto da quando una giovane società, celebre fin dagli esordi, ha introdotto nei propri lavori questo spirito d’analisi, che la medicina, a lungo in stato stazionario, ha cominciato a partecipare al rapido progresso che questo secolo di filosofia ha impresso a tutte le scienze. È in seno e sotto gli occhi della Société de Médecine che sono state fatte quasi tutte le scoperte moderne relative all’economia animale ed essa le ha accolte tutte con grande entusiasmo. Nel programma che ci eravamo predisposti erano tre gli effetti da esaminare: quelli della traspirazione cutanea, quelli della traspirazione polmonare e quelli della respirazione. Il metodo analitico, il solo che possa fare da guida nelle esperienze, esigeva che trovassimo dei mezzi per separare questi effetti e per così dire interrogare, l’una dopo l’altra, le tre cause che li producono. Un vestito di taffettà, ricoperto di gomma elastica, che non lasciava penetrare né aria né umidità, ci è servito a separare tutti i fenomeni della traspirazione cutanea da quelli della respirazione. Uno di noi entrava in questo indumento, che si chiudeva al di sopra della testa mediante una forte legatura; un tubo, che si adattava alla sua bocca e che veniva sigillato sulla pelle, impediva la fuoriuscita dell’aria mentre lasciava [al soggetto] la libertà di respirare. In questo modo, tutto ciò che apparteneva alla respirazione aveva luogo al di fuori dell’apparecchio, mentre tutto ciò 210

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che apparteneva alla traspirazione aveva luogo al suo interno. Pesandosi prima di entrare nell’apparecchio e dopo esserne uscito, la differenza dava la perdita di peso dovuta agli effetti della respirazione e della traspirazione insieme. Pesandosi qualche istante dopo essere entrato nell’apparecchio e qualche istante prima di uscirne, si aveva la perdita di peso dovuta esclusivamente agli effetti della respirazione. Di tutte le difficoltà che abbiamo incontrato in questo lavoro, la più grande è stata la separazione degli effetti della respirazione, della traspirazione, della traspirazione polmonare e della traspirazione cutanea. Al fine di comprendere meglio ciò che abbiamo da dire al riguardo, è innanzitutto necessario ricordare qualche circostanza poco nota che si verifica nel corso della respirazione. In primo luogo occorre sapere che dai bronchi trasuda di continuo un umore che si separa dal sangue, che filtra attraverso le membrane dei polmoni e che è principalmente composto da idrogeno e carbonio. È questo umore che, trovandosi scomposto nel momento in cui esce dalle sottili estremità dei vasi dei polmoni, brucia in parte, scomponendo l’aria vitale con cui era in contatto, e forma, durante questa combustione, dell’acqua e del gas acido carbonico. Non c’è da stupirsi che esista questa combustione all’interno dei polmoni, considerando che il letame, la cui natura si avvicina molto a quella del sangue, brucia alla temperatura ordinaria dell’atmosfera, ossia 8 o 10 gradi, come uno di noi ha dimostrato. A maggior ragione non c’è da sorprendersi se questa combustione è favorita dal grado di calore che essa stessa provoca, come accade in quasi tutte le combustioni, le quali una volta cominciate continuano da sé senza bisogno di intervento, fintantoché vengono loro forniti dell’aria e del combustibile. È facile immaginare come l’acido carbonico che si forma nell’atto della respirazione, essendo allo stato di fluido, venga spinto fuori dall’azione dei polmoni nel momento dell’espirazione; lo stesso non vale però per l’acqua che si forma al contempo, che si accumulerebbe presto nei bronchi, se la natura 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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non disponesse di mezzi per eliminarla. Ecco uno di quelli che essa impiega. L’aria entra fredda nei polmoni ed esce con un calore quasi uguale a quello del sangue; ora, l’aria calda dissolve una maggiore quantità d’acqua che l’aria fredda, ed è in ragione di questo aumento della [sua] capacità dissolvente che essa porta con sé l’acqua presente nei polmoni. Si nota che questa acqua è di due specie: 1. quella che trasuda con l’idrogeno carbonato, ovvero l’acqua della traspirazione polmonare propriamente detta; 2. quella che si forma mediante la combinazione dell’ossigeno dell’aria con l’idrogeno del sangue, ovvero l’acqua della respirazione. È importante conoscere le rispettive proporzioni di queste due porzioni d’acqua e noi ci siamo riusciti. I mezzi che abbiamo impiegato, benché semplici sul piano teorico, hanno posto estreme difficoltà nella pratica; di essi riferiremo in dettaglio nella nostra seconda memoria sulla traspirazione. Lo strumento di cui ci siamo serviti a questo scopo era disposto in modo tale da poter misurare con grande esattezza la quantità d’acqua e di acido carbonico esalati, così come la quantità d’aria prima e dopo l’esperienza. È facile capire che conoscendo da una parte la quantità d’acqua uscita dai polmoni e, dall’altra, la quantità di gas acido carbonico che si è formato, si è potuto agevolmente determinare, attraverso un calcolo molto semplice, la quantità d’acqua che si è formata e la quantità d’acqua dovuta alla traspirazione polmonare. Ma dobbiamo far notare che, nella soluzione di questo problema, si suppone che tutta la quantità di gas acido carbonico che si libera a ogni espirazione si sia formato nei polmoni o durante la circolazione. Se il gas acido carbonico che si libera durante l’espirazione fosse in parte un prodotto della digestione, bisognerebbe attribuire a un’altra causa il consumo di aria vitale che si verifica nell’atto della respirazione; bisognerebbe supporre che si forma una maggiore quantità d’acqua, sia nei polmoni, sia durante la 212

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circolazione, e allora la traspirazione polmonare si troverebbe diminuita di una quantità d’acqua pari a quella che saremmo obbligati ad attribuire a questa formazione; oppure bisognerebbe ammettere che una parte dell’aria vitale, essendo assorbita nei polmoni, si fissi con qualche parte del nostro sistema durante la circolazione. Da queste riflessioni risulta che il problema è indeterminato e suscettibile di diverse soluzioni. Ma non è questo il momento di discutere questa spinosissima questione, che nuove esperienze chiariranno: ci atterremo provvisoriamente alla soluzione che ci sembra più probabile. L’aumento di capacità dissolvente che l’aria acquisisce riscaldandosi nei polmoni è sufficiente, nella maggioranza dei casi, a evacuare per via di dissoluzione le due porzioni che abbiamo appena distinto, ossia quella che proviene dalla traspirazione polmonare e quella che si è formata per combinazione tra l’idrogeno e l’ossigeno. Qui, ancora una volta, la natura fa uso di mezzi di compensazione straordinari. Se la quantità d’acqua che trasuda attraverso la membrana dei bronchi è troppo abbondante, se l’aria della respirazione, già carica dell’acqua che si è formata, non è in grado di discioglierla, malgrado gli sforzi di una respirazione più accelerata, malgrado l’aumento di calorico che ne risulta e che aumenta la capacità dissolvente dell’aria, l’eccedente è riportato nella circolazione dai vasi assorbenti dei polmoni, o espettorato in una forma qualunque. Si capisce quanto tutte queste cause debbano influire sul fenomeno della traspirazione; che essa debba essere accelerata o ritardata da un bisogno meccanico; che debba formarsi ora più acqua ora più gas acido carbonico; che, infine, la traspirazione polmonare possa essere aumentata o diminuita da un’infinità di circostanze. Limitiamoci, per il momento, alla media dei nostri risultati principali. La perdita di peso subita da un individuo che non si dedica a lavori fisici troppo faticosi varia da 11 a 32 grani al minuto, cioè da 1 libbra 11 once 4 grosse a 5 libbre in ventiquattro ore. Questo effetto totale comprende gli effetti della 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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traspirazione cutanea, della traspirazione polmonare e della respirazione. Considerando per quanto possibile una media, la perdita di peso totale è di 18 grani al minuto e, supponendo che essa continui in modo uniforme, sarà di 1 oncia 7 grosse in un’ora e di 2 libbre [1]3 once in ventiquattro ore. Di queste 2 libbre 13 once, appartengono alla traspirazione cutanea 1 libbra 14 once e agli effetti della respirazione 1 libbra 15 once. Scomponendo gli effetti della respirazione, sempre rispetto alla media supposta sopra, si rileva: 1. Che in ventiquattro ore un uomo consuma 38,413 pollici cubi d’aria vitale, ossia poco più di 22 piedi cubi, o 33 once 1 grossa 10 grani. 2. Che di questa quantità [di aria vitale] vengono impiegati 13 piedi cubi per formare dell’acqua e poco meno di 9 piedi cubi per formare dell’acido carbonico. Totale 22 piedi cubi. 3. Che il volume di gas acido carbonico che si libera nei polmoni in ventiquattro ore è di 14,930 pollici cubi cioè all’incirca 8 piedi 6 pollici cubi, i quali sono composti da: carbonio: 5 once 7 grosse ossigeno: 12 once 4 grani Totale: 1 libbra 1 oncia 7 grosse 4 grani. 4. Che il peso dell’acqua che si forma nei suoi polmoni durante le ventiquattro ore è di 1 libbra 7 once 5 grosse 20 grani, i quali sono composti da: idrogeno: 3 once 3 grosse 10 grani, ossigeno: 1 libbra 4 once 2 grosse 10 grani, Totale: 1 libbra 7 once 5 grosse 20 grani, 5. Che la quantità di acqua che si libera tutta intera con la traspirazione polmonare è, in ventiquattro ore, di 5 once 5 grosse 62 grani. 6. Che, infine, riunendo insieme l’acqua che si libera in ventiquattro ora con la traspirazione cutanea, che è di 1 libbra 14 once, 214

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quella che si libera con la traspirazione polmonare, che è di 5 once, 5 grosse, 62 grani, la quantità di carbonio che si consuma al contempo, che è di 5 once, 7 grosse, e la quantità di idrogeno, che è di 3 once 3 grosse 10 grani, si ha, come perdita di peso totale subita da un uomo in ventiquattro ore, 1 libbra 13 once. A scanso di equivoci lo ripetiamo ancora una volta: questi risultati sono da considerare esatti solo in relazione a una supposizione che ci pare probabile. [Quella che proponiamo] è una delle soluzioni a un problema complesso e ancora poco chiaro, che risolveremo in maniera più rigorosa attraverso [progressive] eliminazioni e nuove esperienze. Quelle che abbiamo cominciato sulla digestione toglieranno probabilmente ogni incertezza al riguardo. Una circostanza molto importante, che prova con quale attenzione la natura si impegni a istituire le compensazioni che abbiamo tante volte richiamato, è che lo stesso individuo, senza adoperarsi per mangiare ogni giorno la stessa quantità di cibo, senza imporsi uno stile di vita determinato, a condizione che consumi i propri pasti in orari più o meno regolari e che eviti gli eccessi, dopo aver acquisito il peso di tutto il cibo assunto, torna ogni giorno, dopo la rivoluzione delle ventiquattro ore, al peso che aveva il giorno prima. Se questo effetto non ha luogo, l’animale è in uno stato di sofferenza o di malattia. Non ci si può stancare nell’ammirare il regime di generale libertà che la natura sembra aver voluto imporre a tutto ciò che riguarda gli esseri viventi. Dando loro la vita, il movimento spontaneo, una forza attiva, dei bisogni e delle passioni, non ha loro vietato di farne uso. Essa ha voluto che fossero liberi perfino di abusarne ma, prudente e saggia, ha messo dappertutto dei regolatori, ed ha fatto sì che al godimento seguisse la sazietà. Quando l’animale, esaltato dalla qualità delle vivande, oltrepassa i limiti che gli erano stati fissati [dalla natura], subentra l’indigestione, che è al contempo profilassi e rimedio: la depurazione che essa opera, il disgusto che segue, riportano 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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presto l’animale alla sua condizione naturale. Al pari dell’ordine fisico, l’ordine morale ha i suoi regolatori; se così non fosse le società umane non esisterebbero più da molto tempo, o piuttosto non sarebbero mai esistite. Abbiamo fin qui esaminato solo ciò che accade nello stato di salute, cioè nello stato in cui tutte le compensazioni istituite dalla natura si realizzano con facilità e senza sforzo. Essa [la natura] è ancor più grande e stupefacente quando è obbligata a lottare contro degli ostacoli. Abbiamo già acquisito qualcosa di più di [semplici] congetture sulla causa di un gran numero di malattie e sui mezzi con cui assecondare gli sforzi che la natura fa per guarirle. Prima però di azzardare una teoria, ci proponiamo di moltiplicare le nostre osservazioni, di dirigere le nostre ricerche sui fenomeni legati alla digestione e sull’analisi del sangue nello stato di salute e nello stato di malattia. Faremo ricorso ai fasti della medicina, ai lumi e alle esperienze dei medici che ci circondano; ed è solo quando potremo presentarci armati di tutto punto, che oseremo attaccare il colosso antico e riverito dei pregiudizi e degli errori. Seconda memoria sulla traspirazione9 Nella nostra prima memoria sulla traspirazione abbiamo messo sotto gli occhi dell’Académie i principali fenomeni di questa importante funzione. Nella presente descriveremo in dettaglio il metodo che abbiamo seguito, gli accorgimenti che abbiamo preso e i risultati che non abbiamo ancora pubblicato. La bilancia di cui ci siamo serviti in queste ricerche era stata costruita con la più grande cura. Caricata di 125 libbre su ogni lato, mezza grossa la faceva vacillare fortemente, dal che risulta che a ogni pesatura l’errore poteva arrivare al massimo a 18 grani, sia in più, sia in meno. 9  Antoine Laurent Lavoisier, Armand Séguin, Second mémoire sur la transpiration des animaux, “Annales de chimie” (1814), 90, pp. 5-28.

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Figura 1 - Strumentazione utilizzata da Lavoisier e Séguin negli esperimenti sulla respirazione e traspirazione dell’uomo. Sulla sinistra Séguin siede su un particolare modello di bilancia santoriana, probabilmente riadattato per queste specifiche esperienze. Il disegno è conservato alla Wellcome Library di Londra

Dato però che tutte le nostre esperienze esigevano due pesature comparative, si poteva sospettare che questo errore di 18 grani, [quando] presente in segno contrario nelle due pesature, scomparisse nel totale; supponendolo invece dello stesso segno, in ogni esperienza l’errore non avrebbe potuto essere che di 36 grani. Ora, siccome la differenza più grande che abbiamo ottenuto tra due pesature comparative è stata di 4.000 grani circa (che equivale a 6 once, 7 grosse, 40 grani) e la differenza più piccola è stata di 1.280 grani (che equivale a 2 once, 1 grossa, 56 grani), risulta che, supponendo le condizioni più sfavorevoli, l’errore delle nostre esperienze non poteva essere che di un cento undicesimo nel primo caso e di un trentacinquesimo nel secondo caso. Una tale esattezza della bilancia richiedeva [da parte no7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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stra] la massima dimestichezza, affinché se ne facesse un corretto utilizzo. Molto spesso un movimento involontario dell’individuo sottoposto all’esperienza faceva oscillare l’asta [della bilancia]. Ciò che comunque disturbava di più, era la perdita di peso che l’individuo subiva durante ogni pesatura, perdita che in media arrivava a 17 o 18 grani al minuto. Era perciò necessario, nel momento in cui si aveva un peso esatto, guardare prontamente l’orologio, poiché aspettando un minuto di più la bilancia cominciava a vacillare. Con tutti questi accorgimenti abbiamo facilmente potuto determinare gli effetti della traspirazione cutanea e della traspirazione polmonare insieme. Venivo pesato, e si prendeva nota del mio peso, come dell’ora in cui era stato registrato. In seguito restavo a riposo per tre o quattro ore, facendo

Figura 2 - Séguin respira all’interno di un apparato volto a misurare la produzione di anidride carbonica, mentre un uomo osserva l’andamento delle sue pulsazioni. Sulla sinistra Madame Lavoisier, autrice di entrambe le illustrazioni, prende nota dello svolgimento delle esperienze. Il disegno è conservato alla Wellcome Library di Londra

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attenzione a non soffiarmi il naso, a non sputare e a non occuparmi, sia fisicamente che moralmente, di cose che avrebbero potuto accelerare le mie pulsazioni. Passate quattro ore mi rimettevo sulla bilancia, venivo pesato nuovamente, e si prendeva nota del mio peso come dell’ora precisa in cui tale peso era stato registrato. Mediante una semplice sottrazione era possibile sapere quanto era durata l’esperienza in termini di minuti e a quanto era arrivata, in questo lasso di tempo, la mia perdita di peso. Dividendo poi la perdita di peso per il numero dei minuti, avevamo la perdita di peso media per ogni minuto. In seguito, quando volevamo conoscere gli effetti della traspirazione cutanea e della traspirazione polmonare separatamente, ci servivamo di un vestito di taffettà, ricoperto di gomma elastica, così ben chiuso su tutti i lati che, per più di quindici giorni, non lasciava uscire alcuna porzione dell’aria atmosferica che vi era stata introdotta per gonfiarlo. Questo vestito, aperto sulla parte superiore, aveva un’apertura all’altezza della bocca, ricoperto con una sottile striscia di rame. Mi mettevo all’interno di questo involucro, la cui parte superiore veniva chiusa per mezzo di una forte legatura; la bocca di rame veniva fatta aderire alle mie labbra con della pece mista a un po’ di trementina e la si manteneva ben salda con l’aiuto di corde strette dietro alla mia testa. Così sistemato, mi posizionavo sul piatto della bilancia, venivo pesato, restavo tranquillo per tre o quattro ore e, dopo un dato lasso di tempo, si riprendeva la pesatura. La differenza tra queste due pesature ci dava il peso che avevo perso in un dato tempo per via della sola traspirazione polmonare. In seguito uscivo dall’involucro, venivo pesato di nuovo e, passato un dato tempo, si riprendeva la pesatura. La differenza tra queste due nuove pesature ci indicava quindi la perdita di peso dovuta alla traspirazione polmonare e alla traspirazione cutanea [insieme]. 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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Sottraendo da questa perdita di peso totale la perdita di peso dovuta alla sola traspirazione polmonare, ciò che restava rappresentava la perdita di peso dovuta alla traspirazione cutanea. È stato prendendo tutti questi accorgimenti che siamo alla fine riusciti ad ottenere dei risultati soddisfacenti, tanto sulla traspirazione in generale, quanto sulla traspirazione cutanea e sulla traspirazione polmonare. Il nostro lavoro su questo oggetto è durato circa undici mesi. Tutti i giorni venivo pesato [almeno] una volta alla stessa ora, ma più spesso venivo sottoposto a tre o quattro pesature, essendo necessario isolare [le diverse componenti delle] esperienze o fare delle comparazioni. A ogni pesatura venivano controllati il barometro, il termometro e l’igrometro e si registravano i gradi che questi indicavano, mentre si prendeva ugualmente nota della condizione in cui io mi trovavo. Se la temperatura dell’atmosfera era appena più elevata mi mettevo in camicia, per far sì che l’aria dissolvesse con più facilità il mio umore traspirabile; se invece la temperatura era meno elevata mi coprivo di più, avendo soprattutto cura di indossare esattamente le stesse cose durante le pesature comparative. Quando avevo bisogno di conoscere con esattezza la quantità di alimenti che assumevo, mettevo su un piatto gli alimenti solidi e in una caraffa gli alimenti liquidi. In seguito pesavo il piatto e la caraffa e li ripesavo dopo essermi nutrito a sufficienza; la differenza tra le due pesature mi indicava la quantità di alimenti solidi e liquidi che avevo assunto. Quando volevo mangiare e bere in date quantità, pesavo prima queste quantità e in seguito le assumevo tutte. Qualche volta, inoltre, mi mettevo sulla bilancia e, da lì, mangiavo una quantità di alimenti già pesati, determinando così la perdita di peso che si subisce direttamente nel corso dei pasti. Altre volte pesavo, per qualche giorno, tutti gli alimenti di cui mi nutrivo e pesavo ugualmente tutti i miei escrementi, so220

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lidi e liquidi; aggiungendo poi quest’ultimo peso a quello della mia traspirazione insensibile, verificavo se la somma che risultava da questa addizione coincideva con il peso degli alimenti di cui mi ero nutrito. Spesso dosavo gli alimenti di cui avrei dovuto nutrirmi per una dozzina di giorni; ne facevo fortemente seccare una parte in un forno a una data temperatura e, in modo simile, facevo anche seccare tutte le mie deiezioni solide e liquide. Confrontavo poi la differenza delle pesature di questi residui solidi alla perdita di sostanze solide dovute con gli effetti della traspirazione polmonare e cutanea insieme. Spesso facevo anche degli esercizi forzati e determinavo in questo modo l’influenza delle pulsazioni e delle inspirazioni sulla traspirazione. Diversificavo infine queste esperienze in base al bisogno che ne avevamo. Una parte delle ricerche è stata ripetuta su molti altri individui, ma soprattutto su mio fratello. Anche il mio amico Silvestre ha cortesemente voluto prestarsi ad alcune di queste prove. Di tutti i risultati che abbiamo ottenuto per queste vie, ve ne sono molti che abbiamo messo da parte, o perché non erano abbastanza conclusivi, o perché erano stati influenzati da circostanze impreviste, o infine perché erano stati bilanciati da [altri] effetti più intensi, che rendevano [i primi] impossibili da rilevare. Abbiamo conservato solo i risultati più netti, più decisivi, la cui applicazione sembrava generale, sia perché derivavano da esperienze ripetute su individui diversi, sia perché dipendevano da cause comuni a tutti gli esseri viventi. In generale si dice traspirazione la secrezione che ha luogo nei polmoni e sulla superficie della pelle. Per meglio caratterizzare questa secrezione, si è definito traspirazione cutanea quella che si fa sulla superficie della pelle e traspirazione polmonare quella che si fa all’interno dei polmoni. 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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Si è poi distinto la traspirazione cutanea in due classi: una, essendo invisibile e dipendente dalla dissoluzione dell’umore traspirabile nell’aria circostante, è stata detta traspirazione insensibile, mentre l’altra, essendo al contrario visibile sulla superficie della pelle, è stata definita traspirazione sensibile o sudore. Il sudore è influenzato solo dalla digestione, dall’azione del cuore e dei muscoli e dall’aumento delle pulsazioni e delle inspirazioni. La traspirazione insensibile è influenzata dalla temperatura dell’aria circostante, dal suo grado di secchezza o di umidità e dal suo grado di compressione, dalla digestione, dall’azione del cuore e dei muscoli e dall’aumento o diminuzione delle pulsazioni e delle inspirazioni. Per determinare l’influenza separata di queste diverse cause sulla traspirazione, bisognerebbe poterne isolare gli effetti; ma dato che allo stato attuale delle nostre conoscenze non ci è possibile soddisfare questa condizione, dobbiamo limitarci a presentare i risultati che derivano dal loro insieme. 1° Risultato. Qualunque sia la quantità di alimenti assunti, qualunque siano le variazioni dell’atmosfera, lo stesso individuo, dopo essere aumentato in peso di tutta la quantità di cibo che ha assunto, torna ogni giorno, a seguito della rivoluzione di ventiquattro ore, allo stesso peso che, all’incirca, aveva il giorno prima, purché egli sia in buona salute, che la sua digestione si faccia senza problemi, che non ingrassi, che non sia in stato di crescita e che eviti gli eccessi. Questo risultato davvero notevole dimostra con quale attenzione la natura si sia impegnata a istituire le compensazioni che abbiamo messo in evidenza tante volte. Per portare a compimento le sue intenzioni è sufficiente evitare gli eccessi. Non si esaudisce davvero il suo desiderio quando la si assoggetta, come faceva Santorio, a un regime troppo uniforme e calcolato in maniera troppo rigorosa. Quest’uomo illustre, essendosi persuaso che per la salu222

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te fosse importante assumere regolarmente la stessa quantità di cibo, aveva adattato all’estremità del braccio di una bilancia una sedia, costruita in modo tale che non appena la persona che vi sedeva aveva mangiato la quantità di alimenti che era stata prima determinata attraverso molte altre esperienze, [lo strumento] rompeva l’equilibrio e, abbassandosi, non gli permetteva più di raggiungere quanto era sul tavolo. A questo riguardo dobbiamo osservare che colui il quale, per stabilire la quantità di alimenti da assumere, si rifarà a quanto definito del calcolo piuttosto che al proprio bisogno o al proprio appetito, rischierà molto spesso di mangiare troppo o troppo poco. Infatti, dato che la [misura della] traspirazione varia spesso nel rapporto di uno a tre, ne conseguirebbe, ammettendo che la quantità di alimenti debba sembra essere nello stesso rapporto con la perdita di peso che subiamo, che non si debba assumerne tutti i giorni la stessa quantità. 2° Risultato. Quando, in uguali circostanze, si varia la quantità degli alimenti, oppure quando, assumendo simili quantità di cibo, gli effetti della traspirazione differiscono tra loro, la quantità dei nostri escrementi aumenta o diminuisce, in modo tale che tutti i giorni alla stessa ora noi torniamo all’incirca allo stesso peso [che avevamo il giorno prima], come abbiamo detto sopra. Ciò prova che, purché la digestione si faccia bene, le cause che concorrono alla perdita dei nostri alimenti si compensano a vicenda e che, nello stato di salute, l’una si fa carico di ciò che l’altra non può fare. 3° Risultato. Il difetto di buona digestione è una delle cause più dirette della diminuzione della traspirazione. L’esempio che riporteremo illustrerà chiaramente questa verità. Una sera, dopo aver cenato a sazietà, mangiai un piccolissimo pasticcino verso le sette, nel momento culminante della mia digestione. Il giorno seguente, all’ora in cui normalmente mi pesavo, scoprii che pesavo 12 once di più. Non mi sentivo del tutto bene, ma decisi comunque di assumere una considerevole quantità di cibo, pari al giorno prima, al fine di vedere cosa ne sarebbe derivato. Il giorno dopo ancora pesavo 21 once più del 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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solito. Quel giorno mi trovavo molto indisposto, avevo la testa pesante, mi sentivo incapace di lavorare, tutto mi costava fatica; ciò nonostante ho assunto la stessa quantità di alimenti dei giorni precedenti. Il quarto giorno il mio aumento di peso fu di 34 once, ma la sera stessa ebbi una grande evacuazione. Tornai al mio peso ordinario solo due giorni dopo. 4° Risultato. Quando la digestione si fa bene e le altre cause sono simili, la quantità di alimenti [assunti] influisce poco sulla traspirazione: mi è successo molto spesso di assumere a cena 2 libbre e mezzo di alimenti solidi e liquidi, di assumerne altre volte 4 libbre e di ottenere, in entrambi i casi, risultati tra loro poco differenti. Bisogna tuttavia osservare che questo enunciato è vero solo a condizione che la quantità di bevande non vari di molto in nessuna delle due circostanze. 5° Risultato. È nel momento immediatamente successivo alla cena che la traspirazione è al suo minimo. Questa importante verità, che era stata intravista da coloro che si sono occupati di questo tema, è ora dimostrata chiaramente dai nostri esperimenti. Ma qual è la causa di questa diminuzione? Entreremo ora in qualche dettaglio, necessario alla spiegazione. L’umore traspirabile ha bisogno di una data quantità di calorico per dissolversi nell’aria circostante ed è il nostro sistema che fornisce tale porzione. Quando la comunicazione di calorico diminuisce, la traspirazione deve diminuire nello stesso rapporto; ma questa comunicazione deve rallentare ogni qualvolta noi forniamo a qualche parte del nostro sistema una quantità di calorico maggiore rispetto a quella ordinaria ed è ciò che accade immediatamente dopo la cena. Infatti, dato che la digestione ha bisogno, per avviarsi, di una data quantità di calorico, che il nostro sistema gli fornisce, tale porzione non può più servire alla traspirazione: si nota infatti abbastanza spesso che, subito dopo la cena, si avverte distintamente una sensazione di freddo, la cui intensità varia in base agli individui e alla capacità degli [dei loro] umori di contenere il calorico. 224

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Questo enunciato vede qualche eccezione, ma non è per questo meno generale. Alcune persone, ad esempio, sudano mentre mangiano e perfino dopo il pasto; ciò è tuttavia raro e deriva dal fatto che l’azione del cuore e dei muscoli prevale sul più grande assorbimento di calorico. 6° Risultato. Quando tutte le altre circostanze sono simili, è nel corso della digestione che la perdita di peso provocata dalla traspirazione insensibile è al suo massimo. Questo aumento di traspirazione durante la digestione, rispetto alla perdita di peso che si ha a digiuno, è in media di due grani tre decimi al minuto. 7° Risultato. Quando le circostanze sono delle più favorevoli, la perdita di peso maggiore dovuta alla traspirazione insensibile è, secondo le nostre osservazioni, di 32 grani al minuto e, di conseguenza, di 3 once 2 grosse 48 grani all’ora e di 5 libbre in ventiquattro ore, supponendo tuttavia che la nostra perdita di peso sia uguale in tutti i momenti della giornata, cosa che in realtà è smentita dai fatti. Ad ogni modo, senza entrare troppo in dettaglio, possiamo dire che la maggiore perdita di peso dovuta alla traspirazione insensibile è di 5 libbre in ventiquattro ore. 8° Risultato. Quando tutte le circostanze accessorie sono delle meno favorevoli, ammesso che la digestione si faccia bene, secondo le nostre esperienze la nostra perdita di peso è, al minimo, di 11 grani al minuto e, di conseguenza, di 1 oncia 1 grossa 12 grani all’ora e di 1 libbra 11 once 4 grosse in ventiquattro ore. 9° Risultato. Immediatamente dopo i pasti la perdita di peso dovuta alla traspirazione insensibile, è di 10 grani due decimi al minuto, quando tutte le cause esterne sono le più sfavorevoli alla traspirazione, e di 19 grani un decimo al minuto quando queste cause sono le più favorevoli e le cause interne sono uguali. Queste differenze nella traspirazione dopo i pasti, a seconda che le cause che vi influiscano siano più o meno favorevoli, non sono nello stesso rapporto delle differenze che si osservano in qualsiasi altro momento in cui le circostanze sono 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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simili; ma non sappiamo a cosa si deve questo fenomeno. 10° Risultato. La traspirazione cutanea dipende direttamente sia dalla capacità dissolvente dell’aria circostante, sia dalla facoltà di cui godono i pori di condurre l’umore traspirabile fino alla superficie della pelle. È per questa ragione che quando ero chiuso nell’involucro impermeabile, all’inizio dell’esperienza si depositava solo una piccolissima quantità di umidità sulla superficie della mia pelle e che, alla fine, questa quantità non aumentava sensibilmente. Se, in questa circostanza, vi fosse stata traspirazione, l’umore traspirabile, non potendo più essere dissolto, si sarebbe raccolto sulla superficie della mia pelle sotto forma di sudore. Questo raccoglimento non si faceva: non si era avuto quindi che poca traspirazione. Così, quando la capacità dissolvente dell’aria circostante si unisce alla forza dei pori, la traspirazione insensibile si fa con facilità; ma quando si elimina una di queste cause, la traspirazione insensibile diminuisce. L’esperienza che abbiamo appena riportato fornisce un esempio della diminuzione della traspirazione dovuta alla soppressione della capacità dissolvente dell’aria; l’esperienza fatta durante una cattiva digestione è [invece] un esempio della diminuzione di traspirazione dovuta al difetto d’azione o alla chiusura dei pori. 11° Risultato. Se prendiamo il termine medio di tutte le nostre esperienze, troviamo che la perdita di peso dovuta alla traspirazione insensibile è di 18 grani al minuto e che, di questi 18 grani, ve ne sono in media 11 che dipendono dalla traspirazione cutanea e 7 che devono essere attribuiti alla traspirazione polmonare. 12° Risultato. La traspirazione polmonare obbedisce alle stesse leggi della traspirazione cutanea ma, a seconda che queste leggi si combinino più o meno favorevolmente, si verifica uno dei tre effetti che ora enunciamo. 1. O l’aria che esce dai polmoni non può dissolvere tutta l’acqua che si forma; 226

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2. O essa può, a ogni espirazione, portare con sé tutta l’acqua che si è formata durante l’inspirazione; 3. O, infine, essa può dissolvere non solo l’acqua che si è formata, ma anche quella che trasuda dai polmoni con l’idrogeno carbonato. Da ciò risulta 1. che, in certe circostanze, possiamo perdere attraverso la traspirazione un peso molto meno considerevole rispetto a quello che perdiamo ordinariamente; 2. che in certi casi è possibile che aumentiamo di peso a causa dell’ossigeno il quale, formando dell’acqua e restando in seguito nei polmoni, compensa e addirittura supera il peso complessivo dell’umore traspirabile che perdiamo alla superficie della pelle e dell’idrogeno carbonato che perdiamo nei polmoni. 13° Risultato. La traspirazione polmonare rispetto al volume dei polmoni è molto più considerevole che la traspirazione cutanea rispetto alla superficie della pelle. Questo aumento comparativo dipende dalle due cause seguenti: 1. dal fatto che l’aria atmosferica che entra nei nostri polmoni è immediatamente in contatto con l’acqua che qui si trova; 2. dal fatto che la temperatura di questa aria aumenta in rapporti diversi rispetto a quelli che dipendono dall’aumento della temperatura dell’aria che tocca la nostra pelle. 14° Risultato. Quando tutte le altre circostanze sono uguali, la [misura della] traspirazione polmonare è pressoché la stessa prima e immediatamente dopo i pasti. Prendendo un termine medio, si nota che se la traspirazione polmonare è di 17 grani due decimi al minuto prima della cena, è di 17 grani sette decimi dopo la cena. 15° Risultato. Se tutte le circostanze interne sono uguali, è durante l’inverno che il peso dei nostri escrementi solidi è minore; ciò dipende dal fatto che in inverno all’interno dei nostri polmoni si brucia una più grande quantità di idrogeno carbonato che in estate, in ragione della più grande quantità di calorico che trasmettiamo all’aria circostante e del bisogno che abbiamo, per la nostra esistenza, di una temperatura di circa 30 gradi. 7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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Dopo aver separato gli effetti della traspirazione polmonare da quelli della traspirazione cutanea, occorreva ancora separare le cause che concorrono alla prima e sapere con precisione quanto, nelle diverse circostanze, noi espiriamo dell’acqua, del carbonio e dell’idrogeno. A questo scopo abbiamo utilizzato uno strumento che abbiamo precedentemente presentato e descritto in dettaglio all’Académie. La media delle esperienze che abbiamo fatto con questo apparecchio ci indicano: 1. Che la nostra traspirazione insensibile è di 18 grani al minuto e, di conseguenza, supponendo che essa sia uniforme ad ogni istante del giorno, di mille e ottanta grani, ossia di 1 oncia 7 grosse all’ora e di 2 libbre 13 once in ventiquattro ore; 2. Che noi consumiamo circa 600 pollici di aria vitale all’ora e, di conseguenza, supponendo sempre un consumo uniforme, trentamila quattrocento tredici pollici o, che è lo stesso, all’incirca 28 piedi cubi, ossia 2 libbre 1 oncia 1 grossa 10 grani; 3. Che di questa quantità ne viene impiegata 8.6 piedi per formare dell’acido carbonico e 13.6 per formare dell’acqua; 4. Che così, su cinque parti d’aria vitale consumata nei polmoni, ve ne sono all’incirca due che vengono impiegate per la formazione del gas acido carbonico e tre che servono alla formazione dell’acqua; 5. Che il volume del gas acido carbonico che si libera dai nostri polmoni in ventiquattro ore è all’incirca di quattordicimila novecento trenta pollici o, che è lo stesso, di 8.6 pollici cubi e, di conseguenza, che il peso del gas acido carbonico liberato è di 1 libbra 7 grosse 4 grani, il quale è composto da Carbonio: 5 once 7 grosse Ossigeno: 12 once 4 grani Totale: 1 libbra 1 oncia 7 grosse 4 grani 6. Che il peso dell’acqua che si forma nei polmoni in ventiquattro ore è di 1 libbra 7 once 5 grosse 20 grani, i quali sono composti da: Idrogeno: 3 once 3 grosse 10 grani 228

Alchimia e chimica nel Settecento

Ossigeno: 1 libbra 4 once 2 grosse 10 grani Totale: 1 libbra 7 once 5 grosse 20 grani 7. Che la quantità di acqua che si libera intera dai polmoni è di 5 once, 5 grosse, 63 grani; 8. Infine, che riunendo insieme 1) L’acqua che si libera in ventiquattro ore tramite la respirazione cutanea, il cui peso è 1 libbra 14 once 2) Quella che si libera tramite la traspirazione polmonare, il cui peso è 5 once, 5 grosse, 63 grani 3) Il carbonio che si consuma nei polmoni durante lo stesso lasso di tempo è di 5 once, 7 grosse 4) Infine, l’idrogeno che si consuma durante lo stesso spazio di tempo nei polmoni e il cui peso è di 3 once, 3 grosse, 10 grani Si ha, come perdita di peso media che un uomo subisce in ventiquattro ore, per effetto delle traspirazioni considerate insieme, 2 libbre 13 once 1 grano.

7. ARMAND SÉGUIN - ANTOINE LAURENT LAVOISIER

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8. JEAN-FRANÇOIS-XAVIER FABRE DU BOSQUET - SAMUEL WOLSKY

Nota ai testi Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nell’introduzione e nella nota al testo di Macquer, l’alchimia continuò a esercitare una notevole influenza per tutto il Settecento. La sensazione provocata a Parigi dal successo della teoria magnetica di Franz Mesmer (17341815), paragonato da alcuni ai vecchi alchimisti, così come la popolarità delle cure miracolose del già citato Cagliostro, rivelano l’impasse dell’Illuminismo e, più in generale, la fragilità della scienza. Anche se non mancarono le posizioni critiche volte a marginalizzare idee che tanti consideravano manifestazioni di ciarlataneria, erano ancora molti gli scienziati e i filosofi di spicco che guardavano con simpatia e interesse alla tradizione alchemica e alla possibilità di trasmutare i metalli vili in oro. Alcuni, come Macquer, espressero tali posizioni in forma cauta, altri invece non esitarono a rendere pubblica la propria fede in credenze la cui autorità non era ancora tramontata. È questo il caso, ad esempio, di Balthazar-Georges Sage (1740-1824), autorevole membro della sezione di chimica dell’Académie des sciences di Parigi che godette l’influente protezione di due re, Luigi XV e Luigi XVI. Nel 1778 Sage, in un libro pubblicato dalla tipografia del Re, sosteneva di aver scoperto la possibilità di ricavare l’oro dalle sostanze vegetali, un’idea falsa e strampalata che però non fu facile confutare. Tuttavia, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, grazie anche alla campagna di Lavoisier iniziata nei primi anni ’70 e ai metodi analitici rigorosi da lui introdotti nella pratica sperimentale, diveniva man mano sempre più difficile coltivare le illusioni del passato. La materia poteva essere ora guardata in modo completamente diverso e lo spazio aperto a consi231

derazioni di tipo qualitativo si trovava estremamente ridotto. La pubblicazione del Traité élémentaire de chimie (1789), in cui Lavoisier sintetizzava in modo efficacissimo il metodo adottato dalla nuova chimica, segnò su questo piano un confine importante: da una parte si aveva la nuova chimica dei gas, ricca di scoperte ed espressa nel linguaggio che usiamo ancora oggi, dall’altra vi era una tradizione confusa e oscura, che non aveva mantenuto le proprie promesse. A partire dagli anni ’80 e, in misura ancora maggiore, dopo la Rivoluzione francese, l’alchimia venne quindi progressivamente marginalizzata ed era quasi impossibile trovare in tutta Europa un chimico che sostenesse la validità dei suoi principi. In questa mutata gerarchia dei saperi, alcuni alchimisti, come Fabre du Bosquet e Samuel Wolsky, di cui pubblichiamo alcuni estratti, cercarono di correre ai ripari adattando i principi della propria arte alle recenti scoperte della chimica pneumatica. Si trattò comunque di un tentativo di retroguardia, destinato a rimanere confinato nel sempre più ristretto ambito degli adepti. Lo stile vago e allusivo con cui Fabre du Bosquet sperava di identificare l’ossigeno come l’ingrediente principale dell’elisir di lunga vita sottolineava la distanza dalla precisione acquisita dalla chimica con l’opera di Bergman e Lavoisier. Se all’inizio del secolo erano gli alchimisti a dettare l’agenda teorica e sperimentale dei chimici, dopo Lavoisier era la nuova chimica a definire il perimetro, la lingua e il metodo della scienza.

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Alchimia e chimica nel Settecento

Jean-François-Xavier Fabre Du Bosquet Le mie idee sulla natura e sulle cause dell’aria deflogisticata, sulla base degli effetti che essa produce sugli animali, prolungandone la vita1 Chiunque possieda la scienza della natura e dei suoi mezzi ha tra le mani una fonte certa per la vita e per la salute. Prov. ch. 16, v. 22

L’animale è sufficientemente istruito della maniera in cui deve servirsi dei suoi organi di senso, ma l’uomo dotato di ragione non dovrebbe aggiungere a questo istinto la conoscenza, o quanto meno la ricerca dei mezzi per gioirne più a lungo possibile e in piena integrità? Non dovrebbe spendere tutto il suo impegno e la sua intelligenza nel distinguere le virtù e nel disporre delle cose che lo circondano? La bontà divina, ponendo le vie della natura dinanzi agli occhi della ragione, non ha forse voluto indicare [all’uomo] l’oggetto a cui rivolgere le sue riflessioni e i suoi lavori, imponendogliene l’uso assoluto per il mantenimento della vita? Non è tanto semplice quanto naturale pensare che se l’animale respira più di quindici mila volte in ventiquattro ore, mentre non mangia che due, deve più all’aria che ai suoi alimenti?2 Un fatto così sorprendente non dovrebbe spingere l’uomo di buon senso a cercare il modo di migliorare l’aria che 1  Il titolo originale è Mes idées sur la nature et les causes de l’air déphlogistiqué; d’après les effets qu’il produit sur les animaux, en prolongeant leur force et leur vie, Londres, 1785. Gli estratti qui pubblicati corrispondono rispettivamente alle pp. 1-16; 24-30; 56-63; 101107. 2   Nota dell’Autore: L’archée dell’animale, o fuoco della vita, che possiamo chiamare anche spirito vitale, si nutre unicamente di spirito etereo, il quale gli viene trasmesso attraverso la respirazione. È esso solo a riparare alle sue perdite e moltiplicare la sua forza. Quando l’archée si alimenta abbondantemente di questo fuoco igneo, lavora con successo gli alimenti grossolani destinati a dare sostanza al corpo; nei laboratori del [corpo] animale, finalizzati a queste funzioni, [tale archée] separa il puro dall’impuro e distribuisce le quintessenze che ne risultano nelle diverse parti del corpo che sono loro analoghe e laddove si trovano i fermenti particolari che le determinano.

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respira, sia liberandola dalle sue componenti nocive, sia incrementando le sue virtù vivifiche? Esiste un obiettivo più interessante e più degno della nobiltà e della superiorità del suo essere del posticipare l’età della malattia e le umilianti sofferenze a cui lo espone la vecchiaia? Se respirando l’aria dell’atmosfera l’uomo può arrivare fino a ottanta o cento anni, rendendo quest’aria più salubre e vivifica egli prolungherebbe senza dubbio la durata dei suoi giorni, in ragione della quantità e della purezza del nutrimento igneo e celeste con cui alimenterebbe il suo spirito corporeo; per l’effetto costante di questi mezzi (che si avrà modo di mettere in evidenza in questo opuscolo), l’uomo potrebbe godere molto più a lungo di tutti i vantaggi legati alla forza, alla grazia e alla salute. Est in aere vitæ occulus cibus. Cosmopolite3 In natura l’agente principale è il calore, fuoco o fluido luminoso;4 esso è il solo degno di essere tale poiché, tra tutti gli agenti, è il più attivo e il più penetrante. La sua straordinaria sottigliezza lo rende troppo diverso dai corpi palpabili perché gli sia possibile legarsi e fissarsi intimamente a essi, per la ragione che il più puro, volatile e tenue dei corpi non può unirsi immediatamente al più impuro e spesso. Tuttavia, siccome senza questa unione nulla avrebbe vita in questo nostro mondo inferiore, occorreva un’altra sostanza che, situata in un punto intermedio, potesse ricevere tanto le influenze dall’alto quanto i vapori dal basso, per portare entrambi al centro delle due regioni opposte e stabilire una circolazione vivificante. Spettò all’aria soddisfare questo bisogno ed è dunque da essa che i misti sublunari ricevono immediatamente il movimento, il calore e la vita. 3  “Nell’aria è celato il nutrimento della vita”, Michael Sendivogius (1566-1636) detto Cosmopolita, Novum Lumen Chymicum (1604) ristampato in Jean Jacques Manget, Bibliotheca chemica curiosa, Genevae, Chouet, 1702, p. 472. 4   Nota dell’Autore: Si deve distinguere la luce dalla chiarezza; la prima è la causa, la seconda è l’effetto; la prima dà il movimento, il calore e la vita, [mentre] la seconda ha, come qualità intrinseca, solo quella di dissipare le tenebre.

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Alchimia e chimica nel Settecento

Quando l’aria entra in contatto con la nostra atmosfera diviene più spessa, più acquosa e spesso più insalubre, a causa delle esalazioni più sottili del nostro globo che vi si mescolano. Il concorso e la riunione di queste sostanze serve a rendere l’aria adatta alle facoltà animali; in questo stato, essendo più simile alla materia a cui si trova ravvicinata, la penetra, la mette in movimento e la ordina dall’interno, alla stessa maniera in cui lo scalpello dello scultore modella il marmo dall’esterno. La terra animale5 che forma il nostro corpo differisce in tutto dalle altre terre; essa non contiene che pochissima aria e non ha pressoché alcuna capacità di trattenere e conservare quella che le viene trasmessa mediante la respirazione. Non è forse a questa causa che dovremmo far risalire il meccanismo corporeo dell’animale, per cui [quest’ultimo] si trova predisposto ad accelerare la sua respirazione quando una corsa forzata o un lavoro violento, dilatando tutti i suoi pori, gli fanno impiegare una maggiore quantità di calore vitale? Si sarebbe tentati di credere che la Natura, tanto perfetta nell’organizzazione dell’animale, non gli abbia imposto l’assoluta necessità di una respirazione viva e rapidissima che per forzarlo, in quei momenti, a recuperare ciò che ha perduto. Conseguentemente a questa idea, non dovremmo attribuire anche la frequenza della respirazione che si prova dopo i pasti al bisogno dell’animale di aumentare e fortificare il più possibile il fuoco nel suo stomaco, per aiutare la digestione degli alimenti di cui è pieno? L’esperienza prova quanta poca aria contenga la terra animale. Di tutte le terre, la terra calcarea è la più vitrificabile e quella che contiene una minore quantità d’aria, eppure questa quantità è comunque maggiore di quella proveniente dalla 5   Nota dell’Autore: La terra animale può essere distinta in due parti, una pura e una impura; la prima è la base di tutti i misti sublunari e produce tutto attraverso miscugli di acqua e fuoco; la seconda è come l’involucro della prima ed entra come parte integrante nella composizione degli individui; la pura è animata da un fuoco che, essendo emanato dallo spirito universale della vita, vivifica e conserva tutti i corpi, fintantoché non viene dominata dall’impura. L’azione del fuoco vitale contenuto nell’aria flogisticata protegge l’individuo dal freddo dell’impuro e dalla coagulazione.

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terra animale; esposte entrambe a un fuoco molto violento, la terra animale è quella che perde meno aria, pur avendo esalato del flegma, dell’alcali volatile e dell’olio. Da questa scomposizione si vede che la terra animale, non contenendo pressoché alcuna quantità di aria, deve avere [anche] pochissimo fuoco primitivo. Indipendente dalla scarsa capacità della terra animale di impregnarsene e di conservarlo, il fuoco del microcosmo è talmente volatile e attivo che si dissipa in maniera incredibile.6 Se la Natura, imponendo all’animale l’assoluta necessità di alimentarsene, non gli avesse procurato i mezzi [per farlo] tramite la respirazione, il momento successivo alla sua nascita sarebbe quello della sua morte. Non possiamo comparare, con qualche somiglianza, la terra animale con la colla prodotta dalle sue parti cartilaginee? Il freddo la coagula, la indurisce e la secca; il calore, al contrario, la dilata, l’ammorbidisce e la rende flessibile. Allo stesso modo la terra animale si coagulerebbe e si seccherebbe molto meno rapidamente se fosse continuamente penetrata dal calore naturale, che l’aria deflogisticata contiene in abbondanza. Della terra animale non possiamo allora dire che diventerebbe quasi incoagulabile, così come una lampada diviene quasi inestinguibile quando, man mano che l’olio si consuma, vi se ne aggiunge di nuovo? Quando la terra animale riceve solo parzialmente la porzione di spirito igneo che è necessario alla sussistenza dei suoi spiriti animali e alla sua energia, si accumula e i suoi spiriti si raffreddano, la pelle si secca e si ossifica; infine l’animale perisce, a causa della mancata comunicazione dello spirito vitale dell’aria a quello che si trova in lui. Ma quando il calore della Natura penetra l’individuo terrestre in tutte le sue parti, in maniera costante e con forza sufficiente, impedisce la coagulazione e l’accumulo di terra animale. 6   Nota dell’Autore: L’animale non può riparare [da sé] a questa perdita, perché è impuro e corruttibile; occorre fare ricorso a un’altra sostanza, in cui questo calore vivifico si trovi concentrata in abbondanza. L’aria deflogisticata può rispondere ai nostri obiettivi al riguardo.

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Non potrebbe essere questo il mezzo di cui si sono serviti Jenkens e Thomas Parr7 per sospendere la coagulazione e prolungare la vita, l’uno fino all’età di centosessantanove anni e l’altro fino a quella di centocinquantadue? […] L’inspirazione dell’aria deflogisticata sembrerebbe essere un mezzo tanto più atto a procurarci l’abbondanza e la purezza del fuoco della natura, di cui la terra animale e la liquidità dei nostri fluidi hanno bisogno per non cadere nell’inerzia, quanto più la sua efficacia è accertata mediante un’esperienza positiva, generale e univoca. Un animale vi sopravvive fino a cinque volte più a lungo che nell’aria comune. La fiamma di una candela vi acquisisce più forza e più vivacità. L’aria infiammabile che, mescolata con dell’aria comune, esplode se messa [a contatto] con il fuoco, deflagra con una potenza incomparabilmente maggiore quando la si unisce a dell’aria deflogisticata. Questi effetti non potrebbero avere luogo se l’aria deflogisticata non contenesse una quantità infinitamente più grande di fuoco naturale rispetto all’aria atmosferica; ciò ci dimostra, senza contraddizione, la sua estrema superiorità sull’aria comune. Il nitro è la materia che più di ogni altra è nota per contenere la maggiore quantità di fuoco primitivo. Non saremmo in diritto di supporre che, quando il nitro è fuso, l’aria atmosferica che si introduce tramite un tubo nel recipiente che lo contiene, e che esce da un altro, attraversando l’interno della massa del nitro fuso, vi depositi tutte le sue parti grasse ed eterogenee e porti con sé quelle del fluido luminoso sparso nel nitro, che 7  Thomas Parr (1483-1635) e Henry Jenkins (1500-1670) furono due casi molto noti di presunta longevità.

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essa abbandona per unirsi intimamente all’aria che circonda tale massa e fa da veicolo affinché ci sia trasmessa? La verità di questa esperienza ci spiega la ragione della superiorità delle qualità dell’aria deflogisticata sull’aria comune; quest’ultima, prima di passare nel nitro fuso, non contiene che una quantità di calore pari a diciotto volte quello dell’acqua, mentre quando è deflogisticata, ossia quando è stata fatta passare nel nitro lasciandovi le sue parti grasse e sulfuree, arriva a contenere una quantità di calore pari a ottantasette volte quella dell’acqua. Il fuoco di questa aria eccede dunque di sessantanove volte quello dell’aria atmosferica, ma siccome l’aria non ha potuto prelevare il fuoco naturale contenuto nel nitro senza prendere anche il suo umido radicale, ne risulta che l’aria deflogisticata contiene virtù vivifiche per sessantanove volte in più dell’aria comune. Sulla probabilità di questa digressione si può concludere, mi sembra, che l’animale che respira nell’aria deflogisticata aumenta il soggetto della sua vita o, se mi è permesso di esprimermi così, il volume della sua salute di sessantanove parti rispetto a quello che l’aria atmosferica gli avrebbe potuto fornire, [e ciò avviene] nel momento stesso in cui la libera dalle eterogeneità sulfuree che l’aria ha lasciato nel nitro. L’inspirazione dell’aria deflogisticata produce al contempo due effetti ugualmente salutari: il primo è quello di aumentare il soggetto della vita; il secondo è quello di liberare i polmoni dell’animale dalla sovrabbondanza di flogisto, che in lui è causa di morte. L’estrema affinità che vi è tra l’aria ed ogni sorta di flogisto fa sì che la prima, quando viene privata del suo flogisto naturale, come è in larga misura possibile mediante l’operazione della deflogisticazione, si carica del flogisto animale con la più grande avidità, per poi portarlo con sé quando le viscere della respirazione rifluiscono l’aria inspirata. […] Alcuni abili fisici hanno come scoperto, in questi ultimi 238

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tempi, due sostanze distinte nell’aria: una è un principio vitale e l’altra un flogisto naturale. Si sarebbero [però] meglio assicurati della verità di questo sistema se ne avessero approfondito le cause e non avessero confuso gli effetti di questi due fluidi. Costoro ritengono che l’aria atmosferica, una volta respirata, non sia più capace di intrattenere la vita, poiché il sangue e i polmoni l’hanno privata del suo flogisto naturale e che, ciò nonostante, l’aria carica di flogisto non differisca dell’aria deflogisticata se non per il fatto che quest’ultima ne contiene ancora di più. La contraddizione apparente di questo sistema deriva dal non avere distinto l’effetto dei due fluidi. L’aria espulsa dai polmoni dell’animale deve contenere una maggiore quantità di flogisto rispetto a prima di esser stata respirata, perché a quel punto si trova caricata del flogisto dei polmoni che porta con sé; essa contiene invece infinitamente meno fuoco vitale. L’aria deflogisticata, al contrario, contiene pochissimo flogisto e molto fuoco vitale, perché le parti del flogisto dell’aria che sono state separate dall’operazione della deflogisticazione vengono sostituite dal fuoco vitale il quale, trovandosi meno discontinuo nelle sue parti, si restringe e si avvicina, in maniera tale che lo stesso volume d’aria ne contiene sessantanove volte di più rispetto a prima della flogisticazione. Questa analisi parrebbe dimostrare che questi fisici hanno preso il fluido igneo di cui si alimenta il soggetto della vita per il flogisto dell’aria e il flogisto dell’aria per il fluido igneo di cui l’aria è riempita a seguito della sua deflogisticazione. Altri fisici hanno affermato, sulla base delle loro esperienze, che né l’aria né l’acqua contengono del principio vitale. Si può loro rispondere che il principio vitale e generativo, o fluido igneo, luminoso, esiste nell’acqua come nella terra, nell’aria e in tutti i misti naturali. Senza la sua presenza la Natura intera rimarrebbe sepolta nell’inazione, rientrerebbe nel caos primordiale. Il volume d’aria che entra nei polmoni dell’uomo può essere [di una quantità variabile che va] da dieci e diciassette pollici cubi per ogni inspirazione; questa misura cambia in ragione 8. JEAN-FRANÇOIS-XAVIER FABRE DU BOSQUET - SAMUEL WOLSKY

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della grandezza del diametro e dell’asse del petto. L’uomo consuma quindi, in ventiquattro ore, venti moggi8 d’aria per via della sola respirazione e ne consuma o altera il doppio, ossia quaranta moggi, nello stesso lasso di tempo, per via dei vapori che fuoriescono dai pori del suo corpo. Per quanto stupefacente possa sembrare questa sproporzione, essa non è meno positiva e le prove di questa verità consistono in un fatto. In una linea9 quadrata della superficie della nostra pelle si trovano cento pori e, siccome la superficie della pelle di un uomo di taglia media è almeno di quattordici piedi quadrati, ne risulta il numero di due miliardi sedici milioni di pori. L’aria espulsa dai polmoni dell’uomo o di altri animali non contiene che la sessantasettesima parte del calore diffuso nell’atmosfera prima dell’inspirazione, di modo che se l’animale riceve sessantasei parti del fuoco della vita aspirando l’aria atmosferica, ne riceverebbe sessantanove volte di più inspirando dell’aria deflogisticata.10 Se prendessimo questa enorme sproporzione come base per calcolare il numero degli anni a cui potrebbe arrivare un uomo che non respiri che dell’aria deflogisticata, il risultato sarebbe incredibile. Senza lasciarsi andare a una speranza quasi illimitata, che anche l’immaginazione più esaltata farebbe fatica a concepire, resta un’evidenza della fisica che l’aria deflogisticata prolunghi le forze, le facoltà e la vita dell’uomo in maniera miracolosa. […] Se è vero, come assicurano tutti gli adepti, che la cono8  Antica unità di misura relativa al volume. 9  Ca 2,2 mm. 10  Nota dell’Autore: Da ciò deriva che in un luogo in cui vi è una folla radunata l’aria diviene molto malsana, poiché ogni individuo, trattenendo i sessantasei sessantasettesimi del fuoco contenuto nell’aria, non può alla fine coobare l’aria già respirata, privata del suo principio igneo e infinitamente più adatta, quindi, a caricarsi dei miasmi putridi che contiene sempre il gas animale. La necessità di respirare un’aria più nutriente è la causa del piacere che avvertiamo quando, uscendo da questi luoghi di ritrovo, respiriamo all’aria aperta.

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scenza della materia della loro opera e le manipolazioni che questa richiede sono una ricompensa minore, per le loro riflessioni e i loro lavori, rispetto a una particolarissima ispirazione divina, si ha ragione di credere che ciò che essi hanno preso per una rivelazione misteriosa non sia altro che l’effetto naturale provocato in tutti gli esseri da questo momento delizioso. Il raccoglimento, unito a una profonda meditazione, ha permesso loro di penetrare le cause. Un lavoro ragionato e assiduo sulle materie che sono loro parse il frutto dello sviluppo e della purezza delle influenze benigne degli elementi, in questi fortunati momenti li ha condotti, per una via dritta e naturale, di conseguenza in conseguenza, di risultato in risultato, alla perfetta conoscenza della panacea universale. Si sarebbe tentati di assicurare che chiunque lavori su queste materie, a patto che prenda per guida le operazioni che la natura effettua quotidianamente sotto i suoi occhi, non avrà occasione di lamentarsi. Se è fastidioso che, fino a oggi, questa sublime ricerca sia stata vergognosamente relegata a uomini che non hanno la minima infarinatura di fisica e di chimica, nei quali un’immaginazione esaltata ed esuberante prende il posto della scienza e del talento, è ancora più fastidioso che la cecità e l’ostinato pregiudizio l’abbiano gettata in un ridicolo tanto generalizzato ed esagerato, che coloro che se ne occupano con maggiore cognizione dei principi e dei mezzi da seguire sono costretti a nascondersi, per non essere coperti dall’onta in cui sono giustamente incorsi quegli individui ignoranti noti sotto il nome di alchimisti. Perché gli scienziati dei nostri giorni proverebbero vergogna nello stracciare questo velo rovinoso, occupandosene in prima persona? Sarà per il timore di fare sforzi invano? Tuttavia, recenti esempi di scoperte quasi incredibili, [fatte] in fisica e in chimica, sono sufficienti a incoraggiare la loro impresa, con una speranza tanto più fondata sulla scoperta di diverse arie e, soprattutto, degli effetti positivi dell’aria deflogisticata sugli animali, che devono essere considerate dagli uo8. JEAN-FRANÇOIS-XAVIER FABRE DU BOSQUET - SAMUEL WOLSKY

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mini di buona fede come l’inizio di una prova della possibilità di accrescere il soggetto della vita e di prolungarne la durata. Questo veicolo11 pieno di lumi dovrebbe, mi pare, essere abbastanza potente da stimolare i nostri bravi fisici e i nostri abili chimici a portare più avanti questa scoperta e a renderla utile in scala più universale.

Samuel Wolsky La matematica ermetica svelata12 Da parte mia, ho scritto questo breve trattato affinché la nostra matematica divina non muoia insieme agli ultimi alchimisti. Io vivo in un secolo in cui la nuova chimica ha preso il posto dell’antica alchimia. Allo stesso modo in cui una volta, ai tempi di Cristo, i mercanti occuparono la Casa di Dio per vendere le loro merci, gli alchimisti minacciavano di invadere il tempio di Hermes e, forse perché incapaci di rompere la porta del santuario, lo profanarono. Ma la Provvidenza vegliava. Quando vide che la Scienza di Hermes non veniva più coltivata che in vista dell’oro che poteva procurare, fece apparire Lavoisier. Questo alchimista di genio che ho conosciuto personalmente inventò i corpi semplici e il metodo per isolarli. La scienza alchemica fu così salvata. Grazie alla nuova scienza chimica si poté dimostrare che la trasmutazione dei metalli era un’utopia irrealizzabile e la marea di alchimisti, lasciando da parte una scienza ormai dimostratasi vana, si riversò sui prodotti dell’industria, per il grande profitto dell’umanità. 11  L’aria. 12  Traduzione della prefazione al manoscritto di Samuel Wolski intitolato La Mathématique Hermétique Dévoilée, conservato presso la Historical Medical Library (Wellcome Institute, Londra), MS. 3426, pp. 231-303 e trascritto da Didier Kahn.

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Ma la scienza ermetica nondimeno esiste. Il suo scopo, il suo oggetto e il suo metodo sono interamente distinti dallo scopo, dall’oggetto e dal metodo [dei] chimici. Questo piccolo volume non è altro che il resoconto, finora tenuto accuratamente nascosto, del metodo alchemico.

8. JEAN-FRANÇOIS-XAVIER FABRE DU BOSQUET - SAMUEL WOLSKY

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9. MISURE E GLOSSARIO 1

Unità di misura

1 libbra = 489,51 grammi 1 oncia = 30,59 grammi 1 dramma o grossa = 3,824 grammi 1 grano = 0,053 grammi 1 piede = 0,324 metri 1 pollice = 0,027 metri 1 linea = 2,256 millimetri 1 moggio = 268,220 litri

Glossario

Acido aereo = acido carbonico o diossido di carbonio Acido arsenicale = acido ortoarsenico Acido cretoso = biossido di carbonio Acido marino = acido cloridrico Acido marino deflogisticato = cloro Acido nitroso = acido nitrico Acido spatico = acido fluoridrico Acido vitriolico = acido solforico Acqua di calce = idrossido di calcio Alcali fisso = carbonato di sodio Alcali minerale = carbonato di sodio Alcali minerale acetato = acetato di sodio Alcali vegetale = carbonato di potassio Alcali vegetale acetato = acetato di potassio Alcali vegetale salato = cloruro di potassio  1  Per il glossario abbiamo principalmente consultato Gino Testi, Dizionario di alchimia e chimica antiquaria, Roma, Mediterranea, 1950.

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Alcali volatile acetato = acetato di ammonio Alcali volatile caustico = idrossido di ammonio Aria acida marina = acido muriatico Aria acida vitriolica = anidride solforosa Aria alcalina = ammoniaca gassosa Aria deflogisticata = ossigeno Aria epatica = idrogeno solforato Aria fissa = anidride carbonica Aria flogisticata = azoto Aria mefitica o moffettica = azoto Aria nitrosa = monossido d’azoto Aria vitale = ossigeno Borace = tetraborato di sodio Calce = carbonato di calcio Cinabro = solfuro di mercurio Fegato di zolfo = trisolfuro e pentasolfuro di potassio Flogisto = principio ipotetico introdotto dal medico tedesco Georg Ernst Stahl per spiegare l’infiammabilità dei corpi. Il flogisto, considerato da Stahl come un principio materiale, presente in diversa misura in tutti i corpi, costituiva la causa principale dei diversi gradi di combustibilità della materia. Fosforo di Balduino = nitrato di calcio Galenas = sulfidi di piombo Liquore anodino di Hoffmann = etere etilico Litargirio = ossido di piombo fuso e cristallizzato Menstruum = solvente Olio animale di Dippel = distillato del corno di cervo Olio di tartaro = carbonato di potassio Oro fulminante = polvere d’oro precipitata dal nitrato d’oro Polvere fulminante = nitrato di potassio Precipitato rosso = ossido di mercurio Sale amaro = nitrato di sodio o di potassio Sale ammoniaco = cloruro d’ammonio Sale della Rochelle o di Seignette = tartrato doppio di sodio e di potassio Sale digestivo di Silvio = cloruro di potassio Sale di Glauber = solfato di sodio Sale d’Inghilterra, di Epsom, di Seydschitz o di Seidlitz = carbonato di ammonio Sale marino = cloruro di potassio 246

Alchimia e chimica nel Settecento

Spato fluore = floruro di calcio Spato fosforico = cloruro di calcio Spato ponderoso = solfuro di bario Spiritus rector = principio aromatico Tartaro vitriolico = solfato di potassio Terra ponderosa = barite

9. MISURE E GLOSSARIO

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