Cinema, arte, TV. Spazi e funzioni della critica nel sistema dei mass-media


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Italian Pages 188 [180] Year 1977

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Cinema, arte, TV. Spazi e funzioni della critica nel sistema dei mass-media

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CINEMA ARIE IV: SPAZI E FUNZIONI EJEEIA CRITICA NEI SISTEMA DEI MASS-MEDIA - JT * s

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c■ * s cura di FRANCO PECCHI

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Il presente volume è costituito dalla trascrizione dal magnetofono del dibattito svoltosi in sei giornate di semi­ nario, dislocate lungo l’anno accademico 1975-76, presso [’Istituto di Scienze dello Spettacolo della Musica e della Comunicazione (Università di Roma). Gli interventi sono di: Evelina Tarroni ed Ivano Cipriani, docenti di « Teorie e tecniche delle comunicazioni di massa »; Franco Pecori, Beatrice Barbalato, Carla Biagini, Aldo Passone, collabora­ tori dell’istituto; Maurizio Grande e Adriano Apra, Giusep­ pe Perrella, esperti di estetica e di critica cinematografica; Francesco Guerrieri, pittore; e degli studenti: Giuseppe Ga­ leotti, Renato Teodori, Giorgina De Negri, Emilia Vitale, Pier Giorgio Dessi, Mimma Pisano, Nicola Pisani, Vanni Gay, Franco Contaldo, Elvira Federici. Si poteva articolare la trascrizione in modo diverso e farne magari una raccolta di saggi. Abbiamo preferito non alterare la forma discorsiva perché fossero mantenute certe tensioni interne al dibattito ed i materiali potessero più direttamente offrirsi all’apporto di altri interventi. II let­ tore, secondo il nostro progetto, si inserisce nel testo come in un reale prolungamento e ampliamento della discussione. Da ciò deriva anche il senso del lavoro di annotazione biblio­ grafica, che abbiamo aggiunto come prima indicazione di lettura. Il « discorso », proposto in quanto tale, non esclu­ de infatti un riferimento più esplicito al piano sistematico della ricerca. Franco Pecori

FILM D’AUTORE E CULTURA DI MASSA

F. P. — Non è mio compito presentare complessiva­ mente l’iniziativa di questo seminario, iniziativa che nasce proprio nel momento in cui la Cattedra di « Teorie e tec­ niche delle comunicazioni di massa » va a costituire, insie­ me con altri insegnamenti, il nuovo Istituto di « Scienze dello Spettacolo della Musica e della Comunicazione » al Magistero di Roma. Iniziativa comunque interessante, cre­ do, per molti dei nostri studenti, che intendano affrontare i problemi della ricerca nel nostro campo partendo da una riflessione sulle ipotesi e sulle pertinenze riguardanti l’og­ getto stesso dei loro studi. Vorrei solamente accennare, prima di invitare la professoressa Tarroni ad aprire i lavori, al motivo che ci ha indotti a cominciare con la materia cinematografica. Non è stato certo per fare una scala di valori. Semplicemente, pensiamo che la critica cinematografica sia oggi, an­ che per tradizione, la forma di critica più correttamente inscrivibile nel campo delle comunicazioni di massa; non solo perché si riferisce ad oggetti culturali la cui stessa origine e struttura produttiva appartengono all’industria della cultura, ma proprio per la rilevanza che, nello stretto rapporto tra prodotto e fruizione, assume il discorso critico sul film e sul cinema: una rilevanza sostanzialmente di massa, organicamente dipendente dalle forme comunicative legate ai grandi mezzi di comunicazione. La critica televisiva cerca tutt’oggi la sua strada insieme alla stessa televisione; la critica d’arte ha a che fare con

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una tradizione elitaria, che pesa sulle nuove prospettive (o non-prospettive) dell’arte (o della non-arte) contempo­ ranea non meno delle obbiettive difficoltà del discorso arti­ stico a trovare oggi una coerenza referenziale, anche sol­ tanto in termini sociologici. Tutto questo non significa che, mentre in altri campì della comunicazione di massa regna la confusione dei lin­ guaggi, solo il cinema può vantare una specificità e una trasparenza del discorso critico. Cominciare col cinema è, però, entrare subito nel vivo almeno di una questione: i i mezzi di comunicazione di massa possono determinare mo, dificazioni profonde nel sistema di valori che li sottende, fino a vanificare certe discussioni che sembrarono per tanto tempo imprescindibili, come quella se fare cinema sia o non sia arte. È giusto pensare ancora all arte cinematografica come ad un dominio esclusivo dell’« autore »? E in quale rapporto sta un tale interrogativo con la problematica delle comunicazioni di massa, di cui pure il cinema fa costitu­ zionalmente parte? Ci siamo detti: vediamolo, dunque, che cos’è per noi oggi un film d’autore, e chissà che non si chiariscano anche altri problemi, come ad esempio quello dell’interpretazione, della forma del discorso critico da met­ tere, diciamo così, in funzione sia rispetto al film sia rispetto al cinema (testo, linguaggio, contesto culturale e apparato produttivo). E. T. — È pregiudizio ancora abbastanza diffuso di una cultura tradizionalista credere che le comunicazioni di massa non possano dare adito a nessun discorso culturale, perché di per se stesse sarebbero non-cultura. Ciò, ovviamente, in rapporto ad un certo concetto di cultura come patrimonio e non come processo creativo. Da questo punto di vista, noi ci siamo trovati prima in una posizione difensiva e poi, forse aggressiva. Riteniamo che un lavoro come quello che si farà con questo seminario faccia parte integrante della nostra didattica; invece, in que­ sta università sbagliata sotto tanti punti di vista, diventa qu3.$j un’occasione extra-ordinaria. Questo non impedisce, 8

naturalmente, che gli studenti seguano il seminario col mas­ simo impegno; ci troveranno infatti la realizzazione di certe loro esigenze culturali, la risposta ad alcune delle loro domande. F. P. — Potremmo iniziare dandoci un tema e cercando subito di discuterlo. Poniamo che questo tema particolare sia: « il film d’autore e la cultura di massa ». Ciò significa che vogliamo interrogarci su che cosa sia oggi un « auto­ re » cinematografico, quale funzione possa avere nel siste­ ma comunicativo che noi chiamiamo delle « comunicazioni di massa » e in quale rapporto la sua attività « creativa » stia nei confronti della cultura di massa, che è, se non altro, il livello di circolazione dei film di produzione industriale. Non affrontiamo in sé la definizione di autore, perché è una questione che ci porterebbe forse troppo lontano. Quando diciamo « film d’autore » vogliamo riferirci soprattutto ad una fenomenologia, abbastanza rintracciabile dentro la pro­ duzione corrente. Quanto al concetto di cultura di massa, converrà rife­ rirsi a certe caratteristiche generali, come la società indu­ striale, un tipo di lavoro che porta i gruppi sociali ad una alienazione e ad un’integrazione e che rende sempre più difficile la costruzione di una coscienza di sé. In tale contesto, parliamo di cultura di massa, la cui caratteristica più evi­ dente è di riprodurre a livello di comunicazione i problemi che la società di massa ha sul piano strutturale; a livello di comunicazione, ossia a livello di trasmissione dei sistemi di valori, sulla cui base funziona il meccanismo culturale della società di massa. Prima di parlare di « autore » del film, parliamo dun­ que della produzione dei messaggi filmici, poiché ci inte­ ressa non tanto di controllare il tipo di « ispirazione » artistica dell’autore, quanto di vedere come funziona la co­ municazione; proprio per vedere, magari in un secondo momento, se sia ancora possibile e a quali condizioni l’esi­ stenza di un « autore », di una « ispirazione » artistica. 9

La produzione di messaggi, in quanto messaggi di massa, non è un’operazione che il singolo riesca a fare per proprio conto. Le funzioni dell’autore si disperdono, diciamo così, in una ragnatela di condizionamenti, per cui il cosiddetto autore diventa come un guscio vuoto; la riuscita del suo lavoro dipende da una serie di fattori esterni. Questo vale per tutti gli operatori culturali, operanti nella televisione, nei giornali, nell’industria culturale in genere. Certo, la si­ tuazione del regista cinematografico è molto significativa, se non altro perché sul lavoro del regista c’è tutta una reto­ rica. Sulla realizzazione del film c’è addirittura una mistica del lavoro di gruppo. Direi che, invece, le cose, non vanno troppo confuse. Per esempio, il lavoro di un équipe cine­ matografica non somiglia per niente al lavoro di una bot­ tega d’arte rinascimentale. L’aggregazione dei vari specialisti in una troupe cinematografica nasce, proprio agli inizi del cinema, come un’esigenza industriale. Confezionare un film significa, fin dai primi del ’900, coordinare una serie di procedimenti tecnici a livello indu­ striale; la tecnica di ripresa, lo sviluppo, la stampa, il mon­ taggio, la proiezione e la distribuzione assumono subito un senso che trasgredisce i limiti di una stretta pertinenza linguistica o scritturale. Voglio dire: ci sono dei limiti an­ che a considerare il cinema semplicemente come « testo »; tanto è vero che, quasi immediatamente, nasce il film di genere, che è appunto la dimostrazione di come il cinema abbia i suoi meccanismi di significazione strettamente con­ nessi con i meccanismi della realizzazione industriale. La ripetitività del messaggio è la garanzia del codice, di un codice che nasce in platea, una platea buia indifferenziata. In tutto questo, che cosa può essere il film d’autore? Proponiamo di considerarlo come un genere, collocato all’in­ terno del cinema industriale; un genere abbastanza ristretto, individuabile sia a livello ideologico che estetico, program­ mato per essere manifesto di se stesso. Un noto pamphlettista italiano ha scritto: « I nostri re­ gisti non hanno bisogno di verifiche che non siano quelle 10

del botteghino e della critica ». È un’accusa grave, che però non basta a delineare una reale alternativa al cinema com­ merciale. Il cinema d’autore, per le leggi del profitto che regolano l’industria cinematografica, è un cinema commer­ ciale caratterizzato stilisticamente in un certo modo, a priori — qualcosa di simile a un programma radiofonico conce­ pito per il « Terzo ». Il messaggio d’autore dovrebbe di­ stinguersi per una sua originalità; in realtà, proprio la cul­ tura di massa, con i mezzi di comunicazione di massa, im­ plica un tipo d’integrazione del messaggio che tende ad escludere l’originalità. È quella che il Lazarsfeld chiame­ rebbe pubblicizzazione del comportamento: quanto più il messaggio passa per i mass-media, tanto meno probabili diventano le alternative al comportamento che esso induce. E allora, torniamo a domandarci in che senso possiamo parlare di film d’autore. Evidentemente, si tratta di un film speciale, che dà forma non tanto a idee speciali, ma ad idee « normali » in un modo speciale. A questo punto, l’analisi del messaggio secondo la forma sembra indispensabile. Tutto ciò non significa che la vita di un film sia da ridurre ad uno spaccato analitico della forma; ci interessa vedere in che modo il film d’autore si pone nei confronti di certe ideologie, di certi valori, di certe funzioni sociali, psicolo­ giche, ecc.; e stabilire come e fino a che punto il film d’au­ tore incida in modo diverso sulla fruizione e sui valori so­ ciali veicolati dalla cultura di massa. La critica, ovviamente, ha grandi responsabilità in tutto ciò, ma tutto sta a met­ tersi d’accordo su che cosa intendiamo, di quale critica par­ liamo, a quale pubblico questa critica si rivolge. È un di­ scorso che si affronterà in un secondo momento; diciamo, ora, che il critico potrebbe evitare di considerarsi un essere a parte e soprattutto potrebbe evitare di identificarsi com­ pletamente non solo con la propria specializzazione, ma con il luogo in cui tale specializzazione si concretizza. Potrebbe fare discorsi di forma e di metodo là dove ci si aspetta da lui una pura e accondiscendente traduzione di senso ad uso e consumo del pubblico pagante, e fare discorsi ten­ ti

denti a chiarire i suoi rapporti concreti col sistema com­ merciale là dove ci si aspetta da lui un discorso « tecnico » o « estetico ». Si tratta cioè di trovare il punto critico di un certo « equilibrio » della cultura di massa, che impedisce all’in­ tellettuale di confrontarsi e interagire veramente con gli altri. Su questo punto è vivo il dibattito; si potrebbero citare molti interventi, si fanno continuamente convegni, tavole rotonde, ecc. Vi voglio semplicemente leggere due frasi, molto indicative di un certo contrasto di fondo — le traggo da un Convegno, organizzato a Perugia nell’ottobre 1971 e i cui atti sono raccolti in un Quaderno del Sinda­ cato nazionale critici cinematografici italiani: « Il critico cinematografico — è Ernesto Laura che parla — in Italia gode di un prestigio e di un’autonomia che erano impensabili un tempo, quando la sua figura na­ sceva quasi per caso nei periodici pubblicitari o semipub­ blicitari legati alla distribuzione e all’esercizio »; dice, per contro, Adelio Ferrero: « Se è vero che qualsiasi rapporto tra forze antagoniste o anche complementari deve vivere, per essere un rapporto autentico e non un contatto occa­ sionale, di una dialettica continua di consensi e dissensi incontri e scontri, integrazioni e conflitti, quello fra pub­ blico e critica cinematografica di tutti i rapporti possibili rischia di apparire il più aleatorio e sfuggente, mancando tutte o quasi le condizioni di contatto effettivo e sia pure problematico e contrastato ». Indubbiamente, l’esigenza di mantenere uno stretto con­ tatto con l’oggetto è e dovrebbe essere un’esigenza sia della critica sia dell’autore. Per entrambi il problema principale è la definizione del cosiddetto pubblico. L’equivoco dell’uni­ versalità porta la critica a formulare ipotesi che non sono ipotesi, ma rigide normative e l’autore a giustificare spesso la riduzione in senso espressivo di temi e mitologie, che invece richiederebbero connotazioni ampie e complesse. SÌ porrebbe, a questo punto, il problema del realismo, del cosiddetto rapporto con la « realtà », della funzione ristrut­ 12

turante del processo formale, ecc. Tutte cose la cui discus­ sione dobbiamo purtroppo rimandare. Ciò che possiamo, invece, fare qui è tentare un primo confronto, sia pure con tutti i limiti di questo seminario, fra quelli che la critica chiamerebbe due dei maggiori « autori » del cinema italiano (e non solo italiano).

Due pretesti per una verifica Vedremo Otto e mezzo e Deserto rosso, cercando di non ridire giudizi già espressi tante volte sul valore « artistico » di questi film. Per noi, sono un pretesto per verificare il rapporto tra un certo genere cinematografico, che definia­ mo appunto film d’autore, e la cosiddetta cultura di massa. La cultura di massa propone, attraverso alcuni mezzi di co­ municazione, fra cui il cinema, certi modelli. Questi mo­ delli, a livello di film di grande successo commerciale, vanno ad improntare, diciamo così, il comportamento quotidiano di milioni di persone. Possiamo trovare qualcosa di analogo in film come Otto e mezzo e Deserto rosso, che, per essere film d autore, dovrebbero rappresentare l’alternativa a certi stereotipi, o almeno delle proposte serie di critica, di appro­ fondimento, di presa di coscienza? Quali modelli, quali idee veicolano questi film, e attraverso quali soluzioni formali? In che senso tali idee potrebbero rappresentare un’efficace dialettica nel confronti di una certa passiva assunzione di « verità », di cui si veste a volte l’industria culturale? Co­ me si sono posti di fronte a tali problemi due autori come Fellini e Antonioni? Tra l’altro, teniamo presente che, ciascuno a suo modo, proprio Fellini e Antonioni sono due registi che fra i pri­ missimi hanno sentito il bisogno di dichiarare, attraverso i loro film, una certa inadeguatezza del neorealismo ed hanno voluto approfondire l’indagine, ridefinendo e ridelimitando il campo dei riferimenti. 13

Fellini ha cercato sempre una chiave magica per accedere al mistero della vita: s’è fatto sempre condurre per mano dall'individuo, anzi dall’individuo più individualista che ci potesse essere, cioè da se stesso. Per definire questo se stesso, per dare voce a questo individuo, Fellini ha costruito una mitologia deZZ’individuo; una mitologia che di riflesso si è trasferita all’oggetto: al film, prima di tutto, e quindi alla realtà, alla storia. La so­ cietà, gli altri sono per Fellini qualcosa che esiste e che non muta; un qualcosa dai connotati mostruosi e deludenti di fronte a cui il soggetto si pone di volta in volta con atteggiamento diverso, senza peraltro riuscire a modificare niente, tranne forse se stesso. L’« Arte » è la medicina che, per Fellini, riesce a sanare questa infantile e decadente frattura tra il « se stesso » amico e coccolato e il resto del mondo nemico e mostruoso. Si tratta di vedere di che cosa è fatta quasta « Arte », e fino a che punto realizza 1 auto­ biografia di Fellini, la ricerca di una purezza, di un candore originario; oppure denuncia una impotenza, una separazio­ ne, un’estraneità. Otto e mezzo è proprio il momento chia­ ve; fra tutti i film di Fellini è quello più scoperto da questo punto di vista e in un certo senso è anche quello più riu­ scito: nel senso che Fellini è riuscito ad identificare la strut­ tura del film con la propria visione dell’arte e del mondo. Quanto ad Antonioni, se da una parte dovrebbe rap­ presentare uno dei momenti più « seri » del cinema italia­ no, perlomeno di un certo periodo e in riferimento ad una circolazione della cultura europea non molto presente negli altri registi; d’altra parte, dobbiamo tener conto di come i film di Antonioni si siano sempre prestati ad una schema­ tizzazione a livello scolastico di certi problemi dell’esistenza, dell’alienazione, dell’incomunicabilità, ecc. Anche quando ha tentato una lettura a livello tecnico, la critica si è fer­ mata troppo spesso ialla costatazione materiale di alcuni pro­ cedimenti, primo fra tutti il famoso « piano-sequenza ». Ora, di per sé il piano-sequenza non ci dice niente sulla poetica di un regista — ben altra cosa è, per esempio, il

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piano-sequenza in Jancso, nei cui film il procedimento e anche tutto il piano profilmico si impongono in un senso forte ed autonomo e attraverso il procedimento passa tutto il significato. In Antonioni, specialmente per la prima parte della sua produzione, fino aW Avventura, il piano-sequenza risulta più un procedimento di radice neorealistica, una specie di « pedinamento » esistenziale, dato che il regista ferrarese ha deciso di occuparsi non tanto dei dati sociologici este­ riori quanto dei dati comportamentali e dei problemi con­ nessi con i rapporti fra individui della borghesia. Il problema, forse, per mettere a fuoco la tematica e i possibili sviluppi di una riflessione sul discorso di Anto­ nioni, è proprio nel localizzare i riferimenti culturali che stanno alla base di un certo modo di fare cinema e di sche­ matizzare il materiale profilmico. Proprio in un regista come Antonioni, che sente programmaticamente la necessità di sprovincializzarsi e di uscire da una certa angolatura « pie­ tistica » — come dice lui stesso — del realismo italiano, dobbiamo essere severi nel cogliere un certo residuo pro­ vinciale, soprattutto nel punto chiave della sua operazione: in quel nascosto tentativo di obbiettivazione, di documen­ tario distacco nei confronti di un mondo i cui contorni sono invece da ritagliare e anche da denunciare con estrema chia­ rezza, proprio perché si tratta di cinema, proprio perché sono dei film destinati al grande circuito. Deserto rosso (1963), analogamente all’O^o e mezzo felliniano (1963), è un film-chiave. Secondo alcuni, nella struttura formale del film, Antonioni cerca di attuare una propria evoluzione o rivoluzione personale. Non gli inte­ ressano più i sentimenti dell’individuo in quanto tale, in quanto entità assoluta, ma vuole vedere e controllare questo individuo mettendolo in rapporto con l’ambiente: non solo con la natura, con il paesaggio, ma proprio con l’ambiente sociale. Ciò è verificabile su due elementi: l’uso del colore

e l’uso dell’ottica. 15

Il colore non è naturalistico; le cose si colorano rispet­ tando una catena precisa di rapporti e vanno così a definire una certa situazione di gruppo. Antonioni sente il problema dell’avanzata industriale, della trasformazione della natura, nell’ambientamento dell’uomo nella nuova realtà, in cui la fabbrica non è solo il momento del lavoro. Quanto all’ottica, il teleobiettivo è molto usato e tende a schiacciare gli uomini e il loro ambiente in un’unica pro­ spettiva, anzi in un’unica mancanza di prospettiva. Proprio nel momento in cui Antonioni tenta di precisare il suo di­ scorso sul comportamento, si accentuano le caratteristiche del suo stile. Volendo dare forme precise, colori precisi ad un rapporto storico tra l’uomo e il suo ambiente, finisce forse per accentuare lo « stile », demandando allo spetta­ tore il compito di raccogliere e riorganizzare certe sensa­ zioni estetiche in un discorso più serrato. A questo punto, interviene la considerazione del film in quanto comunica­ zione di massa. Bisogna infatti tener conto che il film, anche quello di Antonioni, va al pubblico del circuito commer­ ciale; da questo pubblico è difficile pretendere che trovi in sé i mezzi per colmare il salto tra sensazione e discorso (discorso in senso forte, giacché in assoluto è chiaro che un discorso c’è comunque). Qui forse è la ragione di una certa distanza tra il pubblico e il cinema di Antonioni. La stessa cosa, con le dovute correzioni, possiamo dirla per Fellini. Le correzioni stanno, a nostro parere, nel grado di spettacolarità che la mitologia felliniana assume già prima di venir tradotta in film, per cui a proposito di Otto e mezzo si è potuto parlare di « supercolosso psicologico ». Del Fellini di Otto e mezzo, comunque, non ci interessa la vicenda di Guido in quanto tale; ci interessa piuttosto un certo discorso sul cinema, sui problemi di un registaartista a contatto con la produzione, con i motivi interiori ed esteriori della propria « ispirazione ». Ciò che colpisce, in rapporto al problema delle comunicazioni di massa, è di vedere confrontata intrinsecamente una certa idea deh’arti­ sta-genio-creativo con la concreta anti-individualità e iute, 16

orazione del cinema in quanto mezzo di massa. Non per niènte l’incasso di Otto e mezzo, pur raggiungendo solo un terzo di quello della Dolce vita, è stato un incasso di tutto rispetto: ad un anno dall’uscita, era di circa 650 milioni (c siamo nel ’641). Discussione su Otto e mezzo

E. T. — Anche quando si parla male di Fellini, come fa Goffredo Fofi nel suo libro sul cinema italiano, si conferma che i suoi film sono film d’autore. Otto e mezzo è un film che esprime il modo di essere dell’autore, magari con tutte le sue contraddizioni. Se c’è qualcosa di buono nel film d’autore, rispetto alla cultura di massa, è il fatto che nella misura in cui uno come Fellini, o come chiunque altro, rie­ sce a dire se stesso all’interno di una società di massa (di massa per ragioni storiche), in fondo ha raggiunto ciò che si vuole appunto raggiungere; ha rotto questo destino ret­ tilineo e unidirezionale della cultura di massa intesa in senso negativo ed ha stabilito un certo dialogo. Poi, c’è il discorso della critica: si tratta di trovare il nuovo modello di strut­ tura del fatto comunicativo all’interno di questa modifica­ zione che chiamiamo cultura di massa, società di massa. Il fatto è che il critico in un certo senso si arroga il diritto di credere che il messaggio dell’autore è rivolto soltanto a lui, mentre invece è rivolto al pubblico. G. G. — Vorrei fare una premessa partendo dalla pre­ sentazione del film. Così com’è stato impostato il tema: Film d’autore e comunicazione di massa, mi sembra che si debba partire dal fatto che il film è una merce e come tutte le merci è soggetto alle leggi del mercato. Sappiamo tutti che per il cinema il mercato che conta è quello americano; teniamo dunque presente l’aspetto commerciale. Poi vorrei fare un secondo discorso, diciamo così gramsciano, sull’im­ portanza che gli intellettuali hanno nella società; importanza che Gramsci considerava fondamentale all’interno del famo­

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so blocco storico capitalistico. Gli intellettuali hanno oer Gramsci la funzione di legare le masse agli agrari e agli industriali. Anche se la società attuale non è quella di Gramsci, è pur sempre una società capitalistica che si è evo­ luta ed ha quindi accentuato il discorso gramsciano, tanto è vero che la borghesia cerca di mantenere l’egemonia in tutti i modi. Ora, mi sembra che il cinema sia proprio uno strumento — qualcuno ha detto addirittura il massimo stru­ mento: Lenin considerava il film uno dei mezzi più impor­ tanti per sviluppare una coscienza all’interno della società — importantissimo in mano della borghesia per frenare una presa di coscienza. F. P. — Tutto questo implica un giudizio su Otto e mezzo, nel senso che il film sarebbe un’opera che non favo­ risce lo sviluppo di una coscienza all’interno della società? G. G. — A parere mio, sì. Tirando le somme in maniera molto schematica, mi sembra che il film sia una specie di carrellata. I movimenti della macchina da presa sono basati essenzialmente sul carrello e i personaggi sfilano continua­ mente al limite del girotondo. L’ideologia che viene veico­ lata è quella dell’io; l’io sta al centro dell’universo, un universo magico, fantastico, surreale e comunque molto dif­ ficile da analizzare; quindi è molto difficile vedere come l’io si situi all’interno di questo universo a livello storico. Non a caso — ed io lo so bene perché vivo a Viterbo Fellini è un autore particolarmente considerato in provincia; per i provinciali Fellini è senz’altro uno dei massimi autori, uno dei più grandi intellettuali italiani. I film di Fellini sono una specie di scuola-quadri per un certo intellettuale di pro­ vincia (professore, avvocato, prete, ecc.), che ancora ha il compito di fare da intermediario con il livello terziario, e di far circolare ancora l’ideologia dell’io. Per quanto riguar­ da Otto e mezzo in particolare, ritengo che sia uno dei mi­ gliori film di Fellini. E. T. — Io vorrei fare solo una domanda. Perché il per. sonaggio del produttore è tanto grasso ed ha quell’aria da mafioso? Non è forse un giudizio sul cinema come industria? 18

p p __ effetti, noi abbiamo scelto di vedere questo film anche perché vi si può leggere un discorso nei confronti del cinema, nei confronti del meccanismo oppressivo della produzione verso l’autore, ossia nei confronti delTispirazione dell’autore, dove l’autore è inteso come genio creativo. Però si tratta di vedere, proprio in concreto, questa denun­ cia quale forma prenda. R. T. — La denuncia sembra proprio essere più caratte­ riale, di rappresentazione della figura del produttore gras­ sone, ecc. anziché a livello di analisi. D’altra parte, un po’ tutto il film è-su un livello quasi buffonesco. La parte più negativa del film è l’ideologia che c’è sotto; il senso della denuncia, tutto l’insieme dei condizionamenti che agiscono sull’autore risulta alquanto debole. Quando Fellini vorrebbe mettere a nudo certe realtà, si limita a descrivere, magari anche con qualche effetto artistico, ma senza andare bene in fondo con L analisi, F. P. —— Mi pare che, a questo punto, il problema sareb­ be quello di vedere fino a che punto 1’ « arte » riesca a supplire ad un discorso d’altro tipo, che si può fare su una determinata realta. Ciò in quanto ipotizziamo di mettere a confronto una soluzione espressiva con una soluzione discor­ siva. Si tratta di vedere se e in che modo le due dimensioni possono convivere. Credo sia venuto il momento di lasciare un po di spazio a Maurizio Grande, appunto per le sue competenze « estetiche ».

Lo stile come contenuto e come formula M. G. — Non parlo da critico perché, per fortuna, non faccio il critico di mestiere, anche se esercito critica quando lavoro; quindi, da parte mia sono anche disposto a chiarire le responsabilità della critica senza sentirmi troppo compro­ messo. Dalla piega che ha preso il discorso, il punto cen­ trale da discutere mi sembra che sia l’introduzione fatta da Pecori; si erano stabiliti dei canali da seguire nell’analisi del 19

rapporto tra film d’autore e cultura di massa. Benché Pecori axtsse lasciato da parte la definizione d’autore, il problema sussiste, perché altrimenti il discorso viene riportato imme­ diatamente al contenuto del film e quindi al rispecchiamento più o meno mediato, più o meno dialettico tra ideologia del film e struttura materiale del film stesso, della società e così via. Mi sembra importante richiamarmi a quella defi­ nizione di Pecori del film d’autore come film di genere. Lasciando da parte il genere come struttura retorica delle forme del discorso, direi che il genere si può situare a metà strada tra il prodotto vendìbile (genere della merce) e il genere come discorso. Dal punto di vista della struttura retorica, se è vero che il film d’autore è un genere, o per lo meno, se è vero che l’industria culturale se ne e appro­ priata trasformandolo in genere, è vero anche che questo genere ha delle connotazioni molto precise a livello lingui­ stico, estetico, più specificamente semiologico. Per esempio, il film d’autore in quanto genere e quindi in quanto rivalu­ tazione dell’artista, è un tipo di espressione artistica dove assistiamo al predominio della forma rispetto ai contenuti, cioè al predominio dello stile. Infatti, verso la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, si assiste a questo capo­ volgimento: al cinema d’impegno civile, cioè il cinema che ancora risentiva del neorealismo — un cinema che aveva tradotto il neorealismo in lirimo populista — si comincia a sostituire questo genere nuovo, il film d’autore, dove lo stile predomina. Ora però, bisogna intendersi per capire cosa significa, non solo « predominio dello stile », ma in che forma questo stile predomina e diventa a sua volta un nuovo contenuto, su cui si possono veicolare nuove idee. Lascerei da parte la nozione di stile in senso stretto, se cioè lo stile appar­ tiene all’articolazione profonda del discorso oppure sola­ mente alla fascia superficiale; assumerei lo stile come una connotazione molto evidente del film d’autore, dove l’au­ tore riesce ad esprimersi « personalmente » con un linguag­ gio diverso. In questo caso, predominio dello stile, o della

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forma, significa che la « fabula », il racconto, la storia, quindi tutto il materiale profilmico, tutto ciò che non è ancora film, retrocede, passa in secondo piano e diventa qualcosa su cui si possono operare dei tagli, degli interventi molto più forti, e soprattutto nell’illusione che non si obbe­ disce più alla logica del racconto, per cui il cinema o qua­ lunque mezzo espressivo anche di massa, non sottosta più alle regole del gioco, cioè al fatto di dover essere un lin­ guaggio adibito soltanto a tradurre il racconto, a tradurre qualcosa che linguisticamente non è cinema in cinema; non c’è più quest’aspetto di riproduzione più o meno fedele della cosiddetta realtà. Quindi, il cinema d’autore, attraverso lo « stile », ossia un certo predominio della forma, si carat­ terizza come negazione del cinema d’impegno (potremmo anche parlare di cattiva coscienza dell’intellettuale borghese), da cui l’idea della « libertà » dello stile: l’autore come sog­ getto libero. Senonché, Fautore come soggetto libero del discorso artistico finisce per diventare qualcosa che va poi naturalmente a confinare con i temi stessi dei film. Questi temi assumono sempre più, proprio attraverso la mediazio­ ne della « libertà » dello stile, il carattere della soggetti­ vità. Da questa libertà alla formula il passo è breve. Ecco come mi ricollego al discorso che faceva Pecori. Analizzato semioticamente, in qualche modo, il contenuto di questi film, è facile capire come l'industria culturale facesse dei temi una formula; il rapporto conflittuale tra autore, indu­ stria e pubblico viene trasformato in qualcosa che dà l’illu­ sione della libertà espressiva. Una libertà che diventa un formulario, un ricettario e, cosa più importante, il conte­ nuto viene formalizzato a livello di soggettività, sia tema­ tica che stilistica; abbiamo cioè una restaurazione soggetti­ vistica in forma di « fusione » tra contenuto e forma. A livello di sostanza del contenuto, si tratta della sog­ gettività borghese; a livello di forma del contenuto, tale soggettività viene presentata come soggettività in crisi. Quindi, Tattenzione viene rivolta soprattutto alla società borghese di quel periodo (anni a cavallo tra i ’50 e i ’60);

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quella crisi, che si chiamò crisi esistenziale, crisi di aliena rione (per merito-demerito della critica), veniva ad essere derivata, da un lato, dall’impossibilità di ritrovare nella struttura borghese determinati ideali, o perlomeno l’inseri­ mento del soggetto in quanto intellettuale; dall’altro, dalFabbandono o dalla delusione dell’ideologia egualitaria por­ tata avanti dal populismo neorealista. Stile e soggetto insieme diventano così i temi e le formule di questo nuovo genere e soggetto che è il film d’autore: il film della soggettività in crisi. Questa soggettività in crisi, così in primo piano, con tutte le conseguenze politiche, sodo-economiche a cui accennava prima Galeotti, si rappre­ sentava, a livello di forma del contenuto, come perdita del­ l’identità. I soggetti si vedono incapaci di trovare la pro­ pria identità in questo mondo frammentano del neocapita­ lismo; si credono incapaci anche di trovare una linea-guida nelle masse; e tutto dò viene rappresentato come « isola­ mento ». Non a caso, in Otto e mezzo, a parte il girotondo finale, la macchina da presa isola i personaggi frammenta­ riamente, come in una sorta di rappresentazione teatrale; c’è la messa in scena dell’impotenza e della finzione dell im­ potenza di una soggettività che non è più piena, ma è rimasta un involucro non più colmabile di contenuti sociali, né politid, né ideologico-intellettuali, in quanto la cultura si sta appunto ricostituendo attraverso un periodo di crisi molto forte e sta brancolando nel buio. Non a caso in questo periodo nascesa il centro-sinistra. Dall’analisi che ho tentato di fare viene fuori che il livello immediato del discorso, anche psicologico, è la mitizzazione dell autore. II pubblico è invitato a pensare all’autore anco­ ra come ad un artista-demiurgo; l’io, in tal caso, è l’io crea­ tore. C’è un trasferimento d’identità molto chiaro, non solo tra Fautore e i suoi personaggi, ma addirittura tra l’autore e coloro che capiscono il messaggio: un messaggio compren­ sibile solamente per coloro che riescono ad identificarsi in questo trasferimento di identità, che poi è la perdita d’iden­ tità, il frammentismo del personaggio di Guido, a metà stra­

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da tra psicoanalisi e Pirandello; è proprio un frammentismo che ha una struttura logica, una struttura narrativa talmente precisa, che è un frammentismo da messaggio, è veramente la sostanza del film. Vorrei concludere, infine, notando che ovviamente nel discorso di prima assumevo lo stile come tema; parlavo di confluenza tra tema, soggettività e stile e però restava fuori l’analisi dei procedimenti stilistici. Pren­ devo lo stile come qualcosa che emergeva direttamente dal film visto, assumendolo come contenuto del discorso, come uno dei risultati, come tema fandomentale. fi- T. — Il discorso di Grande ci fa capire, in fondo, perché Fellini, in quel determinato momento, ha fatto que­ sto film. In fondo, dal punto di vista contenutistico, il film è la rappresentazione della crisi di un individuo a cui è stato attribuito, da una determinata parte della società — l’indu­ stria, rappresentata in Otto e mezzo dalla figura del gras­ sone , il ruolo di creatore, anche quando questo creatore non ha niente da dire. Però, siccome lui è « maestro » — così lo chiama sempre il suo produttore —, deve per forza dire qualcosa. La lettura delle immagini

. F- P- — Le immagini « interiori » dell^y/ore, prove­ nienti da una non meglio identificata interiorità del « genio creativo », sarebbero immagini non costruite razionai men te, ma secondo un dettato del profondo, difficile da control­ lare anche per lo stesso autore? In fonto, il tema di Otto e mezzo potrebbe essere questo. Evidentemente, Fellini deve aver trovato il modo di rendere accessibili le sue visioni, questo insieme di « immagini » che è Otto e mezzo; si tratta di andare a definire questa evidenza. È una operazione che non possiamo fare in un qualsiasi modo; dobbiamo neces­ sariamente essere sistematici, selezionare, astrarre, confron­ tare elementi apparentemente lontani, mettere in relazione forme, parole, significati, tentare insomma di costruire un 23

senso. Detto altrimenti, dobbiamo attribuire una forma in qualche modo razionale anche alle immagini « interiori w di Fellini. Perché ciò possa avvenire, è necessario che esista un certo livello in cui Fautore (film) e lo spettatore (lettura del film) facciano riferimento agli stessi codici. Otto e mezzo, da questo punto di vista, è un film molto interes­ sante perché la chiave di lettura ci viene data dallo stesso autore esplicitamente, attraverso il discorso stilistico. Ora, per arrivare allo stile di Fellini, dobbiamo tener presente che al nostro non interessa una verosimiglianza in termini referenziali: Otto e mezzo possiamo definirlo addirittura un film in soggettiva (e si tratterà di vedere se per caso non lo sia anche Deserto rosso, l’altro film « d’autore » che ab­ biamo scelto per questo seminario). È in tale direzione che dobbiamo leggere la tipizzazione di tutto ciò che sta intor­ no al protagonista: una tipizzazione che in un certo senso contrasta con la soggettività della visione. Infatti, come ha notato anche Metz, di Guido noi sappiamo pochissimo, sap­ piamo che è un regista in crisi; mentre invece di tutto il re­ sto abbiamo una montagna di particolari; magari de-formati in senso barocco. La produzione del senso avviene quindi in un modo accentuatamente stilistico: gli aspetti referen­ ziali, fuori da una funzionalità estetica, non dovrebbero avere valore. E invece — qui è il punto critico del film e di tutta la poetica felliniana — una certa lettura verticale di Otto e mezzo, lettura fatta secondo due colonne diegetiche, per cui sulla sinistra abbiamo gli avvenimenti della « fantasia » e sulla destra quelli della « realtà » — nel film queste due colonne hanno un tempo differenziato, che però tende ad identificarsi, come nei punti dell’ASA NISI MASA, o dell’arrivo di Claudia, o dell’impiccagione del cri­ tico, o del girotondo finale —; la lettura verticale non ci serve a molto, ci dà soltanto una serie di « immagini » abbastanza staccate, una specie di antologia molto debol­ mente motivata. Nella critica dei quotidiani e dei rotocal­ chi, questo modo di leggere, diffusissimo, porta a due peri-

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coli: quello della lettura antologica dei film, in cui si dice che una certa scena è superiore o inferiore a un’altra (e se ne enumerano alcune: i genitori, la casa di Romagna, .la Saraghina, ecc.); e quello di una lettura referenziale, che è un po' quella che anche qui è venuta fuori: Otto e mezzo è un film sulla crisi dell’artista contemporaneo, sulla nevrosi e l’impotenza a creare come fatto generale della cultura contemporanea, sull’assenza di temi sociali, ecc. Se, invece, proviamo a fare una lettura orizzontale, leggendo le due colonne come si legge la pagina di un libro, viene fuori il rewro della costruzione del film. Viene fuori, cioè, che si tratta di un film dove le immagini non sono messe insieme per analogie più o meno liriche, ma secondo una costruzione abbastanza schematica: un’operazione stilistica che, alla data in cui è stato fatto il film (1963), si inserisce entro certi fenomeni di riporto, nell’eco di cose giunte in Italia attra­ verso i nomi di Resnais, Bergman, Joyce, ecc. In quel pe­ riodo tutti comprarono Wlisse e lo misero in biblioteca. Dunque, il senso di Otto e mezzo d verrà proprio dallo scarto esistente tra rappresentazione artistica, indagine psi­ cologica e riflessione critica, che dovrebbero essere i tre momenti dialettici del film. In questo quadro, c’è un mo­ mento-chiave ed è quello dell’impiccagione del critico. La figura del critico è una figura schematica e debole solo se la consideriamo, come hanno fatto alcuni recensori, dal punto di vista naturalistico; ma allora, anche quella di Guido, il protagonista, è una figura ingenua e quasi irri­ tante, un semplice espediente narrativo. Quel gesto sbriga­ tivo con il quale Guido ordina a se stesso di far fuori il critico sarebbe troppo facile se non fosse il sintomo di una situazione culturale e psicologica propria di Fellini, delle sue radici storiche. Voglio dire che il film non si è fatto da solo, qualcuno ha costruito questa figura dì critico, alla quale è troppo facile riservare quella sorte. Considerando che Otto e mezzo vuol essere un film su un regista che riflette a voce alta sul proprio film, quindi un film su un film, che a sua volta verte sul cinema, ci sembra che quel 25

gesto dell’impiccagione immaginaria sia un po’ troppo sco­ pertamente strumentale. L’analisi si risolverebbe direttamente e semplicemente nel senso comune. E questo var­ rebbe anche per gli altri temi del film: il mammismo, la religione cattolica, il sesso, l’arte, ecc.; tutti concetti ripor­ tati a livello di senso comune, anzi comunissimo, cioè borghese. Il discorso sul film si può invece recuperare se non ci identifichiamo col livello stesso del rappresentato e badia­ mo alla trasformazione stilistica. Otto e mezzo non è leg­ gibile come se fosse una presa diretta della realta. Facciamo solo un accenno, proprio all’inizio del film. Guido è in albergo, si alza dal letto e va al bagno, accende la luce c si guarda allo specchio. Dal buio della camera siamo pas­ sati ad un’inquadratura quasi bianca. A un certo punto, sentiamo un campanello suonare alcune volte e Guido, sem­ pre davanti allo specchio, ad ogni suono si abbassa fletten­ do le ginocchia a scatti. Evidentemente è un voler porre subito l’accento sul simbolico della rappresentazione. È que­ sta anche la novità di Otto e mezzo rispetto ai precedenti film di Fellini, dove c’era una maggiore attenzione per il filmato. La finzione come segreto

M. G, — Ricollegandomi al problema dello stile felli­ niano rispetto al nostro tema sul film d’autore, noterei che tutti i piani dì Otto e mezzo che si referiscono alla « men­ zogna », al momento in cui Guido inganna se stesso e gli altri, sono tutte inquadrature in piena luce, piene di pu­ rezza e decadenza. Tutti i personaggi sono tipizzati in que­ sto senso, la loro crisi riguarda la vecchiaia e l’arcaicità, collegate all’infanzia attraverso la memoria. Ora, se non è troppo arbitrario questo collegamento tra « menzogna » ed espressione in questa forma « chiara » e se è vero anche che questo è un film sui ruoli, sulla teatralizzazione delle

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situazioni e dei pensieri ad alta voce, si può anche pensare che tutto il film, vuole denunciare l’idea della finzione (sce­ nica, teatrale o artistica) come segreto. In quegli anni si andava elaborando tutta una teoria dell’opera aperta, per cui l’artista avrebbe favorito Patteggiamento critico negli spettatori se avesse smontato il meccanismo e fatto vedere come funzionava il giocattolo; lo spettatore avrebbe parte­ cipato, demistificando la finzione. Qui, invece, mi pare che la finzione viene elevata a valore; cioè la finzione come segreto, come segreto dell’artista, delle sue capacità stilisti­ che rispetto al mondo interiore che deve esprimere; questo « valore » è un valore che non si può rivelare, tant’è vero che l’intreccio narrativo diventa una favola, lo spettatore lo vive come favola e il frammentismo della costruzione è solamente apparente; la confusione che si può cogliere ad una prima visione del film viene indotta artificiosamente dal regista, proprio per negare allo spettatore la possibilità, non tanto di scoprire i trucchi del mestiere, quanto di con­ siderare 1 opera come una stratificazione di segni, come qual­ cosa che si fa, che e costruito e per mantenere alla finzione quel ruolo di segreto, di inattingibilità critica o lingui­ stica, che la mantiene nell’aura piuttosto alta di un’espres­ sione preziosa, rara. F. P. — Mi fermerei un attimo sul finale di Otto e mezzo. Sempre tenendo presente la necessità di non mantener sepa­ rati i due piani di svolgimento, quello della « realtà » e quello della « fantasia », ma di considerarli internamente relazionati; così, il colloquio col critico e l’incontro con Mezzabotta e Gloria alle Terme precede direttamente l’ap­ parizione di Claudia: quindi Claudia spiega la faccenda del critico e il critico spiega la presenza di Claudia; e così, la scena in camera con Carla precede direttamente l’appari­ zione della madre, del padre, del commendatore e di Luisa in quella specie di cimitero: tutto questo ci dice qualcosa sui rapporti diciamo così affettivi di Guido nei confronti delle donne in generale (e il tutto ritornerà nella scena dell’harem); ancora, la Saraghina è attaccata al Cardinale e così 27

» ratti di una « fantasticherìa >4 tracà è cnemàti secondo uno schema razionale, anche se ùwwyp rirwfitirf Per quanto riguarda il tinaie, lo trovo alquanto osceno ■ci senso leomle del termine- In pratica , Fellini denunci# lo speavxih: mentre invece, se d pensiamo, è proprio lo che salva il protagonista. Fellìm dice: « Questa nw^iràwr — sono parole di Guido — è io come sono, non come rara essere »; ma non ri dimentichiamo che queste cose Godo le dice sul set. Quando sentiamo le parole di GuiÀv Fellini. ri viene da guardare in facda tutte quelle oxnparse e ri chiediamo tante cose sulla loro vita privata e il Him diventa un documentario, al limite un documentario sulle com parse di Gneritià. Ma forse invece, il senso piu immediato del tilm è quello appunto che, tutto sommato, attraverso l ane ri si può riscattare da tante situazioni. E. T. — Giustamente Pecori ha detto che un momento importante del film è 1 impiccagione del critico* Stavo ri­ flettendo ad un certo effetto prismatico nei van personaggi Potremmo vedere questi personaggi a tre a tre, mentre in realtà sono uno; la moglie, l’amante e Claudia, che è 1 unita tra la moglie e l’amante; così per Guido e il critico. Ucci­ dendo il critico, Guido ritrova se stesso: probabilmente la terza parte di questa trinità è il giocoliere. Il finale è vera­ mente la parte debole del film, perché qui il gioco diventa troppo scoperto: eliminata in sé la coscienza critica che gli impediva di creare e abbandonandosi alla lietezza del gioco, Guido ritrova se stesso, la possibilità di vivere e di creare. R. T. — Tutto quello che finora siamo riusciti a cavar fuori è una serie di interpretazioni simboliche e forse ciò è dovuto al fatto che si tratta di un film d’autore. Il grosso problema, forse, è quello del rapporto tra film d’autore e comunicazioni di massa. F, P. — Indubbiamente, stiamo cercando di fare una pri­ ma lettura dei film. Non vorrei che però si creasse l’equi­ voco che la prima lettura sia necessariamente più facqe

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della seconda; in questo senso non vogliamo creare certo una scala di valori. M. G. —- Mi pare che il problema che è venuto fuori, se cioè la cultura di massa non sia altro che aiutare lo spet­ tatore di un film a tirare fuori i personaggi, i tipi e così via, sia un problema molto grosso. Ci troveremmo di fronte ad una specie di soluzione prefabbricata, per cui lo spettatore, dopo aver messo a posto i vari significati del film, se ne toma a casa tutto contento: cultura di massa come riduzione del problema. E. T. — Certo, il problema apre tutto un discorso, che ci interessa moltissimo e che affronteremo più avanti.

Discussione su « Deserto rosso » M. G. — Mi pare di aver colto una notevole dissocia­ zione tra base letteraria del film (sceneggiatura, dialoghi) e aspetto form ale-espressivo. Il testo è fiacco, debolissimo, volgarizzato al massimo: una volgarizzazione di tutto ciò che allora si pensava in Italia dell’industria, della psicoana­ lisi, dei bambini soffocati dalle cure e dagli oggetti, ecc. D’altra parte, a livello formale, il film si salva soprattutto negli esterni, come organizzazione degli spazi; è un film sull’oggetto, sui colori, su una presenza ferrea, grìgia, non tanto dell’industria quanto dello spazio in cui la macchina da preso si collega. L’industria è magari una presenza sul fondo, anche massiccia, però è presente per contiguità; il film è tutto sulla nebbia, sull’impossibilità di penetrare certi rapporti. Questo livello formale molte volte riscatta la vol­ garità grossolana del testo. Particolari riserve farei sugli interni, che in generale non mi sembrano ben riusciti; Anto­ nioni usa molto il meccanismo della ripetizione, non riesce a selezionale bene, sembra, il materiale girato. F. P, — Ma forse è una poetica meno casuale di quel che può sembrare; a livello di costruzione formale dell’inqua­ dratura (geometria, spazi, volumi, ecc.), il film è molto pre­ 29

ciso; c’è un continuo rifiuto di una certa simmetria troppo pesante, per cui le inquadrature disattendono sempre una certa attesa di centralità... M. G. — Per la tematica, uno dei temi, che del resto ricorrono spesso in Antonioni, è quello del viaggio. Deserto rosso si svolge addirittura come un itinerario. Questo itine­ rario è però viziato, è come un circolo chiuso, la macchina da presa non sa dove andare. Tutti gli ambienti esterni sono dei percorsi molto chiari, netti, con delle prospettive che tendono a sdoppiare i piani e gli spazi, con questo grigio indefinito che fa da sfondo ai volti in primo piano; negli interni tutto questo si perde. Ma comunque, ciò che mi interessa è il viaggio senza viaggio; in sostanza, il film è statico, rifiuta il tempo come progressione lineare, come pedagogia dello sviluppo educativo dell’azione, quindi come sviluppo dalla causa all’affetto. Sarebbe anche interessante vedere i rapporti tra le forme di questo film e Professione reporter, che secondo me presenta molte affinità a livello

formale. F. P. — Senz’altro direi che uno dei riferimenti tematici di Antonioni è proprio questa specie di livellamento ontologico, in cui cose, uomini, idee, fatti si riportano tutti a zero e sono fotografati con una specie di non dico neutra■ lità ma programmata « indecisione ». Tale operazione pre­ senta anche dei pericoli, perché si creano delle contraddi­ zioni interne. Ideologicamente, l’autore sembra schierarsi con un certo esistenzialismo in maniera un po’ generica, di­ staccata, ed invece nelle inquadrature troviamo un program­ ma molto preciso, di corrispondenze tra sentimenti e colori, il movimento di macchina costruisce l’azione dall’interno (piano-presenza), ecc.. E pensare che, proprio a proposito di Deserto rosso, la critica, quasi tutta si è espressa in questi termini: finalmente Antonioni ha fatto un film di­ verso, ha smesso di occuparsi dei sentimenti dei singoli individui e li ha inseriti in un contesto sociale preciso; il paesaggio diventa insomma ambientazione sociale (anche

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perché, referenzialmente, abbiamo la fabbrica, lo sciopero, ecc.). Ora, l’interessante è andare a vedere se questo è vero. Prenderei in considerazione due aspetti: il colore e l’ottica. Il teleobbiettivo viene usato da Antonioni in ma­ niera direi massiccia per la prima volta. Il colore non è qui certamente un colore naturalistico; sono state addirittura dipinte le strade, le mele sul carrettino, ecc. Le cose si colorano rispettando una catena precisa di rapporti, che ten­ dono a definire la situazione di un gruppo sociale. Tutto questo non si organizza però in maniera definitiva. Il colore, in fondo, assume quest’importanza perché Antonioni, pur sentendo il problema dell’avanzata industriale, di certi peri­ coli insiti nel cosidetto progresso, ecc., non riesce a vederlo in maniera completamente negativa, vuole in qualche ma­ niera recuperare questa situazione e cerca di farlo attraverso l’estetico : fotografando ciò che trova di « bello » nel pae­ saggio industriale. Per quanto riguarda il teleobbiettivo, il discorso è più facilmente schematizzabile. Il tele, come si sa, tende a schiacciare l’immagine e questo schiacciare l’im­ magine in Antonioni significa proprio mettere insieme gli uomini e il loro ambiente sullo stesso piano, riducendo la tridimensionalità a bidimensionalità, nel senso di mancanza , di prospettiva. Tutto questo si può interpretare in senso positivo e in senso negativo; entro questi limiti, il film è anche dialettico. Non e dialettico se prendiamo per oro colato la sceneggia­ tura, perché allora siamo quasi al ridicolo. Tuttavia, la sce­ neggiatura possiamo addirittura farla diventare un oggetto, una delle tante case q dei tanti fumaiolpche si vedono nel film; alcune battute scivolano, per così dire, sull’inquadra­ tura; almeno questa è l’impressione che ne abbiamo oggfi' in quanto individuiamo facilmente certi riferimenti culturali legati al momento. G. D.TL —allusione dei personaggi con l’ambiente, cosa che ha notato la critica a proposito di Deserto rosso, io non la vedo per niente; anzi, l’ambiente appare fastidio­ samente appiccicato e non c’entra molto con ciò che in

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realtà interessa ad Antonioni, cioè la ricerca del personaggio i sentimenti. In questo scavare il personaggio, nel modo hi cui viene fatta questa ricerca, dovremmo trovare una dialetticità. Io chiedo: dove dobbiamo cercarla questa dialetticità, sul piano formale?

La visione del mondo e la costruzione delle inquadrature F. P. — Per forza. Se noi prendiamo il film come un racconto, così com’è a livello di sceneggiatura, possiamo anche dire che non ci piace la visione del mondo, quél tipo di considerazione di certi problemi filosofici o psicologici, ecc. ; oppure possiamo dire che non siamo d accordo sul modo in cui la macchina da presa segue i personaggi e ci fa vivere la loro vicenda. Ma se diamo per scontato tutto questo aspetto e lo consideriamo come una cosa che appar­ tiene a un momento della cultura italiana, legato ad una moda intellettuale, tutto il resto diventa recuperabile. La costruzione dell’inquadratura, il rapporto tra la visione degli oggetti e il procedimento adottato, che in altro ambito si potrebbe definire come contemplazione in senso negativo, può tornare positivamente. E. T. — Penso che sia anche importante sottolineare il I, fatto che Deserto rosso è il primo film a colori di Antonioni. Io credo che della sceneggiatura Antonioni non si sia poi ì preoccupato tanto; ciò che realmente gli interessava era dì sperimentare il colore. E. V. — Ciò ’che'mi ha colpito in questo film di Anto­ nioni è che il dato dell’alienazione della protagonista non nasce tanto dalla civiltà industriale bensì da una situazione familiare. Mi rifaccio all’analisi che viene fatta dal movi­ mento femminista circa l’alienazione della donna. L’unico spazio che la donna ha sempre avuto è stato quello della famiglia: il rapporto con i figli, l’attutire attraverso i senti­ menti certe contraddizioni nel rapporto col marito e, tutto sommato, l’alienazione a livello sessuale. Ora, io trovo che,

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anche a leggere il film in questo modo, la sceneggiatura sia debole. In un certo senso non dice nemmeno tante banalità (mi ha colpito, per esempio, quella frase: mi domando che cosa devono guardare i miei occhi — mi domando come dovrei vivere); coglie abbastanza bene l’alienazione della donna rispetto alla passività in cui è sempre vissuta e che è esasperata in questo personaggio; e anche l’alienazione di lui, che non riesce ad identificarsi più nell’attività. La sce­ neggiatura diventa debole quando noi scopriamo che Anto­ nioni non voleva fare un film sulla diversità dell’alienazio­ ne tra uomo e donna, e che questi sono elementi che gli sono in qualche modo sfuggiti, come recuperati in un con­ testo diverso, quello della civiltà industriale, che non è il riferimento che ci può essere sufficiente per capire tutte le altre cose. Non a caso Antonioni ha scelto un personaggio femminile per parlare di un certo tipo di alienazione; solo che poi il discorso sull’alienazione resta incompiuto, non ri s ol to, proprio perché in fondo Antonioni non voleva fare un film sulla condizione della donna, anche se il personag­ gio è femminile. Significativo il finale, che è una delle gros­ se debolezze del film, quando la donna finisce per accettare in pieno il ruolo borghese, identificandosi con, una cèrta condizióne: vediamo che si mette lo stesso cappotto della prima scena, la spilla, il suo bambino, ecc. È una soluzione appiccicata, rispetto alla mancanza d’identificazione di que­ sta donna, appiccicata in una maniera abbastanza sempli­ ciotta. G. G. — Io penso che la sceneggiatura sia volutamente e smaccatamente banale. Della fabbrica, per esempio, non si sa niente, niente su che cosa produce, l’unica cosà che vediamo è il fumo, un fumo che si spande e rende grigio tutto l’ambiente; non a caso si parla di colori neutri e il film, malgrado sia a colori, tende al bianco e nero. Deserto rosso è un film sul vuoto, sulla banalità; tanto è vero che, analizzando i movimenti di macchina, in certi casi abbia­ mo proprio Fastrazione, la macchina segue una linea azzur­ racóme per caso, rimandando a se stessa, da cui un certo 33

valore riduttivo dell’immagine, Prendiamo la favola rac­ contata dalla protagonista. C’è un meccanismo per cui, nel momento che sentiamo la parola bambina, vediamo una bam­ bina, quando sentiamo dire che appare una nave bianca, vediamo una nave bianca e così via. Ripeto: si tratta di un film sulla banalità, sul vuoto prodotto da un impatto iniziale. Io penso che l’inquadratura della fabbrica, quel fuoco, quell’esplosione, lo sciopero e subito dopo l’inquadratura della protagonista, tutto questo deve avere un senso; guarda caso, la donna avrà poi un incidente di macchina con un camion guidato da un operaio. Proprio da questo scontro nasce tutto il film, un film sull’impossibilità di trasformare le cose, impossibilità anche a livello linguistico. E si può vedere anche come metafora della vuotezza dell attore; 1 at­ tore che non riesce a dare ciò che il regista vorrebbe. Que­ sta lettura a livello formale (impossibilità della trasforma­ zione) diventa poi importante anche a livello ideologico. M. G. — Non dobbiamo dimenticare il piano dell’este­ tica, di cui parlava Pecori. Io credo che sostanzialmente, se ( ripensiamo a tutti i film di Antonioni, vediamo immobilità ' delle situazioni, staticità a livello espressivo, mancanza di tempo (non c’è neanche il presente come esibizione, ma ve­ ramente un tempo astratto) e molta attenzione per il cosid­ detto paesaggio. Il fatto è che, inserendosi con il cinema co­ me funzione estetica nello spazio — che sia umano, indu­ striale o naturale, è uno spazio dato, su cui non si può intervenire —, non importa che non ci sia trasformazione o progresso, perché il discorso è spostato sulle funzioni espressive del cinema. Non a caso Antonioni ha prestato sempre molta attenzione agli esperimenti del cinema un­ derground. È vero anche che questo tipo di lettura ci può portare a pensare che l’ambiente non c’entra niente con i personaggi. Infatti, a me sembra che non solo i personaggi ma tutta la storia abbia una funzione molto meno impor­ tante rispetto alla necessità di stare dentro gli oggetti, op­ pure di vederseli davanti, rispetto a questa oggettualità pas-

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siva che assume il contesto spaziale in rapporto alla mac­

china da presa. . Per quanto riguarda 1 alienazione, c e da considerare che Tonino Guerra è uno scrittore alla moda che produce dei temi verbali; Antonioni quasi si disinteressa di queste cose, certe battute possono benissimo scivolare via, come diceva Pecori. Nei film di Antonioni la donna è sempre un ele­ mento positivo. In questo caso, il regista non denuncia I’alienazione, ma denuncia un'uscita dall’alienazione; la don­ na è in crisi perché non è più alienata. Noi diciamo che la donna è alienata quando accetta passivamente il suo ruolo, l’alienazione è mancanza di coscienza, è essere altro. Questa donna del film, invece, non è più alienata, la sua crisi è il segno del superamento dell’alienazione. È questo che Guer­ ra non ha capito del personaggio, che infatti è costruito in maniera impressionistica e intuitiva. La protagonista si com­ porta come una nevrotica mentre dovrebbe essere una don­ na in crisi, che rifiuta l’alienazione; ma è un meccanismo narrativo di cui Antonioni non tiene conto; in generale, in Antonioni7 la narrazione come rispetto di una progressione lineare non ha alcun valore. Ecco perché mi sembra impor­ tante il discorso che faceva la professoressa Tarroni sulla sperimentazione linguistica in Antonioni. Antonioni rispetta gli oggetti che si trova davanti, di cui subisce certamente il fascino, funzionalizzandoli esteticamente. In questo caso, il' « bello » neutralizza i problemi sociali; è la soggettività del­ l’artista che rispunta fuori nella creazione del bello estetico. Procedimenti ed effetti

G, P, — Sono abbastanza d’accordo con Grande nel no­ tare unajfasatura e quasi un’indipendenza tra l’aspetto nar­ rativo del film e l’aspetto più prettamente filmico. Questo puòportare alla lettura di un film che non è quello di An­ tonioni: il film che scaturisce dai dialoghi, i quali in un certo senso sono forti, rozzi e fanno riferimento un po’ trop­

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po al senso comune di certe problematiche sociali e cultu­ rali. Una lettura di questo tipo tende a sviluppare al massi, mo i processi di unìversalizzazione, recependo i procediménti del film su questo stesso piano. Mi pongo questo problema: fuso del piano-sequenza, Fuso del colore^ come vengono ricevuti dallo spettatore medio? E teniamo presente che questo spettatore medio, viene a formulare il suo pensiero non solo sulle cose che ha ricevuto attraverso l’equivalente del linguaggio verbale (narrazione e dialoghi), ma si basa anche sul materiale che ha raccolto a livello di procedimen­ to; procedi mento che sottintende anche un atteggiamento ideologico del regista. Il problema che mi pongo è se di fatto ciò che lo spettatore non ha colto a livello cosciente del materiale verbale-narrativo non si riversi come effetto nell’altra parte, quella filmica. E.T. — L’errore dell’impostazione del problema ejjejtL delle comunicazioni di massa è nel fatto che chi intenzio­ nalmente voleva suscitare certi effetti (e quindi tutta 1 or­ ganizzazione e la gestione del potere), finisce per rimanere deluso, le sue intenzioni non si realizzano mai. Anche a li­ vello di ricerca psicologica è venuto fuori che, nel momen­ to stesso in cui noi percepiamo il film, dato che Fatto per­ cettivo non è qualcosa di semplice da potersi confondere con I la sensazione, vi riversiamo tutte le nostre precedenti espe! rienze. Tanto è vero che da ogni memorizzazione viene fuori ‘ un film diverso; questo lo stiamo vedendo attraverso delle ricerche con i ragazzi. Quindi è difficile accettare un’impostazione del proble­ ma in termini di effetti generali. Certo, il mondo non ri-, mane come quando le comunicazioni di massa non c’erano, ma si dovrebbe parlare piuttosto influenza che non di effetto. La presenza delle comunicazióni di massa, e quindi del cinema e quindi anche del film d’autore, modifica l’am­ biente, le possibilità d’esperienza che ciascuno di noi può fare. In questo senso ha ragione McLuhan, il vero effetto non è dato tanto dai contenuti quanto dalla tecnologia at­ traverso cui vengono trasmessi i messaggi.

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q p __ Io, più che altro, mi riferivo al procedimento filmico in quanto espressione di un certo atteggiamento nei confronti della realtà. Probabilmente, lo spettatore medio non ha la coscienza del complesso procedimento di produ­ zione cinematografica. Anche a livello di influenza, già il fatto di accettare questa discrepanza tra la sceneggiatura e il procedimentoHEiImico, discrepanza di cui si parlava prima a proposito di Deserto rosso, e poi ammettere che lo spetta­ tore delle comunicazioni di massa non _la_ recepisce,, mi sem­ bra un problema importante. In questo senso, affronterei il problema dell’effetto di realtà nel film. Il cinema, anche in base a certe caratteristiche linguistiche, determina una certa confusione nello spettatore tra conoscenza per esperien­ za diretta e conoscenza per esperienza mediata da un pro­ cedimento formale. F. P. — È vero intuitivamente, ma è vero per altre for­ me di comunicazione. Ho rimpresisone che si parli del cine­ ma come fatto « linguistico », indipendentemente dal pro­ blema del cinema come comunicazione_di massa. In che senso questo problema della « realtà », che' interessa il ci­ nema da un punto di vista gnoseologico, interesserebbe le comunicazioni di massa? G. P. — Se fosse vero che il cinema dà un effetto di realtà maggiore^ di altri jnezzi, ciò potrebbe spiegare certe forme di coinvolgimento, di partecipazione, indotte dal ci­ nema come comunicazione di massa. F> P. — Dipende molto, allora, a quale «realtà» si fa riferimento. Brecht, ad esempio, fa l’ipotesi che la parteci­ pazione sia stimolata proprio da un effetto_di non-realtà. G. P. — C’è anche la teoria dell’informazione, secondo cui tanto minore è la probabilità di un’informazione, tanto maggiore è il suo potere comunicativo. Ma bisognerebbe anche considerare un altro aspetto, aprire un altro campo, delle informazioni coscienti e di quelle incoscienti; certo, un procedirpento brechtiano tende a sviluppare lo spirito cri­ tico...

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F. P. — Si inserisce il problema del realismo come qual­ cosa di diverso dall’effetto di realtà. G. P. — Io, però, facevo riferimento non tanto alla real­ tà della comunicazione quanto alla realtà referenziale, alla quale indirettamente si riferisce l’immagine cinematografica. Un’analisi del linguaggio cinematografico può dare un importante contributo per spiegare l’effetto di realtà dato dal film. Nel film abbiamo un primo livello relativo ai vari oggetti che compongono l’inquadratura, i quali non sono certo fatti « reali », dotati di significato immediato, ma han­ no un significato derivante da un processo di convenzionalizzazione. Anche il semplice riconoscimento di un oggetto, di un’immagine filmica, è il prodotto di una decodifica. Certo, questo primo livello non può essere paragonato a quello dei fonemi della lingua, perche questi non hanno significato, mentre l’immagine degli oggetti è già un segno. Ma il fatto di non avere limiti forti di comunicazione per­ mette forse al cinema di intrappolare molta più esperienza. Rimanendo al muto, il segno iconico determina la conoscenza intuitiva, aU’interno della quale si ha^un campo di azioni e reazioni maggiore dì quello della_linèarità sintagma) tica dèrUnguaggio verbale. Le unità segniche all’interno dell’inquadfatura sono inoltre articolate dal movimento diai1 cronico; si aggiunga poi l’impressione di realtà associata alla compresenza dei suoni e della parola. Si hanno così molti co­ dici, che vanno da quelli percettivi e a quelli relativi al­ l’arte figurativa in genere fino a quelli relativi ai movimenti di macchina, ai campì, ai piani, ecc., i quali fanno tutti ri­ ferimento a modelli so ciò-culturali, storici, economici, psi­ cologici. Considerato così, si può dire che questo linguaggio deter­ mina un coinvolgimento e una partecipazione che non sti­ mola un atteggiamento critico nei confronti delle informa­ zioni date ai diversi livelli. Il linguaggio « audiovisivo » viene recepito come una realtà direttamente accessibile, con un senso di partecipazione e di fiducia vicino a quello del­ l’esperienza diretta. Del resto, non ci sono solo i codici del

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cinema. Questi codici influenzano a loro volta i codici antropologici-culturali che si assorbono con l’educazione rice­ vuta dal momento della nascita. Da questo punto di vista, l’interpretazione mimetica del cinema non può essere moti­ vata con le sole caratteristiche intrinseche del linguaggio cinematografico. L’imitazione è piuttosto un insieme di va­ lutazioni di tipo figurale e diacronico, istituzionalizzate, at­ traverso le quali il pubblico esprime la propria concezione del nuovo sistema di rappresentazione. Le associazioni mentali legano l’immagine al di là di ciò che viene percepito direttamente, ma il campo delle conno­ tazioni pertinenti è ristretto, a causa delle molteplici spe­ cificazioni e informazioni fornite dall’immagine stessa. Insomma, l’immagine è meno adattabile della parola. Ne deri­ va la tendenza alla partecipazione acritica dello spettatore, la cui mente e condizionata dall abitudine al linguaggio ver­ bale. Del resto, le ricerche di Piaget e Chomsky dimostrano che, se è vero che 1 intelligenza precede il linguaggio, è il linguaggio a strutturare l’intelligenza in modo lineare. D’al­ tra parte, 1 alfabetismo e indispensabile per l’astrazione del­ la narrazione cinematografica. ■b' ’ Se c e una differenza tra partecipazione acritica, dovuta all’effetto-realtà, e partecipazione critica (diciamo il realismo di tipo brechtiano), non si vede ancora il collega­ mento con le comunicazioni di massa. S’è il perìcolo di attribuire alle comunicazioni di massa il carattere di partei cipazione acritica, come se avessero uno statuto ontologico. Si parla spesso delle comunicazioni di massa come se fosse scontato che siano comunicazioni di un certo tipo: inte­ grative, a partecipazione acritica. Invece, sono così a certe condizioni. Quando identifichiamo le comunicazioni di mas­ sa con queste condizioni della comunicazione, la definizione resta empirica. Il mio dubbio è che si identifichi un piano ontologico con certe caratteristiche esterne. Il discorso di Perrella funziona in quanto discorso sul linguaggio cinema­ tografico; ma si dà per scontata una definizione che invece è proprio il nostro problema.

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G. P. — Nel momento che si dice che il linguaggio cine­ matografico si articola su piani diversi e diciamo che ela­ bora un insieme di varianti molto ricco, è probabile che ciò crei nello spettatore una specie di soddisfacimento, per cui si ferma ad un livello superficiale di lettura. Il problema del linguaggio F. P. — Ma da ciò a dire che per questi motivi il cinema è comunicazione di massa c’è una distanza. Il problema è di vedere che cosa siano le comunicazioni di massa. Ho 1 im­ pressione che, finora, abbiamo un’aggregazione di dati non troppo sistematica. Se, quando diciamo cinema, diciamo lin­ guaggio, qual’è la necessità di dire che certe caratteristic e fanno un’altra caratteristica, ossia la comunicazione di mas­ sa? Diciamo che ci interessa vedere a quale funzionalità semiologica risponde la comunicazione di massa. Ciò significa mettere insieme vari piani di ricerca, eterogenei fra loro, in un tutto sistematico ad un altro livello. Tale sistema, che comprenderà cinema, tv, stampa, radio, bisognerà inqua­ drarlo in un discorso teorico preciso. Comunque, credo che convenga fare un po’ il punto della nostra discussione. Mi pare che siamo partiti da questo: il problema della definizione di « film d’autore » ci può interessare, oggi, solo se visto in un ambito specifico, che lo comprende e lo ride­ finisce secondo un’ottica di cultura di massa. In tale am­ bito, è necessario determinare ulteriormente gli strumenti per indagare secondo quali condizionamenti tecnici una cer­ ta cultura entra in circuito. La questione dei mezzi di comu­ nicazione di massa viene ad intrecciarsi con la più comples­ sa situazione teorica riguardante l’analisi dei linguaggi. Nel nostro caso (linguaggio cinematografico), abbiamo visto che, più o meno esplicitamente, al momento attuale ci troviamo a fare i conti con certe ipotesi, come quella fondata epistemologicamente in Italia da Emilio Garroni e praticata in Francia da Christian Metz e da noi da Gianfranco Bettetini,

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della necessità di superare il concetto di specificità in ter­ mini di omogeneità dei materiali di analisi {il « segno » ci­ nematografico); e della opportunità, quindi, di muoversi concretamente per indagare nei fatti che cosa succede quan­ do un certo numero di codici diversi fra loro entrano in contatto e interagiscono, determinando una serie di signifi­ cazioni. Abbiamo anche visto che, proprio partendo da alcuni fatti concreti (due film d’autore », Otto e mezzo e Deserto rosso), la prospettiva teorica s’intreccia con quella poetica, implicando altri ordini di problemi, non meno importanti e interessanti, anche questi affrontabili su due versanti, quello del realismo come metodo e del realismo come fatto comunicativo, riguardante i rapporti rintracciabili tra istituzionalità semiotica e condizioni della comunicazione, anche esterne alla qualità del segno. Da una parte, abbiamo avuto un accenno all’ipotesi brech­ tiana, di una distanza dàlia « realtà » come presa di coscien­ za critica e quindi maggiore possibilità per lo spettatore di veder chiaro circa i problemi della « realtà »; dall’altra, 1 ipotesi di un doppio livello di informazione presente nella comunicazione di massa: un livello di coscienza e uno di incoscienza. Queste ipotesi richiamano, per un verso, certe indicazioni di Jurij Lotman sull’« illusione della realtà », con le due tendenze del cinema: a fondersi con la vita e ad affermare^ la sovranità dell’arte; due tendenze sempre pre­ senti, in una specie di tensione strutturale, evidenziata di ' volta in volta sia dagli « autori » (Vertov e Ejzenstein sono gli esempi che fa Lotman), sia dai critici (una figura molto significativa potrebbe essere Bazin), sia dal succedersi delle scuole e delle poetiche (Hollywood e il neorealismo, Fellini e Visconti, ecc.). Per altro verso, vengono messe in ballo nuove istanze critiche, per un esercizio del giudizio preferen­ ziale, che sappia tener conto degli attuali suggerimenti della semiologia ed anche sappia utilizzare in positivo i dubbi avanzati dalla psicologia circa la «Razionalità» del fenome­ no comunicativo, riferito a condizioni come quelle del cinémà Kanche della.televisione, così come l’ha inquadrato la

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critica di stampo tradizionale, storicistica o stilistica (per non parlare di quella volgarmente impressionistica). Chiudiamo, dunque, con l’apertura verso uno sviluppo del nostro seminario in tali direzioni.

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arte e comunicazioni di massa

E. T. — La nostra è una disciplina recente, che è stata anche abbastanza combattuta dal mondo accademico tradi­ zionale, e quindi ci troviamo quasi a giustificarci per il fatto che all’interno di una cattedra destinata alle comuni­ cazioni di massa ci occupiamo di arte. L’arte è sacrale, è cir­ condata da un’aureola, noi invece abbiamo l’abitudine di mettere questa parola tra virgolette, proprio per indicare la sua problematicità oggi; non la sua inesistenza, naturalmen­ te, ma la sua problematicità. Ciò che ci proponiamo è di vedere in quale modo J/arte^ discesa da una linea tradizio­ nale, nonostante le spinte d’avanguardia e dTrinnovamento linguistico, possa collocarsi in un sistema comunicativo co­ me quello attuale. Ed è proprio una base metodologica, per noi, quella di non considerare nessun tipo di comunica­ zione preso di per sé, ma di creare piuttosto un osservatorio che veda tutte le manifestazioni comunicative come aspetti di un sistema, che è il sistema comunicativo. Un paragone potrebbe esserci utile: quello che è il siste­ ma nervoso all’interno dell’organismo vivente è il sistema comunicativo all’interno di una società; quindi noi lo guar­ diamo in modo sincronico, guardiamo cioè i rapporti tra i vari aspetti, tra le varie manifestazioni comunicative nella nostra società, più che guardare singolarmente ognuna di queste manifestazioni comunicative, sia come canali sia co­ me codici.

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Nwot'f funzioni e nuovi ruoli A questo punto, sulla base anche del discorso portato avanti da Benjamin, si pone il problema di quale sia la funzione attuale dell’opera d’arte, intesa come opera d’arte visiva — non si può più dire né pittura né scultura, perché è difficile ormai distinguere questi generi nei movimenti av an gu a rdistici ; non si può nemmeno dire figurativa, per­ ché l’arte oggi non è soltanto figurativa —; e altresì di qua­ le ruolo competa all’artista. I greci adoperavano la parola « technee », che significava qualsiasi operazione compiuta dall’uomo per creare oggetti non naturali; fra questi og­ getti c’erano anche le statue, i frontoni dei templi e così di seguito; e sebbene ci sia stato tramandato il nome di alcuni pittori e di alcuni scultori, in realtà essi si erano acquistati una fama di ottimi artigiani, di ottimi tecnici. Un ruolo diverso l’artista comincia ad averlo, secondo me, soltanto nel ’500 e soltanto sulla base d’una estetica neoplatonica, per cui l’arte era mimesi della natura, la natura era mimesi del mondo divino, quindi l’arte era mimesi di secondo^ gra­ do. Sulla base di questa concezione estetica, 1 abilità, la bravura dell’artista era un criterio sufficientemente r^^°j valido per poter giudicare del valore dell’opera d’arte e del ruolo più o meno importante che nella società quell’artista capace di imitare il bello, ecc., ecc., poteva rivestire. Tutto questo dura, naturalmente con variazioni notevoli, fino al1*800 e in fondo fino alla nascita della fotografia. La foto­ grafia sottrae all’arte in maniera completa la funzione delrimitazione del reale; e allora l’arte si deve rifunzionalizzare ed abbiamo la crisi dell’arte, che prelude ai movimenti di avanguardia della seconda metà dell’800. Il discorso delle avanguardie diventa sempre più acuto, sempre più dram­ matico con l’avanzare delle nuove tecniche, cinema, televi­ sione, radio. Ognuna di queste si è assunta la funzione che era precedentemente svolta da quegli uomini che si defini­ vano artisti per la loro bravura mediante la creazione di certe opere che avevano una loro funzione; funzione che

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poteva anche essere didascalica — è stata magica prima, culturale dopo, secondo Benjamin; è stata anche, ad un certo punto, per esempio durante il regno di Luigi XIV, e dopo, durante l’impero, esaltatrice dei valori e dei perso­ naggi che portavano avanti le vicende storiche — e che ver­ so la metà dell’800 viene meno. Infatti, se realmente è va­ lido il concetto di comunicazione come sistema, è chiaro che ad ogni creazione di un nuovo canale, e quindi ad ogni modificazione di un certo codice per essere adatto a quel determinato canale, viene come conseguenza una ridistribu­ zione delle funzioni. Come la fotografia, per esempio, ruba all’arte la funzione del ritratto, perché è chiaro che il ri­ cordo di una persona cara te lo dà meglio una fotografia che non un quadro, crea cioè un « analogon » del reale che sembra più fedele di qualsiasi rappresentazione o imitazione fatta da un artista. Succedono anche delle discussioni: Bau­ delaire si scaglia contro la fotografia, per esempio. Perfino la funzione del romanzo viene presa dal cinema; la funzione informativa e didascalica che si assumono certe forme cine­ matografiche, viene sottratta al cinema dalia televisione: è ormai quasi inutile fare il cinegiornale, dato che il cinegior­ nale sarà sempre meno del telegiornale, il quale a sua volta sottrae alla stampa la funzione informativa, e così via. Quan­ to piu si amplia il sistema di comunicazione, tanto più si modificano le funzioni di ciascuno dei canali e dei codici di questo sistema. A questo punto, ci poniamo il problema della critica. Bau­ delaire è stato uno che ha portato avanti, e precisamente in un momento critico per l’arte tradizionale, questa funzione della critica. Anche nell’800 si verifica già la mercificazione dell’opera d’arte, perché essa è sottratta alle grandi opere pubbliche (templi, regge, ecc.) e diventa un fatto privato; il quadro lo si vuole avere nella casa; c’è una classe emer­ gente, che è la borghesia, la quale vede nell’opera d’arte comprata e pagata un simbolo di prestigio, del suo ruolo nel­ la società. E infatti, già dalla seconda metà dell’800 órca, la critica assume un’importanza più grande di quanto non aves-

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se precedentemente: proprio perché deve aiutare i bor­ ghesi a fare buoni acquisti, deve cioè valutare l’opera d’ar­ te. Tuttavia, la critica, mentre diventa più importante, ha ancora delle basi teoriche sufficienti, perché si basa sulle estetiche idealistiche, le quali non mettono minimamente in dubbio che ci sia un valore dell’opera d’arte né che que­ sto valore sia riconoscibile da persone, le quali però non è che abbiano una laurea in critica; non hanno un titolo uffi­ ciale, ma si formano alla sensibilità e al buon gusto e ven­ gono riconosciute come esperte di cose d’arte e non sono artisti — ecco la differenziazione tra l’artista e l’intellet­ tuale —; si specializzano in questo loro lavoro di media­ zione tra il pubblico, eventuale compratore, e 1 opera del­ l’artista. D’altra parte, proprio in questo periodo nasce un’altra istituzione. Mentre prima le opere d’arte, dal ’500 in poi, vengono acquistate dai signori — ci sono varie mo­ dificazioni delle strutture sociali e politiche e di volta in volta la funzione dell’opera d’arte segue queste mutazioni delle strutture sociali, politiche e religiose —, nell 800 na­ sce l’abitudine di far vedere ad un pubblico socialmente in­ differenziato l’opera d’arte; nasce cioè la mostra, la galle­ ria, non più come galleria privata del signore (esempio: gal­ leria Pitti), ma come possibilità di mettere a contatto 1 opera dell’artista col pubblico, tra cui si troverà l’eventuale com­ pratore. Allora, la figura del critico assume una sua partico­ lare funzione, che è quella di valutazione dell’opera d’arte. E d’altra parte, questo è connesso ad un altro fenomeno: lo sviluppo della stampa. La sede della critica dell’opera d’arte diventa il quotidiano; è il quotidiano che dà notizia di quella determinata mostra, che si è inaugurata il giorno tal dei tali e che dà valutazioni critiche sulle opere esposte in queste mostre. Un altro problema collaterale, è la critica al teatro. Poi­ ché tutti i fatti umani sono connessi fra di loro, il teatro non è più un teatro dì corte, ma un teatro creato per la borghesia. Anche qui si pone la necessità di dare a coloro ì quali devono affittare i palchi o i posti in platea un giudi­ 46

zio sull’opera da vedere, la quale opera teatrale viene tenuta in scena per un certo periodo di tempo; di modo che il giu­ dizio del critico, come per la galleria d’arte, è utile a coloro i quali scelgono lo spettacolo che vedranno nella loro serata, perché li indirizza verso uno anziché verso un altro. Quindi, accanto alla figura del critico d’arte, nasce e si afferma il ruolo, importante e necessario, del critico teatrale. Per l’opera letteraria, il discorso è lo stesso e anche più ovvio. L’opera letteraria si vende nelle librerie, l’acquirente ha bi­ sogno di una guida per comprare un’opera invece che un’al­ tra opera, la stampa si pone come canale del messaggio cri­ tico e quindi, anche nel campo della letteratura il critico si pone tra 1 opera, 1 autore, e il pubblico, eventuale acquiren­ te. C’e un fatto economico, che nasce dalle mutazioni della società, che dopo la rivoluzione francese diventa società « democratica ». I ruoli del critico, dicevo, le sue funzioni — sia per l’arte figurativa, sia per la letteratura, sia per il teatro — trovano degli strumenti, che sono gli strumenti offerti da un’estetica filosofica. L estetica predominante, fino a qualche anno fa, e 1 estetica idealistica, l’estetica crociana. Oggi noi ci ponia­ mo, in un certo senso, come contestatori, o perlomeno ci S?^° contestazioni alla posizione della critica crociana, per­ che cè in essa qualcosa ancora di metafisico, di trascenden­ tale. L arte come intuizione presuppone che ci sia poi nel contemplatore dell’opera d’arte e particolarmente nel criti­ co una intuizione del valore artistico. Ciò nasce dal concetto dello spirito assoluto, per cui ci dobbiamo tutti riconoscere nell’opera d’arte, per una spinta che è dentro di noi. Tutto questo da posizioni positivistiche o neopositivistiche, final­ mente oggi linguistico-semiologiche, viene contestato; cioè viene contestato il ruolo dell’artista, viene messa in crisi la base teorica per una valutazione minore o maggiore dell’ope­ ra d’arte e quindi dell’importanza dell’artista; ma viene con­ seguentemente messa in crisi anche la funzione del critico. Ci possiamo domandare: dato che l’abilità tecnica dell’arti­ sta considerato come imitatore del mondo naturale o come

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ispiralo da qualcosa che è il bello trascendentale noi non la possiamo più integralmente accettare, già cominciamo a du­ bitare ddlobbietrività dei criteri che abbiamo nel giudicare il valore di un’opera d’arte e nel giudicare quindi il ruolo dell'artista nella società. Se pensiamo agli ultimi svolgimenti delle arti visive, ci rendiamo conto che queste non presup­ pongono nessuna abilità tecnica. Allora ci domandiamo: dato che non occorre abilità tecni­ ca — può esserci inventiva, fantasia, desiderio di provoca­ zione, tutto quello che si vuole, ma non abilita tecnica —, chi è che elegge artista l’artista? Il critico? Ma in base a quale criterio e in base a quale diritto? Da questo discorso sull’arte e sulla critica d arte nasce il conseguente discorso, di vedere se negli altri settori attuali del sistema comunicativo la posizione del critico sia piu fa­ cile, e in ogni modo, se sia uguale o diversa da quella e critico teatrale, del critico letterario e del critico d arte. Mentre per quanto riguarda l’opera d’arte, infatti, la se e scelta per il contatto tra opera d’arte e pubblico è la galleria o la mostra, ed anche per le altre critiche (letteratura, tea­ tro) la cosa è abbastanza facile, in quanto la mediazione av­ viene prima del contatto del pubblico con l’opera ed è quin­ di il critico che orienta la fruizione; negli altri canali che si sono venuti a formare, qual’è la situazione? Problemi nuovi sono posti da linguaggi nuovi, per cui certi canoni dell’opera teatrale o dell’opera d’arte visiva o dell’opera letteraria possono non essere più validi nella cri­ tica filmica. Qual’è, allora, la funzione della critica? Se rap­ presentiamo come un quadrilatero il rapporto tra autoreopera-critico-pubblico, il critico si pone tra autore, opera e pubblico o piuttosto non è quello che riporta l’opinione del pubblico all’emittente? F. P. — La professoressa Tarroni ha giustificato a suo modo il tentativo di adeguare metodologicamente la rispo­ sta a certe domande che la situazione comunicativa pone al momento attuale. Mi pare che affiorino alcune implicazioni molto indicative di quella che può essere oggi una discus­

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sione non solo sui metodi e sulle funzioni della critica, ma anche sul tipo di approccio a certi discorsi. Non vorrei ri­ mettere mano alla sintesi storica già tracciata dalla professoressa Tarroni, ma sembra chiaro che, nei secoli, arte e scien­ za, a livello di pubblico, abbiano percorso due cammini che non si sono molto incontrati. Oggi, la questione della tecni­ ca, rispetto all’arte moderna e rispetto al cinema, che è il settore di cui mi occupo specificamente, è più che mai la spia classica per individuare i confini di certe posizioni. Fare un discorso sulle funzioni della critica nel nostro contesto socio-culturale e politico, con particolare riguardo ai mezzi di comunicazione di massa, significa avvertire in pieno, prima di tutto, il grave disagio di una crisi profonda, che riguarda, a tutti i livelli e da vari punti di vista, i rap­ porti esistenti all’interno del processo comunicativo. Diciamo alVinterno del processo comunicativo non certo per ritagliare artificiosamente l’oggetto del nostro discorso e delimitare il campo in senso formalistico, ma anzi proprio perché non vogliamo fermarci alla considerazione del mes­ saggio in quanto tale. Il processo comunicativo è sì un fatto analizzabile sul piano formale, ma appunto perciò la sua consistenza ha radici sociologiche-storiche e dunque esso è comprensibile veramente solo se messo in relazione con tut­ to il complesso di elementi istituzionalmente e culturalmen­ te considerati estranei da posizioni che possono andare dal­ l’idealismo più retrivo fino alle forme più rigide di certo strutturalismo legato alle mode culturali. La crisi di cui parliamo produce oggi un disorientamento generale, che riguarda sia il polo dell’emittenza sia quello della ricezione; è in base a tale disorientamento che, in un certo senso, possiamo parlare in termini negativi di « comu­ nicazioni di massa », ossia di un « pubblico » delle comu­ nicazioni di massa, di una « cultura di massa », inteso tutto questo come qualcosa di passivo e indifferenziato. La pro­ spettiva d’integrazione, nel senso di pubblicizzazione del comportamento e quindi di riduzione delle alternative, è data anche dalla mancanza di una tendenza culturale preci­ 49

sa, ovvero dalla mancanza di una chiarificazione dei ruoli e delle funzioni che nella società assumono i cosiddetti opera­ tori culturali. Ed ecco il disorientamento, ecco il messaggio indifferenziato, giustificato di volta in volta con motivazioni tra etiche e sociologiche, ecco la fruizione passiva, ecco l’industria culturale, che tende ad inglobare ogni tentativo di interpretazione, di lettura, di tend enzi ali tà. È chiaro, però, che bisognerà fare attenzione a non di­ sperdere il discorso in una dimensione ancora, e piu grave­ mente, totalizzante. Sarà bene delimitare il concetto di crisi per non entrare in ambito universalistico, precludendo così molte possibilità di accostarsi al tema in modo critico. Il pericolo è di pensare alla crisi come a qualcosa che emer­ gerebbe dal crollo di un sistema di valori considerato nella sua totalità. In questi termini, non saremmo certo usciti dallo spiritualismo e dalla retorica della crisi. La cosa grave e improduttiva sarebbe che avremmo ancora 1 uno di fronte all’altro due mondi, quello delle comunicazioni di massa e del consumo della cultura e quello, nostalgico, aristocrati­ co-borghese, dello « spirito », che purtroppo sarebbe desti­ nato a disfarsi di fronte all’avanzata della massificazione. Contro tali schematizzazioni vogliamo dunque occuparci di un aspetto ben definito della questione. Certo oggi il discorso importante da fare sul sistema co­ municativo è quello dell’informazione e della democrazia. Basta pensare alla televisione, in quanti modi si può impo­ stare un « servizio informativo » per una « campagna ideo­ logica ». Tuttavia, la questione dell’arte, da cui partiamo in questa fase del seminario, è ancora una questione da non buttar via (vedere in che modo e fino a che punto l’« in­ comprensione » tra artista e fruitore possa passare attraver­ so la critica, nei suoi rapporti con il mercato), poiché in essa si raggrumano, per cosi dire, i termini di una polemica fatta di residui spiritualistici e di apocalittiche integrazioni.

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Uno spunto: il nuovo jazz e la critica

Abbiamo qui il pittore Francesco Guerrieri e lasciamo dunque che ci parli egli stesso delle esperienze fatte nel suo campo; non parlerei neanche di cinema, in questo momento. Prenderei, invece, la musica jazz, come un interessante aspetto della musica attuale, che in questo momento, pro­ prio in Italia, sta coinvolgendo masse di giovani sempre più larghe, portando anche alla luce gravi problemi di edu­ cazione musicale e di politica culturale in senso più ampio. I rapporti dell’industria culturale (specialmente il disco) con questa forma artistica sono stati determinanti fin dagli inizi. L’industria discografica ha fatto subito le sue scelte, ta­ gliando fuori dal jazz le componenti socio-culturali più im­ plicative ed esaltando esclusivamente la personalità artisti­ ca dei singoli musicisti, facendone altrettanti mostri di vir­ tuosismo strumentale specifico. Con il « free » jazz, che è una forma nuova nata da profonde esigenze di riscatto cul­ turale e politico (le stesse che possiamo ritrovare, per vie interne, in tutta la storia del jazz), la bravura e la genialità del singolo musicista è immersa, finalmente, nel tessuto col­ lettivo e si recupera una certa apertura nei confronti del­ l’ascoltatore, il quale non è più chiamato a passare una sera­ ta piacevole ed emozionante, a bere e a ballare con quel ritmo strano, bensì a partecipare concretamente, con la sua presenza, all’evento musicale. Nel disco tutto questo non risulta, come non risulta la condizione di schiavitù e di di­ scriminazione dei campi di lavoro o di Harlem. Ecco perché il jazz è oggi un fatto particolarmente significativo; esso sta tra la valanga mercificatrice della musica « pop » e l’aristo­ cratica elitaria ostinata chiusura di certa musica « colta ». Ebbene, proprio la critica jazzistica, messa, diciamo così, a confronto tra il musicista « free » e la crescente partecipa­ zione di un pubblico giovane e attento ai problemi socio­ politici che l’affare musicale comporta, rivela un imbaraz­ zante disagio, non riesce a chiarire la propria funzione. Ven­ tanni fa era più facile, per il critico, scaricarsi la coscienza 51

in senso « progressivo »: nel ’50 si trattava di far sapere al mondo della cultura che esisteva anche il jazz e si poteva non andare tanto per il sottile. Ma oggi, dopo l’esplosione del « free », il musicista di jazz ha rinunciato programma­ ticamente a suonare « bene », perché non ha più bisogno di imporre alla cultura ufficiale la sua bravura, la sua « arte »; gli interessa piuttosto il discorso culturale e deve stare mol­ to attento ai pericoli della normalizzazione, dell’ascolto in­ dustrializzato, capace di annientare qualsiasi originalità. Di fronte a questa situazione, vediamo che la critica dei quoti­ diani resta legata al perbenismo estetico dei tempi più cupi, quando l’ispirazione del musicista veniva fatta cadere dal­ l’alto. Un discorso sulla critica deve cogliere, oggi, certe contraddizioni, per cui in un giornale — le cui pagine dob­ biamo considerare come un contesto organico e non come luoghi di discorsi separati — la prima pagina ospita titoli e articoli di stampo « democratico » e « progressista », men­ tre all’interno il critico di jazz si lamenta che « i sassofoni­ sti moderni sono un po’ tutti eguali e, dopo l’avvento della musica free è praticamente impossibile distinguere uno stru­ mentista dall’altro ». Ecco. Consideriamo questo sul jazz uno spunto, una spe­ cie di test, limitato e circoscritto, che tuttavia presenta molti punti di contatto con altri discorsi possibili, riguardanti fe­ nomeni più larghi, come per esempio il cinema, A pensarci bene, il cinema ha più o meno la stessa età del jazz e, come il jazz, ha trovato solide radici industriali/ in America. Anche il cinema ha attraversato fasi in cui la. preoccupazione principale degli intellettuali che vi si acci! starono fu quella di riscattarsi agli occhi della Cultura conf la maiuscola, la quale guardava al cinema con disprezzcM Tale disprezzo era dovuto a certe caratteristiche del film' per cui gli artisti finivano per essere un po’ tutti uguali, at­ traverso quella che si diceva una meccanica riproduzione (fotografica) della realtà. È l’incomprensione, diciamo così, di tipo idealistico che deriva dal non voler cogliere il nesso profondo che lega sempre la tecnica d’espressione alla sfera

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estetica, intesa quest’ultima nella sua dimensione comples­ sa, non solo « artistica », ma culturale, sociale e politica. Qui la questione si fa molto seria: ci troviamo di fronte a un groviglio di problemi che non è facile sciogliere con qualche battuta. Tuttavia, crediamo di poter mettere un po’ da parte il problema della considerazione dell'arte come sta­ tuto di valori a sé. Ci interessa di più, se mai, il modo in cui un certo sistema di valori si traduce in messaggio arti­ stico, per vedere non tanto di valutare la consistenza este­ tica di questo messaggio, quanto di leggerlo correttamente nei vari suoi aspetti. Possiamo dire che, in un contesto co­ me il nostro, in cui l’industria della cultura e le comunica­ zioni di massa sono il tessuto nel quale vive, se vive, l’arte, ci interessa, prima di apprezzare i valori, comprendere il senso del messaggio. In altri termini, giacché anche il senso del messaggio non sfugge ad un sistema di valori, il proble­ ma della lettura viene in primo piano; dando importanza alla lettura si da importanza alla costruzione del messaggio, e in ultima analisi gli si dà un senso dialettico, lo si mette in relazione con la realtà sociale e culturale alla quale esso, bene o male, si riferisce.

Processo comunicativo e verità di lettura Da questo punto di vista, la critica può porre degli inter­ rogativi all’artista a nome della società e portare alla so­ cietà il messaggio dell’artista; non meccanicamente tradu­ cendone il senso in una lingua più schematica e magari « fa­ cile », bensì lavorando a creare le condizioni operative più adatte a che l’artista possa realizzare la sua arte in termini di impegno e dialettica sociale: per andare verso un pieno recupero dell’intellettualità e verso la consapevolezza del proprio ruolo. Ciò significa, prima di tutto, che la voce del critico può parlare a nome della società in quanto non si costituisce

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come « valore », ma funziona come uno dei poli di una dia­ lettica reale. È ovvio, allora, che il critico non può più usare un metto come l’universalità dell’arte, poiché, in termini di comuni­ cazioni di massa, se di assolutezza si deve parlare, quest’as­ solutezza è riferibile, oggi e qui, al piano tecnologico del discorso, alla canalizzazione del messaggio. Il senso del mes­ saggio è strettamente legato ai condizionamenti tecnologici che esso subisce già a livello di progetto per arrivare a desti­ nazione. In tal senso, criticare un film vuol dire sempre parlare di cinema, non solo perché il singolo messaggio im­ plica un riferimento alle condizioni teoriche in base alle quali esso viene posto in essere; ma perché c’è tutto un com­ plesso di organizzazione del processo comunicativo che sta alla base della realizzazione del film; e, infine, perché in un approccio analitico al film come messaggio sono implicate in modo interdisciplinare varie ottiche scientifiche. Possia­ mo anche parlare, allora, di una ricerca di verità da parte della critica; ma chiarendo che non si tratta mai di cercare una verità direttamente e immediatamente riscontrabile, poi­ ché a livello di messaggio il problema è di lettura, ossia è un problema non semplice. Se fosse semplice, se si potesse risolvere in modo diretto e quasi-naturale, non saremmo qui a discutere. Il problema è proprio nel fatto che non esìste una pura lettura per stabilire la « verità » del messag­ gio, la sua credibilità o verosimiglianza. Il messaggio è vero sempre in rapporto ad una normativa: una normativa lin­ guistica, culturale, sociale, politica, economica, che regola i rapporti tra film-testo e sua utilizzazione commerciale. È vero, quindi, che l’analisi strumentale-sociologica del contenuto serve ad una valutazione politica del film e del cinema; ma questo lavoro sarà costruttivo solo se lo im­ piantiamo su una organica considerazione dei materiali in una dimensione funzionale e dinamica. Altrimenti, conti­ nueremo a registrare dicotomie di giudizi critici che, da una parte, essendo scritti su un giornale « democratico », ten­ dono ad esaltare, in un certo film, la « dialettica delle idee » 54

e nello stesso tempo — poiché il critico si ricorda pur sem­ pre di avere un gusto — quasi con vergogna di aver trala­ sciato l’aspetto formale, ci fanno notare una certa superfi­ cialità del « linguaggio ». Non parliamo di quei critici, che esplicitamente ci traducono il messaggio politico, lasciando ad altri la valutazione del film come tale. Tutto questo equi­ vale, da una parte a concedere al linguaggio esistenza auto^ noma rispetto al sistema delle idee, cioè delle esperienze, che lo determina; dall’altra parte, equivale al rischio di veder separato ciò che è significativo da ciò che sarebbe più semplicemente espressivo. Tra piacere e desiderio, una rete di senso E- V. — Tornando alla critica d’arte, possiamo dire che si e storicamente definita attraverso una tradizione che ri­ sale al XVIII secolo, come intermediazione tra artista e fruitore. Il medium (si suppone) è una comunicazione informativa e valutativa, che canonizza l’essere e la qualificazione del1 opera. Ma quale ruolo svolge, obiettivamente, la critica posta com’è tra differenti condizioni di riflessione sto­ rica e di verifica personale, tra una lettura epistemologica e la trascrizione attraverso il linguaggio, cioè attraverso un mezzo proprio di espropriazione dell’opera? « Il pubblico, — scrive A. Bonito Oliva — abituato ad essere "massaggiato” e confortato da un’arte che inseguiva ancora il mito della bellezza, si trova — oggi — senza al­ cuna mediazione, di fronte ad opere che lo respingono, per­ ché basate, intenzionalmente, sull’apologià dell’eccentrico, dell’ermetico e dell’inconsueto... A un’arte ‘’materna”, che ci spiega tutto, subentra un’arte che punisce e mortifica le aspettative del pubblico... ». Ma non è la critica ad avere recuperato il ruolo della protezione materna. Il fruitore che intendesse, infatti, avva­ lersi della funzione critica come svelamento di ciò che nel­ 55

l’opera è silenziosamente articolato, nascosto, si troverebbe dinanzi a una catena di simboli, di rapporti che riafferme­ rebbero Peperà in quanto assenza, linguaggio, mai in quanto oggetto speculare. Il critico, in effetti, come suggerisce Roland Barthes, può solo sdoppiare i sensi, fare fluttuare, cioè, sopra il primo linguaggio dell’opera un secondo linguaggio. Se la critica è quindi un metodo di lettura, sarà da inten­ dere come generazione di una rete di senso, come perifrasi e non traduzione; come continuazione, cioè, all’infinito del­ le metafore dell’opera (e ogni metafora, si sa, è un segno senza fondo). Il dentro e fuori l’opera preconizza, ancora, il comporta­ mento della critica come movimento continuo di linguag­ gio sulla traiettoria del segno codificato e di una scrittura « creativa » che si svolge costantemente tra il piacere e, il desiderio della scrittura (« Passare dalla lettura alla critica significa cambiare desiderio, desiderare non piu 1 opera ma il proprio linguaggio »), Ricordo, al riguardo, una affermazione di Artaud: — Scrivere è un progetto più che un esprìmere —. O ancora: — Quando avevo qualcosa da « dire » o da « scrivere » era proprio il mio pensiero quello che maggiormente mi era negato —. Pericolosità, dunque, della lettura ma più ancora della scrittura poiché, essendo una messa in gioco dì segni e un conflitto codificato tra il desiderio dell’opera e il desiderio del proprio linguaggio, abita, quasi sempre, come struttura decentrata, in fuga, la regione deH’atopicità: coscienza di essere in nessun luogo, di non sapere dove andare e dove ogni parola può sorgere, prendere senso, determinarsi. Non potendosi, in tal modo, affermare come dialogo, il testo (tessuto) diviene « una sorta di piccola isola,,, che fa intravedere la verità scandalosa del godimento... » e chiede soltanto un’osservazione clandestina del piacere dell’altro, al limite, senza funzione.

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Come sfuggire, allora, al ruolo passivo di voyeur cui Fopera (e qui intendo anche la critica), inevitabilmente, por­ ta ad identificarci? Forse con un gesto aggressivo, come propone Bonito Oliva: — Tale gesto nasce e si definisce tramite il desiderio sadico di introiettare l’oggetto e di espellerlo sotto forma di creatività diffusa e finalmente non specializzata —. O, come suggerisce Roland Barthes, con un ritorno (il lettore futuro) alla lettura, ricordando come solo la lettura ama l’opera e mantiene con essa un rapporto di desiderio. In tal modo « ... nessuno potrebbe mai sapere nulla del senso che la lettura dà all’opera, come d’altronde del signifi­ cato, forse perché questo senso, essendo il desiderio, si sta­ bilisce al di là del codice della lingua ». Un passaggio, questo, che come è facile intuire, signifi­ cherebbe, ancora, la fine della critica in quanto attività pro­ mozionale. Critica come discorso critico

M.G. — Vorrei fare una considerazione di ordine ge­ nerale. Possiamo pensare alla critica come alla dimensione dominante del pensiero moderno e contemporaneo. Dagli Illuministi e da Kant, attraverso la decisa opera di demolizione dei sistemi di pensiero e di discorso filosofico e scientifico compiuta da Marx, da Nietzsche e da Freud, fino alla teoria critica della scuola di Francoforte o ai pre­ liminari critici dei fondamenti dello strutturalismo e della moderna semiotica (e alla loro stessa tensione critica autocancellatrice), la critica, o, per dire meglio: le funzioni del discorso critico in riferimento a quelli che possiamo chia­ mare « oggetti culturali » e « rapporti politico-sociali », si muove tra fondamenti teorici di un nuovo spazio e di un nuovo metodo dell’analisi, e fondamenti teorici della prò-

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duzione del discorso in generale (discorso scientifico di­ scorso letterario, discorso politico, ecc.). In questo senso, la nozione di « critica » copre un ambito assai vasto di atteggiamenti culturali e pragmatici, estende al massimo il campo di risonanza delle sue accezioni e delle sue significazioni, ma, nel contempo, si precisa a livello di specificità determinante del discorso da condurre attorno « oggetti » e attorno a certi oggetti; e si precisa come fon­ damento della riflessione attorno alla comunicazione intesa come dimensione attuale (nel senso di « in atto ») dello scambio e della circolazione di idee e di messaggi. Infine, si precisa come appropriazione attiva, reale (cioè: non in­ dotta ed eteroriflessiva) degli oggetti, i quali tendono sem­ pre più ad assumere lo status simbolico di oggetti portatori e depositari del valore della differenziazione sociale acriti­ camente reificata a livello di esibizione, di messa in scena delle differenze, di trasferimento occultato dei bisogni e dei desideri indotti, di estraneazione e compensazione del fe­ ticcio consumistico, ecc. Ora, al di là dei fenomeni specifici e dei sistemi di re­ gole legati all’ambito e alla nozione di « comunicazione » (circolazione e scambio di messaggi e di oggetti-messaggio e di oggetti simboEci), ci interessa qui un punto di vista: definire e circoscrivere la nozione di « critica » non nel senso di « atteggiamento culturale » nella sua pur impor­ tante generaEtà, ma come funzione, centrale in qualche mo­ do, del discorso: la critica come discorso critico, con le sue regolarità, le sue griglie normative, la sua struttura. Siamo infatti convinti che, d’altra parte, la critica come atteggia­ mento o dimensione culturale propri della società moderna e contemporanea si misuri in buona parte nella estensione e nella messa a punto di una vigilanza più rigorosa eserci­ tata sulle funzioni intellettuali e sugli interessi pratici, non­ ché in un maggiore affinamento delle modalità delle analisi e delle strutture delle definizioni e ridefinizioni dei campi e degli oggetti del discorso; per cui, in fondo — e sempli­ cemente e generahzzando al massimo —, ci si accorge che,

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inevitabilmente, ogni discorso è anche o soprattutto un di­ scorso critico. Così come, d’altro canto, e sotto diverso aspetto, ogni atteggiamento e ogni attività si possono ride­ finire come atteggiamenti e attività critici, nel momento che si danno nel confronto con stimolazioni e azioni e in­ fluenze che comportano una risposta, una presa di posi­ zione, una scelta di campo, un giudizio di valore: una analisi infine, che renda cosciente la necessità di trasformare un comunque inevitabile atteggiamento critico in alternativa culturale, in un processo e in una tensione costanti verso la disambiguazione della risposta critica in senso debole. Ora, certamente, non è possibile tracciare in questa sede i fondamenti di una « teoria critica della critica » intesa co­ me teoria del giudizio in generale o come teoria del giudizio critico o del discorso critico. Ci interessa, più in particolare, richiamare 1 ambito teorico in cui si muove il discorso cri­ tico come « discorso secondo » rispetto all’oggetto preso in considerazione (anche l’oggetto come « discorso » e vice­ versa). In altre parole, ci interessa rilevare lo sfondo teo­ rico ineliminabile (anche se occultato) — e rintracciarne il campo — contro il quale si proietta l’esercizio, la pratica della critica nella sua dimensione e funzione istituzionale e sociale, che e spesso legata più o meno direttamente alla funzione di garanzia di circolazione dei messaggi-merce, della loro comprensione nel senso materiale più ampio, degli ob­ biettivi e delle strategie di lettura e di interpretazione, delle analisi e delle valutazioni intese nell’aspetto più consistente della portata ideologica che convogliano. In questo senso la critica copre un ruolo fondamentale nel mascherare (spesso) o nel rilevare (viceversa) il vero status dell’oggetto e delFoggetto-messaggio e dell’oggetto-merce; e nel rivelare o mascherare il vero status del discorso critico ai vari livelli di penetrazione e di funzionalizzazione economica, politica e sociale della critica come discorso. Tutto ciò non è possibile se non si assume preliminar­ mente (e nella riflessione teorica) un punto di vista episte­ mologico nel cui ambito si riconosca tutta la portata della 59

tUBzioDe modellùzante e mediatrice del linguaggio nei con­ fronti del « mondo » e nei confronti della costruzione del « mondo degli oggetti ». Un tale riconoscimento coinvolge sia i problemi teorici relativi alla costituzione vera e propria deli ofigetto e della sua specifica « legalità » (sia essa este­ tici. o economica o culturale o scientifica, ecc.), sia i pro­ blemi teorici relativi all’ambito della circolazione degli og­ getti (comunicazione)) e infine all ambito specifico, tecnico o teorico e pratico, della critica come « linguaggio speciale » e come metalinguaggio riflettente e coordinante la situa­ zione dell esercizio critico secondo le configurazioni proprie della critica come discorso e come linguaggio. Ridefinito in tal modo nel campo della circolazione e della comunicazione, e soprattutto nel campo della comuni­ cazione estetica che qui ci interessa più da vicino, il proble­ ma della critica assume le connotazioni fondamentali di una capacità definitoria dell’ambito della forma, della funzione e della struttura e strutturazione del messaggio e del discor­ so sul messaggio, nonché della ricostituzione su basi teori­ che diverse delle vecchie categorie dell’estetica normativa. Non è certamente un caso, nel campo della comunicazione visiva, che il problema teorico dell’approfondimento e della ri definizione dei connotati e delle funzioni della iconicità comporti un approccio diverso con il tema della iconicità e con il ruolo che esso ha svolto nell’ambito delle poetiche, dei generi, delle figure retoriche legate al discorso iconico anche attraverso la relazione con le connotazioni ideologiche e linguistiche del messaggio estetico, e ancora di più con le pratiche semiosiche contrassegnate dalla funzione estetica dominante. Approfondendo il campo teorico della dimensione segni­ ci degli oggetti estetici e del discorso critico (o del discorso in generale poi), il problema di una identificazione della cri­ tica si muove sul piano di una alternativa costantemente spo­ stata e dinamicamente proiettata nel superamento delle con­ figurazioni statiche dei modelli culturali. In questo senso, il discorso critico assume una funzione e un ruolo fonda­

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mentali nell’oltrepassamento dell’esercìzio di lettura e di ri­ formulazione discorsiva pura e semplice all'interno delle di­ mensioni canoniche del discorso o dell'intreccio dei discorsi « paralleli » e/o « riproduttivi », fino a porsi come dimen­ sione dialettica metacritica della bivalenza teorica e critica della semiologia. L’assunzione metacritica del campo di in­ tervento del discorso critico si pone come necessaria per un esercizio continuo della definizione appropriata (anche in senso politico, oltre che culturale — se pure v’è una differenza —) della teoria e della critica del significato e dei senso, della semiosi e del valore, della comunicazione e del­ lo scambio. L'esplosione della « chiacchiera » In una società tardo-capitalistica, contrassegnata da una sempre più massiccia sistematizzazione autoritaria della « di­ sintegrazione » (culturale e sociale), di cui l’aspetto consu­ mistico (in tutti i sensi e in tutte le direzioni) è solo l’aspet­ to più appariscente e insieme più occultante, l’esplosione della « chiacchiera » (per dirla con Bachelard) non rappre­ senta certamente una dimensione produttiva e democratica della comunicazione e della conoscenza, ma solo rumore e impotenza gnoseologica e culturale, blocco forzato delle ra­ mificazioni produttive e innovative (dalla letteratura al ci­ nema) e consolidamento delle terminazioni o dei terminali della chiusura del linguaggio (e dell’azione). In questo gioco deterministico dell’amplificazione quantitativa dei messaggi e delle formule, la comunicazione come rumore trova un potente alleato nella mitizzazione delle capacità ricettive e improbabilmente critiche del destinatario, la cui alienazione ed estraneazione non viene certamente, o almeno oggi non più recuperata dalla diffusione massiccia delle estetiche del­ l’opera aperta o delTantiopera. Si tratta (l’ho detto, ma voglio ripeterlo) di posizioni estetiche e di produzioni arti­ stiche, le quali si fondano sulla illusione (non sapremmo 61

quanto solamente ingenua e frutto di prospettive teoriche sbagliate, oppure intenzionalmente funzionaÙzzate al consu­ mo intellettuale come « sonno critico ») del carattere « de­ mocratico » dell'apertura dei Linguaggi come indeterminatez­ za vaga delle possigilità linguistiche; illusioni che agiscono sulla presupposizione teorica che lo scardinamento e la mes­ sa in scena {acrìtica) dei meccanismi del « giocattolo » co­ municativo o costruttivo aiutino la comprensione o addirit­ tura la partecipazione critica del destinatario alla « produ­ zione » dell’opera; lasciando invece da parte il problema più serio di una teoria della produzione critica del senso del­ l’opera: e cioè il problema della strutturazione segnica del­ l’opera come un insieme, con tutto quello che possiamo ritrovare dietro al problema della forma o della epistemolo­ gia della forma, sia a livello di discorso critico, sia a livello di coordinate della comunicazione estetica e sia, infine, a livello di rapporti tra produzione del senso e ideologia e produzione dell’oggetto-merce e induzione del mercato. Direi ora due parole di presentazione di Francesco Guer­ rieri ,che è qui con noi intorno a questo tavolo. Guerrieri è un artista che ha lavorato, fin dalla fine degli anni ’50 nel campo delle arti cosiddette figurative, ponendosi continuamente problemi teorici, che riguardano la strutturazione del­ l’opera; quindi i problemi dei rapporti tra qualità e quanti­ tà e comunque tra aspetti geometrico-matematici della co­ struzione dell’oggetto estetico e aspetti diversi del senso che si recupera anche e oltre la strutturazione apparentemente solo formale, geometrica. Guerrieri ha lavorato nel campo teorico con numerosi saggi e pubblicazioni e senza fanfare; in realtà è stato uno degli iniziatori e animatori del Grup­ po 63, per quanto riguarda le arti visive; ha fatto numerote mostre, anche personali ed ha raccolto alcuni giudizi critici sulla sua opera in un paio di volumi; mi sembra quindi interessante sentire, proprio da un artista che si è occupato dei rapporti tra teoria e critica dal punto di vista della produzione dell’arte, che cosa pensa di questo se­ minario.

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L'esperienza di un pittore: Francesco Guerrieri

F. G. — Direi che, se c'è crisi, la crisi riguarda soprattut­ to il fatto che la critica non ha ancora elaborato degli stru­ menti adeguati al nuovo modo di fare arte. Il parlare di arte come comunicazione non è che sia universalmente ac­ cettato; basta pensare a un Brandi, il quale punta ancora sul­ l’assoluto, sull'universale, ecc. Da parte mia, mi è più facile parlare rifacendomi alle mie esperienze. Nel ’62, insieme ad altri artisti, formammo dei gruppi (63, Sperimentale P, Operativo), che si ponevano proprio il problema dell’arte come comunicazione, mettendosi in polemica con tutte quel­ le tendenze che puntano sul soggettivismo dell’ispirazione. Abbiamo elaborato delle ricerche basate su dei valori ob­ biettivi, al fine di intersoggettivizzare il linguaggio. Ci sia­ mo rifatti ai riferimenti scientifici sul valore del colore, del segno, della forma; e soprattutto abbiamo elaborato delle metodologie operative; abbiamo tenuto presente anche la matematica, abbiamo dato dei valori quantitativi alla forma. Si parlava prima di una ricerca di criteri valutativi obbiet­ tivi da parte della critica — la professoressa Tarroni doman­ dava: quali criteri valutativi può avere la critica oggi, visto che l’abilità tecnica non è più così incidente —; direi che anche se non prendiamo in considerazione l’abilità tecnica in senso tradizionale, c’è un’altra abilità: oggi è importante conoscere i materiali, le leggi di percezione. In questo sen­ so, abbiamo approfondito gli studi della psicologia della Gestalt e anche della psicologia transazionale e le varie discipline che potevano incrementare l’oggettivazione del processo artistico. F. P. — Lei ha parlato di matematica. Potrebbe chiarire meglio il riferimento? F. G. — Per un certo periodo, ho lavorato su delle stri­ sce rosse e nere, strutturate secondo una legge combina­ toria. Es.: una coppia di strisce nere si alternava con una coppia di strisce rosse; oppure, in un campo delimitato da 63

una striscia nera, si alternavano un rosso-nero e un nerorosso. Questa era appunto una delle leggi matematiche che presiedevano alla costruzione dell’opera. Altro esempio, una legge vettoriale, per cui ogni coppia modulare (rosso­ nero), si sdoppiava, verso l’alto e verso il basso. C’era poi una variazione progressiva, per cui queste strisce, combi­ nate a coppia, variavano in larghezza secondo una progres­ sione geometrica: tre, sei, nove, ecc. Altra legge, quella di configurazione, per cui le strisce terminavano all’incontro con due archi di cerchio tangenti alle linee orizzontali. Il risultato era, in sostanza, una successione di ritmi; l’uso della matematica serviva al raggiungimento di un risultato estetico, perfettamente leggibile una volta che il fruitore fosse in possesso del codice — il quale codice era un codice accessibile a chiunque. Queste cose noi cominciammo a farle nel pieno dell’in­ formale e dell’espressionismo astratto e, ovviamente, ci furono delle violente polemiche. MG. — Effettivamente, quasi nessun artista, da noi, si poneva a un certo livello il problema teorico deffa forma; e questo all’interno stesso dei gruppi a cui faceva riferi­ mento Guerrieri: la forma rimaneva ancora legata alla vec­ chia configurazione. Proprio in quel momento, Guerrieri scriveva cose molto importanti su questo problema; inve­ stiva cioè a fondo il concetto di struttura e il concetto di codice, recuperando il significato dentro la forma. Si era negli anni ’62-*63 e queste cose passavano quasi sotto silen­ zio, se si eccettua qualche studioso come Argan o come Garroni. F. G. — Per quanto riguarda le comunicazioni di massa, il problema è importante e ce lo siamo posto all’interno dei gruppi di lavoro. E. T. — Forse è utile precisare, a questo punto, che noi intendiamo per comunicazioni di massa, il sistema attuale della comunicazione, in una società che è necessariamente di massa. F. G — Le nostre ricerche sono state usate in maniera 64

errata o in maniera deformante, sia nella pubblicità sia nella scenografia, ecc.; ma la destinazione vera di queste cose dovrebbe essere prima di tutto l’urbanistica, il museo, la scuola; purtroppo, ciò incontra degli ostacoli, che si pos­ sono spiegare anche politicamente. B. B. — Credo sia opportuno osservare, all’interno di questo discorso, che il problema della leggibilità dell’opera d’arte sorge all’artista anche in rapporto alla situazione con­ temporanea. Un artista, in epoche passate non aveva que­ sto problema, perché viveva all’interno di gruppi ristretti, che in qualche modo erano produttori e fruitori dell’opera stessa. Tutto il problema dell’individuazione delle influenze sociali, della psicologia della forma, scaturisce nel momento in cui si scompagina il tessuto sociale e quindi Tindividuo produttore di cultura si trova di fronte ad una eterogeneità di persone. Di qui la preoccupazione, da parte degli artisti più sensibili, di rendere leggibile la propria opera. In questo senso, possiamo dire che il pubblico viene ad avere una notevole influenza nello sviluppo della creatività artistica contemporanea. E. T. — Vorrei porre questa domanda: come è possibile applicare lo stesso termine di « arte », di « artistico », a produzioni o ad oggetti prodotti nell’ambito di certe ten­ denze attuali, come il gestualismo, se non schematizzando all’estremo il concetto stesso di oggetto artistico? Cioè considerando 1 oggetto artistico come un fatto comunicativo fondamentale? In un certo senso, se non ci fosse la neces­ sità di comunicare con altri, l’individuo che si definisce artista, che ha scelto per sé questo ruolo, non farebbe la fatica di adoperare dei materiali e delle tecniche per ren­ dere percepibili ad altri le proprie intenzioni comunicative. F. G. — Nell’arte moderna ci sono, appunto, due filoni contrastanti: il filone soggettivista, per cui l’artista pensa che deve liberare se stesso e non gli importa se gli altri lo comprendono; il filone co strut tivista, che tende non solo ad essere compreso, ma tende ad inserirsi nella società, ad avere una destinazione sociale.

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Sperimentalismo e mercificazione E. T. — Guerrieri, giustamente, chiama in causa la scuo­ la, per l’educazione di giovani alla comprensione dei tenta­ tivi ai quali accennava. È a questo punto, però, che inter­ viene un fatto che è di crisi della critica. Per quanto riguar­ da tutti quei fenomeni di sperimentalismo artistico, si può dire che il critico ha un ruolo preciso: deve aiutare gli altri a comprendere le intenzioni dell’artista. C’è da discutere qui la sede del messaggio critico; rispetto a ciò che diceva Guerrieri, la sede si sposterebbe dal giornale alla scuola, al circolo culturale, a tutta un’altra struttura organizzativa della cultura, intesa come produzione di un mondo secondo. In questa prospettiva, il critico si collocherebbe in maniera diversa da quella attuale, che lo vede intervenire tra pub­ blico ed artista in una dimensione essenzialmente econo­ mica. Infatti, l’operaio, anche se comprende il messaggio di Guerrieri, non può permettersi l’acquisto delle sue ope­ re; l’acquirente rimane l’élite che visita le mostre. In que­ sto caso, il critico si assume, non tanto il ruolo di opera­ tore culturale, nel senso di spiegare a questa società — che è una società di massa — le vie diverse verso cui va l’arte, proprio perché alcune funzioni sono state ad essa sottratte da altri canali di comunicazione; il critico interviene piut­ tosto quasi esclusivamente per dire: questo quadro vale una certa cifra. Tanto che, in occasione della mostra-mercato di Bologna, quasi tutti i periodici riportano una vera e pro­ pria quotazione di borsa delle varie opere. Per non parlare del fatto veramente sacrilego dei quadri d’oro. Ecco dove noi individuiamo la crisi della critica; e il nostro intento è quello di combattere una battaglia contro la mistificazio­ ne; è qui che d poniamo la domanda sul ruolo e sulla sede della critica. Pecori prima diceva: non ci interessa un mon­ do di valori arris tid, vediamo piuttosto come si deve fare la critica; ma se io parlavo di crisi di certi valori, non era certo per dire che prima l’idealismo ci aiutava a compren­ dere l’opera d’arte e adesso c’è la decadenza! Io intendevo 66

parlare di crisi come necessità di ristrutturare le basi teo­ riche della critica, e di riconoscere che realmente, nella società attuale, la funzione dell’opera d’arte è ancora am­ bigua e la conseguenza di quest’ambiguità è la mercifica­ zione dell’arte, è la disonestà, qualche volta, della critica. F. P. — Credo che ci sia bisogno di una chiarificazione da parte mia. Quando dico: non ci interessa il mondo dei valori estetici, intendo: prima di considerare un sistema di valori a se stante e riconoscibile in quanto tale attra­ verso l’approccio anche critico o comunque la fruizione del­ l’opera d’arte, ci interessa molto più vedere in che modo un certo sistema di valori si traduce in oggetto artistico; in altri termini, riteniamo opportuno indagare circa i pro­ cedimenti comunicativi, individuare il processo comunicativo a livello di analisi dei materiali e chiarire i termini della lettura dell opera. In questo senso, mi volevo collegare a ciò che diceva Guerrieri e anche all’intervento di Beatrice Barbalato. Mi sembra che la posizione del costruttivismo, intesa in senso abbastanza largo, sia una posizione dialet­ tica, nei confronti del pubblico; e un’operazione che con­ sidera già il pubblico come un lettore che deve poter capire. Rimane tuttavia il fatto che tutta una fascia di pubblico non capisce; questo è un altro discorso, che si situa al di là del giudizio sulla dialetticità del lavoro dell’artista; il rifiuto di un certo messaggio può dipendere proprio dal fatto che e dialettico: il pubblico rifiuta perché non è abi­ tuato, ma è invece sclero lizzato da un certo modo di usare le comunicazioni di massa. Perciò è importantissimo il di­ scorso sulla scuola, anche se, d’altra parte, è il più difficile. Questa, in sostanza è anche la crisi. Io non dico che non c’è crisi; dico che è una crisi politica, che va determinata, in modo da non parlare di crisi in generale, perché altri­ menti rientriamo nel circolo universalistico. E. T. — Rimane però sempre aperto il problema della funzione dell’opera d’arte nel mondo di oggi. Potremmo dare anche una risposta del tutto ipotetica e tutta da veri­ ficare: l’arte come liberazione della fantasia, come pura in-

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vcntività, come momento ricreativo. Nasce allora il pro. blema, politico in senso tecnico, della fruibilità di questi codici. D’altra parte, il discorso di Pecori è abbastanza vi­ cino a quello di Brandi, quando parla di « astanza », di un’opera d’arte come codice che mostra se stesso, un’opera il cui unico scopo e la cui unica funzione è di mostrare se stessa e non di trasmettere messaggi. Ora, un codice che esplicita solo se stesso non è più comunicativo. Mi viene in mente un fatto: un certo uomo politico, ben lontano da ogni modernità di pensiero, che mentre parlava tracciava disegnetti su un foglio di carta in modo puramente mecca­ nico; il direttore della scuola d’arte di Perugia, che siedeva vicino a lui, ha preso questo disegno e ne ha fatto delle gigantografie, dopodiché li ha esposti in una mostra che aveva organizzato. Questa è una delle possibilità di misti­ ficazione, che è dovuta al fatto di concepire l’arte come pura sperimentazione. F. P. — Ma proprio l’esempio dello scarabocchio, ingran­ dito ed esposto, pone il problema della lettura dell opera, che è la cosa che ci interessa di più, perché da essa dipende poi, eventualmente, l’assunzione corretta dei « valori » in quanto tali. Quanto al codice che si fa contenuto dell’ope­ ra, ciò rientra nel gioco della semiosi e non mi pare che ci siano particolari problemi. Piuttosto, il pericolo sta nel parlare dì « fantasia »; c’è il rischio di considerarla come una facoltà speciale e autonoma, come ha avvertito brillan­ temente Dewey, sottolineando anche che la « peculiare qua­ lità » della fantasia si può capire se la si mette a confronto con l’effetto limitativo dell’abitudine. In questo senso do­ vrebbe essere visto l’uso politico della critica. P. G. D. — Vorrei cercare di fare un intervento di recu­ pero nei confronti di alcune cose che sono state già dette con il linguaggio dei tempi che furono, ma che non vedo separate da esperienze tipo quella di Guerrieri. Alludo per esempio alla definizione che Giotto diede della pittura come giustapposizione sensata, gradevole di superfici colorate. Del resto, credo che Giotto sia uno dei più moderni tra i pittori 68

antichi; perché non era un « fotografo » della realtà, anzi ha fatto delle cose orribili dal punto di vista della vero­ simiglianza fotografica, E. T. — Non si tiene presente, però, in questo discorso, la differenza tra il contesto sociale, politico, culturale in cui ha lavorato Giotto e il contesto in cui opera Guerrieri. La funzione che si chiedeva a Giotto di svolgere mediante le sue opere era completamente diversa dalla funzione che si chiede, anzi purtroppo che non si chiede a Guerrieri. Giotto doveva svolgere soprattutto un’opera didascalica: vedi la struttura narrativa della Cappella degli Scrovegni, Lì la gente non sapeva leggere, quindi imparava la storia dei santi andando nelle cattedrali. F. G. — Nelle mie cose c’è l’intenzione di coinvolgere il fruitore di una partecipazione alla ricostruzione del qua­ dro. Tutto il contrario di Giotto; manca quella funzione didascalica che doveva servire di appoggio alla religione e al potere. Giotto non si poneva certo il problema di far partecipare il fruitore alla tecnica dei suoi dipinti. G. — La mia posizione è forse più radicale, ma meno estrema. Partiamo dal problema che poneva prima la pro­ fessoressa Tarroni a Guerrieri, dicendo: chi compra queste opere? Direi che c’e una crisi della critica in quanto è cam­ biato il destinatario, il pubblico. Prima Guerrieri parlava di scuola, di museo, di circoli culturali, ecc. che si stanno sviluppando sul piano orizzontale, non più verticale, questo significa che non c’è più bisogno di un mercato dell’opera d’arte per un individuo privato, che si gode l’opera nella sua casa. Allora, il problema dell’acquisto è un problema politico, nel senso che l’acquisto di un’opera, come anche la circolazione di un film, può riguardare raggruppamenti sociali. Quindi, il problema verrebbe ad essere economico, ma non di mercificazione. È un problema politico, perché dire che cambia il pubblico significa dire che cambia la società. Per quanto riguarda il problema del codice, mi vorrei riferire alla Barbalato, che aveva posto con molta precisione

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la domanda a Guerrieri; aveva detto: in che maniera l’ar­ tista è condizionato dal pubblico? e cioè dal discorso che sì svolge sul codice. Io dico che il codice deve essere asso­ lutamente chiuso; ciò che deve essere aperto dialetticamente è la discussione sul codice. È un’illusione della critica e dell’artista pensare che il codice possa essere dato in pasto, che si possa rinunciare al codice per avere più possibilità dialettiche. È vero il contrario. Il codice va mantenuto nella sua struttura, però va esplicitato; non dentro all’og­ getto estetico, comunque. L’illusione generica di alcuni arti­ sti, secondo i quali esplicitare il codice significa rinunciare al codice, è stata ripresa, guarda caso, da Brandi, il quale ha una nozione molto curiosa di semiosi; per Brandi, se­ miosi è teoria del significato, e Bastanza è la presentazione a vista del referente: siamo nel più bieco esistenzialismo metafisico, è una nuova proposta della filosofia dello spirito. Se Bastanza è presenza dell’essere, il codice velerebbe 1 es­ sere; il codice va esplicitato, perché così si disvela 1 essere. Questa non è una posizione che possiamo accettare. E giu­ sto invece che si costruisca il codice e che poi lo si discuta. Quanto alla domanda: a che serve parlare dell arte, se l’arte è mercificata? L’arte è merce non per colpa dell arte, ma per colpa della società in cui l’arte si realizza. Anche la medicina è mercificata, però noi non rinunciamo a cu­ rarci, Il discorso sulla funzione dell’arte ha visto al di là della sua mercificazione. Il discorso è sulla critica. F. G. — Vorrei leggere degli appunti sulla mia ricerca, scritti nel ’65. Problema. Reperire o costruire strutture visi­ ve, che possano essere strutture oggettive e intersoggettive del linguaggio artistico, cioè siano artisticamente significanti. Quindi, conoscenza di sistemi o strutture di visione e del linguaggio artistico della visione. Problema specifico. Ritmo. Il ritmo come struttura percettiva o sistema di relazioni estetico-visi ve, nel quale ogni elemento è in funzione della totalità, per cui cambiando un elemento, cambiano necessa­ riamente tutti gli altri. Metodo. Sperimentale-strutturalistico. £ fondamentale l’osservanza diretta, I’analisi strutta70

rale la verifica continua del progetto e l’esperimento delle diverse possibilità. La matematica può essere utile nel ren­ dere espliciti i termini di un problema di strutturazione, ma di per sé non può scoprire alcun fatto nuovo, È invece essenziale il contributo della psicologia della percezione. Destinazione e fruizione. 1) Comunicazione diretta operatore-fruitore. L’operatore comunica valori oggettivi a un fruitore indifferenziato. As­ senza di significati privilegiati; il significato dell’elemento modulare-segnico sta nella propria struttura e nel sistema di relazioni che lo contestualizza. Rifiuto della metafisica e del dogmatismo. Partecipazione attiva del fruitore nel riper­ correre le fasi operative e nel prospettarsi le diverse pos­ sibilità strutturali. Scoperta o arricchimento delle possibilità strutturali del linguaggio artistico contemporaneo. Analisi linguistica del segno nell’ambito di un contesto di segni. Esigenza di strutture segniche adeguate alle accelerate capa­ cità percettive dell’uomo contemporaneo. 2) Diversi livelli di destinazione e di fruizione. Livello elementare. Percezione della struttura e del sistema di rela­ zioni. La percezione visiva non dipende soltanto dall’occhio. Costante intervento del cervello e concorso degli altri sensi. Le strutture percettive sono diverse in relazione alle diver­ se condizioni di vita, alle diverse condizioni sociali, cultu­ rali, come è stato ampiamente dimostrato dalla psicologia della percezione. Si deve presupporre che fruitore ed ope­ ratore appartengano allo stesso momento storicamente de­ terminabile in una determinata civiltà. Livello storico. Inse­ rimento della struttura percepita in una più ampia strut­ tura diacronica. Il presente nel passato e nel futuro. Livello sociologico e ideologico. Funzione critica, correttiva, nei confronti della immensa produzione di immagini non strut­ turate o falsamente strutturate, fornite dai mass-media, im­ posizione dei consumi, ecc. L’analisi strutturalistica si risol­ ve in giudizio critico sulla qualità del prodotto e del sistema che lo produce; qualità come valore strutturale. Livello di utilizzazione. Architettonico-urbanistica, come modelli o ele­ 71

menti di strutture; oppure negli spazi urbani ed edifici aperti al pubblico, dove sia utile una sollecitazione ad una dinamicità organizzata. Mass-media. Di fatto, l’utilizzazione è operata già largamente nel campo delle intitolazioni, delle scenografie televisive e cinematografiche, nelle immagini pubblicitarie, nella moda, ecc. Industrialmente, forme di prodotti. Comportamento. Suggerimento di un ritmo ade­ guato alle esigenze della vita moderna, stimolo ad una per­ cezione dinamica e attiva. La situazione attuale non consente più la preminenza del codice soggettivo del produttore del messaggio.. Oggi l’in­ teresse va decisamente rivolto al fruitore; ciò significa che più di tutto oggi è importante la comunicazione. Quindi le condizioni e le possibilità oggettive di comunicazione. F. P. — Vorrei fare una domanda a Guerrieri. Quando egli parla di comunicazione diretta tra operatore e fruitore e precisa che il fruitore è indifferenziato, che cosa vuole dire? In che senso l’operatore « immagina » indifferenziato il fruitore? F.G. — Intendevo riferirmi all’uomo della nostra so­ cietà con temperane a, senza particolari distinzioni di condi­ zione o di classe. E. T. — È quello che alcuni chiamano il pubblico delle comunicazioni di massa. Io sono sempre molto prudente, riguardo a questo, perché bisogna poi sempre specificare che cos’è la società di massa, la cultura di massa, ecc. D’al­ tra parte, se tutta questa sperimentazione di cui ci ha par­ lato Guerrieri si basa sulla psicologia della percezione, ossia della Gestalt, è chiaro che da questo punto di vista lo spet­ tatore è indifferenziato, perché se tali sono le leggi della percezione devono agire per tutti. F. P. — Mi sembra che, però, tornino dei problemi molto grossi, E. T. — Certo, perché poi, approfondendo questo discor­ so del processo percettivo, risulta, che dato che l’esperienza di ognuno è diversa, la percezione è diversa nei singoli indi­ vidui. Se invitiamo cento o mille persone a raccontare un 72

film o a descrivere un quadro o un brano musicale, ci diran­ no delle cose assolutamente diverse. Noi abbiamo portato avanti anche un esperimento, da cui risulta che visivamente la memorizzazione è assolutamente individuale, non c’è uno schema di memorizzazione di qualunque messaggio che sia identico allo schema di un altro individuo, soprattutto se espresso graficamente. F. G. — La mia intenzione era di lasciare il fruitore il più libero possibile, di non dargli un messaggio univoco, che deve essere necessariamente quello; questo tenendo conto, appunto, che il fruitore si trova in diverse condi­ zioni sociali, culturali, psicologiche. F. P. —- Io volevo semplicemente richiamare l’attenzione su questo problema della fenomenologia della percezione; è chiaro, per esempio, che riferendosi a Merleau-Ponty, si può anche riapprodare alla magia del sensibile, anche' se Guerrieri non ne parla. Vorrei, comunque, che il discorso, a questo punto, tor­ nasse al tema dell’arte di massa. Il rapporto con il fruitore

E. T. — È il grosso problema che sorge quando si parla di « destinazione » e di « fruizione ». È il problema del rapporto col pubblico. Un tipo di proposta come quella dì Guerrieri (ce ne sono tante altre, che vanno nel senso di una sperimentazione) tende a disancorare da certe abitu­ dini i processi percettivi della gènte; quindi, in un certo senso, ci si propone un’opera educativa, ci si propone di cambiare il gusto e la sensibilità del pubblico e le sue atte­ se. Ammesso che sia possibile raggiungere questi scopi, sorge il problema, che del resto Guerrieri aveva accennato, di dare agli artisti la possibilità di realizzare la loro opera in questo senso, e quindi di uscire dal mercato dell’arte così com’è. Infatti, Guerrieri parlava di scuola, di musei, intesi in modo completamente diverso, ecc. Quello dei mu­

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sei. effettivamente è li vi ci r_ o ; i musei sono an­ cora organizzaci secondo un concetto estetico del bello tra­ scendente: noi prendiamo un’opera, la togliamo dal suo contesto e la mettiamo lì. poi la gente passa e dice che è bella perché è nel museo. Dunque, ammesso che il discorso sia valido, bisogna trovare un altro tipo di canalizzazione dell'opera. Quindi, la critica dovrà avere altri compiti, altre sedi, altra metodologia. D’altra parte, c’è il problema dell'individuo posto davanti a certe « provocazioni »: il frui­ tore è disponibile o rifiuta certe proposte? Non credo che sia solo questione di borghesia; in realtà, c è un certo tipo di pubblico di massa che ha già delle attese, sia pure mini­ me, ha un suo livello di acculturazione. Queste attese sono contenutistiche, ci si aspetta che il quadro dica qualcosa, racconti qualcosa. Certe opere, invece, dicono semplice­ mente: io parlo questo linguaggio; e il fruitore le rifiuta perché pensa: va bene, tu parli questo linguaggio, ma quan­ do io l’avrò appreso, che cosa mi dici? Non che con questo io voglia dire che Tunica possibile funzione sociale dell arte sia quella comunicativa in senso narrativo; dico che c e una situazione di conflitto tra le proposte e il pubblico. F. G. — Direi che quello che il fruitore recepisce è un modo di pensare; le sue reazioni, poi, sono libere, nel senso che egli può accettare o rifiutare questo modo di pensare. Il fatto che non ci sia un racconto non vuol dire che non ci sia un pensiero: attraverso la percezione si cerca di arri­ vare al cervello. F. P. — Si potrebbe allargare il discorso al pensiero con­ temporaneo, al di là dell’arte. Il pensiero contemporaneo tende a parlare di metodo, per cui non abbiamo il « mes­ saggio » filosofico, non è indicato un sistema risolutivo in senso assoluto, ma è indicato un metodo; colui che formula un’ipotesi sa in anticipo, o meglio « sospetta », ha il dub­ bio che quest’ipotesi non lo porterà ad alcun risultato defi­ nitivo. È la caduta della Filosofia con la maiuscola, e in questo senso anche dell’Arte. Anzitutto non siamo più di fronte a delle « opere », ma abbiamo delle proposte di la­ 74

voro di presa di coscienza di una possibilità di potersi inserire in una dinamica di pensiero, in un momento di fruizione e riutilizzazione, ri formulazione dei materiali e, concretamente, di tutto un modo di essere al mondo, di operare nel contesto storico. Da cui la possibilità di trasfe­ rire una certa esperienza estetica ad altre sfere della nostra attività: sarà un trasferimento su basi metodologiche. E. T. — In ogni epoca l’uomo ha sentito il bisogno di creare degli oggetti diversi da quelli naturali; e poi ha fatto un uso diverso di questi oggetti. Oggi, ci dobbiamo doman­ dare da chi venga fruito e accettato un particolare tipo di oggetti. Da quando sono seduta qui, sto guardando questa riproduzione di un’opera di Guerrieri: prima la vedo come una toppa su di un tessuto, poi la vedo come uno slitta­ mento di una parte di questa superficie, poi ancora la vedo come tre piani che si sovrappongono; posso anche vederla come una specie di portagiornali, di portacarte. Ciò vuol dire che quest’oggetto mi porta una provocazione percet­ tiva, suscita una rottura delle mie abitudini percettive, delle mie attese. Ora, per ragioni di professione, io sono dispo­ nibile a questa provocazione; però c’è questo condiziona­ mento alla narrativita dell’opera, che è difficilissimo sradi­ care. E dobbiamo riconoscere che si è realmente creata una frattura tra coloro che dedicano la loro vita alla sperimen­ tazione — alcuni sì, altri sono invece degli imbroglioni — e le attese del pubblico. Il pubblico scivola nella fruizione delle comunicazioni di massa: che fare? G. P. — Il problema è quello della democraticizz azione dell’arte. Mi sembra, però, che si sia evidenziato abbastanza che ci sono di mezzo fattori politici, economici, ideologici, e anche tecnologici. Se ci poniamo il problema di vedere che cosa può fare l’artista e che cosa può fare il critico, dobbiamo mettere un po’ da parte il discorso delle strut­ ture, perché è difficile che l’artista possa fare un’azione di­ retta, in quanto artista, sulle strutture; e questo vale anche per il critico. Mi pare che Guerrieri, con la sua proposta, ha dato un esempio di come l’arte non sia di per sé merce, 75

ma sia diventata merce. In che modo si può dimostrare che l’arte non è merce: cercando di progettare, nei limiti delle prospettive scientifiche, alle quali, per esempio, se avvicinato Guerrieri, l’atteggiamento del fruitore nei con­ fronti dell’opera. Credo che la partecipazione critica all’ope­ ra non possa essere che in questi termini: considerare l’opera come attività, come procedimento attuale. È chiaro che in questo modo c’è la frattura col pubblico, perché il pubblico è abituato alla merce. Credo che, dal punto di vista del­ l’autore, la preoccupazione di arrivare al pubblico debba essere intesa in questi termini, proprio per stare attenti a due scogli come la definizione stessa di pubblico (basta pen­ sare agli equivoci che stanno intorno alla definizione di arte popolare), e come quello di accettare 1 idea che arrivare al pubblico significhi accetare gli stereotipi che il sistema riesce ad affermare attraverso i mass-media. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che, a qualsiasi livello, l’autore e il critico sono uomini determinati storicamente, quindi anche nel momento in cui usano dei mezzi scientifici; la perce­ zione, che noi spesso accettiamo come qualcosa di oggettivo, fa anche parte di valutazioni sociali e storiche. Ogni obbiet­ tività ha dei limiti, anche quella di un procedimento che vuole porsi come obbiettivo. Molto importante mi sembra anche un’altra cosa che risulta da ciò che ha detto Guerrieri. Ossia, la traduzione del rapporto struttura-sovrastruttura, del rapporto uomo-ambiente in questi termini: l’uomo è cervello ma è senso. Nel momento in cui noi agiamo sui sensi dell’uomo, agiamo sull’uomo. Non è un caso che il pensiero americano tenda a separare la mente dal corpo, considerando la mente in se stessa. Non è altro che la tra­ duzione della separazione tra l’uomo e l’ambiente. E. T. — Quando lei dice: l’uomo di oggi è abituato alla merce per via di una certa gestione delle comunicazioni di massa; in realtà io credo che questo sia un modo molto spicciativo e semplicistico. Non sarò proprio io a negare l'influenza del sistema sulla gestione delle comunicazioni di massa; però c’è un fatto antropologico che non possiamo 76

dimenticare: il teatro, per esempio, ha avuto sempre la funzione importantissima di far vivere all’uomo una vita seconda, di allargare la propria esperienza umana. Questo, d’accordo, è avvenuto anche attraverso i meccanismi del­ l’identificazione. Di volta in volta, l’uomo si è sentito Amleto, si è sentito Agamennone, ecc. Ma di questo ne aveva bisogno; ecco perché il cinema ha subito fatto presa ed ha fatto presa su uomini di una società che non permet­ teva ad essi di vivere veramente la loro vita, che erano alienati dal lavoro in fabbrica. Non c’è dubbio che il grande afflusso della gente agli spettacoli cinematografici, fin dal tempo dei baracconi da fiera, sia nato dal fatto che si pote­ vano vedere uomini camminare, ammazzarsi, baciarsi, roto­ larsi nella polvere, ecc. Tutto questo non è voluto dal siste­ ma, ma è un bisogno dell’uomo. Diremo quindi che que­ sto bisogno è alimentato, bene o male, da forme di rap­ presentazione drammatica della realtà. Del dramma l’uomo non può fare a meno, non gli puoi dare soltanto le righe tracciate da Guerrieri; lui vuole l’azione, vuole vivere, mo­ rire, resuscitare, essere ammazzato, ammazzare, fare l’amo­ re e così di seguito, per interposta persona. È alienato? Può darsi, ma ciò è ineliminabile dalla vita dell’uomo. M. P. — Il concepire l’arte come segno o come sistema di segni è una cattiva abitudine fondata sullo strutturali­ smo. Questo è avvenuto perché si è partiti col pensare che l’arte è uno specifico e in quanto tale esiga una coloritura scientifica. Ma l’arte, quella che ha un senso dal manieri­ smo in poi, va intesa più che come segno come sintomo. Questo avvicina l’opera d’arte al cinema, al teatro e a quel ciclo vitale di vita e di morte, delle quattro stagioni, delle quattro dimensioni dell’uomo. Quest’altro tipo di arte non va letta attraverso la percezione, ma attraverso una psico­ patologia, che è anche una psicopatologia di massa, nella misura in cui l’uomo smette di sentirsi come una persona normale, sana, ma si sente l’uomo malato descritto da Fou­ cault e da tutta la filosofia francese. E chiaro, allora, che abbiamo una lettura dell’arte completamente nuova. 77

F. P. — Mi pare che» più che fare teoria della critica, stiamo facendo un tentativo di dare dei contorni teorici all'oggetto estetico. Ora, quando si parla di strutturalismo, bisogna chiarire che ci sono due modi di parlarne. Ce la chiave strutturalista, nel senso di un sistema chiuso di re­ gole; sistema che sembra ormai aver preso una piega abba­ stanza deterministica, fino a scadere in una vera e propria moda. Per quanto riguarda, invece, l’istanza di fondo dello strutturalismo, che è quella di dare un senso al proprio discorso, una dimensione scientifica, ossia metodologica, mi pare che non se ne possa uscire. Anche chi non ha in­ tenzione di essere strutturalista, se « organizza » un di­ scorso su un oggetto qualsiasi, non può fare altro che muo­ versi su una base analitica (anzitutto dovrà definire 1 og­ getto del suo discorso). Quindi, mi pare che 1 esigenza che nasce da proposte di lettura diversa, sia un’esigenza di tipo interdisciplinare e di un certo superamento dello « speci­ fico si tratterà piuttosto di determinare una certa con­ fluenza di interessi, di istanze analitiche intorno a degli oggetti culturali. Tutto questo si può ricollegare al feno­ meno della cosiddetta incomprensione dell’arte contempo­ ranea, dal rifiuto del figurativo in poi. Intanto, c e sem­ per il pericolo di una confusione: che il figurativo escluda l’astratto. Si tratta, in un certo senso, di un problema di competenze. Se il pubblico rifiuta un certo messaggio, que­ sto rifiuto, in linea teorica, non lo possiamo attribuire alla qualità del messaggio; dipenderà, evidentemente, dal rap­ porto che esiste tra qualità del messaggio e fruitore (uomo storico): il linguaggio è un fatto istituzionale. Di fronte ad un lavoro di Guerrieri, siamo portati, più che a dire: ci vedo un portacenere o un portacarte, a renderci conto del fatto che ci vediamo o non ci vediamo un portacenere o un portacarte. E. T. — Il fatto è che io ce lo vedo il portacenere; e ce lo vedo perché non posso sradicare da me certe abitudini. p p, — Non è che non può: trova difficoltà a sradicare

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certe abitudini. Non sono in ballo, credo, delle qualità dell’uomo, che in quanto tali, le impedirebbero di modificare il sistema percettivo. E T __ Ma non ci riesco, perche sotto ce proprio un bisogno... F. P. — Ci sono secoli di cultura. E.T. — Il fatto è che se tu non riesci a riferire un segno a qualche tua esperienza precedente, resti turbato. F. P. — Comunque, il programma di certe operazioni artistiche è proprio di provocare, incoraggiare la presa di coscienza della distanza semiotica, che passa tra l’oggetto culturale e la cosa materiale. Ora, per quanto riguarda le abitudini che ci condizionano, ossia la nostra storia cultu­ rale, la cosiddetta esigenza di sentirsi Amleto, di cui par­ lava prima la professoressa Tarroni, è già un’esigenza ben codificata, non è un’esigenza, diciamo così, naturale: Amie­ to non è un fatto naturale, è un fatto istituzionale; in che senso possiamo dire che il fruitore dell’epoca — non dicia­ mo quello di oggi, il quale più ovviamente somma una mag­ giore serie di esperienze — si identifica con Amleto? Si sente Amleto su un piano di astrazione, la quale astrazione passa attraverso la configurazione del mondo possibile in quelle date condizioni. Un’altra cosa. DaU’intervento pre­ cedente mi sembrava di aver colto una specie di contrap­ posizione tra arte programmata e cinema...

Specchio, mio specchio... M. P. — Nel manierismo non c’è ancora il cinema, ma ci sono dentro quegli umori... Anche con Leonardo, le opere d’arte non erano dei segni o segnali acustici od ottici, ma erano delle cose molto più complesse; opere che contenevano quegli umori che sono stati poi dedotti dal cinema e volgarizzati, per cui sono diventati le storie di ognuno, perché inseriti nelle linee della quotidianità. Ottusamente si continua a definire l’arte come un campo di

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segni da decifrare; di fronte a questo campo di segni è chiaro che l’uomo, col suo statuto di uomo, si rifiuta, se non è un tecnico o un conoscitore, di capire quella data opera o performance o situazione. Però, se Puomo si pone di fronte a un quadro o ad una performance intendendolo come uno specchio, un fatto speculare dei suoi umori — anche se ce un processo di sublimazione metafisico che... E. T. — Brecht lo chiamava straniamento... M. P. — Straniamento in senso ideologico, ma sublima­ zione in senso artistico, come tutte le operazioni artistiche richiedono, è il minimo. Quello che volevo dire è che, se si intende Parte come fatto speculare, 1 arte diventa come il cinema, con in più magari un processo di sublimazione; non è che Parte è un campo segnaletico, come una segna­ letica stradale, che se non si hanno gli strumenti per inten­ derla non si capisce, la si rifiuta, è uno scandalo, ecc. L arte è Porigine, sono gli umori dell’uomo trasferiti in un quadro o in una situazione, è un sintomo non è un segno. E. T. — Potremmo dire, in maniera piu banale, che lei intende Parte come espressione. M. P. — Espressione già richiede quella levigazione este­ tica, che è la cattiva coscienza dell’arte. Invece, se 1 arte è il nucleo che racchiude Porigine e gli umori dell uomo... Popera d’arte va intesa come campo magnetico, come una lettura diretta. Voi vi preoccupate prima della conoscenza dei codici e poi della lettura dell’opera... F. P. — No. Il problema non è quello della « conoscen­ za » dei codici, ma quello della costruzione del modello d'analisi. Non consideriamo affatto il codice come esistenteda-conoscere, bensì in senso dinamico e funzionale. Il mio problema è di entrare in un rapporto dialettico con un certo processo comunicativo. Al di là della comunicazione, e del processo di semiosi, mi resta difficile intendere. Io sto fa­ cendo un discorso, ma vorrei che anche gli altri facessero un discorso. E. T, — La Pisano parla di un rapporto magnetico con Popera, che ricorda molto la concezione crociana. Oggi,

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molti si rifiutano di accettare questo rapporto mistico; noi denunziamo, anzi, che questo magnetismo dell’opera non ci sia più. Diciamo che oggi, attraverso gli sforzi sperimentali degli artisti che, dalla crisi determinata dall’avvento delle nuove tecniche, hanno cominciato a rifunzionalizzare l’arte e quindi a cercare nuovi codici, attraverso tutti questi spe­ rimentalismi s’è distrutta l’aura dell’opera d’arte, come dice­ va Benjamin, e non riusciamo più a ritrovare questo magne­ tismo. Se questo magnetismo ci fosse, questa possibilità in­ tuitiva, che poi filosoficamente si definisce come lo spirito assoluto di cui parla Hegel prima e, in senso di destra, Croce dopo, avverrebbe; perché non avviene? M. P. — Questo misticismo, che in senso più democra­ tico io chiamerei co involgi mento, oggi si è spostato dal messaggio al mezzo. Si dà più importanza al mezzo che al messaggio. E. T. — 11 nostro problema è che il messaggio non riesce ad arrivare alla maggior parte di noi. Una mostra alla Gal­ leria d’Arte Contemporanea viene visitata da qualche mi­ gliaio di persone, che non sono niente di fronte a 53 milioni di italiani. Inoltre, perlomeno 1’80 per cento di quei visi­ tatori non riceve questo messaggio. Che cosa è successo? Che cosa si deve fare? È possibile e in quali termini una mediazione critica? Messaggio per la massa? F. P. — Su questo problema della fruizione totale, dicia­ mo così, ossia della fruizione di un’opera da parte di tutti o di quanti più possibile, vorrei dire qualcosa. Un messag­ gio che sia alla portata di tutti non è detto necessariamente che sia letto da tutti, né ci interessa gran che. D’altra parte, se è letto da tre persone, questo non dice che il messaggio non sia leggibile da altri. In realtà, per la maggior parte dei casi, la situazione è proprio quella di cui parla la pro­ fessoressa Tarroni: il messaggio viene letto da tre persone.

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culTi

ccocetlo di massa; e questo proprio mentre la

iccieù dei cornarmi tende a « neutralizzare » le articolazaoci sodali. Riguardo al nostro problema, terrei d’occhio oc cbe dire il Duirenne, nel 3/4, 1974 della « Revue d Estbérique »: la massa è piuttosto il prodotto di un processo di massificazione, cosi come i mass-media. non sono nyzzo di comunicazione cbe si rivolge alla massa, bensì la producono. Dunque, noi siamo un certo tipo di prodotto; è per questo cbe troviamo delle difficoltà. In questo mo­ mento, o risolviamo il concetto di massa in maniera dialet­ tica e democratica, oppure ogni volta cbe un messaggio e a contatto con la fruizione di massa, diventa messaggio per la massa, E. T, — Tante contraddizioni potrebbero cadere se noi diamo un significato al termine massa in un senso più pre­ ciso. Ci troviamo in una società in cui le esperienze di vati gruppi, prima chiusi, vengono ad incontrarsi tra loro; nasce un grosso fatto tecnologico, che è quello di un nuovo siste­ ma comunicativo, che permette di ampliare il raggio di dif­ fusione del messaggio in maniera enorme, rispetto, per esempio, alla società medievale o rinascimentale. Il discorso della massa è questo: è un fatto storico. Il voler dare un significato negativo alla società di massa, alla massa, alla cultura di massa, alle comunicazioni di massa, è un fatto semplicemente di tradizionalismo, di élitismo. . F. P. — La differenza che intendevo porre prima era tra il messaggio di massa e il messaggio per la massa. E. T. — Quando tu dici messaggio per la massa, ti metti da un punto di vista di élite. Certo, ci sono dei tipi di ge­ stione della comunicazione che fanno messaggi per la massa... E P. — Quali tipi? Tutti, i più importanti: la televisio­ ne, il cinema, la stampa, la radio...

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E. T. — Ma allora, accomuniamo tutti x film, tutti i pro­ grammi televisivi insieme... F. P. — Qui la qualità del messaggio non è in gioco in sé. G. P. — È necessario trovare una definizione formale di « massa altrimenti, anche a livello di studio, da che cosa partiamo? QiiaPè l’oggetto dei nostri studi? E. T. — Per me, siamo tutti massa. F. P. — Non solo per lei. E. T. -_ Quindi, la qualità è la nostra qualità. Pe studiare la massa dobbiamo studiare questa J*^**'*?’^ massa non possiamo studiarla, perche ci siamo sa tro; come facciamo a staccarcene fuori e studiare la massa, se^iamojio^stess^massa?^ sabile il momento del distanziamento, cioè trovare un metodo...

, ,

.

E. T. — E allora, ti poni in una posizione di elite. E al­ l’interno che ti devi porre, non all’esterno. Se ti poni all’esterno, ti metti subito un gradino sotto ai piedi. F. P. -—■ Non si tratta di sollevarsi^ ma di distanziarsi,

di prendere le distanze per l’analisi. G. P, — Se io faccio un esperimento, non posso dire che resto sempre coinvolto nell’esperimento e che, siccome i risultati delle mie osservazioni dipendono dai miei sensi, saranno soggettivi in quanto io sono soggetto, e così vìa, perché a questo punto la conoscenza diventa impossibile, scientificamente parlando. E. T, — No no. Nel caso di una misurazione fatta per mezzo di macchine, come in un esperimento scientifico, tu non sei soggettivo per niente! Se un sismografo registra un movimento tellurico... G.P. — Ma è tutto il pensiero scientifico che dice che la misurazione va fatta in termini probabilistici, F. G. — Mi pare, però, che il problema non è tanto di vedere se siamo massa, perché siamo massa e su questo... E, T. — Non c’è dubbio... F. P. — Nessuno l’aveva messo in dubbio... 83

F. G. — Il problema è vedere come vengono usate le comunicazioni di massa. E. T. — Questo è tutto un altro discorso; non solo, ma è un discorso che sta cambiando, proprio perché abbiamo preso coscienza che c’è un tipo di canale comunicativo tec­ nologico che viene gestito in un certo modo dal potere. E c’è tutto un movimento di sovvertimento di questo siste­ ma, che è per forza di cose autoritario, con la nascita delle nuove tecnologie, con la nascita di movimenti alternativi. In un certo senso, l’errore di Adorno e dei francofortisti è di aver considerato la società di massa come un punto di arrivo, ormai statico, e non come una fase di un proces­ so, all’interno del quale ci sono movimenti in varie dire­ zioni. L’inerzia della massa è un concetto che non è vero, perché in questa società di massa ci sono dei movimenti, i quali tendono ad annullare un certo tipo di gestione della comunicazione, per sostituirli con altri tipi di gestione. Senza contare che un’invenzione tecnologica cambia tante cose, contro la stessa intenzione di chi l’ha inventata. Infatti, gli sforzi per mantenere il dominio della radio-televisione sono sempre maggiori, perché le condizioni tecnologiche non lo consentono più; questo tipo di gestione autoritaria, unili­ neare non sarà più possibile, perché lo stato attuale della tecnologia non lo permette. F. P. — Questa è una speranza, fondata su una possi­ bilità; ma appunto queste possibilità, se le consideriamo come tali, sono possibilità proprio in quanto sono alterna­ tive rispetto ad un certo concetto di massa. Questo mi sem­ bra un aspetto della questione ormai abbastanza chiaro. Il problema del critico, all’interno del sistema delle comuni­ cazioni di massa, rimane però quello di distinguere conti­ nuamente il messaggio a senso unico, ossia il messaggio per la massa, dal messaggio che dia alla massa la possibilità di rispondere, cioè di uscire, diciamo, da se stessa ed artico­ larsi, costruendo dei messaggi diversi, dialettici. Solo in quanto creiamo tali condizioni cominciamo ad uscire da

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una certa situazione passiva e andiamo verso una comuni­ cazione di massa. G. P. — Vorrei riprendere il mio intervento per affer­ mare un’esigenza che credo sia imprescindibile: quella di costruire una definizione dei termini di « massa » e « pub­ blico » in termini formali. Quanto alla critica, essa deve avere il compito di analizzare e problematizzare i « testi » e i processi comunicativi attraverso una ricerca interdisci­ plinare che si rifaccia a diversi punti di vista (sociologico, storico, economico, semiologico, psicologico, psicanalitico, tecnologico, ecc.). Quindi una critica che assuma un atteg­ giamento critico nei confronti delle diverse normative. Co­ munque, il punto di partenza e/o di riferimento probabil­ mente dovrà essere pur sempre l’analisi semiologia. Perché si riesca a rispondere alle necessità di democratizzazione della cultura, che abbiamo evidenziato in questo seminario, credo che la ricerca debba poggiare su basi analitiche e ren­ dere continuamente esplicite le proprie premesse epistemo­ logiche, ideologiche, politiche, ecc.; questo permette non solo di dare un giudizio critico sul metodo e sui risultati, ma anche di fare una chiara proposta « educativa » di me­ todo critico. Tengo a precisare che tale tendenza di ricerca non si discosta dai princìpi che hanno guidato i lavori di strutturalisti come Jakobson ed Ejchenbaum, i quali già nel ’29 denunciavano la necessità di inserire l’analisi seman­ tica dei testi in un ambito che t enesse conto di altre « serie ». Per una critica del film inutile F. P. — A questo punto, mi sembra giunto il momento di introdurre il mio discorso specifico, sul cinema. La mia è una proposta per una critica del film inutile. Vediamo che cosa si può intendere per critica del film e per ciò che io chiamo film « inutile », che è un termine abbastanza provocatorio, e tuttavia ha senso proprio in que­

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sto contesto di comunicazioni di massa; un contesto in cui il cinema si situa in un flusso distributivo e produttivo (non a caso inverto l’ordine dei termini), che funziona in una certa maniera. Nell’afirontare il problema della critica cinematografica terrei conto di due linee di discorso fondamentali e comple­ mentari. Da una parte, quando diciamo cinema, ci interessa il rapporto complessivo che viene a stabilirsi tra il cosid­ detto pubblico, quello delle sale del circuito commerciale, e il film come risultato di una serie di operazioni complesse ed eterogenee, ma comunque riconducibili ad un fine in­ dustriale. In tal caso, il nostro discorso assume connota­ zioni di tipo prevalentemente sociologico. La dimensione culturale di tale discorso si allergherà fino a comprendere tutto l’insieme di fenomeni anche esterni al film in sé; in­ terverranno cioè i vari aspetti della produzione cinemato­ grafica, della distribuzione e del pubblico, inteso come cam­ po di ricerca sociologica e psicologica, politica, economica, insomma culturale in senso largo. La competenza del discor­ so si allarga, allora, ad un’équipe di studiosi, che riesca a mettere insieme le varie esperienze, le singole discipline implicate. In tale quadro, l’estetica, o meglio il giudizio sul valore artistico (e prima ancora sull’artisticità) del film come opera viene ad assumere importanza relativa. E in ogni caso, di fronte all’oggettività dei dati sociologici, o psicologici, non potrebbe che restare legato ad una dimen­ sione normativa, magari su uno sfondo etico-politico. D’altra parte, può interessarci la lettura del film, intesa in senso stretto, come decodifica di un messaggio filmico. Riduciamo, allora, il rapporto film-spettatore entro limiti puramente semiotici. E rischiamo di tener fuori certe com­ ponenti storiche e sociali, non esclusa la partecipazione emo­ tiva e la fruizione di massa, di cui, pure, il cinema in un certo senso si sostanzia. Se nel primo caso finiamo per non sapere di che cosa (tiamo propriamente parlando, che cosa cioè sia il film, in quanto oggetto culturale specifico, nel secondo caso non

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sappiamo bene a quali parametri culturali riferire in con­ creto il messaggio che abbiamo decodificato, di cui abbia­ mo scoperto, per ipotesi, la struttura formale. È evidente che né l’uno né l’altro tipo di approccio soddisfano in pieno. Il problema è di trovare il modo di arrivare ad una correlazione di piani; correlazione concretamente operante, giacché in teoria dobbiamo darla già come necessaria. Corre­ lazione tale, che le ipotesi del sociologo, dello psicologo, dello studioso di estetica, ecc. siano confortate dalla consi­ stenza intrinseca, rilevata, del firn-testo; in modo che il sen­ so del messaggio sia confrontabile puntualmente e dialetti­ camente con la situazione socioculturale che in un certo modo lo determina, lo definisce. Detto più chiaramente, l’ap­ proccio sociologico, psicologico, ecc. al film non è esaurien­ te; ciò non vuol dire che non possa essere anche sbagliato, nel caso —■* per esempio -—- in cui si pretenda di attribuire al testo, al film, indicazioni e implicanze sociologiche o po­ litiche la cui presenza nel film sia dovuta più ad un pre­ sunto potere riproduttivo, automaticamente, direttamente obicttivante della cosiddetta immagine cinematografica: più a questo o esclusivamente a questo, invece che alla signifi­ catività della costruzione del film stesso. D’altra parte, non è esauriente la lettura strettamente formale del film, se l’ana­ lisi sì riduce ad un semplice inventario di forme e di proce­ dimenti. Sembra invece logico, persino a livello di senso co­ mune, che l’esplicitazione della struttura formale del film debba dar conto, a suo modo, di ogni stratificazione del senso e di possibili riferimenti anche extrafilmici. Prendia­ mo il successo commerciale — relativo al tipo di film — de « L’Amerikano »: ha indubbiamente una portata politica. Ora, si tratterà di andare a vedere le ragioni di questo suc­ cesso a livello di linguaggio, giacché le tecniche e dunque i linguaggi non possono essere gli stessi per qualsiasi genere di discorso o eli film, reazionario o progressivo. E se la tec­ nica non può essere la stessa, il modo di distinguerla non può che essere l’analisi del testo. Questo lo ha detto più di una volta anche Barbaro, quando ripeteva che « non ab87

biamo altro mezzo per giungere al contenuto se non TanaUsi della forma * (salvo poi a trasgredire spesso questa indi­ cazione). Nel caso de « L’Amerikano », costringere il pub­ blico ad identificarsi nella sovrapposizione dei procedimenti _ i meccanismi più stereotipi della tecnica del reportage tv assumi a struttura narrativa di stampo spettacolare, per cui: immagine cinematografica come reportage tv, quindi verità del discorso — significa indurlo forzatamente a riconoscere per vero ciò che non è neanche verosimile; oppure è verosi­ mile soltanto nel senso di riferibile ad un tipo di codifica­ zione prefunzionalizzata in termini di fruizione immediata e quindi di assenso acritico. In altre parole, ci sono dei film che contrabbandano la « verità » attraverso una mistificazione del linguaggio; si tratta di un cinema costruito sulla falsariga di un altro mez­ zo di comunicazione (nel caso, la tv) ben sapendo che la « verità » di certi avvenimenti è accettata come tale dallo spettatore dei rotocalchi d’attualità-tv, attraverso un proce­ dimento di connotazione automatica, estremamente condi­ zionata, che associa direttamente la verità dì determinati fatti alla consuetudine di determinati procedimenti. Tale mi­ metismo degrada la connotazione politica a semplice deno­ tazione referenziale. Per questo si richiede alla critica non certo di abbandonare il suo mandato sociale, bensì di consohdare la propria coscienza teorica, superando certe posi­ zioni normative (non la normativa in generale). Certo, un conto sono i risultati cui è giunto lo strutturalismo lingui­ stico, un conto sono i tentativi di costruire modelli formali appropriati per lo studio del linguaggio cinematografico. D’altra parte, non si vede come determinati messaggi filmici possano rendersi operativi fuori da un processo comunica­ tivo determinato: e determinabile, ossia analizzabile. L’analizzabilità del cinema in quanto linguaggio è una conquista metodologica ormai fondamentale; tuttavia, non esclude — e come potrebbe? — la connotabilità anche metaforica del discorso analitico, né — ed è l’aspetto che maggiormente ci interessa — la sua correlabilità al piano delle scelte prefe­

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renziali. Se da una parte la critica tende a definire — per definizione — la propria istituzionalità — e qui intendiamo per critica il termine nel senso ampio datogli da Kant: una logica del giudizio valutativo —, il giudizio critico compor­ ta una serie di questioni, interne ed esterne al fenomeno che complessivamente chiamiamo cinema. Prima questione: ruti­ li tà del film. In che senso possiamo parlare di utilità? A li­ vello teorico della critica, intendiamo utilità come utilizza­ bilità e produttività dell’oggetto, riferite al funzionamento del sistema e dei sistemi formali che lo sottendono. Gli esiti di tale utilità sono riscontrabili nella trasparenza dell’orien­ tamento critico, rispetto allo stesso sistema-oggetto e rispet­ to alle funzioni esterne che lo riguardano. In questi termini, l'approccio critico diviene verifica dei procedimenti tecnico­ semantici che pongono in essere l’oggetto sostanziandolo in una consistenza culturale, storica, oggettuale appunto. At­ traverso una decodifica del messaggio e poi una lettura con­ notativa, che passi per la motivazione tecnica della scelta preferenziale, si giunge ad affrontare la questione — crucia­ le per la critica — dei generi cinematografici. Non più sol­ tanto sulla base generalissima di una considerazione istitu­ zionale del cinema in quanto fatto comunicativo, ma proprio in funzione della discoperta di certe convenzionalità e delle modalità di certe loro perpetuazioni. A questo livello, la preferenzialità del giudizio critico deve fare i conti con i mec­ canismi di ottundimento mimesico che caratterizzano molti messaggi — i film cosiddetti di genere, in prima ipotesi — legati all’assenso del pubblico di massa (ci si perdoni ancora l’uso convenzionale di questo termine). Senonché, proprio a questo punto arrivano le difficoltà. Proprio la mitologia del successo commerciale, infatti — ba­ sti pensare al mito della democraticità dell’indice di gradi­ mento — presedie, tendenzialmente, all’azzeramento delle facoltà di scelta del fruitore; per cui il versante teorico della critica assume risvolti molto concreti, i quali a loro volta rimandano al piano teorico, anzi lo ricostituiscono. Il con­ cetto di utilità, anche nel senso teorico detto sopra, e dun89

que legato alla dimensione industriale del cinema. E dunque i condizionamenti commerciali della produzione filmica coin­ volgono in maniera rilevante la qualità semiologica del mes­ saggio. Per dirla a parole grosse, fare la critica del film di genere non è fare la critica del film tout court, ma è investire di ceni valori ideologici (ideologia politica, sociale, econo­ mica. magari anche estetica) non Putilizzabilità, bensì l’uti­ lizzazione e quindi l’utilità di una merce. Sappiamo che, in quanto merce, il film è soprattutto distribuzione del film nel circuito commerciale; il semplice fatto che un film « esce » vuol dire che quel certo prodotto è disponibile alla critica inutile: inutile alla produzione di senso alternativo de­ sumibile dal film testo, utile all’integrazione del film nel sistema cinema-merce. Alla critica inutile del film di suc­ cesso, vogliamo contrapporre la critica di film inutili, pro­ duttivi di senso e quindi improduttivi dal punto di vista com merci ale. Diciamo « produttivi di senso » dando alTespressione una connotazione forte, giacche è ovvio che ogni operazione comunicativa in qualche maniera è produt­ trice di senso. Tale critica presenta dei rischi. Parla di film quasi sconosciuti e difficili da fruire gastronomicamente, anzi del tutto indigesti; e ne parla con un linguaggio diffi­ cile da comprendere fuori da una lettura adeguatamente^ for­ malizzata. Ma ci sono anche dei vantaggi. Anzitutto, la cri­ tica del film inutile resiste duramente alla pseudo-popolarità dello stereotipo, ovvero alla facilitazione degradante tipica del messaggio indifferenziato (il messaggio a senso unico, di cui si parlava anche in una fase precedente di questo semi­ nario); al contrabbando della popolarità — e sappiamo be­ nissimo quali difficoltà comporta la definizione del concetto di popolarità — contrappone l’esibizione di una difficoltà; una difficoltà, però, superabile. Mentre la facilità del messag­ gio indifferenziato è una difficoltà insuperabile, qui si pro­ pone una difficoltà superabile con i mezzi che essa stessa mette a disposizione. L’interessante è che questa superabi­ lità delle difficoltà è dentro al messaggio in quanto risul­ tato di un procedimento. 90

La critica del film inutile è un invito a partecipare alla dialettica delle forme (storiche, ovivamente); si tratta di ve­ dere chi leggerà questa critica. È evidente che, a questo pun­ to, il discorso sui canali, a cui ci richiamava la Barbalato, diventa molto interessante. In ogni caso, leggeranno la cri­ tica del film inutile tutti coloro che siano interessati a creare — anche poco alla volta — le condizioni per una vita demoera ti a tutti i livelli; una vita in cui ad ogni migliore salario non corrisponda una minore possibilità d’intervento. Difficile e facile

E. T. — Il discorso di Pecori sul film inutile in quanto film difficile si ricollega alle proposte sperimentali delle arti visive, quelle di cui ci ha parlato Guerrieri e tutte le altre. II pericolo di questa posizione è quello di rinchiudersi ne­ cessariamente in un élitismo, che poi alla fine rende vera­ mente inutile il messaggio — sempre appoggiandoci al fatto di cui io sono profondamente convinta, che noi da questa situazione di società di massa non solo non possiamo ma non dobbiamo uscire: la nostra è una società di massa non in senso negativo ma nel senso storico della parola. H pericolo di un film difficile, come di un’arte diciffile, di cui i fruitori non conoscono il codice, è che gli intellettuali si rinchiudano in un circolo chiuso e che la loro opera sia asociale, che non serva a niente. Durante un precedente seminario, uno studente dì architettura ha detto questa frase abbastanza ag­ ghiacciante: se si chiudessero tutte le gallerie d’arte, la gente nemmeno se ne accorgerebbe; se si chiudessero per una o due sere le sale cinematografiche o non ci fosse lo spettacolo televisivo, la gente se ne accorgerebbe. È realmente così, ed è il discorso che abbiamo già fatto. Finisce che, invece di rinnovare le abitudini percettive dei fruitori, ci si morde la coda, si rimane chiusi in se stessi. Se si chiudessero i ci­ nema d’éssai, chi se ne accorgerebbe? F. P. — Prima di parlare di film inutile, ho fatto tutto 91

un discorso sulle implicazioni c relazioni che ci devono es­ sere tra un approccio sociologico c un approccio formale proprio |kf non fare un discorso di tipo formalistico. L’ut tmu cosa a cui pensavo, parlando di film inutile, era il cine­ ma d essai, inteso come cinema da terzo programma, costrui­ to per pochi. Direi proprio che dobbiamo essere fuori da questa dimensione. Che cosa vuol dire « difficile », a propo­ sito di film inutile? Vuol dire, come ho già detto, difficile da fruire gastronomicamente, difficile da leggere per un pub­ blico abituato a leggere messaggi programmaticamente indif­ ferenziati. Ho anche precisato che la difficolta del film inu­ tile è una difficoltà superabile all’interno del sistema comu­ nicativo proposto dal film inutile, o di cui il film inutile, di­ ciamo. si sostanzia. Mentre invece, la facilita del film « po­ polare » contiene in sé una difficolta insuperabile, proprio perché non dà al pubblico di massa le possibilità dialettiche di risposta. Allora, dobbiamo considerare il film difficile, nel senso di inutile, come impopolare? Non per niente accen­ navo alle difficoltà di trattare un concetto come quello di popolarità. E.T. — Possiamo anche eliminarlo, questo termine. F. P. — Non possiamo eliminarlo, però, gettandolo via. Dobbiamo fare un discorso molto preciso... M. G. — che comporta anche l’eliminazione del termine massa. A certi livelli, il concetto di popolarità coinvolge quello di massa. F. P. — Da un punto di vista di qualità del messaggio, difficile non vuol dire necessariamente impopolare, ossia non dialettico. Popolare, infatti, significa dialettico, inseri­ bile in un contesto di intersoggettività. B. B. — Dal tuo discorso emerge perlomeno un aspetto che a me pare negativo. Mi sembra che tu ti poni in Tina prospettiva piuttosto dottrinaria rispetto ad un pubblico che tu presupponi come un’entità astratta, implicitamente dando gii un giudizio di valore su questa cultura che oggi noi vi­ viamo. È facile dire che il pubblico è diseducato e via dijcrxrmdo; tutto sommato, io però rispetterei moltissimo le

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culture, qualunque esse siano e comunque si sviluppino. Va poi analizzato un altro problema: il rapporto tra l'avanguar­ dia culturale e la cultura dominante; qui sorge il problema della democrazia della cultura. Non è che l’avanguardia può aspirare a diventare cultura dominante; questa è un’altra for­ ma di violenza culturale di notevole rilievo. F. P. — Se le cose che io ho detto stessero nei termini in cui le ha messe la Barbalato, sarei perfettamente d’ac­ cordo, solo che: io non parlo di film d’avanguardia né di arte d’avanguadia, anzi sono abbastanza contrario a questo tipo di film — come prima ho precisato che non parlavo di film d’essai —. Quindi, quando dico che il pubblico delle comunicazioni di massa trova difficoltà, per definizione, a leggere un messaggio differenziato, questo discorso non è dottrinario, ma è legato ad una con siderazione tecnica del problema. Siccome noi intendiamo per comunicazione di massa un certo tipo di processo comunicativo, cioè quello a senso unico... E. T. —- No. Voglio precisare. L’evento comunicativo o c’è o non c’è; e c’è soltanto nella misura in cui il recettore riceve, interpreta correttamente le intenzioni che il comu­ nicatore ha nel trasmettere il suo messaggio. Se no, non c’è l’evento comunicativo; c’è un fatto filmico, un fatto cinema­ tografico, chiamalo come vuoi, ma la comunicazione non è avvenuta. Questo è il punto: la comunicazione avviene sol­ tanto quando c’è questo impatto. Se questo impatto non c’è, quel film non è più un evento comunicativo. F. P. — Un film è sempre un evento comunicativo, an­ che quando non sembra, perché non può non comunicare. F. G. — Comunicherà con due persone e non con mille, ma comunica. F. P. — Evidentemente c’è bisogno di qualche precisa­ zione. Un film non è un oggetto naturale, è un fatto comu­ nicativo già all’origihe. Un film comunica in ogni caso. So­ lamente, un certo livello di comunicabilità noi lo diamo per scontato, dando all’oggetto quel che è dell’oggetto. Qui, in­ somma non sono in gioco le condizioni generiche della co93

munkaaone. Gò che è in discussione è il tipo di comuni­ cazione. Allora, per ritornare al discorso, siccome una certa comunicazione funziona come comunicazione di massa, ov­ viamente per definizione — si tratterà poi di andare a verifi­ care. attraverso un’analisi interdisciplinare la pertinenza di questa definizione —, in questo tipo di funzionamento a senso unico, il film difficile è quello popolare, è quello che si propone ad una fruizione indifferenziata. M. G. — Mi ricollego in parte all’estensione che ho già fatto del termine critica, e in parte ai discorsi che ho sentito ora. Prima di affrontare ancora una volta il problema della critica o della comunicazione, direi due cose sulla società di massa. Io non sono molto felice che ci sia una società di massa, nel senso che la società di massa non è un regalo della provvidenza, ma significa un migliore sfruttamento ra­ zionale delle masse e cioè uno sfruttamento massificato Pre­ vio consenso da parte delle masse. In questo senso, quando si parla di pubblico diseducato, si ha ragione a metà, nel senso che il pubblico è anche troppo educato a percepire sol­ tanto alcune determinate valenze dei messaggi, o perlomeno a riconoscersi in certi codici e non in altri; quando 1 operaio, dopo una discussione, accetta il codice di Guerrieri, mentre il borghese non l’accetta, questo non vuol dire che il bor­ ghese è diseducato, bensì che è talmente educato a ricono­ scere le cose che gli servono che non accetta le novità. SÌ ri­ propone dunque il problema della critica nei confronti della società di massa. E. T. — Ma questa è un’interpretazione del tutto adorniana. M. G. — Per carità! Non è nelle mie intenzioni. E. T. — Non si deve dire: ormai, la società è fatta così. Ci sono certe dimensioni, storiche, tecnologiche, culturali ecc., per cui non esistono barriere, è difficile tenere chiuse delle culture; questo è il significato che in genere qui diamo al termine « società di massa ». Non si tratta di essere o non essere felici...

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M. G. — Volevo dire che non è che la società di massa è stata una conquista. E. T. — Per me la differenza sta nell'avere una immagine statica della massa e nell’avere invece un’immagine di­ namica, marxiana delle masse. M. G. — Cercherò di chiarire meglio. Secondo me, è pericoloso presupporre la società come società di massa. Nes­ suno nega che ci sia un’interscambiabilità, una circolazione dei modelli culturali; però mi pare che nella società di massa i modelli culturali dominanti sono ancora più pesanti, le spinte che vengono dal basso solo da poco stanno cercando un loro linguaggio. Allora il problema è di vedere in che modo, non democratizzare le masse, ma accettare i modelli di democrazia che salgono dalle masse. Questo è un proble­ ma proprio di autorità o di democrazia. E. T. — Qui mi pare che veramente si ponga il proble­ ma del critico come intellettuale. M. G. — La mia pre occupazione era questa: di non pre­ disporre in qualche modo il linguaggio delle masse. Siamo noi, in questo caso, a trasformare il film inutile in un film invedibile da parte delle masse. Obbedisce a precisi obietti­ vi commerciali il fatto che le masse vanno a vedere certi film e non vanno a vederne altri. È precluso alle masse, e in fondo è anche un problema pedagogico, l’accostarsi a certe cose perché vengono considerate difficili per loro, perché dall’alto si decide: questa è la cultura del proletariato, que­ sta è la cultura della borghesia e così via. Da questo punto di vista, il problema della critica non è più quello dei luoghi istituzionali o della figura del critico. Nessuno dice quel film è buono perché l’ha detto Grazzini. La critica si costituisce come una funzione del discorso, che lavora da filtro, non più da mécfiazioné culturale. Molte volte, poi, questo filtro si trasforma in promozione della vendita. Tutto questo avviene non al livello comunicativo, ma a livello informativo. I cri­ tici, o gli addetti ai lavori, oggi non si preoccupano più di fare un discorso critico, perché sanno benissimo che il di­ scorso critico è limitatissimo a certi lettori i quali hanno bi95

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della critica su un certo ogget­ to, li _ rnirrvVn-e con la modalità scolastica della forma discor2va_ Je opere costruiscono il campo di attraversamento fscemo- il < pretesto * del discorso, F* occasione » per la elafiordone rie ,.3 scolastica etnica, che si riconosce nel zrarwgg» di linee cri oche di lettura e di ri-lettura di corte base pensare all'uso curtense della linea epistemologfcocttria di vede Dell’asse MarrcAieizscbe-Freud il tracciato < eversione » dalla cultura borghese. È altresì ovvio che F« ;»Tfrbddv'lixa » della costruzione di situili linee di lercia rrirka non ha niente a cbe vedere con l’uso cur tense che se ne fa, dal momento che tale « attendibilità » va ev^minaTa vJ piano teorico dell elaborazione di certe crirkbe e sul piano della teoria dell’interpretazione riy, tuttavia, la cnuca di corte e il suo apparato accademico y-yf-r-1Tf^Tì■ p legato all industria culturale non consente, non consente nel senso che ciò che appare nella veste critica ha messo tra parentesi le ragioni teoriche della scelta di certe lirse, e quindi ciò che appare all’esterno del discorso della rrieira di cotte non consente di verificare la linea teorica). Pertanto, sembra che, a differenza della critica di scuderia « fortemente contrassegnata dalla formazione di linee teori­ che del discorso critico e orientata alla riproduzione di cri­ tici di razza j, la critica di corte sia condizionata fortemente da elementi sociologici legati all’industria culturale e alla appropriazione dei posti-chiave per controllare la stessa in­ dustria, quali, per esempio, le università. 3) Critica di allevamento — È un discorso critico dato in pasto a un ceno tipo di pubblico per confermare il suo orientamento e le sue scelte, non tanto verso obbiettivi critici veri e propri, quanto verso determinate operazioni socio-culturali con elevata incidenza sul comportamento. È esemplare di questa « partizione tipologica » della critica

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il « nutrimento critico » che viene ritualmente sommini­ strato ai frequentatori dei circoli culturali, dei cinema d’essai e dei cineclub (senza mettere per dò in discussione l’oggettiva e positiva incidenza culturale che questi istituti svolgono). Questo « nutrimento » consolida la scelta, com­ portamentale per lo più, fatta da quel pubblico: il fatto di appartenere a un certo gruppo viene stimolato e sorret­ to » dall’implicita certezza che qualsiasi oggetto » dato in pasto (per esempio il tipo di film) viene isolato in una particolare forma di valore (socio-culturale e comportamen­ tale) che la critica della scheda filmografica sostiene e man­ tiene. Abbiamo a che fare qui con la funzione isolante delestetico che non appena tocca l’oggetto lo preserva perciò immediatamente (per tacito assenso culturale; da valori e da atteggiamenti non-estetici o extraestetici e forse maschera anche il « risarcimento sociale » che questo * va­ lore isolante » garantisce sul piano, in fondo, di una sele­ zione di classe: lo spettatore da cineclub fa parte di una consorteria molto potente (e tendenzialmente autoritaria) che sospende l’autonomo giudizio critico e la funzione stessa della critica), almeno tendenzialmente e nella più larga ge­ neralità, dal momento che l’oggetto delle sue scelte non è tanto l’accostamento critico e responsabile (in senso cui ru­ rale-teorico) a determinati film o a certo cinema, quanto il fatto che questo « accostamento materiale » ottenuto con la frequentazione della sala d’essai fa parte integrante di scelte critiche e comporr amen tali di ordine socioculturale molto privilegiate e che non impongono un esercizio o una attività critica effettiva, la quale viene prodotta per lui dai gestori dei cineclub, ai quali egli si affida ciecamente e con grandi aspettative di gratificazione sociale di ordine compor­ tamentale. In tal modo, la critica di allevamento (selezione dei film, proposte di cicli, fogli informativi, ecc.) ha la fun­ zione socioculturale (anche estremamente positiva, per certi versi) di allevare un certo tipo di spettatore, il quale so­ spende il giudizio critico, nel senso che alla sospensione (positiva) del giudizio di valore o di gusto in genere non 137

fa riscontro un atteggiamento analitico o teorico, ma piut­ tosto un atteggiamento « antidemocratico » di privilegio nelle scelte culturali date in pasto come mangime di lusso in un allevamento in grande stile, che garantisce una cre­ scita alimentare di tipo quantitativo più che qualitativo, dove per esempio il concetto di « popolarità » è sincreticarpente legato a illusioni aristocratiche. 4) Critica promozionale — È un tipo di critica che si pone come forma di garanzia di esistenza per l'oggetto ester­ no (il film) di cui il discorso critico si occupa. Per il fatto stesso di essere « promosso » al rango della discorsività critica, l’oggetto esiste, vive, viene diffuso. Il piano emer­ gente di questo tipo critico è la « comunicazione d’esisten­ za » dell’oggetto, e, in secondo luogo, la dichiarazione di qualità dell’oggetto stesso e della importanza o non impor­ tanza della sua esistenza e della sua vita (diffusione). Que­ sto tipo di critica ha il suo campo di esercizio della pagina degli spettacoli del quotidiano, e, a livello critico ridotto ma promozionalmente amplificato, ha il suo campo di inter­ vento nella pubblicità di ogni genere (dal cartellone al di­

battito televisivo). . 5) Critica digestiva — Si tratta della « ragocitazione cel­ lulare », della trasformazione gastronomica dell’« oggetto del discorso critico », che avviene nella strada e nel sa­ lotto, in ufficio e a scuola, mediante la quale ci si libera dell’oggetto classificandolo nella deglutizione critica e espel­ lendolo tramite catalogazione (d’altra parte, il significato originario del termine « digestione » è proprio quello di « classificazione », digesto). Abbiamo a che fare con una funzione critica che, bene o male, è del resto presente in tutta la sfera della tipologia critica intensa come « norma­ lizzazione » del giudizio e come « conformità di vecchio e nuovo », per usare l’espressione di T. S. Eliot; nel senso che « la critica (...) deve sempre professare una finalità in senso prospettico, il che, tradotto in una formula, vuol dire delucidazione delle opere artistiche e l’adeguamento del gusto », dal momento che « i monumenti letterari formano

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complessivamente un ordine ideale, che l’ingresso di un’oper.i d'arte nuova (ma veramente nuova) viene a modificare. L’ordine esistente è autosufficiente prima dell’arrivo di que­ sta nuova opera: perché l’ordine si conservi, una volta che intervenga il nuovo, l’intero ordine esistente dev’essere, per quanto lievemente, alterato: e in tal senso i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte rispetto al tutto vengono risistemati; e ciò significa conformità di vecchio e nuovo. Chiunque condivida questa idea di ordine, della forma della letteratura europea e inglese in particolare, non troverà irragionevole che sia il presente ad alterare il pas­ sato allo stesso modo in cui è il passato a governare il presente ». Solo che si esca da questa prospettiva « normativa » abbandonando la chiave teorica della sua spiegazione strut­ turale, la critica diviene, appunto, digestione del nuovo at­ traverso gli organi del vecchio. Lo schermo e la moviola

V‘ G* Non ho capito bene la differenza che fa Aprà tra razionalismo e irrazionalismo della critica e del cinema. Mi sembra che sia una differenza che si risolve per forza di cose in un invito che può avere uno sbocco imprevedibile. Certo, sul libro io posso fare dei segni con la matita, posso tornare indietro; ma anche il film posso rivederlo. Aprà parla della memoria, ma anche il libro sta nella me­ moria; non capisco perché non si possa parlare di un film cercando di analizzarlo in singole parti. D’altronde, può essere anche interessante studiare quelli che tu chiami i grandi archetipi del cinema; facciamo anche questo, ma non recuperiamo un certo aspetto irrazionale del cinema per poi vietarsi la possibilità di leggerlo come un testo. Al cinema posso andarci in un certo modo e anche in un altro modo; mi sembrava molto giusto quello che Aprà diceva a proposito dei rapporti tra cinema e psìco-

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però io credo che d sia anche la possibilità di stu­ diare un film come un testo. A. A. — Sì, però l’aspetto largamente maggioritario è che un film lo si vede una sola volta in una sala cinemato­ grafica. E anche se un film lo si vede più volte, ogni volta l'atteggiamento è sempre quello di una persona che fa parte di un pubblico in una sala oscura, ecc. Se vai a rivedere un film, probabilmente è perché ti piace e vuoi riprovare un certo tipo di « piacere ». Il porsi poi con Patteggia­ mento specifico dello studio, questo è un aspetto del tutto marginale del fenomeno cinematografico. In Italia, fra l’al­ tro è quasi impossibile studiarsi un film alla moviola. V. G — Ciò che non capisco è perché una certa analisi di fatto (il cinema come fatto onirico, ecc.) debba servire a chiudere nei confronti dell’altra direzione, che è quella di tornare la seconda volta non per rifare lo stesso bel sogno della prima volta, ma per vedere il film secondo un aspetto diverso e analizzarlo per quel che è possibile. A. A. — Nel discorso critico dominante, quando si parla di un film se ne parla come di un qualcosa che sta fermo, mentre invece la caratteristica di fondo del cinema è che la materia delle immagini è in continua mobilità dallo scher­ mo alla testa dello spettatore. Questo aspetto non viene studiato, se ne sa pochissimo; invece, si sa molto di un aspetto minoritario del film, che è la sua apparenza ferma, quella per cui tu puoi dire o pensare che, in fondo, lo schermo sia qualcosa di simile alla moviola, dove puoi fer­ mare il fotogramma, analizzarlo, vedere se è un primo pia­ no, se è un campo lungo, ecc. Sono tutte cose che di fatto sullo schermo non ci sono. L’analisi testuale tende a can­ cellare questo fatto importante, che intanto la pellicola scor­ re, e va avanti producendo una serie di fenomeni dei quali non sappiamo nulla. Probabilmente, proprio perché non ne sappiamo nulla e perché sono così difficili da affrontare col tipo di strumentazione che abbiamo, tendiamo ad eliminarli a fare come se non ci fossero. àhjlLsi.

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Il fenomeno, però, può cambiare in base alla trasforma­ zione dei mezzi tecnici. Il cinema che noi conosciamo è la proiezione in uno spazio collettivo che è la sala cinemato­ grafica. Fra qualche anno il film si potrebbe anche vendere come un libro. Allora tutta una certa fenomenologia potrà anche essere diversa; l’analisi testuale probabilmente avrà una maggiore validità. Io penso addirittura che lo sviluppo di una critica testuale, che oggi ha preso tanto campo, po­ trebbe considerarsi come una preparazione per un nuovo tipo di pubblico; ho quasi la sensazione che la critica te­ stuale non sia che la forma molto raffinata di una divulga­ zione di una diversa fruizione del cinema. Però, nel cinema come noi lo conosciamo ora, questa critica si applica in maniera molto impropria. Io non ho mai letto un testo che mi abbia soddisfatto per quanto riguarda il film come fenomeno spettacolare così come di fatto l’ho sempre per­ cepito vedendo il film nella sala pubblica. Se poi, invece dei film si parla del cinema (per esempio, il discorso di Bazin), allora il fenomeno viene affrontato in maniera più esatta; ma è un tipo di discorso che praticamente non ha bisogno di far riferimento ai singoli film. E- T. — Sono rimasta un po’ stupita dal discorso di Aprà, in quanto tutti gli studi, tutti i convegni, tutti i saggi che sono stati scritti, non solo in Italia ma anche in Francia e in altre parti d’Europa, negli anni ’50 erano esattamente quelli che riguardavano il rapporto tra fenome­ no cinematografico, e non filmico, e pubblico; e questo stato onirico in cui avrebbe dovuto cadere lo spettatore, dato che l’influenza dell’immagine sullo schermo era ipnoide; quindi non si poteva parlare di arte, non si poteva parlare di segni, non si poteva parlare di linguaggio, in quanto si trattava sol­ tanto di fenomeni psichici. Da qui quel periodo di imperiali­ smo psicologico sugli studi filmologici di tutti gli anni ’50. Io credevo che, dal momento in cui dal fatto cinematografico, attraverso gli studi linguistico-semiologici, si era passati allo studio del film, questo discorso dovesse rimanere un po’ nell’ombra; tutt’al più poteva essere trattato come una fase

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del rapporto spettatore-schermo di tipo acritico, irrazionale. Per dieci anni di seguito, dopo che si è superata questa che era veramente una paura, si è parlato di educazione allo schermo nella scuola, sia pure senza uno strumento preciso a disposizione (la semiologia s’è introdotta in Italia soltanto alla metà degli anni ’60). Certo, un certo fenomeno avvie­ ne, ma avviene come un fenomeno patologico, è uno degli aspetti patologici di un sistema di comunicazione gestito dall’alto. Ma evidentemente, dal momento in cui si prende coscienza di questa fase patologica, da quel momento si cerca di costruire altri princìpi culturali intorno alla frui­ zione del film. Non vorrei che, in un certo senso, tutto il lavoro della critica, venisse praticamente a cadere; dobbia­ mo pensare che non sia possibile un educazione cinemato­ grafica? Anche il desiderio di avere il film nella cineteca di casa potrà nascere solo quando le persone si renderanno conto, prenderanno coscienza che un certo modo di vedere il film era patologico. Certo, vedere il film come un fatto di magìa, immergersi nella sala cinematografica, nel buio, sottoposti a questa luce intermittente che ha una funzione ipnoide, non è la maniera migliore di fruire del fflm; e MPÌ c’è l’impegno di tutta la scuola, non solo dell Università. Si tratta di una maniera diversa di fare cultura e sì deve cominciare proprio dai bambini della scuola elementare. Il rassegnarsi a vedere nel film un fenomeno magico, come ha fatto il Gemelli, che è uno dei padri della filmologia in Italia, o come Volpiceli!, per il quale il linguaggio filmico è un linguaggio patico, significa non voler ammettere che il film è un linguaggio. D’altra parte, io non credo proprio a questa passività assoluta dello spettatore. Abbiamo fatto tutta una serie di ricerche, anche qui, da dieci anni a que­ sta parte, proprio sulla memorizzazione del film e non mi sembra che ci sia questa passività. Certo, quando uno va al cinema abbrutito dal lavoro e senza un minimo di background culturale, è soggetto in un certo modo; ma è un fatto patologico, un fatto che biso­ gna eliminare in tutti i modi, a tutti i livelli, e questa è

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la funzione della critica, in fondo. D'altra parte, se una comunicazione filmica avviene, se si capisce quello che vuol dire il regista, è perché non ci si lascia sommergere da una certa atmosfera. Direi che il numero delle persone, special­ mente giovani, che non sono più disposte a lasciarsi affa­ scinare dal cinema è sempre maggiore. Del resto, Aprà è proprio uno dei fondatori della rivista « Cinema & Film ».

Sognare al cinema, provare emozioni A. A. — Io non voglio fare discorsi estremistici e co­ munque non voglio addentrarmi in discorsi teorici, di cui non sono all altezza. Se insisto sull’aspetto magico è sem­ plicemente perché lo voglio recuperare come un dato posi­ tivo, di cui non vergognarsi, da non eliminare. Non è una malattia da cui bisogna guarire, ma è una delle caratteri­ stiche del film, che si elabora certamente come linguaggio, ma che non è un linguaggio che noi possiamo descrivere senza tener conto dei fenomeni, che sono grossissimi, che chiamiamo appunto onirici. Anche il discorso freudiano sul sogno non e mica un discorso irrazionale; è un discorso che tiene conto di fenomeni, di cui il cinema tende a non tenere conto. E. P. — In ogni caso, mi pare che potrebbe essere pro­ duttivo il discorsi di Aprà come un tentativo di prendere coscienza a un altro livello di certi problemi che, seppure ci sono stati, continuano ad esserci. Possiamo usare il di­ scorso di Aprà come una via per uscire da quella prima fase dello psicologismo come paura, come patologia e magari en­ trare in una dimensione più attuale della ricerca. Si tratterà, magari, di usare gli strumenti psicanalitici in un modo un tantino più corretto scientificamente che non quello di vent’anni fa. Almeno in questo senso, mi pare che potrebbe essere un discorso accettabile. E. T. — Senza dubbio sarebbe utile rifare il discorso, proprio per criticare meglio le posizioni degli anni ’50. 143

Vorrei dire anche questo, che lo stesso fenomeno è stato sempre anche quello del teatro: una sala immersa nell’oscu­ rità, uno spazio luminoso entro cui certi personaggi si muo­ vono e certe vicende si svolgono; in questo senso, cinema e teatro hanno la stessa origine rituale — in fondo, e qui ha ragione Aprà, è un bisogno del pubblico questo di im­ mergersi in un mondo diverso dal proprio, che è quello de! rito, dello spettacolo teatrale, dello spettacolo calcistico, del cinema. Questo non significa che bisogna rimanere a questo livello. A. A. — In questo atteggiamento, per cui si qualifica come patologico un certo fenomeno, si tende ad eliminare una cosa che è il piacere, che forse è la stessa cosa che Brecht chiamava divertimento. La critica di tipo razionalistapositivista tende anche ad un certo masochismo, che era una delle caratteristiche del neorealismo italiano, sia come feno­ meno cinematografico, sia soprattutto come fenomeno cri­ tico. Era la tendenza a dire allo spettatore che andare al cinema era in fondo un qualcosa di pericoloso, e che biso­ gnava stare attenti a non lasciarsi andare. Ora, il lasciarsi andare è proprio il piacere, direi fisico, che si prova nei con­ fronti di un determinato fenomeno. Che cosa c’è di perico­ loso nel fatto di provare piacere di fronte ad uno spetta­ colo cinematografico? È questo ciò su cui io mi interrogo: perché chiedere al cinema qualcosa che si chiede al lettore di un testo filosofico, di un testo saggistico (la lucidità cri­ tica, per esempio). C’è poi da vedere se la lucidità critica sia in contraddizione col piacere; normalmente andare a scuola è un atteggiamento che ha in sè qualcosa di maso­ chista, si va a fare qualcosa che non piace, per cui, appunto, colui che ha lavorato tutta la giornata, va poi al cinema per lasciarsi andare, per provare piacere. A me, questo fatto di andare al cinema per provare piacere mi pare una cosa buona, non è una cosa da condannare in sé. Ho la sensa­ zione, nonostante ciò che dice la professoressa Tarroni, che la maggior parte della gente va al cinema per provare pia­ cere, per divertirsi e io in questo non ci vedo nulla di male.

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E. T. — Qualunque cosa facciamo la facciamo per pro­ vare piacere, altrimenti cerchiamo dì non farla; anche leg­ gere un libro di filosofia. Certo non volevo fare del mora­ lismo addirittura di tipo parrocchiale, per cui andare al cinema è un peccato perché al cinema si prova piacere. A. A. — E invece no, perché secondo me, quando il cri­ tico porta avanti certe battaglie (penso a certi film della Italnoleggio, che bisogna difendere per tanti motivi), al fondo c’è un atteggiamento masochista. M. G. — Il discorso di Apra funziona nella misura in cui ha individuato il fatto che l’estromissione di tutta una serie di elementi, che sono dell’esperienza filmica, è deter­ minata dal fatto che l’atteggiamento critico censura. Freud parlava dei disagi della civiltà; noi dovremmo parlare dei disagi della ragione. C’è un certo disagio e c’è quindi il bisogno di censurare perché parliamo del film. Apra prima ha detto: probabilmente enuncio una contraddizione insa­ nabile. In effetti si tratta di una contraddizione, ma è una contraddizione positiva e non è detto che bisogna scioglierla per forza. Esiste questo problema dell’esperienza filmica, che coinvolge tutta la parte inconscia, le pulsioni e così via; però, nel momento in cui noi ci interroghiamo su questa esperienza (ed è un problema che riguarda tutti gli aspetti della nostra vita), nasce il problema della testualità. Apra si chiedeva se esiste e qual’è il testo del film. Certo non esiste un solo testo del film. Esiste il testo così come è stato costruito dall’autore, c’è il testo ricostruito dallo spet­ tatore nel momento in cui si interroga sull’esperienza che ha fatto al cinema. Fin qui, non c’è una contraddizione ma una distinzione di condotte, di comportamenti, di fasi. Ciò che è inquietante, in ciò che ha detto Apra, è questo: se veramente noi scoprissimo che gli elementi di cui Apra ha parlato vengono esclusi perché la comunicazione di massa, e soprattutto il cinema, ha delle caratteristiche molto diver­ se dal resto dell’esperienza... Bisogna interrogarsi su que­ sto: è vero che il film come comunicazione di massa ha delle caratteristiche totalmente diverse, per cui veramente 145

la critica dovrebbe affrontare questo problema? Mi sembra­ va che Aprà dicesse che le carenze della critica cinemato­ grafica razionalista evidenziano, in fondo, il fatto che il cinema ha una sua peculiarità che ancora non è stata fino in fondo studiata; una di queste peculiarità potrebbe essere l’approccio non dico psicologico, ma un’esperienza totale, che metta in gioco anche le pulsioni. In questo senso, la critica continuerebbe a censurare tutta una serie di cose di cui non ha conoscenza. Bisognerà, però, vedere se esiste veramente una peculiarità molto specifica del cinema come comunicazione di massa, al di la del linguaggio stesso del cinema. F. p, — Io stesso nel mio intervento dicevo che un conto è il film-testo, leggibile e analizzabile secondo determinati parametri, un conto è la fruizione di questo film da parte del « pubblico ». È in mezzo a questa distinzione che dob­ biamo cercare, forse il carattere di « popolarità », se vo­ gliamo parlare di cinema popolare. A. A.__ Effettivamente, nonostante mi accosti al cinema non certo come un novizio, ho la sensazione che c è qual­ cosa del cinema che ancora è misterioso. Io parlo di \enomeno magico, non perché sia un fenomeno inconoscibile come tale, ma semplicemente perché mi sembra ancora un fenomeno non conosciuto, che mi pare di poter identificare in questo tragitto tra il film e la testa degli spettatori. E C. — II discorso di Aprà mi pare convincente quando resta a livello di costatazione; diventa invece inquietante quando dice che non ci sono fondamenti per condannare questo atteggiamento del lasciarsi andare, del provare pia­ cere. Apra se riferito a Brecht, ma mi sembra in maniera piuttosto impropria, in quanto mi pare che il concetto brech­ tiano di divertimento non coincide assolutamente con il « piacere » di andare al cinema. Brecht solo una volta cita il piacere estetico e in maniera molto vaga (nel diario di lavoro), assimilabile in certo modo al discorso di Aprà. Per il resto, paria sempre di divertimento come di apprendi­ mento critico e fa un discorso molto precìso; dice che

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il tipo di divertimento adatto alla nostra epoca è proprio la ricezione critica di qualsiasi messaggio. La citazione di Brecht è inoltre utile per un altro discorso. Finora si è parlato di lasciarsi andare, di piacere e via dicen­ do dal punto di vista della passività dello spettatore, ma un grosso elemento che concorre a questa situazione è la costruzione stessa del film. Brecht ha appunto ripreso il concetto di straniamento come meccanismo di costruzione del messaggio. A. A. — Brecht, però, parla del teatro. Il cinema, in questo senso, è un fenomeno direi opposto. F. C. — Tuttavia, proprio rifacendosi alla teoria brech­ tiana, la rivista « Cinéthique » denuncia espressamente la ideologia dell’impressione della realtà: la costruzione del film deve quindi essere fatta mostrando i meccanismi stessi, tecnici, materiali, per impedire l’impressione di realtà. Qual­ siasi film, comunque, vive dell’ideologia preesistente, che è l’ideologia dell’industria culturale. Il piccolo-borghese si ri­ conosce in questa ideologia, proprio tramite il meccanismo di identificazione; il proletario si identifica ma non si rico­ nosce e in questo subisce uno scacco nella sua lotta di classe. G. G. — Penso che il discorso di Aprà vada preso in senso positivamente provocatorio. Probabilmente anche la critica militante ha esasperato l’aspetto dell’analisi del film in senso razionale; e questo in riferimento a quel tipo di critica che cerca di rifarsi a Brecht. L’indicazione s’è vista in maniera un po’ rigida, direi quasi dogmatica. Intanto, perché non è detto che Brecht intenda per piacere un pia­ cere razionale al cento per cento; specie nel Breviario di estetica, in una delle ultime note, tende anzi a recuperare anche la dimensione complessiva dell’individuo. Anche negli scritti teatrali, a proposito del teatro epico, non mi pare che Brecht voglia sostituire con la ragione le pulsioni emotive; dice piuttosto che occorre un atteggiamento sì razionale, ma che al tempo stesso non chiuda nei confronti del sentimento. Penso, in questo senso, ad un 147

autore come Straub. Straub costruisce il film in maniera che lo spettatore possa recepirlo razionalmente, ma nello stesso tempo è alla scoperta di un rapporto, al limite, ero­ tico con i materiali che usa. Non c’è la negazione del mo­ mento emotivo, o se vogliamo, del sentimento, ma c’è una riproposizione in termini diversi. Riferendomi a quel che diceva Contaldo, non credo che una partecipazione emotiva si debba condannare necessaria­ mente da un punto di vista di classe. Una delle cose che va recuperata è proprio il livello della fantasia, che probabil­ mente viene maggiormente negato proprio alle classi subal­ terne. L’immaginazione al potere è una parola molto impor­ tante, in questo senso. Il livello razionale è importante, ma non è l’unico. t . E. T. __ Non credo che si debba fare una distinzione netta tra emotività e razionalità; tutte le teorie dell appren­ dimento oggi parlano di motivazione, e la motivazione è appunto una dimensione emotiva, che fa strettamente parte del processo d’apprendimento. Non vorrei che qualcuno avesse pensato che io volessi parlare di una fruizione del cinema assolutamente asettica. La razionalità al cento per cento non esiste, non c’è proprio questa divisione tra razio­ nalità ed emotività, almeno per quello che oggi sappiamo dei processi d’apprendimento, che implicano tutti i nostri rapporti col mondo. In questo può rientrare senz’altro quel concetto di piacere che introduceva Aprà. È naturale che se non partecipiamo emotivamente al film nemmeno ricevia­ mo la comunicazione filmica a livello razionale. In questo senso, credo che il discorso di Aprà è stato fecondamente provocatorio. Anche Brecht, tanto citato qui, parla di coin­ volgimento e di straniamento, intendendo proprio questo rapporto stretto che ormai da decenni di studi psicologici noi vediamo tra emotività e apprendimento. Noi appren­ diamo attraverso la percezione e la percezione è strettamente legata alla nostra esperienza e quindi a tutta la nostra esperienza emotiva. Su questo non credo che ci siano dubbi. E. F. — Mi sembra che ci siamo concessi, a livello teo­

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rico, una specie di via d’uscita che mi fa pensare al giudizio sintetico a priori kantiano. Emozioni e razionalità non sono cose in contraddizione, ma fanno parte della totalità della persona, ecc. Un’altra scappatoia è quella a cui si è adattato anche Apra, cioè di pensare al cinema come ad un feno­ meno non inconoscibile ma non ancora conosciuto. V. G. — Vorrei riprendere ciò che ha detto Maurizio Grande. Non vedo perché parlare di percentuali di razio­ nalità o irrazionalità o di situazioni irrisolte. È indiscutibile che nel vivere ci sia un groviglio di elementi difficile da sciogliere mentre viviamo; ma che il pensare la situazione vissuta debba essere un fatto razionale, mi sembra altret­ tanto indiscutibile. Non è che stiamo tentando di eliminare le emozioni al cinema o di costruire della gente che va al cinema in modo razionale; è chiaro però che una certa emo­ zione mi è stata data in qualche modo e allora devo cercare di vedere come una serie di contenuti sono stati trasmessi, dunque studierò la forma del contenuto. Del « primo piano » si può parlare, anche se nel mentre la pellicola continua a scorrere. Forse l’intervento di Aprà, che sembrava impostato su un aspetto psicologico, forse è meno psicologico di quel che sembra, perché lo psicanalista fa proprio un lavoro di razionalizzazione, di coordinazione di una serie di eventi vissuti dal paziente a certi schemi, a certi sistemi che lui ha. Per il cinema, il lavoro del cri­ tico è quello di pensare a queste forme di esperienza e di razionalizzarle; ed è un critico che fa male il suo lavoro se pensando ad un’emozione non cerca anche di spiegare perché l’ha provata; non negare le emozioni o il piacere, ma di pensare il perché e quindi indagare i processi attra­ verso i quali si arriva a determinate forme. A. A. — Sono abbastanza d’accordo. Io ho confuso una descrizione dell’esperienza con una riflessione sull’esperienza critica. Probabilmente il discorso che volevo fare è in que­ sti termini: recuperare al discorso critico, che forse è neces­ sariamente razionale^ nel senso che è un ripensamento _suc­ cessivo, quegli elementi che invece vengono censurati. Poi 149

ili flit to rimango fermo al perché questi elementi vengono censurati: perché il discorso che si fa sul film è un discorso fatto come se al cinema non si andasse per provare piacereperché in fondo c’è un residuo moralistico, che da una par­ te censura questo aspetto e dall’altra fornisce una terapia allo spettatore perché in futuro vada al cinema per non pro­ vare piacere. Questa è la debolezza del discorso critico; però che in effetti l’ideale ipotizzabile sia un po’ quello di ana­ lizzare il fenomeno nella sua complessità e che gli strumenti elaborati dalla critica per fare questo siano estremamente deboli, è un punto sul quale mi piace insistere. Cosa dice la critica’di un film che fa piangere o che fa ridere? Fare un discorso sul melodramma... si fa come se il film non avesse fatto piangere: io vedo « Ladri di biciclette » e mi com­ muovo, mi vengono le lacrime, però quando faccio il discor­ so critico, la prima cosa di cui non parlo è questa. Certo e un livello infantile dell’approccio col film (e per questo l’insistenza al legarlo col popolare) ; ma io non ci vedo nulla di negativo, anzi, forse la funzione sociale del cinema e proprio quella di mettere in moto delle pulsioni tipiche dell’infanzia. In questo senso, la psicanalisi, che studia so­ stanzialmente fenomeni dell’infanzia in quanto si trasfor­ mano nell’età adulta, potrebbe essere uno strumento pre­ zioso per il cinema. . . M. G. — Vorrei fare ancora un’osservazione, marginale, circa il problema della memoria. In realtà, ogni volta che si stabilisce anche un frammento di memoria, si stabilisce il testo di un film. Chiedersi qual’è il testo di un film, nel contesto del discorso di Aprà, è una domanda positivi­ stica, come se il testo fosse stabilito una volta per tutte materialmente e come se non si potesse rintracciare se non abbiamo la pellicola davanti. Il testo si stabilisce di volta in volta nello spettatore, è sempre ricostruito nell’interpre­ tazione. Il discorso che fa Lotman sulla cultura come infor­ mazione memorizzata funziona anche per i testi. In fondo, anche per una poesia, per un quadro, ecc. non esiste un te­ sto oggettivo.

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F. P. — Io volevo dire una piccola cosa sulla moviola. Si accennava mi pare alla moviola come ad uno strumento per studiare il film. Indubbiamente è uno strumento utile. Ma non esagererei l’importanza. C’è la possibilità di vedere con più calma il film, però in condizioni notevolmente di* verse rispetto alla sala di proiezione. Anche a voler consi­ derare parzialmente risolto il problema della memoria, rima­ ne sempre il problema di analizzare il materiale; e la mo­ viola non ci risolve certe difficoltà, come quella dell’etero­ geneità deb linguaggio cinematografico. Non c’è spazio e manca il tempo per scrivere Tornerei ora a parlare di certe condizioni materiali, in cui si muove la critica nel contesto delle comunicazioni di massa. Penso a quella specie di confessione di impotenza co­ stituita dalla definizione di Cosulich, il quale parla di « esi­ genze della cronaca ». Sappiamo che il critico del quotidiano è incalzato sempre da un ritmo frenetico, per cui non ha molta possibilità di riflettere: vede un film e ne deve im­ mediatamente render conto, deve stare al passo con l’attua­ lità e contemporaneamente dovrebbe approfondire il di­ scorso critico, si trova ad operare delle scelte, ecc. Ora, ci chiediamo perché in un quotidiano non si riesca a lasciare al critico un po’ di tempo per riflettere. Perché il critico si lamenta sempre che gli manca lo spazio per approfondire il discorso? Questa esigenza della cronaca e, in fondo, della pubblicità legata in modo più o meno mediato alla produ­ zione, io credo che sia uno dei maggiori ostacoli all’elabo­ razione del giudizio critico. Tra l’altro, si tratta di un ele­ mento caratteriale, per così dire, delle comunicazioni di massa, per cui questa specie di paradiso della comunica­ zione che dovrebbero essere le comunicazioni di massa, si riduce ad integrazione del comportamento, proprio per que­ sta presenza cTeT mass-media rispetto a se stessi e quindi la difficoltà quasi-totale di differenziazione interna. Non per­ 151

che vogliamo dare delle comunicazioni di mafia una defi­ nizione italica, ma ingomma, fino a cbe certe contraddizioni interne non ci porteranno a ridefinirlc in qualche maniera, dobbiamo prendere atto di certe condizioni che interagisco­ no al presente. Scusate questo discorso forfè un po’ troppo informale, ma volevo semplicemente riportarlo su un piano meno teorico-generale. A. T. — A proposito della critica dei quotidiani, in Ame­ rica circola l’idea di rendere la critica del giorno dopo semplicemente informativa: il film è questo, dura tanto, tratta di questi temi, si colloca così nell’ambito della pro­ ti azione dell autore, ecc. Si possono dare notizie sulle con­ dizioni in cui è stato girato il film, cosa il regista ha dovuto modificare, tutte cose che permetterebbero al pubblico di farsi un’opinione molto piu libera sul film. Poi, due giorni dopo, salta fuori il critico vero e proprio, il quale ha avuto il tempo di vedersi il film due o tre volte — condizione indispensabile, questa —, Non è un caso che in un festival raramente si dà il premio al film cbe lo vale, si danno dei giudizi assurdi, proprio perché non c’è il tempo di vedere i film con calma. Altra cosa che sarebbe opportuna: che un critico possa ritornare sul suo giudizio una settimana dopo, F, P. Per la verità, qualche volta, capita di leggere di qualche ripensamento da parte dei critici piu attenti, A. T. — Si, ma è molto raro e in ogni caso, dopo aver visto il film una volta, come si può,,, F. P. — Io credo che questo intervento non sia così sem­ plice come sembra. Intanto, fare una critica d’attuahta in­ formativa su un film che si sta facendo o che si è appena fatto, che cosa vuol dire? In qualche modo questo già avviene qui da noi, quando si va sul set, si intervistano gli attori, ecc. Questo è già un piano che noi vorremmo consi­ derare come un piano critico, anche se diverso da quello del giudizio di valore sul film. Tutta la pagina dello spettacolo è critica, in un quotidiano. SÌ tratta di vedere quale critica. In questo senso, la mappa tracciata da Grande potrebbe torna re utile. La proposta di Tassone è da un certo punto 152

di vi »ta significativa, perché già la cloaca, già N informa­ zione » è un modo di (are la critica, in un determinato contento, A.T, — Sarebbe importante, comunque, tagliare la u> sta al toro dei quotidiani, dicendo: prendete tempo prima di scriverne, A volte vedere un film prima di un altro o viceversa, specie nel contesto di un festival, può cambiare il giudizio, l'impressione immediata die uno se ne fa (*f.

(*} Rileggendo le bozze del Convegno, d viene in mente, a (juewo proposito, e a proposito di tutto n discórso sul coodirionanento dd quotidiano He esigenze della cronaca ») una storia nignifkativa. Ri­ guarda il penultimo film di Jean-Maria Straub e Dande HniUet, « Fortini/Cani », uscito alla Mostra di Pesaro od lettembre 76. Il cntico di « Paese Sera », proprio quello delle « eriger della cronaca » iniziava il pezzo compiacendosi del fatto che, dopo tm periodo in cm nei dibattiti pesaresi Cerano da una parte i rivobrrionari e daD’alrra i cinefili, finalmente, « le due dweaonti sodo state corrette e si incorni^ no nel nome dell’immagine. La lettura deUToMn^me, di qnrfio essa significa e rimanda, è divenuta 2 perno nodale della tórre e provoca discussioni non più sterili ». Dopo di che, Fanicoima fonrérr qualche dato sul film, come, ad esempio, 2 rignifiram dev’espres­ sione « cani del Sinai »; come la posstbiliLà di mmxMare « cani » in termini più attuali (gli imperialisti americani); come il coflocamcxito del « Fartini/Cani » neU’ambito della < trilogia » degli autori sulla « questione ebraica », Infine, conclude: « È un film dove la narranone lascia il posto al saggio, dove 2 testo originario viene letto quasi integralmente dallo stesso Fortini (die da matrice trasforma in paesag­ gio), liberando le immagini da qualsiasi obbligo ftaturalisricodescri:tivo, E qui ritorniamo al punto di partenza, cioè al discorso sull’im­ magine. Ma lo riserviamo al momento in cui 'Tortini/Cani” sarà pre­ sentato al pubblico cosiddetto normale. Se mai quei momento d sarà », Trattasi, evidentemente di un riempio di quello che piu sopra abbiamo chiamato film « inutile ». Dopo circa due mesi, comunque, il film esce al Filmstudio, una saletta « off » di Trastevere, che dedica una rassegna a Straub/Huillet. Su « Paese Sera » leggiamo la recen­ sione del cortometraggio su Schoenberg e poi, Fineredibile rinvio: « Per "Forti ni/Cani” rimandiamo i lettori a quanto abbiamo scritto da Pesaro il 20 settembre scorso ». Neanche il lettore maniaco, che mette da parte i ritagli, ha diritto a due parole « sulle immagini >1 Pochi giorni più tardi (7 dicembre 76), esce la recensione del « Mosè

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Xk^rc .'ewrz-Ae dì osserrczìone

G. P.— Bisognerebbe chiarire Pimplidto della proposta di Passone. Di farro, noi d troviamo all’interno dì un conresto di dinamica di simboli, che hanno una rilevanza indiridtide e sociale. E credo che anche il testo critico dovreb­ be essere prodono con la coscienza di inserirsi in questo eoe resto. Più che seguire certi criteri di obbiettività di ana­ lisi. il critico dovrebbe muoversi per trovare una strategia che permetta di operare nella dinamica in cui ci troviamo coinvo’d. Operare, ovviamente, in modo efficace relativa­ mente a determinate motivazioni, a certe strategie, che sono rrtelle del giornale o del gruppo operativo. Cercare di inse­ rirsi a 1 Vinremo di quella « memoria », cui faceva riferimen­ to anche Grande rifacendosi a Lotman; trovare una strate­ gia che ci permetta di produrre un testo che abbia dei rap­ porti adeguati con il contesto. Quanto al discorso di Aprà, ho trovato una certa diffi­ coltà a capire bene a che livello affrontarlo; mi chiedo se Aprà parlasse come semplice fruitore, come operatore turale o come teorico. Comunque, dietro al suo discorso ho e Aronne », proiettato sempre al Filmstudio. Dopo 150 righe su 4 colonne, spese per raccontare più o meno il film, eccoci di nuovo alla dichiaratone d’impotenza: « A questo punto bisognerebbe af­ frontare un altro discorso: come Straub ha affrontato questa materia teologico-musicale con il mezzo cinematografico, quali immagini egli ha usato e in quale rapporto le ha messe con la musica e con le parole. Ma sarebbe tale discorso troppo lungo per Io spazio concesso (per dire questo impiega altre 11 righe, che sommate alle 150 per il contenuto, fanno 161!). Ci limiteremo pertanto a dire che nulla in questo film è lasciato al caso; tutto ha il suo posto prestabilito e il suo significato. Il problema è di sapere quanti saranno in grado di capire o soltanto intuire la logica di tale monumento». Inutile dire che, anche in occasione dell’inserimento del «Mosè e Aronne» nel programma sul cinema epico alla basilica di Massenzio a Roma (set­ tembre 1977), le « esigenze della cronaca » hanno suggerito di ac­ corciare il discorso: « Su "Mosè e Aronne” ci siamo già dilungati nd dicembre scorso,..» («Paese Sera», 16-9-1977),

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notato dei problemi molto importanti. Viene un po’ coin­ volta la concezione del segno, nel senso che la fruizione del film, intesa in questa dimensione psicanalitica, comporta l’inquietudine proprio nella razionalità della concezione co­ municativa del segno, il segno come relazione tra significato e significante. Di fatto, con la linguistica di Saussure, noi spieghiamo i significati, ma non riusciamo a dare il senso specifico, individuale di un discorso. Quindi, il discorso di Apra ci riporta all’esperienza della produzione del senso; questa è una tendenza propria della psicanalisi, che tende ad occuparsi della memoria simbolica non meno individuale che sociale. Alla luce di questa dimensione psicanalitica^ po­ tremmo dire che il discorso semiotico ci sposta dalla parte del fruitore inteso nella parzialità della sua coscienza ver­ balizzabile. Coscienza che poi produce la critica scritta. In­ vece, se intendiamo il fruitore nella sua globalità di con­ scio e inconscio, da un punto di vista semiotico siamo in un certo senso costretti a ipotizzare un codice interno al sog­ getto che fruisce, il quale opera un procedimento di semiotizzazione del film. Questo codice interno è tutto da sco­ prire. Occorre trovare un nuovo criterio di pertinenza La scrittura molto ambigua di Lacan, ad esempio, non fa che sottolineare questa difficoltà di adeguare il linguaggio ver­ bale ad altri ambiti del discorso. Per analizzare la dimensione psicanalitica del film, dovremo inoltre trovare nuove tecniche di osservazione, un po’ come fece Freud per l’ana­ lisi, che utilizzò la tecnica della Ubera associazione. Non so se per il film si può riproporre questo metodo o se vanno inventate altre tecniche. Il problema epistemologico più generale è che qui il frui­ tore è soggetto e oggetto nello stesso tempo; e si crea la necessità di trovare contemporaneamente un criterio di competenza interno al fruitore e un criterio esterno. Quan­ do Aprà dice: è impossibile dare un giudizio distaccato, si può riconoscere una tendenza epistemologica che ci porta ad affermare la necessità di un coinvolgimento nella ma­ teria, anche a livello di ricerca teorica; penso alla corrente 155

lacaniana, con la necessità di rifarsi alla lettera viva del testo. Una certa mancanza di chiarezza teorica, questo proget­ to di una nuova scienza tutta ancora da scoprire, comporta degli spazi d’azione da parte dell’operatore culturale diffi­ cilmente controllabili; se ci muoviamo in una dimensione così difficilmente chiaribile, col discorso del piacere del testo, ci può essere la possibilità di una produzione quasi indifferenziata e può diventare una giustificazione teorica, mai precisa, mai critica. Vorrei fare, ora, una domanda a Maurizio Grande, per sapere se secondo lui una certa capacità del cinema di atti­ vare determinate pulsioni a livello inconscio sia dovuta a delle condizioni materiali (il buio della sala, ecc.) e se non crede che si debba tenere in considerazione un altro aspetto importante, cioè la specialità semiotica del testo rispetto al testo onirico. E. T. — Mi chiedo in base a quali criteri il critico, pri­ ma ancora di scrivere può definire un certo film come un film popolare? C’è forse un decreto ministeriale? Vorrei dire, piuttosto, che stiamo dimenticando di situare il criti­ co in un punto preciso del processo comunicativo. Il critico parla all'autore? oppure si pone tra l’autore e il pubblico? oppure fra l’opera e il pubblico? oppure fra l’opera e l’autore? Abbiamo un quadrilatero con quattro elementi, uno di questi è il critico: dove lo mettiamo? Abbiamo diversi livel­ li, quindi diversi ruoli, quindi diversi linguaggi della cri­ tica. Questo era anche il discorso cui accennava ampiamen­ te Grande. Io ho l’impressione che il discorso di Aprà ci ab­ bia sconvolti un po’ tutti. Lo credevo risolto questo di­ scorso; improvvisamente, come un fantasma che ti riviene su, sento parlare di linguaggio onirico! Per dieci anni ab­ biamo discusso per toglierci dai piedi questo fantasma oni­ rico e ritorna di nuovo! Nel discorso sulla oniricità del linguaggio filmico c’era un equivoco di fondo. Si diceva che il tempo e lo spazio

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cinematografici fossero simili a quelli del sogno, in cui l’in­ dividuo improvvisamente si trova in una barca e poi si trova in una chiesa, ecc. Queste sono analogie puramente esterne, perché il simbo­ lismo onirico è fabbricato dallo stesso individuo e il sim­ bolismo del regista cinematografico è l’operazione creativa di una serie di simboli, che permette al regista stesso di trasmettere dei significati o di tentare di trasmetterli agli spettatori. Poi viene tutto l’altro discorso. Aprà diceva: vorrei capire che cosa passa fra lo schermo e la testa dello spettatore. Per capirlo, bisogna fare un piccolo salto episte­ mologico e passare ad altre discipline; c’è tutta la psicologia della percezione, nonché la psicologia sociale, la teoria del campo, ecc. Il comunicare è sempre un tentativo, mai com­ pletamente riuscito, proprio perché l’esperienza di chi co­ munica e di chi riceve la comunicazione sono diverse. Quel­ lo che si può fare e ridurre al minimo questa smarginatura. Ma se pensiamo che il simbolismo del linguaggio film irò è una ricerca di segni da parte del regista per farsi capire, allora 1 analogia col sogno non esiste più, è puramente esteriore.

Viva i decreti ministeriali! G. — Vorrei fare un intervento molto brutale, per­ ché mi sembra che stiamo girando intorno a dei problemi che hanno il difetto di non essere definiti. Mi ricollego a quello che ha detto la signora Tarroni: facciamo finalmente i decreti ministeriali! Esiste un decreto ministeriale della critica come esiste un decreto della lettura del film, come ne esiste uno della psicologia della percezione. Sono decre­ ti ampiamente descritti da Lotman. Lotman dice che ciò che caratterizza una cultura è il suo atteggiamento verso la segnicità; questo è un decreto ministeriale! I decreti ci sono e sono i modelli culturali, non solo di comportamento, ma modelli della semiosi, della costruzione della significazione 157

più che del significato, quindi la costruzione anche della teoria e della pratica dell’interpretazione. Da questo punto di vista, direi di liquidare non tanto il discorso di Apra, ma certi residui, utilizzando il discorso che fa Mukarovsky sulla inintenzionalità. Il fruitore non è un oggetto, non è una persona, ma è una funzione. È la funzione di lettura, in cui interagiscono elementi intenzionali (struttura significante dell’opera) ed elementi inintenzionali. Non è vero che tutto ciò che non è visto come intenzionale nell’opera viene ribal­ tato sullo spettatore come documento della personalità del­ l’artista; è il contrario, è lo spazio consentito al fruitore per ribaltare sull’opera le sue esperienze, e cioè per costrui­ re un testo. Ora, lo spettatore costruisce un testo, sia riassumendo il testo del film sia costruendo il suo testo personale di let­ tura, dove personale significa funzione della soggettività in una collettività. È qui che Mukarovsky si salda a Lotman. L’inintenzionalità rende quindi ragione di tutta quella par­ te ancora non analizzata ma non inanalizzabile di qualsiasi procedimento semiosico, non solo del film, ma del com­ portamento gestuale e così via. L’intenzionalità e 1 inintenzionalità non hanno niente a che fare né con il conscio né con l’inconscio ma con delle funzioni oggettive di lettura, dell’opera e della lettura dell’opera. Lo spazio dell’inintenzionalità, che potremmo chiamare lo spazio inconscio del­ l’opera, è riempibile di contenuti che sono contenuti for­ mali, che sono i contenuti che una certa civiltà insegna a costruire (e ci rientra benissimo anche la psicanalisi, ma come forma del contenuto). Per rispondere a Perrella, sicuramente ci sono analogie tra psicanalisi e semiotica filmica, ma nel senso in cui ogni volta che la psicanaEsi aggredisce il film fa il discorso psica­ nalitico, cioè non recupera la specificità del film ma la met­ te da parte e fa del film un medium per la psicanaEsi non tanto del film quanto deUa condotta del soggetto che va al cinema. Che cosa si può fare, allora? Un elemento potrebbe esse­

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re quello di analizzare il tipo di semiosi, cioè di costruzione del significato, non tanto di registrazione dei significati, ma costruzione di una teoria della significazione. Se è vero che nel testo filmico c’è una vettorialità che è il senso, questo senso è il testo ultimale del film rispetto a tutto il contesto che ha intorno. Di fatto, noi costruiamo dei testi, che non sono che neutralizzazioni, riduzioni di tutti gli elementi che non ci servono a costruire delle testualità molto precise, che sono vettori di senso. Il discorso è complesso, ma proprio questa complessità è la sua salvezza. Non si può ridurre il rapporto comunicativo a un fatto puramente fenomenico; il fenomeno lo possediamo nel momento in cui ne parliamo e lo riduciamo proprio costruendo un testo, che è il testo dell’interpretazione. Facciamo, quindi, questi decreti mini­ steriali, che sono i testi; i testi rappresentano qualcosa rispetto a tutto ciò che avrebbe potuto essere testualizzato e non lo è, o lo è stato in un altro modo. Arriviamo alla domanda: a chi parla il critico? Il critico non parla a nes­ suno, il critico non esiste più! Il mio tentativo provocatorio della tipologia della critica sta proprio ad individuare que­ sto fatto. Il discorso critico che passa attraverso certe con­ dizioni, ha sostituito completamente la critica in senso kan­ tiano ed ha sostituito anche la testualità. Ciò che effettiva­ mente circola è questa terra di nessuno in cui si stampano queste tipologie. Di fatto non parliamo mai del film. A che serve la semiotica? A questo punto, il discorso si ribalta: a che serve la se­ miotica? Io credo che la semiotica deve fare un passo in avanti. Certo non serve più la linguistica saussuriana; pro­ babilmente serve fino ad un certo punto la semiotica hjelmsleviana, intesa come classe di oggetti, e cioè un’orga­ nizzazione rigorosissima, che non è più semiotica come ag­ gettivo ma è la semiotica, la classe dei rapporti, delle dipen­ denze delle conformità e così via. La semiotica ci può inse-

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cn.ire a scoprire le dimensioni formali, non tanto teoriche quanto proprio formali, di tutto ciò che siamo abituati a considerare come contenuto: i generi, gli stili, i discorsi e addirittura i campi dell’intervento sociale. Ci insegna, forse, a rifiutare il fatto che almeno da venti anni a questa parte si parla dei discorsi e non si parla dei fatti. F. P. — Questo è un discorso molto serio. Entro questi termini si può impostare anche la questione della « popo­ larità »... M. G. — La popolarità non è che la nozione di popo­ larità. F. P. — Per non ricominciare il discorso, devo dire che io tendo a parlare della « popolarità » perché trovo che nel­ la dimensione così vasta, a livello proprio di spazi operativi, in cui opera oggi la « critica », quando si esprime un « giu­ dizio » si entra in un giro comunicativo che non può non essere analizzato contestualmente. M. G. — È più popolare Franco Franchi, di cui la criti­ ca non si è occupata, che non Visconti, di cui la critica si occupa tutti i giorni. F. P. — Per questo parlavo di spazi. Critica è tutto, non è solo la recensione di valore, è anche il terzo di pagina oc­ cupato dall’annuncio dell’uscita del film fra due giorni e così via. Anche quando si dice: dove mettiamo il critico, è un problema in questo senso; dentro una pagina, dove sta la critica? Facciamo l’analisi delle pagine del giornale. M. G. — Siamo senz’altro d’accordo. Fancendo una certa comparazione, arriviamo ad una semiotica della cultura, e non si può non arrivarci. M. G. — Ecco. Qui vorrei parlare di un equivoco che è alla base di un certo atteggiamento sospettoso che i critici militanti hanno nei confronti della semiotica. Si crede che una volta messici sul piano semiotico, di una semiotica della cultura, si debba per questo rinunciare a distinguere il film «buono» dal film «cattivo». Questo è un equivoco; le due cose possono e debbono andare insieme; si tratta di

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superare una certa pigrizia, che impedisce di mettersi in rela­ zione, in contatto, A. T. — Dove mettiamo il critico: mettiamolo prima di tutto in sala, insieme al pubblico. Il critico è uno spetta­ tore come gli altri, che poi deve render conto.,. F. P. — Sì, ma a chi e perché? M, G. — Non vorrei sembrare troppo polemico, ma credo che nella situazione attuale il critico potrebbe scri­ vere di un film anche senza averlo visto, una volta che ha certe informazioni sul soggetto o sulla sceneggiatura, sulla produzione, gli attori, ecc. A. T. — Io volevo esprimermi contro una certa specia­ lizzazione, per cui uno è « condannato » a vedere film. E. T. — Devo dire anche che da certe ricerche risulta che la maggior parte degli spettatori ignora la critica dei quotidiani e sceglie un film per puro divertimento, oppure perché un amico o un parente glielo consiglia. Diverso è il discorso della rivista specializzata, ma lì è un discorso fra i pochi. M. G. — C’è comunque da sottolineare l’importanza che assume la critica di scuderia, per la formazione di teorici, di analisti, di ricercatori. In fondo, è questa veramente l’ul­ tima funzione che ha la critica, cioè attraverso il discorso teorico passa la lettura, l’interpretazione, ecc. F, P. — Leggerei, a questo punto, l’intervento che ci ha lasciato Beatrice Barbalato, la quale non ha potuto essere presente a tutto il dibattito, ma ha voluto ugualmente darci il proprio contributo.

La critica e il suo pubblico B. B. — Sul tema dei rapporti tra « critica » e pubblico mancano inchieste a vasto raggio sulle motivazioni che in­ ducono a vedere un film, uno spettacolo teatrale o a leg­ gere un libro. È in corso una ricerca del « Corriere della sera » condotta attraverso la distribuzione di questionari al 161

pubblico di spettacoli teatrali, di cui non si conoscono an­ cora i risultati. Tuttavia, il rapporto fra critica e pubblico non sembra possa strettamente definirsi in termini socio­ logici, mediante un sondaggio effettuato attraverso un que­ stionario —anche se senza dubbio questo può rappresen­ tare un contributo per chiarire attraverso quale canale il pubblico si orienta nelle proprie scelte — perché il rap­ porto intercorrente tra il critico e il pubblico è un rap­ porto definibile in termini storici, oltreché filosofici e cul­ turali. Conosciamo più o meno tutti quanto la critica abbia inciso nell’affermazione di mode culturali e abbia indirizza­ to le scelte dei lettori. Questa branca della cultura più che altro è stata l’espressione diretta delle varie politiche cul­ turali, di quel sistema normativo dei valori che costituisco­ no la « cultura ufficiale ». Essa può essere, in altre parole, il massimo strumento di libertà ideologica, come all’opposto di asservimento e cieca obbedienza ai regimi. Per questo la definizione del ruolo del critico è una definizione suscet­ tibile di forti connotazioni ideologiche. Non è casuale che negli anni ’50 e poi ancora più chiaramente alla fine degli anni ’60, si rifiuta la critica come mediazione culturale, come prevaricazione di esperienze dirette, si rifiuta nella sua spe­ cifica funzione di direttrice di fenomeni culturali. Negli anni ’50, con l’esistenzialismo francese che rifiuta il giudizio che precede l’esperienza e un certo modo di razionalizzare la realtà; e alla fine degli anni ’60 perché si rifiuta il con­ cetto di delega e perché l’unico leaderaggio accettato è quel­ lo diretto, interpersonale, che scaturisca da una dinamica vissuta in prima persona all’interno del gruppo di cui si fa parte, e in cui l’importante è esserci, vivere nell’esperienza. Oggi sappiamo che un rapporto di questo tipo con i fatti culturali è un rapporto utopico, che nonostante le diverse e critiche concezioni della società di massa, esiste il pro­ blema delle distanze, degli obblighi quotidiani, di tutti quei fattori che condizionano la nostra esistenza umana e che rendono indispensabile la mediazione culturale. All’interno dell’organizzazione culturale di un paese, la funzione del

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critico è importante nel senso che assomma a sé la funzio­ ne di informatore e operatore culturale e che rappresenta un importante tramite nei circuiti della comunicazione. In questo senso vanno chiariti i suoi rapporti all’interno della struttura in cui opera e i rapporti con il pubblico divisibile in termini generici in specialistici e non. Il rapporto oggi esistente fra la critica e i lettori (non parliamo in questa sede della crìtica condotta su giornali specializzati) non è un rapporto basato su una reale media­ zione o rappresentatività del microambiente e del macroam­ biente, ma esprime a senso unico il rapporto che lega l’au­ tore di uno spettacolo al mondo della critica sul quale il macroambiente non ha nessuna incidenza o quasi. Le « impressioni » e reazioni del pubblico sono visibili al critico solo quando fruisce di un film ad esempio in una normale sala cinematografica, altrimenti se si limita a visio­ nare un film in una sala per specialisti, non avrà nemmeno questa opportunità. Comunque, appare chiaro che un rap­ porto fra critica e pubblico, posto in questi termini, è com­ pletamente inesistente; non stabilisce cioè nessuna vera re­ lazione fra sé e le esigenze delle masse. Di questo rapporto mancato sono testimonianza gli articoli che appaiono su ri­ viste e quotidiani, articoli definibili in larga parte impres­ sionistici, perché fortemente impregnati di valutazioni e sen­ sazioni frutto di un approccio individuale alle varie opere. Il termine impressionistico va riferito non tanto al fatto che l’estensore dell’articolo esprime individualmente, cioè da solo, un giudizio o più semplicemente un’impressione, quan­ to al fatto che questo giudizio e quest’impressione sono il frutto di una mutilazione originaria, quella appunto di un mancato rapporto col pubblico. Il suo giudizio è definibile in senso strettamente individualistico per il fatto che egli manifesta nient’altro che il suo gusto, che quasi mai è me­ diato da esperienze allargate che affondino le radici in una conoscenza più o meno profonda di un pubblico, che pos­ siamo in questo caso definire fantasma. I meccanismi che portano alla pubblicazione di questi messaggi possiamo de­

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durre siano più o meno gli stessi (con le dovute varianti) che portano un certo tipo di produzione culturale a dare al pubblico quello che il pubblico richiede e che mercificano ceni prodotto — attraverso varie vie — dal più semplice aì più complesso proprio perché presuppongono il pubblico come qualcosa di già conosciuto e quindi scontato. Natural­ mente il critico fa parte di quelle strutture (quali la stampa, la televisione, ecc.) che già soffrono di per sé di mali decen­ nali. e quindi sarebbe ingenuo tentare di cogliere una real­ tà diversa in un contesto abbastanza noto. Anche in questo quadro generale di condizionamento ci sono le eccezioni, de­ rivanti a mio parere più da processi di autonoma trasfor­ mazione culturale e sodale avvenuta in questi anni in Ita­ lia. che ha determinato il successo di un certo tipo di spet­ tacoli alternativi, e dipendenti molto poco dalle fonti di informazione in sé e per sé, che tuttalpiù hanno fatto da cassa di risonanza. Il rapporto fra i piccoli gruppi che seguono certe forme di avanguardia e le masse (in questa sede genericamente definite) resta piuttosto labile, sebbene, come afferma Mo­ les, è più stretta la relazione esistente fra i creatori di cul­ tura e le masse che non quella esistente fra i gate Keepers e le masse, (cfr. A. Moles, « Sododinamica della cultura », Guaraldi, Bologna, 1971, pag. 399). Ma questo discorso investe più da vicino la controcultu­ ra sviluppatasi dal ’68 in poi, che è allo stesso tempo un fe­ nomeno d’avanguardia politica e culturale e in un certo senso popolare (nel momento in cui si tenta il recupero di certe espressioni tradizionali, oppure si cerca di attuare il decentramento culturale), in cui il mondo della critica en­ tra assai poco e al cui sviluppo ha contribuito in modo assai ridotto. Sottolineo ancora una volta che qui mi riferisco ai più diffusi organi di informazione e non a pubblicazioni specialistiche. Negli organi di informazione più diffusi, il rapporto che lega il lettore all’estensione dell’articolo è un rapporto in qualche modo stabilito a priori: può essere del tipo di quello che lega come saggista e critico cinemato­ 164

grafico Moravia al suo pubblico, o del tipo di quello che lega il lettore affezionato di un quotidiano al critico che vi tiene la sua rubrica. Il rapporto che esiste fra Moravia come critico e il pubblico è un rapporto che arricchisce proprio perché Moravia è un autore nel senso più vero del termine e quindi traspone la sua capacità di analizzare il reale al fatto cinematografico astraendo questo dalla sua specificità. I suoi saggi (possiamo chiamarli così) rappresentano di per sé un senso secondo dell’opera, che aggiunge significato a signifi­ cato. Nel caso di un lettore abituale del quotidiano, egli si trova di fronte a una critica allineata, che quindi a livello formativo non aggiunge nulla al suo modo di porsi di fronte alla realtà. In più va detto, come giustamente sottolinea Grazzini, che accanto alla critica che magari vuole essere « in­ tellettuale », troviamo all’interno della struttura del gior­ nale la pubblicità di spettacoli completamente contrastanti con il discorso ideologico del quotidiano stesso. Ritorniamo, a questo punto, a Moles quando sottolinea l’aleatorietà di un certo tipo di libertà di espressione con­ trastata e contraddetta dal contesto. Constata inoltre Graz­ zini, che ad esempio, in campo cinematografico la critica si rivolge soprattutto ai film proiettati in sale di prima visione, disinteressandosi completamente del cammino suc­ cessivo, che comprende reazioni di un pubblico appartenen­ te a classi sociali diverse. Sarebbe interessante conoscere an­ che la meccanica delle recenzioni e segnalazioni in campo editoriale. In questo occasionale e soggettivo tentativo di inventare le espressioni culturali, pare manchi un criterio finalizzato a vedere nei fatti culturali un vero momento di educazione sociale. Un film, afferma sempre Grazzini, per lo stesso fat­ to che rappresenta un fatto culturale di ampia portata può essere più importante di un fatto di cronaca fine a se stes­ so; spesso invece il film di un autore importante viene an­ nunciato con interviste di carattere cronachistico effettuate sul set, sincronicamente accompagnate da interviste — pre­ senti su riviste a larga diffusione — ad attori, che contri-

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buitcono ad alimentare i miti cinematografici presso il gran­ de pubblico. Afferma G razzi ni che (l’informazione cinema­ tografica..,) non essendo affiancata da una permanente ri­ cognizione delle esperienze periferiche e delle spinte crea­ tive provenienti dalla base, cd esercitandosi soltanto all’apparirc dei film nei locali di prima visione (sicché quando il film raggiunge il pubblico più vasto essa è del tutto devi­ talizzata), la recensione c un servizio dissociato, svolto sulla singola opera mercificata anziché in una visuale totalizzante del fenomeno cinematografico, (cfr. G, Grazzini, Prefazio­ ne alla raccolta di recensioni « Gli anni settanta in cento film », Laterza, Bari, 1976, pag, 4). fi abbastanza chiaro che, se neghiamo all’intellettuale la libertà espressiva intesa in senso scisso e avulso dal conte­ sto sociale di cui fa parte e rivendichiamo un suo ruolo so­ ciale, ancora più valida è questa affermazione per il critico il quale presiede espressamente alla funzione di mediatore. Il suo rapporto con il pubblico non può essere un rapporto di accondiscendenza, ma deve porre al servizio della comu­ nità gli strumenti di analisi di cui è in possesso. Il critico come operatore culturale, in senso gramsciano, ci pare la risposta a questo problema; e se è importante il suo contri­ buto intellettuale — anche come denuncia in un mercato governato prevalentemente da prodotti commerciali — è ancora più importante che sappia educare il suo pubblico ad un’autonoma capacità di analisi. La risposta di Gramsci a questo problema mi pare illuminante: « La elaborazione nazionale unitaria di una coscienza collettiva omogenea do­ manda condizioni e iniziative molteplici. La diffusione di un centro omogeneo di un modo di pensare e di operare omogeneo è la condizione principale, ma non può e non deve essere la sola. Un errore molto diffuso consiste nel pensare che ogni strato sociale elabori la sua coscienza e la stia cultura allo stesso modo, con gli stessi metodi, cioè i metodi degli intellettuali di professione. L’intellettuale è un "professionista” (skilled), che conosce il funzionamento di proprie "macchine” specializzate; ha un suo "tirocinio” e 166

un suo "'sistema Taylor”, ti puerile e illusorio attribuire a tutti gli uomini questa capacità acquisita c non innata, cosi come sarebbe puerile credere che ogni manovale può fare il macchinista ferroviario. È puerile pensare che un "concetto chiaro”, opportunamente diffuso, si inserisca nel­ le diverse coscienze con gli stessi effetti "organizzatori” di chiarezza diffusa: è questo un errore "illuministico”. La capacità delTintellettuale di professione di combinare abil­ mente l'induzione e la deduzione, dì generalizzare senza ca­ dere nel vuoto formalismo, di trasportare da una sfera all’al­ tra di giudizio certi criteri di discriminazione, adattandoli alle nuove condizioni, ecc., è una "specialità”, una "qua­ lifica”, non è un dato di volgare senso comune. Ecco dun­ que che non basta la premessa della "diffusione organica da un centro omogeneo di un modo di pensare e operare omogeneo”. Lo stesso raggio luminoso, passando per prismi diversi, dà rifrazioni di luce diverse: se si vuole la stessa rifrazione occorre tutta una serie di rettificazioni dei singoli prismi. La "ripetizione” paziente e sistematica è un princi­ pio metodico fondamentale: ma la ripetizione non meccani­ ca, "ossessionante” materiale; ma l’adattamento di ogni concetto alle diverse peculiarità e tradizioni culturali, orga­ nando sempre ogni aspetto parziale nella totalità ». (cfr. A. Gramsci, « Gli intellettuali », Editori Riuniti, Roma). A questo proposito ricordo il saggio di Barthes (Criti­ ca e verità), nel quale attribuiva al critico letterario la fun­ zione di decodificatore a diversi livelli dell’opera letteraria. Ma non tengo tanto a sottolineare l’aspetto specialistico del saggio di B. quanto quello più specificatamente semiotico, che attribuisce all’opera un insieme di significati decodifica­ bili a diversi livelli ed attraverso un’infinità di correlazioni, di ricorrenze stilistiche, di dissonanze a cui è sempre aperta la lettura di un’opera. Opera aperta appunto, qualunque essa sia, aperta al senso che i suoi lettori (critici e pubbli­ co) possono individuare in essa sincronicamente e diacroni­ camente in un rapporto di tipo strutturale con la realtà.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Film

d’autore e

Cultura di massa

1 - Prima ancora di affrontare il dibattito sul film d’autore e quindi dare i riferimenti specifici del campo cinematogra­ fico, sarà opportuna almeno una traccia schematica sullo sta­ to della disciplina entro cui si colloca questo lavoro sulla cri­ tica: le comunicazioni di massa. In Italia, le c.d.m. sono og­ getto di ricerca sistematica da circa quindici anni e, dato il persistente fluttuare degli studi da una prospettiva all’altra e da un livello all’altro, è necessario, specie per chi si ac­ costasse per la prima volta a tale ordine di problemi, tener presente il loro carattere composito e interdisciplinare. La bibliografia è sterminata. Ci limiteremo, per quanto possi­ bile, a titoli italiani o in traduzione italiana.

Per un panorama antologico — e ormai storico —- degli studi in ambito mondiale:

Li volsi M. (a cura), Comunicazioni e cultura di massa, Mi­ lano, Hoepli, 1973. Per una discussione sull’utilizzazione di metodologie so­ ciologiche: Bechelloni G., La macchina culturale in Italia, Bologna, Il Mulino, 1974. Rositi F., Contraddizioni di cultura. Ideologie collettive e capitalismo avanzato, Bologna, Guaraldi, 1971. Fabbri P., La comunicazione di massa in Italia: sguardo se­ miotico e malocchio della sociologia, in « VS », n. 5, 1973. 169

Un ventaglio stimolante di possibilità di approccio (psi­ cologia, sociologia, semiotica) è dato, in termini di attualità del dibattito, dall’antologia: Tarroni E., Barbalato B., Calzavara E., Celli E., Pe-

F,, Prospettive attuali negli studi delle comunica­ zioni di massa, Roma, Bulzoni, 1975. cori

Ricordiamo, inoltre, alcuni apporti teorici più generali di studiosi italiani: Eco U., Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964. Eco U., La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968. Braga G., La comunicazione sociale, Torino, ERI, 1969. De Lillo A. (a cura), L'analisi del contenuto, Bologna, Il Mulino, 1971. Bettetini G., Produzione del senso e messa in scena, Mila­ no, Bompiani, 1975. Infine, lo studio, fondamentale dal punto di vista episte­ mologico, anche se non propriamente dedicato alle comu­ nicazioni di massa: Garroni E., Progetto di semiotica, Bari, Laterza, 1972.

2 - Quanto al cinema, possiamo dire che solo lo stato at­ tuale della ricerca lo ha finalmente inscritto con piena per­ tinenza nel campo delle c.d.m. Gli studi di semiotica appli­ cati al linguaggio cinematografico portano infatti a non più misurare le c.d.m. sul filo esclusivo della discriminante este­ tica (il film « bello », il film « brutto ») ed anche ad alleg­ gerire il carico di mitologie e imperialismi che bloccavano il discorso alla famosa dicotomia apocalissi/integrazione. Così, partire dal « film d’autore » per arrivare ad un discorso in termini di cultura di massa, significa un po’ ripercorrere im­ plicitamente la strada che le teoriche cinematografiche han­ no tracciato fin dall’epoca classica. Prima dell’approccio se­ 170

miotico, infatti, il discorso sul cinema, con le debite varia­ zioni e diversità di livelli, è essenzialmente il tentativo di « giustificare » la presenza del film nel contesto della cultura ufficiale e particolarmente in prospettiva estetica. Affrontan­ do anche problemi di « linguaggio », tutti gli autori classici cercano, chi più chi meno, di dimostrare che il cinema ha dei caratteri suoi propri, che lo distinguono dalle altre arti. Con l’importante eccezione dei formalisti russi degli anni ’20 (Ejchenbaum, Tynjanov, Sklovskij) — interessati piuttosto ai rapporti di funzionalità interna al film —, gli studi clas­ sici vanno nella direzione suddetta, da Canudo e Delluc ad Epstein, da Pudovkin ad Ejzenstein, da Balàzs ad Amheim. La preoccupazione di fondo, di trovare per il cinema un col­ locamento fra le Muse, continua negli studi degli anni J50, sia pure con una diversa consapevolezza interdisciplinare (vedi la « filmologia » di Gilbert Cohen-Séat) e con una più approfondita pratica critica (vedi la grande lezione di André Bazin, « padre » della Nouvelle Vague francese); ancora il lavoro « definitivo » — come lo giudica il semiologo Chri­ stian Metz — di Jean Mitry, con i suoi due ponderosi vo­ lumi sull’estetica e la psicologia del cinema, resta nella pro­ spettiva tradizionale.

Non diverso il discorso italiano. I Ragghiami, i Chiarini e i Barbaro, fino alla proposta di « revisione critica » dell’Aristarco (1951), trattano il cinema preoccupandosi di di­ mostrare la sua artisticità. È Galvano della Volpe, con la sua « chiave semantica » della poesia e le distinzioni « tecni­ co-semantiche » dei vari linguaggi, che fa un primo passo verso quello che a metà degli anni ’60, sulla scia dello strut­ turalismo linguistico (in parte utilizzato anche dal Della Volpe), sarà Tapproccio semiologico. Dà l’avvio a questo nuovo indirizzo il francese Ch. Metz con un saggio, apparso nella rivista « Comunications » (n. 4, 1964), intitolato Le cinema-. langue ou langageì-, e subito il dibattito teorico si allarga agli studiosi italiani.

171

I contributi più importanti, dopo lo storico convegno di Pesaro ’67, vengono da Emilio Garroni, da Gianfranco Bet­ tetini e da Umberto Eco. Diamo ora i titoli principali degli autori citati: Kraiski G. (a cura), I formalisti russi nel cinema, Milano,

Garzanti, 1971. Canudo R., L’officina delle immagini, Roma, Ed. Bianco e Nero, 1966. Delluc L., Photogenic, Paris, De Brunoff, 1920. Epstein J., Ecrits sur le cinema, Paris, Seghers, 1974-’75 (2 voi.). Ejzenstein S. M., Forma e tecnica del film e lezioni dì regia, Torino, Einaudi, 1964. Pudovkin V., La settima arte (a cura di U. Barbaro), Roma, Editori Riuniti, 1961. Balàzs B., Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Torino, Einaudi, 1952. Balàzs B., Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1975. Arnheim R., Film come arte, Milano, Il Saggiatore, 1960. Cohen-Séat G., Les problèmes du cinéma et de Vinforma­ tion visuelle, Paris, P.U.F., 1961. Bazin A., Che cos’è il cinema, Milano, Garzanti, 1973. Mitry J., Esthétique et psychologic du cinéma, Paris, Ed. Universitaires, 1963-’65 (2 voi.). Ragghianti C. L., Cinema arte figurativa, Torino, Einaudi, 1957. Chiarini L., Cinematografo (pref. Giovanni Gentile), Roma, Cremonese, 1935. Chiarini L., Arte e tecnica del film, Bari, Laterza, 1962. Chiarini L., Cinema e film. Storia e problemi, Roma, Bul­ zoni, 1972. Barbaro U., Film e fonofilm, Roma, Ed. Bianco e Nero, 1950. Barbaro U., Il film e il risarcimento marxista dell’arte, Roma, Editori Riuniti, 1960.

172

Aristarco G., Storia delle teoriche del film, Torino, Einau­

di, 1951. Della Volpe G., Il verosimile filmico e altri scritti di este­

tica, Roma, Samonà e Salvelli, 1971. AA.VV., Linguaggio e ideologia nel film, Fratelli Calieri Editori, s.i.l., 1967. Garroni E., Semiotica ed estetica, Bari, Laterza, 1968. Garroni E., Progetto..., cit. Eco U., La struttura assente, Milano, Bompiani, 1968. Bettetini G., Cinema: lingua e scrittura, Milano, Bompia­ ni, 1968. Bettetini G., L’indice del realismo, Milano, Bompiani, 1971. Bettetini G., Produzione..., cit. Metz Ch., Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972. Metz Ch., La significazione nel cinema, Milano, Bompiani, 1975. Metz Ch., Langage et cinema, Paris, Larousse, 1971. Da segnalare, fra i più recenti contributi italiani all'ap­ proccio semiotico, Grande M., Appunti per una definizione del ruolo di alcuni

procedimenti formali del film, in « Filmcritica », n. 242243, 1974. 3 - La definizione di « film d’autore » come un « genere » prende l'avvio da un nostro precedente studio, dove lo svi­ luppo delle poetiche classiche appare condizionato dalla ca­ talogazione in generi, operata sui film dell'industria cine­ matografica fin dagli inizi. Da cui la necessità di una riconsi­ derazione metodologica dei problemi di un approccio alla forma cinematografica, alla luce delle ultime istanze se­ miotiche. Pegori F., Cinema: forma e metodo, Roma, Bulzoni, 1974.

173

4 - Sui rapporti tra registi, critica e pubblico nel cinema italiano sono usciti negli ultimi tempi vari contributi, tutti collocabili nell’ambito della militanza giornalistica.

Un certo carattere di organicità, pur nella forma « docu­ mentaria » dell’intervento e del dibattito, hanno, nell’insie­ me, i tre Quaderni del Sindacato Critici (S.N.C.C.I.), pub­ blicati da Marsilio, rispettivamente nel 1972, ’76, ’77: AA.VV., Responsabilità sociali e culturali della critica cine­ matografica. AA.VV., Crtici e autori: complici e/o avversari? AA.VV., La critica cinematografica in Italia', rilievi sul campo. Altri apporti, spesso con spiccato carattere di tendenza e per lo più oscillanti tra lo stile pamphlettistico e il taglio storico: De Sanctis F., Il pubblico come autore. Uanalisi del film nelle discussioni di gruppo, Firenze, La Nuova Italia, 1970. Fofi G., Il cinema italiano: servi e padroni, Milano, Feltri­ nelli, 1971. Brunetta G. P., Intellettuali, cinema, propaganda tra le due guerre, Bologna, Patron, 1972. Torri B., Cinema italiano: dalla realtà alle metafore, Pa­ lermo, Palumbo, 1973. Spinazzola V., Cinema e pubblico. Lo spettatore filmico in Italia 1949-1965, Milano, Bompiani, 1974. Carabba C., Il cinema nel ventennio nero, Firenze, Vallec­ chi, 1974. Miccichè L., Il cinema italiano degli anni ’60, Padova, Marsilio, 1975.

5 - Molti gli scritti su Federico Fellini e su Michelangelo Antonioni. Citiamo alcune monografie:

174

Renzi R., Federico Fellini, Bologna, Guanda, 1956. Solmi A., Storia di Federico Fellini, Milano, Rizzoli, 1962. Pecori F., Federico Fellini, Firenze, La Nuova Italia, 1974. Agel G., Delouche D„ Les chemins de Fellini, Editions

du Cerf, Collection « 7e art ». Salachas G., Fellini, Paris, Seghers, 1963. Carpi F., Michelangelo Antonioni, Parma, Guanda, 1958. Di Carlo C,, Michelangelo Antonioni, Roma, Ed. Bianco e Nero, 1964. Contiene una foltissima bibliografia. Cuccù L., La visione come problema, Roma, Bulzoni, 1973. Tinazzi G, Michelangelo Antonioni, Firenze, La Nuova Ita­ lia, 1974. Leprohn P., Michelangelo Antonioni, Paris, Seghers, 1961.

Prendiamo spunto da Fellini e Antonioni per notare come da qualche tempo in Italia intere collane siano dedicate a monografie sugli « autori » di cinema. Proprio con Antonio­ ni La Nuova Italia ha iniziato, nel ’74, « Il Castoro Cine­ ma », che continua tuttora a ritmo mensile. Più recente­ mente ha preso il via, edita da Moizzi, la « Contemporanea Cinema ». 6 - Il problema dello « stile » è di per sé molto complesso e può essere affrontato secondo diverse ottiche. Giacché Maurizio Grande, accogliendo la mia definizione di « film d’autore », tende a collocare preliminarmente il « genere » tra « merce » e « discorso », ne prendiamo spunto per segna­ lare il saggio: Rossi-Landi F, Semiotica e ideologia, Milano, Bompiani,

1972. La semiotica vi viene utilizzata come strumento di demistificazione ideologica. Quanto al discorso sullo « stile », vedi almeno: Ullmann S., Stile e linguaggio, Firenze, Vallecchi, 1968. Uspenskij B. A., Problemi semiotici dello stile alla luce della linguistica, in Lotman J. e Uspenskij B. A., Semio­ tica e cultura, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975. 175

The Esthetics of language, in Garvin P. L., A Prague School Reader on Esthetics, Literary Structure, and Style, George Town University, 1964. Flammarion, 1971. Quest’ultimo testo è molto ricco di bibliografia.

Mukarovsky

Bisognerà anche tener presente che, nella sua analisi di « Otto e mezzo », Grande utilizza le categorie hjelmsleviane di « sostanza » e « forma » del contenuto, per le quali vedi: Hjelmslev L., I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, Einaudi, 1968. 7 - li richiamo alla necessità, nella lettura delle immagini, del riferimento ad una base codica comune non vuol dire, ovviamente, la linearità e univocità dell’interpretazione. Come ha ben avvertito Emilio Garroni in un breve ma lu­ cidissimo intervento sulla rivista « Bianco e Nero » (n. 2/3, 1972), occorre liberarsi da un malinteso sullo strutturalismo, per cui « laddove giunge l’idea strutturalista, lì il mondo si trasformi in un oggetto rigoroso, perfetto, in un sistema o in una macchina impeccabile. Lo strutturalismo è piuttosto un’ipotesi e un metodo ». Oggi si tende a vedere in un film il combinarsi di più codici eterogenei e, rinunciando a lavo­ rare su un modello « totale », si specificano dei modelli par­ ziali operativi, su di un’ipotesi, appunto, di « pluralismo co­ dice ». La proposta è del Metz della Significazione nel ci­ nema (cit.); lo studioso francese parte dalle considerazioni del Garroni sull’eterogeneità del linguaggio cinematografico (cfr. il cit. Progetto di semiotica}. Anche il Bettetini si muo­ ve attualmente in tale prospettiva (cfr. il cit. Produzione del senso e messa in scena). Rimane, è chiaro, l’istanza co­ noscitiva di fondo, di cui sopra: la necessità di definire espli­ citamente l’oggetto del discorso. Solo sulla base di tale chia­ rimento potremo cercare i codici compresenti nel film dato e ridefinire di volta in volta le pertinenze appropriate. 8

176

- Il discorso su « Deserto rosso », partito da una critica

alla base letteraria del film, ci porta a fare un accenno di ca­ rattere più generale. Sui rapporti tra « cinema e letteratu­ ra » quasi tutti i maggiori teorici si sono espressi, sia nei termini più larghi di un confronto tra film e « opera lette­ raria », sia rispetto al problema « interno » del rapporto tra fase scritta (soggetto e sceneggiatura) e riprese. Citeremo il manualetto bibliograficamente utile: Guidorizzi E,, La narrativa italiana e il cinema, Firenze,

Sansoni, 1973; e l’antologia: Brunetta G. (a cura), Letteratura e cinema, Bologna, Za­

nichelli, 1976. 9 - La discussione sul problema degli « effetti » delle c.d.m., oggi più correttamente intesa come ricerca delle « in­ fluenze », finisce per coinvolgere, come risulta dal nostro se­ minario, temi come quello della specificità del « veicolo », dell’impressione di realtà, fino a toccare la questione del rea­ lismo in arte. Limitamente agli spunti offerti dal testo, cfr.: Tarroni E., Psicologia e comunicazioni di massa, Teramo,

EIT, 1974. McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Sag­ giatore, 1967. McLuhan M., La galassia Gutenberg, Roma, Armando, 1976, Lotman J., L’illusione della realtà, in « Rassegna sovieti­ ca », n. 6, 1973. Brecht B., Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Ei­ naudi, 1973. Brecht B., Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1975 (3 voi.).

Arte e Comunicazioni di massa

10

- Inutile dire che una riflessione sull’arte contempo­ 177

ranea implica temi e problemi di vario ordine e può esten­ dersi a diversi campi della ricerca scientifica. Ci limitiamo qui a seguire una certa linea interna al testo del dibattito, ponendo all’inizio, con valore introduttivo ed anche fon­ dante: Garroni E., La crisi semantica delle arti, Roma, Officina,

1964.

Garroni E., Estetica ed epistemologia, Roma, Bulzoni,

1976. La discussione più recente sull’arte di massa è contenuta nel n. 3/4 della « Revue d’Esthétique », dal significativo titolo:

AA.W., L’art de masse n’existe pas, Paris, Union général d’editions, 1974.

Seguiamo dunque lo svolgimento del seminario. Non se­ gnaleremo testi già citati in note precedenti, pur essendo alcuni di essi collocabili in questa sezione: Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riprodu­

cibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966. Horkheimer M., Adorno T., Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1966. AA.W., L’industria della cultura, Milano, Bompiani, 1969. Morin E., L’industria culturale, Bologna, Il Mulino,. 1963. Marcuse H., L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1967. Baudrillard J., La società dei consumi, Bologna, Il Mu­ lino, 1976. Dorfles G-, Le oscillazioni del gusto, Torino, Einaudi, 1970. Mukarovsky J., Il significato dell’estetica, Torino, Einau­ di, 1973. Brandi C., Teoria generale della critica, Torino, Einaudi, 1974. 178

Freud S., Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio, To­

rino, Boringhieri, 1969 (2 voi.). Vycotskij L. S., Psicologia dell'arte, Roma, Editori Riu­ niti, 1972. Arnhetm R-, Il pensiero visivo, Torino, Einaudi, 1974. Kris E,, Ricerche psicoanalitiche sull'arte, Torino, Einaudi, 1967. Derrida J., La scrittura e la differenza, Torino, Einaudi, 1971. AA.W., Atti del Convegno Nazionale * Stato e tendenze attuali della ricerca sulle comunicazioni di massa, con par­ ticolare riferimento al linguaggio iconico» (Milano, 9-10 ottobre 1970), Milano, Istituto A. Gemelli, 1970. Casetti F., Discussione sull'iconismo, in «VS », n. 3, 1972. Faras sino A., Ipotesi per una retorica dell'immagine foto­ grafica, in « Annuali della Scuola Superiore di Comunica­ zione di massa », n. 4, 1969. Maltese C., Semiologia del messaggio oggettuale, Milano, Mursia, 1970. Raefa P., Semiologia delle arti visive, Bologna, Patron, 1976. De Fusco R,, Architettura come mass-medium, Bari, De­ dalo, 1967. Baldelli P., Comunicazioni di massa, Milano, Feltrinelli, 1974. Abruzzese A., Forme estetiche e società di massa, Padova, Marsilio, 1973. Fubini E,, Musica e linguaggio nell'estetica contemporanea, Torino, Einaudi, 1973. Adorno Th., Eisler H., La musica per film, Roma, Newton Compton, 1975. Cane G., Il consumo della musica, Roma, Armando, 1975Jones L., Il popolo del blues, Torino, Einaudi, 1968. Carles Ph., Comolli J. L., Free Jazz / Black Power, To­ rino, Einaudi, 1973. Gombrich E. H., Arte e illusione, Torino, Einaudi, 1965.

179

Aet^heim R., Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli,

1962. AA.VV., Estetica e teoria dell"informazione, a cura di Eco U., Milano, Bompiani, 1972. Volli U., La scienza e Parte, Milano, Mazzetta, 1972. Dewey J., L'arte come esperienza, Firenze, La Nuova Ita­ lia, 1951. Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, Mila­ no, Il Saggiatore, 1965.

11 - Una fortunata coincidenza vuole che, mentre stiamo compilando queste annotazioni bibliografiche — e siamo giunti alla fine del 2° cap. — esca sul « Corriere della Sera » (11 luglio 1977), in prima pagina, un articolo di Franco Fortini, intitolato Perché è difficile scrivere chiaro; articolo che ben s’inserisce nel dibattito dell’ultimo paragrafo: « Dif­ ficile e facile », nato dal nostro precedente intervento: « Per una critica del film inutile ». Il Fortini parla della scrittura nel quotidiano, ma crediamo che il suo discorso sia trasferibile, entro certi termini, ad altri contesti. « La difficoltà — scrive il Fortini — non sta nelle parole tecni­ che o nei riferimenti culturali inconsueti e neppure nei ragionamenti troppo sottili o troppo concatenati. La diffi­ coltà viene fuori quando si vogliono dire molte cose pre­ cise con poche parole oppure quando si passa da una parola alla successiva senza una ragione subito evidente e senza spiegare tutti i passaggi. (...) In definitiva la vera chiarezza ti viene incontro solo se saprai dare o chiedere quante più ragioni è possibile. Bisogna diventare molto complicati e fare lunghi viaggi mentali ». Un articolo « inutile », dunque.

La

critica televisiva

12-11 discorso sulla critica televisiva rimanda anch’esso a diverse pertinenze, a seconda del campo entro cui il critico

180

preferisce collocarsi. E in ogni modo, implica una visione interdisciplinare. Ciò, ovviamente, nei casi in cui il critico non sia un mero « cronista » e abbia una sufficiente coscien­ za dei risvolti teorici del proprio lavoro. Difficile mettere insieme dei riferimenti ad un livello omogeneo. II mezzo televisivo cerca ancora la sua identità e forse, anche per chi deve svolgere attività quotidiana di critico, il problema mag­ giore è quello di aver chiaro l’oggetto del proprio discorso. Gli studi e le ricerche sulla televisione sono moltissimi Pochissimi quelli sulla critica televisiva. Citiamo, comun­ que, alcuni titoli che possono avere un valore introduttivo. Partendo dal testo del nostro seminario-dibattito, notiamo, intanto, che l’intervento di Ivano Cipriani è basato sostan­ zialmente su: Cesareo G., Anatomia del potere televisivo, Milano, An­

geli, 1970. E su: Cesareo G., La televisione sprecata. Milano, Feltrinelli, 1974. Segnaliamo inoltre: Bellotto A., La televisione inutile, Milano, Edizioni di Comunità, 1962. Colombo F., 1per television, Roma, Cooperativa Scrittori, 1976. Mannucci C., Lo spettatore senza libertà, Bari, Laterza, 1962. Cazeneuve J., I poteri della televisione, Roma, Armando, 1972. Doglio F. Televisione e spettacolo, Roma, Ed. Studium, 1961. Bettetini G., Intervento sul messaggio televisivo, in « Cul­ tura e comunicazione di massa » (I Convegno Y.A.I.A.), Milano, Bellasich e Bossi, 1968. Marotti F., Tecnica ed estetica dell'espressione televisiva, in « Civiltà delle macchine», n. 5, 1961. Eco U., L'esperienza televisiva e l'estetica, in « Rivista di . Estetica », n. 2, 1957. * 181

13 - Alcuni studi sulla critica televisiva: Rositi E. Intellettuali e programmazione televisiva, in

« Contraddizioni... », cit. Fabbri P._. Tlxacci Mannelli G., Busignani Buzzati G., AIassa C., Il telecomizio. Aspetti semiologici e sociolo­

gici del messaggio politico televisivo, Urbino, Montefeltro, 1971. Bel lotto A., La critica televisiva italiana di esercizio gior­ nalistico: temi e tendenze, in « Informazione radio tv », n 11/12, 1972. Eco U.» Per una definizione della critica televisiva, in « In­ formazione radio tv », n. 11/12, 1972.

La

critica cinematografica

14 - Sul cinema, abbiamo già dato ampi riferimenti teo­ rici, sia in prospettiva storica, sia riguardanti gli ultimi risultati della ricerca. Ci limitiamo ora al tema della critica.

Un'utile antologia raccoglie scritti degli anni 1926-34: Pividori B. (a cura), Critica italiana primo tempo: 19261934, in a Bianco e Nero », n. 3/4, 1973.

Un’importante raccolta di materiali per una bibliografia è: AA.W., Il neorealismo e la critica, in « Quaderno infor­ mativo », n. 57, Pesaro, X Mostra Intemazionale del Nuovo Cinema, 1974. A questo Quaderno si possono affiancare gli atti del Convegno sul Neorealismo: Miccichè L. (a cura), Il neorealismo cinematografico ita­

liano, Padova, Marsilio, 1975. Alcuni apporti critici sono indicativi di un metodo consapevolmente fondato su basi teoriche adeguate allo stato attuale degli studi. 182

Un tentativo di definire le coordinate essenziali della cri­ tica cinematografica (oggetti, metodi, luoghi, discorsi) è: Casetti F., Per una definizione della critica cinematografi­

ca, in « Ikon » n. 92/94, 1975. Può fruttuosamente porsi accanto alla « mappa tipologica » di Maurizio Grande (cfr. il testo del seminario).

Infine, un esame degli articoli (non solo di cinema) ap­ parsi negli ultimi anni nella stampa della nuova sinistra: Farassino A., Cinema e spettacolo negli organi di stampa

della nuova sinistra in Italia (1971-1974), in «Ikon» n. 96, 1976. Stimolante, non solo per il tono polemico, il volumetto sul cinema di largo successo commerciale degli anni '50: Apra A., Carajbba C., Neorealismo d‘appendice, Firenze,

Guaraldi, 1976. Sintomatiche di una certa aspirazione della critica gior­ nalistica a sollevarsi su un grado di maggiore sistematicità sono le recenti raccolte di recensioni, già pubblicate via via sui diversi quotidiani e periodici. Sarà sufficiente, questo tipo di operazione editoriale, a riscattare il critico militante dalle cosiddette « esigenze della cronaca »? È comunque necessaria una notevole dose di astrazione per leggere que­ ste recensioni fuori dal contesto della pagina in cui sono originariamente apparse. Grazzini G., Gli anni Settanta in cento film, Bari, Later­

za, 1976. Grazzini G., Gli anni Sessanta in cento film, Bari, Later­ za, 1977. Fori G., Capire con il cinema, Milano, Feltrinelli, 1977. Kezich T., I millefili, Milano, Il Formichiere, 1977.

183

15 - Beatrice Barbalato, nel suo intervento sulla critica e il pubblico, si basa principalmente sul suo: Barba lato B., La controcultura tra radicalismo e integra­

zione, Roma, Bulzoni, 1975.

JB4

INDICE

— Film

d’autore e cultura di massa

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Pag.

Due pretesti per una verifica .... » Discussione su « Otto e mezzo »... » Lo stile come contenuto e come formula » La lettura delle immagini............................. » La finzione come segreto............................. » Discussione su « Deserto rosso »... » La visione del mondo e la costruzione delle inquadrature................................... » Procedimenti ed effetti.................................. » Il problema del linguaggio .... »

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— Arte e comunicazione di massa

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Nuove funzioni e nuovi ruoli .... Uno spunto: il nuovo jazz e la critica Processo comunicativo e verità di lettura Tra piacere e desiderio, una rete di senso Critica come discorso critico . . . L’esplosione della « chiacchiera » L’esperienza di un pittore: Francesco Guerrieri ....................................... » Sperimentalismo e mercificazione ... Il rapporto con il fornitore ....

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Specchio, mio specchio....................................Pag. Messaggio per la massa?..............................» Per una critica del film inutile ... » Difficile e facile.............................................. » La critica televisiva......................................... »

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Le unità di base e le unità di produzione » 103 Conoscenza, critica, militanza .... » 105 Un’indagine sulle rubriche di critica t-v nei giornali............................................... » 110 __ La

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bibliografica..............................

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Film d’autore e cultura di massa . Arte e comunicazione di massa . La critica televisiva....................... La critica cinematografica .

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critica cinematografica

Il giudizio e il canale............................ Le esigenze della cronaca....................... Un fenomeno volgare............................ Il mito della sala oscura....................... Una mappa tipologica della critica . Lo schermo e la moviola....................... Sognare al cinema, provare emozioni Non c’è spazio e manca il tempo per scrivere.............................................. Nuove tecniche di osservazione Viva i decreti ministeriali! . . . . A che serve la semiotica?....................... La critica e il suo pubblico....................... — Nota

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