Che cos'è la religione. Temi metodi problemi 8806170465, 9788806170462

Uno studio che ricostruisce la dimensione storico-culturale dei fatti religiosi alla luce dei profondi mutamenti che que

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Table of contents :
Indice......Page 406
Frontespizio......Page 2
Il libro......Page 403
L’autore......Page 404
Introduzione......Page 3
1. La religione nell’epoca della globalizzazione......Page 10
2. Identità e religione......Page 16
3. Il pluralismo religioso......Page 19
4. La crisi dello Stato laico......Page 21
5. I pericoli del pluralismo religioso......Page 24
6. Postmodernità e studio della religione......Page 27
1. La religione come realtà antropologica......Page 37
2. L’eredità degli antichi......Page 39
3. Una storia naturale della religione......Page 44
4. Religione e religioni: la svolta romantica......Page 49
5. La «Comparative Religion» e le «origini» della religione......Page 51
6. Scienze umane e religione: il caso della psicologia e della sociologia......Page 56
7. La svolta fenomenologica e la fondazione di una Scienza della religione comprendente......Page 67
1. Il paradosso della religione......Page 80
2. Dalla «religio» romana alle Nuove Religioni: cenni di storia di un termine controverso......Page 85
3. Definire la religione......Page 88
4.1. Le origini......Page 92
4.2. Il problema semantico......Page 97
4.3. L’interpretazione del sacro in Durkheim e nella scuola sociologica francese......Page 101
4.4. L’ontologia del sacro......Page 106
4.5. La diaspora del sacro......Page 109
5. Le sfide della comparazione......Page 111
6. Decostruire la religione: l’induismo......Page 115
1. L’«invenzione» delle Scienze delle religioni......Page 129
2.1. La psicologia della religione e lo studio dell’esperienza religiosa......Page 134
2.2. La sociologia della religione......Page 137
2.3. Religione e cultura: l’antropologia delle religioni......Page 140
2.4. Nuovi orientamenti......Page 144
3. Il rapporto con la filosofia della religione e la teologia......Page 148
4. C’è un futuro per le Scienze delle religioni?......Page 154
1. La classificazione delle religioni......Page 173
2. Concezioni pluralistiche del divino: i politeismi......Page 177
3. I monoteismi......Page 182
3.1. Il monoteismo inclusivista......Page 187
3.2. Alle «origini» del monoteismo esclusivista......Page 188
3.3. Il monoteismo come problema politico......Page 191
3.4. Monoteismi a confronto......Page 193
3.5. Monoteismi e violenza......Page 196
4. Dio e il male: i dualismi......Page 198
1. La costruzione dello spazio e del tempo......Page 211
1.1. Luoghi sacri......Page 212
1.2. Il tempo sacro: la festa......Page 219
2.1. L’iniziazione......Page 226
2.2. Riti di iniziazione tribali......Page 228
2.3. Iniziazione e società segrete......Page 235
2.4. Comunità religiose: riti d’ingresso e di espulsione......Page 236
3. Una comunità religiosa in viaggio: i pellegrini......Page 240
4. Memoria e tradizione religiosa......Page 254
1. Violenza e religione......Page 269
2. Religioni e guerre......Page 275
3. Il Dio degli eserciti......Page 282
4.1. Aspetti strutturali......Page 285
4.2. Processi di risacralizzazione......Page 291
4.3. Il fondamentalismo cristiano......Page 294
4.4. Reazioni europee......Page 298
1. Forme del rapporto......Page 310
2. La sacralizzazione della politica......Page 321
3. Religione e democrazia: c’è bisogno di una nuova religione civile?......Page 326
4. Potere e salvezza: figure della teologia politica......Page 330
Appendice......Page 345
Religione in internet......Page 346
Divinazione......Page 347
Magia......Page 350
Mito......Page 357
Preghiera......Page 363
Rito......Page 369
Sacrificio......Page 375
Simbolo......Page 381
Bibliografia generale......Page 385
Indice dei nomi......Page 391
Dello stesso autore......Page 0
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Che cos'è la religione. Temi metodi problemi
 8806170465, 9788806170462

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GIOVANNI FILORAMO CHE COS’È LA RELIGIONE Temi metodi problemi

Einaudi

Introduzione

Lo studio critico della religione costituisce uno dei capitoli piú affascinanti, ma anche meno noti e frequentati della nostra tradizione culturale. In parte ciò dipende dalla complessità stessa della religione, una «realtà» culturale proteiforme, il cui volto sfuggente si riflette continuamente, per essere colto e interpretato, nello specchio di realtà – sociali, psicologiche, antropologiche – che religiose non sono. In parte ciò è dipeso dalla storia stessa di questi studi, che non possono essere racchiusi unicamente nel pur decisivo perimetro della riflessione critica occidentale di tipo illuministico, dal momento che molto piú numerose sono in realtà le epoche e le culture che si sono interrogate sulla complessità di quel fenomeno che la nostra tradizione culturale si è abituata a definire religione. Ma forse il motivo piú profondo sta nella vitalità incontenibile dello stesso fenomeno religioso, che oggi si impone in modo perfino troppo vistoso. Quando chi scrive incominciava i suoi studi iniziandosi ai «misteri» della storia religiosa, signoreggiava la «teologia della morte di Dio», La città secolare di Harvey G. Cox era un best seller, si moltiplicavano i convegni sull’ateismo, insomma trionfava la tesi sulla secolarizzazione e sul disincanto, sul tramonto definitivo della religione o, al piú, sulla sua ghettizzazione nella sfera del privato. Un libro come questo sarebbe stato rifiutato da molti editori, anche prestigiosi, adusi ormai a confondere religione con superstizione. Oggi viviamo «dopo la secolarizzazione», «in Dio» confidano non solo Bush, la sua cricca e milioni di americani, ma anche coloro che sono ritornati ad uccidere «in nome di Dio». Le religioni sono al centro dell’attenzione per motivi complessi e contrapposti, ma alla fine convergenti. Ci si è resi meglio conto che, non solo nel passato piú o meno lontano e nelle società premoderne, ma anche nella sofisticata e tecnologica società postindustriale,

la religione è una realtà culturale d’importanza decisiva, dalla cui comprensione dipende una migliore intelligenza del mondo in cui viviamo. Parlare di religione non significa, naturalmente, voler ignorare che essa si manifesta prima di tutto nella vita di concrete realtà storiche: le religioni. A prescindere, d’altro canto, dal modo in cui si decide di definirla (o di non definirla), la religione costituisce l’ordito della trama infinita intessuta dalle religioni storiche. Quel che qui si propone è di riflettere su questo ordito, di metterne in luce alcune caratteristiche, a cominciare dal modo stesso in cui esso è stato (ri)costruito dalla nostra tradizione di pensiero. Soltanto in questo modo diventa possibile decifrare, anche in una società cosí secolarizzata come la nostra, la parte importante che valori e dimensioni religiosi, profondamente sedimentati nel nostro terreno culturale, possono continuare a recitare negli attuali scenari globalizzanti. La prospettiva particolare che il libro intende offrire si richiama a una tradizione culturale affermata all’estero, ma che da noi stenta ad attecchire: quella delle Scienze delle religioni. Merita, a questo proposito, rilevare un mutamento recente nel nostro sistema d’istruzione superiore. La legge di riforma dei cicli universitari, che ha istituito un ciclo di laurea triennale seguito da un ciclo di laurea specialistica, ha recato un’importante novità per chiunque si occupi di studi religiosi in Italia: l’istituzione di una laurea specialistica in Scienze delle religioni. La novità consiste nel fatto che per la prima volta nel nostro paese è ora possibile specializzarsi, secondo modelli di organizzazione del sapere religionistico largamente praticati all’estero, unendo una rigorosa preparazione storico-filologica con un’apertura multiculturale e multidisciplinare al passo coi tempi. Quanto all’importanza, essa risiede nella possibilità di sostituire una divisione del lavoro scientifico, fondata su rigidi steccati disciplinari e improntata a pericolosi e improduttivi parrocchialismi, con forme di collaborazione tra le varie discipline interessate allo studio critico dei fatti religiosi. Il libro ha in questo mutamento istituzionale una non contingente motivazione. Anche se la situazione universitaria italiana, d’altro canto al pari di quanto sta avvenendo in altri paesi europei, sta conoscendo una crisi profonda, che ne minaccia la vocazione alla ricerca soprattutto nel settore umanistico in conseguenza di una generale restrizione dei fondi, da cui non si vede al momento via d’uscita; e anche se la fluidità che la caratterizza, al pari

di altre istituzioni continuamente in crisi d’identità, non permette d’immaginare per il futuro scenari sicuri, l’occasione offerta dalla nuova laurea specialistica sollecita a tentare un viaggio in questo mare tormentato e privo ormai dei tradizionali confini accademici relativi allo studio critico della religione, offrendo una mappa, per quanto provvisoria, di un territorio cosí sconfinato. Oggi esistono, soprattutto in inglese e in genere per il vasto pubblico che affolla le aule dei numerosi Dipartimenti di studi religiosi delle università nordamericane, varie guide, anche di buon livello, alle Scienze delle religioni (Taylor 1998, Braun e McCutcheon 2000, Kippenberg e Von Stuckrad 2003). Si tratta però di strumenti, talora anche raffinati, che riflettono in genere una tradizione e una situazione di studi profondamente diverse dalla nostra, in cui, ad esempio, il multiculturalismo recita una parte decisiva sia a livello degli studenti sia dei docenti. Non esistono infatti in Italia situazioni, come quelle tipiche di molte università statunitensi, in cui ad esempio uno specialista di religioni dell’Estremo Oriente, in genere bianco, cristiano e maschio, si trovi ad insegnare – se è un indologo – a classi composte in prevalenza da giovani provenienti dal sud del continente indiano, che gli pongono e gli impongono di ripensare radicalmente i fondamenti stessi del suo sapere, dell’autorità su cui esso si è costruito e continua a perpetuarsi, e cosí via. Anche se l’onda lunga delle conseguenze decostruttive del postcolonialismo non è lontana dalle nostre rive universitarie, i problemi con cui ci si deve confrontare nello studio delle religioni paiono, nelle nostre università, abbastanza diversi. Mentre i Dipartimenti di studi religiosi nordamericani, sviluppatisi con rapidità impressionante a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, devono oggi, nella crisi indotta dal taglio delle risorse finanziarie, giustificare la loro esistenza cercando motivi teorici e pratici che legittimino, agli occhi dei potenziali finanziatori in genere privati, sia l’utilità pratica e la ricaduta sociale di questo tipo di studi sia il loro fondamento teorico, l’università italiana si trova, per quanto riguarda questo settore di studi, all’inizio del cammino: costruire percorsi specialistici che riuniscano le varie discipline che si occupano di fatti religiosi. Ma su che base teorica e metodologica? E come costruire questo nuovo campo disciplinare? A partire da quale concetto e da quale definizione di religione? E da quale concetto di scienza?

Questi interrogativi, d’altro canto, a cui molti altri se ne potrebbero aggiungere, vanno oggi ben al di là dell’asettico campo accademico. Essi coinvolgono tutti coloro, credenti e non credenti, desiderosi di ripensare la propria fede o di comprendere, nonostante il proprio agnosticismo o ateismo, perché la religione continua pervicacemente a costituire un fattore essenziale delle nostre culture secolarizzate. Ed è tenendo a mente queste esigenze prioritarie che si è deciso, nella seconda parte del libro, di ricorrere ad esemplificazioni legate a temi oggi scottanti come violenza e religione o religione e politica. Un’introduzione allo studio della religione in prospettiva scientifica è, per natura, un’impresa collettiva: troppi i saperi in gioco perché un singolo possa pensare di controllarli in modo adeguato. E in effetti, in una precedente occasione, chi scrive ha preferito agire in questo modo, coordinando un team di specialisti (Filoramo 1992). Perché oggi si è preferita una navigazione solitaria? La risposta sta nello scopo che il libro persegue: tentare di disegnare una mappa di un territorio metodologico ed epistemologico in buona parte nuovo sia per il pubblico colto sia per quello universitario italiano, in grado di mediare tra i profondi cambiamenti intervenuti in questo settore di studi negli ultimi anni all’estero e una situazione italiana che, per vari motivi, continua a coltivare giardini specialistici sovente anche belli, ma che rischiano di non mettere in grado di affrontare le molteplici e radicali sfide che vengono dal mondo esterno. Si tratta di un viaggio esplorativo non affidabile a un gruppo di lavoro per quanto affiatato, dal momento che richiede scelte dolorose e radicali, allo scopo di delineare il tracciato di un’area variegata e in buona parte inesplorata. Il lavoro tradizionale, essenzialmente storicofilologico e letterario, che costituiva il bagaglio di base dello studioso dei fatti religiosi, se non vuole conoscere la deriva che caratterizza tutto l’asse della formazione umanistica, deve essere criticamente riesaminato ed eventualmente integrato da competenze, teorie e metodi provenienti da altri settori disciplinari. Vale per lo studioso della religione lo stesso discorso che ha caratterizzato, con crisi anche drammatiche, la formazione dello storico tout court nella seconda metà del Novecento. Per continuare a vivere, il tronco tradizionale e insostituibile della formazione storico-critica ha dovuto conoscere nuovi fecondi, ma anche difficili e problematici innesti, confrontandosi in modo dialettico con la panoplia delle varie scienze umane.

Ugualmente, oggi diventa indispensabile per lo studioso della religione, e cioè di una realtà antropologica complessa quanto è complesso l’uomo, apprendere a confrontarsi con una pluralità di metodi, che vanno dalle scienze umane tradizionali (sociologia, psicologia, antropologia) alla linguistica e alle scienze cognitive, per non dire dei piú recenti sviluppi del pensiero filosofico, dominato dalle correnti decostruzioniste. Molte sono le domande che la lettrice o il lettore troverà inevase in questo libro. Non ne voglia all’autore. La religione è una realtà troppo ricca per poter essere spiegata, seppur in modo sintetico, in una introduzione e, di conseguenza, per poter pretendere una risposta, per di piú esauriente e convincente, alle mille domande che essa provoca. A un interrogativo, però, che è inevitabile porsi e al quale mi piacerebbe avere una risposta convincente, che oggi diventa sempre piú impellente, vorrei accennare a mo’ di conclusione: c’è un’utilità, e in caso di risposta affermativa quale, nell’iniziarsi a uno studio scientifico della religione? Domanda tanto piú drammatica e che richiede urgentemente una risposta se si tiene conto del ruolo pubblico che gli studiosi, pretesi o reali, di questo campo disciplinare tendono ad acquisire come esperti da cui si esige una risposta chiara e sicura su tragiche questioni e, soprattutto dopo l’11 settembre statunitense e l’11 marzo madrileno, sulle situazioni di conflitto piú attuali e preoccupanti, in cui la religione recita una parte enigmatica, ma centrale. Proprio quest’accresciuta visibilità pubblica degli studiosi di Scienze delle religioni, mentre conferma l’importanza che questo tipo di preparazione ha acquisito sul mercato massmediatico e delle pubbliche relazioni, solleva un interrogativo di fondo a cui questo libro, seppur indirettamente, cerca di dare una risposta: se è necessario, per la stessa sopravvivenza di questo campo disciplinare, radicare questi studi sempre piú nel presente, nella sua comprensione e nella sua interpretazione, non si rischia, pigiando l’acceleratore dell’attualità, di perdere il meglio della tradizione umanistica su cui essi si fondano? Inseguire a tutti i costi i problemi dell’agenda politica non rischia di appiattire tutto in una dimensione indistinta ed effimera, priva della possibilità di riflettere sulle cause, sulle radici storiche, sulle profondità del passato nei suoi legami con l’oggi? Per questo, dopo un primo capitolo, dedicato ad individuare i tratti ritenuti essenziali nel mutamento di paradigma interpretativo che la deriva

decostruzionista, nella sua critica radicale al soggetto, ha operato anche su piú piani nei confronti della religione e dei metodi per indagarla, il secondo capitolo fornisce un quadro sintetico delle origini illuministiche delle Scienze delle religioni, del loro successivo costituirsi come campo disciplinare autonomo nel corso dell’Ottocento, dei cambiamenti principali conosciuti nel corso del Novecento. Il terzo capitolo affronta alcuni nodi teorici fondamentali, come la definizione della religione, le sfide della comparazione, la complessità del sacro. Nel quarto capitolo, vengono presentate la situazione contemporanea delle differenti Scienze delle religioni (sociologia delle religioni, psicologia della religione, antropologia delle religioni), le difficoltà che questo tipo di studio sta conoscendo, le nuove prospettive e problematiche emerse in questi ultimi anni. I capitoli che seguono espongono alcune tematiche oggi al centro del dibattito disciplinare: monoteismi e concezioni del divino; funzioni del religioso; violenza e religione; religione e politica. Per venire incontro ad eventuali esigenze di approfondimento, ogni capitolo comprende delle bibliografie ragionate. In Appendice il lettore troverà un’informazione essenziale su religione in Internet e un vocabolarietto di base dei principali concetti delle Scienze delle religioni non trattati nel libro (divinazione, magia, mito, preghiera, rito, sacrificio, simbolo), desunto dal Dizionario delle religioni curato dallo scrivente per Einaudi, con una bibliografia essenziale.

CHE COS’È LA RELIGIONE

Capitolo primo La religione e le sfide della postmodernità

1. La religione nell’epoca della globalizzazione. Un’introduzione allo studio della religione in prospettiva multidisciplinare presuppone un accordo, per quanto minimo, temporaneo e problematico, sull’oggetto stesso dell’indagine: la religione. Annosa questione, quella della definizione della religione, cui è consacrato un capitolo, il terzo, che conviene però sin d’ora tenere presente in un suo aspetto particolare. A partire, infatti, da quando, in epoca moderna, si è costituito un concetto di religione teso a definire l’aspetto o gli aspetti ritenuti essenziali di un tipo particolare di esperienza antropologica e delle sue espressioni sia individuali sia sociali, ogni epoca ha in fondo elaborato concetti diversi di religione nello sforzo di coglierne mutamenti e continuità. Diventa dunque inevitabile, anche se in modo per forza di cose cursorio e sintetico, iniziare la nostra presentazione con qualche riflessione sul modo in cui attualmente si configura, comunque si decida di definirlo, il fenomeno religioso. È difficile, per chi oggi si accosta allo studio scientifico della religione e delle religioni, immaginare la situazione radicalmente diversa che si trovavano di fronte coloro che si accostavano a questo campo di studi una generazione fa. La religione sembrava appartenere a un passato sempre piú lontano, un relitto archeologico sempre piú invisibile nel presente, senza prospettive per il futuro, che rimaneva vivo in zone marginali del pianeta, le cui glorie passate, affidate al paziente studio degli specialisti, sempre meno parlavano ai piú giovani. Consacrarsi allo studio del passato religioso dell’umanità, in Italia, in una prospettiva prevalentemente di tipo storicoletterario e monumentale, poteva apparire o un corollario di posizioni di fede o una scelta bizzarra, guardata con malcelata ironia. La situazione oggi non potrebbe essere piú diversa. Nelle sue varie manifestazioni, dalle piú pacifiche

alle piú violente, la religione non è piú un oggetto di studio per pochi spiriti eletti, amanti dell’esotico o al servizio piú o meno mascherato della propria fede. Uscita dal ghetto della privatizzazione, essa è ritornata ad essere un fattore d’importanza pubblica e di rilevanza sociale. I processi immigratori, che stanno trasformando con una rapidità impressionante il volto dell’Europa, parallelamente alla crisi dello Stato laico e nazionale, hanno fatto riscoprire la centralità della religione come fattore identificante di gruppi e comunità. Limitandoci a sottolineare soltanto un aspetto di questo gigantesco processo di riplasmazione culturale che è sotto gli occhi di tutti, l’Europa cristiana si scopre ogni giorno di piú popolata da milioni di immigrati di fede islamica, svelando il volto di un islam europeo a sua volta in mutamento, che esige a vari livelli, dalle amministrazioni pubbliche alle politiche formative, una conoscenza approfondita di una realtà religiosa per lo piú ignota al grande pubblico (e a chi lo amministra). Di qui l’interesse crescente dei mass media per la presenza sul suolo europeo di tradizioni religiose diverse da quella cristiana, dal buddhismo e dall’induismo alle forme variegate della religiosità alternativa. Di qui anche curiosità e domande in un pubblico giovanile sempre piú privo di un’educazione e di una cultura religiosa, che erano state, pur con tutti i loro limiti, in qualche modo appannaggio delle precedenti generazioni cattoliche; pubblico che guarda in modo nuovo al mondo del pluralismo religioso in cui è sempre piú destinato a vivere. Di qui, infine, compiti nuovi per gli enti preposti alla formazione e alla trasmissione del sapere, non piú solo a livello nazionale, ma europeo. Basti pensare all’importanza, nella costruzione di una paideia del futuro cittadino europeo, del ruolo che dovrà essere attribuito alle Scienze delle religioni come bussola cognitiva necessaria per orientarsi nel mare periglioso di una multiculturalità che investe prima di tutto la scuola e gli insegnanti: non è difficile prevedere che la conoscenza del fatto religioso, nella molteplicità delle sue forme, si rivelerà un punto nevralgico del bagaglio conoscitivo da formare per consentire la costruzione del sé e della propria identità in un tempo di grandi mutamenti e di pluralismo religioso. Al mutamento soggettivo della percezione individuale e collettiva della religione si accompagna la parte diversa che la religione è chiamata a recitare nella società della tarda modernità. Le religioni, infatti, si trovano oggi a vivere «oltre la secolarizzazione» (Casanova 1994), nell’epoca della

globalizzazione. Intesa come quel complesso processo, tipico soprattutto dell’Europa, in conseguenza del quale in epoca moderna la religione ha perduto importanza politica e pubblica per trasformarsi in un fenomeno essenzialmente privato, nella religione dell’individuo celebrata nel sacrario della propria individualità (Rémond 1998), la secolarizzazione appare oggi un fenomeno del passato, se pur di un passato recente. Questo paradigma, che ha dominato le interpretazioni del fenomeno religioso del Novecento a partire dalla famosa tesi di Weber sul disincanto del mondo, si è rivelato infatti, negli ultimi due decenni del secolo scorso, incapace di dar conto delle trasformazioni epocali che il fenomeno religioso stava conoscendo. Anche se i processi di secolarizzazione incidono e continueranno ad incidere sulle religioni tradizionali, dal cristianesimo all’islam, di fatto vige oggi un consenso sempre piú esteso secondo il quale la secolarizzazione come metanarrativa del moderno non è piú in grado di render conto di un fattore nuovo e decisivo: la rinnovata centralità pubblica e le rinnovate funzioni sociali delle religioni. Quello a cui oggi si assiste – e prevedibilmente si continuerà ad assistere nei prossimi anni – è un gigantesco processo di riformulazione e adattamento del religioso come dimensione privata ed individuale e della religione come fattore istituzionale alle trasformazioni epocali della società della tarda modernità, indotte sia dalla rivoluzione tecnologica e massmediatica sia dai processi di globalizzazione. Per un verso, la rivoluzione tecnologica (Castells 1996), mutando le categorie spaziotemporali della comunicazione, ha inciso in modo radicale, anche se non sempre a prima vista percepibile, sul modo stesso di strutturare il messaggio religioso e la sua comunicazione (Lyon 2000). Per non portare che qualche esempio, mentre oggi gli ebrei possono mandare le loro preghiere al Muro del pianto via fax da tutte le parti del mondo, i satelliti delle telecomunicazioni collegano comunità religiose situate ai limiti estremi della terra che una volta sarebbero rimaste isolate: il tempo, anche per esse, si è enormemente accelerato, dal momento che la comunicazione può aver luogo in tempo reale. Un primo elemento che incide profondamente sulla situazione religiosa attuale è dato dunque dal peso crescente, anzi determinante, dei moderni mezzi di comunicazione. Che dire poi del rapporto tra religione e Internet? Si tratta di un fenomeno recente, ma già

impressionante, al punto che si può ormai parlare di una vera e propria religione sia in rete (un aspetto tecnico-pratico sul quale ritornerò e dal quale ormai non possono prescindere le Scienze delle religioni) sia della rete. Tutto ciò non è privo di conseguenze significative. Poiché, nella società della comunicazione, il messaggio spesso e volentieri coincide col fatto stesso di comunicare (o, nel caso della televisione, di apparire), ne risulta profondamente trasformata la stessa natura del messaggio religioso. Per un altro verso, la globalizzazione, in quanto esplosione delle barriere culturali, mette a nudo quei conflitti di cui soffre ogni società, minacciando nel contempo le identità storiche, e accentuando relatività e contingenza. Con gli adattamenti del caso, lo stesso può dirsi per quelle identità collettive tradizionali che sono le religioni. Si pensi, per limitarci al caso europeo, alla rinnovata funzione d’identificazione etnica delle religioni nelle molte situazioni di disintegrazione della fittizia unità politica, dai Balcani all’ex Unione Sovietica, con le tragiche e ben note conseguenze. La globalizzazione non lascia indenni nemmeno le grandi organizzazioni religiose come la Chiesa cattolica, per definizione istituzione «universale» abituata a conservare la propria identità, continuamente messa alla prova dal confronto con le differenti religioni e culture incontrate nella sua espansione missionaria, ancorandola alla roccia immutabile della tradizione. Oggi questo modo di conservare l’identità, che è riuscito a resistere ai processi secolarizzanti, si trova di fronte sfide nuove rappresentate dalla religione in rete, dal dilagare di forme di comunicazione non facilmente assimilabili, dall’esplodere di modalità emozionali di cristianesimo come le forme pentecostali caratteristiche del cosiddetto «cristianesimo del sud», soprattutto dal venir meno, nella cultura dell’attimo che sta riplasmando le tradizionali categorie spaziotemporali, di ogni forma di memoria culturale, potente fattore tradizionale dell’identità religiosa. La letteratura sulla globalizzazione ha in genere trascurato i rapporti con la religione e le religioni e l’analisi delle loro reciproche relazioni. Si tratta di un fenomeno che merita qualche considerazione, se si pensa che all’inizio del Novecento, nell’epoca della prima globalizzazione, studiosi come Durkheim e Weber, fondatori dell’interpretazione sociologica della religione, riflettevano su di essa, certo in una prospettiva eurocentrica, ma avendo ben a mente l’aspirazione universale delle religioni universali o Weltreligionen. Tra i vari

fattori che contribuiscono a spiegare questa posizione marginale, uno merita in particolare di essere ricordato: l’attenzione che le varie teorie hanno avuto per la dimensione oggettiva del fenomeno, per una globalizzazione, cioè, intesa come intreccio di fattori economici e politici interdipendenti a livello globale, come compressione del mondo, del tempo e dello spazio in funzione della formazione di un campo unico globale e, per converso, la relativa trascuratezza con cui si è guardato agli aspetti e alle conseguenze soggettive di questo processo; di conseguenza, la scarsa attenzione prestata al fattore religioso nella sua dimensione privata, centrale invece nelle teorie della secolarizzazione. Il mutamento profondo che il campo religioso ha conosciuto in questi ultimi anni ha messo in moto un duplice processo di revisione di questa prospettiva. Per un verso, va sottolineata l’attenzione crescente che certi interpreti dei processi globalizzanti come Anthony Giddens hanno portato, allo scopo di scandagliarne gli effetti anche in questo campo, verso la sfera intima dell’individuo: Noi siamo la prima generazione che vive in un ordinamento post-tradizionale di dimensione cosmopolita. Ciò significa che anche i vecchi confini tra il pubblico e il privato non sono piú un riparo, si creano nuove reti e monopoli della comunicazione, da una parte e dall’altra del mondo (Giddens 1999, trad. it. p. 317).

Il rimescolamento delle carte per quanto riguarda le relazioni tra sfera pubblica e privata, non piú dualisticamente separate, ma entrate in un cortocircuito tipicamente postmoderno dagli effetti imprevedibili, ha naturalmente inciso anche sulla religiosità degli individui e precisamente sulle modalità di intendere e praticare l’individualismo religioso tipico della tarda modernità. Si pensi, per non portare che un esempio, alla crescente rilevanza pubblica acquisita in questi ultimi anni da questioni, legate spesso a problemi di bioetica, un tempo confinate nei recinti della coscienza e oggi, grazie anche al crescente peso delle agenzie religiose nelle questioni etiche, sempre piú al centro dell’attenzione dei mass media. In questo modo, la globalizzazione finisce per incidere in modo determinante non solo sulla collocazione della religiosità individuale e privata – ora intrecciata in modo ineludibile col mutare generale dei rapporti tra pubblico e privato – ma anche sulla sua strutturazione e centralità.

Per un altro verso, in modo parallelo alle trasformazioni della religiosità individuale, anche le religioni tradizionali hanno conosciuto un mutamento profondo, tornando ad essere fattori significativi della sfera pubblica. Come ha felicemente sintetizzato il sociologo americano Roland Robertson, con un’utile indicazione di metodo che risulta sostanzialmente disattesa: … in un mondo sempre piú globalizzato, questioni riguardanti forme di identità a livello di società aumentano d’importanza, in larga misura a ragione dell’incremento di interdipendenza globale e del concomitante processo di relativizzazione delle identità tradizionali. È quasi inevitabile che nel contesto della globalizzazione la religione abbia un ruolo molto significativo nella costruzione e ricostruzione delle identità societarie e di altro genere, e lo faccia in stretta connessione o concorrenza con le agenzie politiche. In termini piú generali l’attenzione sociologica dovrebbe essere rivolta alla risposta delle tradizioni e dei movimenti religiosi al fenomeno della globalità come tale (Robertson 1987, pp. 31-32).

Per Robertson, uno dei pochi sociologi ad aver trattato con sistematicità il tema del rapporto tra religione e globalizzazione, la religione – da lui concepita come espressione tipica culturale, secondo il modello funzionalistico dei cultural studies, di una cultura che diventa globale – si qualifica per il suo coinvolgimento, il suo contributo, la sua partecipazione al processo di unificazione del globo. Piú specificamente, la religione globalizzata è una religione che tende a realizzare una dialettica tra il particolarismo costitutivo della sua identità e l’universalismo connaturato alla sua tematizzazione del «campo globale». Realizzando la strutturazione di immagini, che danno ordine ad un mondo complesso, interdipendente, contingente e compresso, la religione nell’epoca della globalizzazione non viene piú considerata da Robertson, come faceva la sociologia classica, per i suoi contenuti che ne definiscono l’identità, bensí per le relazioni che la collegano al suo ambiente esterno, costituito ormai dall’intero pianeta, e piú specificamente alle altre religioni e culture societarie. Vista nella prospettiva della globalizzazione, la religione è portata non tanto a valorizzare l’identico nel senso tradizionale ed essenzialista del termine, quanto piuttosto un’identità mobile, ciò che è diverso, discontinuo, differente, plurale, diasporico. Inoltre, la religione globalizzante ricostruita da Robertson

valorizza non la dimensione verticale dell’approfondimento interiore dell’unità, ma la dimensione orizzontale del coordinamento esteriore della molteplicità. Ne consegue una forma di sincretismo che s’iscrive nel codice genetico di questa religione globalizzata: La globalizzazione implica una pressione che spinge società, civiltà e rappresentanti di tradizioni a setacciare la scena globale-culturale in cerca di idee e simboli rilevanti per la propria identità. Questo consumo e sincretismo culturale è forse l’aspetto piú trascurato della rivitalizzazione della cultura quale motivo sociologico (Robertson 1992, trad. it. p. 71).

Non è un caso che a modello di questo tipo di religione Robertson abbia scelto la religione giapponese: il suo sincretismo costituirebbe l’apoteosi del pluralismo e del relativismo e cioè dei tratti distintivi della religione globalizzata. Si tratta di un processo complesso, dai risvolti contraddittori e non sempre positivi, come ricorda in Mondo globale, mondi locali (1999) Clifford Geertz, che propone una lettura meno ottimistica, credo a ragione, del rapporto tra religione e globalizzazione. Se è vero che è andato aumentando il peso politico delle identità religiose, spesso e volentieri intrecciate nuovamente con il problema delle identità etniche, tuttavia esse manifesterebbero lo smembramento dei precedenti compatti e uniformi blocchi culturali in un «mondo in frammenti», composto in realtà da identità circoscritte e profondamente differenziate. In modo non poi tanto paradossale, le religioni si verrebbero a trovare alla testa di un movimento mondiale centrifugo, che procede in controtendenza rispetto alla spinta centripeta e omogeneizzante propria dei processi di globalizzazione economica. 2. Identità e religione. Comunque si valutino le conseguenze dei processi di globalizzazione sul campo religioso, quel che emerge con sufficiente chiarezza dalle considerazioni che precedono è che essi mettono radicalmente in crisi non solo le identità culturali, ma anche le identità religiose. Ma che cosa si deve intendere piú esattamente con identità, un concetto la cui intrinseca problematicità è stata in buona parte oscurata dagli usi e soprattutto abusi cui

oggi è sottoposto? Esso è certo un concetto utile, se non prezioso, una risorsa cui attingere 1, purché ci s’intenda bene sui suoi limiti e soprattutto sul fatto che il suo uso non è neutro, ma s’iscrive piú o meno consapevolmente in un sistema di pensiero, presuppone cioè l’uso di modelli piú o meno impliciti, riconducibili in sostanza a due tipi: essenzialista e fissista (l’identità fissa) o dinamico e costruttivista. Anche i critici della categoria, decostruzionisti inclini ai meticciati ed eredi della critica al metodo scientifico e a ogni forma di sapere tradizionale – e dunque particolarmente ostili nei confronti di un modo di pensare che intende affrontare le perturbazioni continue caratteristiche del mutamento del mondo contemporaneo, a partire da un «fondo» di ordine sempre pronto a riprendere il sopravvento – propensi piuttosto, con epistemologi come Castoriadis, a vedere nel caos e nel disordine strutturale la chiave di accesso a un mondo concepito come una nebulosa di frattali, non possono fare a meno, nel tentativo di sostituire la categoria di identità con categorie alternative, di presupporre un sistema, per esempio di tipo dissipativo (Gruzinski 1999, pp. 53-54). Ne risulta un’immagine di identità come fuoco virtuale, come continuum in movimento, che ripropone il problema dell’irriducibilità del discontinuo e cioè dell’alterità. I processi di globalizzazione hanno dato un volto nuovo al problema. In questo mondo dove le identità si mescolano e dove tutto si globalizza, come ha osservato Ryszard Kapuściński (2001, p. 17), «la gente ha paura di essere inglobata, spogliata, ridotta ad assumere lo stesso passo, le stesse facce, lo stesso modo di guardare e parlare degli altri». Per quanto riguarda poi le religioni, c’è una ricerca di identità specifica che le interpella, spingendosi fino a chiedere legittimazioni sacre di atteggiamenti conflittuali. Si assiste cosí a una vera e propria frantumazione dell’identità religiosa tradizionale nella sfera individuale. Dal religioso per tradizione, infatti, si è passati al religioso per scelta; da un religioso radicato nel tempo e nello spazio, garantito da una memoria collettiva e preservato da una tradizione vivente, si è passati a un religioso la cui spazialità muta col mutare dei soggetti e la cui temporalità sfugge ai ritmi tradizionali delle liturgie. Mentre un tempo l’identità religiosa era data in genere una volta per tutte e il problema era la sua conservazione, oggi il problema è dato dalla sua costruzione e soprattutto dalla conservazione di un’identità per definizione labile e mutevole come un

caleidoscopio. A livello collettivo, poi, forse ciò che piú colpisce è il ritorno a identità indotte ed inventate, che si sforzano di trovare un legame con l’ethnos che pareva appartenere, nell’epoca della globalizzazione, a un passato ormai irrimediabilmente trascorso. Da questo punto di vista, l’attenzione crescente, anche da parte degli studiosi dei fenomeni religiosi, verso la categoria di identità va vista come una svolta positiva. «Identità», infatti, a differenza di altre categorie, in genere di matrice cristiana, come «salvezza» o «escatologia», «millenarismo» o «mistica», è stata una categoria a lungo assente nello studio delle religioni. Le ragioni di quest’assenza sono molteplici. Tra queste, spicca la tendenza di molti studiosi a ignorare il ruolo della religione nelle relazioni tra popoli, nazioni e comunità religiose, preferendo concentrarsi sia sui sistemi dottrinali sia sulla messa in luce del punto di vista «interno» degli appartenenti alle diverse tradizioni sia sull’analisi dei differenti testi, a scapito di tutti quei fenomeni di relazione, di contatto, di conflitto in cui l’identità di una tradizione religiosa è continuamente messa in discussione e rinegoziata (Platvoet e Van der Toorn 1995, p. 4). In quanto prodotti storici, infatti, le religioni sono realtà dinamiche, la cui identità è in continua ridefinizione e rinegoziazione. Piú precisamente, le identità delle tradizioni religiose sono il risultato di un duplice processo, corrispondente alla peculiare natura della religione e alla sua autonomia relativa, frutto di un principio interno che si esprime, e non può non esprimersi, attraverso determinate forme culturali storicamente condizionate. Per un verso, di conseguenza, studiare l’identità di una tradizione religiosa significa applicare ad essa le griglie concettuali e i metodi di lettura che si applicano per indagare le identità individuali e collettive socioculturali in genere, adottando ad esempio sia una prospettiva esterna attraverso l’identificazione dello straniero, del nemico, dell’Altro, che permette, per via di differenziazione, la presa di coscienza della propria identità, sia la prospettiva interna come processo di autoidentificazione sia, infine, facendo interagire le due prospettive. Quanto al secondo caso, di primaria importanza risultano l’attribuzione di nomi e le autodefinizioni, soprattutto in contesti in cui la dimensione magico-religiosa di quest’operazione recita una parte importante. Simili procedure devono essere integrate dalla messa in luce della logica identitaria discendente dalla specificità del messaggio religioso, dalle credenze

alle articolazioni rituali e alle forme di memoria culturale in gioco, che variano col variare delle tradizioni. A scanso di equivoci, d’altro canto, vorrei precisare che, parlando di identità individuale o collettiva religiosa, la definisco in funzione della compresenza e dell’interazione di tre elementi: permanenza e continuità nel tempo e nello spazio di un soggetto (individuale o collettivo) al di là delle variazioni nel tempo e degli adattamenti all’ambiente; possibilità di delimitare questo soggetto rispetto ad altri; sua capacità di riconoscersi e di essere riconosciuto. Se è vero che l’identità muta continuamente, è altresí vero che soltanto innestando queste variazioni, frutto di processi e pratiche sociali di potere e conflittuali, su di un continuum è possibile parlare di identità 2. 3. Il pluralismo religioso. Un altro fattore che contribuisce in modo decisivo a mettere in crisi le tradizionali identità religiose è il pluralismo religioso. Scenari di convivenza e confronto, anche conflittuale, tra religioni differenti sono tipici della storia delle religioni in epoche e zone geografiche diverse. Per restare all’Europa – che non pochi si ostinano a considerare un continente essenzialmente cristiano – basterà ricordare il pluralismo religioso tipico della tarda antichità, in cui a lungo pagani, cristiani ed ebrei convissero in città come Roma, Alessandria, Antiochia, dando luogo a situazioni conflittuali, ma anche a confronti e processi d’integrazione, che contribuirono in modo decisivo a plasmare il volto dell’Europa medievale. Né l’irrompere anche sulla scena europea, dalla Spagna all’Italia del Sud, dell’islam doveva mutare la situazione: l’islam, infatti, doveva costituire a lungo, anche se talora in forme minacciose, una presenza significativa nel panorama religioso europeo. Parlare del pluralismo religioso come di un fenomeno tipico della modernità può, di conseguenza, risultare deviante. Ciò che caratterizza, piuttosto, il pluralismo religioso moderno è il suo peculiare individualismo, e precisamente il fatto che, come conseguenza dell’affermazione dei valori individuali di libertà religiosa, la religione è diventata un fatto di scelta personale, sempre meno legata alla nascita. Chi ha contribuito in modo determinante a sottolineare la centralità del pluralismo come l’aspetto essenziale della religione nell’epoca della secolarizzazione è stato Peter Berger, un sociologo fortemente influenzato dalla sua formazione teologica. Già nel corso degli anni Sessanta, in seguito al

crescere dei processi secolarizzanti in Europa, Berger sottolineò in una serie di lavori, talora scritti in collaborazione con Thomas Luckmann, da un lato la perdita d’importanza pubblica progressiva – e a suo avviso inarrestabile – delle religioni tradizionali in quanto istituzionali, dall’altro, in conseguenza del prevalere dell’individualismo religioso, l’imporsi della privatizzazione del fattore religioso. Per supportare quest’interpretazione, Berger fece ricorso a una definizione sostantiva e non funzionalistica di religione (cfr. cap. III par. 4), in conseguenza della quale la religione tende a coincidere col sacro e con ciò che il teologo Paul Tillich aveva definito come ultimate concern o interesse supremo del singolo. Nel nuovo scenario cosí disegnato, le religioni istituzionali non si sarebbero piú fondate su valori tradizionali socialmente condivisi e retti da meccanismi consolidati come la tradizione o la memoria socioculturale, differenziandosi di conseguenza in funzione delle opzioni private del singolo. Come anche in seguito Berger non si è stancato di ripetere, seguito da un numero crescente di interpreti (Berger 1979; 1992; 1999, che presenta un mutamento di prospettiva), nel nuovo scenario religioso creato dalla modernità la religione non è piú un destino, ma una scelta. Il pluralismo religioso diventa, in questo modo, la caratteristica distintiva di uno scenario che, come conseguenza del relativismo delle fedi e della progressiva invisibilità che le religioni istituzionali acquistano, si trasforma, secondo un’immagine destinata a grande successo, nel supermarket delle fedi. Determinanti, di conseguenza, diventano la scelta dei consumatori e il loro «consumo», legati al prodotto che maggiormente interessa e non piú alla conservazione di una fede tradizionale. La sua peculiare definizione di religione ha contribuito ad allargare a dismisura il campo religioso – ben oltre il cerchio, molto ampio ma chiaramente delimitato, delle religioni istituzionali – che ora si estende fino a comprendere tutto ciò che l’individuo sovranamente ritiene ultimate concern, e dunque di fatto favorendo un allargamento pericolosamente privo di confini della religione. Il concetto bergeriano di pluralismo religioso ha goduto di larga fortuna dapprima presso i teologi americani, poi presso quelli europei, poiché offriva, in uno scenario caratterizzato da un mutamento profondo e continuo, al di là o al di sotto dei vari linguaggi religiosi in competizione, una comune base di riferimento (Hamnett 1990; Taylor 1998, pp. 10 sgg.). Esso ha profondamente

influenzato, ad esempio, una corrente importante di teologia delle religioni come quella promossa da John Hick, che ha posto il confronto tra le varie religioni non piú come confronto tra istituzioni e rivelazioni, ma come confronto tra risposte differenti alla stessa esperienza fondamentale di ultimate reality. Il modo in cui s’imposta il problema del pluralismo religioso dipende, insomma, dalla definizione soggiacente della religione. Oggi si è sempre piú consapevoli che la secolarizzazione, nella misura in cui ha agito, è stata un fenomeno essenzialmente europeo. Gli Stati Uniti, infatti, hanno seguito un percorso profondamente diverso, che smentisce radicalmente la prospettiva bergeriana e dei teorici, come Bryan Wilson, sostenitori di una secolarizzazione «oggettiva» vincente a tutti i costi. La teoria di Berger presuppone che i corpi religiosi tradizionali, a cominciare dalle varie chiese e denominazioni protestanti, perdano progressivamente importanza e autorità, a favore di scelte private e di religiosità alternativa. Di contro, nel corso degli ultimi due decenni una serie di ricerche sociologiche ha fatto chiaramente emergere un trend di segno ben diverso. Complessivamente, nel corso del Novecento negli Usa non vi è stato un calo dell’affiliazione, ma un suo aumento. Questo aumento, d’altro canto, ha favorito in genere le sette, sulla base di una «scelta razionale» (rational choice), che ha finito per premiare quelle «agenzie» religiose meno compromesse col mondo e tese a trasmettere una salvezza extramondana (Stark e Bainbridge 1985, 1987). In altri termini, il concetto nuovo di pluralismo religioso che ne consegue è dovuto a una definizione differente della religione e a una collegata teoria della scelta razionale, che abbandona il modello utilitaristico, tipico dell’individualismo religioso, soggiacente alla definizione di Berger: determinante diventa, in questo caso, una definizione della religione come «interpretazione della situazione» e cioè, in una prospettiva implicitamente ermeneutica, come capacità del credente di collocare ed orientare consapevolmente le proprie scelte (Young 1996). 4. La crisi dello Stato laico. Ma che cosa rende possibile il pluralismo religioso? Tocchiamo qui uno degli aspetti nevralgici dell’attuale situazione religiosa: il mutare del quadro giuridico e politico e, di conseguenza, il modo diverso di rapportarsi delle religioni con la politica e con lo Stato. Nell’epoca della secolarizzazione – un

fenomeno, occorre ribadirlo, che concerne essenzialmente l’Europa – il quadro giuridico delle relazioni tra Stato e religione, nella fattispecie il cristianesimo o cattolico o protestante, è stato in genere determinato da rapporti di tipo concordatario, in virtú dei quali alle religioni non veniva riconosciuto uno statuto di rilevanza pubblica, dal momento che lo Stato laico si poneva come il garante della libertà religiosa dei suoi cittadini. La pretesa fondativa, infatti, di questo tipo di Stato è la neutralizzazione dei conflitti di valore di natura etica e religiosa: per definizione, uno Stato democratico non può assumere il punto di vista esclusivo di una parte etica o religiosa, pena il dissolvimento della sua natura pluralistica e laica. La neutralizzazione è stata ottenuta e viene ancora perseguita o attraverso la regolazione statale degli spazi dove i cittadini possano esercitare la loro libertà religiosa (concordati, intese, riconoscimenti di diritti legati all’appartenenza religiosa: Rémond 1998) oppure trasformando l’appartenenza della maggioranza dei cittadini ad una religione in una risorsa fondamentale per l’identità nazionale. Uno Stato democratico, perciò, non può essere uno Stato etico, se non vuole entrare in contraddizione con se stesso, e questo, anche se il moderno Stato democratico non è certo privo di scopi e compiti eticamente connotati, che hanno come fine il bene comune dei cittadini. Oggi il problema si pone a partire da una duplice crisi: della rappresentanza politica e dello Stato laico, sullo sfondo di una piú generale tensione tra religione e politica (Misztal e Shupe 1992). Le attuali tensioni fra religione e politica sono l’espressione dei limiti stessi della modernità (cfr. cap. VIII). Esse nascono in particolare dai problemi aperti e non risolti dalla configurazione assunta nella modernità dallo Stato democratico. Il bersaglio delle forme moderne del polemos religioso (espresso da istituzioni e gruppi religiosi) è proprio la pretesa di neutralizzazione dei conflitti di valore da parte dello Stato democratico. Ad essa viene imputata la responsabilità diretta o indiretta della progressiva individualizzazione della scelta di credere e il conseguente «credere nel relativo», atteggiamenti diffusi nelle società aperte europee. Il pluralismo religioso, garantito dallo Stato democratico, viene perciò interpretato o come minaccia all’identità collettiva, che sarebbe meglio rappresentata da un presunto patrimonio comune di valori etico-religiosi di cui questa o quella religione si sente depositaria (vedi il caso dell’Europa cristiana), o come eclisse della verità negli orizzonti di senso degli individui e

nelle collettività. La modernità, infatti, ha fatto passare la fede (cristiana, evidentemente) dallo statuto di riferimento inglobante della comunità a quello di opzione particolare del cittadino. In questo nuovo scenario, il movente primordiale di una credenza individualizzata e sottratta al controllo dell’autorità ecclesiastica non è piú l’aldilà, ma l’identificazione di sé in questo mondo: l’altro mondo, in altri termini, è messo al servizio di questo mondo. Ciò significa che la stessa religione dipende ormai da una metafisica della soggettività, da una semplice preoccupazione di costruzione di sé in questo mondo (Gauchet 1998). La crisi che investe la struttura e l’identità stessa dello Stato moderno si può anche esprimere osservando che quella a cui oggi assistiamo è la crisi dello Stato laico: Dopo due secoli, le radici della modernità europea, che affondano nell’incontro tra cultura illuministica ed eredità cristiana, sembrano vacillare e la laicità dello Stato – che di queste radici era una delle piú importanti – non fa eccezione. Il re è nudo. Scomparsa con il marxismo l’ultima pretesa secolare di costruire l’uomo nuovo e tramontata ancor prima la fiducia nelle virtú ultime della scienza e della ragione, lo Stato laico ha rinunciato (fortunatamente, direbbero in molti) a farsi portatore di un progetto etico ricercando la propria legittimazione nella funzione di custode della libertà di tutti: arbitro onesto di una partita giocata da altri soggetti, garante delle regole che tutti i concorrenti debbono rispettare nella gara per far prevalere i propri ideali politici, economici, culturali e religiosi (Ferrari 1997, p. 8).

Il problema di fondo che la nuova situazione di pluralismo religioso solleva, da questo punto di vista, è il fatto che è venuto meno il presupposto implicito della compatibilità tra le istanze avanzate da ciascun soggetto sociale, nella fattispecie religioso. Il caso piú evidente al proposito è fornito dall’islam, e cioè da una religione che, pur tenendo presente la sua complessità e varietà, non ha partecipato in genere al progetto moderno dello Stato laico. D’altro canto, il problema nuovo è dato appunto dall’apparire di soggetti sociali che vogliono presentare un’identità forte, legittimata anche dalla religione, facilitando cosí l’esplodere di situazioni conflittuali. In ogni caso, l’esempio dell’islam è interessante perché ripropone con forza

l’importanza del quadro giuridico entro cui si colloca il pluralismo con le sue peculiari dinamiche. Il problema in questione può essere accostato anche da un’altra prospettiva. Il pluralismo, infatti, mettendo in discussione i fondamenti tradizionali della legittimazione politica e sociale, solleva la questione della creazione di nuove forme di legittimazione non teologica, pone cioè il problema, sul quale oggi molto si dibatte, della religione civile: o come il tentativo, a partire dalla religion civile teorizzata da Jean-Jacques Rousseau nel Contratto sociale, di trovare, nell’epoca della secolarizzazione, un fondamento etico e non rivelato al convivere sociale; o come la necessità di creare uno spazio pubblico garantito dallo Stato (la Öffentlichkeit teorizzata da Jürgen Habermas), sorta di forum o nuova agora, dove poter dibattere pubblicamente temi e problematiche di interesse collettivo (Rusconi 2000). Anche se si tratta di realtà profondamente diverse, una comune aria di famiglia lega questi due aspetti al problema, oggi d’importanza decisiva, dei diritti umani. L’elemento in comune è dato dallo sforzo di ricercare da parte di tutti gli stati una base minimale, non di tipo religioso, ma sulla quale anche le varie religioni possano concordare, per superare gli inevitabili contrasti legati alle affermazioni identitarie dei credi positivi, situazione tipica dell’attuale pluralismo religioso; inoltre, il caso dei diritti umani solleva un problema piú generale e cioè quello della ricerca di un fondamento comune alla varietà e alla differenza religiosa; in questa direzione va anche lo sforzo promosso da certi teologi e filosofi per un consenso etico tra le religioni (Küng 1990). 5. I pericoli del pluralismo religioso. In certi paesi di tradizione cattolica dove vigeva un regime laico tradizionale di separazione tra Stato e Chiesa (Francia, Italia, Spagna), oggi sta emergendo una forma apparentemente nuova di collaborazione: il riconoscimento dei rappresentanti delle grandi religioni come altrettante «autorità morali» alle quali i poteri pubblici non esitano piú a fare appello sia in materia d’istruzione religiosa sia sulle questioni etiche che stanno al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Vescovi e sacerdoti, imam e rabbini sono cosí regolarmente ascoltati e consultati. Ma a che titolo? In primo luogo, implicitamente o esplicitamente e comunque di fatto vi è un riconoscimento pluralistico in conseguenza del quale tutte le religioni rappresentate piú o

meno ufficialmente si vengono a trovare, di fronte al potere politico di turno, sullo stesso piede di parità. In secondo luogo, il campo privilegiato d’ascolto è quello dell’etica: ciò non comporta, però, da parte dello Stato l’ammissione che una qualunque legge morale o «naturale» e tanto meno religiosa possa prevalere sulla legge civile positiva. L’impressione di fondo è che questo nuovo tipo di rapporto alla fine cambi poco le cose, anzi: la classe politica, accogliendo apparentemente l’identità religiosa e non relegandola piú unicamente nel ghetto della privatizzazione, finisce nondimeno per riportare le varie chiese a un orizzonte puramente secolare. In altri termini, per quanto possa sembrare paradossale, ciò che riporta le religioni in primo piano è il loro stesso indietreggiare. Un secondo esempio ancor piú significativo della corrosività dell’attuale situazione di pluralismo religioso è quello della nuova agora creata da Internet. La rete, infatti, offre al supermercato delle fedi uno spazio virtuale di grande interesse dove, in partenza, tutti sono uguali. Non è un caso che siano soprattutto sette, culti misterici, organizzazioni a sfondo esoterico ed occulto ad invadere questa sorta di nuovo areopago, un bazar spirituale a piú o meno alta velocità dove ciascuno può presentare la propria merce, ma anche dove i culti e i gruppi minori sono in grado di competere ad armi pari (grafica, ecc.) con le piú potenti organizzazioni religiose. Lo spazio virtuale è collegato ad un tempo virtuale che azzera le memorie culturali delle differenti tradizioni religiose: in rete, infatti, occorre ripartire dal grado zero della scrittura religiosa, trovando il modo piú efficace per presentare la propria «storia» e la propria organizzazione. In un certo senso, vale il paragone missionario: la rete diventa un nuovo luogo dove portare la «buona novella» della propria fede, un pulpito ma anche, attraverso le chatline e le piú o meno esoteriche mailing list, una sorta di confessionale o gruppo misterico. Se poi si tiene conto del fatto che vi si celebrano anche riti (vedi per tutti la preghiera), che vi si possono vendere articoli sacri o organizzare pellegrinaggi e turismo religioso, si potrà avere una pallida idea della pervasività di questa nuova realtà virtuale (Apolito 2002). La funzione di questa nuova organizzazione del campo religioso è duplice: le varie organizzazioni possono comunicare tra di loro in tempo reale, dunque la rete favorisce la strutturazione in particolare dei gruppi piú piccoli o di forme di metanetwork come New Age; nel contempo, le differenti

«vetrine», trasformate in templi, diventano icone attraverso cui lanciare i differenti messaggi. Gli interrogativi che questo fenomeno solleva sono molteplici e devono interessare chiunque rifletta sulla complessità della situazione religiosa attuale: Siamo al lifting, attraverso un inedito mezzo di comunicazione, di culti consolidati oppure anche all’avvento di nuovi movimenti religiosi nati su Internet? La rete delle reti può trasformarsi in un posto sacro come una chiesa o un tempio oppure il suo potere persuasivo è sfruttato dai pescatori d’anime per ricondurre un’umanità riottosa ai luoghi santi di sempre? Le vene telematiche sono conduttrici di energia spirituale oppure solo di colossali mistificazioni? (Merlini 1997, p. 7).

Si tratta di interrogativi cui non è facile rispondere. In effetti, la religione di Internet non è che un elemento, certo di importanza decisiva, di quel processo di globalizzazione ricordato all’inizio; in quanto tale, il fenomeno va preso sul serio, perché riflette, e nel contempo favorisce, un processo reale di portata gigantesca che in forme e gradi diversi tocca la vita di ognuno di noi, anche se l’effetto di queste ondate può giungere alla nostra riva talmente attenuato da sfuggirci. Si tratta di una «religione» priva di corpo, disincarnata, caratterizzata dall’irrilevanza e dall’omogeneizzazione dei contenuti (anything goes), dove quel che conta è esserci, costi quel che costi. In questa realtà virtuale non esiste un universo indipendente dalla nostra percezione; la vita è una realtà fluida e intercambiabile. Tutto ciò non può non condizionare la percezione della religione, con il rischio di perdere punti di orientamento. Inoltre, ne risulta pericolosamente incoraggiato un latente narcisismo tipico dell’individualismo contemporaneo: come si costruisce un sito, cosí si costruisce il proprio sé o una sua parte significativa; invece di essere tramandato o tenuto gelosamente nascosto, esso è virtualmente ricreato, manipolabile al pari dell’ingegneria genetica. In conclusione, il cyberspazio può essere visto, nella sua virtualità, come collocato al polo opposto dello scenario sociologico tradizionale delle grandi religioni, fatto di istituzioni, burocrazia, tradizione; esso è il caos continuo, anarchia, istante, frammento. In questo senso, esso esprime bene l’essenza della religione postmoderna, caratterizzata dall’affrancamento da una duplice autorità: del passato

veicolato dalla tradizione e del futuro veicolato dal mito del progresso. Corrisponde alla determinazione attraverso il presente. Nel mondo postmoderno tutto è una questione di preferenze e scelte individuali o interindividuali che non sono piú determinate da un modello fondatore, né da un progetto di avvenire, ma da una volontà di affermazione immediata. Se mi sono attardato su questo esempio è perché, ritornando al tema del pluralismo religioso, la spiritualità telematica riflette bene le potenzialità, le spinte positive, ma anche le ambiguità, i pericoli di un pluralismo religioso di tipo nuovo, che ha come caratteristica essenziale quella di mettere radicalmente in discussione le identità tradizionali. 6. Postmodernità e studio della religione. Finora ho esaminato alcuni aspetti – l’elenco è in realtà ben piú lungo – che caratterizzano l’attuale scenario religioso. Ciò che li unisce, al di là delle rilevanti differenze, è il fatto che, nel loro insieme, essi aiutano a comprendere meglio la radicalità dei mutamenti che la religione sta conoscendo su scala globale, al punto che alcuni si sono spinti fino a parlare di una vera e propria religione postmoderna. Ma esiste veramente, come si è chiesto tra altri Zygmunt Bauman (1998), una religione postmoderna? Non è ora il momento per rispondere a questo interrogativo, che implica evidentemente il fatto di prendere prima posizione su una controversa questione e cioè se esiste una condizione postmoderna autonoma, distinta e contrapposta a una condizione moderna 3. Il punto che deve interessarci è un altro. Comunque si decida di rispondere a quest’annosa questione, quel che risulta evidente dalle osservazioni precedenti è che, in ogni caso, la fluidità e liquidità della situazione postmoderna non possono non riflettersi sulla fluidità e liquidità della stessa religione. I modi tradizionali di definirla ed indagarla sono stati, di conseguenza, messi radicalmente in discussione da una nouvelle vague critica che si è affermata in particolare nelle università americane sull’onda del successo di pensatori decostruzionisti francesi come Foucault e Derrida. Al centro di questa critica – che ha ovviamente un raggio piú vasto, ma che ora deve interessarci per le sue ricadute nel mare nostrum degli studi religionistici – è l’attacco radicale al soggetto e, in generale, al modo in cui la soggettività moderna si è venuta costituendo a partire dall’illuminismo. Il ripudio del soggetto e la parallela messa in crisi di un’agenzia morale autonoma e consapevole come centro e motore dell’azione umana, filtrati

attraverso lo studio delle pratiche linguistiche e dei meccanismi di formazione del potere e del controllo autoritario, hanno spostato il centro dell’attenzione, per un verso, sullo studio dell’alterità, dell’eterogeneità, delle «avventure della differenza», invitando, per un altro, a decostruire le differenti pratiche di potere che starebbero alla base del modo in cui la cultura occidentale di matrice illuministica avrebbe incapsulato una realtà complessa in una serie di -ismi, riducendola – per assimilarla, comprenderla, ma soprattutto dominarla – a finzioni e simulacri. Si potrebbe discettare a lungo sugli aspetti nichilistici di questo modo di procedere, che costituiscono una minaccia al modo tradizionalmente storico-filologico con cui si è costituito il moderno sapere scientifico sulla religione (cfr. cap. II). Quel che è certo è che è impossibile non fare i conti con esso. La critica postmoderna all’individualismo, infatti, con i suoi corollari come gli studi femministi e di genere, gli studi postcoloniali e cosí via, tocca nodi fondamentali, sui quali dovremo ritornare (cfr. cap. IV par.4), come la posizione dello studioso nei confronti del suo oggetto di studio, la necessità di sfuggire a un approccio eurocentrico, la messa in questione di uno studio che privilegia l’analisi delle fonti scritte. In sintesi, essa ha avuto come effetto di favorire uno studio delle religioni che si faccia carico di una prospettiva globale, postcoloniale, multiculturale, autoriflessiva e di genere. Ne è risultata una critica radicale al moderno concetto di religione, considerato, in questa prospettiva decostruttivista e postcoloniale, come lo strumento concettuale, falsamente reificato, che ha accompagnato l’opera missionaria e conquistatrice dell’epoca coloniale, e che si rivelerebbe, di conseguenza, inappropriato in una società globalizzata e multiculturale come quella in cui viviamo. Ma come si è arrivati a questa critica radicale? Per comprendere quest’esito, ma anche per prenderne adeguatamente le distanze, converrà, nel prossimo capitolo, lumeggiare, seppur rapidamente, il modo in cui a partire dall’illuminismo si è venuto costituendo il moderno paradigma critico d’interpretazione della religione, per passare poi, nel capitolo terzo, ad esaminare piú da vicino la questione ineliminabile della definizione della religione. Bibliografia 1. La religione nell’epoca della globalizzazione. Albrow, M.

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«L’identità prende forma, viene affermata, rivendicata, imposta in relazione ai gruppi che di volta

in volta si costituiscono nella competizione perle risorse di qualunque tipo esse siano […] la stessa identità è una “risorsa” acui ben difficilmente è consentito rinunciare» (Remotti 1996, p. 59). 2

Piú precisamente, il concetto di identità ha tre caratteristiche. Ha prima di tutto una dimensione

locativa nel senso che rimanda a quel processo in virtú del quale il singolo si colloca o definisce il campo d’azione in cui collocarsi, tracciando dei confini, piú o meno labili, della propria persona. In secondo luogo, ha una dimensione selettiva, nel senso che rimanda alle capacità di scelta e selezione, tra varie opzioni spesso in conflitto, da parte del singolo. Infine, ha una dimensione integrativa, nel senso che gli permette non solo, grazie alla memoria, di collegare le varie esperienze nell’unità di una biografia, ma anche di relazionarsi all’interno del proprio gruppo e nei confronti degli altri gruppi. Applicato al problema della tradizione religiosa, ciò viene a dire che il processo identitario dovrà farsi carico sia del problema della differenza rispetto alle altre tradizioni, a partire da quelle a lei piú simili, sia del problema della continuità nel tempo, nonostante le continue variazioni. 3

Personalmente, non posso che confermare, con le integrazioni e parziali correzioni che seguono,

quanto ebbi modo di osservare una decina d’anni fa (Filoramo 1994).

Capitolo secondo Alle «origini» delle Scienze delle religioni

1. La religione come realtà antropologica. Le Scienze delle religioni gettano le loro radici nel fecondo terreno della riflessione illuministica sulla natura della religione e, piú in generale, sulla natura dell’uomo. Soltanto nel corso del Settecento, infatti, vennero costituendosi quei presupposti epistemologici e quelle coordinate interpretative che, coniugandosi in seguito con gli studi di linguistica comparata indoeuropea e all’interno di una prospettiva ormai dominata dall’evoluzionismo scientifico, dovevano, nella seconda metà dell’Ottocento, favorire il sorgere e il diffondersi dapprima di una Storia comparata delle religioni, in seguito, di un approccio multidisciplinare in prospettiva scientifica allo studio della religione, favorendo in questo modo il formarsi di un vero e proprio campo disciplinare nuovo: quello delle Scienze delle religioni. Ciò che il secolo dei Lumi impose all’attenzione fu la necessità di indagare la religione come un fenomeno «naturale» e cioè costitutivo della natura umana. Si poteva dissentire sulle «origini» di questo fenomeno, cosí come sulla sua funzione ed utilità; in ogni caso, gli illuministi concordavano sul fatto che la religione andava indagata liberandosi in modo definitivo da qualsivoglia ipoteca teologica, sottomettendola, al pari degli altri fenomeni propri della natura umana, al vaglio della ragione critica. Anche se occorrerà attendere la fioritura ottocentesca delle scienze storiche perché questa si trasformi in una critica della ragione storica, ciò che essa introduceva era una novità decisiva: l’universalità della Ragione presupponeva e, nel contempo, contribuiva a fondare l’universalità stessa della Religione. È stata, dunque, la modernità con la sua ragione critica a partorire la concezione, a noi familiare, di religione come «essenza» universale, non piú imprigionabile nell’alveo di

una tradizione determinata, come «realtà» che, al di là (o al di sotto) dei linguaggi inesauribili delle religioni storiche, costituisce quel metalinguaggio che insieme li fonda e li spiega. Si può discutere se e fino a che punto anche altre tradizioni religiose posseggano, se non il concetto, almeno l’idea di religione (cfr. Bianchi 1994 e cap. III). Quel che appare evidente a una disamina storica (Cantwell Smith 1963, Despland 1979) è, per un verso, la rete di legami che il concetto di religione proprio della tradizione di pensiero occidentale, europea e nordamericana, ha intrecciato e mantenuto con le sue radici romane prima e con la mediazione cristiana poi; per un altro, la funzione di «specchio», di volta in volta assimilante o eludente, che esso ha avuto nei confronti delle differenti tradizioni religiose attratte nella sua orbita, man mano che si estendeva la rete conoscitiva dell’Occidente. In altri termini, a prescindere dalle cause e dai motivi che hanno favorito in Occidente il «decollo» della modernità con la sua peculiare forma di razionalità, quel che è certo è che uno dei suoi aspetti distintivi va rintracciato nella necessità, impostasi progressivamente, di studiare in prospettiva storico-critica e secondo un’ottica comparata il mondo sterminato delle religioni. L’universalismo dei Lumi, infatti, conseguenza dell’universalismo della Ragione che essi imponevano, si rivelò un terreno fecondo per l’incontro di due tradizioni che affondano le loro radici nella scienza greca, e precisamente lo studio storicoetnografico e la riflessione filosofica sulla religione e i suoi vari aspetti (Momigliano 1995, p. 547). Quando oggi, infatti, si critica fino a volerlo rigettare, come sopra ricordavamo, l’impianto illuministico del moderno studio della religione, ci si dimentica troppo spesso che, nel contempo, si criticano, senza piena consapevolezza, le radici stesse del sapere umanistico. Con una precisazione, però. Come ha ricordato recentemente Philippe Borgeaud, molti dei temi e dei problemi che finiranno per costituire il bagaglio concettuale e il vero e proprio vocabolario prima della Storia delle religioni poi delle Scienze delle religioni, dalla comparazione al mito, dal rito ai rapporti tra religione e politica, hanno una storia molto piú complessa, «un réseau de communications et d’interférences incessantes entre les héritages grecs et romains (ce qu’on appelle l’hellénisme), le judaïsme, puis le christianisme et l’islam, à partir du fond créé par les vieilles civilisations du Proche-Orient ancien. Ces heurts et ce brassage préliminaires ont créé les

conditions qui ont permis la naissance d’une enquête comparative sur les phénomènes religieux» (Borgeaud 2004, pp. 18-19). 2. L’eredità degli antichi. L’«invenzione della mitologia» (Detienne 1981) può essere assunta come quel luogo ideale in cui, al principio del IV secolo a.C., soprattutto ad opera di Platone, trovarono convergenza il sapere storico inaugurato da Ecateo ed Erodoto e il sapere filosofico, che aveva trovato nella critica di Senofane all’antropomorfismo la sua espressione principale. Queste diverse forme di sapere elaborarono entrambe, infatti, una critica al mito. La scomparsa di quest’ultimo, sotto i colpi devastanti del logos, lascia cosí il posto ad un paesaggio nuovo, definito «mitologia»: un discorso e, nel contempo, una classificazione su un mito considerato ormai come appartenente ad un passato irrimediabilmente superato; riflessioni che finiranno per costituire il modello, il propulsore e il luogo della critica alla religione. Alimentato da un sentimento religioso che avvertiva con crescente insoddisfazione lo «scandalo» di racconti di dèi e delle loro azioni sempre piú inconciliabili con l’affermarsi di una coscienza etica, il processo di un pensiero mitico che accede a una comprensione dei suoi fondamenti, della forma soggiacente alle variazioni dei racconti, getta le basi di una dialettica tra mythos e logos destinata a rimanere un modello insuperato anche per il rapporto tra religione e ragione critica. Ci si è piú volte chiesti se e fino a che punto le Storie di Erodoto costituiscano, con la loro curiosità etnografica e con la loro ricerca comparativa, una sorta di «prologo» della futura Storia delle religioni. Domanda anacronistica, che ha d’altro canto il vantaggio di aiutare a mettere meglio a fuoco sia l’emergere di problemi e interrogativi destinati a grande fortuna sia i presupposti delle aspirazioni comparative di Erodoto. La comparazione erodotea, figlia del relativismo sofistico che induce a vedere costumi e pratiche dei vari popoli come forme culturali autonome, è anche il portato di un filobarbarismo, di una curiosità verso un altro, il barbaro, che, sul confine della Ionia, può essere delimitato e definito in modo piú positivo. Lo «specchio» di Erodoto (Hartog 1980), in cui vengono a riflettersi le differenti tradizioni religiose – dagli Egizi a lui cosí cari che, anticipando una corrente interpretativa giunta fino ai nostri giorni, il padre della storia tenderà a vedere, in una tipica prospettiva diffusionistico-genetica, come la

culla delle tradizioni mitico-religiose greche, agli Sciti e, naturalmente, ai Persiani – diventa il contenitore di una storia religiosa potenzialmente universale, l’ordito su cui disegnare la trama delle differenti tradizioni religiose indagate. Motore immobile di quest’affresco comparato si rivela la feconda connessione tra una teoria, che tende ormai a distinguere nettamente storia umana e storia divina, e una storia potenzialmente diffusionistica, che ama indagare rapporti ed analogie tra credenze, culti, figure divine. La «teologia» dei filosofi ionici, da Talete ad Anassimandro, costituisce la seconda importante tradizione interpretativa (Decharme 1904, Babut 1974). Lo sforzo di cogliere un fondamento della realtà anima, infatti, il tentativo erodoteo di trovare una base comune delle differenti tradizioni religiose. Questa ricerca deve molto, come si ricordava, allo sforzo sofistico di porre l’uomo e il suo logos a misura di tutte le cose. Teorizzato in particolare da Protagora, questo tentativo trova, però, in lui stesso un limite nel dubbio di poter estendere quest’indagine anche al mondo divino: Riguardo agli dèi io non ho modo di sapere né che sono né che non sono, ché si oppongono molte cose a questa conoscenza, quali l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita dell’uomo (fr. 4 Diels-Kranz).

Altri pensatori, di contro, ritennero di poter varcare questa linea di confine dietro cui si cominciavano ad intravedere panorami non piú divini ma umani: se l’uomo è misura di tutte le cose, doveva esserlo in qualche modo anche dei suoi dèi. Questi pensatori della seconda metà del V secolo a.C. si muovevano, piú o meno consapevolmente, lungo il cammino aperto da Senofane di Colofone che, spinto da un’idea pura del divino, aveva contribuito ad inaugurare la critica della concezione antropomorfica degli dèi propria dei racconti mitici. I mortali credono che gli dèi siano generati e abbiano vesti, voci, corpo come gli uomini (fr. 14 DK). Per questo, ognuno si rappresenta gli dèi a propria immagine e somiglianza: Se buoi, cavalli e leoni avessero le mani e con le mani sapessero dipingere e compiere opere d’arte come gli uomini, i cavalli rappresenterebbero immagini e scolpirebbero statue

di dèi simili a cavalli, i buoi ai buoi, in modo conforme al corpo che ciascuno possiede (fr. 15 DK). Gli Etiopi asseriscono che i loro dèi sono neri e camusi, i Traci dicono che hanno gli occhi azzurri e i capelli fulvi (fr. 16 DK).

In questo modo, erano gettate le basi della teoria antropologica e psicologica della proiezione antropomorfica, destinata a riemergere in modo prepotente in periodo illuministico e che continua a costituire, grazie in particolare alla rilettura speculativa fornita da Ludwig Feuerbach, uno dei capisaldi della moderna critica della religione. Diversamente dal pensatore tedesco, d’altro canto, Senofane era mosso dall’esigenza teologica di salvaguardare un’immagine piú pura, aniconica e interiore, della divinità. Inserita, d’altro canto, nella macchina demolitrice di una prospettiva funzionalistica come quella del sofista Prodico, essa finí per tradursi in una spiegazione in chiave utilitaristica dell’origine delle varie divinità e dei culti connessi. Secondo Prodico, infatti, l’uomo delle età piú antiche avrebbe iniziato ad onorare come dèi il nutrimento e quanto è necessario alla vita, per terminare nel culto dei loro «inventori», cosí come era avvenuto agli Egizi per il Nilo. In questo modo, «il pane fu ritenuto Demetra, il vino Dioniso, l’acqua Posidone, il fuoco Efesto e cosí di seguito per ciascuna delle cose particolarmente utili» (fr. 5 DK). Per completare il quadro delle critiche filosofiche alla religione che l’«illuminismo» greco trasmise al pensiero moderno occorre brevemente accennare a tre altre prospettive: l’interpretazione psicologica della religione come prodotto del timore e della paura, a sua volta archetipo e radice di un rigoglioso albero interpretativo che getta la sua ombra fino ai nostri giorni; l’interpretazione in chiave «politica» di Crizia – fondamento di tutte le moderne riletture, a cominciare dal nostro Machiavelli – della religione come instrumentum regni; infine, l’interpretazione evemeristica che, riprendendo e fondendo le precedenti in un racconto originale, doveva costituire il prototipo di un’altra fiorente corrente interpretativa, quella eziologica. Per Democrito di Abdera, gli dèi della mitologia altro non sono che «immagini della fantasia», la cui origine ultima va ricercata nella reazione dell’uomo di fronte ai fenomeni piú sorprendenti e terribili della natura. Infatti:

… i primi uomini, nell’osservare i fenomeni celesti come tuoni lampi fulmini e aggregati di stelle (comete) ed eclissi di sole e di luna, furono presi da terrore e credettero che ne fossero causa gli dèi (fr. 65 A 75 DK).

In questo modo, era formulata per la prima volta in modo chiaro quella teoria che, da Lucrezio a Petronio e Stazio, doveva ampiamente circolare nella cultura antica e che, molti secoli dopo, doveva conoscere una rinnovata fortuna in epoca moderna dai libertini a Hume. A sua volta, la teoria di Crizia si configura come un adattamento in chiave politica – scelta ben comprensibile da parte di uno dei trenta tiranni – dell’interpretazione democritea. La religione vi appare come una tipica invenzione di politici e legislatori. All’inizio, la vita degli uomini era disordinata, ferina e preda della violenza, un tipico bellum omnium contra omnes. Anche le leggi punitive in seguito stabilite ad opera dei primi legislatori non riuscivano ad ottenere il loro scopo: … allora io credo che un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente per primo abbia inventato per gli uomini il timore degli dèi, in modo che ci fosse uno spauracchio per i malvagi, anche per le azioni, le parole e i pensieri nascosti. Per questi motivi introdusse la nozione del divino, sotto forma di demone fiorente di vita imperitura, che ode e vede con la mente, che col pensiero incessante sorveglia le azioni umane e che ha in sé la divina natura (fr. 25 DK).

Quanto a Evemero di Messina, la sua interpretazione è figlia di un’epoca che, in conseguenza della spedizione di Alessandro, ha dilatato enormemente i suoi confini, creando una «mente del viaggiatore» sempre piú sensibile ai mirabilia e all’utopico, e quindi sempre piú disposta ad inchinarsi di fronte alla potenza straordinaria di uomini eccezionali. Nella sua Iscrizione sacra, Evemero racconta di aver scoperto in un suo viaggio un’isola immaginaria denominata Panchaia, sita al largo delle coste dell’Arabia, che sarebbe riemersa, dopo lungo tempo, appositamente per ricevere la visita del filosofo. In un tempio dedicato a Zeus, egli aveva trovato una colonna d’oro recante un’iscrizione, che attestava la reale natura umana di Zeus, il quale aveva voluto rendere immortali le sue imprese autoproclamandosi dio. Ne conseguiva che gli dèi null’altro erano se non figure di sovrani guerrieri

benefattori, divinizzati o dopo la loro morte dal popolo per i benefici compiuti o già durante la loro vita – al pari di quanto stava accadendo coi sovrani ellenistici – avendo imposto forme di culto legate alla loro persona. Il libro di Evemero conobbe un grande successo: tradotto in latino da Ennio nel II secolo a.C. e riassunto da Diodoro, doveva diventare uno dei cavalli di battaglia della critica degli apologeti cristiani alla mitologia pagana, per ritornare a nuova vita in non poche interpretazioni settecentesche della mitologia. L’eredità che Roma lascia al mondo moderno, anche grazie alla mediazione cristiana, è in parte diversa: sia per la natura particolare della religione dei romani – nel contempo dotata di una mitologia a sfondo storico espressione di uno stato vigoroso – sia per la loro devozione antiquaria verso le proprie origini e il proprio passato. Queste due correnti dovevano trovare una formulazione esemplare nella riflessione teologica di Terenzio Varrone. Nel primo dei sedici libri della sua fondamentale opera antiquaria, le Antichità religiose (un’opera perduta, che noi conosciamo soprattutto grazie ai frammenti conservati da Agostino ne La Città di Dio), egli presenta un’interpretazione che compendia le precedenti teorie interpretative, mettendo nel dovuto rilievo la centralità del dato «politico» proprio della religione romana: Vi sono tre generi di teologia: quella mitica, di cui si servono i poeti, quella fisica, di cui si servono i filosofi, e quella statale, di cui si servono i popoli. Quella mitica […] contiene molte cose contrarie alla dignità e alla natura degli immortali. Il secondo genere insegna che cosa siano gli dèi, dove stiano, di quale sorta e di quale condizione siano; se abbiano cominciato ad esistere da un punto determinato del tempo o se siano da sempre; se siano fatti di fuoco, di numeri o di atomi. Il terzo genere di teologia insegna che cosa i cittadini, e soprattutto i sacerdoti, devono conoscere ed esercitare nelle città; essa definisce anche quali dèi debbano essere venerati a causa dello Stato e con quali azioni (Agostino, La Città di Dio 4.27, 6.5).

La teologia mitica è, per Varrone, di per sé inaccettabile; un suo recupero è possibile soltanto a prezzo dell’allegoresi. La teologia naturale, a sua volta, fonde secoli di esegesi allegorica dei miti, ad opera soprattutto degli stoici, nello sforzo di cogliere il fondamento divino del cosmo: quel «dio cosmico»

che costituiva, a partire almeno dal De mundo pseudoaristotelico, la manifestazione visibile della divinità invisibile, fondamento e sostegno, attraverso la mediazione dell’anima mundi, dell’eternità dell’universo. Una concezione che, da Plotino a Macrobio, continuerà a costituire il sostegno ideologico, oltre che teologico, delle élite pagane contro il vincente monoteismo cristiano. Quanto alla teologia politica, nel progetto varroniano vi rientravano tanto le pratiche rituali pubbliche degli uomini quanto gli dèi e le credenze ad essi collegate. Attraverso processi diversi, che manifestano le varie e sempre piú raffinate tecniche che si erano venute elaborando nell’interpretazione del mondo divino, dall’etimologia all’allegoria, dalla demitologizzazione all’identificazione, dalla speculazione aritmologica alla spiritualizzazione – dal momento che, secondo una teoria sempre piú diffusa del culto spirituale, «gli dèi veri non hanno bisogno di sacrifici né li desiderano» (fr. 22 DK) –, Varrone delinea un sistema complessivo della macchina divina romana e della sua funzione sociale e politica che desterà l’attenzione e la critica di Agostino, che cosí provvederà a trasmetterlo al pensiero medievale e moderno. Ci fu un contributo cristiano al costituirsi di una tradizione interpretativa della religione? La risposta sembrerebbe negativa. I polemisti cristiani, da Arnobio a Lattanzio, da Eusebio ad Agostino, nel loro confronto con gli dèi pagani utilizzarono senza alcuna novità l’armamentario ideologico che secoli di critica filosofica alle tradizioni mitico-religiose avevano elaborato. Se una qualche novità si vuole trovare, essa va individuata nella diversa prospettiva con cui gli autori cristiani guardarono, per altro sulla scia dell’apologetica giudaico-ellenistica, al mondo delle tradizioni religiose. Per un verso, infatti, il confronto con l’idolatria pose il problema di individuare la «vera» religione di contro a quelle religiones che si rivelavano invenzione umana o, peggio, creazione diabolica; per un altro, un’incipiente teologia naturale, innestata su un modo nuovo di concepire e strutturare la storia, doveva fornire quel quadro generale di storia sacra al cui interno per secoli si sarebbe collocata l’interpretazione della religione e delle religioni. 3. Una storia naturale della religione. Redigendo, nel 1593, il Colloquium Heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis, Jean Bodin si collocava idealmente sulla soglia di due secoli, ma anche di due mondi e – quel che qui preme sottolineare – di due modi

diversi di guardare ed interpretare il mondo delle religioni. Come un Giano bifronte, un volto del dialogo guarda a un secolo, il Cinquecento, che ha assistito alla rottura dell’unità religiosa confessionale con il suo tragico corteo di conflitti e guerre; un secolo che, nel contempo, come effetto della scoperta dei nuovi mondi, ha visto dilatarsi in modo impressionante i confini del territorio religioso. Queste novità sono rappresentate dai sette interlocutori: tre rappresentanti della confessione cristiana con le sue divisioni interne (cattolica, luterana, calvinista), un ebreo, un musulmano, mentre gli ultimi due rappresentano le possibili alternative alla tradizionale soluzione che voleva assegnare il premio della religione «vera» a una delle tre tradizioni abramiche, indicando la possibile via di quella religione razionale, che la teologia naturale aveva annunciato, a partire da Paolo, ma che a lungo era rimasta latente nella storia del cristianesimo medievale. D’altro canto, queste novità continuano a scorrere nell’alveo secolare di una discussione che è prima di tutto teologica e filosofica, dal momento che il problema della «vera» religione, posto all’inizio del dialogo, non trova una soluzione sul piano del confronto storico e fattuale, ma su quello teologico e filosofico, appunto secondo un modello (si pensi alla novella boccaccesca delle tre anella e ai suoi precedenti o alle sue continuità fino a Lessing) che aveva goduto larga fortuna durante il Medioevo. Eppure il Colloquium, nella sua aspirazione a guardare al mondo conflittuale delle religioni in modo non piú normativo e teologicamente determinato, ma alla ricerca di un fondamento universale libero dai vincoli di rivelazioni e leggi divine, con l’altro volto guarda al futuro, a un secolo come il Seicento, che doveva contribuire in modo decisivo alla considerazione della religione in prospettiva critica, in quanto fenomeno proprio della natura umana e, di conseguenza, aspetto fondamentale della cultura, della storia e della società. In questo modo, l’opera di Bodin, nelle sue ambiguità e contraddizioni, può essere assunta ad emblema del mutamento che stava intervenendo: Lo scenario biblico e monoteistico è ancora presente, ma la sua lettura ortodossa è abbandonata, sostituita da ogni altro tipo di lettura in grado di dimostrare il suo fondamento naturale e razionale (Preus 1987, p.14).

Si comprenderà meglio questo mutamento se si tiene conto del fatto che,

durante il Medioevo, l’intelligenza del fenomeno religioso era rimasta confinata nei ben delimitati ambiti della riflessione teologica e filosofica (e questo, anche per quanto concerne l’islam e l’ebraismo), che neppure l’allargarsi delle conoscenze etnografiche, con i provocanti racconti di viaggi e scoperte, da Marco Polo a Giovanni di Pian del Carpine, da al-Bīrūnī a Beniamino di Tudela, avevano contribuito ad ampliare o variare. Come nel dialogo di Bodin, le discussioni e i confronti tra la propria tradizione religiosa e i vari volti dell’alterità religiosa di volta in volta evocati su un palcoscenico che, grazie alle crociate, ai viaggi, alle relazioni o alle guerre, si allargava e si faceva piú mobile e cangiante, non avevano nella sostanza mutato il canovaccio interpretativo: a che altro miravano i vari confronti se non a ristabilire e a riaffermare l’identico e cioè a riscoprire la validità dell’unica vera religione rivelata, la propria? Se una novità vi fu, piú che in una conoscenza piú approfondita dell’islam o dell’ebraismo essa va forse vista nella (ri)scoperta del paganesimo come dato vitale delle plebi rurali dell’Europa cristiana: un dato che attende ancora una sua complessiva valutazione. Che la conquista dei nuovi mondi, inaugurata dai viaggi di Cristoforo Colombo, abbia rappresentato una rottura, rispetto a questo scenario tradizionale, è ovvio: Lungo un millennio di lotte incessanti contro le foreste e le paludi, l’Europa aveva colonizzato le proprie terre abbandonate. Quasi compiuta questa impresa tremenda, poteva ormai assumersi il compito di colonizzare il mondo (Tawney 1926, p. 329).

Meno ovvie risultano le modalità di questo processo, con i suoi percorsi intricati che finirono per mettere in discussione, erodendolo sia dall’esterno sia dall’interno, il modo tradizionale d’interpretare la religione. Si prenda, a proposito del problema comparativo, il caso emblematico della Apologética historia, redatta intorno al 1550 da Bartolomé de Las Casas: Una parola chiave, cotejar – collazionare, comparare – articola la riflessione e i capitoli che si snodano tracciando un panorama enciclopedico delle religioni dell’Antichità. Ci aspettavamo l’America. A ogni passo invece inciampiamo nell’Antichità classica o nell’Antico Testamento (Bernard e Gruzinski 1988, trad. it. p. 39).

Il punto di vista diverso che Las Casas assume lo induce a vedere, nella sua ricerca dell’idolatria degli amerindi, un’identità di culti e di credenze che torni a vantaggio, e non a scapito, del particolare Altro di cui egli di fatto ha deciso di assumersi la difesa, dal momento che la comparazione con le idolatrie e i politeismi degli antichi è sempre favorevole ai nuovi pagani. In questo modo, egli inaugura – o comunque contribuisce a favorire in modo determinante – quella moda dei parallelismi tra antichi e nuovi politeismi che accompagnerà a lungo la storia della comparazione storico-religiosa moderna, da Vossius a Lafitau, da Bochart a De Brosses, fino alle forme e ai modi piú scientifici dell’antropologia. Nel contempo, può essere assunto ad esempio del modo in cui il moderno vocabolario delle Scienze delle religioni si è venuto costruendo, a partire da una base teologica cristiana, al seguito della conquista coloniale e delle missioni che l’hanno accompagnata – quando non l’hanno favorita – come tentativo di «addomesticamento» dell’Alterità religiosa. La vera rottura del paradigma interpretativo tradizionale doveva però compiersi sul piano stesso della storia, di una storia, sacra e universale nel contempo, che ormai da secoli si era abituata a rinchiudere in uno schema particolare, dotato di una rigida cronologia e di un altrettanto rigido quadro ermeneutico, una materia che ormai si avviava a rompere questi schemi. Stato originario, caduta peccaminosa, storia della salvezza e fine del mondo erano ancora, nel Discorso sulla storia universale (1681) di Jacques-Benigne Bossuet, alla fine del Seicento, le coordinate fondamentali in cui iscrivere la storia dell’umanità. Cinquant’anni dopo, questo maestoso edificio era crollato. Il Trattato (1670) spinoziano e la ricerca parallela di Richard Simon, con le conseguenti reazioni cattoliche e protestanti (Stroumsa 1997), non solo avevano provveduto a porre il problema della storicità del testo sacro, ma, mettendo in crisi la concezione dogmatica del tempo biblico, avevano scosso alle fondamenta l’edificio storico tradizionale. Il comparatismo poi, per lo piú usato in chiave apologetica, aprendosi coi considdetti «free thinkers», da Boulainvilliers a Toland, a possibilità inesplorate sulla spinta delle scoperte dei nuovi mondi, doveva gettare le basi di un nuovo modo di considerare la presenza costante e uniforme di idee e pratiche religiose, sottratto ormai ai condizionamenti della teologia naturale e della sua variante deistica. Come insegna ad esempio l’opera di Pietro Giannone, si veniva affermando

l’esigenza di una storia comparata delle religioni, dei costumi e delle cerimonie religiose, che fosse, nel contempo, una storia delle civiltà erudita e secolarizzata (Ricuperati 1999). Alla base di questo progetto stava una svolta antropologica radicale. Realizzando un progetto di Locke, il posto della storia sacra era stato preso da una storia della ragione umana, delle sue umili origini, dei suoi tanti erramenti, del suo definitivo trionfo. Le affermazioni teologiche sulla natura peccaminosa dell’uomo dovevano ormai cedere il passo alle indagini psicologiche sugli stati e le malattie mentali come cause di fenomeni religiosi «eccentrici», dalla stregoneria alla profezia, dalle visioni a tutti quegli stati alterati di coscienza che ormai un numero crescente di studi, muovendosi sulle orme di Hobbes e soprattutto di Spinoza, dalla Natural History of Superstition (1709) di John Trenchard alla Lettera sull’entusiasmo (1708) di Lord Shaftesbury, criticavano come parto negativo di un’immaginazione priva del controllo della ragione. È difficile sottovalutare l’importanza che, in questa svolta, ebbe il confronto con quelli che allora venivano chiamati barbari e selvaggi (Duchet 1971). Un’ormai amplissima e plurisecolare letteratura di relazioni missionarie e di viaggi permetteva di riconoscere i popoli illetterati come un imprescindibile termine di paragone, uno specchio in cui imparare a misurare le distanze che li separava dall’europeo colto, cogliendo eventualmente le analogie con le forme di pensiero dei popoli dell’antichità. Valga per tutti il caso di Joseph-François Lafitau e dei suoi Moeurs des sauvages Amériquains, comparés aux moeurs des premiers temps (1724). Anche se, per giustificare le uniformità religiose che egli riteneva di aver messo in luce, il gesuita ricorreva a una tipica teoria teologica come la rivelazione primordiale, l’importanza etnografica della sua opera e lo sforzo comparativo che la anima dovevano risultare alla lunga piú importanti del tradizionale rivestimento teologico. Opere come quelle di Lafitau risultarono decisive nella messa a fuoco di un problema di fondo che percorre tutta la storia del pensiero illuministico e che costituisce un contributo fondamentale all’interpretazione del fatto religioso: la critica del pensiero mitico. La costruzione di un modello esplicativo delle origini del mito, rintracciabile nelle correnti piú diverse del pensiero illuministico, da Fontenelle a Vico, da Hume a De Brosses, costituisce un tipico esempio del modo in cui, sullo sfondo di nuove

conoscenze, antichi topoi potevano riacquistare nuova vita. Il fondale della scena era costituito dagli spunti climatologici di Montesquieu e dalle grandiose rappresentazioni della preistoria dell’umanità, che dovevano culminare nella Histoire naturelle di Buffon. Su questa scena si agitava ora una Natura selvaggia e primordiale, crudele e terrificante. Il protagonista era uno dei giganti antediluviani cari a Vico, un antenato in possesso di un intelletto rozzo, privo in sostanza di idee, dominato di conseguenza dal mondo dei sensi e delle passioni, personificazione vivente della gnoseologia di stampo lockiano e delle sue critiche all’entusiasmo e alla mania religiosi, preda com’era di un’immaginazione accesa e incontrollata, pronta a cadere vittima dei terrori provocati dal circostante scenario apocalittico. Naturalmente nei differenti autori i dettagli potevano variare; non variavano, però, i criteri che stavano alla base della scenografia. Un evento naturale straordinario, infatti, veniva individuato come la causa di quel timor panico che, mettendo in moto in modo incontrollato l’immaginazione del protagonista, aveva provocato l’invenzione degli dèi. Un esito che a noi pare scontato, ma che invece va visto come «una delle grandi rivoluzioni dell’età» (Manuel 1959, p. 132). Non solo, infatti, in questo modo era posto quel problema delle «origini» della religione che doveva trovare la sua piú lucida presentazione nella Storia naturale della religione (1757) di David Hume, ma queste «origini» erano fondate in uno schema cognitivo di progresso e di evoluzione della mente umana secondo una teoria intellettualistica che doveva a lungo attirare l’interesse degli storici e dei teorici dello sviluppo religioso dell’umanità sulla storia delle credenze, a tutto detrimento della storia delle pratiche. 4. Religione e religioni: la svolta romantica. Agli albori dello Sturm und Drang, in un frammento intitolato Sulle diverse religioni, Johann Gottfried Herder aveva sostenuto la tesi secondo cui i canoni dottrinari delle religioni, al pari dei sistemi filosofici elaborati dall’umanità nel corso della sua storia, dovevano essere classificati non piú sotto il profilo, teologico e speculativo, della coppia «verità/errore» (un accostamento sterile perché aprioristico), bensí semplicemente come opinioni umane, nate sul terreno di peculiari esigenze nazionali e culturali. Ne conseguiva l’esigenza di una storia delle religioni: scriverla, confessava Herder, sarebbe stato un suo «ardente desiderio». In questo modo Herder, se

per un verso sintetizzava felicemente la svolta antropologica e naturalistica che la cultura illuministica aveva prodotto anche nello studio della religione, per un altro, in modo altrettanto felice, indicava il nuovo alveo, quello della storia, in cui il gran fiume dell’interpretazione della vita religiosa si apprestava d’ora in poi a scorrere. Anche se sullo sfondo la divinità pare continui ad agire con la sua rivelazione e il suo piano provvidenziale, pur tuttavia essa, come Herder preciserà nel magistrale schizzo di storia universale Ancora una filosofia della storia, «sulla scena umana lascia libero gioco alle passioni dell’uomo e in ogni epoca queste si manifestano conformemente all’età e cosí in ogni parte del mondo, in ogni nazione. La religione non può infatti realizzare i suoi fini se non con gli uomini e per gli uomini» (1971, p. 52). Per realizzarsi, l’ardente desiderio di Herder dovette attendere ancora un secolo. Infatti, l’edificio della Storia delle religioni come realtà istituzionale e accademica presente alla fine dell’Ottocento è un edificio a piú piani, complesso e variegato; se le sue fondamenta sono illuministiche, d’altro canto esso si è venuto costruendo soltanto in periodo romantico come conseguenza dell’avvento della Storia, sia come disciplina accademica sia soprattutto come prospettiva interpretativa della complessità del reale. Un reale che, sfuggito alla rigidità e all’immobilismo della ragione illuministica, si è trasformato in processo, in un fluire continuo, in un mutare cangiante e inarrestabile di forme. Anzi, il processo stesso è diventato la realtà. Ne consegue la centralità dell’esperienza: dal momento che è impossibile scorgere – a meno di non ripristinare una prospettiva provvidenzialistica – la meta di questo fluire eracliteo, nulla in questo scorrere è irrilevante o proibito, l’esperienza del particolare ponendosi come l’unico criterio di ancoraggio. E questo, anche perché – tratto fondamentale della nuova poetica romantica, che traeva nutrimento, contribuendo ad alimentarla, dall’immanentizzazione della religione – al fondo di questa esperienza dell’attimo, del frammento, si cela la convinzione che il finito, lungi dall’essere concluso in se stesso, si apre all’Infinito. Sicché, per la mente romantica, l’Infinito è presente non soltanto in ogni forma e in ogni particella del finito, a cominciare da quel «sacrario» che è diventata l’interiorità individuale – vero altare su cui si celebra e si rinnovella il particolare sacrificio della banalità della propria vita quotidiana per aprirsi al mistero dell’irruzione del sacro –, ma in ogni periodo e in ogni epoca della storia.

Chi trasformò questa visione in uno schema interpretativo nuovo del fenomeno religioso fu Friedrich Schleiermacher nei suoi Discorsi sulla religione (1799). La religione vi è definita «intuizione e sentimento» dell’universo, una disposizione psicologica che si configura come una dimensione antropologica costitutiva dell’uomo in quanto tale – idea, occorre aggiungere, precorritrice di tutte le successive interpretazioni del sacro come dato strutturale della coscienza (cfr. cap. III par. 4) –, una «provincia del sentimento» che, impedendo di assimilarla alla dimensione razionale (come in Hegel) o etica (come in Kant), ne fonda l’autonomia assoluta, nel contempo riconoscendone la dimensione pragmatica, la forza vitale. La religione è per sua natura un fatto storico: come l’Infinito non può mai essere conosciuto in sé, ma soltanto attraverso le sue «incarnazioni» e manifestazioni storiche, del pari la religione non può che essere conosciuta «individualmente» e cioè in quelle particolari individualità storiche che sono le religioni positive. Ne consegue che gli uomini religiosi sono assolutamente «storici», dal momento che la religione contiene in sé un principio che la spinge a individualizzarsi, perché altrimenti non potrebbe «né esistere né essere capita». Ogni religione storica ha, dunque, un suo principium individuationis, un punto iniziale, un’idea, come nel caso delle religioni fondate, che è nel contempo il suo centro vitale, il germe che essa è destinata a realizzare, in modo autotelico, nella sua storia, contribuendo, in una prospettiva di storia universale, a realizzare la complessità di per sé infinita dell’idea di religione. Riunificando, anche se soltanto sul piano teorico, la spinta a studiare storicamente le religioni con l’esigenza, di cui si era fatta carico la riflessione filosofica, di pensare la natura della religione, Schleiermacher doveva cosí fornire l’agenda dei lavori alle indagini successive. 5. La «Comparative Religion» e le «origini» della religione. Il sorgere e l’affermarsi, nella seconda metà dell’Ottocento, di una vera e propria storia comparata delle religioni è l’esito di un processo complesso, legato certo a fattori accademici e culturali, ma in cui in realtà si riflette l’esigenza di un’epoca intera – incerta sul proprio destino e alla ricerca di fondamenti di fronte alle crescenti e corrosive minacce dei mutamenti indotti dai processi di modernizzazione – di fare i conti col proprio passato (Kippenberg 1997). Questo passato andava, d’altro canto, reinserito nel piú

generale passato dell’umanità, in ciò indotti sia dall’accumulo enorme delle conoscenze favorito da scoperte e studi sia dalla necessità di collocare in questo schema onnicomprensivo realtà nuove e perturbanti come quelle dei popoli primitivi. Lo studio critico, libero da ipoteche teologiche, della religione; la scoperta di nuovi mondi religiosi; il ritrovamento o la possibilità, grazie a decifrazioni e traduzioni, di avere accesso a nuove fonti, che, nel corso soprattutto dell’Ottocento, dovevano mutare radicalmente il panorama religioso; l’affermarsi stesso di una scienza storica; la nascita di una linguistica comparata indoeuropea, che doveva gettare le basi per uno studio comparato su basi scientifiche di universi religiosi come il mondo classico e il mondo vedico; questi ed altri fattori sinora evocati di per sé non sono, però, sufficienti a spiegare il sorgere e l’affermarsi, nella seconda metà dell’Ottocento, di una Storia comparata delle religioni. Come avviene per il sorgere di nuovi paradigmi interpretativi, decisivo doveva risultare il mutare, verso gli anni Sessanta del secolo, del clima culturale; mutamento che si cristallizzò in una nuova visione del mondo, culminata nell’evoluzionismo scientifico. Fu in quel torno di anni che Herbert Spencer, sulla scia dell’Origine della specie (1859) di Charles Darwin, cercò di estendere al mondo organico e sociale le leggi dell’evoluzione. Furono anche gli anni in cui i pionieri della nascente antropologia culturale, da McLennan a Morgan, da Lubbock a Tylor, gettarono le basi di quell’antropologia evoluzionista che, per i cinquant’anni successivi, costituí lo sfondo delle varie teorie interpretative ruotanti intorno all’interrogativo che il nuovo paradigma finí per imporre: quali sono le «origini» della religione? Presupposto comune delle differenti teorie evoluzionistiche che calcarono la scena culturale di quel periodo è un’ipotetica unità psichica dell’umanità. Secondo un modello già sperimentato dagli studiosi illuministi della mentalità mitica primitiva, i vari evoluzionisti partivano dall’idea che anche i «selvaggi» avessero una mente perfettamente umana e dunque a suo modo razionale, anche se ancora in una fase «infantile» di sviluppo. Se si volevano cogliere le «origini» della religione, occorreva di conseguenza interrogarsi sulle piú antiche forme attestate di credenza. La Comparative Religion, che sorse e si affermò in questo periodo, pare dunque dominata dall’esigenza, prima e piú che di comparare forme religiose «alte» appartenenti alle grandi religioni storiche (problema che s’imporrà

all’inizio del Novecento, ad opera della Religionsgeschichtliche Schule, come effetto dell’applicazione della comparazione allo studio delle origini cristiane), di individuare le «forme elementari» a partire dalle quali si sviluppano le varie religioni, secondo la ferrea legge degli stadi evolutivi, che da credenze semplici ed elementari conducono a credenze altamente evolute come la concezione di un Dio unico. In un ambiente dominato dalla scienza, come insegna il caso di Ernest Renan, vista come una forma nuova di religione, ciò veniva a significare la possibilità di conseguire quella meta, inseguita da secoli ma mai veramente attinta, di spiegare finalmente il mistero delle origini della religione, contribuendo nel contempo, attraverso questa spiegazione, al suo definitivo dissolvimento. Decisiva risultava appunto una comparazione tesa a rilevare uniformità e ricorrenze, allo scopo di poter ricostruire gli stadi fondamentali di sviluppo della religione: risalendo a ritroso questo gran fiume, si sarebbe cosí alla fine pervenuti alle sue sorgenti. Come precisava lo storico delle religioni olandese Cornelius Tiele, in un saggio del 1876, la comparazione aveva infatti lo scopo «di mostrare il modo in cui quel gran fatto psicologico, che noi definiamo religione», si è sviluppato e manifestato sotto forme varie, facendo vedere che tutte le religioni, comprese quelle delle nazioni piú sviluppate, «sono nate dagli stessi germi semplici e primitivi». Rintracciare questi «germi» divenne, dunque, lo scopo principale della Comparative Religion, che doveva estendere la sua influenza almeno fino allo scoppio della Grande guerra, quando entrò in crisi il paradigma evoluzionistico che la sorreggeva (Sharpe 1975). Attraverso l’applicazione delle leggi universali dello sviluppo all’enorme massa di materiali religiosi ormai a disposizione degli studiosi, questa corrente di studi si pose il compito di assegnare alle varie religioni un posto all’interno di un piú generale schema di evoluzione dell’umanità. Secondo uno dei suoi rappresentanti, il suo scopo consisteva «nel porre fianco a fianco le numerose religioni del mondo, in modo che, comparandole e ponendole deliberatamente in contrasto, si possa fare una stima attendibile delle loro rispettive affermazioni e valori»(Jordan 1905, p. XI). Le varie teorie che vennero costituendosi su questo sfondo, dall’animismo di Tylor al manismo (o credenza negli spiriti dei manes) di Spencer, rispondevano tutte alla convinzione che fosse possibile risalire al nucleo originario della credenza primitiva, agli strati piú arcaici in cui giacevano idee

e credenze che, come fossili riportati alla luce, potevano aiutare a ristabilire le forme primitive, elementari, della religione. Né le cose mutarono quando, sul volgere del secolo, in un saggio dal titolo programmatico, Pre-Animistic Religion, apparso sulla rivista «Folk-Lore» (1900, pp. 162-82), Robert Ranulph Marett, filosofo e antropologo di Oxford, discepolo e amico dello stesso Tylor, fece osservare, contro le tesi del maestro, che la sua teoria sull’animismo non era abbastanza primitiva per poter rappresentare la forma piú antica di religione. Al di sotto della credenza negli spiriti (sebbene non necessariamente in modo cronologicamente anteriore rispetto ad essa), c’era un senso piú indifferenziato del mondo, riempito dalla manifestazione del potere sovrannaturale, una nozione che implicava un senso indistinto di awe, di timore e tremore, «che porta l’uomo, prima che egli possa pensare o teorizzare su di esso, a rapporti personali con il soprannaturale» (Marett 1914 2, p. 1). Per designare questo potere, egli fece ricorso al termine melanesiano-polinesiano mana, fatto conoscere dalla pubblicazione nel 1891 di The Melanesians di Robert Henry Codrington; il mana era presentato come una potenza originaria e impersonale, «una forza distinta dal potere fisico», che agisce in tutti i modi possibili «per il bene o per il male e che è particolarmente vantaggioso possedere e controllare» (forza di cui ben presto la Comparative Religion avrebbe provveduto a trovare paralleli in altre religioni primitive, come l’orenda degli irochesi messo in luce da Hewitt: cfr. cap. III par. 4). Il dibattito che ne seguí , e che doveva concludersi con il rifiuto di ogni concezione dinamicistica, appartiene, piú che allo studio della conoscenza dei fatti religiosi, alla storia intellettuale dell’Occidente nel periodo dominato dal positivismo. Cosí, se l’animismo tyloriano, come teoria che pretendeva di individuare l’origine della religione nella «credenza in esseri spirituali», era debitore dell’interesse dell’autore e di un’epoca per lo spiritualismo allora dilagante nell’Inghilterra vittoriana, il preanimismo di Marett era figlio di un’epoca che, nel diffondersi dell’elettricità, trovava stimolo e conferma a vedere anche nella religione quella realtà «elettrica», meccanica, ma al tempo stessa potente, in grado di tener desto, di «illuminare», il gran corpo della società. Inutilmente un osservatore acuto come lo scozzese Andrew Lang volse i suoi strali contro quest’edificio interpretativo. In un saggio del 1887

(contenuto in Myth, Ritual, and Religion), utilizzando materiali etnografici, egli dimostrò che il concetto di un dio creatore, spirituale, paterno, onnipotente e onnisciente, lungi dall’essere, come voleva la teoria evoluzionistica di Tylor, il punto di arrivo di un complesso sviluppo delle idee religiose, si ritrovava proprio presso le popolazioni piú arretrate. Questa scoperta, che sta alla base delle successive teorie sul monoteismo primordiale di Padre Schmidt e della Scuola che a lui si ispira, doveva rimanere in sostanza inefficace finché dominò il paradigma evoluzionistico. Né servirono a metterlo in discussione le varie critiche avanzate da piú parti, in particolare il ricorso a spiegazioni genetiche di tipo diffusionistico, che dovevano cristallizzarsi nella cosiddetta «teoria dei cicli culturali» di Ratzel, Frobenius e Graebner. Le teorie dinamistiche trovarono nuovo alimento sia nel dibattito sul rapporto tra magia e religione, inaugurato da James Frazer, sia nei lavori della scuola sociologica francese che, in particolare nel saggio di Marcel Mauss, Esquisse d’une théorie générale de la magie (1902-903), tese a rileggere il mana in chiave sociale, quale prodotto delle emozioni e degli impulsi collettivi, in quanto manifestazione simbolica del potere che tiene legata insieme la società. In conclusione, le varie teorie dinamistiche ribadirono, seppur con varietà di accenti, l’importanza di una realtà, il potere o meglio la potenza, come «origine» della religione; in questo modo essa si configurava come un complesso di atti e credenze incentrato su di un potere concreto, autonomo, efficace, presente in tutti gli oggetti, a prescindere dal fatto che tale potere fosse differenziato oppure universale, e che i fedeli ne avessero o meno una chiara percezione. Sottolineando la priorità di questa dimensione impersonale, le varie teorie dinamistiche riflettevano, nel contempo, l’avvento di una società postcristiana, alle prese con un universo religioso che non si lasciava piú rinchiudere nell’abito troppo stretto di definizioni personalistiche del divino, ma si poneva il problema di trovare un minimo comun denominatore in grado di collegare religioni teistiche e non teistiche; era cosí aperta la via per la «scoperta» di una fondamentale categoria, quella del sacro (cfr. cap. III par. 4). Nel contempo queste teorie, accentuando sempre piú l’importanza del dato emozionale e «irrazionale», di contro all’originario intellettualismo presente nell’ipotesi tyloriana, erano testimoni, all’inizio del secolo, di un mutamento profondo che, mettendo in discussione in modo

radicale il modello evoluzionistico, doveva in breve portare all’emergere di un modo diverso d’interpretare il fatto religioso. Prima, però, di prendere in considerazione tale novità ermeneutica è indispensabile accennare al contributo che – sullo sfondo del quadro culturale dominato dall’evoluzionismo scientifico e della reazione che questa concezione suscitò – le nuove scienze umane, dalla psicologia alla sociologia, recarono all’interpretazione dei fatti religiosi. 6. Scienze umane e religione: il caso della psicologia e della sociologia. Anche se l’idea di una scienza dell’uomo in grado di indagare, al pari della natura fisica, i misteri della natura umana, come si è accennato, è un progetto tipicamente illuministico, che troverà un fertile terreno di riflessione in particolare presso gli enciclopedisti prima e gli idéologues poi, soltanto in clima positivistico si assiste all’emergere di quelle discipline, dall’antropologia alla sociologia, dalla psicologia alla linguistica, che andranno a costituire i rami del nuovo albero epistemologico delle scienze dell’uomo (per una esposizione piú analitica cfr. Filoramo e Prandi 1997 3). Che i padri fondatori di queste discipline, da James a Freud, da Durkheim a Weber, nel tentativo di ridefinire i metodi e i compiti dell’indagine razionale, abbiano assegnato un posto centrale all’interpretazione della religione, non deve certo stupire, se si pensa al fatto che la religione, nella fattispecie il cristianesimo, stava subendo i colpi sempre piú decisi dei processi di secolarizzazione: un vecchio mondo, nel quale la religione aveva recitato una parte decisiva, era ormai entrato in agonia. Diventava, di conseguenza, inevitabile interrogarsi sul ruolo e sulla funzione che la religione aveva svolto, continuava a svolgere, ed eventualmente avrebbe ancora potuto svolgere nella storia dell’umanità. E questo, secondo un tratto di fondo comune a questi differenti approcci interpretativi, non piú caratterizzati da una prospettiva storico-genetica. In un’ottica sociologica o antropologica, infatti, la storia appariva ormai incapace di «esaurire» la complessità e la ricchezza dei fenomeni religiosi. Se si voleva veramente comprenderli, occorreva abbandonare la superficie del racconto storico, per immergersi negli abissi dell’inconscio o esplorare quei fondali dove agivano le funzioni sociali che la religione svolge, indipendentemente dalla consapevolezza dei suoi aderenti, nei piú diversi tipi di società. Quella che, in altri termini, era entrata in crisi era una concezione della storia come prodotto di soggetti

storici consapevoli, una concezione che stava ormai cedendo progressivamente il passo al corteo di «soggetti» invisibili e anonimi, ma non per questo meno potenti, di «funzioni» e «strutture», in cui e attraverso cui si celebrava la moderna crisi del soggetto. Eppure, la coeva svolta fenomenologica, che esamineremo in un paragrafo successivo, con la sua spinta a ripristinare la centralità del soggetto interpretante, ci ricorda che, sul testo della critica destrutturante messa in atto dalle varie scienze umane e sperimentata sul gran corpo delle religioni, si stava costruendo un controtesto destinato a successi insperati, solo se si tiene conto del fatto che l’esigenza ermeneutica si ripresenta oggi all’interno delle varie scienze umane che si interessano della religione, come dimostrano tra l’altro i recenti successi dell’antropologia interpretante di antropologi come Clifford Geertz. In fondo, si tratta di una contraddizione tipica della cultura moderna, fecondamente presente già nei padri fondatori delle varie scienze dell’uomo. Freud o James, Durkheim o Weber, infatti, si erano formati nell’imperante clima positivistico di fine Ottocento: e ai metodi e agli scopi dell’indagine scientifica della religione di tipo positivistico rimasero, anche se in forme e gradi diversi, sostanzialmente fedeli. Ma l’anti-intellettualismo di Durkheim, che doveva portarlo a sottolineare la dimensione essenzialmente emozionale della religione, o l’attenzione di Freud per il mondo pulsionale dell’inconscio corrono paralleli all’attenzione di James per la forza pratica della vita religiosa o allo sforzo di Weber di costruire una sociologia che abbia al suo centro l’individuo e i suoi «interessi», e non la società. Vecchio e nuovo, in questo modo, s’intrecciavano, in un connubio fecondo che doveva contribuire in modo decisivo alla formazione delle Scienze delle religioni. Tra le varie scienze umane che si piegarono sul letto di una religione apparentemente agonizzante, un ruolo particolare ebbero le nascenti psicologia e sociologia. Non è un caso che la riflessione sulla natura dell’esperienza religiosa o sulla funzione della religione nella genesi della comunità sociale abbia recitato una parte decisiva nel pensiero dei padri fondatori di queste discipline. Ciò che accomunava questi pensatori, cosí diversi per formazione culturale e interessi personali, era la centralità che la riflessione sulla natura della religione rivestiva per comprendere meglio l’enigma del moderno in cui si trovavano gettati a vivere; di un moderno, per riprendere una bella espressione di Georg Simmel, la cui essenza consisteva

nel dissolversi dei contenuti stabili nello scorrere e nell’errare dell’anima (Kippenberg e Von Stuckrad 2003, p. 29), di un’anima individuale ormai senza fissa dimora. Comprendere la dinamica della vita religiosa, individuale e sociale, si poneva ormai come le nuove colonne d’Ercole che i nuovi Ulissi del sapere umanistico dovevano avere il coraggio di oltrepassare, se volevano darsi una ragione delle rotture e dei mutamenti che stavano vivendo. Interpretare la religione, a cominciare dalla propria, diventava la via regia per comprendere la propria posizione nella società in divenire continuo tipica della modernità. Rimandando a un prossimo capitolo una presentazione piú analitica delle differenti Scienze delle religioni, dei loro rapporti e delle loro differenze (cfr. cap. IV), converrà dunque soffermarsi un momento sulle fasi germinali della psicologia e della sociologia della religione, assunte a modello esemplare del modo in cui i pionieri delle scienze umane hanno gettato le basi delle Scienze delle religioni. La psicologia della religione, intesa come un ramo della psicologia scientifica in grado di applicare il metodo sperimentale allo studio della dimensione psicologica del fatto religioso, è sorta negli Stati Uniti verso la fine dell’Ottocento. Fatto a prima vista sorprendente, dal momento che altri paesi europei, come la Germania o la Francia, all’avanguardia in questo tipo di studi, già da tempo si erano mossi in questa direzione. In realtà, furono cause di ordine storico-culturale a determinare quest’evento. Gli Stati Uniti, infatti, costituivano un laboratorio di fedi viventi, capace di offrire una materia eccezionale allo studio sperimentale dei primi psicologi americani che, come Granville Stanley Hall, si erano formati nel primo laboratorio psicologico fondato da Wilhelm Wundt nel 1879 a Lipsia. Né si deve trascurare il fatto che, al volgere del secolo, la filosofia americana, da cui provenivano alcuni di questi psicologi, era sempre piú dominata da correnti pragmatiste, da un tipo di pensiero, cioè, secondo il quale «la religione è ciò che la religione fa», con l’importante corollario che la religione si configura in funzione dell’efficacia pratica (e dunque psicologica) che essa dimostra di possedere. Che, infine, la nuova disciplina privilegiasse come banco di prova dei suoi esperimenti e delle sue interpretazioni il fenomeno della conversione, non deve stupire, se si pensa alla centralità che nell’evangelismo americano

dell’Ottocento conobbe il tema del «risveglio», con la collegata palingenesi spirituale del twice-born. Considerata in questa prospettiva, la psiche umana si trasformava nel terreno privilegiato di coltura del sentimento e delle emozioni religiosi. Non che esistesse una facoltà psicologica sui generis generatrice del sensus numinis; ché, anzi, la psicologia della religione americana, soprattutto in esponenti come James H. Leuba, si pose proprio il compito di dimostrare che «ogni emozione e sentimento umani possono apparire nella religione e che nessuna esperienza affettiva in quanto tale è distintiva della vita religiosa» (1912, p. 269). La vita religiosa, in altri termini, era una provincia della scienza come ogni altra parte della vita psichica e, in quanto tale, poteva, anzi doveva diventare oggetto di analisi scientifica. Quest’esperienza, d’altro canto, poteva essere esaminata secondo due prospettive profondamente diverse. Si poteva, come fece Edwin Diller Starbuck nel suo The Psychology of Religion (1899), studiare la psicologia religiosa in modo quantitativo e statistico, ricercando i tratti comuni che contraddistinguevano il campione prescelto: un’ottica dominata da un’esigenza nomotetica, tesa cioè a trovare leggi di comportamento anche nel campo della vita religiosa. Oppure si poteva, come fece William James in The Varieties of Religious Experience (1902), ricercare – in una prospettiva idiografica e cioè attenta a sottolineare l’individualità e, dunque, l’irripetibilità dell’esperienza religiosa – analizzare e descrivere le varie forme in cui questa si manifestava. Se, nel primo caso, il metodo seguito era quello quantitativo dei questionari e delle statistiche, nel secondo s’imponeva il ricorso a testimonianze individuali come diari ed autobiografie; l’attenzione dello psicologo, di conseguenza, si concentrava sulla messa in luce di aspetti non piú normali e medi, ma eccezionali, al limite del patologico, come la conversione o la mistica, in grado, proprio attraverso la particolare lente della loro eccezionalità, di mettere meglio a fuoco la straordinarietà delle esperienze religiose indagate. Se il metodo jamesiano è rimasto dominante nella tradizione americana (e non solo americana) è anche per la sua flessibilità, per il pluralismo che lo anima, ma forse soprattutto per quell’attenzione alle dinamiche inconsce (o, come si diceva allora, subliminali), che porteranno non a caso lo psicologo americano, negli ultimi anni della sua vita, a guardare con interesse alla

psicologia dinamica freudiana. In un universo contraddittorio e pluralistico, la tradizionale posizione razionalistica, come insegnava tra l’altro l’intuizionismo di Bergson, si rivelava insostenibile. Realtà psichica, la religione era un’esperienza genuina che poteva e doveva essere indagata secondo un metodo seriale, in conseguenza del quale «i fenomeni sono compresi nel modo migliore quando sono posti entro la loro serie, studiati nei loro germi e nella loro decadenza per eccesso in maturità e posti in rapporto con le forme esagerate e degenerate» (James 1904, p. 332). Ciò significava, per un verso, studiare la dimensione psicologica della vita religiosa allo scopo di gettare ulteriore luce sulla complessità della natura umana, secondo un programma che tradisce le sue matrici illuministiche; per un altro, accostarsi a quest’esperienza con un metodo duttile, cauto, attento alle asperità del terreno, pronto a render conto della ricchezza dell’esperienza vissuta, sensibile anche ai richiami che vengono dall’inconscio, secondo un programma in linea con la svolta fenomenologica degli inizi del Novecento ed erede di esigenze romantiche. Se l’opera di James conserva intatta, a un secolo di distanza, la sua vitalità, ciò dipende soprattutto dalla sua capacità di mediare, sul terreno concreto dell’analisi e della descrizione, queste due esigenze a prima vista inconciliabili, ma anche imprescindibili, come mostra lo stesso dibattito piú recente, se si vuole veramente render conto della ricchezza e della varietà delle espressioni psicologiche dell’esperienza religiosa. La psicologia della religione americana conobbe, almeno fino agli anni Venti, una notevole fortuna, confermata da un fiorire di iniziative, dalla fondazione di riviste, associazioni, cattedre al diffondersi di un’ampia letteratura scientifica. L’avvento però, tra le due guerre, della psicologia dinamica freudiana doveva mutare profondamente la situazione dei rapporti tra psicologia e religione. Nella prospettiva dinamica di Sigmund Freud, infatti, lo statuto della religione in quanto «realtà» psicologica cambia radicalmente. La religione appare ai suoi occhi un appagamento di desideri ancestrali, cosí radicati da giustificare la sua forza e persistenza e, nel contempo, la sua capacità di sfuggire alle verifiche della scienza (di qui la sua natura illusoria, refrattaria agli attacchi della scienza, come Freud cercò di dimostrare ne L’avvenire di un’illusione del 1927). D’altro canto, proprio la decifrazione della trama dei rapporti nascosti tra credenza e desiderio – trama

la cui strategia è occultata nell’ordito delle pratiche delle fedi religiose – si è posta a Freud come l’oggetto peculiare della sua critica analitica. In un importante contributo del 1907, Azioni ossessive e pratiche religiose, Freud stabilisce un fondamentale criterio metodologico di analogia tra meccanismo della nevrosi ossessiva e pratica religiosa. Quest’analogia è fondata sul fatto che, alla base di entrambe, vi sarebbero la repressione o la rinuncia a determinati moti pulsionali, generatrici, in entrambi i casi, di angoscia e di un senso di colpa; quest’ultimo troverebbe una sorta di catarsi in quel meccanismo dello spostamento che, nel caso della pratica religiosa, induce a relegare in secondo piano, dietro il paravento del cerimoniale, il contenuto del pensiero. Le vere cause dell’agire religioso non sono dunque manifeste, ma latenti. In questo modo, Freud applicava in chiave di psicologia dinamica quella fondamentale distinzione tra funzione latente e funzione manifesta che, in quegli di anni, muoveva sociologi come Durkheim a cercare in cause sociali profonde il vero motore della pratica religiosa: un criterio destinato a grande fortuna nelle teorie interpretative della religione che seguiranno. A ciò si aggiunge un altro contributo specifico fondamentale da parte di questo metodo, teso a sottolineare la natura conflittuale, oltre che inconscia, dei processi psichici, e precisamente la messa in luce dell’importanza dell’aspetto motivazionale. In questo modo Freud ha aperto la strada a uno studio delle credenze e delle pratiche religiose, capace di tener conto della realizzazione del desiderio, del controllo degli stimoli, della duplicità dei processi di pensiero, della relazione oggettuale, della genesi della coscienza e dell’ideale dell’io, dell’economia degli aspetti libidinali e aggressivi: volti diversi di una realtà umana poliedrica e complessa, che il «maestro del sospetto» ha contribuito a disvelare e a decostruire. Alla luce di queste analisi, la religione non può piú essere rappresentata come un tratto fisso o una particella statica dell’esperienza, ma come una qualità dinamica, un aspetto essenziale di quel conflitto fondamentale che è la lotta per la vita, a cui essa peraltro ambisce recare una risposta definitiva. Che Freud, da Totem e tabú (1912-13) a L’uomo Mosé e la religione (193438), abbia poi di fatto violato questo criterio di analogia, cercando di trovare un fondamento storico alla sua interpretazione della religione, è vicenda che in questa sede non interessa, appartenendo essa piuttosto alla storia del rapporto personale tra Freud e la religione, in particolare l’ebraismo. Questi

tentativi, in fondo, ci ricordano la natura di Giano bifronte di queste interpretazioni, per un verso contributi metodologici originali e fecondi, per un altro espressione dell’ideologia di chi le formulò e, in quanto tali, destinati a tramontare con queste stesse ideologie. Quanto al contributo della psicologia analitica di Jung, esso può esser visto, al pari del complesso rapporto che legò il suo fondatore a Freud, come antitetico e, nel contempo, complementare. Al primato della ragione freudiana, fredda e spassionata analizzatrice delle profondità dell’inconscio, Jung contrappone, infatti, il primato dell’intuizione e della fantasia. Ugualmente, a una concezione della psiche dominata, certo, da forze inconsce, ma pur sempre indagabile nelle sue stratificazioni, Jung contrappone la «realtà dell’anima», un dato costitutivamente irrazionale al pari della vita stessa, rappresentato sotto le forme di inconscio collettivo, in quanto tale inconoscibile se non attraverso la manifestazione delle sue costellazioni simboliche, vale a dire gli archetipi, forme a priori dell’ordinamento psichico e, nel contempo, categorie del pensiero simbolico. Su questo sfondo sommariamente abbozzato, il contributo junghiano all’interpretazione in chiave psicologica della vita religiosa si pone su di un duplice livello. In quanto realtà psichica, la religione è, infatti, manifestazione nella coscienza del singolo della potenza numinosa dell’inconscio collettivo e dei suoi archetipi, forme simboliche che rimandano alle esperienze fondamentali dell’uomo. Per altro verso, tuttavia, la natura stessa del metodo junghiano, teso a descrivere concretamente, e dunque storicamente, il modo di manifestazione di questi archetipi nelle varie religioni, doveva condurre lo psicologo svizzero a interessarsi in modo continuo e sistematico del mondo delle religioni e delle sue manifestazioni fondamentali, dall’alchimia alla gnosi, simboli storicamente condensati di fenomeni psichici chiave come la trasformazione o il processo di ricerca e individuazione del Sé, al punto che si sarebbe tentati di definire la sua opera una sorta di storia delle religioni sub specie psychologica. Jung affronta quella dinamica tra religione e religioni che era stata inaugurata da Schleiermacher e che tra le due guerre era tornata al centro degli interessi della fenomenologia della religione sul versante psicologico del rapporto tra le poche note elementari rappresentate dalla dimensione metastorica degli archetipi e le variazioni costituite dalle loro manifestazioni storiche. Contribuisce cosí a suo modo ad alimentare il

problema della tensione tra l’analisi di quei particolari «linguaggi» storici che sono le religioni positive e il riconoscimento delle strutture soggiacenti, della loro «lingua», che nel corso del Novecento si è riproposto continuamente, sotto le specie del confronto tra analisi diacronica del divenire delle religioni e analisi sincronica e sistematica delle strutture soggiacenti: l’antica e feconda querelle di come rapportare analisi storica e analisi filosofica. Per quanto concerne invece la sociologia della religione, i pionieri della sociologia, da Saint-Simon e Comte in Francia a Spencer in Inghilterra, hanno iniziato a costruire il nuovo edificio disciplinare spinti dall’assillo di un problema fondamentale: definire i caratteri e stabilire i confini della moderna società industriale, che stava sorgendo sulle rovine delle società di ancien régime spazzate via dalle rivoluzioni. E non è un caso se i primi tentativi in questa direzione si sono avuti nella Francia della Restaurazione, in una nazione, cioè, che nel corso di pochi decenni aveva visto crollare una secolare impalcatura sociale. Che per questi primi analisti sociali la religione si sia presentata come un oggetto d’indagine privilegiato, se non obbligato, non deve dunque stupire. Per secoli le tradizionali istituzioni religiose avevano svolto nella società premoderna funzioni sociali determinanti di legittimazione dell’ordine esistente, che la Rivoluzione francese sembrava aver eliminato e che, comunque, l’affermarsi della società industriale pareva mettere radicalmente in discussione. Non dovremo, di conseguenza, stupirci del fatto che l’interrogativo sulle funzioni sociali della religione abbia dominato le prime analisi in prospettiva sociologica né, tanto meno, del fatto che tale prospettiva sia rimasta centrale fino ad oggi in questo tipo di studi. In un’ottica evoluzionista, la centralità delle funzioni sociali svolte dalla religione, nella fattispecie dal cristianesimo nelle sue articolazioni confessionali, era un fatto che apparteneva al passato, sia che si discutesse sulla natura di queste funzioni sia sulla loro successione nella teoria degli stadi. Agli occhi dei principali analisti sociali come Comte, scontata appariva l’inevitabile perdita d’importanza sociale, se non la definitiva scomparsa, della religione: prima radicale formulazione della tesi della secolarizzazione. Ma che cosa mai avrebbe preso il posto della religione tradizionale come fondamento e garante della morale e della coesione sociale, se non, come insegna il caso esemplare della «religione dell’umanità» dello stesso Comte,

un’altra forma religiosa, se pur secolare, priva cioè di un orizzonte trascendente? Se si considera la tradizione intellettuale francese che da Saint-Simon e Comte, attraverso la mediazione di Fustel de Coulanges, porterà, sul finire dell’Ottocento, alla fondazione, ad opera di Durkheim, della scuola sociologica francese, emerge chiaramente il dato ideologico soggiacente a questo tipo di studi, dato che doveva influenzare in modo decisivo l’interpretazione della religione: la necessità di realizzare quel programma di «religione civile», posto per primo da Rousseau, in un paese, come la Francia, dominato da una tradizione cattolica (cfr. cap. IV par. 3 e cap. VIII par. 3). Questo programma si trasformerà nell’esigenza di riflettere sulla natura della religione come fattore d’integrazione sociale, creatore e alimentatore di simboli collettivi in grado sia di promuovere l’azione sociale sia di fare da «collante» nei confronti di un tessuto sociale reso sempre piú smagliato dai crescenti fenomeni di anomia. Le forze che muovevano la folla solitaria protagonista della nuova società di massa erano forze profonde e pratiche, pulsioni collettive prima e piú che idee. Del resto, questo era l’insegnamento che scaturiva dalle analisi di acuti storici delle religioni antiche come Fustel de Coulanges. Come aveva sottolineato William Robertson Smith, un antico «non sceglieva la sua religione o se la formava da sé; essa gli giungeva come parte di uno schema generale di obblighi sociali e leggi che lo riguardavano, come qualcosa di evidente che scaturiva dalla sua posizione nella famiglia e nella società» (Robertson Smith 1969, p. 28). Ora, quel che era vero per l’uomo antico si rivelava, nonostante tutte le differenze, non meno vero per l’uomo moderno. Chi dimostrò meglio di ogni altro l’obbligatorietà sociale del vincolo religioso, contribuendo in modo determinante a gettare le basi di una teoria sociale collettiva dell’azione religiosa, fu Durkheim. Insieme con Marx, anche se percorrendo una strada diversa, il sociologo francese sottolineò il primato della società sull’individuo: le istituzioni, anche quelle religiose, non sono il risultato dei sentimenti o delle idee di singoli individui, ma della azione sociale di un gruppo, di un movimento, di una collettività, di un’individualità sociale, insomma, mossa da sentimenti e forme collettive di rappresentazione che trascendono e precedono, fondandoli, sentimenti e forme individuali. Riletta in questa prospettiva, la religione, lungi dall’apparire una realtà

squisitamente individuale come era stata considerata dalla tradizione protestante rappresentata dall’«individualismo metodologico» di Schleiermacher, si rivelava un sistema di forze sociali obbligante e vincolante, che agivano nascostamente e che soltanto la capacità divinatoria del sociologo era in grado di rivelare. Quel che Durkheim esprime nel linguaggio della sua epoca è un contributo metodologico che conserva intatta la sua attualità. Alla base dell’azione sociale, quale propellente in grado di far muovere ed agire gruppi e collettività, vi è una dimensione sacra, in grado di far trascendere al singolo la sua individualità per stabilire legami e vincoli collettivi e di gettare dunque un ponte verso l’etica. Per questo Durkheim non si stanca di sottolineare – del resto in linea con molti pensatori coevi – il dato emozionale collettivo della religione, la sua natura di «effervescenza», essendo la religione anzitutto «calore, vita, entusiasmo, esaltazione di tutta la vita mentale, trasporto dell’individuo al di sopra di se stesso» (Durkheim 1912, trad. it. p. 465), dunque sacrificio che si consuma in diverse forme rituali, dai piú antichi riti totemici australiani ai riti della società industriale, e che rende possibile il trascendimento degli egoismi individuali. Quanto alla conclusione cui Durkheim perveniva, secondo cui la società sarebbe l’origine unica di tutto ciò che è sacro, e dunque della religione stessa, quel che in questa sede conviene sottolineare è la ricchezza di spunti metodologici che questa affermazione conteneva e che si sono manifestati nella ricerca successiva. Si pensi alla centralità che, in questo modo, acquista l’analisi del simbolismo: «sotto il simbolo bisogna saper raggiungere la realtà che esso rappresenta e che gli dà il suo significato autentico. I riti piú barbari o piú bizzarri, i miti piú strani traducono qualche bisogno umano, qualche aspetto della vita individuale o sociale. Le ragioni che il fedele dà a se stesso per giustificarli possono essere, ed anzi sono spesso, errate; ma non per questo le vere ragioni cessano di esistere» (ibid., p. 4). Si potrebbe esprimere in modo piú chiaro quella distinzione tra funzioni latenti e funzioni manifeste che doveva essere teorizzata e resa celebre dal sociologo Robert Merton e che sta alla base di tante successive analisi della dimensione sociale e simbolica della religione? Nel contempo, l’analisi del simbolismo getta le sue radici in una tipica esigenza cognitiva: comprendere il modo in cui le società umane, attraverso miti e riti, imparano a classificare il reale. Le analisi sul totemismo

australiano, se sono irrimediabilmente superate perché troppo legate allo schema evoluzionistico che le reggeva, rappresentano, in quanto espressione di un’embrionale sociologia della conoscenza, un contributo fondamentale alla comprensione della logica della conoscenza religiosa, come dovevano fra l’altro dimostrare i saggi di alcuni allievi geniali di Durkheim, quali Mauss e Hertz. L’individuo, che in Durkheim occupa un posto periferico, ritorna al centro della riflessione sociologica nel pensiero di Weber. Si tratta di un’opzione di fondo che, alla luce del dibattito successivo, non va considerata come alternativa ma complementare a quella durkheimiana. Se tutta una corrente sociologica, in Francia e fuori di Francia, da Parsons a Luhmann, sulla scia di Durkheim, ha continuato a sottolineare la dimensione collettiva della religione e le sue funzioni sociali, altrettanto feconda si è dimostrata un’altra tradizione interpretativa, quale la fenomenologia sociologica di Berger e Luckmann, che ha in Weber e nella sua sociologia comprendente il suo punto di partenza e il suo referente obbligato (cfr. cap. IV par. 2.1). In opposizione alla tradizione sociologica francese, Weber riscopre l’importanza della decisione individuale e la funzione fondamentale dell’interesse del singolo, con i conseguenti criteri di razionalità che stanno alla base della sua azione. In sintonia con la svolta fenomenologica e con le filosofie vitalistiche dei primi anni del secolo, la vita appare al sociologo tedesco, nella sua assoluta infinità, una realtà irriducibilmente irrazionale. Quel che, di conseguenza, è accessible allo studio è soltanto la configurazione concreta che la singola individualità, come frutto di una scelta di libertà, stabilisce in relazione a valori culturalmente condizionati. Applicato al caso dell’agire religioso, questo significa che il soggetto protagonista dell’azione religiosa appare a Weber il punto d’incontro di due campi di forza contrastanti. Egli è ben consapevole che «sono gli interessi (materiali e ideali) e non le idee, a dominare immediatamente l’attività dell’uomo». D’altro canto, egli è convinto che «le “concezioni del mondo” create dalle “idee” hanno spesso determinato, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale attività» (Weber 1920, trad. it. pp. 342-43). Nel caso del mondo religioso, tali persuasioni implicano l’attribuzione alla religione di un’autonomia relativa, i cui fondamenti sono da Weber ricercati in due elementi: la «forza» della

religione e la particolare «logica» che la contraddistingue. Mentre la prima si manifesta nel carisma, la seconda si palesa nella peculiare razionalità che contraddistingue l’agire magico e religioso. In questo modo, vengono recuperati alla possibilità di un’analisi razionale anche i riti piú arcaici e apparentemente irrazionali, come quelli apotropaici, sottraendoli cosí ad ogni possibilità, latamente evoluzionistica, di un inquadramento nella categoria di sopravvivenza. Tutte le grandi analisi di Weber sull’etica economica delle religioni, che hanno conosciuto in questi ultimi anni una rinnovata e meritata fortuna, si basano sulla semplice, ma fondamentale idea, che i contenuti concettuali religiosi «portano in se stessi la loro legge e la loro forza coercitiva», manifestando cosí «la caparbia autonoma normatività dell’elemento religioso» (Weber 1922, trad. it. p. 440). Un insegnamento, quello dell’autonomia relativa del dato religioso, che Weber ha saputo magistralmente applicare nei suoi studi di sociologia storica e che un continuatore come Joachim Wach ha cercato di sistematizzare nella sua Sociology of religion (1944), ponendo a base della sua analisi il criterio di reciprocità d’influssi, secondo il quale ad un’analisi degli influssi della società sulla religione deve far da contraltare un’analisi degli influssi della religione sulla società. Ma in che cosa consisteva esattamente quest’autonomia della religione? E come e su che basi poteva essere fondata? La risposta a questi interrogativi fu il compito principale di una corrente di studi oggi sempre piú minacciata dall’acido corrosivo dell’oblio, ma che, in realtà, ha recitato una parte importante nella storia delle Scienze delle religioni del Novecento. Questa corrente, sorta come disciplina autonoma tra le due guerre, è figlia della svolta fenomenologica del primo Novecento. Parlarne, in questo schizzo storico, non è solo un dovuto riconoscimento alla centralità del ruolo svolto nel passato, ma discende anche dal fatto che l’esigenza ermeneutica e intepretativa che l’ha animata, in realtà, continua carsicamente ad animare il dibattito contemporaneo. 7. La svolta fenomenologica e la fondazione di una Scienza della religione comprendente. Tra fine Ottocento e primo Novecento, in reazione al meccanicismo positivistico e all’evoluzionismo scientifico, cominciarono a manifestarsi correnti alternative di pensiero di tipo vitalistico, dall’élan vital di Bergson

alla Lebens-philosophie di Simmel, che dovevano contribuire a mutare radicalmente il quadro interpretativo anche dei fatti religiosi. Determinante in particolare doveva risultare il tentativo di Wilhelm Dilthey di affermare, di contro alle scienze della natura, l’autonomia di quelle che egli propose di definire «scienze dello spirito». Il mutare dell’oggetto (l’attenzione si sposta ora dal mondo della natura al mondo, soprattutto storico, delle produzioni umane) e dello scopo (l’interpretazione dei fenomeni culturali creati storicamente dall’uomo) comportò un adeguamento del metodo: all’Erklären, la spiegazione genetica di stampo positivistico, succedette il Verstehen, la comprensione profonda e partecipata dell’interprete nei confronti del suo oggetto di studio. Questa svolta ermeneutica, destinata a dominare sempre piú il campo degli studi anche dei fenomeni religiosi, doveva trovare nella Germania di Weimar un particolare terreno di fioritura. Riprendendo spunti e prospettive del primo romanticismo, si venne affermando in vari pensatori una concezione idealistica della religione. Secondo questa prospettiva, le religioni positive sono organismi autosussistenti, che si dispiegano nella storia secondo leggi di sviluppo ideali, perché la loro «idea» iniziale contiene già in sé embrionalmente il loro sviluppo, essendo la storia soltanto il mezzo e il luogo in cui e attraverso cui questo sviluppo si realizza. Secondo questo schema idealistico, di conseguenza, la storia di una religione altro non è che la realizzazione della sua particolare idea o forma vitale, del suo Geist o spirito, vero principio dinamico del processo. Il conseguimento dell’idea, d’altro canto, equivale al conseguimento dell’essenza di quella religione. Lo studio dapprima storico-descrittivo, in seguito sistematico e comparativo delle religioni positive persegue, dunque, lo scopo di accedere all’essenza stessa della religione. Rudolf Otto e i suoi epigoni identificarono tale essenza col Sacro: un sacro variamente fondato e interpretato, ma che nei principali rappresentanti di questa corrente di studi doveva servire allo scopo comune di garantire, di contro agli assalti del riduzionismo evoluzionistico, l’autonomia assoluta della religione. A salvaguardia di quest’autonomia si cercò di costruire un nuovo edificio disciplinare, una Religionswissenschaft o Scienza della religione, che, a differenza di precedenti tentativi positivistici, tendesse, grazie al ricorso all’ermeneutica, a una conoscenza integrale dei fenomeni religiosi. Nell’intenzione dei suoi fondatori, il nuovo edificio disciplinare si doveva

articolare su tre piani: la base empirica, fornita dall’analisi descrittiva storicofilologica delle differenti tradizioni religiose, tesa a studiare il loro divenire e mutare; il piano sistematico della comparazione che, attraverso il ricorso a tipologie opportune, con l’aiuto di scienze come la sociologia e la psicologia, affrontasse la dimensione sincronica del fenomeno religioso, mettendo in luce permanenze e ricorrenze; infine, il culmine dell’edificio, rappresentato dalla comprensione della religione, nella quale si sarebbe colto il cuore dell’esperienza religiosa, la sua «essenza», secondo l’insegnamento di Otto in genere identificata con la nuova parola d’ordine, il sacro. Se le scienze diltheyane dello spirito le prestarono lo sfondo epistemologico, ricordando che lo studio della vita dello spirito esigeva presupposti, metodi, scopi peculiari, la Lebensphilosophie di Simmel, con la sua concezione organicistica delle forme vitali e il suo concetto irrazionale di «empiria» sottratto a ogni possibilità di controllo, forní alla nuova costruzione i necessari materiali ideologici. La Religionswissenschaft di Wach del 1924 costituisce, in questo senso, un manifesto programmatico altamente indicativo di un modo diverso di studiare scientificamente la religione. Attraverso mediazioni e metamorfosi varie, culminanti nella concezione dell’homo religiosus, cara a vari interpreti contemporanei, da Eliade a Ries, ha continuato ad esercitare il suo influsso anche nella seconda metà del Novecento. Dietro l’ideologia dell’homo religiosus non è difficile cogliere un’esigenza di autonomia assoluta della religione, che fu posta per la prima volta in modo chiaro da Otto. Quel che egli mise in luce – in un saggio famoso del 1910 dedicato alla critica radicale del riduzionismo che, ai suoi occhi, stava alla base della Völkerpsychologie di Wundt – è l’inderivabilità di quel sensus numinis individuato, al posto delle rappresentazioni wundtiane, come il prius logico e cronologico della religione. La sua inderivabilità da qualcosa che non è religione dipende, nella critica ottiana, dal fatto che la religione comincia con se stessa, «in quanto essa, come sensus numinis, fin dall’inizio si pone come Erlebnis o esperienza vissuta del misterioso rapporto e impulso verso il mistero; (in quanto tale), un Erleben che irrompe dalle stesse profondità della vita del sentimento, sollecitato da stimoli e cause esterne, un sentimento del “Totalmente Altro”». Anche se soltanto in Das Heilige (1917) Otto tenterà poi di fondare l’autonomia di questo Erlebnis particolare, ricorrendo a una teoria dell’a priori religioso, quel che emerge chiaramente già nel saggio del 1910 è la

centralità di una nuova categoria di stampo psicologistico: l’Erlebnis, l’esperienza vissuta, come cuore e motore della vita religiosa; una ripresa e rilettura, alla luce delle coeve filosofie vitalistiche, della concezione schleiermacheriana della religione. Ne consegue l’importanza, in questa impostazione di studi, della psicologia descrittiva come chiave di accesso al centro pulsante di vita del sacro: linea interpretativa cui rimarranno fedeli in sostanza gli epigoni di Otto, da Heiler a Mensching. Questa svolta si tradusse nella fondazione di un vero e proprio metodo, o piú esattamente – dal momento che è difficile individuare, almeno in una tradizionale prospettiva scientifica, un chiaro metodo fenomenologico – di una corrente di studi, denominata «fenomenologia della religione», che dominò soprattutto gli studi di Scienze delle religioni tedeschi fino ad anni non troppo lontani. Per comprendere la radicalità della svolta intervenuta in questo settore di studi, è dunque necessario delinearne, seppur in modo sintetico, il profilo. L’espressione «fenomenologia della religione» è relativamente antica, risalendo all’olandese Pierre Daniel Chantepie de la Saussaye, che tenne la cattedra di Storia delle religioni presso l’università di Amsterdam a partire dal 1878. Nella prima edizione del suo Manuale di Storia delle religioni (1887-89), egli introdusse l’espressione ad indicare la dimensione sistematica dell’indagine religionistica e cioè l’individuazione e classificazione, attraverso la comparazione, di «gruppi di manifestazioni religiose» ricorrenti quali gli oggetti del culto, l’adorazione della natura, i vari tipi di miti, gli dèi e cosí via. Riprendendo probabilmente da Hegel il termine «fenomenologia», Chantepie lo usava in una prospettiva non certo diversa dalla Comparative Religion coeva, poiché di fatto si muoveva sulle orme di un comparatismo ormai secolare che, da Court de Gébelin a Christoph Meiners, si era sforzato di «collezionare» e classificare i vari culti e credenze. Chi diede, però, sull’onda della svolta fenomenologica, uno statuto specifico alla fenomenologia della religione fu l’olandese Gerardus Van der Leeuw con la sua Phänomenologie der Religion (1933). Di contro al metodo positivista, che aveva indagato i fatti religiosi come in sé conclusi, la fenomenologia di Van der Leeuw, riprendendo due spunti essenziali della fenomenologia filosofica di Edmund Husserl e precisamente l’epoche come esigenza di distacco e la visione eidetica come ricerca degli elementi essenziali, come «ritorno alle cose stesse», si

propone di indagare il fenomeno e cioè «ciò che appare» in quanto prodotto dell’incontro tra un soggetto e l’oggetto che si manifesta. In questo modo, l’oggetto religioso, di contro al riduzionismo positivistico, è preservato nella sua autonomia di «realtà», che rimanda e, nel contempo, manifesta il sacro, secondo l’insegnamento di Otto verso cui anche Van der Leeuw era tributario. Nell’ottica dinamistica propria dell’opera, ciò che si manifesta è la potenza, dapprima in forma impersonale (l’oggetto della religione), in seguito in forme personali (il soggetto della religione), dando luogo ad una feconda interrelazione tra oggetto e soggetto religiosi, che coincide con l’azione sacra. Il fenomenologo dev’essere in grado di seguire questo sviluppo ideale, innanzi tutto grazie a una comprensione partecipata delle esperienze religiose che egli indaga, sintonizzandosi con esse, quindi descrivendole e comprendendole nella loro peculiare struttura, infine testimoniando la particolare «realtà» ad esse soggiacente. Ne deriva un’attenzione particolare – effetto, per altro, inevitabile dell’assunzione di un’ermeneutica dell’esperienza religiosa – volta alla dimensione psicologica, lungo una pista che era stata magistralmente aperta dal Sacro di Otto e dal libro sulla preghiera, Das Gebet (1919), di Friedrich Heiler. Troppe volte sono già stati esposti i limiti di quest’impostazione per insistervi. Essi si riassumono in un soggettivismo incontrollato in conseguenza del quale il fenomenologo, affidato alla sua capacità divinatrice e artistica, basa la sua indagine su un intuito che sfugge a qualsiasi controllo metodico. Merita, piuttosto, ricordare sommariamente come, dopo il capolavoro inimitabile dello studioso olandese, la fenomenologia della religione si sia in sostanza sviluppata lungo due linee. Una prima, corrispondente alla cosiddetta Scuola di Marburgo, di cui fan parte autori quali Mensching, Goldammer, Heiler e, piú recentemente, Lanczkowski, si è mossa lungo la via aperta da Van der Leeuw, mantenendo inalterato l’impianto ermeneutico e proponendosi, pertanto, attraverso la comparazione fenomenologica, il raggiungimento dell’essenza stessa della religione, definita come sacro. Una seconda – corrispondente alla tradizione fenomenologica olandese, da Bleeker a Waardenburg – criticando l’impianto ermeneutico con i suoi presupposti filosofici e le sue conclusioni di strumentalizzazione e testimonianza teologica, ha cercato di costruire un metodo fenomenologico dotato di maggior consapevolezza critica e piú aperto al problema dei

rapporti con la storia. L’autore, d’altro canto, che con maggior lucidità ha affrontato questo nodo problematico, è stato lo svedese Geo Widengren, autore dell’ultima fondamentale Fenomenologia della religione (1969). In quest’opera si confrontano ancora una volta le due principali tradizioni che caratterizzano questo tipo di studi: la tradizione che privilegia l’indagine storico-critica filologicamente avvertita, tesa a ricostruire genesi, divenire ed eventualmente morte delle religioni storiche; e la tradizione che avverte con maggior acutezza l’esigenza di riflettere su permanenze, forme, strutture e di definire le analogie dei fenomeni religiosi messi in luce dalla comparazione in funzione di un particolare modello filosofico. Formatosi allo stile neopositivistico della scuola di Uppsala, Widengren rifiuta i cardini di una fenomenologia della religione di tipo ermeneutico, siano essi una definizione a priori della religione in funzione del concetto di sacro o la richiesta, rivolta al fenomenologo, di particolari precomprensioni, essendo la «simpatia» verso il fenomeno che indaga null’altro se non quell’attenzione vigile con cui ogni studioso suole accostarsi al suo oggetto di studio. Se sul tradizionale albero dell’indagine storico-filologica si vuole innestare il tronco fenomenologico, questo è appunto possibile soltanto là dove il lavoro storico, ad esempio per carenza o assenza di fonti, non sia piú in grado di spiegare su base diffusionistico-genetica determinate parentele di fenomeni messi in luce. In effetti, le «corrispondenze fenomenologiche» che la fenomenologia di Widengren mette in luce, dai fenomeni di regalità sacra ai vari dualismi, sono parallelismi religiosi dovuti a una sorta di gemmazione spontanea, che hanno, d’altro canto, la loro humus e acquistano il loro senso soltanto gettando le radici nel terreno concreto della storia. Le strutture e i meccanismi indagati da Widengren tendono, in altri termini, a spiegarsi sulla base di un’affinità culturale storicamente plausibile, legata alla particolare storia dei contesti di appartenenza. In questo modo, nonostante evidenti limiti (ad esempio, il campo troppo ristretto d’indagine che esclude la massa dei dati etnologici o una concezione della storia troppo limitata e irenica che ignora conflitti e ibridazioni), l’opera di Windengren ha indicato una possibile via d’indagine nell’analisi comparata di determinati contesti storici, una via seguita da studiosi come l’inglese Brandon o il nostro Bianchi. Il rapporto tra fenomenologia e storia fa da sfondo anche all’opera di Mircea Eliade. Benché la sua produzione sfugga ad una precisa

categorizzazione, dal momento che il suo Trattato di Storia delle religioni (1948), l’opera che piú si avvicina ad una fenomenologia della religione, vorrebbe essere, per espressa dichiarazione dell’autore, una morfologia religiosa, tuttavia l’insieme della produzione eliadiana ha molti tratti in comune con la fenomenologia della religione ermeneuticamente orientata; una tendenza che è emersa sempre piú chiaramente e programmaticamente nel periodo americano dello studioso rumeno, allorché, durante il suo soggiorno a Chicago, sulle orme di Wach, ha contribuito in modo determinante a fondare una Scuola di Chicago, caratterizzata appunto dalla problematica dell’homo religiosus. Scopo precipuo delle innumerevoli analisi morfologiche e simboliche condotte da Eliade è comprendere un fenomeno religioso iuxta propria principia, in quel quid unico e irrinunciabile che contiene. Sulla scia di una tradizione che va da Otto e Söderblom a Durkheim e Caillois, Eliade ha anch’egli fatto ricorso alla categoria del «sacro» per un verso, secondo il modello fenomenologico dell’a priori religioso, in quanto «elemento della struttura della coscienza, e non uno stadio nella storia di questa coscienza», per un altro, secondo il modello della scuola sociologica francese, come irriducibilmente opposto al profano. Queste analisi d’altro canto, secondo lo studioso rumeno, devono radicarsi nella storia. Realizzando un programma annunciato nel Trattato, la Storia delle idee e credenze religiose persegue appunto lo scopo di radicare le manifestazioni del sacro nel continuum storico, mettendo in luce quell’aspetto di creatività e forza che attiene, in virtú della sua natura, all’idea religiosa di cui è portatore l’homo religiosus: un’antropologia del sacro storicamente nutrita che, dopo la morte dello studioso rumeno, è stata sviluppata con particolare vigore da Ries. Bibliografia Opere generali Balaganghadara, S. N. 1994 ‘The Heathen in His Blindness…’. Asia, the West and the Dynamic of Religion, Brill, Leiden - New York - Köln. De Vries, J. 1967 The Study of Religion. A Historical Approach, Harcourt Brace and World, New York.

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7. La svolta fenomenologica e la fondazione di una Scienza della religione comprendente. Filoramo, G. 1985 Religione e Ragione tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari.

Capitolo terzo Intermezzo teorico

Dalle piú arcaiche credenze e pratiche degli uomini preistorici, di cosí difficile individuazione ed interpretazione, alle innumerevoli varianti locali in cui si articola l’esperienza religiosa dei popoli cosiddetti primitivi, attraverso pratiche e credenze delle civiltà del mondo antico fino alle piú recenti esperienze religiose di una società investita dai processi di modernizzazione: che cosa tiene unita questa varietà cangiante e contrastante, questo mondo cosí contraddittorio, nel quale ci pare di sentire cantare gli angeli e nel quale, immediatamente accanto, vediamo muoversi sconce figure demoniache ed ogni sorta di mostri? WILHELM BOUSSET, Das Wesen der Religion. 1. Il paradosso della religione. Che cos’è la religione? In questi termini s’interrogava, all’inizio del Novecento, Wilhelm Bousset, esegeta, filologo e teologo, uno dei piú noti e importanti rappresentanti di quella Religionsgeschichtliche Schule tedesca che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, doveva contribuire a un rinnovamento profondo degli studi delle «origini» cristiane. A quest’interrogativo, è inutile dirlo, sono state date innumerevoli risposte. In quegli anni d’anni lo psicologo americano James H. Leuba (1912), nella appendice a un’introduzione alla psicologia della religione, ne elencava una cinquantina. Oggi certamente l’elenco sarebbe piú lungo. Che cosa ci deve insegnare questo sforzo degno di Sisifo? Che la religione, nella nostra tradizione culturale, è stata considerata da numerosi punti di vista: cosa che non sorprenderà piú il lettore del capitolo precedente, iniziato, per quanto in modo alquanto sommario, alla complessità delle prospettive e al conflitto delle interpretazioni che hanno accompagnato lo studio critico della religione in epoca moderna. Ciò che si suole denominare «religione» costituisce, al pari del linguaggio

e dell’arte, un aspetto della vita fondamentale per la comprensione dell’uomo e dei rapporti culturali e sociali che legano gli individui tra di loro. A differenza del linguaggio, che si basa sulla facoltà di esprimersi e comunicare propria dell’uomo, e a differenza dell’arte, in cui si manifestano l’immaginazione e la fantasia, la religione ritiene di gettare le sue radici in qualcosa (il «sacro») o qualcuno (esseri sovrumani, dèi, Dio), che trascende la dimensione umana, ponendosi insieme come il suo fondamento. Produzioni che si sforzano di dare senso al mondo, creazioni dell’uomo in quanto animale simbolico artefice di cultura e storia, i sistemi religiosi si presentano, nel contempo, come una, se non la radice del pensare e dell’agire. La peculiarità del fatto religioso, cosí come si è venuto determinando nella nostra tradizione, risiede proprio in questo scarto differenziale tra ciò che una religione come sistema culturale è (prodotto umano puramente sociale, culturale, storico) e ciò che essa pretende di essere (realtà fondatrice e giustificatrice della società, della cultura, della storia): scarto che la «ragione» cerca di colmare e di piegare a suo favore, mentre la «fede del credente» lo difende e lo preserva con ogni mezzo. Proprio nell’irriducibilità di questo scarto risiede e consiste il paradosso distintivo della religione, comunque si decida poi di definirla (o di non definirla): se le religioni provengono da un essere sovrumano e a lui conducono – qualunque sia poi il nome e la figura che gli riconoscano – e si presentano come il fondamento infondato del cosmo e dell’essere, tuttavia esse sono come una moneta che ha corso unicamente tra gli uomini e in funzione dei loro interessi, abituate come sono a intrecciare le loro danze con la storia umana fino a confondervisi. Realtà integralmente umane, le religioni continuano a palesare una gamma amplissima di possibilità espressive. Fattore di unità, di comunione, di vita, di pace, le religioni costituiscono altresí – come purtroppo i tragici eventi di questi ultimi anni hanno brutalmente ricordato a un pubblico sempre piú privo di memoria storica – fattore di divisione, di antagonismo, di rottura, di conflitto, di guerra e, dunque, di morte. Principio di movimento, speranza, progresso, una religione che voglia difendere la propria dimensione tradizionale può anche essere ostacolo e resistenza al cambiamento, generando tradizionalismi e fondamentalismi (cfr. cap. VII par. 3). Luogo dove si celebra e si conferma l’esistente attraverso rituali e liturgie, le religioni si configurano anche, con le loro promesse escatologiche, come il non-luogo

dell’utopia e dell’attesa, spingendosi in alcuni casi fino al punto di trasformarsi in negazione totale del mondo e dei suoi valori. La natura proteiforme della religione affonda le sue radici, prima che nella variabilità dei condizionamenti storici, nella natura altrettanto proteiforme dell’esperienza umana e delle sue espressioni simboliche, quasi a voler preservare in questo modo quel «fondo piú profondo dell’uomo» che, mentre pare consentire alla sua spoliazione e possessione, difende la sua stessa inattingibilità. Proprio questa natura rende però improbo il tentativo di circuire quest’oggetto con una definizione. Essa, infatti, corre il rischio di trasformarsi nella ricerca senza fine di una «realtà», ora materializzata nelle posizioni ontologiche di coloro che, come Otto e i fenomenologi della religione, tendono a definire la religione in funzione di una realtà ontologica variamente denominata, ora volatilizzata nelle posizioni, analoghe ma di segno contrario, di coloro che tendono a incanalare la forza della religione nei tanti rivoli delle sue funzioni sociali: posizioni accomunate comunque dal fatto che nascondono le loro «prescrizioni» dietro il velo di «descrizioni» apparentemente neutrali (Strenski 1987). Per questo oggi cresce il numero di quegli studiosi che, consapevoli di questi rischi, di fronte «a un conflitto che non può essere deciso, poiché l’ontologia presupposta da entrambe le parti non può essere né verificata né falsificata con mezzi scientifici, dal momento che in entrambi i casi si tratta di fede in determinati valori e visioni del mondo» (Kippenberg e Von Stuckrad 2003, p. 92), ritengono inutile, oltre che impossibile, il compito di definire la religione, preferendo fare ricorso a prospettive e punti di vista al posto di teorie e definizioni (cfr. per una panoramica complessiva Bianchi 1994). Eppure, definire la religione si rivela, proprio dal punto di vista delle Scienze delle religioni, compito tanto improbo quanto inevitabile. Per un verso, infatti, mosse dalla constatazione delle radici cristianocentriche del concetto di religione, sempre piú numerose si levano oggi voci a favore dell’abolizione di questo concetto (Ahn 1997), senza tenere conto in maniera adeguata del dato storico. Per un altro verso, solo un’approfondita consapevolezza storiografica nei confronti dei complessi problemi in gioco può contribuire a far uscire dal circolo vizioso messo in luce anni fa dall’antropologo Melford E. Spiro, in virtú del quale se da un punto di vista scientifico una definizione è possibile soltanto al termine dell’indagine

empirica, si rivela d’altro canto impossibile iniziare questa stessa indagine senza una definizione preliminare di tipo stipulativo che permetta di delimitarne il campo. Per uscire da questo circolo vizioso vi è chi ha proposto di utilizzare le autodefinizioni cui le stesse tradizioni religiose farebbero ricorso (Cantwell Smith 1963). A parte il fatto che questa autoconsapevolezza non è riscontrabile che in un numero limitato di casi (non vi rientrano, ad esempio, le cosiddette religioni indigene e la maggior parte di quelle antiche, cioè tutte quelle che, ignorando appunto il moderno concetto di religione, tendono a identificare religione ed ethnos), anche accettando questo criterio là dove esso è praticabile, in realtà, non si farebbe che spostare il problema: dal momento che rimarrebbe inevasa l’esigenza di reperire un minimo comune denominatore – la «religione» appunto – in base al quale procedere a quelle operazioni di storicizzazione, comparazione e classificazione che competono alle Scienze delle religioni non come sommatoria di punti di vista «interni» ma proprio come punto di vista «esterno» dell’osservatore. La prospettiva che di seguito si propone è tipicamente storica (Rudolph 1992). Ogni tentativo di definire la religione, circoscrivendo l’area semantica che essa comprenderebbe, non può prescindere dalla constatazione che ciò con cui lo storico ha a che fare, in sede interpretativa, non è certo l’«essenza» della religione, ma le sue manifestazioni storiche, indagabili attraverso il ricorso a uno strumento concettuale, appunto la categoria di «religione», con un’origine storica precisa e sviluppi peculiari, che ne condizionano inevitabilmente modi di definizione, utilizzo ed estensione. Assumere questo punto di vista storico, per sua natura induttivo, ma anche inevitabilmente aperto ai rischi del relativismo, comporta modalità d’indagine, effetti e risultati diversi da quelli ipotizzabili se si assumesse un punto di vista diverso, per esempio normativo, com’è proprio di una riflessione teologica sulla natura della religione; o comunque deduttivo, a partire cioè da un modello paradigmatico di religione dedotto assiologicamente in funzione di una scala precostituita di valori, com’è proprio della filosofia della religione; o, ancora, tendenzialmente non storico, com’è proprio di non poche scienze umane applicate allo studio della religione; o, infine, ermeneutico, secondo un’impostazione di fenomenologia

ed antropologia religiose, che presuppone quel che invece dovrebbe descrivere e cioè la «realtà» dell’homo religiosus. Nella prospettiva che si suggerisce, «religione» è dunque una categoria interpretativa dotata di una sua storia peculiare interna alla storia della cultura occidentale e della tradizione giudaico-cristiana che la caratterizza. Anche se, come si vedrà meglio nel paragrafo successivo, le radici del termine affondano nella storia della religione romana, di fatto il modo con cui siamo soliti intenderla e definirla, al di là delle innumerevoli variazioni interpretative, è tipicamente moderno e legato ai procedimenti messi in atto dal moderno razionalismo. Questi procedimenti, infatti, sono specifici del punto di vista della ragion critica occidentale e rientrano nel peculiare rapporto instauratosi tra modernità e religione. Una caratteristica essenziale della modernità è consistita proprio nella capacità – mentre minava i presupposti dell’esistenza della religione in quanto tradizione – di creare continuamente nuove possibilità di riemersione dello stesso fenomeno religioso. In questo modo la critica della religione, dovendosi confrontare, piú che con l’eclissi della religione, con le sue metamorfosi, si è trovata di fronte al compito di ridefinirne continuamente i confini. Infatti, mentre caratteristiche tradizionali entravano in crisi irreversibile, ne emergevano altre, che diventavano determinanti nello stabilire i tratti definitori del fenomeno. Accettando questa prospettiva storica – via improba ma anche salutare di contro ai recenti tentativi che rischiano, come si suol dire, di gettar via con l’acqua sporca anche il bambino – si dovrà ammettere che, se è vero che la categoria di religione, al pari di altre fondamentali categorie delle Scienze delle religioni, è stata adoperata in un primo tempo in un’ottica tendenzialmente eurocentrica e cristianocentrica, sull’onda lunga dei fenomeni di conquista coloniale e missionaria, per assimilare al proprio punto di vista (o per condannarli e respingerli) fenomeni di altre tradizioni religiose ritenuti affini, la prospettiva di razionalismo critico distintiva della nostra tradizione culturale – fondata sulla particolare dialettica secondo cui nel momento stesso in cui si stabilisce un confronto con un punto di vista diverso, con l’Altro-da-me, non fosse che per fagocitarlo o eliminarlo, s’innesta comunque un processo fecondo di messa in discussione del proprio stesso punto di vista – ha messo in atto un processo di superamento di quest’ottica. Proprio la crisi del pregiudizio etnocentrico, conseguenza prima

di tutto della crisi del colonialismo e dell’instaurarsi di studi postcoloniali, ha indotto ad usare, di conseguenza, la categoria di religione per individuare differenze e peculiarità, in un intreccio dialettico tra tendenza assimilante e differenziante, che non è sempre semplice cogliere né tanto meno sciogliere, ma che deve essere calato di volta in volta in modo concreto e operativamente efficace nei differenti contesti storico-culturali. Si può insomma essere d’accordo con un acuto interprete dei fatti religiosi come Jonathan Z. Smith, quando osserva che «religione» non è una categoria nativa, dal momento che essa sarebbe stata imposta a realtà ad essa refrattarie come le religioni indigene (che non posseggono un termine analogo ad indicare una sfera separata ed autonoma di esistenza) da osservatori esterni, dai colonialisti del XVI secolo agli studiosi dell’Ottocento e del Novecento, gli unici ad essere responsabili nella determinazione del suo contenuto secondo i loro interessi (Taylor 1998, pp. 269 e 281). «Religione», dunque, è soltanto una creazione dello studioso, che ne avrebbe fatto in sostanza un uso ideologico e politico. Considerata da un punto di vista storico, d’altro canto, questa posizione rischia di sfondare una porta aperta. Almeno a partire da Droysen il ricorso a categorie interpretative si è rivelato uno strumento fondamentale del lavoro storico. Esse certamente riflettono, e non possono non riflettere, lo «spirito del tempo», sono cioè un costrutto ideologico condizionato dalla cultura in cui si sono formate. Proprio per questo è necessaria, come antidoto, una consapevolezza storiografica continuamente alimentata e rinnovata, che permetta di navigare in questo mare pericoloso, senza infrangersi né sullo scoglio di un’ingenua accettazione del suo uso, ignorando ad esempio i complessi giochi di potere che ne hanno accompagnato la storia moderna, né d’altro canto sullo scoglio di una estenuante deriva decostruzionista pericolosamente priva di mete e ancoraggi. 2. Dalla «religio» romana alle Nuove Religioni: cenni di storia di un termine controverso. Il termine «religione» deriva dal latino religio. Non mancano le analisi, anche approfondite, sulle sue origini romane (Irmscher 1994), sulle trasformazioni che esso conobbe con l’avvento del cristianesimo (Cantwell Smith 1963; Sachot 1991 in particolare per il rapporto con superstitio) dall’antichità al medioevo (Feil 1986), per non dire dei cambiamenti

fondamentali che esso ha conosciuto in epoca moderna (Despland 1979 e 1999). Rinviando il lettore desideroso di approfondire la questione a questi lavori, per i nostri scopi basterà limitarsi a qualche considerazione generale. Nella sua storia millenaria il termine religio ha finito per caricarsi di una molteplicità di significati, che per comodità d’esposizione possono essere ricondotti in sostanza a due sfere. Già gli antichi avvertivano l’ambivalenza del termine, fornendone due spiegazioni etimologiche, contrastanti ma anche complementari: da un lato sottolineavano l’aspetto «oggettivo» di religio in quanto termine che rimanda all’insieme dei rapporti stabiliti, mediante il culto, con gli dèi; dall’altro, quello «soggettivo» secondo cui religio indica l’osservazione scrupolosa di queste pratiche. In effetti, il sostantivo religio è collegato a due verbi: religare («legare», «fissare», «annodare») e religere/relegere («raccogliere di nuovo», «rileggere»). In un passo del De inventione Cicerone definisce la religio come la cura e il timore o venerazione di una qualche natura superiore, denominata divina 1, mentre in un passo del De natura deorum 2.28.72, si pronuncia per una dipendenza del termine dal verbo relegare. Da queste e da altre testimonianze emerge il significato fondamentale che il termine ha nel contesto della religione romana, ad indicare sia l’atteggiamento del pio romano di fronte ai suoi dèi nel compiere gli atti fondamentali del culto privato e pubblico sia, piú in generale, l’insieme stesso di questi atti (religio come culto degli dèi o di un dio e, per estensione, «religione» di un popolo come insieme dei suoi culti). A prescindere da altri pur significativi aspetti (come il rapporto tra religio e superstitio), quel che ora preme sottolineare è che, comunque, il termine latino non conosce il carattere astratto e complessivo del nostro «religione». L’avvento del cristianesimo – che riprese e riutilizzò il vocabolo sia in senso positivo applicandolo a se stesso sia in senso negativo a definire «superstizioni», quando non culti idolatrici di origine diabolica, le religioni degli altri – comportò un arricchimento semantico della categoria, di cui importa rilevare due aspetti. Nell’uso di alcuni polemisti cristiani come Tertulliano, la religio cristiana, in quanto «vera», è contrapposta alla falsa religio dei pagani. In questo modo, ha luogo un vero e proprio sovvertimento della religione romana, che costituisce un aspetto importante nella costruzione dell’identità stessa del cristianesimo antico 2 (Sachot 1997, pp. 143 sgg.). Nel De vera religione, poi, scritto a Tagaste nel 390, in una prospettiva

ancora platonica, Agostino identifica il cuore del cristianesimo in quanto «vera religione» non tanto nell’aspetto oggettivo delle pratiche cultuali, quanto in un rapporto soggettivo, interiore, del credente col vero Dio. Quest’interpretazione ritorna, piú di mille anni dopo, in un altro platonico cristiano. Nel De christiana religione, pubblicato da Marsilio Ficino nel 1474, religio designa non una realtà istituzionale e un sistema cultuale, ma un fenomeno interiore: l’adorazione del vero Dio. In questo modo, Ficino prefigura quel senso di «religione» come religiosità interiore e individuale, che diventerà dominante con l’avvento dell’individualismo moderno e delle collegate forme di pietà fondate sul primato dell’interiorità. Il significato oggettivo e istituzionale del termine, destinato in seguito a diventare prevalente, si è affermato nel corso del Seicento, sullo sfondo dei contrasti confessionali e delle guerre non a caso soprannominate «di religione». Ne è un esempio significativo il De veritate religionis Christianae (1627) del giurista Ugo Grozio, in cui religio indica ormai, alla luce della complessità assunta in particolare dal cattolicesimo postridentino, il complesso istituzionale di credenze e pratiche, giuridicamente regolamentato, al cui interno soltanto acquista senso e significato la religio del singolo in quanto forma interiore di pietà, rapporto individuale con la divinità. È soltanto tra Settecento e Ottocento, però, ad opera in particolare di alcuni filosofi tedeschi, ma anche in conseguenza dei progressi delle conoscenze storico-religiose cui si è accennato nel secondo capitolo, che il termine ha acquistato quell’universalità e, nel contempo, quell’astrattezza, che stanno alla base del nostro uso. Si è già avuto occasione di accennare alle riflessioni di Herder o di Schleiermacher sulla «religione»; ma altrettanto importanti per l’affermazione del moderno concetto sono le riflessioni di Kant, di Hegel e di Feuerbach. Il primo, sottoponendo fin dalla premessa della Critica della ragion pura (1781) anche la «religione» al tribunale della critica, secondo un’esigenza che verrà approfondita ne La religione nei limiti della ragione, sintetizzava la sforzo, tipicamente illuministico, di astrarre dalle varie religioni positive un concetto generale di religione analogo a quello di un’astratta e generale natura umana. È merito poi di Hegel aver reinserito nell’alveo della storia questo concetto astratto in particolare nelle sue lezioni di Filosofia della religione, in cui le varie religioni sono analizzate in funzione della dialettica della coscienza e della fenomenologia dello spirito come fasi di

una progressiva autoconsapevolezza dello Spirito e dunque in funzione di una generale dialettica tra Soggetto e Oggetto. Quanto a Feuerbach, in questa prospettiva il suo contributo consiste nell’aver posto in modo chiaro per la prima volta ne L’essenza della religione quel problema delle caratteristiche essenziali di un fenomeno religioso ormai assurto a realtà universale, che doveva stare al centro della Comparative Religion della seconda metà dell’Ottocento. 3. Definire la religione. Il problema della definizione della religione coincide teoricamente con il problema del metodo cui far ricorso: se, ad esempio, deduttivo, come avviene in genere in una prospettiva di filosofia della religione, o piuttosto induttivo, a partire cioè da una concreta base empirica, come è proprio di una prospettiva di Storia comparata delle religioni. La questione è oggi resa complicata dal cosiddetto linguistic turn e cioè dalla necessità, affrontando questo problema, di doversi inevitabilmente fare carico delle critiche avanzate dalla filosofia analitica del linguaggio alle proposizioni teologiche; critiche che investono qualunque tentativo di definire in modo essenzialistico e oggettivistico la religione. Nel campo degli studi religionistici, infatti, qualunque tentativo di definire da un punto di vista teorico il proprio oggetto di studio si trova di fronte alla questione cruciale per cui gli oggetti linguistici prescelti (dio, divino, sacro, esseri sovrannaturali e cosí via) sono sempre dati e condizionati dalla mediazione linguistica. Attraverso la differente codificazione linguistica trova espressione l’esperienza del credente e/o della comunità dei credenti con una «realtà» che, in quanto tale, è non solo inattingibile all’osservatore esterno, ma gli perviene, appunto, codificata e fissata attraverso differenti modalità di linguaggio: un problema, quello della dimensione linguistica della definizione, con i suoi risvolti anche semantici, al quale si tende a non prestare l’attenzione dovuta, ma che, d’altro canto, si presenta oggi come un compito arduo per la generale situazione d’incertezza in cui versano gli studi di semantica. Essendo il linguaggio a sua volta storicamente condizionato, ne consegue la possibilità di una serie di decodificazioni messe in atto dalle varie Scienze delle religioni. D’altro canto, non bisogna perdere di vista il fatto che i differenti volti dell’esperienza religiosa, che ne tradiscono i differenti condizionamenti psicologici, sociali, culturali, sono pur sempre espressione di

un’esperienza sui generis. Si è cosí posti di fronte al problema cruciale dell’autonomia relativa della religione. La questione dei rapporti tra religione e religioni, alla base della moderna riflessione e indagine critica sul fenomeno religioso, può oggi essere accostata in modo piú scevro da ipoteche aprioristiche. Per quanto si tratti pur sempre di analogie e per quanto il ricorso a queste analogie non pretenda certo di risolvere il problema di fondo che ogni studio dei fenomeni religiosi deve affrontare – consistente nell’analizzarli, oltre che in riferimento al loro contesto d’origine, anche in sé e per sé, nella loro irrinunciabile peculiarità –, tuttavia proprio le Scienze delle religioni hanno aiutato ad impostare in maniera diversa quell’«equazione impossibile» consistente nell’incrociare in modo piú equilibrato e convincente struttura e storia, note elementari e variazioni, langue e parole, insomma, religione e religioni. Per un verso, infatti, l’indagine storica per sua natura mette a fuoco la concretezza di una determinata tradizione religiosa, fornendo le opportune coordinate spaziotemporali e la corporeità di una base sociale su cui s’innestano condotte e saperi e in cui scorre la linfa vitale delle idee e l’esperienza vissuta delle pratiche: un corpo, dunque, sottomesso alle leggi corrodenti del divenire e del mutamento tipiche del mondo sublunare. Per un altro verso, però, la ripetibilità di miti e riti, di credenze e pratiche, ricorda che un determinato fenomeno religioso, anche constatato nel tempo e nello spazio, non si lascia esaurire in una descrizione: oltre ad essere prodotto di condizionamenti storici, esso pare retto da regole interne di funzionamento, da logiche peculiari che ne permettono e ne fondano la ripetibilità nel tempo e nello spazio. In altri termini, uno studio critico dei fenomeni religiosi deve essere in grado di rispettare l’«autonomia relativa» della religione, secondo cui occorre imparare a fare i conti sia con i principî di autodirezione e di autoregolazione che ogni tradizione religiosa in quanto tale possiede – dal momento che la religione non è soltanto espressione di senso, ma anche sua interpretazione – sia con i condizionamenti storici di vario tipo che plasmano la fisionomia peculiare delle religioni nel loro divenire. Sulla base di quanto precede, dovrebbe risultare chiaro prima di tutto che una definizione della religione, per essere operativa, dovrebbe avere un carattere stipulativo o arbitrario. Dal punto di vista storico, occorrerebbe partire dalla definizione corrente nel milieu culturale dello studioso per

verificarla progressivamente attraverso un’opportuna comparazione. Poiché, d’altro canto, questa scelta si rivela in pratica utopica, può risultare piú utile assumere criticamente una definizione minimale, avente cioè caratteri di semplicità e essenzialità, e di tipo sostantivo, che miri cioè a cogliere non x tratti, estensibili a piacimento, ma alcuni elementi chiave ritenuti caratteristici, aventi cioè una comune «aria di famiglia», per riprendere un’espressione di Wittgenstein. Questi elementi non pretendono di esaurire l’«essenza» del fenomeno né pretendono di essere sempre presenti perché un fenomeno possa essere definito religioso, ma sono storicamente presenti secondo combinazioni variabili. In questo senso, una definizione della religione dovrebbe tener conto del fatto che in genere i fenomeni religiosi presuppongono una relazione triangolare tra un dato teologico o ideologico (la dimensione della parola sacra, della credenza, della dottrina, della riflessione teologica), un dato pratico o rituale (la dimensione dell’azione) e la base sociale delle credenze e delle pratiche (dal momento che non esiste una religione individuale). Ciò che dà vita a questo sistema relazionale è una peculiare esperienza, quella religiosa sulla quale ritorneremo tra poco, che rimanda alla centralità della dimensione emozionale. Su questa base sono naturalmente possibili varie definizioni, riconducibili in sostanza a due tipi: o autodefinizioni, del tipo «la religione è incontro col Sacro», in cui si rimane all’interno del campo religioso, in una sorta di tautologia, dal momento che il definiens (in questo il caso il sacro) esigerebbe a sua volta di essere definito, circolarità interpretativa che la tradizione fenomenologica e della filosofia della religione d’ispirazione kantiana ha impostato nei termini, variamente configurati, dell’a priori religioso; o eterodefinizioni, che, piú correttamente dal punto di vista lessicologico, spiegano il definiendum non noto con un definiens noto. Queste ultime vengono anche dette definizioni funzionali, dal momento che la religione vi è precisata a seconda delle funzioni che l’interprete di turno le assegna. Per un verso, questo tipo di definizione ha il vantaggio di estendersi anche a fenomeni, dallo sport alla politica, a prima vista non strettamente religiosi; in altri termini, soprattutto in contesti secolarizzati, esso ha aiutato a mettere in evidenza le alternative funzionali alle religioni tradizionali. Per un altro verso, proprio questa tendenza estensiva rischia di dissolvere lo stesso oggetto di studio. È il caso di certe definizioni sociologiche che, facendo della religione

una costante antropologica universale individuata nel permettere «la trascendenza della natura biologica da parte dell’organismo umano» (Luckmann 1967, trad. it. p. 12), rischiano di far perdere di vista la specificità delle religioni storiche tradizionali. In realtà, definizioni diffuse in particolare dai sociologi nella seconda metà del secolo scorso come conseguenza del prevalere della teoria della secolarizzazione, del tipo «religione invisibile», «religione diffusa», «religione implicita», «religione di sostituzione» e cosí via, non fanno altro che riflettere il particolare momento di crisi delle religioni istituzionali in cui sono state create. Oggi che questa crisi, come si è accennato nel primo capitolo, pare almeno in parte superata, esse rivelano tutta la loro precarietà di definizioni troppo legate alle funzioni, pur sempre transeunti, che la religione svolge in un determinato contesto. Come è stato giustamente osservato, si tratta di «un modo utilitaristico di interpretare il fatto religioso come se si potessero ridurre i sistemi simbolici alla loro funzionalità. Ora, il religioso è forse proprio ciò che eccede ogni funzionalità e gestisce la mancanza, l’incertezza, l’alterità» (Willaime 1995, trad. it. p. 128). Piú resistenti alla corrosione del tempo paiono essere le definizioni, pur sempre funzionali, di tipo sostantivo. In questo caso, si guadagna in comprensione quanto si perde in estensione. Una definizione, ormai classica, di questo tipo è quella dell’antropologo Melford E. Spiro, il quale, indicando con il termine «istituzione» determinati modelli di comportamento e di credenze socialmente condivise, ha visto nella religione «un’istituzione consistente in interazioni culturalmente modellate con esseri sovrumani culturalmente postulati» (Spiro 1966, p. 96). Non sarebbe difficile criticare anche questo tipo di definizione, che rischia ad esempio di non tener conto del cambiamento, un fattore decisivo nella storia delle religioni e che, in ogni caso, predilige il dato cognitivo a scapito della pratica. Il punto però non è questo. La domanda cruciale è un’altra: è possibile uscire da questa «torre di Babele» (Lambert 1991), in altri termini, si può fare a meno, come una schiera crescente di studiosi oggi propone, di definire la religione? Personalmente ritengo che la risposta non possa che essere negativa. Sia da un punto di vista storico sia dal punto di vista delle Scienze delle religioni è impossibile prescindere da un’ipotesi, per quanto arbitraria, di definizione, che tenga conto sia della realtà storico-culturale in cui s’intende operare sia del complicato problema metodologico soggiacente.

Il problema della definizione della religione rimanda in questo modo al problema dei metodi e delle teorie interpretative: queste possono e debbono, naturalmente, variare, ma senza una teoria interpretativa in grado di render conto della complessità dell’oggetto, lo studio scientifico della religione, comunque si decida poi di definirla, rischia di arenarsi ancor prima di cominciare. Un esempio significativo di quest’intreccio tra consapevolezza storiografica e bagaglio teorico è dato da un’altra categoria chiave delle Scienze delle religioni: quella di sacro. 4. Il Sacro 4.1. Le origini. La «scoperta» del sacro come categoria interpretativa dei fenomeni religiosi costituisce l’esito di un processo complesso, che accompagna la storia culturale dell’Ottocento. In particolare, è possibile individuare due tradizioni interpretative che alla fine del secolo convergeranno nel dar vita, seppur in modo indipendente, alla moderna categoria di sacro. La prima tradizione è tipica della Germania e tradisce la sua matrice protestante nel suo spiccato individualismo, che la porta a sottolineare, nel sacro, il carattere soggettivo di esperienza vissuta, di Erlebnis. Quest’esperienza ha per oggetto non piú Dio o il divino, cioè una concezione personale del trascendente, com’è proprio del monoteismo biblico, ma una totalità misteriosa, che va dalla Natura di certe poesie di Hölderlin 3 all’Infinitamente altro dei Discorsi sulla religione (1799) di Schleiermacher. Nella prospettiva di quest’ultimo, infatti, a fondamento delle religioni storiche vi è ormai un religioso considerato come una totalità generatrice di quelle manifestazioni specifiche che sono le religioni storiche, nel contempo trascendendole e, dunque, non identificandosi con esse. Né è un caso che questo filone interpretativo abbia trovato la sua espressione piú compiuta in Das Heilige (1917) di Otto, di un filosofo e teologo, cioè, che era stato, un secolo dopo la loro prima pubblicazione, il curatore dell’edizione critica delle Reden schleiermacheriane. La seconda tradizione è rintracciabile soprattutto in Francia. Essa concerne «un progetto di civiltà, solidale nei confronti delle nuove interpretazioni che verranno date, fino al costituirsi della III Repubblica, del concetto rousseauiano di “religione civile”» (Borgeaud 1994, p. 389). Questo progetto accompagna il formarsi di una tradizione sociologica francese, da

Saint-Simon e Comte, attraverso l’opera di Fustel de Coulanges, per approdare infine alle riflessioni e alle elaborazioni di Durkheim e della sua scuola, in particolare di Hubert e di Mauss (cfr. cap. II par. 6). Questo secondo filone interpretativo riflette la particolare situazione socioreligiosa francese durante l’Ottocento, di una paese cioè che, per un verso, si costruisce in funzione di un progetto di laicità e, dunque, di separazione tra Chiesa e Stato, tra religione istituzionale e società, per un altro, rimane un paese profondamente cattolico, anche se conosce, grazie alla presenza di isole protestanti e di un’importante minoranza ebraica, un relativo pluralismo religioso. Nei suoi primordi, dal Génie du Christianisme di Chateaubriand al De la Religion di Constant (per non dire dei lavori dei tradizionalisti cattolici, da De Maistre a De Bonald), questa tradizione si segnala perché – in polemica piú o meno aperta sia con l’individualismo protestante e il suo intimismo fideistico sia con quello utilitaristico che riduceva l’agire al calcolo e all’interesse del singolo, trascurando il problema dell’ordine e relegando la religione nel campo dell’illusione – tende a sottolineare la particolare realtà, che si dispiega nella forza integratrice, di coesione sociale, svolta dalla pratica religiosa. In questa prospettiva inoltre, la religione, considerata all’origine di tutte le idee piú importanti dell’umanità, acquista un fondamentale valore cognitivo. Nella reintepretazione, in chiave positivista e sostanzialmente atea, che Comte ha dato di questo complesso di idee, il fondamento dell’agire del singolo e dei suoi valori tende ad essere individuato non piú in una religione, che corre il pericolo di essere identificata nel cattolicesimo della Restaurazione, ma, appunto, nel sacro. Significativamente, nel Cours de philosophie positive, distingue il sacro negativo o tabú e il sacro come sanzione. Mentre il primo tipo di credenze appartiene però al passato, nella prospettiva evoluzionistica tipica del sistema comtiano, a un passato irreversibile, il secondo tipo appartiene al presente e concerne la funzione di consacrazione sociale che le credenze religiose svolgono. Questo tema è al centro del Système de politique positive del 1851, in cui, non a caso, termini come sacré, consacrer, saint si moltiplicano. Sacré, in particolare, è quell’Amore che costituisce il fondamento, il motore immobile della società immaginata da Comte. Questo Amore «sacro» svolge una serie di funzioni sociali fondamentali: è la molla che spinge il singolo all’azione sociale; è

l’espressione e il fondamento del legame singolo-società; è quel surcroît d’énergie, vale a dire la fonte dell’ideazione collettiva, che sta alla base del vivere sociale. Quella «prépondérance sacrée de la sociabilité sur la personnalité» che era stata tipica del Medioevo cristiano è il compito che ora Comte assegna alla sua Religione dell’umanità. In questa «tradizione sociologica» (Nisbet 1966, pp. 221 sgg.), la riflessione sul sacro ha dunque, come prototipo e modello, il cattolicesimo contemporaneo: si pensi all’obbligatorietà della credenza, che troverà nel dogmatismo del Concilio Vaticano I (1869-70) il suo sigillo; o al potere integratore della religione cattolica, cui guardano con minore o maggiore nostalgia tutti i piú significativi rappresentanti di questa tradizione. In questo modo, il sacro diventerà, in particolare nella riflessione di Durkheim, il fondamento di una nuova morale sociale, sostituto di quell’obbligatorietà religiosa tipica di un cattolicesimo ormai in crisi irreversibile e, in ogni caso, non piú proponibile quale fondamento di uno stato laico (Rosati 2002). Accanto a queste due tradizioni, nel corso della seconda metà dell’Ottocento se ne viene costituendo una terza, legata alle fortune della nascente antropologia culturale e, in generale, della Comparative Religion; essa ha nell’Inghilterra vittoriana il suo punto di riferimento privilegiato. In questa tradizione vengono messi a fuoco due importanti aspetti della successiva interpretazione del sacro: la sua ambivalenza, per cui il sacro è nel contempo positivo e negativo; e la sua progressiva identificazione con il mana. Si tratta di due aspetti nuovi, che confluiranno nell’interpretazione di Durkheim e della sua scuola soprattutto attraverso la lettura data da William Robertson Smith, un pastore della Chiesa presbiteriana scozzese che aveva sposato le tesi della teologia liberale, applicando allo studio della Bibbia i metodi storico-critici di Julius Wellhausen e della sua scuola. Per Robertson Smith, il sacro (Holiness) designa la relazione tra un dio e una realtà appartenente al mondo naturale. Se l’assunzione nell’ambito religioso di queste manifestazioni dipende da un fatto sociale e cioè dalla condivisione da parte di un determinato gruppo sociale (nella fattispecie, studiando Smith la religione degli antichi Semiti, da un clan), la dimensione sacrale consiste nella manifestazione di una potenza straordinaria che si comunica alla natura come una scarica elettrica, secondo una metafora tipica dell’epoca e destinata a grande fortuna:

… ogni luogo e cosa che possiedono un’associazione naturale con il dio sono considerati – se è lecito prendere a prestito una metafora dall’elettricità – come carica di un’energia divina che è pronta ad ogni momento a scaricarsi fino a distruggere l’uomo che presuma di accostarvisi in modo indebito (Robertson Smith 1969, p. 151).

Il sacro di Robertson Smith è un sacro ambivalente, un supernatural power, che può contagiare chi vi si accosti senza aver rispettato le opportune prescrizioni, ma è anche una potenza positiva, che si manifesta nei vari aspetti della natura e del cosmo: un’energia, insomma, che si è caricata dei tratti, ben noti allo studioso scozzese, del qadosh e cioè della sacralità del Dio ebraico. In questo modo, Robertson Smith fa un’importante opera di mediazione culturale. Se Fustel de Coulanges, nella Cité antique, aveva contribuito a riproporre il problema della centralità del sacro nelle religioni antiche, Robertson Smith, appoggiandosi da un lato alle coeve ricerche antropologiche sul mana e sul tabú, dall’altro rileggendo queste problematiche alla luce dei dati della filologia semitica, contribuisce sia ad allargare il campo di applicazione della categoria del sacro all’area semitica sia, soprattutto, a gettare un ponte tra studi antropologici e studi relativi al mondo antico, in particolare al mondo biblico. In questo modo, si costruiscono le basi per quell’universalizzazione della categoria del sacro, che coinciderà con la sua «scoperta». Mentre, però, per il «liberale» Robertson Smith il sacro appartiene in sostanza al passato dell’umanità, alle religioni naturali e politeistiche, sulle quali aveva alla fine trionfato l’individualismo, religioso e disincantato, del cristianesimo (naturalmente, di tipo protestante liberale), segnando il trionfo della religione rivelata sulla religione naturale, della religione tout court sulla magia, occorrerà attendere Durkheim perché le due tradizioni sopra delineate trovino il loro superamento in una concezione del sacro considerato ormai come il fondamento di ogni religione. Il sacro, che in tutti questi autori continua in fondo ad essere, secondo le sue origini semantiche, una qualità delle cose, si trasforma cosí in una sostanza. A favorire questo mutamento contribuí in modo decisivo l’assimilazione del sacro da un lato col tapu polinesiano, dall’altro col mana (Greschat 1980). Il primo termine era stato introdotto in Europa nel 1784, in seguito alla pubblicazione di A voyage to the Pacific Ocean 1776-80,resoconto del terzo viaggio nelle isole del Pacifico del capitano Cook, che aveva individuato il

termine e la sottintesa nozione di divieto, proibizione, a Tonga, trovando conferma della sua diffusione nelle isole Sandwich e nelle Isole della Società. Esso designava «le cose che sono proibite»; non aveva, d’altra parte, un’estensione uniforme nei territori osservati e finiva spesso per coincidere con le stesse leggi della tribú. Ben presto, in opere di missionari cristiani, si tese ad identificarlo con il mana o potenza, un’identificazione che doveva rivelarsi gravida di conseguenze per le successive fortune della nozione di sacro. Mana era un termine la cui esistenza nell’area polinesiana era stata già rilevata nel 1814 da William. Soltanto molti anni dopo, però, attraverso l’opera del missionario Codrington sui Melanesiani, il termine doveva acquisire diritto di cittadinanza negli studi antropologici e di Comparative Religion. L’autore, avanzando l’ipotesi di diffusione del termine in tutta l’area del Pacifico, cosí lo definiva: È un potere e un’influenza non fisici, ma in una certa misura soprannaturali. Si manifesta, tuttavia, nella forza fisica o in ogni forma di potere o eccellenza che un uomo possegga. Questo mana non è fissato ad alcunché, ma può essere trasmesso ad ogni cosa (Codrington 1891, p. 118-19).

Nel giro di pochi anni, grazie a una serie di opere di antropologi e studiosi di Storia comparata delle religioni, da King a Hewitt, da Marett a Fletcher, la nozione di mana veniva estesa ad altre aree storico-religiose «primitive», prestandosi a piú o meno fondate assimilazioni con termini affini come il wakan dei Sioux, il boylya degli Australiani, l’orenda degli Irochesi e degli Uroni e cosí via. Grazie a questo processo di estensione, si creò un vero e proprio «manismo» o pandinamismo e cioè una teoria che tendeva ad identificare nel mana il fondamento stesso della vita religiosa, anzi, nel linguaggio dell’epoca, le sue «origini». Sarà proprio su questa progressiva identificazione che si eserciterà la riflessione di Durkheim e della sua scuola. Se vogliamo però comprendere perché il sociologo francese ha fatto ricorso al concetto di sacro per tradurre in termini occidentali la teoria del mana, occorre abbandonare per un momento il campo delle riflessioni storiografiche sul costituirsi di questo particolare metalinguaggio per passare a prendere in esame alcuni aspetti del complesso problema semantico.

4.2. Il problema semantico. Qualunque riflessione sul dato linguistico soggiacente alla categoria di sacro deve evitare due rischi. Il primo è quello di pensare di poter stabilire, sulla base di alcune etimologie, per quanto solide, il significato del termine: la filologia o la semantica, per quanto preziose, anzi indispensabili in questo tipo di indagine, possono infatti servire a ricostruire la storia di una terminologia nelle differenti tradizioni religiose, ma non permettono di operare quel salto categoriale che consiste nel cogliere il significato che il sacro ha assunto nel metalinguaggio della critica moderna. Il secondo pericolo, collegato al primo ma di segno rovesciato, consiste nel pensare di poter individuare il significato del sacro prescindendo dalla complessità o addirittura dall’esistenza stessa del dato semantico. Molte tradizioni religiose, infatti, pur conoscendo forme simboliche sacrali, mancano di un autolinguaggio che le definisca, per lo meno dal loro punto di vista: in questo secondo caso, dovendosi per forza di cose ricorrere a una definizione esterna, dell’osservatore e dello studioso, il rischio, nella mancanza di un riscontro linguistico, è quello di attribuire a quel particolare contesto e a quella particolare tradizione valori sacrali in realtà ad essi estranei. La storia del termine sacro è semplice e complessa nel contempo. Per un verso, esso (e piú in generale la coppia sacro/profano) deriva dal latino sacer (e dalla correlata coppia sacer/profanus) attraverso la mediazione del latino cristiano, in particolare di quello della Vulgata. Per un altro verso, il termine ha conosciuto nelle lingue moderne una storia diversa a seconda del rapporto che esse hanno intrattenuto (o non hanno intrattenuto) col latino. Si è cosí venuta costituendo una terminologia molto differenziata, come dimostrano ad esempio i modi diversi secondo cui è stata tradotta l’opera Das Heilige di Otto: Il Sacro, Le sacré, Lo Santo, The Idea of Holy, Det Heilige, ecc. In latino (Fugier 1963, Benveniste 1969 e per l’area classica Dihle 1988) i due termini chiave sacer e sanctus derivano dalla radice indoeuropea sak, che ha originariamente un valore di pattuizione, indica cioè una sanzione, definisce un rapporto riguardo a certe offerte. A partire da questa base, la tradizione latina ha poi operato alcune distinzioni, soprattutto nel campo del diritto sacrale, in particolare costituendo coppie oppositive, preziose per delimitare i rispettivi campi semantici, come sacer/profanus (ciò che sta fuori del fanum e cioè del luogo consacrato) o sanctus/sine sanctione.

Sacer, cosí, indica tutto ciò che, in virtú di un atto pubblico della civitas e dei suoi rappresentanti, viene dedicato agli dèi, sottratto cioè alla sfera profana per essere loro consacrato; sanctus, di contro, indica la sanzione ufficiale, il riconoscimento legale di questo atto. Il primo termine rimanda, dunque, a un senso religioso specifico (rapporto con gli dèi), mentre il secondo indica ciò che unifica, soprattutto a livello d’imputabilità, tutte le realtà giuridicamente rilevanti, tra cui appunto le cose sacre. Quanto alla coppia sacer/profanus, essa è importante per la determinazione spaziale del sacro: il luogo indicato come sacer era spesso circondato da mura o in qualche modo isolato dal rimanente spazio circostante, adibito invece a una funzione profana (profanare, infatti, significava «portar fuori» le offerte davanti al recinto del tempio, il fanum al cui interno si celebrava il sacrificio). Questa connotazione spaziale accompagna anche oggi i due termini, costituendone una definizione ancora valida: … ciò risulta evidente quando la chiesa sorge ancora vicino all’ingresso della città, il luogo di culto accanto alla sala di riunione del villaggio e là dove un’assemblea di buddhisti o di musulmani risulta qualcosa di differente da un convegno di economisti o da una riunione di atleti (Colpe 1987, trad. it. p. 491).

Il termine sacer ha anche un senso peggiorativo, come nell’espressione virgiliana auri sacra fames (Eneide 3.57) o nella formula sacer esto («sia maledetto»), dove esso indica colui che ha violato una legge e viene di conseguenza maledetto e condannato perché ha violato la sacralità di un oggetto o di una persona appartenenti agli dèi, nel senso di consacrati alla e dalla divinità. Ne consegue che già in latino sacer possiede un significato ambivalente: esso rimanda a qualcosa che è insieme venerato e sinistro, percepito nel contempo come santo e maledetto. Sacer esto, accanto al significato negativo sopra ricordato, ne possiede infatti anche uno positivo, indicando qualcosa o qualcuno che viene affidato, consacrato alla divinità. La centralità di sacer nel ricco vocabolario cultuale latino è confermata dall’esistenza sia di riti come il ver sacrum (il sacrificio di tutti gli animali nati in primavera e l’espulsione dalla comunità e dal consorzio cultuale di tutti gli adulti allo scopo di stabilirne la posizione sociale e di assicurarsi il favore di Marte, che operava al di fuori dei confini della comunità) sia di un’ampia

famiglia semantica, che comprende termini da esso derivati come sacrare, sacrificare, sacramentum, sacerdos. Quanto a sanctus (Festugière 1949), participio passato di sancire, esso finisce per assumere una grande ampiezza di significati, comprendendo anche il senso dell’infallibilità del culto e della purezza morale. Ciò contribuisce a spiegare perché, nella Vulgata, esso finí per tradurre il greco hagios del Nuovo Testamento e della Settanta e l’ebraico qadosh. Di contro, sacer, in questa tradizione ebraico-cristiana, finí per tradurre il greco hieros, indicando per lo piú l’atto di consacrazione alla divinità. Ma per comprendere questo aspetto decisivo delle traduzioni bibliche, attraverso le quali il termine sacro doveva giungere fino a noi, occorre fare un passo indietro e prendere brevemente in considerazione altri esempi di lingue indoeuropee e di lingue semitiche a cominciare dal greco. Il vocabolario greco del sacro è piú sfumato e articolato di quello del latino e meno caratterizzato dalle sue dicotomie (Williger 1922). Il concetto piú importante è quello indicato dal termine hieros. Esso designa qualcosa che manifesta un potere divino, qualcosa di consacrato non in seguito a un’azione sacrificale, ma all’intervento di una divinità. Il termine funge quasi esclusivamente da predicato, sia riferito a persone che a cose; difficilmente un dio viene definito hieros; per questo, gli ebrei di lingua greca e in seguito i cristiani furono costretti a ricorrere al termine hagios. Gli altri due termini chiave sono hagnos e hagios, derivati dalla radice hag (da cui deriva anche agos, indicante un oggetto che incute timore, terrore). Hagnos comprende ciò che è puro in senso cultuale e viene usato piú frequentemente in collegamento con gli dèi; con esso sono qualificati anche elementi in grado di purificare, come l’acqua o il fuoco. Per questo, in senso piú generale, esso può indicare le condizioni di purità sessuale rituali e di libertà dalla contaminazione del sangue e della morte o, al di fuori della sfera del culto e delle sue peculiari regole di purità, la condotta di vita «pura» di un individuo. Quanto ad hagios, il termine trova un impiego piuttosto raro nel greco classico ed ellenistico, che ne facilitò l’uso religioso. Proprio per questo gli ebrei vi fecero ricorso per tradurre qadosh, mentre del gruppo di vocaboli facenti capo a hieros, si ricorse caratteristicamente soltanto a hiereus per la traduzione dell’ebraico kohen, «sacerdote». Il greco del Nuovo Testamento,

poi, conservò una funzione privilegiata ad hagios, designando ad esempio come hagioi la comunità dei costituenti la ekklesia. Del vocabolario sacrale greco merita ricordare un ultimo termine: hosios. Esso indica tutto ciò che è permesso o sanzionato da una legge divina in contrapposizione a dikaios, «giusto», ciò che è sanzionato da una legge umana; di conseguenza, il carattere di chi vi aderisce (di qui, i vari significati di «pio», «devoto», «religioso», anche «puro»). In contrapposizione a hieros, esso indica ciò che è sottratto al dominio degli dèi, «profano»: se il denaro consacrato agli dèi è hieron, ciò significa che non lo si può toccare; in quanto hosion, però, esso è liberamente fruibile. Nella Settanta, esso non traduce in genere qadosh ma hasid, «pio» (la Vulgata, invece, tradurrà hosios con sanctus, in riferimento sia all’uomo che a Dio). Nella Bibbia ebraica (Cazelles 1985) il concetto di gran lunga piú importante è quello di qadosh. La fonte della sacralità è lo stesso Yahweh: le cose divengono di conseguenza sacre in seguito a un intervento divino. Fu per opera dei profeti che l’attributo di «santo» fu eticizzato e tendenzialmente attribuito al solo Yahweh. Ne consegue – differenza fondamentale rispetto al caso delle religioni politeistiche – che la santità o sacralità trasmesse alle cose o agli uomini da Yahweh sono state create da Dio, non fanno parte, cioè, della Natura. Un concetto collegato, ma distinto, è quello di herem, l’oggetto separato, messo da parte perché bandito e, in molti casi, destinato alla distruzione. Quest’ultima radice hrm si ritrova anche in arabo, almeno a partire dal Corano, come base della terminologia araba del sacro. La città della Mecca, per esempio, è un harim, un luogo circoscritto e inviolabile. La striscia di terra che la circonda e la protegge è conosciuta come al-haram. Nel centro della città è situata la «moschea proibita», al-masjid al-haram, cosí detta perché possono entrarvi soltanto coloro che hanno compiuto l’ihram o si sono personalmente consacrati. Nel centro del suo cortile interno, al-ahram al sharif («il nobile recinto»), si trova la aedes sacra, la Ka‘bah, al-bayt alharam («la casa proibita»). Ancora oggi: … i rapporti del musulmano col mondo esteriore sono dominati dalla distinzione che egli pone tra quanto è haram, illecito, interdetto, proibito, e quanto è halal, lecito,

permesso, non proibito. Dire di qualcuno che confonde haram e halal significa accusarlo di essere del tutto ignorante in materia di religione (Chelhod 1964, p. 50).

Non è ora possibile inseguire le fortune del sacro nei vari ambiti religiosi (Ries 1978-86). Queste ed altre terminologie che si potrebbero discutere insegnano che il termine sacro (e la coppia sacro/profano o coppie simili) traduce soltanto in parte la complessità di terminologie diversificate, il cui esatto valore semantico può essere reso soltanto da precise analisi contestuali. L’uso degli studiosi moderni presuppone in genere la mediazione cristiana, in particolare il latino della Vulgata, dal momento che «su questa tradizione si fonda la terminologia dei precursori medievali di tutti i moderni linguaggi specialistici» (Colpe 1987, trad. it. p. 492). Questa mediazione di una religione monoteistica e creazionista comportò, come insegna l’analisi di qadosh, la netta distinzione tra il sacro o santo che compete a Dio, nella sua trascendenza assoluta e nella sua signoria creatrice, e il sacro che compete alla creazione. In quest’ottica, il latino sanctus finí per indicare una qualità essenzialmente divina, a sfondo etico, conservata nel francese saint e nell’italiano e nello spagnolo santo. Quanto alle lingue germaniche, esse hanno conservato una radice (vedi il gotico hails, l’antico islandese e l’antico alto-tedesco heil) che in origine significava «intatto, sano, intero» come nell’inglese holy, nel tedesco e nell’olandese heilig, nello svedese helig. Per indicare, invece, la qualità risultante dalla consacrazione a Dio, il latino ha conservato il termine sacer, con forme participiali come sacratus da cui deriva il participio francese (con)sacré, l’italiano sacro e lo spagnolo (con)sagrado. L’inglese, in questo senso, impiega la parola romanza sacred, mentre il tedesco e l’olandese utilizzano l’antica radice weik nelle forme geweiht e gewijd. 4.3. L’interpretazione del sacro in Durkheim e nella scuola sociologica francese. Secondo la definizione della religione formulata da Durkheim, tutte le credenze religiose «presuppongono una classificazione delle cose reali o ideali che si rappresentano gli uomini in due classi o in due generi opposti, definiti generalmente con due termini distinti tradotti abbastanza bene dalle designazioni di sacro e profano. La divisione del mondo in due domini che comprendono l’uno tutto ciò che è sacro, e l’altro tutto ciò che è profano, è il

carattere distintivo del pensiero religioso» (Durkheim 1912, trad. it. p. 39). Questa definizione è l’esito di un processo complesso, in cui decisivo risulta il contributo teorico degli allievi Hubert e Mauss. Partendo dal lavoro di Robertson Smith, essi sottolineano l’ambiguità del tapu, che può essere avvicinata a quella del sacer latino: identificazione gravida di conseguenze, e che prepara la strada all’interpretazione in chiave psicoanalitica dell’ambivalenza psicologica del tabú come sacro negativo data pochi anni dopo da Freud in Totem e tabú (1913). Questo sacro, oltre a designare, come è messo in luce nel saggio sul sacrificio, uno spazio simbolico e un sistema di operazioni, nel saggio sulla magia è poi identificato col mana: in questo modo, esso diventa una forza universale, precedente ogni esperienza, che fonda le rappresentazioni magiche; nel contempo, trasmettendosi agli oggetti, esso diventa una loro qualità. Sarà Hubert, in un saggio del 1904, a trarre le conseguenze di queste identificazioni: il qadosh ebraico, il tapu e il mana polinesiani sono equivalenti funzionali del sacer; ne consegue che la nozione di sacro è universale, anzi questa idea diventa la condizione stessa del pensiero religioso. Di qui la proposta, che Hubert avanza, di definire la religione come «l’administration du sacré». Di qui, anche, l’osservazione di Mauss che «la notion de dieu se resout, en dernière analyse, en la notion de sacré» (1968, p. 97). Proprio questa constatazione è soggiacente alla fondamentale critica delle definizioni di religione al suo tempo correnti che Durkheim farà nella prima parte delle Forme elementari. Quali sono, ora, le caratteristiche fondamentali del sacro cosí come è possibile evincerle da quest’ultima fondamentale opera? Oltre ad essere un fenomeno universale, il sacro possiede, per Durkheim, un carattere di assolutezza e irriducibilità. La dicotomia sacro/profano deriva questa sua irriducibilità, in ultima analisi, dalla dicotomia società/individuo. Il sacro è infatti una rappresentazione collettiva, e in quanto tale, una categoria che classifica e ordina il reale. Ciò significa che la qualità del sacro non è legata ad alcun elemento naturale o utilitaristico, ma è culturale e sociale. In quanto tale, esso possiede un valore simbolico: proprio il fatto che esso non coincide con un determinato oggetto il quale è soltanto il luogo della sua manifestazione, fa sí, da un lato, che l’oggetto divenga il simbolo del sacro, dall’altro, che questi simboli mutino col mutare della società. In quanto fatto sociale, poi, il sacro è indivisibile e contagioso: ciò significa sia che esso va

sempre considerato nella sua totalità e inderivabilità sia che, come avevano insegnato in particolare i lavori di Robertson Smith, esso possiede un aspetto fisico, quasi materiale, essendo un fluido o una sorta di scarica elettrica che, soprattutto come sacro negativo (l’aspetto del tabú), si diffonde come un contagio. Quest’aspetto del sacro, d’altra parte, non va confuso col suo aspetto positivo, con quello che Durkheim chiama anche il sacro morale, inteso come il fondamento dell’obbligo etico: L’essere sacro è in un certo senso l’essere vietato, che non si osa violare; ma è anche l’essere buono, amato, ricercato… La personalità umana è cosa sacra; non si osa violarla, e ci si tiene discosti dai confini della persona – e nello stesso tempo è il bene per eccellenza, la comunione con gli altri (1951, trad. it. p. 166).

In questo modo, sulla falsariga del passaggio da sacer a sanctus rintracciabile anche in Otto, attraverso la nozione di sacro si può constatare il passaggio di Durkheim da un’etica della costrizione esterna, dell’obbligatorietà, a un’etica, di tipo kantiano, dell’interiorità. Al pari di Otto, infine, l’ultimo Durkheim ha sottolineato con vigore il carattere emozionale dell’esperienza del sacro: il sentimento del sacro ha la sua «verità», come insegnava il coevo pragmatismo di James, nel suo «provarsi». Per questo, come Durkheim giungerà a sostenere in un celebre frammento pubblicato postumo, per studiare una religione, occorre – come insegnava anche Otto – in qualche modo provare un sentimento religioso, se ci si vuole mettere in sintonia col credente: in questo modo, «le sentiment du sacré devient le fait religieux fondamental» (Isambert 1982, p. 54). L’interpretazione del sacro data da Durkheim si caratterizza per la sua sistematicità, in grado di convogliare al suo interno i vari aspetti e momenti della riflessione precedente, unificandoli intorno all’idea che il sacro è il modo in cui la società classifica la realtà e, nel contempo, l’esperienza che sta alla base di questo sistema di classificazione. I sociologi, soprattutto francesi, che si sono mossi lungo il cammino aperto da Durkheim e dai suoi allievi, hanno teso invece a privilegiare l’uno o l’altro aspetto presenti nella sintesi durkheimiana. In questa tradizione, un posto particolare occupa la rielaborazione del sacro operata da Caillois e dal Collegio di Sociologia (Hollier 1979), cui egli

partecipò attivamente. Le posizioni dei membri del Collegio (oltre a Caillois, in particolare Bataille e Leiris) sono diverse non solo per le differenti modulazioni del tema, ma anche per il variare del grado di «trasgressività» con cui si rapportano all’elaborazione durkheimiana. Al di là delle differenze, importa però sottolineare l’esistenza di un comune nucleo interpretativo. Come già in Durkheim, anche per i membri del Collegio la nozione di sacro diventa centrale per capire l’instaurarsi di quella esperienza di effervescenza collettiva – di «parossismo sociale», secondo la terminologia del Collegio – in base alla quale l’individuo trascende se stesso e si identifica in una collettività piú ampia. Il sacro, in altri termini, risponde agli interrogativi concernenti i fondamenti vitali, le forze prerazionali che costituiscono e fondano il vincolo sociale. A differenza di Durkheim, però, e della sua scuola, che nella loro analisi del sacro avevano privilegiato le società primitive, il Collegio chiede al concetto di sacro di render conto delle sue stesse metamorfosi nella società contemporanea, all’apparenza disincantata e inaridita. In questo modo, esso inaugura quello studio delle moderne vie del sacro, che costituisce un aspetto tipico della contemporanea indagine socioreligiosa. Si tratta di indagini pionieristiche, che affrontano nodi importanti come il rapporto tra sacro e la sovranità o il potere o la sua diffusa presenza nei meandri della vita quotidiana. Centrale, ad esempio, è il nesso tra violenza e sacro, ritornato di attualità grazie ai lavori di Burkert e in particolare di Girard (1972). In linea con gli studi di Hubert e Mauss sul sacrificio, ma recependo nuove suggestioni, Caillois sottolinea, sulle orme del maestro Dumézil, l’idea del sacro come di un ordine varuniano, e cioè di un ordine delle cose che implica la violenza di Varuṇa; mentre Bataille, con una lettura che cerca di integrare sociologia e psicoanalisi, rileva che «la società non è un essere meno vero né meno ricco della persona […] esigendo il dono di sé, tale essere deve essere sacro e cioè dotato di quelle forze, virtú e seduzioni che richiedono e determinano il sacrificio» (Hollier 1979, trad. it. p. 463). In questo modo, il sacro finisce per coincidere con quell’«inconscio sociale», antitetico rispetto alla «coscienza sociale» di Durkheim, che costituisce la quintessenza di una società che periodicamente si rinnova, attingendovi nei momenti in cui, nel corso delle sue cicliche crisi, essa è costretta a ritornarvi come a una sua fonte vitale. Per dirla con Caillois, esso è quell’al di qua (o al di sotto) che la vita sociale, nelle sue forme normali, reprime e ricopre. È, come dirà poi Bastide,

quel «sacro selvaggio» che forma una sorta di riserva inesauribile di pulsioni e di forze da cui trae alimento la vita sociale. «La crisi dell’istituito, e cioè della Chiesa, non comporta una crisi di ciò che istituisce e cioè dell’effervescenza dei corpi e dei cuori, della sperimentazione ricercata del sacro» (Bastide 1975, trad. it. pp. 136-37), di un sacro selvaggio che «si vuole esperienza vissuta del caos» (ibid., p. 235) o, come altri dirà, esperienza del dionisiaco sociale e cioè «ribollimento prodigioso della vita che l’ordine delle cose, per poter durare, deve canalizzare» (Wunenburger 1981, pp. 13-14). Infatti, il nucleo centrale della nozione del sacro propria del Collegio è la sua ambiguità o ambivalenza, e cioè il suo essere insieme puro e impuro. Mentre il suo lato «destro», positivo, lo connette all’ordine sociale, in quanto garante delle regole e delle interdizioni, il suo lato «sinistro», negativo, lo lega al sovvertimento e alla trasgressione, alla logica parossistica e orgiastica del dispendio improduttivo. Questa concezione del sacro, nel contempo eredità e superamento della concezione durkheimiana, sta alla base di un fondamentale saggio dello stesso Caillois, non a caso composto in quegli stessi anni e in quel particolare clima di «parossismo sociale» in cui si consumò la breve ma non effimera parabola del Collegio: L’homme et le sacré. Si tratta di un testo fondamentale nella storia delle moderne interpretazioni del sacro, perché vi si congiungono temi e motivi propri della tradizione sociologica francese e spunti dell’interpretazione vitalistica e ontologica del sacro, che in Francia avevano trovato espressione nell’opera di Bergson, in particolare ne Les deux sources de la morale et de la religion (1932). L’homme et le sacré riflette il clima particolare del Collegio, quella ricerca di un sacro «attivista», in grado di rivitalizzare una società in crisi. Se, per un verso, il sacro, sulle orme di Durkheim, è definito nella sua opposizione con il profano, per un altro, esso si è ormai trasformato in un «dato immediato della coscienza […] una categoria della sensibilità» (Caillois 1963 3, trad. it. p. 18). Ciò che il lavoro, di conseguenza, si propone non è tanto una morfologia del sacro (che sarà invece lo scopo perseguito da Eliade nel suo Trattato di Storia delle religioni), quanto una sua sintassi, che miri a cogliere le costanti delle sue manifestazioni, indagandone i tipi di relazioni con le varie realtà umane. Nella sua peculiare dialettica, esso è il fondamento della vita religiosa, che in questo senso si presenta come l’insieme dei rapporti tra l’uomo e il sacro: mentre le credenze li espongono e li garantiscono, i riti perseguono lo scopo

di assicurarli praticamente. Questa dialettica vede da un lato all’opera un sacro che, nella presentazione di Caillois, conserva i tratti tipici di forza indivisibile, onnipresente, incomprensibile, pericolosa, sommamente efficace, un’energia che manifesta il suo potere contagioso, epidemico, in grado di provocare, non piú facendo ricorso alla metafora dell’elettricità ma della chimica, fusioni improvvise ed irresistibili; dall’altro, un profano visto come un néant actif, che degrada la pienezza del sacro, permettendone nel contempo la manifestazione. Ne consegue che «entrambi sono necessari allo sviluppo della vita: l’uno come il luogo in cui essa si dispiega, l’altro come la fonte inesauribile che la crea, che la mantiene, che la rinnova» (ibid., p. 20). L’universalità del sacro non è, in altri termini, sostanziale ma relazionale: essa discende dalle particolari relazioni che il sacro intrattiene col mondo umano. Due in particolare sono i tipi di questo rapporto: il sacro di rispetto e quello di trasgressione (per una ripresa e uno sviluppo di questa tipologia cfr. Cazeneuve 1971, Makarius 1974). Mentre il primo corrisponde allo stato sociale normale, il secondo, come insegna ad esempio il caso della festa, rappresenta il momento, per Caillois fondamentale, della sua trasgressività (cfr. cap. VI par. 1). Soltanto cosí, infatti, il sacro, in quanto energia sociale caotica e indifferenziata, può liberarsi e periodicamente ricrearsi. In questo modo, però, il sacro si è trasformato in un’essenza irriducibile a ogni altra, in una sorta di «underground pulsionale della società» (Isambert 1982, p. 259). Anche Caillois ha dunque contribuito, sulla scia di Durkheim, a quel processo di sostanzializzazione del sacro che costituisce l’esito forse piú significativo della sua «scoperta» e che ha trovato la sua espressione piú significativa nell’ontologia del sacro propria della tradizione fenomenologica. 4.4. L’ontologia del sacro. Quasi contemporaneamente a Le forme elementari della religione il vescovo luterano Nathan Söderblom pubblicava sulla Encyclopaedia of Religion and Ethics di Hastings un articolo fondamentale sul sacro. Holiness è «the great word in religion», piú essenziale della nozione di Dio. Infatti, osservava lo studioso svedese, mentre la vera religione, come ad esempio il buddhismo, può sussistere senza un concetto di divinità, non vi è alcuna autentica religione senza la distinzione tra sacro e profano: L’idea di Dio senza la concezione del sacro non è religione (cfr. F. Schleiermacher,

Reden über die Religion, 1799). Non la mera esistenza della divinità, ma il suo mana, il suo potere, la sua sacertà, è ciò che caratterizza la religione (Söderblom 1913, p. 731).

Polemizzando con l’interpretazione sociologica, Söderblom metteva poi in discussione l’origine sociale di questa concezione, rimandando a una sua possibile fondazione ontologica e sovrannaturale. In questo modo, egli inaugurava un altro filone interpretativo in cui a partire, come in Durkheim, dalla constatazione che il sacro era una sostanza, una «realtà» di validità universale, il problema delle sue «origini» veniva risolto presupponendone la dimensione ontologica. Chi darà compiuta espressione teorica all’esigenza di una fondazione ontologica del sacro sarà Otto, in particolare con Das Heilige del 1917. L’interpretazione che del sacro dà Otto sta alla base di una corrente di studi fondata sull’antropologia dell’homo religiosus (Ries 1982). Essa risponde al bisogno d’indagare «scientificamente» un oggetto, la religione, la cui autonomia assoluta, per essere adeguatamente difesa dalla deriva indotta dal riduzionismo critico e dal relativismo storicista, viene fondata su un a priori, il sacro appunto. Se è vero che la storia mette di fronte ai mutamenti continui delle espressioni dell’esperienza religiosa, è altresí vero, per Otto, che soggiacente a questi mutamenti vi è un Erlebnis che non muta. Il Sacro risponde appunto al bisogno di fondare teoricamente l’inderivabilità e, nel contempo, l’universalità del particolare Gefühl o sensus numinis che sta alla base dell’esperienza religiosa in quanto tale. Non è qui il luogo per approfondire la struttura dell’argomentare di Otto. Per i nostri scopi basterà limitarsi ad osservare che il sacro del teologo di Marburgo possiede una caratteristica fondamentale, che ritornerà in tutti gli autori che a lui s’ispireranno, da Van der Leeuw a Eliade: esso non è soltanto una categoria interpretativa, formale, di tipo kantiano, che – come indica il sottotitolo del volume L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale – serve a formalizzare le esperienze del numinoso, ma è prima di tutto e soprattutto un’esperienza di natura interiore che ha in qualche modo in sé i contenuti del suo esperire. Nella particolare rilettura che dell’a priori religioso dà Otto, in quanto momento universale, esso si configura come una particolare disposizione o attitudine dell’uomo, è cioè, per utilizzare l’espressione dello studioso, a sua volta ripresa da Schleiermacher, una

religiöse Anlage, una disposizione religiosa. A differenza che in Schleiermacher, però, non abbiamo piú a che fare con una particolare disposizione psichica, dal momento che essa è come una potenza ordinata all’atto, come un germe autogenerantesi che ha in sé la sua legge di sviluppo e il suo scopo e nella storia soltanto il terreno, piú o meno propizio, per la sua realizzazione. Nel rapporto col mondo empirico e storico questa potenza ha dunque soltanto la sua causa strumentale, il suo luogo di manifestazione, non certo il suo inizio (dal momento che la religione, per Otto, inizia da se stessa) né, tanto meno, il suo scopo (dal momento che il telos di quella particolare potenza che è il sacro ottiano è seminalmente contenuto nelle inderivabili, oscure rappresentazioni del peculiare Gefühl o contenuto sentimentale che le fonda). In questo modo, il sacro di Otto non è piú soltanto oggetto di studio e categoria interpretativa, ma il fondamento stesso, di natura ontologica, di questo studio; la storia delle religioni, di conseguenza, si trasforma in storia del sacro, delle sue manifestazioni e del suo sviluppo ideale, nel senso che le leggi di questo sviluppo non dipendono dal contesto storico, ma sono caratterizzate da «stadi puramente immanenti al numinoso stesso» (Otto 1917, trad. it. p. 189 n.1). E solo una fenomenologia, attenta all’esperienza psicologica soggiacente, sarà in grado di dare veramente conto della particolare dialettica del sacro che questa reinterpretazione in chiave ontologica produce. Sulla via aperta e ampiamente percorsa da Otto si sono mossi numerosi autori, con variazioni e critiche significative che non intaccano, però, l’idea di fondo del sacro come valore categoriale assoluto. In questa linea interpretativa: … è un assioma ontico sintetico per la coscienza religiosa che il valore assoluto e per sé appartiene alla specie di valore del sacro, il quale tipo di valore non si può ridurre a nessun altro gruppo: siano valori logici, assiologici, morali, estetici, ecc. La serie di valore del sacro stesso si può presentare, entro la varietà delle religioni positive, come in larga misura variabile, sia nelle particolari qualità sia nella loro sintesi. Come tipo di valore è una grandezza di assoluta perfezione, che in nessun senso si è «sviluppata» da qualche altro valore (Scheler 1921, trad. it. p. 283).

In questo senso, pare legittimo affermare che ormai in questa prospettiva

il sacro, sostanzializzato e assurto a valore fondante della religione, ha in certo senso preso il posto del Dio personale delle religioni abramitiche. Forse l’autore piú significativo e, comunque, il piú noto, in questo percorso interpretativo, è lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade. Nella sua interpretazione del sacro egli parte dalla coppia categoriale sacro/profano valorizzata da Durkheim e da Caillois, ma rilegge questa alla luce della sua particolare ontologia dell’arcaico. Essa lo porta, sulla scia di Otto e della corrente fenomenologica, a rifiutare ogni interpretazione riduzionistica – e dunque anche sociologica – della natura e delle origini del sacro, inducendolo, di contro, a sottolinearne il particolare carattere di realtà, se non di verità. Il sacro eliadiano, infatti, è un dato strutturale della coscienza umana, che storicamente manifestano le ierofanie, guidate da una peculiare dialettica secondo la quale la particolare «realtà» del sacro si manifesta, e non può non manifestarsi, nella profanità degli oggetti piú diversi, senza che però questi oggetti la possano esaurire. Al pari della dialettica, cara ai romantici, tra Infinito e finito, «questa paradossale coincidenza del sacro e del profano, dell’essere e del non-essere, dell’assoluto e del relativo, dell’eterno e del divenire è quanto rivela ogni ierofania, anche la piú elementare […] questa coincidenza tra sacro e profano produce, di fatto, una rottura di livello ontologico. Qualsiasi ierofania la implica perché ogni ierofania mostra, manifesta la coesistenza delle due essenze opposte» (Eliade 1948, trad. it. p. 36). Se è vero che l’inesauribile varietà delle ierofanie – di cui Eliade ha tentato una sistemazione morfologica – ci ricorda l’influsso che la storia e la cultura hanno nel determinare le modalità concrete di queste manifestazioni e il pericolo insito in ogni semplificazione riduttiva, è altresí vero che, agli occhi dello storico delle religioni rumeno, la corrispondenza simbolica tra il sacro e le sue differenti epifanie dipende, in ultima analisi, dalla struttura che esso possiede e che coincide, secondo un modello interpretativo che per certi aspetti ricorda quello di Caillois, con il rapporto dell’uomo con l’universo e con il suo fondamento vitale ed energetico, il sacro appunto. In questo senso, anche l’interpretazione che Eliade dà del sacro va nella direzione di ridurre la sua apparente multiformità all’unità sostanziale di questa realtà particolare. 4.5. La diaspora del sacro. In un celebre articolo del 1977 il sociologo David Bell, affrontando in modo critico le teorie a quel tempo dominanti sull’ineluttabilità della

secolarizzazione, si poneva un interrogativo che avrebbe dominato i successivi studi sulla situazione socioreligiosa contemporanea: stiamo assistendo a un «ritorno del sacro»? In un’interpretazione funzionalista la risposta è evidente: lungi dal disparire, il sacro «non si eclisserebbe da un lato se non per riapparire dall’altro; lungi dallo sparire definitivamente, esso subirebbe delle metamorfosi e degli spostamenti» (Sironneau 1982, p. 188; Prades 1987). Di conseguenza, non è il caso di parlare di «ritorno del sacro» per il semplice fatto che «in realtà non si era mai eclissato. Si era semplicemente presentato sotto mentite spoglie. Ma è noto che ciò che è profondo ama la maschera» (Ferrarotti 1983, p. VIII). Ferrarotti sottolinea, in questo modo, quello che definisce il paradosso del sacro: Ridotto all’essenziale, il paradosso del sacro è il seguente: «sacro» è il metaumano che piú occorre alla convivenza umana, pena l’appiattimento del vivere, l’offuscarsi del parametro o punto di riferimento critico contro cui misurarsi, la perdita del «senso del problema» ossia pena la perdita di ciò che vi è di propriamente (unicamente) umano nell’uomo (ibid., p. 118).

Il sacro permane, nella rilettura del sociologo italiano, una realtà la cui «genesi» è essenzialmente sociale, secondo la tradizione sociologica sopra delineata (anche se egli preferisce parlare di «comunità» invece che di società): un bisogno sociale che, nel contempo, si pone come il fondamento metasociale dei valori che una società o comunità devono condividere per essere veramente tali. Riemergono in questo modo, alla luce del nuovo paradigma interpretativo che s’interroga sui modi della convivenza di sacro e secolare, una serie di funzioni del sacro già messe a tema dalla ricerca precedente. Cosí, per Jacques Ellul (1973), in virtú della sua ambivalenza e della sua funzione di separazione, il sacro permette oggi al singolo di ristabilire «l’ordine del mondo», assegnando alle cose in fluttuazione dei valori sacri che lo rassicurano e, nel contempo, lo mettono in consonanza con l’universo: una funzione,inoltre, che è divenuta fondamentale nell’area della nuova religiosità, solo se si pensa alla centralità che vi rivestono la prospettiva olistica e i tentativi, variamente declinati, di ristabilire un rapporto tra l’energia sacra, che si sperimenta come presente nel singolo, e il fondamento

cosmico di quest’energia, coincidente appunto con il sacro (Filoramo 1994, pp. 53 sgg.). L’attuale disseminazione del sacro negli interstizi piú diversi della società – in quel quotidiano che pareva essere stato completamente dissacrato dalle moderne discipline del sospetto come la psicoanalisi, ma anche in quelle sfere dell’agire sociale, come la politica o la scienza, che parevano essere diventate le piú profane e, dunque, le piú immuni dal contagio di questo virus particolare – per un verso è certo figlia del tempo: la pervasività del sacro, la sua capacità di metamorfosi, quel suo aspetto a prima vista parassitario che lo porta a vivere alle spalle dei fenomeni piú diversi, ricordano la cultura del simulacro e del bricolage tipica del postmoderno. Per un altro verso, però, se la categoria del sacro è ritornata ad essere centrale delle Scienze nelle religioni è anche perché, in una società secolarizzata, il sacro costituisce una delle modalità possibili per dare ordine e coerenza ai significati socialmente condivisi: individui e comunità, infatti, che non si ritrovano piú a condividere valori comuni, per dare senso alla loro esistenza, conferiscono a oggetti e simboli un valore assoluto, consacrandoli e, con ciò stesso, separandoli e assolutizzandoli. In questo senso, un caso particolarmente significativo, che esamineremo in seguito (cfr. cap. VII par. 3), è dato dalla sacralizzazione della politica. 5. Le sfide della comparazione. Dimensione fondamentale dell’attività cognitiva, la comparazione costituisce un momento indispensabile per ogni disciplina intesa a conoscere non solo il mondo della natura, ma anche il mondo delle produzioni culturali. Come ricorda il termine latino da cui deriva, par («uguale», «simile»), soltanto la comparazione, permettendo di assimilare ciò che non è noto a ciò che lo è, costituisce la mediazione necessaria tra l’identità dei concetti e la diversità dei dati, quella mediazione che, in altri termini, mentre rende identico ciò che non lo è (l’Altro-da-me) permette, nel contempo, di trovare quel punto comune che fonda le differenze. Applicata al campo delle scienze umane, la comparazione in epoca moderna, a partire soprattutto dalla scoperta dei nuovi mondi, è diventata per un verso il mezzo indispensabile per tradurre un universo culturale e religioso nuovo nelle categorie familiari dell’Occidente cristiano – inevitabile processo di violenza assimilante fatto oggetto, come si è ricordato, degli strali della critica decostruzionista –, per un

altro ha messo in moto la possibilità sia di gettare uno sguardo diverso su noi stessi sia di prendere progressivamente consapevolezza, talora in modo drammatico, delle differenze che l’originario sguardo assimilante occultava. Questa centralità e pervasività del processo comparativo, che ci accompagna, come ha insegnato in particolare Piaget, nel nostro sviluppo cognitivo, e che costituisce nella realtà quotidiana, oltre che nella storia della nostra cultura, una bussola indispensabile di orientamento, non deve farci dimenticare che, evocando il termine, si evoca, in realtà, un’intera famiglia di termini e di concetti apparentati e correlati, dall’analogia semantica alla metafora, dall’identità alla differenza, dalla proporzione all’analogia strutturale: un campo semantico e, dunque, un campo concettuale dai confini oscillanti, pronti a variare a seconda dei contesti e delle applicazioni. Un campo concettuale che, d’altro canto, permettendo di gettare quella rete in grado di catturare ciò che è comparabile, nel contempo, rende possibile quell’operazione di distillazione e decantamento del diverso che è costitutiva delle Scienze delle religioni. La vaghezza del campo concettuale della comparazione è, a sua volta, il prodotto della molteplicità dei quadri di riferimento soggiacenti e delle problematiche cui l’applicazione di un metodo comparativo intende rispondere. Vi può cosí essere una comparazione intraculturale, che confronta civiltà che hanno avuto contatti documentati, o una interculturale, piú problematica, che prescinde da questi contatti; una morfologica e cioè tesa a mettere in luce determinate forme culturali, o una genetica. Anche i suoi presupposti sono discussi, dal momento che vi è chi li individua nel postulato illuministico dell’unità del genere umano o, piú in linea con la nouvelle vague decostruzionista, in «arie di famiglia». Anche sugli scopi manca l’intesa, dal momento che si può comparare per trovare somiglianze, ma anche, all’opposto, per sottolineare specificità e differenze. Che dire poi del metodo? Se è vero che i vari metodi sono, e non possono non essere, debitori di paradigmi interpretativi piú generali, se non di vere e proprie ideologie sociali, dall’evoluzionismo al funzionalismo, dal diffusionismo alla fenomenologia, è altresí vero che soltanto grazie a un metodo rigoroso sarà possibile costruire un oggetto, il comparabile, generatore di nuove conoscenze. Per le Scienze delle religioni l’attività del comparare è vitale. Si prenda il caso, che esamineremo piú in dettaglio nel quinto capitolo, dei monoteismi

abramitici e cioè giudaismo, cristianesimo e islam. Per un verso, ad essi si può applicare una comparazione genetica ed intraculturale, che ne studi i reciproci influssi e contatti. Questa comparazione avrà il compito, ad esempio, di mettere in luce il debito che l’islam delle origini ha contratto sul piano delle credenze e delle pratiche sia col giudaismo sia col cristianesimo. Vi è però un altro tipo di comparazione che s’interrogherà, proprio a partire da questa base comune (il comparabile), su somiglianze e differenze, cercando ad esempio di mettere in luce le logiche diverse che regolamentano, nelle tre tradizioni religiose, un fenomeno ad entrambe comune e distintivo come il profetismo. Ed è a questo secondo livello che emergono i veri e propri problemi legati al metodo comparativo. Che si cerchino somiglianze o che, al contrario, si vogliano accentuare specificità e differenze, secondo l’antico modello aristotelico e tomistico del genere prossimo e della differenza specifica, in realtà sono in gioco non omologie ma analogie, secondo un tipico modello desunto dalle scienze naturali, come ha ricordato Jonathan Z. Smith 4 e, prima di lui, il nostro Ugo Bianchi. Esse perseguono lo scopo cognitivo, ma anche etico, di mettere in luce i gradi di commensurabilità (o di incommensurabilità) tra sistemi di credenze e di valore per meglio comprendere la cultura (e il sistema religioso) di appartenenza. A questo grado di comparazione il dato ideologico minaccia d’irrompere prepotentemente, sicché è a questo punto che occorre prestare un’attenzione particolare affinché una comparazione che si vorrebbe puramente descrittiva non ceda il posto a spiegazioni onnicomprensive mosse da interessi non scientifici (Carter 1998). In questa tipologia rientrano tutti quegli studi, pur compiuti da valenti specialisti come Cantwell Smith, Zaehner, Panikkar, che perseguono lo scopo di promuovere il mutual understanding tra le religioni comparate: tipico caso di uno studio delle religioni che si trasforma in studio religiosamente impegnato. Per i nostri scopi, può bastare limitarsi a un’utile distinzione di fondo, introdotta anni or sono dallo storico delle religioni svizzero Borgeaud (1986), tra una comparazione di tipo euristico e una comparazione di tipo ermeneutico. La prima è utilizzata dallo specialista per spiegare meglio quel dettaglio che la documentazione in suo possesso non gli permette di interpretare in modo adeguato. Fatto salvo, naturalmente, questo presupposto e cioè che questa spiegazione non sia possibile rimanendo

all’interno del campo specialistico, il ricorso alla comparazione s’impone come utile mezzo di integrazione dell’indagine. Questa comparazione può aver luogo sia su base storica sia su base fenomenologica. Nel primo caso si ricorrerà – là dove, evidentemente, la documentazione lo permette e cioè in genere nel caso delle religioni indagabili in base a documentazione letteraria, oltre che archeologica – a confronti con culture e religioni vicine, rientranti cioè in sostanza, se non nel medesimo sistema culturale, in ogni caso in un’area di possibili influssi storici. Nel secondo caso, si ricorrerà invece alla comparazione con una documentazione di aree religiose storicamente non collegate, con la precisazione però che, anche là dove la comparazione mette in luce un parallelo interessante, essa persegue appunto fini euristici, non serve cioè per spiegare il fenomeno del parallelo di per sé, ma per ritornare con uno sguardo nuovo alla documentazione di partenza. Diverso è il caso della comparazione ermeneutica, che per la sua stessa natura solleva problemi piú generali, che travalicano il campo dell’indagine storica, aprendo scenari affascinanti quanto inquietanti. In questa seconda prospettiva non interessa il dettaglio o, piú in generale, una migliore intelligenza del funzionamento della tradizione religiosa di partenza, quanto, appunto, il senso del parallelo scoperto. Anche in questo caso lo studioso si trova ad un bivio. Per un verso, come insegna ad esempio il comparativismo di Georges Dumézil, il quale ha sempre presupposto nelle sue indagini comparative un comune sostrato culturale e linguistico indoeuropeo, rifiutandosi in genere – a differenza di certi epigoni – di applicare il suo metodo ad altri contesti, si può decidere di interrogarsi sul senso di fenomeni religiosi analoghi appartenenti a contesti storico-religiosi diversi, mettendone in luce – per rimanere all’esempio di Dumézil – la fondamentale ideologia e funzione tripartita, che diventa una chiave per decifrare testi e fenomeni religiosi, a prima vista oscuri, alla luce di strutture soggiacenti. Quel che, in questi casi, è in fondo presupposto è una comune eredità indoeuropea linguisticamente documentabile. Per un altro verso, si può decidere d’interrogarsi sul senso di fenomeni religiosi analoghi, la cui ipotetica identità o somiglianza non è, d’altro canto, possibile spiegare presupponendo un comune sostrato culturale. Si pensi al tema del dualismo e dei correlati miti dualistici, sui quali ritorneremo piú diffusamente nel quinto capitolo. Si tratta di miti presenti sia presso popolazioni indigene come gli indiani del Nord

America sia in tradizioni folkloriche sia soprattutto presso religioni dualistiche, dallo zoroastrismo allo gnosticismo, dal manicheismo ai dualismi ereticali medievali: una presenza e una diffusione che non si lasciano spiegare su base diffusionistica e cioè storica, ma esigono, per chi voglia avventurarsi su questo terreno periglioso, il ricorso a istanze di vario tipo, di per sé astoriche o metastoriche, come gli archetipi o la struttura della mente umana. 6. Decostruire la religione: l’induismo. I modi in cui oggi le Scienze delle religioni designano non solo la religione in generale, ma le differenti religioni in particolare, dal giudaismo all’islam, dall’induismo al buddhismo, sono dunque il risultato di un lungo e complesso processo storico, svoltosi essenzialmente in epoca moderna, in conseguenza del quale, a partire dal cristianesimo, il sapere religioso ha progressivamente cercato di classificare e denominare quelle specie particolari, costituite dalle altre tradizioni religiose, fatte conoscere da missioni e conquiste coloniali da un lato, da decifrazioni di scritture e scoperte di nuovi testi dall’altro (Haussig 1999). Un caso esemplare di questo processo è fornito dall’induismo (Von Stietencron 2001). La scelta di definire la religione degli abitanti dell’immenso continente indiano, gli hindū, ricorrendo al termine di nuovo conio induismo (o, piú precisamente, hinduismo), emerge solo nel XIX secolo, nel Bengala, quando gli impiegati della East India Company britannica lo introdussero per riassumere in un solo concetto l’insieme di quelle che essi consideravano le numerose tradizioni religiose degli abitanti dell’India. Sfuggiva loro – né forse poteva essere diversamente, data la grande complessità delle famiglie linguistiche, etniche e religiose presenti nel subcontinente indiano – che in questo modo si finiva per riunificare sotto un unico termine una realtà religiosa, come la ricerca successiva doveva mettere in evidenza, particolarmente complessa. Il nuovo termine inglese hinduism era stato ricavato dalla parola hindū, che deriva in realtà dal persiano e indica al singolare il fiume Indo (che si dice in sanscrito sindhu e in persiano hindu), mentre al plurale indica le persone che si trovano a vivere nei territori attraversati dal fiume, gli indiani. In questo senso, il termine compare già nelle iscrizioni persiane antiche degli Achemenidi, che al tempo di Ciro (559-529 a.C.) estesero i confini del loro regno fino al Gandhāra nell’alto Indo e sotto Dario I, nel 518, fino alla foce

dell’Indo. I Greci, che sotto Alessandro il Grande nel 334-330 a.C. sconfissero la Persia e nel 326 a.C. attraversarono l’Indo, chiamarono lo stesso fiume Indos e gli abitanti della regione Indoi, da cui il nostro «indiani». Hindū sono dunque, secondo il significato originario della parola, semplicemente gli indiani o abitanti dell’India. Piú di mille anni dopo Alessandro arrivarono in India i musulmani, stabilendosi inizialmente come coloni nella provincia del Sindh, nei pressi del corso inferiore dell’Indo. Da lí il loro dominio si estese progressivamente fino al Panjāb. Gli arabi musulmani non si definirono hindū, che ai loro occhi apparivano come infedeli, sottoposti, in quanto tali, a un sistema di tassazione, cosí efficace al punto che fu sostanzialmente conservato dai successivi conquistatori dell’India, dai musulmani afgani (conquistarono l’India del nord tra il 1192 e il 1206) al commonwealth inglese. L’identità hindū si è perciò costituita in negativo, dal momento che tali sono stati a lungo quei popoli dominati che non erano musulmani (o in seguito inglesi). Ciò aiuta a comprendere le ragioni che da piú parti si sollevano oggi contro l’uso scientifico, apparentemente neutrale, del termine induismo (Balaganghadara 1994); in realtà, un termine che racchiude una storia coloniale di semplificazioni e sopraffazioni sia sul piano politico sia su quello culturale tipico dell’orientalismo occidentale (per una ricostruzione complessiva dei rapporti tra India e Occidente cfr. Halbfass 1981; per una prospettiva critica postcoloniale cfr. King 1999). Il progetto decostruzionista, che cerca di demistificare, dietro la neutralità delle categorizzazioni tipiche delle Scienze delle religioni, subordinazioni e gerarchizzazioni che celano la tipica politica di potenza dell’Occidente conquistatore, se aiuta a comprendere meglio la stratigrafia storica depositatasi nel concetto di induismo a prima vista anodino, apre a sua volta una serie di problemi di non facile soluzione. Il primo dei quali è costituito dalla rimessa in discussione dei principî di potere e di autorità soggiacenti alla costruzione del discorso scientifico, in questo caso alla pratica classificatoria tipica delle Scienze delle religioni (cfr. cap. V par. 1). Chi è legittimato, in questo profondo rimescolamento delle carte, a parlare, classificare, definire? E in nome di chi e/o di che cosa? E con che scopo? Il caso specifico dell’induismo apre in realtà un problema piú generale, che ha una rilevante ricaduta pubblica e sociale, oltre che scientifica: chi è autorizzato a parlare

della religione? L’insider, per stare alla terminologia oggi in voga, o l’outsider, l’uomo religioso in nome della propria fede o l’osservatore esterno in nome della laicità irrinunciabile della ricerca? Si tratta di un interrogativo decisivo, che ripropone un’annosa questione che ha caratterizzato la storia degli studi religionistici nel Novecento: non è l’esperienza religiosa un presupposto indispensabile per uno studio serio della religione e per la trasmissione dei saperi religiosi? Si pensi, per portare un esempio a noi piú familiare, alla tradizione di studi di Storia della Chiesa (cattolica, in questo caso), rappresentata da studiosi autorevoli come Hubert Jedin, che nel secondo dopoguerra ha difeso la tesi secondo la quale soltanto lo storico cattolico, che partecipa cioè direttamente alla vita della Chiesa, sarebbe autorizzato a studiare questa realtà, la cui natura divina richiede, secondo la logica tipica della Scienza della religione comprendente (cfr. cap. II par. 7), un accostamento ermeneutico partecipante. Il problema epistemologico dei presupposti necessari per uno studio (e un insegnamento!) della religione e delle religioni che questa posizione solleva viene riproposto, in modo a prima vista paradossale, dagli studi postcoloniali, come gli studi afro-brasiliani o, a modo loro, da quelli di genere: negli Stati Uniti il politically correct ha portato in non poche università e dipartimenti di studi religiosi ad esigere che soltanto studiosi afro-brasiliani siano legittimati ad insegnare le religioni afrobrasiliane e cosí via (il lettore può facilmente estendere l’elenco), secondo l’antico adagio per cui soltanto il simile conosce il simile. Non si tratta, d’altro canto, di un problema puramente epistemologico o con una ricaduta semplicemente accademica, ma che ci conduce al cuore delle conseguenze della crisi dello Stato laico illustrate in un precedente capitolo (cfr. cap. I par. 4), dal momento che anche nelle nostre società europee, sempre piú multietniche e multiculturali, si dovrà prima o poi affrontare la questione potenzialmente esplosiva, a cominciare dalla scuola, di chi è piú legittimato a trasmettere saperi religiosi che non possono piú essere confinati nella sfera privata o familiare (da cui comunque sempre piú debordano). Un elemento essenziale della prospettiva di Scienze delle religioni che qui si difende è proprio il rifiuto di una prospettiva politically correct, tipica dei cultural studies, secondo la quale il soggetto che studia una religione in particolare e una cultura in generale deve avere la «giusta» origine, politica, identità sessuale e, perché no, razza. Questa posizione è agli antipodi del

metodo che dovrebbe essere proprio dello studio scientifico della religione. Il fondamento di questo tipo di studio è la comune umanità, non la comune cultura. Lo studioso deve ricercare, anche se non la potrà mai raggiungere, una posizione «oggettiva», anche attraverso un continuo processo di autoriflessione critica, senza per questo illudersi di uscire dalla propria ombra, mantenendo un’apertura e una sensibilità verso l’Alterità religiosa. Vi è un secondo aspetto della questione che merita, per i nostri scopi, di essere sottolineato. «Induismo», al pari delle altre denominazioni inventate dalle moderne Scienze delle religioni, risponde all’esigenza insostituibile di ogni spiegazione scientifica di «comprendere» e cioè di avere una visione complessiva di un fenomeno che il divenire storico e la deriva culturale frammentano e atomizzano continuamente. È il classico problema dell’identità di una tradizione religiosa (cfr. cap. I par. 2), di un’individualità collettiva che muta continuamente, al pari delle individualità singole, pur conservando una qualche unità che è data, in fondo, non da un’essenza aprioristica, ma dall’insieme del cumularsi progressivo di incontri e scontri con altre identità culturali e religiose. La definizione di induismo mira proprio a cercare quell’identico, quella colla, se si preferisce, che tiene insieme in una costruzione (che è pur sempre ipotetica) possibilmente armonica e proporzionata (il «corpo» di una religione) fatti di per sé a prima vista diversissimi ed eterogenei, oltre a quegli atteggiamenti e a quelle idee che animano questo corpo particolare. Anche in questo caso, una solida dose di sapere storiografico (una medicina purtroppo in via di estinzione) potrà costituire un antidoto prezioso contro la deriva relativistica. Bibliografia 1. Il paradosso della religione. Ahn, V. G. 1997 Religion I, in Theologische Realenzyklopedie, De Gruyter, Berlin - New York, pp. 513-22. Bianchi, U. 1994 (a cura di), The Notion of «Religion» in Comparative Research. Selected Proceedings of the XVI International Association for the History of Religions Congress, «L’Erma» di Bretschneider, Roma.

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«Religio est, quae superioris cuiusdam naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque

effert»(2.161). 2

L’apologeta Lattanzio, collegando nelle sue Divinae Institutiones 4.28.2 religio a religare a

sottolineare il vincolo che lega la religio cristiana, è un testimone significativo di questo rovesciamento all’inizio del IV secolo. 3

Si veda, ad esempio, Wie wenn an Feiertage… e il commento che ne ha dato Heidegger:

«Hölderlin chiama la Natura das Heilige, poiché essa è piúantica dei tempi e degli dèi, e però la sacralità non è in nessun modo una proprietà dedotta da un dio che si situa lontano; il sacro non è sacro perché è divino, ma il divino è divino, poiché, nel suo modo di essere, è sacro». Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, Klostermann, Frankfurt am Main 1943, p. 54. 4

«Homology is a similarity of form and structure between two species shared from their common

ancestor; an analogy is a similarity of form or structure between two species not sharing a common ancestor» (Smith 1990, p. 47, n. 15).

Capitolo quarto Le Scienze delle religioni oggi

1. L’«invenzione» delle Scienze delle religioni. Come si è visto nel secondo capitolo, in epoca moderna, lo studio scientifico della religione è stato condotto a partire dal modello della ragione critica elaborato in periodo illuministico, al cui vaglio sottomettere i vari aspetti della natura umana, compresa la religione in quanto dimensione antropologica costitutiva dell’uomo. Come ha osservato giustamente Georges Gusdorf in un saggio ancora fondamentale di alcuni anni fa: … le développement des sciences religieuses doit être compris comme un vaste effort pour combler le vide épistémologique suscité par l’effacement inéluctable du paradigme biblique […] la naissance des sciences religieuses implique une démultiplication de l’idée de vérité, une sorte de polythéisme ou de relativisme des valeurs intellectuels, succédant au monothéisme biblique de naguère. Cette péripétie supposait la constitution d’un nouvel outillage mental, qui ne pouvait être mis au point d’un seul coup; il exigeait une mutation complète de l’épistémologie, en déhors même des disciplines théologiques (Gusdorf 1972, p. 153).

Occorrerà, d’altro canto, attendere la seconda metà dell’Ottocento per vedere affermarsi l’espressione «Scienze delle religioni». Non è qui possibile ripercorrere la storia complessa di questo termine, legato, per un verso, al sorgere della Storia delle religioni come disciplina accademica, per un altro, al piú generale processo di autonomizzazione dello studio della religione da ipoteche teologiche. Per i nostri scopi, basterà limitarsi a qualche considerazione sulle due espressioni che allora s’impongono nei due paesi leader in questo settore di studi, la Francia e la Germania: Sciences religieuses e Religionswissenschaft.

L’espressione Sciences religieuses 1, in Francia, è una sorta di marchio brevettato legato alla fondazione e alla storia di un’istituzione specifica : la V sezione dell’École pratique des hautes études, denominata appunto di Sciences religieuses (Baubérot e altri 1987, Laplanche 1996). In quanto tale, essa si iscrive nel piú generale processo di laicizzazione, tipico della Francia, che tocca in particolare il sistema dell’educazione, culminato nel 1905 con la separazione di Chiesa e Stato. Come avveniva in quegli anni anche in Italia, in seguito alla costituzione dello Stato unitario che doveva portare alla chiusura delle facoltà teologiche di stato, in Francia si decise nel 1885 di abolire le cinque facoltà di teologia cattolica (Parigi, Lille, Angers, Lione, Tolosa), trasferendo i crediti cosí liberati a una nuova sezione, la quinta, riservata alle scienze religiose, da aggiungere a quelle già esistenti presso l’École pratique des hautes études creata nel 1868. In quel periodo, tre sono le caratteristiche fondamentali che contraddistinguono le Scienze religiose in Francia. La prima è strutturale: secondo il modello positivistico imposto da Comte e allora dominante, esse si definiscono in opposizione alla teologia, escludendola. La seconda è istituzionale: la nuova sezione viene creata all’interno di un’istituzione pubblica e dunque laica, anche se al personale insegnante non viene richiesta pubblicamente alcuna professione di laicità. La terza è congiunturale e aiuta a comprendere il clima particolare che presiedette alla sua nascita: in seguito alle elezioni del 1876-77, che avevano imposto una maggioranza repubblicana e anticlericale all’Assemblea nazionale, trionfava un violento anticlericalismo, che portò, tra l’altro, alla laicizzazione dei programmi d’insegnamento nelle scuole primarie (con la soppressione del catechismo come materia d’insegnamento) come anche del personale insegnante. Il fatto, poi, che le élite confessionali protestanti ed ebraiche fossero schierate a favore della repubblica, a differenza di quelle cattoliche, a favore della monarchia, aiuta a comprendere il posto importante che nel processo ebbero professori protestanti come Albert Reville. Di fatto, la sezione si presentò e fu vista come una sorta di facoltà di teologia secolarizzata, in cui confluí, sulla base di una rigorosa analisi filologica dei testi, il meglio delle ricerche orientalistiche e classicistiche – oltre che semitiste e bibliche (un nome su tutti, Ernest Renan) – francesi (la comparazione vi era rigorosamente esclusa: a tutt’oggi, nonostante la sua cinquantina di insegnamenti specialistici, la quinta sezione non ha una

cattedra di Storia comparata delle religioni). Col tempo, l’area di interessi doveva estendersi sia alle religioni etnologiche sia alla sociologia delle religioni, pervenendo a coprire uno spettro molto ampio di insegnamenti. Merita spendere ancora qualche parola sul concetto di «scienza» allora implicito in questa scelta terminologica e sui modi diversi in cui poteva essere intesa un’espressione, con le sue varianti, come «scienza/e della/e religione/i». Era il periodo, infatti, in cui, grazie al ricorso a procedure rigorose e a metodi severi di controllo, si era ormai affermata, sulla falsariga dei modelli di verificabilità imposti dalle scienze della natura, una concezione strettamente positiva del termine. Era però anche il periodo in cui, dietro la ricerca di modelli scientifici sempre piú rigorosi e di nuove scienze umane e della cultura, nazioni come la Francia e la Germania cercavano di affermare la propria supremazia intellettuale, propagandando e imponendo il proprio modello di scienza. A partire dal grande progetto di sintesi culturaledisciplinare della scientia universalis propugnato da Christian Wolff sulla scorta di Leibniz, attraverso la ripresa kantiana, per tutto l’Ottocento l’élite culturale tedesca, da Fichte a Hegel, da Nietzsche a Marx e a Weber – che si trattasse del ruolo fondativo di una «dottrina della scienza», dello statuto assoluto di una «scienza della logica», del proclama di una «gaia scienza», della costruzione di un «socialismo scientifico» o dell’ideale di una «scienza come professione» e, al contempo, di una «scienza avalutativa» – si è affaticata a elaborare un suo concetto di scienza, con continue variazioni di senso e slittamenti semantici rivelatori della complessità della posta in gioco. Una posta che emerge con chiarezza nella contrapposizione di Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito (cfr. cap. II par. 7), che sintetizza e, al contempo, sta alla base di quella ricerca di una «scienza tedesca» da contrapporre alla tradizione culturale francese, il cui elemento differenziante verrà di volta in volta desunto dalla Riforma protestante o dal dato linguistico o, all’alba del Novecento, dall’esistenza stessa del Volk e del germanesimo. Un percorso affascinate e intricato, nel quale non possiamo ora addentrarci, ma che va tenuto sullo sfondo per meglio comprendere anche il radicamento storico di dibattiti a prima vista aridi, se non inconcludenti. Mentre, cosí, in Francia s’imponeva un concetto di «Scienze religiose», che si fondava essenzialmente su un rigoroso sapere positivo storico-filologico, in Germania, sulla base di una tradizione culturale profondamente diversa, doveva

affermarsi (cfr. cap. II par. 7) un concetto diverso di Scienza della religione o Religionswissenschaft, ermeneuticamente orientato, che influenzerà in modo decisivo il modo di intendere il campo disciplinare delle Scienze delle religioni (Lanczkowski 1974, Meslin 1973). Oggi il termine conserva intatta la sua ambiguità o, se si preferisce, la sua polivalenza semantica, in cui, in seguito a un dibattito ormai secolare, si sono sedimentati strati semantici diversi, non sempre facilmente identificabili e che, comunque, per essere opportunamente decodificati, richiedono di volta in volta un’adeguata contestualizzazione storiografica che li ricolleghi alla storia degli studi delle differenti tradizioni culturali. Soltanto in questo modo, infatti, sembra possibile sfuggire al tipico dilemma che la scienza della religione ha cercato di risolvere in chiave ermeneutica, relativo alla questione del modo in cui una razionalità di tipo scientifico, comunque definita e delimitata, sia in grado di circuire e interpretare una realtà tipicamente «irrazionale» come la religione. Si tratta di una questione che, dal punto di vista difeso in questa sede, necessita comunque di un supplemento d’indagine, di una consapevolezza storiografica, dal momento che anche nella scienza i criteri di razionalità in gioco, secondo un tipico pendolo interpretativo, non sono assoluti, non sono mai dati una volta per tutti, ma sono storicamente condizionati. Piú in generale, si può osservare che, ancora oggi, quando si discute dello statuto epistemologico delle Scienze delle religioni, molto dipende dal modo in cui s’intende il termine «scienza». Come si metterà in luce piú analiticamente nel quarto paragrafo, la situazione di crisi in cui oggi esse versano ha come causa decisiva proprio la Methodenstreit sul metodo scientifico degli ultimi vent’anni, un’onda lunga che ha finito per lambire anche questo territorio. E in ogni caso anche la scelta del suo oggetto (la religione o le religioni) dipende, in ultima analisi, dal concetto di scienza prescelto. Di fatto, a partire dai primi albori, tra fine Ottocento e inizio Novecento, si è venuto progressivamente formando un complesso edificio, che comprende attualmente tre livelli di indagine. Il primo livello è costituito dall’indagine storico-filologica, che mira a indagare le singole tradizioni religiose sulla base di un’analisi filologica dei documenti scritti e delle altre fonti non letterarie (monumentali, iconografiche, epigrafiche, ecc.), allo scopo

di metterne in luce origini, divenire ed eventualmente morte: è il compito di una Storia delle religioni che, in quanto storia, si pone il compito di indagare il mondo delle religioni come fenomeni storici in divenire. Il secondo livello, fondato sul metodo comparativo, si apre alle diverse vie che la comparazione è in grado di inaugurare (cfr. cap. III par. 5). Tradizionalmente, esso è di tipo sistematico, mirando a mettere in luce permanenze e strutture del fenomeno religioso, fornendone opportune classificazioni e tipologie, interrogandosi nel contempo su specificità e irriducibilità. Pur restando ancorata al dato storico, questa sistematica si apre cosí a questioni e problemi che lo travalicano, preparando la via per l’intervento delle differenti Scienze delle religioni. Queste ultime sono costituite dall’insieme delle cosiddette scienze umane della cultura (sociologia, psicologia, antropologia, linguistica, ecc.) applicate allo studio del fenomeno religioso. A differenza di quanto sostenuto dalla tradizione della Religionswissenschaft tedesca, che postulava l’unità dell’oggetto (la religione) in funzione dell’unità del metodo (l’indagine di tipo ermeneutico), le Scienze delle religioni, come conseguenza del pluralismo sia dell’oggetto sia del metodo, costituiscono un campo disciplinare aperto, contraddistinto da una dinamica interna vivace e creativa. Coerentemente con la loro problematica d’origine, astorica quando non antistorica, esse si pongono interrogativi concernenti le cause profonde del comportamento e delle credenze religiose, di volta in volta individuate in dimensioni, in genere sottratte all’analisi storica, come l’inconscio, le strutture sociali, i bisogni culturali e cosí via. In questo senso, esse hanno sollevato e sollevano problemi interpretativi riconducibili all’accusa di riduzionismo e funzionalismo, di ricollegare cioè a cause non religiose i motivi di fondo dell’esperienza religiosa. La situazione è in realtà piú complessa. L’istanza ermeneutica della ricerca di senso con la correlata esigenza di elaborare un adeguato approccio di tipo fenomenologico-descrittivo si è fatta progressivamente strada anche all’interno di settori disciplinari come la psicologia, la sociologia, l’antropologia. D’altro canto, un procedimento scientifico non si risolve semplicemente nel fornire una, anzi, la spiegazione di un determinato fatto religioso, ma nel farsi carico di altre possibili spiegazioni, nel verificarle e confrontarle per scegliere la piú plausibile, nel contempo continuando la ricerca, nella consapevolezza dei limiti inerenti a ogni spiegazione e riconducibili, in sostanza, ai limiti stessi del metodo

scientifico messi in luce dalla Methodenstreit contemporanea. In questa prospettiva aperta, senza per questo trascurare la ricerca di senso, rimane comunque ineliminabile l’esigenza di ricondurre anche un fenomeno complesso come la religione ai condizionamenti di cause esterne. Per mediare tra queste due esigenze, è indispensabile costruire teorie interpretative criticamente consapevoli del fatto che, per un approccio scientifico, la religione è un oggetto d’indagine al pari di altri, non il suo scopo, e che la spiegazione scientifica non esaurisce il problema del senso. Occorre, infine, tener conto delle trasformazioni, intervenute in generale nel periodo postbellico nel campo degli studi storici, che hanno influenzato profondamente – anche se manca a tutt’oggi una valutazione complessiva del fenomeno – lo studio del fenomeno religioso. Il «nuovo storicismo», legato sia alla scuola francese delle «Annales» sia ai piú recenti mutamenti della storiografia internazionale, ha teso infatti, di contro allo storicismo al cui interno si erano formate le generazioni precedenti degli storici delle religioni, a superare la divisione tra storia e scienze umane. Le conseguenze di questo tentativo sono di grande importanza per l’attuale studio della religione. Infatti, è cresciuta l’esigenza, insieme storiografica e teorica, di verificare criticamente l’apparato concettuale con cui queste discipline operano anche nel campo della conoscenza religiosa e in genere dell’Altro. In secondo luogo, sono venute meno certe barriere, come quelle che separavano lo studio dei documenti scritti dallo studio dell’oralità; caduta confermata, tra l’altro, dalla crescente influenza degli studi antropologici anche nello studio della religione. Proprio la necessità del confronto disciplinare, infine, ha acuito la necessità della riflessione teorica su nodi vitali come la spiegazione, la comparazione, il rapporto tra dato storico e dato strutturale, infine, l’attenzione assegnata ai codici linguistici anche nello studio dei simbolismi rituali. 2. Un campo disciplinare. 2.1. La psicologia della religione e lo studio dell’esperienza religiosa. Sorta negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento come disciplina che mirava ad applicare il metodo psicologico allo studio del vissuto psichico della religione (cfr. cap. II par. 6), dopo un inizio promettente, la psicologia della religione ha conosciuto un lungo periodo di crisi, dovuto a fattori diversi, tra i quali merita ricordare l’avvento del metodo psicoanalitico, che con pionieri

quali Freud e Jung concentrò su di sé ben presto il meglio dello studio psicologico della religione, ma soprattutto il tentativo, fallito, di considerare la psicologia della religione non come un ramo della piú generale psicologia, con la quale condividere metodi e scopi, ma di una scienza della religione ermeneuticamente orientata (Filoramo e Prandi 1997 3, pp 205 sgg.). Come molti indizi dimostrano, soprattutto negli Stati Uniti, dal moltiplicarsi delle riviste specializzate all’aumento di insegnamenti specialistici, in questi ultimi anni si assiste a un rinnovato interesse per una psicologia della religione scientificamente orientata, che si ponga come scopo lo studio, con metodi e strumenti psicologici, del vissuto psichico dell’esperienza religiosa (Hood, Spilka, Hunsberger e Gorsuch 1996 2; Jacobs e Capps 1997; Jonte-Pace e Parsons 2001; Spilka e McIntosh 1996; Wulff 1997). Rispetto a un passato anche non lontano in cui, a dominare il campo, erano in sostanza due orientamenti alternativi, risalenti alle origini stesse della disciplina – il primo, di tipo piú «scientifico», teso a misurare quantitativamente la dimensione psicologica dell’esperienza religiosa; il secondo, proprio della psicologia cosiddetta umanistica, teso di contro, in polemica sia con il precedente indirizzo di studi sia con le scuole psicanalitiche, a rivalutare l’importanza della dimensione conscia e della religiosità dell’uomo maturo –, oggi si assiste, in linea col pluralismo metodologico dominante, alla compresenza di una pluralità di punti di vista. In parte, questo nuovo atteggiamento metodologico si giustifica sullo sfondo dell’importanza crescente che ha assunto, anche in questo campo, la riflessione teorica, facendo tesoro del detto, attribuito a Kurt Lewin, che non c’è nulla di piú pratico di una buona teoria (Hood, Spilka, Hunsberger e Gorsuch 1996 2); in parte esso è dovuto al pluralismo dell’oggetto, dal momento che anche in questo campo è cresciuta l’attenzione sia per la diversità e la specificità delle tradizioni e confessioni religiose sia per la «novità» religiosa, come dimostra il proliferare degli studi relativi all’area della nuova religiosità. In questo modo, si è tagliato piú facilmente quel cordone ombelicale che a lungo, soprattutto in ambito cattolico (ma non solo), ha legato questo tipo di studi a prevalenti interessi confessionali e si è affermato quel principio dell’«ateismo» metodologico, richiamato da uno degli studiosi piú significativi, Antoine Vergote, in virtú del quale al buon

psicologo della religione non è richiesto di essere credente ma, appunto, buono psicologo. I problemi che oggi la psicologia della religione deve affrontare sono, in sostanza, gli stessi delle altre scienze umane che intendano indagare la religione, dall’antropologia alla sociologia: un problema relativo alla definizione dell’oggetto e un problema relativo alla posizione, agli atteggiamenti e alle attese dello studioso. A monte vi è il classico problema costituito dalla natura dell’«esperienza religiosa». Si tratta di un’espressione introdotta nel campo degli studi di psicologia della religione dall’importante opera di William James, The Varieties of Religious Experience (1902), ma che, in realtà, nella sua idea di fondo, risale alla definizione di Schleiermacher della religione come esperienza sui generis, non cognitiva né pratica ma emozionale, fondata su di un sentimento di dipendenza assoluta dall’Infinito (nelle Reden) o da Dio (nella Glaubenslehre). In quanto tale, si tratta di un’idea che è stata ripresa dalla corrente fenomenologica e fissata nella teoria dell’homo religiosus soprattutto ad opera di Eliade (cfr. cap. III par. 7). In questo modo, lungo una via aperta, all’inizio del secolo, dai neokantiani Troeltsch e Otto, si è cercato di formulare una concezione dell’a priori religioso che, soprattutto nella linea di Otto, non è aliena dal radicarlo nella dimensione psicologica dell’esperienza religiosa. Secondo questa concezione, alla base delle varie tradizioni religiose non vi sarebbe un fattore cognitivo o pratico ma, appunto, esperienziale. Secondo la formulazione dello scienziato della religione Wach – che qui si segnala per il suo spessore teorico e per l’influenza che ha esercitato sulla piú recente antropologia dell’homo religiosus (Meslin 1988) –, l’espressione dell’esperienza religiosa (in sé, inattingibile all’interprete), nei suoi tre domini teorico pratico sociologico, è individuabile facendo ricorso a quattro criteri formali: è una risposta a ciò che è sperimentato come una «realtà» ultima (ultimate); tocca la persona nella sua totalità; è l’esperienza piú intensa; infine, è pratica, nel senso che essa comporta un imperativo che sfocia nell’azione (Wach 1958, pp. 30 sgg.). In questo modo, rileggendo la dinamica della vita religiosa alla luce della coppia «esperienza/espressione» – che traduce opposizioni fondamentali come quella kantiana tra noumeno e fenomeno o quella hegeliana tra spirito oggettivo e soggettivo –, Wach ha offerto a una certa tradizione di Scienze delle religioni, ermeneuticamente orientata, un modello fondamentale. La natura

dell’espressione, infatti, è di non esaurire mai, anzi di sviluppare continuamente l’Erlebnis, il nucleo di esperienza vitale religiosamente orientata, che costituisce la stessa esperienza e si pone come l’ispirazione di cui l’espressione diventa il logos. Per quanto interessante, questa concezione comporta almeno due limiti. Per un verso, come tutte le teorie dell’Erlebnis, essa finisce per sottrarre ad un’analisi scientifica quello che è ritenuto il suo centro, cadendo in un pericoloso psicologismo; per un altro, per definire la natura religiosa di questa esperienza, fa ricorso a un tipo di definizione basato sull’ultimate concern, troppo vago per potere essere operativamente utile. La psicologia della religione ha cercato di uscire da questo circolo vizioso, applicando al vissuto psichico del credente i differenti metodi propri dell’indagine psicologica, dalle teorie dinamiche a quelle cognitive, dalla teoria dell’attaccamento alla Attribution Theory, dalla teoria dei ruoli alla Coping Theory, dalla psicologia culturale a quella dei cicli di vita. Lo scopo comune a queste varie teorie è quello di ricercare la «verità psicologica» della condotta religiosa, individuando, ad esempio, i fattori che ne condizionano l’insorgere e la strutturazione, gli aspetti percettivi, emotivi, affettivi, tendenziali, sociali che la caratterizzano, i conflitti che ne intersecano lo sviluppo, i dinamismi e i processi, consci e inconsci, attraverso i quali l’uomo giunge a un atteggiamento personale (non solo nel senso dell’adesione di fede, ma anche, eventualmente, della negazione e del rifiuto) nei confronti dei sistemi simbolici religiosi che incontra nella sua cultura. La psicologia della religione, soprattutto nella sua variante psicoanalitica, ha a lungo incontrato l’ostracismo delle istituzioni ecclesiastiche, in particolare in Italia: una delle cause, tra l’altro, che aiutano a spiegare la presenza ancor oggi marginale di questa scienza della religione nel nostro panorama accademico (per un breve e qualificato profilo si veda l’introduzione di Mario Aletti all’edizione italiana di Hood, Spilka, Hunsberger e Gorsuch 1996 2). Soltanto negli ultimi anni del Novecento si può dire che questa disciplina, sganciata dagli usi apologetici di una certa psicologia religiosa e riconosciuta ufficialmente anche dal magistero, abbia acquisito pure da noi piena dignità scientifica, come dimostra anche il riconoscimento internazionale. 2.2. La sociologia della religione.

Al pari della psicologia della religione, anche la sociologia della religione non è nata come ramo particolare delle Scienze delle religioni, ma della sociologia generale, di cui condivide dunque presupposti, metodi, obbiettivi (cfr. cap. II par. 6). Se la sociologia può essere considerata la geometria della vita sociale che, attraverso l’analisi di determinati contenuti sociali, mira a ricostruire forme e processi ad essa soggiacenti, a loro volta i sociologi della religione guardano alla religione prima di tutto come a un’istituzione, un insieme stabile di norme, valori, status, ruoli, gruppi e organizzazioni, che si sviluppano a partire da bisogni sociali fondamentali con i quali interagiscono. Lo scopo che essi perseguono, di conseguenza, è quello d’indagare l’intreccio tra le strutture sociali e i comportamenti religiosi, per mettere in luce, da un lato, se e in che misura i comportamenti e le credenze religiose risultino socialmente determinati dal piú generale sistema sociale, dall’altro, se e in che misura aspetti peculiari di una religione possano, a loro volta, influenzare il piú generale sistema sociale. La moderna sociologia è sorta come una risposta al problema dell’ordine creato all’inizio del XIX secolo dal collasso delle società di antico regime provocato dall’industrialismo e dalle democrazie rivoluzionarie. La sociologia della religione, sorta come tentativo di comprendere il ruolo della religione in questa nuova situazione, ha conservato quest’interesse come studio degli effetti dei processi di differenziazione sociale sulla religione. L’emergere di nuovi sistemi e sfere sociali autonome rispetto all’influsso della religione di chiesa e, per converso, la tendenza alla privatizzazione della religione, riassumibile nel passaggio dalla religione come fattore pubblico alla religiosità come fattore privato, vengono oggi valutati in modi diversi. Mentre per alcuni sociologi la perdita di funzioni sociali della religione è considerata un processo irreversibile (Wilson 1976 e 1982), altri vedono nella specializzazione funzionale un modo attraverso cui le istituzioni anche religiose possono ritornare ad esercitare un influsso sociale (Luhmann 1977). Per altri ancora, legati a teorie di tipo funzionalistico, il processo di differenziazione si risolve in un processo di redistribuzione di funzioni: il posto delle istituzioni tradizionali, in crisi di identità, è progressivamente preso da altre forme, come culti e movimenti maggiormente in grado, con la loro mobilità e non rigidità, di venire incontro alle mutate necessità sociali.

Questa corrente di studi, dominante nell’ultimo ventennio, si è dedicata in particolare allo studio dei nuovi movimenti religiosi (Willaime 1995). I cambiamenti che la società ha conosciuto nel corso del Novecento hanno influenzato in modo determinante quest’indirizzo di studi. Rispetto alle teorie dei padri fondatori della disciplina, Durkheim e Weber, convinti che, pur da punti di vista differenti, nonostante tutto, la religione costituisse una funzione significativa della società e della vita pubblica, i processi secolarizzanti e le connesse teorie hanno portato all’emergere, in casi determinati, di prospettive profondamente diverse. È questo il caso di una sociologia fenomenologicamente orientata, come quella di Berger e Luckmann, interessata ad indagare il fondamento sacro dell’individualismo moderno (Berger e Luckmann 1966); è altresí il caso delle teorie funzionalistiche tese a cogliere, al di sotto delle motivazioni consce degli attori sociali, le «vere» cause e cioè le funzioni latenti. Gli stessi mutamenti del campo religioso, d’altro canto, hanno spostato l’attenzione dei sociologi della religione da temi classici legati alla religione di chiesa allo studio di fenomeni come i nuovi movimenti religiosi. Piú recentemente, infine, come conseguenza dell’esplodere del fenomeno fondamentalista, ci si è tornati a interrogare sull’incidenza sociale di movimenti apocalittici ed escatologici, alla luce della constatazione che nel Novecento – contrariamente a quanto riteneva Karl Löwith, il quale pensava vi fosse una sostanziale continuità tra l’escatologia cristiana e la credenza laica nel progresso – il principale antagonista ideologico della fede nel progresso, soggiacente alle varie teorie della secolarizzazione, sia stata appunto la tradizione apocalittica e chiliastica, oggi ridivenuta socialmente importante. L’attenzione crescente verso quei movimenti religiosi che hanno un atteggiamento, piú o meno radicale, di rifiuto del mondo ha cosí messo in luce il mutare dei rapporti tra politica e religione sullo scenario contemporaneo (cfr. cap. VIII). Quali sono oggi gli oggetti preferiti di indagine da parte della sociologia della religione? L’elenco, senza alcuna pretesa di esaustività, come già ricordato, va dai nuovi movimenti religiosi che hanno dominato la scena del cambiamento religioso a partire dagli anni Settanta, ai radicalismi religiosi di varia natura, in particolare ai fondamentalismi (cfr. cap. VII par. 3). Proprio questi ultimi, a loro volta, sono testimoni di un rinnovato interesse per un intreccio, quello tra religione e politica (cfr. cap. VIII), ritornato importante,

come ha messo in luce tra altri José Casanova, «dopo la secolarizzazione». La rinnovata funzione politica della religione si è manifestata in particolare come rinnovata funzione di identità etnico-religiosa, sovente in situazioni di drammatico conflitto religioso: si pensi al ruolo recitato dalle religioni in guerre a sfondo etnico-religioso (cfr. cap. VII par. 2). Quanto alle religioni di chiesa, anche in conseguenza del ritorno d’interesse per la loro rinnovata funzione pubblica, hanno continuato ad attrarre l’attenzione dei sociologi delle religioni, con ricerche sociografiche piú tradizionali sulle pratiche, sugli orientamenti politici dei credenti, sulla funzione del fattore religioso come fattore d’integrazione sia in relazione alla multiculturalità e ai problemi creati dai processi immigratori sia in relazione all’allargarsi dell’Europa. Un altro oggetto al centro dell’attenzione della sociologia delle religioni negli ultimi anni, sintomo dei cambiamenti profondi del campo religioso indotti dai processi di globalizzazione, sono i sincretismi e in genere la parte recitata dalla religione nella costituzione di forme di ibridazione e meticciato culturale: valga per tutti il caso del Brasile. Forse, però, il contributo piú interessante viene dallo studio delle profonde trasformazioni subite dalle credenze religiose in seguito al trionfo dell’individualismo religioso nelle società postindustriali, dal Giappone all’Europa. È il fenomeno, al quale si è già avuto occasione di accennare, del credere senza appartenere e cioè senza una coerenza tra affiliazione religiosa e credenze e pratiche. La soggettivizzazione indotta dall’individualismo religioso, infatti, ha contribuito a valorizzare la dimensione pragmatica, di esperienza e di sperimentazione del vissuto religioso, assurto a fattore di autoregolamentazione anche all’interno di tradizioni religiose profondamente istituzionalizzate come il cattolicesimo. La credenza «va in vacanza», si libera cioè da un riferimento vincolante alla tradizione dogmatica e alle forme tradizionali di controllo come la confessione, dando luogo sempre piú a forme di religiosità autonome dai riferimenti istituzionali. Ne consegue la necessità di ricorrere a definizioni piú fluide di religione, ma anche a teorie piú sofisticate in grado di gettare una rete fruttuosa su una religione altrettanto «liquida» quanto la tarda modernità di cui è espressione. 2.3. Religione e cultura: l’antropologia delle religioni. Il fatto stesso che la definizione di religione forse piú discussa in quest’ultimo trentennio sia stata quella di un antropologo, Clifford Geertz 2, è

uno tra i tanti indizi che confermano l’importanza strategica che gli studi di antropologia delle religioni hanno avuto e continuano ad avere per le Scienze delle religioni (Ciattini 1997, Lambeck 2002, Whaling 1985). Dopo la fase ottocentesca in cui, con pionieri come Tylor o Frazer, lo studio in prospettiva antropologica delle religioni dei cosiddetti primitivi era stato dominato da interrogativi sull’origine e l’evoluzione, abbandonati per reazione, anche come conseguenza della ricerca sul campo, dall’antropologia successiva; e dopo i contributi importanti tra le due guerre, portati dall’antropologia sociale britannica con studiosi come Malinowski e Evans-Pritchard, e miranti ad indagare, sullo sfondo del funzionalismo sociologico durkheimiano, le funzioni che la religione svolge in rapporto alle differenti istituzioni e pratiche sociali (Ciattini 1997), l’indagine postbellica, anche in reazione a quest’impostazione funzionalistica, ha cercato di approfondire la natura stessa della religione attraverso l’analisi del simbolismo religioso e lo studio del processo rituale. In questa direzione vanno i contributi piú significativi dello stesso Geertz, di Victor Turner, di Mary Douglas. In fondo, in una direzione non differente, anche se diverso è il metodo seguito, vanno gli studi strutturalisti sul mito di Lévi-Strauss e di quegli antropologi sociali, come Leach, che hanno cercato di integrare la prospettiva strutturalista nella loro analisi dei sistemi simbolici (sul rapporto tra simbolo e teoria nell’antropologia delle religioni cfr. Simonicca e Dei 1998). Che sia una cerimonia pubblica come il sacrificio o un atto privato come la preghiera individuale, il rituale è un tratto distintivo della religione (Bell 1992 e 1997; Grimes 1995 e 2000a e b). Ricorrendo a differenti quadri teorici, gli antropologi ne hanno proposto interpretazioni diversificate, ora sottolineando le sue funzioni sociali, per cui il rituale rinnova l’impegno individuale nei confronti dell’ordine morale e sociale o concentra l’attenzione del singolo su questioni d’importanza collettiva; ora le sue funzioni emozionali, grazie alle quali esso allenta l’angoscia nei confronti dell’alea di incertezza che caratterizza la realtà quotidiana; ora le sue funzioni cognitive, in conseguenza delle quali esso è in grado di attribuire un ordine trascendente, sacralmente fondato, al disordine del mondo. La stessa ripetitività dell’azione rituale – carattere distintivo – è stata interpretata come una dimensione capace di stabilire una certezza di comportamento, contribuendo a rinforzare la particolare «realtà» che il rituale drammatizza e

incarna sul piano simbolico. La logica del processo rituale, inoltre – analizzata in particolare da Victor Turner approfondendo lo schema dei riti di passaggio intuito, all’inizio del secolo, dall’antropologo francese Robert Hertz e formalizzato in un celebre saggio del 1909, Les rites de passage, dal belga Arnold Van Gennep (cfr. cap. VI par. 2) –, con il suo triplice movimento di separazione, situazione di liminalità, rito d’ingresso nella nuova situazione sociale, recita una parte fondamentale nel plasmare la personalità socioreligiosa dell’iniziando, facilitando tra l’altro, secondo Turner, attraverso la riplasmazione degli affetti, la formazione di nuovi legami sociali (la cosiddetta communitas). Grazie alla sua duplice dinamica per cui, per un verso, nella situazione di liminalità, il tempo normale è sospeso e si viene a creare una sorta di antistruttura, mentre, per l’altro, attraverso la stereotipia e la ripetitività dei gesti, si conferma l’ordine esistente, il rituale si dimostra capace di incorporare in sé, temporaneamente risolvendole, le tensioni interne a ogni tradizione religiosa tra senso utopico individuale e convenzione collettiva, tra l’immediatezza della communitas e la necessità di conservare l’ordine esistente. Ad integrazione e parziale correzione di quest’interpretazione, è stato osservato da alcuni che ogni processo rituale, in quanto comportamento convenzionale, non persegue lo scopo di esprimere intenzioni, emozioni e stati mentali personali in modo diretto, spontaneo, «naturale», ma, al contrario, di insegnare agli iniziandi a «prendere le distanze» dai comportamenti quotidiani, a controllarli attraverso un comportamento pubblico stereotipato e convenzionale. Infatti, l’efficacia dei vari rituali d’iniziazione, cioè d’ingresso in una nuova condizione di vita, consiste nel fatto che gli iniziandi «imparano ad imparare» e precisamente a comunicare socialmente attraverso modi stereotipati d’azione che sono nel contempo, per il pubblico che vi assiste, modi di comunicazione sociale. «Il prendere le distanze, allora, è l’altro lato della medaglia della convenzionalità; prendere le distanze separa le emozioni private degli attori dalla loro adesione a una morale pubblica» (Tambiah 1985, trad. it. pp. 137-38). Il rituale inoltre, inteso come attività simbolica, sviluppa concezioni, presenta in modo simbolico idee, non è segno dell’emozione che veicola, ma suo simbolo. È su questo sfondo che si colloca l’interpretazione di Geertz. Richiamandosi alla filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer e della

sua allieva Susanne Langer, e applicando alla religione la distinzione tra simboli discorsivi, con i quali il significato degli oggetti viene trasmesso in forma discorsiva, e simboli rappresentativi, a differenza del funzionalismo, Geertz ha sottolineato l’importanza della religione non in quanto rispecchia l’ordine sociale, ma in quanto lo crea. I simboli sacri, infatti, svolgono la funzione di unificare l’ethos di un popolo: le credenze e le pratiche lo rendono credibile sul piano intellettuale, mentre la concezione del mondo lo rende credibile sul piano emotivo. In questa nuova prospettiva, l’annosa disputa sulla priorità tra credenza e funzione appare superata, dal momento che l’attenzione va rivolta all’interrelazione tra i due elementi. Nel contempo, viene messo in discussione sia l’approccio fenomenologico fondato sul primato dell’esperienza individuale sia l’approccio funzionalistico fondato sul primato del dato sociale. Le sue tesi hanno messo in moto un vivace dibattito, non ancora concluso; né è un caso se il binomio belief and action, che ha preso il posto della comprensione intuitiva, e dunque il rapporto tra credenze ed azione, sia diventato un oggetto privilegiato dei piú recenti studi sulla religione. In genere, gli antropologi delle religioni hanno teso ad interpretare il significato culturale del simbolismo religioso incastonato nei rituali considerandolo come un modo particolare di comunicazione e, di conseguenza, decodificandolo in funzione dei vari elementi socioculturali che essi veicolerebbero. In questo modo, però, si è trascurata la coerenza interna del linguaggio simbolico religioso. Inoltre, non si è tenuto nel debito conto il fatto che spesso questo simbolismo è volutamente oscuro: cosa che non rientra evidentemente nell’interpretazione cognitivista. In questi ultimi anni, perciò, alcuni antropologi – come Fredrick Barth, Roger Keesing, Dan Sperber, Roy Wagner – hanno messo in discussione quest’interpretazione del simbolismo sacro. Piú che trasmettere significati sociali, esso evocherebbe al singolo individuo significati personali. Lo scopo dei simboli, in altri termini, starebbe, piú che nel trasmettere informazioni specifiche, nel riunire singoli individui in ciò che essi ritengono un’azione sociale significativa. Sempre in una prospettiva di critica al simbolismo, alcuni antropologi, come Robin Horton (1993), hanno cercato di ripensare l’intellettualismo classico di un Tylor adeguandolo alla riflessione postpositivistica sul pensiero scientifico, e quindi non ingenuamente realista, riproponendo in termini nuovi l’antica

questione del rapporto tra forme di razionalità e relativismo (Dei e Simonicca 1990): una querelle che è stata alla base, a partire dalle teorie di Frazer, dell’annosa questione dei rapporti tra magia, religione e scienza. Contro le varie forme di relativismo cognitivista, alla base delle diverse concezioni del mondo vi sarebbero, secondo Horton, gli stessi processi cognitivi fondamentali (come le tecniche di inferenza o le procedure per verificare la validità empirica di un certo enunciato), anche se essi, in circostanze diverse, producono risultati diversi. È in questo modo che diventerebbe possibile comprendere quella che, a prima vista, può apparire la peculiare razionalità delle società esotiche, con la conseguenza che anche i loro sistemi religiosi non sono cosí estranei come sembrerebbe. Si conferma cosí, attraverso questi indirizzi piú recenti, una caratteristica fondamentale che l’antropologia delle religioni ha avuto sin dalle sue origini, legata al presupposto illuministico della sua nascita, e cioè la fondamentale unità della natura umana: proprio perché interessata a proposizioni generali sulla natura della religione come «universale culturale», essa ha influenzato lo studio della religione forse piú della sociologia e della psicologia della religione, inevitabilmente legate allo studio del presente. D’altro canto, la progressiva inarrestabile scomparsa delle società tradizionali che hanno costituito l’oggetto privilegiato di studio di etnologi e antropologi, con il conseguente spostamento di interesse dell’antropologia culturale verso le forme antropologiche presenti nelle società occidentali, sta provocando, con il cambiamento dell’oggetto, mutamenti profondi in questo settore disciplinare, con esiti ad oggi non prevedibili sullo studio della religione. 2.4. Nuovi orientamenti. L’elenco delle scienze umane che si occupano della religione con le loro peculiari metodologie, arricchendo il campo delle Scienze delle religioni, è in realtà ben piú lungo e comprende discipline come la linguistica, le scienze cognitive, la geografia delle religioni, gli studi di genere 3. Quest’ampiezza discende dall’origine stessa di queste scienze, nate, come abbiamo visto, nell’Occidente industrializzato in reazione ai cambiamenti radicali conosciuti dalla religione come effetto dei processi di differenziazione sociale. La divisione sociale dei saperi, riflesso di una società complessa e stratificata, contraddistinta da mutamento sempre piú frenetico e dinamismo sempre piú accelerato, si riflette dunque anche nel campo dei saperi religiosi, ponendo le

Scienze delle religioni di fronte a un duplice compito: analitico e sintetico. Per un verso, esse sono chiamate ad adeguare metodi e teorie alla crescente complessità dell’oggetto. Di qui la necessità di arricchire la propria mappa cognitiva, per cercare di rendere meglio conto dei nuovi volti – sovente a prima vista non religiosi o pseudoreligiosi – che il fenomeno religioso, nella sua proteiforme vitalità, offre con sorprendente agilità, camuffandosi o nascondendosi in modi a prima vista sfuggenti e indecifrabili. Utilizzando la loro memoria storica e capacità comparativa, compiendo adeguate ricognizioni archeologiche alla ricerca del sottosuolo religioso che continua ad agitare un terreno a prima vista profano, le Scienze delle religioni, nella misura in cui sono in grado di fecondarsi reciprocamente, possono essere anche in grado di recare un contributo decisivo alla decifrazione di codici ideologici e rituali che veicolano contenuti e motivazioni profondamente religiosi. Per un altro verso, però, le Scienze delle religioni devono mirare a conservare o a riacquistare un punto di vista unitario, se vogliono essere in grado di vedere la foresta senza perdervisi, alla ricerca – certo nobile ma già affidata ai singoli specialismi – delle differenti piante e cioè dell’individuale e del contingente. Come aveva osservato alcuni anni fa uno dei piú acuti interpreti dei fatti religiosi, Michel De Certeau, lo sviluppo delle Sciences religieuses è stato il prodotto della divisione e della frammentazione di una «scienza» teologica cristiana (cattolica e protestante nelle sue varie ramificazioni), che aveva come missione di enunciare il senso globale di una società alla luce di una particolare teologia della storia, come per primo tra i Padri aveva insegnato Agostino. Come dimostra in fondo la storia piú che secolare della V sezione di Sciences religieuses, al moltiplicarsi dei saperi specialistici, all’accumulo straordinario di conoscenze settoriali non ha corrisposto, d’altro canto, un salto qualitativo nella comprensione dei fenomeni indagati: … à la différence des sciences, les études religieuses n’avaient pas – elles n’ont pas – une formalité propre. Elles ont pour caractéristique une sorte de mollesse épistémologique. Ce sont encore des théologies, mais aliénées dans une science positive. Ce sont déjà des sciences, mais altérées par les «données » que leur imposent les restes des croyances (De Certeau 1987, p. 247).

Di qui la duplice necessità, di arricchire la panoplia interpretativa, senza perdere di vista una capacità sintetica. L’esempio di nuovo approccio disciplinare che qui si propone senza alcuna pretesa di esaurire un campo in continua evoluzione e molto piú ricco, relativo al diritto comparato delle religioni, va letto in questa prospettiva: la necessità per le Scienze delle religioni di rivedere e calibrare la propria mappa interpretativa per essere meglio in grado di affrontare le sfide della società globale, multiculturale e interetnica. Le discussioni divampate intorno al preambolo del trattato costituzionale stabilito dalla Convenzione europea sulla necessità o meno di menzionare esplicitamente in questo testo fondativo le origini cristiane dell’Europa o, per altro verso, le polemiche che hanno accompagnato in vari paesi europei la questione del chador, il cosiddetto velo islamico (Debray 2004), hanno indirettamente messo in evidenza l’importanza crescente di una disciplina giuridica ancora ai primi passi, ma destinata a un futuro promettente anche in una prospettiva di Scienze delle religioni: il diritto comparato delle religioni (Ferrari 2002 e l’annuario «Daimon»). Essa tratta un oggetto di grande rilevanza per le Scienze delle religioni: il rapporto tra religione e diritto. Le religioni, infatti, tendono in modi diversi, che discendono soprattutto dalla differente concezione della divinità (cfr. cap. V), a darsi proprie leggi sacre, secondo meccanismi che fissano in regole giuridiche le esigenze, i progetti, le aspirazioni di una comunità di fedeli. Naturalmente, anche nel caso delle società piú tradizionali, queste leggi conoscono mutamenti e variabilità; ciò non toglie che in genere, come insegna il caso delle leggende cristallizzatesi intorno ai grandi legislatori dell’antichità, da Licurgo a Solone, queste leggi, fissate prima o poi in scritti sacri, rappresentino un elemento di permanenza e di stabilità, un fattore potente d’identità delle comunità religiose coinvolte. Né è un caso che, anche in epoca premoderna (si pensi, per non portare che un esempio, al rapporto tra comunità ebraiche e impero romano), i processi di «giuridicizzazione» di queste leggi sacre siano diventate la base del rapporto tra queste comunità e i differenti stati in cui esse sono presenti. Infatti, le regole religiose che ogni fedele è tenuto a rispettare riemergono sovente sotto forma di richieste di riconoscimento giuridico avanzate ai pubblici poteri. Si tratta di una prospettiva fondamentale entro cui studiare, ad esempio, le relazioni tra

minoranze religiose e Chiesa cattolica o, nell’islam, il rapporto con le differenti comunità religiose sottomesse. In epoca moderna e con l’avvento della secolarizzazione, lo studio dei diritti delle religioni e delle loro leggi sacre diventa essenziale per comprendere le domande di libertà e di autonomia provenienti dalle differenti comunità religiose, per riproporsi oggi in modo drammatico sullo sfondo dei mutamenti indotti dalla globalizzazione nei confronti dello Stato laico (cfr. cap. I par. 4). Per i nostri scopi, converrà procedere, sulla falsariga di Ferrari, ad una doppia delimitazione. Per un verso, occorre limitare il discorso ai diritti religiosi 4 piú importanti per il futuro europeo e cioè il diritto canonico (cattolico), quello sunnita islamico e quello rabbinico, ma tenendo a mente che, in una futura prospettiva di una Scienza delle religioni che si faccia carico di interagire, per la parte di sua competenza, con le prospettive del diritto comparato delle religioni, il discorso andrà adeguatamente esteso sia alle altre confessioni cristiane sia a forme minoritarie di diritto sacro presenti nell’islam e nell’ebraismo sia ad altri diritti religiosi come quello induista. Per un altro, conviene concentrarsi sulla situazione contemporanea, anche se in realtà i contributi di questa nuova disciplina in prospettiva storica sono potenzialmente di una grande ricchezza, dal momento che ogni tradizione giuridica ha sue proprie leggi sacre e si muove in funzione di peculiari concezioni religiose. L’avvento di un islam europeo, che sta cambiando profondamente la geografia religiosa del continente, ha riproposto con drammaticità l’esistenza di forme di diritto religioso, a differenza di quanto avvenuto per il diritto canonico, non passate attraverso il crogiuolo della secolarizzazione. In genere, i diritti religiosi si distinguono da quelli secolari, tipici della modernità, perché, mentre questi ultimi sono basati sulla volontà degli uomini e mirano ad assicurare il benessere della società, i primi sono fondati, nel caso dei tre monoteismi di nostro interesse, sulla volontà divina e mirano in primo luogo a realizzare il progetto salvifico che Dio ha per l’umanità. Questa prima importante distinzione si riflette sul sistema delle fonti del diritto. Al vertice dei sistemi giuridici religiosi sta il diritto divino, che ha un fondamento infondato: la sovranità di Dio. Mentre i diritti secolari sono inevitabilmente sottomessi al cambiamento corrosivo della storia, dal momento che la loro sopravvivenza dipende dalla capacità di adattarsi ai mutamenti socioculturali,

i diritti religiosi sono posti di fronte alla sfida di un mutamento immutabile, di un mutamento cioè che, pur concedendo qualcosa ai cambiamenti, preservi intatto il suo fondamento sacro. Queste differenze, d’altro canto, non debbono essere esagerate. Anche i diritti secolari: … non sono completamente indipendenti da valori e principî pre- e meta-giuridici che ne limitano la capacità di evoluzione e costituiscono argini che essi, al pari dei diritti religiosi, rispettano (anche quando, sulla carta, rivendicano la totale autoreferenzialità del sistema giuridico). A loro volta i diritti religiosi non sono immutabili: se è vero che l’uomo non può creare norme contrastanti con quelle poste da Dio, è altrettanto vero che queste ultime possono essere «scoperte» dalla ragione umana attraverso un processo che assicura la possibilità di innovazione e trasformazione del sistema giuridico (Ferrari 2002, p. 265).

Tra i tanti meriti e motivi di interesse che lo studio comparato dei diritti religiosi del cattolicesimo, dell’ebraismo e dell’islam sunnita rivela, uno merita in particolare, per i nostri scopi, di essere sottolineato: il rapporto tra diritto sacro e democrazia. L’analisi comparata, infatti, mette in luce il grado diverso di adattabilità ai processi secolarizzanti dei tre diritti sacri, secondo una scala per cui il diritto canonico si dimostrerebbe strutturalmente, e non soltanto storicamente, piú disponibile ad assumere le tecniche che sono proprie dei diritti secolari, senza pregiudizio del suo fondamento sacro. Ciò apre scenari importanti, sui quali le Scienze delle religioni sono chiamate ad interrogarsi per recare il loro contributo, a cominciare dal rapporto tra secolarizzazione e democrazia. Se è vero che nella storia dell’Occidente l’una e l’altra sono avanzate di pari passo, è lecito allora chiedersi, riprendendo uno spunto di Samuel Huntington (1991), «se la maggiore permeabilità tra diritto canonico e diritti secolari abbia giovato, almeno nei tempi piú recenti, allo sviluppo dei regimi democratici e se, di converso, la maggiore resistenza di altri diritti alla secolarizzazione abbia rallentato questo processo» (Ferrari 2002, p. 272). In questo modo, il diritto comparato delle religioni si rivela un alleato prezioso per una Scienza delle religioni desiderosa di affrontare in modo adeguato il decisivo nesso tra religione e politica, su cui ritorneremo nell’ultimo capitolo. 3. Il rapporto con la filosofia della religione e la teologia. Anche se, come vedremo nel prossimo paragrafo, oggi è in atto un vivace

dibattito sulla natura dello statuto «scientifico» che starebbe alla base delle differenti Scienze delle religioni, in genere, nonostante differenze di prospettive e scopi, esse risultano accomunate dai caratteri tradizionali attribuiti al metodo scientifico nella nostra tradizione culturale: base empirica e positiva della ricerca, metodo induttivo, verificabilità (e dunque falsificabilità) dei risultati, il tutto garantito dalla neutralità dell’osservatore. Proprio questi criteri sono stati ritenuti un elemento sufficiente per escludere da questa «famiglia» discipline, come la teologia e la filosofia della religione, dal cui grembo le Scienze delle religioni sono sorte, recidendo però in modo spesso violento il cordone ombelicale con le «antiche madri». Da un lato, infatti, la filosofia della religione procede in genere in modo deduttivo e assiologico alla ricerca della «vera» natura della religione; dall’altro, la teologia, in quanto riflessione razionale del credente sulla propria fede, subordina la propria riflessione a un oggetto religioso definito normativamente. La crisi metodologica che investe oggi lo statuto scientifico delle Scienze delle religioni, mette in discussione capisaldi tradizionali come l’oggettività e la avalutatività del ricercatore e, piú in generale, la critica al tipo di ragione e di razionalità soggiacenti; i profondi mutamenti intervenuti sia nel campo della filosofia della religione sia in quello delle scienze teologiche, invitano, di conseguenza, a ripensare questo rapporto. Rimandando al prossimo paragrafo una trattazione piú specifica del primo punto, converrà, per quanto riguarda il secondo, iniziare con l’osservare che oggi anche la filosofia della religione sta conoscendo una trasformazione profonda del suo statuto (Ravera 1995 e Fabris 1996). Il fatto stesso che alcuni abbiano proposto di mutare l’oggetto della riflessione filosofica, non piú la religione, ma le religioni (un processo analogo si è verificato nel campo teologico, dove si è affermata una nuova disciplina, la teologia delle religioni), la dice lunga sul mutamento intervenuto. Considerata tradizionalmente una «filosofia seconda» che, al pari di altre filosofie particolari come la filosofia della storia, si occupava, a differenza della «filosofia prima», la metafisica, di riflettere filosoficamente su settori specifici della realtà, la filosofia della religione, che in questa divisione del lavoro tipicamente cristianocentrica aveva come oggetto privilegiato d’indagine il cristianesimo, ha dovuto ripensare alla propria collocazione e ai

propri scopi alla luce della crisi irreversibile conosciuta dal pensiero metafisico. Nella Scienza della religione comprendente, la filosofia della religione occupava un posto strategico (cfr. cap. II par. 7). In pensatori come Heiler, Otto e nei loro epigoni, sulla falsariga della riflessione razionale inaugurata da Kant, sistematizzata da Hegel e Schleiermacher, e che sta alla base di tutta la riflessione teologico-filosofica tedesca dell’Ottocento, culminante nel tentativo sistematico di Ernst Troeltsch di preservare, pur all’interno di un quadro storicistico nel quale tutte le religioni sono collocate su di un piano di parità, l’«assolutezza» del cristianesimo, la filosofia della religione, situata al culmine della riflessione sistematica, permetteva l’accesso, al termine dell’indagine storico-filologica e comparativa, al sancta sanctorum della definizione dell’essenza della religione, suo compito precipuo, spesso e volentieri – cosa che non stupisce in clima neokantiano – sulla base di una teoria dell’a priori religioso. La crisi della metafisica fondazionale ha messo in discussione questo statuto privilegiato assegnato dalla Scienza della religione comprendente alla filosofia della religione. A ciò si aggiunga l’impatto crescente della filosofia analitica e del linguaggio, che ha messo radicalmente in discussione la possibilità stessa di un discorso religioso e, di conseguenza, di una riflessione filosofica. Di fatto oggi si fronteggiano anche da noi due approcci, ben esemplificati dalle Introduzioni di Ravera (1995) e Fabris (1996): un’impostazione ermeneutica, che individua nell’ermeneutica dell’esperienza religiosa il compito precipuo della filosofia della religione; e un’impostazione neo-critica, che si sforza di fare i conti con le critiche e i metodi del linguistic turn, individuando nella comunicazione e nel linguaggio religioso l’oggetto precipuo di riflessione e di indagine della filosofia della religione. A prescindere ora dalle opzioni personali nei confronti di questi due indirizzi schizzati in modo per forza di cose sommario, quel che, per i nostri scopi, conviene sottolineare è un altro punto. Ciò che oggi accomuna le differenti Scienze delle religioni non è soltanto o tanto un orientamento scientifico, quanto piuttosto la ricerca di un metalinguaggio comune che permetta la costruzione di modelli e teorie in grado di individuare, descrivere e, se possibile, interpretare quell’oggetto sfuggente e proteiforme che è la religione. Da questo punto di vista, pur nella differente prospettiva

metodologica, esse non possono che trarre vantaggio da un dialogo costruttivo con la filosofia della religione come riflessione razionale sulla religione, sul terreno decisivo della logica soggiacente alla costruzione delle varie teorie, dei metodi da attivare per renderle plausibili e coerenti, della rivisitazione critica di modelli, in altri termini sul terreno della costruzione (o decostruzione) di quel bagaglio concettuale e teorico, di quelle mappe cognitive e interpretative che, come ormai dovrebbe risultare chiaro, costituiscono lo strumentario indispensabile, anche se provvisorio, di chiunque voglia indagare scientificamente i fatti religiosi. Il rapporto con la teologia in generale e con la teologia delle religioni in particolare è piú delicato e complesso. Particolarmente vivace anche oggi in Germania (Colpe 1980, Bochinger 2000, Moenikes 1997, Terrin 1992), esso tocca questioni decisive che meritano di essere approfondite anche in quelle tradizioni culturali come la nostra dove, per motivi storici complessi, il dibattito teologico è in genere appannaggio pressoché esclusivo dei teologi. E questo non può che danneggiare uno studio serio dei fatti religiosi, non solo perché – cosa di per sé ovvia e sulla quale non è il caso di insistere – le teologie costituiscono un oggetto privilegiato d’indagine delle Scienze delle religioni a cominciare dalla storia delle religioni, ma per una serie di ragioni piú profonde che merita, seppur fuggevolmente, ricordare. Il fatto che questo tipo di riflessione abbia visto all’opera essenzialmente pensatori tedeschi ci ricorda la collocazione particolare che gli studi e le facoltà teologiche di stato protestanti, ma anche cattoliche, hanno recitato nella storia culturale tedesca in epoca moderna, costituendo un orizzonte culturale irrinunciabile per intere generazioni di studiosi. In questo senso, il problema dei rapporti tra teologia, storia delle religioni e Religionswissenschaft ha rappresentato in epoca moderna in Germania un nodo culturale di grande rilevanza, che getta la sua ombra fino ai nostri giorni, a differenza di quanto è avvenuto in quei paesi, come la Francia o l’Italia, dove le facoltà teologiche in genere cattoliche (in Francia, l’unica eccezione è costituita dalla facoltà teologica protestante di Strasburgo, che ha una storia particolare), non piú di stato, hanno costituito spesso mondi a parte isolati dal piú generale dibattito culturale. Il punto di vista teologico costituisce, come ha ricordato Fritz Stolz (1997 2, pp. 36 sgg.), il punto di vista «interno» del credente. Oggi che, in

seguito al dibattito sul metodo scientifico, ci si rende meglio conto della difficoltà di sostenere la posizione tradizionale avalutativa della ragione critica di matrice illuministica e che, di conseguenza, si è piú disposti a riconoscere il ruolo recitato dalla soggettività dell’interprete, l’attenzione al punto di vista interno del credente, e in particolare del teologo, deve essere preso in piú seria considerazione non soltanto, lo si diceva, come oggetto di studio, ma come referente dialogico. Le scienze teologiche sia cattoliche sia protestanti hanno conosciuto nella seconda metà del Novecento un cambiamento radicale nei confronti del mondo delle religioni: vuoi, nel primo caso, in seguito al Concilio Vaticano II e al mutato atteggiamento verso le altre religioni, vuoi, nel secondo caso, in seguito alla crisi della teologia barthiana che, in polemica con la teologia liberale e la scuola tedesca di storia delle religioni, aveva gettato un pesante verdetto di condanna sul mondo delle religioni, considerate pura creazione umana, quando non diabolica. Accanto a una fiorente teologia delle religioni, sono nel contempo cresciuti gli studi missionologici e si sono moltiplicate le iniziative di dialogo interreligioso, favorite dal dilagare del pluralismo religioso e dai processi globalizzanti. Si è cosí sviluppata una riflessione teologica complessa e articolata, in parte influenzata e dipendente dalle Scienze delle religioni, in parte originale e significativa proprio perché caratterizzata sia dalla presenza di un impegno e di una dimensione pratica sia dalla necessità di confrontarsi con tradizioni teologiche ricche e ben strutturate. In questo modo, si è venuto creando un comune terreno di dialogo e di confronto, meritevole di un adeguato approfondimento. Theo Sundermeier, un teologo delle religioni che insegna a Heidelberg, ha proposto dal punto di vista della teologia un quadruplice modello delle relazioni con le Scienze delle religioni, che merita ricordare per dare un’idea delle possibilità, ma anche della complessità di questo confronto (Sundermeier 1999, p. 223). Secondo il primo modello di relazione, Religionswissenschaft e teologia si pongono come due settori disciplinari vicini ma che, come due rette parallele, non s’incontrano mai. È il caso già ricordato, per la teologia protestante, di chi si pone nel solco della teologia dialettica di Barth e dei suoi epigoni. Il secondo modello può essere rappresentato come due cerchi che in parte si sovrappongono. Il campo comune è rappresentato dallo studio dei problemi legati all’osservanza della

Legge (problemi etici, ecc.) e alla natura dell’agire umano religiosamente motivato. Il teologo, in questo caso, anche se ricondurrà le motivazioni di fondo di un agire religiosamente motivato all’obbedienza alle norme rivelate da Dio, non sarà alieno dall’interpretare questo dato anche alla luce degli studi di Scienze delle religioni. Un terzo modello descrive due cerchi concentrici, dei quali il piú piccolo, la Religionswissenschaft, è compreso dal piú grande, la teologia. In questo caso, il teologo riconosce alla Religionswissenschaft un diritto di cittadinanza maggiore, anche se, in ultima analisi, sarà il criterio di verità teologicamente determinato a decidere le scelte e le interpretazioni. Il quarto modello, infine, in cui lo stesso Sundermeier si riconosce, rappresenta le due discipline in forma d’ellissi con punti d’incrocio e di sovrapposizione: con ciò, il teologo tedesco vuole riconoscere, a differenza dei precedenti modelli o dualistici e irrispettosi dell’autonomia della Religionswissenschaft o subordinanti quest’ultima agli interessi supremi della teologia, che entrambe le discipline hanno un loro spazio di autonomia, ma nel contempo devono imparare a lavorare in reciproco contatto (cfr. anche Gisel 1999). E dal punto di vista delle Scienze delle religioni che cosa si può dire? Da un lato, anche qui è possibile individuare un modello dualistico di separazione cioè di inconciliabilità, di matrice laica e razionalistica: valga per tutti il caso sopra ricordato della V sezione di Sciences religieuses della École pratique des hautes études di Parigi, che ha sempre fieramente brandito la bandiera della radicale separazione di studio scientifico e di studio teologico. Un secondo modello è rappresentato dalla Scienza comprendente della religione e in genere da tutti quegli storici delle religioni che hanno visto nella storia delle religioni una via per favorire il mutual understanding tra le religioni, con il rischio di trasformare lo studio della religione in studio religiosamente impegnato. È questo un terreno scivoloso, dal momento che il dialogo tra le due discipline rischia alla fine di mettere in crisi l’identità scientifica di uno dei due dialoganti e cioè delle Scienze delle religioni. Forse oggi è possibile individuare, anche dal punto di vista delle Scienze delle religioni, un modello analogo a quello proposto da Sundermeier, che, rispettoso dell’autonomia dei due approcci, si rifiuti d’altro canto alla loro incomunicabilità, cercando di far interagire punto di vista esterno dello scienziato della religione e punto di vista interno del credente. Un terreno, in

fondo, tutto da costruire, anch’esso ricco in trabocchetti, ma che ha un elemento a suo favore: la fine del monopolio religioso cristiano e l’avvento del pluralismo religioso. Forse, in questo nuovo territorio, sarà piú «naturale» confrontarsi, tra teologia e Scienze delle religioni; in ogni caso, le cose stesse sembrano portare in questa direzione. 4. C’è un futuro per le Scienze delle religioni? Oggi si moltiplicano le sfide al modo tradizionalmente scientifico di studiare la religione, che affonda le sue radici, come abbiamo visto nel secondo capitolo, nell’illuminismo. Queste critiche, che si alimentano al postmodernismo, germinano in realtà in anni piú lontani. La prima metà del Novecento è stata contraddistinta dal prevalere di due veri e propri paradigmi interpretativi della religione: quello funzionalistico, tipico delle Scienze umane, dalla sociologia alla psicologia, e quello ermeneutico, sorto, come si è visto, in reazione al precedente, tipico della fenomenologia comprendente della religione. Una critica radicale a questi due paradigmi è stata operata dal saggio del 1966 dell’antropologo Clifford Geertz sulla religione come sistema culturale ricordato nel secondo paragrafo. La sua importanza è consistita nella sua capacità di colpire al cuore sia il funzionalismo sia la prospettiva fenomenologica alla luce di un modo nuovo d’interpretare la religione. Per un verso, infatti, egli sostiene la tesi, contraria a ogni riduzionismo funzionalistico, che la religione forma l’ordine sociale, non costituendone semplicemente una copia, un riflesso o una funzione. Per un altro, egli critica le prospettive fenomenologiche che si alimentavano di una concezione privata della religione (si pensi, per non portare che un esempio, al saggio di Berger e Luckmann sulla religione come costruzione sociale) e il loro fondamento esperienziale, in genere trovato nell’esperienza dell’incontro col sacro. Gli argomenti piú significativi contro questa tesi vengono presi dalle analisi di filosofi del linguaggio come Wittgenstein e Austin, allo scopo di sottolineare la centralità della cultura come mediazione linguistica e simbolica. Grazie a questo linguistic turn, la religione, da esperienza indicibile, diventa sistema simbolico in grado di mediare ed esprimere i tratti piú significativi di un determinato sistema culturale. In questo modo, la descrizione riprende il sopravvento sulla Einfühlung dell’interprete. Nel contempo, la religione entra nell’orbita degli studi culturologici: una linea interpretativa, quella di ricondurre lo studio della religione nell’ambito dei

cultural studies, che si è sempre piú rinvigorita, sino ad imporsi in un numero crescente di istituzioni, come i Dipartimenti di studi religiosi nordamericani. La critica ai due modelli sopra ricordati è diventata radicale e sistematica in anni a noi piú vicini, soprattutto negli Stati Uniti, che anche in questo campo di studi hanno assunto una funzione di leader. Al centro di questa critica – che ha ovviamente un raggio piú vasto, ma che ora deve interessarci per le sue ricadute nel mare nostrum degli studi di Scienze delle religioni – è l’attacco radicale al soggetto e, in generale, al modo in cui la soggettività moderna si è venuta costituendo a partire dall’illuminismo. Il ripudio del soggetto e la parallela messa in crisi di un’agenzia morale autonoma e consapevole come centro e motore dell’azione umana, filtrati attraverso lo studio delle pratiche linguistiche e dei meccanismi di formazione del potere e del controllo autoritario, hanno spostato il centro dell’attenzione, per un verso, sullo studio dell’alterità, dell’eterogeneità, in breve delle «avventure della differenza», invitando, per un altro, sulla base in particolare degli studi di Foucault, a decostruire le differenti pratiche di potere che starebbero alla base del modo in cui la cultura occidentale di matrice illuministica avrebbe incapsulato una realtà complessa in una serie di -ismi, riducendola, per assimilarla, comprenderla, ma soprattutto dominarla, a finzioni e simulacri. Si potrebbe discettare a lungo sugli aspetti nichilistici di questo modo di procedere, che costituiscono una minaccia al modo tradizionalmente storicofilologico con cui si è costituito il moderno sapere scientifico sulla religione. Quel che è certo è che è impossibile non fare i conti con esso. La critica postmoderna all’individualismo, infatti, con i suoi corollari come gli studi femministi e di genere, gli studi postcoloniali e cosí via, tocca nodi fondamentali come la posizione dello studioso nei confronti del suo oggetto di studio, la necessità di sfuggire a un approccio eurocentrico, la messa in questione di uno studio che privilegia l’analisi delle fonti scritte. In sintesi, essa ha avuto come effetto di favorire uno studio delle religioni che si faccia carico di una prospettiva globale e sia, nel contempo, di genere, postcoloniale, multiculturale, critico e autoriflessivo. Di qui, come si è visto, la critica radicale al moderno concetto di religione, considerato lo strumento concettuale, falsamente reificato, che ha accompagnato l’opera missionaria e conquistatrice dell’epoca coloniale. Esso si rivelerebbe, di conseguenza,

inappropriato, in una società globalizzata e multiculturale come quella in cui viviamo, a cogliere la complessità delle dinamiche intraculturali. Alla luce di quanto precede, sembra dunque di poter affermare che la domanda fondamentale a cui oggi le Scienze delle religioni devono rispondere ne mette radicalmente in discussione lo statuto scientifico e il modo stesso in cui esse si sono costruite nel corso dell’Ottocento e Novecento. Essa può essere formulata in questi termini: è possibile e, in caso di risposta affermativa, in che senso ed entro che limiti, difendere una concezione delle Scienze delle religioni che si è costruita all’interno di un modello occidentale di razionalità e di potere in un mondo, per un verso, sempre piú globalizzato, per un altro, sempre piú dominato da un’idea del «post», che fa presa e traduce la coscienza di un’epoca irrimediabilmente finita e con essa tutto un modo di pensare, di sentire, di interpretare, costruito per l’appunto sul modello egemonico occidentale? E quali dovranno essere i correttivi perché il nuovo modello epistemologico di Scienze delle religioni sorto dalle macerie dei precedenti sia in grado di resistere alle sfide dirompenti imposte dalla tarda modernità? O, in caso di risposta negativa, esistono alternative percorribili? Lo studio scientifico delle religioni si trova oggi a dover affrontare la sfida di una episteme contemporanea, tipica del cosiddetto postmoderno, che ha coinciso con la critica dei postulati del metodo scientifico tradizionale in opera nello studio della religione nel corso del Novecento. Anche se oggi le nuove scienze cognitive della religione cercano di riaprire, sulla base degli studi di filosofia della mente, l’annosa questione, propria sia della fenomenologia della religione sia dello strutturalismo, delle «strutture elementari» dell’esperienza religiosa, nella convinzione che tutte le religioni rivelino in ultima analisi un’organizzazione primaria e uguale del pensiero, la deriva relativistica tipica del pensiero postmoderno va in un’altra direzione. Alla sua sorgente si alimentano filoni a prima vista disparati e inconciliabili, come la critica alle forme della logica classica di tipo aristotelico, la spinta alla riflessività critica, l’anelito alle avventure della differenza, la decostruzione di modelli di alterità tradizionali come l’orientalismo. Non è ora il caso di ricordare i fattori culturali esterni che hanno contribuito a creare questa svolta metodologica, dalle teorie sul caos a quelle sui frattali, dalle logiche alternative al linguistic turn wittgensteiniano, già ricordato a proposito del

saggio di Clifford Geertz. Quel che piuttosto preme sottolineare è che l’avvento di una scienza di processo anziché di stato, di divenire anziché di essere, con il suo nuovo armamentario logico e il suo repertorio di immagini grafiche teso a cogliere l’irriducibilità della complessità caotica nel rifiuto di ogni riduzionismo, non è certo stato privo di conseguenze anche nel campo delle Scienze delle religioni, anche se l’onda lunga del cambiamento ha lambito istituzioni scientifiche e singoli studiosi in tempi e modi diversi a seconda di tradizioni culturali e di disposizioni o idiosincrasie individuali. Ne è conseguito quel moltiplicarsi di prospettive teoriche e di ricerche di differenze, accomunate sovente dalla consapevolezza acuta che un «monoteismo» culturale, quello dell’Occidente illuministico e cristiano, volge al tramonto, sostituito dall’affermarsi di una visione «politeistica» piú duttile e sfumata, sempre pronta a rimettersi in questione. Può essere sintomatico, in proposito, chiedersi come questa svolta venga percepita oggi in situazioni culturali non occidentali, anche se piú o meno influenzate dalla cultura occidentale e dalle sue mode, come il Giappone o la Cina (Raveri 2002). Cresce, ad esempio, il numero di studiosi giapponesi di Scienze delle religioni, al centro oggi del dibattito critico, che in modo azzardato e spesso volutamente provocatorio, fondendo ermeneutica heideggeriana e pensiero della scuola di Kyoto, filosofia del linguaggio e formulazioni teoriche del buddismo, mettono in radicale discussione alcuni capisaldi del sapere occidentale e delle scienze umane – e dunque anche delle Scienze delle religioni – confutando ad esempio il concetto di universali e dell’unicità della ragione umana, uniti per altro con una schiera sempre piú folta di analisti occidentali dei fatti religiosi nel loro attacco al monopolio del paradigma dell’Occidente e nello smascheramento della pretesa di oggettività della ricerca. L’Orientalismo di Edward Said ha fatto scuola, nel senso che anche in Giappone ci si oppone all’idea che il principio costruttore o costitutivo dell’identità dell’«Oriente» si trovi fuori di esso. Di qui la critica serrata non solo al concetto in generale della religione tipico dei nostri studi, troppo infeudato al cristianesimo e alle sue teologie, ma anche a tutto l’impianto classificatorio che le è proprio, sia nel suo principio nomotetico sia nelle sue applicazioni pratiche. Valga per tutti il rifiuto sempre piú esteso di definizioni per noi abituali come induismo (cfr. cap. III par. 6). Il fatto che l’Occidente e la sua cultura dominante, tra cui le Scienze delle

religioni, siano sempre piú percepiti come un soggetto relativo che ha identificato e identifica se stesso come universale, imponendo se stesso e i propri valori come paradigma assoluto in relazione al quale tutte le altre culture si devono riconoscere come particolari, ha favorito, in conclusione, il crescere di studi tesi a demistificare questa strategia di addomesticamento anche dell’alterità religiosa, che hanno trovato alimento ulteriore nell’accentuazione del carattere «fittizio», di «invenzione», di pura costruzione retorica della narrazione scientifica e, per esteso, storica. L’approdo di questa critica demistificante della soggettività dell’interprete anche nel recinto degli studi religionistici va vista come un rimedio salutare per una tradizione di studi in cui il peso del dato ideologico è stato sovente sottovalutato o non opportunamente valutato, a cominciare dall’influsso degli studi teologici. D’altro canto, l’eccesso cui oggi si assiste, e che si traduce nell’attribuire all’interprete di turno il ruolo di vero e proprio «fabbricatore», demiurgo, della religione, rischia di avere come conseguenza la riduzione di questo campo di studi a campo di mere tecniche decostruzioniste che, se applicate come fini a se stesse, ci parlano piú del soggetto interpretante che del vero e proprio oggetto interpretato. Di qui il problema maggiore che attende nel futuro le Scienze delle religioni: ristabilire un ruolo significativo dell’indagine storica, senza per questo rinunciare alle sfide della complessità imposte dalla nouvelle vague decostruzionista. La religione è, comunque si decida di definirla, una realtà complessa, dalla storia millenaria, sottomessa, per un verso, alle leggi evolutive delle culture umane, per un altro, retta da logiche interne autonome, non riducibili a pure funzioni: una realtà storica tradizionale che si rivela oggi sempre piú articolata e complessa, non dunque indagabile da un unico punto di vista, per quanto significativo. Ne consegue l’invito alle Scienze delle religioni di farsi carico della complessità crescente dell’oggetto, aggredendolo da una molteplicità di punti di vista. In questa prospettiva, le Scienze delle religioni diventano una metadisciplina che, invece di ricercare improbabili essenze o di decostruire il proprio oggetto, si sforza di costruire un campo discorsivo in grado di mediare linguisticamente, concettualmente e teoricamente la complessità dell’oggetto studiato. Bibliografia 1. L’«invenzione» delle Scienze delle religioni. Baubérot, J. e altri

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forse

Si tratta di un’espressione tipicamente francese, difficilmente traducibile in altre lingue, a parte l’italiano,

dove

«scienze

religiose»

conservano

l’equivoco

dell’originale,

consistente

nell’impossibilità di sapere se la religione in questione è soggetto o oggetto di studio. Quest’ambiguità costitutiva, che ricorda il cordone ombelicale con le «scienze teologiche» (se non la matrice, certo un antenato importante, scomodo quanto ineliminabile, nell’albero genealogico di questi studi: cfr. par. 3), aiuta a capire perché l’espressione si sia conservata con successo anche in facoltà teologiche (in Italia, ad esempio, ad indicare gli istituti consacrati alla preparazione degli insegnanti dell’ora di religione confessionale: una pia fraus che la dice lunga sulla potenziale equivocità del termine). 2

«Una religione è 1) un sistema di simboli che agisce 2) stabilendo profondi, diffusi e durevoli stati

d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della 3) formulazione di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del 4) rivestimento di questi concetti con un’aura di concretezza tale che 5) gli stati d’animo e le motivazioni sembrano assolutamente realistici» (Geertz 1973, trad. it. p. 143). 3

Nell’impossibilità di dar compiutamente ragione di tutte queste nuove prospettive, alla fine del

capitolo si forniscono alcuni spunti bibliografici per chi volesse approfondire questi nuovi orientamenti. 4

«Si intende per diritto religioso il diritto che nasce e si sviluppa all’interno di una comunità

religiosa» (Ferrari 2002, p. 28).

Capitolo quinto Tipi di religione

1. La classificazione delle religioni. L’esigenza di classificare le religioni in base a criteri formali o a categorie costituisce uno degli aspetti fondamentali del rapporto tra religione e religioni e uno dei compiti piú impellenti, ma anche piú ardui, dello studio scientifico delle religioni. La tassonomia che ne risulta, infatti, è fondata su una determinata teoria della religione, in funzione della quale si organizzano o tipologie dell’intero mondo religioso (per esempio religioni monoteistiche e politeistiche) o di suoi aspetti particolari (per esempio miti cosmogonici, antropogonici, escatologici). Da un punto di vista squisitamente storico poi, il problema della classificazione – che sta alla base dei vari manuali di storia generale delle religioni – si riconduce al problema del rapporto tra storia delle religioni e storia universale. Il problema emerge in tutta la sua chiarezza già nel contrasto tra Schleiermacher e Hegel, che ha caratterizzato il modo di intendere e classificare la religione all’inizio del XIX secolo. Con qualche semplificazione, esso può essere ricondotto a due modalità differenti di cercare un principio guida di orientamento e giunzione tra storie religiose particolari e storia religiosa universale. Insistendo sull’autonomia della religione, considerata una provincia autonoma del sentimento, Schleiermacher solleva il problema se la storia di una religione, non potendosi o dovendosi ridurre né a ragione né a etica e cioè a fattori extrareligiosi, non coincida, in fondo, con la storia di un principio dotato di un’autonomia intrinseca, un’idea o un’intuizione particolare e irriducibile dell’Infinito. Di contro Hegel, inserendo lo sviluppo della religione nel quadro della fenomenologia dello Spirito assoluto, ha fornito il modello di una tipica definizione eteronoma, di un principio, cioè, esterno alla religione, che ne guida lo sviluppo storico universale.

Di fatto, la successiva ricerca degli storici delle religioni ha oscillato tra questi due poli. Mentre, nel primo caso, la storia religiosa universale dell’umanità non è altro che realizzazione ideale di un’essenza della religione, nel secondo caso si è assistito alla determinazione di differenti principî che variavano col mutare del piú generale quadro culturale. Cosí, nella seconda metà dell’Ottocento, in pionieri come Müller e Tiele, spicca il ricorso al principio linguistico come criterio di organizzazione, classificazione e sviluppo della storia religiosa universale. Dietro questi tentativi di ordinare il mondo delle religioni come «linguaggi» vi era la questione decisiva e ricorrente di rivisitare, su base scientifica, i rapporti tra religioni naturali e religione rivelata, tra mondo ario e mondo semita (Olender 1989), ora riletti, sullo sfondo della linguistica comparata indoeuropea, come rapporti, appunto, tra differenti famiglie linguistiche e religiose. Tiele, in realtà, non faceva che inserire nello schema evoluzionistico allora dominante una classificazione ormai tradizionale, di matrice teologica, riletta sullo sfondo delle coeve teorie sulle «origini» della religione. Alle religioni naturali – in genere coincidenti con le religioni demonistiche e politeistiche – le quali vedono il mondo dominato da forze sovrannaturali, piú o meno personificate, controllabili, almeno nella fase iniziale, con la magia, succedono le religioni etiche, frutto di una rivelazione profetica, di una riforma cosciente ad opera di figure carismatiche, i cosiddetti fondatori, di una vera e propria rivoluzione etica consegnata al messaggio salvifico rivelato attraverso i suoi profeti da un nuovo tipo di divinità. Ciò che distingueva, infatti, i due tipi di religione era il concetto di divinità: «teoantropica» e cioè che la considera immanente nella natura in generale e in quella umana in particolare, nel primo caso; teocratica e cioè che la vede opposta all’uomo come potenza estranea, nel secondo caso. In ultima analisi, il fattore dirimente consisteva nell’emergere di una concezione trascendente della divinità. In questo modo, le religioni naturali e le religioni etiche finivano per corrispondere a due stadi evolutivi diversi della religione, laddove le due concezioni della divinità indicavano i due orientamenti divergenti intrapresi rispettivamente dalle religioni indoeuropee e da quelle semitiche. In questo modo, dietro una tipologia apparentemente neutrale e scientifica, si cristallizzava un complicato dibattito che attraversa la cultura europea del secondo Ottocento, non privo di ombre inquietanti e, comunque, ruotante ancora una volta intorno al tipico

problema teologico e ideologico di come interpretare la particolare natura del monoteismo giudaico-cristiano. A partire da questi presupposti, verso la fine dell’Ottocento si elaborò una tipologia fondamentale che, riprendendo quella di Tiele, privata però dei suoi caduchi presupposti evoluzionistici, era destinata a dominare le classificazioni del Novecento, superando in certo qual modo altre classificazioni fondate su criteri piú estrinseci o, in ogni caso, finendo per comprenderle: quella di «religioni di salvezza», secondo cui il cuore della classificazione è costituito dal concetto di «salvezza» (tedesco Erlösung). Si tratta di una tipologia che, oltre a Tiele, richiama i nomi di Von Hartmann, Siebeck, Wobbermin, ma che deve la sua definitiva consacrazione all’utilizzo che ne fece Weber nei suoi studi sull’etica economica delle religioni universali (Die Wirtschaftsethik der Weltreligionen, 1915-20) (Kippenberg 1997, trad. it. pp. 163 sgg.). Oggi, sotto l’etichetta di «religioni di salvezza», si tende a comprendere due gruppi di religioni, il primo presente nel Vicino Oriente, il secondo in India (dicotomia geografica talora riassunta un po’ sbrigativamente nell’alternativa «religioni di Gerusalemme e di Benares»). Il primo gruppo comprende, innanzitutto, le cosiddette religioni profetiche (zoroastrismo, ebraismo, cristianesimo, manicheismo), in cui la rivelazione della divinità, di contenuto etico, è comunicata e mediata da figure profetiche; inoltre, le religioni di tipo misterico (dall’orfismo ai vari culti orientali) e le varie forme di gnosticismo; piú discussa è l’appartenenza di altre tradizioni religiose. In questo primo gruppo, ciò che si intende per «salvezza» ha luogo nella dimensione del tempo, che o si estende e termina in questo mondo o continua in uno nuovo o può iniziare in modo nuovo. Negli eventi salvifici del tempo della fine può recitare una parte decisiva un salvatore, variamente configurato. Ad essere salvato può essere o un’entità collettiva (popolo, popolo di Dio, popolo eletto, comunità dei santi) di cui il singolo fa parte o il singolo nella sua dimensione spirituale (anima, mente, spirito). Nel secondo gruppo, la «salvezza» ha luogo nell’universo che, come insegna il caso dell’induismo, può configurarsi in forme diverse a seconda che a prevalere sia una concezione immanente o trascendente della divinità. La funzione salvifica è ora svolta dal singolo individuo, dal momento che sul cammino della salvezza non si incontrano figure di salvatori, ma al piú di «direttori spirituali», di gurū o maestri dell’arte della meditazione, che costituiscono un

possibile modello cui il singolo può ispirarsi, ma che deve apprendere a realizzare da solo. A salvarsi è, nell’induismo, il Sé o principio spirituale (ātman) secondo le tre classiche vie della pratica rituale, della gnosi e della bhakti, mentre il buddhismo delle origini è caratterizzato da una terapeutica spirituale in cui la salvezza coincide con una illuminazione o gnosi assoluta relativa all’impermanenza di ogni dato della realtà, compreso il Sé. Anche le concezioni escatologiche, di conseguenza, differiscono. Mentre nel secondo gruppo, caratterizzato dalla dottrina della reincarnazione, l’aspirazione è tendenzialmente anti- o metaindividuale nel senso che lo scopo salvifico è identificato nella possibilità del principio spirituale di ricongiungersi con l’Assoluto, sciogliendosi da qualunque fattore identificante considerato come caduco e prigioniero della potenza negativa del cosmo, nel primo gruppo e piú precisamente nelle religioni profetiche il destino finale, eticamente retribuito in funzione dell’esercizio del libero arbitrio dato da Dio all’uomo, prevede, attraverso la dottrina della risurrezione dei corpi, la continuità della «persona» o in ogni caso, come nella gnosi o nelle religioni misteriche, del principio spirituale identificante il singolo. Pur con tutti i suoi limiti, come l’impossibilità di determinare un contenuto specifico della «salvezza», che hanno indotto alcuni studiosi a rifiutarla, questa tipologia conserva un suo valore euristico. Se si è insistito sulla sua genesi, è proprio per ricordare la posta teorica e interpretativa soggiacente a questa e ad altre simili classificazioni, soltanto a prima vista «neutrali». Come già accennato, altre tipologie in uso presso gli storici delle religioni rientrano in fondo nella precedente. È il caso della distinzione tra religioni etniche e fondate, dove le seconde sono in genere identificate con le religioni fondate da figure profetiche come Zarathustra, Mosè, Gesú, Mani, Maometto o, di contro, con figure di fondatori piú controverse come Confucio (ma è il concetto stesso di «fondatore» che suscita perplessità, dal momento che in genere, con l’eccezione di Mani, si tratta di figure che non hanno consapevolmente preteso di fondare una «religione», tanto piú nel nostro senso del termine), sicché le prime, con un implicito giudizio di valore (e per di piú sulla base di un concetto, come quello di ethnos, quanto mai controverso e in realtà mai esposto in modo rigoroso e coerente), sono le «altre». Si tratta, in altri termini, di una distinzione che coincide in sostanza,

anche se priva del presupposto evoluzionistico, con quella tra religioni naturali ed etiche. Né diverso è il discorso per la categoria delle «religioni storiche», che comprenderebbe in sostanza la tradizione giudaico-cristiana e le religioni da essa influenzata, in contrasto con le religioni «mitiche» sulla base dell’opposizione tra concezione lineare e ciclica del tempo: una classificazione difficilmente sostenibile sul piano storico, come dimostrano tra l’altro tutte le critiche avanzate in questi ultimi anni contro la semplicistica distinzione-opposizione tra le due concezioni temporali. Per ovviare a queste difficoltà c’è chi propone di affidarsi a un criterio piú neutrale, puramente geografico, distinguendo semplicemente tra «tradizioni occidentali» e «tradizioni orientali»: un criterio anch’esso facilmente contestabile, non fosse altro per il fatto che, comunque, è determinato dal nostro concetto di «Occidente» (si pensi soltanto alla difficoltà di collocare, in questo modo, l’ebraismo e il cristianesimo palestinese) e che in ogni caso, nei confronti delle cosiddette religioni universali, è costretto a riproporre quel legame a un luogo che la loro storia ha teso appunto a superare. Va comunque tenuto presente che molti programmi accademici americani sono di fatto orientati in questo modo. 2. Concezioni pluralistiche del divino: i politeismi. Fin dalle origini, gli studi di Comparative Religion si sono scontrati col tradizionale problema teologico della presenza o meno di nozioni del divino presso popolazioni che non avevano conosciuto la concezione giudaicocristiana di Dio. Questo problema è stato risolto producendo due risposte antitetiche, che hanno condizionato in modo decisivo la ricerca successiva. Per un verso, vi è stato chi, come Tylor, il fondatore dell’antropologia culturale, all’interno di un rigido schema evoluzionistico e alla luce di una tipica teoria intellettualistica dello sviluppo religioso, ha sostenuto che la credenza in un Dio personale è il risultato e il punto di arrivo di un complesso processo evolutivo. Per un altro, vi è stato chi, come lo scozzese Lang, criticando le teorie tyloriane sulla base di un’ampia ma disparata base di materiale etnografico, ha sostenuto che una credenza in un Essere supremo è caratteristica già delle popolazioni ritenute piú primitive. Su questo sfondo, sono poi intervenuti vari studiosi, tra cui Wilhelm Schmidt, con la sua teoria di un monoteismo primordiale, e Pettazzoni, che ha criticato duramente le concezioni di Schmidt, sostenendo in particolare che il monoteismo

esclusivista non è un dato originario della storia delle religioni, ma presuppone un contesto politeistico ed è il frutto di una vera e propria rivoluzione religiosa. Questo dibattito, che ha caratterizzato la prima metà del Novecento, ha contribuito a mettere in crisi l’ipotesi pandinamistica che pretendeva di ritrovare nell’idea di forza o di mana, cioè in un’idea impersonale del divino, l’«origine» della concezione personale (cfr. cap. III par. 4), dal momento che oggi esiste una convinzione diffusa che la fede in un Essere supremo, variamente denominato e configurato, costituisca un tratto distintivo delle religioni dei popoli tribali. Data la forte carica cristiana che il termine «Dio» veicola, d’altro canto, in sede comparativa è preferibile parlare, a questo livello, di «divinità», dal momento che questo secondo termine, a differenza di mana, forza, potenza o sacro, comprende dio e gli dèi come esseri dotati di una loro sostanza e, nel contempo, tutte quelle forze, energie, idee, potenze, entità, piú o meno antropomorfizzate, che provengono da una «realtà» percepita come «al di sopra» o «al di là» del mondo umano. Per un altro verso, questo dibattito ha lasciato aperta e irrisolta una spinosa questione: se e fino a che punto le forme principali della credenza nella divinità – riassumibili nelle tipologie: Essere supremo, dèi del politeismo, Dio del monoteismo esclusivista – rappresentino tre fasi storicamente successive ed esclusive l’una dell’altra, come voleva ad esempio Pettazzoni, o non rappresentino, piuttosto, modi di rappresentazione del divino escludentisi soltanto nella logica classificatoria degli studiosi, dal momento che la concreta storia religiosa conosce tendenze monoteistiche all’interno di sistemi politeistici e, viceversa, tendenze politeistiche anche all’interno dei piú esclusivi sistemi monoteistici. A differenza dei pantheon strutturati di tipo politeistico, le cui divinità, in genere in un numero contenuto, hanno caratteri ben precisi – come l’immortalità, una personalità chiara e complessa che permette di individuarle, la capacità e la propensione a intervenire nelle vicende terrene, e infine una serie di relazioni genealogiche e parentali che ha come conseguenza la costruzione di un pantheon gerarchicamente ordinato –, i pantheon delle popolazioni tribali sono in genere scarsamente strutturati. Cosí, per non portare che un esempio, in Africa sull’ordine cosmico sovrasta normalmente la figura di un Dio supremo. Risultano rari, infatti, i casi in cui

l’ordine cosmico non sia attribuito a un essere divino, espressione di una forza superiore che opera nella natura e da cui gli esseri umani si riconoscono dipendenti. Anche se la sua essenza sfugge in genere alla comprensione umana, egli si manifesta, soprattutto nelle culture agresti, come creatore. Compiuta la sua opera creatrice, Dio si distanzia – per motivi spesso attribuiti a una colpa dell’uomo – e non si interessa piú delle creature, trasformandosi in un deus otiosus. L’interesse per gli uomini viene assunto dalle divinità minori, dagli spiriti e in particolare dagli antenati. D’altro canto, non occorre esagerare questa «oziosità»: l’Essere supremo, infatti, rimane al centro di molteplici attività religiose, prima di tutto della preghiera. Questa fede in un Essere supremo, in genere collegato con la volta celeste, responsabile dell’azione di formazione del mondo, è presente anche presso popolazioni prive di scrittura dell’Asia e dell’area indo-iranica. Secondo l’analisi comparativa del Pettazzoni, un tratto distintivo di questo tipo di divinità uranica è l’onniscienza. La volta celeste, con il sole, la luna e le stelle, assiste infatti a tutto quello che accade. Attraverso quegli occhi particolari che sono le stelle, il Dio supremo, se per un verso pare «ozioso», per un altro interviene, se pur indirettamente, nel destino degli uomini, poiché Egli tutto conosce, tutto vede, tutto sa: anticipazione e prefigurazione di quella potenza del destino, che riemergerà come caratteristica di molte concezioni del divino di tipo politeistico. Ciò comporta anche, in casi determinati, un’attività di vigilanza e controllo, che può essere eticamente collegata a giudizio e punizione, anche se tutto ciò può configurarsi nelle forme naturistiche di un fulmine scagliato ad incenerire il colpevole. Un altro tratto distintivo dell’Essere supremo è la sua dimensione sessuata. Secondo le leggi del particolare antropomorfismo mitologico proprio di queste credenze, essa può manifestarsi secondo tre modalità: della coppia primordiale, in virtú della quale l’Essere supremo coesiste con una partner di sesso femminile che può cooperare con lui nell’opera della creazione; della dimensione androgina; infine, della Grande Madre. Di particolare interesse si rivela la concezione dell’androginia dell’Essere supremo. Intesa come bisessualità – e non come trascendimento della dicotomia sessuale – quest’idea è importante per una migliore comprensione dell’idea di Dio e di una sua possibile storia. Infatti questa concezione, mentre mette in evidenza la superiorità dell’Essere supremo rispetto a tutti gli

opposti, d’altra parte, rappresenta il punto d’avvio per uno sviluppo nella concezione della divinità, nella quale l’uomo può ora vedere la figura d’una persona che è insieme padre e madre, dotata dei caratteri complementari sia della dimensione maschile sia di quella femminile. Accanto a questa valorizzazione psicologica, inoltre, se ne può trovare anche una cosmologica. Nella sua dimensione androgina, infatti, Dio comprende la totalità dei principî che polarmente stanno alla base della manifestazione della vita dell’universo. In termini piú filosofici, un’idea del genere sta alla base della concezione cinese del Dao, la «via» che comprende sia il principio maschile, yang, sia quello femminile, yin. Quanto alla Grande Madre, quest’espressione importante della fede in Dio – ritornata oggi d’attualità alla luce dei Gender Studies – ci ricorda come in certe religioni, soprattutto telluriche e di tipo agrario, il fedele abbia preferito concentrare la sua fede sulla dimensione essenzialmente femminile della divinità, a detrimento di tutte le altre, ma anche ad esaltazione delle funzioni generative ed affettive. I fattori che hanno portato al sorgere di concezioni politeistiche sono numerosi, di natura sia interna alla storia stessa delle idee e credenze religiose (come sviluppi delle credenze di tipo panteistico, mutamento di culti locali, sostantivizzazione di determinate qualità del mondo divino che assurgono a realtà autonoma) sia esterna (in particolare di tipo politico) e in parte attendono ancora di essere adeguatamente esplorati. Inteso come pantheon organizzato gerarchicamente e funzionalmente, comprendente un numero determinato di divinità con tratti antropomorfici ognuna delle quali è attiva in una determinata sfera della natura e della cultura, il politeismo fa la sua apparizione in genere nelle culture piú avanzate, contraddistinte da forme statuali e dalla scrittura. L’avvento di caste sacerdotali legate a strutture di corte e a un’economia templare, l’aumento della stratificazione sociale e della divisione del lavoro, il formarsi di un complesso tessuto sociopolitico, la stessa situazione economica, che con il suo surplus favorisce un modo diverso di rapportarsi al divino, piú distaccato e meno legato alle contingenze economiche, questi ed altri fattori strutturali pongono l’uomo in una situazione diversa di fronte al divino. I politeismi antichi, da quello egiziano a quello babilonese, da quello greco a quello cinese o azteco, sono essenzialmente politeismi politici. A prescindere, infatti, dalla struttura della

comunità politica, che può andare dalla città-stato ateniese ai grandi stati delle civiltà dell’America precolombiana, ciò che ora si afferma – contrariamente a una certa vulgata interpretativa che tende a vedere questi dèi come forze essenzialmente naturali e cosmiche – è un’idea politica del mondo divino. Controparte simmetrica e fondante dello stato, gli dèi dei sistemi politeistici sono infatti chiamati a fondare e regolare un cosmo che è, sí , naturale, ma in cui ormai le forze della natura collaborano e cooperano a sostenere la vita stessa dello stato. Si tratta di un mutamento che emerge con particolare chiarezza nel cosiddetto fenomeno della regalità sacra tipico del mondo egizio o babilonese, ma che ritorna anche in altri politeismi, come quello della Grecia classica. Il compito degli dèi della città, infatti, è quello di cooperare, attraverso un complicato sistema di contrattazione rituale incentrato intorno alla pratica sacrificale, al benessere non del singolo ma dello stato. Anche se gli dèi che formano un pantheon di tipo politeistico tendono a conservare l’antico rapporto con la natura e il cosmo, mantenendo funzioni di divinità uraniche, meteorologiche o dell’atmosfera, solari o lunari, del firmamento, della terra, ctonie, in genere queste funzioni sono ora subordinate ad esigenze sociali. Cosí, in un pantheon di tipo indoeuropeo, caratterizzato, secondo gli studi di Dumézil, dalla presenza di un triplice funzionalismo, noi troviamo, accanto a divinità, come lo Iuppiter romano, sovrane e creatrici, responsabili della società umana e produttrici e garanti della legge cosmica e morale, divinità della protezione e della guerra, della fertilità e della prosperità, della cultura, delle arti e della tecnologia, infine, della conoscenza esoterica e della magia. Si è discusso a lungo, ad esempio a proposito del politeismo greco e romano, se e fino a che punto il rapporto del credente con uno degli dèi del pantheon politeistico possa rientrare nella nostra categoria di «religione personale», costituisca cioè una forma di pietà religiosa. Anche se ogni generalizzazione, in questi casi, è avventata e pericolosa, l’impressione è che in genere in questo tipo di concezione del divino l’aspetto personale non sia centrale e determinante, non fosse altro per la debolezza strutturale dello stesso concetto di «persona» proprio di questo mondo religioso. Un ultimo tema merita, infine, di essere ricordato a proposito delle credenze di tipo politeistico: se e fino a che punto i politeismi antichi non

siano portatori di tendenze monoteistiche. Ma con questo tocchiamo il problema piú generale dei monoteismi. 3. I monoteismi. Il tema dei monoteismi, delle loro diversità e dei loro rapporti è oggi al centro dell’attenzione. Le cause sono molteplici, ma possono essere ricondotte al fatto che il modello del disincanto, che ha dominato le interpretazioni della religione nel Novecento, è entrato irrimediabilmente in crisi. Lontanissimi paiono, di conseguenza, gli anni della teologia della morte di Dio. La crisi del politico, congiuntamente alla crisi dello Stato laico, ripropone l’esigenza di ripensare, anche se in modi profondamente diversi da un tempo, il fondamento del convivere pubblico e civile. Nel contempo, il moltiplicarsi dei conflitti a sfondo etnico-religioso ripropone l’annoso problema del «Dio degli eserciti», del morire e far morire «in nome di Dio»: un Dio essenzialmente monoteistico. Non sarebbe difficile allungare l’elenco, con i suoi risvolti positivi e negativi, dei fattori soggiacenti alla rinnovata attenzione che oggi riconduce a riflettere sul Dio dei monoteismi (Armstrong 1993, Debray 2001). Proprio queste riletture, d’altro canto, ripropongono un’annosa questione. È come se, su questo tema, fosse già stato detto tutto e il contrario di tutto: che il monoteismo sia la radice del nostro umanesimo, ma anche la fonte della nostra barbarie; una liberazione, ma anche un flagello; un modello da seguire ed imporre, ma anche un retaggio patriarcale da abbandonare; la fonte del nostro benessere, ma anche la radice della nostra nevrosi. Già con Hume, nella seconda metà del Settecento, ma soprattutto con Nietzsche e Renan nell’Ottocento, si è creata una tipica opposizione e alternanza tra Atene e Gerusalemme, tra neopagani e neobiblici, tra chi vede nel monoteismo semitico la causa del conformismo sociale, dell’intolleranza, dell’odio del corpo, della misoginia, della guerra «in nome di Dio»; e chi vi vede l’universale etico, l’emergere dell’idea di Legge al di sopra della natura, la separazione benefica tra temporale e spirituale, l’imporsi di una trascendenza personale e salvifica, la sola in grado di dare senso alla vita del singolo come delle nazioni. In realtà, se molto e forse troppo si è detto sul Dio dei filosofi, poco e certo non abbastanza si è detto sui monoteismi dal punto di vista della storia delle religioni. Ciò che oggi si impone è la loro diversità e, nel contempo, la

loro plasticità. Per troppo tempo, anche per influsso della riflessione filosofica e di precomprensioni teologiche, non si è tenuto sufficientemente conto del fatto che non esiste, storicamente, una «essenza» monoteistica pura e intangibile, una identità forte e intoccabile, data una volta per tutte, dal momento che, mentre il politeismo, nel suo accostamento e nella sua interpretazione di quel Grund che è il divino, è talora piú monoteista di quanto si sia disposti a credere, a sua volta il monoteismo è sovente piú politeista di quanto si sia disposti ad ammettere, se è vero, come è vero, che l’Uno si rivela e si cerca nel molteplice, il quale, a sua volta, è sempre presente nell’Uno. Come insegna la storia degli studi, anche «monoteismo» è una tipica categoria interpretativa moderna, elaborata in chiave apologetica su di uno sfondo di controversia dottrinale. Lo si trova attestato per la prima volta nella seconda metà del Seicento, sulla scia di termini come «politeismo» e «ateismo», in un libro di un platonico di Cambridge, Henri More, intitolato An Explanation of the grand Mistery of Godliness (London 1660). A proposito della tendenza greca al panteismo, vi si legge che «questa specie di monoteismo pagano è piuttosto ateismo, come lo è il politeismo». Può sorprendere il fatto che il politeismo, che di dèi semmai ne ha troppi, venga definito «ateismo»; ma More, che scrive in una tipica tradizione apologetica, definisce «ateismo» tutte quelle forme di fede che ignorano il Dio dei cristiani e, dunque, anche il politeismo greco. Coniando questo neologismo, More ha «voluto dare il nome ad un tipo di religione che non si differenzia dalle antiche quantitativamente, ossia per avere un solo dio invece di una pluralità di dèi, bensí qualitativamente, in quanto l’unicità di quel dio è un suo fondamentale attributo» (Sabbatucci 2001, p. 9). Il termine, dunque, fin dal suo primo apparire, mira a sottolineare l’esclusività (monos, non eis, da cui deriverà invece enoteismo) della fede di tipo cristiano. Ma in che rapporto si poneva questa fede con quella ebraica? Anche su questo punto More ha una sua risposta, che merita di essere ricordata. In un libro uscito a Londra nel 1680, Apocalipsis Apocalipseos; or revelation of St. John unveiled, a un certo punto osserva che gli Ebrei «distruggono il culto del figlio di Dio in nome di un’ignorante pretesa di monoteismo». In questo modo, nell’opera di questo platonico di Cambridge è già possibile individuare le due principali linee interpretative che

domineranno, fino ai nostri giorni, la ricerca sul monoteismo: da un lato, il problema ad extra del rapporto col politeismo; dall’altro, il problema ad intra delle relazioni con le altre fedi di tipo monoteistico, a cominciare naturalmente dall’ebraismo. Da buon platonico, poi, More non ignora la riflessione filosofica greca, e precisamente lo sforzo, a partire dai presocratici, da Senofane, da Eraclito e soprattutto da Parmenide, di pensare l’Uno soggiacente alle manifestazioni molteplici del divino, sforzo che egli tende a definire, secondo una tradizione allora dominante – si pensi per tutti a Spinoza –, «panteismo». Inoltre, egli si trova a scrivere in un’epoca in cui emergeva ormai in modo sempre piú evidente il problema del tipo di fede proprio di quelli che allora venivano chiamati selvaggi: alcuni filosofi li vedevano come atei, mentre altri tendevano a considerarli, riprendendo un antico schema patristico, come i primi testimoni di una sorta di rivelazione primordiale, anticipando cosí in qualche modo teorie successive sul monoteismo come la forma di credenza originaria dell’umanità, cui faranno seguito le altre con un processo devolutivo. Cosí già nella seconda metà del Seicento sono entrate in scena, seppur in modo ancora embrionale, le due principali teorie interpretative del monoteismo. Da un lato, l’idea che la fede monoteistica coincide, secondo una tipica linea di teologia naturale, con una capacità innata dell’uomo di credere in Dio; dall’altro, l’idea che essa sia il portato di un processo storico, che il Settecento interpreterà come progresso e l’Ottocento in chiave di evoluzione. In questa seconda ottica, che è all’opera nei maggiori pensatori evoluzionisti, da Comte a Spencer, il monoteismo, specie quello cristiano, costituisce il punto d’arrivo, e non di partenza, dell’evoluzione religiosa dell’umanità. Ma che cos’è esattamente un monoteismo? Il «paradosso del monoteismo» (Corbin 1981) ci ricorda, infatti, che non esiste storicamente una religione assolutamente e perfettamente monoteistica, dal momento che, per un verso, anche fedi a prima vista rigidamente monoteiste, come l’ebraismo o l’islam, conoscono in realtà al loro interno forme, come la qabbalah o la shī‘a, che, pur rimanendo entro un quadro monoteistico, hanno concepito il divino come realtà che si manifesta attraverso una molteplicità di enti; per un altro verso, ogni fede monoteistica reca seco come un’ombra – come vedremo nel prossimo paragrafo – forme dualistiche. Il fatto stesso che la storia – sia interna sia di confronto fra le tre fedi monoteistiche dei «Figli di

Abramo» – sia costellata di reciproche accuse di politeismo (di Ebrei e musulmani nei confronti della trinità cristiana; di protestanti contro la mariolatria e il culto dei santi cattolico; ma l’elenco di queste accuse è ben piú lungo) è un chiaro sintomo che il monoteismo è, in realtà, storicamente un sistema in equilibrio e in tensione, che si costruisce anche attraverso il confronto e la polemica con sistemi affini. Dal punto di vista comparato, il caso dello zoroastrismo è la conferma della difficoltà di definire il monoteismo: ancora oggi gli specialisti sono lungi dall’aver trovato un accordo sul punto decisivo se l’annuncio di Zarathustra contenuto nelle Gāthā abbia un contenuto essenzialmente monoteistico o, piuttosto, dualistico, questione non certo secondaria, solo se si pensa al problema storico di possibili influssi del mazdeismo sull’ebraismo esilico e postesilico e, dunque, sulla sua fede monoteistica. Il caso del mazdeismo è interessante per un altro motivo. Zarathustra era un profeta e il suo annuncio è stato interpretato come un tipico esempio del fatto che una fede di tipo monoteistico presupporrebbe l’esistenza di un personaggio storico, un profeta, in grado non solo di trasmettere la volontà del Dio unico che gli è comunicata, ma di agire perché essa sia messa in pratica (dimensione etica dell’annuncio monoteistico). Si è venuto cosí costituendo un tipo di monoteismo, quello profetico, alla cui base sarebbe l’azione di «fondatori» come Zarathustra, Mosè, Gesú, Maometto. Si tratta di una categoria che non resiste a un’analisi piú approfondita. A parte la storicità difficilmente accertabile di alcune di queste figure, una fede monoteistica non è mai, dal punto di vista storico, integralmente nuova, come questa lettura, teologicamente condizionata, pretenderebbe, dal momento che essa presuppone tradizioni preesistenti di tipo enoteistico ruotanti intorno alla credenza in un Dio supremo uranico onnisciente. Inoltre il nucleo della fede monoteistica, lungi dall’essere fin dall’inizio stabile e fermo, è un nucleo sottoposto a processi di variabilità storica sia perché nell’ebraismo e nell’islam non c’è una teologia in senso dogmatico come nel cristianesimo sia perché lo stesso cristianesimo ha conosciuto e conosce da questo punto di vista una notevole varietà. Un’altra variabile storica significativa concerne il soggetto di una fede monoteistica. Non poche volte, infatti, si dà il caso di una religione politeistica in cui un’élite, spesso di tipo sacerdotale, possiede in realtà una

fede di tipo monoteistico. In ogni caso, occorre sempre distinguere accuratamente tra una dottrina che può proclamare l’esistenza di un Dio unico e un sistema esplicativo che interpreta pratiche e vissuti di per sé non monoteistico. Per distinguere e denominare queste situazioni intermedie tra monoteismo vero e proprio e politeismo si è dovuto fare ricorso a nuove categorie interpretative. È il caso, in particolare, dell’enoteismo e della monolatria. Si fa in genere ricorso al primo termine – introdotto dal sanscritista e storico delle religioni Max Müller negli anni Settanta dell’Ottocento – quando un orante o un gruppo di oranti, soprattutto in una situazione di necessità, si rivolge ad un’unica divinità, ad esclusione delle altre. Si tratta, d’altro canto, di un monoteismo per cosí dire di corta durata, momentaneo, all’opera ad esempio nelle aretalogie isiache dell’antichità rese famose dalla «conversione» del Lucio delle Metamorfosi apuleiane o nelle preghiere a certe divinità dell’induismo. Quanto alla monolatria, essa si distingue dall’enoteismo perché estende questa situazione nel tempo, non escludendo, a differenza del monoteismo esclusivista, l’esistenza di altri dèi. In questo senso, essa è molto vicina a una forma di monoteismo inclusivistico e ha trovato una giustificazione teorica nel cosiddetto monoteismo filosofico, tipico di élite colte in differenti tradizioni religiose, ampiamente attestato non solo nell’induismo, ma anche nel mondo antico. Per non portare che un esempio, Massimo di Madaura, un medioplatonico del II secolo della nostra era, sosteneva che esiste un sommo Dio, senza inizio e senza prole naturale; quanto alla molteplicità degli dèi, essi non sono altro che le sue membra. Si tratta di una concezione destinata a ritornare continuamente nella storia del cristianesimo occidentale, da Simmaco nella sua polemica con Ambrogio per l’altare della Vittoria, al deismo di Herbert di Cherbury fino a forme di deismo contemporanee. Si tratta di forme spesso individuali di culto mentale rivolto a una divinità priva di tratti veramente personali, in quanto tale profondamente diverso dal vero e proprio monoteismo religioso. In questi ultimi anni, sull’onda lunga della critica decostruzionista al fondazionalismo e in generale alle matrici illuministiche delle Scienze delle religioni, accusate di avere utilizzato categorie di origine cristiana in prospettiva etnocentrica per assoggettare meglio la complessità dell’alterità religiosa ai suoi parametri (cfr. cap. IV par. 4), da piú parti si è proposto di distinguere tra monoteismo esclusivista e monoteismo inclusivista

(Athanassiadi e Frede 1999, Nevling Porter 2000, Kenney 1991), in questo modo allargando lo spettro delle fedi di tipo monoteistico. 3.1. Il monoteismo inclusivista. Forme di monoteismo inclusivista sono largamente attestate nell’induismo. Dal punto di vista storico, nel subcontinente indiano le religioni a tendenza monoteistica sono forme tardive del pensiero religioso. Esse si sviluppano a partire da piú antiche rappresentazioni politeistiche, in parte attraverso la fusione di divinità differenti, le cui sfere di potere vengono riunificate in un’unica divinità, in parte attraverso la ricerca di un fondamento originario, dal quale proverrebbe la molteplicità dell’essere, compresi gli dèi. Col tempo, questi dèi vengono relegati nella sfera demonica o, secondo la teoria della reincarnazione, divengono anime che, in virtú del loro karma, sono incaricate di compiti particolari nell’amministrazione dell’ordine cosmico. Anche se, in questo modo, si conserva una pluralità di manifestazioni divine, il Dio supremo non è un primus inter pares, come il dio supremo dei pantheon politeistici, né, come nell’enoteismo, la divinità somma momentanea di un singolo fedele, ma una divinità che esiste prima del mondo e degli altri dèi, ponendosi come la fonte dell’intero essere. Priva di inizio e incorruttibile, essa è onnisciente e onnipotente, del tutto indipendente e autarchica. In quest’ottica, in India è possibile ritrovare piú di una corrente religiosa monoteista nel senso inclusivista, anche se sulla lunga durata si sono affermati soprattutto il visnuismo, legato al culto personale di Vishnu, e lo shivaismo, legato al culto personale di Shiva (Von Stietencron 2001, trad. it. pp. 41 sgg.). Sempre in India, un caso a parte è costituito dal sikhismo. Con Gurū Nānak (1469-1539), infatti, si sviluppa un modello di monoteismo indiano che sintetizza le tendenze monoteistiche sopra ricordate con il monoteismo personale ed etico portato in India dall’islam. Nell’insegnamento di Gurū Nānak si parla di un unico Dio immortale, non creato, autosussistente, creatore di tutto l’universo, onnisciente, senza forma, giusto e pieno di amore. Dio è trascendente come pura potenzialità ed immanente come incarnazione nel mondo, è personale, ma trascende ogni possibilità di conoscerlo nella sua essenza: lo si venera principalmente nei rituali ove si ripete il suo nome. La rivelazione della sua esistenza avviene per mezzo dei gurū, che esprimono la parola divina. Gli uomini conseguono il paradiso o l’inferno alla fine di un

periodo di vita, sebbene siano coinvolti in una lunga serie di nascite e di morti. La salvezza finale per gli esseri umani è il nirvāna. Altra caratteristica fondamentale che fa rientrare il sikhismo nella categoria dei monoteismi è data dal fatto che le rivelazioni sono contenute nel libro sacro, il Granth, il maestro vivente, che viene installato in ogni luogo di culto e di preghiera ed è fatto oggetto di adorazione nei templi, privi di immagini divine. Anche il mondo religioso tardoantico ha conosciuto una forma di monoteismo inclusivista. Ciò che lo contraddistingue è la tendenza a gerarchizzare il mondo degli dèi tradizionali, sottomettendolo al comando di un dio supremo (theos hypsistos, deus summus) che, nella sua qualità di monarca assoluto, regna incontrastato sul cosmo, governandolo attraverso una burocrazia di potenze intermedie. Sul tronco orizzontale del politeismo tradizionale si innesta, in questo modo, una dimensione verticale tendenzialmente unitaria del divino. Favorita da fattori di lungo periodo, come l’interpretatio Graeca e Romana delle divinità straniere o come il sorgere e l’affermarsi, in periodo ellenistico, della nuova concezione astronomica unitaria del cosmo (che facilitò la nascita della religione cosmica del summus deus il quale, al pari dei monarchi ellenistici, presiede all’ordine e all’armonia del cosmo visibile dall’alto del suo palazzo celeste), la tendenza monoteistica del mondo religioso tardoantico si distingue proprio per il suo carattere inclusivista. In quanto tradizione spirituale radicata nell’antico politeismo, la sua comprensione del divino iniziava con la molteplicità dei poteri divini per focalizzarsi su un’unità divina primordiale e un principio finale di ordine e di valore per il cosmo sacro. Accanto ad attestazioni individuali di questo tipo di fede, come ad esempio il Lucio dell’XI libro delle Metamorfosi apuleiane, la forma collettiva e pubblica piú nota è il cosiddetto monoteismo solare che si impose sotto i Severi nei primi decenni del III secolo d.C., riattivato da Aureliano e seguito da Costantino prima della sua «conversione» al monoteismo cristiano. 3.2. Alle «origini» del monoteismo esclusivista. Oggi gli studiosi concordano nel ritenere che l’emergere della fede monoteistica di tipo esclusivista sia l’esito di un lungo e complesso processo storico, che ebbe come sua culla il Vicino Oriente antico, anche se divergono, e non poco, nelle contestualizzazioni storiche. E ciò è ben comprensibile, se si tiene conto delle straordinarie conseguenze storiche che l’«invenzione del

monoteismo» doveva avere sia per la storia di Israele sia piú in generale (Stark 2001 e 2003). A prescindere dalle forti ipoteche teologiche in gioco e dal fatto che la fonte principale a disposizione, la Bibbia ebraica, è cosí difficile da indagare dal punto di vista redazionale e, di conseguenza, problematica dal punto di vista storico, abbandonate le ipotesi alla Renan che vedevano il monoteismo biblico come il risultato di un condizionamento ambientale, il portato della vita nel deserto coi suoi spazi vuoti e sterminati, oggi si è ritornati a discutere di un’ipotesi che circolava all’inizio del Novecento, ripresa da Freud in Mosè e il monoteismo: il possibile influsso della ipotizzata rivoluzione monoteista del faraone egiziano Amenophi IV (1364-1347 a.C.). Si tratterebbe della prima fede monoteistica a noi nota: la religione della luce rivelata al suo profeta dal dio solare Aton (Hornung 1995). La novità di questo monoteismo solare, in virtú del quale il dio solare diventava l’unico dio adorato, sta proprio nel suo esclusivismo e nelle conseguenze pratiche che questo tipo di fede mise in moto, a cominciare dalla creazione di una città sacra a lui dedicata, dove i templi tradizionali cedevano il passo a un unico tempio privo di sacello, dal momento che l’unica immagine dell’unico dio, il disco solare da cui irraggiava la luce, portatrice di vita, che lo rappresentava, non esigeva piú la presenza di statue divine. In realtà, la forza creatrice di questo nuovo tipo di annuncio investí i vari campi della cultura: dalla lingua all’espressione artistica, dall’universalità che contraddistingue la signoria del dio solare alla profondità delle produzioni religiose che Egli ispirò al suo profeta, come il celeberrimo Canto al Sole. Nella sua straordinaria semplicità e consequenzialità, questa nuova religione della luce solare, che crea e mantiene il cosmo, per un verso, come nel caso del monoteismo induista, radicalizza tendenze enoteistiche latenti nella religione egizia, tese a sottolineare l’origine della molteplicità divina da un unico Principio o Grund, per un altro, se ne stacca proprio per il suo esclusivismo. Di fatto, il profilo monoteistico emerge in tre ambiti. Il primo è quello delle formule del tipo «nessun altro al di fuori di lui», nelle quali s’impone chiaramente la pretesa all’esclusività, confermata dal fatto che Aton non ha una paredra né un antagonista a lui coeterno, come ad esempio nel dualismo zoroastriano. Il secondo ambito è dato dalla persecuzione messa in atto contro gli antichi dèi in conseguenza dell’affermazione della nuova fede. I templi furono chiusi, le immagini degli dèi distrutte, i loro nomi cancellati

non soltanto dai monumenti pubblici, ma perfino dalle tombe private, secondo un tipico atteggiamento idolofobico e iconoclastico per cui ad essere perseguitati sono non i seguaci, ma le immagini e tutti i segni visibili di una presenza divina privata ora del suo fondamento veritativo. Infatti – e questo è il terzo ambito – la religione della luce di Akhenaton si caratterizza per la sua pretesa di verità assoluta, che esclude l’esistenza di altri dèi. La novità maggiore e dalle conseguenze piú significative introdotta dal monoteismo solare consiste in un veto di traducibilità, tipica invece dei politeismi antichi, come conferma il fenomeno diffuso della interpretatio (Assmann 1997): Aton è infatti l’unico dio vero, che si contrappone ora in modo inconciliabile alla falsità degli altri dèi, ridotti al rango di pure immagini umane, di idoli appunto. La verità assoluta del dio, in altri termini, ne fonda non solo l’unicità, ma anche l’esclusività. Il monoteismo solare di Akhenaton, d’altro canto, era destinato a morire col suo «profeta». Chi cerca di spiegare le «origini» del monoteismo biblico (Stolz 1996) ad extra ha a disposizione un’altra ipotesi, che però sposta l’ipotetica data nella cosiddetta epoca assiale e cioè tra VII e VI secolo a.C., in un periodo cruciale della storia di Israele, ipotizzando un influsso dello zoroastrismo: ipotesi sulla carta non escludibile, ma molto problematica sia per la natura peculiare, già ricordata, di questa fede sia soprattutto per le ardue difficoltà di datazione dei testi fondanti e cioè le Gāthā attribuibili a Zarathustra. Si è cosí ricondotti, in modo piú plausibile, ad un’ipotesi interna, che spiega cioè la genesi del monoteismo esclusivista biblico come l’esito di una complessa storia che ha avuto il suo punto di svolta in epoca postesilica. Preparato dall’annuncio etico dei profeti, questo turning point avrebbe come luogo storico il progetto unitario di Giosia, che regnò dal 640 al 609. Egli rinforzò il regno di Giuda, soprattutto dal punto di vista cultuale e religioso, grazie alla «scoperta» della Legge, in genere identificata dagli studiosi moderni col libro del Deuteronomio e col nucleo originario di quello strato redazionale definito deuteronomistico: Yahweh vi è rappresentato come dio unico, che ha stretto col popolo da lui eletto un patto, il cui nucleo sono appunto le tavole della Legge di Mosè, custodite nell’arca depositata nel tempio sin da Salomone. Questa concezione dell’unico dio stabilito nell’unico tempio rappresenta una svolta radicale nei confronti delle precedenti concezioni attestate nel testo biblico, che vedevano Yahweh come dio tribale o, al massimo, in una

prospettiva enoteistica. L’emergere del monoteismo esclusivista, infatti, «non unifica le varie personalità divine, ma le annulla: rinuncia alle loro caratterizzazioni distintive per puntare su una caratterizzazione globale del divino» di carattere etico (Liverani 2003, p. 227). In quest’ottica, la fede di tipo monoteistico si pone come tentativo di colmare lo iato che si era venuto creando, nelle società statali fortemente gerarchizzate del Vicino Oriente, tra l’individuo e la divinità. I pantheon di tipo politeistico che le caratterizzano e che si formano in parallelo alla «rivoluzione urbana», rispecchiano la complessità assunta da queste società verticistiche, ma anche molto diversificate. Anziché essere ipostasi e giustificazione degli squilibri sociali e dei flussi ineguali di risorse, la religione di tipo monoteistico diviene espressione di valori morali condivisi, punto di riferimento per la distinzione tra giusto e ingiusto, bene e male, vero e falso, offrendo al singolo la possibilità di mettersi direttamente in collegamento non piú con una divinità settoriale con cui è possibile entrare in contatto in modo mediato grazie all’attività cultuale e alle pratiche sacrificali controllate da apposite caste sacerdotali, ma con un’unica divinità a vocazione universalista. Inoltre, l’esempio di Akhenaton da un lato e quello di Giosia dall’altro insegnano che il monoteismo è dovuto sin dall’inizio e nel suo intimo nucleo a ragioni politiche e che in Israele esso si è affermato come idea politica innovatrice a causa della sua definizione assolutamente unica del rapporto esistente tra il potere divino e la comunità: un unico Dio, un unico popolo, un unico Israele. 3.3. Il monoteismo come problema politico. A prescindere dalle differenti tipologie e dai problemi storici collegati ai fattori di provenienza, i monoteismi antichi sono sorti e si sono affermati sullo sfondo dapprima del tentativo degli Achemenidi di costruire un impero universale, poi delle varie monarchie ellenistiche, infine, dell’universalismo dell’impero romano e cristiano (Fowden 1993). Né costituisce un’eccezione il monoteismo coranico, che ha accompagnato e promosso l’affermarsi del commonwealth islamico. Il Dio del monoteismo mazdaico, cristiano, islamico si è trovato, quasi inevitabilmente, a svolgere su scala universale l’antica funzione, territoriale ed etnica, svolta dagli dèi poliadi del politeismo, dèi protettori e guerrieri. Mentre, però, nei politeismi antichi la funzione bellica, con la connessa violenza omicida, era esorcizzata delegandola ad una divinità per cosí dire specialista (Ares, Marte, ecc.), il Dio monoteistico si è trovato,

nel contempo, responsabile della pace e della guerra; una guerra che, in questa prospettiva, diventava inevitabilmente una guerra sacra. Mentre Ahura Mazda, il Signore Buono del mazdeismo, non promuove né legittima le guerre, frutto dell’azione dello spirito malvagio, Angra Mainyu; mentre cioè una religione a sfondo dualista come lo zoroastrismo, di fronte a quel male radicale che è la guerra, può far ricorso, per spiegarla e giustificarla sul piano religioso, all’azione di un principio ontologicamente malvagio deresponsabilizzando in questo modo il Dio sommo, nei tre monoteismi abramitici, che hanno rifiutato e combattuto ogni forma di dualismo in nome, appunto, dell’unicità del Dio creatore, il problema della guerra, e piú in generale della violenza, non poteva non trovare soluzioni differenti. Se il male non ha una realtà ontologica autonoma, se il male è o privatio boni o male morale e ricade, in quest’ultimo caso, unicamente sulle spalle dell’uomo, se, in altri termini, tutto ciò che proviene da Dio non può che essere bene o un male a fin di bene, se cioè, com’è tipico delle teodicee monoteiste, come un alchimista il Dio in questione è in grado di trasformare i «fiori del male» in bene, perché stupirsi delle guerre di religione? Non saranno anch’esse misteriosamente iscritte nel disegno provvidenziale di un Dio pronto hegelianamente ad essere invocato per giustificare i peggiori massacri? Non sarà soltanto un caso che una religione dualista come il manicheismo sia stata, per un verso, almeno in una fase iniziale, assunta da Shāhpūr I come una potenziale base ideologica pacifica per la rifondazione di un possibile impero universale o abbia potuto fondersi nel suo cammino verso oriente con una religione tendenzialmente pacifista come il buddhismo, per un altro, sia stata duramente perseguitata dai poteri statali per i suoi effetti destabilizzanti. La sua visione pessimistica del mondo, infatti, attribuendo – come già avevano fatto gli gnostici e poi faranno i catari – alle potenze malvagie del cosmo guerre e persecuzioni e con ciò liberando il Principio della Luce da ogni provvidenzialismo, bollava irrimediabilmente ogni forma di guerra e di violenza, rendendo impossibile ogni compromesso con i poteri di questo mondo e, di conseguenza, anche ogni idea di guerra giusta. Il tentativo di Erik Peterson, che in un celebre saggio del 1935, Il monoteismo come problema politico, aveva affidato alla teologia trinitaria, come fattore distintivo della fede cristiana, il compito di sottrarre il cristianesimo alla funzione di legittimazione politica svolta dal monoteismo, si è rivelato alla fine

fallimentare. Di fatto, la storia dei monoteismi, compreso il monoteismo trinitario cristiano, è anche la storia di un intreccio continuo tra la sovranità dell’unico Dio, e le sue forme di rappresentazione, e la sovranità dei vari poteri che si sono configurati come suoi rappresentanti. In questa prospettiva, lo spazio per il dialogo e il confronto, se mai c’è stato, ha certo avuto difficoltà a sottrarsi alle esigenze politiche del potere di turno di imporre, con il suo dominio, il proprio Dio che lo legittimava. Oggi le risorgenti spinte integralistiche e fondamentalistiche, che non sono certo specifiche del campo religioso islamico, ma secano i vari monoteismi, ripropongono in modo drammatico i rischi di esclusivismo e di conflitto sempre potenzialmente presenti in una fede troppo legata a pretese di signoria universale non disgiunte da esigenze di riscontro politico. La storia dei tre monoteismi, da questo punto di vista, è esemplare. Essa è soprattutto storia di conflitti, di condanne, di esclusioni, di tentativi di annessione. Che in ciò una parte importante sia stata recitata dal confronto puramente teologico è indubbio; ma altrettanto negativo è risultato il peso di teologie politiche che, in vari modi, hanno mirato ad instaurare il regno di Cristo o dell’unico Dio in questo mondo identificandolo con qualche potere mondano. 3.4. Monoteismi a confronto. Il monoteismo etico-storico, ossia la credenza in un Dio unico che rivela la sua volontà salvifica all’umanità mediante una figura profetica, guidando il disegno storico-salvifico del mondo, presuppone un’idea di Dio come unico, dotato di una precisa volontà, guida di tutti gli eventi in qualità di creatore, separato dal mondo, ma nel contempo coinvolto nella sua storia in quanto Egli, con la sua legge, governa l’universo, dà valore a tutto e si fa carico della totalità delle cose. Dio è il creatore di un unico mondo, il palcoscenico su cui ha luogo il dramma storico-salvifico dell’umanità: un’umanità peccatrice, che sarà redenta se saprà scegliere il bene, instaurandolo nella società, lottando contro il male e applicando la giustizia divina. La volontà di Dio, annunciata prima oralmente dal suo profeta o inviato, è poi fissata per iscritto, secondo la logica unificante che caratterizza questa forma di pensiero religioso, in un solo libro: il libro sacro. Un canone ne fisserà i confini sacri, difendendolo dai falsi libri. Un’esegesi divinamente ispirata, in genere affidata a una classe di specialisti, ne garantirà la corretta interpretazione. Coloro che ne accettano e ne mettono in pratica la volontà, fissata in una Legge sacra, formano la

comunità dei fedeli: una comunità religiosa in cui si entra attraverso riti particolari d’ingresso e che fornisce la nuova e vera identità del credente. Lo zoroastrismo contiene quasi tutti gli elementi caratteristici di questo tipo di monoteismo, ma, ponendo il Male come deuteragonista della storia salvifica, pone in qualche modo dei limiti alla potenza di Dio. Nel contempo, aiuta a comprendere l’importanza decisiva che il problema del male ha nei monoteismi storico-salvifici, in cui la teodicea recita una parte centrale. Dal momento che Dio è sommo bene e dal momento che la sua unicità esclude l’esistenza di un Male ontologico come nei dualismi, il male o non esiste, è pura apparenza, o è di natura etica, è cioè ricondotto alla responsabilità morale dell’uomo. In realtà, su questo scenario di fondo i tre monoteismi hanno declinato questo problema teologico, cui è connesso quello della grazia e della predestinazione, in modi abbastanza diversi sia al loro interno sia tra di loro, solo se si pensa alla centralità salvifica dell’incarnazione nel cristianesimo, tema ovviamente assente nell’ebraismo e nell’islam. I tre monoteismi abramitici esprimono, di conseguenza, piú compiutamente questo nodo teologico, ponendolo al centro del pensiero e della pratica religiosa. Ognuna di queste tre tradizioni, d’altro canto, l’ha interpretato in modo peculiare. A prescindere ora dalle notevoli differenze presenti all’interno di ognuna di queste religioni, frutto in genere a loro volta di modi diversi di intendere il mistero dell’unicità e della complessità della vita divina ad intra e ad extra, l’ebraismo ha sottolineato l’importanza decisiva del carattere personale di Dio, che si incontra nella relazione dialogica «Io-Tu» e che fornisce uno scopo etico per la vita. L’essenza universale dell’unico Dio è rivolta verso l’umanità, soprattutto nella forma specifica del patto con gli Ebrei in quanto «popolo eletto»: una base etnica, con le contraddizioni che ne seguono, caratterizza, fino ad oggi sia il problema della natura della comunità eletta sia delle sue relazioni con gli altri popoli. La natura particolare di questo patto e le sue specifiche richieste, che si devono tradurre nell’osservanza dei precetti divini, non portano però a negare, nella visione ebraica, l’universalità di Dio. Il compimento del disegno escatologico di Dio deve passare attraverso il patto e la fedeltà al patto. Quanto ai non Ebrei, coloro che cercano di attuare nella loro vita terrena i principî etici fondamentali avranno un posto nella vita del mondo a venire. La peculiarità essenziale e distintiva del monoteismo cristiano è la sua

dimensione trinitaria, frutto di una complessa storia dogmatica, culminata nel credo niceno-costantinopolitano (381), comune alle tre grandi confessioni cristiane. Decisiva in questa dottrina è l’incarnazione di Dio nella persona di Gesú il Cristo. In realtà, la divino-umanità del Cristo fu oggetto di dure dispute dottrinali tra quarto e quinto secolo, solo in parte concluse dal Concilio di Calcedonia (451), in seguito al quale, anche per ragioni politicoreligiose, si formarono cristianità orientali diverse, come le Chiese monofisite. Ebrei e musulmani interpretano questa dottrina come un diteismo, che escluderebbe il cristianesimo da una pura fede monoteistica. Se si tiene conto del posto centrale che la Torah ha finito per occupare nel giudaismo rabbinico, assumendo talora caratteri divini non lontani da quelli del Figlio nella tradizione cristiana, l’islam rappresenta nel confronto la forma piú pura di monoteismo. Non a caso, esso ha fatto della dottrina dell’unità e dell’unicità di Dio, che esclude qualunque forma di mediazione tra Dio e l’uomo, a cominciare dalla figura dell’Inviato, dal carattere puramente umano, l’espressione centrale della fede. Esso persegue un monoteismo radicale insistendo sulla totale trascendenza e sovranità di Dio. A causa dell’eliminazione di ogni dottrina delle cause seconde, per l’islam Dio esercita la sua onnipotenza direttamente in ogni luogo: il piú grande peccato consiste nell’associare qualsiasi cosa o persona a Lui. Questo Dio universale si è rivelato all’umanità in un messaggio salvifico particolare contenuto nel Corano. Questa rivelazione è potenzialmente valida per tutti gli uomini in tutte le epoche come guida alla vita etica e alle benedizioni che Dio predispone per le creature fedeli. Tutta una letteratura che dai tre savi di Raimondo Lullo e dalla novella delle tre anella del Decamerone (1.3), in realtà punto di arrivo di una tradizione piú antica, giunge, attraverso il lessinghiano Nathan il Saggio, fino ai dialoghi interreligiosi dei giorni nostri, ha teso a confrontare le dottrine e le pratiche dei tre monoteismi, talora alla ricerca di un’unità superiore di tipo etico-filosofico in grado di trascendere le divergenze dottrinali potenzialmente conflittuali, talora a scopo apologetico per dimostrare la superiorità dell’uno sull’altro. In realtà, la comune eredità ha favorito piú il conflitto che il confronto pacifico. Secondo un tipico meccanismo conflittuale, infatti, gli elementi comuni, invece di rendere piú vicine le tre fedi, si possono trasformare, e spesso si sono trasformati, in causa di attriti

quando non in veri e propri conflitti, giacché a ciascuna la presenza di questi elementi nelle altre appare come una forma – da condannare aspramente – di corruzione della verità originaria e, nel contempo, una minaccia pericolosa alla propria identità. Senza voler negare la grande importanza del dialogo interreligioso, il problema di fondo che anche oggi domina il confronto tra i tre monoteismi è quello della tolleranza e della convivenza. 3.5. Monoteismi e violenza. Affrontando il problema della tolleranza e della convivenza tra le tre fedi monoteistiche tocchiamo in realtà il problema, di bruciante attualità, del rapporto tra monoteismo e violenza. Come si è già accennato, la prima fondamentale spinta che porta le religioni monoteistiche verso la violenza è la pretesa di voler possedere da sole la verità, ad esclusione delle altre, una verità che non si discute, che si deve prima di tutto difendere all’interno e all’esterno con ogni mezzo: con le armi della parola, ma anche con la parola delle armi. Una certa teologia femminista ha voluto individuare nel Dio patriarcale dei tre monoteismi abramitici la causa della violenza bellica che li contraddistinguerebbe. Secondo questa prospettiva (Daly 1985), la figura di un Dio maschile in cielo sarebbe servita a legittimare i rapporti diseguali tra uomini e donne sulla terra. Si profila, in questo modo, un circolo vizioso tra il Dio garante della maschilità e ciò che Daly, la studiosa che ha inaugurato questa critica, chiama la sacrilega trinità: stupro, genocidio e guerra. In questa rilettura, la violenza bellica trarrebbe forza e si alimenterebbe alla misoginia costitutiva dell’ordine sociosimbolico patriarcale, ordine a sua volta legittimato dal Dio maschile. La differenza di genere, di conseguenza, che si riflette nella concezione patriarcale del Dio monoteistico, sarebbe una causa fondamentale della violenza e dell’intolleranza dei monoteismi abramitici. Le radici della violenza di natura religiosa peculiare del Dio dei monoteismi paiono in realtà piú complesse. I tre monoteismi, infatti, non hanno fatto che riprendere, radicalizzandole, tradizionali funzioni di legittimazione della guerra proprie delle religioni non monoteistiche. La guerra è, per definizione, una violenza organizzata e coerente esercitata fra gruppi rivali costituiti e compatti. In contrasto con numerosi altri tipi di violenza, essa non è né individuale né spontanea né casuale né tanto meno irrazionale. Fenomeno complesso, in grado di adattarsi proteicamente al mutare delle condizioni culturali e storico-sociali, tra le molteplici dimensioni

che concorrono a metterne in moto la macchina distruttrice – economiche, sociali, ideologiche – è innegabile che un ruolo essenziale abbiano svolto e, purtroppo, continuino a svolgere fattori di ordine religioso, dal momento che, nella storia delle civiltà, sono innumerevoli le guerre provocate o giustificate dalla fede religiosa. Le modalità con cui si è venuto costruendo quest’intreccio perverso sono molteplici e vanno dall’attribuzione di prestigio agli atti di valore ricompensabili con premi ultraterreni straordinari, alle motivazioni religiose addotte per giustificare la messa a repentaglio della propria vita e che, nella storia dei monoteismi, si sono spinte fino a giustificare, se non a promuovere, le lotte piú sanguinose: persecuzione di eretici, crociate di ogni tipo, uccisione dei renitenti a convertirsi alla propria fede, guerre di religione. L’avvento, a partire dalla fine dell’Ottocento, di movimenti pacifisti ispirantisi a concezioni religiose non deve far dimenticare il tragico paradosso in conseguenza del quale una ricerca della pace corre parallela allo scatenamento di conflitti messi in moto o comunque alimentati, anche sotterraneamente, dalle fedi religiose di tipo monoteistico. L’esempio della «guerra santa» è, da questo punto di vista, il piú efficace, a conferma che gli scenari destabilizzanti creati dai processi di globalizzazione hanno finito per favorire la riattualizzazione di un tipo di conflitto culturale e religioso iscritto nella storia ideale e reale dei tre monoteismi, «non maggiormente incompatibile col mondo contemporaneo di altre manifestazioni tradizionali di conflitto, come il nazionalismo aggressivo» (Partner 1997, p. XXII). La modernità ha inciso profondamente anche sulla natura dei tre monoteismi abramitici. Non poche, infatti, sono le nuove religioni sorte sul tronco degli antichi monoteismi nel tentativo di adattare il loro messaggio alle peculiari esigenze imposte dalla modernità. Si pensi, per quanto concerne l’islam, al bahaismo che, pur conservando il tradizionale impianto monoteistico, ha rotto con la tradizione islamica originaria su piú punti; o in ambito cristiano, al mormonismo, il cui concetto di Dio non è piú conciliabile con la tradizione dogmatica cristiana; o a forme sincretistiche come il caodaismo o, per venire ai giorni nostri, a nuove religioni come la Chiesa dell’Unificazione del rev. Moon, il cui Dio androgino ripropone a suo modo il problema di genere e cioè della dimensione «femminile» di Dio sollevato dalla teologia femminista. L’elenco è in realtà piú lungo. Esso conferma la crisi, ma

anche la capacità di durata di questo tipo di fede in un mondo in continua e radicale trasformazione. Stando ai piú recenti sondaggi, la credenza nel Dio tradizionale dei monoteismi abramitici continua a costituire la credenza piú saldamente attestata nei paesi occidentali. Anche se questi sondaggi non dicono o non sono in grado di specificare l’idea di Dio soggiacente o il rapporto che questa idea ha, nella vita del fedele, con le pratiche istituzionali, la sua capacità di orientarne la vita e i comportamenti, quel che essi confermano è la persistenza di una fede di tipo monoteistico anche nella società globalizzata. 4. Dio e il male: i dualismi. Nelle differenti religioni, il male è un dato di esperienza che viene affrontato a livelli teologici che variano col variare delle strutture dei sistemi di credenza, a partire dal correlato concetto del divino e in funzione di questo. Cosí l’assenza, in molte tradizioni filosofico-religiose orientali, dal taoismo al buddhismo, di una concezione metafisica del male è strettamente correlata e dipendente dall’assenza della figura, tipica dei monoteismi abramitici, del Dio unico, personale, sommo bene, creatore e signore dell’universo: «la tradizione orientale rigetta l’idea, che invece è comune ai pensatori cristiani, dell’assoluta priorità del bene sul male, mettendo in luce l’interdipendenza delle due valenze e perfino, in un senso profondo, la loro unità […] da un punto di vista ontologico ed esistenziale il bene non è piú forte del male: hanno la medesima natura di stati “condizionati”» (Raveri 1997, p. 23). Né costituisce un’eccezione a quest’affermazione l’induismo. La grande varietà di temi «maligni» che ne contraddistingue le molteplici tradizioni religiose (Doninger O’Flaherty 1983), infatti, non è mai ricondotta a un’unica causa e a un unico volere, ma all’azione di un mondo multiforme e variegato di esseri demoniaci, contraltare del mondo altrettanto multiforme e variegato degli esseri divini. Differente è invece il modo in cui questo rapporto si è imposto nella tradizione di pensiero tipica dell’Occidente. Essa ha certo conosciuto molte figure differenti di Dio e del divino (e anche della sua assenza o del suo silenzio), riconducibili ad una coppia di fondo: il Dio personale della tradizione biblica, il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, il Dio dell’Alleanza e dell’Esodo che, nell’ebraismo, si disvela nella Torah, mentre nel cristianesimo si incarna nel Cristo, comunque dandosi a conoscere solo per fede; e il Dio dei filosofi, dell’analogia entis, oggetto della riflessione e delle costruzioni

razionali delle varie teologie e filosofie. Al variare di queste concezioni e rappresentazioni di Dio è, inevitabilmente, corrisposto il variare delle concezione del male, della sua natura e della sua simbolica. Paul Ricoeur ha proposto, anni or sono, una mappa delle mitologie del male, articolata in quattro tipi fondamentali, che conserva intatta la sua validità (Ricoeur 1960). Vi sarebbero prima di tutto miti (cui seguirebbero filosofie e teologie), che vedono il male come forza caotica che si oppone alla creazione, perturbandone l’armonia; in secondo luogo, miti che ne individuano l’origine in una misteriosa «caduta» (dell’anima cosmica, del primo uomo, di ogni uomo, della stessa sapienza divina); altri ancora che lo concepiscono come fato tragico, destino inevitabile – e, tuttavia, non innocente – di trasgressione e perdizione, terribile ma, nel contempo, glorioso; miti, infine, che lo connotano soprattutto come esilio, conseguenza o meno della caduta (esilio dall’unità originaria, dal paradiso, dalla fonte della vita, dal bene, dalla luce, insomma da Dio). Vi sarebbero cosí, semplificando ulteriormente la quadripartizione del filosofo francese, miti che assegnano al male cause ed effetti cosmici e miti che gli assegnano cause ed effetti storici. Caratteristica del monoteismo biblico è aver ricondotto a un’unica causa, Dio, in quanto creatore del cosmo e signore della storia, sia i mali del primo tipo sia quelli del secondo (Is 45.7). Natura e morale, mondo delle cause e mondo dei fini, sono in questo modo ricondotti all’azione di quest’unica volontà. La Physis dei Greci e, in genere, dei sistemi politeistici antichi, moralmente indifferente, caratterizzata da un disordine – e dunque da mali – iscritto nella sua regolarità, cede il posto a un mondo intelligente e moralmente ordinato, frutto e prodotto dell’azione creatrice di una volontà divina che coincide col bene. È in quest’orizzonte di trascendenza che viene a crearsi uno scarto, una distinzione nuova: quella di un male, naturale e morale, che si dà nonostante e contro l’assoluta bontà dell’unico Dio. In questo modo, sono gettate le basi di una forma particolare di teodicea. Riflessione filosofico-teologica sulla giustizia divina e sulla compatibilità di questa giustizia con il male, rappresentato, prima che dai mali della natura e dal male morale, dalla sofferenza dell’innocente e del giusto, esemplarmente fissata nel libro biblico di Giobbe, il giusto sofferente per antonomasia, la teodicea non è, d’altro canto, un tratto specifico delle fedi di tipo monoteistico. Tipiche riflessioni sulla (in)compatibilità tra bontà divina e

mali naturali che affliggono soprattutto i giusti, infatti, sono già presenti nella letteratura sapienziale del Vicino Oriente, dall’Egitto a Babilonia e ritornano, con accenti variamente declinati, nella tradizione greca: dal prologo omerico dell’Odissea (1.32-43), con la sua «apologia» della giustizia divina in cui Zeus discolpa gli dèi dall’accusa di essere causa di tutti i mali dei mortali, alla sofferenza portatrice di conoscenza di Eschilo, dalla dike di Anassimandro al dio «innocente» (anaitios) di Platone, nella sua trascendenza assoluta non responsabile dei mali che affliggono l’uomo, dal provvidenzialismo stoico al dualismo plutarcheo, per terminare con la teodicea plotiniana (cfr. Lanzi 2000). Proprio questa varietà e ricchezza di riflessione, d’altro canto, aiutano a comprendere le ricorrenti critiche che già alcuni pensatori greci avanzarono contro il modo, tipico di una teodicea, d’impostare il rapporto tra Dio e il male, culminanti nella famosa «equazione» di Epicuro: La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, dobbiamo ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia invidiosa, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e invidiosa; se poi vuole e può, la sola cosa che conviene alla sua essenza, da dove dunque provengono i mali e perché non li abolisce? (fr. 374 Usener = Lattanzio, L’ira divina 13.20).

Di qui la conclusione, inevitabile, cui perviene Epicuro: l’esistenza del male è la prova evidente che la divinità non si cura delle cose del mondo, vivendo in un’eterna e imperturbata beatitudine; i mali del mondo, sottratti al dominio della provvidenza, continuano ad essere una conseguenza della spontaneità naturale. Questa condanna senza appello della teodicea, sotto qualunque specie o configurazione religiosa, teologica e filosofica, sta alla base di tutte le critiche successive di tipo scettico o ateo, da Bayle a Nietzsche (Bonacina 1996). La difficoltà razionale di far convivere l’onnipotenza e la bontà divine con la presenza del male naturale e morale tocca il suo culmine nell’orizzonte monoteistico. All’onnipotenza di Dio si oppone ora, infatti, un male che supera la pletora dei mali, gettando la sua ombra minacciosa sull’onnipotenza del Dio unico. Di qui il moltiplicarsi di filosofie e teologie che, da Agostino a

Leibniz fino ai loro epigoni contemporanei, si sono sentite in obbligo, attraverso teodicee ruotanti intorno ad alcuni temi di fondo, di spiegare l’enigma di questa coesistenza, con esiti in genere fallimentari. Esse si trovano di fronte un macigno che, dopo due millenni di inutili quanto reiterati tentativi, non sono riuscite a spostare: … come si possono affermare insieme, senza contraddizione, le tre seguenti proposizioni: Dio è onnipotente, Dio è assolutamente buono, tuttavia il male esiste? (Ricoeur 1986, trad. it. pp. 7-8).

Preoccupate della non contraddizione e della totalizzazione sistematica, le teodicee si rivelano come una lotta disperata in favore di una coerenza alla lunga impossibile. Se è vero – come non può non essere dal punto di vista della rivelazione giudaico-cristiana – che Dio è il creatore di ogni cosa, compresa la libertà umana, è difficile recidere il suo rapporto col male, e ancor piú difficile non farlo, tanto piú che, essendo per Ebrei e cristiani il loro Dio l’unico e vero, non sono piú consentite vie di fuga consistenti, come nel caso di Epicuro, nel recidere ogni rapporto tra il divino e i mali di questo mondo o nell’addebitare il male a un dio minore o secondo dio, come avevano fatto i greci e come in genere fanno le religioni dualiste. Assente, secondo il racconto biblico della creazione, nel progetto di Dio e nel tempo iniziale da una creazione che, coerentemente con la bontà assoluta del creatore, non può che essere buona, il male si insinua nelle forme misteriose del serpente: esso c’è, anche se non dovrebbe esserci. Paradossalmente, ma non poi tanto, soltanto l’assoluta bontà di Dio permette al male di esistere: se Dio non fosse tale, il male non sarebbe male. Di qui il sorgere di un paradosso sul quale si sono affaticate schiere innumerevoli di pensatori e teologi ebrei e cristiani. Spostare l’«origine» del male dal piano metafisico a quello morale, facendolo coincidere con un peccato o dei protoplasti come conseguenza del loro libero arbitrio o, prima ancora, con un peccato, che avrebbe avuto luogo in una sfera sovracosmica, di una o piú creature angeliche, non fa che acuire la contraddizione discendente dal fatto che Dio, in conseguenza della sua onniscienza, avrebbe masochisticamente accondisceso a una messa in discussione di questa sua onnipotenza, dimostrandosi nei fatti impotente. Di fronte a queste e a simili obiezioni, che conseguono inevitabilmente

nel momento in cui, all’interno della logica razionalistica tipica del ragionamento teologico occidentale, si contrappone un Dio assolutamente buono, onnisciente, onnipotente a un male radicale, è nota la risposta che ha finito per prevalere nella tradizione teologica cristiana, sia nella sua versione orientale (Origene) sia occidentale (Agostino): il male non è altro che assenza di bene (privatio boni). E questo, sia che, con Origene e la tradizione teologica ottimistica che a lui si richiama, si sia voluta sottolineare l’assoluta bontà di Dio svuotando il male di ogni realtà e consistenza, al punto da prevedere potenzialmente la salvezza di tutte le creature, sia che di contro, con il pessimismo di Agostino e della tradizione teologica che a lui si richiama, si sia insistito sulla corruzione congenita che deriva, per trasmissione, dal peccato originale dei protoplasti, fautrice di un male morale da cui soltanto la grazia insondabile di Dio libera i predestinati. Non è ora nostro compito affrontare la complessa questione di come la crisi del Dio dei filosofi, del Dio-tappabuchi di Bonhöffer, acuita in modo irrimediabile dalla riflessione sulla Shoah, sembri oggi aver congedato definitivamente la concezione di un male strumentale che esiste in vista del bene, di «fiori del male» che servono in fondo per far meglio risplendere la bontà di un Dio saggio alchimista, che tira il bene dal male, con la drammatica conseguenza, favorita dalle varie teologie postmoderne della «morte di Dio», di una banalizzazione del male. Quel che precede deve, piuttosto, aiutare a comprendere l’importanza religiosa che va attribuita a una risposta al problema del male radicale: quella dualistica. Quella che appare dal punto di vista storico come la prima forma compiuta di monoteismo e cioè il monoteismo mazdaico, si configura in realtà come un monoteismo sui generis, caratterizzato com’è, fin dalle origini, da un dualismo radicale. Anche se non esiste un accordo tra gli specialisti per quanto concerne la collocazione storica di Zarathustra (che oscilla tra X e VI secolo a.C.), lo zoroastrismo costituisce in ogni caso la manifestazione storica piú antica di questa «catena» di religioni dualiste che dall’antichità precristiana si spinge fino alle eresie bassomedievali. Il messaggio di Zarathustra, lungi dall’essere, come potrebbe apparire a prima vista, una proclamazione di fede monoteista, in realtà va inteso come una protesta contro il monoteismo e la sua impossibilità di conciliare in modo convincente l’esistenza di un male radicale e dell’onnipotenza e provvidenza divine.

Infatti, esso si caratterizza, nella sua ispirazione di fondo, come radicalmente dualistico, dal momento che il potere divino di Ahura Mazda, il principio del bene, è limitato fin dalle origini dalla presenza del principio del male, Angra Mainyu, su di un piano che precede e trascende quello della vita materiale, che da tale presenza metacosmica e dalla lotta che l’ha caratterizzata nel tempo iniziale è, a sua volta, pesantemente e drammaticamente condizionato. Trionfando sul male nel tempo delle origini, dopo una lotta che conosce varie fasi, Ahura Mazda fornisce al credente il modello della lotta e della scelta che anch’egli dovrà compiere, facendo prevalere il bene sul male. Il dualismo radicale di tipo zoroastriano, mentre depotenzia il Dio buono, lo libera da ogni responsabilità di fronte al problema dell’esistenza del male radicale. I vari mali che affliggono l’umanità, dalla sofferenza alla morte, sono il portato dell’azione di un’entità cieca e malvagia, la cui azione sfugge del tutto alla sfera d’azione del Dio buono. Il male, autonomizzato e «responsabilizzato», diventa ora il deuteragonista di una lotta che apre scenari nuovi di storia salvifica, dominata dal contrasto inconciliabile tra i due principî contrapposti, oppositori simmetrici l’uno dell’altro, trascendenti il mondo e la creazione ma attivamente presenti in essa, l’uno vitale incrementante benefico, l’altro mortifero distruttore malefico. Anche se, alla fine di un ciclo che durerà dodicimila anni, il male è destinato ad essere definitivamente sconfitto, la sua realtà incombe minacciosa lungo tutto il corso della storia umana, minaccia reale perché fondata sulla realtà ontologica della sua esistenza che si contrappone per natura alle opere del Dio buono. In questo modo, lo zoroastrismo ha fornito un tipo di risposta religiosa radicale al problema del male destinata a grande fortuna: quella offerta dai cosiddetti dualismi. Secondo questa prospettiva religiosa, la risposta all’interrogativo unde malum? non va cercata né nella responsabilità umana né nel mistero dell’azione divina, ma nella constatazione che il male deve il suo fondamento ontologico al fatto di coincidere con la realtà, la volontà e l’azione di un secondo dio di natura malvagia. I dualismi religiosi costituiscono un fenomeno di grande varietà e di notevole complessità. Essi sono, in realtà, già presenti a livello etnologico là dove, ad esempio, in collaborazione-opposizione con l’Essere supremo, compare, nell’opera di creazione, il trickster, il «briccone divino», il demiurgo imbroglione, una tipica figura impasto di volgarità, amoralità, ingordigia,

ipersessualità, che con la sua azione costituisce, in numerose mitologie primitive, l’ineliminabile volto oscuro dei racconti di creazione. Collaboratore antagonista del Creatore, egli è il responsabile dei tentativi falliti di riorganizzazione del mondo in seguito ai quali una condizione di perfezione iniziale subisce una degradazione definitiva. Come si esprime Sunawawi, il creatore buono degli Ute, una popolazione indiana nordamericana di lingua shoshoni, rivolgendosi al fratello Coyote, una tipica figura di trickster, il quale, mosso da insana curiosità, provoca il disordine che rovina la perfezione della sua opera creatrice:«Tu fai le cose sempre a rovescio, mentre io vorrei farle sempre per bene» (in Couliano 1989, p. 36). Anche se, in questo caso, i mali che il trickster, con la sua azione amorale, introduce nella sfera della creazione sono dei mali relativi, in quanto, a loro modo, cooperano alla completezza della creazione, talvolta trasformandosi in veri e propri beni culturali, da un punto di vista comparativo questa figura è stata a ragione vista come l’antesignano delle figure del secondo dio, principio del male, antagonista del dio buono, tipiche dei dualismi storici religiosi (Bianchi 1958; per i rapporti tra dualismo filosofico e dualismo religioso cfr. Pétrement 1982). Questi ultimi costituiscono un fenomeno storico complesso e imponente, che dal dualismo mazdaico, attraverso lo gnosticismo e il manicheismo, getta la sua ombra fino al catarismo medievale (per una panoramica recente cfr. Stoyanov 2000). Ciò che li accomuna è il fatto di costituire, in genere, una protesta radicale contro il monoteismo proprio sul terreno della teodicea. Alle sue risposte tradizionali, in genere tese a privare di consistenza il male o a ricondurlo nella sfera etica dell’agire umano, i dualismi oppongono, infatti, l’esistenza ontologica di un principio del male, antagonista di Dio. Nei miti dualisti, la coesistenza di questi due principî viene narrata ricorrendo a una duplice tipologia: per un verso, attribuendo l’origine del male all’esistenza ab aeterno di un principio ontologico, variamente denominato, coincidente col male e che si contrappone in modo assoluto al principio del bene (dualismo radicale); per un altro, attribuendo l’origine del male a un processo devolutivo interno alla stessa divinità primordiale (cosiddetto «dualismo mitigato»). A prescindere ora dalle concrete filières storiche, non sempre documentabili, che dal dualismo mazdaico arrivano al catarismo medievale, la prospettiva dualistica sta alla base, da un lato, di certi miti dello

gnosticismo cristiano dei primi secoli dell’era volgare, in cui fin dall’origine col Dio buono e luminoso coesiste una realtà malvagia e tenebrosa, variamente raffigurata, che tenterà di aggredire la luce impadronendosi di una sua parte, dando cosí origine a quella «mescolanza», caratteristica del «tempo di mezzo» in cui viviamo, dall’altro, del manicheismo. Quest’ultima religione costituisce, grazie al genio religioso del suo fondatore, Mani, la religione dualistica per antonomasia. Mani ha saputo fondere in modo creativo la struttura dei miti dualisti zoroastriani con una religione di salvezza tipicamente gnostica, innestandola su di una solida struttura comunitaria. Nella prospettiva del mito manicheo, il male, onnipresente fin dalle origini con il bene come nel mazdeismo, a differenza, però, di quanto avviene in quest’ultimo, viene sconfitto non piú da una scelta etica, ma da una conoscenza salvifica di tipo gnostico. Il dominio del male in questo mondo, infatti, è tale che da questa prigione si può sfuggire soltanto grazie a un’illuminazione, che rivela a chi la riceve la sua origine celeste e luminosa e, dunque, il fatto che la sua «vera» natura non ha nulla a che fare col male. In questo, Mani non faceva che riprendere temi e motivi propri dello gnosticismo del II secolo. Con una differenza essenziale, però. I miti gnostici piú originali sono caratterizzati dalla presenza di un dualismo di tipo differente, devolutivo e non radicale, che iscrive nel cuore stesso della vita divina la genesi del male. Ciò che contraddistingue questi racconti è una concezione «patibile» di Dio; l’automanifestazione della divinità, infatti, viene concepita come l’esito di un dramma che si svolge nel suo seno, in conseguenza di un pathos iscritto nel codice genetico della vita pleromatica. La mitologia gnostica presuppone l’esistenza di un principio assolutamente trascendente, il Dio sconosciuto, concepito come androgino, ad esemplificare la totalità dell’Assoluto. Il motore immobile della generazione eterna dell’androgino archetipale è la sua dimensione femminile, che in questo modo condensa nella sua attività gli elementi di negatività potenzialmente presenti in seno alla divinità, manifestandoli e permettendone, per cosí dire, l’abreazione. Essi si condensano miticamente nell’ultimo degli eoni che costituiscono la ricchezza della vita del pleroma divino, Sophia. La sua «colpa», variamente presentata, si configura come la concretizzazione delle tendenze negative latenti nel pleroma, le quali, rapprese in una secondo Sophia, la Sophia Achamoth e le sue «passioni», verranno espulse dal

pleroma, per andare a costituire sia il Demiurgo sia la materia, fondamento di un cosmo inevitabilmente malvagio. La risposta gnostica al problema del male, che ne riconduce le origini a una «dialettica» interna alla stessa vita divina, se, per un verso, si è conservata nelle tradizioni dell’esoterismo cristiano moderno, da Böhme a Schelling a Pareyson, per un altro, è presente anche nelle tradizioni cabbalistiche ebraiche e in particolare nella teoria luriana delle qelipoth o «gusci» e cioè delle forze del male (Scholem 1961). Esse preesistevano alla «rottura dei vasi», che le fanno manifestare nel mondo, dal momento che erano mescolate con le luci delle sefiroth. La necessità di purificare gli elementi delle sefiroth separandole dalle qelipoth, d’altro canto, miticamente risponde all’esigenza di dare reale forza e una separata identità al male che, per un verso, non ha, a differenza dei dualismi radicali, una realtà ontologica autonoma in grado di minacciare l’onnipotenza divina, per un altro, a differenza che nelle teodicee cristiane, non è privatio boni. Fedele, in fondo, al dettato biblico, che voleva Dio creatore sia del bene sia del male, questa tradizione dualistica fa coesistere, dunque, il male con Dio come una sua ombra, o meglio come una possibilità iscritta nella natura stessa di Dio, che la sconfigge non depotenziandola ma espellendola. Concezione, in conclusione, drammatica ma anche ottimistica: drammatica, perché ora il male spinge le sue metastasi nell’abisso divino; ma anche ottimistica, perché l’uomo, seguendo l’esempio del Dio cabbalistico, è invitato a riscoprire, attraverso la gnosi, la possibilità, propria della sua natura, di sconfiggerlo definitivamente. Bibliografia 1. La classificazione delle religioni. Kippenberg, H. G. 1997 Die Entdeckung der Religionsgeschichte. Religionswissenschaft und Moderne, Beck, München [trad. it. La scoperta della storia delle religioni. Scienza delle religioni e modernità, Morcelliana, Brescia 2002]. Olender, M. 1989 Les langues du Paradis, Gallimard, Paris [trad. it. Le lingue del paradiso, il Mulino, Bologna 1991]. 3. I monoteismi.

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Capitolo sesto Funzioni della religione

1. La costruzione dello spazio e del tempo. Sistema simbolico in grado di gettare la sua rete su un mondo caotico, delimitandone spazi, ritmi, confini, in virtú del proprio potere identificante, la religione ha svolto e continua a svolgere, sul piano individuale e sociale, una molteplicità di funzioni, latenti e manifeste, la cui decifrazione e interpretazione costituisce uno dei compiti precipui delle Scienze delle religioni. E questo tanto piú oggi, in un mondo secolarizzato e disincantato, in cui, come si è avuto piú volte occasione di osservare, accanto alle tradizionali funzioni svolte dalle religioni storiche, il religioso può agire mascherato o il sacro manifestarsi in forme insospettate. Per compiere quest’opera non facile di decifrazione, lo studioso deve acquisire un duplice sguardo. Per un verso, egli dovrà apprendere a guardare alla complessità della situazione religiosa attuale alla luce di una conoscenza non superficiale della storia religiosa del passato e delle principali funzioni che la religione ha svolto nelle società tradizionali. Per un altro verso, egli non dovrà cadere nella trappola omologante del «nulla di nuovo sotto il sole», sforzandosi di mettere in luce le profonde lacerazioni e i duraturi mutamenti che i processi di modernizzazione hanno indotto nel campo religioso. I casi affrontati in questo capitolo vanno nella prima direzione: fornire al lettore alcuni esempi significativi di importanti funzioni sociali svolte dalla religione nelle società tradizionali, funzioni che, con gli adattamenti del caso, sono all’opera ancora oggi. Soltanto cosí, infatti, è possibile cogliere continuità e mutamenti indotti dai processi modernizzanti. La necessità di delimitare, definire e identificare la massa amorfa dello spazio indiviso, distinguendo luoghi e stabilendo confini, al pari della necessità di articolare e plasmare il tempo, è una tipica e ineliminabile

costruzione sociale, una rete simbolica che sta alla base dell’identità delle differenti culture. Non deve stupire, di conseguenza, che spazio e tempo sacri siano, ugualmente, modelli fondamentali nella vita religiosa e concetti essenziali nello studio culturale comparato dei mondi religiosi. Si tratta, infatti, di due delle forme piú visibili e diffuse in cui si esprime l’esperienza religiosa. Chiaramente distinte e opposte allo spazio e al tempo profani, esse sono due vie privilegiate attraverso cui i differenti sistemi religiosi entrano in contatto col sacro: uno spazio e un tempo propri, alimentati dal ricordo dei miti di fondazione e tenuti vivi dalle pratiche rituali collegate. Un’altra funzione fondamentale della religione consiste nel delimitare, definire e identificare la massa amorfa dello spazio sociale, contribuendo a costruire quel soggetto collettivo, la comunità, che costituisce la base sociale senza la quale risulterebbe impossibile lo stesso discorso sulla religione. In questo senso, il secondo paragrafo fornisce alcune coordinate sui due momenti fondamentali della costruzione di una comunità religiosa: i riti di ingresso e di espulsione. Come hanno messo in luce in particolare i lavori di Dupront, il pellegrinaggio costituisce un punto di osservazione privilegiato per comprendere quel plesso di continuità e mutamento delle funzioni svolte dalla religione, indotto dal suo confronto con la modernità. In questo modo, può essere assunto come esempio emblematico della forza di persistenza del sacro, ma anche delle sue straordinarie capacità di adattamento e metamorfosi. Quanto alla memoria, infine, gli studi di Assmann aiutano a comprendere la funzione decisiva che essa svolge, come memoria culturale, nel costruirsi e perdurare nel tempo delle religioni come tradizioni. 1.1. Luoghi sacri. Per quanto riguarda la conquista dello spazio, un luogo sacro è il punto d’incontro tra l’uomo e il divino, comunque esso si configuri: come potenza sacra impersonale, spirito, dèi, dio. Per questo, il tema dei luoghi sacri è un tema fondamentale nello studio delle religioni. Questa centralità emerge immediatamente solo se si pensa alle innumerevoli forme che questi luoghi possono assumere, dalle forme piú diverse della natura (pietre, grotte, monti, fonti, alberi) a quelle piú diverse dell’architettura (altari, tabernacoli, templi, santuari, chiese, sinagoghe, moschee, e cosí via, fino ai luoghi dei

pellegrinaggi e a territori talmente vasti da coincidere, come nei racconti mitici del Giappone, col paese stesso). Ma che cosa fa sí che un luogo, e non un altro, sia considerato sacro? E prima ancora, che cosa si deve intendere per sacro? Come si è visto precedentemente (cfr. cap. III par. 4), le Scienze delle religioni, nella loro storia secolare, hanno fornito a questi due interrogativi risposte antitetiche, ma anche complementari. Per un verso – questa è la posizione della cosiddetta scuola fenomenologica, da Van der Leeuw a Eliade – sacro è quel luogo in cui si rivela il Sacro, e cioè una realtà ontologica che le differenti culture interpretano ed esprimono in modi differenti, ma tutti riconducibili ad una idea di fondo: il Sacro è la potenza che fonda, per chi vi crede, la «vera» realtà, opposta e distinta dalla realtà profana (Dupront 1987). In questo senso, un luogo sacro è uno spazio particolare, naturale come una montagna o una caverna, o culturale come un tempio o un santuario, in cui si conserva, in genere ritualmente, la memoria culturale di una epifania o, meglio, di una ierofania: … uno spazio sacro trae la propria validità dalla permanenza della ierofania che una volta l’ha consacrato […] Là, in quella zona, la ierofania si ripete. Il luogo si trasforma, cosí, in una fonte inesauribile di forze e di sacralità, che concede all’uomo, all’unica condizione di penetrarvi, la partecipazione a quella forza e la comunione con quella sacralità (Eliade 1948, trad. it. pp. 378-79).

Per un altro verso, però, secondo una prospettiva funzionalistica tipica delle scienze umane e in particolare dell’antropologia culturale, vi è chi ha sottolineato la dimensione non tanto oggettiva quanto soggettiva del processo. Sacro diventa allora quel luogo che viene interpretato, da una determinata cultura, come tale. In quest’ottica, il luogo è sacro non per una sua intrinseca caratteristica, dal momento che lo stesso luogo, in sé indifferente, può essere dalla medesima cultura e tradizione religiosa visto ora come sacro ora come profano, ma in funzione delle particolari «lenti focali» che una determinata cultura decide, di volta in volta, di adottare (Smith 1978). Nella cultura tradizionale dei Maori, per non portare che un esempio forse non sublime ma efficace, «il luogo destinato ai bisogni corporali, la latrina, segna il confine tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. In questo

modo diventa il luogo rituale in cui si provvede ad allontanare gli spiriti avversi e viceversa si richiede l’aiuto di quelli benevoli. Per questo è un luogo sacro, pur continuando ad essere una semplice latrina» (Brereton 1993, p. 523). Lo stesso potrebbe dirsi per la casa, un luogo in genere profano che, però, per le religioni tradizionali, in determinate situazioni come la fase di costruzione o i riti legati al focolare e al culto degli antenati, diventa un tipico luogo sacro. In conclusione, in questa seconda prospettiva un luogo è sacro non di per sé, perché possiede particolari qualità fisiche o estetiche, ma per le sue funzioni, in quanto viene interpretato e considerato tale da un determinato gruppo sociale. Pur divergendo su di un punto decisivo e cioè sul modo d’interpretare la natura del Sacro, queste due interpretazioni possono essere considerate come i due volti di una stessa medaglia. Un luogo sacro, infatti, presuppone comunque un orientamento religioso, un’apertura alla trascendenza, la convinzione che esistano dislivelli di realtà, che in esso abiti una potenza ambivalente, dotata di fascino, ma anche minacciosa e pericolosa. Nel contempo, questa sacralità svanirebbe – come dimostra la storia millenaria di determinati luoghi sacri naturali – se essa non fosse alimentata dalla fede di pellegrini e devoti, tenuta in vita dalla periodicità di azioni rituali e conservata dalla memoria collettiva della comunità dei fedeli. A prescindere dalle diatribe interpretative, quel che importa sottolineare, in una prospettiva di Scienze delle religioni, è la messa in luce delle invarianti strutturali del fenomeno, quei fonemi, quelle note elementari a partire dalle quali le differenti culture e tradizioni religiose hanno costruito variazioni pressoché infinite. Soltanto individuando queste invarianti è poi possibile costruire una tipologia storico-sistematica, che permetta di non perdersi in questa foresta di simboli e di sacralizzazioni. Esse possono essere ricondotte a quattro funzioni principali dei luoghi sacri: individuare un centro; costituire un luogo d’incontro tra gli uomini e gli dèi e tra gli stessi uomini; fornire, in quanto icona del regno superiore, un microcosmo terreno di questo regno; infine, ma anche prima di tutto, fissare un luogo dove la divinità, che vi si manifestò all’origine, possa continuare a fare sentire la propria presenza (Turner 1979). Un luogo sacro è, innanzitutto, un luogo delle origini. Comunque determinato e comunque costruito, sacro è quel luogo che, come nei racconti

mitici delle cosmogonie, fonda un mondo. La rivelazione della potenza in un luogo determinato, infatti, cambia la mappa di quel territorio, trasforma il caos di quello spazio profano in un cosmo ordinato intorno a un centro, a un punto fisso, che diventa l’asse di orientamento per tutti coloro che vi si riconoscono. Che si tratti di una montagna o di qualunque altro luogo naturale, come avviene in genere nelle culture indigene e sovente nelle religioni tradizionali, dove i vari santuari sono all’aperto e basta una pietra, come nel racconto biblico del sogno di Giacobbe (Gn 28.10-22), per determinare un luogo sacro d’importanza fondamentale per tutta la storia del popolo eletto; o che si tratti, come nelle società antiche, di templi o addirittura di vere e proprie città sacre, come Gerusalemme, la teofania o ierofania che inaugura un luogo sacro fonda, in realtà, un vero e proprio cosmo sacro. Né è un caso che in molte culture la determinazione dei luoghi sacri, dai santuari rupestri ai templi e alle città sacre dei pellegrinaggi, venga esemplata sui modelli dei racconti cosmogonici che hanno messo in essere il mondo, a ricordare che anche quel peculiare microcosmo che è un luogo sacro non solo riproduce archetipi divini, ma ne contiene e trattiene la potenza originaria e fondante. Non ci si dovrà stupire, di conseguenza, che l’architettura sacra delle piú differenti tradizioni religiose abbia ripreso e sviluppato il simbolismo cosmologico già presente nelle forme piú arcaiche di ierofania di un luogo sacro. Dal momento che si tratta di uno spazio definito, il luogo sacro diventa la lente particolare con cui guardare lo spazio circostante, una specie di mappa naturale che imprime una direzione all’esistenza e assegna una forma al mondo in cui si vive. Imprimere una direzione all’esistenza significa, in realtà, orientarla. Naturalmente, i luoghi sacri delle diverse religioni manifestano la piú grande varietà di orientamenti. Anche se il termine rimanda all’oriente e se molti edifici sacri hanno in effetti questa direzione, in realtà l’orientamento degli edifici sacri è a tutto campo, come ad esempio nel caso dei templi induisti. Né l’orientamento è di necessità geografico, cioè legato ai quattro punti cardinali, dal momento che l’oriente può coincidere, in realtà, con il luogo della ierofania, come insegna il fatto che le sinagoghe sono orientate verso Gerusalemme e le moschee verso la Mecca indipendentemente dalla loro collocazione geografica. Ciò che conta, in altri termini, è ancora una volta il valore simbolico attribuito al processo di orientamento.

Lo stesso può dirsi per un’altra caratteristica strutturale dei luoghi sacri: la loro funzione delimitativa. L’ambivalenza e la potenza del sacro inducono, infatti, a delimitare il territorio che ne è investito, usando tutte le precauzioni possibili per non cadere preda della sua carica distruttiva, configurando una simmetria rassicurante per mascherare e, in qualche modo, esorcizzare la asimmetria costitutiva del sacro. Valga per tutti l’episodio del roveto ardente, in cui l’angelo del Signore ingiunge a Mosè di non avvicinarsi al luogo della sua manifestazione: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Es 3.4). Delimitare un territorio sacro significa, nel contempo, perimetrare i confini dell’identità, geografica, mitica, simbolica, della comunità che vi si identifica e ne conserva nella memoria le origini. Proprio questa delimitazione, d’altro canto, attribuisce un valore particolare a quella zona di confine, la soglia, che separa il territorio profano (letteralmente «che sta davanti al fanum o tempietto») dal territorio sacro. La soglia, di conseguenza, diventa un tipico luogo di mediazione: una zona liminale, analoga alla situazione di liminalità che caratterizza i riti di passaggio e, nella sfera religiosa, i riti di iniziazione. Essa separa mondo umano e mondo divino, nel contempo unificandoli e congiungendoli. Essa può escludere, ad esempio, tutti coloro che sono impuri dall’ingresso nel luogo sacro, nel contempo, consacrando tutti coloro che hanno il diritto di entrarvi. Essa è un simbolo della distinzione tra cielo e terra, il mezzo che permette, come uno specchio di Alice, nell’eterno dell’istante, la comunicazione tra due mondi distinti ed opposti come quello del profano e del sacro. In questo modo, la soglia, ancor prima che lo stesso luogo sacro, svolge una funzione identificante fondamentale: soltanto chi è in grado di varcarla, infatti, ha accesso alle acque di vita del santuario o al potere taumaturgico delle reliquie o, piú in generale, agli effetti vivificanti della ierofania della potenza conservati nel luogo sacro. Se queste sono le principali caratteristiche strutturali dei luoghi sacri, queste note elementari hanno in realtà prodotto, nelle tradizioni religiose che formano il grande territorio della storia religiosa dell’umanità, innumerevoli variazioni. È possibile trovare un qualche principio ordinatore in questa foresta lussureggiante? Per i nostri scopi è sufficiente limitarsi ad alcune considerazioni di carattere tipologico, motivate sulla base di una tipologia

delle società e delle culture e, parallelamente, delle principali forme di rappresentazione del sacro come divino (cfr. cap. V par 1). Un primo tipo di luoghi sacri sono i luoghi «naturali», caratteristici delle cosiddette religioni indigene dei popoli privi di scrittura, come anche di molte tradizioni religiose antiche. Essi rispondono all’esigenza primaria di porre ordine nel caos indifferenziato dello spazio attraverso la messa in moto di un meccanismo binario oppositivo tra spazio interno ed esterno, culturalizzato e selvaggio, centrale e periferico. Nel dispiegarsi dell’universo naturale, sterminato e minaccioso nella sua indeterminatezza, appaiono all’improvviso dei luoghi, contraddistinti per lo piú da caratteristiche fisiche e segnati da un’elezione cultuale, che affonda nella notte dei tempi e che i miti fissano spesso nei loro racconti cosmogonici. Nell’indifferenziato spaziale, «essi sono luoghi dello straordinario in cui è possibile o ritrovare acque originarie o vivere in luoghi elevati, il che significa insieme possesso sensibile di un’immensa porzione di spazio e potenza sublimante di respiro; o, ancora, nei riti cosmici in cui viene esaltata la grandezza della creazione di fronte alla piccolezza dell’uomo, ricaricarsi, novelli Antei, della comunione panica con le energie primitive e impregnarsi sensualmente d’eterno» (Dupront 1987, trad. it. p. 393). Questi luoghi naturali hanno, però, anche un profondo valore culturale. Cosí, nelle religioni dell’Africa nera un luogo sacro è, in genere, prima di tutto un luogo dove si fanno sacrifici commemorativi per celebrare il patto benefico del primo occupante fondatore con il genio protettore del luogo, in cui si condensano le virtualità di produzione e di fecondità. Ciò esige delle tecniche di «ritrovamento» del luogo, posto per lo piú al di fuori del territorio abitato, nella boscaglia, nella foresta o in un luogo simile; tecniche che mescolano sapientemente nelle varie arti divinatorie capacità umana e dono divino. Una volta trovato, il nuovo territorio viene progressivamente umanizzato e culturalizzato, ma non perde per questo il suo valore, legato, in questo tipo di società, all’ideologia del lignaggio e alla conservazione, attraverso la memoria culturale del gruppo, dell’evento mitico del primo incontro con lo spirito, il genio, l’antenato del clan. Questo luogo verrà conservato, anche attraverso spostamenti fisici, perché esso costituisce un potente fattore identificante: la sua perdita o scomparsa minaccia, infatti, l’esistenza stessa del gruppo che vi si riconosce. Ovviamente, questo tipo di luoghi sacri è caratteristico di popolazioni

sedentarie, in genere dedite all’agricoltura. Le cose cambiano con le popolazioni nomadi. Celebre il caso dei Nuer del Sudan, studiati dal grande antropologo inglese Evans-Pritchard. Il Nuer, infatti, si sente a casa sua là dove si trova il suo bestiame: il suo altare è un palo leggero, che egli pianta dovunque le sue migrazioni lo portino. Gli spiriti che lo proteggono e gli antenati che lo sorvegliano non sono, anche loro, legati al suolo e sono presenti dovunque vada il bestiame: le bestie dedicate a questo o a quello spirito sono, in altri termini, i suoi luoghi sacri ambulanti, il suo santuario portatile. L’emergere, come avviene nelle religioni antiche, di strutture statali complesse e delle cosiddette città-stato, ha favorito la nascita di forme religiose profondamente diverse. Al mondo indifferenziato e spesso non facilmente localizzabile degli spiriti e all’Essere supremo tipico delle religioni indigene succede ora un cosmo divino gerarchicamente ordinato di tipo politeistico (cfr. cap. V par. 2). In corrispondenza con l’emergere di forme di regalità sacra, anche gli dèi supremi di questi pantheon, che regnano sulla natura, ma soprattutto governano, attraverso patti e sacrifici, il cosmo politico, vengono localizzati e onorati in luoghi sacri particolari: i templi, che ne costituiscono la residenza abituale. Si tratta di luoghi importanti per la memoria culturale delle varie società, alimentata da culti continui diretti da famiglie sacerdotali particolari. Il luogo sacro, in certo senso, si burocratizza. L’emergere, infine, di religioni di tipo profetico, dallo zoroastrismo ai profeti dell’antico Israele, dal cristianesimo all’islam, sempre nella zona della cosiddetta mezzaluna fertile, è destinato, a sua volta, in parallelo con l’emergere di imperi universali e di credenze monoteistiche, a influire in modo decisivo sulla natura e la funzione dei luoghi sacri. Di queste trasformazioni, merita di essere sottolineato un aspetto fondamentale: la loro spiritualizzazione. Il luogo sacro, infatti, può anche essere un luogo della mente, un luogo spirituale, in quanto tale liberato da tutti i fardelli e i pericoli della materialità. La tendenza a istituire luoghi sacri è certo universale, ma altrettanto universale risulta la tendenza a negare la possibilità di attribuire una precisa collocazione alla divinità. La tradizione devozionale indú, come per altro quella delle altre grandi religioni, si rivolge non a caso verso due direzioni apparentemente contrapposte: da una parte, verso divinità situate in luoghi

determinati, dall’altra, verso il rifiuto della ricerca della divinità in luoghi diversi dalla propria interiorità. «Perché inchinarsi continuamente nella moschea e camminare con fatica fino alla Mecca per vedere Dio? » si chiede il mistico Kabīr (in Hess 1983, p. 74). Interrogativi e dubbi che, come conseguenza della critica all’antropomorfismo divino in funzione di un concetto trascendente della divinità, si ripresentano piú volte nella storia di differenti tradizioni religiose. Si tratta di una tensione tipica dei tre monoteismi abramitici, manifestata innumerevoli volte con accenti diversi. Nel cristianesimo, in particolare, ciò ha alimentato nei secoli una contrapposizione vitale fra l’antica fede nella sacralità dell’ambiente di culto, conservata in particolare nel cattolicesimo, e la fede profetico-evangelica nell’infinità di Dio e nella sua presenza spirituale, conservata in particolare nel protestantesimo. Di conseguenza, da un lato si assiste al proliferare di santuari come luoghi sacri in cui si conserva la memoria collettiva di una particolare ierofania, mariana o di un santo; dall’altro vige l’idea – soggiacente, da un punto di vista tipologico, anche alla sinagoga e alla moschea – che l’edificio religioso è il luogo di riunione della comunità; da un lato, agisce il convincimento – che sta alla base della costruzione delle chiese cristiane, dalle testimonianze piú antiche alle magnifiche cattedrali gotiche e rinascimentali – che il punto focale dell’edificio sacro sia l’altare dove si celebra e si rinnova il sacrificio del Cristo, conservando in questo modo la concezione tradizionale dell’edificio religioso come luogo sacro che tiene desta la memoria della presenza divina sub specie sacrificii; dall’altro, vi è la convinzione che il punto focale dell’edificio non sia l’altare sacrificale, ma un pulpito o un luogo di lettura e commento del testo rivelato, che non esige la presenza di alcuna speciale categoria di sacerdoti e professionisti mediatori del sacro, ma soltanto dalla comunità dei fedeli riuniti. 1.2. Il tempo sacro: la festa. Le piú diverse tradizioni religiose hanno riletto e riplasmato quel fenomeno sociale che è il tempo in funzione delle loro peculiari logiche. Cosí, mentre le tradizioni monoteistiche, che presuppongono l’esistenza di un unico Dio creatore di un unico mondo, hanno in genere interpretato il tempo come una creazione divina, contrapponendogli la dimensione dell’eternità atemporale in quanto caratteristica della divinità, altre tradizioni non

monoteistiche, come l’induismo, hanno riletto in modo diverso il rapporto tra divinità e tempo. Mentre nei Veda il tempo nasce col sacrificio ed è mantenuto in vita o distrutto dal sacrificio, fino a produrre una vera e propria concezione del Tempo assoluto, già l’Atharva Veda relativizza quest’onnipotenza del Tempo, ricordando che, al di sopra, vi è un vaso a cui anch’esso attinge, ponendo, in altri termini, il problema dell’atemporalità, identificata con il brahman. I saggi upanishadici, poi, interessati unicamente all’immortalità raggiungibile attraverso il ricongiungimento dell’ātman col brahman, nella loro critica dell’impermanenza e della natura dell’atto karmico, hanno interiorizzato il processo di conquista e superamento del tempo esterno; e ciò, a partire da una rilettura in chiave spirituale e sullo sfondo delle varie pratiche yogiche fondate sul legame tra il soffio di vita esterno, che con i suoi ritmi regola la vita del cosmo, e il soffio interno, con lo scopo di giungere, attraverso una vera e propria metafisica dell’istante, a vincere definitivamente la ruota del tempo dominata dagli effetti del karma e concretamente realizzantesi come ciclo di reincarnazioni. Non sarebbe difficile moltiplicare gli esempi. Se però si vuol comprendere la logica che guida la costruzione del tempo sacro e vederlo concretamente in opera, forse l’esempio migliore da prendere in esame è quello offerto dalla festa. La festa, secondo una definizione corrente, «è il tempo per eccellenza, il tempo “distinto” dall’insieme della durata in quanto particolarmente potente» (Van der Leeuw 1970, p. 380). Si tratta di una definizione felice, che coglie un aspetto fondamentale del fenomeno. La festa, infatti, è portatrice di una temporalità particolare, che trascende le proprietà del nostro tempo fisico; una temporalità in grado di violarne l’omogeneità e la non ripetitività. Secondo un codice periodico fisso, ogni settimana, ogni mese, ogni anno, alla stessa data, la comunità, il villaggio, la città, la nazione si ridestano dal letargo del tempo lavorativo e quotidiano per celebrare un evento particolare, un personaggio carismatico, un mito di fondazione: le stesse date riportano in vita, in virtú del potere ripetitivo ma nel contempo rigeneratore del tempo sacro, gli stessi eventi fondanti, che il tempo profano pareva aver consegnato a un oblio senza ritorno. La festa è dunque, prima di tutto, il «diverso» temporale, la ricerca di

un’alterità, di una differenza, contraddistinta – come sembrerebbe voler significare lo stesso radicale che sta alla base del latino festa, plurale di festus (dies) – da un quid intimamente congiunto con la sfera del sacro (Benveniste 1969, pp. 383-84). Secondo la tradizione romana antica infatti, Numa, l’istitutore del calendario, dopo aver diviso l’anno in mesi e i mesi in giorni, divise questi ultimi in giorni festivi, consacrati agli dèi, e giorni lavorativi, devoluti agli uomini perché amministrassero i loro affari privati e pubblici (Macrobio, Saturnalia 1.16.2). In questo modo, ferias observare significava offrire agli dèi un tempo prelevato dalla trama profana per ottenerne in cambio il favore e la grazia. Come distinguere, d’altro canto, una festa religiosa da una festa politica o da una festa che comunque religiosa non è? O, per altro verso, quali sono i tratti tipicamente religiosi che ci permettono di distinguere una festa religiosa da una profana o di individuare, all’interno di una stessa festa, la sua dimensione di tempo sacro? La domanda non paia peregrina: le dinamiche della secolarizzazione, infatti, hanno inciso profondamente non solo sul processo festivo, ma anche sul nostro stesso modo di intenderlo e di interpretarlo. Infatti, a partire dalla fine del Seicento, l’azione congiunta di polemiche utilitariste, preoccupazioni ecclesiastiche e illuminismo progressista ha prodotto anche nei paesi cattolici, insieme al tentativo di ricondurre le feste all’interno dei limiti della muratoriana «regolata devozione», una drastica riduzione del loro enorme numero: … l’odio per lo sperpero si allea con il timore per tutto ciò che di smodato le feste generano. La razionalità economica segue lo stesso tracciato della predicazione morale e religiosa in quanto le «sante giornate consacrate alla devozione» sono, nella pratica, diventate occasioni di ubriachezza e libertinaggio, di risse e delitti (Ozouf 1976, trad. it. p. 3).

I processi scristianizzanti messi in atto dalla Rivoluzione francese, sotto la spinta della pedagogia rousseauiana secondo la quale la festa è uno strumento fondamentale, oltre che di divertimento popolare, anche di costruzione civile e di unificazione sociale, portano poi alla formazione di un sistema di feste proprio della Rivoluzione allo scopo, appunto, di rendere manifesto, eterno,

intangibile il nuovo legame sociale. In questo modo, si inaugura, per un verso, un tipo di festa secolarizzata destinata a grande fortuna, per un altro, quel processo di lungo periodo che porterà, in tempi a noi piú vicini, alla progressiva dissoluzione del fenomeno festivo, a cui il colpo decisivo pare venire dal trionfare del moderno individualismo. La concezione tradizionale della festa che discoprono le Scienze delle religioni è profondamente diversa. Essa emerge con particolare evidenza nelle pratiche festive delle popolazioni indigene. La festa è un dono degli dèi; essa proviene da un altro mondo, da un altro tempo, appunto con lo scopo di gettare un ponte, grazie alla mediazione divina, con questo mondo e con questo tempo. Nel tempo della festa, di conseguenza, uomini e dèi sono vicini; ciò rende possibile quella metamorfosi, che è uno degli scopi principali della festa. La festa è cosí, per un verso, intimamente collegata con il tempo del mito, per un altro, è celebrazione rituale, che periodicamente rinnova, attraverso una forma particolare di anamnesi, l’evento fondante. Essa è un evento collettivo, nel senso che il soggetto della festa è una comunità che si ritrova e, mentre celebra l’evento fondante, celebra nel contempo se stessa. Proprio per la sua importanza, la festa esige una sorta di preparazione, di iniziazione, di sacrificio. Nel contempo, essa presenta tratti ludici: canti, danze, gioia. Un ulteriore tratto distintivo della festa tradizionale è dato dalla necessità dell’accumulo, dello scambio di doni, di un eccesso, di una dilapidazione dei beni cioè che, come nel potlach di certe tribú del Nord America e nelle distruzioni di beni che esso comporta, ha per scopo una sorta di rigenerazione della comunità attraverso un consumo disinteressato. Questi tratti sono lungi dall’aver esaurito la sintassi della festa propria delle popolazioni indigene. Si pensi alle feste stagionali che si sono conservate a lungo anche nel mondo contadino e nelle collegate tradizioni folkloriche. Queste presentano alcuni caratteri comuni. In origine, esse tendevano a drammatizzare la conclusione di un periodo di esistenza e a procurare, attraverso procedure semimagiche, fertilità, prosperità, sole e pioggia per il futuro. Esse sono riconducibili a uno schema comune, comprendente in primo luogo i riti di mortificazione, che simboleggiano l’eclisse temporanea della comunità, cui seguono i riti di purificazione, attraverso i quali vengono eliminati tutti gli elementi nocivi che potrebbero compromettere il suo benessere futuro; poi ancora i riti di rinvigorimento, che mirano a stimolare

la crescita dei raccolti, la fecondità degli uomini e degli animali e a garantire la quantità necessaria di sole e di pioggia per tutto l’anno; infine, quando il nuovo ciclo di vita è ormai assicurato, si celebrano i riti di giubilo in cui i membri della comunità, nel corso di un pasto in comune, rinsaldano i loro vincoli di parentela. In questa occasione, le ombre degli antenati e dei parenti defunti si ricongiungono temporaneamente con loro. In questo tipo di cerimonia festiva possiamo far rientrare la «Grande festa», il capodanno, un importante complesso religioso proprio di società dai piú svariati livelli culturali, ma che nelle società indigene trova la sua forma piú compiuta. Anche se questa sua diffusione universale deve ricordare come esso muti forme, significato, funzione da un ambiente culturale all’altro, pur tuttavia, limitando per ora il nostro discorso alle religioni indigene, se è vero che da un punto di vista culturale la festa svolge funzioni diverse a seconda del livello economico in cui vivono le differenti società, è altresí vero che essa rappresenta, come ricorda Lanternari, «una provvisoria orgiastica evasione dalla storia e dal mondo, espressione culturalizzata di una condizione di crisi» (1976 2, p. 542). Condizione di crisi che, occorre aggiungere, scatenando particolari emozioni, mette in moto sia un processo drammatico e ludico che svolge importanti funzioni catartiche, sia un processo rituale ricco di particolari simbolismi che affondano le loro radici nel mito di fondazione. Il capodanno ci ricorda, in questo modo, il nesso fondamentale che le feste conservano, nelle religioni tradizionali, col ciclo della natura e della produzione, rammentandoci, di conseguenza, il nesso con una particolare concezione del tempo, di tipo ciclico, come è stato sottolineato con vigore da Eliade. Questo tipo di festa si è conservato anche nelle religioni antiche. Accanto alle continuità, però, occorre ricordare le trasformazioni che le festività legate al ciclo della natura conobbero come conseguenza dell’instaurarsi di un tipo di religione divenuta espressione ormai di una diversa struttura sociale e forma statale. Le stesse cerimonie festive, collocate su questo nuovo sfondo, acquistano un differente significato, oltre che religioso, sociale e politico. Tipico è il modo in cui le cerimonie stagionali sono state rilette nei paesi della Mezzaluna fertile, dall’Egitto alla Mesopotamia, come mito cioè di fondazione della regalità sacra. Nei racconti mitici che accompagnano queste cerimonie emerge una serie di temi ricorrenti: il periodo iniziale di disordine e di caos, il

combattimento che si instaura quindi tra le potenze del bene, per lo piú collegate alle forze positive della natura, e le contrastanti forze del male, che minacciano periodicamente il benessere della natura e, quindi, degli uomini. Dopo vicissitudini varie, trionfano le forze del bene, con la proclamazione del vincitore, appunto un re, sovente con l’inaugurazione di una nuova età del mondo. In questo modo, tempo degli inizi e tempo della fine si collegano strettamente. Gli eventi ricordati, infatti, vengono, per un verso, proiettati nel passato come cosmogonia e, per un altro, nel futuro come escatologia. Ciò che accade al termine di ciascun periodo vitale si crede sia avvenuto anche all’inizio del presente ciclo dell’esistenza del mondo: il dio supremo (o un suo rappresentante) vinse il mostro ribelle, simbolo delle forze distruttrici del caos, che minacciava l’ordine della natura, salí al trono, promulgò nuove leggi e offrí un banchetto ai suoi sudditi e talvolta anche agli antichi eroi. Quando l’epoca attuale avrà termine, egli ripeterà i medesimi gesti. Il processo è dunque ciclico: come ricordava Virgilio, «il grande ordine dei secoli nasce di nuovo». In questo modo, però, le cerimonie stagionali, che presso le popolazioni indigene erano in funzione del rinnovamento della natura, oltre che della comunità, si sono trasformate, in queste religioni antiche, in paradigmi dell’esistenza umana nel tempo, modelli di fondazione della regalità sacra. Quali sono, ora, i cambiamenti piú significativi che il tempo sacro della festa conosce in una religione di salvezza? Dall’ebraismo al cristianesimo, dall’induismo al buddhismo, dallo zoroastrismo al manicheismo, esse hanno conservato, almeno inizialmente, un legame con le feste legate ai cicli stagionali, anche se le hanno rilette e riplasmate in funzione dei loro scopi particolari. Si prenda il caso dell’induismo (Jackson 1986): ciò che colpisce anche il frequentatore piú superficiale delle feste indú è, a prima vista, la loro straordinaria varietà, effetto della varietà di culture, lingue, tradizioni religiose in gioco. Eppure, dietro la straordinaria varietà delle specie locali, non è impossibile scorgere alcune costanti, a cominciare dalla presenza di forme di devozione popolare che, anche in India come presso altre religioni di salvezza, dal cristianesimo all’islam, recitano una parte decisiva nella preservazione e trasmissione dell’elemento festivo. A questa costante, altre se ne potrebbero aggiungere, come «l’importanza del tempo e della stagione; il conseguimento del merito e l’allontanamento del peccato; il digiuno e il fare

voti; il posto della religione in casa e nel tempio o nei luoghi di pellegrinaggio; la parte recitata nelle festività da membri differenti della comunità – ad esempio, donne o differenti gruppi castali» (Jackson 1986, pp. 107-8). Né si può dimenticare, come del resto avviene in altre feste popolari, ad esempio quelle cristiane, lo sforzo di collegare le divinità locali con le divinità maggiori del pantheon induista. Religione etnica, l’induismo, pur nell’estrema varietà delle sue feste, non conosce festività legate all’azione di un fondatore, in questo differenziandosi profondamente sia da quei suoi polloni, come il giainismo, il buddhismo e il sikhismo, che proprio in questo tipo di celebrazioni trovano una caratteristica fondamentale del loro tempo festivo, sia, a maggior ragione, dal tempo festivo dei tre monoteismi abramitici o di altre religioni storiche come il manicheismo o il parsismo. Come insegna, infatti, la storia del Natale cristiano, centrale diventa, in questo tipo di religione, la celebrazione del «fondatore» e della sua vita, dall’origine alla morte. Essenziale diventa, di conseguenza, la costruzione di un proprio calendario festivo. Cosí, nel caso del baha’ismo, una nuova religione sorta in seno all’islam nell’Ottocento e che predica tra l’altro il principio dell’unità dell’umanità, si afferma l’aspirazione ad avere un unico calendario, che si trova rivelato nelle scritture. In attesa di riuscire ad imporre questo calendario, il baha’ismo sviluppa un duplice caratteristico comportamento: mentre all’interno cerca di praticare il proprio calendario festivo, verso l’esterno ha un atteggiamento di rispetto e di conciliazione delle forme di tempo festivo delle differenti tradizioni religiose dominanti nei vari paesi in cui sono presenti minoranze baha’i. Si tratta di un comportamento che riproduce quello del cristianesimo antico e della lunga e complessa «conquista» di un tempo cristiano, e che, d’altra parte, ritorna in altre religioni universali, ad esempio nel buddhismo. A differenza delle religioni storiche come il cristianesimo, infatti, il buddhismo insegna che se, per un verso, la religione ebbe inizio con l’illuminazione del Buddha, per un altro, la Vera Dottrina è sempre là, egualmente vera, che la si predichi o non la si predichi, che la si realizzi o non la si realizzi; sicché il buddhismo non ha, a rigore, un inizio temporale, dal momento che la serie dei Buddha – tra cui anche il Buddha storico, quello che noi siamo abituati a considerare come il fondatore del buddhismo –, non ha inizio (anche perché il mondo non ha inizio) né fine. Ciò aiuta a

comprendere l’atteggiamento assunto nei confronti del calendario e, di conseguenza, dei differenti sistemi festivi che il buddhismo ha incontrato nella sua espansione missionaria. Il variare della cronologia – che si oppone alla (relativa) fissità dell’anno liturgico cristiano – oltre che con il coesistere di elementi solari e lunari, si spiega in primo luogo con la capacità del buddhismo di coesistere con altre culture e altre fedi, fino a celebrare feste di altre religioni come il Natale cristiano. La cronologia delle feste ruota in genere intorno alla celebrazione dei momenti fondamentali della vita del fondatore, né è un caso che in determinate circostanze si tenda a far coincidere, per festeggiarle con un’unica ricorrenza, le date della nascita, dell’illuminazione e della morte. Del pari, data la centralità che, con l’eccezione del Giappone, il clero riveste nella pratica buddhista, non ci si dovrà stupire che molte feste non siano, in realtà, che modi di autocelebrazione della comunità monastica. Un discorso a parte merita, infine, il capodanno buddhista: pur essendo una festa per tutti i buddhisti, esso non sempre presenta, almeno agli occhi di un osservatore esterno, tratti tipicamente religiosi, anche perché non ruota, come succede normalmente, intorno al monastero. Ad un estremo della scala vi è il capodanno cinese, che ha perso ogni contatto col buddhismo, all’altro, la celebrazione del nuovo anno presso i buddhisti tibetani, una festa che, per quanto in buona parte secolarizzata, contempla pur sempre la dedicazione del paese al buddhismo. 2. La comunità religiosa: ingresso ed espulsione. Come la religione è in grado di plasmare a suo uso e consumo lo spazio e il tempo, cosí è in grado di ritagliare quel particolare tessuto sociale costituito dalle comunità e dai vari tipi di gruppi sociali. Per mettere in luce queste funzioni, possiamo prendere in esame due fenomeni: come la religione accompagna l’ingresso in una comunità e precisamente il fenomeno dell’iniziazione; e come può sancirne l’uscita, legittimando o provocando una espulsione. 2.1. L’iniziazione. «Iniziazione» è un termine derivato dal vocabolario sacrale latino (initium), dove indica la cerimonia mediante la quale si «entra» in un’associazione misterica, partecipando ai benefici e alla salvezza che da tale ingresso si ritiene derivino. Per estensione, il termine è stato applicato a istituti culturali, sociali e religiosi diversi e non omogenei, che comprendono:

il complesso dei riti di iniziazione tribale; i riti di ingresso in società segrete; le regole d’accesso a vocazioni individuali (per esempio l’iniziazione sciamanica); le regole di accesso a forme religiose chiuse (società misteriche) da parte di singoli individui; le forme di accesso di singoli a particolari stadi della vita religiosa (per esempio i sacramenti cristiani come forme d’iniziazione o l’ingresso nei vari ordini monastici della tradizione cristiana e buddhista). L’applicazione del termine a fenomeni cosí diversi dal punto di vista strutturale e storico solleva non pochi problemi interpretativi. Cosí, se è vero che i riti d’iniziazione tribale costituiscono un fenomeno importante e caratteristico dei popoli privi di scrittura, si discute se e fino a che punto forme analoghe di iniziazione siano rintracciabili anche presso società antiche (Brelich 1969) e in che senso ed entro che limiti si possa parlare di iniziazione nel contesto della società moderna (Eliade 1959). Una distinzione fondamentale, che tiene conto dei processi di differenziazione sociale e, di conseguenza, del differente carattere che l’iniziazione può assumere a seconda che essa abbia luogo in una società piú o meno complessa e stratificata, individua due tipi di iniziazione Il primo tipo, proprio delle società illetterate, è un rito o un complesso di riti di integrazione sociale del singolo maschio o della singola femmina nella comunità degli adulti. Si tratta di riti di carattere obbligatorio che mirano a socializzare l’individuo, iniziandolo a una nuova vita, in genere di adulto, che lo inserisca in modo definitivo nella propria cultura. In genere, questi riti hanno luogo in concomitanza con situazioni di crisi vitale, che vengono simbolicamente drammatizzate e ritualmente controllate dal gruppo che gestisce il processo rituale perché l’iniziando, attraverso il superamento di prove particolari e l’apprendimento di conoscenze determinate, acquisisca la sua nuova e definitiva identità sociale. Il secondo tipo di iniziazione, che si ritrova anche in società antiche e di ancien régime, comprende i rituali che segnano l’ingresso del singolo, liberamente deciso, in una comunità ristretta di individui non fondata su classi d’età o su distinzioni naturali come il sesso, ma su motivi di ordine religioso, che perseguono uno scopo genericamente salvifico. Poiché un elemento ricorrente di questi gruppi è la disciplina dell’arcano, un’espressione ricorrente per designarli è «società segrete». Si tratta di raggruppamenti in cui si entra appunto attraverso particolari rituali

di iniziazione, in parte simili in parte differenti dai rituali di iniziazione tribale. Anche se ciò che ora deve interessarci è il modo in cui la religione contribuisce in modo decisivo alla costituzione di un tipo particolare di comunità, le comunità religiose, per comprendere meglio la specificità dei loro riti di ingresso converrà preliminarmente ricordare i tratti principali delle iniziazioni tribali. 2.2. Riti di iniziazione tribali. Presso gli antropologi, è invalso l’uso di distinguere i riti di iniziazione veri e propri dai cosiddetti riti di pubertà in conseguenza della loro differente funzione sociale. I secondi comprendono quei riti che danno rilievo alla pubertà come evento importante del ciclo vitale, ma non comportano di per sé l’ammissione in un determinato gruppo sociale. Si tratta di riti che non hanno a che vedere con la posizione sociale dell’interessato; essi mirano infatti ad accompagnare ritualmente l’emergere dei segni puberali, come la mestruazione presso le fanciulle, per facilitare e certificare il passaggio alla condizione fisiologica di adulto. Per questo, nella maggior parte dei casi il rito puberale è celebrato privatamente, a cura della famiglia, a differenza dei riti di iniziazione, che hanno un carattere pubblico, in quanto celebrati dalla comunità e dai suoi rappresentanti, e riguardano non il singolo individuo, ma un gruppo di candidati. Anche se in casi determinati essi possono essere celebrati in coincidenza con la pubertà, il tempo della loro celebrazione è culturalmente variabile: si può essere iniziati ben prima dell’età puberale come anche molti anni dopo che questo passaggio fisico ha avuto luogo. A differenza dei cosiddetti riti di passaggio (Van Gennep 1909, Gluckmann 1962), che aiutano il singolo individuo a superare le situazioni di crisi fondamentali della vita dalla nascita alla morte, i riti di iniziazione svolgono una serie di funzioni essenziali, dal punto di vista sociopolitico e culturale, di ingresso nel gruppo degli adulti. Nelle società senza stato queste tecniche perseguono prima di tutto uno scopo genericamente politico: contribuire alla perpetuazione delle tradizioni secolari su cui si fonda il particolare ordine di queste società. L’iniziazione, da parte degli adulti, di gruppi di giovani serve a controllare e a incanalare i rischi sempre possibili d’irruzione di una cultura nuova di cui è portatrice la generazione che sta per succedere. In questa prospettiva, «iniziare» significa riunire simbolicamente le condizioni perché possa darsi una riproduzione e trasmissione dei

comportamenti, delle norme, dei valori del gruppo. Per questo, l’iniziazione svolge anche un’importante funzione di «cinghia di trasmissione» culturale: iniziarsi, significa anche apprendere le «parole della tribú», iscrivere nella propria memoria il patrimonio, prima di tutto mitico, costitutivo della vita sociale. Per questo i riti di iniziazione posseggono un ricco simbolismo, ruotante intorno al tema della morte-rinascita, che mira ad accompagnare il trapasso dalla condizione sociale di vita precedente a quella nuova. Nel costruire questo passaggio, i riti di iniziazione operano in genere secondo quel meccanismo di separazione, che è stato messo in luce da Van Gennep a proposito dei riti di passaggio e approfondito da Turner (1969) come momento fondante del processo iniziatico. Si tratta di una struttura tripartita: due condizioni o stati si oppongono, separati da una linea di confine invisibile e carica di un forte significato simbolico. L’iniziazione contribuisce in modo determinante a definire queste linee di demarcazione sociale: tra membri di un gruppo ed esterni, tra iniziati e non iniziati, tra stati sociali diversi. Separato dal gruppo originario, ma non ancora immesso nel nuovo gruppo, l’iniziando si trova cosí in una tipica situazione di confine, di liminalità, ambigua e paradossale, che viene espressa facendo ricorso a un ricco simbolismo. Una funzione essenziale dei riti di iniziazione tribale è quella di iniziare i giovani di entrambi i sessi allo stato adulto. Attraverso il suo simbolismo particolare, il rito dimostra che la maturità è una condizione sociale, non semplicemente una condizione naturale legata alla crescita fisica. Anche se i membri delle differenti società possono interpretare questi processi come processi naturali, in realtà i rituali di iniziazione allo stato adulto svolgono la tipica funzione di legittimare distinzioni sociali date culturalmente e non naturalmente. Caratteristica distintiva dei riti di iniziazione allo stato adulto è il loro aspetto costrittivo, nel senso che tutti gli individui devono celebrarli, pena l’esclusione dalla stessa società degli adulti. Tra i Gisu dell’Uganda, per esempio, nessun maschio, per quanto anziano, è considerato adulto e dunque autorizzato a bere birra con gli altri adulti della tribú, se prima non è stato iniziato; anche se sposato e con figli, un non iniziato viene in genere indicato con disprezzo come «fanciullo». Ciò presuppone la pubblicità del rito di iniziazione: tutti sanno chi non è stato ancora iniziato o si è sottratto al

processo e lo indicano in modo derisorio per spingerlo a compiere questo tipico atto di ingresso nella società degli adulti (Lafontaine 1985, p. 103). Dato il carattere centrale e pubblico di questo tipo di iniziazione, non ci si dovrà sorprendere che il simbolismo implicato nel rito si riferisca ai valori centrali del gruppo sociale in questione, né che la cerimonia sia compiuta dalle autorità riconosciute della comunità o dai rappresentanti piú autorevoli del clan e del gruppo parentale: infatti, il diritto di celebrare questi riti, promuoverli o finanziarli è un indizio rivelatore dell’autorità politica posseduta. I riti tribali di iniziazione allo stato adulto perseguono inoltre lo scopo di rinforzare le distinzioni sessuali, confermando la divisione sessuale del lavoro. Si tratta di una funzione socialmente importante in società prive di un’organizzazione sociale complessa basata su classi, caste o divisioni sociali ereditarie. Ricordando e legittimando le genealogie sia maschili sia femminili, l’iniziazione fornisce una conferma del significato sociale e politico dei gruppi di una determinata società e del loro collegamento con le distinzioni di genere. Solo raramente fanciulli e fanciulle vengono iniziati insieme. Gli abitanti dell’isola Wogeo, sulla costa nord della Nuova Guinea, ritengono che il contatto tra i due sessi indebolisca sia gli uomini che le donne: un’idea che trova conferma nei loro riti di iniziazione allo stato adulto. I riti di iniziazione dei Gisu dell’Uganda si fondano su una consapevole e ribadita differenza tra maschio e femmina, ritualmente rappresentata ricorrendo al tipico simbolismo del passaggio dall’infanzia allo stato adulto. I fanciulli conoscono un’iniziazione che ha al suo centro l’operazione della circoncisione. Si tratta del rituale pubblico piú importante, un processo che coinvolge l’intera società. Le fanciulle sono escluse da questo processo, che tende a confermare il potere dei gruppi maschili tipico di una società patrilineare. Nell’insieme, si tratta di un rituale che, mobilizzando il complesso delle risorse simboliche di questa società, mira a riconfermare la distinzione sociale tra il gruppo dei maschi adulti, detentori del potere, e le donne. Non a caso l’iniziando è identificato con una donna, caricata di un simbolismo negativo (debolezza, dipendenza, ecc.), caratteristiche che grazie all’iniziazione saranno trasformate nel loro polo positivo maschile (forza, potere, ecc.). Incarnate nei singoli iniziandi, queste idee astratte si trasformano in simboli viventi in

grado, attraverso il processo di iniziazione, di manifestare, trasmettere e legittimare il codice sociale del gruppo e in particolare il suo modo di concepire la divisione dei generi sessuali dal punto di vista sociale (Lafontaine 1985). Riassumendo, l’iniziazione svolge la funzione centrale di inserire a pieno titolo l’iniziando nel gruppo sociale di appartenenza. In questo modo, il gruppo acquisisce un nuovo membro pronto a sposarsi – dunque a promuovere il necessario incremento del gruppo – e a farsi carico delle differenti responsabilità politiche e culturali che gli saranno assegnate a seconda della cultura in questione, dalla ricerca dei mezzi di produzione e sostentamento alla difesa del gruppo stesso. In questo senso possono valere in generale le considerazioni che Elkin avanza a proposito delle iniziazioni proprie delle tribú australiane: Dal punto di vista della tribú, il novizio viene trasformato, attraverso la disciplina e gli insegnamenti, in un degno membro della società e in un futuro custode della sua sacra mitologia. Oltre a ciò, i sentimenti sociali da cui dipende l’unione della collettività vengono inculcati nella sua mente, e al tempo stesso rafforzati nelle menti di quanti presenziano alle cerimonie. Queste hanno un’importante funzione sociale anche a prescindere dalla persona dell’iniziando, il quale non fa che fornire l’occasione per il loro compimento […] Ciò ha lo scopo di far partecipare tutti i presenti ad attività comuni, di natura altamente emotiva, strettamente connesse con le credenze, il comportamento sociale e la vita della tribú (Elkin 1961 4, trad. it. p. 171).

In effetti, se il rito di iniziazione nel suo complesso può a ragione essere assunto come la messa in atto drammatica di un processo di trasmissione e legittimazione dei valori sociali del gruppo, ne consegue che gli iniziandi non sono soltanto soggetti, ma anche oggetti del rito, sono uno degli elementi del processo rituale, non il loro centro. Al rito assiste l’intera collettività, a conferma che quel che è in gioco è la riattualizzazione dei valori sociali del gruppo. Dal momento che i rituali di iniziazione sono ugualmente importanti per i novizi e per il pubblico degli adulti che vi assiste, ciò implica, tra l’altro, che qualunque spiegazione di questi processi deve includere tutti i partecipanti. Anche se le sequenze cerimoniali variano col variare dei contesti culturali

e, di conseguenza, col mutare sia dei simbolismi rituali sia degli scopi socialmente perseguiti, l’analisi comparata dei riti di iniziazione tribali ha messo in luce l’esistenza di uno schema soggiacente al mutare dei concreti processi rituali. Questo schema, di natura ideal-tipica, comprende i seguenti momenti: in una certa epoca della vita (che corrisponde sovente ma non necessariamente con l’età della pubertà), comunque determinata socialmente, il gruppo degli iniziandi viene allontanato dal gruppo sociale di appartenenza, in particolare dalla famiglia e dalla madre. I neofiti vengono isolati in una zona separata, carica di un particolare valore sacro, per essere in seguito affidati agli officianti del rito, spesso coincidenti con anziani scelti per il loro prestigio, la loro esperienza e/o la loro autorità. Nel periodo di isolamento i neofiti vengono sottoposti a una serie di prove (digiuni, astinenze, mutilazioni soprattutto sessuali: per i maschi, la prova piú diffusa è la circoncisione). Nel contempo o successivamente, vengono loro comunicati insegnamenti particolari, in forma diretta o simbolica, come modo di trasmissione dei valori tradizionali del gruppo. Al termine del periodo di isolamento, spesso dopo opportuni riti catartici che purifichino l’iniziando dai valori sacrali di cui è stato caricato durante la fase di separazione, il neofita, ormai un iniziato, rientra nel gruppo di cui ora farà parte a pieno titolo: questo passaggio è segnalato simbolicamente attraverso tutta una serie di indizi, dall’abito al modo di acconciarsi. In questa dinamica, un ruolo particolare è recitato, per un verso, dalle prove iniziatiche, per un altro, dai simbolismi attivati. I rituali di iniziazione tribali includono infatti, come elemento costitutivo, una serie di prove di natura differente, che vanno dal giuramento iniziatico con cui si dichiara la propria fedeltà al gruppo, alle arringhe degli anziani cui i giovani sono sottoposti. Ma l’elemento piú vistoso è la prova fisica cui in genere l’iniziando è sottomesso. Ciò che queste prove fisiche hanno in comune è il loro carattere di sfida: superarle con successo significa dimostrare a se stessi e a chi vi assiste che il candidato è degno di accedere al nuovo status. Ma vi è anche un effetto secondario, che va tenuto presente, e precisamente quello dell’efficacia stessa del rituale: superare questi particolari «test» significa anche dimostrare, seppur indirettamente, che il rituale funziona, è efficace, e con ciò funziona la società e il gruppo che si identificano in questa particolare forma di trasmissione della tradizione e dei suoi valori.

Lo spettro di queste prove fisiche è molto vario, e va da vere e proprie mutilazioni che comportano un serio pericolo di vita per il candidato a esperienze meno dure, che non lasciano tracce sul fisico, anche se svolgono pur sempre la funzione centrale di provare le qualità del neofita, mettendo in moto un processo emozionale ed esperienziale profondo, indispensabile a imprimere in modo indelebile nella mente dell’iniziando i valori tradizionali che il rito trasmette a vari livelli. Quanto ai processi simbolici, un simbolismo ricorrente nei rituali di iniziazione è quello della morte-rinascita. Studiato in particolare da Eliade (1959), questo assimila il luogo in cui si svolge l’iniziazione a un grembo materno, a una caverna o a una tomba, da cui si immagina l’iniziando rinasca, riesca o risorga. Spesso questo luogo è fisicamente identificato in una capanna in cui i fanciulli vengono isolati per separarli dal resto della comunità, capanna che viene assimilata simbolicamente a un mostro – un coccodrillo, per esempio, o un mostro acquatico – dal cui ventre l’iniziando fuoriesce, rinato, al termine dell’iniziazione. Spesso nell’Africa nera i rituali di iniziazione e i funerali costituiscono una serie temporale di riti incastrati gli uni negli altri, a sottolineare la corrispondenza simbolica di schemi determinati (apertura della vulva/chiusura della tomba), poiché la nascita iniziatica anticipa i funerali con una morte simbolica, mentre i riti funebri, particolarmente il ritiro del lutto, consacrano una nuova nascita nell’aldilà. Le pratiche associate a questo simbolismo, come la rasatura dei capelli, la nudità rituale, la proibizione della cura del corpo, la privazione del cibo, mirano a creare la «morte dei sensi», preludio indispensabile per la successiva «rinascita». Un discorso a parte meritano le iniziazione femminili, che sono oggi al centro di un rinnovato interesse. Ci si interroga prima di tutto sulle differenze tra iniziazione maschile e femminile, a partire dalla constatazione che le seconde paiono complessivamente meno numerose delle prime. Anche le iniziazione femminili sono un fatto culturale e sociale, e non naturale, legato ad esempio alla prima mestruazione. Le fanciulle, infatti, possono essere sottomesse a un rituale di iniziazione allo stato adulto, come ha dimostrato Brown (1963, p. 838), ad un’età variabile tra gli otto e i vent’anni: determinante diventa il tempo culturalmente e socialmente stabilito come significativo dalla singola cultura. Un’altra differenza che colpisce è data dal

fatto che sovente le donne verrebbero iniziate da sole, di contro ai maschi, iniziati in gruppo. Là dove l’iniziazione coincide con il rito puberale, ciò può spiegarsi con la particolare drammaticità dell’evento della mestruazione; piú in generale, però, l’isolamento dell’iniziazione riflette l’isolamento o la marginalità sociale che sovente contraddistingue, dal punto di vista dell’autorità e del potere, anche la condizione della donna adulta. Si tratta, d’altro canto, di una spiegazione valida soltanto fino a un certo punto, dal momento che esistono società, come i Gisu, che posseggono iniziazioni femminili piú elaborate e socialmente rilevanti di quelle maschili. Si è cercato di spiegare in vari modi l’esistenza di un minor numero di iniziazioni femminili, ad esempio ricorrendo ad una teoria dell’imitazione, secondo la quale soltanto l’iniziazione maschile sarebbe «reale», mentre quella femminile ne costituirebbe un’imitazione: tesi che va contro ciò che di fatto pensano le stesse popolazioni, per le quali entrambe le iniziazioni sono «reali». Piú plausibile appare l’ipotesi che invita a non contrapporre i due tipi di iniziazione, ma a considerarle come due volti di un identico processo rituale: L’identità sessuale adulta conferita con l’iniziazione si definisce in opposizione non soltanto con l’infanzia, che è il punto di partenza per entrambi i sessi, ma anche, per contrasto, in opposizione con un’altra identità adulta distinta e differente (Lafontaine 1985, pp. 163-64).

È stata anche proposta una tipologia che contribuisse a mettere meglio in luce l’eventuale specificità dell’iniziazione femminile. Secondo Lincoln (1981) esisterebbero quattro tipi ideali di iniziazione femminile che, anche se appaiono poi combinati nel concreto dell’azione rituale, possono essere euristicamente tenuti presenti per un’analisi piú efficace: rituali che comportano una mutilazione del corpo; rituali che comportano un’identificazione con un’eroina mitica; rituali basati su di un viaggio cosmico compiuto con lo scopo di facilitare l’abbandono della vecchia identità e l’assunzione della nuova; rituali fondati simbolicamente sul gioco degli opposti (oltre a maschile/femminile, destra/sinistra, bianco/nero, ecc.), il cui temporaneo superamento nel corso dell’iniziazione da parte

dell’inizianda si pone come il modello di riferimento della sua possibilità di superare gli aspetti frammentati dell’esistenza quotidiana: … tali distinzioni, antagonismi e tensioni sono sempre presenti nelle iniziazioni delle donne, dove l’inizianda diviene in certo senso il campo in cui si svolge la battaglia tra i sessi (Lincoln 1981, trad. it. pp. 93-94).

2.3. Iniziazione e società segrete. Alcuni popoli conoscono, accanto e in parallelo con la vera e propria iniziazione tribale, una forma di iniziazione piú esoterica, sia perché essa comunica agli iniziati contenuti che non devono essere svelati ai non iniziati sia perché il gruppo che cosí si viene costituendo è una sorta di società nella società, contraddistinto appunto dal possesso di una forma particolare di conoscenza. Un caso tipico è quello degli Hopi, un gruppo di indiani Pueblo che vivono nell’Arizona e nel Nuovo Messico. Il rituale Hopi ha un aspetto pubblico, coincidente in genere con i riti di iniziazione tribale, e un aspetto segreto. Nell’azione pubblica uomini mascherati rappresentano gli spiriti (Kachina) e sono creduti tali dagli iniziandi. Soltanto a un secondo livello, appunto quello esoterico, all’iniziato viene svelato chi è il «vero» agente del dramma prima rappresentato. Il Poro, conosciuto con una varietà di nomi, è un’istituzione comune a molti popoli della Sierra Leone e della Costa d’Avorio. Si tratta di un’istituzione maschile. Tra i Mende, ad esempio, esso costituisce la piú potente tra le varie società segrete (MacCormack 1979). Essa possiede una rigida gerarchia, i cui gradi piú alti controllano la vita sociale del gruppo. Molti membri non vanno al di là dei primi gradi e prendono parte in modo superficiale alla vita della società. I ranghi superiori sono simboleggiati da maschere, in ognuna delle quali riposa uno spirito, il cui potere è posseduto e controllato dal possessore della maschera. L’aspetto socialmente piú rilevante di questo tipo di società segreta e dell’iniziazione che la contraddistingue è il suo carattere volontario e individuale: si tratta di società composte da individui che vi entrano a prescindere dagli obblighi sociali e dalle categorie di appartenenza, come invece per l’iniziazione tribale. Quest’aspetto fondamentale accomuna le società segrete tribali ad altre forme di società segrete, presenti sia nella

società antica – per esempio i culti misterici o culti orientali come il mitraismo – sia in altri contesti, come le società segrete cinesi o la Massoneria (Webster 1907, Lafontaine 1985). Ciò che le contraddistingue è talora un vero e proprio antagonismo con la società esistente che si traduce in forme di opposizione politica (i Mau Mau o le società segrete cinesi), talora il tentativo di fornire, piú che una forma totalmente illegittima di autorità in contrasto col potere centrale, forme alternative. In questo modo, siamo ricondotti al tema del sorgere di comunità specificamente religiose, non fondate su vincoli «naturali». 2.4. Comunità religiose: riti d’ingresso e di espulsione. È questo il caso delle comunità legate all’avvento di forme di religione di salvezza (cfr. cap. V par. 1). Intesa, in senso lato, come la necessità di essere liberati dai mali della vita, la «salvezza» è presente nelle piú diverse tradizioni religiose; ciò che caratterizza le cosiddette religioni di salvezza è la dimensione etica di questo concetto, coincidente, in sostanza, con l’idea di liberazione da un male di tipo etico, se non da un male diventato ontologico, conseguenza di una colpa o di un peccato originari, i cui effetti continuano a gravare sul destino del singolo e dell’umanità e da cui non è ormai piú possibile liberarsi con i mezzi tradizionali. Questa concezione sta alla base del formarsi di un tipo peculiare di comunità religiosa, distinta da quella per cosí dire «naturale», in cui cioè il raggruppamento religioso coincide col raggruppamento sociale. La comunità specificamente religiosa, infatti, si caratterizza per il fatto di essere formata da individui, che scelgono deliberatamente di costituirla e di entrarvi secondo regole che non coincidono piú con i meccanismi di formazione tipici delle comunità tribali come i riti di iniziazione, in nome e in funzione, appunto, di una esigenza religiosa salvifica (Wach 1944, trad. it. pp. 119 sgg.). Mentre nel primo tipo di comunità rientrano culti familiari, parentali, locali, nazionali, fondati sul sesso o sulle classi d’età, dunque su criteri naturali, culturali e sociali, il secondo tipo, quello dell’associazione volontaria costituita sulla base di una motivazione religiosa, comprende forme organizzative differenti come le «società segrete» di certe popolazioni indigene, i culti misterici del mondo greco-romano e, su scala piú vasta, le differenti forme di religioni salvifiche e le innumerevoli strutture associative che da esse hanno tratto ispirazione e forma.

Per quanto discutibile, dal momento che finisce per privilegiare un concetto di «salvezza» tipico della tradizione cristiana, questa tipologia ha, comunque, il vantaggio di aiutarci a mettere meglio a fuoco le modalità di ingresso e di uscita da queste comunità. Queste costituiscono, infatti, un luogo privilegiato di osservazione per comprendere meglio il modo in cui una comunità religiosa si autodefinisce e si legittima prima di tutto dal punto di vista giuridico, ma anche etnico, sociale, culturale e, appunto, religioso. Le particolari «porte» attraverso cui il singolo entra o esce da una comunità consentono di mettere meglio a fuoco, nel contempo, la costruzionedecostruzione dell’identità individuale anche da un punto di vista religioso, facendola interagire dialetticamente con l’identità del gruppo di appartenenza. Esse costituiscono, in altri termini, quelle zone di «frontiera», mobili e fluide, ma anche rigide ed esclusiviste, dove il singolo riceve (o perde) una carta d’identità in cui la dimensione religiosa recita una parte, che la tipologia sopra ricordata deve ora aiutarci a mettere meglio in luce. Mentre le religioni di salvezza sia di tipo mistico, come il buddhismo, sia di tipo profetico, come i tre monoteismi abramitici e prima ancora lo zoroastrismo, sia infine di tipo dualistico, come lo gnosticismo e il manicheismo, presuppongono in genere piú o meno articolati rituali di ingresso, che perseguono lo scopo di fornire una carta d’identità religiosa all’iniziando (sovente a cominciare dall’assegnazione di un nuovo nome), le religioni non di salvezza, come quelle indigene e quelle antiche, in cui la religione svolge essenzialmente compiti di legittimazione sociale, non conoscono specifici rituali di ingresso, ma si limitano a legittimare, come si è visto nel caso delle iniziazioni tribali, i differenti riti di iniziazione sociale caratteristici delle varie società: e questo, per l’evidente motivo che non esiste una comunità religiosa, cui essere iniziati, distinta ed opposta alla società circostante secondo gradi diversi di tensione. Parallelamente, questo tipo di tradizione religiosa non conosce, in genere, forme di uscita dalla religione di appartenenza che coinciderebbero, in realtà, con l’uscita dalla stessa società in cui si è nati. In altri termini, queste religioni non conoscono, come aveva già messo in luce Nock molti anni fa in un suo famoso saggio, il fenomeno della «conversione» proprio, invece, di quelle che lui definiva «religioni profetiche» (Nock 1961). Questa constatazione reca con sé una serie di conseguenze, che non possono essere approfondite, a cominciare dal tipo di antropologia

religiosa soggiacente ai processi che stiamo esaminando; antropologia che condiziona profondamente, col variare delle sue componenti e del loro interagire, la costruzione della carta d’identità religiosa (Baumgarten 1998, Assmann e Stroumsa 1999). Mentre, come abbiamo visto, i riti di iniziazione delle comunità «naturali» mirano a formare un’identità sociale, i riti d’ingresso delle comunità religiose volontarie puntano a fornire una nuova identità specificamente religiosa. Da questo punto di vista, il battesimo delle prime comunità cristiane può costituire un buon esempio di questo processo, a partire dal quale non è difficile accrescere il dossier. Ciò che lo contraddistingue è la sua irripetibilità, il fatto che ciò che d’ora in avanti conta è la nuova identità religiosa acquisita, distinta e in tensione con la precedente identità sociale; il fatto soprattutto che ora ne va della propria salvezza prima di tutto individuale e non della ridefinizione del corpo sociale, il cui posto è ormai preso dal gruppo religioso. Mentre il primo tipo di iniziazione svolge, a livello individuale, la funzione di umanizzare e culturalizzare l’iniziando fornendogli la sua identità sociale per mezzo di una conoscenza liberatrice e grazie a una serie di prove educatrici con lo scopo di orientarlo verso le sue responsabilità di adulto e, a livello della comunità, la funzione di permettergli di autofondarsi e garantirsi il proprio futuro controllando e plasmando le nuove leve; il secondo tipo di iniziazione, rompendo il legame di integrazione del singolo nei confronti della società, privilegia il suo ingresso nella nuova comunità salvifica a partire dall’acquisizione di una nuova identità in tensione con la precedente. Va altresí tenuto presente che, storicamente, è possibile rintracciare in casi determinati la coesistenza di entrambi questi tipi, come insegna il caso dei culti misterici, per un verso, la persistenza di riti sociali di iniziazione nella storia del cristianesimo, per un altro. D’altro canto, proprio il prevalere, nelle grandi religioni, di riti d’ingresso in cui centrale ritorna ad essere la funzione sociale di trasmissione di un’identità collettiva spiega il posto importante che in queste tradizioni hanno avuto le iniziazioni di tipo esoterico, tese a preservare, al di sotto delle norme giuridiche e delle forme sociali, il nocciolo duro di un’identità individuale, variamente denominata, un Sé che, per l’illuminato di turno, finisce per rappresentare la sua vera identità. Per circuire il modo in cui si mette in discussione secondo prospettive diverse l’identità socioreligiosa acquisita, occorre prendere in considerazione

anche le modalità differenti di espulsione e allontanamento. In proposito, la prima osservazione che si impone è che le religioni non di salvezza possiedono forme di espulsione messe in atto da differenti agenzie sociali a ciò preposte, che corrispondono in negativo al fenomeno dei riti di passaggio alla vita sociale adulta. Esse possono andare dall’allontanamento temporaneo fino alle forme estreme del bando e dell’esilio. Tali pratiche erano largamente diffuse nelle culture antiche, in quelle del Vicino Oriente come in Grecia e a Roma. La loro presenza si spiega in funzione della loro valenza sociale: infatti, in alcune regioni dell’Oriente l’espulsione veniva utilizzata anche come forma di controllo sociale, coincidendo con crimini socialmente riprovevoli (che noi saremmo tentati di definire «profani»), come l’omicidio o l’adulterio e cioè le varie forme di infrazione alle regole sociali. Tenuto conto della difficoltà di stabilire, in situazioni di questo tipo, una chiara distinzione-opposizione tra sacro e profano, le colpe «religiose» piú frequenti per le quali si poteva essere espulsi comprendevano le varie forme di sacrilegio come la bestemmia, lo spergiuro, la mancanza di rispetto nei confronti della persona del sacerdote o del sovrano, la violazione delle regole connesse alla celebrazione delle festività. Si tratta, in genere, di varianti di un’unica «legge», tipica della dinamica sacrale di queste società e legata alla centralità delle regole di purità e alla connessa concezione della sacralità di cose e persone. Naturalmente, queste note elementari hanno dato storicamente luogo a variazioni impressionanti. E questo, a cominciare dal soggetto dell’espulsione, se il singolo individuo o un gruppo o addirittura un’intera comunità. Grande era anche la varietà dei motivi addotta per giustificare l’espulsione. Alcune religioni procedevano all’espulsione soltanto di coloro che si erano resi colpevoli delle offese piú gravi; altre espellevano chiunque si fosse allontanato dalle norme di convivenza piú comuni. Anche all’interno della medesima tradizione religiosa si potevano presentare forme assai diverse di allontanamento. Il primo livello può essere definito semplicemente il livello della «esclusione»: in questo caso, l’individuo veniva lasciato fuori dalle principali attività collettive, per sua volontà oppure in forza della legge, ma conservava ancora tutti i suoi diritti e i suoi privilegi. Nei livelli piú avanzati di espulsione si realizzava, invece, una vera e propria distruzione dell’identità personale, tanto piú grave quanto piú questa identità era socialmente immanente, non presentava cioè fuoriuscite possibili dal contesto sociale,

come ha invece luogo nelle religioni di salvezza. Una forma estrema era data dall’esilio forzato che, quando era permanente, coincideva di fatto con l’essere messo al bando della comunità e della società di appartenenza. Questi pochi cenni dovrebbero risultare sufficienti per mettere a fuoco la funzione principale che queste forme di espulsione svolgevano: quella di salvaguardare i confini sacrali, coincidenti con i confini sociali, della comunità, funzione che, ovviamente, variava col variare della consistenza del gruppo in questione e del tipo di società in cui esso si collocava. Parallelamente, la sua intensità (temporanea o definitiva) variava col variare dei vincoli sociali in gioco, dei confini che delimitavano il gruppo in questione, delle sue forme di autorappresentazione e di rappresentazione dell’Altro, insomma, col variare dei meccanismi identitari. In questo modo, i meccanismi di espulsione entravano a far parte integrante delle forme di costruzione e controllo sociale dell’identità individuale. Di contro, le comunità religiose volontarie conoscono un duplice tipo di «uscita»: la prima, volontaria e soggettiva, ignota alle comunità naturali e fondata su di una concezione nuova della soggettività individuale e della persona; la seconda, «oggettiva», che riprende e applica le forme di espulsione tipiche delle comunità etniche e delle società antiche ai particolari bisogni di una comunità salvifica che si è data un’organizzazione piú o meno complessa e, dunque, un suo diritto sacro. Vale la pena di osservare che le situazioni di conflitto e di concorrenza tra gruppi piú o meno affini non fanno in genere che acuire il ricorso a siffatte forme di tutela di un’identità religiosa che si avverte come mortalmente minacciata dall’abbandono o dall’apostasia. In altri termini, il peso che il crimine di apostasia può avere in una comunità religiosa può rivelarsi un indice prezioso per valutare il grado di solidità e di coerenza della sua stessa identità religiosa («Daimon» 2001). 3. Una comunità religiosa in viaggio: i pellegrini. Ogni anno milioni di pellegrini abbandonano il loro paese per visitare in gruppo o da soli i luoghi sacri fondamentali della loro religione, da Gerusalemme alla Mecca, da Santiago de Compostela a Benares. Anche se il turismo religioso di massa ha profondamente mutato molti aspetti di questo viaggio, intatto sembra permanere il nucleo religioso. Che cosa spinge dunque il pellegrino al suo viaggio? Viaggio verso un luogo sacro lontano, il pellegrinaggio è un fenomeno

presente in molte tradizioni religiose, in particolare nelle religioni a spinta universalistica. In effetti, proprio per la sua natura di «viaggio sacro», che presuppone, di conseguenza, l’abbandono della vita quotidiana per incontrarsi e confrontarsi con tradizioni e culture differenti, il pellegrinaggio è in genere assente o, comunque, non recita una parte importante nelle religioni dei popoli tribali non nomadi, chiusi nei confini del proprio territorio e in cui è presente, piuttosto, la visita ad un luogo di culto all’interno dei confini della vita religiosa quotidiana. Ciò che distingue il pellegrinaggio in quanto rito religioso da altre forme rituali è proprio l’esperienza del viaggio, con la sua possibilità di incontrare il nuovo, l’estraneo, con il suo invito a comparare usi e costumi, pratiche e riti. La parola stessa (Dupront 1987, trad. it. pp. 382-96), di origine latina, nelle sue due forme di peregrinatio e peregrinus, in tutte le lingue volgari occidentali indica tanto l’atto quanto l’attore 1, rimandando a quella peregrinatio ascetica, tipica del primo monachesimo, vissuta dai monaci lungo le strade alla ricerca della propria realizzazione spirituale; il peregrinus è, dunque, lo «straniero», agli altri e a se stesso. Che persegua una meta essenzialmente spirituale, cercando ad esempio nei luoghi in cui agí il fondatore di riattualizzarne in qualche modo la presenza, compiendo cosí una sorta di archeologia spirituale, scavando nel passato per rinnovare l’esperienza originaria, per attingere ancora una volta alla falda da cui zampilla l’acqua sacra delle origini; o piuttosto che ricerchi, visitando templi e santuari, toccando reliquie, eseguendo rituali piú o meno complessi, guarigioni e benessere di vario tipo, il pellegrino compie, comunque, un viaggio dal duplice volto: affrontare, per un verso, i pericoli di un lungo peregrinare in terre straniere prima di attingere la meta agognata, per un altro, le prove che, nel contempo, mettono in crisi la sua esistenza interiore, plasmandola e trasformandola. In un certo senso, si tratta di un viaggio «mistico»: … il pellegrino attraversa fisicamente una strada mistica; il mistico si avvia verso un pellegrinaggio spirituale interiore (Turner 1978, trad. it. p. 79).

Migrazione reale e spirituale vissuta in una pulsione di fede e di attesa, il pellegrinaggio svolge, dunque, una funzione spaesante, la cui importanza, a chi vive in una società come l’attuale, incentrata intorno al turismo di massa e

agli spostamenti lavorativi continui, può sfuggire, ma che per secoli, nelle società poco mobili di ancien régime e, in genere, nelle religioni tradizionali, è risultata decisiva nell’esperienza individuale e collettiva dei fedeli. Mentre nella propria patria templi, altari, luoghi sacri svolgono la funzione di tener desta, all’interno di una geografia e di un mondo sociale familiari, l’apertura verso l’inquietante, l’ignoto, il trascendente, sicché ciò che è familiare e noto si colora di tratti non familiari e ignoti, il pellegrinaggio svolge l’opposta funzione di rendere familiari e noti luoghi e tempi all’inizio ignoti e inquietanti. Che egli compia il suo viaggio da solo o in compagnia, il pellegrino che ritorna non sarà piú la stessa persona né, come per ogni viaggio che si rispetti, guarderà piú con gli stessi occhi la patria cui ritorna. Inoltre, come ogni viaggiatore, egli porterà con sé oggetti sacri che gli permetteranno non solo e non tanto di conservare una qualche aura della potenza del sacro incontrato, sperimentato e vissuto nel luogo visitato, ma anche e soprattutto di fissare e iscrivere nella propria memoria in modo piú stabile l’unicità irripetibile di quell’incontro. Gettano qui la loro radice quei racconti di viaggi che costellano la storia dei pellegrinaggi delle grandi religioni – dalla cristiana Egeria nel IV secolo della nostra era a Matsuo Basho (1644-1694) 2 – che in varie forme e a differenti livelli culturali hanno a loro volta alimentato in modo decisivo, in innumerevoli credenti, il desiderio di compiere questo viaggio sacro. Né va trascurata, infine, la metamorfosi metaforica che il pellegrinaggio in quanto viaggio sacro ha conosciuto là dove, anche per effetto di una critica spiritualizzante, presente a vario titolo nelle religioni universali, in conseguenza del rigetto o della reinterpretazione della dimensione rituale e istituzionale del viaggio, si è trasformato nel viaggio interiore per antonomasia. Sono andata lontano in cerca di Shiva, il Signore onnipresente; con stupore, l’ho trovato [presente] nel mio proprio corpo (in Coleman e Elsner 1995, p. 152).

Queste parole di una pellegrina e mistica del Kashmir del XIV secolo condensano simili esperienze di pellegrinaggi spirituali in virtú dei quali, ad esempio, l’idea mistica di una Benares che sorge nel proprio cuore si apparenta, almeno superficialmente, all’idea del mistico sufi che invoca la nozione di una Ka’ba interiore o alla concezione patristica secondo cui la vera

Gerusalemme risiede nel proprio cuore; pellegrinaggi spirituali che, nella tradizione cristiana, hanno trovato una loro compiuta espressione nel libro di John Bunyam, Il viaggio del pellegrino. Il viaggio del pellegrino non è fine a se stesso. «Il pellegrinaggio infatti è vissuto per la sua meta» (Dupront 1987, trad. it. p. 386). Esso presenta la struttura tripartita tipica dei riti di passaggio. Ad una fase di separazione (l’inizio del viaggio), che allontana il pellegrino dalla sua vita quotidiana, segue la fase «liminale», caratterizzata da una serie di prove piú o meno dure, che lo preparano spiritualmente all’evento centrale: l’incontro col sacro presente nel luogo meta del viaggio, rendendolo degno di quei doni – nelle religioni abramitiche coincidenti in genere con il perdono delle proprie colpe e dei propri peccati – che la divinità vorrà concedergli. Segue la terza fase, che coincide con il ritorno e comporta la riaggregazione al gruppo sociale d’appartenenza. A differenza, però, dei riti di passaggio, iscritti nella logica del conformismo socioculturale, egli compie questo rito non perché obbligato dalle leggi della comunità di appartenenza, ma in funzione di una scelta libera e volontaria. Quali che siano, infatti, le circostanze e i condizionamenti soggiacenti alla partenza – le costrizioni sociali che, come nel caso del cristianesimo, possono provenire dall’istituzione, oppure, come nel caso dell’islam, dal fatto che esso si iscrive in una logica di obbligatorietà – il pellegrinaggio è nella sua natura piú intima un atto libero che, di conseguenza, impegna fortemente chi lo compie ad alienarsi dall’io abituale per diventare, seppur temporaneamente, straniero a se stesso, con lo scopo – tipico dei processi di incontro col Sacro – di mettere all’opera, (ri)scoprendole, le proprie sopite energie interiori. Una «volontà di potenza» che coincide con la possibilità stessa di disporre, nel tempo prestabilito, della propria vita, sino a volerla fare immortale, o meglio, dopo aver spogliato l’antico uomo, di rigenerarlo in una nuova nascita. Per questo, fondamentali si rivelano le motivazioni che inducono il singolo a compiere quest’esperienza, motivazioni che, comunque, si iscrivono e si intrecciano con quelle collettive, dal momento che il pellegrinaggio è, prima di tutto, un fatto sociale ed anche il pellegrino piú solitario è inserito, in realtà, in una tradizione collettiva che lo plasma e lo condiziona, col suo conformismo consolidato, per tutto ciò che concerne le strade da percorrere, i luoghi da visitare, le rinunce cui sottoporsi, gli obblighi cui sottostare,

l’abbigliamento da indossare. Di conseguenza, mentre le motivazioni collettive sono in genere collegate al fatto di celebrare in un luogo santo una festa, di compiere un viaggio cultuale in onore di una potenza soprannaturale, una visita di ringraziamento per una grazia ricevuta, un ritorno – come nel pellegrinaggio prototipico – alle fonti della propria religione o ancora, come in certi santuari greco-romani, di consultare l’oracolo di turno, quelle individuali sono legate a un voto, spesso fatto per conseguire una guarigione fisica o spirituale. Talora poi, come nel caso del buddhismo, su queste motivazioni si innestano esigenze piú profonde di purificazione e trasformazione spirituale o, come nel caso dell’islam, di richiesta di perdono di colpe e peccati; ma la lista delle «benedizioni» che il pellegrinaggio reca con sé è certo molto piú lunga (Ousterhout 1990). Ne consegue la necessità di un’adeguata preparazione, che spesso si traduce nella messa in atto programmata di rinunce e mortificazioni. Cosí, nell’induismo, le regole ideali del pellegrinaggio, accanto a pratiche tradizionali come la preghiera, bagni purificatori, il gettare fiori nei fiumi sacri, richiedono rinunce come il digiuno, l’astinenza sessuale, il rigetto delle comodità abituali, l’obbligo di andare a piedi. Del pari, nell’islam, oltre all’abito bianco senza cuciture che lo distingue, prima di partire il pellegrino è invitato a lasciare tutti i suoi affari in ordine, i suoi debiti pagati, le liti sedate: in altri termini, colui che si prepara al viaggio sacro deve essere un uomo di pace, che non conoscerà né collera né violenza né commercio carnale né caccia né distruzione di vite animali e neppure abbattimenti di alberi, per lo meno nel territorio sacro. La logica soggiacente a queste richieste – che variano, naturalmente, col variare delle condizioni storico-religiose – è in fondo la logica che scaturisce dallo scopo stesso del pellegrinaggio: prepararsi in modo adeguato all’incontro col sacro, che costituisce il culmine del lungo e periglioso viaggio ed è destinato in qualche modo a sacralizzare il pellegrino stesso, nel contempo investendo e sacralizzando, secondo le proprie esigenze, le due grandi categorie esistenziali del tempo e dello spazio. Il pellegrinaggio, infatti, è prima di tutto un avvenimento che, come accade col tempo festivo, rompe col tempo quotidiano, inaugurando una temporalità particolare articolata in tre momenti: un «prima», in cui si matura l’attesa e ci si prepara all’attuazione; un «centro», il punto culminante del pellegrinaggio, in cui ha

luogo l’incontro con il sacro; un «dopo», infine, in cui, mentre si assimila l’attimo in cui si è consumato l’incontro, ci si prepara al ritorno alla quotidianità, attraverso il ricordo e la memoria, imparando a innestare quest’avvenimento in una particolare storia sacra che, coi suoi ritmi e il suo calendario liturgico, ne permetta, al di là dell’unicità e dell’irripetibilità, la riproduzione e la ripetizione. Il fatto, poi, che il pellegrinaggio, a partire da quello islamico, almeno prima che i moderni mezzi di comunicazione ne snaturassero profondamente il senso, per le sue difficoltà, la sua lontananza, i suoi costi, tendesse ad essere unico, contribuiva certo ad assegnare al suo tempo una qualità particolare, eccezionale. Se stiamo ad uno spettro ideale, a un estremo di questo continuum troviamo viaggi individuali, compiuti per ragioni tipiche, già ricordate, che vanno dalla malattia all’adempimento di un voto. Nel mezzo, troviamo visite che traggono spunto dal calendario liturgico o dal santorale e che hanno per scopo, ad esempio, il celebrare la data di nascita del fondatore come il Natale o, come nel caso del buddhismo, la necessità di ripercorrere le tappe principali della via di liberazione seguita dallo stesso Buddha. Infine, all’altro estremo troviamo, come nel pellegrinaggio islamico, date fisse e rigide, come il fatto di compiere lo ḥajj durante il dodicesimo mese lunare, tempo particolare che distingue, insieme alle pratiche, il pellegrinaggio vero e proprio da una normale visita alla Mecca. Anche lo spazio del pellegrinaggio è sacralmente determinato. Esso coincide con l’esistenza di luoghi sacri, o meglio, sacralmente determinati dal fatto che in essi si è manifestata la potenza, vuoi sotto forma dell’azione prototipica del fondatore vuoi sotto forma dell’apparizione di una divinità o entità sovrumana. In realtà, la fenomenologia dei luoghi sacri nella storia religiosa dell’umanità (Dupront 1987, trad. it. pp. 392 sgg.) rivela che essi rispondono a un’esigenza profonda, quasi a una necessità, tali e tante sono le loro concretizzazioni, tale è la forza di un luogo che, abbandonato, può essere riscoperto e rivitalizzato dopo secoli. Nei pellegrinaggi, acquistano una fisionomia peculiare, al punto che, come nel cristianesimo o nell’induismo, visitando successivamente piú luoghi sacri, diventa possibile cumulare le loro rispettive cariche sacrali. La straordinaria ricchezza di queste comprende, oltre alla rivelazione o all’epifania della potenza, l’incanto della natura – fonte, sorgente, montagna – la memoria e la storia sacra in cui si iscrive la

drammaturgia dell’atto prototipico, le tradizioni che vi crescono, infine, le folle che vi accorrono; ciò dà a quel determinato luogo una potenza che è a misura della convergenza e dell’intensità di questi fattori. Né si può dimenticare la gerarchia di «virtú» che, nell’inconscio collettivo delle masse dei pellegrini e nei codici socioreligiosi delle rispettive tradizioni, si vengono ad affermare rispetto ai vari luoghi sacri, favorendo l’emergere di «picchi» come Benares in India, Gerusalemme per le religioni abramitiche o i luoghi dell’azione fondante del Buddha per il buddhismo. Il luogo sacro diventa cosí, per il pellegrino, il luogo del ritorno alla sorgente. Si errerebbe, d’altro canto, a sottolineare unicamente il volto sacrale del pellegrinaggio, dimenticandone, ad esempio, la molteplicità di scopi e di funzioni, economiche politiche sociali, per non dire di quelle puramente ludiche, come insegna, ad esempio, qualunque storia di un tempio o di un santuario. Inoltre, nella costruzione del cuore del pellegrinaggio, il luogo sacro, entrano in scena numerosi elementi dinamicamente collegati, dalla topografia ai testi, dalla protezione politica al rapporto con l’istituzione. Il complesso codice che permette l’accesso a questo sistema può, in altri termini, essere decodificato in modi molteplici, a seconda del tipo di linguaggio all’opera, prestandosi, tra l’altro, a piú o meno fruttuose comparazioni. Cosí, per non portare che qualche esempio, la natura fluida, del tutto indipendente da una religione istituzionale, del pellegrinaggio lo ha messo spesso e volentieri in una situazione, se non di vero e proprio conflitto, certo di tensione con l’istituzione. Le gerarchie possono aspirare a piú o meno sicuri controlli, ma devono sempre fare i conti con la dimensione volontaria e le spinte individuali della maggior parte dei pellegrinaggi. Senza giungere a sposare la tesi dell’antropologo Victor Turner, che ha visto nel pellegrinaggio una tipica situazione di communitas fraterna opposta, seppur temporaneamente, come antistruttura, alle forme dominanti della struttura sociale da cui il pellegrino proviene e a cui ritornerà al termine del suo viaggio (Turner 1978, trad. it. p. 80), la storia dei pellegrinaggi è ricca in esempi di siti e luoghi sacri «popolari», sorti in alternativa o al margine delle correnti religiose dominanti, se non in aperta opposizione ad esse. Ma anche in questo caso, di fronte alla ricchezza e alla complessità del fenomeno, ogni interpretazione unilaterale si dimostrerebbe ben presto deviante. Spesso proprio il potere politico ha contribuito in modo decisivo alla fortuna di un

determinato luogo sacro. Si pensi alle vicende, curiosamente parallele, di due imperatori come Aśoka e Costantino. Il primo, che regnò dal 274 al 232 a.C., convertito al buddhismo e pellegrino-costruttore, sulle orme del Buddha, di templi e santuari che ne celebrassero l’azione salvifica, con la sua ricerca di reliquie e le sue costruzioni gettò le basi del pellegrinaggio buddhista; il secondo, sotto l’impulso della madre Elena tesa alla spasmodica ricerca dei luoghi in cui si era svolta la vicenda di Gesú, favorí la «caccia» alle reliquie, costruendo nei luoghi del loro ritrovamento santuari e basiliche che, con la loro particolare geografia sacra, contribuirono in modo determinante a configurare e promuovere il pellegrinaggio cristiano. Né va dimenticato, in quest’intreccio tra spinta centrifuga del pellegrinaggio e spinta centripeta dell’istituzione, il complesso e decisivo rapporto che sovente si giocò, all’interno di santuari e templi, tra memoria orale, fissazione scritta delle leggende di fondazione e gestione sacerdotale dei testi sacri cosí prodotti. In effetti, un testo sacro può trasformarsi in una sorta di magna charta di fondazione di un pellegrinaggio. Questo vale in particolare per le religioni rette da una Legge sacra. Cosí, i testi del giudaismo prescrivono l’atto del pellegrinaggio come uno degli obblighi del credente, dal momento che uno dei comandi trasmessi da Dio a Mosè sul Sinai (Dt 16.16-17) impone che il popolo si presenti al cospetto del suo Signore tre volte all’anno: in questo modo, ancor prima che Israele avesse, con Salomone, un luogo preciso dove stabilire la presenza di Dio, esso sarebbe entrato in possesso, secondo l’interpretazione tradizionale, della norma fondante l’istituzione del luogo sacro. Del pari, il Corano racconta che Maometto fuggí dalla Mecca a Medina prima di ritornarvi in trionfo, mentre i testi del canone buddhista indicano dove il Buddha fu illuminato e pronunciò il suo primo sermone. In questo modo, i testi sacri delle varie tradizioni possono contribuire in modo determinante a costruire la geografia di un pellegrinaggio. Poiché, d’altro canto, questi testi sono, per un verso, spesso monopolio di caste sacerdotali, per un altro, a volte luoghi di conflitto interpretativo a seconda degli interessi in gioco e dei gruppi settari che si confrontano, ne consegue una pluralità di usi, anche conflittuali, che contribuisce ad arricchire ulteriormente i linguaggi all’opera nel pellegrinaggio. Solo una visione idealizzata delle città sante piú importanti, da Benares a Gerusalemme, può obliare il fatto evidente che,

dietro la fraternitas della comunità pellegrina, si celano in realtà delicate situazioni conflittuali. In conclusione, il pellegrinaggio costituisce una realtà complessa che, com’è proprio di ogni fatto religioso, per circolare esige, al pari di una moneta, la compresenza di due volti. Su di uno sono iscritti la peculiare logica sacrale, le sue motivazioni, la sua ricerca di perdono e di mortificazioni, le relazioni, i rituali, l’aspirazione a mutamenti e trasformazioni. Sull’altro, i condizionamenti esterni di vario tipo che incidono sulla logica e sui fini del pellegrinaggio, contribuendo a definirne il complesso profilo di sistema, di «magnete culturale», in grado, con le sue reti simboliche, di guidare e dare senso al viaggio sacro del pellegrino. È possibile tracciare a grandi linee una storia del pellegrinaggio? Come per altri fenomeni analoghi, esso sfugge alla logica delle «origini». Quel che si può affermare è che esso comincia nel momento in cui degli uomini consacrano un luogo particolare, compiendovi per devozione anche un breve viaggio. In questo senso lato, esso getta le radici nella notte dei tempi: a partire dal momento in cui emerge una documentazione che rende possibile, anche a livello preistorico, parlare di manifestazioni «religiose» e di incontro col sacro, si trova contemporaneamente attestata l’esistenza di località particolari, come Stonehenge, che presentano tratti tipici del luogo sacro, rendendo plausibile l’ipotesi di qualche forma preistorica di «pellegrinaggio». Anche nelle religioni antiche, dall’Egitto alla Cina, non è difficile trovare testimonianze di queste forme di «viaggi sacri» con lo scopo o di celebrare un sacrificio o, come nell’Egitto antico, di iscrivere il proprio nome in templi determinati visitati nei viaggi. Ugualmente, forme embrionali di pellegrinaggio potevano darsi all’interno della religione civica caratteristica, ad esempio, della polis ateniese e in genere del mondo greco. Queste forme svolgevano una funzione di identificazione e conferma della centralità di un luogo sacro considerato di importanza cruciale per l’esistenza stessa della polis. Cosí, l’identità degli Ateniesi era legata in modo profondo all’Acropoli in quanto luogo mitico di fondazione della città, ai suoi miti, alle feste e alle associazioni sacre demandate a conservare la memoria delle tradizioni e a gestire le pratiche rituali di riattivazione periodica di questa memoria. D’altro canto, un vero e proprio pellegrinaggio nel senso sopra descritto, che vada al di là del culto quotidiano, nella storia delle religioni emerge

lentamente, presupponendo situazioni di aperture, di scambi, di sincretismi, in altri termini, la messa in crisi di forme religiose indigene ed etniche legate ad un territorio determinato cui fa da contraltare l’emergere di forme sovranazionali di religione. Cosí, in Grecia è nell’ambito di culti panellenici concernenti non piú solo una polis o un popolo, ma l’insieme di tutti coloro che si consideravano Elleni, che emerge la centralità del pellegrinaggio a Delfi o dei santuari di guarigione dedicati ad Asclepio e si afferma progressivamente l’importanza di un pellegrinaggio particolare, destinato a grande fortuna: quello che ogni quattro anni si celebrava in onore di Zeus ad Olimpia e nel quale venivano venerate le reliquie dell’eroe Pelope, con un culto che precede di secoli l’«invenzione» cristiana del culto delle reliquie. Siffatte forme di pellegrinaggio, che favorivano viaggi religiosi, sottraendo i pellegrini anche per un lungo tempo alle loro normali attività, costringendoli a visitare piú paesi in situazioni sovente difficili, facilitando la costruzione di nuove identità religiose anche attraverso l’osservanza di pratiche e rituali differenti, sulla base di motivazioni che ritroveremo poi all’opera nei pellegrinaggi cristiani e musulmani, costituiscono per non pochi aspetti un loro importante «precedente». D’altra parte, sarà solo con l’affermarsi delle religioni universali che il pellegrinaggio assumerà i tratti istituzionali sopra delineati. Un caso a parte è rappresentato, da un punto di vista comparativo, dall’induismo, religione nel contempo etnica e universale, politeistica e monoteistica, in cui si intrecciano, parallelamente, piccole e grandi tradizioni, pellegrinaggi locali e pellegrinaggi continentali a forte tendenza universalistica, in forme che, ad un’analisi approfondita, si rivelano complementari piú che esclusive, secondo peraltro una logica di integrazione tipica di questo multiforme universo religioso. Cosí, riproducendo a livello del luogo sacro un modello presente anche a livello teologico, Benares, la «città della luce», la città santa per definizione, non solo è simbolicamente presente in migliaia di altri luoghi sacri in India, ma contiene in sé, con i loro poteri sacri, tutti gli altri pellegrinaggi. Come è stato giustamente osservato, la capacità di Benares – che, non scordiamolo, al pari di Gerusalemme, è città sacra anche per altre tradizioni religiose come il buddhismo e l’islam – di condensare innumerevoli spazi sacri in una sola località corre parallela all’atteggiamento induista verso i testi sacri: cosí come i Veda possono essere

compresi attraverso la recitazione di un solo mantra, del pari, compiere il pellegrinaggio circolare attorno alla città può essere simbolicamente visto come compiere il pellegrinaggio intorno al mondo (Coleman e Elsner 1995, pp. 143-44). Il termine stesso con cui in India si può designare un pellegrinaggio, tirthayatra, è indicativo. Yatra implica l’atto del viaggiare, mentre tirtha («guado») rimanda piú in generale alla possibilità di «guadare» non solo i numerosi fiumi e corsi d’acqua dotati di virtú purificatrici, ma l’«oceano» stesso della vita, che separa l’uomo dal divino. Il pellegrinaggio ai luoghi santi è praticato in India da epoca molto antica. Un riferimento è già contenuto nei Veda (7.15), là dove si loda il «viaggiatore», promettendo che i suoi peccati saranno cancellati. Anche nell’epica e nei Purāṇa si affermerà in seguito ripetutamente la particolare «virtú» di certi luoghi e corsi d’acqua, in particolare il Gange, capaci di cancellare i peccati, di concedere beni in questa vita e la liberazione dal ciclo della reincarnazione. Gli stessi Purāṇa contengono le norme del pellegrinaggio ideale. Vi si afferma che il pellegrino deve compiere a piedi il suo pellegrinaggio, sottoponendosi a una tonsura e osservando un digiuno. Dopo aver formulato il fermo proposito di visitare i santuari prescelti e dopo aver compiuto le opportune donazioni ai brahmani, egli indossa l’abito del pellegrino e si mette in viaggio. Giunto alla meta, si attiene alle regole, che variano da luogo a luogo, ma comportano comunque un’offerta al tempio e il versamento del dovuto a favore dei brahmani per l’esecuzione dei riti prescritti. Anche se nei testi sanscriti classici il pellegrinaggio è stato avvertito come una pratica «facile» e popolare se confrontata col sacrificio centrale del fuoco, di fatto, esso ha recitato una parte importante come forza integratrice in un paese dalle infinite lingue e culture. Anche la critica ai suoi aspetti esterni e alla sua ricerca di beni materiali non va letta in modo unilaterale. I milioni di pellegrini che ancor oggi si affollano in occasione dei pellegrinaggi piú importanti sono un’evidente conferma del potere di queste tradizioni, a cominciare dal sistema delle caste, il cui monopolio, nonostante gli aspetti comunitari dei pellegrinaggi, non è stato messo realmente in discussione. Il pellegrinaggio buddhista rientra a pieno titolo nel caso di quelli prototipici che affondano le radici nell’attività del fondatore. Secondo la tradizione buddhista (Mahaparinibbana sutta 5.8), nel discorso che il Buddha

fece ad Ānanda prima di morire, riferendosi a se stesso come al «Perfetto», egli prescrisse ai suoi seguaci quattro luoghi sacri di pellegrinaggio: dove egli era nato (Lumbini), dove aveva conseguito l’illuminazione (Uruvela, oggi Bodhigaya nel Bihar), dove aveva messo in moto la ruota del dharma (Isipatana, corrispondente a Sarnath vicino a Benares), infine, dove aveva raggiunto il nirvāna (Kusinara). Cosí facendo, il Buddha e la tradizione a lui attribuita legittimarono, con una sanzione decisiva nei testi sacri, l’attività del pellegrinaggio come un atto fondamentale della vita del pio buddhista. Nel contempo, secondo un modello destinato a grande fortuna, i luoghi «primordiali» del pellegrinaggio venivano iscritti in una geografia sacra che coincideva con le tappe fondamentali del percorso biografico e spirituale del fondatore. Col tempo, soprattutto in seguito alla sua diffusione dapprima in Cina, poi in Giappone, in Tibet e nel sud-est asiatico, sul tronco originario del pellegrinaggio come pratica spirituale in grado di alleggerire il cuore, recando felicità e avvicinando il pellegrino al regno celeste, si vennero innestando pratiche ben note come il culto delle reliquie e la ricerca di beni materiali. Mettendo a fuoco, come cuore del pellegrinaggio, i quattro luoghi fondamentali della vita del Buddha, anche su questo punto il buddhismo prendeva le distanze dalla sua matrice induista e dalla sua idea e pratica di pellegrinaggio. Questa concezione, fissata nei testi sacri, fu poi supportata dal suo sistema monastico e consacrata dall’attività di Aśoka, che contribuí in modo decisivo, come si è detto, alle successive fortune del pellegrinaggio buddhista. Anche il pellegrinaggio islamico alla Mecca getta le sue radici nelle raccomandazioni del fondatore: «E gli uomini debbono a Dio il pellegrinaggio alla Casa, quelli di loro che abbian la possibilità di fare quel viaggio» (Corano 3.97). Esso costituisce, per il musulmano, l’ultimo dei cinque «pilastri», anche se, per la ricchezza dei valori spirituali e sociali che veicola, non è certo l’ultimo in ordine di importanza fra i grandi riti dell’islam; né, d’altro canto, vanno dimenticati altri pellegrinaggi non istituzionalizzati, come il culto sciita alle tombe dei dodici imam, tra cui quella della città santa di Karbala’ in Iraq dove riposa il terzo imam, nipote del Profeta, o come quello per le tombe, venerate nell’islam sunnita, di marabutti famosi o di santi resi tali dal fervore popolare, oltre ai pellegrinaggi raccomandati alla tomba del Profeta a Medina. Le origini storiche del pellegrinaggio meccano vengono fatte risalire agli

inizi stessi dell’umanità, allorché Dio fece discendere sulla terra per il profeta Adamo una tenda del paradiso di forma circolare, custodita da una schiera di angeli. Essa discese in una località che corrisponde all’attuale sito della Mecca e gli angeli vi si andarono a disporre intorno, determinando cosí uno spazio sacro e inviolabile interdetto a geni e demoni. All’epoca del diluvio questo tempio primordiale venne distrutto, ma Dio ordinò ad Abramo di ricostruirlo, cosa che il patriarca fece assieme al figlio Ismaele (Corano 2.125). Il tempo e l’incuria mandarono in rovina anche questo secondo edificio, che venne riedificato dagli Arabi pochi anni prima del sorgere dell’islam. Il pellegrinaggio al tempio della Ka’ba (che significa «cubo», ad indicare la forma che riveste attualmente) era in effetti una delle espressioni piú significative della religiosità araba preislamica, dal momento che il santuario meccano costituiva una sorta di palladio nazionale riconosciuto da tutte le tribú che una volta all’anno vi si riunivano, deponendo le armi e sospendendo le continue diatribe. L’islam ha recuperato anche in questo caso una pratica religiosa preesistente, rileggendola alla luce del suo rigido monoteismo e trasformandola nel paradigma del vero culto. La legge prescrive che il pellegrinaggio (ḥajj) debba essere compiuto dal pio musulmano almeno una volta nella propria vita, anche se, a differenza degli altri obblighi religiosi, secondo lo stesso dettato coranico, esso non è tassativo. Infatti, l’onere economico, la lunghezza del viaggio, i pericoli dell’itinerario, la durezza di un rito che può compromettere la salute dei piú deboli, hanno indotto i giuristi a tollerare piú che in altri casi le omissioni, individuando diverse forme di compensazione per chi non sia in grado di rispettare l’obbligo. A differenza di una «visita», che può essere eseguita in qualunque mese dell’anno, lo ḥajj ha un suo tempo particolare, dal momento che esso può svolgersi soltanto nel «mese del pellegrinaggio». Proprio la sua eccezionalità, poi, ha reso estremamente complicate le pratiche che il credente deve eseguire, rendendolo, a differenza dei pellegrinaggi prima descritti, un rituale di straordinaria complessità, che qui può essere soltanto accennata. Giunto in prossimità della Mecca, dopo aver espresso l’intenzione di accingersi al rito e di assumere lo stato di sacralizzazione, che consiste in un lavaggio totale del corpo e nell’indossare uno speciale abito di due pezzi di stoffa non cucita possibilmente nuova e bianca, il pellegrino è soggetto a una

serie di divieti, come uccidere animali, sradicare piante, litigare, e all’astensione sessuale. All’arrivo alla Mecca ha poi luogo una serie di riti, tra cui spicca una molteplice circumambulazione della Ka’ba, che concludono il «piccolo pellegrinaggio». Ci si reca quindi fuori dalla città santa per iniziare il «grande pellegrinaggio», consistente nel compiere un tipico percorso attraverso i luoghi sacri dell’islam delle origini. Il momento culminante è rappresentato dalla «sosta» presso il «monte della misericordia», teatro dell’ultima grande predicazione del Profeta. Accampati nella grande spianata, i pellegrini (il cui numero negli ultimi anni oscilla intorno ai due milioni di persone) invocano di continuo il perdono divino per sé e per gli altri, dando libero sfogo alla devozione personale. Si tratta, infatti, di un momento particolare, in cui la straordinaria vicinanza di Dio fa sí che Egli apra le porte della sua misericordia ed accolga le richieste dei suoi fedeli. Sulla via del ritorno, si svolge il grande sacrificio (in genere un ovino a testa) che segna la principale festività del calendario musulmano, celebrata in tutto il mondo anche da coloro che non hanno potuto prendere parte al pellegrinaggio. Nel suo complesso, il pellegrinaggio islamico si configura essenzialmente come un grande rito del perdono. Ospiti del loro Signore, in una condizione temporanea di eccezionale purezza, i pellegrini possono ottenere la purificazione delle loro anime e il perdono dei loro peccati. Secondo quanto disse lo stesso Profeta: «Chi compie il pellegrinaggio per Dio senza compiere atti sconvenienti e senza ipocrisie, quegli ritorna come nel giorno in cui la madre lo ha generato». Al pari degli altri pellegrinaggi, anche lo ḥajj è carico di valori sociali. Nella Casa di Dio, infatti, tutti sono eguali: le normali differenze di razza, di ceto, perfino di sesso, sono, seppur temporaneamente, abolite. Inoltre, vi regna la pace, anche se l’eccezionale risonanza della pratica ha fatto sí che anche recentemente il pellegrinaggio si trasformasse in luogo di violente proteste politico-religiose. La secolarizzazione, che pure ha inciso profondamente nel tessuto sociale delle tradizioni religiose, sembra aver lasciato intatta la forza del pellegrinaggio, che non pare confinata nell’ambito delle pratiche religiose tradizionali: la cultura di massa, infatti, alimenta a sua volta il pellegrinaggio secolarizzato (Reader e Walter 1993). Ogni anno schiere di fans compiono un loro «pellegrinaggio» alla Graceland di Elvis Presley, nelle notti di mezz’estate «new agers» si incontrano a Stonehenge. Che dire infine di quelle forme di

pellegrinaggi di massa che sono diventati viaggi turistici e visite museali? Per quanto distanti e volgarizzate, tutte queste moderne versioni del pellegrinaggio religioso conservano tuttavia qualche segno, seppur deformato, dello straordinario potere di quella struttura rituale fondamentale dell’esperienza umana, conservatasi nonostante e attraverso i processi di massificazione, le rivoluzioni mediatiche e tecnologiche, le trasformazioni delle identità culturali, l’affermarsi di nuove rivoluzionarie forme di comunicazione, a conferma che la ricerca di luoghi particolari, eccezionali, sacri, attraverso un viaggio trasformante e purificatore, costituisce, oltre che un dato strutturale dell’antropologia religiosa, anche un dato costitutivo dell’agire umano. 4. Memoria e tradizione religiosa. La memoria collettiva delle società moderne è una memoria frantumata e dispersa. La dispersione dello spazio, del tempo, delle istituzioni che contraddistingue la contemporaneità implica la dispersione del ricordo, che la rapidità del cambiamento sociale e culturale distrugge quasi nello stesso momento in cui lo produce. La stessa situazione dell’individuo, che si trova a dover appartenere contemporaneamente a una pluralità di gruppi, trascinato da esigenze contraddittorie e da richieste inconciliabili, con la conseguenza di una lacerazione continua nei tessuti della sua esperienza personale, ha come effetto inevitabile l’impossibilità di avere accesso a una memoria unificata. Né a questa situazione dispersiva, tipica della memoria contemporanea, oscillante tra l’apparente onnipotenza della costruzione individuale e la ben piú pervasiva onnipresenza di processi di frammentazione e omogeneizzazione, può sfuggire evidentemente la memoria sacra. Forse in nessun altra zona dell’antropologia religiosa gli effetti devastanti dei processi di secolarizzazione hanno inciso in modo cosí profondo. Il depauperamento religioso tipico delle nostre società trova, infatti, il suo compimento nella generale situazione d’amnesia indotta, nelle società tecnologicamente piú avanzate, dalla messa tra parentesi di ogni memoria che non sia immediata e funzionale alle esigenze di una società dell’effimero. Come è possibile per una religione, il cui motore immobile è costituito dalla tradizione, da una capacità cioè di trasmettere i contenuti di fede conservandoli e adattandoli al mutare delle esigenze sociali e delle sfide storico-culturali, vivere senza una memoria

che pare voler calcare le scene della contemporaneità soltanto come memoria individuale e dell’effimero? Considerata da un punto di vista sociale, di un organismo cioè che ha il suo fondamento in una comunità capace di durare nel tempo, una religione si presenta sotto l’aspetto di una memoria collettiva particolare. In quanto tradizione vivente – e ogni religione è, in ultima analisi, tradizione vivente, una cumulative tradition, per dirla con Cantwell Smith, che cresce e si sviluppa per accumulo progressivo di materiali selezionati secondo criteri e forme di razionalità variabili col mutare delle teologie e delle strutture mediatrici del sacro –, da una generazione all’altra noi assistiamo a processi di acquisizione, selezione, controllo, insomma trasmissione di un sapere religioso relativo a credenze e pratiche, ma anche ad atteggiamenti, sentimenti, comportamenti. Che si abbia a che fare con religioni tradizionali o con religioni storiche, ogni formazione religiosa in grado di vincere la sfida corrosiva del tempo è fondamentalmente una memoria che impregna di sé, in forme e gradi diversi, la vita dei fedeli, orientando l’espressione della loro fede anche nei momenti piú individuali. D’altro canto, proprio questo legame profondo tra memoria e tradizione religiosa, che rischia di rendere quasi impercettibili le linee di distinzione tra i due fenomeni, esige un qualche criterio di orientamento e ristabilimento di confini. Una prima distinzione tra due tipi di memoria sacra può essere fornita da una contrapposizione propria della storia delle religioni già incontrata: quella tra religioni etniche e religioni fondate. Per quanto generica e per molti aspetti criticabile, questa distinzione ha il merito di mettere in luce due tipi fondamentali di religione, che hanno certamente dato origine a due tipi diversi di memoria sacra. Essa ha anche il vantaggio di coincidere in buona sostanza con una fondamentale tipologia sociale e storica: quella che distingue tra società non differenziate (o tradizionali) e società differenziate (o storiche). Nelle società tradizionali (Goody 1977, trad. it. pp. 136 sgg.; Cardona 1985, pp. 21 sgg.), infatti, scarsamente differenziate da un punto di vista sociale, la memoria sacra è socialmente data. Essa è incentrata in genere intorno a un mito d’origine, che rende ragione della genesi sia del cosmo sia degli antenati del gruppo e dei suoi peculiari valori; in quanto tale, la sua funzione principale è quella di proporre ai membri del gruppo, attraverso

particolari forme di memorizzazione e determinate pratiche collettive, modelli di comportamento miticamente fondati. Senza avere una vera e propria funzione soteriologica, essa è comunque portatrice di valori. Come insegna il caso dei riti di iniziazione esaminato nel secondo paragrafo, la riattivazione dei miti ancestrali che professionisti della memoria operano in queste particolari occasioni svolge la funzione decisiva di proporre agli iniziandi, attraverso il racconto delle gesta degli eroi culturali e degli antenati mitici, modelli fondanti e rassicuranti, scale di valore e di comportamento, codici morali che i nuovi adulti dovranno a loro volta memorizzare per introiettarli ed essere poi in grado di trasmetterli alle generazioni successive (Meslin 1988, trad. it. pp. 321 sgg.). Centrali diventano, di conseguenza, in situazioni di questo tipo, i processi di memorizzazione (Borgeaud 1988, pp. 9 sgg.). Anche se in società determinate, come insegna il caso di alcune popolazioni indigene del Nord America, il ricordo di un mito o di un canto sacro può essere appannaggio di un individuo, per lo piú la mitologia, in quanto sistema di racconti sacri in possesso del gruppo tribale, costituisce un insieme narrativo affidato ai professionisti della memoria, strumento salvifico nel senso che essa sola è in grado di preservare il testo orale, garantendone una trasmissibilità attendibile (con quei momenti inevitabili di variabilità che contraddistinguono la performance orale). Questi mediatori appartengono sovente a vere e proprie istituzioni, incaricate di controllare quest’importante forma di potere simbolico. Cosí, in Oceania questi specialisti e detentori della memoria sacra del gruppo erano riuniti in collegi (che possono ricordare le nostre confraternite) come a Tahiti gli harepo (i «passeggiatori della notte», in quanto si esercitavano durante lunghe e solitarie passeggiate notturne). Essi erano i guardiani delle genealogie, dei miti, delle epopee che contenevano la particolare «storia» della loro tribú; in quanto tali, erano «sapienti», perché possessori del sapere ancestrale su cui si fondava la stessa identità tribale. Si spiega, in questo modo, il carattere esoterico, di vera e propria società iniziatica, caratteristico di questi gruppi, cui si poteva accedere soltanto dopo una severa formazione mnemotecnica demandata a gruppi particolari di sacerdoti. Non va, d’altro canto, dimenticato che il protagonista di questi processi non è tanto o soltanto un’entità astratta (la società, la comunità, il gruppo),

quanto e soprattutto un individuo o un insieme di individui. Ne consegue che, anche all’interno delle società tradizionali, il processo di anamnesi ha un risvolto piú propriamente individuale, dal momento che esso travalica la funzione collettiva paradigmatica sopra ricordata. Esso infatti: … introduce l’essere umano a una presa di coscienza di sé richiamandogli il ricordo delle sue origini […] La memoria agisce quindi come un fermento di liberazione dai limiti spazio-temporali e come un fattore di ritorno all’unità aiutando l’uomo a superare la molteplicità delle schiavitú personali. Una tale ricerca di unità personale porta l’uomo a tentare di ridiventare ciò che era in origine e di cui la memoria gli richiama il ricordo (Meslin 1988, trad. it. pp. 351-52).

In che misura le cose cambiano con l’avvento delle religioni storiche, legate al primato della scrittura e, piú in generale, a forme piú complesse di società? Come insegna il caso delle religioni antiche, pur essendo religioni etniche nel senso che esse sono in genere la religione di un popolo determinato, le religioni storiche travalicano ormai i confini sociali, culturali e religiosi propri di quelle dei popoli nativi. Per quanto riguarda in particolare le conseguenze sulla memoria, basti accennare a due esempi: la parte, studiata in particolare da Vernant (1965), che la memoria recita nella Grecia classica, e il caso dell’induismo, nel quale la memoria ha una funzione soteriologica fondamentale (Eliade 1963). Ne emerge, pur all’interno di un quadro religioso tipicamente tradizionale, un tipo diverso di memoria, legata sempre piú chiaramente ad esigenze salvifiche individuali, destinate alla lunga a scardinare sia il quadro della polis greca sia quello della società olistica e gerarchica dell’induismo classico. Occorrerà, attendere, d’altro canto, il sorgere, disseminato in un breve volgere di secoli, di religioni contraddistinte da un nuovo concetto di salvezza inteso come risposta a una nuova concezione del male quale realtà ontologica (cfr. cap. V par. 1), perché il quadro muti profondamente anche per quanto riguarda la funzione della memoria. Con queste religioni, infatti, dallo zoroastrismo al buddhismo, dal cristianesimo al manicheismo all’islam, emerge un nuovo tipo di memoria, conseguenza non solo del ruolo centrale svolto da eccezionali individualità carismatiche come i profeti e inviati ritenuti i fondatori di queste tradizioni, ma anche del sorgere di un nuovo

tipo di comunità, la comunità emozionale di fede, nella quale la memoria religiosa collettiva, lungi dall’essere data nei suoi contenuti, diventa l’oggetto di un processo continuo di ricostruzione. In questa nuova prospettiva, il momento fondante coincide con le origini, o meglio, con la loro forma primitiva, per sua natura pura e germinalmente creatrice. Intorno a queste origini, racchiuse in narrazioni particolari, di carattere mitistorico, la memoria costruisce un vallo protettivo che svolge una duplice fondamentale funzione: di preservazione e, al tempo stesso, di trasformazione, di normatività e di creatività. Per questo, in genere il periodo delle origini è caratterizzato da un intreccio tra memoria orale e memoria scritta. Tutte le grandi religioni hanno conosciuto, soprattutto ai primordi, prima che lo scritto soppiantasse definitivamente la trasmissione orale della parola rivelata (quando non hanno, come nel caso dell’Avesta, privilegiato per secoli, prima che avvenisse una redazione scritta, la trasmissione orale del testo sacro demandata alla classe sacerdotale), un tempo della memorizzazione e della trasmissione orale degli insegnamenti salvifici. Al periodo «apostolico» del cristianesimo delle origini corrisponde cosí, nel buddhismo, il tempo intercorso tra la predicazione in India e la fissazione del canone a Sri Lanka. Quanto all’islam, che è una religione della parola oltre che del libro, la scarsa alfabetizzazione favorí agli inizi forme di trasmissione orale, rivestita però di un valore particolare. La ripetizione orale, infatti, si ricollegava a quel particolare evento fondante che era stata la comunicazione del Corano a Maometto ad opera dell’arcangelo Gabriele. Anche in seguito apprendimento della scrittura e memoria sacra rimasero a lungo pratiche solidali. Le scuole coraniche (madrasa) erano luoghi, legati alla moschea, dove i fanciulli venivano educati ad imparare a memoria il testo sacro ancor prima di apprendere a leggerlo. Inoltre, anche le tradizioni degli hadith per secoli, prima di essere fissate per iscritto da al-Bukhārī, furono oggetto privilegiato di memorizzazione legata al primato della tradizione orale. È indubbio che, nel quadro di religioni che proclamano l’assoluta trascendenza di un Dio personale, l’esercizio della memoria acquista caratteri, funzioni, contenuti nuovi. L’anamnesi implica, da un lato, il «ricordo di Dio» (Meslin 1988, trad. it. pp. 344 sgg.), dall’altro, l’emergere di un nuovo individualismo religioso, che favorisce la messa in opera di una memoria individuale con funzione di conquista e preservazione non piú di un’identità

collettiva, ma del singolo. Si apre, a questo punto, un capitolo fondamentale nel rapporto tra memoria e tradizione religiosa: quello legato alla sua funzione di identificazione, il contributo fondamentale cioè che essa dà alla costruzione dell’identità, collettiva e individuale. In ultima analisi, si apre il capitolo della dimensione antropologica della memoria, conseguente alla funzione che essa svolge nel costituirsi di una antropologia religiosa. La preservazione dell’identità religiosa attraverso tecniche e mediatori specializzati è, infatti, una funzione privilegiata della memoria sacra. Quest’identità, d’altro canto, varia col variare dei processi di differenziazione sociale. Nei popoli privi di scrittura essa ha in genere per oggetto l’identità collettiva del gruppo, mentre nelle società antiche, in parallelo con l’emergere di processi di individualismo religioso quale effetto del sorgere di forme nuove di vita religiosa come le religioni di salvezza, si assiste all’affermarsi di una forma di memoria salvifica che assume per suo oggetto e scopo privilegiati la salvezza individuale. Tale è la funzione che la memoria delle proprie vite precedenti svolge sia nell’induismo sia nell’orfismo e nel pitagorismo in quanto possibilità di sfuggire definitivamente al ciclo delle rinascite; la memoria assume una valenza soteriologica pure nello gnosticismo, come riscatto dall’oblio mondano e recupero della propria identità ontologica o nel manicheismo, in collegamento a un’originale concezione cosmologica e antropologica, che serve a fondare e legittimare la particolare teoria profetica di Mani come sigillo della profezia (Borgeaud 1988, pp. 105 sgg.). Non sarebbe certo difficile moltiplicare gli esempi. Quel che merita di essere sottolineato è una contrapposizione di ordine generale, che seca le stesse religioni di salvezza e che, riprendendo una dicotomia già messa in luce da Halbwachs, può essere espressa come contrapposizione tra memoria normativa o teologica e memoria creativa o mistica. Mentre la prima, grazie al suo lavoro di razionalizzazione, selezione e controllo, si pone nel cuore stesso del meccanismo della tradizione religiosa, fornendo contenuti normativi che garantiscono la continuità nel tempo del gruppo, la seconda è frutto di una scelta volontaria, ha in sé potenzialmente il germe della rottura con la catena della tradizione, si esprime nelle voci di profeti, mistici e in genere uomini carismatici in grado di saltare – e far saltare – la normale cinghia di trasmissione del deposito teologico: una dialettica, in altri termini, che

costituisce un elemento dinamico fondamentale di ogni autentica tradizione religiosa. In quanto tale, essa aiuta a comprendere meglio anche la funzione che la memoria svolge nelle forme cosiddette popolari della vita religiosa. Si pensi in generale a tutte quelle forme di arte povera, per lo piú collegata alla forza mediatrice delle immagini, che hanno continuato a costituire a lungo nella storia cristiana una sorta di Biblia pauperum, un modo particolare di accesso e di conservazione, nelle modalità espressive tipiche della religiosità popolare mediate dalla memoria visiva (è nota l’importanza determinante che le immagini, la loro produzione e il loro controllo rivestono nelle mnemotecniche e nelle varie arti della memoria), una via di accesso privilegiata per quel «grande codice» che è la Bibbia. O piú in particolare, si pensi a un fenomeno come gli ex voto. Nell’immagine scolpita o dipinta che fissa, secondo codici iconografici elementari ma efficaci, la scena della crisi e, nel contempo, dell’intervento liberatore del nume non vi è soltanto una preziosa testimonianza del modo in cui le masse dei fedeli attraverso i secoli hanno cercato e si sono rappresentate un rapporto immediato e diretto con agenti divini protettori. In queste immagini si cela, infatti, un aspetto significativo della memoria sacra: la sua capacità di vincere il tempo, fissando un ricordo individuale alimentato dal potere evocativo degli ex voto che riempiono quella particolare «stanza della memoria» che è il santuario, trasformandolo in ricordo collettivo e consolante di quella potenza tutelare protettrice dell’intera collettività che in quel luogo sacro si raccoglie e si riconosce. La memoria costituisce, in conclusione, una dimensione fondamentale della religione in quanto tradizione vivente. Funzione psicologica in sé universale e, in quanto tale, priva di specifiche valenze religiose, è altresí indubbio che le differenti tradizioni religiose l’hanno valorizzata con ricchezza di forme e di esiti. Garante di quel meccanismo di conservazione e trasmissione del patrimonio tradizionale che costituisce la spina dorsale di ogni organismo religioso, la memoria ha conosciuto metamorfosi e ridefinizioni. Da fattore di identità collettiva, in grado di preservare, attraverso riti come le iniziazioni e culti come quello degli antenati, la vita stessa del gruppo, la memoria si è progressivamente trasformata, nelle religioni di salvezza, in memoria di sé e in memoria di Dio, cioè in memoria

individuale. Essa è cosí divenuta una dimensione fondamentale di un’antropologia religiosa in grado di collegare il singolo, per un verso, alla sua nuova famiglia spirituale, per un altro, a un nuovo orizzonte del divino. Bibliografia 1. La costruzione dello spazio e del tempo. 1.1. Luoghi sacri. Brereton, J. P. 1993 Spazio sacro, in Eliade, M. (a cura di), Enciclopedia delle religioni, Jaca Book, Milano, vol. 1, pp. 523-34. Dupront, A. 1987 Du sacré, Gallimard, Paris [trad. it. Il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 1993]. Eliade, M. 1948 Traité d’histoire des religions, Payot, Paris [trad. it. Trattato di storia delle religioni, Boringhieri, Torino 1972]. Hess, L. 1983 (a cura di), The Bijak of Kabir, North Point Press, San Francisco. Smith, J. Z. 1978 Map is not Territory. Studies in the History of Religions, Chicago University Press, Chicago-London. Turner, H. W. 1979 From Temple to Meeting House. The Phenomenology and Theology of Places of Worship, Mouton, The Hague - Paris - New York. 1.2. Il tempo sacro: la festa. Benveniste, E. 1969 Le Vocabulaire des institutions européennes, Minuit, Paris [trad. it. Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976, 2 voll.]. Brown, A.

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Anche il mondo germanico, che ha preferito Wallfahrt per indicare il pellegrinaggio, ricorre a

Pilger per indicarne il protagonista. 2

Maestro giapponese del XVII secolo autore di The Narrow Road to the Deep North and Other

Travel Sketches, Harmondsworth, Penguin 1966.

Capitolo settimo La violenza della religione: dai fondamentalismi al terrorismo religioso

1. Violenza e religione. Perché il simbolismo della morte è al centro di cosí tanti rituali di ingresso nella vita, di guarigione, di purificazione? Perché pratiche religiose fondamentali come l’iniziazione o il sacrificio costituiscono spesso il preludio di un’aggressione militare nel mondo profano? Perché si uccide e ci si uccide «in nome di Dio»? La violenza del religioso è oggi al centro dell’attenzione, alimentata fino a non molti anni or sono da suicidi di massa che avevano contraddistinto la nuova religiosità: dal «suicidio» di oltre novecento membri del cosiddetto Tempio del popolo il 18 novembre 1978 in Guyana; a Waco, nel Texas, dove il 19 aprile del 1993 un’ottantina di persone, avventisti dravidiani con i loro figli, preferirono morire nella loro fattoria piuttosto che arrendersi all’Fbi che li circondava da due mesi; dalla catena di omicidisuicidi che colpí una cinquantina di fedeli dell’ordine del Tempio solare nell’ottobre del 1994 tra il Québec e la Svizzera (cui se ne aggiunsero altri sedici nel dicembre 1995 in Francia); al suicidio di una quarantina di persone nel marzo del 1997 appartenenti a un gruppo ufologico a sfondo apocalittico nei sobborghi di San Diego in California. Per un verso, questa peculiare violenza ha conosciuto una svolta radicale con l’11 settembre e col moltiplicarsi dei focolai di conflitti etnici a sfondo religioso. Per un altro, il radicalismo islamico ha riproposto la centralità di un fenomeno come il martirio, che sintetizza drammaticamente la quintessenza della violenza del religioso: sacrificio cruento di un essere umano in cui soggetto e oggetto del sacrificio coincidono, anche se occorre non confondere il «martirio passivo», tipico della tradizione cristiana, il cui scopo è quello di testimoniare la propria fede trascendendo la morte, col «martirio offensivo» «animato dal desiderio di sopprimere il nemico con il ricorso alla violenza legittima, consacrata

religiosamente» (Khosrokhavar 2002, trad. it. p. XVII). Per quanto diverse, d’altro canto, anche nelle loro conseguenze, queste due forme della (auto)violenza religiosa hanno, tra altri, un fondamentale elemento in comune: il disprezzo per i valori mondani in nome di valori sovramondani per perseguire i quali ogni mezzo diventa legittimo. Nel loro «eccesso», questi fenomeni ricordano cosí un volto della religione troppo facilmente dimenticato. Paradossalmente, infatti, è proprio nell’«eccesso», nei comportamenti strani e non conformistici, nelle pratiche violente e perturbanti, negli entusiasmi e nelle visioni, che la religione, in particolare una religione di salvezza che ha in un altro mondo il suo «vero» fondamento, rivela la sua irriducibilità al sociale e ai valori dominanti. È stata infatti la religione a tener desta l’attenzione per la possibile esistenza di spazi «altri», irriducibili al sociale, che attraverso esperienze alternative ne mettessero in discussione il monopolio, creando, nel contempo, luoghi di sperimentazione individuale e collettiva di dimensioni socialmente e culturalmente non tollerate o tollerabili. Inoltre, è stata proprio la religione, in particolare attraverso gli innumerevoli rituali, a costruire e ad alimentare un’immagine di violenza «espansionista» nelle società piú diverse «che in determinate circostanze diviene legittimazione di una violenza reale» (Bloch 1997, p.19). È dunque tenendo a mente questi scenari complessi che conviene ora volgere la nostra attenzione ad alcune caratteristiche del nesso tra violenza e religione. La violenza incalza, sotto forma di aggressività, anche le religioni. A cominciare dal racconto genesiaco della violenza fratricida di Caino nei confronti di Abele, esse hanno cercato una via d’uscita attraverso la catarsi di innumerevoli racconti mitici e pratiche rituali. In effetti, nella misura in cui la violenza pare una componente ineliminabile del comportamento umano, non ci si dovrà stupire che la religione, in quanto fenomeno antropologico, abbia, nelle sue differenti realizzazioni storiche, intrecciato continuamente rapporti con le forme piú diverse di violenza. In quanto vis, forza animalesca messa in opera per conseguire lo scopo, piú o meno vicino, dei nostri desideri, essa è dappertutto: nelle nostre passioni, collere, amori, odi. Essa circola infatti, come il sangue dell’umanità, nelle sue emozioni, nelle sue rivolte, nelle sue utopie. Difficile, di conseguenza, sottrarsi all’impressione che la violenza faccia parte del patrimonio genetico dell’umanità, sia nella radice e nel tessuto delle nostre società storiche. A differenza degli animali, d’altro canto, per i

quali la natura ha posto un limite all’aggressività attribuendo loro una violenza che ha uno scopo protettivo, soltanto l’uomo «è capace di infierire sul vinto senza offrirgli una possibilità di fuga» (Torno 2003, p. 16). Se, dunque, la violenza sembra costituire il nostro destino, individuale e collettivo, come controllarlo? E soprattutto, come sfuggirlo? Una prima considerazione, a questo punto, s’impone. La violenza non è sempre al servizio del Male; esiste, infatti, anche una violenza del Bene; accanto a una violenza cieca e distruttrice, esiste anche una violenza instauratrice e creatrice. Radicata nel cuore dell’uomo, la violenza contiene insomma, come altre realtà umane, una ineliminabile ambiguità, che si riflette, nel caso della tradizione cristiana, nel proclamare che il regno di Dio appartiene ai violenti, che «chi non è con me è contro di me». La dimensione eristica, che contraddistingue il radicalismo cristiano delle origini, riassunta in modo icastico da Pascal, è un esempio di questa violenza creatrice: «La guerra piú crudele che Dio possa fare agli uomini in questa vita è di lasciarli senza la guerra che Egli è venuto a portare». Si tratta di una pulsione aggressiva che, piú o meno sublimata, può trasformarsi, nella storia di una tradizione religiosa, in fattore dinamico (Sironneau 1982, p. 69), sorgente cui continuamente attingere per rinnovare appunto la violenza instauratrice delle origini, anche se, spesso e volentieri, presa alla lettera, può diventare alimento di conflitti micidiali. Si prenda il caso, ampiamente diffuso e studiato in questi ultimi decenni, della violenza insita nel sacrificio cruento, che si dispiega con particolare ferocia nel caso dei sacrifici umani. Che si ricorra per spiegarla, come vorrebbe Walter Burkert (1972), a un paradigma interpretativo di tipo etologico fondato sulla aggressività innata della specie umana, o che si ricorra piuttosto, secondo l’ipotesi di René Girard (1972), alla funzione catartica del capro espiatorio, culminante nel superamento di ogni forma di sacrificio rappresentato dalla morte sacrificale del Cristo, quel che accomuna queste ed altre spiegazioni della violenza sacrificale è il tentativo di scoprirne la logica, sottraendo il fenomeno all’alea dell’irrazionale. Anche se nell’universo religioso, come piú in generale nell’universo umano, «la violenza ha questo di terribile e disumano. Nega il verbo. Interrompe il discorso» (Ferrarotti 1980, p. 9), il fatto che essa sia stata codificata nei meccanismi rituali si rivela un tentativo di imbrigliarne e incanalarne la forza distruttrice attraverso apparati simbolici e pratiche socialmente controllate.

Ma l’intreccio tra religione e violenza non è limitabile al campo, pur decisivo, del sacrificio cruento e delle pratiche collegate. Infatti le tradizioni religiose si sono avvalse della violenza religiosa per molti motivi, riconducibili, per comodità espositiva, a tre tipi (Klausner 1996, p. 693). Prima di tutto, nelle situazioni di radicalizzazione, quando la religione deve contribuire a trasformare i problemi terreni in questioni di vita o di morte, le tradizioni religiose hanno fatto ricorso al serbatoio inesauribile di miti e riti che possono aiutare, con i loro simbolismi e le loro pratiche, a trasformare una situazione di conflitto politico in una vera e propria guerra santa. In secondo luogo, in situazioni conflittuali e di crisi identitaria, esse possono contribuire in modo determinante ad identificare il male che si deve attaccare, sotto forma di nemico esterno. In terzo luogo, esse permettono di razionalizzare, nel caso dei conflitti armati, le azioni dei vari protagonisti, individuali e collettivi, giustificando ad esempio e valorizzando simbolicamente il furor bellico del guerriero, nel contempo, fornendo motivi di identificazione al gruppo che si appresta alla lotta. Naturalmente, queste note elementari sono state declinate, nel mutare dei concreti contesti storici, in modi diversissimi, producendo innumerevoli variazioni. Cosí, se si assume per un momento una prospettiva weberiana di sociologia delle religioni, sarà possibile incontrare società guidate, come nella Grecia omerica, da un’élite aristocratica guerriera, in cui il fato, il destino, le passioni, le figure dei grandi eroi sembrano dominare la scena, sullo sfondo dell’azione di un mondo divino che non disdegna di partecipare in modo partigiano alle loro lotte, incoraggiandole quando non provocandole. Diverso il caso di quelle società che, rifiutando di fare della guerra lo scopo stesso della vita, appoggiandosi ad élite di intellettuali autorevoli, vedono invece nella religione un fattore etico di freno e controllo di una violenza, che va riservata a casi eccezionali. Vi è, dunque, una violenza inerente alla logica stessa della religione e ai suoi rapporti col mondo del divino, intrinseca alle sue pratiche e ai suoi riti: e questo, a prescindere ora dalle differenti teorie, di tipo psicoanalitico o etologico, che, soprattutto in questi ultimi anni, sono state evocate per tentare di spiegare questo nesso. Ma si tratta di una violenza inerente ad ogni religione o che invece proviene dall’esterno? E ancora: quello di violenzareligione è un nesso storicamente condizionato, nel senso che esso è soprattutto un’eredità del passato, rimandando ad una fase storica dello

sviluppo ormai definitivamente superata, o non dobbiamo farci illusioni sulla sua persistenza? E infine: esistono religioni piú violente di altre? Molti eventi drammatici di questi ultimi anni, primo su tutti la guerra in Bosnia, ma piú in generale, la stessa storia tragica del Novecento, dovrebbero impedirci ogni illusione. Basta guardare agli esiti del fondamentalismo islamico in Algeria, all’intreccio tra guerra e religione nell’Irlanda del Nord, alla miscela esplosiva rappresentata dal fattore religioso ed etnico nella crisi dei Balcani, per rispondere che il nesso violenza-religione continua a costituire un fattore presente anche nel mondo contemporaneo, che, in altri termini, contro ogni teoria evoluzionistica, esso non appartiene a un passato della storia umana meno civile ed umanitario. Se in certi casi la modernità lo ha attenuato, in altri le crisi epocali che essa ha messo in moto lo hanno attizzato con una virulenza impensabile. Certo, i grandi genocidi di massa del Novecento, dalla Shoah ai milioni di morti causati dai vari comunismi, non sono stati commessi «in nome di Dio», ma di ideologie atee o ispirate, come nel caso del nazismo, a miti razzistici di origine pagana (cfr. cap. VIII par. 2 sui totalitarismi come religioni secolari). Questa constatazione, d’altro canto, non può cancellare il fatto che oggi, in non poche parti del mondo, in non poche situazioni di conflitto, si continui ad uccidere, sia pure pretestuosamente, «in nome di Dio». Per spiegare questa persistenza non è sufficiente invocare la violenza antropologica; esistono, infatti, anche motivi ideologici intrinseci alle tradizioni religiose, non solo del passato ma anche del presente, che alimentano questo nesso. E questo, anche perché ogni tradizione religiosa ha finito per giustificare in modi diversi la necessità o l’inevitabilità della violenza. Basterà citare uno dei testi fondamentali dell’induismo, la Bhagavad Gita (Il canto del Beato), che presuppone non a caso uno scenario di guerra sterminatrice, cui non ci si può sottrarre se, come nel caso del guerriero, questo è il proprio dharma (il proprio obbligo morale, seppur di casta). Un messaggio, dunque, di legittimazione religiosa della violenza guerriera; e questo, anche se spiriti nobili e pacifisti come Gāndhī hanno cercato di rileggere in chiave allegorica e simbolica questo conflitto, vedendolo come il conflitto tra bene e male. Del resto, giustificazioni dell’uso della violenza a scopi di difesa (la cosiddetta «guerra giusta») si ritrovano anche nella

tradizione cristiana, da Agostino ai dibattiti sorti al tempo della Guerra del golfo; e in quest’ottica va anche letta la cosiddetta «guerra santa» dell’islam. Questi esempi ci mettono di fronte ad un’altra causa essenziale dell’intreccio tra violenza e religione: l’intreccio tra politica e religione, sul quale ritorneremo in modo piú approfondito nel prossimo capitolo. In genere, infatti, il problema investe prima di tutto la religione come realtà istituzionale e sociale, chiamata a svolgere funzioni di legittimazione e sostegno della realtà sociopolitica in cui essa si incarna o di cui essa è espressione. Naturalmente, nella storia quest’intreccio si è posto in modo diverso. Nelle società antiche e tradizionali, ad esempio, caratterizzate dal fatto che la religione costituiva una realtà sociale permanente e diffusa coincidente con la stessa società di cui era espressione, essa legittimava inevitabilmente guerre e violenze, proclamando ad esempio l’esistenza di dèi guerrieri, di divinità nazionali invocate per proteggere il proprio stato, ma anche per conquistare e uccidere i propri nemici. Le cosiddette religioni di salvezza, d’altro canto, dal cristianesimo al buddhismo, hanno cercato di rompere questo legame perverso in nome di beni di salvezza oltremondani. La loro storia millenaria, però, sta lí a ricordarci che questi tentativi sono riusciti soltanto fino a un certo punto: e questo proprio perché l’inevitabile processo di istituzionalizzazione, con il sorgere di chiese o, come nel caso del buddhismo, di potenti istituzioni monastiche, ha portato inevitabilmente a stabilire rapporti col potere politico, quando non ad entrare in prima persona sulla scena politica (come nei regimi di cristianità), in questo modo alimentando, piú o meno direttamente, o in ogni caso giustificando la violenza di stato (cfr. cap. VII par. 2). Il diffondersi oggi di movimenti fondamentalisti, caratteristici prima di tutto dei monoteismi, anche se non riducibili ad essi, ripropone in modo drammatico quest’aspetto particolare del rapporto tra religione e politica. Mossi da un vigoroso senso di rifiuto della modernità vista come una minaccia mortale all’integrità della fede tradizionale, i fondamentalismi paiono per lo piú caratterizzati, in forme e gradi diversi, da un radicale dualismo nei confronti di un mondo esterno vissuto come una minaccia mortale alla saldezza della propria fede e del proprio sistema di valori. Ne consegue il pressante invito a ricorrere alle armi della parola, quando non alla parola delle armi, rivolto ai vari tipi di «guerrieri di Dio» per attaccare il

nemico esterno a difesa del credente «autentico» e dei «fondamenti» della propria religione. In questo modo, i fondamentalismi che oggi recitano una parte importante sia nel protestantesimo americano sia nel mondo ebraico israeliano sia nell’islam ripropongono una miscela esplosiva di politica e religione che si alimenta e, a sua volta, alimenta una violenza virulenta; una violenza virulenta, che può essere soltanto verbale, ma che, in situazioni determinate, non ha alcuna difficoltà a tramutarsi in violenza assassina (cfr. cap. VII par. 3). Per tentare di mettere meglio a fuoco la violenza della religione, la parte cioè che essa ha recitato e recita nello scatenamento, oltre che nella legittimazione, di situazioni conflittuali, le pagine successive affrontano tre questioni distinte, anche se collegate: il rapporto tra religioni e guerre; il nesso tra monoteismo e violenza; infine, il tema dei fondamentalismi. 2. Religioni e guerre. Viviamo oggi, all’alba del terzo millennio, una situazione apparentemente paradossale. Il Novecento ha conosciuto guerre spaventose; in genere, però, a cominciare dalle due guerre mondiali, si è trattato di guerre secolarizzate nel senso che la religione non vi ha recitato una parte di primo piano. In questi due ultimi decenni, di contro, si è sempre piú assistito al riemergere di conflitti etnoreligiosi, che sembravano appartenere a un passato irrimediabilmente superato. Da un lato, si tratta del riemergere e del riacutizzarsi di conflitti tradizionali intrareligiosi come quelli che dilaniano protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord o interreligiosi, come quelli tra hindu e musulmani e hindu e sikh, che travagliano il subcontinente indiano o tra israeliani e palestinesi in Israele o insanguinano le relazioni tra la maggioranza cingalese e la minoranza tamil nello Sri Lanka. Dall’altra, la crisi dell’ex Unione Sovietica e la guerra dei Balcani hanno fatto riesplodere in tutta la sua ferocia la centralità del dato religioso nella riacquisizione di un’identità etnica minacciata o da ricuperare, a dimostrazione che «le religioni entrano in guerra, quando diventano la lingua sacra dell’identità collettiva di un popolo o di un gruppo umano, che si sentono minacciati nella loro stessa sopravvivenza fisica e morale» (Pace 2003, p. 134; cfr. anche Jürgensmeyer 1993). La violenza delle guerre e dei conflitti promossi dai nazionalismi religiosi da un lato, dai fondamentalismi dall’altro, ha cosí riproposto in modo drammatico la centralità del nesso «guerra-religione»

(Yacoub 2002). Come dimostra, d’altro canto, il caso del terrorismo religioso, si tratta di un nesso complesso, non limitabile ai paesi che hanno conosciuto la crisi del 1989 o spiegabile nei termini del clash of civilizations caro a Samuel P. Huntington, dal momento che riemerge in seno alle stesse società occidentali postindustriali, dal Giappone agli Stati Uniti e, attraverso le forme parossistiche di movimenti messianico-millenaristi, seca le piú diverse tradizioni religiose (Robbins e Palmer 1997, Hall, Schuyler e Trinh 2000). D’altro canto, questi movimenti terroristici, portatori di un nuovo tipo di guerra religiosa, in realtà riattivano, piú o meno consapevolmente, stereotipi mitici come la «guerra cosmica» e processi rituali di sacralizzazione arcaici ( Jürgensmeyer 2000). Una comprensione, di conseguenza, sia del nazionalismo religioso e dei conflitti da esso innescati sia del nuovo terrorismo religioso su scala planetaria non può prescindere dal tentativo di ricollocare questi fenomeni nella storia millenaria del rapporto intrattenuto dalle varie religioni con la guerra e la sua violenza omicida. In quanto realtà antropologica, infatti, le religioni hanno continuamente intrecciato la loro storia con la storia delle guerre e dei conflitti (Crépon 1991, Viaud 1991). Ciò non deve certo stupire, dal momento che nelle società tradizionali la religione svolge principalmente la funzione di legittimare l’ordine politico. Ad un’analisi piú approfondita, quest’intreccio solleva, però, un interrogativo decisivo. La religione infatti – a prescindere ora dalle sue concrete determinazioni culturali e storiche – non può essere ridotta a puro fattore ideologico, dal momento che essa possiede una valenza e una logica sua propria che ne determinano, almeno in circostanze particolari, la non comune efficacia come componente essenziale del conflitto e della guerra. In questa prospettiva, uno dei problemi di fondo che un’analisi comparata del rapporto tra religione e guerre solleva è: fino a che punto e sotto quali circostanze una religione si rivela un fattore scatenante, causale, di un conflitto e fino a che punto e in quali circostanze una religione si limita invece a svolgere una funzione puramente aggiuntiva di legittimazione di cause scatenanti di altra natura, come la competizione per le risorse economiche o territoriali? Questo primo interrogativo è strettamente collegato ad un secondo, discendente dalla natura stessa della religione e dal suo rapporto con la società e la cultura: esistono elementi strutturali a partire dai quali e intorno

ai quali le differenti religioni, al di là del variare dei condizionamenti storicoculturali, hanno fondato la loro simbiosi con guerre e conflitti? E, in caso di risposta affermativa, come hanno declinato queste note elementari? È possibile, inoltre, anche nel campo delle relazioni tra religione e guerra, individuare una qualche tipologia che possa fungere da mappa in questo territorio sterminato? Si tratta di interrogativi fondamentali cui le Scienze delle religioni sono chiamate a recare il loro contributo, in una situazione in cui si moltiplicano le analisi piú diverse, spesso prive di un’attenzione adeguata verso il ruolo recitato dalla religione. In questa prospettiva, senza alcuna pretesa di esaustività, conviene riflettere su quegli elementi strutturali che possono rendere una religione fattore causale e non soltanto funzionale e legittimante nei confronti di un conflitto, offrendo nel contempo alcuni spunti tipologici, che tengano conto sia del concetto di divino implicato sia della posta salvifica in gioco. In quanto sistemi sociali che, attraverso miti e riti, mantengono un rapporto con la trascendenza, le religioni si configurano come tradizioni che mirano, grazie a professionisti particolari, a mantenere un rapporto privilegiato col sacro. E il sacro, comunque si decida di definirlo, è intimamente legato alla violenza. Proprio per questo, il conflitto e la guerra si iscrivono geneticamente nel religioso. La guerra è la morte, o quantomeno il rischio costante di morte, ed è anche il completo rovesciamento dei rapporti sociali: il rafforzamento dei legami tra i membri del gruppo, l’abolizione degli interdetti morali del tempo di pace, la liberazione dell’aggressività ed il permesso, anzi, il dovere di uccidere. Per tutte le società organizzate sulla base di una fede religiosa e solidali con i propri dèi, la guerra coinvolge dunque radicalmente i rapporti con il divino (Minois 1994, trad. it. p. 7).

Nessuno meglio di Roger Caillois ha descritto questo rapporto misterioso e tremendo, perché esso conduce al cuore di quel mistero stesso della vita e della morte, di cui ogni religione si ritiene, in fondo, portatrice. Guerra e sacro, in questa prospettiva, si rivelano intimamente legati, dal momento che la prima «corrisponde ai movimenti viscerali, di natura necessariamente orrenda, che presiedono alla nascita fisica. Su di essa non hanno presa né la

volontà né l’intelligenza: tanto varrebbe governare il travaglio delle viscere. Eppure questi accessi devastanti rivelano all’uomo il valore e la potenza delle energie piú sotterranee» e cioè del sacro (Caillois 1963 3, trad. it. p. 166). Secondo la lettura di Caillois, vi è dunque un legame intimo, sarei tentato di dire consostanziale, tra religione e guerra, riconducibile al sacro, un sacro inteso come potenza incontenibile, foriera di vita come di morte (cfr. cap. III par. 4). Né è un caso che al centro della guerra, soprattutto delle guerre tradizionali combattute «in nome di Dio», si ritrovi continuamente il tema del sacrificio: immolazione della propria vita perché il proprio sangue serva a rifondare e a rinnovare il popolo esangue, la patria, la nazione, la religione per cui ci si immola; ma anche violenza sacrificale e distruttrice dell’altrui vita, perché solo il sangue del nemico è in grado di placare gli spiriti dei propri morti. In questo senso, il caso degli Aztechi, indotti ad intraprendere guerre con il solo scopo di catturare prigionieri da sacrificare al dio sole in vista del mantenimento dell’ordine cosmico, non è che un caso «eccessivo» della logica sacrificale soggiacente al rapporto tra religione e guerra (Duverger 1979). Un secondo tipo di intreccio tra religione e guerra è squisitamente ideologico: l’individuazione del male che si deve combattere come nemico interno o esterno, come eretico, infedele, Anticristo. Ciò è vero in particolare nella storia dei movimenti messianici, profetici e millenaristici che, con declinazioni diverse, costellano la storia non solo dei monoteismi abramitici, ma si ripresentano, anche come conseguenza dei processi di acculturazione, nelle religioni indigene, dall’Africa alle Americhe all’Australia, né sono estranei ad altre tradizioni religiose (Wessinger 2000). In questo secondo caso, la guerra religiosa si colora dei tempi della fine, inneggia alla battaglia finale, inquadrandosi in scenari apocalittici in cui avrà luogo la resa dei conti definitiva tra forze ed eserciti del Bene e forze ed eserciti del Male: uno scenario mitico-religioso che si ripresenta oggi, nel cuore della modernità, come «cuore di tenebra» dell’arcipelago fondamentalista. Una terza funzione, che si ritrova continuamente nell’interazione tra religione e guerra, è quella della costruzione stessa del furor bellico del guerriero che si accinge a partecipare alla guerra santa. Come preparare alla morte in guerra? E ancor prima, come costruire una vera e propria paideia bellica? Si pensa sovente alle religioni come a forze di pace: e, certo, esse lo sono state e, si spera, lo saranno sempre piú in futuro. Ma sarebbe errato

dimenticare l’importanza che in tutte le tradizioni religiose, a cominciare dalla valorizzazione simbolica (la militia Christi), ha avuto la formazione religiosa del furor bellico. Il guerriero, infatti, come l’eroe, deve essere in grado non solo di affrontare a viso aperto la propria morte, ma anche di ridestare in sé quella violenza sacra, quel furor appunto, capace di scatenare in lui la violenza omicida. Il passaggio dalla Parola sacra all’azione concreta dell’uccisione dell’altro non è ovvio. Richiede uno sforzo morale enorme: occorre vincere la ripulsa ad uccidere un altro uomo […] L’immaginazione religiosa, allora, arriva al potere, nel senso che fa immaginare possibile ciò che normalmente è impensabile (Pace 2003, p. VII).

Sulla base di queste considerazioni generali, proviamo a riprendere l’interrogativo sollevato all’inizio del paragrafo: qual è il rapporto tra tipo di religione e modalità dei conflitti e delle guerre? Esistono religioni di per sé piú pacifiche e/o piú belliche? Si tratta di interrogativi che possono essere ricondotti ad una questione di fondo. Tenuto conto della concezione del divino propria delle differenti religioni, fino a che punto è vera la tesi, già cara ad illuministi come Voltaire e Hume, che i politeismi sarebbero piú tolleranti e meno conflittuali, mentre il Dio dei monoteismi sarebbe un Dio piú violento e intollerante? Dal punto di vista storico, occorre riflettere sulle teologie politiche dei differenti tipi di religione e cioè in pratica sulle forme di rappresentazione della sovranità divina e sulle corrispondenze e le relazioni che queste concezioni hanno avuto con le concrete dinamiche del potere (cfr. cap. VIII par. 4). Per semplificare le cose, si può ricorrere a una triplice tipologia: il modo in cui questo rapporto si pone presso tutte quelle società tradizionali, in genere non statuali, in cui il cosmo divino non conosce analogamente una vera e propria forma di sovranità divina; il modo in cui si pone nelle società statuali antiche, dall’Egitto alla Mesopotamia, dalla Grecia classica a Roma, dalla Cina al Messico, in cui in genere (e con la parziale eccezione della polis greca) alla forma della sovranità terrena fa da contraltare un cosmo politeistico organizzato gerarchicamente e retto, a sua volta, da un sovrano divino; infine, il modo in cui si pone negli imperi a tendenza universalistica, da quello achemenide a quello romano, in cui ad una forma di sovranità

terrena universale, che esclude forme concorrenti di sovranità, corrisponde una sovranità divina di tipo tendenzialmente monoteistico. In effetti, se pur con le variazioni del caso, ad ognuna di queste teologie politiche corrisponde un modo diverso di rapportarsi tra religione e guerra. In genere, nelle società tradizionali la guerra è un fatto certo importante, ma anche normale, quando non costituisca, come nelle popolazioni di cacciatori, un fattore decisivo di identità culturale. Al pari degli altri avvenimenti significativi della vita, anche la guerra è investita di valori sacrali. Questo processo di sacralizzazione si realizza a tutti i livelli del suo svolgimento (Crépon 1991, trad. it. pp. 169 sgg.). In quanto attività peculiare distinta da altre sfere d’attività, essa gode della protezione di divinità specifiche, il cui numero e la cui importanza, anche a livello di racconti mitici in cui appaiono come protagoniste, variano a seconda delle diverse culture. Sul versante umano, poi, per quanto riguarda l’iniziazione e la professione del guerriero, la guerra ha con il mondo del sacro un rapporto privilegiato, che si accentua, naturalmente, là dove si ha a che fare con società, come quelle aristocratiche della Grecia omerica, in cui l’élite era appunto costituita da caste di guerrieri. Oltre alle specifiche iniziazioni, egli è sovente iniziato in gruppi particolari, carichi di valori simbolici capaci di dare senso e scopo al suo furor. Infine, il combattimento stesso assume l’aspetto di un vero e proprio rito di iniziazione alla morte e ai premi dell’aldilà che la società o il gruppo promettono ai suoi fedeli o, in caso di vittoria nei confronti del nemico, a una vita sociale rinnovata. Né va dimenticato il fatto che l’agone guerriero, nella misura in cui era visto condensare in sé il mistero stesso dell’incontro col sacro, spogliato dei suoi elementi cruenti e disumani, nelle reintepretazioni spirituali e mistiche di diverse tradizioni religiose è stato visto come il modello stesso della vita ascetica attraverso cui il vero fedele può essere messo in grado di sconfiggere le forze del male. Nelle società antiche di tipo statale si viene a creare una vera e propria classe di divinità preposte alla guerra, come il greco Ares o la romana Bellona, per altro in linea – se stiamo agli studi di Georges Dumézil – con una piú arcaica realtà indoeuropea, in cui la seconda funzione era specificamente assegnata a divinità belliche: Indra nel pantheon vedico, Ares in quello greco, Marte in quello romano, ecc. A questa classe di divinità, che rispecchia una divisione funzionale tipica del pantheon politeistico, fa da contraltare spesso

l’esistenza di una vera e propria classe di guerrieri, piú o meno professionisti, talora riuniti in caste o confraternite, che hanno per scopo di sottolineare l’aspetto religioso del combattimento e la sua preparazione rituale. Cosí, per non portare che un esempio, presso gli Aztechi, la classe militare era ammantata di un’aura divina e l’educazione rituale riservata ai giovani guerrieri era nettamente separata dalle altre. In realtà, la lista di queste confraternite è ben piú lunga e va dai mitraisti romani ai cavalieri medievali. L’elemento caratterizzante delle confraternite militari risiede nelle loro iniziazioni rituali, che perseguono lo scopo di costruire una paideia bellica incentrata intorno al furor. Per perseguire questo scopo, spesso è proposta, come nelle religioni dei Germani e del nord, un’identificazione con belve feroci, orsi e lupi, modelli di aggressività e furia devastatrice. L’idea soggiacente è quella tipica di ogni processo iniziatico: morire alla condizione normale per rinascere, seppur temporaneamente, a una condizione particolare, in questo caso identificata con la condizione di un guerriero feroce e invincibile, posseduto dal furore eroico, assimilato al furore della bestia selvaggia. Ed è un processo sostanzialmente di questo tipo che si ritrova anche oggi nei «guerrieri di Dio». A questo processo assistono gli dèi, che aiuteranno poi il guerriero sul campo di battaglia. La guerra, infatti, in questi contesti, è un evento insieme cosmico e divino, che coinvolge l’equilibrio del mondo: il caos che essa induce persegue lo scopo creativo di restaurare un ordine superiore. Per questo essa deve seguire un certo numero di regole, talora codificate dai vari diritti sacri. La religione romana ci fornisce, in questa prospettiva, una ricca messe di esempi (Crépon 1991), che fanno prima di tutto vedere il legame profondo che unisce la guerra, al pari della festa, al tempo sacro. Sospendendo il tempo profano, infatti, essa si iscrive nel tempo sacro. Presso i Romani le campagne si svolgevano in primavera e in estate, e riti stagionali di sacralizzazione e di desacralizzazione militare si tenevano in questi periodi dell’anno. L’inizio delle ostilità era segnato da due riti distinti: da una parte, l’intervento di un collegio di venti membri, i feziali, incaricati dei riti di dichiarazione di guerra e di ristabilimento di pace; dall’altra, l’apertura delle porte del tempio di Giano. Altre cerimonie sacre, come l’evocatio, la devotio, il sermo tra il soldato e il suo comandante, accompagnavano la campagna militare o, come la chiusura della porta del tempio di Giano, segnavano la sua conclusione,

simboleggiando il ritorno al tempo profano e lavorativo. In particolare, le varie campagne non potevano svolgersi senza l’assistenza di interpreti degli auspici divini, talmente influenti che un auspicio negativo poteva portare all’arresto della stessa guerra: un segno quanto mai chiaro del fatto che essa non era, in questi contesti, un evento, per quanto tragico, puramente umano, ma si iscriveva in un ordine superiore se non provvidenziale. 3. Il Dio degli eserciti. Che cosa succede ora quando si passa ad esaminare il nesso tra guerra e religioni di tipo monoteistico? Si tratta di un problema ritornato di grande attualità, dal momento che non pochi interpreti hanno voluto vedere nel Dio patriarcale dei monoteismi abramitici un fomite non secondario di violenza (cfr. cap. V par. 3). Le cose appaiono, in prospettiva storico-comparata, alquanto piú intricate. E questo, non solo perché, come si è visto nel quinto capitolo, il termine monoteismo cela in sé una realtà piú complessa e diversificata di quanto a prima vista possa apparire, ma anche perché il nesso tra monoteismo e violenza si è storicamente dispiegato in una molteplicità notevole di variazioni. Una prima considerazione da fare concerne il fatto che si può avere una religione monoteistica anche violenta, senza che questa violenza si traduca in una vera e propria guerra santa, come insegna il cosiddetto «monoteismo solare di Amarna» del faraone Akhenaton, il caso storicamente piú antico di monoteismo esclusivista (cfr. cap. V par. 3). D’altro canto, questo monoteismo esclusivista si differenzia da quello biblico perché la sua violenza iconoclasta non si è tradotta in una violenza conquistatrice e, a suo modo, annessionistica, fomentatrice di guerre: il dio di Amarna è in fondo rimasto un dio locale. Di contro, una caratteristica fondamentale dei monoteismi è la loro pretesa universalistica, che si traduce in una nuova forma di teologia politica che diventa fattore legittimante, quando non causa diretta, di guerre espansionistiche e difensivistiche. La concezione della sovranità universale di un unico Dio, infatti, non è priva di conseguenze sul piano politico. Il Dio del monoteismo cristiano e islamico – ma a suo modo anche il dio dello zoroastrismo Ahura Mazda, diventato il Signore unico dell’impero achemenide –, si è trovato a dover svolgere su scala universale l’antica funzione, territoriale ed etnica, svolta dagli dèi poliadi, protettori della polis o della res publica, dèi guerrieri. Mentre, però, nei politeismi la funzione

guerriera e del furor bellico, con la connessa violenza omicida, era in genere demandata, come si è sopra ricordato, a una divinità specifica, il Dio monoteistico si è trovato ad essere responsabile della pace, ma anche della guerra, santa o giusta che sia. Questa «responsabilità» apre un capitolo delicato: quello delle teodicee. Come si è visto, i monoteismi abramitici hanno teso a rifiutare l’idea del male radicale, ricorrendo a forme varie di teodicee, accomunate dal fatto di interpretare il male non come dato ontologico, ma etico cioè di responsabilità dell’uomo. Ne consegue che la guerra, con la violenza omicida connessa, se è una guerra che si giustifica agli occhi di Dio, non può non essere «santa», spogliata di ogni elemento negativo nella misura in cui è espressione della volontà salvifica, assoluta e incondizionata, di Dio, misteriosamente inserita nei suoi piani provvidenziali (Partner 1997). Secondo la tipica dottrina paolina di Rm 13.1-7, poiché ogni potere politico proviene da Dio, se ne desume che un potere giusto e legittimo non può che condurre una guerra giusta cioè legittimata agli occhi di Dio. Per converso, posizioni dualistiche come quelle gnostiche, quella di un Marcione, quella dei catari, con il loro diteismo tendono a separare radicalmente il Dio dell’amore e del bene dal Dio giusto e/o malvagio, in genere identificato con la fonte stessa dell’autorità politica. Ne consegue una delegittimazione della sfera politica in quanto sfera di esercizio di un potere malvagio. In un saggio dedicato al rapporto tra guerra e cristianesimo, il teologo cattolico Eugen Drewermann ha affermato che nell’Occidente cristiano, e non nell’Oriente islamico, «sono state combattute le guerre piú atroci e da qui sono partite le guerre piú devastanti di tutta la storia del nostro globo» (Drewermann 1999, p. 109; cfr. anche Minois 1994). Ne consegue, per il teologo tedesco, che vi deve essere nel cristianesimo – assunto nella sua globalità confessionale – una qualche causa patologica per spiegare simili devastanti effetti: Intese come sintomi, come indicatori di una crisi, le infinite guerre dell’Occidente rimandano a una tendenza alla guerra radicata nel cristianesimo stesso… [esso] assai spesso non solo non è riuscito a evitare la guerra, ma l’ha anzi spiritualmente tollerata e di fatto l’ha totalizzata accettandola in ogni forma, con tutti i suoi obbiettivi e con la sua leggerezza nella scelta dei mezzi (Drewermann 1999, p. 110).

Lupo travestito da agnello, il cristianesimo analizzato dallo psicoterapeuta Drewermann nella sua dura requisitoria si rivela un paziente afflitto da una malattia mortale, dal momento che in lui «deve essere nascosto qualche elemento patologico che trasforma le intenzioni di tale religione nel suo contrario» (ibid., p. 110). Instaurare challenges tra cristianesimo ed islam per stabilire quale delle due religioni monoteistiche si sia rivelata, nella sua storia millenaria, piú incline alla guerra nelle sue varie forme, può essere un dovere del credente o imporsi come giudizio etico in una discussione a sfondo politico, ma è alieno al modo di procedere dell’analisi scientifica. Il compito delicato che le Scienze delle religioni si trovano oggi di fronte è quello sia di mettere in luce le comuni radici storiche, in genere di matrice biblica e vicinoorientale (Partner 1997), che stanno dietro a questa tradizione bellica, sia in particolare di individuare le inclinazioni al radicalismo che caratterizzano queste due fedi, nel contempo approfondendo da vari punti di vista, lungo la via aperta in modo polemico da Drewermann, la complessità dei fattori antropologici in gioco. Per coloro che sono abituati a vedere la religione essenzialmente come un fattore di pace e la fonte dei valori piú alti, il nesso pernicioso e la relazione intima che essa ha intrattenuto e continua a intrattenere con la guerra e la violenza omicida che la alimenta può rappresentare un fattore incomprensibile, un elemento di scandalo, un rimosso da occultare. Ma, come ogni rimosso che si rispetti, questo nesso riemerge prepotentemente e chiede di essere spiegato e interpretato: la politica dello struzzo, in questi casi drammatici, alla fine si rivela ancora una volta deleteria. Né vale ricorrere a concezioni che mirino a distinguere la fede dalla religione, considerando la seconda come pura produzione umana: questa prospettiva, tipica della teologia di Karl Barth, che ha dominato la prima metà del Novecento, si è rivelata alla lunga una camicia di Nesso incapace di far comprendere sia il pluralismo religioso sia l’intreccio ineludibile tra fede e religione. Che i rappresentanti delle varie religioni tendano a sottovalutare la forza e la pericolosità del rapporto duraturo tra religione e guerre è, da un certo punto di vista, comprensibile; cosí come risultano ammirevoli i loro tentativi di promuovere dialoghi di pace. Ma senza una presa in carico anche dell’altro volto della medaglia e cioè del ruolo importante, se non decisivo, che le religioni hanno avuto e continuano ad avere nell’iniziare, nel giustificare, nel

sostenere, nel perpetuare, nel razionalizzare la violenza e l’aggressività omicide, ogni loro contributo a un processo di pace rischia di rimanere lettera morta. 4. I fondamentalismi. 4.1. Aspetti strutturali. Il termine «fondamentalismo» ha origini cristiane. Esso è stato usato per la prima volta quale autodesignazione di un movimento formatosi negli anni Settanta del XIX secolo negli Stati Uniti, ad indicare gruppi protestanti conservatori critici nei confronti dei valori fondamentali della modernità, organizzatisi in seguito nel 1919 nella World’s Christian Fundamentals Association (Carpenter 1988). A diffonderlo contribuí una serie di libretti pubblicati tra il 1909 e il 1915 negli Usa dal titolo The Fundamentals. A Testimony to the Truth. Richiamandosi all’ispirazione verbale delle Scritture e, di conseguenza, alla verità della lettera che rifiuta l’esegesi critica moderna e, piú in generale, contrappone il piano della fede a quello della scienza, questi gruppi intendevano opporsi alle tendenze e ai valori modernizzanti (pluralismo, relativismo, storicismo, evoluzionismo, ecc.), responsabili, a loro avviso, di corrodere il protestantesimo. Il termine è ritornato di attualità negli anni Ottanta del Novecento in seguito alla rivoluzione khomeinista in Iran e ai successi della Destra religiosa negli Usa sotto la presidenza Reagan. Un uso indiscriminato ha fatto sí che, per un verso, «fondamentalismo» sia diventato un termine massmediatico deviante, ad indicare ogni forma di fanatismo e di opposizione alla società dominante, un grande contenitore in cui si collocano proposte teologiche, movimenti religiosi e programmi politici in sé diversi e distinti (Marty e Scott Appleby 1991-95). Per un altro verso, gli specialisti lo hanno applicato allo studio di fenomeni analoghi presenti sia nelle altre confessioni cristiane (problema del fondamentalismo cattolico) sia negli altri monoteismi (fondamentalismo islamico, ebraico) sia nelle altre religioni (fondamentalismo induista, sikh, ecc.). Da un punto di vista comparato, essi risultano accomunati dal fatto di lottare a favore della difesa di un passato dottrinale, reale o mitico, sotto la protezione di Dio, contro tutto ciò che minaccia questo ritorno alle «origini». Il suo uso sempre piú esteso e, nel contempo, la difficoltà di delimitarlo con chiarezza rispetto a termini analoghi come tradizionalismo, radicalismo, integralismo e simili hanno acceso, d’altro canto, un vivace dibattito, inducendo alcuni studiosi a

proporne l’abolizione: classico esempio di un rimedio peggiore del male. In realtà, come altri termini coniati dalle Scienze delle religioni, anche «fondamentalismo», al pari ad esempio di «orientalismo», è una tipica «invention of the West». In questo senso, l’uso del concetto di fondamentalismo: … rappresenta una delle tante strategie che impieghiamo per permettere a noi stessi di ignorare il lato sgradevole e imperialistico della cultura moderna. Ci consente di ignorare il fatto che l’Occidente moderno postilluminista è stato e spesso rimane assolutista e intollerante come i «fondamentalisti» contro cui combattiamo. Ci consente di sostenere l’illusione che il termine modernità sia sinonimo di pluralismo, democrazia, rispetto per le differenze – tutto ciò che, presumibilmente, i «fondamentalisti» non sono. Ci consente di pretendere che i valori omaggiati dall’«alta cultura» americana rappresentino ciò che la modernità è ed è sempre stata. Questa è, comunque, una pia illusione […] La realtà è che la parola stessa di modernità non è sinonimo di alcun tipo di orientamento politico o culturale; si tratta di un costrutto per lo piú privo di senso, cui noi attribuiamo significato quanto piú ci sentiamo in sintonia con esso. In generale nella discussione sul fondamentalismo modernità connota tutto ciò che è buono e sano, mentre il mondo «medievale» che contrastiamo rappresenta tutto ciò che è degno di condanna (Harris 1994, p. 139).

Harris ha ragione, soprattutto alla luce dei tragici eventi dell’11 settembre: mea res agitur. Il problema del fondamentalismo ha una forte componente proiettiva: esso sembra occultare quello, assai piú vasto e complesso, della modernità; né è un caso che, in ambito cristiano, i fondamentalismi emergano in reazione ai tentativi di modernizzazione o che, per altro verso, l’ortodossia e cioè la confessione cristiana che meno si è confrontata, almeno sinora, con le sfide del mondo moderno, non conosca correnti fondamentaliste significative. Ciò che accomuna i vari fondamentalismi è, prima di tutto, il fatto che essi sono una sorta di «antimodernismo moderno», un prodotto della modernità cioè, nei cui confronti si pongono in posizione di critica, rifiutandone gli scopi e i principî, ma servendosi nel contempo, per portare a buon fine questa critica, dei mezzi tecnologici (a partire dai massmedia), che

essa mette a disposizione (Lawrence 1989). In secondo luogo, centrale nei vari fondamentalismi è la rilevanza del tema della politica: Il fondamentalismo è infatti un tipo di pensiero e di agire religioso che si interroga sul vincolo etico che tiene assieme le persone che vivono in una stessa società, sentita come totalità di credenti impegnati in quanto tali in ogni campo dell’agire sociale. Essi si pongono in modo radicale il problema del fondamento ultimo, etico-religioso, della polis: la comunità politica che prende forma nello Stato deve fondarsi su di un patto di fratellanza religiosa (Pace e Guolo 1998, p. 4).

Ciò che li unisce infine, al di là delle pur vistose differenze teologiche, sociologiche e politico-culturali, è un dato essenzialmente religioso: il richiamo a un fondamento puro e incontaminato della propria identità di fede, basato su di una concezione esclusiva del rapporto col proprio Dio e con la tradizione, che porta a identificare, di contro a tutta la tradizione tipica dello stato laico moderno, la propria comunità religiosa e i suoi valori con la comunità civile. Per imporre questa visione, la comunità religiosa, anche in virtú del fatto che essa è depositaria – secondo un tipico modello teocratico di teologia politica – della legge data da Dio, ha una missione salvifica da compiere, consistente nell’affermazione, anche facendo ricorso alla violenza, della propria visione del mondo. Di conseguenza, i fondamentalismi si presentano come fattori di ricerca identitaria di fronte ai processi di messa in crisi vuoi del modello dello stato laico e della privatizzazione della religione vuoi della globalizzazione dei processi religiosi con le crisi identitarie che ne conseguono. Per questo alcuni analisti politici, collocando la nascita e l’ascesa dei recenti fondamentalismi nel contesto internazionale determinatosi alla fine del Novecento, hanno visto in essi uno dei possibili protagonisti della scena politico-religiosa del nuovo millennio (Huntington 1996, Riesebrodt 2000). In effetti, i fondamentalismi, a partire da quelli cristiani, fanno parte di una piú generale dialettica tipica della modernità, in conseguenza della quale al radicalizzarsi dei processi modernizzanti fa da contraltare un tentativo di opporvisi utilizzando in modi diversi modelli tradizionali fino alla «invenzione della tradizione» e a forme nuove di giacobinismo politico (Eisenstadt 1994 e 1999). Una volta riconosciuti questi tratti comuni, dovrebbe risultare piú

semplice distinguere i fondamentalismi da fenomeni affini come integralismo, radicalismo, tradizionalismo, con i quali spesso si tende a confonderli. La somiglianza di famiglia non deve far dimenticare come, dietro la parentela terminologica, si celino realtà storico-religiose certo affini, ma anche differenti. Per cominciare con il rapporto con la tradizione, se è vero che il fondamentalismo ha come ideale una società fondata sul passato, è altresí vero che, a differenza del tradizionalismo, esso non auspica un ritorno alla tradizione, che anzi in modo piú o meno esplicito viene combattuta in nome della purezza originaria che si intende restaurare e che, come vedremo meglio tra poco, è espressa al meglio nelle Scritture, da cui appunto la tradizione ha avuto il torto di allontanarsi. Questa distinzione tra il passato originario o remoto delle Scritture e il passato prossimo della tradizione, trasmesso dalla memoria collettiva, permette di delimitare meglio anche i confini con l’integralismo. Quest’ultimo, infatti, come insegna il caso a noi piú familiare dell’integralismo cattolico, se condivide con il fondamentalismo il rifiuto di ogni evoluzione delle forme religiose e la chiusura in una tradizione per cosí dire bloccata, rassicurante nella sua immutabilità astorica o metastorica, se ne differenzia per il posto centrale, anzi decisivo, assegnato al magistero ecclesiastico come garante appunto della conservazione integrale del patrimonio dottrinale: la catena di trasmissione magisteriale e non il testo, in altri termini, costituisce il particolare fondamento dell’integralismo. Inoltre – altro tratto distintivo – nella misura in cui l’integralismo ha il suo volano sociologico nella Chiesa, ne risulta che esso tende per sua natura, in forme e modi che possono storicamente variare, a improntare di sé l’intera società, uniformandola ai propri principî religiosi secondo un modello gerarchico tipico delle società tradizionali e che nei regimi di cristianità ha trovato la sua migliore espressione. Di contro, il fondamentalismo, almeno là dove ha una base sociologica di tipo settario, si limita a contrapporsi alle istituzioni esterne, non ad asservirle ai propri principî (anche se va subito aggiunto, a proposito della storia piú recente del fondamentalismo islamico, che pare sempre piú imporsi al suo interno una tendenza integralista mirante ad imporre, attraverso particolari forme di mediazione, la propria Legge a tutta la società). Per quanto concerne, infine, i rapporti col radicalismo religioso – un

fenomeno interessante, che esigerebbe un discorso a parte, solo se si pensa che lo stesso cristianesimo delle origini presenta tratti «eristici» di questo tipo –, ci si potrà limitare ad osservare che in questo caso, se i due fenomeni paiono accomunati dal carattere militante – nel senso che per entrambi il conflitto è il propellente della loro azione in quanto vuoi con le parole vuoi con le idee vuoi, nei casi estremi, con le spade o le pallottole, entrambi militano e lottano per un’idea ritenuta essenziale e vitale contro una minaccia ritenuta mortale, secondo una tipica prospettiva dualistica che esclude ogni forma di compromesso –, ciò che li differenzia è, tra l’altro, una diversa concezione del tempo e della storia: mentre per i fondamentalisti, infatti, il tempo e il cambiamento sono fattori di corrosione della purezza originaria, i radicali religiosi in genere vedono nel tempo un fattore di compimento e di realizzazione. Anche cosí circuito, il campo fondamentalista continua a porre problemi di delimitazione e definizione non piú verso l’esterno ma verso l’interno. Il fondamentalismo americano, come ci accingiamo a vedere, presentava alcuni tratti distintivi, come il richiamo a una purezza originaria, la costruzione di confini istituzionali e simbolici ben determinati, la ritualizzazione della vita quotidiana, la demonizzazione del mondo esterno, l’impronta millenaristica, l’inerranza del testo sacro, la costituzione di un minimo comun denominatore dottrinale, i cosiddetti «fondamentali», in cui arroccarsi come una cittadella da difendere fino all’ultimo dagli assalti della secolarizzazione e, soprattutto, del secolarismo. Mescolati in modi storicamente variabili, questi tratti riemergono in altri movimenti religiosi appartenenti prima di tutto ad altre confessioni cristiane e in genere alle tradizioni abramitiche di tipo monoteistico. A partire da questo ambito, abbastanza ben definito da un punto di vista storico-religioso e che si apre al non semplice problema di stabilire il tipo di nesso esistente tra una fede monoteistica e credenze e pratiche di tipo fondamentalista, la categoria è stata poi estesa, com’è tipico delle Scienze delle religioni, allo studio di altri fenomeni analoghi appartenenti ad altre tradizioni religiose. È cosí sorto un problema comparativo, che presenta due aspetti. Il primo, che abbiamo piú volte incontrato, è legato alla legittimità o meno di estendere l’uso di una categoria sorta in uno specifico ambito cristiano occidentale e moderno a contesti, non solo sociali e culturali, ma anche storico-religiosi profondamente diversi,

dove, ad esempio, esiste una differente concezione di Dio, della rivelazione, del libro sacro e della sua centralità nella vita del credente e della comunità religiosa; il secondo, di tipo diacronico, fa sorgere l’interrogativo se e fino a che punto il fondamentalismo sia un fenomeno essenzialmente moderno o invece fondamentalismi esistano anche nelle tradizioni religiose premoderne. Questi due problemi si ricollegano a un quesito di fondo, sfiorato nell’introduzione: se e in che cosa e fino a che punto la modernità, con la sua peculiare forma di razionalità e di individualismo, costituisca un fenomeno nel suo genere nuovo ed unico e, per converso, se il fondamentalismo, lungi dall’essere un fenomeno presente anche in altri periodi storici, non sia invece un fenomeno essenzialmente moderno, piú precisamente antimoderno o, come oggi alcuni amano esprimersi, antisecolarista. Da quanto precede dovrebbe risultare chiaro che il fondamentalismo, al pari del concetto di religione o di sacro, costituisce, nel contempo, una categoria e un fenomeno essenzialmente moderni, un prodotto della modernità. La modernità costituisce il testo, a partire dal quale il fondamentalismo costruisce il suo controtesto o il suo aspetto decostruttivo; o, se si preferisce, essa è la struttura a partire dalla quale si costruisce la deriva sovrastrutturale fondamentalista (cosa che, peraltro, non esclude, da parte dei vari fondamentalismi religiosi, l’uso delle infrastrutture offerte dalla tecnologia moderna). Detto in altri termini: fondamentalismo è, in quanto categoria interpretativa (posizione «etica» dell’osservatore esterno), un modo tipico della razionalità occidentale per gettare ancora una volta un ponte conoscitivo tra identità (della nostra tradizione) e alterità, che costituiscono, in questa prospettiva, i due poli di un interscambio continuo, di una relazione di reciprocità dinamica, caratterizzata dalla trasformazione, repentina o progressiva, dei valori, e di conseguenza, in modo costitutivo, da ambiguità e ambivalenza. In quanto categoria «emica», che riflette cioè il punto di vista non piú dell’osservatore, ma dell’attore sociale, il fondamentalismo, prima ancora di definirsi dall’interno per alcuni suoi caratteri distintivi (riducibili a uno soltanto? o a una rete significante?), si caratterizza verso l’esterno come opposizione a un «altro» variamente perimetrato, si definisce dunque per il suo carattere contrastivo e polemico, antagonistico e conflittuale. Oltre alla sua relativizzazione, una conseguenza significativa di quest’impostazione del problema consiste nel porre l’accento sul rapporto di

volta in volta in gioco tra fondamentalismo e tipo di razionalità. Quel che ci si deve chiedere, di fronte a quelle che a prima vista paiono e comunque vengono correntemente e corrivamente definite «esplosioni di irrazionalità», è il tipo di razionalità all’opera. Dietro l’agire dei vari movimenti fondamentalisti esiste, infatti, una geometria o razionalità delle passioni, che è compito precipuo delle Scienze delle religioni mettere in luce sine ira et studio. Cosí, di fronte ai molti movimenti di tipo fondamentalista a sfondo emozionalistico che fanno parte della galassia del nuovo pietismo, occorre chiedersi quali siano le funzioni che queste esplosioni emozionali alla fine svolgono, in particolare di tipo cognitivo oltre che rassicurativo. Queste considerazioni ci portano a sottolineare un altro aspetto distintivo del fondamentalismo nel suo rapporto simbiotico con la modernità: la sua plasticità. Esso, infatti, interagisce dinamicamente con l’ambiente storicosociale, in modi e forme che non possono essere ricondotti a un unico comune denominatore, intrecciando una forma mentis antimoderna e antisecolare (ma l’elenco degli anti- è ben piú lungo) con l’utilizzo e l’accettazione di valori e mezzi tipici della modernità. 4.2. Processi di risacralizzazione. Oggi si assiste a un ritorno di interesse per la categoria del sacro, rivalutata nei confronti della categoria di religione e adattata ai bisogni della società postsecolare e postcristiana. Secondo questa linea interpretativa, presentata in modo piú analitico in un precedente capitolo (cfr. cap. III par. 4), esso costituisce una delle modalità possibili per dare ordine e coerenza ai significati socialmente condivisi là dove singoli soggetti o gruppi umani, per dare senso alla loro esistenza individuale o collettiva, conferiscono a oggetti e simboli un valore assoluto (li consacrano, appunto, con ciò separandoli e individuandoli). Ciò vale, in particolare, per quel corto circuito, proprio del processo di risacralizzazione, che ha per oggetto il fondamento collettivo del gruppo. Il sacro, in altri termini, ritorna ad essere un fattore di ricerca dell’essenza di una propria identità non piú individuale, bensí sociale. E questo perché le «riserve del sacro» costituiscono come delle isole, delle oasi, dei depositi di senso e di vita o in quanto ricordo mitico del passato o in quanto ponte utopico proiettato verso il futuro. In questa prospettiva, il sacro s’impone come esigenza di protezione e di restauro di un vincolo sociale e comunitario

sempre piú minacciato dal moderno individualismo anarchico. La comunità si rifugia in enclaves, delimitate da linee di confine, visibili e invisibili, che riattivano antiche esigenze di purità, di separatezza, di esclusivismo. È su questo sfondo che occorre rileggere il rapporto, piú volte evocato, tra fondamentalismo e testo sacro. Un rapporto che, per un verso, dimostra come in seno ai vari movimenti fondamentalisti, anche quelli piú radicali e letteralisti, si assista in realtà al ritorno di lotte, tipiche della storia dell’esegesi del testo sacro, per il monopolio dell’interpretazione e della produzione di senso religioso da parte di interpreti che sono nuovi imprenditori socioreligiosi; per un altro, ci ricorda come il ritorno dei fondamentalismi alla centralità, che pareva perduta, del testo sacro costituisca la grammatica generativa di una riconquista sociale e politica attraverso un complesso processo di risacralizzazione. I testi sacri rappresentano, in questi casi, non soltanto l’espressione di verità sottratte alla corrosione del tempo, ma simboli decisivi d’identità religiosa. È in questo processo di rinnovata identificazione, in realtà, che va individuata la funzione principale di sacralizzazione che i testi sacri oggi ritornano ad assumere nel confronto con la modernità. Un impegno condiviso nei confronti di un canone determinato di scritture, infatti, incoraggia nei credenti un senso di esclusività e di esclusivismo. E piú questa fede è partecipata, piú chiara e decisiva diventa la linea di confine e di separazione tra i credenti e gli altri, secondo una logica di opposizione e di separazione che è, appunto, propria del sacro. Come hanno messo in luce alcuni studi, ad esempio, la crescente «fondamentalizzazione» dell’islam nella Malesia urbana e nell’India del Sud serve proprio come un mezzo importante per distinguere i musulmani dal resto della popolazione. Questa funzione di catalizzatore di una potenza che serve a riconfermare (ma piú spesso, nella situazione di continuo cambiamento tipica della modernità, a ridisegnare) i confini della propria identità etnica e culturale, distinguendo il proprio campo di pertinenza attraverso l’opposizione radicale con l’Altro, può essere svolta anche da figure di leader carismatici. A proposito dei sikh fondamentalisti, ad esempio, che condividono con i loro coreligionari il Libro sacro ( guru Granth) e le correlate credenze, è stato osservato che un compito decisivo di differenziazione e, per converso, di identificazione è appunto affidato a figure particolari di leader carismatici

che, in virtú della particolare carica sacrale di cui sono investiti, svolgono la funzione di salvaguardare l’integrità della comunità dei credenti. Secondo una logica ben nota, il meccanismo del sacro può funzionare, oltre che dottrinalmente, anche spazialmente. Si pensi al caso di certi gruppi fondamentalisti islamici egiziani, assurti all’onore delle cronache per le funeste conseguenze delle loro credenze sulla pelle di poveri ed inermi turisti in Egitto. Costoro, considerando altri gruppi fondamentalisti non veramente islamici, incoraggiano i loro membri a vivere e a pregare separati, fondando questa separazione sulla famosa «fuga» del Profeta dalla società corrotta della Mecca. Questi tentativi possono essere riassunti in una formula. Il particolare processo di risacralizzazione all’opera nei movimenti fondamentalisti riattualizza logiche antiche, legate ad esempio alla funzione del libro sacro, del leader carismatico, dei simboli di purità, facendo loro svolgere funzioni nuove, la cui novità è data appunto dal particolare contesto in cui esse si trovano ora a realizzarsi. Si pensi alla funzione non soltanto di coesione sociale, ma anche di identificazione individuale che questi meccanismi svolgono. Un’ideologia fondamentalista rifiuta la dicotomia tra dimensione religiosa privata e dimensione laica pubblica, dal momento che il credente viene ora fatto rientrare, nella sua integralità, nel dominio del sacro. Ne consegue, per il singolo che aderisce a questi gruppi, non soltanto un nuovo senso di identificazione collettiva, ma anche o soprattutto, a seconda dei casi, un nuovo senso del sé, talmente impegnato e totale che non a caso ha indotto a parlare, a proposito di movimenti fondamentalisti protestanti come i Testimoni di Geova, con una terminologia infelice ma rivelatrice della posta in giuoco, di «lavaggio del cervello». Abbiamo già avuto occasione di ricordare come un tratto interessante che emerge da tutto ciò sia dato dal riproporsi, almeno in casi determinati, di una concezione della storia di tipo manicheo, che serve a confermare il particolare processo dicotomico, di separazione-opposizione dei campi, messo in atto dalla logica del sacro. Se il testo sacro, come si è visto, è collocato in una dimensione atemporale, che lo sottrae a mutamenti e corruzione, la tensione dominante sarà di ritornare, saltando la catena della tradizione, alle origini, alla condizione originaria da cui – come succede sempre in queste riletture a sfondo mitico della «forma primitiva» delle varie chiese – si è a un certo

punto caduti. La storia, in questa prospettiva, diventa di conseguenza il teatro di una lotta cosmica tra forze del Male, che impediscono di ristabilire la condizione originaria, e forze del Bene, incarnate appunto nei vari movimenti fondamentalisti. Val la pena di osservare, sempre a proposito del complesso rapporto che il regime di modernità comunque impone alla rilettura fondamentalista del testo sacro, che essa è lungi dall’essere a senso unico. In effetti, all’interno dello stesso campo fondamentalista – come per altro insegna una qualunque storia dei movimenti settari di matrice biblica o islamica – sono in realtà possibili letture diverse, se non contrastanti. Cosí, a proposito del fondamentalismo ebraico, dei tre pilastri del sionismo religioso: popolo d’Israele, terra santa e Torah, nel caso del movimento fondamentalista espansionista Gush Emunim l’accento cade sulla terra d’Israele, con le ben note funeste conseguenze, che hanno messo in moto proteste da parte di altri fondamentalisti, i quali preferivano accentuare l’importanza della Torah. Tutto ciò ricorda non soltanto il posto importante che il processo esegetico continua ad occupare all’interno dei movimenti fondamentalisti, ma anche la funzione decisiva che, data la particolare logica sacrale messa in atto, riveste l’autorità del leader nello stabilire quale sia la «vera» esegesi. Merita di essere sottolineato un ultimo decisivo aspetto del processo: la sacralizzazione della verità. Di contro al relativismo e alla deriva nichilistica che l’accompagna, asserendo l’ispirazione divina dei testi sacri, garantita dall’autorità di leader carismatici, i fondamentalisti sacralizzano la conoscenza in loro possesso, separandola e opponendola alla conoscenza profana. Essi fondano in questo modo un «regime di verità» sottratto ai mutamenti storici e ai condizionamenti culturali: una verità sacra perché «totalmente altra» che, comunque la si giudichi, si dimostra nuovamente capace di alimentare l’azione sociale e movimentare la scena politica. 4.3. Il fondamentalismo cristiano. Il fondamentalismo che si è imposto all’attenzione pubblica è il fondamentalismo islamico, su cui esiste ormai una vasta letteratura. In questo modo, si rischia di perdere di vista il fatto che il fenomeno, sorto in ambito cristiano, costituisce un aspetto distintivo del modo in cui un certo tipo di cristianesimo ha risposto, arroccandosi, alle sfide modernizzanti. Inoltre, anche dal punto di vista comparativo, è stato il fondamentalismo protestante

nordamericano a fornire le caratteristiche distintive del fenomeno su cui commisurare, a torto o a ragione, anche gli altri tipi di fondamentalismo. Converrà, dunque, per orientare il lettore in questo campo periglioso, fornire alcune coordinate relative a quest’ultimo tipo, che dovrebbe costituire la base di partenza per qualunque viaggio comparativo e interpretativo, almeno nell’ottica proposta in questo libro. In ambito cristiano, il fondamentalismo è, prima di tutto, un fenomeno tipico del protestantesimo nordamericano, iscritto profondamente nella storia e nella cultura di quel paese (Marsden 1980). Esso ha conosciuto in sostanza tre fasi. La prima, il cosiddetto protofondamentalismo (1880-1919), coincide cronologicamente con la reazione antimodernistica che si ebbe in ambito cattolico all’inizio del Novecento. A Niagara Falls, nello stato di New York, nel 1895 un gruppo di teologi evangelici definí i cinque principî considerati «fondamentali»: l’ispirazione divina e l’inerranza delle Scritture; la nascita verginale di Cristo; la sua divinità; l’opera espiatrice sulla croce; la resurrezione fisica e la parusia in carne e ossa del Cristo. Mentre il primo punto costituisce la base del credo fondamentalista, rivendicando a suo modo un principio di autorità incontrovertibile da contrapporre al relativismo culturale, l’ultimo si inserisce nella catena millenaristica tipica dei «risvegli» americani, contribuendo ad alimentare lo sfondo dualistico tipico del fondamentalismo: l’attesa della parusia, infatti, si fonda sulla certezza della lotta imminente con le forze del male capeggiate da un Anticristo adattabile al mutare dei vari scenari politico-culturali. Si trattava di una reazione teologica, per un verso, al liberalismo teologico, che aveva dominato l’Ottocento, per un altro, al Social Gospel e cioè a quella corrente teologica che aveva individuato la realizzazione del Regno nel superamento delle ingiustizie sociali e delle sperequazioni di classe. Le tesi di Niagara Falls conobbero un successo «trasversale» in molte delle piú importanti denominazioni americane, dai congregazionalisti ai metodisti, dagli episcopaliani ai presbiteriani. Decisiva, per le fortune del protofondamentalismo, doveva risultare la pubblicazione, sopra ricordata, di The Fundamentals tra il 1909 e il 1915, che contribuí alla diffusione delle idee e si concluse nel 1919 nella formazione della World’s Christian Fundamentals Association. La creazione di questa associazione dava per la prima volta forma organizzata al progetto fondamentalista: riconquistare il mondo cristiano

secolarizzato e scristianizzato, operando a vari livelli, dalla ripresa di egemonia all’interno delle diverse e piú influenti chiese protestanti all’occupazione di posizioni chiave nel mondo dei media e nell’organizzazione di gruppi di pressione politica per ottenere fondi statali allo scopo di finanziare scuole confessionali o altre attività religiose. Un aspetto centrale di quest’attività fu una serie di campagne pubbliche culminate nel 1925 nel cosiddetto Scope Trial, dal nome del professore di biologia accusato da un pastore fondamentalista di insegnare indebitamente le teorie evoluzioniste di Darwin a scuola e, alla fine, condannato. Il processo si celebrò a Dayton, nello stato del Tennessee e cioè in una delle aree meridionali degli Stati Uniti, la cosiddetta Bible belt o cintura della Bibbia, che aveva elevato a legge dello stato il principio creazionistico. Il caso del «processo delle scimmie» appassionò l’opinione pubblica americana, ponendola di fronte a un problema che si è riproposto in seguito piú volte (Naso 2000, pp. 161-62). Seguí un periodo in cui il fondamentalismo sembrò essersi eclissato. È grosso modo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, in parallelo con la rivoluzione dei fiori e l’affermarsi di forme religiose alternative, che tendenze fondamentaliste riemergono nell’azione e nella predicazione di personaggi come Billy Graham. Anche se il richiamo ai Fundamentals è continuo, tra coloro che vi si ispirano le differenze sono talmente forti che al proposito si preferisce parlare di neofondamentalismo. «Fondamentalista» verrà infatti definito Billy Graham, il predicatore famoso per le sue «crociate» evangelistiche in tutto il mondo e per la cura pastorale esercitata nei confronti di vari presidenti degli Stati Uniti, da Eisenhower a Bill Clinton. «Fondamentalisti» erano anche i telepredicatori consiglieri di Ronald Reagan, il quale non esitò piú volte ad interpretare il suo ruolo politico in chiave tipicamente fondamentalista, come una missione delle forze del Bene contro quelle del Male. «Fondamentalista» è stato, a suo modo, anche un altro presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, pastore battista, «rinato» sulla scena religiosa americana degli anni Ottanta. Per quanto caratterizzate da sfumature diverse, si trattava, in ogni caso, di posizioni fondamentaliste non particolarmente aggressive, piuttosto difensive di un patrimonio religioso tradizionale, che si avvertiva come sempre piú minacciato e in ogni caso disposte al dialogo.

Negli anni Ottanta, durante la presidenza Reagan, si affermò invece una nuova corrente politico-religiosa che, richiamandosi ai principî basilari del protofondamentalismo – l’inerranza del testo biblico come primato della fede sulla scienza – favorí la formazione di una nuova Moral Majority o Destra religiosa, guidata da un telepredicatore all’epoca molto noto, Jerry Falwell, e caratterizzata dall’imporsi di un’agenda politica sconosciuta alle fasi piú antiche del fondamentalismo protestante, incentrata su temi etici: rifiuto della legge sull’aborto, critica all’impianto laico del sistema educativo americano, massicce campagne per la reintroduzione della preghiera all’inizio delle lezioni di qualsiasi scuola pubblica, sostegno alle scuole private, opposizione a qualsiasi forma di riconoscimento legislativo dei diritti delle coppie di fatto e degli omosessuali (Carpenter 1997). Dopo la fine della presidenza Reagan, si entrò in una nuova fase piú organizzativa. Sotto la guida di telepredicatori come Pat Robertson e Ralph Reed, la Moral Majority cercò di organizzarsi in struttura politica per trasformarsi in political majority. Nacque, cosí, la Christian Coalition, di cui l’anziano Robertson è stato l’ispiratore e il giovane Reed l’intelligente manager politico e amministrativo (Naso 2000, pp. 175 sgg.). Anche se il movimento, sconfitto con la rielezione nel 1996 di Bill Clinton, è entrato in crisi, nel magma sempre in movimento del protestantesimo americano le spinte fondamentaliste non sono certo scomparse, come provano le vicende della presidenza di Bush Jr. Al centro troviamo, sí , il dato etico, ma un dato etico – difesa del valore della vita, di quello insostituibile della famiglia, rifiuto di una estensione indiscriminata dei diritti umani e della parità di genere, lotta contro le degenerazioni dell’individualismo e delle sue espressioni piú radicali – che ha una forte ricaduta politica, dal momento che i vari gruppi a tendenza fondamentalista esigono, talora in modo aggressivo e con pericolose venature razzistiche e antisemitiche, che questi loro valori fondamentali trovino un’immediata realizzazione sul piano politico, secondo la logica, tipica dei vari fondamentalismi, per cui essi sono portatori di una Legge divina rivelata, che non può non coincidere con la legge dello Stato. Il fatto che i piú recenti sondaggi (Naso 2000, pp. 198-99) confermino l’allargarsi dello spettro socioreligioso delle persone che si identificano con questo programma e con i gruppi e le chiese protestanti che lo sostengono, è un’evidente prova che il neofondamentalismo americano, nonostante le

metamorfosi talora tumultuose conosciute negli ultimi vent’anni, costituisce una presenza reale, la cui forza, com’è tipico di altri fondamentalismi, consiste, in modo solo a prima vista paradossale, in quello che è nel contempo il suo limite e cioè nella sua radicalità: una critica senza compromessi alla società contemporanea e ai suo valori che, negando o ignorando la complessità e le contraddizioni della tarda modernità, offre una forma semplice e tonificante di identità religiosa, che si rivela essere nel contempo una identità politica. 4.4. Reazioni europee. I Bible Believers, che costituiscono una della basi del piú recente «risveglio» neofondamentalista americano (Ammermann 1987), non sono certo un fenomeno unicamente americano. Se chiese come i Testimoni di Geova, nella loro espansione mondiale, hanno provveduto a diffondere anche in Europa il verbo fondamentalista, quest’ultimo, in realtà, ha radici tipicamente europee (Holthaus 1993). Se il cuore dei Fundamentals è il letteralismo biblicista, è evidente che esso affonda le sue radici nella riforma e precisamente nel principio del sola Scriptura. Ovviamente, Lutero non era un fondamentalista ante litteram, né lo è stata la tradizione ecclesiastica e teologica che a lui si richiama. Ma è altrettanto evidente che questo principio è diventato una sorta di bandiera di determinate correnti come il pietismo a difesa dei valori dell’ortodossia minacciati dall’Aufklärung. Una lettura tipicamente fondamentalista della Bibbia si è conservata in particolare nelle chiese evangeliche, al punto che alcuni oggi, in modo improprio, tendono a far coincidere «pietistico» ed «evangelico» con «fondamentalistico». Le cose, in realtà, sono piú complesse (Kochanek 1991; Kienzler 1996, pp. 35 sgg.). Se è vero che l’attuale pietismo è oggi in genere evangelico, non è vero il contrario. Inoltre, è in genere sconosciuto agli attuali pietisti tedeschi quell’aspetto aggressivo e polemico in modo virulento, tipico delle varie chiese fondamentaliste nordamericane e che, come si è visto, ben si iscrive nella logica dualistica della lotta mortale col Nemico. Inoltre, occorre tenere presente che anche gli evangelici tedeschi, al pari delle chiese evangeliche americane, sono divisi tra un’ala moderata e un’ala piú radicale. D’altro canto, è innegabile che tra evangelici, pietisti e chiese che si definiscono o si presentano come fondamentaliste esista un’aria di famiglia. Essa si spiega sulla base della condivisione, oltre che del biblicismo, anche della centralità

che vi assumono sia la ricerca dell’esperienza di rinnovamento sia la lotta contro il liberalismo teologico, a cominciare naturalmente dall’esegesi storico-critica. Segnali di tendenze fondamentaliste in questi ultimi anni non sono certo mancati (Kienzler 1996, pp. 36-38). Si pensi agli «allarmi per la Bibbia», come suona il titolo di un libro di Gerhard Bergmann, in cui si prendono pubblicamente le distanze dalla moderna scienza biblica per pervenire, come negli Usa, a posizioni creazioniste e antidarwiniane; o all’emergere di movimenti, come Kein anderes Evangelium, che protestano contro la teologia liberale e il pluralismo etico. Nella vita interna delle Landeskirchen ricorrono talora episodi significativi, come tentativi di boicottare conferenze evangeliche o confronti interni anche violenti, sul tipo di quelli che hanno luogo da anni nel sinodo del Wüttenberg, promossi da una comunità fondamentalista, Wort und Wissen. Si pensi ancora alla fondazione della Anskar-Kirche ad Amburgo, una chiesa secessionista sulla base del rifiuto del pluralismo promosso dalla Chiesa evangelica; o, infine, alla fondazione di istituzioni di formazione come a Basilea la Freie Evangelisch-theologische Akademie, a difesa dei valori teologici fondamentali, minacciati dalle facoltà teologiche troppo liberali. Dietro questi e simili episodi è possibile individuare alcuni «luoghi» in cui le chiese evangeliche tedesche si incontrano con spinte fondamentaliste: l’emergere di vere e proprie strutture organizzative come la Evangelische Allianz; la formazione di centri educativi alternativi; una maggior presenza pubblica, infine, sia attraverso l’editoria sia nei massmedia. E nel mondo cattolico, e in particolare in Italia, che cosa succede? A differenza del mondo protestante, il mondo cattolico non ha visto sorgere, a rigore, un fondamentalismo. Ciò è dipeso da vari fattori, legati alle peculiarità teologiche del cattolicesimo. Esso non ha conosciuto la centralità del testo sacro tipica del protestantesimo; pur preservandone l’ispirazione, fino al Concilio Vaticano II l’accesso alla Bibbia da parte del semplice credente è stato in genere mediato dal clero, che si è attribuito anche il primato dell’interpretazione. Inoltre la centralità della tradizione e l’autorità assoluta della figura carismatica del papa hanno a lungo fornito al mondo cattolico quei principî di autorità che i fondamentalisti protestanti vedevano messi in pericolo dalla teologia liberale. Né va trascurato il fatto che, a partire almeno

dalla Rivoluzione francese e in reazione ai suoi processi scristianizzanti, il magistero ha messo in opera un processo di critica radicale della modernità e dei suoi principî mirante a una riconquista cristiana della società laica e liberale, che costituisce per molti versi un pendant del progetto antimodernista del protofondamentalismo nordamericano. Né è un caso che il magistero abbia attaccato il Social Gospel e tutti i tentativi di rinnovamento esegetico e teologico e le conseguenti minacce portate contro il patrimonio tradizionale di fede, pervenendo alla condanna nel 1907 del modernismo. Si può discutere se e fino a che punto il cosiddetto integrismo, che caratterizzò l’ala piú conservatrice del movimento cattolico fino alla Prima guerra mondiale, avesse aspetti fondamentalisti. La dimensione esoterica che spesso lo accompagnò invita, almeno in questo caso, alla prudenza. La situazione è in parte cambiata col Concilio Vaticano II, in conseguenza del posto centrale che esso ha assegnato al laicato e dell’invito ad accedere direttamente al testo biblico. Ciò ha favorito l’emergere, anche in seno al cattolicesimo, di tendenze fondamentaliste (Pace e Guolo 1998, pp. 73 sgg.). Anche nei movimenti come Comunione e Liberazione, che hanno incarnato con maggior evidenza queste tendenze, è mancato però – né poteva essere diversamente, pena la fuoriuscita stessa dall’alveo del cattolicesimo – il fattore decisivo di individuare nel testo sacro il «fondamento» della propria opera di riconquista politico-religiosa dello spazio pubblico, sicché pare piú opportuno, in casi siffatti, parlare di neointegrismo cattolico, un termine che può essere esteso in modo appropriato anche ai seguaci di mons. Lefebvre. Il problema si è riproposto in termini nuovi in questi ultimi anni, sullo sfondo dell’accentuata autorità dell’attuale pontefice e della centralità riassunta dalla tradizione a scapito del ruolo che il Concilio aveva assegnato alla Bibbia, a proposito dei cosiddetti movimenti ecclesiali, che hanno trovato una loro consacrazione in occasione del IV congresso celebrato a Roma nel 1998 (Bof 2000). I movimenti rappresentati ammontavano a una cinquantina; tra di essi spiccano Rinnovamento nello Spirito, i focolarini o Opus Mariae, il Cursillo de Cristianidad, il Cammino neocatecumenale, la già ricordata Comunione e Liberazione e, last but not least, l’Opus Dei. Questi ultimi significativi movimenti, pur nella diversità dei loro scopi e strutture, presentano comunque una serie di elementi comuni, che li apparentano al piú generale fenomeno di risveglio pentecostale e carismatico tipico del mondo

protestante, con i suoi tratti tipicamente fondamentalisti. Si tratta di movimenti che mirano tutti all’approfondimento della vita cristiana, mettendo al centro della loro pratica comunitaria la dimensione esperienziale di un rinnovamento religioso incentrato intorno al momento emotivo come cartina di tornasole dell’avvenuto «risveglio» interiore. Come ha rilevato a ragione un attento osservatore: … quei tratti che facilmente sono riconoscibili o tacciati come espressione di fondamentalismo esercitano qui una funzione peculiare, non tanto quando si limitano ad assolutizzare il riferimento ad un dato oggettivo, quale può essere un Libro sacro o qualsiasi altro tipo di «monumento», assunto come normativo e decisivo, ma quando stringono in cerchio questi testi con una correlata assolutizzazione delle istanze ermeneutiche, alle quali è accreditata l’autenticità dell’interpretazione di quei testi. Il fondamentalismo che ne sorge appare allora nella sua piú rigorosa figura, atta, ad un tempo, a sostenere le critiche piú acri e le piú impermeabili immunizzazioni, a convincere dell’inconciliabilità della fede con le esigenze della fede autonoma, e del valore salvifico della fede, che alla ragione resta in definitiva inaccessibile (Bof 2000, p. 194).

Al pari di quello che è avvenuto per altre chiese evangeliche, integralità della proposizione del messaggio di fede e coerenza e radicalità della risposta, come impegno personale espresso nella concretezza storica di un soggetto comunitario, tendono a prendere figura in un progetto culturale globale, che in un ambiente come quello italiano, comunque sempre piú segnato dai processi secolarizzanti, acquista i tratti dualistici di un controprogetto alternativo, di una contro-cultura se non di una vera e propria contro-società. Gli interventi stessi del Magistero e in particolare del card. Ratzinger, non fanno che evidenziare la possibilità di una deriva tipicamente fondamentalistica, in virtú della quale le pretese dei movimenti di questo tipo di rappresentare non già una ecclesiola in Ecclesia ma la stessa Chiesa, acquistano intonazioni tipicamente fondamentalistiche e pericolosamente destabilizzanti. In un lavoro recentissimo, dedicato a tratteggiare, sulla base di proiezioni demografiche e di calcoli statistici, il «futuro della cristianità», lo storico americano Philip Jenkins (2002) disegna il profilo prossimo venturo del «cristianesimo del sud», un modo, ormai entrato anche nei manuali scolastici,

per designare il cristianesimo presente nella fascia sud del globo in quanto opposto al cristianesimo del nord. Mentre quest’ultimo, presente soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, continuerà a conoscere un tasso di crescita molto basso, il primo, presente in America Latina, in Africa e nel sud-est asiatico dalle Filippine alla Corea del Sud, è destinato, anche come effetto del trend demografico, a conoscere un’espansione notevole, in grado, secondo Jenkins, di contrapporsi all’espansione dell’islam. Ma di che tipo di cristianesimo si tratta? Se stiamo alla situazione attuale, che vede nell’America Latina una crescita impressionante delle chiese pentecostali, in Africa una presenza sempre piú estesa di chiese indipendenti profetiche e carismatiche e nel sud-est asiatico il radicarsi di chiese protestanti evangeliche e di un cattolicesimo tradizionale, la risposta, per Jenkins, non è dubbia. Si tratterebbe, in prospettiva, di un cristianesimo molto diverso da quello al quale siamo abituati in Europa, che ha dovuto fare i conti con le crisi modernistiche e la corrosione della secolarizzazione, un cristianesimo, in altri termini, con forti tendenze tradizionali, in cui la componente fondamentalistica, legata a un letteralismo biblico e al rifiuto dei valori fondamentali della modernità, tenderebbe a diventare prevalente. Il futuro della cristianità conoscerebbe in questo modo, anche per il cristianesimo, quell’estendersi della dimensione fondamentalistica che sembra aver contagiato il mondo islamico, un virus, peraltro, che minaccia sempre piú anche l’ebraismo contemporaneo a partire dal caso emblematico di Israele. Riflettere sul fondamentalismo cristiano oggi, a cominciare dal significato stesso di questo sintagma e dalla presenza di tensioni fondamentaliste nelle differenti confessioni cristiane, si configura di conseguenza come un momento necessario per chiunque voglia orientarsi nella situazione religiosa contemporanea. Bibliografia 1. Violenza e religione. Bloch, M. 1997 trad. fr. La violence du religieux (1992), Odile Jacob, Paris. Burkert, W. 1972 Homo necans. Interpretationen altgriechischer Opferriten und Mythen, De

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Capitolo ottavo Religione e politica

1. Forme del rapporto. Il rapporto tra religione e politica costituisce uno dei capitoli piú affascinanti, ma anche piú intricati e complessi delle Scienze delle religioni. La ragione fondamentale di tale difficoltà risiede, ancora una volta, nel fatto che il modo in cui questi rapporti si sono venuti configurando per effetto della secolarizzazione, come privatizzazione del religioso, da un lato, come autonomizzazione della sfera politica dalla tutela delle chiese, dall’altro, costituisce una situazione eccezionale, che non può essere assunta a metro di giudizio quando si estende lo sguardo a tipi di società non moderne o premoderne. Una rapida considerazione storico-comparativa rivela subito che religione e politica, comunque si decida di definirle, delimitarle e correlarle, al pari di religione e società o religione e cultura, sono profondamente intrecciate, influenzandosi reciprocamente in forme che, naturalmente, variano col mutare delle situazioni storico-culturali, ma anche secondo determinate modalità di fondo cui conviene ora accennare, seppur in modo per forza di cose sommario. Se si intende la politica come quell’insieme di cognizioni che solitamente si riferiscono alla concentrazione, all’organizzazione e all’impiego del potere in un determinato paese, territorio, società, e in particolare al potere di governare, emerge subito la sfera d’intervento della religione nei confronti del potere politico. Questi, per quanto in realtà composito, necessita comunque, nei regimi premoderni, di un’autorità che, non provenendo dal popolo come nelle democrazie, ha bisogno di una legittimità particolare, di un fondamento «ultimo», di origine sacra, sottratto a ogni possibilità di delegittimazione umana, come dimostra il caso evidente dei regimi monarchici, a lungo ritenuti di fondamento «divino».

È su questo sfondo che s’innesta il gioco di influenze reciproche. L’influsso della religione sulla sfera politica può aver luogo secondo alcuni modelli, che aiutano a mettere in luce la peculiare logica politica della religione. L’idea di fondo, che le tradizioni religiose realizzano dinamicamente in modi differenti a seconda delle loro peculiari ispirazioni, è che l’azione umana in generale e politica in particolare non possa sottrarsi alla visione metafisico-morale che contraddistingue la singola religione e che si traduce in un’etica politica corrispondente, la quale può influenzare la sfera della politica attraverso fattori diversi come l’ethos devozionale, la formazione di organizzazioni religiose particolari, la prassi religiosa o, in casi determinati, tipici soprattutto della modernità, la costituzione di organizzazioni politiche parareligiose. Da un punto di vista comparativo, determinante risulta, nel tentativo di individuare i tipi principali del rapporto, la concezione del divino, se trascendente o meno, se concepito in modo pluralistico o monoteistico (cfr. cap. V parr. 2 e 3). Semplificando al massimo, si possono individuare due modalità di rapporto, a seconda che la religione, a prescindere dalle forme politiche (società acefale o statali), abbia, secondo la terminologia weberiana, una tendenza intramondana, tenda cioè a coincidere con l’ordine del mondo e con la società e la forma politica che lo rappresenta, in sostanza santificandolo, o di contro abbia una tendenza extramondana. Nel primo tipo rientrano, ad esempio, le religioni tribali prive di stato, ma anche in genere le religioni antiche contraddistinte da piú o meno forti entità statali e in genere rette, con l’eccezione della polis greca, da forme di regalità sacra. L’idea di fondo è che la «vera» religione sia data dalla vita in armonia con il cosmo in quanto manifestazione del divino e che il monarca, incarnando la «legge» (maat, dao) iscritta in quest’ordine e realizzandola, sia il garante dell’ordine politico. Ma come si diventa monarca e quale è il fondamento della monarchia sacra? Intorno a questi interrogativi fondamentali – se si tiene conto dell’importanza straordinaria che questo istituto ha rivestito nella storia dell’umanità, al punto che non pochi l’hanno interpretato come il fondamento stesso dello Stato –, si sono affaticati, a partire da James Frazer e dalla teoria del regicidio che sta alla base del suo capolavoro, Il Ramo d’oro, non pochi pensatori (De Heusch 1997 e Scubla 2003). Ciò che l’insieme dei

dati etnografici e storici mette in luce è una situazione a prima vista paradossale, in realtà rivelatrice dell’intreccio complesso tra religione e politica. Prima e piú che un potere politico, come si sarebbe indotti a pensare alla luce delle nostre concezioni della politica e del politico, la regalità sacra è una carica rituale schiacciante a tal punto che spesso, soprattutto nelle società tribali, il suo esito è la messa a morte del sovrano: regnare non consiste né nel governare né nel dare ordini, ma, appunto, nel garantire l’ordine del mondo e della società osservando rigide prescrizioni rituali. Il re è un personaggio sacro, ma proprio per questo costretto a rispettare ciò che il sacro impone. Il fatto che egli garantisca l’ordine del mondo si rivela subordinato alla sua capacità di farsi carico, come un capro emissario, secondo una tipica teoria del sacrificio fondatore, delle colpe della società e della comunità di cui è rappresentante e garante di fronte al divino. Se la sua eliminazione si rivela un rimedio ai mali che affliggono la società che governa, ciò significa nel contempo – a conferma dell’ambivalenza del sacro che caratterizza l’istituto monarchico – che egli può anche essere la fonte di tutti i beni. Riassumendo inoltre in sé la violenza distruttrice del gruppo, il re può insieme porsi come la sorgente della violenza legittima che ne fonda il potere. Riflettere sui meccanismi soggiacenti al costituirsi e al trasmettersi delle forme di monarchia sacra può cosí rivelarsi una via privilegiata per mettere meglio in luce le complesse relazioni che collegano religione e politica. Nel secondo tipo, che comprende essenzialmente le religioni profetiche e di salvezza, il principio dell’ordine diventa la volontà morale dell’unico Dio, per cui ciò che accade nel mondo, compresa l’azione politica, deve essere in armonia col volere di Dio, rivelato attraverso i suoi profeti e fissato nel libro sacro. Una conseguenza fondamentale dell’idea di volontà morale del Dio unico è l’impulso alla trasformazione che caratterizza questo secondo tipo di religione. Mentre nelle religioni tese a santificare l’ordine esistente l’idea di fondo è che quello che avviene nel mondo, a partire dall’ordine politico, deve essere ordinato secondo la struttura ontologica, la legge non scritta ma iscritta nell’ordine stesso del cosmo di cui il sovrano è immagine, rappresentazione e garante, di contro, nelle religioni profetiche di salvezza l’impulso dominante è quello di realizzare la volontà morale e il piano salvifico divini. Ne risultano, di conseguenza, due modi profondamente diversi di relazione tra religione e politica.

Questa tipologia non deve, d’altro canto, far perdere di vista che all’interno dei due modelli individuati sono all’opera, in realtà, rapporti molto diversi. Nell’India moderna, ad esempio, il rapporto tra induismo e sfera politica è estremamente complesso e continua a recitare una parte decisiva nella storia di quest’immenso paese. I secoli di dominazione musulmana hanno lasciato tracce indelebili, culminate nella sanguinosa spartizione del 1947. D’altro canto, nonostante il tentativo di costituire uno stato laico indipendente, dopo un secolo di dominazione inglese, l’India continua ad essere tormentata da conflitti etnici e religiosi, con pesanti conseguenze sulla vita politica. La storia dell’induismo è una storia dove religione e politica sono continuamente e profondamente intrecciate, dal momento che, a differenza della tradizione cristiana occidentale, esso ignora la distinzione tra potere spirituale e potere temporale. Fino a non molti anni fa, lo stato indiano era di fatto una democrazia monopartitica, governata dal variegato Partito del congresso, che aveva diretto il Movimento di liberazione ed aveva fatto ricorso alla statura eccezionale dei suoi leader, Gāndhī e Nehrū, per conservarne il controllo. Le uccisioni dapprima di Indirā Gāndhī, poi del figlio Rajiv, hanno riproposto in modo drammatico il retaggio di antiche divisioni a sfondo religioso e la difficoltà per l’India di acquisire uno statuto laico di separazione tra sfera religiosa e sfera politica. Se a ciò si aggiunge il persistere di profondi conflitti a sfondo religioso non solo con i musulmani, ma anche con le minoranze sikh, si avrà un quadro piú reale del peso che il dato religioso continua ad avere sulla vita politica indiana, favorito anche dall’andata al potere del partito nazionalista e tradizionalista, che minaccia alle radici il particolare secolarismo della Costituzione. Infatti, negli ultimi due decenni, i rinnovati dibattiti in India sulla natura dell’induismo sono stati rinfocolati dal trionfo politico del partito di destra Bharatiya Janata Party, tipico rappresentante del fondamentalismo induista, che dai due seggi del 1986 è arrivato nel 1999 ad averne 292. Il suo slogan nazionalistico «una nazione, un popolo, una cultura» – che riecheggia quello che aveva portato nel 1947 alla formazione del Pakistan musulmano – colpisce al cuore il particolare secolarismo che sta alla base della Costituzione indiana. Quest’ultima, infatti, in vigore dal 26 gennaio del 1950, assicura (art. 25) la libertà di religione come forma di tutela e garanzia della possibilità di coesistenza per le diverse tradizioni religiose presenti sul suolo indiano,

limitata soltanto dalle esigenze di progresso sociale dello stato. Essa contiene inoltre (paragrafo 2b dello stesso articolo) la precisazione che il concetto di hindū comprende anche gli appartenenti al sikhismo, al buddhismo, al giainismo. In questo modo, la Costituzione ha accettato l’idea che, dietro il concetto di hindūtva o induità – l’analogo, sul piano politico-istituzionale, di quello di induismo – si debbano intendere tutte le religioni e concezioni del mondo nate sul suolo indiano e che hanno l’India come loro terra sacra. Questa varietà interna è riscontrabile anche nel caso di religioni di tipo differente a tendenza universalista e missionaria come il buddhismo. Anche se, sul piano del fattore individuante, il buddhismo delle origini, sostenendo che ognuno deve trovare la verità da solo, ritirandosi dal mondo, è in certo senso la meno politica delle grandi religioni, d’altro canto, nella sua millenaria storia al di fuori del suo paese di origine, dalla Cina al Giappone al sud-est asiatico, esso ha conosciuto, anche come effetto dei vari processi di acculturazione, una notevole varietà di situazioni. La sua struttura distintiva, e cioè la comunità di monaci, si è trovata piú volte implicata in complicate lotte di potere; inoltre, dai signori della guerra cinesi del nord ai signori delle corti coreane e giapponesi, dalla nobiltà dello Sri Lanka fino ai regimi monarchici della Birmania e della Tailandia, esso è stato spesso appoggiato da regimi oligarchici e monarchici, fino a diventare in casi determinati vera e propria religione di stato; né, di conseguenza, occorre stupirsi del fatto che oggi esso sia talora associato al nazionalismo militante, come insegna il caso drammatico dello Sri Lanka (cfr. cap. VII par. 2). Il caso dell’ebraismo contemporaneo si presta a considerazioni analoghe. Per secoli, come insegna la storia della diaspora, esso è stato formato da comunità «paria», per riprendere l’espressione di Weber, entpolitisiert cioè prive di veri e propri diritti politici nei vari stati in cui risiedevano, dagli stati islamici a quelli cristiani. Gli ebrei hanno visto mutare la propria situazione politica dapprima in seguito all’emancipazione, poi col sorgere del sionismo e soprattutto col formarsi, a partire dal 1947, dello stato di Israele. La costituzione particolare di questo stato ricorda come sia difficile, nell’epoca della secolarizzazione, vedere affermato quel principio di laicità e di separazione dei poteri e delle sfere tipico della nostra tradizione. Quel che si vuole sottolineare, in conclusione, è il peso decisivo che l’intreccio tra

religione e politica continua a recitare nelle tragiche vicende che vedono contrapposti israeliani e palestinesi. Anche il caso dell’islam e dei suoi rapporti con la politica (Campanini 1999) è troppo complesso per poter essere esposto in maniera seppur sintetica. Per i nostri scopi, basterà limitarsi ad osservare che, per un verso, esso appare piú simile all’ebraismo della Torah nella misura in cui il Corano deve ordinare tutta la vita del credente, anche la sfera dell’agire politico, mentre per un altro, a differenza dell’ebraismo, l’islam ha rifiutato l’idea etnica di un popolo eletto e la formazione di sinagoghe o di una chiesa, a differenza del cristianesimo, come entità mediatrice tra Dio e il mondo, sottratta, per la sua origine trascendente, all’influsso del politico, per individuare invece nello stato islamico lo strumento principale di realizzazione di una politica che non può non essere religiosa e cioè ispirata ai principî del Corano e della shari’a. In questo senso, l’islam tradizionale ha rifiutato ogni forma di separazione tra Stato e chiesa e cioè ogni forma di laicismo politico, con conseguenze politiche enormi nei paesi in cui si è diffuso, dal momento che culture diverse come quelle dell’Egitto, della Giordania, dell’Iraq, del Bangladesh, dell’Indonesia, sotto la sua influenza, hanno acquistato dal punto di vista politico una comune «aria di famiglia». Merita spendere invece qualche parola in piú sul caso cristiano per il valore paradigmatico che esso ha assunto, a prescindere dal giudizio di valore, nella valutazione e interpretazione del nodo in questione anche in situazioni non cristiane. D’altro canto, la crisi che la politica e il politico oggi attraversano non è senza conseguenze su qualunque tentativo di ripensare l’intreccio e l’intrico dei rapporti intessuti con il cristianesimo fin dai suoi primordi. La politica democratica dello Stato di diritto, che la modernità ha fondato in modo autonomo, relegando progressivamente la religione cristiana nella sfera del privato e della fede, conosce infatti oggi, insieme allo Stato laico (cfr. cap. I par. 4), una crisi profonda di legittimità e di fondazione. Se è vero che il politico può esistere senza il religioso e al di fuori delle religioni e che proprio questa situazione costituisce uno dei tratti distintivi della modernità a partire grosso modo dal 1500; se è anche vero che il religioso è stato determinato in genere nella sua storia millenaria dalle sue condizioni di articolazione col politico, è altresí vero che oggi sempre piú, di fronte al dominio dell’individualismo, si è persa quell’idea del governo in

comune, del vincolo sociale, un tempo sacralmente fondato e religiosamente legittimato, che la politica moderna aveva fondato sul consenso democratico, ma che oggi sembra un orizzonte in crisi irreversibile. I segni di questa crisi sono sotto gli occhi di tutti: dallo stato di disagio diffuso nei confronti di una gestione della politica che nei differenti paesi industriali sembra guidata prevalentemente dalle esigenze dominanti della società della tarda modernità come l’apparire massmediatico e l’affermarsi dei consumi; alla correlata perdita di credibilità dei partiti e delle istituzioni pubbliche in generale, con le connesse difficoltà strutturali di ridefinire i criteri della rappresentanza e della produzione di consenso. In generale, poi, la globalizzazione sembra consegnare all’economia quel primato nella direzione dei processi, che la modernità tendeva invece ad affidare alle regole del gioco politico. Lo stesso assurgere a tema centrale della riflessione politologica di categorie, che apparivano desuete, come quella di «religione civile» rivela la crisi del paradigma evoluzionistico che ha dominato la scena del Novecento, individuabile nello svincolamento della politica da qualunque orizzonte di trascendenza, anche simbolico e metaforico. Né si può trascurare il peso che, nei recenti dibattiti, hanno avuto i vari fondamentalismi, a cominciare da quello islamico. Proprio una riflessione sempre piú approfondita sul fondamentalismo islamico e, piú in generale, sul rapporto tra islam e politica, costringe a ripensare i nodi strutturali del problema nella storia del cristianesimo e della riflessione teologica. Il monoteismo cristiano, infatti, è stato esposto alla critica politica piú aspra da parte del pensiero moderno. … esso è considerato per lo piú come fonte di legittimazione di un pensiero di sovranità predemocratico, ostile alla divisione dei poteri, come radice di un patriarcalismo obsoleto, come ispiratore di fondamentalismi politici (Metz 1998, trad. it. p. 190).

D’altro canto, questo monoteismo sta alla base di una concezione della politica, come sfera (relativamente) autonoma dell’agire umano, profondamente diversa da quella che discende dalla fede monoteistica islamica. Né il caso dell’ebraismo è assimilabile ai due precedenti. Tutto questo per dire che una rinnovata riflessione sui rapporti tra religione e

politica non può prescindere dalle peculiarità teologiche in gioco e cioè dalle rispettive teologie politiche. «Politica» è un concetto polisemico, che non può essere trattato isolatamente, dal momento che è intrinsecamente legato a temi come lo Stato, l’autorità, il potere, le forme di governo, i diritti umani, la legge naturale. Concretamente, esso trova una forma di realizzazione storica nei rapporti tra Chiesa e Stato, o meglio, tra le varie forme di chiese cristiane e i vari tipi di potere con cui esse sono entrate storicamente in relazione. D’altro canto, essa rimanda anche alla riflessione sulle forme concrete dell’agire politico, alla «scienza politica» e, per converso, alle varie forme di riflessione teologica che hanno cercato di adattare la dimensione escatologica e apocalittica del messaggio originario sul regno di Dio al mutare delle condizioni storiche. Né va trascurato il fondamentale nesso, oggi ritornato di impellente attualità, tra politica ed etica. È infatti sul terreno del fine dell’agire politico (il bene comune), oltre che dei suoi fondamenti (la cosiddetta legge naturale) e delle varie forme di legittimazione e di rapporto tra potere religioso e potere politico, che si sono storicamente date le figure piú interessanti e significative. E questo fin dalle origini (Cullmann 1956). Da un punto di vista storico, è possibile interpretare l’intera storia del cristianesimo (anche) come storia politica. Essa getta le sue radici nella tradizione veterotestamentaria dell’esodo, il nucleo della «memoria culturale» ebraica destinato a recitare una parte importante come orizzonte mitico, ma anche come modello politico nei movimenti della rivoluzione inglese. Anche altri motivi caratteristici della teologia politica veterotestamentaria, come la «conquista», il messianismo regale, l’esilio, la lotta anti-idolatrica, entreranno a far parte della tradizione cristiana. Ma è stata soprattutto la grande tradizione profetica biblica a fornire, con la sua critica al potere costituito, un modello fondamentale di rapportarsi ai poteri mondani, che si ritrova all’opera nelle origini cristiane (la morte «politica» del Cristo, profeta di sventura perseguitato). Si tratta di un dualismo di fondo, che discende dalla peculiare concezione escatologica protocristiana del Regno di Dio. Con l’ascesa al cielo di Cristo il suo regno si è definitivamente affermato, anche se occorrerà attendere il giudizio finale perché le potenze del male cessino di agire. Nel frattempo, nessun potere terreno può pretendere all’assolutezza, dal momento che la

fonte della sua autorità rimane Dio e ogni pretesa in senso contrario appare, in questa prospettiva, blasfema e idolatrica. In questo modo, i profeti e il Cristo hanno introdotto nella storia occidentale una dualità che, secondo l’interpretazione di Marcel Gauchet (1985), rende il cristianesimo la causa principale della desacralizzazione dello Stato, «la religione dell’uscita dalla religione». A partire da una dissonanza iniziale, presente già in Paolo, ma piú in generale disseminata in vari testi del Nuovo Testamento, secondo la quale si invita ora all’obbedienza nei confronti dell’autorità politica legittima (Rm 13.1-7; Tt 3.1; 1 Pt 2.13-17), ora alla disobbedienza (At 5.41-42; Rm 12.2; Fil 1.9), la posizione cristiana ha teso storicamente ad oscillare «tra i due estremi dell’apolitismo radicale e della confusione del messianismo temporale, tra il disimpegno e l’impegno» (Eslin 1999, p. 259). Le varie confessioni hanno elaborato, in questo senso, risposte diverse e non assimilabili. Mentre l’ortodossia non possiede una concezione dell’autonomia (relativa) del politico, il cattolicesimo, a partire da Agostino e dalla riflessione teologicopolitica medievale, ha costruito una vera e propria etica politica, che ha trovato una prima compiuta espressione in Tommaso. Per lui, Dio e popolo sono collocati insieme all’origine dell’autorità legittima, per cui non c’è opposizione di principio tra le due fonti del potere politico. Ciò implica, però, un’autorità limitata dalle consuetudini e dalla spontanea accettazione da parte del popolo, un’autorità esercitata secondo la legge e l’obbedienza spirituale ai pastori della Chiesa, verso cui la subordinazione indiretta (potestas indirecta) del potere civile è riaffermata. Quanto al caso paradigmatico della disobbedienza alla legge ingiusta o al tiranno, Tommaso osserva che una legge immorale deve essere disobbedita (Summa Theologiae, II-II, qq. 42 e 104). Su queste basi, la Seconda Scolastica e in particolare Francisco Suarez elaboreranno la teoria della resistenza al tiranno: sia contro chi usurpa senza titolo il potere politico sia contro chi esercita il potere contro il bene comune del corpo sociale, che costituisce aristotelicamente il fine dell’agire politico. La resistenza attiva armata potrà essere esercitata in casi estremi e mai dal singolo, bensí dal corpo sociale nel suo complesso, configurandosi come legittima difesa. Si tratta di un capitolo di morale politica che si è conservato sostanzialmente inalterato nel magistero sociale della Chiesa (si veda ad esempio la lettera apostolica del 1937 di Pio XI, Nos es muy conocida, che

riprende la dottrina della resistenza armata, e l’enciclica Pacem in terris del 1963 di Giovanni XXIII, che riprende la giustificazione tomista del potere ex parte finis) e che è ritornato di tragica attualità nel corso del Novecento. L’epoca delle rivoluzioni e l’avvento dello Stato di diritto hanno prodotto, però, un mutamento profondo. Il potere viene ora visto come dato direttamente da Dio e non tramite il corpo sociale. Questo potrà eventualmente (non necessariamente) designare un titolare del potere, ma mai costituirlo tale. È la «teoria della designazione», che si contrappone alla precedente «teoria del trasferimento». Su queste basi, il magistero cattolico, soprattutto nel corso dell’Ottocento, ha condannato duramente la parabola della politica moderna, che avrebbe avuto nella Riforma il suo inizio diabolico, per culminare nelle varie rivoluzioni, nel liberalismo, nella libertà di religione, nei diritti umani, fino alla libertà di coscienza, considerata una «follia». Contestualmente, si viene elaborando un progetto complessivo di ricristianizzazione della società in nome della regalità di Cristo (Menozzi 2001), che ha per modello la cristianità medievale e per scopo la riunificazione della cristianità divisa. Di fronte ad una situazione politica incontrollabile, si elabora la formula della «tesi-ipotesi». Poiché la tesi, e cioè il fine perseguito dal progetto di ricristianizzazione, non è attualmente realizzabile, la Chiesa «tollera», come ipotesi, situazioni che permettano la realizzazione finale della tesi. Solo lentamente questo schema entrerà in crisi. Occorrerà, però, attendere il Concilio Vaticano II perché, nella dichiarazione sulla libertà religiosa e nella costituzione pastorale sulla chiesa, vengano definitivamente eliminati i capisaldi della dottrina tradizionale. Quanto al protestantesimo, per un verso, le chiese evangeliche sono rimaste legate al modello luterano della dottrina dei due regni, con la tendenza, tipica delle chiese territoriali, ad una dipendenza acritica nei confronti del potere politico, destinata ad emergere in periodi di profonda crisi, come durante il nazismo. Per un altro, le chiese riformate, sullo sfondo della concezione teocratica caratteristica della Ginevra di Calvino, hanno elaborato una pluralità di rapporti non riconducibili ad un unico schema. Il punto che merita di essere sottolineato con particolare vigore, alla luce di questa breve disamina storica, è che, sulla base delle fonti neotestamentarie, non esiste una politica cristiana e cioè la possibilità di derivare da queste fonti un programma politico piú o meno preciso. Di fronte a questo dato di fatto,

mentre la tradizione protestante, in conseguenza della dottrina dei due regni, ha teso a secolarizzare la sfera dell’agire politico, la tradizione cattolica, a difesa della funzione mediatrice del magistero ecclesiastico, ha teso a reagire in modo diverso. A lungo ha prevalso nella Chiesa cattolica la cosiddetta dottrina sociale e cioè il modello di una offerta di contenuti da parte del magistero funzionali a un proprio progetto politico-sociale e ricavabili sia dalla Bibbia sia dalla tradizione, oltre che, come nella scolastica e nel neotomismo, fondati su categorie filosofiche generali come legge naturale e bene comune. In questa linea si muovono encicliche sociali come la Rerum novarum e la Quadragesimo anno. Mediante tale progetto, essa intendeva opporsi, da un lato, al liberalismo e ai suoi mali, rivendicando l’esistenza di un ordine «oggettivo» capace di fondare il bene comune al di là del consenso delle volontà soggettive, dall’altro, al socialismo e al collettivismo marxista e ateo, in nome del primato della persona sulla struttura sociale. La crisi di questo modello ha molteplici ragioni, a partire dal dissolvimento dell’orizzonte metafisico che lo sorreggeva, fino alla messa in crisi dell’ideologia soggiacente al progetto di riconquista cristiana di un mondo sempre piú diversificato e frantumato. Questo aiuta a comprendere la relativa fortuna che ha conosciuto un secondo modello, rintracciabile in documenti di epoca conciliare (Mater et magistra, Populorum progressio) e caratterizzato dalla rinuncia alla trasmissione-imposizione di un progetto proprio in nome di un appoggio spirituale della chiesa a un progetto esistente, autonomamente creato dall’uomo. In questa prospettiva piú storica, che prende atto dell’impossibilità per la fede di assumere dal vangelo determinati contenuti politici, quest’ultima, riassumendo la sua piú squisita dimensione escatologica, diventa il vaglio al quale il fedele deve fare riferimento anche nel campo delle scelte politico-sociali. Venuto meno il collateralismo politico, tipico del primo modello, ora il credente è affidato alla sua coscienza illuminata dalla fede e consigliata dalla saggezza del magistero, per compiere le proprie scelte di campo politiche, nella consapevolezza che «passa la forma di questo mondo». Sotto l’attuale pontefice è infine emerso, sullo sfondo sia della crisi irreversibile del mondo comunista sia delle critiche ai (dis)valori dell’individualismo libertario del capitalismo occidentale, un terzo modello, che sembra, nell’attuale fase di crisi del politico, guadagnare consensi. Esso rimette al centro dell’attenzione il nesso tra etica e politica che tutto un filone

«machiavellico» della Realpolitik moderna aveva teso ad emarginare, considerando le due sfere separate. In questa prospettiva, che corre parallela all’ampia discussione sulla rifondazione etica della politica e sul problema della giustizia (Rawls 1971), il problema diventa quello di indicare alcuni valori irrinunciabili (problema dei diritti umani) che ogni sistema politicosociale deve acquisire, integrare e difendere, se intende effettivamente perseguire il bene comune. 2. La sacralizzazione della politica. Pur nelle loro innumerevoli differenze, le grandi religioni hanno intessuto con la politica e con le varie forme di potere politico un rapporto variegato ma individuabile e riconducibile a forme diverse di mediazione tra entità distinte, dalle religioni di stato al cosiddetto dualismo o separazione tra potere spirituale e temporale, considerato tipico della tradizione cristiana occidentale. La modernità, d’altro canto, in conseguenza dei fenomeni secolarizzanti, ha creato uno scenario nuovo: la sacralizzazione della politica. Essa costituisce un aspetto particolarmente significativo di quella dialettica del sacro che getta la sua ombra sulla storia dell’Europa moderna (cfr. cap. III par. 4). In conseguenza di questa dialettica, al declino delle religioni istituzionali sul piano politico fa da contraltare un reinvestimento complessivo di tipo sacrale di quei campi, a cominciare appunto dalla politica, lasciati liberi dalla «ritirata» delle religioni istituzionali nel ghetto della privatizzazione. Si spiega in questo modo quella «diaspora del sacro», che permea gli interstizi piú diversi della società contemporanea; diaspora che, in realtà, ha radici piú antiche, configurandosi come un controcanto dei processi di secolarizzazione e scristianizzazione. Il movimento di decostruzione della religione e delle religioni, infatti, che la modernità, nel suo complesso, ha operato e continua a operare ha messo, nel contempo, in moto un movimento di ricostruzione sacrale in forme metaforiche, rette dalla logica del come se: … l’autonomizzazione del politico, della sessualità, dell’arte, della cultura in generale in rapporto alle religioni storiche, non ha solo ricondotto queste sfere di valore alla loro profondità originaria. Essa le ha anche rese disponibili a divenire portatrici di religione metaforica (Séguy 1988, p. 179).

Se è vero, in altri termini, che la secolarizzazione ha sottratto alle religioni

tradizionali una serie di campi d’azione e di sfere di vita rendendoli profani e autonomi, è altresí vero che questi campi e queste sfere sono ritornati ad essere, in tempi e modi diversi, indipendentemente dalle religioni tradizionali, produttori di sacro: e questo, appunto, a cominciare dal campo della politica. Si assiste, di conseguenza, ad una riorganizzazione del simbolismo sociale: scomparsa di gesti percepiti e vissuti come religiosi e comparsa di altri con funzioni omologhe a quelle dei precedenti; profanazione di tradizionali simboli religiosi e sacralizzazione di nuovi simboli profani procedono di pari passo. In questa «deriva della sacralità», istituzioni religiose e istituzioni politiche appaiono, dunque, come isomorfe in quanto strutture regolatrici di condotte e in quanto reti di simbolismo espresso nei miti e nei riti (Rivière 1988 e 1990). Le varie indagini dedicate ad approfondire modalità e tappe della sacralizzazione della politica, cercandone le supposte «origini» nella cultura dell’illuminismo, concordano in genere nell’attribuire alle due grandi rivoluzioni, americana e francese, una parte determinante nella messa in moto di questa peculiare macchina sacralizzante, cosí come individuano nei nazionalismi per l’Ottocento e nelle religioni politiche o secolari di tipo totalitario per il Novecento gli esempi piú vistosi e pericolosi di questo processo (Piette 1993, Elorza 1996, Maier 1995). Mentre la categoria di «religione civile» risale a Rousseau, quella di «religioni politiche» può essere fatta risalire a un saggio del 1938 di Eric Voegelin. Per lo studioso tedesco, esse sono religioni intramondane che esperiscono la comunità come una realtà assoluta, in ciò opponendosi alle religioni, di tipo monoteistico, del Dio trascendente, che relativizzano la comunità politica. Le religioni politiche utilizzano l’apparato simbolico religioso applicandolo all’ordine sociale: la gerarchia, l’ecclesia, l’apocalisse, la fede, i re sacri sono alcuni dei simboli che Voegelin prende in esame e che, a suo parere, si ritrovano in modo costante nella storia della civiltà. Tipico il caso del capo politico come unico mediatore tra Dio e il mondo. Nel piú antico esempio, a suo avviso, di religione politica, il culto solare di Akhenaton (cfr. cap. V par. 3), il re è il figlio di Dio e l’unico mediatore tra Dio e il mondo. Il servizio reso al re è il mezzo attraverso cui il mondo sale verso il divino e verso la salvezza. Voegelin ritrovava una simile struttura nell’esempio a lui piú vicino di religione politica, il nazionalsocialismo:

… il simbolismo si avvicina molto a quello egiziano: Dio parla soltanto al Führer ed il popolo conosce la sua volontà soltanto attraverso la mediazione del Führer (Voegelin 1938, trad. it. p. 68).

Negli stessi anni Raymond Aron (1946) elaborava un concetto analogo destinato a una certa fortuna: quello di religioni secolari. Esse sono dottrine che fissano il fine ultimo in relazione al quale sono definiti il bene e il male, religioni di salvezza collettiva che non riconoscono nulla di superiore, per dignità e per autorità, all’obiettivo del loro movimento. Tutto, uomini e cose, è subordinato al conseguimento di questo obiettivo e la misura del loro valore, anche spirituale, è condizionata dalla loro utilità per raggiungere questo fine ultimo. Tutti i mezzi, a partire dalla violenza, sono buoni per conseguire questo obiettivo. In questo modo, Aron forniva le coordinate essenziali con cui determinate forme politiche moderne di massa, dai totalitarismi ai nazionalismi, hanno potuto essere rilette come religioni secolari. A differenza di Voegelin, d’altro canto, che estendeva a dismisura il concetto di religione politica, egli ne sottolineava a ragione la dimensione tipicamente moderna di sostituto, in un’epoca priva ormai di un orizzonte trascendente, delle religioni tradizionali. Al pari di queste ultime, le religioni secolari forniscono un’interpretazione globale del mondo, spiegano il significato dei mali che travagliano l’umanità, facendo intravedere in un futuro piú o meno lontano la fine di queste tragiche prove. Nel contempo, forniscono nel presente, attraverso la comunione fraterna del partito, una esperienza anticipata di quel che sarà la comunità futura di un’umanità redenta. In questo senso, esse sono un fenomeno tipicamente moderno di sacralizzazione della politica. Dovrebbe risultare piú chiaro, a questo punto, che cosa s’intende con quest’ultima espressione. Si tratta, in generale, di un processo che ha luogo quando la sfera dell’agire politico è concepita, vissuta e rappresentata attraverso miti, rituali e simboli che esigono fede nell’entità secolare sacralizzata, legami sacrali tra i membri della comunità, entusiasmo per l’azione, uno spirito di dedizione tra i vari appartenenti che si può spingere fino al sacrificio: insomma, attraverso una metaforizzazione del religioso tradizionale, applicata al campo della politica. Cosí delimitata, la sacralizzazione della politica agisce sullo sfondo di un

orizzonte immanentistico; in quanto tale, essa va distinta, per un verso, dai fenomeni di politicizzazione della religione tipici delle religioni tradizionali, come ad esempio le varie religioni di stato, per un altro, dalle forme di sacralizzazione del potere politico, ad esempio la regalità sacra, di cui si è parlato nel paragrafo precedente. E questo, perché essa presuppone e si costruisce nel «vuoto» profanizzante creato dai processi di secolarizzazione. Con questo, non si vuol certo affermare che i processi di sacralizzazione della politica siano privi di rapporti con le religioni tradizionali, dal momento che spesso e volentieri essi desumono da queste ultime miti, riti, credenze, rileggendoli, a seconda dei differenti contesti storici, in funzione delle proprie peculiari esigenze. A differenza, però, di queste religioni, il fondamento di questi processi è, comunque si decida di definirlo, un sacro immanente. In quanto tali, i processi di sacralizzazione della politica non sono, di per sé, specifici della cultura secolarizzata. Anche le forme di religione civica che hanno contraddistinto il cattolicesimo di ancien régime, pur iscrivendosi, a prima vista, in un orizzonte tradizionalmente religioso, in una prospettiva di lunga durata possono essere inseriti con maggior pertinenza in questo tipo di processi (Vauchez 1995). E anche se, come già ricordato, i fenomeni piú evidenti di questa sacralizzazione sono stati i nazionalismi religiosi dell’Ottocento (con le loro propaggini novecentesche), la religione civile e le religioni politiche, in questa categoria potrebbero essere fatti rientrare anche tutti quei tentativi di sacralizzazione della politica, piú o meno riusciti, che hanno assunto a modello della rifondazione dello stato concezioni a sfondo pagano e politeistico. Si pensi, per non portare che un esempio, al programma della «nuova mitologia» d’inizio Ottocento (Frank 1982), in cui la rifondazione organicistica dello stato trovò i suoi referenti sacrali nel mondo della religione greca classica, dalla polis greca, assunta da Friedrich Wilhelm Schelling a paradigma di uno stato che realizza l’unità spirituale, alla festa, in cui la città ritrova la sua coesione, per terminare col teatro, luogo di rinnovato incontro, per Hölderlin, fra uomini e dèi. Teatro, festa, polis: i tre elementi fondamentali della «religione politica» antica che, nella rilettura della nuova mitologia, diventano lo scenario adatto per il dio a venire, un Dionysos messianico, compimento dell’incompiuto cristianesimo, simbolo della possibilità di ricuperare, su queste nuove basi sacrali, l’unità spirituale, ma prima ancora politica, perduta.

Pur essendo, dunque, i fenomeni di sacralizzazione della politica variegati e complessi, dal momento che riproducono e imitano la complessità e la varietà dei processi politici, sembra esserci un accordo di fondo tra gli specialisti sul fatto che i fenomeni piú rilevanti – quelli, in ogni caso, sui quali si è concentrata maggiormente l’attenzione – sono, da un lato, le varie forme di religione civile, dall’altro, le religioni politiche a cominciare dai totalitarismi. In questo senso, i processi di sacralizzazione della politica non sono né di destra né di sinistra, non possono essere etichettati né come totalitari né come democratici, dal momento che investono con la stessa intensità – anche se, evidentemente, non con gli stessi effetti – entrambi i campi politici. Quel che preme osservare dal punto di vista delle Scienze delle religioni è la dinamica peculiare del sacro che caratterizza queste due forme di religione secolare. Da un lato, ciò che accomuna questi processi è la logica soggiacente, nel contempo mimetica, in quanto deriva le sue strutture portanti da credenze e pratiche, etiche e liturgie tipiche delle religioni tradizionali, e sincretica, nel senso che, in assenza – a differenza di quanto avviene in una religione istituzionale come il cristianesimo – di organi preposti alla costruzione e alla preservazione dogmatica, in genere mette in moto meccanismi di métissage e di reinvenzione della tradizione, in funzione della costruzione delle particolari identità collettive di volta in volta in gioco. Ma quel che emerge soprattutto anche da un rapido confronto tra due tipologie ideali di religione civile e di religione politica è la serie delle differenze. Cominciando dalla religione civile 1, assunta qui appunto in una forma idealtipica, essa rappresenta una forma di sacralizzazione della politica che in genere presuppone l’esistenza di un’entità secolare, se non di una vera e propria entità soprannaturale come la Dea Ragione o il Dioniso dei nuovi mitologi; non è legata all’ideologia di un movimento politico particolare perché riconosce e si fonda sull’autonomia del singolo individuo; fa uso di forme pacifiche di propaganda, invocando modalità di consenso spontaneo per osservare i suoi comandamenti etici e le sue liturgie collettive; infine, coesiste, in genere senza particolari problemi, con le religioni tradizionali e con le varie ideologie politiche presenti sulla scena pubblica. Di contro, una religione politica si distingue perché sacralizza il movimento stesso che la sorregge, non accetta la coesistenza e la concorrenza con altre ideologie politiche, santifica la violenza come arma legittima per affermare la propria

fede, nega l’autonomia dell’individuo a favore del primato della comunità sacra, adotta un atteggiamento potenzialmente ostile verso le religioni tradizionali o, per converso, assume nei loro confronti un atteggiamento simbiotico, nel senso che cerca di subordinarle o di inglobarle nel proprio sistema (Gentile 2001). In questo senso, pare di poter concludere che questi due tipi di sacralizzazione della politica riproducano la dialettica fondamentale che presiede alla costruzione stessa del concetto di sacro in epoca moderna in alternativa al concetto di religione dominante, di tipo istituzionale e modellato sul cristianesimo (cfr. cap. III par. 4). La creazione, infatti, di questa moderna categoria, riassumibile nel passaggio da un sacro «aggettivo» a un sacro «sostantivo», da un sacro cioè che veniva utilizzato per definire la qualità di una persona o di una cosa investita di potenza al Sacro come presunta realtà ontologica, può essere sinteticamente riassunta osservando che essa è come una medaglia a due volti. Il primo di questi volti, che si può far risalire allo Schleiermacher dei Discorsi sulla religione (1799), ha per sfondo la sacralizzazione dell’individuo e cioè il tentativo di adeguare il modello di rapporto religioso protestante alle esigenze della società liberale e del suo peculiare individualismo. Il secondo, riassumibile nella definizione del sacro di Durkheim, ha dietro di sé, com’è noto, tutta la tradizione organicistica del pensiero tradizionale cattolico francese dell’Ottocento, che rilegge in chiave antirivoluzionaria la rousseauiana religion civile, ponendosi il problema di un rinnovato vincolo sociale come argine allo sfrenato individualismo moderno, con lo scopo di recuperare, nell’ottica di una nuova religione secolare, la tradizionale funzione di legittimazione politica svolta dal cattolicesimo di ancien régime. Se ritorniamo per un momento alla contrapposizione tra religione civile e religione politica, emergerà piú chiaramente che essa sembra iscriversi in forme di sacralizzazione della politica il cui centro è, per la prima, l’individuo e la sua libertà, per la seconda, la comunità politica e le sue necessità. 3. Religione e democrazia: c’è bisogno di una nuova religione civile? I dibattiti recenti (estate 2003) sul preambolo della Carta costituzionale europea e sulla necessità o meno di un richiamo esplicito al cristianesimo (o meglio, al cattolicesimo) come elemento fondante dell’Europa, hanno riproposto a livello europeo un tipico tema di religione civile: il cristianesimo,

in versione secolarizzata, come fondamento e scaturigine di tutti quei valori, dai diritti umani alla libertà e dignità della persona umana che, a detta di alcuni fervidi sostenitori, sarebbero tutti valori «implicitamente» cristiani. L’Europa come gli Stati Uniti, dunque? Avremo anche noi un euro «religioso» quanto la moneta americana sul cui retro campeggi una scritta analoga a «In God We Trust»? L’interrogativo non paia peregrino. Se il Novecento è stato il secolo di religioni politiche totalitarie devastanti come il fascismo, il nazismo, i vari regimi comunisti e, verso la fine, di nazionalismi a sfondo etnicoreligioso violenti e distruttivi, il XXI secolo sarà il secolo di rinnovate religioni civili? Ai futurologi la risposta. Quel che compete alle Scienze delle religioni è un approccio diverso, in grado di illuminare, alla luce della storia e di un’adeguata riflessione teorica, il ruolo significativo che la religione è ritornata a recitare sulle pubbliche arene. E certo, da questo punto di vista, il caso della religione civile si presta a qualche ulteriore considerazione. Nell’ottica della sacralizzazione della politica ricordata nel paragrafo precedente, la Civil Religion americana costituisce il primo caso moderno di siffatto fenomeno, realizzazione fedele di quanto Rousseau aveva proposto nel Contratto sociale. Fin dall’epoca della Rivoluzione, la nazione americana ha creduto di avere, secondo il modello biblico a cui aderivano i suoi Padri fondatori, uno speciale legame mistico suggellato da un patto sacro in virtú del quale, riprendendo il modello dell’Israele antico, il popolo americano si considerava scelto da Dio per compiere una missione storica a beneficio di tutta l’umanità. Il richiamo a questo patto è presente, come hanno messo in luce gli studi pionieristici di Robert N. Bellah, nelle dichiarazioni piú solenni dei presidenti degli Stati Uniti, dal momento che, fin dal primo presidente, George Washington, tutti i capi di Stato, all’atto dell’insediamento, hanno giurato fedeltà alla Costituzione concludendo la formula del giuramento con le parole «So help me, God» («Che Iddio mi aiuti») e nel loro messaggio inaugurale hanno invocato Dio a vegliare sulla nazione loro affidata. Anche se la Costituzione americana e in particolare il primo emendamento affermano la separazione tra Stato e Chiesa, garantendo ai vari culti la libertà religiosa, ciò non toglie che gli Stati Uniti abbiano nel corso della loro storia elaborato una forma originale di religione civile, che non coincide con nessuna delle religioni tradizionali che calcano in numero imprecisato il suolo americano e che consiste, come abbiamo ricordato nel paragrafo precedente, in un sistema

di credenze, di valori, di miti, di riti e di simboli che conferiscono un alone di sacralità agli Stati Uniti in quanto entità politica, alle sue istituzioni, alla sua storia, al suo destino nel mondo: La religione civile americana ha le sue «sacre scritture», che sono la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione, custodite e venerate come le Tavole della Legge; ha i suoi profeti, come i Padri Pellegrini; celebra i suoi eroi santificati, come George Washington, il «Mosè americano» che ha liberato dalla schiavitú inglese il «nuovo popolo d’Israele», cioè gli americani dalle colonie, conducendolo nella Terra promessa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia; venera i suoi martiri, come Abraham Lincoln, vittima sacrificale assassinata il Venerdí Santo del 1865, mentre la nazione americana era stata sottoposta al fuoco rigeneratore di una crudele guerra civile per espiare le sue colpe e riconsacrare la sua unità e la sua missione. Alla figura di Lincoln si aggiunsero poi, nel martirologio della religione civile, John Kennedy e Martin Luther King. Inoltre, come tutte le religioni civili, la religione civile ha i suoi templi di culto, come il monumento a Washington, il Lincoln Memorial, il cimitero di Arlington, dove è venerata la tomba del Milite Ignoto, simbolo dei cittadini caduti per la salvezza della nazione. Infine, la religione civile ha i suoi sermoni e la sua liturgia, come i discorsi inaugurali dei presidenti, il 4 luglio, festa dell’Indipendenza, Thanksgiving Day, il giorno del ringraziamento, il Memorial Day, la commemorazione dei caduti in guerra e altre cerimonie collettive che celebrano figure e avvenimenti della storia americana, mitologicamente trasfigurati nella «storia sacra» di una nazione eletta da Dio per compiere una missione nel mondo (Gentile 2001, pp. X-XI).

A chiunque abbia seguito il modo in cui il Presidente Bush ha presentato e giustificato la sua scelta di intervenire in Iraq non sarà sfuggito che egli traeva ispirazione e, soprattutto, legittimazione, da un copione ben noto. Quale sarà il destino dell’Europa? Lasciando ai politologi di professione l’improbo compito di rispondere a un interrogativo cosí importante, quel che, anche in questo caso, merita di essere osservato, dalla nostra particolare prospettiva, è che, di fronte alla piú volte ricordata crisi dello Stato laico e del regime di piú o meno rigida separazione tra religione e politica su cui esso è fondato, chiunque vorrà fornire una risposta adeguata dovrà tener conto della complessità dei rapporti tra religione e politica. La storia dell’idea di religione civile è piú antica e piú complessa di come

la si è rappresentata nel paragrafo precedente. Come dimostra la secolare fortuna che certe figure di legislatori leggendari, da Mosè a Numa, hanno avuto, esiste una tradizione di pensiero, a partire in fondo dallo stesso Agostino, che ha individuato il fulcro della religione nel culto interiore «in spirito e verità» e che, di conseguenza, ha aspirato a costruire un modello di religione civile alternativo a quelli dominanti imposti dai differenti tipi di relazione con gli stati praticati dalle chiese cristiane. Oggi questa ricerca di una religione civile fondata sui valori fondamentali dell’uomo sta ritornando al centro dell’attenzione. Esemplare, a tal proposito, è la svolta di uno dei maggiori pensatori del liberalismo americano, John Rawls. Secondo questa classica corrente di studi, tra religione e politica è da auspicare, secondo la celebre affermazione di Thomas Jefferson, un «muro di separazione» sia per il timore, già espresso da Locke, che un intervento della religione nella sfera pubblica possa costituire una minaccia all’unità politica di un paese e alla stabilità del suo governo sia perché i principî di giustizia impongono un trattamento di eguaglianza che prescinda dalle differenze religiose. Postulando una sorta di indifferenza religiosa da parte dello Stato, questo modello si avvicinava a una tipica posizione di Stato laico. L’avvento di una società multiculturale, come ricordato nel primo capitolo, ha messo in crisi questa posizione di indifferenza, sottolineando sia l’astrattezza di un principio di neutralità che, se applicato in quanto tale, rischia piú di discriminare che di rispettare le differenze sia i pericoli impliciti in un modello che presuppone comunque un privilegiamento delle chiese cristiane oggi difficilmente sostenibile di fronte all’avanzata dell’islam e, comunque, portatore implicitamente di una visione laicista della società che rischia di discriminare i cittadini credenti. Ma forse il limite maggiore di questa posizione è il suo individualismo, che la porta a disconoscere il valore «civico» che la vita religiosa può avere per la stessa democrazia nel momento in cui essa è in grado di far nascere quelle virtú civiche di solidarietà, impegno per la comunità e altro ancora, senza le quali una democrazia non può vivere. Su questo sfondo, colpisce il (parziale) mutamento di rotta di John Rawls, forse il rappresentante piú autorevole di questa corrente. Se infatti nel suo libro piú noto, Una teoria della giustizia (1971), le visioni del mondo religiose erano ancora concepite in modo tradizionale come esempi di visioni comprensive e totalizzanti che

diminuiscono la tolleranza del vivere civile, piú recentemente, in The Idea of Public Reason Rivisited, egli lascia intravedere una prospettiva di accordo tra liberalismo politico e visione religiosa. Purché una tale visione non si limiti a un’adesione condizionata o strumentale ai valori della libertà e della tolleranza, Rawls si dimostra disposto a riconoscere l’apporto positivo che le tradizioni religiose possono dare alla vita di una società democratica. Il limite «politico» con cui esse devono confrontarsi è, a suo dire, il limite posto dall’accettazione di una visione politica della giustizia: fino a che punto le religioni possono accettare una visione politica della giustizia anche quando questa può portare ad una diminuzione dei loro adepti costituendo cosí una minaccia alla loro identità e alla loro esistenza? La linea di confine viene da lui identificata nella libertà di coscienza, con il connesso regime di separazione tra Stato e Chiesa. Rawls ricorda come le stesse tradizioni religiose possano maturare la consapevolezza che l’unico modo per assicurare la libertà dei propri adepti è quella di assicurare e rispettare quella degli altri (in questo senso andrebbe la dichiarazione del Concilio vaticano II, Dignitatis Humanae, in materia di libertà religiosa). Inoltre egli sottolinea come la tolleranza possa essere motivata teologicamente, laddove ad esempio si riconosce che Dio stesso pone dei limiti alla religione, rifiutando, ad esempio, che un determinato credo venga imposto con la forza. In questo modo, egli ha iscritto nell’agenda della riflessione contemporanea sui rapporti tra religione e politica un problema fondamentale, quello del rinnovato ruolo civico delle religioni e del nuovo fondamento che questo ruolo deve avere in una società postmoderna, al quale anche le Scienze delle religioni sono invitate a dare il loro contributo. Uno dei modi in cui questo può avvenire è quello di approfondire la posta in gioco teologica presente in questo rapporto, indagando, in altri termini, le differenti teologie politiche che concorrono alla costruzione della nuova agorà politica. Ne risulterà meglio impostato anche il capitolo dei rapporti tra religione/i e democrazia/e e cioè sulle complesse interazioni di accettazione/rigetto che le forme di democrazia mettono in moto nelle differenti religioni, un capitolo ancora da scrivere. Ed è con qualche riflessione in merito che possiamo avviarci alla conclusione. 4. Potere e salvezza: figure della teologia politica. Il sintagma «teologia politica» ha avuto nel corso del Novecento una storia complessa, che ne rende particolarmente delicato l’uso (Nicoletti 1991,

pp. 17-67; Assmann 2000, trad. it. pp. 5 sgg.). Si assiste oggi, in effetti, a una situazione a prima vista paradossale: il rovesciamento di quella che era la situazione dei rapporti tra teologia e politica all’inizio del Novecento, un’epoca che sembrava dominata dalla tensione a realizzare definitivamente il progetto di disincanto del mondo (Rizzi 2000, pp. 103 sgg.). Cominciando da un corno del dilemma e cioè dalla politica, già a partire dagli anni Venti le riflessioni di Kelsen sulla democrazia e sulla sua sostanziale incompatibilità con il religioso (si badi bene, non con il sacro) si articolavano intorno a una duplice irriducibilità: quella tra pretesa veritativa della religione e relativismo dei valori, condizione che Hans Kelsen, sulla scia di Weber, poneva come necessaria per la sostenibilità stessa del concetto di democrazia; e quella tra libertà e responsabilità individuale, fondazione e teleologia della prassi democratica, da un lato, e onnipotenza e provvidenza di Dio che, imponendo un corso finalistico alla storia, sottrae all’uomo la possibilità di esserne artefice, dall’altro (cfr. Kelsen 1998, pp. 331 sgg., che rimanda direttamente in realtà a posizioni analoghe sostenute già negli anni Venti in Vom Wesen und Wert der Demokratie). A sua volta, sul versante teologico, a segnare l’apparente definitivo superamento del connubio tra religione e politica, basterà citare la seconda edizione dell’Epistola ai Romani di Karl Barth del 1922, là dove, nelle celebri pagine sulla Rivoluzione russa che chiosano il fondamentale capitolo di Rm 13, emerge con chiarezza e vigore l’assoluta irriducibilità di orizzonte mondano e giudizio di Dio, il quale, in quanto tale, non può che essere, sempre e comunque, negazione dell’agire umano, reazionario o rivoluzionario che sia, sicché, anche nelle sue forme piú caratteristiche ed elevate, la politica, agli occhi di Dio – e, di conseguenza, del credente – non è nient’altro che gioco: «gioco serio», ma pur sempre gioco. Se ora si guarda, anche solo fuggevolmente, alla situazione dell’attuale pluralismo religioso, la separazione tra politica e teologia, che pareva consumata con Kelsen e con Barth, appare in realtà, a sua volta, superata. E questo, vuoi per la crisi della politica che si ispirava alla tradizione kelseniana – sicché, per esprimere in modo sinteticamente brutale un complesso processo, alla fine, lo Stato liberato, secolarizzato, vive di presupposti che non è piú in grado di garantire – vuoi per la crisi della teologia, di una teologia individuale e disincarnata, che non è piú in grado di confrontarsi con i processi complessi di società in via di globalizzazione.

Ma che cosa si deve intendere esattamente con questa espressione? Pur assumendo, in via preliminare, ciò che è lungi dall’essere scontato e precisamente il fatto che questa nozione sia in grado di ricomprendere al suo interno modalità di pensiero e di circolazione concettuale indipendenti dalla sua esplicita formulazione storica e terminologica, resta il problema, di non facile soluzione, di intendersi appunto su che cosa tale nozione debba significare e soprattutto, dal punto di vista del metodo, come se ne affermino i contenuti, cioè in che modo, in quali forme e, non da ultimo, entro quali ambiti disciplinari essa riesca a trovare il suo piú consistente radicamento concettuale: se nella «teologia», com’è avvenuto nel secondo dopoguerra con la teologia politica di Metz e di Moltmann; o nella «filosofia del diritto», in linea con la riproposizione di questa categoria antica (la theologia civilis dell’antiquario Varrone, criticata duramente da Agostino ne La Città di Dio), riproposizione, com’è noto, operata da Carl Schmitt nel celebre saggio del 1922. Ora, nella prospettiva che qui si suggerisce, «teologia politica» non è soltanto un modo, pur prezioso se non indispensabile, di offrire un criterio gnoseologico comparativo che permette di costruire tipologie che distinguano, ad esempio, tra teologie politiche dualistiche, teocratiche, di tipo rappresentativo (Assmann 2000, trad. it. pp. 19-20); né vuole limitarsi ad indicare l’esigenza di un indifferente censimento delle strutture che sostengono l’analogia tra il giuridico e il teologico, per esempio, come aveva suggerito Schmitt, evidenziando il legame tra «miracolo» e «caso d’eccezione» nell’ambito del problema della «sovranità». Riprendendo e approfondendo un aspetto centrale del concetto schmittiano, basato sulla sua teoria delle «corrispondenze» tra i due ambiti, l’operazione capitale cui questa concezione è chiamata a far fronte dovrebbe essere soprattutto quella di rendere riconoscibile, portandola a determinazione concettuale e storica adeguata, una circolazione, decisiva in quanto storicamente produttiva, tra la sfera del teologico e la sfera del politico nell’attuale situazione di pluralismo delle religioni. Riletta su questo sfondo peculiare, infatti, la dialettica tra teologico e politico può e deve farsi carico, a partire da una lucida consapevolezza storica delle continuità e delle discontinuità, del modo in cui oggi, nella situazione di crisi del politico e dello stato laico, occorre confrontarsi con le teologie politiche delle religioni in quanto oggetti di studio e di riflessione, ma anche in quanto costellazioni ideologiche dinamiche che regolamentano la sfera del

rapporto pubblico e politico. La categoria di teologia politica ha, in realtà, ambizioni piú vaste di tipo storico e comparativo, come ha cercato di dimostrare in particolare Jan Assmann, che mirano a farla uscire dall’ottica cristianocentrica in cui e per cui essa si è formata: cosa che, naturalmente, non va senza problemi, solo se si pensa che il concetto di teologia è un concetto tipicamente cristiano, esportabile soltanto con molte precauzioni in tradizioni religiose, a cominciare da fedi affini come l’ebraismo e l’islam, prive di una teologia in senso stretto. Nell’ottica che qui si propone, «teologia politica» ricapitola lo studio storico e sistematico delle corrispondenze tra i concetti teologici e le rappresentazioni del divino di una determinata tradizione religiosa e le forme e le dinamiche di un dato assetto del potere e dell’autorità politica, nel duplice senso di un rispecchiamento delle strutture politiche nelle concezioni teologiche e, viceversa, di un modellamento di queste ultime in funzione delle differenti rappresentazioni della divinità e della sovranità. L’elemento mediatore decisivo in cui studiare questo gioco di relazioni diventa cosí la comunità religiosa, il soggetto e, nel contempo, un oggetto privilegiato della teologia politica 2. La categoria di teologia politica invita a ripensare la centralità del nesso tra religione e politica alla luce del nesso Dio-dèi vs. potere politico. A prescindere dal carattere piú o meno sistematico della riflessione su Dio e sul divino, quel che qui si vuole sottolineare è che questa riflessione, ponendo il problema della eteronomia del politico, cioè di un suo fondamento metaumano, diventa, implicitamente o esplicitamente ora non importa, riflessione politica: le corrispondenze, attraverso la mediazione della comunità, tendono a diventare discorso teologico e politico. Si potrebbero portare non pochi esempi in questo senso (Assmann 2000); mi limiterò a portarne due, lontani nel tempo e nello spazio, ma uniti appunto dal filo segreto della loro paradossalità teologico-politica. Il primo lo desumo da una tipica religione dualista (cfr. cap. V par. 4): quella dei catari. Il fondamento metafisico della teologia politica catara e cioè il dualismo, qui assunto per comodità nella sua forma piú pura e cioè come dualismo radicale, ha tra le sue conseguenze evidenti una diabolizzazione dei poteri terreni, anzi, di ogni potere terreno, dal momento che ai due principî metafisici corrispondono, sul piano politico, i due regni, inconciliabili, di

Cristo e di Satana. Ne consegue che «anche l’esercizio del potere temporale era annoverato dai catari fra i peccati piú gravi che gli uomini possano commettere e che l’intera struttura del mondo feudale era condannata come artificio diabolico» (Zambon 2000, p. 153). Tra le varie conseguenze di questo rifiuto, che in questa sede non possono essere adeguatamente approfondite – ma una cui analisi rientrerebbe, a mio modo di vedere, pleno iure in una prospettiva di lungo periodo di studio delle teologie politiche di tipo dualistico – mi limiterò a riportarne una, formulata a mo’ di ipotesi da Francesco Zambon in un suo recente contributo sui catari e il potere: Forse il ruolo piú importante che il catarismo svolse nella storia europea dei secoli XIIXIII consistette proprio nella sua opposizione, benché indiretta e destinata finalmente all’insuccesso, ai processi ideologici e politici sfociati nella formazione – in Francia e altrove – dei grandi stati moderni. La critica della regalità biblica che sta alla base del pensiero politico cataro si trova in radicale contrasto con le ideologie monarchiche del XII e del XIII secolo, i cui riferimenti essenziali sono proprio i re della Bibbia (ibid., pp. 15556).

Sarebbe dunque possibile – come qualcuno ha ipotizzato – che la lotta contro i catari ad opera di varie potenze sia anche stata una lotta tra due teologie politiche. In realtà, il caso cataro si iscrive in una prospettiva teologico-politica di lungo periodo, tipica di una concezione radicalmente pessimistica del mondo e dell’uomo propria delle religioni dualiste, che, a cominciare dagli gnostici del II e III secolo della nostra era, attraverso i manichei, giunge fino alle sette ereticali dualiste medievali (a tal proposito si vedano i contributi di Filoramo e Gianotto in Bettiolo e Filoramo 2002 e di Stoyanov in Filoramo 2004). Per i nostri scopi basterà limitarsi a una conseguenza pratica decisiva di questa particolare concezione dei rapporti tra concezione del divino e sfera dell’agire politico, radicata nel peculiare esoterismo di questi gruppi. Quella gnostica, infatti, era una risposta, teologicamente fondata, che metteva radicalmente in discussione il fondamento stesso della religione politica antica, caratterizzato da una sorta di «balance of powers» tra potere divino e potere umano, tra sfera della sovranità divina e sfera della sovranità umana. La radicalità di questa critica, che attribuiva a un Dio malvagio, il demiurgo creatore, la fonte del potere

mondano, caratterizzando di conseguenza ogni potere politico come in sé irrimediabilmente malvagio, rivela la sua originalità rispetto allo scenario disegnato dalle risposte cristiane ricordate in un paragrafo precedente, soprattutto sul piano dei comportamenti pratici. Applicando quella dimensione esoterica che viene continuamente rimproverata loro dagli avversari, nascondendo cioè agli attacchi del mondo arcontico e dei suoi rappresentanti mondani la loro vera soggettività, gli gnostici finiscono per spostare la linea di confine che gli antichi stabilivano tra sfera privata e sfera pubblica, a difesa di un nuovo territorio dell’interiorità, non peritandosi, ad esempio nel caso delle persecuzioni, di comportarsi come pagani, dal momento che per essi, a differenza che per i giudei e per i cristiani, non si pone il problema di un loro riconoscimento pubblico. Si tratta di un atteggiamento caratterizzato, d’altro canto, non tanto da uno stato di necessità, quanto piuttosto da una scelta teologica radicata nella convinzione che la sede del male e del peccato non era, come pensavano i cristiani, dentro l’uomo, ma all’esterno, e precisamente, nel Potere e nei suoi rappresentanti, gli arconti signori di questo mondo. Non ci si dovrà, di conseguenza, stupire che questa convinzione si sia tradotta in un particolare atteggiamento pubblico, teso ad ingannare il dio malvagio e i suoi arconti, insieme ai loro rappresentanti politici. In questo modo, accanto al politeuma dei giudei e alle forme di presenza pubblica offerte dai cristiani, come conseguenza della loro particolare teologia politica gli gnostici hanno offerto lo spettacolo di un terzo tipo di comunità cittadina ignoto alle forme del vivere politico antico. Il secondo esempio è molto piú vicino a noi e può essere desunto da un movimento fondamentalista (cfr. cap. VII par. 3). Per vari motivi, in questi ultimi anni sono cresciute le voci, all’interno della vastissima letteratura sull’argomento, inclini ad interpretare questo fenomeno, nel suo complesso, come un fenomeno essenzialmente cultural-politico, presupposto e, nel contempo, risultato di una lettura etnica, prima e piú che teologica, di messa in crisi di identità religiose, con la conseguenza, deleteria, di un’interpretazione che tende a prescindere dai sistemi di fede in cui i vari fondamentalismi si iscrivono. Non si vuole, naturalmente, negare l’esistenza di questa dimensione nel variegato mondo dei fondamentalismi cristiani, ebraici e musulmani. Il problema è un altro. Interpretare i fondamentalismi prescindendo dalle rispettive teologie politiche – e cioè dal modo in cui essi

(re)interpretano e (ri)organizzano in funzione della loro peculiare concezione di Dio i rapporti tra sfera della sovranità divina e sfera della sovranità terrena – significa impedirsi di cogliere la reale portata della posta gioco. Di contro a chi, come Davide Bidussa, ha recentemente sostenuto, nello studiare i fondamentalismi, che «noi dovremo indagare non tanto delle teologie specifiche, quanto delle culture politiche consolidate e strutturate in agenzie politiche» (2000, p. 92), quanto finora osservato sulla teologia politica ci ricorda che, senza un’indagine attenta del dato teologico e del suo complesso intreccio con quello politico (di una medaglia a due volti, che non può avere corso scientifico se si cancella o sfigura uno dei due), si rischia il fraintendimento della natura del fondamentalismo di volta in volta in questione. Una conferma a ciò può essere desunta da un lavoro di David J. Goldberg recentemente tradotto in italiano, in cui, a un certo punto, si analizza la peculiare teologia politica soggiacente alla politica del sionismo religioso (1999, trad. it. pp. 189 sgg.). Il reticolo concettuale su cui Rav Kook, guida politico-culturale del sionismo religioso e padre spirituale del National Religious Party, aveva fondato la fisionomia del partito, si struttura nella mediazione tra due variabili: forma nazionale e forma divina come fondamento del sociale. Entrambe tendono a compenetrarsi per completarsi, anche se teleologicamente la prima è destinata a essere riassorbita dalla seconda. In questo modo, lo Stato non è negato, ma si configura come uno stadio nel cammino che porta verso l’età messianica, dal momento che per Kook il movimento sionista, quali che siano le forme antitradizionali che riveste, è strettamente legato al processo di redenzione messianica. Richiamandosi agli insegnamenti della qabbalah, Kook è in grado inoltre di giustificare la collaborazione con i sionisti secolarizzati, fondata sulla credenza che l’eresia – al pari dell’Anticristo – si manifesta proprio nel momento in cui appaiono i primi segni della redenzione. Non sarebbe difficile moltiplicare questi esempi, allo scopo di mettere in luce l’intreccio profondo tra piano teologico e piano politico; intreccio che occorre prendere attentamente in considerazione per una migliore conoscenza dei fondamentalismi, ma anche di movimenti apparentati come i messianismi e i millenarismi. Questo intreccio si manifesta soprattutto, come insegna in particolare il caso islamico, nell’idea che, nella concezione musulmana tradizionale, lo Stato non crea la legge, ma è lui stesso creato e

mantenuto dalla legge, che viene da Dio ed è interpretata e amministrata da coloro che sono stati formati a questo scopo. In conclusione, il ritorno delle religioni sulla scena pubblica e il loro tentativo di riconquista di questa sfera sullo sfondo dell’attuale pluralismo delle religioni invitano non soltanto a ripensare il problema della rappresentanza del potere politico alla luce di una categoria come religione civile, tipica dei fenomeni di sacralizzazione della politica, ma anche, se non soprattutto, a tenere nel debito conto le complesse teologie politiche depositate nella memoria culturale delle religioni a confronto nella nuova agora resa possibile dal pluralismo. Bibliografia 1. Forme del rapporto. Campanini, M. 1999 Islam e politica, il Mulino, Bologna. Cullmann, O. 1956 Der Staat im Neuen Testament, Mohr, Tübingen [trad. it. Dio e Cesare. Il problema dello Stato nella Chiesa primitiva, Comunità, Milano 1957]. De Heusch, L. 1997 The symbolic mechanisms of sacred kingship. Rediscovering Frazer, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», n.s. 3, pp. 213-32. Eslin, J.-C. 1999 Dieu et le pouvoir. Théologie et politique en Occident, Seuil, Paris. Gauchet, M. 1985 Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris [trad. it. Il disincanto del mondo, Einaudi, Torino 1992]. Menozzi, D. 2001 Sacro cuore. Un culto tra devozione interiore e restaurazione cristiana della società, Viella, Roma. Merkl, P. L. e Smart, N.

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A partire dal noto saggio di R. N. Bellah, Civil Religion in America, in «Daedalus», 1967, pp. 1-21

[trad. it. Al di là delle fedi, Morcelliana, Brescia 1975], che è poi ritornato successivamente, anche in maniera autocritica, su questo concetto (Bellah e Hammond 1980; per una critica delle sue tesi cfr. G. Gehrig, American Civil Religion. An Assessment, Society for the Scientific Study of Religion, Storrs 1981), la «religione civile» è stata ritrovata nei contesti politici piú diversi: in Svizzera (R. J. Campiche, Les minorités et la constitution de religions civiles en Suisse et en France, in J. Baubérot [a cura di], Pluralisme et minorités religieuses, Peeters, Paris 1991, pp. 87-97), in Belgio (K. Dobbelaere, Chrétienté socio-culturelle et religion civile. Essai d’étude comparative, in R. Cipriani e M. I. Macioti, Omaggio a Ferrarotti, Siares, Roma 1988, pp. 305-25), in Francia (J.-P. Willaime, La religion civile à la française, in «Autres Temps», 1985, n. 6, pp. 10-32), in Germania (Vögele 1994), in Israele (C. Liebman e E. DonYehiya [a cura di], Civil Religion in Israel. Traditional Judaism and Political Culture in the Jewish State,

University of California Press, Berkeley 1983; Breslauer 1993), ma anche nell’ex Unione Sovietica (Thrower 1992) e, buon ultima, in Italia (Rusconi 1999). 2

«La teologia politica ha a che fare con i mutevoli rapporti fra comunità politica e ordinamento

religioso, ovvero, per dirla piú sinteticamente, fra potere e salvezza. La teologia politica nasce là dove simili problemi sono trattati in forme che coinvolgono gli dèi ovvero Dio. E qui si possono distinguere due aspetti di teologia politica. L’uno indaga sulle implicazioni teologiche della politica (termine che in questo studio indica, in linea di principio, sia la dimensione “verticale” del potere, sia la dimensione “orizzontale” della comunità), l’altro sulle implicazioni politiche della teologia. Della teologia politica fanno dunque parte sia le analisi del potere e/o della comunità che non riescono a cavarsela senza (espliciti o impliciti) richiami a Dio o agli dèi, sia le discussioni su Dio o sugli dèi che coinvolgono le sfere delle strutture verticali oppure orizzontali del mondo umano. Le questioni sollevate dalla teologia politica coinvolgono dunque sia la teologia politica implicita nella politica (ed è questo, per esempio, il caso di Carl Schmitt), sia la politologia, la sociologia e anche l’antropologia implicite nei dibattiti teologici o piú genericamente religiosi (e questo corrisponde, per esempio, alla posizione di Jacob Taubes)» (Assmann 2000, trad. it. pp. 5-6).

Appendice

Religione in Internet

Internet è diventato ormai uno strumento essenziale anche per lo studio della religione e per la conoscenza delle differenti religioni nei loro vari aspetti, dai testi alle immagini. Oltre a ricorrere a motori di ricerca come Google, è possibile accedere a siti che offrono in modo sistematico preziosi strumenti di ricerca alle Scienze delle religioni. Senza pretesa di completezza e tenendo presente che, com’è caratteristico della rete, si tratta di «cantieri» in continua ristrutturazione, se ne segnalano alcuni particolarmente interessanti. Attraverso i loro links è poi possibile allargare all’infinito la rete di consultazione. Storia comparata delle religioni www.academicinfo.net/relindex.html Facets of Religion: una biblioteca virtuale delle religioni www.snowcrest.net/dougbnt/religion.html Finding God in Cyberspace: risorse di vario tipo http://facultyweb.fontbonne.edu/-jgresham/fgic

Divinazione

Divinazione, dal termine latino divinatio, indica nell’etimo originario «arte dell’indovinare», «predizione». Cicerone, partendo da un contesto culturale e religioso nel quale la divinazione era ampiamente praticata, la definisce, nel De divinatione, «presagio ( praesentio)e conoscenza (scientia)del futuro». La divinazione presenta un carattere comune in tutte le culture: essa è la proiezione della conoscenza sui fatti che accadranno in un futuro a scadenza variabile. In particolare, la divinazione costituisce per le società «primitive» l’unica modalità con cui esse si rivolgono a un tempo futuro con l’intenzione di conoscerne, il piú esattamente possibile, gli accadimenti, in particolare quelli vitalmente piú rilevanti, relativi alla malattia, alla morte, al raccolto, alla caccia. La divinazione, decisamente rigettata come superstitio dal cristianesimo (Dante colloca gli indovini nell’Inferno costringendoli a muoversi col viso rivolto all’indietro), trova invece spazi piú o meno ampi di legittimità sia nelle religioni a livello etnologico sia, e soprattutto, presso tutte le religioni dell’antichità. È infatti nell’area mediterranea, d’influenza grecoromana e della Mezzaluna fertile, che si riscontrano i piú complessi sistemi divinatori. In Mesopotamia il sistema teologico assirobabilonese era inseparabile da una concezione della realtà che si riteneva inscritta nell’universo e nelle sue diverse parti: la disposizione degli astri era denominata «scrittura dei cieli». Ed è da questa disposizione preordinata che si sviluppò la cosiddetta divinazione deduttiva, la quale «vede le cose (l’oracolo) attraverso altre cose (il presagio)» ( J. Bottéro) . Per interpretare il futuro, oltre all’astrologia, vi erano la lecanomanzia (che presagiva il futuro sulla base dei movimenti di gocce d’olio versate nell’acqua), l’osservazione dei fenomeni atmosferici, dei

sogni, delle mostruosità (teratologia), dei movimenti degli animali (il volo degli uccelli o ornitomanzia). Soprattutto si studiavano le linee del fegato (epatoscopia) e le forme delle viscere degli agnelli sacrificati. L’aruspicina e l’epatoscopia si basavano sulla concezione che un organo centrale e ricco di sangue come il fegato, costituisse una sorta di microimmagine del mondo. Anche a Roma la divinazione conobbe un notevole sviluppo: Cicerone, confutandola, ne dimostra indirettamente la diffusione. È ancora Cicerone a ricordare che il rispetto dell’aruspicina favoriva gli interessi politici e religiosi dello stato. La divinazione uscirà dalla scena della cultura egemone con l’avvento del cristianesimo, il quale condurrà contro la divinazione – intesa come un tentativo illecito di sondare i disegni imperscrutabili di Dio – una lotta senza quartiere. Spostata dal centro alla periferia, la divinazione sopravviverà sino ai nostri giorni nelle svariate forme assegnatele dalla cultura popolare: dalla chiromanzia alla cartomanzia. Ritornerà in auge negli ambienti urbani delle società avanzate – in funzione di rassicurazione dei piú diversi tipi di angoscia per il futuro prodotti dalla moderna razionalità formale – dove la salvezza viene sovente cercata nelle ambigue figure che i maghi del nostro tempo leggono entro le loro sfere di cristallo. (Carlo Prandi). Burnett, C. 1996 Magic and Divination in the Middle Ages. Texts and Techniques in the Islamic and Christian Worlds,Aldershot, Variorum. Bloch, R. 1984 La divination dans l’antiquité, Puf, Paris. Caquot, A. e Leibovici, M. 1968 (a cura di), La divination. Etudes recueillies, Puf, Paris, 2 voll. Chirassi Colombo, I. e Seppilli, T. 1999 ( a cura di), Sibille e linguaggi oracolari. Mito Storia Tradizione, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma. Evans-Pritchard, E. E. 1937

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Magia

Origine e significato del termine. Il termine greco mageía – da cui magia – assume nell’interpretazione di Platone e di Teofrasto il significato di «incanto», mentre Euripide lo utilizza per indicare una tipica pratica magica qual è l’«incantesimo». Apuleio (125-80 d.C.) nel De Magia, ricordando le parole di Platone nel Carmide – «gli incanti sono parole buone» – difende la nobiltà dell’arte magica: «Voi che la accusate a casaccio, avete sentito che la magia è un’arte gradita agli dèi immortali, la disciplina che sa venerarli e onorarli, pia e a conoscenza delle cose divine». Esiste dunque, oltre all’immagine piú nota della magia, e che nell’età contemporanea si è imposta in modo pressoché esclusivo, un’altra immagine, che la indica come modalità positiva e creativa dell’operare. Essa permane dall’antichità al Rinascimento, quando autori come Tommaso Campanella (1568- 1639) ritenevano che si dovesse distinguere l’«arte ignota», con cui gli scienziati imitano la natura, dall’«opera magica», nota alla «plebe bassa». Si tratta della distinzione tra magia naturale, intesa come operazione pratica che intende trasformare la natura inserendosi nel gioco delle sue leggi – e perciò come attività destinata a dissolversi nella scienza una volta individuato il metodo – e magia cerimoniale, la piú diffusa tra i ceti subalterni dell’Occidente e le società illetterate extraeuropee. Quest’ultima si fonda essenzialmente sulla potenza della parola e del gesto e sulla loro efficacia automatica, ed è finalizzata a raggiungere scopi, positivi o negativi, non ottenibili con mezzi razionalmente predisposti. Occorre in ogni caso tener presente che: a) non è mai esistita un’età magica nella storia dell’umanità; b) la magia è sempre una componente di un piú vasto sistema culturale. La magia nel mondo antico. Non v’è civiltà letterata che non possieda un «sistema magico» piú o meno interagente col quadro religioso egemone.

L’Israele antico, in particolare nella fase preesilica, è ricco di avvenimenti dall’evidente struttura magica, malgrado si verifichino sotto il controllo di Yahweh. È noto l’episodio in cui Mosè colpisce la roccia col bastone e ne sgorga acqua (Es 17.6). D’altra parte, se il precetto deuteronomistico vieta ogni forma di magia, divinazione e necromanzia, esso deve intendersi come una cautela contro arti assai radicate e diffuse nel paese di Canaan e che perciò costituivano una tentazione permanente per Israele. Profondamente intrise di elementi magici sono le culture della Mezzaluna fertile, a partire dall’antico Egitto. La magia assirobabilonese si basava su un formalismo assai rigoroso, era strettamente connessa con la religione ed aveva sviluppato pratiche curative, dal momento che nel mondo mesopotamico si riteneva che le malattie fossero opera di demoni malvagi evocati da maghi o venissero contratte a causa dei peccati commessi. A questo proposito si era sviluppata una scienza magica di tipo omeopatico, la cui funzione era quella di neutralizzare l’azione delle potenze maligne facendo ricorso a tecniche e strumenti in grado di controbattere gli attacchi demoniaci. Un tipico esempio di esorcismo mesopotamico è il seguente: «Malattia del fegato, infermità, | malattia del freddo, | malattia che non esci, malattia delle membra, | malattia che non te ne vai, malattia malvagia, | in nome dei cieli sii esorcizzata, in nome della terra sii esorcizzata». La religione romana aveva, com’è noto, un carattere spiccatamente contrattualistico e il termine religio ricorre sovente presso gli autori latini con il significato di «scrupolo», «accuratezza» e simili. Ne deriva che teoricamente tutto poteva diventare magia, ma praticamente i fatti di magia erano ristretti a Roma ad una gamma limitata. D’altro lato il legislatore romano è sempre stato particolarmente attento nel reprimere le pratiche magiche e coloro che le esercitavano. Nel 139 a.C. un editto vietava il soggiorno in Italia degli astrologi, mentre nell’81 a.C. la legge di Silla De sicariis et veneficiis condannò l’avvelenamento (con i suoi corollari: l’aborto, i filtri d’amore, ecc.) e l’assassinio con la stregoneria. Tuttavia, pur essendo piuttosto consistente la legislazione contro le pratiche magiche e occultistiche a partire dal III secolo a.C., queste dovevano essere assai diffuse nella società romana, come testimoniano Virgilio, Orazio, Ovidio, Tibullo e il processo contro Apuleio, celebrato sotto gli Antonini. Il cristianesimo, sin dalle origini, condusse una lotta senza quartiere

contro la magia: la dura condanna di Pietro nei confronti di Simon Mago (At 8.17-24) non ne rappresenta che il primo episodio. Tuttavia la diversa interpretazione del concetto di ex opere operato non ha impedito che Lutero accusasse di magia la Chiesa cattolica in relazione ai sacramenti, in quanto si basano su quel principio. La magia presso le società illetterate. Presso le società illetterate la magia è spesso strettamente collegata alla stregoneria. In ogni caso è possibile cogliere nell’azione magica due finalità opposte, espresse da coppie del tipo: Bene/Male, Lecito/Illecito, Ammesso/Vietato. Il mondo in cui si esprimono i secondi termini di tali coppie è quello degli stregoni che si oppone a quello dei maghi, è un universo di corruzione e di tenebre, oscuro e carico di contraddizioni e antinomie, contrapposto alla conoscenza chiara, impregnata di evidenza e conforme alla logica di un pensiero che si pone al servizio della comunità. Contrariamente alla stregoneria, la magia si avvicina talmente alla religione, che talvolta sembra non distinguersene. Anzi, come dicono i Bantu, la magia è spesso «voluta da Dio», il quale mette a disposizione degli uomini delle forze naturali, la cui funzione è quella di potenziare la vita umana. Il mago, soprattutto nell’Africa subsahariana, è un uomo che, grazie alla conoscenza di una tecnica di cui custodisce gelosamente il segreto – se non il contratto che lo lega ad una divinità –, giunge a captare e a padroneggiare certe forze a scopo benefico. Contenendo in ugual misura elementi tecnici ed elementi di natura sacra – al punto che è facile distinguere il mago dallo stregone, ma assai meno facile è distinguerlo dal sacerdote o dal guaritore (sciamanesimo) –, la magia appare un’arte a un tempo delicata e rischiosa: il rischio proviene dalla possibilità che le forze dominate dal mago si ritorcano contro di lui sotto forma di senso di colpa o di frustrazione per gli scacchi subiti. Il buon mago, al contrario dello stregone che opera ai margini del gruppo, attira su di sé le attenzioni e gli interessi della comunità. Egli è il maestro indiscusso di tutti, tiene uomini e cose nelle sue mani, è dotato di un grande carisma al pari di un capo ed è per questa ragione che presso molte società africane il mago è spesso anche il capotribú. Edward E. EvansPritchard (1902-1973), in un saggio ormai classico, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, ricorda che esiste una duplice funzione della magia: benefica e malefica. Gli Azande disprezzano la magia malefica non perché distrugga la salute e i beni altrui, ma «perché rappresenta una sfida e uno

scherno nei confronti delle norme morali e giuridiche. Quella benefica può essere, sí, distruttiva, persino mortale, ma colpisce soltanto persone che abbiano commesso un crimine, mentre quella malefica è usata per rancore contro gente che non ha violato alcuna legge, né alcuna convenzione morale». Magia e mondo popolare. La magia non appartiene soltanto alle civiltà primitive o antiche, ma è pure parte non secondaria della storia culturale dell’Occidente. Se la magia naturale si sviluppò prevalentemente in un ambiente acculturato – è il caso della magia nel Rinascimento –, la magia cerimoniale è un fenomeno presente soprattutto tra gli strati subalterni e agricoli. È tipica del mondo popolare tradizionale l’elaborazione di sistemi di sicurezza contro eventi negativi, possibili o reali, che costituiscono una minaccia per l’individuo o per il gruppo. L’universo della magia popolare è animato dalle forze piú diverse, i cui comportamenti devono essere intuiti in tempo utile per poter prendere le necessarie misure difensive. Sovente l’atteggiamento magico nasce da timori atavici originati da credenze antiche inconsapevolmente riprodotte, come nel caso dei presagi desunti dal primo incontro di chi esce di casa il mattino di capodanno, tenendo presente che la mentalità popolare, al pari di quella primitiva, non distingue tra presagio e causa. Il mondo popolare distingue la magia nera, distruttiva, dalla magia bianca, il cui compito è quello di ottenere effetti benefici. In entrambi i casi si ricorre sovente al sortilegio, il cui effetto magico è affidato alla potenza della parola. I sortilegi, come la divinazione, possono essere interpretati in vari modi. Il loro scopo è quello di evocare spiriti buoni o malvagi. In molti paesi si trovano stregoni «bianchi», in genere vecchi contadini, che sanno curare gli animali, rivelare il futuro e vendono amuleti a scopo apotropaico. Con diverso stile e piú ampia specializzazione, tali figure sono riapparse nelle città contemporanee, non piú circondate dalla solidarietà del gruppo, ma disponibili a riempire le zone vuote, o di rischio, che si creano tra individuo e società. Interpretazioni della magia. Non c’è storico delle religioni, o antropologo, o sociologo che non abbia proposto una propria teoria della magia. Tutti gli autori tendono a sottolineare, per motivi di chiarezza, la distinzione/opposizione tra magia e religione ricordando la diversità, talora radicale, di sentimenti e disposizioni, che informa il credente rispetto

all’operatore magico. In realtà, se ci si colloca oltre il terreno delle definizioni astratte, ci si rende conto di come i due atteggiamenti talora convivano in modo non conflittuale nella stessa persona. In ogni caso non v’è dubbio che la magia si colloca decisamente sul versante della potenza efficace, per sé, della parola e del gesto, ed è in questa prospettiva che autorevoli studiosi hanno impostato le loro teorie. Anzitutto James Frazer (1854-1941), il quale, pur all’interno di una concezione positivistica della magia, intesa come «falsa scienza», ha stabilito, in The Golden Bough, una distinzione, tuttora utile, tra legge di similarità – secondo cui «il simile produce il simile, o l’effetto rassomiglia alla causa» – e legge di contagio, secondo cui «le cose che sono state una volta a contatto continuano ad agire una sull’altra». La fattura operata su un ritratto (prima legge) o su un indumento (seconda legge) avrà effetto certo sui rispettivi titolari. Dal canto suo Marcel Mauss (1872-1950), nella Esquisse d’une théorie générale de la magie (scritta in collaborazione con Henri Hubert) indica nel mago colui che guida un gioco collettivo, le cui regole sono comuni a tutta la società. La magia è un «sistema di induzioni a priori, operate sotto la pressione del bisogno da gruppi di individui»; perché tale sistema funzioni occorre che tutta la società sia presente. In Italia Ernesto De Martino (1908-1965), il cui campo di ricerca sulla magia furono le regioni meridionali, non contesta la distinzione frazeriana e, piú che entrare nel merito della magia qua talis, si occupa delle condizioni che fanno emergere sia la dimensione magica, sia la dimensione religiosa tra le quali egli pone al piú una differenza di qualità. Tali condizioni De Martino individua nella «miseria psicologica» che produce «la credenza tradizionale nell’azione misteriosa di forze occulte», e nella «crisi della presenza», intesa come incapacità della persona di reggere l’urto col mondo esterno – naturale e/o sociale – e che la sollecita a istituire un «orizzonte mitico-rituale» (o magicoreligioso), che funziona da protezione psicoideologica valida tanto per l’individuo quanto per il gruppo. Giunte in Italia nel dopoguerra, ma elaborate negli anni Venti e Trenta, le teorie di Bronislaw Malinowski tendono a valutare la magia in una prospettiva funzionalista preoccupata soprattutto di collocarla nel quadro globale della società, per cui essa «e la religione non sono semplicemente una dottrina o una filosofia, né un sistema intellettuale di concetti, ma un modo particolare di comportamento, un atteggiamento pragmatico fatto insieme di ragione, sentimento e volontà».

Queste teorie hanno sollecitato un rinnovamento degli studi sulla magia e la stregoneria, ma, per quanto riguarda il loro revival nelle moderne società industrializzate, le posizioni degli studiosi non sembrano orientate verso la rivalutazione di un fenomeno che si presenta con maggior frequenza nelle zone urbane di piú alto sviluppo economico e tecnologico. (Carlo Prandi). Cunningham, G. 1999 Religion and Magic. Approaches and Theories, New York University Press, New York. De Martino, E. 1958 Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Boringhieri, Torino. 1984 Magia e civiltà (1962), Garzanti, Milano. Evans-Pritchard, E. E. 1937 Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Clarendon, Oxford [trad. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Franco Angeli, Milano 1976]. Frazer, J. G. 1922 3 The Golden Bough, Macmillan, New York [trad. it. Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1962]. Graf, F. 1996 La magia nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari. Hubert, H. e Mauss, M. 1965 Teoria generale della magia e altri saggi, Boringhieri, Torino. Llyod, G. E. R. 1979 Magic, Reason and Experience, Cambridge University Prerss, Cambridge [trad. it. Magia, religione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca, Bollati Boringhieri, Torino 1982].

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Mito

Origine e significato del termine. Il termine greco mythos, da cui mito, sta ad indicare essenzialmente, secondo una connotazione condivisa da Platone e Aristotele, una narrazione relativa agli dèi e agli eventi di cui essi furono protagonisti. Qualora invece si retroceda alle fonti della mitologia greca – in primis ai poemi omerici ed esiodei –, esso acquisisce significati piú articolati. In sostanza l’area semantica di mythos viene a includere nella letteratura poetico-teologica classica un insieme di connotazioni che hanno a che fare con il «parlare», il «dire», il «narrare», l’«enunciare un progetto». Soltanto piú tardi, con lo sviluppo del pensiero filosofico, mythos verrà posto in alternativa/opposizione a logos. Nello studio del mito la partenza dall’area culturale grecoantica è, dunque, d’obbligo, non tanto perché la Grecia sia la patria d’elezione della mitologia – il mito è una struttura portante di pressoché tutte le religioni dell’ecumene – ma perché è in Grecia che avviene la tematizzazione di questo fondamentale indicatore religioso. Il compito di ogni trattazione relativa al tema del mito consiste perciò nell’andare alla ricerca – secondo una metodologia comparata – delle modalità con cui altre civiltà, non esclusa quella ebraicocristiana, hanno prodotto i miti costituenti i capisaldi dei rispettivi sistemi religiosi, indipendentemente dai livelli di consapevolezza teorica raggiunti, essendo comunque in grado di distinguere, nel patrimonio della tradizione orale e scritta, tra «storie vere» e «storie false». Geografia del mito. Il mito si presenta, lo dimostra ampiamente il contesto grecoclassico, a due livelli diversi: il livello teocosmogonico e il livello esistenziale, non necessariamente incompatibili tra loro. Estendendo il campo dell’indagine, possiamo riferirci ad altri contesti in cui compaiono strutture mitologiche analoghe, anche se non identiche. All’Antico Testamento è

certamente estranea ogni ipotesi teogonica, ma in esso cogliamo – Gn 1.1-25 – un genere narrativo che, per quanto riguarda gli eventi cosmogonici, presenta analogie con la Teogonia di Esiodo (versi 116-32). In entrambi i casi le fasi della creazione si collocano in illo tempore: «In principio […]»; in entrambi i casi – pur con sostanziali distinzioni quanto ai modi: nella Genesi ’Elohim preesiste al mondo, ne è totalmente separato e procede per atti creativi; nella Teogonia si parla di azioni che generano a partire dal Caos primigenio – le diverse parti del cosmo vengono alla luce sino al configurarsi della situazione attuale. Analogie col libro della Genesi – sul piano della mitopoiesi cosmogonica – sono state riscontrate nell’Enūma elish, in cui la creazione appare opera della parola divina: «Quando in alto non era ancora nominato il cielo […] Quando gli dèi non portavano ancora un nome […]». Origine degli dèi e del mondo; origine dell’uomo e della coppia umana; origine degli strumenti vitali: il fuoco e la canoa, i cereali e le piante alimentari; destino del mondo e dell’umanità: questi sono i temi intorno ai quali le società a livello etnologico e le civiltà antiche hanno elaborato i loro sistemi mitologici di varia complessità e ricchezza, sviluppando tessuti narrativi non di rado sorprendenti per la loro ampiezza e capacità di resa drammaturgica. I miti inoltre si collocano entro un tempo e uno spazio disomogenei rispetto alla loro ordinaria densità a causa dell’irruzione della dimensione del sacro. Lo spazio e il tempo sacri sono anche quelli del rito, nella misura in cui questo trova nel mito la sua struttura ideologica portante. Si possono perciò cogliere nei miti due tratti distintivi, ma ugualmente essenziali: una logica diversa da quella del logos; una profonda «verità» interna se e in quanto struttura la cultura e i valori di una determinata società. Verità e metamorfosi del mito. Se il termine mito si ripropone oggi in modo diffuso – con utilizzazioni talora del tutto scorrette, per quanto entrate irreversibilmente nel linguaggio comune (collegate, ad esempio, al fenomeno del divismo: il «mito» di Greta Garbo, di Elvis Presley, di James Dean, ecc.) – ciò è dovuto al fatto che, a partire dall’epoca delle scoperte geografiche e con l’estendersi del dominio europeo nel cosiddetto Terzo mondo, il problema della comprensione di quelle culture non poteva non portare in primo piano l’esigenza di cogliere i moduli portanti dei rispettivi mondi religiosi e, in primis, i loro reticolati mitologici, ponendo una particolare attenzione tanto al valore di verità quanto alla funzione vitale loro attribuiti entro i rispettivi

contesti. Da questo punto di vista fondamentali appaiono le riflessioni di Giambattista Vico nella Scienza nuova; il nucleo del discorso vichiano sta nell’idea di vera narratio di cui i miti sono portatori. Secondo il filosofo napoletano, inoltre, essa non rimane necessariamente inalterata nel tempo, ma può essere soggetta ad un processo degenerativo che trasforma lentamente il mito in fiaba, quando da «maniera di pensare d’intieri popoli» – cioè da ordinatore centrale dell’intero sistema religioso – viene a mano a mano marginalizzato sino a ridursi a relitto folklorico. Questa tesi è stata fatta propria e ampiamente sviluppata da Raffaele Pettazzoni in un celebre saggio, Verità del mito, pubblicato nel 1959. Interpretazioni del mito. Non v’è storico delle religioni o etnologo moderno che non si sia occupato della natura e del ruolo del mito presso le diverse culture del pianeta. Secondo Lucien Lévy-Bruhl i miti sono storie realmente accadute in un tempo e in uno spazio che non si confondono con il tempo e lo spazio attuali. Ma, pur essendone distinti, non sono per questo meno reali: si tratta di una verità «vissuta», non dimostrata, dal soggetto collettivo, in quanto fonte della sua identità religiosa e culturale. Anche Bronislaw Malinowski sottolinea la verità del mito, ma ne accentua l’aspetto di realtà vissuta: il mito è un tessuto che avvolge e regola la vita del gruppo, ne rafforza il codice morale. Jean-Pierre Vernant, studioso della religione greca, sulla scorta delle riflessioni del filosofo tedesco Ernst Cassirer, connette l’attività mitopoietica all’attività simbolica. Egli distingue tra segno e simbolo: mentre il primo rinvia ad un referente esterno e, in quanto tale, è circoscritto, «univoco e trasparente», il secondo comporta una quota di concretezza e di vitalità per la quale esso non offre immagini circoscritte, bensí – è il caso del mito – «diffuse, determinate, complesse, sincretiche». Un apporto rilevante alla conoscenza della logica «diversa» del mito viene dalle vaste ricerche di Mircea Eliade. Funzione del mito è quella di stabilire un ponte tra passato e presente: ciò che accadde in illo tempore fonda un evento analogo da inaugurare nel presente difendendolo dal rischio della «prima volta». Esso risponderebbe ad un’esigenza archetipica di annullamento del tempo e di stare nella storia riuscendo ugualmente a uscirne. Ne consegue la polemica di Eliade nei confronti del cristianesimo da cui discenderebbe il concetto moderno di storia, come luogo di realizzazione terrena dell’uomo. Di tutt’altro orientamento è l’analisi condotta dall’etnologo francese Claude

Lévi-Strauss, per il quale le narrazioni dei miti stanno alla loro verità autentica come le onde superficiali del mare stanno alle correnti che agiscono in profondità. Se si scompongono i miti nelle loro componenti elementari (i mitemi), si colgono strutture profonde di significato, che derivano da ciò che gli uomini percepiscono in modo vitale («non gli uomini raccontano i miti, bensí i miti raccontano gli uomini»). Si ricavano in tal modo strutture binarie oppositive – crudo/cotto, maschio/femmina, alleanza/guerra, ecc. – che altro non esprimono, nel pensiero dell’etnologo francese, se non i problemi vitali di tutte le società celati dietro la «maschera» mitologica. Specificità del mito. Il mito si distingue dalla leggenda, dalla fiaba, dalla favola e dalla saga, pur contenendo, in varia misura, elementi di ciascuno di questi generi letterari. La leggenda è un racconto estrapolato dalla realtà storica e caricato di elementi fantastici volti a idealizzare vicende e personaggi di un’epoca lontana. La fiaba è un racconto fantastico senza intenzioni edificanti; i suoi personaggi sono generalmente figure dalle capacità magiche: fate, gnomi, maghi. La favola è una fiaba il cui scopo è mostrare la vittoria delle forze del bene su quelle del male. La saga è analoga alla leggenda e narra le vicende epiche di un popolo attraverso una lunga concatenazione di fatti; è tipica delle culture slavo-scandinave (Edda). Tutti questi tipi di racconto hanno in comune il fatto di non essere portatori di quei contenuti di verità, che rendono il mito profondamente coinvolgente sul piano esistenziale e religioso. Si possono invece cogliere nel mondo dell’epos e della fiaba le riplasmazioni di mito precedenti che, una volta frantumato e dissolto l’universo religioso di cui erano elementi portanti, sono sopravvissuti spostandosi dal centro dei contesti culturali egemoni d’origine alla «periferia» delle tradizioni popolari e/o subalterne delle società moderne. (Carlo Prandi). Ackerman, R. 2002 The Myth and Ritual School. J. G. Frazer and the Cambridge ritualists, Routledge, New York - London. Bonnefoy, Y. 1981 (a cura di), Dictionnaire des mythologie, Flammarion, Paris [trad. it. Dizionario delle mitologie e delle religioni, Bur, Milano 1989]. Eliade, M.

1949 Le mythe de l’éternel retour, Gallimard, Paris [trad. it. Il mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma 1968]. 1963 Myth and Reality, Harper and Row, New York [trad. it. Mito e realtà, Rusconi, Milano 1974]. Feldman, B. e Richardson, R. D. 1972 (a cura di), The Rise of Modern Mythology 1680-1860, Indiana University Press, Bloomington (Ind.). Ginzburg, C. 1996 Mito, in S. Settis (a cura di) I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. I, Noi e i Greci, Einaudi, Torino, pp. 197-237. Jung, C. G. e Kerényi, K. 1978 Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia (1940-41), Boringhieri, Torino. Kirk, G. S. 1970 Myth. Its Meaning and Functions in Ancient and Other Cultures, University of California Press, Berkeley (Cal.) [trad. it. Il mito, Liguori, Napoli 1980]. Limet, H. e Ries, J. 1983 (a cura di ), Le mythe, son langage et son message, Centre d’Histoire des religions, Louvain-la-Neuve. Lincoln, B. 1986 Myth, Cosmos, and Society in Indo-European Antiquity, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.). 1999 Theorizing Myth. Narrative, Ideology and Scholarship, The university of Chicago Press, Chicago-London. Pettazzoni, R.

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Preghiera

Componente strutturale di ogni esperienza religiosa, la preghiera occupa un orizzonte sterminato dalle molteplici coincidenze e connessioni col resto della fenomenologia religiosa. Infatti la sua natura di atto dialogico tra l’uomo e la divinità fa sí che la sua presenza si celi anche in altre forme spirituali come il sacrificio e la magia, le feste, i rituali, i voti, la devozione, la divinazione, la mistica e cosí via. Secondo la famosa definizione di Novalis, «il pregare è nella religione ciò che il pensiero è nella filosofia. Il senso religioso prega come l’organo del pensiero pensa». Lo studio di questo orizzonte può avvenire lungo due traiettorie, entrambe impegnative e fruttuose. La prima è quella diacronica e può essere percorsa sia a livello «spaziale», cioè nei vari sistemi religiosi legati ad ambiti culturali specifici, sia a livello storico attraverso l’evoluzione delle varie religioni nelle loro molteplici vicende, contatti, metamorfosi, cristallizzazioni ed arricchimenti. Si tratta ovviamente di un percorso immenso, talora affrontato dai manuali di storia delle religioni o da opere specifiche (Boccassino 1967). La seconda traiettoria è quella sincronica, tesa all’identificazione della struttura fondamentale e delle qualità proprie e costanti del pregare ovunque esso si manifesti. Naturalmente all’elaborazione di questo profilo contribuiscono varie discipline quali la stessa storia delle religioni, la teologia, la filosofia, la psicologia, l’etnologia, l’antropologia culturale, l’arte e la letteratura. Tendenzialmente il procedimento da noi adottato si muove su questa direttrice, naturalmente allegando anche dati elaborati in sede diacronica e fenomenologica. Emblematica in questo senso, nella vasta bibliografia, è la famosa opera La preghiera di Friedrich Heiler. Tipi di preghiera. Sono indispensabili subito alcune classificazioni che, pur nella loro semplificazione, contribuiscono a chiarire il fenomeno della

preghiera nelle sue varie articolazioni. Innanzitutto nell’orazione si rispecchia necessariamente la particolare teologia dell’orante. Cosí, a una concezione eccessivamente «fredda» della trascendenza divina corrisponde una preghiera distante e segnata dal timore e dal rispetto per l’inconoscibilità di Dio. Ad esempio in Mesopotamia al dio Enlil si dice: «Le tue molte perfezioni fanno restare attoniti; la loro natura segreta è come una matassa arruffata che nessuno sa dipanare, è arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (Inno a Enlil 9.131-134). Similmente nel mondo greco il «Dio ignoto» evocato da Paolo ad Atene (At 17.23) costringe a preghiere quasi «negative», come quella citata da Eschilo: «Zeus, Zeus, che dico? Come comincerò?» (Coefore 855). D’altra parte, una visione piú immanentistica della divinità genera una eucologia molto piú «calda» e intensa. Per illustrare le varie sfumature e gradi di questa tipologia si pensi per l’ambito greco all’Inno a Zeus di Cleante (III secolo a.C.), espressione altissima della teologia stoica di orientamento panteistico. I trentanove esametri che lo compongono esaltano non solo l’onnipotenza e la giustizia divina, ma anche l’ordine cosmico a cui partecipa l’orante. Paolo nel citato testo di Atti 17, evocando forse anche il verso 5 dell’inno di Cleante, dichiara agli Ateniesi: «(In Dio) noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: “Poiché di lui stirpe noi siamo”» (versetto 28). Con altra sensibilità il Salterio biblico proclama una comunione del fedele con la divinità: «Il mio bene è stare vicino a Dio» (Sal 73.28). L’invocazione aramaica abba’, «padre caro», della cristianità delle origini esprime una filiazione adottiva ma efficace tra Dio e il fedele e un’intimità genuina, pur salvaguardando la creaturalità dell’uomo (Rm 8.15; si veda anche la piú celebre preghiera cristiana, quella del «Padre nostro», in Mt 6.9-15 e Lc 2.1-5). Preghiera magica e mistica. Un ulteriore statuto dell’orazione si fonda su un’altra determinazione del rapporto con Dio. Da una parte c’è la preghiera che sconfina nella magia: rinchiudendosi nell’area sacrale e ricorrendo a formule, gesti, incantesimi, cerca di piegare in modo coercitivo l’onnipotenza della divinità. In questa linea si spiega l’enorme massa di formulari eucologici per vincere il malocchio o le sventure, presente in tutte le forme religiose, a partire da quelle primitive orali, dalle egizie, mesopotamiche, grecolatine e cosí via per approdare sino a modelli magici contemporanei. Tipica di questa orazione è la reiterazione litanica: «Tempio del Signore, tempio del Signore,

tempio del Signore è questo!» (Ger 7.4); «Grande è Artemide Efesina, grande è Artemide Efesina!» (At 19.28 e 19.34). A questa impostazione reagisce la profezia biblica e lo stesso Gesú Cristo: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio» (Mt 7.21). In quest’ultima affermazione di Gesú appare l’altra dimensione antitetica della preghiera, quella che cerca di spezzare l’isolazionismo sacrale e di coinvolgere fede e storia, lode e vita, rito e giustizia. È il caso della spiritualità profetica che trasforma l’impegno esistenziale etico in preghiera; è il caso delle cosiddette «liturgie d’ingresso» al tempio di Sion in cui si esige la confessione previa delle colpe sociali per accedere al culto e alla lode (Sal 15 e 50); è il caso della famosa dichiarazione paolina secondo la quale sono «i corpi», cioè la realtà stessa della persona a costituire l’orazione piú autentica (Rm 12.1). Heiler, nell’opera citata, ha contrapposto due tipologie radicali di preghiera, quella «mistica», contrassegnata dall’aspirazione all’unione, e quella «profetica», caratterizzata dall’appello a Dio come salvatore o come colui che si rivela nella storia e nella vita. È questo un tentativo di individuare una forma nobile di preghiera sacrale (la «mistica») accanto a quella piú bassa di taglio magico e di riproporre la visione profetica sopra indicata. Lode e supplica. Tutto questo permette di identificare un ulteriore profilo della preghiera secondo una duplicità spesso considerata in contrappunto, in realtà sostanzialmente complementare. All’interno dei molteplici generi letterari e teologici in cui si esprime l’orazione si possono, infatti, isolare due archetipi fondamentali. Da un lato c’è la lode, cioè la glorificazione, l’adorazione, il ringraziamento, l’«eucarestia», l’esaltazione gioiosa, la contemplazione della divinità: essa si manifesta soprattutto nell’innologia, nel canto descrittivo delle meraviglie divine dispiegate nel creato e nella storia. Si tratta di una preghiera di taglio piú «mistico», piú libera e pura da interessi immediati. Per fare qualche esemplificazione, rimandiamo agli inni del Salterio, alcuni celebri come i Salmi 8, 19, 63, 103, 104 e 150. Oppure alle formule reiterative buddhiste, alle «aretalogie» litaniche del mondo greco, ritrovate nei papiri egiziani di Ossirinco (XI, 1915, n. 1380), alla ripetizione contemplativa dei novantanove «nomi bellissimi» di Allāh nell’islam, al rosario cristiano, ecc. Normalmente la lode conosce lo splendore del canto gioioso delle meraviglie divine, dell’«ascensione» di luce in luce nel mistero di Dio

(Clemente Alessandrino, La preghiera 3 e 55), della contemplazione pura. Facciamo al riguardo tre esempi. Il primo è l’incipit del Salmo 8: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli s’innalza la tua magnificenza!» (versetto 2). Il secondo è l’esordio del citato Inno a Zeus: «O piú glorioso degli immortali, sotto mille nomi sempre onnipotente, Zeus, Signore della natura, che con la legge governi ogni cosa, salve! Perché sei tu che i mortali hanno diritto di invocare» (versetti 1-3). Al terzo alludiamo soltanto: si tratta del celebre Inno ad Aten, il disco solare divinizzato, del faraone Akhenaton (Amenophi IV) del XIV secolo a.C., un capolavoro eucologico, forse ripreso anche nel Salmo 104 attraverso una mediazione cananea. Sull’altro versante si colloca, invece, la supplica, un genere che appare in tutte le culture perché esprime spontaneamente la necessità dell’uomo, la sua coscienza del limite e quindi della creaturalità e del male. Di solito la struttura della lamentazione è triangolare: al presente amaro si oppone il passato sereno e si prospetta il futuro radioso sperato; all’«io» dell’orante sofferente si connette l’«altro», che è il nemico e il male, mentre ci si affida a Dio, il salvatore. Questo «triangolo» è visibile, ad esempio, in quel gioiello letterario e spirituale che è il Salmo 42-43, ma può essere rintracciato in infinite composizioni di tutte le religioni. Di piú alto livello teologico sono le suppliche per la confessione del peccato (si pensi al Miserere, cioè al Salmo 51), spesso però ridimensionate dal principio retributivo che vede nel peccato la radice della sofferenza fisica. Inno e supplica in realtà costituiscono i due estremi di uno spettro unitario al cui interno si dispiegano le varie forme del pregare. Anche il «Padre nostro» unisce in sé la lode (prime domande sulla «venuta del regno» di Dio) e la supplica (le altre domande, a partire dal «pane quotidiano»). Altre caratteristiche. La preghiera comporta una sua formalizzazione a piú livelli. Già la questione dei «generi letterari» (inno, lamentazione, ringraziamento, litania, benedizione, canto sapienziale, intercessione, meditazione, dossologia, ecc.) suppone un’elaborazione stilistica e l’adattamento a formulari, a simboli e a stereotipi codificati. C’è, però, sempre la connotazione personale nell’uso dei vari modelli e in molti casi l’intervento della creatività dell’orante scrittore. A livello «esteriore» è da segnalare

un’altra distinzione classica, quella tra preghiera personale e preghiera comunitaria. La prima suppone l’individuo con la sua personalità e la sua storia; la seconda rimanda alla coralità liturgica, all’«io» del capo della nazione o del sacerdote che invoca la divinità a nome della comunità. Tuttavia la distinzione spesso svanisce perché in molte culture la preghiera è sempre pubblica, cioè in un contesto sociale (voce alta, luoghi deputati, gestualità rituale) oppure in un contesto teologico «ecclesiale» (ad esempio, l’alone dell’alleanza di Israele con Dio per la Bibbia), anche quando fiorisce dalle labbra di un individuo. Anzi, in molti casi gli inni posti sulle labbra di un personaggio sono in realtà canti comunitari: è il caso, ad esempio, dei celebri inni lucani del Benedictus, del Magnificat, del Nunc dimittis, ecc. (Lc 1-2) che, pur essendo pronunziati da Zaccaria, Maria e Simeone, sono testi della tradizione liturgica protocristiana. La preghiera suppone, inoltre, un dosaggio tra interiorità e fisicità. Si deve certamente partire dall’adesione dello spirito, che giustifica anche la pura preghiera «mentale», «l’ascesa della mente a Dio» (Giovanni Damasceno, VIII secolo) e la contemplazione silenziosa. Ma si ha contemporaneamente il coinvolgimento integrale dell’uomo: ecco, allora, la preghiera «vocale», la danza sacra, le tipiche oscillazioni dell’ebreo orante per coinvolgere tutto l’organismo nella lode divina, la genuflessione, la prostrazione, i giri di ruota dei cosiddetti «mulinelli di preghiera» del lamaismo, ecc. Questa «simbolicità» della preghiera, capace di esprimere e di far lievitare verso il trascendente tutto l’orizzonte storico ed esistenziale dell’uomo, fa sí che tutta la gamma delle vicende e delle realtà diventi occasione di orazione: la nascita e la morte, la malattia e la persecuzione, il cibo e il matrimonio, il viaggio e il sonno sono segnati da altrettante forme di preghiera. Anzi, il Salmo 150 giunge al punto di immaginare che da «tutto ciò che respira» salga una lode a Dio (versetto 6). (Gianfranco Ravasi). Boccassino, R. 1967 (a cura di), La preghiera, Ancora, Milano-Roma, 3 voll. Burrini, G. e Gallerano, A. 1998 (a cura di), “Padre nostro che sei nei cieli”. Le piú grandi preghiere di tutti i

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Rito

Si può definire rito un atto, o comportamento, formalizzato e simbolico; ma una definizione, sempre provvisoria, non risponde adeguatamente all’esigenza di descrivere ciò che chiamiamo rito; essa si dovrà dunque arricchire mediante una distinzione di tipi interni alla categoria rito, e mediante un’esemplificazione adeguata. È d’uso distinguere fra riti cultuali e autonomi, e fra riti occasionali e periodici, e tali distinzioni servono a una migliore comprensione del fenomeno, dato che anche una corretta classificazione dei riti a seconda della loro intenzione o funzione implica una preliminare distinzione fra le due coppie di categorie cultuale/autonomo e occasionale/periodico. Meno utili, perché puramente formali, sono la classificazione dei riti in orali e manuali (d’altronde, quasi tutte le azioni rituali sono l’uno e l’altro insieme), o altre classificazioni simili. Riti cultuali e riti autonomi. Si dicono riti cultuali quei riti che si svolgono nel contesto di un rapporto con uno o piú esseri extraumani, o umani ma considerati in qualche modo sovrumani (ad esempio i sovrani). Tali riti, se periodici, sono spesso commemorativi, volti cioè a solennizzare la ricorrenza di avvenimenti mitici o mitizzati, piuttosto che a istituire o a mantenere il rapporto fra gruppo umano (o individuo) ed esseri extraumani. Cosí, molti riti periodici ebraici intendono fondamentalmente commemorare momenti ed eventi della storia sacra del popolo d’Israele, guidata dalla divinità, o, per fare un altro esempio, i riti periodici del calendario cultuale cristiano sono volti, attraverso le forme della liturgia, a commemorare le vicende salvifiche della vita di Gesú. Tuttavia, i riti commemorativi del culto vogliono non solo celebrare, ma riattualizzare, acquisendone i frutti simbolici, gli eventi della mitologia o della storia mitizzata; d’altro canto, quasi mai tale carattere commemorativo è disgiunto da intenti propiziatori o espiatori, e per lo piú

tali riti, anche se commemorativi, sono pur sempre cultuali in senso proprio. Riti propriamente cultuali sono la preghiera e il sacrificio. Inoltre, esistono riti, riferiti anch’essi a esseri extraumani personali, ma volti, anziché a istituire o a intrattenere un rapporto con tali esseri, intesi come ostili, a tenerli lontani o a scacciarli: si tratta dei riti apotropaici: si potranno citare quelli romani rivolti ad allontanare i lemures, quelli indiani di Rudra, quelli cristiani di allontanamento dei demoni o esorcismi. Infine, può darsi il caso – e ciò avviene in certi contesti religiosi dualisti – di un vero e proprio culto rivolto a entità pericolose e negative, analoghe dunque a quelle che, nei contesti sopra citati, sono destinatarie di riti apotropaici. A questi riti, siano essi cultuali o apotropaici, si usa contrapporre quelli detti autonomi, non nel senso che sono privi di riferimento ad esseri extraumani (il che avviene molto raramente), ma nel senso che sono efficaci per forza propria senza che sia necessario agire, invocandoli o allontanandoli per via rituale, su esseri personali extraumani. Un’ulteriore distinzione, interna alla categoria dei riti «autonomi», sarebbe (e la ripropone Angelo Brelich nella sua Introduzione alla storia delle religioni, 1966, che qui si segue) quella fra riti magici e riti non magici; ma tale distinzione, che reputa «reale» l’effetto dei riti magici, «fittizio» quello dei riti non magici, non sembra ben fondata: inoltre, vale per i riti autonomi in genere, e non solo per i riti magici, l’utile descrizione, che troviamo già in James Frazer, dei meccanismi rituali come omeopatici (volti cioè a produrre il simile tramite il simile, producendo per esempio pioggia col versare acqua) o come contagiosi (volti a intervenire su un oggetto agendo su un altro oggetto che con il primo è in contatto, per esempio bruciando capelli di un nemico per ucciderlo). Si aggiungerà che non tutti i riti magici sono pienamente autonomi, in quanto la magia ellenistica, per esempio, conosce formule e procedimenti volti a interrogare gli dèi o a costringere gli dèi ad agire, con tutta la loro potenza divina, a favore del mago. A molti riti autonomi, ma anche a molti riti cultuali, si addice la definizione di riti di passaggio, che dobbiamo al folklorista Arnold Van Gennep (Les rites de passage). Riti di passaggio sono quei riti che nella concezione occidentale moderna coincidono con (ma nella concezione di coloro che li praticano, producono in qualche modo) il passaggio di un individuo, di un gruppo, di una società, di un oggetto da uno stato o

condizione a uno stato o condizione diversi: esempi sono, per l’individuo, i riti che sanciscono la nascita, il raggiungimento dell’età adulta, il matrimonio, la guarigione, la morte e, per la società, quelli che segnano il passaggio dalla pace alla guerra o viceversa, il passaggio da una fase stagionale a un’altra nel corso del calendario dei lavori stagionali, ecc. Secondo Van Gennep, in ogni rito di passaggio è possibile individuare tre fasi principali: una prima fase di uscita, o di disaggregazione, rispetto allo stadio iniziale; una fase di margine, nella quale l’individuo, il gruppo, l’oggetto, non ancora aggregati nella nuova condizione, sono però già esterni rispetto alla condizione iniziale; e infine una fase di aggregazione allo stadio nuovo. L’efficacia di tali riti sta nel loro rappresentare la sanzione culturale, sociale, delle trasformazioni che del rito sono l’oggetto e che, anche qualora, dal punto di vista dell’osservatore estraneo al gruppo sociale che compie il rito, abbiano di fatto avuto luogo in modo «naturale» (come avviene, ad esempio, per la maturazione sessuale degli adolescenti, o per la nascita), non hanno invece virtualmente avuto luogo per la società in questione, e quindi nemmeno per l’individuo che è eventualmente oggetto del rito e che, fino all’espletamento del rito stesso, non è effettivamente divenuto adulto, o nato, ecc. Riti periodici e riti occasionali. I riti, tanto cultuali quanto autonomi, si dividono in periodici e occasionali. Periodici sono i riti legati a un particolare accadimento o ricorrenza, e quindi disposti all’interno di una sequenza fissa di riti regolarmente compiuti, ciascuno in un preciso momento della sequenza stessa. La sequenza in questione può essere quella della vita individuale di una persona, scandita da riti (che sono, lo abbiamo visto, riti di passaggio) che marcano le fasi salienti del suo percorso individuale e insieme sociale; oppure può seguire le scadenze temporali (nell’arco della giornata o dell’anno) che regolano la vita di una società o di un gruppo. I momenti cruciali nei quali si concentra lo svolgimento dei riti periodici, e che si qualificano come tempi «diversi» rispetto alla vita quotidiana dell’individuo o del gruppo, sono le feste. Ovviamente, i riti o i complessi rituali, che marcano (che «realizzano») i passaggi periodici nella vita della persona, coinvolgono spesso non il solo individuo ma l’intero gruppo ristretto, o l’intera compagine sociale, specie nelle comunità piú semplici. Cosí, i rituali della nascita riguardano non il solo nato e i suoi genitori (il padre, in alcune società, è trattato ritualmente come se avesse le doglie e partorisse: è il rito della

couvade), ma l’intero gruppo di parentela, che si accresce con quel nuovo nato; i rituali iniziatici degli adolescenti si svolgono spesso radunando e trattando ritualmente tutti i membri (del villaggio o di un insieme di villaggi) che appartengono allo stesso gruppo di età. Occasionali sono i riti senza periodicità fissa; questa categoria giunge a includere quei riti nuovi che determinate occasioni eccezionali possono rendere necessari, anche se l’innovazione in campo rituale tende per lo piú a stabilire nuovi complessi di riti periodici, intervenendo anche sul computo lineare del tempo (ere) e sul calendario stagionale e festivo, come avvenne nel caso, davvero emblematico, della Rivoluzione francese del 1789. Forma, funzione e significato dei riti. Secondo Geo Widengren il rito sarebbe caratterizzato da un notevole conservatorismo; tale osservazione è qualificata ulteriormente e in parte modificata dall’affermazione che i riti possono conservare forme arcaiche attribuendo però ad esse significati e funzioni nuove (Widengren, Religionsphänomenologie, 1969 3). Si distinguono dunque, nei riti, forma, significato e funzione, ed esiste un ovvio rapporto fra i tre aspetti. Su questa triplice caratterizzazione del rito si discute: tradizionalmente si sottolinea una connessione intrinseca fra forma e funzione, per il tramite del significato; ma c’è chi definisce il rito una forma specifica, accanto al mito e ad altre espressioni, del discorso simbolico, e vede nel simbolismo (simbolo) un peculiare sistema cognitivo, negando dunque che il simbolismo sia un linguaggio e che «significhi» qualcosa; e perfino chi, come Frits Staal, non limitandosi a negare che il rito abbia un significato «secondo», che indica indirettamente, nega addirittura che esso abbia qualunque significato e parla dunque di «mancanza di senso del rito». Secondo Staal, il comportamento rituale, ereditato dal comportamento formalizzato degli animali studiato dagli etologi, sarebbe ripetuto dalle società umane senza che queste gli attribuiscano necessariamente un significato; qualora un significato o una funzione sia attribuita al rito, dalla società che lo compie o da un osservatore esterno, tale interpretazione sarebbe secondaria, e al comportamento rituale e alle sue reali motivazioni profonde si sovrapporrebbe artificialmente. La teoria «cognitiva» di Dan Sperber trascura il problema della funzione del rituale, mentre la teoria di Staal affronta tale problema, ma lo risolve separando il momento della formulazione del significato e della funzione del comportamento rituale da quello

dell’esecuzione. Ma il problema delle funzioni del rito non può essere eluso; inoltre non è in realtà possibile determinare il momento in cui tali funzioni sono attribuite a quel comportamento, il che rende non falsificabile la proposta di Staal. Anzi, il problema delle funzioni del rito è passibile di sconfinare addirittura nel problema dell’efficacia del rito, cioè della funzione non solo creduta, ma effettivamente operante, delle azioni rituali, in particolare dei riti autonomi. A quest’ultimo problema, con modalità e strumenti diversi, si sono volti vari studiosi, fra i quali spicca, per l’originalità dell’impostazione, Ernesto De Martino. (Cristiano Grottanelli). Bell, C. 1992 Ritual Theory, Ritual Practice, Oxford University Press, New York. 1997 Ritual. Perspectives and Dimensions, Oxford University Press, New York. Brelich, A. 1966 Introduzione alla storia delle religioni, Edizioni dell’Ateneo, Roma. Cazeneuve, J. 1971 Sociologie du rite, Puf, Paris [trad. it. Sociologia del rito, il Saggiatore, Milano 1974]. Grimes, R. D. 1995 Beginnings in Ritual Studies, University of South Carolina Press, Columbia. 2000 Deeply into the Bone. Re-inventing Rites of Passage, University of California Press, Berkeley (Cal.). 2000 Ritual, in W. Braun, R. T. McCutcheon (a cura di), Guide to the Study of Religion, Cassell, London - New York. Rappaport, R. A. 1999 Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge.

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Sacrificio

Si chiama sacrificio quell’atto rituale mediante il quale si sottrae un oggetto, un animale o un essere umano all’uso profano dedicandolo ad esseri extraumani o alla sfera extraumana. Piú specificamente, il termine sacrificio è riservato da molti all’offerta cruenta, cioè a quella in cui, nell’atto di dedicare alla sfera extraumana un essere animato (umano o animale), lo si uccide. Teorie del sacrificio. La storia degli studi antropologici e storico-religiosi è costellata di teorie del s, alcune delle quali hanno esercitato un influsso importante anche al di fuori dell’ambito specifico dello studio del sacrificio. Nella seconda metà dell’Ottocento, in clima di imperante positivismo, E. B. Tylor elaborò una teoria secondo la quale il sacrificio altro non era che un dono fatto agli esseri sovrumani per accattivarsi la loro benevolenza, cioè con lo stesso atteggiamento utilitaristico che dettava l’offerta di doni alle persone potenti. A questa teoria si contrappose, verso la fine del secolo, quella di W. Robertson Smith, che vedeva nel sacrificio lo sviluppo secondario di un aspetto di quel totemismo che, secondo lui, rappresentava una tappa importante della religiosità dei Semiti e degli altri popoli antichi: il totemismo avrebbe imposto, secondo Robertson Smith, in certe occasioni importanti l’uccisione e la consumazione collettiva da parte del gruppo di quell’animale totemico, che era normalmente vietato uccidere e mangiare, in modo da rafforzare, mediante un pasto comunitario, l’unione del gruppo umano al suo interno e con la figura totemica. Nel famoso saggio del 1899, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, Marcel Mauss e Henri Hubert, allievi di Émile Durkheim, sostenevano che il sacrificio, lungi dall’essere una pratica rituale arcaica, si basava su due presupposti indispensabili: da un lato, sul culto di esseri personali (considerato dai due autori come fenomeno relativamente recente), e, dall’altro, su una netta distinzione fra sacro e

profano. Tali presupposti rendevano a loro volta conto dei due aspetti fondamentali del sacrificio: dell’offerta di un dono rituale (rivolta agli esseri personali extraumani), e della consacrazione, cioè dell’uso della vittima, «consacrata», per entrare in contatto con la sfera del sacro. Il dono, infine, sarebbe stato da comprendere nel contesto delle forme arcaiche del dono, poi studiate piú a fondo in un altro importante saggio (il famoso Essai sur le don, 1925) dallo stesso Mauss, e basate su una serie di principî fondamentali, fra i quali spiccherebbe l’obbligo di ricambiare. Accanto a questa teoria alquanto complessa del sacrificio, continuavano a sussistere teorie piú semplici, che facevano derivare il rito in questione da elementi o principî religiosi considerati arcaici o primitivi: cosí W. Wundt lo legava al tabú, A. Bertholet al mana. Complessa era invece la teoria del cattolico modernista A. Loisy, che faceva derivare il sacrificio dalla fusione di due diversi riti arcaici, cioè dell’offerta puramente gratuita di cibo ai morti da un lato e, dall’altro, dei rituali magici, volti ovviamente a modificare la realtà: dal primo rito il sacrificio avrebbe tratto l’idea dell’offerta alimentare, e dai secondi sarebbe derivato l’intento di ottenere per l’offerente un risultato benefico in cambio dell’offerta. La teoria utilitaristica di Tylor fu il punto di riferimento (anche se negativo) dell’elaborazione del fenomenologo Gerardus Van der Leeuw che, nella sua Fenomenologia della religione (Phänomenologie der Religion, 1933), sostenne che il do ut des di Tylor era riduzionista nei confronti del sacrificio in quanto non teneva presente quella legge di partecipazione per la quale quanto l’uomo possiede è parte integrante della sua personalità, e l’offerta di qualcosa di proprio viene pertanto ad equivalere all’offerta di sé. A un’analoga lettura interiorizzante del sacrificio sono improntate l’interpretazione del teologo protestante J. van Baal, per il quale l’offerta sacrificale sarebbe in realtà disinteressata espressione di sottimissione al divino, o quella del filosofo G. Gusdorf, che intendeva il sacrificio come riconoscimento da parte dell’uomo di un debito inestinguibile nei confronti del divino. Piú recentemente, mentre la ricerca sulle pratiche sacrificali si andava arricchendo, tre nuove interpretazioni, non piú universali ma limitate a specifici mondi culturali, emergevano: il sacrificio greco veniva riletto in chiave di commensalità umana e di pratiche culinarie da Jean-Paul Vernant e dalla sua scuola (J.-P. Vernant e M. Detienne, La cuisine du sacrifice en pays grec, 1979); Walter Burkert nel suo Homo Necans (1972) poneva invece

l’accento sull’uccisione della vittima e sul relativo «trauma», cercando continuità con il mondo dei cacciatori e raccoglitori e con il paleolitico, sulla scia del suo maestro K. Meuli; infine in una serie di libri pubblicati dal 1972 al 1982 René Girard elaborava una teoria del sacrificio come violenza sostitutiva, instaurata da un prototipico «linciaggio fondatore» della cultura umana, e superata a sua volta dal sacrificio di Gesú, la cui morte avrebbe posto fine alla violenza fondatrice, proponendo un nuovo messaggio di superamento del sacrificio in nome della nonviolenza. Tipologia sacrificale. Di fronte a queste teorie, che mostrano appieno il carattere artificiale della stessa costruzione moderna che va sotto il nome di sacrificio, è opportuno l’accoglimento critico del termine stesso in quanto pura convenzione linguistica funzionale alla ricerca. Nell’ambito dei fenomeni che a vario titolo si sono fatti rientrare nell’ambito della categoria «sacrificio», è opportuno distinguere tre tipi, descritti in forma particolarmente chiara da Angelo Brelich nella sua Introduzione alla storia delle religioni (1965): l’offerta primiziale, il sacrificio dono e il sacrificio di comunione. Tipica dei popoli cacciatori e raccoglitori, l’offerta primiziale consisterebbe nel «lasciare» all’entità estranea all’uomo cui i beni fruiti appartengono una parte (una prima parte) di quei beni, animali o vegetali o altro, concentrando appunto su tale parte la sacralità (l’estraneità) dei beni, e rendendo dunque possibile la consumazione delle restanti parti, che si è in tal modo desacralizzato. L’offerta primiziale presupporrebbe dunque l’idea, che sarebbe tipica delle società di caccia e raccolta, della qualità estranea di quel mondo che circonda il gruppo umano e di quei beni dei quali esso vive. Diametralmente opposto sarebbe il concetto di sacrificio/dono, che caratterizzerebbe le società di agricoltori e allevatori: queste, vivendo dei prodotti di un lavoro che modifica l’ambiente naturale anziché limitarsi a «usarlo», intenderebbero come «proprio» l’animale o il vegetale coltivato e allevato, e potrebbero dunque scegliere di farne dono a entità extraumane. Infine, il sacrificio di comunione sarebbe quel rito sacrificale nel quale l’accento è posto, oltre che sull’uccisione e sull’offerta, sulla consumazione della vittima: una consumazione che costituirebbe, mediante la commensalità, appunto una comunione sia rinsaldando i legami all’interno del gruppo, sia rivitalizzando e garantendo il rapporto fra il gruppo e le entità extraumane coinvolte. In alcuni casi estremi, la vittima è vista come identica

alla divinità: Brelich cita il caso dell’omofagia dionisiaca, ove aveva un ruolo importante la ripetizione dello sbranamento e della consumazione del dio Dionysos da parte dei titani. Ancora diverso è il caso dell’uccisione e della consumazione dell’animale totemico, di cui teorizzava Robertson Smith. Funzioni e continuità del sacrificio. Nel dibattito sul sacrificio sono oggi centrali, da un lato, la consumazione delle carni della vittima (ma si assiste a un inizio di reazione contro la lettura «culinaria» della scuola di Vernant) e, dall’altro, il problema dell’uccisione (anche se le teorie di Burkert e di Girard non sono universalmente condivise). Minore attenzione si è rivolta recentemente al problema del sacrificio come offerta o dono e alle sue dinamiche (come il voto, la richiesta di un ricambio, ecc.); tuttavia alla riflessione su questo punto potrebbero ormai contribuire le rinnovate ricerche sulla dinamica dello scambio dei doni e sul rapporto storico che esiste, per esempio in Grecia, fra la formazione della misura del valore – fino al sorgere del sistema monetario – e la sfera del sacrificio. Altro aspetto oggi poco studiato, ma che si può riconoscere come ricco e promettente, è quello del rapporto fra sacrificio e divinazione, non solo per il tramite dell’estispicina o esame divinatorio delle interiora delle vittime, ma anche per mezzo dell’osteomanzia, dell’osservazione dei caratteri esteriori dell’animale sacrificale, dei casi dello svolgimento del rito, ecc. Infine, è oggetto di discussione rinnovata il problema della cessazione 0, invece, della sopravvivenza in forme mutate, nelle religioni come l’ebraica, la cristiana, l’islamica, ecc., dell’ideologia, o addirittura della prassi, sacrificale. Se da un lato il sacrificio animale non sopravvive soltanto nelle religioni native dell’Africa, e nelle loro propaggini sudamericane, o in altre culture «esotiche», ma è continuato a lungo e in parte continua, in forme nuove, in alcuni ambienti e momenti cristiani e islamici, d’altro canto il sacramento cattolico dell’eucarestia ripropone la morte salvifica di una vittima divina, continuamente riattualizzata nella liturgia della chiesa. (Cristiano Grottanelli). Baumgarten, A. I. 2002 (a cura di), Sacrifice in Religious Experience, Brill, Leiden-Boston-Köln. Biardeau, M. e Malamoud, C. 1976 Le sacrifice dans l’Inde ancienne, Puf, Paris.

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Simbolo

Le scienze umane, pur avendo acquisito il ruolo dell’attività simbolica come creatrice di cultura e di valori specificamente umani, non hanno ancora raggiunto una chiarezza su questo termine, che pertanto rimane polisemico. A livello molto generale, il simbolo è un segno fondato sulla metafora o sull’analogia, che ha il potere di evocare una realtà fisica o spirituale che non gli è «naturalmente» inerente. Tuttavia, dopo il recupero del ruolo dell’inconscio e dell’immaginario come dinamismi essenziali della psiche umana, è stato possibile precisare meglio l’ampiezza del simbolo: esso non è solo, e neppure principalmente, uno strumento di comunicazione, bensí una «parola», che ha il potere di evocare delle realtà, altrimenti indicibili e inafferrabili. Esso non spiega, ma indica piuttosto, prelude e allude ad esperienze complesse e pregnanti per l’uomo. Cosí abbiamo un ulteriore livello simbolico, che consente una continuità al di fuori del tempo e dello spazio «razionali» col passato e un suo recupero nel presente. È questo il tipo di simbolo che viene colto dalla psicanalisi, laddove esso rappresenta comunque il recupero del rimosso. Qui il simbolo è visto come qualche cosa che «maschera» in funzione di attrarre un’intenzionalità dello svelare la conoscenza di sé. Allargando e approfondendo l’orizzonte, si scopre che esistono esperienze primordiali che, benché vengano poi filtrate nelle diverse culture, possono attivare in modo del tutto particolare la dinamica psichica individuale o anche del gruppo. Sono quei simboli che si riferiscono alle esperienze esistenziali fondamentali: la nascita, la morte, la malattia, l’amore, ecc., e che sollecitano la ricerca di un senso talmente pregnante, che non possono essere colte se non in forma di immagini complesse, il cui significato non può essere mai tradotto in un codice scontato, pena l’esaurimento e quindi la morte della

loro portata simbolica. Queste esperienze sono state e tuttora vengono riportate alla relazione col trascendente: in questo senso lo spazio del sacro diviene uno dei terreni simbolici per eccellenza e il simbolo acquista una sua dimensione «religiosa», in quanto narra ed evoca e sollecita al tempo stesso la relazione dell’umano con il divino, dove la vicenda esistenziale cerca significato e promessa di felicità. È di questo tipo di simbolo che si interessa, principalmente, il discorso religioso. A questo livello il simbolo, ampliando i confini della coscienza, rende possibile un’esperienza totale della realtà, dove anche l’immaginario e l’eco delle esperienze originarie, colte già nell’infanzia, può essere vissuto. Cosí il simbolo – secondo il suo etimo originario – consente la composizione degli opposti. Quelle realtà che altrimenti non potrebbero entrare a far parte delle nostre rappresentazioni mentali e comunque si scontrano di fronte alla nostra dicotomia irriducibile tra razionale ed irrazionale, vengono espresse in una nuova sintesi. Quello che la razionalità rigida ritiene impossibile, diviene invece non solo possibile, ma strumento di una conoscenza «altra» da quella meramente intellettuale, eppure per certi versi piú completa e rispettosa della complessa globalità umana. A questo livello quanto sembra opposto e/o contraddittorio – vita e morte, oppure fisico e psichico, materiale e spirituale – trova nel simbolo la possibilità di essere integrato nell’esperienza della persona. Si pensi ad esempio al rituale cristiano del battesimo come espressione di questa integrazione tra morte e vita (rinascita). Ma alcuni simboli hanno in sé una certa eccedenza di significato e al tempo stesso una dimensione di «universalità», la cui esplicitazione dipende essenzialmente dall’atteggiamento della coscienza di chi lo osserva e lo usa, ma che si ricollegano ad esperienze in qualche modo originarie dell’uomo e del suo rapporto con la natura e col trascendente. Si tratta di una produzione dell’inconscio «creativo», che rende il simbolo metapoietico, alla ricerca di un senso e di una realizzazione che è al di là del «fenomeno». A questo livello il simbolo è fonte specifica di risposte esistenziali e di una progettualità che è al di là del «fenomenico». Qui l’uomo cerca di collegare la sua vicenda «provvisoria» con quanto è eterno, fuori del tempo. Pensiamo per esempio al simbolo del pellegrinaggio nelle varie religioni, che «attua» lo sforzo e l’impegno totale dell’uomo alla ricerca del suo dio, o ai riti del matrimonio,

che vogliono ancorare la precarietà dell’amore all’eterna fedeltà del divino. (Lucio Pinkus). Chevalier, J. e Gheerbrant, A. 1973 (a cura di), Dictionnaire des symboles, Seghers e Jupiter, Paris [trad. it. Dizionario dei simboli, Bur, Milano 1986]. De Martino, E. 1962 Furore, simbolo, valore, Feltrinelli, Milano. Durand, G. 1989 L’uomo religioso e i suoi simboli, in J. Ries (a cura di), Trattato di antropologia del sacro. Le origini e il problema dell’homo religiosus, Jaca Book, Milano. Grossato, A. 1999 Il libro dei simboli. Metamorfosi dell’umano tra Oriente e Occidente, Mondadori, Milano. Ries, J. 1985 (a cura di), Le symbolisme et le culte des grandes religions, Centre d’histoire des religions, Louvain-la-Neuve. Sperber, D. 1974 Le symbolisme en général, Hermann, Paris [trad. it. Per una teoria del simbolismo, Einaudi, Torino 1981]. Spineto, N. 2002 I simboli nella storia dell’uomo, Jaca Book, Milano. Tullio-Altan, C. 1992 Soggetto, simbolo e valore. Per un’ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano. Vidal, J. 1990

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Indice dei nomi1

Abele, 278. Abramo, 271. Adamo, 271. Agostino Aurelio, sant’, 35, 36, 37, 82, 146, 204, 206, 282, 330, 342, 346. Ahn, V. Gregor, 78. Akhenaton, 192, 193, 292, 335. Alessandro III, detto il Grande, 35, 116. Aletti, Mario, 137. Ambrogio, sant’, 188. Amenophi IV, 191. Ammermann, Nancy Tatom, 310. Ānanda, 269. Anassimandro, 32, 204. Apolito, Paolo, 19. Armstrong, Karen, 183. Arnobio, 37. Aron, Raymond, 335. Aśoka, 265, 270. Assmann, Jan, 192, 216, 245, 344, 346, 347 e n, 348. Athanassiadi, Polymnia, 188. Aureliano, Lucio Domizio, 190. Austin, John L., 156. Babut, Daniel, 32. Bainbridge, William Sims, 14. Balaganghadara, S. N., 116. Barth, Fredrick, 143, 154. Barth, Karl, 294, 345. Bastide, Roger, 103. Bataille, Georges, 102, 103. Basho Matsuo, 260. Baubérot, Jean, 128, 338 n. Bauman, Zygmunt, 20. Baumgarten, Albert, 245. Bayle, Pierre, 204. Bell, Catherine, 141.

Bell, David, 109. Bellah, Robert N., 338 n, 341. Beniamino di Tudela, 38. Benveniste, Émile, 95, 226. Berger, Peter, 12-14, 61, 138, 156. Bergmann, Gerhard, 311. Bergson, Henry, 54, 63, 104. Bernard, Carmen, 39. Bettiolo, Paolo, 349. Bianchi, Ugo, 30, 69, 77, 113, 208. Bidussa, Davide, 350. al-Bīrūnī, Abū‘r-Rayḥān Muḥammad ibn Aḥmad, 38. al-Bukhārī, Muḥammad ibn Ismā‘īl, 278. Bleeker, Claas Jouco, 68. Bloch, Maurice, 278. Bochart, Samuel, 40. Bochinger, Christoph, 152. Bodin, Jean, 37-39. Bof, Giampiero, 312. Böhme, Jakob, 210. Bonacina, G., 204. Bonald, Louis de, 90. Bonhöffer, Dietrich, 206. Borgeaud, Philippe, 30, 31, 90, 113, 276, 279. Bossuet, Jacques-Benigne, 40. Boulainvilliers, Henri, conte di, 40. Bousset, Wilhelm, 75. Brandon, Samuel George F., 69. Brelich, A., 233. Brereton, J. P., 218. Breslauer, Daniel S., 338 n. Brown, Judith K., 240. Buddha, 231, 263-66, 269, 270. Buffon, Georges-Louis Leclerc, conte di, 42. Bunyam, John, 261. Burkert, Walter, 102, 280. Bush, George Walker, V, 309, 342. Caillois, Roger, 69, 102-5, 108, 286, 287. Caino, 278. Calvino, Giovanni (Jean Calvin), 331. Campanini, Massimo, 326. Campiche, Roland J., 338 n. Cantwell Smith, Wilfred, 30, 78, 81, 113, 274. Capps, Donald E., 134. Cardona, Giorgio Raimondo, 275. Carpenter, Joel A., 295, 308. Carter, James Earl, detto Jimmy, 308.

Carter, Jeffrey F., 113. Casanova, José, 3, 139. Cassirer, Ernst, 143. Castells, Manuel, 3. Castoriadis, Cornelius, 9. Cazelles, Henry, 98. Cazeneuve, Jean, 105. Chantepie de la Saussaye, Pierre Daniel, 66. Chateaubriand, François-René de, 90. Chelhod, Joseph, 99. Ciattini, Alessandra, 140, 141. Cicerone, Marco Tullio, 82. Ciro II, detto il Grande, 116. Clinton, William Jefferson, detto Bill, 308, 309. Codrington, Robert Henry, 48, 93. Coleman, Simon, 260, 268. Colombo, Cristoforo, 39. Colpe, Carsten, 96, 99, 152. Comte, Auguste, 58, 59, 90, 91, 128, 186. Confucio, 177. Constant, Benjamin, 90. Cook, James, 93. Corbin, H., 186. Costantino I, detto il Grande (Costantino Flavio Valerio), imperatore, 190, 265. Couliano, Ioan P., 208. Court de Gébelin, Antoine, 66. Crépon, Pierre, 285, 289, 291. Crizia, 34. Cullmann, Oscar, 329. Daly, M., 199. Dario I, 116. Darwin, Charles Robert, 46, 307. Debray, Régis, 147, 183. De Brosses, Charles, 40, 42. De Certeau, Michel, 146. Decharme, Paul, 32. De Heusch, Luc, 323. Dei, Fabio, 141, 144. Democrito di Abdera, 34. Derrida, Jacques, 21. Despland, Michel, 30, 81. Detienne, Marcel, 31. Dihle, Albrecht, 95. Dilthey, Wilhelm, 63, 130. Diodoro Siculo, 35. Dobbelaere, Karel, 338 n.

Doninger O’Flaherty, Wendy, 202. Don-Yehiya, Eliezer, 338 n. Douglas, Mary, 141. Drewermann, Eugen, 293, 294. Droysen, Johann Gustav, 81. Duchet, Michèle, 41. Dumézil, Georges, 103, 114, 182, 290. Dupront, Alphonse, 217, 222, 258, 261, 263. Durkheim, Émile, 5, 50, 51, 56, 59-61, 69, 90, 91, 93, 94, 99-105, 108, 138, 339. Duverger, Christian, 287. Ecateo di Mileto, 31. Eisenhower, Dwight David, 308. Eisenstadt, Shmuel Noah, 298. Elena, santa, 265. Eliade, Mircea, 65, 69, 104, 106, 108, 135, 217, 229, 233, 239, 277. Elkin, Adolphus Peter, 237, 238. Ellul, Jacques, 109. Elorza, Antonio, 334. Elsner, John, 260, 268. Ennio, Quinto, 35. Epicuro, 204, 205. Eraclito, 185. Erodoto, 31, 32. Eschilo, 204. Eslin, Jean-Claude, 330. Eusebio di Cesarea, 37. Evans-Pritchard, Edward Evan, 141, 222. Evemero di Messina, 35. Fabris, Adriano, 150, 151. Falwell, Jerry, 308. Feil, E., 81. Ferrari, Silvio, 16, 147, 148 n, 149 n. Ferrarotti, Franco, 109, 280. Festugière, André-Jean, 96. Feuerbach, Ludwig, 33, 83, 84. Fichte, Johann Gottlieb, 129. Ficino, Marsilio, 83. Filoramo, Giovanni, 21 n, 50, 110, 134, 333, 342, 349. Fletcher, A. C., 94. Fontenelle, Bernard Le Bovier de, 42. Foucault, Michel, 21, 157. Fowden, Garth, 194. Frank, Manfred, 337. Frazer, James, 49, 141, 144, 323. Frede, Michael, 188. Freud, Sigmund, 50, 51, 55, 56, 57, 100, 134, 191.

Frobenius, Leo, 49. Fugier, Huguette, 95. Fustel de Coulanges, Numa-Denys, 59, 90, 92. Gabriele, arcangelo, 278. Gāndhī, Indirā Priyadarśinī, 324. Gāndhī, Mohandās Karamchand, detto Mahatma, 282, 324. Gāndhī, Rajiv, 324. Gauchet, Marcel, 16, 329. Geertz, Clifford, 8, 51, 140 e n, 141, 143, 156, 159. Gehrig, Gail, 338 n. Gentile, Emilio, 339, 342. Gesú Cristo, 177, 187, 198, 202, 265, 280, 306, 329, 331, 348. Giannone, Pietro, 40. Gianotto, Claudio, 349. Giddens, Anthony, 5, 6. Giosia, 193. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 330. Giovanni di Pian del Carmine, 38. Girard, René, 102, 280. Gisel, Pierre, 155. Gluckmann, Max, 234. Goldammer, Kurt, 67. Goldberg, David J., 351. Goody, Jack, 275. Gorsuch, Richard, 134, 137. Graebner, Robert Fritz, 49. Graham, Billy, 308. Greschat, Hans-Jürgen, 93. Grimes, Ronald L., 141. Grozio, Ugo (Huig de Groot), 83. Gruzinski, Serge, 9, 39. Guolo, Renzo, 297, 312. Gurū Nānak, 189. Gusdorf, Georges, 127. Habermas, Jürgen, 17. Halbfass, Wilhelm, 116. Halbwachs, Maurice, 279. Hall, Granville Stanley, 53. Hall, John R., 285. Hammond, Philip E., 338 n. Hamnett, Ian, 13. Harris, Jay, 296. Hartmann, Eduard von, 175. Hartog, François, 32. Haussig, Hans-Michael, 115. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 44, 83, 129, 151, 173.

Heidegger, Martin, 89 n. Heiler, Friedrich, 66, 67, 151. Herbert di Cherbury, 188. Herder, Johann Gottfried, 42, 43, 83. Hertz, Robert, 61, 142. Hess, Linda, 223. Hewitt, J. N. B., 48, 94. Hick, John, 13. Hobbes, Thomas, 41. Hölderlin, Johann Christian Friedrich, 89 e n, 337. Hollier, Denis, 102, 103. Holthaus, Stephan, 310. Hood, Ralph W. jr., 134, 137. Hornung, Erik, 191. Horton, Robin, 144. Hubert, Henri, 90, 100, 102. Hume, David, 34, 42, 183, 288. Hunsberger, Bruce, 134, 137. Huntington, Samuel P., 149, 285, 298. Husserl, Edmund, 66. Irmscher, Johannes, 81. Isambert, François-André, 101, 105. Ismaele, 271. Jackson, Robert, 230. Jacobs, Janet Liebman, 134. James, William, 50, 51, 54, 55, 101, 135. Jedin, Hubert, 117. Jefferson, Thomas, 342. Jenkins, Philip, 314. Jonte-Pace, Diane, 134. Jordan, Louis Henry, 47. Jung, Carl Gustav, 56, 57, 134. Jürgensmeyer, Mark, 284, 285. Kabīr, 223. Kant, Immanuel, 44, 83, 151. Kapuściński, Ryszard, 9. Kelsen, Hans, 345. Kennedy, John Fitzgerald, 341. Kenney, John Peter, 188. Keesing, Roger, 143. Khosrokhavar, Farhad, 278. Kienzler, Klaus, 310, 311. King, J. H., 94. King, Martin Luther jr, 341. King, Richard, 116.

Kippenberg, Hans G., 45, 52, 77, 175. Klausner, Samuel Z., 280. Kleger, Heinz, 338 n. Kochanek, Hermann, 310. Kook, Rav, 351. Küng, Hans, 17. Lafitau, Joseph-François, 40, 41. Lafontaine, J. S., 236, 237, 241, 242. Lambeck, M., 140. Lambert, Yves, 88. Lanczkowski, Günter, 67, 130. Lang, Andrew, 48, 178. Langer, Susanne, 143. Lanternari, Vittorio, 228. Lanzi, Silvia, 204. Laplanche, François, 128. Las Casas, Bartolomé de, 39. Lattanzio Firmiano, Lucio Celio, 37, 82 n, 204. Lawrence, Bruce B., 297. Leach, Edmund Ronald, 141. Lefebvre, Marcel, monsignore, 312. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 129, 204. Leiris, Michel, 102. Lessing, Gotthold Ephraim, 38. Leuba, James H., 53, 75. Lévi-Strauss, Claude, 141. Lewin, Kurt, 134. Licurgo, 147. Liebman, Charles S., 338 n. Lincoln, Abraham, 341. Lincoln, Bruce, 241. Liverani, Mario, 193. Locke, John, 41, 342. Löwith, Karl, 139. Lubbock, John, sir, barone di Avebury, 46. Luckmann, Thomas, 12, 61, 87, 138, 156. Lucrezio Caro, Tito, 34. Luhmann, N., 61, 138. Lullo, Raimondo (Ramón Llull), 198. Lutero, Martino (Martin Luther), 310. Lyon, David, 3. MacCormack, Carol P., 242. Machiavelli, Niccolò, 34. Macrobio, Ambrosio Teodosio, 36, 226. Maier, Hans, 334. Maistre, Joseph de, 90.

Makarius, Laura, 105. Malinowski, Bronisław, 141. Mani, 177, 209, 279. Manuel, Frank E., 42. Maometto, 177, 187, 266, 278. Marcione, 293. Marett, Robert Ranulph, 47, 48, 94. Marsden, George M., 306. Marty, Martin E., 295. Marx, Karl Heinrich, 59, 129. Massimo di Madaura, 188. Mauss, Marcel, 49, 61, 90, 100, 102. McIntosh, Daniel N., 134. McLennan, John Ferguson, 46. Meiners, Christoph, 66. Menozzi, Daniele, 331. Mensching, Gustav, 66, 67. Merlini, Marco, 19. Merton, Robert, 61. Meslin, Michel, 130, 135, 275, 277, 278. Metz, Johann Baptist, 328, 345, 346. Minois, Georges, 286, 293. Misztal, Bronisław, 15. Moenikes, A., 152. Moltmann, Jürgen, 346. Momigliano, Arnaldo, 30. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di, 42. Moon, Sun Myung, rev., 201. More, Henri, 184, 185. Morgan, Lewis Henry, 46. Mosè, 177, 187, 220, 266, 342. Müller, Alois, 338 n. Müller, F. Max, 174, 187. Naso, Paolo, 307, 309. Nehrū, Srī Javāharlāl, detto Paṇḍit, 324. Nevling Porter, Barbara, 188. Nicoletti, Michele, 344. Nietzsche, Friedrich, 129, 183, 204. Nisbet, Robert A., 91. Nock, Arthur Darby, 244, 245. Numa Pompilio, 342. Olender, Maurice, 174. Origene, 206. Otto, Rudolph, 64-67, 69, 77, 89, 95, 101, 106-8, 135, 151. Ousterhout, R., 262. Ozouf, Mona, 226.

Pace, Enzo, 284, 288, 297, 312. Palmer, Susan J., 285. Panikkar, Raimundo, 113, 225. Paolo, san, 38, 329. Pareyson, Luigi, 210. Parmenide, 185. Parsons, Talcott, 61. Parsons, William B., 134. Partner, Peter, 201, 293, 294. Pascal, Blaise, 279. Pelope, 268. Peterson, Erik, 195. Pétrement, Simone, 208. Petronio Arbiter, 34. Pettazzoni, Raffaele, 178, 180. Piette, Albert, 334. Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti), papa, 330. Platone, 31, 204. Platvoet, Jan, 10. Plotino, 36. Polo, Marco, 38. Prades, José A., 109. Prandi, Carlo, 50, 134. Presley, Elvis, 273. Preus, J. Samuel, 38. Prodico di Ceo, 33. Protagora di Abdera, 32. Ratzel, Friedrich, 49. Ratzinger, Joseph, cardinale, 313. Ravera, Marco, 150, 151. Raveri, Massimo, 159, 202. Rawls, John, 333, 342-44. Reader, Ian, 273. Reagan, Ronald Wilson, 308. Reed, Ralph, 309. Rémond, René, 3, 15. Remotti, Francesco, 8 n. Renan, Ernest, 46, 129, 183, 191. Reville, Albert, 129. Ricoeur, Paul, 202, 205. Ricuperati, Giuseppe, 41. Ries, Julien, 65, 70, 99, 106. Riesebrodt, Martin, 298. Rivière, Claude, 334. Rizzi, Marco, 344. Robbins, Thomas, 285. Robertson, Pat, 309.

Robertson, Roland, 6, 7. Robertson Smith, William, 59, 91-93, 100, 101. Rosati, Massimo, 91. Rousseau, Jean-Jacques, 17, 59, 334, 340. Rudolph, Kurt, 78. Rusconi, Gian Enrico, 17, 338 n. Sabbatucci, Dario, 185. Sachot, Maurice, 81, 82. Said, Edward, 160. Saint-Simon, Claude-Henri de Rouvroy, conte di, 58, 59, 90. Salomone, 193, 266. Satana, 348. Scheler, Max, 107. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph, 210, 337. Schleiermacher, Friedrich, 44, 45, 57, 60, 83, 89, 105, 106, 151, 173, 339. Schmidt, Wilhelm, padre, 49, 178. Schmitt, Carl, 346, 347 n. Scholem, Gershom, 210. Schuyler, Philip D., 285. Scott Appleby, R., 295. Scubla, Lucien, 323. Séguy, Jean, 334. Senofane di Colofone, 31, 33, 185. Severi, dinastia, 190. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, terzo conte di, 41. Shāhpūr I, 195. Sharpe, Eric, 47. Shupe, Anson D., 15. Siebeck, Hermann, 175. Simmaco, Quinto Aurelio, 188. Simmel, Georg, 52, 63, 65. Simon, Richard, 40. Simonicca, Alessandro, 141, 144. Sironneau, Jean P., 109, 279. Smith, Jonathan Z., 80, 112, 113 e n, 218. Söderblom, Nathan, 69, 105. Solone, 147. Spencer, Herbert, 46, 47, 58, 186. Sperber, Dan, 143. Spilka, Bernard, 134, 137. Spinoza, Baruch, 41, 185. Spiro, Melford E., 78, 88. Starbuck, Edwin Diller, 53. Stark, Rodney, 14, 191. Stazio, Publio Papinio, 34. Stolz, Fritz, 153, 192. Stoyanov, Yuri, 208, 349.

Strenski, Ivan, 77. Stroumsa, Guy G., 40, 245. Suarez, Francisco, 330. Sundermeier, Theo, 154, 155. Talete, 32. Tambiah, St. J., 142. Taubes, Jacob, 347 n. Tawney, Richard Henry, 39. Taylor, Mark C., 13, 80. Terrin, Aldo Natale, 152. Tertulliano, Quinto Settimio Fiorente, 82. Thrower, James, 338 n. Tiele, Cornelius, 47, 174, 175. Tillich, Paul, 12. Toland, John, 40. Tommaso d’Aquino, san, 330. Torno, Armando, 279. Trenchard, John, 41. Trinh, Sylvaine, 285. Troeltsch, Ernst, 135, 151. Turner, Edith, 259, 265. Turner, Harold W., 219. Turner, Victor, 141, 142, 235, 259, 265. Tylor, Edward Burnett, sir, 46, 47, 49, 141, 144, 178. Van Gennep, Arnold, 142, 234, 235. Van der Leeuw, Gerardus, 66, 67, 106, 217, 225. Van der Toorn, Karel, 10. Varrone, Marco Terenzio, 35, 36, 346. Vauchez, André, 337. Vergote, Antoine, 135. Vernant, Jean-Pierre 277. Viaud, Pierre, 285. Vico, Giambattista, 42. Virgilio Marone, Publio, 229. Voegelin, Eric, 335. Vögele, Wolfgang, 338 n. Voltaire, pseudonimo di François-Marie Arouet, 288. Von Stietencron, Heinrich, 115, 189. Von Stuckrad, Kocku, 52, 77. Vossius, Isaac, 40. Waardenburg, Jacques, 68. Wach, Joachim, 62, 65, 69, 135, 136, 243. Wagner, Roy, 143. Walter, Tony, 273. Washington, George, 341.

Weber, Max, 3, 5, 50, 51, 61, 62, 129, 138, 175, 326, 345. Webster, H., 242. Wellhausen, Julius, 92. Wessinger, Catherine, 287. Whaling, Frank, 140. Widengren, Geo, 68, 69. Willaime, Jean-Paul, 88, 138, 338 n. William, W., 93. Williger, Eduard, 97. Wilson, Bryan, 13, 138. Wittgenstein, Ludwig Joseph, 86, 156. Wobbermin, Georg, 175. Wolff, Christian, 129. Wulff, David M., 134. Wundt, Wilhelm, 53, 65. Wunenburger, Jean-Jacques, 103. Yacoub, Joseph, 284. Young, Lawrence A., 14. Zaehner, Robert, 113. Zambon, Francesco, 348. Zarathustra, 177, 186, 187, 192, 206, 207. 1 I numeri di pagina del presente indice dei nomi sono riferiti all’edizione cartacea dell’opera. Per

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Il libro

C

H E C O S ’ È L A R E L IG ION E DI SE G NA

LA

M A P PA

DI

UN

TERRITORIO

metodologico ed epistemologico in buona parte nuovo per il pubblico italiano, confrontandosi in una prospettiva multidisciplinare con le altre

scienze umane. Dopo aver ricostruito in modo sintetico le tappe della progressiva affermazione delle Scienze delle religioni come campo di studi autonomo, Giovanni Filoramo affronta alcuni nodi teorici fondamentali di una realtà culturale complessa che continua a costituire un fattore essenziale delle nostre culture secolarizzate. Nelle situazioni di conflitto piú attuali e preoccupanti, infatti, la religione riveste un ruolo fondamentale: riflettere sulle radici storiche delle tradizioni religiose si rivela un passo decisivo per la comprensione della contemporaneità. Proprio tenendo in considerazione queste esigenze prioritarie, nella seconda parte del libro si affrontano temi oggi scottanti come il rapporto tra religione e violenza e religione e politica. In Appendice vengono fornite informazioni essenziali sulla religione in Internet e un vocabolario di base dei principali concetti delle Scienze delle religioni. Oltre che agli studenti in Scienze delle religioni, il libro si rivolge piú in generale a un pubblico colto, desideroso di accostarsi alla dimensione storico-culturale dei fatti religiosi, a partire dai profondi mutamenti che questo studio ha conosciuto nell’ultimo ventennio, in seguito ai processi di globalizzazione e alla crisi del paradigma della secolarizzazione.

L’autore

Giovanni Filoramo insegna Storia del cristianesimo presso l’Università di Torino. Si è occupato di vari aspetti della storia del cristianesimo antico, di nuovi fenomeni religiosi, di storia delle interpretazioni e di problemi metodologici della storia religiosa. Presso Einaudi ha pubblicato Le vie del sacro (1994), Che cos’è la religione (2004) e Il sacro e il potere (2009) e curato il Dizionario delle religioni (1993) e la serie Le religioni e il mondo moderno (2008). Tra le sue pubblicazioni piú recenti si segnalano Veggenti profeti gnostici. Identità e conflitti nel cristianesimo antico (Morcelliana, 2005) e La Chiesa e le sfide della modernità (Laterza, 2007).

© 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858416631

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Frontespizio Il libro L’autore Introduzione I. La religione e le sfide della postmodernità

2 403 404 3 10

II. Alle «origini» delle Scienze delle religioni

37

III. Intermezzo teorico

80

1. La religione nell’epoca della globalizzazione 2. Identità e religione 3. Il pluralismo religioso 4. La crisi dello Stato laico 5. I pericoli del pluralismo religioso 6. Postmodernità e studio della religione 1. La religione come realtà antropologica 2. L’eredità degli antichi 3. Una storia naturale della religione 4. Religione e religioni: la svolta romantica 5. La «Comparative Religion» e le «origini» della religione 6. Scienze umane e religione: il caso della psicologia e della sociologia 7. La svolta fenomenologica e la fondazione di una Scienza della religione comprendente 1. Il paradosso della religione 2. Dalla «religio» romana alle Nuove Religioni: cenni di storia di un termine controverso 3. Definire la religione 4. Il Sacro 4.1. Le origini 4.2. Il problema semantico 4.3. L’interpretazione del sacro in Durkheim e nella scuola sociologica francese 4.4. L’ontologia del sacro 4.5. La diaspora del sacro 5. Le sfide della comparazione 6. Decostruire la religione: l’induismo

10 16 19 21 24 27

37 39 44 49 51 56 67

80 85 88 92 92 97 101 106 109 111 115

IV. Le Scienze delle religioni oggi

129

V. Tipi di religioni

173

VI. Funzioni della religione

211

1. L’«invenzione» delle Scienze delle religioni 2. Un campo disciplinare 2.1. La psicologia della religione e lo studio dell’esperienza religiosa 2.2. La sociologia della religione 2.3. Religione e cultura: l’antropologia delle religioni 2.4. Nuovi orientamenti 3. Il rapporto con la filosofia della religione e la teologia 4. C’è un futuro per le Scienze delle religioni? 1. La classificazione delle religioni 2. Concezioni pluralistiche del divino: i politeismi 3. I monoteismi 3.1. Il monoteismo inclusivista 3.2. Alle «origini» del monoteismo esclusivista 3.3. Il monoteismo come problema politico 3.4. Monoteismi a confronto 3.5. Monoteismi e violenza 4. Dio e il male: i dualismi 1. La costruzione dello spazio e del tempo 1.1. Luoghi sacri 1.2. Il tempo sacro: la festa 2. La comunità religiosa: ingresso ed espulsione 2.1. L’iniziazione 2.2. Riti di iniziazione tribali 2.3. Iniziazione e società segrete 2.4. Comunità religiose: riti d’ingresso e di espulsione 3. Una comunità religiosa in viaggio: i pellegrini 4. Memoria e tradizione religiosa

129 134 134 137 140 144 148 154 173 177 182 187 188 191 193 196 198 211 212 219 226 226 228 235 236 240 254

VII. La violenza della religione: dai fondamentalismi al terrorismo religioso

269

VIII. Religione e politica

310

Appendice Religione in internet Divinazione Magia

345 346 347 350

1. Violenza e religione 2. Religioni e guerre 3. Il Dio degli eserciti 4. I fondamentalismi 4.1. Aspetti strutturali 4.2. Processi di risacralizzazione 4.3. Il fondamentalismo cristiano 4.4. Reazioni europee 1. Forme del rapporto 2. La sacralizzazione della politica 3. Religione e democrazia: c’è bisogno di una nuova religione civile? 4. Potere e salvezza: figure della teologia politica

269 275 282 285 285 291 294 298 310 321 326 330

Mito Preghiera Rito Sacrificio Simbolo Bibliografia generale Indice dei nomi

357 363 369 375 381 385 391