Capitale, egemonia, sistema. Studio su Giovanni Arrighi (2018)
 9788822901446

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Giovanni Arrighi (1937-2009) non ha mai smesso di studiare il capitalismo di ieri, per comprendere il sistema-mondo di oggi e prevederne la mutazione di domani. Con uno sguardo filosofico-politico, il libro restituisce il profilo intellettuale di un grande protagonista della New Left. La sua più nota trilogia – Il lungo ventesimo secolo (1994), Caos e governo del mondo (con Beverly J. Silver, 1999) e Adam Smith a Pechino (2007) – fu scritta in quegli Stati Uniti che negli anni Ottanta lo avevano adottato, ma sarebbe stata impensabile senza una vita tanto appassionata e cosmopolita. Perché a ventisei anni Arrighi è in Africa, a indagare il sottosviluppo e combattere il neocolonialismo. Tornato in Italia, negli anni Settanta anima il Gruppo Gramsci a Milano e insegna a decifrare le diverse forme di imperialismo, prima all’Università di Trento e poi in quella della Calabria. Il volume ricostruisce criticamente genesi e sviluppo di un pensiero di largo respiro e scottante attualità, che, ben prima del crollo di Wall Street nel 2007, aveva gettato luce sulla storia secolare delle bolle finanziarie, ipotizzando che l’ultimo scorcio del Novecento preludesse a un’egemonia di tipo nuovo, quella cinese.

Giulio Azzolini Capitale, egemonia, sistema

Quodlibet Studio Filosofia e politica

Giulio Azzolini (1987), dottore di ricerca in Filosofia politica, già borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli e post-doc invitato presso l’École Normale Supérieure di Lione, è attualmente borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e Junior Research Fellow presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza – Università di Roma. Il suo primo libro è Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale (Laterza, 2017). Collabora alle pagine culturali di «Repubblica».

isbn

18,00 euro

978-88-229-0144-6

QS

Giulio Azzolini Capitale, egemonia, sistema Studio su Giovanni Arrighi Quodlibet Studio

Quodlibet Studio Filosofia e politica

Giulio Azzolini Capitale, egemonia, sistema Studio su Giovanni Arrighi

Quodlibet

Prima edizione: gennaio 2018 © 2018 Quodlibet srl Via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) isbn 978-88-229-0144-6

Collana diretta da Elettra Stimilli Comitato scientifico: Emanuele Coccia, Dario Gentili, Federica Giardini, Paolo Napoli, Judith Revel, Massimiliano Tomba

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nell’ambito del progetto PRIN 2015 dal titolo “Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’era globale” (CUP: B86J16002240001 - Responsabile scientifico dell’unità di ricerca: Prof. Stefano Petrucciani)

Indice

11 Premessa 1.

13 Il capitalismo al tramonto dell’egemonia statunitense

14 1.1. Il problema teorico e politico del sottosviluppo 26 1.2. Il Gruppo Gramsci e la crisi generale 43 1.3. La geometria dell’imperialismo 58 1.4. Economia-mondo e crisi egemonica

2.

63 Il sistema-mondo tra grandi spazi e lunga durata

64 2.1. I sistemi non sono tutti uguali 66 2.2. L’analisi dei sistemi-mondo 70 2.3. Una scuola indisciplinata 74 2.4. Sistemi e strutture

3.

81 Il sistema capitalistico moderno tra cicli e sviluppo

82 3.1. Stato e contro-mercato 88 3.2. Se la società è un sistema 91 3.3. La logica del capitale 99 3.4. I cicli di accumulazione

6

indice

107 3.5. La distruzione creatrice 111 3.6. Un sistema di crisi

4. 117 Il (post)capitalismo all’alba del secolo cinese

117 4.1. Nella turbolenza globale 125 4.2. Movimenti egemonici e movimenti antisistemici 135 4.3. Il mercato oltre il capitale? 155 Bibliografia 167 Indice dei nomi

Ad Arianna

Occorrerà combattere chiunque voglia di questi avvenimenti dare una definizione unica, o che è lo stesso, trovare una causa o un’origine unica. Si tratta di un processo, che ha molte manifestazioni e in cui cause ed effetti si complicano e si accavallano. Semplificare significa snaturare e falsificare. Antonio Gramsci, Quaderni del carcere

Premessa

Concentrandosi sull’opera di Giovanni Arrighi, questo sarà anche un libro sulla realtà economica del capitalismo, sul carattere politico delle egemonie mondiali e sullo studio sistemico della società. Lo scopo è chiarire e analizzare l’articolazione di un pensiero di vastità, ambizione e forza rare, maturate in oltre quattro decenni di attività. In particolare, si tratterà di ricostruire le forme della riflessione arrighiana, benché riflettere sui suoi snodi principali significherà in qualche modo “tradire” le pratiche di sapere esercitate dallo stesso Arrighi. D’altronde, l’oggetto di questa indagine non è direttamente il funzionamento dell’ordine capitalistico, ma il pensiero dello studioso italiano, nato a Milano il 7 luglio 1937 e trapiantatosi infine a Baltimora, dov’è morto il 18 giugno 2009. Arrighi si considerava fedele a una sola disciplina, la «macrosociologia storica»1. Una materia che, ai suoi occhi, accomunava alcuni dei maggiori scienziati sociali del “lungo Ottocento”: dal settecentesco Adam Smith fino agli otto e novecenteschi Thorstein Veblen e Max Weber, Joseph Schumpeter e Karl Polanyi, passando naturalmente per Karl Marx. Pur essendo profondo in tutti costoro l’interesse per la storia, nessuno di loro può essere considerato uno storico a pieno titolo. Quelli cui l’intellettuale milanese si è ispirato sono piuttosto pensatori della storia, per i quali era molto labile il confine tra teorie politiche, sociali ed economiche2. 1

G. Arrighi, “Il lungo ventesimo secolo”. Una replica, in «Contemporanea», a. VI, 2003, n. 4, pp. 731-735: 731. Sulla macrosociologia storica, anche arrighiana, R. Lachmann, What is Historical Sociology?, Polity, Cambridge 2013. 2 Sul rapporto tra teoria sociale e teoria politica, C. Helliwell, B. Hindess, Political Theory and Social Theory, in J.S. Dryzek, B. Honig, A. Phillips (a cura di),

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Arrighi non rientra in alcun canone storiografico, perché non ha mai scritto libri destinati a «mettere in luce fatti nuovi relativi allo sviluppo del capitalismo mondiale». Le sue ricerche, dotate per lo più di un metodo comparativo, hanno fornito uno straordinario affresco della modernità, aiutando a dare il giusto peso a un’attualità che oggi può apparire inconsistente. Perché ciò che più gli premeva era «produrre generalizzazioni e modelli (ovvero, una teoria) in grado di gettare nuova luce sul passato, il presente e forse anche il futuro»3. È quindi a livello teorico che ha senso discutere il lavoro di Arrighi. Mettendo in risalto mutamenti, continuità e difficoltà di una lunga e complessa parabola intellettuale, il testo sarà strutturato sulla base di due criteri principali, cronologico e tematico. Il primo capitolo affronterà i problemi del sottosviluppo e delle crisi capitalistiche, degli imperialismi e dell’egemonia, attraverso l’esame del giovane Arrighi, impegnato negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Il secondo capitolo si soffermerà sulla “svolta sistemica”, effettuata negli Stati Uniti tra gli anni Ottanta e Novanta. Il terzo e il quarto capitolo, invece, saranno rispettivamente dedicati al capitalismo moderno e alla sua crisi contemporanea, in riferimento alla trilogia che varrà ad Arrighi la fama internazionale: Il lungo ventesimo secolo (1994), Caos e governo del mondo (1999, con Beverly J. Silver) e Adam Smith a Pechino (2007). L’argomentazione arrighiana sarà scandagliata attraverso le sue fonti primarie: Wallerstein e Braudel, Marx e Schumpeter, ma anche Harvey, Gramsci e Smith. Emergerà una voce rigorosa e originale, che sprona a pensare criticamente il nostro tempo.

Handbook of Political Theory, Oxford University Press, New York 2006, pp. 810823, nonché A. Swift, S. White, Political theory, social science, and real politics, in D. Leopold, M. Stears (a cura di), Political Theory. Methods and Approaches, Oxford University Press, Oxford 2008, pp. 49-69. 3 G. Arrighi, “Il lungo ventesimo secolo”. Una replica, cit., p. 731.

1. Il capitalismo al tramonto dell’egemonia statunitense

Prima della “svolta sistemica” che, avviata negli anni Ottanta, lo renderà celebre nel decennio successivo, specie dopo la pubblicazione nel 1994 del suo capolavoro, Il lungo ventesimo secolo1, Giovanni Arrighi ha compiuto un percorso intellettuale singolare e tortuoso. In questo capitolo si tratterà innanzitutto di analizzare i problemi che lo studioso milanese affrontò durante la sua permanenza in Africa dal 1963 al 1969 e specialmente le risposte teoriche e politiche che fornì. Egli proveniva da una famiglia medio borghese e quando il padre morì in un incidente d’auto, nel 1956, decise di dedicarsi all’azienda paterna. Per questo si iscrisse alla Facoltà di Economia della Bocconi, dove si laureò con una tesi sulle Determinanti di efficienza in un’industria meccanica. L’industria in questione era quella del nonno materno, in cui trovò lavoro quando si decise a chiudere l’impresa del padre. Dopo la laurea, proseguì con due esperienze non esaltanti, come assistente volontario alla Bocconi e poi come apprendista manager nella multinazionale anglo-olandese Unilever. Finché non seppe che l’accademia britannica era alla ricerca di professori da impiegare nelle sedi distaccate dell’ex impero. Presentata domanda anche all’università di Singapore, nel ’63, a 26 anni, viene assunto come lettore in Economia a Salisbury (l’attuale Harare, capitale dello Zimbabwe), presso lo University College of Rhodesia and Nyasaland. La questione che immediatamente gli si pone dinnanzi è quella del sottosviluppo, esaminata subito in dialogo con l’economia comparata, con la sociologia e, soprattutto, tramite un approc1 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo (1994, ed. ampliata 2009), il Saggiatore, Milano 2014.

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capitale, egemonia, sistema

cio lato sensu marxista. Tale prospettiva, che gli consentirà di illuminare gli effetti negativi prodotti dal capitalismo sull’ambiente esterno al suo dominio espansivo, viene perfezionata nella primavera del 1972 con un saggio che indaga il tema delle crisi interne allo stesso sistema economico. Ma queste crisi, secondo Arrighi, rimarrebbero incomprensibili se astratte dalla relazione con uno spazio attraversato da plurime forze politiche, le quali, ispezionate nella Geometria dell’imperialismo (1978), riveleranno la peculiare declinazione storico-geografica del marxismo arrighiano2. Una declinazione che acquisisce progressivamente sofisticata articolazione in un itinerario che, a partire dall’articolo su Una crisi di egemonia (1982), vedrà assegnare un peso crescente, nella decifrazione delle tendenze capitalistiche, ai problemi di ordine geopolitico3. 1.1. Il problema teorico e politico del sottosviluppo Ricostruendo la posizione del trentenne Arrighi intorno al tema del sottosviluppo africano nella prima metà del Novecento, emergerà il nucleo di una ricerca ampia e coraggiosa, perseguita e sviluppata nel tempo con straordinaria tenacia. Perché nell’indagine economica e politica sul sottosviluppo traspare già la trama concettuale rimasta poi cardine del discorso arrighiano. Nelle pagine che nel 1969 Einaudi pubblica nella sua serie viola, sotto il titolo di Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, appaiono numerosi degli argomenti che ritroveremo con costanza al centro dell’interesse di Arrighi, ma soprattutto i primi contorni di un’impostazione che segnerà in modo irreversibile il suo lavoro. Sono due gli obiettivi dell’antologia, che raccoglie cinque saggi composti dallo studioso nei sei anni vissuti in Africa (i primi 2

È indovinata l’indicazione di Thomas E. Reifer in Capital’s Cartographer. Giovanni Arrighi: 1937-2009, in «New Left Review», II/60, 2009, pp. 119-130. 3 Se ha ragione nel rimproverare all’Arrighi sistemico una inadeguata considerazione dei «fattori culturali e strategici», nel suo pregevole America vs America. Perché gli Stati Uniti sono in guerra contro se stessi, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. XIV-XV, Lucio Caracciolo ha torto, a mio avviso, nell’imputare questa lacuna a una forma di «determinismo economico».

1. il capitalismo al tramonto dell’egemonia statunitense

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tre in Rhodesia4, gli altri in Tanzania5): il primo di carattere teorico, che trova spazio fin dal saggio sull’Africa sub-sahariana che inaugura il volume, ovvero Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia (1965); il secondo di natura politica, che trapela con maggiore evidenza nei saggi redatti a seguito del 1966, quando Arrighi, dopo qualche giorno di detenzione, viene espulso dal paese per attività sovversive e trova rifugio all’università di Dar es Salaam, dove resterà per tre anni insieme a diversi intellettuali impegnati nella lotta anti-coloniale, tra i quali Walter Rodney e John Saul, Samir Amin, Immanuel Wallerstein e Luisa Passerini. Si trattava per un verso di individuare l’«essenza del problema del sottosviluppo» e per l’altro, facendo leva sulla «viva prassi»6 dei popoli africani, di prospettare «una strategia di sviluppo economico e politico»7 duraturo. Arrighi confessa innanzitutto di aver dovuto cimentarsi in un’opera di decostruzione, disimparando buona parte dell’economia neoclassica8 appresa all’università, in una Bocconi al riparo dall’ondata keynesiana che montava nell’Europa del tempo: egli preferirà servirsi di una «prospettiva fondamental4

Cfr. Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia (1965), in Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino 1969, pp. 17-88; L’offerta di lavoro in una prospettiva storica (1969), ivi, pp. 89-162, e Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale (1969), ivi, pp. 163-228. 5 Cfr. Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale (1968), ivi, pp. 229276, e Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana (1969), ivi, pp. 277358, scritti insieme a John S. Saul. 6 G. Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, cit., p. 11. Il termine «prassi» viene utilizzato nel duplice senso che la tradizione marxista gli assegna: come l’insieme dei rapporti di produzione e di lavoro che costituiscono la struttura sociale e come l’azione trasformatrice che la rivoluzione è chiamata a esercitare su tali rapporti. 7 Ivi, p. 7. 8 Arrighi assume la corrente neoclassica in maniera fin troppo compatta: non gli interessa indugiare sulle continuità e sulle rotture dei presupposti filosofici tra political economy classica ed economics neoclassica, i cui filoni principali sono notoriamente due, quello dell’equilibrio parziale (Marshall) e quello dell’equilibrio generale (Walras, Pareto). Ciò che comunque egli segnala senza tema di smentita è la prevalenza delle teorie neoclassiche nel dibattito a lui contemporaneo. Una circostanza che spingerà, tra gli altri, Robert Gilpin (in Economia politica globale (2001), Egea, Milano 2003, p. 48) a sostenere come ormai l’espressione «economia neoclassica» non indichi che il generico «corpo di metodi e teorie accettati e utilizzati dalla maggior parte dei membri della professione economica».

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mente marxiana»9, che, contaminata dall’antropologia sociale della Scuola di Manchester10 (in particolare, nelle figure di James Clyde Mitchell e Jaap van Velsen11), impronta tutti e cinque i saggi della sua antologia. È un punto di vista ispirato al pensiero di Marx, dunque, quello che consente ad Arrighi di cogliere l’essenza del sottosviluppo e di prospettare una strategia economico-politica alternativa. Ma come si giustifica questo assunto metodologico? Da dove nasce l’esigenza di sostituire la prospettiva neoclassica con quella marxista? Il primo motivo è di natura politica. Nelle concrete condizioni di vita dei paesi sottosviluppati, Arrighi ritiene che la teoria neoclassica sia nel migliore dei casi inutile, ma molto più spesso funzionale a un’ideologia che maschera pratiche neocoloniali12. Al motivo ideologico-politico, tuttavia, se ne aggiunge uno di carattere più strettamente teorico. La dottrina neoclassica dev’essere essere rifiutata, poiché sarebbe incapace di porsi in dialogo, sui metodi prima che sui risultati, con le altre scienze sociali13. Essa sarebbe inadatta alla necessità di una ricerca sgombra dalle gabbie disciplinari nella spiegazione dei fenomeni sociali – laddove il discrimine di fondo circa la qualità di una teoria scientifica dipenderebbe dalla sua produttività meta-disciplinare14. 9

G. Arrighi, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, cit., p. 7. Ispirata dalle ricerche degli anni Quaranta di Max Gluckman, la scuola manchesteriana respinge l’immagine di società tradizionali, statiche e immutabili, e si serve di un’osservazione partecipante e di un’analisi situazionale per valorizzare gli aspetti culturali delle metamorfosi sociali. Cfr. G. Arrighi, Introduzione in Id., L. Passerini (a cura di), La politica della parentela. Analisi situazionali di società africane in transizione, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 11-35. 11 Mitchell e van Velsen hanno influenzato Arrighi rispettivamente con The Kalela dance. Aspects of Social Relationships among Urban Africans in Northern Rhodesia (Manchester University Press, Manchester 1956) e The Politics of Kinship. A Study in Social Manipulation among the Lakeside Tonga of Malawi (Manchester University Press, Manchester 1964). 12 Arrighi non si sofferma in modo organico ed esaustivo sul tema del «neocolonialismo», ma vedremo che in sostanza lo intende come quella fase imperialista in cui lo sfruttamento della periferia da parte del centro non è mediato dagli Stati, ma viene esercitato direttamente delle imprese multinazionali, la cui plancia di comando rimane nei paesi centrali. 13 Cfr. G. Arrighi, Revolution for the Social Sciences, in I.N. Resnick (a cura di), Tanzania: Revolution by Education, Longmans, Nairobi 1968, pp. 211-220. 14 Sulla distinzione tra teorie statiche e teorie produttivistiche, qualche anno dopo, M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Marsilio, Venezia 1977, p. 151. 10

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Arrighi ha in mente un modello sintetico in senso forte. Perché dell’economia neoclassica non viene rigettata la tendenza modellistica tout court, quanto piuttosto i presupposti e i contenuti. Sebbene in forza della sua specializzazione abbia l’indubbio merito di accrescere la precisione analitica, la modellistica neoclassica sarebbe affetta da tre difetti sostanziali: l’arbitrarietà, quando non semplicemente la convenzionalità, con cui viene demarcato l’oggetto d’analisi; l’inadeguatezza con cui sono esaminati i rapporti tra quadro politico-istituzionale e base economica15; l’assenza, in ragione di un’impostazione statica, di una prospettiva storica profonda16. Anche sulla base di queste storture Arrighi respingerà i modelli di sottosviluppo di due economisti dell’epoca, William Arthur Lewis e William J. Barber. La loro opera avrebbe peraltro rappresentato «un significativo esempio delle caratteristiche ideologiche di fondo di quell’impostazione antistorica che è l’essenza stessa della moderna scienza economica»17. E questo giudizio è tanto più rilevante in quanto evidenzia il legame di stretta coimplicazione che Arrighi individua, in seno all’economia neoclassica, tra lacune teoriche e deviazioni politiche. Ebbene, il paradigma marxista sopperirebbe con efficacia sia ai difetti politici sia a quelli teorici. Esso può vantare, infatti, tre meriti esattamente speculari agli opposti vizi neoclassici. Il marxismo riconoscerebbe in modo programmatico la necessità, da parte delle scienze sociali, di ricorrere allo schematismo: il punto dirimente sta nel saper evitare lo schematismo involontario a vantaggio del «deliberato schematismo nelle ipotesi»18. Esso 15

Cfr. G. Arrighi, Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia, cit., p. 28. Cfr. Id., L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, cit., p. 150. Arrighi non esamina la radicale differenza tra economisti classici e neoclassici nemmeno in relazione al fattore tempo: mentre i primi ritenevano che i problemi cruciali della vita economica fossero lo sviluppo e la distribuzione del reddito, per i secondi la questione decisiva è un’altra e riguarda le forze che, in un dato momento, determinano i prezzi di equilibrio del sistema economico. I temi relativi al ciclo e allo sviluppo vengono così derubricati a trattazioni di ordine empirico. 17 Ivi, p. 161. 18 Id., Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia, cit., p. 31. Che lo schematismo, quand’anche inteso come «schematismo deliberato nelle ipotesi», sia riconducibile a Marx è affermazione assai discutibile; più facile inquadrarlo nella tradizione weberiana. 16

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rinverrebbe inoltre nella base economica le radici del quadro istituzionale, contravvenendo così alle inveterate linee di demarcazione tra le scienze sociali, e con ciò servendosi di un numero di ipotesi assai maggiore rispetto al solito19. E, in terzo luogo, il marxismo avrebbe il pregio di adottare una prospettiva storica, assumendo come elementi endogeni tanto i fattori economici quanto quelli meta-economici. Ma una volta stabilita la superiorità euristica del modello marxista rispetto a quello neoclassico, ciò che in ultima analisi interessa all’Arrighi studioso, come criterio di verifica scientifica, è dimostrare che l’ipotesi di un nesso essenziale tra sviluppo e sottosviluppo, tra centro e periferia, tra zone avanzate e arretrate, sia confermata dall’osservazione empirica. * Veniamo dunque ai contenuti della teoria arrighiana del sottosviluppo. L’affermazione fondamentale è che esso sarebbe il risvolto logicamente ed empiricamente necessario del capitalismo. È questa la tesi che, leitmotiv di tutta la raccolta einaudiana, viene argomentata in special modo nel saggio sull’Offerta di lavoro in una prospettiva storica (1969). Ma che cosa intende l’Arrighi degli anni Sessanta quando parla di «capitalismo»? All’epoca il termine non possiede il significato storico-culturale che in seguito il sociologo gli attribuirà. Senza alcun proposito genealogico, viene indicato un assetto economico, sociale e politico che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento vede rafforzarsi sempre di più la sua dimensione mondiale. Arrighi si guarda bene dal formulare un giudizio troppo perentorio e una descrizione univoca di questo assetto, al quale riconosce invece eterogeneità geografiche e settoriali. Tuttavia non si esime dal segnalare quella che ai suoi occhi ne costituisce la cifra principale: l’oligopolio20. È assegna19

Ivi, p. 28. Arrighi invoca l’abbandono dei modelli di capitalismo concorrenziale, responsabili di condurre a forme di messianismo politico sterili, quando non dannose. «Per giungere a un’effettiva comprensione non solo della natura dei sistemi capitalistici contemporanei, ma anche dei problemi dello sviluppo e del socialismo nella perife20

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ta un’importanza decisiva al fatto che pochi grandi complessi industriali siano divenuti le unità di produzione dominanti nelle società avanzate. Arrighi è consapevole che, per qualificare in maniera compiuta il capitalismo postbellico, non è sufficiente denunciarne il carattere oligopolistico: bisogna evidenziare anche il volume finanziario sempre più cospicuo delle grandi imprese, cui corrisponde peraltro un incremento delle prerogative di management. E a questi due fattori – finanziarizzazione e managerializzazione – ne va aggiunto quantomeno un terzo: le imprese si organizzano sempre più a livello multinazionale, godendo di maggiore capacità di previsione e pianificazione delle proprie attività di scala all’interno di mercati in via di progressiva integrazione. Ma l’ultimo elemento da richiamare per conferire sostanza all’idea arrighiana di capitalismo postbellico è quello legato alla rivoluzione tecnologica: una rivoluzione che, incentivata in special modo dal keynesismo militare sostenuto dalla politica economica statunitense, può a buon diritto essere annoverata tra i fattori principali dell’ingigantimento degli apparati industriali21. Ora, questo capitalismo occidentale trainato dagli Stati Uniti – le cui unità produttive si organizzano in modo oligopolistico, espandono la propria filiera a livello multinazionale e, tramite un management sempre più autonomo, dispongono di enormi capacità finanziarie e tecnologiche – ha conosciuto nel ventennio postbellico un’eccezionale estensione delle proprie reti produtria», si legge in Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 228, «è ormai indispensabile che gli studiosi si decidano a spostare il centro della propria attenzione dalla concorrenza al monopolio». Si noti che nel 1966, tre anni prima che fosse edita l’antologia arrighiana, veniva pubblicato Il capitale monopolistico (trad. it., Einaudi, Torino 1968) di Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, mentre la prima edizione di Oligopolio e progresso tecnico di Paolo Sylos Labini, altra fondamentale opera sul capitalismo oligopolistico, era più vecchia di un decennio (Giuffrè, Milano 1957). 21 Nel secondo dopoguerra il Ministero della Difesa statunitense promosse quel progresso tecnico che avrebbe giocato un ruolo decisivo in particolare nel campo aerospaziale e comunicativo. Con il paradosso, rilevato da Robert Reich in Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia (2007), Fazi, Roma 2008, p. 52, che «molte di queste tecnologie, e le aziende e le industrie che ne facevano uso, contribuirono infine alla distruzione dello stabile, oligopolistico sistema americano».

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tive, determinando «una vera e propria seconda fase del predominio imperialistico»22. Si tratta di una fase neocoloniale, le cui ripercussioni sulle terre ancora sottosviluppate sono complessivamente negative. Ma cerchiamo di capire perché, facendo così luce sul concetto stesso di sottosviluppo. Il capitalismo, che per Arrighi non è un assetto nazionale, valutabile nell’ambito di confini territoriali, non implica necessariamente la proletarizzazione completa della forza-lavoro, ma alimenta o quantomeno convive con vaste sacche di lavoro schiavile23. Nelle zone periferiche, inoltre, tende a formarsi una minoranza privilegiata di colletti bianchi, che, insieme al proliferare delle differenze di etnia, status e genere, rischia di inficiare la coesione politica della classe proletaria. In terzo luogo, la costituzione di una borghesia nazionale non esclude l’eventualità che questa si configuri come una sorta di Lumpenbourgeoisie in posizione subalterna. Si tratta di mercanti, usurai e grossisti, che trattengono una parte cospicua del surplus destinato altrove, sperperandolo nell’acquisto di beni di lusso provenienti dai centri industriali e finanziari occidentali24. Ciò viene dimostrato a partire da un caso di studio, quello della Rhodesia, il paese che, più di ogni altro in Africa, era in condizione di evolvere in senso pienamente capitalistico. Perché gli eccessivi investimenti nell’industria mineraria da parte della British South Africa Company avevano dato vita tanto a una borghesia quanto a un proletariato agrari, i quali avrebbero entrambi potuto beneficiare da una crescita complessiva del paese. Se tuttavia la Rhodesia non divenne un paese integralmente capitalistico, lo si deve essenzialmente alla metamorfosi della struttura di classe. Questo caso, dunque, vale come cartina di tornasole del nesso tra sviluppo e sottosviluppo, ossia dello sfruttamento della periferia da parte del centro, mediante un legame perverso tra le grandi imprese multinazionali e i settori avanzati della borghesia periferica. Ma qui bisogna stare attenti: «l’analisi della struttura coloniale», sosterrà nel 1972 Arrighi scostandosi dal 22

G. Arrighi, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana, cit., p. 282. Sul nesso tra capitalismo e schiavismo, L. Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino, Bologna 2017. 24 G. Arrighi, J.S. Saul, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 262. 23

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modello di Andre Gunder Frank25, «dovrebbe essere, per così dire, “costruita dentro” l’analisi della struttura di classe»26. Perché, come afferma poche pagine prima, «la struttura di classe della metropoli (attuale o potenziale) e del satellite (attuale o potenziale) deve essere vista come l’elemento dominante nel rapporto di determinazione reciproca tra le strutture di classe e le strutture coloniali»27. Ciò che Arrighi ritiene decisivi, in tal senso, sono l’indagine sugli investimenti stranieri nelle regioni subsahariane e l’esame della loro qualità. Puntando la lente di ingrandimento su questi fattori, egli scopre che le imprese multinazionali investono direttamente nei paesi sottosviluppati. È in via di sparizione, infatti, la mediazione rappresentata da un’occupazione coloniale di regioni ricche di materie prime e di manodopera a basso costo. Ma in che modo si realizza l’investimento diretto? Favorendo l’utilizzo di tecniche ad alta intensità di capitale all’interno dei settori industriali più diversi e ostacolando, invece, la produzione di beni strumentali destinati alle popolazioni indigene. Lo studioso italiano diffidava dall’illudersi che sul lungo periodo la nuova tipologia di investimenti stranieri avrebbe condotto a una crescita dell’occupazione stipendiata. L’esito prevedibile sarebbe stato piuttosto un aumento dell’efflusso di surplus dall’area in questione e un incremento di reddito per un’esigua porzione della classe lavoratrice. Perché le imprese multinazionali tendono a impossessarsi delle attività remunerative, perlopiù nel settore agricolo e minerario, e a spremere il tessuto produttivo locale, che, dopo la decrescita dei rendimenti e il rimpatrio della maggior parte dei profitti, viene lasciato perire. 25

A.G. Frank, The Development of Underdevelopment, Monthly Review Press, New York 1966. 26 G. Arrighi, Rapporti fra struttura coloniale e struttura di classe nell’analisi del sottosviluppo, in «Problemi del Socialismo», a. 14, 1972, n. 10, pp. 526-535: 535. 27 Ivi, p. 533. L’articolo del ’72 era stato in larga parte anticipato nella primavera del 1970 su «Giovane critica», 22/23, pp. 44-46, dove Arrighi concludeva: «Sono perfettamente consapevole di essere riuscito solo parzialmente ad operare un approccio corretto. In particolare, l’approccio adottato nell’ultimo saggio (Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana) ha numerose di quelle caratteristiche della prospettiva deterministica-generalizzante da me criticata sopra. Questa nota è dunque più un atto di autocritica che una critica di G. A. Frank» (p. 46).

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Tuttavia, si replicherà, se il capitalismo avesse danneggiato le popolazioni indigene, non sarebbe mancata la rivolta. Ma è qui che Arrighi colloca la missione degli apparati repressivi. Di fronte alle intemperanze della periferia, il centro avrebbe reagito con l’intervento armato diretto o con il dominio militare indiretto. Le imprese multinazionali, infatti, pagavano royalties ai governi locali, i quali, anziché promuovere investimenti produttivi in grado di erodere il monopolio delle grandi imprese, imponevano con la forza l’adesione a un sistema che rimunerava loro, ma non le popolazioni. In altre parole, Arrighi ha individuato la tendenza delle burocrazie, pubbliche e private, a proteggere con tutte le forze i privilegi garantiti dalla diseguale distribuzione del reddito. E oggi sappiamo che è stata precisamente questa tendenza ad aprire la strada all’involuzione autoritaria di molti Stati africani28. Insomma, si dimostra come il capitalismo sia un assetto economico e politico mondiale che, nel suo fisiologico funzionamento, implica la strutturale asimmetria nella distribuzione della ricchezza tra le varie aree del pianeta. Il sottosviluppo della periferia è l’altra faccia dello sviluppo del centro. Perché gli investimenti diretti, ad alta intensità di capitale, nonché protetti dalla forza militare, modificano la struttura di classe, impedendo il riscatto dell’Africa subsahariana. Quest’analisi, che in sostanza si rivelerà corretta, prefigurava una «crescita senza sviluppo»29 o «crescita controproducente»30. Nel quadro appena descritto, infatti, l’accelerazione della crescita economica nei paesi dell’Africa tropicale sarebbe stata necessariamente effimera: alla fase delle esportazioni, questa la previsione, sarebbe seguita quella di un loro sensibile rallentamento. Il tipo di crescita economica che stava interessando l’Africa avrebbe minato alle fondamenta la potenzialità delle economie africane di mettere in moto un effettivo processo di sviluppo di lungo periodo. In conclusione, l’ipotesi di una «connessione tra la persistenza del sottosviluppo e l’evoluzione delle strutture oligopolistiche nei paesi capitalistici avanzati»31 appariva fondata. L’enunciato sem28

Cfr. Id., The African Crisis, in «New Left Review», II/15, 2002, pp. 5-36. Id., J.S Saul, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana, cit., p. 282. 30 Idd., Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, p. 245. 31 G. Arrighi, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 219. 29

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brava verificato dall’esame dello stato dei fatti, a dispetto dell’ideologia neoclassica e dei suoi modelli. Perché i già citati Lewis e Barber concepivano il sottosviluppo delle regioni africane come una condizione originaria, che l’affermazione del capitalismo, in quanto vettore di razionalizzazione, avrebbe gradualmente eliminato. Dal loro punto di vista, il capitalismo era un processo non solo positivo, ma anche e soprattutto naturale: alla sua spontanea instaurazione avrebbero condotto le decisioni assolutamente libere di attori operanti sul mercato, mentre nullo o marginale sarebbe stato l’effetto di costrizione. * A questo punto bisogna concentrarsi sulla proposta politica di Arrighi. E anche stavolta vale la pena di notare come, persino sul terreno programmatico, l’autore tenga fermo lo sforzo di «ragionare sulla base di un orizzonte temporale abbastanza lungo»32. Orizzonte che, se proiettato retrospettivamente sul passato, consente di guardare con realismo alla situazione africana, rifiutando stanche prognosi su destini ineluttabili – primo tra tutti, la cosiddetta “balcanizzazione” del continente – e d’altronde consapevoli che non possa esistere «alcuna panacea per le difficoltà che affliggono lo sviluppo economico africano: neppure un’unità africana»33. In sintonia con l’analisi svolta fino ad allora, lo sguardo di Arrighi si concentra specialmente sulle dimensioni mondiali che il capitalismo è venuto assumendo dal 1945 in poi. Il mutamento di scala ha diminuito la forza contrattuale dei governi delle piccole nazioni africane e la loro capacità di pianificare le rispettive economie e, più in generale, ha determinato un soffocamento del potenziale di crescita produttiva e sociale dell’Africa tropicale. Arrighi sa bene come sul breve periodo la rottura della dipendenza dal capitalismo internazionale costerebbe una frenata immediata dell’espansione economica e un accrescimento dell’instabilità politica. Eppure, ripetiamo, egli prevede che, alla lunga, 32

Id., J.S. Saul, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 258. G. Arrighi, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 221. 33

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una composizione degli investimenti stranieri imperniata sull’utilizzo di tecniche ad alta intensità di capitale farà sì che l’afflusso di denaro si traduca in un drenaggio di surplus. I profitti saranno rimpatriati nei paesi del centro e l’economia africana subirà una ristrutturazione sfavorevole. Ne consegue che la prima mossa atta a scongiurare la realizzazione di questo scenario doveva comunque consistere nella promozione di una strategia protezionistica. Pur non costituendo una condizione sufficiente, lo sganciamento dal capitalismo mondiale era un’operazione in fondo necessaria per l’effettivo sviluppo dell’Africa tropicale. Secondo Arrighi, le sue chances di emancipazione dipendevano dall’adozione di una condivisa politica di autonomia. Ma arginare la crescita controproducente non sarebbe stato possibile né mediante la statalizzazione dei mezzi di produzione né attraverso eventuali mutamenti a livello istituzionale. Dal punto di vista tattico, le speranze per lo sviluppo socio-economico dell’intero continente africano andavano catalizzate, dunque, nelle lotte di liberazione nazionale dell’Africa meridionale. Lotte che avrebbero dovuto inquadrarsi all’interno di una più ampia strategia di «rivoluzione proletaria e socialista»34. Viceversa, una rivoluzione contadina, mirata unicamente alla redistribuzione della terra e alla riduzione della fiscalità nel settore agricolo, sarebbe stata una soluzione insufficiente e sostanzialmente demagogica. Arrighi riteneva d’altronde che l’avvento del socialismo, come esito della «prassi rivoluzionaria»35, sarebbe stato una «necessità storica»36 per lo sviluppo africano. Ancorandosi alle molteplici rivendicazioni nazionalistiche, i popoli africani avrebbero dovuto puntare all’acquisizione del controllo sull’apparato industriale. Il sociologo italiano sosteneva che solo un processo di industrializzazione autonoma, volto a promuovere il progresso economico e sociale delle masse africane, sarebbe stato in grado di scontrarsi con gli interessi del capitalismo. Altrimenti non ci sarebbe stata che l’«illusione dello sviluppo»37. 34

Id., J.S. Saul, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana, cit., p. 314. Ivi, p. 281. 36 Ivi, p. 279. 37 Cfr. G. Arrighi, The Developmentalist Illusion: A Reconceptualization of the Semiperiphery, in W.G. Martin (a cura di), Semiperipheral States in the World-Economy, Greenwood Press, Westport 1990, pp. 11-42. 35

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Un’ulteriore clausola, tuttavia, era prevedibilmente necessaria affinché lo sviluppo durasse a lungo: non sarebbe bastato programmare la rivoluzione socialista a partire dalle lotte di liberazione nazionale; era insieme necessario che allo sganciamento rivoluzionario dal capitalismo mondiale seguisse «una radicale modificazione della base di potere dei governi africani»38. Serviva una nuova base di potere, capace di istituire un «vero Stato degli operai e dei contadini»39. Solo in questo modo, secondo Arrighi, sarebbe stato finalmente valorizzato il potenziale di sviluppo connesso al nuovo tipo di rapporti tra centro e periferia. E il processo di «crescita con sviluppo»40 non poteva che prendere avvio, contro la tendenza capitalistica, dall’introduzione di tecniche ad alta intensità di lavoro. * Cinquant’anni dopo sappiamo che gli auspici politici dell’Arrighi di Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa non si sono realizzati. I movimenti di liberazione nazionale non si sono integrati in un unico soggetto socialista, non si è verificato uno sganciamento dal capitalismo mondiale e la gestione dei processi di industrializzazione autonoma, quando c’è stata, non ha quasi mai presentato un carattere collettivistico. E il fatto che il socialismo africano non abbia saputo imporsi come una necessità storica non può non interrogare sulla stessa capacità d’analisi del primo Arrighi. La sua visione del capitalismo non era abbastanza articolata e flessibile, ancora incapace di immaginare la successiva ascesa di aree del pianeta – dal Sud America all’Asia orientale – che negli anni Sessanta venivano generalmente bollate come “Terzo mondo”. Nondimeno, fatta salva l’eccessiva rigidità con cui egli pensava il legame tra capitalismo e sottosviluppo (necessariamente congiunti, ricordiamo, da una composizione degli investimenti diretti votata al 38

G. Arrighi, J.S. Saul, Socialismo e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 247. 39 Ivi, p. 268. 40 G. Arrighi, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppo economico nell’Africa tropicale, cit., p. 224.

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trasferimento del plusvalore dalla periferia al centro), al di là degli errori previsionali e dell’obiettivo logoramento di alcune problematiche, non va commesso l’errore di sottovalutare i meriti dell’Arrighi africanista. Egli ha saputo vedere le ombre di un processo di decolonizzazione molto più contraddittorio rispetto a quanto sarebbe apparso prestando credito agli innumerevoli cantori dell’epoca. 1.2. Il Gruppo Gramsci e la crisi generale Dopo il 1969 la vita di Arrighi conosce grandi cambiamenti, il maggiore dei quali è il ritorno in Italia, nella Facoltà di Sociologia di Trento41, che all’epoca era il cuore pulsante della contestazione studentesca. Lo studioso non taglia però i ponti con la sua città natale, dove due anni più tardi inizia a insegnare alla Scuola Superiore di Formazione in Sociologia. Ma dal 1971 Milano diventa soprattutto il centro dell’impegno politico di Arrighi. In quell’anno aderisce con Luisa Passerini al Gruppo Gramsci. Vengono rapidamente inaugurate nuove sezioni da Torino a Pinerolo, da Savigliano a Trento, da Firenze ad Arezzo, da Roma a Cassino, e assume così dimensioni nazionali il Gruppo che il ventiduenne Romano Madera aveva fondato qualche mese prima a Varese, dopo la scissione del movimento studentesco milanese e la crisi del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista). Ma che cos’era il Gruppo Gramsci? Si trattò di un esperimento più unico che raro per la sinistra extraparlamentare: quello di un soggetto rivoluzionario che si collocava “all’estrema destra dell’estrema sinistra”, trovando il suo punto di riferimento nell’autore dei Quaderni del carcere42. Fin dal documento che 41 Qui è sotto il magistero di Arrighi che nasce uno dei primi grandi libri del femminismo italiano: La coscienza di sfruttata (Mazzotta, Milano 1972), che denuncia il doppio sfruttamento delle donne, capitalista e maschile. 42 Cfr. P. Anderson, The heirs of Gramsci, in «New Left Review», II/100, 2016, pp. 71-97. Ma il primo Gruppo Gramsci non nacque nella Milano del Sessantotto sotto la parola d’ordine dell’autonomia operaia, bensì a Napoli, alla fine degli anni Quaranta del Novecento, attorno all’idea gramsciana di nazionale-popolare. Un’esperienza che, conclusa nel 1954, nacque in polemica contro il Pci togliattiano, considerato troppo incline al compromesso con i potentati locali del Mezzogiorno. Ad animare il gruppo, Guido Piegari, con i suoi stretti sodali, Enzo Oliveri e Gerardo Marotta. Sulla vicenda, E. Rea: Mistero napoletano (1995), Feltrinelli, Milano 2014, e Il caso Piegari, Feltrinelli, Milano 2014.

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espone le tesi programmatiche, scritte a quattro mani da Arrighi e da Madera, venivano aspramente criticati gli «asfittici “fiori di serra” bordighiani», incarnati ad esempio da Potere operaio e da Lotta continua, «velleitari estremisti incapaci di mediazioni e di flessibilità, incapaci quindi di direzione reale»43. E dopo le molotov scagliate contro la sede del «Corriere della sera» l’11 marzo 1972, il Gruppo Gramsci parla apertamente di «estremismo avventurista e terrorista»44. Perché, tuttavia, richiamarsi all’autore sardo? Del suo pensiero venivano valorizzati in particolare tre elementi. Il primo, legato al Gramsci ordinovista, era l’idea di autonomia. Questa è una parola chiave dell’epoca45, ma Arrighi e i suoi compagni la declinano in modo speciale, connettendola ad altre due idee gramsciane: quelle, sviluppate soprattutto nei Quaderni del carcere, di educazione e di traducibilità46. Una certa concezione della soggettività, della cultura e della storicità, dunque, conferisce assoluta peculiarità al Gruppo Gramsci rispetto agli altri gruppi che insieme componevano la variegata galassia della sinistra rivoluzionaria. Intimo era innanzitutto il nesso tra autonomia e pedagogia. Secondo il Gruppo Gramsci, tanto lo spontaneismo di Lotta continua quanto l’operaismo di Potere operaio celavano la pretesa di “essere la testa” delle masse, provocando così una situazione in cui l’autonomia della soggettività operaia risultava scissa dalla cultura politica e subordinata alle sue velleitarie pretese avanguardistiche. E in modo esattamente speculare, il Movimento studentesco e Avanguardia operaia, proponendo di “mettersi 43 Crisi del capitale e compiti dei comunisti. Tesi politiche elaborate dai gruppi Gramsci di: Milano – Pinerolo – Torino (C.A.I.P. K. Marx) – Varese, Sapere edizioni, Milano 1972, p. 107. 44 Dalle bombe a Feltrinelli: reprimere la sinistra per reprimere le masse, in «Rassegna comunista», 1972, n. 2, pp. 14-16: 16. 45 Cfr. G. Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007, pp. 36-39. Sull’autonomia a Milano tra anni Sessanta e Settanta, G. Giovannelli, L’Autonomia a Milano, in L. Caminiti, S. Bianchi (a cura di), Gli autonomi. Le teorie, le lotte, la storia, vol. I, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 149-157. 46 Per un approfondimento, M. Del Roio, I prismi di Gramsci. La formula politica del fronte unico (1919-1926) (2005), La Città del Sole, Napoli 2011; M. Baldacci, Oltre la subalternità. Praxis e educazione in Gramsci, Carocci, Roma 2017; R. Descendre, J.-C. Zancarini, De la traduction à la traductibilité : un outil d’émancipation théorique, in «Laboratoire italien», 18/2016.

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alla testa” delle masse, conservavano un’eccessiva separatezza tra il momento dell’educazione e quello dell’autonomia, conferendo tuttavia priorità al secondo anziché al primo. Ebbene, il Gruppo Gramsci riteneva che fosse essenziale stabilire un legame tanto organico quanto equilibrato tra autonomia e pedagogia, tra soggettività e cultura. Detto altrimenti, il loro proposito consisteva nel «formare la testa» delle masse operaie47. Perciò, lungi dal demonizzare il sindacato in quanto forma di collaborazionismo con i “padroni”, il Gruppo Gramsci aveva scelto di lavorare insieme alla sinistra sindacale nei Consigli di fabbrica. E Arrighi si impegna in prima persona, animando le scuole di formazione dei quadri sindacali organizzate dalla Federazione italiana metalmeccanici della Cisl48. Il modello era il Gramsci consiliarista e la sua attività di educazione degli operai comunisti. Sotto questa luce va letta anche l’ulteriore e coeva esperienza dei Collettivi politici operai, laddove Arrighi, promuovendo lo studio dei grandi processi economici, sociali e politici, intendeva favorire la maturazione, da parte della classe operaia, di una propria autonoma elaborazione intellettuale e di una propria autonoma strategia di lotta. Ma il Gruppo Gramsci, dicevamo, presenta quantomeno un altro motivo di originalità. Viene recuperata, infatti, l’idea di traducibilità della rivoluzione. Si ritiene gramscianamente che la «guerra manovrata», in Occidente, debba lasciare il posto alla «guerra di posizione»49. Fuor di metafora, si riconosce la necessità di proporre alle masse obiettivi intermedi, da raggiungere mediante l’attuazione di specifiche riforme, in particolare sul terreno fiscale. Bisogna intendersi: il Gruppo Gramsci resta un gruppo rivoluzionario. Il Pci è oggetto di una polemica asperrima. È considerato un partito sostanzialmente revisionista, che si è macchiato di due “colpe” imperdonabili: la tendenza a una gestione consociativa del potere e, dunque, al compromesso (contro le diagnosi che, da sinistra, mettevano in guardia rispetto a 47

Crisi del capitale e compiti dei comunisti, cit., p. 105. Cfr. G. Lerner, Testimonianza, in «Alfabeta2», a. I, 2010, n. 3, p. 45. 49 Per una prima introduzione, R. Ciccarelli, voci «Guerra di movimento», «Guerra di posizione», in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano. 1926-1937, Carocci, Roma 2009, pp. 379-385. 48

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un presunto ritorno al fascismo); e il rinnegamento della violenza come strumento necessario per la trasformazione sociale. Nessun dirigente del Gruppo Gramsci immagina un’insurrezione armata delle masse contro l’esercito. Ciò che si prevede, piuttosto, è la maturazione delle condizioni per un conflitto rivoluzionario, nel quale gli organi che una volta erano ben integrati nel corpo dello Stato si trovino infine uno contro l’altro. Viene prefigurata, in un futuro indeterminato, una sorta di “guerra civile” tra le diverse componenti dello Stato. Ricordato che il Gruppo Gramsci non è affatto riformista, poiché conserva salda la convinzione che, senza la presa d’atto che tutto ciò che esiste le appartiene, la classe operaia non arriverà mai a uno scontro rivoluzionario, qual è il modo per acquisire una tale coscienza? Sono le riforme a contribuire a questa nuova consapevolezza. L’aumento salariale o il riequilibrio fiscale non andavano perseguiti in sé e per sé, bensì come viatico per quella che Gramsci aveva chiamato per l’appunto «riforma intellettuale e morale»50. Ed ecco che, quando alle elezioni politiche del 1972 tutta la sinistra rivoluzionaria vota per l’anarchico Valpreda, il Gruppo Gramsci si schiera con il Pci. Perché il partito del neosegretario Enrico Berlinguer non andava sfidato solo sul piano ideale, ma anche su quello programmatico. La rivoluzione cui il Pci aveva rinunciato non sarebbe passata, in Italia, per una limitazione delle procedure democratiche, bensì, all’opposto, per il loro potenziamento. Solo per questa via sarebbe potuta maturare l’istanza di una nuova forma di convivenza umana. E come si sarebbe dovuto rapportare il Gruppo Gramsci agli altri movimenti della sinistra extraparlamentare? Arrighi riteneva estremamente deleteria la frammentazione di quest’ultima, esacerbata dall’adesione a teorie e ideologie diverse: il trotskismo, il leninismo, l’operaismo, il maoismo… Ciò che il Gruppo Gramsci si proponeva, perciò, era individuare alcuni essenziali punti programmatici – in materia di lavoro, scuola e politica nazionale – sui quali ciascun’altra formazione politica sarebbe stata disposta a convenire. L’unità andava cercata sul programma. Solo in questo modo, tutte le lotte combattute dal Sessantotto 50 A. Gramsci, Quaderni del carcere (1975), Einaudi, Torino 2007, vol. 1, Q. 4, in particolare pp. 423-424.

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in poi avrebbero potuto dare il frutto sperato. E quest’esigenza di accantonare le divisioni ideologiche a vantaggio di un’unione programmatica si faceva tanto più urgente dopo l’occupazione della Fiat e la conclusione della stagione dei contratti nella primavera del ’73: baluginava ormai l’idea che il ciclo di lotte sociali fosse avviato a un lento ma progressivo decadimento. Augurandosi che gli altri gruppi facciano altrettanto, il Gruppo Gramsci accelera il processo di scioglimento. E il suo mensile teorico, «Rassegna Comunista», viene sostituito da un quindicinale più prettamente politico, «Rosso», rivolto anche agli studenti e aperto alle istanze di liberazione femminista e omosessuale. Ma Arrighi è ormai stanco della militanza. Non sente più “la voce degli operai” ed è soprattutto sempre più sfiduciato sulla capacità di incidenza sul resto della sinistra extraparlamentare. Così, quando nell’inverno del 1973 il Gruppo Gramsci si smembra e si avvicina al gruppo di Toni Negri (che, fuoriuscito da Potere Operaio, trasforma «Rosso» nel giornale dell’area autonoma51), il sociologo abbandona la politica attiva e si trasferisce all’Università della Calabria, fondata l’anno prima su impulso di Beniamino Andreatta. Egli è convinto che sia terminata una fase storica, quella delle lotte operaie e studentesche, ma non ha più idea di come si possa andare avanti. Quello del Gruppo Gramsci, del resto, non sarà un “suicidio esemplare”. La sinistra radicale continuerà a marciare divisa. Le ideologie che Arrighi aveva creduto di poter mettere da canto si riveleranno assai più rigide e consistenti di quanto sperava. E la violenza passerà dalle parole agli atti, consegnando alla tragedia le vicende del lungo Sessantotto italiano52. È dunque sintomatico che nel 1978, quando il saggio arrighiano apparso nel 1972 su «Rassegna Comunista»53 viene tra51 T. Negri, Storia di un comunista, a cura di G. De Michele, Ponte alle Grazie, Firenze 2015, pp. 464-510. 52 Cfr. M. Flores, A. De Bernardi, Il Sessantotto (1998) il Mulino, Bologna 2003, seconda ed. ampliata. Per uno studio sull’incubazione degli anni di piombo nel linguaggio dell’estrema sinistra, G. Donato, «La lotta è armata». Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969-1972), DeriveApprodi, Roma 2014. 53 G. Arrighi, Una nuova crisi generale, in «Rassegna comunista», 1972: Dalla stag-deflazione alla stag-flazione, n. 2, pp. 7-13; Dalla spartizione del mondo alla riunificazione del mercato mondiale, n. 3, pp. 8-11; Dalla crisi del capitale alla crisi rivoluzionaria, n. 4, pp. 11-15; Conclusioni, n. 7, pp. 8-12.

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dotto per la «New Left Review», sia proprio la parte più politica a cadere. Una nuova crisi generale (questo il titolo originale) diventa Towards a Theory of Capitalist Crisis54 e la speranza rivoluzionaria che filtrava nella prima versione si attenua fino quasi a scomparire nell’edizione inglese, apparsa sei anni dopo con un breve Poscritto. Come ha notato Romano Madera, la «passione politica» di Arrighi sarà «sempre sorvegliata negli scritti, come se la preoccupazione scientifica dovesse purificarla, non per rinnegarla, ma per giustificarla. Così i suoi saggi [saranno] completamente privi di ogni retorica politica, quasi asettici, nel tentativo di far parlare le cose stesse attraverso teorizzazioni euristicamente feconde»55. Nel ’78 la passata contrazione della produzione nei paesi centrali e l’ondata inflazionistica vengono guardate con più lucidità e messe in relazione con lo scoppio della crisi energetica e con la conclusione del quinquennio di lotte. La crisi non è più presentata come generale, in un duplice senso: essa non appare più come un fenomeno insieme politico, economico, sociale, culturale, bensì come una congiuntura essenzialmente economica e, segnatamente, capitalistica; essa non sembra più una recessione che coinvolge tutti i settori produttivi e tutti i paesi avanzati, ma intacca diversamente gli uni e gli altri. E se la crisi non è più generale, vuol dire che non è nemmeno definitiva, che non è la crisi del capitalismo, ma una crisi nel capitalismo. Fin dal 1972 il saggio intende interpretare la crisi sperimentata tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo alla luce del concetto e della storia delle crisi capitalistiche precedenti. Il testo viene concepito in un frangente nel quale i lavoratori, cui in quel periodo veniva intimato di restare tranquilli per evitare che la loro fabbrica fosse trasferita altrove, chiedevano ad Arrighi che cosa stesse accadendo nel mondo, cosa dovevano aspettarsi. Nelle pagine seguenti si tratterà dunque di ricostruire il discorso arrighiano sul nesso tra il ripetersi delle crisi e 54

Poi ritradotto in italiano in R. Parboni (a cura di), Dinamiche della crisi mondiale, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 85-113. Nel frattempo era stata pubblicata una traduzione, leggermente rivista ma non amputata di un’intera sezione, per la rivista spagnola «Zona Abierta», n. 5, 1975, pp. 77-112. 55 R. Madera, Testimonianza, in «Alfabeta2», a. I, 2010, n. 3, p. 44.

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la logica che tale susseguirsi rivelerebbe. Tenendo conto della precedente opera sul sottosviluppo africano e dei successivi mutamenti teorici, il concetto di crisi verrà affrontato in relazione a tre termini chiave: accumulazione, mercato e Stato. Arrighi rinviene la causa di fondo delle crisi che periodicamente hanno intaccato l’economia mondiale dell’ultimo secolo nello stesso modello capitalistico, che già in quest’opera si configura non solo come un modo sociale di produzione, ma anche e soprattutto come un modo di accumulazione e dominio. L’interprete, sostiene Arrighi, non deve commettere l’errore di “esternalizzare” la crisi, concependola come un portato esogeno, un effetto ambientale che minaccia dall’esterno la salute del sistema economico, una forza aliena che ne schiude le crepe. Questo sarebbe stato l’errore che accumunava diverse interpretazioni della nuova condizione di stagflazione, cioè dell’inedita tendenza al ristagno combinata all’inflazione dei prezzi, vissuta sul finire degli anni Sessanta in Italia e in larga parte dell’Occidente. Per «la cosiddetta “destra economica”», che viene associata al «Sole 24 Ore», «la causa ultima della crisi» è costituita dalla «conflittualità operaia». Da questo punto di vista, per quanto paradossale possa sembrare, gli argomenti della destra economica sono speculari a quelli diffusi da Potere Operaio. La spinta verso il malessere generale sarebbe data dal forte incremento salariale che tutti i paesi della Comunità europea hanno conosciuto nel triennio 1969-1971. E l’inadeguatezza delle forze politiche, e segnatamente di governo, si sarebbe manifestata nell’incapacità di reprimere questo antagonismo entro i limiti compatibili con il mantenimento dell’accumulazione. Per la «sinistra del blocco dominante», che Arrighi associa alla linea editoriale dettata da Eugenio Scalfari sull’«Espresso», la classe operaia non andava attaccata frontalmente. Perché l’aumento salariale, che in Italia fu conquistato soprattutto tra il 1969 e il primo semestre dell’anno successivo, non rappresentava il principale fattore di crisi. Il problema era un altro, ossia la prosecuzione della conflittualità dopo l’ottenimento dell’aumento salariale. Le forze politiche di governo non avrebbero saputo né regolare questo conflitto né approntare le misure necessarie per governare la caduta della domanda globale che già all’epoca, secondo Scalfa-

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ri, avrebbe richiesto una maggiore integrazione europea, anche a livello bancario, per scongiurare l’avvitarsi della crisi monetaria in finanziaria, commerciale e poi economica. La causa fondamentale della stagflazione, insomma, era «la mancanza di strumenti di politica economica a livello internazionale e l’inefficienza degli strumenti disponibili a livello nazionale»56. Infine, secondo il Pci, che da Arrighi viene definito come «forza politica borghese non ancora interna al blocco dominante», le «cause ultime della crisi», al di là degli errori di governo, risiedevano nella «struttura del capitalismo italiano». In particolare, stando alla relazione di Berlinguer al XIIIo Congresso del Pci, ciò che avrebbe impedito la simultanea espansione di profitti, salari e consumi sociali e che, acutizzando la conflittualità operaia, avrebbe provocato la decelerazione dell’attività produttiva, sarebbe stato «il peso rilevante (e crescente) che i redditi parassitari hanno nella società italiana». La crisi sarebbe stata il prodotto dell’assommarsi di un nuovo parassitismo monopolistico e finanziario al vecchio parassitismo della rendita. Quelle che ad alcuni sembravano errori di politica economica, in realtà, sarebbero state scelte deliberate per favorire gli interessi capitalistici nazionali e nordamericani in un ordine internazionale legato alla Guerra fredda. Riassumendo, la crisi veniva letta come l’effetto di tre fattori principali: «la forza antagonistica della classe operaia, l’inadeguatezza delle forze politiche e/o di governo, il parassitismo di vasti settori del capitale monopolistico e del ceto medio improduttivo»57. Tuttavia, al di là delle differenze, per tutte le suddette letture la crisi sarebbe stata «una specie di “escrescenza”, dovuta ad “errori” di politica economica e sociale o a cause accidentali che non hanno necessariamente nulla a che fare col meccanismo di fondo dell’accumulazione capitalistica». Secondo Arrighi, invece, era necessario innanzitutto riconoscere una vera e propria «tendenza alla crisi»58 nella storia del capitalismo. Una tendenza che, connessa in modo apparentemente indissolubile all’esistenza di questo modo di accumulazione e 56 G. Arrighi, Una nuova crisi generale. Dalla stag-deflazione, alla stag-flazione, cit., p. 8. 57 Ivi, p. 9. 58 Ivi, p. 10.

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dominio, dev’essere compresa all’interno di una più complessa trattazione sull’essenza stessa dell’organizzazione capitalistica. È in quest’ottica che Arrighi riprende Marx, imputando in ultima istanza la ripetitività delle crisi alla contraddizione fondamentale tra il fine dell’accumulazione, ossia la valorizzazione del capitale in quanto sinonimo di appropriazione del plusvalore, e il mezzo attraverso cui questo fine viene perseguito, cioè il potenziamento della produttività sociale. Ma il rilievo della contraddizione essenziale tra fine e mezzo dell’accumulazione di capitale non conduce Arrighi a diagnosticare semplicemente l’inclinazione, a tutti manifesta, alla produzione di generiche crisi. Una nuova crisi generale, infatti, inaugura una distinzione concettuale cui l’autore rimarrà in qualche modo fedele durante tutto l’arco della sua parabola intellettuale: la distinzione tra una crisi determinata dalla caduta del saggio di profitto e una causata dalla sovrapproduzione di merci. Il primo tipo di crisi ricalca la condizione descritta da Marx nel ventitreesimo capitolo del Primo libro del Capitale, allorché viene esposta la legge generale dell’accumulazione. Tale fenomeno si verificherebbe nel momento in cui i detentori del capitale non vedessero soddisfatta l’attesa di una remunerazione adeguata ai loro investimenti. Si produrrebbe in tal modo un rallentamento dell’accumulazione e con ciò calerebbe il saggio di profitto, ossia il rapporto tra profitto e capitale investito. Il secondo tipo di crisi, detta di sovrapproduzione delle merci (o di realizzazione del plusvalore), si verificherebbe invece allorché le merci prodotte rimanessero, sia pure parzialmente, invendute o potessero essere cedute solo a prezzi talmente bassi da ridurre fortemente, fino quasi ad annullarlo, il profitto. Parlando marxianamente in termini di valore, la realizzazione fallisce quando il plusvalore estratto dal lavoro e incorporato nelle merci non si trasforma in profitto, venendo così a creare una condizione di sovrapproduzione merceologica. Si tratta dunque di spiegare perché, da un lato, tenda a calare il saggio di profitto, e, dall’altro, a fallire la realizzazione del plusvalore. In prima battuta, la risposta non può che poggiare sulle due stesse figure nelle quali si concretizza la crisi: intrecciando i due momenti critici, Arrighi sostiene che mentre nel primo caso è la caduta del saggio di profitto a generare, attraverso una diminuzio-

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ne della domanda di mezzi di produzione, la sovrapproduzione di merci, nel secondo caso sarebbe all’inverso la stessa sovrapproduzione di merci, e con ciò la mancata trasformazione del plusvalore in profitto, a causare la caduta del saggio di profitto. Ma c’è un secondo piano che bisogna prendere in considerazione, se si vuole scorgere davvero l’origine della crisi e la sua duplice articolazione, talora in caduta del saggio di profitto e talaltra in crisi di sovrapproduzione. Un piano, questo, rappresentato dal livello di remunerazione della forza-lavoro o, nel lessico marxiano allora impiegato da Arrighi, dal «tasso di sfruttamento»59 del lavoro vivo. Solo riferendosi a questa misura sarebbe realmente possibile comprendere la crisi capitalistica. Concepita in tal modo, la crisi da caduta del saggio di profitto dipenderebbe allora da un eccessivo livello di remunerazione (e, conseguentemente, di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che riduce la quota dei profitti disponibili per i capitalisti; la crisi di realizzazione, invece, andrebbe ricondotta al basso livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che, avendo scarsa possibilità di acquisto e di consumo, lascerebbe invenduta un’eccessiva quantità delle merci prodotte. Risalendo ulteriormente indietro nella catena dei nessi causali, da che cosa dipende infine il livello di remunerazione della forza-lavoro o, detto altrimenti, il tasso del suo sfruttamento? In un primo tempo la risposta di Arrighi si concentra unicamente sui «rapporti di forza tra lavoro e capitale»60. Sarebbe esclusivamente la lotta tra classe operaia e classe proprietaria a determinare il prezzo della forza-lavoro. Com’è stato notato, però, questa risposta sottovaluta «il nesso, altrettanto fondamentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecnologiche e la crescita delle pressioni competitive»61. Verrà messo in evidenza anche altrove62, infatti, che senza un’adeguata riflessio59

Ibid. Ivi, p. 11. 61 G. Cesarale, Le lezioni di Giovanni Arrighi, in G. Arrighi, Capitalismo e (dis) ordine mondiale, a cura dello stesso Cesarale e di M. Pianta, manifestolibri, Roma 2010, pp. 7-27: 12. 62 M. Pianta, Accumulazione, egemonia e crisi nell’economia mondo, in G. Vacca (a cura di), La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia in Italia negli anni Settanta e Ottanta, Carocci, Roma 2015, pp. 375-386, in particolare p. 380. 60

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ne riguardo all’impatto del progresso tecnico sulla produzione e sull’articolazione delle dinamiche concorrenziali diventa impossibile comprendere tanto la crescita quanto la recessione. Rimane da affrontare, a questo punto, il problema della risoluzione delle due tipologie di crisi, da caduta del saggio di profitto e da sovrapproduzione, generate, come detto, dalla lotta di classe e, in ultimo, dalla contraddizione di fondo che insidia il processo di accumulazione. In altri termini, è necessario distinguere valore storico e valore logico delle crisi: perché se la logica capitalistica è segnata dalla contraddizione originaria tra fine e mezzo dell’accumulazione, la storia capitalistica è contraddistinta dal conflitto tra proprietà e lavoro. E l’ipotesi di Arrighi è che questo conflitto sia in qualche modo determinato proprio dal pieno dispiegamento di una logica sociale. Sul piano storico, il discorso viene svolto a partire dal prisma interpretativo del processo di concentrazione della produzione63. La tesi fondamentale di Arrighi – anche qui in sostanziale sintonia con la teoria marxiana dello sviluppo – è che, acquisiti gli ovvi vantaggi di cui i salari godrebbero in un sistema a forte concorrenza intercapitalistica, l’accumulazione tenderebbe di per sé a distruggere questo tipo di concorrenza per accrescere progressivamente il grado di concentrazione del capitale. In questo senso, la Grande depressione del 1873-1896 – principale pietra di paragone rispetto alla crisi degli anni Settanta del Novecento – viene interpretata come periodo di «transizione del capitalismo a prevalente concorrenza a un capitalismo di prevalente monopolio»64. Ma concentrandosi e centralizzandosi, il capitale concentra e centralizza specularmente la classe operaia, favorendo l’accre63 Arrighi pensa la concentrazione capitalistica nella sua accezione marxiana. Nel Capitale (libro I, cap. 23), Marx osservava come «ogni capitale individuale» costituisca «una concentrazione più o meno grande di mezzi di produzione, con corrispondente comando su un esercito più o meno numeroso di lavoratori. Ogni accumulazione diventa mezzo di nuova accumulazione. Con la massa accresciuta della ricchezza funzionante come capitale, essa allarga la sua concentrazione nelle mani di capitalisti individuali, quindi la base della produzione su grande scala e dei metodi di produzione specificamente capitalistici» (K. Marx, Il capitale, Utet, Torino 2013, vol. 1, pp. 796-797). 64 G. Arrighi, Una nuova crisi generale. Dalla stag-deflazione, alla stag-flazione, cit., p. 11.

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scimento della sua compattezza65. Se infatti è vero che l’accumulazione capitalistica tende a distruggere la forza riflessa che la classe operaia guadagna in conseguenza di un ridotto livello di concentrazione della proprietà, la stessa induce insieme ad accrescere la forza autonoma che la classe operaia trae da un proprio elevato grado di concentrazione. Insomma, il processo di accumulazione del capitale ha un effetto ambivalente sul rafforzamento della classe operaia: perché determina la subordinazione del lavoro alla proprietà e, allo stesso tempo, produce lo sviluppo della forza-lavoro in posizione antagonistica. Ed è a partire dalla forte espansione industriale del secondo dopoguerra che, agli occhi di Arrighi, «il rafforzamento strutturale della classe operaia diventa la tendenza principale dell’accumulazione capitalistica»66. Così, all’inizio degli anni Settanta, questo rafforzamento avrebbe dovuto ostacolare la tendenza all’aumento del tasso di sfruttamento, facendo riemergere nei paesi del centro non già la sovrapproduzione, com’era accaduto nella crisi degli anni Trenta del Novecento, bensì la tendenziale caduta del saggio di profitto. Negli anni Settanta il capitale non poteva limitarsi a ingaggiare una competizione con la classe operaia destinata a danneggiare entrambe le parti, poiché ciò avrebbe innescato una spirale di concentrazione e centralizzazione votata a ricreare periodicamente nuovi margini di plusvalore attraverso un aumento della produttività. La classe capitalista ha quindi perseguito una strategia alternativa, basata su due pilastri: la ristrutturazione dei processi produttivi, in modo da riassorbire all’interno del profitto quei consumi improduttivi che si erano sviluppati in una fase precedente; il decentramento della produzione laddove i rapporti di forza tra proprietà e lavoro erano più favorevoli. Sono queste le due soluzioni mediante cui, nell’ultimo quarto del ventesimo secolo, il capitale reagisce alla stagflazione. 65 Per centralizzazione capitalistica Arrighi intende, sempre marxianamente, la «mutata ripartizione dei capitali già esistenti e funzionanti», il cui «campo di azione non è dunque limitato dall’aumento assoluto della ricchezza sociale, ovvero dai limiti assoluti dell’accumulazione» (cfr. K. Marx, Il capitale, cit., vol. 1, pp. 797-798). 66 G. Arrighi, Una nuova crisi generale. Dalla stag-deflazione, alla stag-flazione, cit., p. 12.

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Il primo strumento è consistito più precisamente in un intervento dello Stato, che, entro i suoi confini nazional-territoriali, ha promosso una redistribuzione del plusvalore in modo da favorire l’espansione dei consumi improduttivi. A mano a mano che i rapporti di forza tra proprietà e lavoro si spostavano a favore del secondo, premendo sul saggio di profitto, la proprietà era spinta a riassorbire i redditi “parassitari” all’interno del profitto. Ma la mossa di politica economica sui consumi interni non era sufficiente: si rendeva ormai necessaria una grande operazione imprenditoriale sul mercato. Le imprese si sono viste costrette, perciò, a decentrare la produzione verso le aree sottosviluppate. E così facendo, da un lato hanno ottenuto più profitto che nelle aree sviluppate e, dall’altro, hanno permesso la produzione di beni-salario e mezzi di produzione a costi più bassi. Accompagnato e favorito da un decentramento degli investimenti produttivi, lo sviluppo del commercio internazionale ha permesso in buona sostanza un “annacquamento” del prodotto sociale di un paese o di una regione, dove i rapporti di forza erano relativamente più favorevoli al lavoro salariato, con prodotti di paesi e regioni dove i rapporti di forza avvantaggiavano il capitale. Insomma, la tendenza al ristagno nelle aree economicamente avanzate si è combinata con un’accumulazione accelerata nelle aree arretrate. Ma Arrighi, con un occhio già proiettato sul medio e lungo periodo, prevedeva che la classe operaia si sarebbe rafforzata anche nelle aree sottosviluppate, dove il processo di capitalizzazione era in forte crescita. Egli riteneva che il decentramento produttivo fosse in qualche modo destinato a mettere in moto una tendenza allo sviluppo accelerato del proletariato industriale, anche nelle aree relativamente arretrate. Ne sarebbe seguito, quindi, un allargamento delle forze antagonistiche al capitalismo. Nel Poscritto del 1978 Arrighi individuerà il punto più debole della sua analisi proprio nell’eccessivo «schematismo»67 con cui Una nuova crisi generale aveva presentato l’ipotesi di una tendenza al rafforzamento strutturale e di lungo periodo della classe operaia a livello mondiale. Tale rafforzamento, rettificherà 67 Id., Poscritto a Verso una teoria della crisi capitalistica, in R. Parboni (a cura di), Dinamiche della crisi mondiale, cit., pp. 109-111: 111.

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Arrighi, non è lineare e uniforme, poiché dipende, oltre che dal modo di accumulazione e dominio, dalla composizione etnica della forza-lavoro e dalla sua formazione culturale. Resta però il fatto che i primi anni Settanta avevano aperto un bivio. Sotto la pressione della caduta del saggio di profitto, la classe capitalista aveva di fronte a sé due strade. Avrebbe potuto imboccare, come alla fine dell’Ottocento, la via della rottura dell’unità del mercato mondiale con vecchie e nuove forme di protezionismo, di un rafforzamento della proprietà a danno del lavoro, del riacutizzarsi dei conflitti tra borghesie di nazionalità diverse. O altrimenti avrebbe potuto orientarsi verso l’ulteriore integrazione del mercato mondiale, verso un più spinto decentramento dell’accumulazione, un ulteriore consolidamento del lavoro nei confronti della proprietà e, connesso a questo, un’acutizzazione dello scontro di classe. E di fronte a questo bivio, il capitale non poteva che scegliere, sia pure in modo contorto, la seconda via. Per una ragione essenziale: la forza strutturale che la dinamica capitalistica aveva sviluppato nella classe operaia. Una forza che, contrariamente a quella di fine Ottocento, era il risultato maturo dell’accumulazione e non il precipitato di un’epoca precedente. Per lo stesso motivo, malgrado i numerosi tratti di somiglianza tra la crisi degli anni Settanta del Novecento e la crisi verificatasi al termine del secolo precedente, Arrighi riteneva che l’esito sarebbe stato sostanzialmente diverso: non l’accentuarsi della tendenza alla sovrapproduzione, all’accentramento dell’accumulazione e alla guerra imperialistica, bensì il decentramento dell’accumulazione, l’ulteriore rafforzamento della classe operaia e l’acutizzarsi dello scontro tra lavoro e proprietà. * Seguendo il confronto arrighiano tra la crisi degli anni Settanta e quella del 1873-1896, abbiamo osservato le tendenze e le contraddizioni in seno al processo di accumulazione e ai meccanismi commerciali. Ma ora è venuto il momento di rendere conto di come Arrighi sostenesse che le tendenze sopra descritte avrebbero intensificato la lotta per il potere politico. E, a tale

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scopo, va preliminarmente chiarito quale fosse il suo giudizio complessivo nei confronti dello Stato. Sulla scia di Marx, nei suoi primi lavori il sociologo milanese avanza una concezione negativa e, in sintesi, strumentalistica dello Stato. Questo non rappresenta il regno del bene comune, ma l’istituzione di una parte: non è finalizzato al buon vivere di tutti, ma al ben vivere della minoranza che detiene il potere. Inoltre, lo Stato non è considerato da Arrighi come il luogo fondamentale nella determinazione delle tendenze socio-economiche complessive. Assunto in modo monolitico, senza un’adeguata considerazione per le forme di governo e di amministrazione, l’essenza dello Stato non sarebbe che un prodotto delle contraddizioni insite nella società capitalistica. E, anche per questo, la sua capacità di incidere su tali contraddizioni sarebbe fisiologicamente limitata. D’altronde, se le crisi non sono dovute ad aspetti secondari della dinamica economica né sono riconducibili a imperfezioni delle politiche volte a regolarle, bensì alla contraddizione fondamentale dell’accumulazione di capitale (la contraddizione tra il suo fine, la valorizzazione del capitale, e il mezzo con cui questo fine viene perseguito, lo sviluppo del carattere sociale della produzione), allora l’intervento dello Stato non può eliminare la tendenza alla crisi. «Lo Stato borghese» può al massimo «presiedere al processo di accumulazione, regolando lo sviluppo delle sue contraddizioni in modo da mediare tra i diversi interessi presenti in seno alla borghesia e soprattutto in modo da tutelarne gli interessi complessivi»68. Fin qui, in generale, lo Stato nel capitalismo. Quanto alla congiuntura degli anni Settanta, Arrighi riteneva che lo Stato fosse impotente nei confronti del tendenziale rafforzamento della classe operaia. Non potendo eliminare l’inclinazione alla crisi, trent’anni di intervento statale nelle società a economia avanzata avevano “semplicemente” contribuito a che l’aspetto principale delle crisi fosse la caduta del saggio di profitto. Ma anche qui, tale aspetto andava indagato nelle sue cause storiche più profonde: se la crisi di fine Ottocento era dovuta alla bassa concentrazione del capitale e all’incompleta subordinazio68 G. Arrighi, Una nuova crisi generale. Dalla stag-deflazione, alla stag-flazione, cit., p. 13.

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ne del lavoro alla proprietà (indici di immaturità del capitalismo), l’origine della crisi degli anni Settanta era ascrivibile alla forza collettiva che l’accumulazione del capitale aveva generato nella classe operaia (indice di maturità del capitalismo). Alla luce di tale storia, e qui il discorso rivela tutta la sua attualità, Arrighi riteneva che la crisi degli anni Settanta fosse sul punto di mettere in discussione la stessa struttura nazionale dello Stato. La nazionalità delle istituzioni statuali era resa problematica, in primo luogo, dall’aumento del grado di concentrazione e centralizzazione sia del capitale sia della classe operaia e, in secondo luogo, dalla tendenza al decentramento produttivo che accompagnavano l’accentuarsi della caduta tendenziale del saggio di profitto. Data la crescente interdipendenza delle varie economie, a giudizio di Arrighi, lo Stato-nazione rischiava di diventare: ostativo rispetto al libero dispiegarsi della concorrenza internazionale tra grandi imprese; inefficace in quanto strumento di regolazione del processo di accumulazione del capitale; incapace di promuovere la ristrutturazione delle politiche sociali. Eppure, al di là di questi difetti, lo Stato restava comunque lo strumento principale per ritardare o anticipare le tendenze economiche in atto. Uno strumento sul cui “utilizzo” si consumava la discordia tra i differenti settori della borghesia nazionale, diversamente colpiti dalle varie tendenze macroeconomiche. Perché una era la richiesta dei settori più deboli e un’altra, spesso opposta, era la pretesa dei settori più forti. Entrambi esigevano dal potere politico precise e corrispondenti linee di riforma, le quali a loro volta si scontravano, non solo sulla prassi ordinaria dell’attività legislativa, ma sullo stesso ruolo internazionale dello Stato. Mentre la linea dei settori avanzati della classe capitalista ambiva a un ridimensionamento dello Stato che avvantaggiasse le istituzioni pubbliche sovranazionali e gli organismi decentrati a livello regionale, la linea dei settori industriali relativamente deboli mirava a proteggere lo Stato dagli attacchi che gli provenivano dalla grande industria. Lo scontro tra le due componenti della borghesia, quindi, non riguardava soltanto l’ispirazione che avrebbe dovuto guidare le politiche dell’apparato statuale, ma anche la struttura di cui esso avrebbe dovuto dotarsi per poter perseguire la sua linea di condotta in modo efficace.

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E da che cosa dipendeva, in ultima istanza, il risultato della lotta per il potere tra le due frazioni della borghesia? Dalle forze sociali – proletariato e ceti intermedi – che ciascuna di esse sarebbe riuscita a mobilitare sotto la propria egida. In questo senso, funzionale alla mobilitazione, cioè all’allargamento del consenso sociale, era l’ideologizzazione politica. Ma era cruciale che l’egemonia si affermasse non tanto sui ceti intermedi quanto piuttosto sulla classe operaia. Specie per i settori avanzati dell’industria, quindi, nella lotta contro i settori imprenditoriali più arretrati sarebbe stato determinante l’appoggio politico di quest’ultima69. Osservato dal punto di vista della classe operaia, invece, il problema di fondo era un altro. Non consisteva nella contrattazione del prezzo della forza-lavoro, ma nell’acquisizione del controllo diretto sulla produzione sociale, in modo da trasformarne la finalità: dall’ottenimento del plusvalore capitalistico al soddisfacimento dei bisogni sociali. Per questo, Arrighi riteneva che la classe operaia, in forza dell’autonomia che traeva dalla crescita del suo peso strutturale, sarebbe entrata in rotta di collisione sempre più acuta con i settori avanzati del capitale, che pretendevano su di essa una salda egemonia. Ma qui, come del resto l’autore ammetterà nel già richiamato Poscritto70, l’analisi sconta l’alone di vaghezza e di astrattezza che accompagna la formula «classe operaia» in tutto il saggio. L’identità del proletario, infatti, non dipende solo dalla sua posizione strutturale, ma anche da fattori quali l’età, il genere, l’etnia, la nazionalità, la religione e altre caratteristiche naturali e storiche. 1.3. La geometria dell’imperialismo Com’è emerso nei due paragrafi precedenti, le prime opere di Arrighi erano inficiate da residui deterministici. Perché Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa individuava uno spazio nel quale venivano nettamente a divergere centro e pe69

Id., Una nuova crisi generale. Dalla crisi del capitale alla crisi rivoluzionaria, cit., p. 13. 70 Id., Poscritto a Verso una teoria della crisi capitalistica, cit., p. 111.

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riferia, mentre Una nuova crisi generale tentava di delineare “senza sbavature” un tempo nel quale si approfondivano progressivamente, con le crisi, le contraddizioni del capitalismo. Ebbene, nella Geometria dell’imperialismo, concluso nel settembre del 1977, pubblicato l’anno dopo da Feltrinelli e sempre nel ’78 in inglese da Verso, quella linearità deterministica comincia a incrinarsi. Dopo essersi dimesso dall’Università di Trento, nel 1973 Arrighi era approdato all’Università della Calabria. Era iniziato così un periodo nodale nella vita dello studioso milanese, perché a Cosenza aveva potuto riprendere le proprie indagini sul sottosviluppo, dirigendo un gruppo di ricerca interdisciplinare sul «capitalismo in un contesto ostile»71. Combinando le dimensioni micro e macro, le conclusioni salienti cui avevano condotto i suoi anteriori studi africanistici trovavano peraltro conferma: lo sviluppo capitalistico non richiede necessariamente la completa proletarizzazione della forza-lavoro; e le ondate migratorie non hanno inevitabilmente alle loro spalle un intervento di espropriazione terriera72. Ma quella cosentina è una fase cruciale anche perché Arrighi la utilizza per completare un lavoro estremamente ambizioso sulla categoria di imperialismo, che lo porterà alla ribalta nella comunità scientifica internazionale. Le riflessioni a riguardo erano iniziate nel 1969, occasionate da un seminario all’Università di Oxford73. E, col senno di poi, quell’«esercizio» intorno alla nozione di imperialismo si rivelerà agli occhi dello stesso autore come una «transizione verso la categoria di egemonia»74. 71 Cfr. G. Arrighi, F. Piselli, Il capitalismo in un contesto ostile. Faide, lotta di classe, migrazioni nella Calabria tra Otto e Novecento (1987), Donzelli, Roma 2017. La traduzione italiana del saggio pubblicato trent’anni prima su «Review» ha costituito la molla di un importante convegno su Arrighi, svoltosi all’Università della Calabria tra il 6 e l’8 giugno 2017 su iniziativa di Marta Petrusewicz e Beverly J. Silver. 72 Arrighi è tornato su questi punti, in riferimento al caso sudafricano e in dialogo con David Harvey, in Id., N. Aschoff, B. Scully, Accumulation by Dispossession and Its Limits: The Southern Africa Paradigm Revisited, in «Studies in Comparative International Development», vol. 45, 2010, n. 4, pp. 410-438. 73 Cfr. T.E. Reifer, World-systems Analysis and Giovanni Arrighi, in I. Ness, Z. Cope (a cura di), The Palgrave Encyclopedia of Imperialism and Anti-Imperialism, Palgrave Macmillan, New York 2016, pp. 1182-1190: 1183. 74 G. Arrighi, I tortuosi sentieri del capitale, intervista di David Harvey, in Id., Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., pp. 29-64: 38.

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Rinviando ai capitoli successivi la questione dell’egemonia, soffermiamoci ora sul tema intricato, e solo in parte superato, dell’imperialismo75. Conoscere la riflessione che Arrighi gli dedica negli anni Settanta è imprescindibile, infatti, non solo per comprendere la genesi della sua “svolta sistemica” nel decennio successivo, ma anche per intendere la struttura di quest’ultima, se è vero che proprio la categoria di egemonia, in cui l’analisi dell’imperialismo trova per così dire il suo compimento, apparirà la chiave più adatta per affrontare il problema delle transizioni da un ciclo economico-politico all’altro. Con una qualche approssimazione, si può affermare in prima battuta che il marxismo abbia per lo più concepito l’imperialismo come una dinamica di espansione dell’economia capitalistica di mercato oltre i suoi confini originari, ovvero al di fuori dell’Occidente industriale76. Per «imperialismo» si è a lungo inteso il processo con cui i paesi economicamente dominanti sono riusciti a riprodurre i propri meccanismi di sfruttamento e allargare lo spettro della loro incidenza, sottomettendo la forza-lavoro delle regioni industrialmente arretrate. Ma qual è il soggetto dell’imperialismo? All’interno di Adam Smith a Pechino77, il libro che nel 2007 conclude la trilogia avviata con Il lungo ventesimo secolo e proseguita con Caos e governo del mondo78, Arrighi fa un esplicito rinvio all’indietro di trent’anni. Già nel 1977, infatti, egli aveva cercato di smar75

La storia del termine «imperialismo» è relativamente recente. Si è affermato per la prima volta negli anni Settanta dell’Inghilterra vittoriana per designare la politica disraeliana di Imperial Federation, ma è solo a fine Ottocento che l’uso della parola si associa a uno studio sistematico di precisi fenomeni economico-politici. E le ricerche non si sono arrestate: oggi si vedano in particolare A. Callinicos, Imperialism and Global Political Economy, Polity, Cambridge 2009; E. Saccarelli, L. Varadarajan, Imperialism. Past and Present, Oxford University Press, New York 2015; U. Patnaik, P. Patnaik, A Theory of Imperialism, Columbia University Press, New York 2016. 76 Oltre a quella marxista, ci sono almeno tre letture dell’imperialismo: socialdemocratica (in special modo Kautsky e Hilferding), liberale (Schumpeter), e basata sulla teoria della ragion di Stato (Weber, Hintze e Dehio). Cfr. S. Pistone, voce «Imperialismo», in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Utet, Torino 2016, nuova ed. aggiornata, pp. 449-458. 77 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo (2007), Feltrinelli, Milano 2008. 78 Id., B.J. Silver, Caos e governo del mondo (1999), Bruno Mondadori, Milano 2006.

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carsi dalla vulgata che teneva banco nello stesso milieu marxista, lavorando al «superamento della confusione terminologica, prima ancora che concettuale, su cui si [era] arenata la ripresa del dibattito teorico sull’imperialismo»79. Si trattava allora di annullare o quantomeno di attenuare l’equivocità del termine, per non doverlo abbandonare, ma tentando invece il più difficile percorso di una ricostruzione della sua teoria. E il primo passo in questo senso non poteva che essere una chiarificazione del sostantivo, da intendersi come «un’estensione o un’imposizione di potere, autorità o influenza su altri Stati o su comunità ancora prive di ordinamento statale»80 da parte, non già dell’economia capitalistica nel suo complesso, ma degli Stati più potenti e delle loro leadership governativo-imprenditoriali. Ciò che aveva spinto Arrighi a una meticolosa chiarificazione era stata la constatazione che l’inservibilità del paradigma leniniano, tanto sul terreno ermeneutico quanto sul terreno della retorica politica, aveva coinciso, durante il trentennio seguito alla seconda guerra mondiale, con la sempre più evidente assunzione, da parte degli Stati Uniti, di un ruolo di primo piano nel sistema delle relazioni economiche e politiche internazionali81. Un ruolo che a molti non sembrava eccessivo chiamare «imperiale»: di qui l’esigenza, non già di una nuova teoria dell’imperialismo, che fosse all’altezza dei tempi, ma il tentativo di «ricostruire» la teoria imperialista. E nel Poscritto del novembre 1982 alla seconda edizione inglese della Geometria, Arrighi sarà molto attento nel precisare la «distinzione tra costruzione e ricostruzione di una teoria». Scegliendo la seconda, egli intendeva semplicemente esplicitare ciò che era dato per scontato, far riemergere ciò che era stato messo in ombra in una certa struttura, così da mostrare il carattere storicamente determinato di una data definizione. L’obiettivo era «disvelare le premesse 79 Id., La geometria dell’imperialismo. I limiti del paradigma hobsoniano, Feltrinelli, Milano 1978, p. 11. 80 Id., Adam Smith a Pechino, cit., p. 238. 81 Arrighi si richiama al Kuhn della Struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), laddove si legge: «La decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro, ed il giudizio che porta a quella decisione implica un confronto sia dei paradigmi con la natura, sia di un paradigma con l’altro» (Einaudi, Torino 2009, p. 104).

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inspiegate di una teoria con una visione che saggiasse la loro rilevanza storico-empirica». Un’operazione che «differisce nettamente da ciò che può essere chiamato costruzione di una teoria, la quale invece implica l’affermazione di premesse, la derivazione di ipotesi e l’adozione di specifiche procedure per valutare la loro validità storico-empirica». In altre parole, la Geometria non contiene una nuova teoria dell’imperialismo, ma è piuttosto una «prefazione a una teoria dell’egemonia mondiale»82: quella teoria che Arrighi elaborerà negli anni Ottanta e metterà a punto nei due decenni successivi. Ciò con cui anzitutto si confronta nel 1977 lo studioso italiano è lo sfondo del paradigma leniniano. Com’è noto, lo scoppio della Grande guerra aveva portato il rivoluzionario bolscevico a credere che fosse sul punto di crollare, non solo lo zarismo, ma l’intero sistema capitalistico mondiale. Da quel momento, per lui il concetto analitico decisivo era diventato quello di imperialismo, ossia la tendenza alla guerra tra gli Stati economicamente dominanti e politicamente rivali. L’imperialismo, secondo la blasonata formula di Lenin, sarebbe stato la fase monopolistica e ultima del capitalismo. Ma Arrighi riteneva che la definizione leniniana potesse essere interpretata in due modi: come «enunciato di fatto» o come «postulato d’identità»83. In altri termini, monopolismo e ultimatività potevano essere letti sia come i caratteri che storicamente avevano qualificato l’imperialismo in quanto determinata fase capitalistica, sia come elementi che necessariamente appartengono a una nozione di imperialismo dedotta da una lettura deterministica della storia. Conviene dunque disgiungere i tre termini articolati nella definizione di Lenin: monopolismo, imperialismo e capitalismo. Egli aveva saldato gli ultimi due, convinto com’era che l’imperialismo rappresentasse il tratto definitivo del sistema capitalistico mondiale, l’ultima tappa di una certa storia. A conferire forza alla tesi del nodo inscindibile tra imperialismo e capitalismo, Lenin aveva posto come premessa proprio la nozione di monopolismo. Era come se la trasformazione dell’economia, cui 82

G. Arrighi, The Geometry of Imperialism: The Limits of Hobson’s Paradigm, Verso, London 1983, p. 156. 83 Id., La geometria dell’imperialismo, cit., p. 12.

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l’espansione del capitale monopolistico aveva contribuito in maniera essenziale, non potesse che sfociare nell’imperialismo, cioè nella tendenza alla guerra tra Stati capitalistici. Sul presupposto di una necessità immanente allo sviluppo stesso del processo capitalistico, il monopolismo avrebbe portato come sua ineluttabile conseguenza all’imperialismo. La linea progressiva della storia prevedeva quella conclusione. Nel 1977 era tuttavia chiaro che l’enunciato leniniano circa l’arresto del processo capitalistico alla fase monopolistico-imperialistica fosse stato di fatto smentito, se non altro dalla storia del trentennio successivo al 1945. Secondo Arrighi, questo lasso di tempo avrebbe ulteriormente confermato, qualora mai ce ne fosse stato bisogno, che qualsiasi teoria, anche la più sofisticata, ha un valore relativo ed è incapace di includere in sé gli svariati aspetti di un fenomeno in piena evoluzione. Sotto questo profilo, peraltro, non era stato diverso l’atteggiamento di Lenin84, che era intenzionato ad ancorare all’analisi concreta dell’economia mondiale del tempo la sua polemica contro l’evoluzionismo di Kautsky, il quale riteneva sì che il monopolismo avrebbe portato all’imperialismo, ma non nella forma della competizione o della guerra tra Stati capitalistici rivali, bensì in quella di un’unione pacifica di Stati capitalistici dominanti. Ma il fatto che alla fine degli anni Settanta l’enunciato leniniano apparisse inservibile, come del resto è oggi, non lo rendeva inutile. Una prima lezione che poteva esserne tratta, e che non ha smarrito la sua attualità, dipende dalla sua capacità di testimoniare la subordinazione della teoria a una volontà politica. In questo senso merita particolare attenzione la Premessa della 84 Arrighi scorge in Lenin una contraddizione «sia con il proprio stesso avvertimento sul valore relativo e condizionale di ogni definizione, sia con l’indicazione di attenersi a definizioni storicamente determinate». Ma, prosegue, «l’ambiguità terminologica è parte integrante del paradigma leniniano» e deriva da una deliberata «confusione delle regole del lavoro scientifico con quelle del lavoro politico» (ivi, p. 19). In quest’ultimo, infatti, la teoria serve a «rassicurare» o «riprodurre e allargare il consenso» (ivi, p. 20). Nel contesto specifico, il postulato d’identità tra imperialismo e stadio monopolistico del capitalismo era un «tentativo di unificazione di tre rappresentazioni ideologiche diverse: quella dei popoli oppressi (cui fa riferimento il significante ‘imperialismo’), quella della classe operaia (cui fa riferimento il significante ‘capitalismo’) e quella della piccola borghesia contadina e artigiana (cui fa riferimento il significante ‘monopolistico’ e/o ‘finanziario’)» (ibid.).

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Geometria, allorché Arrighi delinea con nettezza le «regole del lavoro politico», quelle del «lavoro scientifico» e stabilisce una vera e propria «incompatibilità di fondo» tra le due85. Lenin aveva agito in nome del primato della logica e della retorica politiche, mentre il sociologo italiano giura fedeltà alle regole del lavoro scientifico e, dunque, sceglie di trasferire i problemi sul piano dell’analisi concettuale. La presa di posizione di Arrighi, però, non vuol essere semplicemente contro Lenin. Egli intende piuttosto andare oltre il rivoluzionario bolscevico, risalendo alle fonti tanto della sua teoria dell’imperialismo quanto della sua disputa con Kautsky, ossia principalmente al Capitale finanziario di Rudolf Hilferding (1910) e all’Imperialismo di John Atkinson Hobson (1902). E se il saggio arrighiano si sofferma quasi esclusivamente sul secondo, lo si deve in sostanza a due ragioni: l’economista inglese era stato il primo a formulare una definizione storicamente fondata di imperialismo e, inoltre, non aveva asservito l’indagine scientifica a una logica politica. A differenza di Lenin, egli aveva voluto definire nel modo più univoco possibile il concetto in questione, sottraendosi alla tendenza prettamente politica di oscurare, espandere o distorcere il suo significato. Sul piano della diagnosi, i due discordavano essenzialmente su tre punti. La prima differenza dipendeva dalle diverse preoccupazioni che li animavano: evidenziare le tendenze che avrebbero condotto alla prima guerra mondiale, nel caso di Hobson; mostrare la precarietà della pace che ne sarebbe seguita, nel caso di Lenin. La seconda differenza era legata alla circostanza che la teoria di Hobson si riferiva in modo specifico all’Inghilterra di fine Ottocento, mentre quella di Lenin teneva conto anche della condizione socio-economica tedesca di primo Novecento e per questo faceva riferimento alle diagnosi di Hilferding. Di qui il diverso accento posto dai due sul ruolo giocato dalla concen85 Ivi, p. 9. Nelle prime pagine della Geometria dell’imperialismo, tra gli altri, Arrighi ringrazia il filosofo politico Salvatore Veca, autore nel 1977 del Saggio sul programma scientifico di Marx (il Saggiatore, Milano), ma in modo speciale Romano Madera, compagno d’avventura nel Gruppo Gramsci, per averlo portato alla consapevolezza della divergenza tra le regole del lavoro politico e quelle del lavoro scientifico.

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trazione capitalistica nel favorire l’ascesa dell’imperialismo: secondario in Hobson, assumeva una funzione decisiva nell’analisi di Lenin. Ma se fin qui le discrepanze dipendono dalla diversa angolatura spazio-temporale da cui erano osservati i fenomeni imperialistici, la terza differenza consiste nella confutazione leniniana della tesi di Hobson (che, sul lungo periodo, si rivelerà invece corretta) secondo cui, nel regime capitalistico, la tendenza al sottoconsumo si sarebbe potuta invertire. Proprio l’individuazione di questa tendenza sarà uno dei motivi che conferiscono maggiore attualità al paradigma hobsoniano piuttosto che a quello leniniano: perché Hobson, anticipando Keynes, considera esattamente la tendenza al sottoconsumo come la radice principale dell’imperialismo. I tre punti evidenziati sin qui sono senz’altro rilevanti, eppure ciò che più allontana Lenin da Hobson non è l’impostazione teorica di quest’ultimo, ma le sue conclusioni sul terreno della prassi politica. Dunque, ripetiamo, per Arrighi scegliere Hobson come punto di partenza di una ricostruzione della teoria dell’imperialismo non significa soltanto risalire a una delle fonti del pensiero scientifico di Lenin in materia, bensì anche e soprattutto prendere inequivocabilmente posizione per il lavoro scientifico, per la «volontà di sapere» anziché per la «volontà di potere»86. La Geometria di Arrighi si propone di riportare a galla la «struttura tipico-ideale»87 presupposta dalla nozione hobsonia86

G. Arrighi, La geometria dell’imperialismo, cit., p. 24. Nell’Introduzione alla sua Geometria Arrighi chiarisce insieme la propria ontologia sociale e la propria epistemologia, che la “svolta sistemica” lascerà in sostanza intatte. Egli si pone a metà strada tra l’idealtipo weberiano e le costruzioni dello strutturalismo francese (viene citato in particolare il Gilles Deleuze di À quoi reconnaît-on le structuralisme? (1973), trad. it., Lo strutturalismo, SE, Milano 2004). Arrighi scrive di «struttura tipico-ideale» (ivi, p. 26), consapevole così di imporre alla realtà «una struttura che non le è “propria”, ma che deriva da una “nostra” concezione del mondo (idee di valori culturali) e da un nostro concreto volere e sentire». Ma il fatto che egli non creda all’esistenza di «una caratteristica insita nelle cose stesse», non toglie, bensì costringe all’astrazione. Una costruzione tipico-ideale, infatti, «deve essere in grado di ordinare, in un quadro concettuale univoco, quei grandi eventi che in una data epoca vengono generalmente considerati rilevanti rispetto al fenomeno preso in esame. Il riferimento al dato empirico, dunque, ha sempre un significato, oltre che di esemplificazione della costruzione tipico-ideale, anche di verifica della sua rilevanza e univocità. Non si tratta, si badi bene, della verifica di un’ipotesi», bensì di «verificare dove e fino a che punto una data struttura tipico-ideale è in grado di ordinare in modo univoco ipotesi ritenute rilevanti» (ivi, p. 28). 87

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na di imperialismo. Egli non si occupa di individuare le ragioni che presiedono alla costruzione degli imperi. Non si addentra nel problema di stabilire se questi siano il risultato della ricerca di sbocchi di mercato oppure di investimenti di sovra-capitale, se siano l’esito della razzia di materie prime oppure di risparmio sul costo del lavoro. Arrighi non espone una sua teoria, ma rielabora la dottrina hobsoniana per trarre un nuovo ordine concettuale. Vengono così richiamati l’impero formale, il colonialismo, l’impero informale e l’imperialismo tout court, come se fossero quattro «coordinate storico-geografiche» di riferimento. E qui l’elemento geografico va assunto in senso forte, quale indice di una spazialità tabulare, ossia metrica, lineare e striabile a seconda della volontà politica dello Stato88. Come vedremo, infatti, la direttrice più promettente del testo arrighiano emerge proprio nella tensione, mai risolvibile a priori e una volta per tutte, tra questa spazialità prettamente moderna e i diversi regimi di temporalità cui pure le coordinate appena richiamate si riferiscono. Veniamo quindi alle quattro tipologie di ordine lato sensu imperialistico. La prima, che consiste in un ordine gerarchico di Stati finalizzato a garantire una pace universale, è la tipologia dell’impero formale. Si tratta di un ordine politico che intende porsi al di sopra del riconoscimento delle diverse nazionalità e che perciò, concomitante l’ascesa tra Sette e Ottocento dello Stato nazionale, ha conosciuto un progressivo declino. Da questo punto di vista, l’imperialismo napoleonico rappresenta forse l’ultimo grande tentativo di instaurare un impero formale sovranazionale. La seconda tipologia, che fa perno sul concetto di nazione, è quella dell’imperialismo nazionalista, o coloniale. Secondo Arrighi, questo non rappresenta altro che l’espansione di parte di una nazione su territori a bassa densità di popolazione. Il colonialismo designerebbe dunque l’espansione territoriale di una nazione, della sua lingua, della sua religione, e, più in generale, della sua cultura. 88

In Spazio vissuto: spatial turn e «segni dei tempi», ultimo capitolo della terza edizione ampliata del suo Dopo il Leviatano. Individuo e comunità (1995), Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 448-468: 449, Giacomo Marramao descrive invece l’odierno «ribaltamento paradigmatico dallo spazio euclideo allo spazio topologico». In questo senso sono fondamentali anche le letture di Franco Farinelli, in particolare nel suo La crisi della ragione cartografica, Einaudi, Torino 2009, e di Carlo Galli, in Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, il Mulino, Bologna 2001.

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Poi viene l’impero informale, cui di fatto corrisponde la politica estera liberoscambista dell’Ottocento britannico. Arrighi chiama «impero informale» questo tipo di internazionalismo allo scopo di mettere in risalto, da un lato, il carattere pacifico che lo accomuna all’idea di impero formale e, dall’altro, il carattere impersonale e formalmente egualitario, che è invece una caratteristica del tutto specifica. Solo infine si ha l’imperialismo in senso stretto. Un termine con cui viene designato «un evento storicamente determinato: la trasformazione del nazionalismo, che aveva dominato la scena internazionale tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento, in una tendenza generale all’espansione degli Stati al di fuori dei loro confini nazionali»89. Arrighi vuole dunque caratterizzare l’espansionismo degli ultimi decenni dell’Ottocento, che non corrisponde all’espansione antagonistica di una nazione. Si tratta ormai dell’espansione del potere politico e istituzionale su territori vicini o lontani, abitati da popoli troppo diversi per poter essere assimilati e troppo coesi per poter essere risolutivamente calpestati. In altre parole, nel corso dell’espansione imperialistica, del binomio Statonazione è lo Stato, non la nazione, ad allargarsi. Ma l’imperialismo si distingue anche dall’imperialismo informale del libero-scambio. Ambedue gli ordini si basano sulla concorrenza internazionale, ma si tratta di due tipologie molto diverse: nel caso dell’imperialismo informale, la concorrenza è economica, poiché riguarda i rapporti tra individui e aziende di varia nazionalità e si esprime nella divisione mondiale del lavoro; nel caso dell’imperialismo, invece, la concorrenza è innanzitutto politica, poiché concerne i rapporti tra gli Stati e si manifesta nella corsa agli armamenti e all’espansione territoriale. Dunque mentre l’imperialismo informale comporta una condizione di interdipendenza tra le economie nazionali, l’imperialismo implica una contrapposizione politica tra gli Stati-nazione. Ecco i termini del paradigma hobsoniano per come è ricostruito da Arrighi. Ma, secondo lui, queste coordinate non sono ben integrate tra loro. Le tipologie di imperialismo gli appaiono isolate l’una dall’altra ed egli le avverte come scivolare su uno 89

G. Arrighi, La geometria dell’imperialismo, cit., p. 33.

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sfondo incerto. Di qui l’esigenza di una nozione di imperialismo più ferma. Con un passaggio che risulterà decisivo all’interno del suo percorso teorico, Arrighi introduce allora la nozione di egemonia, fissandola sullo sfondo del sistema internazionale. L’idea di egemonia è più comprensiva e può includere al suo interno, come determinazioni storiche, tutte le tipologie di imperialismo previste dal modello di Hobson. Dopo averle ricostruite, Arrighi provvede dunque ad animarle, facendole interagire in quello che, nel Lungo ventesimo secolo, verrà chiamato «ciclo egemonico». È quindi la nozione di matrice gramsciana a sciogliere l’impasse in cui si era arenata l’indagine sul concetto di imperialismo. Tuttavia la difficoltà di definire quest’ultimo non dipendeva solo dall’opacità dello sfondo storico e dall’arbitrarietà delle determinazioni concettuali, ma in buona parte anche dalla natura peculiare dell’imperialismo stesso, che Lenin aveva individuato nella pratica di imperi in lotta l’uno con l’altro. Lo scontro, come del resto la concorrenza, è un oggetto di per sé intricato, che Arrighi ritiene possibile chiarire diacronicamente e sincronicamente solo grazie alla nozione di egemonia. Questa può allora essere pensata secondo la seguente concatenazione: imperialismo nazionalista → imperialismo formale → imperialismo informale → imperialismo tout court. Una successione che, storicamente, avrebbe caratterizzato i due secoli e mezzo di dominio inglese sul mondo. L’ascesa dell’Inghilterra a potenza egemonica mondiale si colloca tra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo, a seguito di un periodo di anarchia e conflitti epidemici. Sono i Navigation Acts, dal 1651 in poi, a condurre l’Inghilterra a una guerra contro l’Olanda, potenza egemonica dell’epoca: in sostanza i Paesi Bassi saranno di lì a non molto ridotti a protettorato inglese. La prima fase di imperialismo, che vede espandersi e irrigidirsi il dominio coloniale, si conclude con la Guerra dei sette anni, dal 1756 al 1763. La seconda fase dell’egemonia inglese, rappresentata dall’impero formale, coincide con la reazione alla rivolta dei coloni americani. La terza fase, l’impero informale, si può racchiudere tra il 1830 e il 1870. La politica estera della potenza egemonica si indirizza all’interscambio pacifico di beni e idee come principio e pratica regolatori dei rapporti

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internazionali. Detto altrimenti, l’egemonia inglese ricorre alla mediazione delle forze impersonali del mercato per consolidare e riprodurre su scala allargata la propria influenza sul mondo. Ma a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento il carattere internazionalista dell’impero informale inglese inizia a scricchiolare. E quando nel 1902 Hobson scrive, del passato impero informale è rimasto appena il fantasma: la realtà è tutt’altra, quella di una spietata lotta tra Stati imperialistici. La politica espansionistica inglese converge perciò con quella di altre grandi potenze verso una nuova situazione di anarchia e guerra universali. * È proprio a questo punto che Arrighi evoca l’ipotesi di un raddoppiamento della concatenazione di quegli imperialismi che la storia inglese aveva conosciuto. La questione riguarda l’eventualità che, dall’inizio del Novecento al 1977, sia stata effettivamente replicata la successione che aveva caratterizzato i due secoli e mezzo di egemonia inglese sul mondo: imperialismo nazionalista → impero formale → impero informale → imperialismo tout court. Per la prima volta nel discorso arrighiano, prende così forma un vero e proprio ciclo egemonico. E nella prospettazione di un raddoppiamento dell’egemonia inglese da parte degli Stati Uniti è la forma stessa della teoria arrighiana a farsi circolare, manifestando una visione ciclica del divenire storico. Arrighi nota prima di tutto l’accelerazione nel processo di successione degli imperialismi: in poco più di mezzo secolo (dallo scoppio della Grande guerra nel 1914 fino al termine degli anni Sessanta), l’egemonia statunitense avrebbe compiuto un percorso concettuale (dall’imperialismo nazionalista all’apogeo di quello formale) che nel ciclo egemonico precedente era durato più di un secolo e mezzo (dalla promulgazione degli Atti di navigazione agli anni Venti dell’Ottocento). Dall’inizio degli anni Settanta del Novecento, invece, l’egemonia statunitense ha raggiunto la fase dell’imperialismo informale e, data l’accelerazione con cui sembrano dipanarsi gli eventi, Arrighi è tentato di concludere circa l’imminenza di una nuova fase di imperialismo tout court, un ulteriore periodo di anarchia e guerra.

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Insomma, definitivamente tramontata l’egemonia inglese, l’imperialismo ha assunto di nuovo, all’interno dell’egemonia statunitense, un significato prima nazionalista, poi formale e, in un terzo momento, informale. Il requisito fondamentale perché un paese possa dirsi egemonico è la sua capacità di rappresentare l’epicentro dell’accumulazione mondiale: condizione, questa, che gli Stati Uniti hanno raggiunto con una forte crescita della concentrazione capitalistica e che hanno rafforzato con un trentennio di economia bellica. Resta da vedere, scrive Arrighi nel 1977, se l’imperialismo statunitense possa in qualche modo rimanere stabile o se invece il raddoppiamento dell’esperienza ottocentesca debba inesorabilmente completarsi con una transizione verso la quarta e più dura fase del ciclo imperialistico. La difficoltà di giungere a quello stesso sbocco dipende innanzitutto dalla destrutturazione dello Stato che aveva preso avvio negli anni Settanta, cominciando a scalfire anche quella spazialità che aveva presieduto al processo di costruzione della forma-Stato90. Nei processi di territorializzazione, centralizzazione e nazionalizzazione che lo hanno costituito, lo Stato rifletteva una matrice spaziale tabulare tipicamente moderna. Perciò è di estremo interesse il fatto che, nel richiamare l’integrazione globale dei mercati capitalistici, la Geometria di Arrighi faccia comparire una «terza dimensione»91. Il discorso arrighiano si palesa così nella sua irriducibilità non solo allo schema deterministico-lineare, ma anche a quello ciclico o semplicemente circolare (paventato dal rischio di un perfetto raddoppiamento del ciclo egemonico britannico da parte dell’egemonia statunitense). La teoria arrighiana non è più né lineare né circolare, ma è costretta dalla «terza dimensione» a rinnovare la propria forma. Negli anni Novanta sarà l’idea stessa di sistema a incarnare quell’orizzonte tridimensionale atto a comprendere al meglio la modernità e la contemporaneità globale. Ma i prodromi della 90 Di «declino della fiducia nella territorialità» ha scritto, in relazione agli anni Settanta, lo storico di Harvard Charles S. Maier in un saggio famoso: Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in C. Pavone (a cura di), Novecento. I tempi della storia, Donzelli, Roma 1997, pp. 29-56. 91 G. Arrighi, La geometria dell’imperialismo, cit., p. 92, sgg.

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futura “svolta sistemica” devono essere rintracciati nel Quarto capitolo della Geometria dell’imperialismo. Qui infatti – e la cosa aggiunge un ulteriore motivo di interesse – si afferma come l’elemento capace di incrinare la matrice spaziale dello Stato, nonché delle pratiche di sapere ad esso conformate, sia un elemento secolare: il capitalismo. Per la prima volta viene stabilito il nesso teoreticamente più profondo, quello tra imperialismo e capitalismo. Se l’Arrighi africanista aveva inteso quest’ultimo come un assetto economico-politico che comportava la divaricazione gerarchica tra centro e periferia; se nei primi anni Settanta lo aveva concepito come un processo storico contraddittorio e in qualche modo linearmente predeterminato; ora il capitalismo viene compreso secondo uno schema non lineare, lasciando maggiore spazio non solo a fattori geografici e storici ma anche, evidentemente, alle contingenze politiche. In questo caso la politica è internazionale, perché tale è il carattere originario che Arrighi assegna al capitalismo. Un complesso che non è affatto confinabile nelle coordinate territoriali dello «Stato cartografico»92: queste possono, al più, designare fenomeni di natura commerciale, ma il mercato, come vedremo, pur appartenendo all’insieme dei fenomeni capitalistici, non li esaurisce. Se il capitalismo è così difficile da rappresentare, dunque, è perché la cifra che lo contrassegna non è riducibile né al piano dello scambio né al piano dell’espansione dello Statonazione. Ecco il risultato ultimo nella ricognizione arrighiana sull’imperialismo. Ma questo risultato non è comprensibile fino in fondo senza chiamare in causa la mediazione che riconduce l’imperialismo al capitalismo, ossia la finanza. E nell’indicazione delle tendenze che avrebbero trasformato l’Inghilterra da potenza libero-scambista in potenza imperialista tout court, Arrighi si muove ancora una volta nel solco tracciato da Hobson. Era stato lui, infatti, a spiegare come sul finire dell’Ottocento l’interesse della nazione inglese fosse inequivocabilmente libero-scambista. Da che cosa dipese, dunque, la svolta imperialista? Da null’altro che non fos92 J. Branch, The Cartographic State. Maps, Territory, and the Origins of Sovereignty, Cambridge University Press, Cambridge 2014.

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se l’affermazione di interessi particolari, il cui “peso specifico” era basato sulla grande concentrazione di ricchezza e sulla stringente coesione dei gruppi che ne erano portatori. Insomma, la svolta andava imputata a un insieme di forze che Hobson designò coi termini finance, money-lending classes, financial plutocracy, ecc., e che Arrighi riassume nell’espressione «capitale finanziario»93. È l’alta finanza il soggetto da indagare. Alta finanza che presenta, secondo Hobson, due caratteristiche principali: in omologia con la natura stessa del capitalismo storico, è un’entità sovranazionale che non appartiene al piano definito dall’espansione dello Stato-nazione; benché non appartenga allo Stato, essa influisce in modo determinante sulle sue politiche. In quanto intermediaria tra domanda e offerta di mezzi monetari, l’alta finanza tende a trasformare l’eccesso di liquidità presente sul mercato in domanda di nuove opportunità di investimento e cioè, principalmente, in domanda di indebitamento e di espansione territoriale dello Stato. Ma Arrighi, seguendo l’impianto hegelo-marxiano, parla anche di una «contraddizione dell’alta finanza stessa»94. In quanto incarnazione del capitale-denaro, essa non sarebbe dotata di una concorrenzialità specifica e, per la protezione dei propri investimenti passati come per la creazione di nuove opportunità di intermediazione e speculazione finanziaria, dipenderebbe in ultima istanza dall’espansione del potere politico di una o più potenze al di fuori dei loro confini nazionali. Al tempo stesso però – e qui la contraddizione entra nel vivo – la finanza deve impedire che la concorrenza tra gli Stati, alimentata dalla sua stessa espansione, degeneri in una guerra universale, che finirebbe per distruggere le sue stesse attività patrimoniali. Tuttavia, pur servendosi del concetto di finanza per spiegare il rapporto tra capitalismo e imperialismo, nel 1977 Arrighi non gli conferisce un valore determinante nelle tendenze economiche di quel momento. Perché ritiene che, tra la terza e la quarta fase dell’egemonia statunitense, nel bel mezzo della crisi da caduta del saggio di profitto, siano le multinazionali a giocare il ruolo deci93 94

G. Arrighi, La geometria dell’imperialismo, cit., p. 96. Ivi, p. 102.

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sivo. Quel «fattore anonimo [che] era l’alta finanza»95, per usare le parole di Karl Polanyi, viene collocato nell’orizzonte d’azione delle grandi compagnie mercantili del passato, dalle quali le imprese multinazionali si distinguono innanzitutto per un diverso rapporto con la divisione mondiale del lavoro: le prime vi influivano in modo mediato e indiretto, le seconde in modo immediato e diretto. E si tratta di una diversità che, a giudizio di Arrighi, corrisponde grosso modo alla differenza tra mercato e impresa, in quanto modi di coordinamento della divisione del lavoro: nel mercato il coordinamento è anarchico e informale, nell’impresa gerarchico e formale. In conclusione, mentre l’impero informale dell’Ottocento inglese era stato un fenomeno instabile, destinato a trasformarsi in anarchia e guerra universale, l’impero informale del Novecento statunitense rappresentava, secondo Arrighi, una tendenza differente. Perché se il primo era essenzialmente un sistema di libero scambio, la pax americana, nonostante i fraintendimenti cui era costantemente soggetta, era in realtà un sistema di libera impresa piuttosto che di libero mercato. E dopo essere stato subordinato al potere del capitale finanziario sovranazionale tra Otto e Novecento, quest’ultimo era ormai sempre più soffocato dall’ingigantirsi di imprese multinazionali e poi transnazionali. * Riassumendo, Arrighi ha tentato di distinguere e portare alla luce i diversi significati di uno stesso lemma, «imperialismo», per mezzo di una serie di «griglie concettuali», la cui funzione è consistita nell’ordinare, sincronicamente e diacronicamente, i fatti più rilevanti cui il termine era solitamente riferito. Egli ha mostrato in primo luogo che, sovrapponendo ai dati una griglia unidimensionale, è possibile attribuire loro un ordine lineare. Utilizzando una griglia bidimensionale, si possono riconoscere ben quattro significati di imperialismo, tutti sussumibili sotto la nozione di egemonia. Inoltre, mediante un’operazione analogica è possibile attribuire alle tendenze egemoniche un ordine 95 K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino 2000, p. 13.

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ripetitivo, conferendo così alla teoria una forma circolare. Ma ripetitività e circolarità, prosegue Arrighi, dipendono unicamente dal carattere bidimensionale della griglia utilizzata: introducendo una terza dimensione, la ripetitività si mostra associata all’evoluzione. Siamo così alle soglie del concetto di sistema: il libro pubblicato nel 1978, infatti, si chiude facendo segno a una direzione ancora «tutta da esplorare»96. Egli ha creato sì un «ordine simbolico»97 in cui confrontare e rendere commensurabili fasi storiche diverse, ma ha soprattutto mosso i passi decisivi, sia dal punto di vista dell’analisi economico-politica sia dal punto di vista epistemologico, verso la sua futura prospettiva d’analisi. 1.4. Economia-mondo e crisi egemonica L’ultimo testo che vale la pena di citare prima di inoltrarci nell’esame della fase sistemica è un intervento del 1982, intitolato Una crisi di egemonia. Arrighi si era avvicinato ai teorici dei sistemi-mondo mentre viveva in Calabria. Lì era cominciato un fecondo sodalizio, di cui quel saggio è una delle prime e più brillanti testimonianze. In realtà, non si tratta che di un capitolo pubblicato all’interno di un volume collettaneo che ebbe un’eco internazionale: Dynamics of global crisis, curato da Arrighi stesso insieme a Samir Amin, Andre Gunder Frank e Immanuel Wallerstein98. Quando il testo vide la luce, lo studioso non abitava più in Calabria: nell’82, infatti, si era trapiantato ormai definitivamente negli Stati Uniti, dove tre anni prima era stato chiamato come professore di Sociologia alla State University di New York. Il senso del saggio appare chiaro fin dal titolo. La categoria decisiva per la comprensione delle relazioni politiche internazionali non è più l’imperialismo, sulla cui “consumazione” si giocava tutto l’argomentare della Geometria. Bisogna invece recuperare, estendendone la portata al di fuori dei confini statuali, la nozione

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G. Arrighi, La geometria dell’imperialismo, cit., p. 125. Ivi, p. 126. 98 S. Amin, G. Arrighi, A.G. Frank, I. Wallerstein, Dynamics of global crisis, MacMillan, London 1982. 97

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gramsciana di egemonia99. La traccia maggiormente interessante, infatti, è l’inscrizione sempre più organica del capitalismo mondiale sotto la guida di una egemonia statuale. Ma il saggio dell’82 contiene un altro elemento significativo per la formazione del maturo lessico arrighiano. Non è solo il primo testo in cui viene portata a compimento la metamorfosi categoriale nella lettura dei rapporti internazionali – metamorfosi anticipata l’anno prima, quando Arrighi, scrivendo su Multinazionalizzazione e ingovernabilità dell’economia mondiale, aveva parlato sia del «governo federale americano che agiva nell’ambito del mondo capitalista come uno Stato al di sopra di altri Stati»100, sia del «declino dell’egemonia americana»101. Una crisi di egemonia è anche e soprattutto il primo luogo in cui l’ormai generico termine «capitalismo» viene sostituito da un’espressione assai più impegnativa: «economia-mondo capitalistica». Una formula che è mutuata, con tutta evidenza, dalla terminologia di Wallerstein e che Arrighi utilizza per indicare «quell’unico sistema mondiale definito dalla divisione mondiale del lavoro»102. Di certo i due nuovi elementi della teoria arrighiana – egemonia ed economia-mondo – non sono ancora bene integrati all’interno di uno schema analitico unitario. Ma a prescindere dal modo ancora troppo generico con cui a quest’altezza viene intesa la loro relazione, il concetto di egemonia non serve solo a raggiungere il paradigma sistemico in generale, bensì anche ad adottare un paradigma sistemico specifico, che fin dall’origine si vuole immune ai rimproveri tradizionali cui il concetto classico di sistema è sempre stato esposto. Se infatti il sistema è stato e tuttora è sovente inteso come un ordine fermo e naturale, porre alla sua origine una nozione intrinsecamente mobile e artificiale, come quella di egemonia, comporta un eloquente mutamento di prospettiva. Se è l’egemo99

Nella sterminata letteratura, si può cominciare da G. Vacca, Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci, Einaudi, Torino 2017, pp. 21-93. 100 G. Arrighi, Multinazionalizzazione e ingovernabilità dell’economia mondiale, in «Politica Internazionale», n. 4-5, 1981, pp. 74-81: 74. 101 Ivi, p. 78. 102 Id., Una crisi di egemonia, in R. Parboni (a cura di), Dinamiche della crisi mondiale, cit., pp. 153-201: 201.

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nia a muovere verso il sistema, allora questo non potrà essere inteso come un edificio coerente e organizzato secondo massime generali e astratte. D’altronde, stando al suo etimo, la parola «egemonia» non significa solo “spingere in avanti” gli altri, ma anche guidarli, condurli, indicare loro una rotta: tale nozione ha cioè a che fare non solo con una dimensione genericamente esperienziale, ma anche con una dimensione teorica. L’egemone ha il potere di muovere le forze altrui in quanto sa vedere e riconoscere un preciso percorso come funzionale ai propri interessi e, in secondo luogo, in quanto sa suscitare, intorno a esso, la percezione di una convenienza più generale. Ora, rinviando al prosieguo del testo per la rilettura arrighiana della distinzione operata dal Gramsci dei Quaderni tra egemonia e dominio sulla base dell’assommarsi o meno del consenso alla coercizione, basti qui ricordare come a fondamento dell’esigenza sistemica di Arrighi vi sia una nozione che esprime insieme movimento, conoscenza e volontà politica. Il sistema cui egli pensa non potrà configurarsi come un ordine statico a riparo dal caos, come una totalità che si auto-organizza, un cosmo di stampo tecnico-amministrativo. E questa peculiarità del pensiero sistemico arrighiano si scorge già nel saggio del 1982, laddove vengono storicamente rinvenuti tre cicli egemonici (olandese, britannico e statunitense), benché l’attenzione venga riservata quasi esclusivamente all’ultimo. Ma quali sono i motivi e gli aspetti di crisi dell’egemonia statunitense? In proposito Arrighi distingue una crisi formale e una crisi sostanziale. La crisi formale consiste nello smantellamento degli «ordinamenti istituzionali, coordinati e gestiti dallo Stato, in cui la supremazia militare e finanziaria degli Stati Uniti si è cristallizzata dopo la seconda guerra mondiale, e in cui si è inquadrata l’accumulazione capitalistica postbellica». Ebbene, questa crisi, che in definitiva riguarda l’impero formale, è composta a sua volta da due fasi. «Fra il 1968 e il 1973, mentre la crisi monetaria distrugge la parità oro-dollaro, che aveva dato agli Stati Uniti il potere di regolare la liquidità mondiale, la sconfitta in Vietnam distrugge, in patria e all’estero, la legittimità di cui il governo americano e gli organi associati avevano precedente-

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mente goduto nel promuovere, politicamente e militarmente, il sistema di libera impresa in tutto il mondo capitalistico». Dopo il 1973, viene a galla la seconda fase della crisi formale: «il dominio formale statunitense sui rapporti finanziari e militari del mondo capitalistico viene in larga misura sostituito dal dominio informale delle forze di mercato». Si tratta però di un dominio mercatista inequivocabilmente caratterizzato da una notevole instabilità istituzionale. Per quanto invece concerne la crisi sostanziale dell’egemonia statunitense, bisogna notare come uno dei principali obiettivi dell’egemonia formale postbellica fosse il ripristino del governo sull’economia-mondo capitalistica. Gli Stati Uniti rappresentavano probabilmente il paese meglio attrezzato per partecipare vantaggiosamente all’esercizio di un’egemonia mondiale informalmente organizzata e aziendalmente mediata. Se tuttavia Arrighi parla di «crisi degli aspetti sostanziali dell’egemonia statunitense, è perché il dominio del mercato ha mostrato disfunzioni che ne pregiudicano la stabilità». Disfunzioni che il sociologo italiano riconduce all’«indisciplina della periferia, del capitale e del lavoro»103. Negli anni Settanta gli Stati Uniti, in quanto egemone che struttura il sistema-mondo capitalistico, incontrano dunque difficoltà sempre maggiori nel risolvere il caos dell’ambiente, tanto al loro esterno quanto al proprio interno. La strada verso un regime stricto sensu imperialista è impervia e, d’altra parte, l’impero informale vacilla. Ma il declino dell’egemonia statunitense sarà ben più lungo e incerto di quanto Arrighi lasciasse presagire quando, ancora all’inizio degli anni Ottanta, sosteneva che il quinquennio seguito al Sessantotto avrebbe portato al «crollo totale del dominio imperiale americano»104.

103 104

p. 79.

Ivi, p. 167. Id., Multinazionalizzazione e ingovernabilità dell’economia mondiale, cit.,

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Gli anni Ottanta del Novecento sono un decennio di grande trasformazione, sul terreno politico, sociale ed economico, ma anche a livello culturale. La filosofia è segnata dal cosiddetto “pensiero debole”. Da Richard Rorty a François Lyotard a Gianni Vattimo, si moltiplicano i rappresentanti di un postmodernismo che dichiara ormai inefficaci i “grandi racconti” come chiavi di lettura della storia e d’intervento sulla realtà. La storiografia vede imporsi la microstoria: una corrente eterogenea, che si caratterizza sia per oggetti di ricerca fortemente circoscritti sia per un’attenzione ai fatti minuti della vita di ogni giorno e alle mentalità collettive. La casistica viene riscoperta anche nell’ambito della geografia, che nei suoi maggiori interpreti, da Edward Soja a John Brian Harley, si scopre in sintonia tanto con la svolta postmodernista quanto con il nuovo orientamento microstorico. Nelle sue prime stagioni americane, Arrighi vive questo clima culturale. È consapevole degli effetti emancipativi che esso porta con sé, ma pure dei rischi scettici cui espone: decide dunque di non abbandonare la propria inclinazione alla visione d’insieme e sviluppa così la sua “svolta sistemica”1. Un passaggio che questo capitolo si prefigge di contestualizzare nell’ambito di una scuola, quella statunitense del sistema-mondo, di cui meritano di essere indagate le origini storiche, le ascendenze teoriche, nonché ovviamente le tesi caratterizzanti. Se il sociologo italiano raggiunge la propria maturità, infatti, lo deve in buona misura al confronto con Immanuel Wallerstein, primo grande analista dei sistemi-mondo. 1

Di «grande sintesi», in riferimento al pensiero sistemico di Arrighi, ha scritto Rosario Patalano nel suo L’ultima grande sintesi. In ricordo di Giovanni Arrighi, in «Il pensiero economico italiano», vol. 18, 2010, n. 2, pp. 121-127.

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2.1. I sistemi non sono tutti uguali Finora, con l’espressione “svolta sistemica”, mi sono riferito a un preciso mutamento nel percorso intellettuale di Arrighi, a quando egli entra in contatto con uno specifico indirizzo di ricerca, l’analisi dei sistemi-mondo. Tuttavia, prima di affrontare il concetto relativamente recente e circoscritto di sistema-mondo, nonché la sua declinazione arrighiana, soffermiamoci sull’idea stessa di sistema. Perché l’espressione è tutt’altro che univoca e, nel Novecento, ha conosciuto quantomeno tre versioni: il sistema chiuso, aperto e autopoietico. Classicamente, il sistema è una totalità organica di parti2. Ed è precisamente contro questa concezione che, nel 1749, si scagliò Étienne Bonnot de Condillac. Il suo Trattato sui sistemi aveva lanciato una vera e propria offensiva all’esprit de système. Eppure la nozione di totalità organica avrebbe conservato un ruolo centrale in tutta la filosofia classica tedesca. Per Kant il progresso del sapere non si poneva in antitesi con l’idea di sistema. Tuttavia, se il progetto kantiano aspirava alla «determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura»3, non sarebbe stato così per Fichte, per Schelling e soprattutto per Hegel. Proprio grazie alla mediazione hegeliana, peraltro, l’ideale sistemico giunse a Marx, che condivideva l’idea della scissione come momento interno al sistema. Ma quest’ultimo può essere immaginato oltre la configurazione che abitualmente lo designa nei termini di un cosmo? Oppure non può essere inteso altrimenti che come una totalità ordinata di parti? Secondo Niklas Luhmann, l’idea tradizionale di sistema era viziata da un’aporia insormontabile, poiché «la totalità [andava] 2 La parola «sistema» ha un’origine greca e, specie nella tradizione stoica, indica l’ordine dell’universo. Ma poiché nella mentalità classica è strettissima la relazione tra il piano fisico-cosmologico e quello logico-gnoseologico, la semantica del sistema viene a riguardare, in generale, ogni totalità composta da elementi singoli. Tradotta in termini creazionistici dal Cristianesimo e poi rafforzata dalla Scolastica, questa concezione sopravvivrà pressoché immutata in tutto il medioevo. A intaccarla ci penseranno i proclami bruniani sull’universo infinito, senza ordine né gerarchia, e i protagonisti della “rivoluzione scientifica”. 3 I. Kant, Critica della ragion pura (1787, seconda ed. riveduta), Adelphi, Milano 1999, p. 710.

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pensata due volte: come unità e come insieme delle parti»4. Il sistema è al contempo l’insieme delle sue parti e più della loro somma, è l’interrelazione degli elementi e l’unità globale. Fino alla General Systems Theory di Ludwig von Bertalanffy, pubblicata nel 1968, la maggior parte delle definizioni presenta queste due caratteristiche: talvolta viene poi accentuato l’aspetto totalizzante, talaltra quello relazionale. Ma, in definitiva, la concezione classica del sistema resta ancorata allo schema tutto-parti. È a Bertalanffy che va riconosciuto il merito di aver superato tale prospettiva5. Negli anni Cinquanta del Novecento il biologo austriaco raccoglie la sfida delle nuove scienze e, con la sua Teoria generale, riabilita il paradigma sistemico. Respinta l’identità sostanziale tra il tutto e le sue parti, la nuova cifra del concetto diventa la differenza tra il sistema stesso e l’ambiente. Proprio sulla base della distinzione rispetto all’esterno, Bertalanffy può individuare sistemi chiusi (o isolati dal fuori) e sistemi aperti (perché hanno un interscambio di informazione ed energia con ciò che è loro alieno). È appena il caso di notare che la prevalenza viene attribuita ai secondi. Tuttavia, come ha scritto Edgar Morin, «benché comporti aspetti radicalmente innovativi, la teoria generale dei sistemi non ha mai tentato la teoria generale del sistema; essa ha tralasciato di sviscerare il proprio fondamento, di riflettere sul concetto di sistema»6. In questo senso, il decisivo passo in avanti è stato compiuto tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso grazie alla teoria dell’autopoiesi. I maggiori protagonisti dell’ultima svolta sono Humberto Maturana e Francisco Varela7 in ambito biologico e Niklas Luhmann8 in campo sociologico. Per merito loro, la distinzione bertalanffyiana tra sistemi chiusi e aperti viene ab4

N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), il Mulino, Bologna 1990, p. 69. 5 L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi. Fondamenti, sviluppo, applicazioni (1968), Mondadori, Milano 2004. 6 Cfr. E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura (1977), Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 114. 7 Cfr. H. Maturana, F. Varela, De máquinas e seres vivos: una teoría sobre la organización biológica, Editorial Universitaria, Santiago de Chile 1973, e le sue plurime traduzioni e revisioni. 8 Cfr. N. Luhmann, Sistemi sociali, cit. Per una lettura critica, D. Zolo, Autopoiesi: un paradigma conservatore, in «MicroMega», 1, 1986, pp. 129-172.

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bandonata. Perché il sistema autopoietico, appannaggio caratteristico dei viventi, è chiuso, sì, ma è anche autoreferenziale. Ed è questa autoreferenzialità a consentirgli di auto-riprodursi e generare da sé la propria organizzazione, che non è quindi un semplice effetto di input ambientali. Il sistema autopoietico non esclude la differenza, è unitas multiplex, laddove l’identità dipende dalla differenza rispetto a sé. Presupposto fondamentale del sistema rimane l’ambiente, che tuttavia gli è in qualche modo interno, perché è come se il sistema autopoietico, differenziandosi e così identificandosi, riproducesse l’ambiente dentro di sé. Allora l’identità dialettica tra le parti e il tutto si rovescia in una differenza sistemica tra il sistema e il suo ambiente. 2.2. L’analisi dei sistemi-mondo Del tutto particolare è la piega che l’idea di sistema ha conosciuto nella tradizione del World-Systems Approach. Quest’ultimo ha dato origine a una vera e propria scuola e si è caratterizzato innanzitutto per l’adozione di una nuova unità d’analisi, il sistema-mondo. Ebbene, la costruzione della scuola non sarebbe stata possibile senza gli sforzi di colui che a buon diritto è considerato il suo fondatore, Immanuel Wallerstein. Era il 1974 quando il sociologo newyorkese, allievo di Charles Wright-Mills, pubblicò il volume che inaugurava l’opera di una vita, The Modern World-System (poi apparso in quattro volumi, l’ultimo nel 20119). Ma due anni dopo egli ebbe anche la lungimiranza di fondare una rivista e istituire a Binghamton un centro di ricerca ad hoc, intitolandolo allo storico europeo che più di ogni altro aveva contribuito alla sua formazione: nacquero dunque insieme, nel 1976, «Review» e il Fernand Braudel 9

Nel 2011 University of California Press (Berkeley) non ha pubblicato solo Centrist Liberalism Triumphant, 1789-1914, cioè il quarto e ultimo volume del monumentale The Modern World-System, bensì anche i tre volumi precedenti: vol. I: Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century (1974); vol. II: Mercantilism and the Consolidation of the European World-Economy, 1600-1750 (1980); vol. III: The Second Great Expansion of the Capitalist World-Economy, 1730-1840’s (1989).

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Center. La cultura di riferimento, tuttavia, non scaturiva per partenogenesi dal genio di Wallerstein, ma rimandava a una vasta e composita costellazione di studi. Nel 1957 Samir Amin aveva affrontato la questione della disuguaglianza tra le aree del pianeta con L’accumulazione su scala mondiale, una tesi di dottorato spregiudicata e insofferente agli steccati disciplinari, edita solo nel 1970, in francese. Nel 1966 Andre Gunder Frank aveva pubblicato Lo sviluppo del sottosviluppo, un testo che, pur concentrandosi sull’America Latina, aveva prodotto una straordinaria impressione sull’Arrighi africanista. Nel 1969 Arghiri Emmanuel scriverà Lo scambio ineguale, argomentando che i paesi imperialistici, mediante barriere doganali e altri strumenti di pressione, costringono i paesi del Terzo mondo a esportare sotto costo materie prime o prodotti che i paesi del Primo mondo rivendono a un prezzo più alto. Nel 1974, come detto, Wallerstein chiarisce le coordinate teoriche generali della scuola. E così, sulla stessa scia, nel 1978 viene pubblicato un altro fondamentale studio sistemico sul capitalismo: World Accumulation, 1492-1789, di Gunder Frank. Ma l’epistemologia non è ancora rigorosa, i termini chiave oscillano e i metodi d’analisi restano incerti e disparati. Ecco dunque che nel 1982 Terence K. Hopkins, in un saggio scritto a quattro mani con lo stesso Wallerstein, e intitolato WorldSystem Analysis: Theory and Methodology, compie un importante ed efficace sforzo per rendere più coerente l’approccio sistemico. E gli effetti non tardano a maturare. Nel 1989, infatti, due opere rivendicheranno con decisione l’appartenenza a una stessa corrente: Before European Hegemony: The World-System A.D. 1250-1350 e Global Formation: Structures of the WorldEconomy. Nel primo libro Janet Abu-Lughod fa risalire la storia del sistema-mondo moderno a un’epoca anteriore a quel “lungo sedicesimo secolo” che Wallerstein aveva indicato come soglia dirimente; nel secondo Christopher Chase-Dunn offre una lucida riflessione sulle strutture portanti dell’economia-mondo capitalistica. Gli studi sistemici proseguono e gli anni Novanta vedono la pubblicazione, in particolare, di Rise and Demise: Comparing World-Systems di Chase-Dunn e di Hall (1997) e di ReOrient: Glo-

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bal Economy in the Asian Age10 di Gunder Frank (1998). Prima, tuttavia, era toccato ad Arrighi scrivere Il lungo ventesimo secolo, il primo volume della già menzionata trilogia, completata da Caos e governo del mondo e da Adam Smith a Pechino. Ma ora bisogna capire quando, come e perché sia nato questo nuovo approccio. L’analisi dei sistemi-mondo ha origine nei primi anni Settanta e fin dall’inizio si presenta come una prospettiva d’indagine sociale fortemente innovativa e filosoficamente critica. Essa intende superare lo stallo in cui sono incappati i principali dibattiti lato sensu sociologici del ventennio precedente. Nella lettura di Wallerstein, essi erano stati generati da tre svolte sostanziali risalenti grosso modo al 1945: gli Stati Uniti erano divenuti l’indiscussa potenza egemonica del pianeta; il tasso di crescita economica e demografica aveva toccato picchi mai conosciuti prima; e il sistema universitario era avviato a un’espansione su scala mondiale. Queste metamorfosi avevano potentemente influenzato la strutturazione del sapere sociale allora vigente, facendo sì che negli Stati Uniti aprissero i battenti i primi Area Studies, improntati al principio della multidisciplinarità analitica e didattica. Ed è proprio a partire dal lavoro di questi istituti universitari superiori (probabilmente la più notevole innovazione accademica dopo la fine della seconda guerra mondiale) che nel periodo tra il 1945 e il 1970 quattro accese discussioni creano le premesse per il successivo emergere dell’analisi dei sistemi-mondo. La prima controversia è quella animata dai teorici della dependencia: Fernando Henrique Cardoso e Raúl Prebisch su tut10

Riepilogando, si vedano: S. Amin, L’accumulazione su scala mondiale (1970), Jaca Book, Milano 1971; A.G. Frank, The Development of Underdevelopment, cit.; A. Emmanuel, Lo scambio ineguale (1969), Einaudi, Torino 1972; E. Somaini, A. Emmanuel, L. Boggio, M. Salvati, Salari, sottosviluppo, imperialismo. Un dibattito sullo scambio ineguale, Einaudi, Torino 1973; A.G. Frank, World Accumulation, 1492-1789, Monthly Review 1978; T.K. Hopkins e I. Wallerstein, World-System Analysis: Theory and Methodology, Sage, London 1982; J. AbuLughod, Before European Hegemony: The World-System A.D. 1250-1350, Oxford University Press, New York 1989; C. Chase-Dunn, Global Formation: Structures of the World-Economy, Basil Blackwell, Oxford 1989; C. Chase-Dunn e T.D. Hall, Rise and Demise: Comparing World-Systems, Westview Press, Boulder 1997; A.G. Frank, ReOrient: Global Economy in the Asian Age, University of California Press, Berkeley 1998.

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ti11. Attestandosi su posizioni assai prossime a quelle dell’Arrighi africanista, i dependentistas ritenevano che del sottosviluppo non fossero responsabili gli stessi paesi sottosviluppati, bensì il processo capitalistico nel suo complesso. Un processo di divaricazione tra centro e periferia nella distribuzione della ricchezza, che il commercio internazionale aveva non la virtù di alleviare, bensì il torto di aggravare: perché la circostanza che alcuni paesi fossero economicamente più forti di altri permetteva loro di drenare verso di sé il plusvalore prodotto nei paesi più deboli. La seconda disputa, sviluppatasi in particolare nell’universo comunista, concerne l’interpretazione della teoria marxiana del «modo asiatico di produzione»12. Stalin cercò di censurare il tema, avvertendo il pericolo che l’Unione sovietica potesse essere bollata come un paese storicamente “orientale”. Dopo la sua morte nel 1953, però, il dibattito riprese e finì per riguardare la questione dell’evitabilità o meno degli stadi di sviluppo. La terza contesa, in cui spicca l’opposizione tra i due massimi economisti marxisti dell’epoca, Maurice Dobb e Paul Sweezy, riguarda il problema della ricostruzione della transizione dal feudalesimo al capitalismo13. Dobb identificava le radici della transizione nei confini dell’arcipelago britannico. Sweezy, invece, preferiva estendere lo sguardo, attribuendo la gran parte dei fattori dell’evoluzione capitalistica in Inghilterra ai processi che avevano caratterizzato la regione euro-mediterranea nel suo insieme. Il quarto dibattito, infine, viene suscitato dalla novità storiografica delle «Annales» e in particolare dalla lezione metodologi11 Cfr. AA.VV., Conversations on Dependency Theory, Young Scholars International – Institute for New Economic Thinking, New York 2017, nonché, di Arrighi, Global Inequalities and the Legacy of Dependency Theory, in «Radical Philosophy Review», vol. 5, 2002, n. 1-2, pp. 75-85. 12 Cfr. M. Sawer, Marxism and the Question of the Asiatic Mode of Production, Martinus Ni/hoff Publishers, The Hague 1977. 13 Cfr.: M. Dobb, Studies in the Development of Capitalism, Routledge, London 1946; P.M. Sweezy, M. Dobb, The Transition from Feudalism to Capitalism, in «Science & Society», vol. 14, 1950, n. 2, pp. 134-167; M. Dobb, P.M. Sweezy, Comments on Takahashi’s “Transition from Feudalism to Capitalism”, in «Science & Society», vol. 17, 1953, n. 2, pp. 155-164; M. Dobb, From Feudalism to Capitalism, in «Marxism Today», 1962, n. 6, pp. 285-287.

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ca di Fernand Braudel14. Venivano messe in secondo piano sia la «polvere» della storia evenemenziale sia, soprattutto, la ricerca di leggi storiche eterne, per valorizzare il tempo delle strutture e i processi ciclici che le abitavano. Queste quattro querelles, scatenatesi tutte tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, costituiscono sia la principale reazione alla cultura del tempo sia la premessa per lo shock, di ben altra portata sociale, del Sessantotto. In quell’anno, infatti, vengono fortemente criticate e contestate le basi epistemologiche soggiacenti alle vigenti strutture del sapere. Ed è il rifiuto di queste strutture a costituire il presupposto dell’analisi dei sistemimondo, di cui, ripetiamo, si inizia espressamente a parlare nei primi anni Settanta. 2.3. Una scuola indisciplinata La nuova prospettiva d’indagine ha potuto contare fin da subito su più di una stella polare. Marx e Prebisch, Polanyi e Braudel, vengono evocati, tra gli altri, per configurare un’inedita unità d’analisi sociale, il sistema-mondo. In sintesi, sono tre i caratteri originali che questa unità porta con sé: l’abbandono dello Stato e dell’economia nazionale quali principali oggetti analitici; una complessa stratificazione dei tempi sociali, riconosciuti in una pluralità nella quale la preferenza viene accordata alla longue durée; la sottrazione delle scienze sociali all’antinomia tra metodo nomotetico e metodo idiografico. Si può senz’altro affermare che la maggioranza degli studiosi, anche nella galassia marxista, privilegi tutt’oggi gli Stati e le società nazionali quali unità d’analisi. I teorici del sistemamondo respingono fortemente questa impostazione: lo «Stato-centrismo»15, a parer loro, sarebbe portatore di un’ottica 14

Per un’introduzione si vedano P. Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle «Annales», 1929-1989 (1990), Laterza, Roma-Bari 2014; A. Burguière, L’École des Annales. Une histoire intellectuelle, Odile Jacob, Paris 2006. 15 Cfr. N. Brenner, The Space of the World: Beyond State-Centrism?, in D. Palumbo-Liu, B. Robbins, N. Tanoukhi (a cura di), Immanuel Wallerstein and the Problem of the World. System, Scale, Culture, Duke University Press, Durham-London 2011, pp. 101-137.

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miope e distorsiva. Bisognerebbe piuttosto educarsi, non già allo «sguardo cosmopolita» propugnato tra gli altri da Ulrich Beck16, ma a una prospettiva che sappia contemperare universalismo e particolarismo, inclusione ed esclusione. Perché l’idea di sistema-mondo nasce precisamente dall’esigenza di superare il cosiddetto «nazionalismo metodologico»17. In particolare, la scuola che fa capo a Wallerstein si forgia nel contrasto al nazionalismo determinista. E i principali compagni in questa battaglia intellettuale sono i teorici della dipendenza. Proprio come i dependentistas, gli analisti del sistema-mondo ritengono che il determinismo progressista non sia che un effetto ottico del nazionalismo metodologico. Ma a differenza dei primi, i secondi finiscono per costruire una dottrina plurivoca e ambiziosa, che oltrepassa di gran lunga il riconoscimento della dialettica tra sviluppo e sottosviluppo. Perché l’idea di sistema-mondo implica in primo luogo, per dirla con le parole del suo ideatore, «la sostituzione della usuale unità d’analisi, che era lo Stato nazionale, con un’unità d’analisi definita “sistema-mondo”». «Nel complesso», prosegue Wallerstein, «gli storici avevano analizzato le storie nazionali, gli economisti le economie nazionali, gli scienziati della politica le strutture politiche nazionali, e i sociologi le società nazionali. Gli studiosi dei sistemi-mondo si mostrano scettici, mettendo in dubbio che questi oggetti di studio esistano realmente e, in ogni caso, che siano i più utili come luoghi d’analisi»18. A contare sono i grandi spazi e la loro organizzazione sistemica, ossia gerarchica e funzionale. Ma lo studioso dei sistemi-mondo non si prefigge tanto di verificare come allo sviluppo di alcuni paesi corrisponda il sottosviluppo di altri. Il problema è la scomposizione dell’idea stessa di sviluppo e l’adozione di una lettura multidimensionale della storia. Mettendo a frutto l’insegnamento di Braudel, la “scuola 16

U. Beck, Cosmopolitan Vision, Polity, Cambridge 2006. Cfr. D. Chernilo, Social Theory’s Methodological Nationalism. Myth and Reality, in «European Journal of Social Theory», vol. 9, 2006, n. 1, pp. 5-22. 18 I. Wallerstein, Comprendere il mondo. Introduzione all’analisi dei sistemimondo (2004), Asterios, Trieste 2006, p. 38. Per una breve introduzione, il mio L’analisi dei sistemi-mondo, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, vol. 3, Economia, politica, cultura: Marx oggi, Carocci, Roma 2015, pp. 97-127. 17

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sistemica” riconosce diversi strati di tempo19. Un’acquisizione, questa, avvalorata da due elementi ulteriori. Alcuni di questi strati vengono descritti in termini non lineari e, anzi, espressamente ciclici. E Wallerstein afferma che «per ogni tipo di tempo sociale esiste un particolare tipo di spazio sociale». «Spazio e tempo», a suo avviso, «non dovrebbero essere pensati come distinti, né misurati separatamente, ma come irrevocabilmente congiunti in un numero limitato di combinazioni»20. Da ciò discende la conclusione che la nozione di “sviluppo” vada abbandonata? Non del tutto, ma questa dev’essere semmai riferita al sistema-mondo nel suo complesso. È il sistema-mondo a svilupparsi e ad essere capitalisticamente connotato. Del resto, se così non fosse, qualora ci si accontentasse della vulgata secondo cui «il movimento fondamentale della storia moderna europea è stato il movimento dall’economia cittadina all’economia nazionale, dall’arena locale allo Stato nazionale», il mondo finirebbe per rappresentare un mero «epifenomeno»21. Per tutti i motivi appena descritti, il discorso sistemico scompagina la tradizionale organizzazione del sapere. In particolare, i sistemici si ribellano alla separazione tra storia e scienze sociali. Viene rigettata la divisione del lavoro in ossequio alla quale la prima sarebbe il regno di una narrazione, perennemente votata allo scacco dell’anacronismo, viziata dalla prospettiva dell’osservatore, incapace di restituire la voce del passato, mentre alle seconde spetterebbe una descrizione destoricizzata, di marca neopositivista, finalizzata all’individuazione di leggi generali. Wallerstein reclama l’esigenza di una prospettiva «unidisciplinare»22. 19

Cfr. R.E. Lee (a cura di), The Longue Durée and the World-System Analysis, State University of New York Press, Albany 2012, nonché, nell’ambito del marxismo italiano, V. Morfino (a cura di), Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, Milano-Udine 2013 e M. Tomba, G. Vertova (a cura di), Spazi e tempi del capitale, Mimesis, Milano-Udine 2015. 20 I. Wallerstein, Comprendere il mondo, cit., p. 152. 21 Id., La scienza sociale: come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi (1991), il Saggiatore, Milano 1995, p. 81. 22 In Comprendere il mondo, cit., p. 154, Immanuel Wallerstein spiega come e perché il concetto di unidisciplinarità vada distinto da quelli di multi- o transdisciplinarità. Se questi ultimi si riferiscono alla combinazione di due o più discipline, l’idea di unidisciplinarità testimonia la convinzione secondo cui, nel campo delle scienze sociali, «non esiste affatto una ragione intellettuale sufficiente a distinguere

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Ma in ballo non c’è solo un nuovo e generico punto di vista, bensì, più propriamente, l’aspirazione a che la scuola a lui legata venga riconosciuta come un «movimento di conoscenza»23 a sé stante. Ciononostante, la peculiare interpretazione del comune spartito sistemico da parte di autori tanto diversi tra loro e tanto ingombranti, quantomeno nel caso della generazione degli Arrighi, dei Gunder Frank, degli Hopkins, non consente di sostenere che questa unidisciplinarità sia stata ad oggi raggiunta. È lecito piuttosto affermare che i primi teorici dei sistemi-mondo sono stati effettivamente “indisciplinati” e che proprio questo carattere anarchico, ma nient’affatto disordinato e disorientato, li ha messi in condizione di rinnovare le scienze sociali. Quanto all’auspicio di Wallerstein, le generazioni successive di analisti del sistema-mondo hanno evidenziato una progressiva scissione tra riflessione teorica e ricerca empirica. Con il rischio che, in nome dell’unidisciplinarità, un’eresia si trasformi in una nuova ortodossia. Ad ogni modo, non bisogna perdere di vista la novità epistemologica apportata dai maggiori pensatori sistemici, che consiste in una determinata concettualizzazione dei sistemi storici. Nel riferimento tipicamente bertalanffyiano ai sistemi aperti, la sfida di quelle che Wallerstein chiama «scienze sociali storiche»24 consiste nel pensare in uno ricorrenze e anomalie, necessità e contingenze. Memori della storiografia braudeliana, queste scienze individueranno leggi durevoli ma non eterne, che regolano lo stare insieme di parti singole eppure dipendenti le une dalle altre. Le parti sono destinate ad alterarsi, modificando il carattere del sistema. Ma niente garantisce che il mutamento dei regimi di temporalità e spazialità sia armonico, simultaneo, tale da determinare un’effettiva contemporaneità. Quella che le scienze sociali storiche dovranno decifrare sarà piuttosto, e sempre più, la coesistenza, talora conflittuale, di tempi e spazi diversi25. le diverse discipline, e tutto il lavoro dovrebbe invece essere considerato parte di un’unica disciplina, talvolta definita come scienze sociali storiche». 23 Id., World-systems analysis as a knowledge movement, in S.J. Babones, C. Chase-Dunn (a cura di), Handbook of World-Systems Analysis, Routledge, New York 2012, pp. 515-521. 24 I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene, cit., passim. 25 Cfr. L. Bazzicalupo, Coesistenza, in «Filosofia politica», 1/2017, pp. 47-58.

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2.4. Sistemi e strutture Che cosa significa «sistema-mondo»? È essenziale tenere a mente la puntualizzazione di Wallerstein, quando afferma che esso «non è il sistema del mondo, ma un sistema che è un mondo e che può essere, e molto spesso è stato, localizzato in un’area che non copre l’intera superficie del globo»26. Arrighi concorda, come pure sull’assunto che il «sistema-mondo in cui oggi viviamo, che ebbe le sue origini nel lungo sedicesimo secolo in Europa e nelle Americhe», sia un portato della modernità. Un’epoca che, per l’uno e per l’altro, è segnata dall’affermazione di un’«economia-mondo capitalistica»27, ormai divenuta globale. Il consenso sostanziale, dunque, riguarda innanzitutto la definizione di sistema-mondo e il giudizio complessivo sulla sua traiettoria storica. Ma tra le rispettive teorie va rilevata un’ulteriore sintonia: nel pensare una totalità che presupponga un ambiente al di fuori di sé, entrambe adottano una prospettiva propriamente ecologica. E non solo. Sull’ambiente esterno al sistema ambedue le teorie avanzano una pretesa di conoscenza: inafferrabile, mai perfettamente governabile, l’ambiente viene interpretato come caos. È questo lo sfondo comune su cui vanno comprese le divergenze tra Arrighi e Wallerstein. Perché i due concepiscono diversamente il sistema, nella sua relazione con l’ambiente esterno, nonché nel rapporto con i suoi elementi costitutivi. Cerchiamo dunque di capire quali siano i modi e i motivi del dissenso. Arrighi non può essere considerato un innovatore sul piano della teoria sistemica. Egli non ha contribuito a perfezionare un’idea di sistema, in generale. Ha piuttosto mutuato una concezione di stampo bertalanffyiano, per concentrarsi di volta in volta sulle caratteristiche che segnavano la peculiarità di un determinato sistema. Detto altrimenti, il sociologo italiano si è sempre interessato a un certo tipo di sistema – che fosse il macrosistema di dominio antico, basato sulla parentela, o il macrosistema di dominio medievale, o il sistema interstatale convenzionalmente inaugurato dalla pace di Westfalia… 26 27

I. Wallerstein, Comprendere il mondo, cit., p. 140. Ivi, p. 151.

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Diversa e più pretenziosa è la prospettiva di Wallerstein. Fin dagli anni Settanta egli concepisce il sistema come «un insieme interconnesso di un certo tipo, con regole interne di funzionamento e un qualche genere di continuità»28, sempre omogeneo al suo interno e indipendente dall’esterno. Si tratta di una rappresentazione per certi versi tradizionale, motivata da ragioni altrettanto ordinarie. Perché Wallerstein intende sfuggire al danno tipicamente indotto da coloro che, per descrivere o spiegare un fenomeno, procedono alla sua parcellizzazione. Le porzioni di realtà che seguono alla scomposizione sarebbero il frutto di un’astrazione dalla «totalità sociale»29, che, in concreto, si presenta come una realtà unica. A giudizio del sociologo newyorkese, solo una conoscenza sistemica, che si ponga cioè dal punto di vista della totalità, sarebbe in grado di riflettere la sistemicità della realtà sociale. Sarebbe perciò vano qualsiasi discorso che, avanzando una pretesa di scientificità, non abbracciasse con lo sguardo una totalità che si struttura omogeneamente al suo interno e indipendentemente dall’esterno. Sulla base di queste premesse, il sociologo statunitense sceglie di richiamarsi al Lukács di Storia e coscienza di classe, laddove si legge che «ciò che distingue in modo decisivo il marxismo dalla scienza borghese non è il predominio delle motivazioni economiche nella spiegazione della storia, ma il punto di vista della totalità»30. Ma la legittimità del riferimento al filosofo ungherese è assai dubbia, perché una totalità che sia omogenea e indipendente contravverrebbe proprio alle pretese concettuali insite nella nozione lukácsiana di «totalità concreta». Questa, infatti, si sostanzia esattamente nel rapporto produttivo del sistema con il suo altro: un’autentica totalità concreta, innanzitutto, non è indipendente dal soggetto, ma al contrario vi si relaziona costantemente, strutturalmente. 28

Ibid. Id., L’ascesa e la futura scomparsa del sistema capitalista mondiale: concetti per un’analisi comparata (1974), in Id., Alla scoperta del sistema-mondo (2000), manifestolibri, Roma 2003, pp. 92-131: 93. 30 G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), SugarCo, Milano 1988, p. 35. La totalità lukácsiana viene inquadrata nella prospettiva filosofica marxista in M. Jay, Marxism and Totality: The Adventures of a Concept from Lukács to Habermas, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1984, specie pp. 81-127. 29

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Da questo punto di vista, in maniera forse inconsapevole e comunque mai dichiarata, è Arrighi ad apparire più vicino a Lukács. Perché egli è ben più impegnato di Wallerstein nell’evidenziare come sia la limitatezza stessa del sistema a consentirne e suggerirne l’apertura. I suoi studi si caratterizzano, tra l’altro, proprio per la sagacia con cui vengono indagate le cangianti sfumature di quella zona intermedia tra il sistema e l’ambiente. In generale, il loro rapporto viene letto nel senso di una paradossale «esclusione inclusiva»31. Nell’escludere un fuori di sé, il sistema in realtà lo includerebbe, rapportandovisi costantemente nello sforzo di introiettarlo, provando a tollerarne l’eccedenza. D’altronde, se non avesse un ambiente esterno, o se ne fosse autonomo tanto da non doversi rapportare a esso, allora non potrebbe più esservi sistema: perché questo, nel solco preciso della logica bertalanffyiana, esiste solo nel processo di riduzione della complessità. Il sistema non è che sistemazione del disordine. Con la sua pretesa di teorizzare dal punto di vista della totalità, Wallerstein incorre invece nella difficoltà di dover individuare il luogo archimedico nel quale porsi. E la domanda diventa: come astrarsi dalla totalità concreta che supponiamo ci costituisca, per guardarla dal di fuori e così descriverla in tutti i suoi confini? Se si potesse davvero giudicare una totalità dal suo indipendente esterno, allora di quale tipo di totalità si tratterebbe? Di una totalità parziale? Sì, Wallerstein ha costruito un concetto di sistema parziale, relativo, limitato. Del resto, la totalità concreta di cui egli scrive non è, a suo stesso dire, il sistema del mondo, bensì un sistema che è un mondo. Ma il problema è che le premesse del suo discorso fanno sì che gli risulti molto difficile pensare la relazione tra sistema e ambiente, ovvero anche pensare la storia32. Veniamo ora alla relazione del sistema con il suo interno, con le sue parti costitutive. Arrighi non nega che il sistema condizio31 Sul dispositivo dell’esclusione inclusiva, G. Agamben, Homo Sacer I. Il potere sovrano e la nuda vita (1995), Einaudi, Torino 2005, pp. 21-35. 32 Cfr. T. Skocpol, Wallerstein’s World Capitalist System: A Theoretical and Historical Critique, in «American Journal of Sociology», vol. 82, 1977, n. 5, pp. 1075-1090; A.E. Wendt, The Agent-Structure Problem in International Relations Theory, in «International Organization», vol. 41, 1987, n. 3, pp. 335-370: 344-349; J. Mahoney, Path Dependence in Historical Sociology, in «Theory and Society», vol. 29, 2000, n. 4, pp. 507-548, in particolare 519-521.

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ni e retroagisca sui propri elementi. Egli è consapevole del fatto che alla totalità spettano proprietà particolari, le quali vincolano e indirizzano le unità che interagiscono al suo interno. Tuttavia, la genesi stessa del sistema non sarebbe possibile né necessaria senza il dispiegarsi di una libera iniziativa dei suoi elementi interni. «Chi agisce», afferma infatti Arrighi, «non è il sistema, ma le sue unità»33. In particolare, il sociologo italiano sostiene come sia l’azione di una determinata unità egemonica a generare quale effetto la variazione del sistema. Una certa egemonia può modificare anche profondamente la natura degli elementi in gioco, la maniera in cui questi si relazionano reciprocamente, il modo in cui il sistema stesso funziona e si riproduce. Ciò vuol dire che, per comprendere il cambiamento storico, è sufficiente focalizzarsi sull’egemone di turno? No, perché tutti gli elementi interni al sistema partecipano alla sua attività di sistemazione. Eppure la gran parte degli attori agisce in via subalterna al soggetto egemonico e alla sua capacità di trasformazione. Ma qual è la maniera attraverso cui le unità, siano esse egemoniche o subalterne, sistemano l’ambiente? Lo fanno ricorrendo a strutture. Infatti, se per un verso è convinto che l’iniziativa dei singoli soggetti sia fortemente condizionata da emergenze, per l’appunto, di sistema, Arrighi è persuaso al contempo che lo stesso (dis)ordine attuale poggi su determinate «strutture di fondo»34. Strutture che non sarebbero individuabili mediante un generico appello al sistema-mondo, ma verrebbero piuttosto a manifestarsi in quella particolare struttura tipico-ideale che è il «ciclo sistemico di accumulazione del capitale»35. Una formula che, come vedremo nel prossimo capitolo, indica esattamente il processo sopra accennato, in base al quale una particolare unità egemonica, costituita sempre da un intreccio tra attori governativi e attori imprenditoriali, istituisce e organizza, durante le fasi 33 G. Arrighi, I cicli sistemici di accumulazione. Le trasformazioni egemoniche dell’e-

conomia-mondo capitalistica, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999, p. 40. 34 Id., B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 26. Sull’idea sistemica di struttura, come «applicazione di un’organizzazione», G. Minati, Sistemi: origini, ricerca e prospettive, pp. 15-46 in L. Urbani Ulivi, Strutture di mondo. Il pensiero sistemico come specchio di una realtà complessa, il Mulino, Bologna 2010, p. 31. 35 G. Arrighi, I cicli sistemici di accumulazione, cit.

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di transizione, una nuova struttura sistemica. In breve, è precisamente in questo riferimento alle strutture, invero mai costante e rigoroso, che Arrighi si rivela un teorico inequivocabilmente sistemico e riesce a conferire adeguato risalto al comportamento delle unità interne al sistema capitalistico. Per converso, l’Introduzione a Caos e governo del mondo sostiene che la critica di determinismo rivolta da John Ruggie alla concezione della politica internazionale di Kenneth Waltz potrebbe essere «rivolta anche, quasi parola per parola, al concetto di egemonia nel sistema moderno degli Stati sovrani elaborato da Wallerstein»36. Arrighi rimprovera al collega di essere caduto in una trappola che colpisce di frequente le teorie sistemiche, spesso responsabili di spingersi «troppo oltre», fino al punto di «ritenere che i processi al livello delle unità non producano nulla, e siano totalmente un prodotto»37. L’errore più grave, quello che rende il modello wallersteiniano debole «su un terreno storico-empirico»38, consisterebbe nel giudicare «esogena la causa prima del cambiamento sistemico»39. Arrighi insiste sul punto che sia l’unità egemonica, insieme alle unità subalterne, a muovere il sistema. Ciò che non regge, a suo avviso, è una concezione struttural-deterministica del sistema-mondo, per la quale sarebbe sempre e comunque il sistema in quanto tale, o meglio un sistema ridotto a struttura, a determinare l’azione degli Stati e delle imprese40. Quando rinfaccia a Wallerstein di non riuscire a pensare in modo endogeno il cambiamento sistemico, Arrighi non contesta la separazione con l’ambiente. Ciò che viene respinto è l’appiattimento della logica sistemica su quella strutturalistica. Viene criticato il mancato riconoscimento dello scarto tra sistema e struttura: quando tale differenza cade, infatti, risulta irrigidita l’idea stessa di divenire storico, relegato a proprietà del caos esterno, a fattore costitutivamente esogeno. 36 Id., B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 28. Ruggie aveva criticato il Waltz di Theory of International Politics (Addison-Wesley, Reading 1979) nel suo Continuity and Transformation in the World Polity: Toward a Neorealist Synthesis, in «World Politics», vol. 35, 1983, n. 2, pp. 261-285. 37 G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 27. 38 Ivi, p. 30. 39 Ivi, p. 29. 40 Cfr. G. Arrighi, I cicli sistemici di accumulazione, cit., pp. 40-41.

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Se il sistema è riduzione della complessità, messa in ordine del disordine, regolazione dell’irregolare, sistemazione, la struttura rimanda invece a una prospettiva statica. La struttura sta e, nel suo stare immobile, tiene fermo e sicuro da ogni crisi l’edificio eretto sulle sue fondamenta. Il sistema, viceversa, muove e si muove: non esclude, ma al contrario presuppone la possibilità della rottura nella relazione tra i suoi elementi costitutivi. Se così non fosse, se gli elementi del sistema fossero indissolubilmente e staticamente connessi, se rimanessero necessariamente al riparo da qualunque crisi, allora essi perderebbero la propria singolarità e il sistema si trasformerebbe in una struttura omogenea. In altri termini, la struttura implica il fondamento, il sistema la sua assenza: questo si regge su nulla, su nient’altro che il tenersi insieme delle sue singole e costitutive unità. Struttura è sinonimo di sostanza, indica cioè lo “stare sotto”, il “reggere”, il “tenere in piedi”; il sistema, invece, implica lo “stare insieme” o, meglio, il “tenersi vicendevolmente insieme”, lo “stringersi” di elementi diversi. E ancora: la prima rinvia a una dimensione verticale, il secondo a una dimensione orizzontale. Dovrebbe pertanto risultare evidente come la crisi, ovvero letteralmente la rottura, non possa colpire la struttura in quanto tale, astratta dalla sua funzionalità sistemica: essa, infatti, è precisamente ciò che non può essere smosso, ciò che sta al riparo da qualunque crepa. La crisi può invece alterare il sistema. In particolare, la crisi può modificare il sistema strutturato. E, stando al ragionamento di Arrighi, la trasformazione del sistema non avviene all’interno della sua struttura egemonica, secondo il dispiegamento della sua logica di potere, bensì allorché la struttura sistemica viene a mancare. Quando essa non è più in grado di reggere il sistema, di strutturarlo affinché assolva la funzione ordinatrice del proprio ambiente, non appena dunque il sistema non riesce più a risolvere il suo esterno, quest’ultimo emerge nel suo carattere caotico. Sotto il profilo teorico, lo sforzo più arduo di Arrighi consiste nell’intendere esattamente il momento critico in cui il disordine si rivela ingestibile dall’unità egemonica vigente, dalla sua struttura. Quando questa si sgretola nel caos, essa può essere sostituita da un’ulteriore unità egemonica, che, se comparirà, dovrà

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essere necessariamente più complessa della precedente. Ma l’avvento di una nuova struttura egemonica non è garantito affatto. Niente vieta che ciò non accada. Nulla impedisce che la crisi investa, non semplicemente la particolare unità egemonica che struttura il sistema, bensì direttamente quest’ultimo41.

41 Cfr. I. Wallerstein, R. Collins, M. Mann, G. Derluguian, C. Calhoun, Does capitalism have a future?, Oxford University Press, New York 2013.

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Negli anni Novanta del ventesimo secolo la parola «capitalismo» cade in disuso. Adoperata di rado nella sfera pubblica, è indagata sempre meno dagli studiosi. Come notano Luc Boltanski ed Ève Chiapello, già a partire dagli anni Ottanta «il riferimento al termine ‘capitalismo’ è scomparso pressoché del tutto e, spodestato dal suo rango di concetto-chiave degli anni Settanta, è finito per essere declassato a un rango inferiore, quello di “parolaccia” un po’ indecente, non solo perché connotava una fraseologia marxista che buona parte dei sociologi desiderava dimenticare, ma anche perché faceva riferimento a un che di troppo “grande”, di troppo “grosso”, per poter essere osservato direttamente e descritto mediante osservazioni puntuali di situazioni empiriche»1. Tutt’altro che spaventato dall’idea di andare controcorrente, appassionato alle cosiddette “grandi narrazioni” e incline a guardare la realtà nei suoi molteplici aspetti, proprio in questo periodo Arrighi stabilisce un confronto serrato con i classici degli studi sul capitalismo. Nasce così la trilogia Il lungo ventesimo secolo, Caos e governo del mondo e Adam Smith a Pechino. Questo capitolo intende ricostruire la teoria del capitalismo di Arrighi, esaminando il dialogo che costui ha instaurato con le sue fonti, in special modo nei volumi appena citati. Verranno 1 L. Boltanski, È. Chiapello, Prefazione alla seconda edizione, in Idd., Il nuovo spirito del capitalismo (1999, ed. ampliata 2010), Mimesis, Milano-Udine 2014, pp. 21-41: 23. E Slavoj Žižek chiosa: «Quale miglior prova del trionfo totale del capitalismo se non la scomparsa del suo stesso termine negli ultimi due o tre decenni?» (in Censorship Today: Violence, or Ecology as a New Opium for the Masses, in «Lacan. com», 18/2008).

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presi in considerazione gli snodi principali del discorso arrighiano, che si rivelerà anche come una ricca e feconda indagine sui caratteri costitutivi della modernità. 3.1. Stato e contro-mercato Una delle opere che più ha influenzato la concezione del capitalismo di Arrighi è quella di Fernand Braudel, che egli accosta a Werner Sombart per il rigore e l’originalità2. Il sociologo italiano condivide innanzitutto l’ispirazione realista dello storico francese. Secondo la lezione di quest’ultimo, il cui pregio risalta tanto più in un frangente assuefatto alle «disposizioni metafisiche dell’economia accademica»3, i sistemi economici vanno studiati nei loro concreti meccanismi di funzionamento e nella loro logica. Sine ira et studio, secondo Braudel, si scoprirà che il capitalismo «non è né buono né cattivo, né morale, né baro: è com’è, e il nostro problema non è giudicarlo ma capirlo»4. E per comprenderlo sino in fondo sarebbe riduttivo classificarlo, alla maniera di Marx, quale un particolare modo di produzione, come una specifica tecnica produttiva. Ancor meno corretto sarebbe sovrapporlo all’assetto industriale seguito alla rivoluzione tecnologica dell’Ottocento britannico, perché il capitalismo è in generale irriducibile ai suoi mutevoli contenuti. Esso va piuttosto definito formalmente. Risulterà allora come il livello superiore di una struttura a tre piani, riconoscibile «ieri come oggi, prima come dopo la rivoluzione industriale»5. La struttura di riferimento è quella della vita economica. Qui è «al di sopra della massa inerte della vita quotidiana che l’economia di mercato ha lanciato le sue reti e mantenuto i suoi canali 2

G. Arrighi, Braudel, Capitalism, and the New Economic Sociology, in «Review», vol. 24, 2001, n. 1, pp. 107-123. Su analogie e differenze tra Braudel e Sombart, W. Mager, La conception du capitalisme chez Braudel et Sombart. Convergences et divergences, in «Les Cahiers du Centre de Recherches Historiques», 1988. 3 G. Arrighi, Braudel, Capitalism, and the New Economic Sociology, cit., p. 107. 4 F. Braudel, Una lezione di storia. Châteauvallon, 18-19-20 ottobre 1985 (1986), Einaudi, Torino 1988, p. 118. 5 Id., Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). I giochi dello scambio (1979), Einaudi, Torino 1982, p. 217.

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di comunicazione», com’è «al di sopra della stessa economia di mercato che prospera il capitalismo»6. Insomma, agli occhi dello storico francese la vita economica si dispiega su tre livelli: «il mercato rappresenta l’equatore. A Sud dell’equatore c’è l’emisfero meridionale, ossia il baratto, lo scambio. E solo a Nord dell’equatore, nell’emisfero settentrionale, si può trovare il capitalismo»7. Il primo piano, a sud dell’equatore, è costituito da una zona opaca, difficile da misurare e dunque da governare, che Braudel chiama «vita materiale». Egli parla talvolta di «civiltà materiale», perché è nelle ripetizioni quotidiane, nelle inerzie abituali, nei minuscoli, fiduciari e consuetudinari meccanismi, che questa si forma e trasforma di continuo. È il piano dell’«attività elementare di base, che si incontra dappertutto e che ha un volume semplicemente fantastico». Volendo specificare, l’espressione «vita materiale» designa la «metà informale dell’attività economica», quella «dell’autosufficienza, del baratto dei prodotti e dei servizi entro un raggio molto corto»8. Il secondo piano, l’equatore, è l’«economia di mercato» e designa «realtà chiare, trasparenti», ovvero «i meccanismi della produzione e dello scambio, legati alle attività rurali, alle botteghe, ai laboratori, alle borse, alle banche, alle fiere e naturalmente ai mercati»9. Il piano del mercato, imperniato sulla concorrenza e dunque portatore di scarsi guadagni, è considerato come la normalità statistica tanto da Adam Smith quanto da Karl Marx. Uno dei grandi meriti di Braudel consiste nell’aver rovesciato questa rappresentazione: anziché «considerare il mercato come elemento chiave del sistema capitalistico realizzatosi nella storia», con le parole di Wallerstein, «egli attribuisce tale 6

Id., La dinamica del capitalismo (1985), il Mulino, Bologna 1988, p. 46. Id., Una lezione di storia, cit., p. 81. In The Coffee Commodity Chain in the World-Economy: Arrighi’s Systemic Cycles and Braudel’s Layers of Analysis, in «Journal of World- Systems Research», vol. 17, 2011, n. 1, pp. 58-88, John M. Talbot ha tracciato le direttrici di una storia del caffè nell’economia-mondo moderna che adotta come suo criterio euristico proprio la visione braudeliana di una vita economica tripartita. 8 F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Le strutture del quotidiano (1967), Einaudi, Torino 2006, p. XIV. 9 Ivi, p. XIII. A differenza di Marx, Braudel ritiene che il momento della produzione e quello dello scambio possano appartenere allo stesso livello economico-sociale. 7

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centralità ai monopoli. Sono i monopoli a costituire la specificità del nostro sistema»10. Saliamo così dal secondo al terzo piano della struttura economica, a nord dell’equatore. Passiamo cioè al capitalismo, un livello ancor più oscuro del primo. Ma a questo punto il problema è capire se il capitalismo sia in qualche modo lo sbocco necessario del mercato oppure no. Sembra di sì, allorché questo non venga governato e regolato con severi ed efficienti meccanismi di controllo e sanzione, volti a mantenere l’effettiva dinamicità della concorrenza. Il passaggio tra mercato e capitalismo va letto, dunque, per un verso dialetticamente, ricordando che il primo è stato ed è «condizione indispensabile»11 per la nascita del secondo, e per altro verso sincronicamente, comprendendo come mercato e capitalismo, collocati su piani differenti o all’interno di settori diversi, possano coesistere e di fatto abbiano convissuto fino a oggi nella stessa economia-mondo. Il capitalismo non rappresenta l’Aufhebung, l’inveramento del mercato. E se l’esistenza del primo non implica la soppressione del secondo, è perché la dialettica braudeliana non trova una sintesi. Detto altrimenti: se normalmente concorrenza e monopolio vengono «considerati come i due poli del mercato capitalistico, che in qualche modo oscillerebbe tra l’uno e l’altro», Braudel li intende invece come «due strutture in perenne lotta tra loro e riserva l’etichetta di ‘capitalistica’ solo alla seconda, ossia al monopolio»12. Ma che cosa denomina, in positivo, il termine «capitalismo»? Braudel ritiene che esso qualifichi «alcuni processi che avvengono tra il quindicesimo e il diciottesimo secolo»13 su una determinata area del pianeta, che in misura minore si sono verificati anche prima e in misura sempre maggiore perdurano oggi. Tali processi, come accennato sopra, sono «essenzialmente le attività economiche che si svolgono alla sommità» della vita economica stessa, nella «zona dell’alto profitto»14. 10 I. Wallerstein, Il capitalismo: nemico del mercato?, in F. Braudel, Una lezione di storia, cit., pp. 109-115: 111. 11 F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit., p. 48. 12 I. Wallerstein, La scienza sociale: come sbarazzarsene, cit., p. 218. 13 F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit., p. 52. 14 Ivi, p. 100.

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Sembrano agire, qui, le peculiari temporalità individuate da Braudel. Fin dalla Prefazione del 1949 alla prima edizione francese del suo studio su Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, ispirato dai lavori di Lucien Febvre e soprattutto di Marc Bloch, egli aveva delineato infatti un’idea di longue durée che si scostasse da quella storia detta «evenemenziale», fatta per essere sondata nelle sue «oscillazioni brevi, rapide, nervose»15. La lunga durata denota un ritmo pressoché immobile, poiché interessa fenomeni secolari (l’evoluzione dei paesaggi, la storia dell’uomo nel suo rapporto con l’ambiente, ecc.). Ma il celebre articolo del 1958, scritto in polemica con Claude Lévi-Strauss e pubblicato sulle «Annales» con il titolo Histoire et Sciences sociales: la longue durée16, rimarca anche un’ulteriore temporalità: quella strutturale. Ed è in particolare questo «regime di storicità»17 a interessare l’universo capitalistico, il quale tuttavia è insieme animato da una temporalità ciclica e da una congiunturale. Non va però dimenticato come quello capitalistico, che abita la longue durée, sia un sistema «geostorico»18. Ciò significa che, immanente alla dimensione temporale prospettata da Braudel, c’è quella spaziale. Sorgono quindi i seguenti interrogativi: come avvengono i processi cui egli allude quando parla di capitalismo? In che modo si produce, cioè, l’alto profitto? Dove si accumula? Chi ne sono i beneficiari? E, infine, qual è la sua logica? Arrighi concorda con Braudel innanzitutto sull’idea che l’alto profitto derivi dalla «plasticità» e dall’«eclettismo»19 del capitale. Perché la condizione che permette i grossi guadagni è costituita dall’estrema flessibilità di cui godono i grandi capitalisti 15

Id., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949), Mondadori, Milano 2011, p. XXVII. 16 Id., Histoire et Sciences sociales: la longue durée, in «Annales. Économies, Sociétés, Civilisations», vol. 13, 1958, n. 4, pp. 725-753. 17 Il rimando è a F. Hartog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo (2003), Sellerio, Palermo 2007. 18 Su questo punto, Y. Lacoste, Braudel géographe, in AA.VV., Lire Braudel, la Découverte, Paris 1988, pp. 171-218, nonché, più di recente, G. Ribeiro, La genèse de la géohistoire chez Fernand Braudel: un chapitre de l’histoire de la pensée géographique, in «Annales de géographie» 2012/4, n. 686, pp. 329-346. 19 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., pp. 11-12.

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nella pianificazione delle proprie attività e nell’allocazione delle proprie risorse. Il capitalista non è tale in quanto mercante, industriale o finanziere specializzato, bensì in quanto non è uno specialista. Il capitalista è un mercante non specializzato o, se si preferisce, un professionista della non-settorializzazione nella propria attività imprenditoriale. Ed è precisamente la sua mancata specializzazione a consentirgli di spostare i capitali da un settore all’altro dell’economia con una rapidità il più possibile aderente al mutevole grado di rimuneratività dei vari mercati, dei quali è l’agente più informato. I mercati vengono occupati agilmente in forma oligo- o monopolistica: una condizione che non potrebbe essere raggiunta né conservata senza l’intervento, o più spesso il non intervento, dello Stato. Le istituzioni pubbliche giocano un ruolo essenziale, dunque, nella creazione di quei contro-mercati che garantiscono la massimizzazione del profitto e la sua concentrazione in poche mani. Tendenzialmente, coloro che traggono vantaggio da questo stato di cose sono i proprietari e i gestori d’impresa. Fin dall’alba dell’epoca capitalistica costoro conducono il contro-mercato a livello mondiale, facendo leva su due risorse principali: la facile disponibilità di «denaro in contanti» e l’interruzione del «rapporto diretto e lineare tra il produttore e il consumatore» – permessa dal fatto che essi sono gli unici a conoscere «le condizioni di mercato ai due poli della catena e dunque il profitto prevedibile»20. C’è poi una terza figura segnalata da Braudel, peraltro cruciale nella sua rappresentazione, ed è la figura del banchiere. Con un’intuizione che lo avvicina a Schumpeter21, lo storico francese esalta la dimensione finanziaria come una delle caratteristiche permanenti dell’economia moderna. E questa tesi, come vedremo, sarà ampiamente accolta e sviluppata da Arrighi allorché si tratterà di mostrare la ciclicità evolutiva del capitalismo. Insomma, pochi grandi capitalisti sono i primi beneficiari di un processo la cui logica è costante. Perché, pur non definendolo mai in modo univoco, Braudel pretende vi sia «un modello 20

F. Braudel, La dinamica del capitalismo, cit., pp. 57-58. G. Arrighi, Braudel, Capitalism, and the New Economic Sociology, p. 120. Su analogie e differenze tra Schumpeter e Braudel, F. Dannequin, Braudel, Schumpeter et l’histoire du capitalisme, in «L’Économie politique», vol. 29, 2006, n. 1, pp. 99-112. 21

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fondamentale di capitalismo»22. Ciò non implica, però, che questo rimanga sempre identico a sé stesso. Anzi. Il «capitalismo è strutturalmente camaleontico»23, perché, se è vero che i camaleonti restano sempre camaleonti, è altrettanto vero che cambiano sempre colore. Arrighi recupera l’idea che il capitalismo sia sempre identico, in quanto la sua logica resta immutata, e sempre diverso, poiché le sue tecniche e le sue strutture, immerse come sono nel divenire sociale, si modificano senza sosta. Sono altri i fronti sui quali si concentra la critica arrighiana. Sebbene l’idea dei cicli sistemici di accumulazione derivi espressamente dalla «concezione braudeliana del capitalismo come livello superiore “non specializzato” nella gerarchia del mondo del commercio», il primo difetto rilevato nella riflessione di Braudel consiste nel non aver stabilito «alcun chiaro fondamento logico o storico» al «nesso tra i cicli secolari» dell’economia e «l’accumulazione capitalistica»24. L’altro importante nesso che lo storico francese avrebbe commesso l’errore di trascurare è quello tra l’innovazione tecnologico-organizzativa e gli «spostamenti spaziali del centro dei processi sistemici di accumulazione»25. E la svista appare tanto più curiosa in quanto Braudel si era reso ben conto di questi spostamenti, riferendone in modo ampio e convincente nei Tempi del mondo (1979), il terzo e ultimo volume di Civiltà materiale, economia e capitalismo. Sulla natura dei cicli sistemici di accumulazione del capitale e sul valore che in essi giocano le scoperte geografiche e le innovazioni tecnologico-organizzative torneremo più avanti. Ora il problema è capire come siano spiegabili questi vuoti. Arrighi risponde rilevando nell’opera di Braudel la carenza non tanto di un quadro teoretico forte e rigoroso, quanto piuttosto di una sua sistemazione organica26. Certo, l’opera braudeliana «rap22

F. Braudel, Una lezione di storia, cit., p. 124. Ivi, p. 126. 24 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 14. 25 Ivi, p. 22. 26 Id., Braudel, Capitalism, and the New Economic Sociology, cit., pp. 117-120. Sulla tenuta teoretica della storia braudeliana del capitalismo, M.C. Howard, Fernand Braudel on Capitalism: A Theoretical Analysis, in «Historical Reflections», vol. 12, 1985, n. 3, pp. 469-483. Sull’impossibilità di ricondurre lo storico francese allo 23

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presenta una fonte d’informazione ricchissima sul tema dei mercati e del capitalismo», tanto che è facilissimo perdervisi. Ma le sue «innumerevoli teorie parziali»27 non giungono a costituirne una coerente e sistematica. In sintesi, a Braudel, storico decisivo per l’impronta analitica di Arrighi, mancherebbe la capacità di cogliere il sistema: difetto cui pone rimedio, nella formazione arrighiana, l’opera di Immanuel Wallerstein. Questi, infatti, è sì uno storico, ma è prima di tutto uno scienziato sociale e, in particolare, un teorico della storia moderna. 3.2. Se la società è un sistema È proprio l’attitudine a ragionare in termini sistemici ciò che spinge Arrighi a integrare la lezione di Braudel con quella di Wallerstein: uno studioso che, al pari dello storico francese, ha sempre rifiutato le «analisi logico-deduttive»28 del capitalismo, preferendone una «classificazione induttiva»29. A dispetto di Braudel, però, il sociologo newyorkese definisce esplicitamente il capitalismo nei termini di un «sistema storico-sociale»30. E come si individua questo sistema? «Ogni qualvolta, nel corso del tempo, è stata l’accumulazione di capitale ad avere sistematicamente la precedenza sugli obiettivi alternativi», secondo Wallerstein, «siamo autorizzati a dire che stiamo osservando un sistema capitalistico in azione»31. In altre parole, il capitalismo si distingue dagli altri sistemi sociali per il fatto che la legge principale che lo orienta e definisce la sua stessa logica, è quella di «una sempre maggiore accumulazione di «strutturalismo sistemico» di Wallerstein, G. Gemelli, Fernand Braudel e l’Europa universale, Marsilio, Venezia 1990, pp. 79-80. 27 G. Arrighi, I tortuosi sentieri del capitale, cit., p. 38. 28 I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica (1995), Asterios, Trieste 2000, p. 13. 29 Ivi, p. 20. 30 Ivi, p. 13. Wallerstein si sofferma sul lascito braudeliano in merito all’analisi del capitalismo in Braudel on Capitalism, or Everything Upside Down, in «The Journal of Modern History», vol. 63, 1991, n. 2, pp. 354-361. Per una sua riflessione più generale sull’eredità dello storico francese, Id., Fernand Braudel, historian, “homme de la conjoncture”, in «Radical History Review», vol. 26, 1982, pp. 105-119. 31 I. Wallerstein, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica, cit., p. 16.

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capitale»32. Non si tratta che di una riformulazione della legge marxiana del capitale D-M-D’. Ecco ciò che rende possibile individuare la logica capitalistica in modo più univoco di quanto non avesse fatto Braudel. Perché il capitalismo, per Wallerstein come per Marx, è inequivocabilmente identificato dal suo fine. Ma come si realizza l’incessante accumulazione di capitale? Su questo punto, ovvero sulla ricostruzione del processo di valorizzazione ripetuto nel tempo in forma costantemente allargata, le prospettive di Marx e Wallerstein divergono. Il primo, infatti, ritiene che D’, ossia il capitale valorizzato, in quanto strettamente dipendente dalla natura di merce della forza-lavoro, possa essere originato unicamente per via industriale. Il secondo, invece, pensa che D’ possa essere ottenuto anche all’interno di laboratori differenti da quelli industriali, come il settore commerciale e quello finanziario, o attraverso molteplici altri mezzi, come la guerra e la schiavitù. In altre parole, se per Marx la valorizzazione del capitale deriva necessariamente dalla sfera della produzione, per Wallerstein essa può scaturire anche da quella della circolazione. Riassumendo, Wallerstein, e in generale la scuola dei sistemimondo, concorda con Marx sul principium individuationis del capitalismo, eppure rinviene con maggiore flessibilità le condizioni del processo di valorizzazione del capitale. Ma quali sono le prospettive d’analisi che vengono liberate dall’approccio sistemico di Wallerstein? Qual è l’innovazione apportata dalla sua prospettiva analitica negli studi sul capitalismo storico? A mio avviso, la novità maggiore consiste nell’aver combinato una visione insieme più complessa e più comprensibile dell’economia-mondo, rispetto a quanto non fosse riuscito a rappresentare Braudel, con una lettura di quest’ultimo alla luce della teoria marxiana del capitale. Per cui da un lato, grazie alla concettualizzazione dei sistemi-mondo, Wallerstein rinnova l’unità d’analisi, laddove la sociologia classica impostava i propri studi per lo più in termini di Stati e di economie nazionali; e, d’altro lato, egli concepisce il mondo moderno non solo come un sistema capitalistico, bensì anche come un sistema-mondo moderno in quanto capitalistico. 32

Ivi, p. 19.

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Ma veniamo rapidamente al contenuto della teoria di Wallerstein sui sistemi-mondo. Egli ritiene che, nel corso della storia, se ne siano avvicendati due tipi: gli imperi-mondo, che hanno operato una distribuzione dei beni materiali, e non, secondo un criterio politico, e le economie-mondo, che invece hanno provveduto a farlo sulla base della divisione del lavoro. E quando si parla di economia-mondo, senza specificazioni, ci si riferisce implicitamente all’economia-mondo moderna, che è tenuta insieme dalla tensione tra un principio unificante, quale la divisione mondiale del lavoro, e uno disgregante, quale l’esistenza degli Stati nazionali. Una tensione attenuata da un diritto interstatale più o meno riconosciuto33. In particolare, Wallerstein interpreta «l’ascesa e l’espansione del moderno sistema interstatale» come insieme «causa principale» ed «effetto dell’incessante accumulazione di capitale»34. Come abbiamo visto, già Braudel aveva sottolineato con decisione il ruolo degli Stati e delle loro lotte di potere nel processo di formazione del capitalismo e, più specificamente, nell’edificazione politica dei monopoli che ostacolano il libero dispiegarsi dell’economia di mercato. Su questo punto insiste molto anche Wallerstein, il quale però, agli occhi di Arrighi, giunge a sopravvalutare le conseguenze dell’intuizione braudeliana, tanto da spingersi a sostenere che «la relazione tra Stato e capitale è rimasta la stessa attraverso tutta la storia del capitalismo»35. Il sociologo italiano giudica semplicistica e sostanzialmente priva di fondamento l’affermazione dell’amico. Nel corso degli anni Novanta e Duemila, Arrighi si impegnerà dunque a ricostruire lo stretto legame storico tra il capitalismo moderno e il sistema interstatale, costruendo un modello di sviluppo capitalistico-statale sinergico ma mutevole36. 33 Non va dimenticato che, ai fini dell’edificazione del sistema-mondo capitalistico moderno, Wallerstein (cfr. Id., Comprendere il mondo, cit., pp. 97-116) ritiene essenziale, oltre alla divisione internazionale del lavoro e al sistema interstatale, la cultura capitalistica. Un elemento, questo, rispetto al quale la riflessione di Arrighi appare senz’altro carente. Per un confronto tra la teoria sistemica arrighiana e la letteratura sulla “svolta culturale” del capitalismo contemporaneo, B.D. Brewer, “The Long Twentieth Century” and the Cultural Turn: World-historical Origins of the Cultural Economy, in «Journal of World-systems Research», 2011, n. 1, pp. 39-57. 34 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 40. 35 Cfr. Id., B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 10. 36 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 40.

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In definitiva, se Braudel appariva ad Arrighi poco sistematico, Wallerstein gli sembra afflitto dal difetto opposto. È troppo sistematico: troppo per i motivi appena esposti e per quelli più generali esaminati nel secondo capitolo, i quali non solo finiscono per irrigidire la visione della storia, ma non permettono nemmeno di considerare endogena al sistema la causa fondamentale delle crisi capitalistiche. È allora il momento di soffermarci su Karl Marx, primo vero teorico del ciclo e della crisi del capitalismo. Proprio estendendo la sua formula del capitale, infatti, Giovanni Arrighi descrive un sistema in perenne bilico tra cicli e sviluppo. 3.3. La logica del capitale Per elaborare la sua teoria della storia capitalistica, Arrighi ha attinto a piene mani da quel pensiero prodigiosamente complesso e organico che è la dottrina economica marxiana. Come vedremo, il più rilevante supporto per il discorso arrighiano è rappresentato dalla formula del capitale. Ma l’opera di Marx ha influito sul pensiero di Arrighi anche nella prognosi della mondializzazione capitalistica, nella valorizzazione del sistema di credito internazionale, nel riconoscimento del circolo virtuoso di industrializzazione e mercatizzazione mondiale. Arrighi tiene in gran conto, innanzitutto, la previsione di Marx ed Engels di una progressiva mondializzazione del sistema capitalistico. Egli vi torna a più riprese, soffermandosi partitamente sulla questione a partire dal saggio del 1990 su Secolo marxista, secolo americano. Qui il sociologo italiano sosteneva come questa previsione, esemplarmente argomentata nel Manifesto del partito comunista, si fosse pressoché avverata. Perché, dopo la crisi del 1973, il «mercato mondiale» sarebbe diventato «quasi una “forza autonoma”, che nessuno Stato, neanche gli Stati Uniti, può controllare»37. Nel 2000, mettendo a frutto il dialogo intrapreso con il geografo David Harvey38, Arrighi ri37 Id., Secolo marxista, secolo americano. L’evoluzione del movimento operaio mondiale (1990), ora in Id., Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., pp. 65-107: 84. 38 Si veda, in particolare, D. Harvey, Globalization in Question, in «Rethinking Marxism», vol. 8, 1995, n. 4, pp. 1-17.

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badirà la propria tesi: nel pronosticare l’interdipendenza delle nazioni sotto il segno dell’integrazione globale del capitale, gli autori del Manifesto avevano fornito la più illuminante previsione della globalizzazione in corso. E il valore delle loro intuizioni appare ancor più straordinario se si considera che, nel 1848, il processo di industrializzazione, peraltro concentrato in una zona limitatissima, non era che agli albori39. Sebbene abbia saputo prevedere il destino di colonizzazione del pianeta da parte dell’ordine capitalistico, Marx avrebbe però sbagliato, secondo Arrighi, a intenderne la morfologia. Nella prospettiva marxiana, quello globale sarebbe dovuto essere un «mondo piatto», per usare l’immagine evocata con ben altro segno da Thomas Friedman40. Egli credeva che la divergenza nella distribuzione del reddito avrebbe rappresentato una fase transitoria nella lunga marcia verso l’appiattimento del mondo, che la disuguaglianza sarebbe stata superata grazie all’avvento della definitiva epoca di “convergenza”. Per dirla con Jacques Derrida, è vero che la pervicace resistenza degli «spettri di Marx»41 fa tutt’uno con l’indeterminatezza temporale dei suoi annunci. Eppure, secondo Arrighi, non ci si può non interrogare sul fatto che, oltre un secolo e mezzo dopo la pubblicazione del Manifesto, la convergenza preannunciata dal filosofo tedesco resta un miraggio. Secondo un’interpretazione classica, che il sociologo italiano fa propria, l’errore di Marx nell’immaginare la forma della globalizzazione capitalistica sarebbe rivelatore di un cattivo utopismo. Nella convinzione che la sfera dell’economia condizionasse univocamente le sfere della cultura e della politica e che gli agenti del divenire storico fossero mere incarnazioni di tendenze strutturali, Marx avrebbe scontato per di più un vizio di «determinismo economico e tecnologico»42. 39

G. Arrighi, La globalizzazione nel «Manifesto» di Marx ed Engels e oggi, in R. Rossanda (a cura di), Il Manifesto del Partito Comunista 150 anni dopo, manifestolibri, Roma 2000, pp. 25-43: 25. 40 T. Friedman, Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo (2005), Mondadori, Milano 2007. 41 J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993), Raffaello Cortina, Milano 1994, specie pp. 123-157. 42 G. Arrighi, La globalizzazione nel «Manifesto» di Marx ed Engels e oggi, cit., p. 41.

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Ma l’integrazione capitalistica globale non si è limitata a fallire nell’instaurazione di un regno di pace e omologazione. Essa ha contribuito inoltre a conservare e, per certi aspetti, ad aggravare l’ineguale distribuzione della ricchezza tra centro e periferia, tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del mondo. Detto altrimenti, la modernizzazione ha dilatato, anziché cancellato, le «disuguaglianze mondiali»43. Diseguaglianze tra le diverse aree del mondo, che l’eurocentrismo ha impedito a Marx di prevedere nel loro ampliamento. Il filosofo di Treviri credeva che il progresso capitalistico avrebbe impoverito l’esercito proletario di riserva e rafforzato l’esercito proletario attivo. Ma entrambe le tendenze, questa la previsione, avrebbero contribuito ad abbattere la borghesia, per un verso minando la sua legittimità e per l’altro riducendo la sua capacità di appropriarsi del surplus. Qual era, però, il presupposto di questa convinzione? Che l’esercito attivo e quello di riserva fossero costituiti dalle medesime persone, le quali, a seconda dell’andamento dell’economia, sarebbero passate da un gruppo all’altro. È precisamente questo presupposto che Arrighi contesta. Se ad esempio si guarda al mezzo secolo seguito al 1848, sarebbe facile constatare come il proletariato si era di fatto irrobustito economicamente e politicamente in Scandinavia e nel mondo anglosassone, mentre si impoveriva in Russia e più in generale in Oriente. Insomma, la disuguaglianza si distribuisce su aree geografiche differenti, non solo su classi diverse di uno stesso territorio. Ma l’Arrighi sistemico è convinto che i motivi profondi della smisurata ineguaglianza esorbitino di gran lunga il campo designato dall’opposizione tra padronato e proletariato, sia esso attivo o di riserva. Il sociologo italiano individua fattori strutturali e sistemici, che in sintesi fanno capo al «nodo del rapporto tra lo sviluppo dell’Europa, centrato sul commercio estero, e quella superiorità militare che ha consentito per almeno tre secoli agli europei di appropriarsi dei crescenti benefici dell’integrazione dell’economia su scala mondiale»44. Marx aveva adottato un fuoco analitico trop43

Id., Le disuguaglianze mondiali (1991), in Id., Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., pp. 109-141. 44 Id., Adam Smith a Pechino, cit., 87.

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po ristretto per poter cogliere quel collante nascosto, ma decisivo, che ha unito in un processo di estensione mondiale il militarismo europeo al capitalismo. Per comprendere come quest’ultimo abbia potuto estendersi su tutto il pianeta, coinvolgendo la quasi totalità della popolazione mondiale, non può essere ignorato il ruolo delle potenze militari e, attraverso queste, delle conquiste territoriali e delle innovazioni tecnologiche45. E il difetto che nuoce all’analisi di Marx è paradossale per uno studioso che non soleva ridurre lo sviluppo ad alcunché di misurabile su scala nazionale. Eppure bisognerà attendere l’ultimo quarto del Novecento perché la teoria marxiana della polarizzazione della ricchezza venga trasposta su una dimensione, per l’appunto, mondiale. La vera divergenza, sosterrà la scuola dei sistemi-mondo, non è quella che intercorre tra la classe capitalista e quella proletaria all’interno di singoli Stati o al più dell’Occidente industrializzato, bensì quella che separa e contrappone regioni centrali e periferiche rispetto al processo mondiale di accumulazione del capitale. Il secondo tema sul quale l’opera marxiana feconda il pensiero di Arrighi è quello del credito internazionale. Marx comprese come il meccanismo del debito pubblico, introdotto dalle Repubbliche di Genova e Venezia nel tardo medioevo, avesse esercitato un ruolo decisivo all’interno del circuito creditizio. Più precisamente, esso sarebbe stato un dispositivo indispensabile nel sostenere l’espansione iniziale del capitalismo. E, in effetti, quella marxiana resta un’intuizione rilevante per chiarire la genesi del sistema capitalistico. L’eccessiva focalizzazione sul momento della produzione, tuttavia, avrebbe impedito a Marx di apprezzare «la persistente importanza del debito pubblico»46. Perché, secondo Arrighi, questo meccanismo non è stato essenziale solo nel periodo di formazione del sistema capitalistico in Europa, bensì anche e soprattutto 45 Per la ricostruzione del nesso arrighiano tra militarismo e capitalismo, specie nelle sue dinamiche finanziarie, B. Settis, La «memorabile alleanza» tra il potere del denaro e il potere delle armi nella teoria generale di Giovanni Arrighi, in «Il pensiero economico italiano», a. 23, 2015, n. 1, pp. 121-136. 46 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 20. Sulla teoria marxiana del debito pubblico, G. Forges Davanzati, R. Patalano, Marx on Public Debt: Fiscal Expropriation and Capital Reproduction, in «International Journal of Political Economy», vol. 46, 2017, n. 1, pp. 50-64.

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durante il suo svolgimento e la sua estensione al mondo intero. L’indebitamento pubblico avrebbe giocato una funzione nodale nella storia del capitalismo. Viene perciò rimproverato a Marx di non aver valutato appieno le conseguenze della sua scoperta: «nonostante il grande spazio riservato al capitale “monetario” nel Terzo libro del Capitale, il debito nazionale non viene mai liberato dal pregiudizio di non essere “il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico”». Eppure, invita a riflettere lo studioso italiano, «quello che si presenta come punto di partenza nei centri emergenti (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti) è anche il risultato di lunghi periodi di accumulazione di capitale nei centri già affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra)»47. Ed è su questa coincidenza di risultati e punti di partenza che Arrighi fa fruttuosamente interloquire Smith e Marx. Il secondo aveva convenuto con il primo, infatti, nel constatare come l’accumulazione del capitale tendesse, col passare del tempo, a deprimere il saggio di profitto, portando infine all’arresto dello sviluppo economico. Il nesso tra sovrabbondanza di capitali e stagnazione, nota Arrighi nella sua ultima opera48, era stato colto per primo da Smith. E anzi, a differenza sua, Marx aveva scorto nel sistema di credito internazionale il trucco volto a eludere la stagnazione. Egli aveva saputo individuare il dispositivo che consentiva ai capitali di spostarsi in un nuovo “contenitore”, dove il capitale monetario sarebbe stato riciclato e l’accumulazione avrebbe potuto riprendere slancio. Ciò di cui Marx non si è accorto, però, è che il processo di capitalizzazione può ricominciare solo su scala più ampia. Complice ancora una volta la concentrazione sulla sfera della produzione, egli non ha notato come storicamente i nuovi “contenitori” delle imprese-guida fossero sempre stati «unità di dimensioni, risorse e potere mondiale crescenti»49. Era stato così nel caso dell’Inghilterra rispetto all’Olanda e dell’Olanda rispetto a Venezia. E sarebbe stato così, nel Novecento, per gli Stati Uniti nei confronti dell’Inghilterra. Ma Marx non aveva prestato attenzione a questo fenomeno, perché, a differenza di Braudel, 47

Id., Adam Smith a Pechino, cit., pp. 100-101. Ivi, pp. 59-64. 49 Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 21. 48

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riteneva che il capitalismo non fosse il luogo di incontro tra il possessore di denaro e il detentore del potere politico, bensì lo spazio di scontro tra capitale e lavoro. La terza importante lezione che Arrighi ha tratto da Marx è quella che riguarda l’importanza del circolo virtuoso tra lo sviluppo dell’industria, quale luogo della divisione tecnica del lavoro, e la globalizzazione del mercato, quale spazio della divisione sociale del lavoro50. Nel Manifesto del partito comunista si legge che «la grande industria ha creato quel mercato mondiale, che era stato preparato dalla scoperta dell’America»51. La colonizzazione del nuovo mondo fu la premessa dell’allargamento dei commerci. Di qui le condizioni per la rivoluzione industriale. Ma quest’ultima, strettamente legata all’introduzione della macchina a vapore, diventerà a sua volta il principale motore di integrazione del globo in un mercato unico. Spetterà quindi alla globalizzazione del capitale retroagire sull’industria stessa, conformando a sé la produzione di scala e il consumo di massa. In sintesi, Arrighi ritiene che la globalizzazione capitalistica sia l’esito della combinazione sistemica di una serie di fattori che Marx ha individuato, come il sistema di credito internazionale e il circolo virtuoso di industrializzazione e mercatizzazione mondiale, e di altri che non ha saputo vedere, come il militarismo europeo e lo sviluppo di un sistema interstatale allargato. La storia del capitalismo che il sociologo italiano traccia in dialogo con lui giunge fin qui. Il filosofo tedesco non si era quasi mai addentrato nelle vicende concrete delle lotte politiche e aveva trascurato gli antagonismi tra gli Stati; Arrighi provvede a supplire in particolare al secondo di questi limiti. Il risultato evidenzia non solo la compresenza di diverse «varietà di capitalismo»52, ma anche e soprattutto i nessi tra le loro storie: quei nessi che oggi consentono di parlare di un «capitalismo variegato»53. 50

Id., La globalizzazione nel «Manifesto» di Marx ed Engels e oggi, cit., p. 41. K. Marx e F. Engels, Manifesto del Partito comunista (1848), Einaudi, Torino 1998, p. 8. 52 Cfr. M. Albert, Capitalisme contre capitalisme, Seuil, Paris 1991; P.A. Hall, D. Soskice, (a cura di), Varieties of Capitalism. The Institutional Foundations of Comparative Advantage, Cambridge University Press, Cambridge 2001. 53 Cfr. J. Peck, N. Theodore, Variegated capitalism, in «Progress in Human Geography», vol. 31, 2007, n. 6, pp. 731-772; B. Jessop, Rethinking the diversity 51

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D’altro canto, Arrighi ha trascurato una serie notevole di elementi che hanno caratterizzato l’epoca moderna. Non ha condotto a fondo la sua analisi sui regimi politici, democratici oppure dispotici, e sulle battaglie per l’acquisizione dei diritti. Ha ignorato, inoltre, i conflitti culturali e religiosi, le rivoluzioni scientifiche, gli scontri ideologici…54 Ma ciò è accaduto, ripetiamo, perché quella di Arrighi non è, né ha mai voluto essere, un’opera di storia. Il sociologo italiano è stato prima di tutto un teorico del mondo moderno. E proprio la concezione marxiana del capitale rappresenta un elemento essenziale nella costruzione, da parte sua, di una vera e propria teoria storica sistemica. Affrancata dalle sue contaminazioni utopistiche, dal determinismo e dal riduzionismo, la critica dell’economia politica di Marx conserva, agli occhi di Arrighi, un’incisività per molti aspetti insuperata. E farci i conti si rivela imprescindibile anche per colui che si proponga di ricostruire solo i tratti essenziali della storia capitalistica. Veniamo così alla differentia specifica che Marx stesso rilevò tra la sua teoria e quella di Adam Smith: una differenza indispensabile per intendere l’alterità di capitalismo e mercato. Il filosofo tedesco, infatti, comprese che l’atteggiamento del capitalista è animato da finalità diverse da quelle di un mero scambio di alcune merci con altre dotate di maggiore utilità. Quest’affermazione sarebbe sembrata assurda a Smith. Egli avrebbe escluso una possibilità del genere, perché, dal suo punto di vista, ciascuna merce incorpora utilità e il denaro non può servire che ad acquistare merci. Arrighi ricorda come fosse stato lo stesso Marx a codificare la logica mercantile di Smith con la formula dello scambio di merci M-D-M’, in base al quale il denaro (D) è un semplice strumento atto a trasformare una quota di merci (M) in un’altra quota di maggiore utilità (M’). Una logica, questa, radicalmente diversa da quella che muove il capitalista, il quale vede raggiunto il proprio scopo allorché il denaro (D) speso nell’acquisto di un determinato insieme di merci (M) rende, dopo la vendita sul mercato, and variability of capitalism. On variegated capitalism in the world market, in C. Lane, G.T. Wood (a cura di), Capitalist Diversity and Diversity Within Capitalism, Routledge, New York 2012, pp. 209-237. 54 Cfr. G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista. Dalla Venezia del 1200 al mondo del 1939, Laterza, Roma-Bari 2012.

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una maggiore quantità di denaro (D’). Con un capovolgimento che dà vita alla famosa formula marxiana del capitale: D-M-D’. Perché nell’ottica capitalistica l’acquisto di merci ha uno scopo ben definito: ottenere un aumento del valore monetario del capitale da D a D’. E quando le circostanze offrono opportunità più vantaggiose nel sistema creditizio rispetto a quanto non promettano le sfere della produzione e del commercio merceologico, nulla vieta di saltare la trasformazione del denaro in merce. È quello che accade nella formula abbreviata della finanza, D-D’. Il passaggio dalla formula smithiana del mercato a quella marxiana del capitale, dunque, testimonia un’inversione di mezzi e fini. Secondo Marx, l’ordine di circolazione semplice delle merci viene investito da una contraddizione oggettiva quando, al suo interno, si rivela impossibile l’autonomizzazione del valore di scambio rispetto al valore d’uso. A quel punto è lo stesso rapporto di mercato a travalicare nel rapporto di capitale. E quest’ultimo toglie la contraddizione istituendo un’adeguata opposizione tra capitale e lavoro e, per altro verso, stabilizzando il rapporto tra merce e denaro. Grazie a quest’inversione di mezzi e fini Marx può considerare l’indefinita accumulazione di denaro come la prima fonte di potere nella società capitalistica. Si replicherà che anche Hobbes e Smith equiparavano ricchezza e potere; ma, come nota Arrighi55, per loro il potere monetario non era che potere d’acquisto. Vigeva il sistema stazionario classico. La prospettiva di Hobbes e di Smith, infatti, aveva senso nel tempo che Marx descrive come «riproduzione semplice»56 e Schumpeter come «flusso circolare dell’economia»57. Ma il capitalismo designa un’altra epoca, quella della «riproduzione allargata»58. Per Smith, come vedremo nel prossimo capitolo, si tratta di un percorso innaturale di sviluppo. Eppure è quello capitalistico il tipo di sviluppo che ha investito prima l’Occidente e poi il pianeta intero. Bisogna rivolgersi al filosofo di Treviri, dunque, per intendere il carattere dell’e55

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 90. K. Marx, Il capitale, cit., vol. 1, pp. 727-741. 57 J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico (1911, sesta edizione tedesca 1946), Etas, Milano 2002, pp. 1-59. 58 K. Marx, Il capitale, cit., vol. 1, pp. 742-752 56

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poca. E, come scrive Arrighi, esso non consiste in altro se non nel «meccanismo di auto-espansione del capitale che sta dietro a tutto il processo e che continuamente distrugge qualsiasi tipo di equilibrio che si possa verificare, in un dato momento, tra le differenti branche della produzione»59. Questa costante rottura di ogni punto di equilibrio è ciò che Schumpeter più tardi chiamerà «distruzione creatrice». Ed è esattamente su questo punto che Arrighi, memore delle lezioni di Braudel, di Wallerstein e di Marx, dà vita al cuore della sua teoria. 3.4. I cicli di accumulazione La maggiore novità teorica che il sociologo milanese ha apportato nell’ambito degli studi sul capitalismo consiste in una peculiare interpretazione della formula D-M-D’. Arrighi le conferisce una valenza superiore di quella accordatale dal primo grande teorico del ciclo economico, Marx. A quest’ultimo, peraltro, spettava il merito di aver istituito il nesso tra ciclo e sviluppo. Un legame tanto più significativo in quanto la teoria economica del Novecento, fatte salve le pur indimenticabili eccezioni di Pareto e Schumpeter, lo ha messo generalmente in secondo piano60. Ed è proprio rifacendosi a questa linea di pensiero che Arrighi arriva a sostenere come la formula D-MD’ non indichi solo la logica di singoli investimenti capitalistici, ma rappresenti la struttura fondamentale di tutti i cicli economici del capitalismo: genovese-iberico (dal Quattrocento agli inizi del Seicento), olandese (dalla fine del Cinquecento alla metà del Settecento), britannico (dalla seconda metà del Settecento ai primi decenni del Novecento) e statunitense (dal tramonto dell’Ottocento fino ad oggi). Ogni lungo ciclo economico sarebbe caratterizzato da due fasi: una prima, generalmente più breve, di espansione materiale e commerciale; una seconda, solitamente più duratura, di espansione finanziaria. Per riprendere la formula marxiana, si 59

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 94. Cfr. A. Roncaglia, La ricchezza delle idee. Storia del pensiero economico, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 276. 60

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realizza innanzitutto il passaggio da D a M e poi la transizione da M a D’. «Nelle fasi di espansione materiale», scrive Arrighi, «il capitale monetario “mette in movimento” una crescente massa di merci (inclusa la forza-lavoro mercificata e le doti naturali)». Mentre «nelle fasi di espansione finanziaria», prosegue, «una crescente massa di capitale monetario “si libera” dalla sua forma di merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie (come nella formula marxiana abbreviata D-D’)». Ed ecco come si conclude la ricostruzione: «insieme, le due epoche o fasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’)»61. Muovendosi nel solco di Wallerstein, Arrighi integra la formula di Marx con gli insegnamenti di Braudel. Egli riconosce innanzitutto un accordo di fondo tra i due sull’individuazione dell’essenza del capitalismo. Tanto per il filosofo tedesco quanto per lo storico francese, ciò che «rende capitalistico un agente o uno strato sociale non è la sua propensione a investire in una particolare merce (per esempio la forza-lavoro) o sfera di attività (per esempio l’industria)». Se «un agente è capitalistico», nella lettura del sociologo italiano, ciò accade «in virtù del fatto che il suo denaro è dotato, sistematicamente e costantemente, della “facoltà di procreare” (l’espressione è di Marx), indipendentemente dalla natura delle specifiche merci e attività che ne costituiscono incidentalmente lo strumento in ogni dato momento»62. In altre parole, riepiloga Arrighi, un agente è capitalistico quando «è interessato principalmente, se non esclusivamente, all’incessante espansione della sua quota di denaro». E se questo è l’obiettivo, ne consegue che il capitalista «metterà continuamente a confronto i rendimenti che può ragionevolmente attendersi dal reinvestimento del suo capitale nelle transazioni in merci […] con i rendimenti che può ragionevolmente attendersi dalla scelta di conservare in forma liquida le eccedenze monetarie per essere poi pronto a investirle in transazioni finanziarie»63. Perché, stabilito che il fine è il denaro, la merce è soltanto un mezzo funzionale alla sua accumulazione. 61

G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 12. Ivi, p. 15. 63 Ivi, p. 251. 62

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Ma il sociologo italiano non si è limitato a riconoscere come Braudel convenga sulla cifra capitalistica individuata da Marx; Arrighi ha saputo anche adottare l’ottica dello storico francese per leggere la formula marxiana del capitale. In altre parole, egli non ha smesso di intendere il capitalismo come la zona flessibile della vita economica. Sotto questo profilo, se il «capitale monetario (D) indica liquidità, flessibilità, libertà di scelta», d’altra parte «M indica il capitale investito in una particolare combinazione di input-output in vista di un profitto». Da un lato, quindi, ci sono «liquidità, flessibilità e libertà di scelta allargate»; dall’altro, invece, «concretizzazione, rigidità e riduzione delle opzioni aperte». E con una combinazione attenta di Marx e Braudel, Arrighi può concludere che gli agenti capitalistici «non investono denaro in particolari combinazioni di input-output come un fine in sé, con la conseguente perdita di flessibilità e di libertà di scelta. Al contrario, lo fanno come un mezzo per assicurarsi una flessibilità e una libertà di scelta ancora maggiori in un momento futuro»64. Prima di passare a un’analisi approfondita sulla natura dei cicli sistemici di accumulazione, c’è un’ultima integrazione che la storiografia braudeliana può offrire allo schema di Marx. Si tratta dell’interpretazione delle fasi di espansione finanziaria come momenti di declino di un determinato ciclo egemonico oltre che economico. Ogni espansione finanziaria, per restare fedeli all’immagine di Braudel, è simultaneamente l’autunno di uno sviluppo capitalistico imperniato su un determinato centro, che ha raggiunto i propri limiti, e la primavera di un processo ancora più grande basato su un altro centro. Concepita in questo modo, però, non viene adeguatamente considerato il valore strategico assunto dalla finanza nel favorire l’innovazione; essa sembra al più funzionale a mantenere un apparente dominio sull’economia mondiale. Ad ogni modo, ciò che interessa ad Arrighi è mostrare come anche l’espansione finanziaria dell’economia globale degli ultimi decenni non sia stata un fenomeno inedito, bensì l’ennesima espressione di una tendenza ricorrente fin dai primordi del capitalismo. Il carattere post-fordista, disorganizzato e in un certo 64

Ivi, p. 11.

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senso postmoderno dell’ordine attuale va dunque proiettato su uno scenario più vasto e risalente65. Qual è la logica delle espansioni finanziarie? Secondo Arrighi, essa è incomprensibile al di fuori del meccanismo dei cicli sistemici di accumulazione. La logica finanziaria sarebbe riconoscibile solo a partire dalla tesi, suffragata dall’esperienza storica, secondo cui le espansioni materiali conducono inevitabilmente a una sovraccumulazione di capitale e, così, a una caduta del saggio di profitto. Una tendenza, questa, che avrebbe una duplice conseguenza: da un lato, indurrebbe le organizzazioni capitalistiche dominanti a occupare altri settori imprenditoriali; e, dall’altro, comporterebbe la riorganizzazione della divisione sociale del lavoro e la rottura dell’effetto sistemicamente positivo della competizione. Se le imprese trattengono una quota sempre maggiore di capitale in forma liquida, ciò accade perché vi sono in qualche modo costrette da motivi endogeni alla logica capitalistica stessa. Questa conduce fatalmente alla crisi di sovraccumulazione, creando così la condizione di offerta dell’espansione finanziaria. Altro, invece, è il fattore cruciale nella creazione complementare di domanda finanziaria. E secondo Arrighi, che qui dichiara il proprio obbligo nei confronti di Max Weber66, questo fattore è costituito dall’intensificazione della competizione interstatale. Una delle costanti della modernità è proprio la lotta tra gli Stati per assicurarsi il capitale mobile. La ricorrente coincidenza di espansioni finanziarie e competizione interstatale, dunque, non 65

Nelle prime pagine introduttive al Lungo ventesimo secolo (ivi, pp. 7-10) Arrighi colloca la sua prospettiva nell’ambito delle teorie critiche del capitalismo a lui contemporanee, citando la scuola regolazionista di Michel Aglietta, i lavori di Claus Offe, di John Urry e soprattutto di David Harvey. 66 «Le città moderne», scriveva Weber nella sua Storia economica. Linee di una storia universale dell’economia e della società, Donzelli, Roma 1993, p. 236, «caddero sotto il dominio di Stati nazionali in concorrenza tra loro, e in costante conflitto per il potere, sia in forma pacifica sia in forma bellica. Questo conflitto concorrenziale determinò le massime opportunità per il moderno capitalismo occidentale. Il singolo Stato doveva competere per il capitale, che poteva spostarsi liberamente e gli prescriveva le condizioni a cui era disposto a dargli l’aiuto necessario per diventare una potenza. Il ceto borghese nazionale, la borghesia nel senso moderno del termine, è nato dall’alleanza, determinata da necessità, dello Stato con il capitale. È dunque lo Stato nazionale chiuso ciò che assicura al capitalismo le opportunità per continuare a sussistere: fino a che non farà posto ad un impero mondiale, durerà anche il capitalismo».

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sarebbe dovuta al caso. Anzi, in una certa misura, sarebbe stata proprio la competizione delle organizzazioni territoriali a inflazionare il capitale, alimentandone la finanziarizzazione. Si fa così evidente lo stretto legame che sussiste tra i cicli economici e i cicli egemonico-politici. Ma qual è il rapporto che intercorre tra questi ultimi e le espansioni finanziarie che caratterizzano i primi? In apparenza, la seconda fase del ciclo economico procura nuova prosperità alla potenza egemonica di turno. Sul lungo periodo, però, diventa sempre chiaro come questa fase non sia che propedeutica a un passaggio di consegne nel ruolo di epicentro egemonico dell’accumulazione di capitale su scala mondiale. Più precisamente, l’inizio dell’espansione finanziaria, scatenato dalla crisi di sovraccumulazione, coincide con la crisi spia del ciclo egemonico, mentre la fine dell’espansione finanziaria, data dalla crisi di sovrapproduzione, fa il paio con la crisi terminale del ciclo egemonico67. Non è tutto. L’esaurirsi dell’espansione finanziaria non coincide solamente con la crisi definitiva di una certa egemonia politica, ma comporta anche la fine di un determinato regime socioeconomico di accumulazione. Come si è mostrato nel secondo capitolo, infatti, gli Stati egemonici fungono sempre da veicoli di strutturazione del sistema-mondo. Perché a ciascun ciclo politico corrisponde una specifica tipologia di organizzazione economica e sociale. Ma in che modo avviene, in coincidenza con la fase M-D’, il cambio di leadership nel processo mondiale di accumulazione del capitale? Arrighi nota come in tutte le belles époques di capitalismo finanziario la ricchezza si sia distribuita in maniera fortemente impari: una disuguaglianza tanto a livello globale quanto all’interno dei confini dello stesso Stato egemonico, dalla quale non si può evidentemente prescindere se si vuole comprendere come mai la seconda fase del ciclo politico-economico sia periodicamente segnata da violente agitazioni sociali. Riassumendo, le espansioni finanziarie tendono a destabilizzare l’ordine economico, politico e sociale. «Sul piano economico», scrive Arrighi in Adam Smith a Pechino, «quei processi spostano continuamente potere d’acquisto dagli investimenti in beni materiali (e 67 Cfr. G. Cesarale, Sovraccumulazione e transizioni egemoniche, in AUSER (a cura di), Stili di vita. Economia, filosofia, democrazia, Carocci, Roma 2010, pp. 147-158.

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forza-lavoro) capaci di creare domanda, a impieghi speculativi che inaspriscono i problemi di realizzo monetario della produzione e degli investimenti». «Sul piano politico», prosegue, «nuove costellazioni di potere […] erodono la capacità della nazione egemonica di trarre profitto dall’intensificazione della concorrenza in corso in tutto il sistema». «Sul piano sociale», infine, si assiste tanto a una «vasta redistribuzione di redditi e di risorse», quanto a «disgregazioni sociali che tendono a provocare movimenti di resistenza e ribellioni tra i ceti e i gruppi subordinati che vedono minacciate le prerogative consolidate del loro modo di vita»68. A questo punto dovrebbe essere già abbastanza chiaro come la teoria del capitalismo di Arrighi non possa essere ridotta, come invece ritengono Michael Hardt e Toni Negri, all’enunciazione di un «eterno ritorno del medesimo». Costoro sbagliano a sostenere che «nel contesto dello schema ciclico di Arrighi è impossibile riconoscere alcuna rottura sistemica, un mutamento di paradigma, un evento»69. Perché quella arrighiana non è la teoria di cicli che si ripetono eternamente uguali, secondo l’alternanza di espansioni materiali e finanziarie. Per lui le espansioni finanziarie non solo non sono state un mero e ciclico ritorno dell’identico, ma, esattamente all’opposto, hanno costituito i momenti di fondamentale riorganizzazione del regime di accumulazione capitalistica. Per quanto paradossale possa sembrare, Arrighi ritiene che le ristrutturazioni del sistema capitalistico siano avvenute proprio allorché l’uguale è ritornato, nella forma delle espansioni finanziarie70. E come si sono realizzate, in concreto, queste riorganizzazioni dei regimi di accumulazione, che hanno condotto alla globalizzazione del capitalismo? Come già in precedenza si è accennato, Arrighi ritiene che i blocchi governativo-imprenditoriali siano stati sempre più grandi, che le strategie di governo siano state alterne e che i cicli siano stati sempre più brevi. Viene rilevato in primo luogo come tutte le successive espansioni finanziarie siano state accompagnate dall’emergere di agen68

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 183. M. Hardt, T. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), Rizzoli, Milano 2007, p. 226. 70 Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., pp. 264-265. 69

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zie di accumulazione del capitale più corpose. Ciò vale, su scala mondiale, sia a livello imprenditoriale sia a livello statale. E non è soltanto una questione di dimensione. I nuovi soggetti economici e politici avrebbero avuto ogni volta uno scopo più profondo, una complessità più intensa e dunque una potenza finanziaria, politica e militare maggiore rispetto ai loro predecessori. Tuttavia questo ingrandimento dei “contenitori” di potere e capitale, dei loro scopi e della loro complessità, viene generalmente oscurato da un secondo tipo di doppio movimento: in avanti e all’indietro. Ogni passo in avanti nell’internalizzazione dei costi operato da un nuovo regime di accumulazione di capitale ha convissuto, infatti, con un ritorno di strategie e strutture di governo e business superate dal precedente regime. Fino ad oggi abbiamo assistito, per Arrighi, all’alternarsi di regimi a produzione intensiva ed estensiva. Ma questa differenza non ha mai scalfito la tendenza, confermata da ogni regime, a muovere verso una maggiore internalizzazione dei costi. La terza e ultima osservazione del sociologo milanese è quella che riguarda il progressivo accorciamento della durata dei cicli di accumulazione del capitale. Egli ritiene che, con l’avanzare della storia, diminuisca la durata necessaria affinché un soggetto economico-politico divenga dominante e poi decada, sperimentando l’inizio di una nuova espansione finanziaria. «Nel caso del regime britannico», si legge nel Lungo ventesimo secolo, «questo periodo fu di 130 anni, ossia più breve di circa il 40 per cento rispetto al regime genovese; nel caso del regime statunitense fu di 100 anni, ossia più breve di circa il 45 per cento rispetto al regime olandese»71. Come si vede, quello arrighiano è un modello di capitalismo largamente difforme da quello dell’ortodossia marxista. Il capitalismo non è più un modo di produzione, bensì un sistema allargato di accumulazione e dominio, che presuppone una determinata cultura e possiede una sua specifica logica. Una logica che resta comunque contraddittoria, perché l’espansione mondiale del commercio e della produzione, volta alla valorizzazione del capitale, tende inevitabilmente ad abbassare il saggio di profitto, 71

Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 240.

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decurtando in tal modo il valore del capitale. Ma sulle contraddizioni del capitalismo torneremo in seguito. Qui va infine rammentato come i cicli sistemici di accumulazione, nei quali si manifesterebbe la peculiarità del capitalismo moderno, vadano nettamente distinti da fenomeni che di per sé capitalistici non sono, quali i cicli dei prezzi o i cicli di Kondratieff72. Come Arrighi stesso riconosce, i suoi cicli presentano piuttosto una stretta somiglianza con il “modello delle metamorfosi” proposto da Gerhard Mensch73 per intendere lo sviluppo socioeconomico. Dall’economista tedesco viene mutuata l’idea secondo cui, nella fase di espansione materiale, l’economia-mondo capitalistica si sviluppa lungo un percorso unitario, mentre nella fase di espansione finanziaria la crescita lungo il percorso stabilito raggiunge i propri limiti, e l’economia-mondo si riorganizza altrove, seguendo un’altra via. A differenza di Mensch, però, Arrighi ritiene che «ciò che si “sviluppa” non [sia] una particolare industria o economia nazionale, ma l’economia-mondo capitalistica nel suo insieme»74. Insomma, l’economia-mondo capitalistica si rigenera ciclicamente. È stato così anche dopo il periodo imperialistico che Lenin aveva bollato come la «fase suprema del capitalismo»75. Perché malgrado l’apparenza, variabile a seconda delle fasi e dei regimi, il capitalismo vive delle proprie crisi e si conserva modificandosi. Ma a questo punto, per intendere a dovere la natura critica di un capitalismo in costante rinnovamento, bisogna rivolgere l’attenzione alle pagine di Schumpeter. È l’economista austriaco, infatti, a consentire ad Arrighi di collocarsi al di là tanto dell’economia politica classica quanto dell’ottica microeconomica marginalista, ideando un modello di sviluppo ciclico e critico del sistema capitalistico moderno.

72

Ivi, pp. 13-15. G. Mensch, Stalemate in Technology: Innovations Overcome the Depression, Ballinger, Cambridge 1979. 74 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 16. 75 V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1917), Laboratorio politico, Napoli 1994. 73

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3.5. La distruzione creatrice La teoria economica schumpeteriana risulterebbe indecifrabile, e assai meno feconda ai fini del nostro discorso, senza conoscere il contesto nel quale prende vita. Com’è stato notato, infatti, il suo autore è rimasto «sempre consapevole custode di quella crisi più vasta, scientifico-epistemologica e filosofico-culturale complessiva, che vive la cultura mitteleuropea, viennese in particolare, tra Ottocento e Novecento»76. Schumpeter è in costante dialogo con i classici della sociologia tedesca a lui contemporanea: Weber, naturalmente, ma anche Simmel e Sombart. Quel Werner Sombart che per primo nel 1902, col suo Der moderne Kapitalismus, aveva attribuito valore scientifico al termine «capitalismo»77. Il discorso di Schumpeter porta i segni della temperie del tempo. Come interpretare una fase di straordinario progresso tecnico nell’ambito del capitalismo industriale? Il grande fenomeno da spiegare è quello della massiccia sequenza di innovazioni. Più precisamente, l’economista austriaco intende contribuire all’individuazione di quelle forze che producono sviluppo. Una dinamica, questa, assolutamente incomprensibile tramite uno schema a priori. Il punto di partenza di Schumpeter è l’assunzione della crisi irreparabile di quel pensiero dialettico che aveva introiettato i principi dell’economia politica classica. È troppo tardi per tornare ai padri britannici della grande sintesi, da Smith a Ricardo. Perché le innovazioni non possono più essere né generate né interpretate alla luce di schemi lineari, figli di un illuminismo progressista. Esse non conseguono all’applicazione di un sapere astratto. Le innovazioni sono l’esito del nesso concreto tra scienza e tecnica, del circolo virtuoso tra ricerca e sviluppo. E l’essenza del capitalismo si ritrova precisamente nell’atto im76

M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, cit., p. 152. La prima occorrenza del termine «capitalismo» si ebbe solo nel 1850, nella nona edizione dell’Organisation du travail di Louis Blanc. «Ce que je appellerai ‘capitalisme’», si leggeva qui in polemica con Bastiat, «c’est à dire l’appropriation du capital par les uns à exclusion des autres» (cfr. E. Deschepper, L’histoire du mot capital et dérivés, Université Libre de Bruxelles, Bruxelles 1964, p. 32). 77

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prenditoriale. È questo l’atto fondamentale, che nessuna scienza potrà prevedere78. Ma la definitiva rottura di quelle forme di «sintesi operate dal pensiero dialettico da una parte e dalla political economy dall’altra»79 fa sì che Schumpeter abbracci le dottrine neoclassiche o marginaliste? Nient’affatto. È dunque in questo clima che matura la sua «figura tragica»80. Perché, dopo aver rigettato l’economia politica classica, egli rifiuta in modo altrettanto radicale le teorie neoclassiche. E per una ragione precisa: l’economics adotta un’impostazione irrimediabilmente statica81. Il marginalismo risulta perciò disarmato di fronte alla realtà della congiuntura, quando le innovazioni compromettono continuamente anche gli equilibri meno fragili. L’idea di circolazione semplice è ormai del tutto inefficace. Le grandi innovazioni, infatti, introducono una dinamica di sviluppi sistemicamente squilibrati. Il progresso tecnico implica una costante riapertura del sistema capitalistico. Se non è la sintesi, né la stasi, qual è dunque la nuova morfologia della dinamica capitalistica? Secondo Schumpeter, come noto, è il ciclo la «forma assunta dallo sviluppo economico nell’era del capitalismo»82 avanzato. A quale tipo di ciclo si riferisce, però, l’economista austriaco? Esso non testimonia una perfetta, eterna circolarità seriale; non indica la coazione a ripetere dell’uguale. Il ciclo schumpeteriano va immaginato piuttosto come un vortice, come una spirale disorientata. Perché il ciclo che egli immagina è essenzialmente squilibrato. Non si tratta di «un movimento intorno ad una linea di equilibrio», ma, all’opposto, di «una rottura dell’equilibrio, una trasformazione dell’intero sistema economico»83. Quello capitalistico è un sistema che prevede 78 Cfr. A. Zanini, Variazioni sull’imprenditore, in Id., Principi e forme delle scienze sociali, il Mulino, Bologna 2013, pp. 43-88. 79 L. Bazzicalupo, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 58. 80 Cfr. M. Talamona, Presentazione, in J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, cit., pp. VII-XX: XX. 81 Sulla radicale differenza tra economia classica e neoclassica, L. Robbins, Economics and Political Economy, in «The American Economic Review», vol. 71, 1981, n. 2, pp. 1-10. 82 J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, cit., p. 227. 83 P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, Laterza, Roma-Bari 1974, p. 59.

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un’apertura ricorsiva, ma ogni volta unica e irripetibile. Con le citatissime parole di Schumpeter, quello capitalistico è un processo di «distruzione creatrice»84. Al di là del modo in cui egli concepisce il ciclo, è tuttavia profondo l’accordo con Marx sul nesso tra ciclo e sviluppo. Come ha notato Paolo Sylos Labini, per entrambi «lo stesso meccanismo che provoca il ciclo – nel caso di Marx, le alterne vicende dello scontro tra capitalisti e salariati; nel caso di Schumpeter, il flusso irregolare delle innovazioni imprenditoriali – è alla base del processo di sviluppo economico»85. La differenza sta nel fatto che per Schumpeter il ciclo riflette l’anarchia produttiva. Perché secondo lui, come detto, il processo innovativo non è il frutto di un’armonica concertazione, non risponde ai dettami della dialettica, ma esprime sempre la parzialità dei singoli attori, la loro volontà di potenza. Veniamo così ai due momenti che, secondo Schumpeter, compongono un ciclo economico, perché è nella loro reinterpretazione che interviene l’originale lettura di Arrighi. Il ciclo schumpeteriano è costituito da una fase di prosperità, innescata dall’innovazione di un’impresa “rivoluzionaria” e dunque destinata a diventare dominante in quanto monopolista, e da una fase di depressione e livellamento dei profitti, dovuta alla metabolizzazione degli effetti della rivoluzione innovativa tramite la concorrenza emulatrice. In questo modo, i periodi di floridezza sarebbero destinati ad alternarsi a periodi di depressione. A fronte di questa rappresentazione, Arrighi propone di rileggere in termini spaziali il pendolo tra benessere e recessione. Adam Smith a Pechino reinterpreta la teoria schumpeteriana del ciclo economico come «descrizione di una polarizzazione geografica tra aree in cui predomina la “prosperità” e aree in cui predomina la “depressione”»86. Ed è su questo sfondo che trova il suo luogo più proprio anche il ripensamento di Arrighi su un’ulteriore distinzione operata da Schumpeter. Questi aveva distinto l’impresa innovativa, che 84 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), Etas, Milano 2001, pp. 81-86. 85 P. Sylos Labini, Problemi dello sviluppo economico, cit., p. 51. 86 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 103.

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lotta e cresce in un mercato concorrenziale, dall’impresa renditiera, che difende i propri privilegi grazie a un contro-mercato oligopolistico o al limite monopolistico. Arrighi tenta la spazializzazione di questa distinzione per designare una situazione che sfugge persino alle lenti, assai perspicue, dei teorici gramsciani delle relazioni internazionali87. Costoro immaginano che il mondo sia guidato da potenze egemoniche in grado di dosare consapevolmente forza e consenso. Secondo il sociologo italiano, invece, Schumpeter permette di pensare una situazione diversa, tanto comune quanto misconosciuta, quella di una «leadership che si realizza contro la sua stessa volontà»88. Ma dove risiede la differenza? Nel fatto che, mentre le relazioni egemoniche che il gramscismo fotografa implicano il permanere dell’asimmetria di potere, nella situazione raffigurata da un ripensamento di Schumpeter l’attore economicamente dominante genera un’emulazione che, aumentando il grado di concorrenza, finisce per indebolire il suo stesso potere oligo- o monopolistico. In altre parole, quella riconducibile al pensiero di Schumpeter è un’egemonia riluttante, quasi involontaria, poiché sa che il suo successo coincide con il proprio declino. Ora, a quale esito conduce questo processo ciclico, in cui il potere è insieme pervasivo ed effimero? Marx era convinto che il capitalismo avrebbe creato condizioni tali da impedire lo sviluppo, offrendo l’occasione per l’instaurazione del comunismo. Le ragioni della prevista decadenza erano anzitutto economiche, legate alla caduta tendenziale del saggio di profitto. La politica avrebbe dovuto prendere atto di questo destino e agire di conseguenza. Schumpeter non è meno pessimista. A suo giudizio, però, il capitalismo è relativamente stabile sotto il profilo economico; non vi sarebbero meccanismi endogeni in grado di porre un freno risolutivo al suo sviluppo. Allora perché sarebbe destinato a trapassare? Nelle pagine del suo saggio del 1942 su Capitalismo, socialismo e democrazia, Schumpeter adduce motivi istituziona87

Un’utile rassegna in G. Vacca, E. Baroncelli, M. Del Pero, G. Schirru (a cura di), Studi gramsciani nel mondo. Le relazioni internazionali, il Mulino, Bologna 2010. 88 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 37.

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li e sociologici, di impronta weberiana89. Il duplice processo di concentrazione dell’industria e di burocratizzazione della società tenderebbe a spegnere le spinte innovatrici dell’imprenditore. Più in generale, tuttavia, «il capitalismo genera una forma mentis critica che, dopo aver distrutto l’autorità morale di tante altre istituzioni, si rivolge da ultimo contro le proprie; il borghese scopre con stupore che l’atteggiamento razionalista non si ferma alle credenziali di re e pontefici, ma muove all’assalto della proprietà privata e dell’intero schema dei valori borghesi»90. Tanto Marx quanto Schumpeter prevedono, quindi, una crisi. Il primo la giudica inevitabile e la colloca alle soglie di un altro sistema, l’«ordine nuovo» nel quale la società avrà ottenuto il proprio compimento. Il secondo, invece, non annuncia stadi ultimi. Rileggendo entrambi, Arrighi pensa la crisi autonomamente. Prima di giungere alla fase che potrebbe mettere a rischio la storia del capitalismo, quest’ultimo va dunque riconosciuto non solo come sistema geostorico aperto all’interazione con l’ambiente esterno, ma anche come sistema di crisi. 3.6. Un sistema di crisi Stando all’etimo greco, il termine «crisi» indica la trasformazione decisiva che si produce nel momento culminante di una malattia, il frangente che orienta il suo decorso in senso favorevole oppure no. La parola non possiede quel timbro negativo che oggi comunemente le viene attribuito. Anche in latino, il vocabolo esprime semplicemente una separazione, una decisione, un’alterazione91. Eppure sembra implicito, nella crisi, un nuovo inizio. Ed è precisamente in questo “morire” per “rinascere” che si attua la logica capitalistica. 89 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., pp. 59-60. Penetrante la lettura di Adelino Zanini in Uno sguardo «tedesco» sul futuro del capitalismo, in Id., Principi e forme delle scienze sociali, cit., pp. 123-157, in particolare a p. 139. 90 J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, cit., p. 147. 91 Per una ricostruzione storico-filosofica della nozione di crisi, poi riletta quale dispositivo di potere neoliberale, D. Gentili, La crisi come arte di governo, Quodlibet, Macerata 2018.

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Marx vi rifletteva nell’ambito del pensiero dialettico. Schumpeter congegna la sua teoria del ciclo dinanzi alla consumazione di quest’ultimo e alla manifesta natura ideologica della soluzione marginalista. Tuttavia l’economista austriaco non riesce a cogliere quei caratteri sistemici della realtà socio-economica capitalistica che Arrighi cerca di intendere, costruendo un nuovo modello di sviluppo ciclico. Il sociologo italiano muove da qui, dal superamento dei discorsi classico e neoclassico e dal fallimento, in termini sistemici, della risposta schumpeteriana. È precisamente a quest’altezza che si pone la sua teoria. Egli riprende l’idea del Capitale (libro III, cap. 15) secondo cui «il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso». La produzione capitalistica oltrepassa continuamente i limiti che le sono immanenti, ma questi si ripresentano sempre e ogni volta «su scala più imponente»92. Perché, a differenza di quanto prospettava Smith, l’inasprirsi della concorrenza non porta alla stasi. Il risultato, peraltro sempre provvisorio, è la distruzione della struttura sociale che fino a quel momento ha ospitato il processo di accumulazione e la creazione di una nuova struttura organizzativa. Ma niente assicura che questo processo di annichilimento e rinascita duri in eterno. Entriamo ora nel merito delle due principali tipologie di crisi individuate dall’Arrighi sistemico. Esse rappresentano, infatti, la spina dorsale di quel processo capitalistico di distruzione creatrice organizzato dai cicli sistemici di accumulazione. Come in parte anticipato, supponendo che le crisi siano i momenti di riorganizzazione del sistema capitalistico, il sociologo italiano individua da un lato la crisi di sovraccumulazione e, dall’altro, la crisi di sovrapproduzione. Si ha «crisi di sovraccumulazione» quando si è in presenza di un’eccedenza di capitali in cerca di investimento e quando i settori produttivi e commerciali sono saturi: la concorrenza intercapitalistica, quindi, permette ai salari reali di prosperare a un ritmo identico o superiore rispetto a quello della produttività del lavoro. Arrighi interpreta questo momento come la «crisi spia» di un determinato ciclo egemonico e lo fa coincidere con l’incipit 92

K. Marx, Il capitale, cit., vol. 3, p. 320.

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dell’espansione finanziaria del ciclo sistemico di accumulazione del capitale. Questa crisi, che consiste in una sovrabbondanza di capitali, segna «il passaggio dalla fase A, caratterizzata da rendimenti crescenti e da un’accelerazione dell’espansione, alla fase B, caratterizzata da rendimenti decrescenti e da una decelerazione dell’espansione»93. E su questo punto il pensiero di Arrighi si manifesta in tutta la sua organicità. Perché egli diagnostica «la tendenza della crisi di sovraccumulazione», gravante soprattutto sulla classe proprietaria, «a trasformarsi in una crisi di sovrapproduzione»94, che si ripercuoterà in particolare sulle classi più deboli. La «crisi di sovrapproduzione» avviene quando i capitalisti riescono a trasferire la pressione competitiva sulla forza-lavoro, in modo tale che i salari reali non tengano il passo degli aumenti di produttività e la domanda aggregata non si espanda allo stesso ritmo dell’offerta. Arrighi intende questo momento come la crisi terminale di un determinato ciclo egemonico, facendolo perciò coincidere con la fine dell’espansione finanziaria del ciclo sistemico di accumulazione del capitale. L’idea di una doppia articolazione della crisi capitalistica, già argomentata nel saggio del 1972, è ripresa nel Lungo ventesimo secolo e ribadita in Adam Smith a Pechino, dove il modello arrighiano esce rinvigorito dal confronto con lo storico marxista Robert Brenner95. Per quest’ultimo le crisi del capitalismo, in particolare la depressione del 1873-1896 e quella del 19681973, vanno spiegate come conseguenza di uno sviluppo ineguale, ossia del processo di emulazione dei paesi economicamente avanzati da parte dei paesi arretrati. Fino a quando è in corso, secondo Brenner, l’inseguimento produce un circolo virtuoso tra alti profitti, grandi investimenti e incremento di produttività a livello mondiale. Ma allorché gli inseguitori raggiungono il paese-guida (nel caso del boom del secondo dopoguerra, ad esempio, Germania e Giappone rispetto agli Stati Uniti), la capacità produttiva diventa eccessiva e determina la caduta del saggio di 93

G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 248. Ivi, p. 388. 95 R. Brenner, The Economics of Global Turbulence. The Advanced Capitalist Economies from Long Boom to Long Downturn, 1945-2005, Verso, London-New York 2006. 94

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profitto. Detto altrimenti, lo sviluppo ineguale porterebbe a una crisi di sovrapproduzione, che si dà nella sproporzione tra entrate e uscite nell’industria manifatturiera. Arrighi considera sbagliata l’analisi di Brenner. E la radice dell’errore sarebbe la focalizzazione pressoché esclusiva sul settore manifatturiero. L’identificazione aprioristica del capitalismo con l’attività industriale gli vieterebbe di riconoscere una storia diversa. Brenner sembra non rendersi conto che quella scoppiata tra anni Sessanta e Settanta del Novecento è stata una crisi di sovraccumulazione, ossia la crisi spia del ciclo egemonico statunitense. Tant’è vero che, da allora, «la quota di valore aggiunto dell’economia mondiale generata nel settore manifatturiero è stata relativamente modesta, e in costante riduzione»96. Secondo Arrighi, è stata la finanziarizzazione del capitale, non la persistenza di una sovracapacità produttiva nel settore manifatturiero, la «nota dominante della risposta capitalistica alla doppia crisi dei profitti e dell’egemonia»97. Questa reazione è inscritta nella seconda fase del ciclo sistemico di accumulazione. La crisi di sovrapproduzione arriverà dopo, al suo termine. Ma l’analisi di Brenner sarebbe viziata anche da un secondo difetto, strettamente legato al primo e che, secondo Arrighi, è paradigmatico di un certo marxismo. Si tratta della sottovalutazione dei nessi tra dinamiche capitalistiche e politica internazionale. Brenner, che pure attribuisce grande rilievo all’intensificazione della concorrenza, non avverte il ruolo che in questo processo gioca la lotta interstatale. Come se «la grande maggioranza degli Stati del mondo e il grosso della sua popolazione non [avessero] alcun influsso sul funzionamento dell’economia mondiale»98. Veniamo così alla terza lacuna che intaccherebbe l’indagine di Brenner: la sottovalutazione del conflitto tra capitale e lavoro. Per lui la prolungata contrazione dei profitti, come sostanza di ogni recessione, non sarebbe mai stata provocata dalla lotta operaia, da quella che egli chiama «pressione verticale sul capitale». A risultare decisiva sarebbe stata sempre e soltanto la «pressione orizzontale», quella esercitata dalla concorrenza tra capitalisti. 96

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., pp. 158-159. Ivi, p. 182. 98 Ivi, p. 150. 97

3. il sistema capitalistico moderno tra cicli e sviluppo

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Arrighi giudica «rigida e frettolosa» non solo la distinzione che Brenner stabilisce tra conflitti orizzontali e verticali, ma anche e soprattutto «l’esclusione a priori di questi ultimi come possibili fattori della riduzione persistente e generalizzata dei profitti»99. Lo studioso milanese è convinto che, storicamente, le interazioni tra i due tipi di conflittualità siano state molto più complesse di quanto faccia intendere questa rappresentazione. Conta dimostrare che la competizione intercapitalistica non sia l’unico fattore di cambiamento: accanto ad esso, infatti, va mantenuta la giusta considerazione per le lotte operaie. Perché «nei paesi centrali del sistema capitalistico», scrive Arrighi, «la conflittualità sul salario e sulle condizioni di lavoro ha non solo contribuito direttamente alla contrazione dei profitti nel decisivo periodo iniziale 1968-1973, ma ha poi anche costretto le classi dirigenti a scegliere una strategia di tipo inflazionistico invece che deflazionistico per la gestione della crisi»100. * In definitiva, formatosi sulle opere di Braudel e Wallerstein, l’Arrighi sistemico affronta il tema della crisi nel capitalismo su una linea che, tracciata da Marx, egli percorre tenendo a mente l’insegnamento di Schumpeter. In sostanza, il sociologo italiano non è mai venuto meno alla diagnosi effettuata nel saggio del 1972 su Una nuova crisi generale, quando scriveva della «contraddizione tra il fine dell’accumulazione capitalistica (la valorizzazione del capitale, l’appropriazione di plusvalore da parte del capitale) e il mezzo attraverso il quale tale fine viene perseguito 99

Ivi, p. 142. Ivi, p. 149. In Giovanni Arrighi: Systemic Cycles of Accumulation, Hegemonic Transitions, and the Rise of China, in «New Political Economy», vol. 16, 2011, n. 2, pp. 267-280, William I. Robinson lamenta comunque il peso inadeguato che Arrighi assegna alla «lotta sociale dal basso». Ma nella Prefazione al Lungo ventesimo secolo (cit., p. 4), costui era stato il primo a riconoscere che la «lotta di classe», così come la «polarizzazione dell’economia-mondo in zone centrali e periferiche», erano «pressoché scomparse dal quadro», benché entrambe le idee avessero svolto un «importante ruolo nella [sua] originaria concezione del lungo ventesimo secolo». Sulla storia dei conflitti operai in ottica sistemico-comparativa e di lunga durata, B.J. Silver, Le forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870 (2003), Bruno Mondadori, Milano 2008. 100

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(il potenziamento della produttività sociale, lo sviluppo del carattere sociale della produzione)»101. La tendenza alla crisi non dipende da fattori esogeni al capitalismo, ma Arrighi ripensa l’una e l’altro in termini più generali. Perché «il capitalismo storico in quanto sistema mondiale di accumulazione», come viene ribadito nel Lungo ventesimo secolo, «divenne un “modo di produzione” – vale a dire internalizzò i costi di produzione – solo nel suo terzo stadio di sviluppo (quello britannico)»102. Quindi ciò che di Marx viene esteso, per valenza storica e geografica, non è solo la formula del capitale, ma anche la teoria della crisi. La ferma adozione di una concezione ciclica della modernità non sottrae ad Arrighi la consapevolezza che il capitalismo scateni crisi e non inneschi semplicemente cicli. Memore della lezione schumpeteriana, egli sa che l’epoca moderna è punteggiata da rotture ingovernabili con gli strumenti di controllo ciclico. E se la crisi non può essere evitata, la questione si sposta su chi debba pagarne le conseguenze. Si passa così dall’economia politica alla politica economica.

101

G. Arrighi, Una nuova crisi generale. Dalla stag-deflazione, alla stag-flazione, cit., p. 10. 102 Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 241.

4. Il (post)capitalismo all’alba del secolo cinese

Una volta chiarito il modo in cui Arrighi riflette sulla modernità, restano da approfondire i caratteri specifici del capitalismo contemporaneo. Questo capitolo muove, dunque, dal riconoscimento della svolta che nell’ultimo quarto del Novecento ha aperto una nuova fase di «turbolenza globale»1. Analizzandola, il sociologo italiano conserva grosso modo lo stesso paradigma sistemico che aveva utilizzato per interpretare la storia del capitalismo moderno. Ciò che egli preserva non è più il modello ciclico e fattoriale con cui era riuscito a smussare alcuni tratti deterministici delle sue ricerche giovanili. Viene riproposta piuttosto l’idea di un sistema-mondo che si definisce in relazione con l’ambiente esterno. Ma che cosa accade se quest’ultimo viene a mancare? Che cosa avviene quando il mondo, dopo l’egemonia statunitense, finisce tutto «dentro il capitale»?2 4.1. Nella turbolenza globale Arrighi ritiene che il miglior modo per intendere i decenni a noi più vicini sia quello di interpretarli come l’espressione della seconda e declinante fase del ciclo statunitense. Il segnale dell’imminente crisi egemonica sarebbe stato la guerra in Vietnam. Quello che è avvenuto dopo è stato «una notevole ripresa sia della ricchezza sia della potenza degli Stati Uniti, destinata a sfociare in una vera belle époque paragonabile a quella di cui aveva goduto l’Inghilterra un secolo prima»3. Ma l’espansione 1 Cfr. G. Arrighi, The Social and Political Economy of Global Turbulence, in «New Left Review», vol. 20, 2003, n. 2, pp. 5-71. 2 P. Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale (2005), Meltemi, Roma 2006. 3 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 201.

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finanziaria, lo si è mostrato nel precedente capitolo, indica sempre l’autunno di un ciclo egemonico. Come nel corso di tutta l’epoca moderna, la dinamica del sistema-mondo dipende dalla maniera in cui il sistema stesso viene strutturato dai suoi attori egemonici; attori che, a loro volta, sono sorti sempre in stretto legame con gli apparati statuali, di cui i testi arrighiani cercano di comprendere e analizzare il modo di funzionamento. Secondo Arrighi, sono due le logiche di potere che hanno contrassegnato la storia dello Stato moderno: la logica territorialista e quella capitalista. Parafrasando la formula generale del capitale di Marx, il sociologo italiano le distingue rispettivamente con le formule T-D-T’ e D-T-D’. «In base alla prima formula, il comando economico astratto o denaro (D) è un mezzo o un anello intermedio in un processo che mira all’acquisizione di territori aggiuntivi (T’ – T = +ΔT). In base alla seconda formula, il territorio (T) è un mezzo o un anello intermedio in un processo che mira all’acquisizione di mezzi di pagamento aggiuntivi (D’ – D = +ΔD)» 4. Si tratta di logiche espansive, intrinsecamente quantitative, perfettamente conformi al carattere peculiare di una modernità che ha conosciuto la periodica metamorfosi di «organizzazioni capitalistiche di dimensioni di volta in volta crescenti negli attori principali dell’espansione di un sistema di accumulazione e dominio che sin dal principio comprende una molteplicità di Stati»5. Il capitalismo è un sistema sociale fisiologicamente instabile, puntellato da crisi ricorrenti. Le crisi di sovraccumulazione, regolarmente sfociate in crisi di sovrapproduzione, hanno sempre implicato la transizione da una struttura organizzativa a un’altra. Tuttavia non si è trattato semplicemente del susseguirsi di differenti egemonie alla guida dello stesso sistema capitalistico. Ciascun passaggio tra diversi regimi di accumulazione ha portato con sé «le condizioni per l’emergere di agenti governativi e imprenditoriali» non solo «sempre più potenti», ma anche «in grado di risolvere le crisi mediante una ricostituzione dell’economia-mondo capitalistica su basi più ampie e globali»6. 4

Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., pp. 41-42. Id., Adam Smith a Pechino, cit., p. 258. 6 Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 362. 5

4. il (post)capitalismo all’alba del secolo cinese

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All’interno di questa tendenza generale, sono cruciali le particolari modalità di ampliamento del sistema-mondo. Ed è proprio per comprendere queste modalità che Arrighi sente il bisogno di confrontarsi con David Harvey7. Secondo il geografo inglese, quella territorialista sarebbe la logica di potere degli Stati, mentre quella capitalista la logica di potere delle imprese che, producendo e scambiando merci, accumulano capitale8. Arrighi è di altro avviso: è convinto, infatti, che tutte e due le logiche operino nell’ambito delle politiche statali. Per lui, territorialismo e capitalismo sono sì modalità d’azione irriducibili l’una all’altra, ma entrambe relative alla statualità9. Difficilmente il sociologo italiano avrebbe potuto formulare un’affermazione del genere se non fosse stata radicata in lui una profonda cultura gramsciana. Poiché l’idea arrighiana di Stato allargato, benché egli non lo espliciti, è mutuata da Gramsci. È noto che a quest’espressione il pensatore sardo preferiva quella di «Stato integrale», eppure il concetto di Stato allargato è facilmente desumibile dai Quaderni. Come spiegò nel 1975 Christine Buci-Glucksmann10, le riflessioni carcerarie di Gramsci avevano attestato un ampliamento del concetto di Stato. In due sensi. Egli riconobbe in primo luogo un condizionamento reciproco tra politica ed economia. Pur nella convinzione marxista che quest’ultima fosse in ultima istanza determinante, la distinzione tra struttura e sovrastruttura diventava meramente metodica. In secondo luogo, il legame dialettico tra politica ed economia, nonché tra Stato e società civile, avviene in qualche modo sotto l’egemonia dello Stato. Nel senso che il potere è sì radicato nella classe, e tuttavia questa, per essere egemonica, deve «farsi Stato»11. La riflessione di Arrighi muove esattamente da questo “allargamento” del concetto di Stato. Ma invece di limitarsi a replicare 7

Cfr. Id, Spatial and Other ‘Fixes’ of Historical Capitalism, in «Journal of World-Systems Research», vol. 10, 2004, n. 2, pp. 527-539. 8 Cfr. D. Harvey, L’enigma del capitale – e il prezzo della sua sopravvivenza (2010), Feltrinelli, Milano 2011, pp. 207-208. 9 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., pp. 238-279. 10 C. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato (1975), Editori Riuniti, Roma 1976. 11 Cfr. G. Liguori, Stato-società civile, in Id., F. Frosini (a cura di), Le parole di Gramsci. Per un lessico dei “Quaderni del carcere”, Carocci, Roma 2004, pp. 208-226.

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il gesto teorico gramsciano, egli svolge due operazioni ulteriori. Mentre Gramsci aveva evidenziato come nel secondo Ottocento, e in particolar modo dopo la Grande guerra, le istituzioni pubbliche avessero inciso profondamente sulla composizione di classe, Arrighi sottolinea come la produzione di società da parte dello Stato sia un fenomeno assai più risalente. Egli non ha timore di parlare, inoltre, di un vero e proprio «sistema statale allargato». Un sistema la cui efficacia sarebbe stata direttamente proporzionale alla «distribuzione di potere e ricchezza tra una molteplicità di gruppi dominanti il cui consenso [è] essenziale al mantenimento dell’egemonia»12. Il lascito gramsciano viene sviluppato, quindi, in modo fortemente innovativo: ecco ciò che permette di ripensare la dialettica tra territorialismo e capitalismo, collocandola interamente nell’ambito della statualità. A questo punto si potrebbe pensare che la presenza di Harvey nella riflessione di Arrighi sia solo negativa, come se servisse unicamente a definire, per contrasto, i contorni di un pensiero di matrice gramsciana. Ma non è così. In precedenza si è evidenziato che l’attenzione per la dimensione geografica sia una costante del percorso intellettuale tracciato fin qui. E proprio Harvey è il geografo che maggiormente ha inciso sul lessico di Arrighi e che più lo ha spinto a generare una propria concettualità. Lo testimonia Adam Smith a Pechino, che tenta di meditare diversamente sulla sequenza di egemonie mondiali che Il lungo ventesimo secolo aveva già individuato. In questo ripensamento rivestono un ruolo essenziale gli ulteriori contributi che Harvey ha apportato alla teoria di Arrighi: in special modo, il concetto di accumulazione per spoliazione e quello di riorganizzazione spaziale. In Adam Smith a Pechino si parla per l’appunto di «una serie di riorganizzazioni spaziali caratterizzate da una scala geografica sempre più estesa e da una diversificazione sempre più ampia, capace di fornire sbocchi remunerativi ai capitali in eccesso che erano venuti sovraccumulandosi nei precedenti epicentri dello sviluppo e, contemporaneamente, di ridurre la necessità dell’accumulazione per spoliazione nei nuovi centri emergenti»13. 12 13

G. Arrighi, Secolo marxista, secolo americano, cit., p. 75. Id., Adam Smith a Pechino, cit., p. 254. Corsivo mio.

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La nozione di accumulazione per spoliazione ricalca l’idea marxiana di accumulazione originaria14. Ma se Arrighi non si richiama a Marx, bensì a Harvey, è perché il secondo, a differenza del primo, ha sostenuto che l’espropriazione terriera sia stata un fenomeno ricorrente nella storia del capitalismo. «Lo sradicamento delle popolazioni rurali e la formazione di un proletariato senza terra», scrive Harvey nel 2003, «si sono accelerati negli ultimi tre decenni in paesi come il Messico e l’India; molte risorse precedentemente di proprietà comune, come l’acqua, sono state privatizzate (spesso sotto il pungolo della Banca Mondiale) e collocate nella logica capitalistica di accumulazione; forme di produzione e di consumo alternative (indigene e persino, nel caso degli Stati Uniti, legate alla produzione mercantile semplice) sono state soppresse. Le industrie nazionalizzate sono state privatizzate. Le aziende agricole a conduzione familiare sono state spazzate via dall’agroindustria»15. E quindici anni dopo si può rilevare come i processi di spoliazione forzata non abbiano fatto che intensificarsi. Già negli anni Ottanta del secolo scorso, in occasione dello studio comparativo sulla Calabria sopra richiamato, Arrighi aveva rinvenuto un caso di appropriazione per spoliazione nella provincia crotonese. Ma a differenza di quanto sosterrà Harvey, egli aveva tentato di mostrare come, lungi dal rafforzare lo sviluppo capitalistico, la completa proletarizzazione della forzalavoro possa talora rivelarsi uno dei suoi più grandi ostacoli. Perché all’interno di alcune zone periferiche o semi-periferiche, la popolazione tende a percepire l’accumulazione per spoliazione come un atteggiamento usurpatorio. Ciò sarebbe accaduto in contesti diversissimi, come quello della Rhodesia e quello crotonese, dove lo scontro di classe fu violento e causò il progressivo declino del latifondo capitalistico16. 14

Marx affronta il tema dell’«accumulazione originaria» nel Capitale (libro I, cap. 24), cit., vol. 1, pp. 896-953. 15 D. Harvey, La guerra perpetua. Analisi del nuovo imperialismo (2003), il Saggiatore, Milano 2006, pp. 122-123. Sull’accumulazione originaria come costante forma di sfruttamento del plus-lavoro, D. Sacchetto, M. Tomba (a cura di), La lunga accumulazione originaria. Politica e lavoro nel mercato mondiale, ombre corte, Verona 2008. 16 Per una ricostruzione del nesso tra l’indagine compiuta da Arrighi negli anni Ottanta sulla Calabria e le sue ricerche di vent’anni prima sulla Rhodesia e altret-

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L’altro concetto che Arrighi recupera da Harvey è quello di riorganizzazione spaziale. Il termine inglese fix, in realtà, ha un duplice significato. Perché indica per un verso il processo in virtù del quale il capitale si stabilizza in un territorio, vi si fissa per l’appunto, e, in un periodo relativamente lungo, porta con sé anche la territorializzazione delle spese sociali (infrastrutture, ma anche scuole, ospedali, e così via). Per altro verso, però, il fix spaziale costituisce una temporanea soluzione alle crisi immanenti alla dinamica capitalistica, attraverso l’espansione geografica, che nella gran parte dei casi si traduce in massicci fenomeni di delocalizzazione produttiva, i quali determinano lo sviluppo di una divisione geografica del lavoro17. Il concetto di riorganizzazione spaziale sortisce un duplice effetto nel discorso arrighiano: permette una fenomenologia più ricca e sfaccettata delle transizioni egemoniche, e consente di riconoscere come il declino egemonico statunitense renda sempre più difficile una nuova riorganizzazione spaziale. Il lungo ventesimo secolo aveva avvertito che la dinamica del sistema capitalistico moderno comporta un’estensione spaziale, oltre che temporale. Ma nel 1994 era già chiaro che l’ampliamento del sistema, e delle sue strutture, non sarebbe potuto proseguire all’infinito. Perché «prima o poi», secondo Arrighi, verrà raggiunta «una fase nella quale la crisi di sovraccumulazione non potrà generare un agente sufficientemente potente da ricostituire il sistema su basi più ampie e globali. O, in caso contrario, l’agente generato dalla crisi potrebbe essere tanto potente da porre fine alla concorrenza tra gli Stati per il capitale mobile»18. Qui Arrighi prospetta l’impossibilità di una nuova organizzazione spaziale. Egli suggerisce che nel tempo del capitalismo globale, quando il sistema-mondo si tramuta in sistema mondiale e scarseggiano gli ambienti da sistemare, allora diventa difficilissima, se non impossibile, una fertile interazione con lo spazio tanti dopo sulla Cina, F. Piselli, Reflections on Calabria: A Critique of the Concept of ‘Primitive Accumulation’, in AA.VV., Giovanni Arrighi: A Global Perspective, in «Journal für Entwicklungspolitik», vol. 27, 2011, n. 1, pp. 25-43. 17 D. Harvey, Globalization and the ‘spatial fix’, in «Geographische Revue», vol. 3, 2001, n. 2, pp. 23-30. 18 G. Arrighi, Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 362.

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esterno, capace di produrre un altro ciclo egemonico capitalistico. Come se il capitalismo potesse progredire solo in presenza di terre vergini, non capitalistiche, disponibili alla conquista e allo sfruttamento. Così, in un saggio del 2000 su Globalizzazione e macrosociologia storica, Arrighi scompone l’idea di globalizzazione nei tre processi che, a suo giudizio, l’avrebbero costituita. Il primo, e più evidente, consiste nell’aumento del numero e della varietà delle corporations che pianificano le proprie attività al di là dei confini statuali. Richiamandosi alle diagnosi effettuate da Charles Kindleberger19 sul finire degli anni Settanta, viene riconosciuto un complesso sistema di imprese transnazionali, che mina l’effettiva sovranità degli Stati, anche di quelli più grandi e potenti. Il rafforzamento strutturale di conglomerati industriali e finanziari, inoltre, avrebbe promosso due processi ulteriori: la finanziarizzazione e il revival di teorie neo-utilitariste dello Stato minimo20. Predominio delle corporations globali, integrazione finanziaria, ridimensionamento dell’intervento statale nell’economia: ecco, in sintesi, i tre fenomeni salienti dell’ultima fase di globalizzazione. Sono questi i processi che, acquisendo una dinamica autonoma, avrebbero formato una sola, apparentemente indivisibile, economia globale. Arrighi prende dunque sul serio la sfida intellettuale costituita dalla globalizzazione. Egli evita di confrontarsi con i suoi aspetti giuridici (come la decentralizzazione, la frammentazione e la privatizzazione del diritto21), ma, al di là del contributo genealogico, aiuta a ricostruirne l’«inventario dei processi»22 e, come vedremo nell’ultimo paragrafo, non si esime nemmeno dall’individuarne le conseguenze di medio e lungo periodo. Ciò che manca, tuttavia, è una piena assunzione delle implicazioni della 19

Arrighi conosce e apprezza il Kindleberger storico della finanza, ma curiosamente ignora il Kindleberger storico delle egemonie mondiali: Id., I primi del mondo (1996), Donzelli, Roma 1997. 20 Cfr. G. Arrighi, Globalization and Historical Macrosociology, pp. 117-133 di J. Abu-Lughod, Sociology for the Twenty-First Century. Continuities and Cutting Edges, Chicago University Press, Chicago 2000, p. 118. 21 Cfr. P. Grossi, Globalizzazione e pluralismo giuridico, in «Quaderni fiorentini», XXIX, Giuffrè, Milano 2000, pp. 551-558. 22 G. Arrighi, Globalization and Historical Macrosociology, cit., p. 118.

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globalizzazione23. Se è vero che questa è una condizione insieme geostorica e concettuale, Arrighi non assume in maniera radicale i risvolti teorici legati a un’eventuale impossibilità di una nuova riorganizzazione spaziale24. Viene da chiedersi se la natura dell’ultima globalizzazione possa essere colta con l’impianto analitico dei sistemi-mondo. E ancora: è possibile svincolare l’approccio sistemico dal modello di ricorrenza ed evoluzione25? Arrighi è consapevole di come l’età globale risulti refrattaria rispetto al suo apparato categoriale. Egli sa che questo rifletteva la logica di funzionamento di un sistema-mondo, quello capitalistico moderno, che si è sviluppato nella corsa agli armamenti e agli investimenti. È altrettanto conscio che la globalizzazione implichi la crisi di quella spazialità moderna che aveva fatto da matrice per la logica espansiva del capitalismo, che storicamente si è articolato nel colonialismo, nell’imperialismo, nel neocolonialismo… Perché, allora, non si sofferma debitamente sulla transizione dal sistema-mondo, che è un mondo, al sistema mondiale, che coincide con il mondo? Un indizio può trovarsi nella sua recensione di Impero, il best-seller di Hardt e Negri. In una disamina puntuale, Arrighi riconosce l’importanza della globalizzazione delle culture e delle conoscenze, ma sottovaluta gli effetti della rivoluzione informatica26. Viene ridimensionato il potenziale economico, ma soprattutto sociale e politico delle nuove tecnologie microelettroniche. Altrimenti egli sarebbe stato non solo più risoluto nell’affermare l’obsolescenza, nell’epoca della «compressione spazio23 Tra i filosofi che hanno pensato la globalizzazione spicca naturalmente Peter Sloterdijk, che ha lavorato a Sfere dal 1998 al 2004. In Italia, si segnalano D. D’Andrea, E. Pulcini (a cura di), Filosofie della globalizzazione, Ets, Firenze 2001; L. Bazzicalupo, Politica, identità, potere. Il lessico politico alla prova della globalizzazione, Giappichelli, Torino 2004; G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione (2003), Bollati Boringhieri, Torino 2009. 24 Mi permetto di rimandare, in proposito, al secondo capitolo del mio Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2017, pp. 39-74. 25 Le idee di ricorrenza ed evoluzione sono al centro della sintetica ricostruzione del pensiero arrighiano effettuata da Antônio José Escobar Brussi in Recorrência e evolução no capitalismo mundial: os ciclos de acumulação de Giovanni Arrighi, in «Revista Brasileira de Ciência Política», vol. 5, 2011, pp. 383-409. 26 G. Arrighi, The Lineages of Empire, in «Philosophia Africana», vol. 5, n. 2, 2002, p. 14.

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temporale»27, di quell’analisi del sistema-mondo che si reggeva sulla riduzione della complessità esterna, ma forse sarebbe stato anche più deciso nell’adottare un paradigma sistemico autopoietico, la cui ragion d’essere è la soluzione della complessità interna al sistema28. Del resto Fredric Jameson, che per riflettere sulla logica culturale del capitalismo finanziario aveva scelto proprio Arrighi quale interlocutore29, ha suggerito di pensare «la nuova economia culturale globale» come «un ordine complesso, sovrapposto e disgiuntivo, che non può più essere compreso entro i termini dei modelli esistenti centro-periferia»30. 4.2. Movimenti egemonici e movimenti antisistemici Sebbene Arrighi prediliga celarne la presenza, la dimensione politica è inestirpabile dalla sua riflessione. Egli ha insistito a più riprese sull’esigenza di non considerare il conflitto per il potere come riflesso della concorrenza intercapitalistica o come risvolto della lotta di classe. Il realismo che ha sempre caratterizzato i suoi lavori lo ha condotto a riconoscere una radicale diversità tra logica economica e logica politica. Quest’ultima non è di per sé ideologica, non è semplicemente sovrastrutturale. Tanto che la logica politica resiste anche in una fase, come quella iniziata nell’ultimo scorcio del ventesimo secolo, in cui poche grandi corporations transnazionali31 esercitano un potere strumentale e discorsivo e veicolano un dominio strutturale, dato dall’asimmetria tra l’ancoraggio territoriale delle istituzioni politiche dotate di un buon grado di legittimità popolare e la dimensione deterritorializzata del capitale. 27

Cfr. D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sull’origine del presente (1989), il Saggiatore, Milano 2002, pp. 319-374. 28 Cfr. G. Cesarale, La teoria sistemica di Giovanni Arrighi e la storia, in Id., Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, manifestolibri, Roma 2012, pp. 129-136: 135. 29 F. Jameson, Culture and Finance Capital (1997), in Id., The Cultural Turn: Selected Writings on the Postmodern 1983-1998, Verso, London 1998, pp. 136-161. 30 Id., Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1991), Fazi, Roma 2007, pp. 51-52. 31 Su genesi e sviluppo delle imprese transnazionali, G. Arrighi, K. Barr, S. Hisaeda, La trasformazione dell’impresa, in Caos e governo del mondo, cit., pp. 113-173.

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Per Arrighi la politica è movimento32. Questa è la sua natura. Ma per intenderne con precisione la morfologia, ovviamente, bisogna capire di che movimento si tratta. Per il sociologo italiano, sono due le declinazioni principali della politica: l’egemonia e il movimento antisistemico. I movimenti egemonici e i movimenti antisistemici condividono lo sfondo d’azione, che spesso la teoria sociale ha fatto coincidere con lo Stato, inteso come “contenitore” della vita politica. Arrighi rigetta questo Stato-centrismo, che ravvisa anche nell’opera di Hannah Arendt33. A suo giudizio, la sfera politica non si è mai collocata, né oggi né ieri, solamente all’interno di singoli Stati. Lo scenario è più complesso, più stratificato. E oggi va incluso nell’analisi un «sistema di Stati» giuridicamente regolato, ma sempre «in via di evoluzione»34. Arrighi giudica particolarmente fuorviante la combinazione di forma-Stato e nazionalismo. Egli trascura la capacità performativa di quest’ultimo, ma gli preme mostrare che, storicamente, «nessuno dei soggetti politici che hanno di volta in volta guidato la formazione e l’espansione del capitalismo mondiale corrisponde al modello mitico dello Stato-nazione per come ce lo presentano la teoria politica e la teoria delle istituzioni sociali: Genova e l’Olanda erano qualcosa di meno, il Regno Unito e gli Stati Uniti qualcosa di più di uno Stato nazionale». Vengono respinti gli aspetti ideali che la teoria dello Stato nazionale porta con sé, come fossero portatori di malintesi, e viene richiamata l’attenzione su quella «rete di pratiche di accumulazione e di rapporti di forza che ha consentito a questi soggetti di porsi alla testa del processo di formazione e di espansione del capitalismo mondiale»35. Quali sono gli elementi tipici di questa realtà? Il commercio di lunga distanza; l’alta finanza; l’imperialismo. Arrighi concorda con Arendt sulla tesi che l’imperialismo costituisca il primo stadio dell’ascesa della borghesia anziché 32

Cfr. G. Arrighi, T. K. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic movements (1989), manifestolibri, Roma 2000. 33 Ma Arrighi non prende in considerazione né Vita Activa (1958) né Che cos’è la politica? (1993), dove Hannah Arendt svolge, tra l’altro, una rimeditazione storico-filosofica sull’idea di «spazio politico». 34 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 258. 35 Ivi, p. 265.

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l’ultimo del capitalismo36. Secondo l’autore di Adam Smith a Pechino, però, questo stadio si realizza ben prima della nazionalizzazione degli Stati occorsa a fine Ottocento. Dei tratti imperialistici, secondo lui, sono rinvenibili già nel “lungo Cinquecento”. Ma Arrighi sa che se la vita degli Stati è situata al crocevia di una rete internazionale e transnazionale costituita da attori politici ed economici, quella che Nietzsche chiamava «la grande politica»37 viene effettuata dallo Stato di volta in volta egemonico. La politica moderna vede periodicamente prevalere un soggetto specifico: lo Stato leader del sistema-mondo. È questo a svolgere la funzione di governo a livello globale, guidando un sistema di Stati verso una direzione chiara e condivisa. * È il momento di soffermarci, quindi, sulla nozione di egemonia. Arrighi eredita il concetto dai Quaderni gramsciani, dove esso viene distinto innanzitutto da quello di dominio puro e semplice38. Il sociologo italiano ricorda che Gramsci concepiva l’egemonia come un «potere addizionale»39 che alcuni gruppi dominanti traggono dalla loro capacità di guidare la società in una direzione che non sia semplicemente funzionale ai propri interessi, ma che venga percepita dai gruppi subordinati come finalizzata a un interesse più generale. Se l’idea di un potere addizionale (forza + consenso) non è nuova nell’interpretazione del testo di Gramsci, più originale e suggestiva risulta senza dubbio la contrapposizione, proposta da Arrighi, tra il concetto gramsciano di egemonia e quello parsonsiano di «deflazione del potere»40. Il sociologo statunitense allu36 Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo (1948), Einaudi, Torino 2009, pp. 169-419. 37 Cfr. H. Drochon, Nietzsche’s Great Politics, Princeton University Press, Princeton 2016. 38 Per una chiarificazione, G. Cospito, Egemonia/egemonico nei “Quaderni del carcere” (e prima), in «International Gramsci Journal», vol. 2, 2016, n. 1. 39 Cfr. G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo, cit., p. 31. 40 T. Parsons, On the Concept of Political Power, in «Proceedings of the American Philosophical Society», vol. 107, 1963, n. 3, pp. 232-262: 253-257. Su quest’idea parsonsiana, illuminante il commento di Anthony Giddens in “Power” in the Recent Writings of Talcott Parsons, in «Sociology», vol. 2, 1968, n. 3, pp. 257-272.

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deva, con quest’espressione, alle situazioni in cui l’impiego sistematico della violenza appare necessario per governare la società. Controllare gli altri senza ricorrere alla forza, come normalmente avviene quando i governati sono subalterni ai governanti, diventa impossibile nel momento in cui viene a mancare la fiducia dei primi nei confronti dei secondi. Ebbene, traducendo Gramsci nei termini di Talcott Parsons, Arrighi suggerisce di leggere l’egemonia come un’«inflazione di potere», consentita dalla capacità dei gruppi dominanti di presentare le proprie scelte come favorevoli agli interessi dei gruppi subordinati. Quando questa credibilità si esaurisce, «l’egemonia si “sgonfia” trasformandosi in semplice dominio»41. È la situazione che Ranajit Guha chiama, come noto, «dominio senza egemonia»42. Ma il carattere innovativo della riproposizione arrighiana di Gramsci non dipende solo dalla traduzione del concetto di egemonia nel linguaggio della sociologia sistemica. Perché quest’operazione si accompagna anche a una diversa contestualizzazione delle dinamiche politiche. Parlando di egemonia in una cornice nazionale, Gramsci avrebbe presentato il potenziamento di una nazione rispetto alle altre come la misura dell’effettivo perseguimento dell’interesse generale, ovvero nazionale43. Ma quando se ne discute in un contesto internazionale, obietta il sociologo italiano, non ha più senso definire l’interesse generale in termini di aumento della potenza di una nazione rispetto alle altre. L’interesse da mettere a fuoco, infatti, è quello relativo al sistema globale. E come implementare quest’ultimo, se non attraverso la condivisione del potere? Secondo Arrighi, mentre la sua suddivisione è tipica di una «relazione di gioco a somma zero in cui ogni attore può aumentare il proprio potere solo a spese degli altri attori», la condivisione del potere implica al contrario una «relazione di gioco a somma positiva in cui la cooperazione tra attori diversi porta ad aumentare il loro potere rispetto a terzi o 41

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 170. R. Guha, Dominance Without Hegemony. History and Power in Colonial India, Harvard University Press, Cambridge-London 1997. 43 Sulla posizione gramsciana, si veda però F. Izzo, Il “cosmopolitismo di tipo nuovo” nei Quaderni del carcere, in «Rivista di studi italiani», a. 34, 2016, n. 3, pp. 185-198. 42

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rispetto alla natura». Ne consegue che «l’interesse generale di un sistema di Stati non può essere definito in termini di mutamenti nella distribuzione del potere tra gli Stati stessi del sistema, ma può essere definito in termini di aumento del potere complessivo dei gruppi dominanti»44. Allorché si realizza come movimento egemonico, quindi, la politica moderna produce un’evoluzione, una complicazione e un rafforzamento del sistema intero45. * Le pagine precedenti hanno dimostrato come nella trasformazione del sistema-mondo moderno, per Arrighi, la storia politica rivesta un ruolo insostituibile. E, al di là dei movimenti egemonici, questa storia è segnata dai cosiddetti movimenti antisistemici. Perché «l’opposizione all’oppressione», scrive il sociologo italiano insieme a Wallerstein e a Terence K. Hopkins, «è connaturata all’esistenza stessa di sistemi sociali gerarchici». E ancora: «L’opposizione è permanente, ma nella maggior parte dei casi resta latente. Gli oppressi sono troppo deboli politicamente, economicamente e ideologicamente, per manifestare la loro opposizione in misura costante»46. Di movimenti antisistemici in senso proprio, secondo Arrighi, si può parlare solo dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. L’anno della svolta sarebbe stato il 1848, quando prende corpo la «prima rivoluzione mondiale»47. Da allora si costituiscono «organizzazioni stabili con quadri, sedi e specifici obiettivi politici (sia a lungo sia a breve termine)»48. E la loro natura inedita dipende dal fatto di essere formazioni «eminentemente politiche, non religiose – [che] cioè incentrano la loro azione sulle strutture di “questo mondo”»49. Riallacciandosi ai valori illuministici, il 44

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 170. In Caos e governo del mondo, cit., p. 34, Arrighi si richiama a Émile Durkheim e, segnatamente, alle sue idee di «volume» e «densità dinamica» del sistema. Ma si veda anche E.D. Beinhocker, The Origin of Wealth: Evolution, Complexity, and the Radical Remaking of Economics, Harvard Business School Press, Boston 2006. 46 G. Arrighi, T. K. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic movements, cit., p. 31. 47 Ivi, p. 85. 48 Ivi, p. 31. 49 Ivi, p. 32. 45

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discorso antisistemico riesce a coinvolgere anche coloro che non fanno politica attiva. I movimenti antisistemici si presentano presto in due versioni diverse, benché non sempre alternative. Nel 1848 viene combattuta una battaglia per l’affermazione della sovranità. Tuttavia alcuni gruppi cercano di stabilire la sovranità del popolo, mentre altri hanno piuttosto a cuore la sovranità dello Stato. In nome della prima, ci si oppone al regime autocratico ripristinato dalla Restaurazione decisa dal Congresso di Vienna nel 1815; in nome della seconda, si contrasta la mancata auto-determinazione dei popoli, intollerabile in un’epoca che sarà rapidamente ribattezzata come «primavera delle nazioni». Se due erano i tipi di sovranità in ballo, due furono i movimenti antisistemici emersi nel 1848: uno socialista, l’altro nazionalista. In entrambi i casi non si trattava solo di «organizzazioni con leader, quadri e militanti», ma anche di «comunità morali»50, che si prefiggevano di realizzare gli ideali della Rivoluzione francese: libertà, uguaglianza, fraternità. Lotta di classe e lotta nazionale erano intrecciate, ma gli avversari e gli orizzonti di emancipazione differivano: chi aspirava alla sovranità del popolo si batteva contro lo sfruttamento del proletariato da parte della borghesia e puntava per lo più a sostituire il capitalismo con il socialismo, cioè a sopprimere i rapporti sociali sui quali si regge l’economia-mondo moderna; chi aveva in mente la sovranità dello Stato si scontrava con la discriminazione di un gruppo nazionale da parte di un altro e mirava alla creazione di Stati indipendenti e autodeterminati. Ma in questo caso l’estensione della statualità ha comportato la «riproduzione dell’economia-mondo capitalistica, attraverso l’estensione e l’approfondimento della cooperazione interstatale»51. Gli esiti dei movimenti antisistemici, dunque, sono stati contraddittori. Anche grazie a un progressivo rafforzamento dei partiti socialisti e comunisti, l’Europa del secondo dopoguerra ha visto giungere al suo culmine il processo di miglioramento del tenore di vita della classe operaia. D’altro canto, nel corso del Novecento la statualità ha conosciuto un allargamento e un approfondimento tali da irrobustire il processo capitalistico nel 50 51

Ivi, p. 114. Ivi, p. 49.

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suo complesso. Gli Stati si sono moltiplicati e trasformati, consolidando il sistema-mondo. Ma nel 1968 divampa la seconda rivoluzione mondiale. I partiti della sinistra avevano promesso che, una volta saliti al potere, avrebbero impostato un diverso modello di sviluppo. Si era immaginato che lo Stato potesse bloccare e rovesciare l’autoespansione del sistema capitalistico, vincendo le diseguaglianze che questo introduce all’interno dei singoli paesi e riproduce tra le diverse aree del pianeta. Però alle grandi aspettative suscitate in termini di uguaglianza, è seguita una paralisi istituzionale. E se la politica è movimento, la crisi non può che scaturire dall’immobilismo. «In tutta l’Europa», scrive Arrighi, «le radici del Sessantotto sono da rintracciarsi nel divario sempre più profondo tra un apparato produttivo in rapida evoluzione e un apparato istituzionale al confronto immobile»52. La grande contestazione sarebbe stata generata dalla «miscela di due componenti, la rivolta contro le forze dominanti del sistema-mondo capitalistico e quella contro le forze antisistemiche del passato». Per un verso si metteva in discussione lo Stato in quanto tale, quello che Nicos Poulantzas negli anni Settanta analizzava come vero e proprio «Stato capitalistico»53; per altro verso, si tentava di piegare quella che d’un tratto era diventata “la vecchia sinistra”. I movimenti del Sessantotto testimoniavano il disagio nei confronti di uno Stato avvertito come estraneo e impenetrabile, ma la gran parte esprimeva anche profonda delusione rispetto alla strategia adottata dai partiti socialdemocratici e comunisti. Se questi ultimi sembravano ormai chiusi in un vicolo cieco, lo si doveva a un insieme di fattori. C’erano innanzitutto motivi “soggettivi”, legati al comportamento della classe politica. Arrighi individua in particolare cinque peccati capitali: la debolezza, l’incuria, l’arroganza, la corruzione e la connivenza. La debolezza, sostenevano i movimenti del Sessantotto, dipendeva dall’inefficacia dimostrata dai vecchi movimenti – i socialdemocratici a Ovest, i comunisti a Est, i nazionalisti a Sud – nel contrastare rispettivamente l’imperialismo, lo sfruttamento e il razzismo. 52

Ivi, p. 104. Si veda soprattutto N. Poulantzas, L’État, le pouvoir, le socialisme (1976), Les Prairies ordinaires, Paris 2013. 53

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L’incuria sarebbe stata provata dall’incapacità di rappresentare gli interessi degli strati più deboli della popolazione: il sottoproletariato, naturalmente, ma anche le donne e le minoranze etniche. L’arroganza si manifestava nella stanca e autoreferenziale ideologia della sinistra tradizionale e nel velato disprezzo con cui questa guardava i più deboli. Le colpe maggiori, tuttavia, sarebbero state la corruzione e la connivenza. La prima, secondo Arrighi, indica l’indebolimento della militanza da parte di strati sociali arricchitisi grazie agli sforzi compiuti dalle precedenti generazioni antisistemiche. La connivenza designa uno stadio degenerativo ulteriore: i nuovi movimenti, infatti, rinfacciarono ai vecchi la scandalosa disponibilità a valersi dello sfruttamento. L’imputazione essenziale fu quella di aver attenuato, se non proprio smarrito, l’originaria carica oppositiva. «In breve», scrive Arrighi, «il capo d’accusa è stato che il movimento operaio e socialdemocratico non fosse antisistemico, o comunque non lo fosse abbastanza»54. Ma le responsabilità dei soggetti politici vanno valutate in un quadro più ampio. Pertanto non è trascurabile il rilievo che Arrighi attribuisce all’erosione di quelle circostanze che avevano spinto la sinistra europea a organizzarsi in sindacati e in partiti politici. Se la “vecchia sinistra” faceva sempre più fatica a ottenere consenso, dipendeva anche da tre fattori per così dire “oggettivi”. Primo: gli apparati burocratici dei partiti e dei sindacati si erano appesantiti in maniera un tempo inimmaginabile. Secondo: dopo la centralità del cosiddetto “operaio massa”, la forza-lavoro si faceva sempre più diversificata. Terzo: rinnegando tanto il leninismo quanto la socialdemocrazia e sperimentando, nel suo insieme, un rinnovamento del marxismo, la sinistra aveva subito una vera e propria frammentazione ideologica. L’accusa di revisionismo appariva quindi giustificata. Ma negli anni Ottanta Arrighi si convince che il revisionismo sia innanzitutto il sintomo del realismo. Egli invita così a pensare il revisionismo come «strutturale, non dipende[nte] dalla volontà»55. O meglio, il revisionismo appare il risultato quasi necessario di una sinistra che ha accettato la sfida del governo. 54 55

G. Arrighi, T. K. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic movements, cit., p. 76. Ivi, p. 55.

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Al di là delle responsabilità, però, resta che le nuove domande di protagonismo sociale erano avanzate da soggetti determinati a portare avanti una completa «rottura con il passato»56. Dall’America del Nord al Messico, dall’Europa alla Cina al Giappone, la lotta antisistemica era condotta da professionisti stipendiati, donne impiegate nei servizi, immigrati dequalificati o semi-qualificati… Non a caso il Sessantotto vede l’avanzata dei movimenti studenteschi, pacifisti, ambientalisti, di quelli femministi e di quelli per i diritti delle minoranze etniche. Sarà la guerra in Vietnam a riunire queste diverse anime contro un avversario comune, l’imperialismo. Il conflitto vietnamita, infatti, mette in luce la prepotenza di un centro che, oltre a soffocare le nuove richieste di emancipazione al suo interno, è disposto a ricorrere alla violenza pur di imporsi sulla periferia del sistema-mondo. Ma il rosso del Sessantotto, che all’epoca del Gruppo Gramsci Arrighi aveva confuso con quello dell’alba, si rivelerà il colore del tramonto. E la storia dell’economia-mondo capitalistica, dal 1973 in poi, apparirà come «la storia dei tentativi di mettere fine allo sconvolgimento sociale dei precedenti cinque anni»57. Sfuma la distinzione tra politica interna ed estera, si sfibra il nesso tra classi dirigenti pubbliche e classi dirigenti private e prevale il processo di accumulazione transnazionale del capitale. Il declino degli Stati, quali centri di organizzazione dell’economia-mondo, è pervasivo. E la trama transnazionale dei movimenti riunitisi in occasione della rivoluzione mondiale del Sessantotto conferma questa dinamica. Arrighi tiene a sottolineare come i nuovi movimenti abbiano contribuito a costruire uno scenario molto più complicato rispetto a quello in cui erano nati i vecchi movimenti antisistemici. Egli evidenzia la genesi di una struttura sociale aperta, ma mette in guardia dall’attribuire un potere palingenetico a nuove moltitudini58. Già negli anni Ottanta, viene sottolineata piuttosto la crescente difficoltà di analizzare e trasformare il nuovo sistema mondiale. Cadono le ideologie antisistemiche che avevano ereditato lo spirito del liberalismo rivoluzionario. Si prosciugano i canali 56

Ivi, p. 35. Ivi, p. 94. 58 L’allusione è naturalmente a M. Hardt, T. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (2004), Rizzoli, Milano 2004. 57

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che avevano condotto la rivolta sociale e politica a programmi di cambiamento radicale. E Arrighi richiama la necessità, per la sinistra, di una «nuova ideologia» o, meglio, di un «insieme di strategie che offra una prospettiva ragionevole per una profonda trasformazione sociale»59. Egli allude, in particolare, a un «socialismo» che non sia un «sistema di fabbricazione occidentale»60. Perché, per il sociologo italiano, solo la «ricomposizione tra un’origine nazionale e una prospettiva mondiale» sarebbe in grado di creare «una forza cosciente orientata a sovvertire il sistema interstatale»61. E se non si costruiscono alternative credibili? Allora prevarranno le richieste “spontanee”. Secondo Arrighi, che su questo punto eredita un ulteriore elemento del pensiero gramsciano62, lo spontaneismo è un pericolo da evitare a tutti i costi. Perché dietro la retorica spontaneista si annida sempre, in modo più o meno consapevole, l’ideologia; e l’intellettuale milanese non ha mai smesso i panni di critico dell’ideologia. Ciò che egli non conduce fino in fondo, tuttavia, è l’autocritica del proprio apparato categoriale. Pur assumendo la realtà della globalizzazione, non si domanda quale sia il destino della politica-movimento nell’età globale. Mentre il suo discorso porta a chiedersi proprio in quale direzione sia ancora possibile costruire egemonia o contro-egemonia. Una volta che il sistema capitalistico abbia raggiunto i propri limiti spaziali, quando non si intravede né uno spazio da conquistare né un centro su cui fare perno, emerge il rischio che la politica come movimento, egemonico o antisistemico che sia, rimanga per così dire “bloccata”. Sebbene Arrighi non lo ponga apertamente, è questo uno degli interrogativi di fondo su cui si chiude Adam Smith a Pechino.

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G. Arrighi, T. K. Hopkins, I. Wallerstein, Antisystemic movements, cit., p. 121. Ivi, p. 80. 61 Ivi, pp. 80-81. 62 Cfr. M. Del Roio, voci «Spontaneismo», «Spontaneità» in G. Liguori, P. Voza (a cura di), Dizionario gramsciano, cit., pp. 794-798; M.A. Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo (1970), Armando, Roma 2015, nuova ed., specie pp. 94-110. 60

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4.3. Il mercato oltre il capitale? Restano da esaminare gli scenari per il ventunesimo secolo. Secondo Arrighi, la fine di quello che è stato chiamato «il secolomondo»63 è segnata da una biforcazione senza precedenti tra il potere finanziario, che è in mano all’Asia orientale, e la potenza militare, che è ancora prevalentemente statunitense. Di qui le tre ipotesi: una nuova egemonia capitalistica e occidentale; un indefinito prolungamento del caos sistemico; una globalizzazione non capitalistica centrata sull’Asia orientale. Arrighi presenta la prima ipotesi come credibile persino nel suo ultimo testo, cioè nel Poscritto alla seconda edizione inglese del Lungo ventesimo secolo (2009). Come già quindici anni prima, egli ammette la possibilità che, sulle ceneri dell’egemonia a stelle e strisce, sorga un nuovo ordine capitalistico, stavolta sotto un impero guidato dall’Occidente nel suo complesso. Si tratta nondimeno di una prospettiva altamente improbabile, data l’incertezza dell’integrazione europea e la sciagurata politica estera statunitense, che in Iraq ha visto seppellito sul nascere il progetto di un «nuovo secolo americano» che l’amministrazione di George W. Bush aveva coltivato. A giudicare dai primi due decenni del terzo millennio, il futuro somiglia di più a quella fase di caos sistemico che Arrighi stesso aveva messo in conto64. Dopo la bancarotta di Wall Street tra il 2007 e il 2008, a Washington si è tenuto il primo vertice dei capi di Stato del G20. Ma non passa giorno senza la notizia di un nuovo focolaio di guerra. Ed è sotto gli occhi di tutti il disperato coraggio dei migranti che mettono a repentaglio la propria pelle pur di entrare a far parte del Primo mondo. La grande ipotesi che l’ultimo Arrighi si prefigge di vagliare, però, è un’altra. Per intendere la portata epocale del tardo Novecento, la chiave di lettura non è il neoliberalismo. Questo sarebbe semmai un sintomo del presente, non la causa. Perché tale mo63

Cfr. M. Flores, Il secolo-mondo. Storia del Novecento, il Mulino, Bologna 2002. Per una lettura del Novecento in dialogo con la prospettiva arrighiana, A. De Bernardi, Da mondiale a globale. Storia del ventesimo secolo, Bruno Mondadori, Milano 2008. 64 Si veda anche P.S. Jha, Il caos prossimo venturo. Il capitalismo contemporaneo e la crisi delle nazioni (2006), Neri Pozza, Vicenza 2007.

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dello, che per molti “esperti” rimane lo standard di riferimento, è il frutto di una spinta contro-rivoluzionaria sia rispetto al lavoro sia rispetto al Terzo mondo. Le discussioni sull’impatto della svolta neoliberale si sono generalmente focalizzate sulla tendenza all’aumento della disuguaglianza: la lotta di classe, si è detto65, è continuata e l’hanno vinta i ricchi. Ma il sociologo italiano sostiene che l’«indebolimento del lavoro, più che un fine in sé, era un mezzo per invertire il declino relativo della ricchezza e del potere degli Stati Uniti, che aveva preso slancio con la sconfitta in Vietnam ed era culminato alla fine degli anni Settanta con la rivoluzione iraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la svalutazione del dollaro»66. Il neoliberalismo, di cui Arrighi sottovaluta la vasta profondità culturale, sarebbe stato un modello di politica economica che gli Stati Uniti hanno cercato di imporre al resto del mondo per contrastare il declino del loro ciclo egemonico. Ma al di là delle dinamiche finanziarie, più o meno speculative, gli anni Novanta hanno conosciuto la riscossa dell’Asia orientale e della Cina in particolare, dove pure Milton Friedman fu invitato nel 1980 e nel 1988. La tesi portante di Adam Smith a Pechino è che il fenomeno più rilevante dell’ultima decade del ventesimo secolo non sia la conclusione della Guerra fredda, come la gran parte degli commentatori continua a ritenere, bensì il decentramento dell’economia mondiale dall’Occidente al Sudest asiatico. Segnatamente, mentre gli Stati Uniti proseguivano nella loro lenta ma inesorabile decadenza, oscurata dalla cortina fumogena rappresentata dall’espansione finanziaria, il centro dell’economia mondiale si è trasferito in Cina. Il sociologo italiano, però, non si è limitato a ipotizzare un’imminente egemonia mondiale da parte di Pechino. Egli ha cercato anche di dimostrare la desiderabilità di questo avvenire. Perché un’eventuale egemonia cinese, secondo lui, potrebbe portare con sé niente meno che la «fine del capitalismo»67. Dopo tre secoli 65 Cfr. M. Revelli, “La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi”. Vero!, Laterza, Roma-Bari 2015. 66 G. Arrighi, L. Zhang, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo (2010), in Id., Capitalismo e (dis)ordine mondiale, cit., pp. 181-217: 183. 67 Giordano Sivini ricostruisce il discorso arrighiano sul tramonto del sistema capitalistico nel suo La fine del capitalismo. Dieci scenari, Asterios, Trieste 2016, pp. 17-27.

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di predominio occidentale, lo sconfinamento in Oriente del nucleo dell’accumulazione comporterebbe un «ri-orientamento del mondo»68: del resto, prima che nell’Ottocento si realizzasse quella che Kenneth Pomeranz ha chiamato «la grande divergenza»69, il cuore dell’economia mondiale batteva proprio a Est. Ma se un’egemonia orientale può instaurare un regime non capitalistico è perché, secondo Arrighi, la crescita della Cina odierna (sul cui autoritarismo, si noti, egli sorvola) scaturisce dalla ripresa della tradizione settecentesca della «rivoluzione industriosa»70. Una rivoluzione nata per risolvere il problema di governare un paese con una popolazione rurale superiore all’intera popolazione dell’Africa, dell’America Latina o dell’Europa. Ciò ha fatto sì che in Cina si sviluppasse una tradizione economica, culturale, antropologica ed etica radicalmente differente da quella occidentale. L’eredità della rivoluzione industriosa, indigena e fondata sulle campagne, non sarebbe però sopravvissuta se la tradizione rivoluzionaria non l’avesse rivitalizzata. Le riforme di Deng Xiaoping avrebbero avuto successo per la capacità di ricollegarsi al virtuoso modello di accumulazione senza spoliazione. Paradigmatica, in questo senso, l’esperienza delle imprese di municipalità e villaggio: istituti pubblici, funzionali alla redistribuzione sul territorio locale dei profitti industriali ottenuti sul piano nazionale, oltre che al reinvestimento degli stessi profitti nella costruzione di scuole, ospedali e altre forme di spese sociali71. E questa separazione solo parziale dai mezzi di produzione di un’ampia classe contadina costituisce per la Cina un vantaggio competitivo di cui non hanno potuto beneficiare le masse dell’Africa sub-sahariana e dell’America Latina. Tanto la rivoluzione industriosa quanto il suo recupero da parte della tradizione socialista non avrebbero avuto l’impat68

Cfr. G. Arrighi, Beyond Western Hegemonies. A Clash or a Commonwealth of Civilizations?, in E.H. Lee e W. Kim, Recasting International Relations Paradigms. Statism, Pluralism and Globalism, The Korean Association of International Studies, Seoul 1996, nonché il già citato ReOrient di Gunder Frank. 69 K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna (2000), il Mulino, Bologna 2004. 70 Cfr. K. Sugihara, The East Asian Path of Economic Development: A Longterm Perspective, in The Resurgence of East Asia, cit., pp. 78-123. 71 Cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., pp. 400-401.

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to che hanno conseguito, però, se non si fossero instaurate in un sistema-mondo come quello orientale, insieme particolare e risalente. Arrighi fa notare come l’Asia non abbia conosciuto una successione di Stati egemonici sempre più potenti. In Occidente questi hanno di volta in volta plasmato un capitalismo a propria immagine e somiglianza: prima i comuni italiani, poi lo Stato proto-nazionale olandese, quindi l’Inghilterra come centro di un impero marittimo e territoriale di dimensioni mondiali. Se l’allargamento del sistema interstatale e dello Stato egemonico, in posizione privilegiata nel processo di accumulazione capitalistica, è stato del tutto assente nella storia orientale, la ragione non può consistere che nella mancata combinazione di capitalismo, militarismo e competizione territoriale tra le singole entità nazionali, che è invece peculiare della storia occidentale. Il sistema-mondo orientale è sempre stato introverso, animato da forze economico-politiche disinteressate all’espansione territoriale. Mentre per gli Stati europei, la cui modernizzazione ha avuto un’essenziale componente aggressiva, il controllo esclusivo sulle rotte commerciali verso l’Oriente è stato costante motivo di guerre, i governanti cinesi hanno sempre creduto che le rotte commerciali di lunga distanza fossero assai meno rilevanti del consolidamento della pace con gli Stati confinanti nell’ambito di un unico spazio economico a base agricola72. Ma l’Oriente asiatico è anche un sistema-mondo che, sotto i profili economico e istituzionale, è ben più antico di quello europeo. Arrighi ricorda che, ad eccezione di alcuni Stati (come l’Indonesia, la Malesia e le Filippine) nati a seguito delle imposizioni coloniali europee, la gran parte degli Stati dell’Asia orientale (dal Giappone alla Corea, dal Vietnam al Laos, dalla Tailandia alla Cambogia) si formò prima che in Europa esistessero strutture analoghe. E ciò che a lui preme evidenziare è soprattutto il fatto che questi Stati erano «tutti collegati tra loro, o direttamente o per il tramite della Cina, dai commerci e dalla diplomazia». Vi era, infatti, «una condivisa comprensione dei principi, delle nor72

Sul nuovo espansionismo cinese, invece, J.P. Cardenal, H. Araújo, Come la Cina sta conquistando l’Occidente (2011), Feltrinelli, Milano 2016 e S. Pieranni, Cina globale, manifestolibri, Roma 2017.

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me e delle regole che informavano le loro reciproche relazioni facendone un “mondo” tra altri “mondi”»73. Arrighi si impegna inoltre a confutare l’opinione che riconduce all’interno dei confini europei l’invenzione dei mercati nazionali. Mercati non capitalistici erano quelli cinesi nell’epoca Ming, dalla metà del Trecento alla metà del Seicento, o nell’epoca Qing, tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. E dal Quattrocento in poi nessun capitalista cinese ha mai puntato a controllare lo Stato, condizione indispensabile per esercitare un’egemonia capitalistica, efficace e duratura sulla società. È in particolare su questo secondo elemento che Arrighi fa leva per affermare che in futuro il capitalismo potrà essere superato non già da una versione aggiornata della pianificazione di sovietica memoria, bensì recuperando un’idea ancora largamente vituperata, a destra quasi quanto a sinistra: il mercato. La prospettiva di un’egemonia cinese richiede, dunque, un mutamento delle coordinate analitiche. Resta fermo il paradigma sistemico, ma bisogna passare dalla teoria del capitale alla teoria del mercato. Perciò, provocando scandalo in più d’uno dei suoi lettori74, Arrighi sceglie di tornare a Smith. Come abbiamo visto, Marx aveva codificato la sua logica mercantile con la formula dello scambio di merci M-D-M’, in base al quale il denaro è un semplice strumento atto a trasformare una quota di merci in un’altra quota di maggiore utilità. Ebbene, Arrighi vede in Smith l’autore più efficace per «salvare il mercato dal capitalismo»75. Costui, infatti, «sapeva molto bene ciò che le scienze sociali occidentali hanno poi dimenticato, e cioè che per tutto il diciottesimo secolo il più grande mercato nazionale non andava cercato in Europa, ma in Cina»76. 73 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 350. Per un’analisi più approfondita: S. Ikeda, The History of the Capitalist World-System vs The History of EastSoutheast Asia, in «Review», 1996, n. 19, pp. 46-76; P.C. Perdue, A Frontier View of Chineseness, in The Resurgence of East Asia. 500, 150 and 50 Year Perspectives, a cura di G. Arrighi, T. Hamashita e M. Selden, Routlege, New York-London 2003, pp. 51-77. 74 Cfr. J. Gulick, Giovanni Arrighi’s Tapestry of East & West, in «Journal of World-Systems Research», vol. 15, 2009, n. 2, pp. 243-248; L. Pradella, Beijing between Smith and Marx, in «Historical Materialism», vol. 18, 2010, n. 1, pp. 88-109. 75 M. Amato, L. Fantacci, Come salvare il mercato dal capitalismo, Donzelli, Roma 2012. 76 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 357.

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Se un pensatore di impronta marxista come Arrighi ha dedicato i suoi ultimi studi a Smith, è perché ha saputo riconoscere in lui non solo la primogenitura dell’economia politica classica, ma anche l’eccezionale ricchezza speculativa della Teoria dei sentimenti morali e delle Lezioni di giurisprudenza. In particolare, egli si è persuaso che l’opera smithiana ospitasse le risorse teoriche più preziose per intendere e governare l’odierna fase di transizione verso un differente ordine globale, imperniato su un’egemonia di tipo nuovo. Con la fine del lungo ventesimo secolo sarebbero maturate le condizioni di un inedito mercato mondiale, capace di inaugurare un avvenire egualitario, estraneo a quella modernità che si è sempre organizzata nella dialettica iniqua di centro e periferia. Come detto, Smith aveva scorto nella Cina una terra di mercato, ma soprattutto aveva offerto una lettura dinamica dello sviluppo economico. Se Fernand Braudel, ad esempio, credeva che il nesso tra mercato e capitale fosse sostanzialmente statico e che perciò sarebbe stato vano attendere l’avvento di una qualche sintesi, l’economista scozzese pensava invece che la «sintesi» potesse risultare dalla «eliminazione dell’ineguaglianza di forze sotto l’impatto dello stesso processo di formazione del mercato mondiale». Quest’ultimo avrebbe agito come «un equilibratore inarrestabile dei rapporti di forza tra l’Occidente e il mondo non occidentale»77. E il fatto che la Cina possa oggi vantare il massimo tasso di crescita al mondo «sta rendendo l’intuizione di Smith di una società di mercato globale basata su una maggiore equità tra le diverse aree mondiali di civiltà, più vicina alla realtà di quanto non lo sia mai stata nei quasi due secoli e mezzo trascorsi dalla pubblicazione della Ricchezza delle nazioni»78. A questo punto, però, bisogna entrare con precisione nel merito delle lezioni che Smith avrebbe lasciato in eredità al ventunesimo secolo, al di là dei miti che hanno aleggiato e continuano ad aleggiare sulla sua persona. * 77 78

Id., Il lungo ventesimo secolo, cit., p. 28. Id., Adam Smith a Pechino, cit., p. 20.

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Il primo mito che Arrighi si propone di sfatare è quello che dipinge Smith come l’apologeta di un mercato autoregolato. Secondo la vulgata, il filosofo scozzese sarebbe stato il primo grande teorico dello Stato minimo, fiducioso che l’equilibrio ottimale, in condizione di libertà da vincoli artificiali, fosse destinato spontaneamente a imporsi. Ma come nel 1944 aveva già ampiamente dimostrato Karl Polanyi nel classico La grande trasformazione79, questa è una vera e propria invenzione del liberalismo ottocentesco. Perché era aliena alla cultura di pressoché tutto il Settecento la cattiva utopia mercatista secondo cui l’assenza dell’intervento pubblico lascia che si realizzi un ordine pacifico. Che cosa resta, dunque, della «mano invisibile»80? Questa figura compare solo tre volte nel corpus degli scritti smithiani e ha un significato ampio, non confinabile nella sfera economica, ma riferito a tutte le situazioni di equilibrio non intenzionale81. Per come viene tratteggiata nella Teoria dei sentimenti morali, la mano invisibile indica quella specie di provvidenza, già individuata da Bernard de Mandeville, per la quale i singoli, avendo di mira il proprio tornaconto particolare, contribuiscono comunque al raggiungimento dell’interesse generale. Ma lungi dal dipingere quel cosmos naturale che Friedrich von Hayek propugnerà in opposizione alla taxis artificiale82, Smith 79 Polanyi è autore caro ad Arrighi, che insieme a Beverly J. Silver gli dedica Polanyi’s “Double Movement”: The Belle Époques of British and U.S. Hegemony Compared, in «Politics & Society», vol. 31, 2003, n. 2, pp. 325-355. 80 «Cercando per quanto può di impiegare il suo capitale a sostegno dell’industria interna e di indirizzare questa industria in modo che il suo prodotto possa avere il massimo valore», scriveva Smith nel Quarto libro della Ricchezza delle nazioni (1776), Utet, Torino 1975, pp. 583-584, «ogni individuo [imprenditore] contribuisce necessariamente quanto può a massimizzare il reddito annuale della società. Invero, generalmente egli né intende promuovere l’interesse pubblico né sa quanto lo promuova. Preferendo sostenere l’industria interna anziché l’industria straniera, egli mira soltanto alla sua sicurezza; e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in altri casi, egli è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni». 81 Sulla smithiana “mano invisibile”, S.J. Pack, Capitalism as a Moral System: Adam Smith’s Critique of The Free Market Economy, Aldershot 1991, e E. Rothschild, Economic Sentiments. Adam Smith, Condorcet and the Enlightenment, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 116-156. Più in generale, per una critica dell’ideologia mercatista, A. Roncaglia, Il mito della mano invisibile, Laterza, Roma-Bari 2005. 82 L. von Hayek, Legge, legislazione e libertà (1986), il Saggiatore, Milano 2010, pp. 48-72.

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pensa che la creazione e la conservazione del mercato dipendano da uno Stato forte, capace di instaurare e mantenere un’effettiva concorrenza. Il filosofo scozzese non mira a un’abolizione della politica economica che lasci il passo al completo laissez-faire. Peraltro è lo statuto stesso dell’economia politica, in quanto «ramo della scienza dello statista o del legislatore»83, a rivelare come sia cruciale l’intervento dello Stato per consentire il funzionamento del mercato. E basta scorrere l’indice del capolavoro economico smithiano per saggiare la varietà dei settori nei quali l’apparato pubblico è chiamato a intervenire: militare, amministrativo, giurisdizionale, monetario, creditizio, infrastrutturale, educativo… Tuttavia se questi sono i settori d’intervento del sovrano (cui viene consacrato, si noti, l’intero Quinto libro della Ricchezza delle nazioni), quale dev’essere il loro segno? Qui risiede l’elemento di originalità della lettura di Arrighi, che raffigura uno Smith radicale ed egualitario84. I suoi suggerimenti al legislatore sarebbero sempre basati su «considerazioni di ordine sociale o politico piuttosto che economico»85. E tra le varie prove a sostegno di questa interpretazione viene riportato il rimprovero smithiano nei confronti dei commercianti inglesi, che avevano il torto di lagnarsi dei salari guadagnati dalla manodopera britannica e di tacere sui profitti ancor più alti del capitale. «In molti casi», si legge nella Ricchezza delle nazioni, «gli elevati profitti dei capitali britannici possono tuttavia contribuire ad aumentare il prezzo dei manufatti britannici altrettanto quanto gli elevati salari della manodopera britannica e in altri forse anche di più»86. Riassumendo, Arrighi ripropone Smith come teorico di un mercato regolato dallo Stato a scopo redistributivo. Ma c’è di più: lo Stato è interessato a creare, riprodurre e tutelare il mercato, poiché si serve di quest’ultimo come di un formidabile strumento di governo. Se l’economia politica è la forma di sapere finalizzata ad «arricchire sia il popolo sia il sovrano»87, in ter83

A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 553. È la coppia di aggettivi scelti da Iain McLean in Adam Smith, Radical and Egalitarian. An Interpretation for the 21st Century, Palgrave, New York 2006. 85 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 57. 86 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 750-751. 87 Ivi, p. 553. 84

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mini foucaultiani si può aggiungere che il mercato è la forma di potere attraverso cui lo Stato governa la popolazione88. A questo punto, però, vengono al pettine i primi nodi legati alla riattualizzazione di Smith. Come altri autorevoli interpreti89, lo studioso italiano crede negli effetti emancipativi di un progressivo allargamento del mercato. Smith viene presentato come il massimo ispiratore di una società concorrenziale e, dunque, egualitaria. Ma lo stesso Arrighi, avvertito peraltro dall’idea polanyiana di embeddedness90, riconosce come l’idea smithiana di mercato implichi un radicamento geografico, sociale e istituzionale. Se è così, diventa però difficile supporre che il Sudest asiatico, nel quale era effettivamente radicata una secolare tradizione di mercato, possa diffondere e promuovere una cultura atta a edificare una società mondiale. Questa prospettiva, infatti, si scontra in modo forse irrimediabile con le profondissime differenze tra le diverse etiche sedimentatesi nelle diverse aree del pianeta. In secondo luogo, benché Arrighi presti lucida attenzione alla funzione dei circuiti finanziari all’interno del capitalismo contemporaneo, nel delineare i contorni della futura società di mercato mondiale egli assegna un ruolo del tutto secondario al fatto che oggi la cosiddetta ricchezza reale sia sempre più subordinata alla ricchezza virtuale delle borse. Pur avendo valorizzato il rilievo della finanza nella modernizzazione capitalistica, quando si tratta di immaginare l’avvenire egli si sofferma esclusivamente sul mercato: un piano distinto dagli altri che insieme compongono la vita economica, e tuttavia inseparabile, se non al prezzo di risultare artificiosamente astratto e vuoto. Ma la maggiore difficoltà cui si espone Arrighi è concettuale prima che pratica. Se il mercato dev’essere uno strumento di governo, la “materia” da plasmare non può che essere la popolazione di un territorio la cui sicurezza va tutelata da uno Stato. Quando invece 88 L’ovvio rimando è al corso tenuto da Michel Foucault al Collège de France tra il 1977 e il 1978 su Sicurezza, territorio, popolazione (ed. it. Feltrinelli, Milano 2005). 89 Esemplare A. Sen, How to judge globalism, in «The American Prospect», vol. 13, 2002, n. 1, pp. 1-14. 90 G. Arrighi et al., Polanyi symposium: a conversation on embeddedness, in «Socio-Economic Review», vol. 2, 2004, n. 1, pp. 109-135.

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diventa globale, disancorandosi da uno Stato, da un territorio e da una popolazione di riferimento, come può il mercato rimanere un dispositivo di governo? In assenza di una popolazione relativamente omogenea, quale sarebbe il “corpo” su cui agire? E in mancanza di istituzioni sovranazionali dotate di effettiva legittimità politica, quale sarebbe il soggetto capace di regolare il mercato così da servirsene come di uno strumento di governo redistributivo? * Il secondo mito contro cui Arrighi si scaglia è quello che vede in Smith il sostenitore degli effetti perennemente positivi di una generica divisione del lavoro. In particolare, egli intende dimostrare la gravità degli effetti collaterali prodotti da una specifica tipologia di divisione del lavoro, quella descritta nel Primo libro della Ricchezza delle nazioni. La critica è ormai concorde nel ritenere infondata una lettura dell’idea smithiana di divisione del lavoro in termini esclusivamente materialistici o utilitaristici. Né la necessità né l’egoismo sono sufficienti a innescare la divisione del lavoro. Per il filosofo scozzese quest’ultima ha radici antropologiche. Come lo sviluppo degli scambi, essa discende in ultima istanza da una caratteristica tipicamente umana: «la propensione a trafficare, barattare e scambiare una cosa con un’altra»91. La Ricchezza delle nazioni rappresenta del resto un tassello all’interno di un programma di ricerca ben più vasto, volto a indagare i principi naturali della condotta umana nella morale, nella giurisprudenza, nella vita politica ed economica. Smith presenta un quadro unitario, integrando ciascuna area con le altre. Individuati i fattori di divisione del lavoro, quali sono le sue conseguenze? Evocando la celeberrima immagine della fabbrica di spilli, il Primo libro della Ricchezza delle nazioni vuole dimostrare che la divisione del lavoro è innanzitutto la scaturigine dell’incremento di produttività. Viene ravvisata una proporzionalità diretta tra la spartizione dei compiti all’interno di un’azienda, «la maggiore abilità, destrezza e avvedutezza con le 91

A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 91.

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quali [il lavoro] è ovunque diretto o impiegato» e il «grandissimo progresso della capacità produttiva»92. A fronte degli effetti positivi appena indicati, tuttavia, il Quinto libro afferma che la divisione del lavoro deteriora la creatività e l’intelligenza dell’impiegato. Nel contesto di un invito al sovrano a sostenere l’istruzione pubblica giovanile, Smith denuncia precisamente le conseguenze deleterie della divisione del lavoro sulla capacità degli individui di superare le difficoltà in cui incappano svolgendo la loro funzione o ricoprendo ruoli diversi da quelli per i quali si erano formati93. C’è chi ha ravvisato una «contraddizione lampante»94, sostenendo come per lo Smith del Primo libro un ingrediente essenziale nell’incremento della produttività consistesse proprio nella capacità, da parte della divisione del lavoro, di sviluppare l’intelligenza degli impiegati. Il testo smithiano faceva riferimento, come abbiamo letto, ad abilità (skill), destrezza (dexterity) e avvedutezza (judgement). Sicché un deperimento di queste qualità avrebbe comportato il venir meno delle stesse condizioni che avevano consentito e promosso il progresso tecnico e, così, la crescita economica. Ma Arrighi ricorda come per Smith l’innovazione tecnologica dipenda sì dai lavoratori e dalla loro intelligenza, ma anche dai produttori e da quelli che Smith chiama «scienziati» e «filosofi»95. È solo nel primo stadio di sviluppo che tutti sono 92

Ivi, p. 79. «Con il progredire della divisione del lavoro», si legge nella Ricchezza delle nazioni, cit., pp. 949-950, «l’occupazione della gran parte di coloro che vivono per mezzo del lavoro, cioè della gran parte della popolazione, finisce per essere limitata ad alcune operazioni semplicissime; spesso a una o due. Ma l’intelletto della maggior parte degli uomini è necessariamente formato dalle loro occupazioni ordinarie. Chi passa tutta la sua vita a eseguire alcune semplici operazioni, i cui effetti son inoltre forse sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare l’intelletto o la sua inventiva nell’escogitare espedienti per superare difficoltà che non si presentano mai. Perciò, egli perde naturalmente l’abitudine di questo esercizio e generalmente diventa tanto stupido e ignorante quanto può diventarlo una creatura umana». 94 E.G. West, Adam Smith’s Two Views on the Division of Labour, in «Economica», vol. 31, 1964, n. 122, pp. 23-32: 26. 95 «Non tutti i miglioramenti delle macchine», si legge nella Ricchezza delle nazioni, cit., pp. 87-88, «sono stati tuttavia invenzione di coloro che hanno avuto occasione di usarle. Molti perfezionamenti sono dovuti all’inventiva dei costruttori di macchine, da quando la loro costruzione è diventata compito di una particolare 93

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direttamente coinvolti nella produzione e contribuiscono parimenti alle innovazioni che ne accelerano il ritmo. Quando le tecniche produttive si fanno più sofisticate, con l’ingresso a uno stadio più avanzato, il livello medio di comprensione generale si riduce e la maggioranza della popolazione esercita un’influenza minore sulla produzione. Gli incarichi diventano sempre più ripetitivi e tendono ad atrofizzare la mente degli addetti alla produzione. Ma a questo punto è la specializzazione delle attività intellettuali a permettere comunque uno sviluppo scientifico che, a sua volta, alimenta il progresso tecnico e la crescita economica. Ne consegue che non rappresenta un ostacolo insormontabile la circostanza per la quale, sul lungo periodo, la divisione del lavoro produca effetti nocivi per le qualità intellettuali, e financo morali, delle persone coinvolte nel processo produttivo. Se tuttavia fin qui Arrighi si muove nel solco di una lettura già suggerita da altri96, il suo apporto si manifesta nel distinguere, all’interno dell’opera smithiana, due diverse tipologie di divisione del lavoro, che, utilizzando un lessico marxista, vengono chiamate rispettivamente tecnica e sociale. Alla prima, che riguarda la definizione gerarchica delle mansioni all’interno di una singola impresa, sarebbero dedicate le prime e le ultime pagine della Ricchezza delle nazioni; ma il resto dell’opera sarebbe sostanzialmente riservato alla seconda, che invece consiste nella presa in carico, all’interno della società, di determinati ruoli e funzioni da parte di altrettanti gruppi o categorie. Grazie a questa distinzione Arrighi può affermare che, mentre Marx rappresenta la stella polare quando si vuole analizzare professione; e taluni a quella dei cosiddetti filosofi o uomini di speculazione, la cui occupazione non è di fare, ma di osservare ogni cosa. Essi, per questa ragione, sono spesso capaci di combinare insieme la proprietà degli oggetti più distanti e disparati. Nel progresso della società, la filosofia o speculazione diventa, come ogni altra occupazione, il mestiere principale o esclusivo di una particolare classe di cittadini. Come ogni altra occupazione, essa è parimenti suddivisa in un gran numeri di rami differenti, ognuno dei quali dà occupazione a un particolare gruppo o classe di filosofi e questa suddivisione di occupazioni nella filosofia, come in ogni altre attività, migliora l’abilità e risparmia tempo. Ogni individuo diventa più esperto nel suo particolare ramo, nell’insieme viene fatto maggior lavoro e la scienza viene con ciò considerevolmente incrementata». 96 N. Rosenberg, Adam Smith on the Division of Labour: Two Views or One?, in «Economica», vol. 32, 1965, pp. 127-139: 138-139.

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la divisione tecnica del lavoro, perché indagando a fondo i laboratori nascosti della produzione ha scoperto lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, per “uscire” dalla fabbrica e studiare la divisione sociale del lavoro, ovvero la società di mercato, bisogna rivolgersi a Smith. E come abbiamo mostrato nella spiegazione diacronica dell’apparente contraddizione smithiana, gli effetti maggiormente positivi sarebbero determinati non già dalla divisione tecnica, bensì dalla divisione sociale del lavoro. Perché se è indubbio che l’esempio della fabbrica di spilli serve a illustrare come la specializzazione all’interno della singola azienda determini un aumento della produttività, quest’ultima dipende innanzitutto dalla creazione di settori specializzati della produzione, ovverosia dalla divisione sociale del lavoro. E l’attuale epoca di capitalismo cognitivo97, in cui la valorizzazione del capitale fa capo in buona misura a figure professionali esterne all’impresa, testimonierebbe esattamente la potenza creativa di questa seconda tipologia di divisione del lavoro. Una tipologia che, a differenza dell’altra, godrebbe del vantaggio di non dipendere strettamente dalla dimensione delle unità produttive. In tal senso, anche questo discorso si muove autonomamente per il mercato e contro il capitale: più specificamente, Arrighi cerca di scavare una via di resistenza ai danni procurati dal sovra-dimensionamento delle imprese. Un fenomeno che, irrigidendo la divisione tecnica del lavoro, aggrava le sue nefaste conseguenze. L’interpretazione di Arrighi è allettante, ma non priva di criticità. Perché opporsi alle grandi corporations che oggi reggono il capitalismo globale mediante la difesa della divisione sociale, e non tecnica, del lavoro è una posizione senz’altro coerente con l’aspirazione a che si realizzi una società di mercato in senso proprio, anziché di rendita com’è invece l’attuale98. Ma sareb97 Cfr. C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca postfordista, manifestolibri, Roma 2006; A. Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma 2007; Y. Moulier Boutang, Le Capitalisme cognitif : la nouvelle grande transformation, Editions Amsterdam, Paris 2007. 98 Per l’ancoraggio di questa prospettiva a Smith, S. Muthu, Adam Smith’s Critique of International Trading Companies: Theorizing “Globalization” in the Age of Enlightenment, in «Political Theory», vol. 36, 2008, n. 2, pp. 185-212.

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be ingenuo pensare che la divisione tecnica, legata com’è alla crescente dimensione delle imprese, non incida alla lunga sulla divisione sociale del lavoro. La riorganizzazione della struttura industriale, che ha ormai largamente superato la soglia del taylorismo e del fordismo, influisce evidentemente anche sulla differenziazione dei lavori esterni alla fabbrica. Perché le grandi imprese conservano uno straordinario potere di condizionamento, materiale e culturale. Veniamo quindi a un secondo elemento di difficoltà. Come si combina, infatti, la preoccupazione per la crescita dimensionale delle imprese con l’entusiasmo, ogni volta rinnovato, per una prospettiva di mercato mondiale? Non è forse irrealistico immaginare un mercato globale che sia al contempo privo di imprese transnazionali? Detto altrimenti, è possibile una società di mercato mondiale senza la contemporanea edificazione di un capitale di pari grado? Pesa, nell’opera di Arrighi, l’assenza di una riflessione sulla governance mondiale o quantomeno macroregionale99. Perché in attesa di istituzioni sovranazionali dotate di piena legittimità politica ed effettiva capacità decisionale, è forse l’istituzionalizzazione delle grandi aree territoriali la via più acconcia a rafforzare una concorrenza intercapitalistica che consenta di non assistere impotenti al consolidamento di conglomerati industriali e finanziari di portata gigantesca. * La terza demistificazione operata da Arrighi riguarda lo Smith presunto cantore della crescita illimitata. Il sociologo italiano rigetta come falsa e ideologica tale rappresentazione, ma compie una mossa ulteriore: attribuisce all’economista scozzese – e non, come la critica suole fare, a Marx – la tesi circa la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. 99 Un cenno al tema si ritrova in G. Arrighi, À la recherche de l’État mondial, in «Actuel Marx», vol. 40, 2006, n. 2, pp. 55-70. In dialogo con la prospettiva sistemica, W.I. Robinson, A Theory of Global Capitalism: Transnational Production, Transnational Capitalists, and the Transnational State, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2004, e J. Bidet, L’État-monde. Libéralisme, socialisme et communisme à l’échelle mondiale, Puf, Paris 2011.

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Secondo Arrighi, come accennato nel capitolo precedente, Marx sarebbe anzi meno pessimista di Smith. Perché il filosofo di Treviri era riuscito a individuare plurime ragioni di resilienza del capitalismo, comprendendo come lo smantellamento delle strutture sociali che in una certa fase avevano ospitato il processo di accumulazione potesse preludere alla creazione di nuove strutture organizzative ancora più capaci di articolare la potenza dello spirito capitalistico borghese. Smith, invece, nutriva un pessimismo più marcato a riguardo. La sua ipotesi era che un eccesso di capitali avrebbe finito per decurtare le possibilità di un loro impiego profittevole. Nella Ricchezza delle nazioni (libro I, cap. 9) è scritto che «l’aumento del capitale, che fa aumentare i salari, tende a ridurre i profitti». Ma non è genericamente l’incremento della quota di capitale di un paese a generare in quello stesso territorio il calo del saggio di profitto. Perché, si legge subito dopo, «quando i capitali di molti ricchi mercanti vengono destinati allo stesso commercio, la loro reciproca concorrenza tende naturalmente a ridurne il profitto»100. In altre parole, è l’aumento della concorrenza tra capitalisti il motivo della riduzione tendenziale del tasso di profitto. Ma una volta diagnosticata questa tendenza, si apre la questione di come valutarla. E a parere di Arrighi, che sotto questo profilo è debitore di Sylos Labini101, Smith avrebbe avuto un’opinione tutt’altro che negativa in proposito. Se non fosse calata oltre un minimo accettabile (che corrisponde alla compensazione dei rischi affrontati nell’investire le proprie risorse nel commercio e nella produzione), la caduta del saggio di profitto avrebbe rappresentato un fenomeno positivo. In quanto riflesso di un’accresciuta competizione tra capitalisti, tale fenomeno sarebbe stato augurabile come strumento di riequilibrio sociale. L’interesse generale, infatti, prevede una spartizione equa delle risorse. E allo Stato spetta di «proteggere per quanto possibile ogni membro della società dall’ingiustizia o oppressione di ogni altro membro»102. 100

A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 180. P. Sylos Labini, Competition: The Product Markets, in T. Wilson, A.S. Skinner (a cura di), The Market and the State: Essays in Honor of Adam Smith, Clarendon Press, Oxford 1976, pp. 200-232: 220. 102 A. Smith, La ricchezza delle nazioni, cit., p. 852. 101

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Se la competizione intercapitalistica conduce a un calo del saggio di profitto e se questo calo è un obiettivo da perseguire, allora – prosegue Arrighi interprete di Smith – ciò che il governo è chiamato ad assicurare è precisamente la concorrenza tra i capitalisti. Ne consegue che, avendo di mira l’interesse generale, i legislatori sono indotti a contrastare piuttosto che ad assecondare gli interessi dei capitalisti. I provvedimenti suggeriti da Smith al sovrano «non sono affatto da partigiano del capitale, ma quasi sempre da partigiano del lavoro»103. Sul piano salariale, l’economista britannico sostiene che una giusta remunerazione della forza-lavoro, prima di rappresentare un effetto dell’aumento della ricchezza nazionale, sia innanzitutto motore di produttività, nonché di crescita demografica. E il nesso tra alti salari e progresso economico si è manifestato in tutta la sua evidenza nelle colonie inglesi del Nord America. Il compito del legislatore, dunque, è varare provvedimenti che, estendendo la divisione sociale del lavoro e allargando il mercato interno, rendano possibile la piena realizzazione del potenziale di crescita. Ma che cosa avviene quando, come nel caso della Cina contemporanea a Smith, tale potenziale viene raggiunto? Mark Elvin ha parlato di una «trappola di equilibrio alto livello»104. E Arrighi nota come Smith non preveda un meccanismo interno alla dinamica capitalistica in grado di superare la stasi. Nella Ricchezza delle nazioni la divisione del lavoro non appare sufficiente a scongiurare il pericolo che il sistema economico giunga a saturazione. Insomma, conclude Arrighi, «solo la mano visibile del governo potrebbe in tal caso liberare l’economia dalla trappola con adeguate riforme istituzionali e legislative»105. Se questa è la diagnosi, nella riattualizzazione di Smith stride ancor di più il fatto che, in Adam Smith a Pechino, il richiamo alla dimensione istituzionale su scala sovranazionale sia pressoché assente. Se il mercato mondiale, in condizioni di divisione 103

G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 62. M. Elvin, The Pattern of the Chinese Past, Stanford University Press, Stanford 1973, p. 314. 105 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 68. 104

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sociale del lavoro e di concorrenza intercapitalistica, è il migliore strumento di riequilibrio a patto che sia regolato da istituzioni pubbliche, allora perché l’ultimo libro di Arrighi non si misura su questo terreno? L’assenza di una tale riflessione si percepisce a maggior ragione oggi che, a dieci anni dalla prima edizione di Adam Smith a Pechino, l’agenda pubblica è costretta a fare i conti con il tema della «stagnazione secolare»106. Una stagnazione che non ha i contorni descritti da Smith e ripresi nel prospetto arrighiano, poiché non è il risultato della concorrenza intercapitalistica e non si accompagna a un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza. La «grande stagnazione» di cui si discute ai giorni nostri dipende dal fatto che l’automazione crea una disoccupazione di massa che, a sua volta, impoverisce il ceto medio. Modificare la realtà odierna mediante una «rivoluzione industriosa» ad alta intensità di lavoro, come propone Arrighi ispirandosi alla storia cinese imperniata sull’organizzazione domestica e comunitaria, rischia di apparire velleitario, non solo per la carenza analitica sulle dinamiche istituzionali, ma anche per la mancata considerazione dei risvolti macroeconomici e soprattutto sociali determinati dall’applicazione delle nuove tecnologie al processo produttivo. * Insomma, se lo Smith di Arrighi non indossa la maschera del cattivo è perché quella maschera, che una certa tradizione ha voluto cucirgli addosso, non si attaglia al suo vero volto. Eppure sbaglierebbe chi sostenesse che il guadagno scientifico apportato dal sociologo italiano si misuri innanzitutto sul terreno storiografico. Il pregio della sua interpretazione non consiste nell’aver restituito ai lettori, e tantomeno agli specialisti, l’autentico pensiero di Smith. 106

T. Cowen, The Great Stagnation: How America Ate All the Low-Hanging Fruit of Modern History, Got Sick, and Will (Eventually) Feel Better, Penguin, New York 2011; L.H. Summers, The Age of Secular Stagnation, in «Foreign Affairs», 91, 2016, n. 2, pp. 2-9; F. Erixon, B. Weigel, The Innovation Illusion: How So Little Is Created by So Many Working So Hard, Yale University Press, Yale 2016.

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Ad Arrighi va riconosciuto altro, ossia lo spessore propriamente teorico-politico con cui ha saputo rileggere il pensiero dell’illuminista scozzese, poiché la sua ultima opera ha sì riflettuto sulle categorie smithiane, ma lo ha fatto allo scopo di comprendere il presente e di orientare la prassi. E benché, come abbiamo visto, l’opera arrighiana sia suscettibile di diverse critiche, questo merito resta: perché lo scenario sul quale il sociologo italiano ha proiettato il discorso di Smith non ha solo un respiro insolitamente vasto, ma apre anche una riflessione estremamente rilevante per la teoria politica. E al di là della maniera troppo disinvolta con cui talora vengono eluse difficoltà quasi insormontabili, rimane un modo originale e indubbiamente fecondo di porre uno dei problemi dirimenti per il destino globale del ventunesimo secolo, quello del rapporto tra mercato e capitale. * L’obiettivo di costruire un mercato non capitalistico, secondo Arrighi, può essere la chiave di volta di un nuovo Beijing consensus. Nei suoi ultimi scritti, egli ha riaffermato più volte questa tesi107. In un’epoca globale la Cina dovrebbe lavorare alla costruzione di una nuova e più efficace Bandung, cioè una nuova alleanza tra gli Stati del Sud del mondo, volta a contrastare la subordinazione economica e politica agli Stati del Nord. La prima Bandung, che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento aveva riunito i paesi del Terzo mondo, era fondata su basi ideologico-politiche. Perciò fu sconfitta dalla controrivoluzione neoliberale. Ma le fondamenta della Bandung che potrebbe riemergere nel ventunesimo secolo sarebbero prima di tutto economiche e, in quanto tali, assai più resistenti. Dalla produzione al commercio alla finanza, l’interdipendenza tra le economie del Sud mondiale si è già notevolmente accresciuta. Quattro i paesi che guidano la riscossa: Brasile, Sudafrica, India e, soprattutto, Cina. Queste nuove potenze economiche producono ormai stabilmente merci a basso 107 Cfr. G. Arrighi, “At Some Point Something Has To Give” – Declining U.S. Power, the Rise of China, and an Adam Smith for the Contemporary Left, intervista di K. Harris, in «American Sociological Association», vol. 18, 2012, n. 2, pp. 157166: 159.

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costo e, così, possono finalmente sovvertire quella gerarchia globale di ricchezza e potere che le ha viste a lungo soccombere. Ma non ci sarà nessun «post-capitalismo»108 se la nuova Bandung non prenderà sul serio la sfida ambientale. La rivoluzione industriale ha interrotto un ciclo energetico che per tempo immemorabile si era basato sull’utilizzo di fonti rinnovabili, come l’acqua e il vento. Da oltre due secoli a questa parte, quella che Jason W. Moore suggerisce di chiamare non «antropocene», bensì «capitalocene»109, dipende invece dai depositi fossili. Se ha intenzione di durare, la nuova Bandung deve sganciarsi dal modello di sviluppo occidentale. Non solo perché il Sud del mondo è già più industrializzato del Nord, senza perciò aver ottenuto un incremento soddisfacente nel reddito pro capite110, ma anche perché «nemmeno un quarto della popolazione della Cina e dell’India potrebbe permettersi di adottare il modo americano di produrre e consumare senza morire soffocato, assieme al resto dell’umanità»111. La posizione di Arrighi è chiara: un’«eccessiva aderenza» dell’economia meridionale, e cinese in particolare, al «modello di sviluppo occidentale ad alta intensità energetica» non è sostenibile. A pagare i costi di un’eventuale rincorsa dell’Occidente, peraltro, continuerebbero ad essere le fasce più deboli delle popolazioni. Bisogna muoversi in un’altra direzione, consolidando «la tradizione cinese dello sviluppo centrato sul proprio mercato interno, dell’accumulazione senza spoliazione, del ricorso alle risorse umane più che a quelle materiali e della partecipazione di massa alla definizione delle politiche di governo». Solo in questo modo, secondo Arrighi, potrà emergere finalmente un 108 P. Mason, Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro (2015), il Saggiatore, Milano 2016. 109 J.W. Moore, Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria (2016), ombre corte, Verona 2017. Dello stesso autore si veda soprattutto, in ottica sistemica, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, ombre corte, Verona 2015. 110 Cfr. G. Arrighi, B.J. Silver, B.D. Brewer, Industrial Convergence, Globalization, and the Persistence of the North-South Divide, in «Studies in Comparative International Development», vol. 38, 2003, n. 1, pp. 3-31, nonché G. Arrighi, La condizione meridionale: globale, nazionale, locale, in M. Petrusewicz, J. Schneider, e P. Schneider (a cura di), I Sud. Conoscere, capire, cambiare, il Mulino, Bologna 2009, pp. 307-320: 308. 111 G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, cit., p. 427.

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capitale, egemonia, sistema

«Commonwealth delle civiltà realmente rispettoso delle differenze culturali»112. Altrimenti non potrà fare a meno di crescere l’inquietudine per una violenza che, terminata la Guerra fredda, si fa ogni giorno più incontrollabile.

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Ivi, p. 428.

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Indice dei nomi

Abu-Lughod, Janet, 67, 68n, 123n. Agamben, Giorgio, 76n. Aglietta, Michel, 102n. Albert, Michel, 96n. Amato, Massimo, 139n. Amin, Samir, 15, 58 e n, 67, 68n. Anderson, Perry, 26n. Andreatta, Beniamino, 30. Araújo, Heriberto, 138n. Arendt, Hannah, 126 e n, 127n. Aschoff, Nicole, 43n. Babones, Salvatore J., 73n. Baldacci, Massimo, 27n. Baran, Paul A., 19n. Barber, William J., 17, 23. Baroncelli, Eugenia, 110n. Barr, Kenneth, 125n. Bastiat, Frédéric, 107n. Bazzicalupo, Laura, 73n, 108n, 124n. Beck, Ulrich, 71 e n. Beinhocker, Eric D., 129n. Berlinguer, Enrico, 29, 33. Bertalanffy, Ludwig von, 65 e n. Bianchi, Sergio, 27n. Bidet, Jacques, 148n. Blanc, Louis, 107n. Bloch, Marc, 85. Bobbio, Norberto, 44n. Boggio, Luciano, 68n. Boltanski, Luc, 81 e n. Branch, Jordan, 55n.

Braudel, Fernand, 12, 70-71, 82 e n, 83 e n, 84 e n, 85 e n, 86 e n, 87 e n, 88-91, 95, 99-101, 115, 140. Brenner, Neil, 70n. Brenner, Robert, 113 e n, 114-115. Brewer, Benjamin D., 90n, 153n. Buci-Glucksmann, Christine, 119 e n. Burguière, André, 70n. Burke, Peter, 70n. Bush, George W., 135. Cacciari, Massimo, 16n, 107n. Calhoun, Craig, 80n. Callinicos, Alex, 44n. Caminiti, Lanfranco, 27n. Canfora, Luciano, 20n. Caracciolo, Lucio, 14n. Carandini, Guido, 97n. Cardenal, Juan Pablo, 138n. Cardoso, Fernando Henrique, 68. Cesarale, Giorgio, 35n, 103n, 125n. Chase-Dunn, Christopher, 67, 68n, 73n. Chernilo, Daniel, 71n. Chiapello, Ève, 81 e n. Ciccarelli, Roberto, 28n. Collins, Randall, 80n. Condillac, Étienne Bonnot de, 64. Cope, Zak, 43n. Cospito, Giuseppe, 127n. Cowen, Tyler, 151n. D’Andrea, Dimitri, 124n. Dannequin, Fabrice, 86n.

168

De Bernardi, Alberto, 30n, 135n. Dehio, Ludwig, 44n. Deleuze, Gilles, 49n. Del Pero, Mario, 110n. Del Roio, Marcos, 27n, 134n. De Michele, Girolamo, 30n. Derluguian, Georgi, 80n. Derrida, Jacques, 92 e n. Descendre, Romain, 27n. Deschepper, Edwin, 107n. Dobb, Maurice, 69 e n. Donato, Gabriele, 30n. Drochon, Hugo, 127n. Dryzek, John S., 11n. Durkheim, Émile, 129n. Elvin, Mark, 150 e n. Emmanuel, Arghiri, 67, 68n. Engels, Friedrich, 91, 96n. Erixon, Fredrik, 151n. Escobar Brussi, Antônio José, 124n. Fantacci, Luca, 139n. Farinelli, Franco, 50n. Febvre, Lucien, 85. Fichte, Johann Gottlieb, 64. Flores, Marcello, 30n, 135n. Forges Davanzati, Guglielmo, 94n. Foucault, Michel, 143n. Frank, Andre Gunder, 21 e n, 58 e n, 67, 68 e n, 73, 137n. Friedman, Milton, 136. Friedman, Thomas, 92 e n. Frosini, Fabio, 119n. Fumagalli, Andrea, 147n. Galli, Carlo, 50n. Gemelli, Giuliana, 88n. Gentili, Dario, 111n. Giddens, Anthony, 127n. Giovannelli, Giovanni, 27n. Gilpin, Robert, 15n. Gluckman, Max, 16n. Gramsci, Antonio, 12, 27-28, 29 e n, 60, 119-120, 127-128.

indice dei nomi

Grossi, Paolo, 123n. Guha, Ranajit, 128 e n. Gulick, John, 139n. Hall, Peter A., 96n. Hall, Thomas D., 68n. Hamashita, Takeshi, 139n. Hardt, Michael, 104 e n, 124, 133n. Harley, John Brian, 63. Harris, Kevan, 152n. Hartog, François, 85n. Harvey, David, 12, 43n, 91 e n, 102n, 119 e n, 120, 121 e n, 122 e n, 125n. Hayek, Friedrich von, 141 e n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 64. Helliwell, Christine, 11n. Hilferding, Rudolf, 44n, 48. Hindess, Barry, 11n. Hintze, Otto, 44n. Hisaeda, Shuji, 125n. Hobbes, Thomas, 98. Hobson, John. A., 48-49, 52-53, 55-56. Honig, Bonnie, 11n. Hopkins, Terence K., 67, 68n, 73, 126n, 129 e n, 130n, 131n, 132n, 133n, 134n. Howard, M.C., 87n. Ikeda, Satoshi, 139n. Izzo, Francesca, 128n. Jameson, Fredric, 125 e n. Jay, Martin, 75n. Jessop, Bob, 96n. Jha, Prem Shankar, 135n. Kant, Immanuel, 64 e n. Kautsky, Karl, 44n, 47-48. Keynes, John Maynard, 49. Kim, Woosang, 137n. Kindleberger, Charles, 123 e n.

169

indice dei nomi

Kondratieff, Nikolai, 106. Kuhn, Thomas, 45n. Lachmann, Richard, 11n. Lacoste, Yves, 85n. Lane, Christel, 97n. Lee, Eun Ho, 137n. Lee, Richard E., 72n. Lenin, Vladimir I.U., 46, 47 e n, 48-49, 52, 106 e n. Leopold, David, 12n. Lerner, Gad, 28n. Lévi-Strauss, Claude, 85. Lewis, William Arthur, 17, 23. Liguori, Guido, 28n, 119n, 134n. Lukács, György, 75 e n, 76. Luhmann, Niklas, 64, 65 e n. Lyotard, François, 63. Madera, Romano, 26-27, 31 e n, 48n. Mager, Wolfgang, 82n. Mahoney, James, 76n. Maier, Charles S., 54n. Manacorda, Mario Alighiero, 134n. Mandeville, Bernard de, 141. Mann, Michael, 80n. Marotta, Gerardo, 26n. Marramao, Giacomo, 50n, 124n. Marshall, Alfred, 15n. Martin, William G., 24n. Marx, Karl, 11-12, 16, 17n, 34, 36n, 37n, 40, 64, 70, 82, 83 e n, 89, 91-95, 96 e n, 97, 98 e n, 99-101, 109-111, 112 e n, 115116, 118, 121 e n, 139, 146, 148-149. Matteucci, Nicola, 44n. Maturana, Humberto, 65 e n. McLean, Iain, 142n. Mensch, Gerard, 106 e n. Minati, Gianfranco, 77n. Mitchell, James Clyde, 16 e n. Moore, Jason W., 153 e n.

Morfino, Vittorio, 72n. Morin, Edgar, 65 e n. Moro, Giovanni, 27n. Moulier Boutang, Yann, 147n. Muthu, Sankar, 147n. Negri, Toni, 30 e n, 104 e n, 124, 133n. Ness, Immanuel, 43n. Nietzsche, Friedrich, 127. Offe, Claus, 102n. Oliveri, Enzo, 26n. Pack, Spencer J., 141n. Palumbo-Liu, David, 70n. Parboni, Riccardo, 31n, 38n, 59n. Pareto, Vilfredo, 15n, 99. Parsons, Talcott, 127n, 128. Pasquino, Gianfranco, 44n. Passerini, Luisa, 15, 16n, 26. Patalano, Rosario, 63n, 94n. Patnaik, Prabhat, 44n. Patnaik, Utsa, 44n. Pavone, Claudio, 54n. Peck, Jamie, 96n. Perdue, Peter C., 139n. Petrucciani, Stefano, 71n. Petrusewicz, Marta, 43n, 153n. Phillips, Anne, 11n. Pianta, Mario, 35n. Piegari, Guido, 26n. Pieranni, Simone, 138n. Piselli, Fortunata, 43n, 122n. Pistone, Sergio, 44n. Polanyi, Karl, 11, 57 e n, 70, 141 e n. Pomeranz, Kenneth, 137 e n. Poulantzas, Nicos, 131 e n. Pradella, Lucia, 139n. Prebisch, Raúl, 68, 70. Pulcini, Elena, 124n. Rea, Ermanno, 26n. Reich, Robert, 19n. Reifer, Thomas E., 14n, 43n.

170

indice dei nomi

Revelli, Marco, 136n. Resnick, Idrian N., 16n. Ribeiro, Guilherme, 85n. Ricardo, David, 107. Robbins, Bruce, 70n. Robbins, Lionel C., 108n. Robinson, William I., 115n, 148n. Rodney, Walter, 15. Roncaglia, Alessandro, 99n, 141n. Rorty, Richard, 63. Rosenberg, Nathan, 146n. Rossanda, Rossana, 92n. Rothschild, Emma, 141n. Ruggie, John G., 78 e n.

142 e n, 143, 144 e n, 145 e n, 147 e n, 148, 149 e n, 150-152. Soja, Edward, 63. Somaini, Eugenio, 68n. Sombart, Werner, 82 e n, 107. Soskice, David, 96n. Stalin, Iosif, 69. Stears, Marc, 12n. Sugihara, Kaoru, 138n. Summers, Lawrence Henry, 151n. Sweezy, Paul M., 19n, 69 e n. Swift, Adam, 12n. Sylos Labini, Paolo, 19n, 108n, 109 e n, 149 e n.

Saccarelli, Emanuele, 44n. Sacchetto, Devi, 121n. Salvati, Michele, 68n. Saul, John S., 15 e n, 20n, 22n, 23n, 24n, 25n. Sawer, Marian, 69n. Scalfari, Eugenio, 32. Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph von, 64. Schirru, Giancarlo, 110n. Schneider, Jane, 153n. Schneider, Peter, 153n. Schumpeter, Joseph Alois, 11-12, 44n, 86 e n, 98 e n, 99, 106107, 108 e n, 109 e n, 110, 111 e n, 112, 115. Scully, Ben, 43n. Selden, Mark, 139n. Sen, Amartya, 143n. Settis, Bruno, 94n. Silver, Beverly J., 12, 43n, 44n, 77n, 78n, 90n, 115n, 127n, 141n, 153n. Simmel, Georg, 107. Sivini, Giordano, 136n. Skinner, Andrew S., 149n. Skocpol, Theda, 76n. Sloterdijk, Peter, 117 e n, 124n. Smith, Adam, 11-12, 83, 95, 9798, 107, 112, 139-140, 141 e n,

Talamona, Mario, 108n. Talbot, John M., 83n. Tanoukhi, Nirvana, 70n. Theodore, Nik, 96n. Tomba, Massimiliano, 72n, 121n. Urbani Ulivi, Lucia, 77n. Urry, John, 102n. Vacca, Giuseppe, 35n, 59n, 110n. Valpreda, Pietro, 29. Varadarajan, Latha, 44n. Varela, Francisco J., 65 e n. Vattimo, Gianni, 63. Veblen, Thorstein, 11. Veca, Salvatore, 48n. Velsen, Jaap van, 16 e n. Vercellone, Carlo, 147n. Vertova, Giovanna, 72n. Voza, Pasquale, 28n, 134n. Wallerstein, Immanuel, 12, 15, 58 e n, 59, 63, 66-67, 68 e n, 71 e n, 72 e n, 73, 74 e n, 75 e n, 76, 78, 80n, 83, 84n, 88 e n, 89 e n, 90 e n, 91, 99-100, 115, 126n, 129 e n, 130n, 131n, 132n, 133n, 134n. Walras, Léon, 15n. Waltz, Kenneth, 78 e n.

171

indice dei nomi

Weber, Max, 11, 44n, 102 e n, 107. Weigel, Björn, 151n. Wendt, Alexander E., 76n. West, E.G., 145n. White, Stuart, 12n. Wilson, Thomas, 149n. Wood, Geoffrey T., 97n. Wright-Mills, Charles, 66.

Zancarini, Jean-Claude, 27n. Zanini, Adelino, 108n, 111n. Zhang, Lu, 136n. Žižek, Slavoj, 81n. Zolo, Danilo, 65n.

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