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Italian Pages 130 [133] Year 1896
IL SISTEMA SANKHYA STUDIO SULLA FILOS OFIA INDIANA
TORINO LIBRERIA SCIENTIFICO-LETTERARIA
S. L A T T E S & C., E d ito ri Via Garibaldi, ) (p ia n a Castello)
1896
PROPRIETÀ LETTERARIA
* Z ^ o
n - 96,
p^
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t ì p.
G iov- Gaspari
« La felicità, la quiete, il soddisfacim ento di sè stessi — ecco ciò che tutti gli uomini d esid eran o ; m a dove questa felicità si tro v i essi non sanno. Essi credono che possa essere tro v a ta in ciò che im m ed iatam ente si fa d a v a n ti ai loro sensi e si offre al loro spirito — nel m ondo; poiché nella disposi zione d ’anim o in cui si tr o v a n o , nuli’a ltro essi vedono che il mondo. Essi si dan no con a r d o re a q u esta caccia della feli cità attac can d o si con tu t ta l'anim a e dandosi con passione al prim o o g g etto che loro piace e p ro m e tte di soddisfare la loro aspirazione. Ma come tosto essi rie n tra n o in sè stessi e si d o m an d an o : Sono io o ra felice? dall’intern o del loro cuore so rg e u n a voce che loro g rid a d is tin ta m e n te : No, tu sei a n c o ra così vuoto e così povero come prim a. Allora m editando sul loro e r ro re p ensan o di essersi in g a n n a ti solam ente nella scelta dell’o g g e tto e si g e tta n o verso un altro. Ma nem m eno questo vale a soddisfarli: perch è degli o g g etti che sono sotto il sole o la luna nessuno può d a r loro la felicità. Così e r ra n o inquieti e to rm e n ta ti d u ra n te tu tta la v ita ; in ciascuna delle posizioni in cui si tro v an o pensano che loro non m anch erebbe che di ca m b ia re p e r essere più felici; e poiché hann o cam biato non si sentono più felici di p rim a ; in ogni luogo in cui si tro v an o p en sa n o che il loro to rm e n to av reb b e fine quando fossero g iunti all’altezza che il loro occhio a b b racc ia d a lo n ta n o ; m a l’ antico to rm en to fedelm ente li a c c o m p a g n a nell’ a m b ita altezza. E quando
vengono gli a n n i più m atu ri, qu an d o i baldi a rd im e n ti e le liete s p eran ze della giovinezza sono s c o m p a rs i, consultano forse allo ra la loro esperienza; e rig u a rd a n d o indietro la loro vita p a s s a ta osano t r a r n e un a definitiva co nclusione; osano forse confessare a sè stessi che nessuno, nessuno fra i beni della t e r r a conduce alla felicità. Che cosa fanno essi allora? Essi rin unciano forse allo ra riso lu tam en te ad ogni felicità, ad ogni pace sulla te rr a , soffocando e com prim endo q u anto possono l’inestinguibile d esiderio; ed in q u e s ta tris te a p a tia fanno consistere la v e ra sa g g e z z a ; in questo d is p e ra re della salute la sola v era s a l u t e ; in q u esta p re s u n ta esperienza che l’ uomo è n ato non p e r la felicità, m a p e r a g ita r s i nel nulla e per il nulla la v e ra ragione. F o rsea n ch e essi r in u n ciano alla felicità solo p e r q u e s ta vita t e r r e n a ; m a si cullano nella s p e ra n z a d ’u n a felicità futu ra, che u n a c e rta tradizione ci p ro m ette al di là della tom ba. In qu ale deplorabile e r ro re essi si tro vano ! P e rc h è è certo che una felicità al di là della to m b a vi è solam ente p e r coloro che g ià l’a v r a n n o g u s t a t a su q u esta t e r r a ; nè essa è d iversa da quella che possiam o r a g g iu n g e r e q uan dochessia su q u esta te r r a ; non b a s ta farsi seppellire p e r e n t r a r e nel re g n o della beatitudine. Essi a n d ra n n o e rra n d o e cercando la felicità nella vita avve n ire e nell’ infinita serie delle vite avvenire cosi inu tilm ente come l’ h an n o c e rc a ta nella vita a t t u a l e , finché la ce rch e ran n o altro v e che nel seno dell’esse re che li circonda cosi d a vicino che mai più p o tra n n o avvicinarvisi m a g g io rm e n te per t u t ta l’ in f in ità ,— nel seno dell’essere eterno. E così va e rra n d o il povero ram pollo dell’e tern ità , ram in g o dalla casa p a te r n a , s em pre circondato dall’ e re d ità celeste cui la su a m ano t r e m an te non osa afferrare, inquieto e fuggitivo p e r il deserto, cercando d a p p e rtu tto di e rig e rsi una d im o ra : p e r fo rtu n a che ciasc u n a delle sue van e costruzioni lo a v v e rte con la s u a pro ssim a ru in a c h ’egli non tro v e rà pace in nessun luogo che nella c a sa di suo p a d r e ». * Fichte - A n w e is u n g z u r s e lig e n L eb en W ERKE, V . .408-9.
INTRODU ZION E S T O R I C A
Il sistem a S a n k h y a viene g e n e ra lm e n te considerato come il più antico dei sistem i filosofici indiani; ed è re a l m ente il solo sistem a che come tale possa con qualche cer tezza riferirsi a ll’e tà prebuddistica. F o n d a to re del medesimo secondo la tradizione sareb be l’antico s ag g io K a p i l a ; il qu ale s em b ra essere v e r a m e n te u n a perso n alità s to ric a , s ebbene intorno a d esso nulla sappiam o di c e r to , nessun v alore avendo le num erose e v arie leg g en d e che a lui si riferiscono. (Hall. Pref. al S a n k h y a S a ra 13-20). L’ unica tradizione attendibile se m b ra essere quella che si co n nette alla c ittà di K apilav astu (residenza di K apila); la quale s a re bb e s t a t a così ch ia m a ta in suo onore per essere s t a t a il t e a t r o principale della s u a a ttiv ità . (Davies 6 ; si confr. t u t ta v ia O ldem berg B u d d h a 2 109). L’opinione com un em ente ricev uta che fa del S a n k h y a un antec ed en te del Buddismo rip osa quindi più ch e su p re cise testim onianze s to ric h e , sulla s t r e t t a a n a lo g ia che in parecchi punti ravvicina i due sistemi. V ero è che gli a r g o m enti g en e ra lm e n te addotti. (Colebrooke Mise. Ess. I. 240, B u rn o u f Introd. a l’ hist. du Buddh. 211, 455 etc. ; e così W ilson, B art. St. Hilaire, Davies ed anc h e S chroder Indiens L ite ra tu r u. C ultur 258) g ià al W e b e r parv ero poco soddi sfacen ti; e più re cen tem e nte l’O ldem berg (B u d d h a2 100 nota) e M ax Mailer (Chips etc. I. 229) sollevarono a q uesto prò- • posito dubbi non ingiustificati. Ma le a c u te ricerch e del
4 G arbe (pref. a lla tra d . del S. T. K aum udi 5 e s e g g .; pref. a lla trad . di A n irud dh a IV e segg.) sem b ra n o a v e r messo o ra m a i fuori di dubbio l’ antec ed en z a del S a n k h y a di fronte al Buddismo. Il S a n k h y a fu in origine, ed è nella s u a essenza, s t r a niero alla ortod ossia b r a m a n ic a ; e la su a o rig in e è secondo ogni prob a b ilità d a rice rca rsi nel ricco m ovim ento fllosoficoreligioso che p re c e d e tte nell’in d ia o rien ta le la predicazione del Buddismo. È noto infatti che il diffondersi del m onismo m istico delle Upanisadi provocò in q u e s ta p a r te dell’ind ia a n c o r s t r a n i e r a alle tradizioni ed a ll’ o rdinam e nto bram anico un m ovim ento speculativo indipendente d 'u n c a r a t t e r e affatto p articolare. L a s c ia ta d a p a r te ogni rivelazione, la sc ia ta da p a r te ogni ricerca sull’Atm an, l’attenzione fu rivolta esclu siv am en te ai problem i del dolore dell’ esistenza, del m erito delle opere, della purificazione dell’an im a e della liberazione; e d a ogni p a r te so rsero num ero se s ette ascetiche delle quali ciascuna p re te n d e v a a v e r tro v a to la via a lla liberazione e nel cui seno si discutevano i più alti problem i dell’ um ano destino. (Oldem berg B u d d h a 2 65 e segg). Un pallido ricordo di questo v ario m ovim ento intellettuale ci è co n servato in alcuni dei più antichi s u t r a del Buddismo, nei quali è fa tta menzione delle scuole esistenti al tem p o di B udda e d a questo c o m b attu te (v. p e r es. tìrim blot Sept s u tta s palis tirès du D igha N ik ay a -P aris 1876, p ag. 199 e segg.); e non è a tacersi che secondo il Biihler ed il G arbe in uno dei suddetti s u tra sareb b e a p p u n to a vedersi u n ’allusione al n o stro sistem a (Garbe 5 - 7 ; Grim blot o. c. 72-77). In tem pi p o sterio ri poi (secondo il G arbe verso gli ultimi secoli p rim a dell’ e r a cristiana) con l’esten dersi del b ra m a nism o ac cadde del S a n k h y a come di altri sistem i o rig in a ria m e n te c o n tra ri alla rivelazione Vedica, che furono a t t r a tt i nell’o rb ita dell’ ortodossia b ram anica. Quindi è che tu tti i testi nei quali ci g iu n se la d o ttrin a S a n k h y a sono o p e ra di b ra m a n i ortodossi. Ciò non vuol dire tu tta v ia che il S a n k h y a ab b ia dovuto subire g ra v i modificazioni ed as s u m e re u n a form a essenzialm ente d iversa d a quella che o rig in a ria m e n te
5 rivestiva. Il m enom o riconoscim ento nom inale (dice il Garbe) dei Vedi e delle p re ro g a tiv e dei B ram an i b as ta v a loro perch è un sistem a passasse per o rto d o sso ; e se i Buddisti non ave s sero ricu sato di riconoscere l’a u t o r i t à dei Vedi e dei B ra mani, essi s areb bero pro ba b ilm en te diventati, senza alcun a alterazione delle loro d o ttrine, u n a s e tta b ra m a n ica, e Budda sare b b e s ta to un Rishi (un s a g g io ispirato) come K apila. Ciò t a n t o è vero che le poche a g g iu n te posteriori fatte cól fine di conciliare il S a n k h y a col b ra m a n ism o non solo sono fa cilm ente riconoscibili, m a n e p p u re a lte r a n o notevolm ente le do ttrin e fondam entali. Diventato così un sistem a ortodosso il S a n k h y a esercitò ben p re s to un a g ra n d e influenza su t u t te le manifestazioni del pensiero b ra m a n ic o , e si m a n te n n e p e r lungo tem po fiorentissimo. L a su a influenza è di g ià riconoscibile nelle Upanisadi meno a n tic h e , nelle quali ricorrono in parecchi luoghi term ini e d o ttrin e p ro p rie del nostro sistem a. Più m anifesta a n c o ra è q u esta influenza nel sistem a Y o g a (attrib. a P a ta n ja li II. sec. av. C.), il quale più che un sistem a filo sofico deve essere considerato com e l’esposizione sistem atica dell’asc etism o , b ra m a n ic o , nella quale la p a r te p u ra m e n te filosofica (ad eccezione del riconoscim ento della divinità) è to lta in te ra m e n te dal S an k h y a. [Vedasi intorno al Y oga P. M a r l c u s Die Y o g a Philosophie nach dem R a ja m a r ta n d a darg estellt. Halle 1886]; nel libro di Manù, nel M a h a b h a ra ta e nei P u ra n a , nei quali le do ttrin e S a n k h y a occorrono va ria m e n te co n giu nte a teo rie V e d an tic h e ed a concezioni mitologiche p ro p rie delle religioni popolari. Altre testim o nianze dell’im po rtan za a s s u n ta dal S a n k h y a nel B ram anism o ci d an n o il com m ento di Q anltara ai V e d a n ta S u tra (V I.-V II. sec. d. Cr.), nel quale si polemizza lu n g am en te co ntro il S a n k h y a, che solo fra tutti i sistem i viene con sid erato come un serio com p etitore della d o ttrin a v e d a n ta (Deussen Das System des V e d a n ta 23, T h ib au t The V e d a n ta S utras. transl. I. 382 etc.); e lo scritto re m ao m ettan o Alberimi (circa 1030 d. C.), n ella cui esposizione della filosofia ind ian a (V. Alberu n i ’s India transl. by E. Sachau voi. I.) noi ci troviam o
6 di fronte q uasi esclu siv am ente ad idee tolte dal S ankhya. Nei tem pi re cen ti invece il S a n k h y a cadde nell’ in d ia quasi in un perfetto oblio, (v. B h a n d a r k a r p. 2). Q u an tu n q u e il sistem a sia a n tich issim o , nessuno dei testi che noi possediam o può p r e te n d e re ad u n ’ an tic h ità a ltre tta n to rem ota. I docum enti più an tichi che noi posse diam o sono alcu ni fram m enti riferiti a P anca g ik h a , uno dei dottori S a n k h y a il cui nom e rico rre spesso insieme a quello di Kapila, e che R. G arbe pone, in modo però affatto con g e t t u r a le , verso il 1° secolo dell’ e r a n o stra. A P a n c a ^ ik h a vengono a ttrib u ite parecc h ie o p e re : t r a le a ltre la S ankhyak ra m a d ip ik a , breve o p e r e tta s t a t a p u b b licata e tr a d o tta dal B allantyn e (M irzap ore 1850), m a che è senza dubbio d ’o rigine assai più re cente. I brevi fram m enti au ten tici di P a n ca $ ik h a sono insiem e raccolti nella Introduz. al S an k h y as a r a di J. E. Hall (p. 24-25 nota). Nella K a rik a 72 troviam o f a tta menzione di a l t r a o p era che andò parim e n ti p e r d u ta ; il S h a s h tita n tr a , che è an c h e citato da G a u d a p a d a nel Commento alla K a rik a 17 e da V y a s a nel Y o g a b h a s h y a . Ad esso si riferisce p ro babilm en te an c h e Q a n k a ra nel com m en to ai V e d a n ta s u t r a II 1, 1. (V. T h ib a u t o. c. I 291). Il testo più antico che noi ab biam o è la S a n k h y a k a r i k a a ttrib u ita ad I g v a r a k r i s h n a , la quale o o n s ta di 69 distici (i distici 7 0 - 7 2 v ennero a g g i u n t i p o s te rio rm e n te ), nei quali la d o ttrin a S a n k h y a è esp o sta b rè v em en te sebbene non sem pre con chiarezza. Siccome di essa esiste u na t r a duzione cinese che a p p a rtie n e a lla seco nda m e tà del secolo VI d. C., e qu esta tradu z io n e com prend e o ltre al testo un com m en tario che ra sso m ig lia a quello g iu n to a noi sotto il nom e di G a u d a p a d a , così la K a rik a non deve ce rta m e n te essere po steriore al V secolo d. C. (M. Miiller. India W h a t can it teach us? Lond. 1883, p. 360-361). E ssa è però p ro babilm ente anche a n te r io re di qualche secolo a questo t e r m inus ad q u e m ; e il G arbe riferisce (Ber. iib die V e rh an d l. d. Konigl. Sachs. Gesellschaft d. W is s .-P h ilo l. hist. Classe 1888, p a g . 7 ) che la tradizione in digena in B en ares p one
7 l’ epoca della redazione della K a rik a verso il prim o secolo dopo l’ era. E v e ram en te essa ci p re s e n ta c a r a tte r i d’ u n ’ a n tic h ità re la tiv a m e n te assai considerevole. Q uanto a lla p e r so nalità dell’a u to re nulla si conosce di certo. I principali co m m en tato ri della K a r ik a sono G a u d a p a d a , a u to re d ’ un com m ento ch iaro m a b rev e e poco p r o fondo, il quale dalla tradizione è d etto esse re s ta to p re c e tto re di Q a nk ara, il celebre d o tto re V edantico, e deve quindi a v e r vissuto nella p rim a m età del VI secolo d. C . ; e V a c a s p a t i m i g r a , il quale scrisse il suo S a n k h y a ta ttv a k a u m u d i verso il principio del XII secolo. (Garbe 1. c. 9). Il com m ento di q u est’ ultim o è il m igliore di t u tti i com m enti della K a rik a sia p er la copia e la chiarezza dell’ esp osizione, sia p e r la obbiettività asso lu ta con cui l’ a u to re (che p u re com pose con la stessa im p arzialità im p o rta n ti opere sul siste m a V e d a n ta e sul N yaya) ci espone le teo rie del n o stro sistem a. La K a rik a v en ne pubblicato con tra d u z io n e e com m ento latino dal Lassen (B onn 1832); col com m ento di G audap a d a e la trad uzion e inglese del testo e del com m ento dal W ilson. (Oxford 1837; reim pr. senza il testo san scrito a B om bay 1887 e col testo ed u n a trad uz. bengali ib. 1889); in francese con un prolisso co m m ento dal B arth éle m y SaintHilaire (P aris 1852); in inglese con un com m ento p ro p rio dal Davies (London 1881); in tedesco con la tradu zio ne te desca del S a n k h y a ta t t v a K aum ud i dal G arb e (Miinchen 1892). L’ a l t r a o p era fo n d a m e n tale del S a n k h y a è co stituita dal S a n k h y a p r a v a c a n a (o S a n k h y a sutra) a ttrib u ito dalla tradizione a Kapila. Esso non deve tu tta v ia risalire al di là del X IV o del X V secolo d. C.; p erc h è non ne è m ai fa tta m enzione nè da Q a nk ara, nè d a V a c a s p a tim ig ra , nè da a ltro sc ritto re d ’ u n a considerevole a n tic h ità ; anzi nel S arv a d arg a n a s a n g r a h a (esposizione dei sistem i filosofici) che risale al XIV secolo non è n em m eno a n c o r citato. (Hall o. c. 7-12). La m od ern ità dei S a n k h y a S u tr a è a n c h e in d icata del re sto dalla lin g u a e dalla tendenza, che vi è m anifesta, di conciliare il S a n k h y a con la rivelazione V edica e d all’adozione di t e r mini e teorie V edantiche. (Garbe p. 7 1 -7 3). Essi sono divisi
8 in sei libri, che constan o risp ettiv am en te di 164, 47, 84, 32, 129 e 70 aforism i ( s u t r a ) , ciascuno dei quali contiene un punto della d o ttrin a, scritti in quello stile brevissimo ed in cisivo, quasi inintelligibile senza com m entario, che è la form a ord in a ria delle o pere scientifiche indiane. I più im portanti com m enti ai S an k h y a S u tra sono: I. Il com m ento di A n i r u d d h a il quale scrisse verso il 1500; da un pu nto del suo com m en tario a p p a re che esso ap p a rte n e v a , q u an to alle sue convinzioni personali, alla scuola m aterialista - (Anir. 279). II. Il co m m ento di Y i j n a n a b h i k s h u , un seg u a ce del Y e d an tism o eclettico vissuto nel XVI secolo, il quale scrisse il suo com m ento con l 'e s p r e s s a intenzione di conciliare il S a n k h y a ed il V e d an ta. V ijn an a fu un fecondo scritto re, il quale scrisse anc h e sul V e d a n ta e sul Y o g a ; e la su a opera, la più estesa di q u a n te possediam o sul S an k h y a, h a il pregio d ’ u n a chiarezza e d ’ u na ricchezza di notizie senza pari. Ciò che gli m an ca però è l’ im parziale obbietti vità che re nde ta n to preg evo le agli occhi nostri il com m ento di V a casp ati alla K a r i k a ; e come egli r i g e t t a la te o ria vedan tica dell’ irre a ltà del mondo e dell’ unità dell’anim a, così r i g e t t a nel S a n k h y a la n egazione dell’esistenza di Dio, e non si p e rita in più d ’ un luogo di in tro d u rre teo rie nuove o di forzare il senso del testo p u r di m etterlo in accordo col suo teismo eclettico. (G arbe p. 7 5 - 7 8 ; Gough. The philosophy of thè U panishads 2 Lond. 1891, p. 2 5 9 -2 6 0 ). III. Il com m ento di M a h a d e v a , che non è se non un a b b re viatore dei precedenti. Il G arb e pone M ahadeva verso la fine del XVII secolo; noto che l’ a u to re del D a b istan , il quale viaggiò nel P e n jab e nel G uzerat dal 1634 al 1639, riferisce i nomi di A tm ach a n d e M ahadeo (M ahadeva) come quelli di due d o tto ri S a n k h y a da lui ivi conosciuti (Dabistan II. 123). II testo dei S a n k h y a s u tra , che e r a g ià s ta to eàito nel 1821 a S era m p o re e poscia dal B allantyne (Bibl. ind. 1 8 5 2 - 5 6 ; 2a ediz. 1865; 3 a ediz. Lond. 1885) con u n a traduz. inglese ed e s tra tti dai com m entatori, venne re c e n te m e n te reim presso col com m ento di A niru d d h a ed e s tra tti d a quello di Maha-
9 dev a dal G arbe (Calcutta 1888 Bibl. In d.), e col com m ento di V ijn an a dallo stesso (H arv ard Orient. Series II. Boston. L o n d o n , Leipzig 1894). La trad uzione inglese del testo e com m ento di A niruddha a p p a rv e p e r o pera del Garbe nel 1892 (Calcutta. Bibl. I n d ) ; la traduzio ne ted esca del testo e com m ento di V ijn a n a per o p e ra dello stesso nel 1889. Leipzig Abhandl. fur diè K unde des M orgenlandes - IX B.) A lato della K a rik a e dei S u tr a viene o rd in a ria m e n te posto il T a t t v a s a m a s a , che non è p erò se non u n a nuda e num erazio ne in 54 p arole dei luoghi topici del S a n k h y a. Q uest’ o p e r e tta che può av e re u n a c e r ta a n tic h ità , m a è d ’altro n d e per sè insignificantissim a, venne e d ita e t r a d o t t a u n ita m e n te al suo co m m entario che è la S a n k h y a k ra m a d ip ik a dal B allantyne. (A lecture on th è S a n k h y a philosophy. Mirzapore 1850). F r a le opere m inori che si riferiscono al n o stro sistem a possono citarsi an c o ra il R a j a v a r t t i k a , o p era com posta verso il 1000 d. C. della quale ci sono conservati so lam ente tre versi nel S a n k h y a t a t t v a k a u m u d i ; il S a n k h y a s a r a di V ijn an ab h ik sh u ( l ’a u to re del com m ento ai S u t r a ) , breve ria s su n to edito con u na eccellente introduzione dall’ Hall nel 1860 e di cui tro v a s i u na m ediocre traduzione inglese nell’ o p era del W a r d « A v ie w o f th è history, lite ra tu re and m yth olo gy o f th è Hindoos » voi. II p ag . 121 e s e g g .; ed il S a n k h y a t a t t v a p r a d i p a , in p a r te edito con traduzione inglese nel P a n d it ( a n n i IX e X ). P e r più m inute notizie su a ltre o pere meno im p o rtan ti veggasi la c ita ta in tro d u zione dello Hall e la B ibliografia della filosofia ind ian a del m edesim o (Calcutta 1859). . Nella decente le t t e r a tu r a si riferiscono d ire tta m e n te al S a n k h y a (in to ta lità od in p arte) le opere s e g u e n ti: C o l e b r o o k e — Miscellaneous Essays. 2 a ed. c. note del Cow ell London 1873 2 voi. (Nel voi. I p ag. 241-279: On th è S a n h k y a System). B ò er — L ectu re on th è S a n k h y a philosophy • C alcutta 1854 24 pp. ’8 gr. N e h e m i a h N i l a k a n t h a S à s t r i G o r e — R ation al R efutation
10
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o f th è Hindu philosophical system s. C alcutta 1862, (pag. 42 e s e g g .; 71 e segg.) K. M. B a n e r j e a — Dialogues on th è Hindu philosophy London (ma Calcutta) 1861 (pag. 220 e segg.) R a m k r i s h n a G. B h a n d a r k a r — T he S a n k h y a philosophy s t a t e d , explained aud co m pared etc. B om bay 1871, 19 pp. ’8. M a d h a v a c a r i a — S a rv a d a r g a n a s a n g r a h a - tran sl. by Cowell and Govgh London 2 a ed. 1894 (pag. 221 a 230). G a r b e — Die Theorie d er indischen R ationalisten von den E rke n u tu issm itte ln , nei Ber. iib die V erh an d l. d. K. Gesell. d. W isseu sc h aften , Philol. hist. Classe 1888 (pag. 1 a 30. G a r b e — Die S a m k h y a P h iloso phie: eine D arstellung des Indischen R ationalism us. Leipzig 1894, 347 pp. ’8°. N o ta . Le abbrevia/., più frequentemente usate nelle seguenti pagine sono: S. S u t r a per Sankhya Sutra; S. p r. bh. per Sankhyapravacanabhashya (il commento di Vijnana; i numeri si riferiscono alle pagine della trad. del Garbe); A n i r . per Aniruddha (i numeri si rif. alle pag. della trad. del Garbo); Ga u d . por Gaudapada (i numeri si rif. alle pag. della trad. del Wilson); K a u m . per Kaumudi (i numeri si rif. alle pag. della trad. tedesca); R e f u t per la Rational Refutation etc. (v. sopra); quando si cita semplicemente il G a r b e , s’intende senz’altro della sua sovra citata esposizione del Sankhya. Per la pronuncia s'avverta che c e eh si pronunciano in ogni caso come il nostro c in cera , g sempre come il nostro g in go d ere, j come g in gen te, 5 e sh come se in scena; il gruppo jn come il nostro g n in ignaro.
P rim a di a d d e n tra rc i nell’ esposizione del nostro sistem a è necessario esp o rre so m m a ria m e n te alcuni principii o punti fondam entali che sono come il fondo com une di tu tti i sistemi indiani e ca ratteriz zano , p e r così dire, l’am b ien te ideale nel quale i detti sistemi si form aro no e si svolsero. Questi p rin cipii sono p a r te in te g ra n te , è vero, del sistem a stesso, e do v ra n n o quindi essere u lterio rm e n te o g g e tto di più m in uta con sid erazion e; m a essi possono a n c h e s ta re da sè come indipendenti dal resto della do ttrin a, essendo r ig u a r d a ti come p e r sè evidenti ed u n iv ersalm ente a c c e tta ti; laddove non è possibile convenevolm ente e s p o rre od in tendere alcuno dei sistem i senza u n a p re v ia conoscenza di queste prem esse. La p rim a di q u este pre m e sse si riferisce al l ’a s s o l u t a i n f e l i c i t à d e l l ’ e s i s t e n z a ed è s tre tta m e n te connessa con u n a seconda, con la d o ttrin a della t r a s m i g r a z i o n e d e l l e a n i m e . Queste due teo rie sorte nell’ i n d ia a n te r io r m ente a d ogni sistem a ( v.. O ldem berg B uddha 2 p. 4 3 - 5 0 ; S ch ròd er o. c. p. 2 45 -2 5 2 etc.) e rad ic atesi quindi così p ro fon dam ente nella coscienza del popolo indiano, costituiscono come il punto di p a r t e n z a , il presu p p o sto fo nd a m e n tale di tu tti i sistemi. Essi non si d o m a n d a n o in fa tti: l’esistenza è piacevole o dolorosa? V i è o non vi è u n a tra s m ig ra z io n e delle an im e? m a s ib ben e: Come è possibile p o rre line alla trasm ig ra zio n e e così lib era re definitivam ente l’ a n im a dal dolore dell’ esisten za ? Secondo la loro concezione l’a n im a
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n o s tra è d e s tin a ta da t u t t a l’e te r n ità a p a s s a re in quel modo che è d e term in a to dalla fe rrea leg g e del m erito di corpo in corpo, a ttra v e rs o le più v arie esistenze, assum endo la form a o ra d ’un dio, o ra d ’nn nomo, o ra d ’nn an im ale o d ’im a p ianta, ed esperim entand o il dolore che con l’esistenza è in s e p a ra bilm ente connesso. Ogni su a azione produce un certo m erito o dem erito il quale inerisce ad essa e p re d e te rm in a il de stino delle sue esistenze fu ture a quel modo m edesimo che il m erito e il d em erito delle esistenze a n terio ri ne han no determ in a to l’ esistenza a t t u a l e ; dal seme la p ia n ta e dalla p ia n ta il s e m e ; così si p e r p e tu a dall’e te r n ità la su a schiavitù dolorosa. Il vizio e l’ ig n o ran z a la d e g r a d a n o e la precipitano nelle esistenze inferiori; la v irtù e la p ietà la innalzano ai mondi superiori, all’esistenza divina. Ma in o gni sta to essa non tro v a che m iseria e dolore. Anche nell’ esistenza divina, im perfe tta e tra n s ito ria , a v v e le n ata dal tim ore della m o rte e dall’ intollerabile p ro s p e tto delle rin asc ite fu tu re , essa è lungi dal tro v a r e la pace sp e ra ta . In ogni p a r te essa vede che tu tto è v a n i t à , che esistere non è che soffrire. Dall’ e sperien za di innum erevoli esistenze so rg e così in essa il d e siderio di p o rre un te rm in e al suo tris te p elle g rin a g g io , il desiderio della liberazione. Ma non s a r à v a n a q u e sta sua sp eran za ? Dove tro v e r à essa un p o r to , un rifu g io , che le assicuri l’e te r n a qu iete? Dove tro v e r à essa alcunché di s ta bile ed etern o che la salvi dal m are doloroso del divenire? Q uesta d o m anda ci conduce al terzo Jm nto, al d u a l i smo d e ll’esisten za empirica e della esistenza a s s o l u t a . Se q uesto mondo della schiavitù e del dolore non avesse un a l d i l à , è evidente che non vi sareb be liberazione in eterno. O ra q u esta con seg uen za agli occhi del filosofo indiano equivale ad un a s s u rd o ; niente è più c e rto , più v ero , più in c o n tra sta to che la possibilità d ’ una liberazione definitiva del dolore. Se noi fossimo p redestinati al dolore in eterno, qual senso avrebb e quella s e c re ta aspi razione che l’a n im a n o s tra p ro v a verso un al di là che essa non conosce m a pre sen tisc e? Quando tacciono nell’an im a n o s tra le passioni e le m iserie te rren e, q uan do noi discen
13 diam o nelle m isteriose p ro fo ndità dell’essere n o s tro , non sentiam o noi d istintam e n te che noi non a p p a rte n ia m o a q u esta valle di lacrime, che una voce divina ci c h iam a verso u na t e r r a p ro m essa che ci risplende d a lungi nei bagliori d ’ un desiderio triste e profondo come il desiderio d ’ un a p a t r i a lo n ta n a ? Al di là di questo m ondo che i nostri sensi afferrano, che il nostro intelletto concepisce, v ’è dunque un mondo che i nostri sensi non afferrano, che il nostro intel letto non concepisce p erc h è esso è al di là di o gni defini zione, d ’ogni p en siero, d ’ogni coscienza; quello è il mondo dell’instabilità e del d iv e n ire ; questo è l'etern o inco rru ttib ile; quello è il mondo del d olore; q uesto il mondo della cessa zione del do lore; quello è il mondo della schiavitù e della trasm ig ra zio n e ; questo il mondo della liberazione. 11 V e d an ta 10 c h iam a B rah m a, l’ Uno Tutto, Budda l ’ ignoto indefinibile, 11 N irv a n a ; p e r il S a n k h y a esso è il Sè individuale purissimo, l’Anima. Il q u a r to p u n to afferm a che l’ i n d i v i d u o a p p a r t i e n e s e c o n d o l’ e s s e n z a s u a a l m o n d o d e l l ’ e s i s t e n z a a s s o l u t a e s o l o p e r l’ i g n o r a n z a a l m o n d o e m p i r i c o . Il mondo del dolore è bene il mondo nel quale noi ci ag itiam o e viviam o; noi stessi in q u an to a g e n ti e sof frenti gli ap p a rten iam o . Gli elem enti dell’essere nostro che noi siam o soliti ad identificare più intim am e n te col nostro io, il nostro corpo, i nostri sensi, il nostro intelletto a p p a r ten g o n o al mondo em pirico; m a essi non costituiscono la in tim a essenza del Sè e noi possiam o s ep a rarc en e. È dunque p e r igno ran z a, p e r u n a specie di illusione in n a ta che l’uomo, ig n a ro del suo vero essere,' identifica sè stesso col suo in telletto, coi suoi sensi, in u n a p a r o la con la sua p erso n alità em p irica , e si precipita cosi nel vortice delle esistenze do lorose in luogo di elevarsi a ll’i m p e rtu rb a ta quiete dell’esi stenza assoluta. T u tto il re sto nasce da q u e s ta illusione prim a. P e r essa delle cose che sono in ra p p o rto con la sua pers o n a lità alcune concepisce come sue proprie, a ltre come d ’altri, alcune come piacevoli, a ltre come dolorose; dal pia cere e dal dolore nascono in lui desiderio ed av v e rsio n e;
14 dal desiderio e dall’avversione è t r a tto ad a g ire ; dall’a g ir e nascono m erito e dem erito ; questi ineriscono a lla su a p e r so n alità em pirica e ne c a u s a n o la continuazione. E così la successione indefinita di vite e di dolori si p e rp e tu a col co ntin u arsi della p ers o n a lità e m p iric a , la quale alla sua volta si p e r p e tu a con il co ntin u arsi dell'illusione che la crea. 11 quinto ed ultimo p u n to afferm a che l’ u n i c o m e z z o che c o n d u c e a l l a l i b e r a z i o n e è la c o n o s c e n z a f i l o s o f i c a . Dal m om ento che cau sa p rim a d e ll'e s is te n z a em pirica è l’ig n o ra n z a del vero essere n o s tro , è n a tu ra le che l’ unico mezzo p e r g iu n g e re alla liberazione sia la co noscenza. Le buone o pere come le cattiv e non fanno che c o n tin u a re la sch ia v itù ; il loro fru tto può c o n d u r r e , come si è v e d u to , alla beatitu din e celeste, m a non alla purifica zione del Sè che è la sola v era liberazione. Q uesta purifi cazione del Sè non può essere d a ta che dalla conoscenza di ciò che è il Sè e di ciò che non è il Sè. « Tutti i sistemi, è detto nella R at. Refut. (25-26), dichiaran o che la libera zione dalla trasm ig ra zio n e non può essere data che dalla re tt a conoscenza. E l a r e t t a c o n o s c e n z a c o n s i s t e n e l r i c o n o s c i m e n t o d a p a r t e d e l l ’ a n i m a di sè s t e s s a come d i s t i n t a d a l l a m en te, dai sensi, dal c o r p o e d a t u t t o i l r e s t o ». N o ta . 11 noto 1° aforisma dei Nyaya Sutra ove è detto che la libera zione risulta dalla conoscenza dei sedici luoghi topici ivi enumerati è da intendersi nel senso che la conoscenza dei detti luoghi topici conduce colui che la possiede a distinguere il Sè da ciò che non è il Sè. (ib. 26 nota).
P rem esse qu este co nsiderazioni, non s a r à diffìcile in te n d ere che cosa vogliano dire i distici 1 - 2 della K a r i k a , i quali afferm ano l’esistenza del triplice dolore e la possi bilità della liberazione p e r mezzo della conoscenza. 11 pensiero della m iseria di questo mondo, del dolore che ac c o m p a g n a inevitabilm ente l’esistenza è il prim o che il S a n k h y a ci m ette innanzi. È curioso a n o tarsi infatti che così la K a rik a com e i S u tra com inciano con la p a ro la d u h k h a (dolore). Ed in nessun a ltro dei sistem i qu esta convinzione pessim istica è m essa così in rilievo come nel Buddismo e nel S an kh ya.
15 L a d o ttrin a di Budda è t u t ta (c o m ’è n o to ) p rofon dam ente p e n e tr a t a dal concetto del dolore dell’esistenza. Le q u a ttro s a n te v erità che costituiscono come il card in e della d o ttrin a buddistica t r a t t a n o del dolore, della o rigine del dolore, della soppressione del dolore, delia via che conduce alla so pp res sione del dolore. Il S a n k h y a si a c co sta in questo p u n to al Buddismo. Se anc h e solam en te noi considerassim o (esso dice) con la m en te del v o lg are i piaceri ed i dolori della v ita , ponendo da u n a p a r t e gli uni , dall’ a l t r a gli a l t r i , noi do vrem m o rim a n e re a t t e r r i ti dalla m olteplicità e gra n d ezz a dei dolori rispetto alla r a r i t à e piccolezza dei p i a c e r i , ed ogni a ltro sentim ento, ogni a ltro desiderio dovrebbe tace re in noi p e r lasciar luogo un icam e n te a lla c u ra di far ce ssare un sì lagrim evole s ta to di cose. (S. S u tr a V I , 6 ; S. pr. bh. 336). Ma il sag gio va ben più in là. P e r il sag g io ogni stato, ogni m inuto dell’esistenza non è che vanità e miseria. Ciò che il volg are c h iam a p ia c e re non è p e r lui che come « un cibo misto di miele e di veleno » ; a n c h ’esso si riduce in fondo a dolore. L ’esistenza s tessa nella s u a essenza è dolore. « Niuno è felice » dice il S u tra VI, 7 ; ed A niruddha co m m enta la c o n ic am en te: R im ira te stesso. E P a ta n ja li dice: « P e r il savio tu tto è sem plicem ente dolore ». (S. p r. bh. 337). N o ta . I commentatori distinguono il dolore secondo la sua origine in tre specie: il dolore interno, il dolore (esterno) naturale, il dolore (esterno) sovrannaturale. 11 primo è di due specie: corporeo e spirituale. 11 dolore cor poreo è quello che è causato da alterazioni nello stato normale degli umori ventoso, bilioso, flemmatico. Il dolore spirituale è quello occasionato dall'ira, dalla cupidigia, dalla vergogna, dalla paura, dall'invidia, etc. 11 dolore na turale è quello causato dagli altri 'uomini, dagli animali e dalle cose inani mate in genere. Il sovrannaturale procede dall’ influenza dei cattivi spiriti e dei pianeti. Invece Gaudapada e Vijnana: » La terza specie di dolore è detta daivika o soprannaturale, e può essere divino od atmosferico; nell’ ultimo caso com prende il dolore che è prodotto dal freddo, dal caldo, dal vento, dalla piog gia e simili ». Circa la distinzione fra dolore interno e non interno Vijnana osserva : « Sebbene ogni dolore sia interno (cioè riposi sulle affezioni dell’ in telletto) , tuttavia la distinzione fra interno e non interno sta per ciò che il primo sorge solo nell’organo interno (nell'intelletto), il secondo no (perchè la sua causa è fuori di noi) » (Kaum. 19: Gaud. 2; S. pr. bh. 12).
16 O ra è n a tu ra le che dal dolore s o r g a il desiderio della liberazione. K a r i k a l a : « D alla o ppressione del triplice do lore (sorge) il desiderio di conoscere i mezzi a tti a rim uo v e r l o ___»; e S. S u tr a I , 1: « L ’ assoluto fine dell’an im a è la cessazione asso lu ta del triplice dolore ». Ma quale è il mezzo dal qu ale dobbiam o a tte n d e re la liberazione? 11 S a n k h y a p re m e tte anzitu tto che non è dai mezzi sensibili che noi dobbiam o a tte n d e re la salute. Cen tin aia di rim e d i, è v e r o , sono indicati d a medici em inenti p e r la g u a rig io n e del dolore co rp o re o : le d o n n e , il vino, il cibo, i p ro fu m i, i belli a b iti, gli o rn a m e n ti sono mezzi facili p e r discacciare dall’anim o nostro la tristezza; la sagg e zza p r a tica ed i v a n ta g g i della civil convivenza ci p ro te g g o n o contro i mali che le in te m p e rie , le fiere e gli a ltri uomini po treb bero a r r e c a r c i; gli am uleti e gli scongiuri ten g o n o lontani dal nostro capo i mali dovuti a cause so v ra n n a tu ra li. Ma con tu tto ciò nessuno di questi mezzi pro duce n ec essaria m ente e p e r sem p re la cessazione del dolore. (Kaum. 20). Onde nei S. S u tr a (1, 2) è detto : « Tale risultato non è ottenibile p e r alcuno dei mezzi sensibili; p e r la evidente ricorren za del dolore dopo la soppressione »: ed a n c o ra (1, 4): « Da coloro che sanno (che cosa sia il dolore e che cosa non sia) l’ uso dei mezzi sensibili è d a r i g e t t a r s i, p rim ie ra m e n te p erch è non tutti possono essere possed u ti, poi p e r c h è , se anche ciò fosse, il dolore non s areb b e tolto a c a u s a della loro imperfezione ». Come sareb b e possibile invero allo n ta n a r e il dolore p e r via di mezzi sensibili, il cui a c q u isto , con servazione ed uso sono essi stessi la fonte più copiosa di dolore? (S. pr. bh. 1 7 - 1 8 ; Anir. 6). Ed infine le S critture stesse in seg n an o che non è possibile la liberazione dai mezzi sensibili. « V e ra m e n te non vi è p e r l’a n im a a n n ie n ta m ento della gioia e del dolore (dice la C han d o g y a U panishad 8. 12. 1) fino a ta n to che e s s a è riv estita del c o rp o ; m a quando essa se n ’ è li b e r a ta , nè il dolore nè la gioia non la toccano più » (S. pr. bh. 19). A m m essa l ’inefficacia dei mezzi sensibili, re sta n o p u r
17 sem p re i mezzi religiosi. Le S crittu re in segn ano che p er mezzo dei sacrifizi e delle sac re cerim onie è possibile giun g e r e al cielo; o ra la beatitu din e celeste non è forse la più g ra n d e delle b ea titu d in i, e te r n a e facilmente ottenibile? P e rc h è ad u nqu e non c e rc a r la salute dai mezzi religiosi? Il S a n k h y a r i g e t t a questi mezzi p e r tre ragioni. 1° P erc hè sono impuri. L’ im p u rità s t a in ciò che il sacrificio p o r t a con sè la distruzione di a n im a li, semi ed a ltre cose. Q uesta di struzione è u n a co lp a, quindi u n a s o rg e n te di dolori p er l’ avv en ire (Kaum. 20). « Dolore so p ra dolore » dice il s u t r a I. 84: o s s ia , come V ijn a n a s p ie g a : dalle opere p re scritte nelle S. S crittu re p e r la colpa che è in ere n te all’ uccisione sorgono nuovi dolori e non liberazione. N o ta . Si confronti il precotto buddistico che proibisce di uccidere alcun essere vivente (Oldemberg2 313; Schròder 281). Con ciò il Sankhya non nega punto l’efficacia dei sacrilì/.i. 11 sacrifizio produce un merito il quale ò ben più considerevole che non la colpa inerente all’ uccisione; ma non perciò questa colpa è meno efficace. Essa dovrà venir cancellata con opere espiatorie; o, quando per inavvertenza ciò non avvenga, se ne dovranno sop portare gli effetti. Verrà il tempo in cui i meriti accumulati dal sacrificio produrranno i loro effetti ; ma alla sua volta anche la parte di colpa che vi è inerente e che non fu espiata agirà e produrrà doloro. (Kaum. 22 - 23 e il passo di Panca?ikha ivi citato). Vijnana nega perfino che la colpa del sacri ficio possa essere cancellata con altri sacrifizi di espiazione, e cita un passo del Bhagavata Purana ove è detto che : « non è possibile trasformare in opera buona l’ uccisione di esseri viventi con (altre uccisioni, cioè con) sacrifizi ». (S. pr. bh. 102).
II0 P e rc h è non sono definitivi. « La tra n s ito rie tà del mondo celeste e delle cose simili è in fe r ita dall’ essere il medesimo alcunché di positivo e di p rodotto ». (Kaum. 23). S. S u tra IV 32: « Anche q uan do si è g iun ti alla gloria so v ra n n a tu ra le non è s ta to ad em p iu to il fine dell’a n im a ; come nel caso della perfezione degli o g g e tti ado rati. Il che significa: come gli ogg etti di ad o razione, B ra h m a e gli altri d ei, no n o stan te che siano pervenu ti ad u n a re la tiv a perfezione, non sono a n c o ra perv enuti al fine ultim o, a lla quiete su p re m a (perchè noi sap piam o che an che in ta le s ta to p ra tic a n o il Y o g a p e r la p a u r a di d ecad ere dal loro alto g ra d o ), così a
s
18 m a g g io r ra g io n e ciò si può d ire di quelli che a s p ira n o allo s ta to divino con l’ad orazion e di B ra h m a e degli altri dei. (S. pr. bh. 265). E nei S. S u tr a III 5 2: « Anche ivi (nei cieli) vi è rito rn o ag li s ta ti delle esistenze inferiori; essi debbono essere fuggiti p erch è vi si è sem pre sottoposti a nuove rin a scite ». La stessa cosa è v a ria m e n te rip e tu ta nei s u t r a I 82, IV 22, VI 56. A n iru d d h a cita a n c h e la C h an d o g y a Up. (8. 1. 6): « E come qui sulla t e r r a q u a n to è sta to ac q u ista to con le opere p e ris c e , così perisce q u a n to è s ta to ac q u is ta to p er l’a ltro mondo con i sacrifizi e le a ltre o pere buone com messe in t e r r a ». N o ta . Come si spiegano allora quei passi nei quali le Scritture promettono l’eterna felicità dalle opere? « I passi che parlano dell’immortalità, come per es. questo : Noi abbiamo bevuto il Som a, noi siamo diventati immortali (R. Veda 8. 48. 3 ) -indicano solo una lunga durata; come è detto nel Vishnu Purana (2. 8 . 96): Immortalità è detto il persistere lino alla dissoluzione delle cose ». (Kaum. 24) Cosi anche nel S. pr. bh. (21), ove è citato il passo se guente della Qvetagvatara Up. (3 , 8 e 6 , 15): « Solo colui che conosce il Sé lascia dietro di sè la morte : non v’ è altra via per giungervi ». Ma vi sono anche altri passi nei quali è detto esplicitamente che per coloro i quali compiono certe opere non v' è ritorno. Cosi nella Chand. Up. (4. 15. 6): Questo è il sentiero dei Devas, il sentiero che conduce a Brahma. Per quelli che procedono su questa via non vi è ritorno alla vita umana; no in verità non vi è ritorno ». Questi passi secondo Vijnana si spiegano con ciò che coloro i quali pervengono ad un mondo sovraumano ordinariamente vi ottengono la conoscenza liberatrice. (S. pr. bh. 261, 361). S. Sutra (I. 83): « I passi (delle Scritture) rilerentisi a ciò (alla prescrizione delle opere) sopra il non ritorno (dal cielo di Brahma)' valgono per quelli che hanno ottenuto la conoscenza distintiva ». Altrimenti se non si volesse ammettere1 tale spiegazione, tali passi sarebbero in contraddizione con altri passi pur delle scritture, nei quali si insegna che vi è ritorno dai cieli. (S. pr. bh. 101-102). N o ta . 2a Perchè si dice che il mondo celeste è perituro in quanto è un prodotto p o s i t i v o ? Per rispondere anticipatamente all’obbiezione che al cuno potrebbe poi farci dicendo: anche la liberazione per mezzo della cono scenza è un p r o d o t t o della conoscenza. La liberazione cioè non è nel nostro caso un prodotto come è il frutto delle opere ; essa è per noi un prodotto che si può in certo modo chiamar negativo. La liberazione per mezzo della conoscenza è (come si vedrà meglio altrove) l'annientamento dell’ esistenza empirica ; ma siccome questa non sussiste che per l’ ignoranza, è alcunché di illusorio, cosi in realtà la conoscenza non fa che constatare la liberazione già esistente e solo in apparenza non esistente per la non distinzione; ma essa non la produce. (Kaum. 82; S. pr. bh. 103). Ora solo i prodotti posi-
19 tivi sono perituri ; i prodotti negativi, come la separazione dal dolore, non sono tali (Kaum. 24 : S. pr. bh. 341). S. Sutra I 86 : « A colui che è libe rato per sempre tocca solo l’ annientamento della schiavitù; perciò il caso non è uguale ».
I l i 0 P e rc h è sono im p e r f e t ti , ossia p erch è il loro frutto non è m ai assoluto. Esso è m a g g io re o m inore secondo la m a g g io re o m inor q u a n tità di m e rito ; m a non è mai tale che non vi sia o non vi p ossa essere a n c o r sem pre altri a noi s u p e rio re : vi è sem p re u n a m eta più a l t a da r a g g iu n gere. O ra è n a tu ra le che la b eatitu d in e m a g g io re d ’ un altro, necessaria conseguenza dell’ in e g u ag lian z a nella distribuzione dei frutti dei sacrifizi, sia s em p re c a u sa di dolori in quelli che sono inferiori. (Kaum. 2 4 ; Gaud. 14). Nè i mezzi sensibili dunque, nè i mezzi religiosi valgono a co n d u rre alla liberazione definitiva dal dolore. E ssa è il frutto unicam ente della c o n o s c e n z a , che il S a n k h y a dice conoscenza d i s t i n t i v a , p erc h è essa ci in s e g n a a d isting uere t r a il Sè ed i v e n tiq u a ttro principii a cui secondo esso si può rico n d u rre la r e a l t à em pirica e che non sono il Sè. O ra donde ci viene q u esta conoscenza? A qu esta do m a n d a rispondono i distici 4 - 7 nei quali la K a r i k a svolge la p ro p r ia teo ria dei mezzi conoscitivi. La conoscenza di s tin tiv a , dice il S a n k h y a , non è il pro d o tto d ’ u n a rivela zione div in a; essa è un prodo tto (ed il p rodo tto più alto) della ra g io n e um an a. È q u e s ta afferm azione dei diritti della ra g io n e che valse al S a n k h y a l’ appellativo datogli dal G arbe di « razionalism o indiano ». E v e ra m e n te il S a n k h y a s e g n a p e r noi su questo pu n to un g ra n d e rivolgim ento nella sto ria del pensiero in dian o; in q u a n to che esso è (almeno p e r q u a n to ci è noto) il prim o sistem a filosofico che nel l’ in d ia ab b ia p ro c la m ato l’ indipendenza della ra g io n e dal l’ a u to r ità religiosa. Anche i più ard iti slanci del pensiero delle U panisadi non e ran o u sciti, a p p a re n te m e n te a lm e n o , dalla tradizione religiosa. Le Upanisadi ave v an o il loro a d dentellato nella tradizione relig iosa a n te c e d e n te , com e il
20 V e d a n ta lo cercò in segu ito nelle Upanisadi. L a conquista delle v e rità altissim e non a p p a rte n e v a alla ra g io n e indivi d u a le ; essa e r a un deposito s a c r o , u n a tradizione invariabile che si t ra s m e tte v a di m a e s tro in discepolo e che p re n d e v a quasi l’a sp e tto d ’ u n a rivelazione. « L a conoscenza del Sè non è (dice il G ough. P hilosophy of thè U panishads 2 p. 98) u n a cosa p riv a ta e p erso nale od ottenibile con l’ esercizio dell’intelletto individuale. D a p p ertu tto nelle U panisadi si in seg n a la m edesim a essere sta ta riv ela ta d a q u esto o quel dio o sem idio, tra s m e s s a p er u na successione di autorizzati espositori. E solo d a uno di questi si può ricev ere la cono scenza del Sè. Ogni a ltro in seg n am e n to che si discosti dalla tradizionale esposizione non è che u n ’asserzion e individuale, p u ra m e n te u m a n a ». Nel S a n k h y a noi abbiam o invece il prim o te n tativ o di risolv ere il p roblem a del mondo e della n o s tra esistenza con le sole forze della ragion e. (G a r b e - I n tr . al K au m . 15). C ontinuando p e r p ro p rio conto l ’a r d it a spe culazione delle U panisadi esso c o n tin u ò , bensì a p o rre il p ro blem a filosofico negli stessi term in i, nei quali e r a s ta to posto dal p en siero a n te c e d e n te ; m a d ’ a ltra p a r t e lo rinnovò ra d ic alm en te s o ttraen d o lo al giogo della tradizione religiosa, afferm ando che la conoscenza delle cose nella loro essenza, la conoscenza distintiva, è ottenibile p e r mezzo della ra g io n e individuale. I m odi, i procedim en ti p e r mezzo dei quali la ra g io n e u m a n a p erviene alla conoscenza delle cose s o n o , secondo il S a n k h y a , i t r e s e g u e n ti: la percezione, il ra g io n a m e n to , la testim onianza. Questi sono i cosidetti tre m e z z i c o n o s c i t i v i am m essi dal S an k h y a. Si è p e r mezzo di essi che l’ uomo perv ie n e di conoscenza in conoscenza a lla distinzione s u p re m a (S. pr. bh. 68-69 ). « Le cose ad essere p ro v a te sono la n a t u r a , l’intelletto, etc. (ossia i 24 principii empirici) e l’an im a. Di esse alcune sono stabilite dalla percezione, altre dal r a g io n a m e n to , a ltre infine d all’a u to r ità ». La percezione è quell’affezione dell’intelletto p e r cui
21 q u e s to , stan d o in r a p p o rto con un o g g e tto p e r mezzo dei sen si, ne r i t r a e la forma. N e lla K a r i k a è d efin ita: « La determ inazio ne degli o g g e tti p a rtic o la ri ». E ssa viene in tesa come il fatto della conoscenza degli o g g e tti sensibili in t u t ta la su a am p iez za, con siderato sì dal lato affettivo (p iacere, dolore), com e dal lato p u ra m e n te conoscitivo (Kaum. 29). E d e g u a lm e n te dal lato p u r a m e n t e conoscitivo essa com p re n d e così la percezione sensibile come la percezione intel lettuale. Questa, che è la conoscenza c h ia ra del suo o g g e tto secondo il suo g e n e re e le sue p r o p r ie tà , so rg e bensì dalla m em o ria p e r via del rid estarsi delle percezioni simili a n t e ced en tem en te avute all’ occasione d ’ u n ’ im pressione simile (Anir. 51); m a tu tto ciò non esce dal cam po della perce zione. Si cita a questo propo sito un antico te s to : « Da p rin cipio si percepisce l’ o g g e tto o s c u ram en te e c o n fu sam en te, so ltan to come u n a c o s a ; in seg u ito poi esso viene d e te r m in ato secondo la su a n a t u r a g e n e ra le e le sue p ro p rie tà p a rtic o la ri ». Ed a n c o r a : « La p rim a im pressione che si h a p e r mezzo del s e n s o , la quale viene p ro v o c a ta d alla non c h ia r a com prensione d ’ un o g g e tto , è non differenziata, simile alle ra p p resen ta zio n i d ’ un fanciullo o d ’ un idiota. Quella com prensione poi p e r cui l’o g g e tto viene d e te rm in a to secondo le sue q u a l i t à , il suo concetto g e n e ric o , etc. è u niv ersal m en te co n s id e ra ta (anche) com e p ercezio ne, m a differen ziata ». (Kaum . 7 3 ; Anir. 5 0 - 5 1 : S. pr. bh. 198). N o ta . A ragione qui Vijnana riprende Vacaspati il quale considera la percezione non differenziata come prodotto dei sensi soli : perchè ogni singolo atto percettivo (tanto di percezione sensibile quanto di percezione intellettiva) risulta dal concorde agi re dei sensi e dell’ o r g a n o i n t e r n o (che è per la psico logia indiana ciò che per noi è la parte centrale del sistema nervoso), ed ha la sua sede in questo ultimo. La causa diretta della percezione consiste in una certa illuminazione dell’organo interno all’ istante che esso viene posto in rapporto con un oggetto. Questa illuminazione viene occasionata nell’organo interno ordinariamente dall’azione dei sensi per mezzo dei quali esso entra in rapporto con gli oggetti attuali; ma può anche venir occasionata da altre cause, come per esempio dal merito prodotto dagli esercizi ascetici, per mezzo del quale esso entra in rapporto con gli oggetti passati o futuri (percezione soprannaturale). L’ azione dei sensi non è dunque che una causa occasionalo dell’atto percettivo. Ciò risulta ancora dalla considerazione seguente. Nel sonno
22 profondo e stati analoghi non è più possibile l’atto percettivo. Ora da che de riva ciò? Non da altro che da un certo oscuramento dell’ organo interno, per effotto del quale è impedita 1’ entrata delle affezioni nel medesimo. Dal che si vede che l’azione dei sensi da sola non può causare alcuna percezione. (Anir. 52. S. pr. bh. 111-112).
La percezione è per la s tessa su a n a t u r a lim ita ta da cause diverse che possono t u r b a r l a od anche impedirla. Le cause che p roducono questo effetto sono e n u m e r a te nel se g u e n te ordine nel 7° distico della K a r i k a : l’ allo ntan am en to , la (troppa) vicinanza, i difetti degli o r g a n i, l ’in a t t e n z i o n e , l’ e s tre m a finezza, la frapposizione d ’ un altro o g g e t t o , la predom inanza d ’ u n ’a l t r a im pressione, la m escolanza con o g g etti simili. Così p e r esempio un uccello che si allo n tan i volando nell’a r ia cessa di esse re visibile sebbene r e a lm e n te a n c o ra esista; l’ occhio non vede il collirio che è sta to posto sulla pu pilla; il suono non esiste p e r i s o rd i, nè la luce p e r i ciechi; u n a p erso n a fo rtem en te d is t r a t t a non ode le p aro le che le sono riv o lte ; le piccole particelle di v a p o r e , di fumo, di polvere, p assa n o inav vertite ai nostri sensi; un o g g etto posto dall’a l t r a p a r te d ’ un m uro non è visibile; la luce dei pianeti e delle stelle cessa di fare im pressione sui nostri sensi q uando risplende il s o le ; ed in fine un lotus si p erde in mezzo a mille a ltri lo tu s , un g r a n o in mezzo a mille altri g ra n i. (Gaud. 2 8 : K aum 4 0 - 4 1 ) . N o no stan te tu t te le sue imperfezioni la percezione è però sem pre il fatto fo n dam entale della 'conoscenza. Anche il ra g io n a m e n to e la testim on ianza che ese rcitan o la loro azione in ra p p o rto ad o g g e tti i quali non sono afferrabili dai sensi si b asan o sem p re in ultim a analisi sulla percezione. (Kaum. 3 1 , 3 4 , 7 5 -7 6 ).
Il secondo mezzo conoscitivo d estinato a supplire la percezione dove q u esta non g iu n g e è il ra g io n a m e n to od inferenza. L ’ inferenza ( a n u m a n a ; Lassen (21): a prep. a n u post, e t m a m etiri; res em etiri e t definire secundum n o rm am q u a n d a m , qu£e n o r m a , in conclusione, est praedicatorum convenientia cum eo de quo praedicantur) è , secondo la
23 definizione di A niruddha, la conoscenza di un prim o term in e, il quale ac c o m p a g n a in variab ilm en te un secondo te rm in e , proceden te d alla conoscenza di questo secondo term in e costan t e m e n te ac c o m p a g n a to d al prim o da p a r te di colui il quale conosce la co stan te connessione dei due term ini (Anir. 57-58). Dalla definizione si vede che l ' inferenza p resu ppo ne s e m p re : 1° i due t e r m in i, il l i n g a ed il l i n g i n ossia il qualificante ed il qualificato. Il lin g a è ciò che è collegato essenzialm ente con u n a c o s a , ind ip endentem ente d a tu tte le d eterm in azio ni accid entali; il lingin è ciò a cui un a tale connessione si riferisce — « Lingin est id de quo aliquid en u n t i a t u r ; lin g a id quod prsedicatur, praedicatum ». (Lassen 24). Così nel notissimo sillogismo q u inq uem em bre del fumo e del fuoco (v. T a r k a s a n g r a h a ed. B allan ty n e 44) il fuoco è il lin g in , il c a ra tte riz z a to , il fumo è il l i n g a , il segno c a r a t teristico. 2° La a p p a rte n e n z a del ling a al so g g etto dell’ infe r e n z a ; che sareb b e in questo caso il monte. In a ltre p arole possiam o dire con V a c a s p a ti che l’ inferenza p resup pon e s e m p re : 1° la conoscenza d ’ un ra p p o rto g e n e ra le t r a linga e lin g in ; 2° la conoscenza dell’ a p p a rte n e n z a del linga al so g g etto dell’ inferenza. (Kaum. 31 - 32). L ’inferenza è secondo il S a n k h y a di t r e specie (Kar. 5). Esse sono secondo qualche co m m e n ta to re quelle stesse poste innanzi d a l N yaya. La p rim a va dalla c a u sa all’ effetto, come quando dal so rg e re delle nubi si inferisce l’ av vicinarsi della pio g g ia ; la seconda va dall’effetto alla c a u s a , come quando dal gonfiarsi d ’ u na riv ie ra s’ inferisce che h a p io v u to ; la te rz a va dall’an a lo g o all’ a n a lo g o , come q u a n d o , vedendo un albero in fiore , se ne inferisce che an c h e gli altri della s tessa specie sono fioriti (W ilson 22 - 23 e così C o leb ro o k e, St. Hilaire etc.). V a casp ati invece ed i co m m en tato ri del S a n k h y a pravac a n a danno delle tre specie di in ferenza u na spiegazione che si discosta in p a r te dalla p reced ente. L’in fe re n z a si distingu e secondo essi in d ire tta ed ind iretta. L’ inferenza d ire tta è quella che procede positivam ente, p e r afferm azion e;
24 l’ inferenza in d iretta è quella che procede n e g a tiv a m e n te , p er esclusione. Nell’ inferenza in d ire tta la conoscenza del ra p p o rto g e n e ra le t r a il lin g a ed il lingin è f a tta consistere nell’esclusione del linga da tu tto ciò che non sia il so g g etto dell’inferenza, il quale è in q u esta specie d ’inferenza il lingin stesso. Q uando si sa che un c a r a t t e r e non è p re sen te in un posto od in posti dove con ragion evo le presunzione si p otev a su p p o rre che esso fosse, si può allo ra con ta n to m a g g io r sicurezza escluderlo d a quei posti p er i quali ciò non si poteva ra g ion e v olm e nte p re s u m e re ; p er il c h e , la su a esistenza venendo n e g a ta nei posti a n a lo g h i a quello in cui re a lm e n te si tro v a e nei non a n a lo g h i , se ne deduce in d ire tta m e n te che esso è pecu liare a quel d e term in a to posto, il quale viene così s e p a ra to e dagli an a lo g h i e dai non an alo ghi. P e r esempio dal fatto che la t e r r a (elem ento terreo) possiede la q u a lità c a ra tte ris tic a dell’ odore p otrebbe alcuno ra g io n e v o lm e n te c o n g e ttu r a re che an c h e le re s ta n ti sostanze a p p a rte n e n ti a lla s tessa c a te g o r ia , a r i a , ac q u a etc. p o sseggano q u e sta qualità. Ma dal m om ento che si ac q uista la certezza che la q u alità in discorso a p p a rtie n e solo ad u n a delle sostanze della d e tta c a te g o r i a , alla t e r r a , e non alle a l t r e , si deve affatto escludere che la s tessa q u alità possa a p p a rte n e r e a sostanze d ’ u n ’a l t r a cate g o ria. Q uindi, d a ta l’ a p p a rte n e n z a dell’ odore alla t e r r a e l’esclusione di questo c a r a t t e r e d a tu tti gli altri e l e m e n ti , se ne inferi sce che la t e r r a sola possiede il c a r a t t e r e dell’o d o re , e che perciò è distinta da t u tti gli a ltri élem enti. (Esempio t r a t t o dalla T a r k a s a n g r a h a p. 5 0 -5 1 ) . Q uesta specie d ’ infe re n za c o n d u c e, come si vede, a risultati g en e rali, m a sem pre nel cam po del sensibile; e serv e a fissare con precisione i r a p p o rti g en e rali sui quali d o v rà basa rsi l’inferenza posi t i v a , ossia a d e te rm in a re le p ro p r ie tà c a ra tte ris tic h e delle cose e p e r questo mezzo a n c h e a stab ilire l’ esistenza distin ta di alcunché (sensibile) p re v ia m e n te non noto o confuso con altro. (S. pr. bh. 122) — L’ inferenza d i r e t t a si distingue in inferenza d ire tta p ro p ria m e n te d e tta ed inferenza in d u t tiva. L a p rim a è quella in cui il ra p p o rto g e n e ra le t r a il
25 ling a ed il lingin è g i à p re v ia m e n te noto ed il caso in questione non ne è che u n ’ applicazione speciale. Tale infe re n za ha luogo q uando si inferisce p. es. dal fumo la p re senza del fuoco, perch è si è a n te c e d e n te m e n te conosciuto che il fumo è un seg n o ca ra tte ris tic o del fuoco. Anche q u esta specie di inferenza si r e s tr in g e nel cam po del sensibile e non conduce che a risultati particolari. — La te rz a specie di inferenza o inferenza in duttiva si d istin gue a p p u n to dalle precedenti p er ciò che essa si riferisce ad ogg etti non sensi bili. E ssa ha luogo q u a n d o si ap plican o p er a n a lo g ia ad o g g etti non sensibili i risultati ottenuti nel cam po del sen sibile, p er es. qu and o dalla percezione del colore, sapendo che q u esta percezione è un a t t o , se ne deduce l’esistenza dell’a g e n te cioè del senso p e r via della conoscenza della connessione n ecessaria t r a a tto ed a g e n te o tte n u ta p e r via sensibile (S. pr. bh. 122-123). Q uesta specie d ’inferenza è a n a lo g a a ll’inferenza d ire tta p r o p r ia m e n te d e t t a , p erch è in am bo i casi si t r a t t a d ’ a p p lica re u n a re g o la g e n e ra le ad un caso p a r tic o la re ; ne differisce p erò in q u an to in qu esta non si esce dal cam po della d eduz io ne , laddove nel caso dell’ inferenza ind uttiv a si t r a t t a d ’ u n ’ estensione p e r a n a logia ; perch è in q u e s t’ ultimo caso il lingin del quale si deduce l’esistenza è sem p re u n a co sa non percepibile sensi bilmente. O gnun vede quindi come q u esta sia p e r noi la più im p o rta n te delle tre specie d ’inferenza, p erc h è è so lam ente per mezzo suo che noi possiam o stabilire l’ esistenza del l’a n im a , della n a t u r a e degli altri principii im m ateriali. (S. S u tr a I. 103; K ar. 6 Anir. 58; S. pr. bh. 122 e ss.; K aum . 32 e ss.) La validità dell’ inferenza v enne n e g a ta dai C arvak as, l’a rg o m e n tazio n e dei quali è riferita d a V ijn a n a (S. pr. bh. 278) come s e g u e : « Dicono gli scettici: Non da una sola ap p ren sio n e della concom itanza (del lin g a e del lin g in ) si deve a tte n d e re u n ’ invariabile connessione; e la frequenza d ’ u na ta le app ren sio n e non h a un valore assoluto più di quello che lo ab b ia una sola ap p re n s io n e : p e r c iò , q u esta
26 invariabile connessione non potendo essere stabilita, nulla può essere p ro v a to d all’ inferenza ». (V. an che il S a rv a d a rs a n a s a n g r a h a 5 -7 ) . V a c a s p a ti nel K aum udi confu ta di p as sag g io i C a rv a k as con q uesta arg om e n tazio n e ad hom inem : I m aterialisti (e g li dice) n e g a n o l’inferenza. Ma com e po t ra n n o a n c o ra conoscere essi allo ra se un uomo sia nel dubbio, nell’ig n o ra n z a o nell’ e r ro re ? P e rc h è noi , uomini o rd in a rii, non possiam o conoscere ciò d ire tta m e n te per mezzo della p ercez io n e , nè v ’ h a secondo essi a ltro mezzo di conoscenza all’ infuori della percezione. O ra se essi, i quali non possono nem m en o conoscere se altri sia nel du b b io , dell’ ig n o ra n z a o nell’ e r r o r e , si m e tte rr a n n o a d is p u tare ed a voler convincere gli a ltri, non s a r a n n o essi degni d ’essere ten u ti p e r pazzi? P e rc h è q uand o alcuno rico nosce in altri il dubbio e tc ., ciò fa p e r inferenza dai loro d iscorsi, dai loro propositi, e sim ili; e quindi essi pel solo fatto di d is p u ta re con altri am m etto n o g i à t a c i t a m e n t e , nel m om ento stesso che la n e g a n o , la validità dell’ inferenza. (Kaum. 3 0 - 3 1 . V. inoltre M. Muller nella Z. d. D. M. G. VII 299 e ss.) La te s tim o n ia n z a , il terzo mezzo co noscitivo , viene defi nito dal S a n k h y a un legittim o in seg n am e n to (S. S u tra I 101). E ssa è p ro p ria m e n te non la trad izione o l’ in seg n am e n to s te s s o , m a il prod ursi in noi della conoscenza di ciò che dalla tradizione o dall’in s e g n a m e n to viene espresso. (Kaum . 35: S. pr. bh. 121). Lassen s p ie g a : a p t a v a c a n a (est) c o n g ru a oratio id est affirm atio r e r u m q uas nec sensibus co m p re hendim us, neque concludendo evicimus, q u aru m ig itu r scientia nobis a b aliis com m un icari d e b e t, q u asq ue si affirm am us fidem hab e am u s necesse est aliorum testim onio (Gymnosopliista 21). E s sa serve a farci conoscere quegli o g g e tti che non ci sareb b ero altrim e n ti conoscibili, come p e r esempio « In d ra il re degli Dei, il s e tte n trio n a le K u r u s , le ninfe dei cieli » (Gaud. 19); e com prende non solo la rivelazione vedica con tu tto quel complesso di tradizioni che sulla m edesim a si
27 fo n d a n o , e cioè le sentenze della T ra d iz io n e, le le g g e n d e , i P u r a n a s , m a an c h e q u alun que in s eg n am e n to altru i purché a u to re v o le (Kaum . 35: S. T. P ra d ip a nel P a n d it 1874 p. 69). Dicendo che la te stim o n ia n za deve esse re le g ittim a , si esclu dono con ciò tu tte le tradizioni delli eretici (Buddisti, Jainas), la cui non autorevolezza viene inferita da ciò che le mede sim e non han n o buo n a r ip u ta z io n e , che non sono fondate su di a lcu n a solida b a s e , che non si a c co rd a n o con gli altri mezzi conoscitivi e che sono accolte solo da popoli b a rb a ri « rifiuto dell’ u m a n i t à , più simili a bestie che ad uomini » (Kaum . 36). L a testim o nianza è senza dubbio nel ra zio n alista San k h y a il meno im p o rtan te dei tre mezzi conoscitivi; nè nell’as serzione che la rivelazione vedica faccia p a r te dei mezzi cono scitivi noi dobbiam o vedere a ltro che u n a innovazione od u n a interpre tazio n e p osteriore. P erc h è noi sappiam o che la filosofia S a n k h y a e r a in orig ine ed è p e r sè stessa non solo a t e a , m a ostile a i V e d a ; e tu tte le citazioni delle S critture nei p resen ti testi S a n k h y a non sono che a g g iu n te a rtifi ciali, le quali possono essere tolte senza che l’esposizione del sistem a ne ab b ia a soffrire. Tutti gli altri mezzi conoscitivi messi innanzi dalle altre scuole sono contenu ti nei t r e precedenti e possono essere rido tti all’ uno od a ll’a ltro di essi. I N aiyayikas p e r es. a m m etto n o un q u a rto mezzo: l’a n a 1o g i a. Tale è ad esempio la conoscenza che si ac q u ista d ’ un G a v a y a (Bos Gavasus) sapendo che esso è simile al bue domestico. M a , dice V a c a spati, tale conoscenza si può benissimo ric o n d u rre in p a r te alla te s tim o n ia n z a , in p a r te alla in feren za , in p a r te alla percezione. Quando noi evochiam o in noi stessi 1’ im ag ine d ’ un G a v ay a in q u a n to sap p iam o d a altri che il G a v a y a ra ssom iglia al bue dom estico, tale conoscenza ci perviene p e r mezzo della testim onianza. Quando in noi ci ra p p re s e n tiam o un G a v a y a p erch è sap piam o che la p a ro la g a v a y a indica alcunché di simile al bue domestico, noi ci serv iam o dell’inferenza. Ed ecco come V a c a s p a ti ne fa un sillogism o : 1°
28 Una p a ro la indica solo quell’o g g e tto a d e n o m in are il quale è s t a t a u s a ta da uomini co m p ete n ti; quindi non può av e re alcun altro senso. 2° Ma la p aro la g a v a y a è s t a t a in tal modo ap p lic a ta a d e n o m in are l’an im ale simiie al bue dom e stico. 3° Quindi q u e s ta p a ro la indica alcunché di simile al bue domestico. — L a co n statazio ne p e r ultimo della ra s so m iglianza del bue dom estico col g a v a y a p e r mezzo della percezione a ttu a le o della m em o ria si riduce alla percezione; perch è non consiste in a ltro che nel p ercep ire nell’ uno e nell’a ltro il complesso delle e s te r io r ità più im p o rtan ti, n o ta n done la som iglianza. P erciò l’a n a lo g ia non può essere c o n ta ta come un mezzo conoscitivo speciale. I M im ansakas poi ricevono a n c o ra altri q u a ttro mezzi: l’ evidenza, la privazione, l’ inclusione e la tradizione. L’evi denza consiste in questo p e r es. c h e , q uando si vede che alcuno non è in un d e te rm in a to lu o g o , se ne inferisce p er evidenza che esso è altro v e . Ma q u e s to , n o ta V a c a s p a ti, non è a ltro che u n ’ inferenza d ire tta b a s a ta sul principio g en e rale che « ogni corpo sp azialm ente lim itato quan d o non è in un d e term in a to luogo è a ltro v e e viceversa ». La p riv a zione consiste nella constatazio ne dell’assenza di alcu nch é, come p e r es. si c o n s ta ta l’ assenza di fiori nel cielo. Ma qui, n o ta V a c a s p a ti, non si t r a t t a che d ’ un caso speciale della percezione. L’ inclusione si ha qu and o dall’ esistenza d ’ una cosa si deduce a ltre sì l’ esistenza d ’a l t r a cosa che è in quella in c lu sa , e non è che un modo di inferenza. La tradizione p e r ultim o è conoscenza a v u t a p e r mezzo , della tradizione orale. Ma o essa è d e g n a di fede, ed allo ra r i e n t r a nella leg ittim a testim o n ia n z a ; o non è tale ed a llo ra non è da accogliersi t r a i mezzi conoscitivi. (Kaum. 3 7 -3 9 ). N o ta. Il Vedanta riconosco due mezzi conoscitivi: la percezione e l’in ferenza; ma li riconosce unicamente come mezzi subordinati e sussidiarii, non ad altro atti che a rischiarare e completare la rivelazione vedica, la quale rimane cosi sempre per esso l’ unica fonte della conoscenza liberatrice. (Ved. Sutra II 1, 11 ; Deussen. Das System d. Vedanta 95 - 99).
La filosofia h a du nqu e p e r o g g e tto , a voler riassu m ere in poche p arole il concetto del S a n k h y a , di darci u n ’ e s p l i -
29 c a z i o n e r a z i o n a l e d e l l ’ u n i v e r s o ; e q u esta espli cazione non è sem plicem ente fine a se s t e s s a , non è sem plicem ente d e s tin a ta a soddisfare il bisogno metafisico del l ’u o m o , m a ha p e r scopo di c o n d u r r e g l i u o m i n i a l l a l i b e r a z i o n e d a l d o l o r e . Da essa l’uomo deve a p p r e n dere che cosa esso non è e che cosa esso è , ossia a p p r e n dere a distin g u e re il suo Sè assoluto d a quel complesso di principii esteriori ed in terio ri che costituiscono il mondo em pirico; a p p re n d e re come p er u n a fa ta le concatenazione di cause e di effetti esso sia da t u t t a l ’ e te r n ità avvinto all’esistenza em pirica e quindi al do lore; ed infine come esso p o ssa rom p ere q u esta c a te n a e liberarsi p e r sem pre dalle m iserie dell’esistenza. L a n o stra esposizione s a r à quindi divisa in q u a ttro p arti le quali a v ra n n o rispettivam en te p er o g g e tto il mondo em pirico , il principio a s s o l u t o , le leggi della vita em pirica, la liberazione.
L a p rim a questione che ci si p re s e n ta re la tiv a m e n te al mondo em pirico è quello della su a r e a l t à . O sserva il Garbe che an c h e in questo il S a n k h y a si acco rd a col Buddismo in q u an to am en d u e ten g o n o il mondo em pirico p er reale. Questo pu n to m e rita un esam e minuto. Anzitutto è da chiedersi: Il mondo m a te ria le (vale a dire i corpi) è alcunché di esisten te indipendentem ente dal nostro intelletto o non è che u na ra p p resen ta zio n e illusoria dell’ io? Su questo punto così il Buddismo antico ed il S a n k h y a come il V e d a n ta m a n te n g o n o la r e a ltà del mondo esterio re contro la s e tta buddistica dei Y o g a c a r a s , i quali debbono essere considerati come i veri r a p p r e s e n t a n ti , nell’ in d i a , dell’im m aterialism o del B erkeley. Secondo i Y o g a c a ra s (v. Gough Phil. Upan. 191 e s s.; Ved. S u tra s transl. T h ibaut I 420 e ss.; Deussen Das System d. V e d a n ta 260 e ss.; W a ssilief Le Bouddism e etc. 289 e ss.) la ra p p resen ta zio n e deve essere co n sid erata come simile ad un sogno. D ura n te un so g n o , u n ’ illusione m a g ic a od un m ira g g io le ra p p resen ta zio n i si p re s e n ta n o al n ostro intelletto nella duplice form a di o g g e tto e di so g g etto sebbene in r e a l t à non vi sia n e p p u r p e r un istan te alcunché di e s te r n o ; dal che noi concludiamo che an che le ra p p resen ta zio n i che ci occorrono nello s ta to di veglia sono indipendenti da q ualsivoglia cosa e s te r io r e , p erch è sono a n c h ’esse p u ra m e n te rappresentazioni. La v a rie tà a ttu a le delle ra p p resen ta zio n i poi è spiegabile (anziché col
vario a g ire degli o g g e tti esterni sul senso) col fatto che esse non sono se non il necessario effetto (in virtù della legg e del merito) delle infinite serie di ra pp resentazion i che si succedono con e g u a le v a rie tà da t u t t a l’etern ità . Contro queste teorie il S a n k h y a , come il V e d a n t a , fa appello alla ra p p re s e n ta z io n e stessa. A nzitutto se non si a m m e tte che le cose esistano re a lm e n te fuori di noi così come noi le p e rc e p ia m o , non è possibile a m m e tte re nem meno l’esistenza del pensiero (che è secondo i Y o g a c a ra s l’u nico reale); perchè come l ’unica p ro v a dell’esistenza delle cose es te rn e è la ra p p resen ta zio n e che noi ne abbiam o, così l’unica p ro v a dell’ esistenza del pensiero e la ra p p resen ta zio n e che noi abbiam o del pensiero stesso. (S. S u tra I 43; S. pr. bh. 46 - 47). Ed inoltre : Se le cose este rn e non esistessero affatto , esse non v e rreb b e ro p erc e p ite , perchè ciò che non è non può nem m eno esse re o g g e tto di un a ra p p resentazione. (S. S u tr a I 4 2 , V 52). Si confr. i Ved. S u tra II 2 , 2 8 - 2 9 (v. T h ib a u t I 418, 424): « La non esistenza (delle cose esterne) non può sostenersi p e r via della (nostra) coscienza (della loro esistenza). E p e r via della loro differente n a t u r a (le idee nello s ta to di veglia) non sono come quelle d ’ un sogno ». La questione p re c e d e n te non esce dal pu n to di vista em pirico ; e la r e a ltà delle cose vi è p u ra m e n te afferm ata in relazione a ll’io em pirico che è il so g g etto percipiente. Con ciò non è quindi p o sta la r e a l t à a s s o l u t a delle cose. Le cose e s te rn e sono a lt r e tt a n t o reali q u an to gli o rg a n i e gli s tati psichici che ce ne d an n o la ra p p re s e n ta z io n e ; ma convien ric o rd a re che e cose e stern e e o rg a n i e s tati psi chici fanno un mondo a sè che deve esse re distinto da quello al quale solam en te ab b iam o riconosciuto la esistenza v e ra e s u p re m a m e n te r e a l e , d all’ esse re assoluto. Com prendendo quindi sotto il nom e di mondo em pirico e il mondo e sterio re e la n o s tra coscienza em pirica, noi dobbiam o rinn ov arci la d o m an d a in questi term ini : Il mondo em pirico (il non io) è alcunché di re ale come l’assoluto od è solam ente alcunché di illusorio? È facile v edere in che cosa q u esta d o m a n d a diffe
33 risca dalla p re c ed e n te ; potendo il mondo dei corpi essere reale di fronte al so g g etto e m p irico , m a d ’ a ltro canto come il so g g etto stesso irre ale di fronte all’ assoluto. E q u esta è a p p u n to la posizione del V e d an ta. Dal pun to di vista Vedantico B ra h m a solo è ; il mondo è falso; l’ a n im a è B ra h m a stesso e nuli’ altro. B r a h m a , il solo e s is te n te , è intelligenza e beatitudine asso lu ta (cfr. Deussen o. c. 491); esso è destituito d ’ ogni q u a lità , d ’ ogni fo rm a , d ’ogni distinzione o d e te rm in a zio ne; non ha nè volontà, nè coscienza; non conosce e non è cono sciuto , non sen te e non è s e n tito ; non h a nè principio nè fine; non è s o g g etto a m utazio ni; in breve è il vero e s up rem o essere. L’ intiero mondo em pirico invece è falso; ossia non possiede una v era esistenza. Esso h a origine dal l ’ig n o ra n z a , la quale fa sì che B ra h m a a p p a re a noi come il m o n d o ; ap p u n to come l’ illusione dei sensi può in certe circostanze far sì che noi scam biam o p. es. u n a corda per un serpente. Esso non è alcunché di a ltro d a B ra h m a e nem m eno è u n a trasfo rm azio ne di B r a h m a ; quindi è v e r a m en te in sè u n a non e n t i t à ; B ra h m a solo è e si p re s e n ta a noi come il mondo. P e r u sare u n ’ espressione v ed a n tic a , l’ esistenza del mondo non è su a p ro p ria ma di B r a h m a ; B ra h m a è la c a u sa m ateria le illusoria del mondo. (Refut. 177 - 179). Nè perciò esso è a ss o lu tam en te n u lla; perchè sebbene esso non sia ciò che a p p a r e , alm eno in q u anto a p p a r e è p u r qualche cosa. Esso non è quindi nè re ale nè ir r e a le ; è alcunché di inesprim ibile che non cade nè sotto l’ uno nè sotto l’ a ltro di questi due concetti. P e r il S a n k h y a in vece non meno che p e r l’an tico Bud dismo il mondo em pirico è a ltr e tta n to reale q u an to l'essere assoluto. Secondo l’antico Buddismo le cose hanno u n ’esi stenza m o m e n ta n e a , m a re a le ; secondo il S a n k h y a è falso che noi p artecipiam o all’ esistenza e m p iric a , m a il mondo em pirico in sè è qu alche cosa di asso lu ta m e n te reale. (S. pr. bh. 4 6 , 98 etc.). 11 S a n k h y a si rifiuta di a m m e tte re qual quid medium tra l’esistenza e la non esistenza che i V edantini attribu isco no al mondo em pirico; esso d ich iara in più luoghi che u na tale s e m i-e s is te n z a è inconcepibile e quindi a s s u rd a 8
34 (S. S u tr a I 2 4 , V 54 etc.). L ’ arg o m e n ta z io n e che il S a n k h y a adduce contro l’ illusionismo del V e d a n ta è in fondo quella stessa a d d o tta co ntro i Y o g a c a r a s ; e consiste in un appello a lla ra p p re se n ta z io n e , che nell’ ipotesi del V e d a n ta sarebbe ra d icalm en te falsa. O ra dice il S an k h y a, nulla ci p ro v a che la ra p p resen ta zio n e sia falsa in sè stessa ovvero proceda da uno s ta to an o rm a le degli o rg a n i conoscitivi (S. S. I 79, VI 52). In q u e s t’ultimo caso (come p. es. nel sogno) così come nelle rappresen tà zio n i false che si h a n n o q uando si scam bia un o g g e tto p er un a ltro la falsità della ra p p re s e n ta z io n e ci è p r o v a ta da rapp resentazio ni so pravv enienti; laddove nel caso della ra p p resen ta zio n e o rd in a ria nel suo complesso noi non abbiam o n essu n’ a l t r a ra p p resen ta zio n e da cui d esum ere la falsità della prim a. (S. pr. bh. 357). Nè i p assi delle Scrit tu re che si sogliono a d d u r re co n tro la re a ltà del mondo hanno p e r scopo di n e g a re ass o lu ta m e n te l’ esistenza del mondo e m p irico , perchè altrim enti neg h e reb b e ro an che la r e a ltà delle S critture stesse e quindi di sè m e d e s im i, e perciò non av re b b e ro più alcun valore p rob an te. (S. pr. bh. 358). Non in te ra m e n te a to rto quindi V ijn a n a affetta in più luoghi di confondere i seg u a ci di Q a n k a ra con i Y o g a c a ra s (S. pr. bh. 34, 36, 39, 4 8 ,1 7 3 etc.); essendo indifferente assu m ere che gli o g g e tti esistano o non indipen den tem ente dalla ra p p re s e n ta z io n e , dal m om ento che e o g g etti e ra p p re s e n tazione sono nel loro insiem e u n ’ illusione ed u n a non realtà. Questa d iv ersità di d o ttrin a che s e p a ra n e tta m e n te il S a n k h y a e l’ antico Buddismo dal V e d a n ta e dal neobuddism o si co nn ette con la diversa concezione dell’ i g n o r a n z a , la qu ale si può b re v em en te riassu m ere in questo che secondo il V e d a n ta ed il neobuddism o l’ig n o ra n z a non solo è la c a u sa efficiente, m a è la c a u sa m a t e r ia le , il fondo stesso del mondo em pirico (che è quindi illusorio), laddove secondo il S a n k h y a e l’antico Buddismo essa non è che la c a u sa effi ciente dello svolgersi dell’esistenza em p iric a , la quale è in sè qu alch e cosa che non è l’ ignoranza. L a vita em pirica che si svolge a tto rn o a noi e della
35 quale noi siam o p a r te non è p e r ta n to nè un m irag g io dei s e n s i, nè u n ’ illusione dell’a n i m a , m a è in sè u n ’ asso lu ta re altà. Q uesta r e ità em pirica è p erò d iv ersa m e n te concepita nel S a n k h y a e nel Buddismo. Il mondo empirico è ben costituito, secondo i Buddisti, di fenomeni sostanziali; m a essi non h an n o che u na d u r a ta i s ta n ta n e a e non sorg on o all’ is ta n te dal nulla che p e r precipitarvisi n uov am en te nello stesso istante. Gli esseri sono quindi da p a r a g o n a r s i ad u na fia m m a ; la qu ale a p p a re identica p e r t u t ta la su a d u ra ta , m a in r e a ltà con sta del rapidissim o succedersi nella s tessa form a di mi nim e p artic elle della so s ta n z a ard en te. Così nel concetto dei S a u tra n tik a s tu tti gli esseri sono sottoposti ad un flusso co n tin u o : tu tti gli elem enti così della vita co rp o re a come della v ita sp iritu ale non sono che un succedersi di forme e di a g g r e g a t i di cui l’uno s o tte n tra rap id issim am en te all’altro . Di u na s o s ta n z a , come s u b s tra to p e r m a n e n te degli e s s e ri, non è quindi il c a so ; l’ essenza delle cose è nel loro diven ta re (Old. 2 7 1 -2 7 3 . S. S u tr a I 3 4 - 3 7 ) . Invece secondo il S a n k h y a il mondo em pirico h a un fondo p e rm a n e n te o, come esso dice, u n a c a u s a m a t e r i a l e . Al disotto di tu tti i fenom eni, di tu tte le a p p a ren z e mutevoli vi è qualche cosa che p e r s is te , alcunché di etern o che si dispiega in una v a r ie tà di forme successive. Secondo il Buddismo l’essere (attuale) procede dal non essere e rito rn a nel non ess e re ; secondo il S a n k h y a l’essere è ete rn o ed ogni essere d e te r m inato procede dall’ essere e rito rn a nell’ essere. Il S a n k h y a p ro v a la su a tesi con tre a r g o m e n t i, riferiti nei s u t r a I 114 e ss. e nel distico 9 della K a rik a . È da n otarsi p erò che i co m m en tato ri più re cen ti (Kaum. 4 2 - 4 9 ; S. pr. bh. 1 3 0 - 1 3 1 ; Anir. 6 5 -7 0 ) con sid eran o queste a r g o m e n ta zioni come rivolte specialm ente con tro i N a iy a y ik a s ed i V a ig e sh ik a s, secondo i quali in ogni e n tità vi è qualche cosa che nella c a u sa non esisteva e quindi il non essere deve considerarsi come c a u sa parziale degli esseri. Ciò procede senza dubbio dal fatto che le dispute con le scuole rivali ortodosse richia m a v ano al loro tem po la loro attenzion e
36 molto più che le co ntrov ersie col B uddism o, le quali erano ornai prive d ’o gni in teresse ed a ttu alità. Le p re d ette argo m e n tazio n i sono le s e g u e n ti: 1° Ciò che non esiste non può venir ch iam a to all’esi stenza. (S. S. I 114). Se il p ro dotto p rim a di venire a ll’esi stenza fosse i r r e a l e , d a nessun a g e n te esso potrebbe venir tr a t t o alla r e a l t à ; poiché nem m eno mille artefici possono far d iventare giallo ciò che p er su a essenza è azzurro. E se alcuno dicosse: « La r e a ltà e la non re a l t à non sono che qualità successive d ’ un o g g e tto : quindi il p a s s a g g io dall’ u n a a ll’a l t r a non è impossibile », noi rispondiam o che un o g g e tto irre ale non può p o ssedere qualità, e che il co nsid erare un o g g e tto irre a le come rivestito successivam ente delle q u a lità della r e a l t à e dell’ ir r e a ltà è un non senso. Come p o trebb e un vaso p. es. essere irre ale in virtù d ’ u n ’ irre a ltà che non è in connessione con esso nè ta n to meno ne costituisce l’ e s senza? E v e ra m e n te nella vita o rd in a ria noi vediam o che solo ciò che esiste g ià realm en te può esse r t r a tto a ll’ e s isten za , come p er esempio l’ olio che è spre m u to dai semi di se sam o dallo stre tto io , il latte che è m unto dal seno della v a c c a , etc. P e r con tro nessun esempio noi abbiam o che alcunché non esistente s o rg a im pro vvisam ente all’ esistenza. Dunque se il p a ss a g g io dalla re a ltà all’irre a ltà è impossibile, ne viene di conseguenza che la produzione delle cose non è a ltro che il m anifestarsi d ’alcunchè g ià pre esiste nte nella s u a c a u s a ; e la distruzione loro il rito rn o delle m edesim e al loro s ta to prim itivo. (Kaum . 44). 2° La limitazione delle cause m ateriali. (S. S. I , 115). Ogni c a u sa m a teria le non produce se non questo o quel d e term in a to o ggetto. Ciò è fatto ev id ente; p erchè se non vi esistesse q u e s ta specie di predeterm in azio ne del p rodotto nella c a u s a , tutto potrebb e s o rg e re da t u t to ; non vi sarebb e ra g io n e p e r cui u n a c a u sa p rod u c a questo o q uell’ o g g e tto , trovandosi nelle stesse condizioni di fronte a ciascuno di essi; il che as s o lu ta m e n te non è. (S. S. 1, 116). O ra q u esta pre d eterm in azio ne non può essere alcunché di g enerico, u na facoltà a s t r a t t a della c a u sa di p ro d u rre dal nulla questo o
37 quell’ o g g e tto , p erchè allora ci trov erem m o nu o v am en te di fronte alla stessa do m an d a: p erchè q u esta facoltà a p p a rtie n e a q u e s ta c a u sa sola e non a t u t te ? Quindi è necessario che esista u n a connessione t r a la c a u s a pro d u c en te e l’o g g e tto non a n c o ra p ro d o tto ; e q u esta connessione ci p ro v a ap p u n to la pre esiste n za del p rodotto stesso allo s ta to di p re fo rm a zione nella su a c a u s a ; perch è del re sto come po treb be la c a u s a esse re connessa con alcunché che non esiste? T utto questo è ria s s u n to in un antico testo S a n k h y a citato dal K a u m u d i: « Se (i prodotti p rim a della loro m anifestazione) fossero irre a li, non si d areb b e a lc u n a connessione (degli stessi) con le loro cause re a lm e n te esistenti. E p er colui che a m m e tte il s o rg e re d ’ un p rodotto non connesso (con la sua causa) non può valere la re g o la re ripartizione (dei prodotti, os sia la re g o la che un d e term in a to p rod otto possa s o rg e re solo da u n a d e te r m in a ta causa) ». (Kaum . 45). Questo arg o m e n to vale a n c h e con tro i V a if e s h ik a s , secondo i quali la non esistenza è solo uno tra i fattori d e te rm in a n ti del prodotto. Notiamo an zitutto che q uesta te o ria pecca di complicazione, p erch è dal m om ento che si h an n o sotto gli occhi i fattori d e te rm in a n ti m ateria li d ’ un p r o d o t t o , a che ric o rre re ad u n ’ipotetica non esistenza? Ma del resto q u e s t a non esistenza o non h a p redeterm in azio ni speciali ed allo ra non è fa tto re d e t e r m in a n te , com e si è am m e s s o ; o ne h a ed allo ra non è u n ’ irrealtà. Da questo concludiam o che non si può consi d e r a re la non esistenza come fa tto re d e te rm in a n te (unico o non) della produzione delle cose. (S. pr. bh. 133). 3° L ’id en tità del p rodotto e della causa. 11 prodotto non è distinto dalla su a c a u sa p e rc h è : 1° Ciò che non è se non una speciale modificazione di alcunché non può essern e d is tin to , come p. es. un abito non è alcunché di distinto dai fili onde esso è composto. 2° Nel caso di due cose distinte sono possibili l’ unione e la s e p a ra z io n e ; o ra ciò non è possibile nel caso della c a u s a e del prodotto. 3° Nella produzione di alcunché d a p a r te della s u a cau sa (come nel caso dell’ abito e del filo) non vi h a a u m e n to di peso ; ciò che noi possiam o verificare con la bilancia. Quindi noi diciam o
che i) prodotto non è se non la c a u sa modificata in questo o quel modo; d a t a o ra la re a ltà dell’ uno come p o tr à l’ a l t r a essere irre ale? A q uesta n o s tra a rg o m e n tazio n e muovono gli a v v e rs a ri q u a t t r o difficoltà: se la c a u sa è identica al l’effetto, che cosa significano a n c o ra la produzione, la d is tru zione di alcunché? perchè chiam iam o con nomi distinti la c a u sa ed il p ro dotto? p erchè nell’ uso q uotidiano siam o tutt ’ a ltro che indifferenti a servirci dell’ u n a piuttosto chè dell’ a ltro ? f i l e prim e due d o m an de noi rispondiam o c h e , come le m èm b ra d ’ una t a r t a r u g a scom paiono q uan d o essa le r itira in sè e vengono alla luce q uando essa le fa uscire, m a nè nel prim o caso vengo no rid o tte al n u l l a , nè nel se condo sorg ono come p e r incanto dal corpo della t a r t a r u g a , così è p e r tu tti i p rod otti re la tiv a m e n te alle loro ca u se; quando essi vengono fuori ossia vengono alla luce, si dice che essi n a s c o n o , s o rg o n o ; q uando si r i t i r a n o , cioè vengono riassorbiti dalla loro c a u s a , si dice che si d is tru g g o n o : m a in fatto non vi è v e ra m e n te nè produzione dal n u lla , nè rito rno al nulla. Circa poi al terzo p u n to , come la t a r t a r u g a non è pu n to alcunché d ’a ltro dalle sue m e m b ra che o ra si disten d o n o , o ra si ra c c o lg o n o , così a n c h e un v a s o , un diadem a non sono pu n to alcunché di a ltro d a ll’a r g il l a , d a l l’ oro di cui constano. La distinzione nom inale h a la sua ra g io n e solo nella m anifestazione o non m an ifestazion e; così p. es. se il vaso non è a n c o ra m a n if e s ta to , noi p arliam o di esso come di a r g il l a , se è m an ifestalo lo chiam iam o col suo proprio nome « vaso». Nè infine la diversità dello scopo pra tic o include u n a distinzione essenziale t r a la c a u s a ed il pro d o tto ; p erch è noi sappiam o che an c h e u n a s tessa cosa può servire a più usi, com e p. es. il fuoco ch e b ru c ia , illu mina, cuoce. Inoltre convien consid erare che a ltro può essere l’ uso d’ un tutto, altro l ’ uso dei com ponenti presi a d uno ad u no , senza che per ciò se ne possa inferire che sono due cose diverse. Così com e i servi che si pigliano p e r un viaggio sin g o larm en te non compiono a ltro ufficio che quello di indi c a re la via ed invece riuniti insieme possono p o rta r e la lettiga, allo stesso modo i fili ad uno ad uno non coprono
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'il c o rp o , m a presi collettivam ente (n e llo s ta to d ’abito) lo coprono. « V a benissimo, (dirà alcuno), m a la m anifestazione è g ià p re se n te p rim a del suo s o rg e re o no? Se no, si deve cònvenire che vi è produzione d ’ alcunché an tec ed en te m e n te non esistente (la m anifestazione stessa); se s ì , che bisogno vi è dell’ a ttiv ità p ro ducente della c a u s a ? E se poi a c c e tta te una m anifestazione della m anifestazione e così via si ha un re g re s s u s in infinitum. Quindi è cosa v uota di senso il dire che la produzione non è che u n a m anifestazione » Noi ris p o n d iam o : 11 prod otto esiste g ià nella ca usa in q u an to m anifestato m a nella condizione di futuro ; quindi non vi è creazione di nulla di an te c e d e n te m e n te non esistente. E d ’ a l t r a p a r te l’a t t i v it à della c a u sa è a p p u n to n ecessaria affinchè questo p rodo tto m anifestato passi dallo s ta to di futuro allo s ta to di pre sen te ossia si attui. Nè così si può dire che vi sia p a s s a g g io d a u na non esistenza all’esistenza; perchè l’esistenza in condizione di futuro e l’esistenza in condizione di presente non sono d ue opposti contraddicentisi, m a solo due modi successivi d ’u n ’esistenza continua. E se si persistesse ad o p p o rre che così si verreb be p u r sem pre a p o rr e u n ’ an tec ed en te non esistenza della m anifestazione, noi risponderem m o an z itu tto che ciò non d e tra rre b b e pun to all’esistenza e te r n a del p ro d o tto (del q u ale solo o ra si tratta); ed in secondo luogo che nem m eno ciò è vero. P e rc h è da noi a voi (o Naiyayikas), vi è q u e s ta differenza, che voi p rim a e dopo dell’ esistenza a ttu a le d ’un o g g e tto pon ete il non esistere ed identificate l’o g g e tto stesso con la su a condi zione di p re sen te; per noi invece p rim a dell’ esistenza a ttu a le d ' u n o g g e tto vi è la su a esistenza nella condizion di futuro, dopo vi è la sua esistenza nella condizione di p a s s a to ; e la m anifestazione o s ta to p re sen te del p ro dotto è u n a condi zione del prodotto m a non il p ro dotto stesso. Perciò p e r il p rod otto non v’ è nè a n te r io re nè po steriore non esi s te n z a , m a esistenza allo s ta to di fu tu ro ed esistenza allo sta to di p a s s a to ; e p er la condizione di p re sen te nem m eno vi è prim a o poi u n ’ asso lu ta non e s i s t e n z a , m a solo u na non esistenza re la tiv a , u n ’ esistenza nella condizione
di futuro o di p a s s a to ; cosicché all’ a tto della m anifestazione o della distruzione non vi è u n a condizione di p re sen te eh s o rg a dal nulla o che to rn i nel n u lla, m a un futuro che fa p re s e n te od un p re s e n te che si fa passato. Circa pòi all’ obbiezione c h e , affinchè il m anifestato nella condizione di futuro passi alla condizione di pre sente, è p u r necessaria u n ’a l t r a m anifestazione, e dovendo anc h e q u esta sussistere g ià nella condizione di fu tu ro , è n ecessaria u na terz a e cosi via all’ infinito, noi rispondiam o che ciò non ci im p o rta nulla, non vedendo noi nulla d ’ illogico nell’a m m e tte re una serie infinita di m anifestazioni che si producono ista n ta n e a m e n te a ll’a tto della produzione. E d ’altro n d e la s te ss a obbiezione p o treb b e essere r ito r ta con tro di voi (o Naiyayikas); perchè ciò che p e r noi è la m anifestazione è p e r voi la produzione (di alcun ché finora non to talm e n te esistente); e come voi p e r sem plicità non a m m e tte te una produzione della p ro du zione e così v ia , così noi p e r sem plicità possiam o a s su m ere u n a m anifestazione sola. (S. pr. bh. 137 - 139, K aum . 45 - 49). N o ta. Posto che ogni prodotto passa per i tre stati di futuro, presente, passato, ne viene che poiché un prodotto è uscito dall'esistenza attuale, esso non vi rientrerà più mai. Il presente é come un breve spazio che ha prima di sé l’infinità del futuro, dopo di sé l’ infinità del passato. Esso vi rientra, é vero, sotto altre forme, in altri aspetti; p. es. « quando un filo scompare si cambia in terra, la terra in pianta di cotone, questa in fiorie frutti e poi nuovamente in filo ». (Anir. 60); ma l’ individualità perduta è una forma scomparsa per sempre ed anche sotto le identiche apparenze rinnovantisi continuamente si celano prodotti sempre diversi. (S. pr. bh. 135). N o ta 2 u Come quarta prova dell’ esistenza dei prodotti nei tre tempi, Vijnana adduce il fatto della percezione sovrannaturale, che sarebbe in caso diverso inspiegabile. Ogni percezione deve avere un oggetto reale; che dal resto se una percezione potesse sussistere senza un oggetto reale, perche non potrebbe anche essere ciò nel caso della percezione ordinaria? Poiché adunque la percezione (almeno fino a prova contraria) prova l’esistenza del l’oggetto percepito, la percezione soprannaturale prova l’esistenza del prodotto nel passato e nel futuro. E che gli asceti percepiscano realmente il passato ed il futuro si prova in mille modi per mezzo delle Scritture, della Tradi zione, delle leggende, etc. (S. pr. bh. 135-136).
41 Dopo d ’a v e r p ro v a to che gli esseri non han n o u na re a ltà eflm e ra , nè sorgono dal n u lla, m a h an n o la loro radice in qualche cosa di e t e r n o , r e s ta a ved ere in che cosa questo consista. È esso u n a so stan za unica d a cui tu tte le cose im m e d ia tam en te procedono, od è u n a p lu ralità di principii? E nel secondo caso sono questi fra di loro isolati ed indipendenti, o m u tu a m e n te connessi e dipendenti d a un p rin cipio unico suprem o? Q uest’ ultim a soluzione è quella a cui il S a n k h y a s ’appiglia. Secondo esso tu tte le manifestazioni così del mondo este rio re com e del s o g g e tto em pirico si pos sono rico n d u rre ad un d e te rm in a to n u m ero di principii; e questi stessi a lla lor volta procedono, m é d ia ta m e n te o im m e d ia ta m e n te , d a un principio suprem o unico che deve essere co n siderato come l’e t e r n a s o rg e n te di tu tti gli esseri finiti. 11 criterio di cui il S a n k h y a si vale p er risalire dai sin goli esseri ai loro principii e d a questi alla loro c a u s a p rim a ci è riferito nel distico 15° della K a rik a ed è in p e rfetta connessione con q u an to precede. Già si è veduto infatti che il S a n k h y a in seg n a l’id en tità fondam entale dell’effetto con la s u a c a u sa m a teria le o, ciò che to r n a lo s te s so , dei p ro dotti coi principii d a cui procedono. L ’ individuazione dell’ ef fetto consiste nelle determ inazioni (di luogo e di tem po etc.) e specificazioni (nella fo r m a , nell’ azione etc.) che limitano la causa. Ciò che è al diso p ra degli esseri p a rtic o la ri non è quindi la form a (che è co n sid e ra ta come alcunché di essen zialm ente vario e variabile), m a l a s o s t a n z a , il s u b s tra to ind istin to , nel quale sono co n ten u te in uno stato di omo g e n e ità indistinta la loro s o s ta n z a , la loro f o r z a , le loro q u alità essenziali. Ogni c a te g o ria d ’ esseri p re su p p o n e perciò u n a so stan za in distinta dalla q uale è s o r ta p er distinzione l’ indefinita v a rie tà dei singoli e nella qu ale essi d o v ra n n o un giorno ridissolversi; ed alla lor volta tu tte queste varie sostanze o principii, com unque fra di loro connessi, in q u an to sono a n c o ra alcunché di re la tiv a m e n te d i s t i n t o , p re s u p p o n gono n e c essaria m e n te alcunché di essenzialm ente indistinto che deve esse re considerato come il principio ultimo delle cose.
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Il distico 15° della K arika scinde questa argomentazione nei quattro punti seguenti: 1° Tutto ciò che è determinato e distinto presuppone sempre una causa relativamente ad esso indeterminata ed indistinta dalla quale s’isola all’atto della produzione e nella quale all’epoca della distruzione si ridissolve completamente. Un vaso d’a rgilla, p. es. come forma determ inata e distinta presuppone di necessità una causa materiale che lo costituisca e che si considera relativamente ad esso come un indistinto; ed è l’argilla informe; perchè la produzione del vaso non è altro che l’isolarsi di esso come distinto dall’argilla indi stinta. E così dicasi d’ogni altra forma determ inata e distinta; la quale presuppone sempre la separazione di sè stessa da alcunché di indeterminato ed indistinto. Allo stesso modo quindi possiamo dire che la te rra e gli altri elementi gros solani, come prodotti distinti, presuppongono come loro causa alcunché di indistinto relativamente ad essi; che sono ap punto gli elementi sottili; questi alla lor volta, come distinti, presuppongono un indistinto immediatamente superiore, che è la Personalità; e così via. È dunque necessario che la causa ultima alla quale ci arrestiam o sia alcunché di essen zialmente indistinto, perchè se essa fosse ancora un distinto, per ciò medesimo dimostrerebbe d’essere un prodotto e ci costringerebbe ad am m ettere un’altra causa immediatamente superiore, indistinta, che sarebbe essa stessa la causa ultima. Allo stesso risultato possiamo giungere considerando il pro cesso inverso. Un vaso d’ argilla presuppone un indistinto anteriore non solamente perchè come forma distinta ha do vuto sorgere da un indistinto, ma anche perchè deve ritornare nel medesimo. Ogni cosa determ inata per ciò appunto che è determinata è destinata a perire, a rientrare nell’esistenza indistinta. Così noi sappiamo che la terra e gli altri ele menti grossolani rientreranno un giorno negli elementi sottili, che sono relativamente ad essi l’ indistinto immediatamente superiore, gli elementi sottili rientreranno nella Personalità etc. Anche a questo modo adunque si vede che se la causa ultima non fosse alcunché di sommamente indistinto dovrebbe
43 un giorno risolversi in alcunché di più indistinto, nel qual caso questo o sarebbe esso stesso l’ indistinto supremo ed allora sarebbe la causa ultima, o non sarebbe tale ed allora ne presupporrebbe un altro e così via indefinitamente. (Kaum. 58 - 59). 2° L’energia o la forza di tutto ciò che è distinto è sempre contenuta in alcunché che differisce dalla cosa stessa e contiene questa energia medesima allo stato d’ indistinto. Cosi la forza con cui una catena tiene un elefante è già contenuto nel ferro di cui è fatta. Ogni prodotto distinto agisce in virtù d’ una forza sua speciale. Ma noi vediamo che questa forza speciale non è altro che la specificazione d’ un’ energia indistinta la quale è contenuta in alcunché di relativamente indistinto. « La forza risiedente (allo stato latente) nella causa non è che la giacenza del prodotto nello stato indistinto » (Kaum. 59). Quindi la causa ultima d’ogni prodotto esclude ogni determinazione ed ogni distinzione nel suo a g ire ; ossia deve essere l’indeterminato per eccel lenza. 3° Tutto ciò che è spazialmente limitato procede sempre da una causa materiale che è relativamente ad esso meno distinta e meno limitata. Quindi la causa suprema deve essere sommamente indistinta e ad un tempo illimitata. (Kaum. 59-60). 4° L’ ultimo punto infine si riferisce alla om ogeneità, alla comune na tu ra delle cose. Osservando i distinti il cui complesso costituisce l’ universo, noi riscontriamo che cia scuno di essi possiede alcune proprietà, le quali sono con esso congiunte essenzialmente e sono comuni anche ad altri distinti. Ora tutte quelle cose le quali hanno il comune ca rattere d’essere inseparabilmente connesse con certe qualità hanno per causa comune alcunché d’indistiuto (relativa mente ad esse) di cui le dette qualità costituiscono l’essenza. (Kaum. 60). Questa osservazione si applica anche alla causa suprem a; perchè, come vedremo, in tutte le cose più o meno distinte noi riscontriamo alcuni caratteri comuni (i tre gunas); dal che ci è forza concludere che tutte le cose hanno una
causa comune la cui essenza è costituita dai tre caratteri fondamentali suddetti. Questa causa è l’ indistinto suprem o, che il Sankhya chiama col nome di P r a l c r i t i (o Pradhanam) e noi diremo N a t u r a . Come il nome stesso indica, essa è ciò che pree siste alla creazione; ossia è l’ indeterminatezza prima la quale produce dal proprio seno la molteplicità delle esistenze finite e periture e nella quale le medesime si ridissolvono nuovamente all’ epoca della dissoluzione finale. Essa è la causa materiale (upadanakaranam), il substrato di tutte le cose, e come s o s t a n z a , e come f o r z a . Ciò che la induce ad a g ire , ad evolversi sono, come vedremo, l’ ignoranza (come causa efficiente generale) ed il merito (come causa specificante); ma nè l’ ignoranza, nè il merito aggiungono qualche cosa all’attività s u a , poiché essa è per sè essen zialmente a ttiv a , ossia è ad un tempo sostanza e forza. (S. pr. bh. 234; Y ogasutra IV 3; v. anche Refut. 39). Essa è u n i v e r s a l e ed e t e r n a , perchè è il substrato di tutte le cose; i m m o b i l e perchè sebbene sia attiva e capace d’uno sviluppo interno non cam bia, nè potrebbe cambiare di posto ; p e r s è e s i s t e n t e ed i n d i p e n d e n t e perchè la sua esistenza non dipende da alcunché d’altro e ciò che essa ha ha da sè stessa; ed infine supremamente i n d e t e r m i n a t a perchè non essendo sorta per distinzione da alcun’altra causa non presenta alcun carattere particolare che sia la specializzazione d’un carattere più generale ap partenente ad una causa superiore. (Karika 10). I nostri sensi che percepiscono a mala pena le forme più grossolane in cui la Prakriti si manifesta non arrivano a percepirla direttamente perchè essa è alcunché di sovrasensibile, o, come la K arika si esprime, a causa dell’e strem a sua finezza-(Kar. 8; S. Sutra I 109). Ma la sua esistenza ci è provata per induzione da quella dei suoi prodotti. (S. Sutra I 110). La sua essenza ci è rivelata in egual modo dall’esame
45 dei singoli esseri che ne sono la manifestazione. « Noi sap piamo dall’esperienza, dice il K aum udi, che le stesse qualità essenziali le quali appartengono ai prodotti appartengono all’essenza della causa ». Ora noi rivolgendo il nostro sguardo al mondo sensibile vediamo che tutti gli oggetti si ra g g ru p pano sotto le categorie supreme di oggetti piacevoli, dolorosi, indifferenti. Da questo noi dobbiamo concludere che la loro causa, cioè la N a tu ra , deve possedere le essenziali qualità del piacere, del dolore e della indifferenza, ossia (in virtù del principio di identificazione d’ una qualità essenziale col suo substrato materiale), deve constare di tre fondamentali constituenti che portano in sè l’ essenza del piacere, del dolore e dell’indifferenza. (Kaum. 43, 58; S. pr. bh. 64, 83, 149; S arvadar^anasangraha 226-227). Questi tre elementi fondamentali, piacere (sattva), dolore (rajas), e indifferenza (tamas) sono detti g u n a s . La parola « guna » si usa ordinariamente nel senso di qualità. Ma conviene guardarsi bene dal considerare i tre gunas come tre attributi o tre qualità della Natura. Essi debbono essere riguardati come tre costituenti sostanziali della medesima; i quali si manifestano bensì a noi con le qualità del piacere, del dolore e dell’ indifferenza, ma che non perciò cessano d’essere sostanze (S. pr. bh. 70, 144; Wilson 52-53). Infatti essi hanno la facoltà di separarsi e di unirsi e posseggono le qualità della leggerezza, mobilità, etc. (S. pr. bh. 70); mentre si sa che solo una sostanza può essere dotata di qualità e che non si danno qualità di qualità (Refut. 43). Onde nei Sankhya Sutra (VI 39) è detto: « Il sattva etc. (i tre costituenti) non sono qualità della Natura perchè essi la costituiscono essenzialmente ». Nè l’essere la natura costituita dai tre gunas contrad dice alla sua unità; perchè ciascuno di questi tre gunas è omnipresente nel senso che non vi è punto dello spazio in cui non si trovino riuniti (sebbene in varia proporzione) tutti e tre i medesimi (S. pr. bh. 144 ; si confr. la nota del Garbe ib. 147): per modo che i tre costituenti non sono da conce pirsi come tre parti o tre elementi della N atura spazialmente
46 limitati e limitantisi a vicenda, ma sibbene come tre essenze omnipresenti dalla cui intima unione risulta un essere unico. Così, dice G audapada, il Gange riunisce in un fiume solo le tre correnti che scendono dal capo di Rudra (Gaud. 63). « E così (per riferire un ingegnoso paragone del Davies) noi percepiamo la luce come una sostanza semplice ed incolora, sebbene sia formata dall’ intima unione di raggi colorati la cui individualità si perde o rimane indistinta in ciò che noi diciamo luce » (Davies 37). Il sattva è luminoso e lieve (Kar. 13); esso è il substrato di tutto ciò che è buono, bello, lieto, perfetto; alleggerisce ed illumina le cose ed è causa del loro perfetto funziona mento; nei sensi e nella mente è ciò che rende possibile la conoscenza. Il rajas (dolore, passione) è l’elemento attivo, eccitante; esso è il substrato di tutto ciò che è azione, mobilità, dolore; sta come un medio fra il sattva ed il tam as ed eccita gli altri due costituenti, per sè inerti, all’azione. Il tam as infine è l’elemento più grossolano ed ottuso; esso è il substrato di tutto ciò che è immobile, tenebroso, sonnolento, torpido, abbietto; ottenebra le menti, ritarda il moto; induce dappertutto insensibilità ed inerzia (Kaum. 55 Gaud. 5 4 - 5 6 ; cfr. la Maitr. Up. Ili 5). Il Markus (Die Yoga Philos. 21 -22) così ne descrive la n a tu ra : « La prima delle tre essenze è il s a tt v a , cioè l’ es senza xar’eSo^v, il vero e proprio essere. La parola sattva viene generalm ente tra d o tta con « bontà ». E veramente esso è l’incorporazione, la sostanza della bontà, della verità, della perfezione, dell’ elevazione morale ed intellettuale. Sereno e radioso, esso è ciò che vi ha di più divino nel mondo della m a t e r i a ;... perciò è nel mondo celeste in decisa pre valenza. Da esso sono la fortuna e la beatitudine; quindi anche la felicità dell’ amore e la sensibilità per la bellezza e la grazia. Esso è in generale l’ elemento ideale, luminoso; dà all’occhio lo splendore, al linguaggio l’ intelligibilità; e come specchio dell’anim a rende possibili la conoscenza e
47 l’agire cosciente. Il suo splendore e la sua purezza non hanno nulla di comune con quella del sole; poiché esso è alcunché di ben più elevato e più nobile che la luce ele m entare o fìsica dalla quale viene espressamente distinto. P er ultimo s’aggiunga ancora l’alta quiete ed indifferenza in cui esso tende a perm anere; quiete ed indifferenza per le quali è reso possibile al saggio ed al pio giungere ai limini della liberazione La seconda delle essenze è il ra ja s , ossia l’ eccita zione, l’ impulso, la passione. In luogo di a lta quiete e serenità divina noi troviamo qui un essere eccitato ed in stabile, un co rre re , un precipitarsi, un agitarsi impaziente e senza posa; in luogo di celeste arm onia divisione e disu nione; in luogo della stretta affinità ed elezione per ciò che conduce e coopera al supremo ed ultimo fine dell’ esistenza la tendenza a m andar tutto ciò in rovina; invece di bea titudine tormentoso e cocente dolore o quanto meno affli zione, in breve miserie e contrarietà d’ogni specie; in vece della felicità dell’amore gli affanni del medesimo e la gelosia. Così è il rajas l’attaccam ento al m ondo, il motivo impellente di ogni vivere e di ogni naturale a g ir e , la potente leva dell’ universa miseria del mondo. — La terza essenza, il ta m a s, è il contrario dei due precedenti. Esso significa pro priamente l’oscurità, le tenebre. E tenebre e cecità esso è in tutti i sensi nei quali abbiamo chiamato luminoso il sattva; quindi specialmente significa oscuramento spirituale, acciecam ento, traviam ento, confusione, follìa; l’ impotenza della distinzione fra dovere e pe c ca to , fra beatitudine e miseria. Alla nobile e divina quiete, all’ eccelsa fermezza del sattva esso si oppone come mollezza ed indolenza; e al rajas come immobilità, impedimento, schiavitù. Il sonno porta l’ impronta di amendue questi caratteri ad un tempo. Così è il tam as di c a ra tte re prevalentemente negativo; ed anche i rari tratti positivi sono, per così dire, d’ un carattere nihilistico che si manifesta in quanto ciò che al naturale giudizio appare come desiderabile e pregevole vien fatto oggetto d’ orrore e di cieco fu ro re , non per convinzione e
saggio scelta del meglio (le quali debbono anch’esse certa mente condurre al rinunciamento a tutti i beni terreni), ma puram ente per cieco fanatismo >. I tre costituenti hanno la proprietà di dominarsi mu tuamente: quando il sattva prevale agli altri due esso impone a questi le sue qualità e si manifesta come gioia e come luce; e così quando prevale il rajas esso s ’impone agli altri due manifestandosi con l’attività e col dolore; e quando il tam as trionfa esso maschera le proprietà degli altri due con la propria inerzia ed insensibilità. Nello stesso tempo anche essi si completano ossia si sostengono a vicenda: si sosti tuiscono l’ uno all’altro si che sembra che si trasmutino l’uno nell’altro; ed essendo omnipresenti permangono sempre fra loro inseparabilmente connessi (Kaum. 54). Sebbene di n a tu ra opposta fra loro nell’ agire essi combinano la loro azione sì da produrre un determinato effetto; come per esempio fanno l’olio e lo stoppino che, pur essendo avversi al fuoco, nondimeno quando, uniti as sieme, entrano con esso in connessione producono nella lam pada la luce; o come i tre um ori, bilioso, ventoso e flemmatico i quali si avversano mutuamente e producono m alattie se l’ uno prevale sull’a l t r o , ma c h e , equilibratamente uniti, sostengono la nostra vita organica (Kaum. 55 - 56). Ma anche nel cooperare ad un fine comune l’ azione loro varia continuam ente, sì che un istante prevale il sattva ed allora gli oggetti in cui ciò avviene ci sono fonte di gioia; in un altro istante prevalgono il rajas od il tam as ed allora la gioia si trasm uta per noi in dolore, in ecci tam e n to , in abbiezione, in insensibilità. Così una bella donna che è per chi la possiede fonte di piacere può essere causa di dolore alle cuncubine di suo marito e causa di abbiezione al dissoluto che inutilmente la desidera. E perchè mai ciò? Perchè nel primo momento prevale in essa la natura del s a ttv a , nel secondo la na tu ra del ra ja s , nel terzo la natura del tam as (Gaud. 50; Kaum. 56).
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49 Del resto la loro azione varia può esplicarsi anche in un solo e medesimo istante; perchè nonostante che nella loro riunione l’ intensità di ciascuno varii rapidissimamente ed ora prevalga l’ uno, ora l’altro, tuttavia l’azione del guna prevalente non distrugge per ciò quella degli altri due, la quale può medesimamente, quando l’ oggetto ci si presenti piuttosto sotto certi aspetti che sotto certi a ltri, farcisi sentire a preferenza di quella del primo guna. Così è per es. che le nubi nelle quali la oscura natura del tam as prevale possono coprendo i cieli rallegrare la terra riarsa dal sole ed anim are con la pioggia il solerte lavoro dei contadini (Gaud. 50). Dal loro stato di equilibrio perfetto risulta la Natura nella sua fase di indistinto (periodo della dissoluzione uni versale). In questo stato i tre gunas si trovano dappertutto in una combinazione perfettamente uniforme ed equilibrata; in nessun luogo prevale l’uno o l’a ltro ; e sebbene essi siano per loro n a tu ra mobilissimi, in nessun luogo questa loro perfetta uniformità si altera perchè le loro proporzioni non si m utano: il sa ttv a si sostituisce sempre al s a ttv a , il rajas al ra ja s , il tam as al tamas. Dalla rottura invece di questo equilibrio risulta la crea zione. Nella creazione la costituzione perfettamente uniforme si a lte ra ; si formano come dei punti di concentramento di ciascuno dei tre elementi i quali si combinano in propor zione varia sottentrando l’ uno all’altro e sopraffacendosi a vicenda l’ un l’a ltro; e così dalla varietà delle loro combi nazioni risulta la varietà del mondo sensibile. Come l’ acqua caduta dalle nubi, dice V acaspati, che ha un gusto solo, quando cade su questo o su quel punto del terreno si modifica così che essa prende il gusto della noce di cocco, del vino di palma, del « bel » etc. e diventa qui dolce, là acida, amaro, astringente, etc., così in virtù delle differenti combinazioni dei tre costituenti nei varii punti dello spazio la N atura originariam ente omogenea dà origine alle forme indefini tam ente varie dell’ esistenza (Kaum. 6 0 - 6 1 ; S. Sutra VI 42; S. pr. bh. 352). i
50 N o t a . La teoria Vedantica della causa m ateriale è rigettata nel Sutra V 65: « Nè l ’ Anim a, nè l’ ignoranza, nè amendue (possono essere) la causa materiale del mondo per via della im m utabilità (dell'Anim a). Anzitutto il Sankhya esclude in modo assoluto che il mondo si possa concepire come una manifestazione dello Spirito. « L’ opinione Vedantica che l ’ intelligente Brahma sia la causa m ateriale del mondo è insostenibile perchè il prodotto sarebbe in questo caso d’un carattere affatto differente dalla causa. Perché questo mondo che dal Vedanta è considerato come il prodotto di Brahma è percepito come non intelligente ed im puro, per conseguenza d 'un carattere diverso da Brahma. Brahma alla sua volta è dichiarato dalle S. Scritture essere d’ un carattere diverso dal m ondo, cioè intelligente e puro. Ma cose d’ un carattere affatto differente non possono stare fra loro nel rapporto di causa materiale e di prodotto. Prodotti come p. es. gioielli d’ oro non possono aver per causa materiale l ’argilla; nè l ’oro può essere causa materiale di vasi d’argilla; ma i prodotti di natura sim ile all’ argilla originano dall’argilla; i prodotti di natura sim ile all'oro dall’ oro. N ello stesso modo questo mondo che è non intelligen te e comprende in se piacere, dolore ed indifferenza può essere uni camente il prodotto d’ una causa essa stessa non intelligente e composta di piacere, dolore ed indifferenza ; ma non di Brahma che è di un carattere af fatto diverso........ Questo mondo non può quindi avere per causa materiale Brahma ». (Comment. di Qankara ai Ved: Sutra li 1 , 4. Thibaut I 3 0 0 -3 0 2 ; cfr. anche Sarvadar?. 226). E tutti quei passi delle Scritture, Vijnana ag giun ge, nei quali la produzione delle cose viene attribuita all’Anima non hanno altro fine che la glorificazione dell'A nim a stessa , ma non debbono essere presi alla lette ra , perchè altrim enti sarebbero in contraddizione con altri nei quali l’im m aterialità e l ’im m utabilità dell’Anima sono espressamente insegnate. (S. pr. bh. 91 - 9 2 , 348). Resterebbe che causa m ateriale delle cose fosse l’ignoranza. Ma o essa è irreale, e non può in tal caso essere causa m ateriale di ciò che secondo noi e reale; od è reale, ed allora o è una qualità, o una sostanza. Se è una qualità, come può una qualità essere causa materiale d’ alcunché? Ed inoltre, poiché l’Anima non ha qualità ed é im m utabile, a chi appartiene? Se è una sostanza, allora non differisce dalla N atura, ma ciò è in contraddizione con la dottrina vedantica dell'essere unico. In ogni caso quindi la teoria vedan tica relativa alla causa m ateriale è da rigettarsi. (S. pr. bh. 298 - 299).
I principii em anati nei quali si distingue l’ omogenea indeterminatezza della N atura ed il cui insieme costituisce il mondo empirico sono in numero di ventitré e l’ordine nel quale essi si producono è il seguente: dalla Natura emana l’ intelligenza; dall’intelligenza la Personalità; da questa per un lato il manas ed i dieci organi di senso e
51 d'azione; per l’altro i cinque elementi sottili dai quali proce dono in ultimo i cinque elementi grossolani. Questi principii sono prodotti ; p a s se g g ie ri, perchè seb bene l’essenza loro sia e te rn a , essi nella loro forma di prodotti avendo avuto un principio sono pur destinati ad avere una fine; limitati perchè nessuno di essi è presente in tutti i punti dello Spazio; mobili perchè sotto le molte plici loro forme m igrano, passano continuamente da un luogo all’a ltro ; molteplici perchè diversi gli uni dagli altri; relativi perchè esistono solo in grazia dell’esistenza della causa; distintivi perchè essi sono come i segni, le forme che modificano in una varietà indefinita di esistenze la sostanza unica ed omogenea della N a tu ra ; mutuamente con nessi perchè sono in relazione continua fra di loro; ed in ultimo dipendenti perchè le loro proprietà e la loro attività dipendono interamente dalle proprietà e dall’attività della N atura che in essi si specifica (Kar. 10). Il primo dei prodotti della N a tu ra , l’ i n t e l l i g e n z a , è quella sostanza od essenza la cui funzione particolare è la determinazione distinta, la comprensione delle cose. Come prodotto della N atura essa è naturalm ente non spirituale ossia inconscia, ma non deve essere considerata come al cunché di materiale nel vero senso della parola. Essa può in certo modo essere considerata come il Pensiero inconscio che il Sankhya pone come fondamento non solamente del l’essere nostro, ma di tutto gli esseri corporei ed incorporei del moudo empirico. 11 nome con cui il Sankhya la designa è quello di Buddhi (intelligenza); e di Mahat (il g r a n d e ) , perchè essa è il primo ed il più importante dei prodotti della Natura. Dall’ intelligenza procede l a P e r s o n a l i t à (ahamkara). Essa è al pari della Intelligenza una sostanza, un principio la cui funzione si manifesta nel sentimento dell’ io. Per mezzo suo l’ individuo pensa e pone sè stesso non generi cam ente, ma in questo o quel modo, con certi determinati attributi che ne costituiscono l’ individualità. In un sogno
52 quando una persona pensa sè stessa come una tig r e , non è presente allora ad essa il concetto che essa è un uomo; questo porre sè stesso come questo o quel determinato essere è appunto la funzione della Personalità (Kusumanjali tr. Cowell p. 17); la quale è , come l’intelligenza un principio inconscio il quale ci si rivela, alla luce dell’a n im a , nella coscienza della nostra individualità. « A ham kara è il con cetto che io sento, io odo, io vedo, io son ricco, io son dio e si mili * (Ballant, p. 9). L’a ham kara dà origine a due serie di produzioni secondo che è affetto dal sattva o dal tamas. In quanto prevale in esso la luminosa n a tu ra del s a ttv a , dal suo seno scaturi scono le sostanze che sono gli strum enti della conoscenza, ossia gli undici organi di senso e d’azione; in quanto vi prevale la tenebrosa na tu ra del tam as da esso procedono le sostanze materiali (in 1. s.), insensibili, ossia i cinque ele menti sottili. 11 rajas non causa direttamente la produzione di alcunché; ma la sua presenza è richiesta per ambo le produzioni; chè il sattva ed il tam as sono per sè inattivi e non produrrebbero nulla se il rajas con la sua attività non li mettesse in movimento eccitandoli alla produzione (Gaud. 93; Kaum. 7 1 - 7 2 ; Sarvadanj. 222; cfr. Hall Intr. to thè Sankhya Sara 35). N o t a . Vijnana interpreta invece il sutra l i 18 nel senso che dall'ahamkara modificato dal sattva procedo il solo manas, laddove gli altri dieci organi procederebbero dall’ahamkara modificato dal rajas (S. pr. bh. 188-189). È una differenza, come si vede, di poco momento.
Gli organi di senso e d’azione che in numero di undici emanano dalla Personalità sono i cinque organi di senso, i cinque organi d’azione ed il manas. I cinque organi di senso sono l’ organo dell’ udito, del t a t to , della vista, del gusto, dell’odorato. I cinque organi d’azione sono l’organo della voce, le mani, i piedi, l’ apparato escretore e l’ appa rato generatore (S. S. II 12; Kar. 26). Il nome comune usato a designare i predetti organi è « indriya » (facoltà). Con viene avvertire di non cader nell’ errore di considerare questi dieci organi come una cosa sola con gli strumenti
53 materiali del senso e dell’azione, per es. gli occhi etc., che appartengono al corpo materiale composto degli elementi grossolani. Essi sono altrettante sostanze o principii sovrasensibili, dotati della facoltà di funzionare in un dato modo. « Il senso (è detto nel s. II 23) è alcunché di soprasensibile e sono in errore coloro che considerano come identici l’or gano e la sua sede ». Gli occhi, le orecchie etc. non sono che la sede materiale dell’organo della visione dell’audizione etc.; e la visione, l’audizione etc. avvengono propriamente nel rispettivo organo sovrasensibile il quale è la sostanza che sottosta, come causa materiale, a tutti i singoli fenomeni di visione, di audizione etc. Il m a n a s , il senso interno dei Buddisti, è l’organo la cui funzione si manifesta nell’attività interiore (ma sempre inconscia) del nostro io. Esso è ad un tempo organo di senso e organo d’azione, e nel suo agire s’ identifica in certo modo con ciascuno degli altri dieci o rg a n i, pur restando uno in sè stesso (S. pr. bh. 193); perchè sì gli organi di senso come quelli d’ azione non agiscono in relazione ai loro oggetti se non subordinatam ente al manas. In unione con l’intelligenza (la facoltà generica di apprendere le cose) e la Personalità (il sentimento dell’io) esso costituisce l ’ o r g a n o i n t e r n o , che è come il centro (inconscio) della vita interiore e della vita o rg an ic a, la sede materiale del l’anim a empirica. Di esso si tra tte rà discorrendo della co stituzione dei singoli esseri. Dall’a h a m k a ra modificato dal sattva hanno origine i principii della soggettività; dall’ a h a m k a ra modificato dal tam as hanno origine i principii che costituiscono il mondo empirico obbiettivo, ossia i cinque elementi sottili dai quali derivano successivamente i cinque elementi grossolani. I cinque elementi grossolani sono l’etere, l’a r i a , la luce, l’ac q u a, la t e r r a ; che sono gli elementi materiali nel vero senso della parola, ossia percepibili sensibilmente (S. pr. bh. 74). Perciò appunto essi presuppongono l’ esistenza degli elementi sottili. Ogni p a r te , anche la più m inuta, degli
54 elementi materiali non cessa d’essere alcunché di m ateriale, ossia percepibile dai sensi esterni; e quindi capace di risve gliare per mezzo di questi un’ indefinita varietà di sensa zioni piacevoli, dolorose, indifferenti. A questa varietà deve sottostare come causa materiale un’unità indistinta; che deve quindi essere alcunché di sottile (S. pr. bh. 76); vale a dire alcunché di soprasensibile (S. pr. bh. 128). In correlazione alle cinque categorie di impressioni (corrispondenti ai cinque sensi esterni) devono quindi esistere cinque principii nei quali cia scuna di esse si trova nello stato di indistinzione; e sono gli elementi del suono, del colore, della tangibilità, del sapore e dell’odore. L’elemento del suono possiede la qualità del suono in astratto, ma non i differenti suoni possibili che noi udiamo; l’ elemento del colore possiede la qualità del colore in astratto, ma non i differenti colori che noi vediamo e che facendo impressione sul nostro senso destano in noi sensa zioni piacevoli, dolorose o indifferenti; e così dicasi degli altri, ciascuno dei quali possiede la sua qualità caratteristica, ma nella sua omogeneità e purezza; onde il loro nome di ta n m a tra (id solum) (Kaum. 82). Anch’essi constano, come ogni altro prodotto della N a tu ra , dei tre costituenti, ma siccome non possono entrare in contatto con gli organi corporei così non possono causare alcuna sensazione, lad dove gli elementi grossolani possono essere percepiti dai sensi in quanto in essi i tre elementi fondamentali si di stingono e si specificano nella varietà delle impressioni. P e r questo la K arika 38 chiama gli elementi sottili le so stanze indistinte (S. pr. bh. 74 - 85, 206; Gaud. 120; Garbe 236-237). Dagli elementi sottili procedono i cinque elementi gros solani; nei quali gli effetti del s a ttv a , del rajas e del tam as sono percepibili perchè distinti. Pel sopravvento del sattva sono sereni, piacevoli, luminosi, leggieri; pel sopravvento del rajas sono paurosi, dolorosi, instabili, attivi; pel soprav vento del tam as sono insensibili, oscuri, stupidi, pesanti (S. S. Ili 1, S. pr. bh. 206; Kam. 83). L ’ordine secondo il quale essi procedono dagli elementi
55 sottili è il seguente: dall’ elemento del suono procede l’etere, la cui proprietà caratteristica è il suono; dalla combinazione dell’ elemento del suono con l’ elemento della tangibilità procede l’ a r ia , le cui proprietà caratteristiche sono il suono e la tangibilità; dalla combinazione degli elementi del suono e della tangibilità con l’ elemento del colore procede la luce, le cui proprietà caratteristiche sono il suono, la tangibilità ed il colore; e così progressivam ente per l’acqua ed il sapore, la terra e l’ odore (Kaum. 68; si confr. Manu I 20). L’etere (akaga) è ciò che da luogo, ciò che contiene le cose, quindi lo s p a z i o i n g e n e r a l e ; perchè secondo il Sankhya anche lo spazio è oggetto di percezione e quindi m ateriale (Anir. 238). In quanto poi esso è specificato e de term inato in questo o quel modo esso è chiamato s p a z i o o t e m p o (Anir. 96). N o t a . Conformemente alla teoria Yaigeshika, secondo la quale il tempo e lo spazio sono due sostanze uniche, eterne ed infinite, le quali vengono lim itate e determinate per via di connessione con gli accidenti m ateriali, Vijnana sembra far distinzione fra il tempo e lo spazio puri, eterni, infi niti ed u n ici, concepiti come qualità dell’ etere puro, ed il tempo e lo spazio lim itati, i quali non sarebbero che due qualità dell’ etere specializzato per effetto della connessione con gli aggregati materiali (S. pr. bh. 185). Sembra però che la vera dottrina del Sankhya sia quella superiormente esposta; secondo la quale accanto all’ etere (concepito come lo spazio puro) non esistono altri menti un tempo ed uno spazio puro come qualità di esso; sibbene solamente questo o quello spazio (fisico), questo o quel tem po, i quali non sono altro che l’etere stesso in quanto determinato dagli accidenti materiali. 11 tempo (dice Vacaspati) ha presente, passalo ed avvenire; ma queste tre rappresentazioni non possono in alcun modo venir spiegate dal tempo puro quale è ammesso dai Vaigeshikas perchè esso è unico; e tanto è vero ciò che essi ricorrono per spiegarle alla connessione del tempo puro con gli upadhis (aggregati mate riali la cui connessione non è essenziale). A che dunque il tempo puro? A noi basta considerare il tempo come attributo di questi stessi upadhis, risul tante dall’ordine che vi è tra e ssi, attributo m olteplice ed inerente a ciascuno di essi; e non abbiamo punto bisogno d’ un preteso tempo puro. (Kaum. 7 8 -7 9 ). N o t a 2 :i. È noto come i Vaigeshikas asseriscano essere le sostanze materiali composte di atom i, ossia di parti infinitamente piccole ed eterne dalla cui aggregazione risulterebbero i corpi. Questa teoria è combattuta nei sutra V 87 - 88. La tradizione (Manu I 27), ivi è detto, e la ragione convengono
«
n ell’ asserire che la materia è un prodotto. Ora è un assioma noto che ciò che è prodotto è perituro; quindi gli atomi non sono eterni nè a parte ante nè a parte post (S. pr. hh. 308). Di più essendo prodotti, non possono per conseguenza nemmeno essere senza parti, cioè infinitamente piccoli (S. pr. bh. 308 - 309).
Con la teoria degli elementi si chiude l’ esposizione dei principii cosmologici del Sankhya. Considerando ora questa dottrina nel suo complesso, è impossibile non riconoscere che essa ha in sè qualche cosa di incompleto e di oscuro; e che è difficile, considerando nudamente i dati precedenti, formarsi una concezione c h ia ra , s e n sa ta , razionale dell’es senza e dell’ origine delle cose. Prim a di procedere innanzi ci incombe quindi l’ obbligo di com pletare, se è possibile, la nostra esposizione, ricercando quale sia il senso più in telligibile e più logico che queste teorie in sè racchiudono; e di chiederci: Che cosa intende in Sankhya col far derivare il mondo dalla N atura per mezzo dell’intelligenza e della Personalità, e col porre la medesima come costituita di piacere, dolore ed indifferenza? Ci troviamo noi dinanzi ad una concezione realistica od idealistica? La prima di queste interpretazioni ha certam ente in suo favore l’autorità dei commentatori indiani, la cui esposi zione dà a queste dottrine un aspetto decisamente reali stico. La Natura, l’intelligenza e la Personalità sono concepite come veri esseri cosmici esteriori alla coscienza, come sarebbe nel caso degli atomi dei Vaigeshikas; l’evoluzione dei principii dalla N atura come un processo cosmico indipendente dal soggetto empirico: l’ intelligenza e la personalità individuali non esistono che come parti dell’ intelligenza e della Perso nalità cosmica (S. pr. bh. 80-81). Allo stesso modo i tre gunas sono pensati come alcunché di realmente esterno alla coscienza e diverso dal piacere, dolore ed indifferenza della sensazione (S. pr. bh. 8 3 - 8 4 ) . Gli autori recenti si atten gono per la m aggior parte fedelmente a questa interpreta zione; così anche il Garbe il quale afferma risolutamente il carattere realistico, quasi materialistico del Sankhya (o. c. 197-198).
57 Occorre però osservare che l’ interpretazione del nostro sistema non deve in nessun modo essere cercata nei com m entatori indiani. La loro esposizione dà a vedere chiara mente che il Sankhya all’età loro aveva già da lungo tempo cessato d’essere un sistema vivente per diventare una dot trina tradizionale, un assieme di morte formule il cui intimo senso non era più inteso. I loro commenti ci rendono in modo chiaro ed accurato, spesso anche abile, il lato formale, i contorni esteriori, per così dire, delle singole teorie; ma non ne penetrano lo spirito, non ce ne danno il profondo significato e la connessione logica. Ciò è confessato da Vij nana nel passo seguente del Sankhya Sara citato dal Bhand a rk a r ; « L’ unica prova della produzione del Mahat dalla P ra k riti e dell’ Aham kara dal Mahat è l’affermazione del sistem a: per inferenza si arriva solo alla generale conclu sione che un effetto ha una causa; ma quanto all’ordine di produzione non vi può essere inferenza diretta a mostrare se gli elementi grossolani siano i primi prodotti e da essi gli organi interni (Intelligenza etc.), ovvero se questi ultimi sieno prima e da essi derivino gli elementi ». D’altra parte poi questa interpretazione ci avvolge in gravi difficoltà. L’intelligenza e la Personalità esistono, si è detto, come esseri cosmici per sè s ta n ti, indipendenti dall’individuo. Ma come accade allora c he, astrazione fatta dalle divagazioni mitologiche e dalle arbitrarie esplicazioni di V ijnana, gli altri testi non considerano mai l’intelligenza e la Personalità che come alcunché d’ individuale? Ed inoltre quale è in questo caso il significato della teoria dei tre gunas? Gli inutili tentativi del Markus (p. 22) mostrano che non è possibile giungere per questa via ad alcun risultato soddisfacente. Ma la difficoltà maggiore consiste nell’im possibilità di attribuire un significato qualsiasi alla teoria dei ventitré principii. Qual senso può avere infatti una dottrina che fa sorgere l’intelletto (sia pure inconscio) dalla materia (in questo senso il Garbe concepisce la Natura) e dall’intelletto la personalità e da questa i sensi e gli ele menti ?
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L’ interpretazione idealistica ha invece anzitutto il van taggio di eliminare queste difficoltà; e cioè di perm ettere fino ad un certo punto dì ricavare da queste teorie una concezione d’ insieme astrusa certam ente e straniera al nostro modo di pensare, ma non illogica nè inintelligibile e nello stesso tempo consona all’indole dell’antico pensiero indiano. Ma essa ha di più in suo favore un altro argom ento che è certam ente di grandissimo peso; ed è l’analogia d ’un sistema della cui stre tta affinità col nostro e comune origine se è già altrove discorso, voglio dir.e dell’ antico Buddismo. Il riconoscimento della realtà empirica e transcendente delle cose e della pluralità degli individui non tolgono al Buddismo il suo carattere idealistico. Come questa pluralità sia conciliabile con un sistema che considera il mondo intiero come una produzione del pensiero individuale sa rà facilmente concepibile quando si pensi che l’antico Buddismo non prende in diretta considerazione il mondo, ma l’individuo. La sua speculazione, d’un carattere eminentemente pratico, non si cura delle questioni che, come quella della pluralità degli individui, dell’e ternità o non del mondo, dell’infinità o non del mondo, non sono in diretto rapporto con la salute dell’ indi viduo: essa ha per iscopo non di dare un’esplicazione del pro blema delle cose, ma di condurre l’individuo alla liberazione. Il problema che essa si propone è il seguente: Perchè l’indi viduo soffre la schiavitù del dolore? « Se questo è anche quello è; se questo sorge anche quello sorge: se questo non è anche quello non è ; se questo scompare anche quello scompare »: tale è il modo d’argom entare che spesso ricorre nei sacri testi del Buddismo e che dovette probabilmente essere proprio anche a Budda (Old. 212). Il nesso causale ossia la serie successiva delle cause dell’esistenza, in cui risiede, secondo B udda, l’ esplicazione del problema del dolore, è un’ applicazione ed un risultato di questa dialet tica. Quale è la causa della v e c c h i a i a e della m o r t e e di tutte le altre miserie dell’esistenza? La n a s c i t a . E la nascita è perchè è l ’ e s i s t e n z a ; ossia è una conseguenza dell’ esistenza metafisica dell’ individuo anteriorm ente alla
59 nascita. L’ esistenza alla sua volta è perchè è l’ i n e r e n z a a l l ’ e s i s t e n z a ; ossia (per tra d u rre questo concetto in un analogo concetto moderno), perchè vi è u n a volontà me tafisica d’esistere che è come il germe dell’esistenza indivi duale empirica. La volontà metafisica è perchè è il d e s i d e r i o ; ossia è 1’ effetto delle volizioni e dei desideri concepiti dall’ individuo nelle esistenze anteriori. Il desiderio è perchè è l a s e n s a z i o n e : l’ individuo desidera perchè sente pia cere e dolore ed am a ciò che è fonte di piacere, fugge ciò che è fonte di dolore. La sensazione nasce dal c o n t a t t o fra i sensi e gli oggetti dei sensi. Il contatto nasce dall’esistenza dei s e n s i e dei l o r o o g g e t t i . Ma e i sensi e i loro oggetti non sono se non perchè è i l n o m e e l a f o r m a ; ossia perchè vi è un’ individualità (il nome e la forma sono, secondo il Buddismo, l’essenza dell’ indivi dualità) la quale pone sè stessa come soggetto. E questa individualità è perchè è l ’i n t e l l i g e n z a ; in quanto che solo perchè vi è il pensiero può il soggetto pensare e porre sè stesso. Ed infine quale è la causa di tutti questi S a n k h a r a s o forme dell’ esistenza? E l ’ i g n o r a n z a delle sante verità del Buddismo. Certamente sarebbe un esag e ra re la p o rtata di questo nesso causale il volerne desumere una teoria qualunque dell’ origine delle cose od anche solo una teoria della esi stenza individuale (come ha infruttuosamente tentato 1’ 01demberg); ed è anzi difficile vedere in qual rapporto essa stia con la teoria dei cinque Ivhandas od aggregati che costituiscono l’ individuo. Ma in ogni modo pur consideran dolo solamente nel suo ristretto senso di s e r i e l o g i c a delle cause successive del dolore dell’esistenza, si vede che anch’ esso porta l'im p ro n ta del c a ra tte re idealistico dell’antica speculazione delle Upanisadi. Astrazione facendo infatti dai due ultimi term ini, che, come non connessi direttamente col resto della serie, sono perciò nei testi buddistici sovente omessi, e che non significano altro se non che il complesso di tutte queste manifestazioni è perchè è l’ignoranza individuale delle verità da Budda proclam ate, tolta la quale ignoranza
60 sono tolti tutto i Sankharas e quindi tolta tu tta la serie che ha inizio dall’ intelligenza, come termini fondamentali e cause efficienti di tutta la serie (quindi anche dei sensi e del mondo degli oggetti) rimangono la personalità e l’ intelligenza del l’individuo. Il mondo esteriore non è considerato pertanto come alcunché di assolutamente obbiettivo ed indipendente, ma bensì come un effetto obbiettivo solo di fronte agli or gani della conoscenza, come un dispiegamento del pensiero individuale, come una proiezione di forze misteriose il cui centro è nell’ individuo stesso. Esso non è, in una parola, che una creazione dell’ individuo ; e nello stesso tempo una parte dell’ individuo stesso. In questo senso così si esprime un passo d’ una scrittu ra buddistica citato daH’Oldemberg: « Io non conosco fine al d o lo re , (dice Budda), se non si è raggiunta la fine del mondo. Ma io vi dico che in questo corpo animato alto come una tesa r i s i e d e il m o n d o e l’origine del mondo e l’annientam ento del mondo e la via all’annientam ento del mondo » (Old. Buddha e tc .2 286). Considerando ora comparativam ente a questo nesso cau sale la dottrina del S a n k h y a , è facile riconoscere che essa non è in certe sue parti se non un’elaborazione più razio nale ed uno svolgimento del nesso medesimo. La causalità fondamentale dell’ ignoranza soggettiva come radice prima di tutte le manifestazioni dell’ esistenza empirica è m ante nuta anche nel Sankhya; sebbene e sso , come vedremo, intercali tra l’ ignoranza e la schiavitù un altro term ine, la connessione. La serie subordinata delle cause ossia il nesso causale che ha inizio pel Buddismo dall’ intelligenza si scinde per il Sankhya conformemente alla sua distinzione f r a c a u s e e f f i c i e n t i della schiavitù e c a u s e m a t e r i a l i o substrati sostanziali in due nessi causali, dei quali l’uno costi tuisce la cosm ologia, l’ a ltro la moirologia o teoria del destino individuale. Perchè la schiavitù sia possibile è ne cessario da un canto che la N atura evolva dal proprio seno quel complesso di principii che costituiscono come il fondo m ateriale dell’esistenza empirica. Quindi avviene che dal l’indistinto sorge in primo luogo l’intelligenza; da questa
61 la Personalità; da questa gli organi ed i loro oggetti. D’ altro canto si svolge, sempre subordinatam ente alla cau salità fondamentale dell’ignoranza, il ciclo delle cause effi cienti dalle quali risulta l’esistenza individuale. Dal p ia c e re e dal dolore (sensazione) nasce il desiderio (l’agire, il cui elemento essenziale, produttivo di merito è il volere, il desiderare, si riduce al desiderio); dal desiderio le impressioni del me rito , che sono come il ricettacolo materiale della volontà metafisica costitutiva dell’ individuo; dalle impressioni l’esi stenza sotto nuove form e; da queste nuove sensazioni, indi nuovi desideri e così via. L ’identità delle due serie Sankhya con le due parti del nesso buddistico che sono riunite dal termine del « con tatto » è evidente. La prim a parte del nesso buddistico corrisponde alla serie moirologica del Sankhya; al quale proposito, non essendo qui il luogo di tra tta rn e estesamente, basti far notare: 1° Che i due ultimi membri, la nascita; la vecchiaia e la m orte, i quali rappresentano nel concetto buddistico il triplice dolore dell’esistenza, rientrano necessa riam ente sotto il termine « sensazione » e si riattaccano quindi all’ottavo mem bro, al « desiderio », donde procede una non interrotta catena di cause ed effetti come nel Sankhya. 2° Che il concetto dell’ inerenza (U p a d a n a-ric e t tacolo) corrisponde, se non pel vocabolo, certo pel concetto alle impressioni o disposizioni che sono per il Sankhya la perm anenza del desiderio nello stato latente come impres sione materiale. 3° Che la quadripartizione dell’ inerenza nell’ inerenza al desiderio, inerenza alla falsa opinione, inerenza al rinunciamento ascetico e nell’inerenza alle di scussioni sull’io (attavad’upadanam) ricorda le quattro specie di esistenza in cui si manifesta l’effetto delle impressioni e che il Sankhya comprende sotto i nomi di e rro re , incapacità acquiescenza, conoscenza. La seconda pa rte corrisponde alla serie cosmologica; della quale qui appunto è questione. Il punto di partenza sono per il Buddismo i sei sensi (i cinque sensi esterni e il senso interno o manas) ed i sei corrispon denti oggetti (i cinque elementi e , come oggetto del manas,
62 i concetti); per il Sankhya gli undici organi (i cinque sensi esterni ed il m an a s, più i cinque organi d’ azione) e gli elementi (sottili e grossolani). I sensi ed i loro oggetti hanno per causa il nome e la forma. Il nome e la form a, od anche solo il nom e, sono, come s’è detto, nel concetto buddistico ciò che costituisce intimamente ed essenzialmente l’individuo. « Ciò che fa sì che un essere arriva a conoscere sè stesso tale quale è , è il nome e la forma con gl’ intelligenza. In una parola, o Ananda, è il nome il quale fa sì che l’ individuo conosce sè stesso. Se si t r a t ta in effetto d’ un essere dotato di forma e lim itato, il nome rivelandogli questa sua perso nalità gli dà questa nozione; Io ho una personalità dotata di forma e limitata. Se si t r a tta d’ un essere dotato di forma ed eterno, il nome rivelandogli questa sua personalità gli dà questa nozione: Io ho una personalità d otata di forma ed eterna, etc. » (Mahanid. Sutta tr. Grimblot 272). Così secondo il Sankhya gli organi e gli elementi hanno per causa l’a h a m k a ra (facitore dell’ io), ossia la Personalità; la quale è quell’essere che pone sè stesso come soggetto e come centro d’ogni altra cosa e quindi pone anche nello stesso tempo i sensi ed i loro oggetti. L’ io crea i sensi ed i loro og g e tti, dice V ijn an a , come colui che desidera un godimento crea gli strumenti coi quali produrlo (S. pr. bh. 188). Il nome e la forma finalmente sono, secondo la serie buddistica, dall’intelligenza (Old. 246- 247); « perchè l’intelligenza è l’elemento che costituisce il nome e la forma * (ib. 248). Ciò significa che la personalità è possibile sola mente per mezzo del pensiero. Ed analogam ente il Sankhya fa derivare l’ a h a m k a ra dalla buddhi. L’a h a m k a ra pone sè stesso e quindi il resto in rapporto a stesso: ma perciò è necessario che concepisca e sè stesso ed il resto. Perciò esso presuppone il pensiero (S. pr. bh. 81). Dalle considerazioni precedenti mi sembra quindi risulti con sufficiente chiarezza che l’intelligenza e la Personalità dalle quali il Sankhya fa derivare il mondo, non sono da intendersi come due principii cosmici, estraindividuali, ma semplicemente come due principii interiori ai quali l’astra-
63 zione psicologica riconduce ogni manifestazione così sog gettiva come oggettiva dell’esistenza empirica. E con lo stesso criterio deve perciò essere interpretato il concetto della N a tura. Essa non deve cioè essere considerata come alcunché di esterno e di materiale, ma come l’indistinto psicologico primi tivo e supremo nel cui seno giace allo stato latente la totalità della nostra esistenza soggettiva em pirica, come quel prin cipio misterioso ed oscuro che esiste da tutta l’ eternità accanto all’an im a , come essa increato ed onnipresente, ma a differenza di essa attivo e non spirituale ossia incapace di elevarsi per sè alla vita cosciente, e che per effetto del l’ignoranza diventa, alla luce dell’ a n im a , l’essere indivi duale empirico. L a sua essenza è costituita di piacere, dolore ed indifferenza perchè questi sono i tre modi più generali dell’ esistenza empirica stessa ossia della nostra vita cosciente. Anche nelle scritture buddiche ricorre spesso la divisione della sensazione nelle tre categorie generali del piacere, dolore ed indifferenza (Old. 253 nota 1). Così nel passo se guente del Mahanidana sutta: « Esistono tre specie di sensazione: la sensazione piacevole, la sensazione spiacevole la sensazione nè piacevole nè spiacevole » (Grimblot 274). Queste tre categorie costituiscono secondo il Sankhya l’es senza delle cose, perchè il mondo non è concepito da esso che per rapporto all’ individuo il quale lo crea e ne fruisce. Il sattva è la sensazione piacevole in astratto : quindi comprende ciò che è fonte di gioia, la bellezza, la bon tà, la luce, l’arm onia; ed inoltre ciò che avvicina al bene supremo come la quiete e l’atto del conoscere, nella cui serena obbiettività p a r che il Sankhya veda, come Schopenhauer, il contrapposto della cieca e dolorosa vo lontà di esistere che si estrinseca specialmente nel secondo dei costituenti. Il rajas è la sensazione dolorosa in astratto : quindi specialmente l’agire, il voler esistere, l’attività d’ogni specie che ci avvolge in un’ infinità di dolori. Il tam as per ultimo è la sensazione indifferente in a s tra tto : quindi ciò che non si manifesta a noi nè come piacere nè come do lore, come il sonno, l’ impotenza intellettuale ed in genere
64 tutto ciò che è assenza d’ ogni attività dolorosa ma anche d’ogni elevazione e perfezione. Tale è il senso che, secondo il mio avviso, devesi a t tribuire alle teorie cosmologiche del Sankhya. Nella sua forma originaria la serie delle cause materiali non dovette essere altro che, come ci è conservata nel Buddismo, una serie di astrazioni procedente dalla ricerca della concate nazione delle cause soggettive del dolore individuale ; ed in questa forma solamente essa ha un senso ed una connessione razionale. La teoria della sostanzialità perm anente delle cose e della gradazione delle cause materiali secondo la loro maggiore o minor distinzione alterarono poi la flsonomia primitiva di questa serie dialettica; e tanto gli organi della soggettività e gli oggetti (dai qu^li come da fondamentali dati della rappresentazione o d’ un’ induzione semplicissima il Sankhya muove) quanto la Personalità e l’intelligenza furono intesi non come una serie ascendente di cause soggettive della schiavitù, ma come un’evoluzione di sostanze; ed a capo di tu tta la serie, come causa materiale p rim a , fu posta l’ indistinzione assoluta, la Natura. Ma in nessun modo perciò e la Personalità e l’ intelligenza e la N atura vennero ad essere intesi come esseri cosmici esteriori, mate riali: e la Natura stessa non venne altrimenti pensata che come la coscienza empirica stessa nella sua assoluta indetermi natezza, come un’indistinta miscela di piacere, dolore ed indifferenza destinata a diventare, evolvendosi, l’io, l’essere empirico individuale nel cui seno sorge il mondo. Nè si potrebbe opporre (come il Garbe oppone alla denominazione di idealistico data dal St. Hilaire al Sankhya), che, poiché la spiritualità appartiene all’Anima sola, la Natura ed il resto sono alcunché di esteso e di materiale. Come si è veduto Vijnana caratterizza assai bene ciò che si intende nel concetto indiano per materiale (che significa « percepibile sensibilmente) »; e la sua definizione esclude la N atura e gli altri principii sovrasensibili: nè l’essere i medesimi estesi implica m ate ria lità , perchè anche l’anim a viene considerata come estesa. Non è quindi esatto dire che
65 la N atura del Sankhya sia alcunché di m ateriale; essa è piuttosto semplicemente un principio attivo ed i n c o n s c i o come l’ inconscio di Hartm ann o la Volontà di Schopenhauer. E dalla Volontà di Schopenhauer (con cui lo Schopenhauer stesso rettam ente l’identifica, v. Par. u. Par. II § 187) essa differisce in questo solo punto essenziale: che la Volontà obbiettivandosi produce dal proprio seno anche la coscienza (in s. s.), il soggetto vero e proprio della conoscenza; lad dove la N atura è per sua essenza inconscia e la coscienza (in s. s.) le perviene da un principio superiore la cui es senza non è altro che pura spiritualità, cioè dall’Anima.
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Cap . Ili
L ’esistenza a lato del mondo degli esseri empirici d’un principio superiore eterno ed im m utabile, assolutamente libero dal d o lo re , sostanzialmente identico col nostro Io nella sua purezza, termine desiderato della dolorosa pere grinazione degli esseri è uno dei dommi fondamentali che, come si è veduto, sono il comune presupposto di pressoché tutte le scuole della filosofia indiana. Senonchè questo dualismo dell’ esistenza non si rivela negli altri sistemi così distintamente a primo aspetto come nel Sankhya. Nel Vedanta B rahm a è l’essere assoluto ed unico e l’ignoranza non è di fronte ad esso che un essere illusorio ed in rea ltà non esistente: laddove nel Buddismo il mondo dell’assoluto, il N irvana, non è che una indeterm inata ed indefinibile negazione di tutto ciò che costituisce il mondo empirico. Il Sankhya invece stabilisce un certo equilibrio fra questi due termini opposti; e come per esso la Natura è un essere per sè esistente ed indipendente di fronte a l l '\ s s o l u t o , così l’Anima non è semplicemente l’ al di là trascendente ed in concepibile, destituito d’ogni rapporto con l’esistenza attuale, ma è un principio d’un’ essenza determ inata che, pure per manendo in sè imperturbato ed incontam inato, entra in un certo rapporto con il principio empirico, con la N atura, e , per via appunto di questo rapporto si rivela nella spi ritualità della nostra vita cosciente.
68 L ’esistenza d’ un principio spirituale, d’ un io senziente non ha bisogno, dice il S ankhya, di essere provata non potendo la medesima essere messa in questione (S. S. I 138). Se si negasse lo spirito, il mondo dovrebbe essere cieco e perciò nemmeno i Buddisti si attentano a negare l’esi stenza d’un essere senziente (che è secondo essi l’intelligenza). Quindi accade rispetto allo spirito ciò che p e r i i merito, il quale non essendo negato da nessuno non richiede d’essere provato. Così anche nel sutra VI 1 : « L’ io esiste perchè non v’è alcuna prova in contrario ». L’esistenza d’ un io senziente risulta con la massima evidenza dalla rappresen tazione: « io conosco » , e non essendovi argom ento in contrario dev’essere ammessa. La tesi del Sankhya si riduce pertanto a provare che questo principio spirituale interno è realmente il principio dell’esistenza assoluta. A questo scopo sono diretti gli a r gomenti riuniti nella K arika 17 e nei sutra I 140- 144, i quali hanno per oggetto di provare che l’io senziente non è come il corpo e gli altri prodotti, il cui ag g re g a to co stituisce la nostra personalità, un derivato della N a tu ra , ma è d’ un’ essenza affatto distinta e superiore ad essa. Essi sono i seguenti: 1° S. Sutra I 139: « L’Anima è distinta dal corpo etc. » id 140: « Perchè l’ag g re g a to è per fine d ’ un altro ». Tutti i composti, tutti i prodotti formati per via di a g g re gazione sono sempre per il fine di alcunché di superiore e di essenzialmente diverso. « Perchè (dice Qankara in un passo nel quale riferisce l’opinione del Sankhya) la relazione di subservienza d’ una cosa ad un’altra non è possibile sulla base dell’eguaglianza: due lampade per esempio non possono dirsi servire l’ una a ll'a ltra » (Thibaut I 301). Ora poiché il corpo e gli organi sono per il fine dell’ io senziente, questo non può essere che alcunché di essenzialmente diverso dai medesimi e di superiore e non perciò come essi semplicemente un prodotto della N a tu ra , un ag g re g a to dei tre costituenti (S. pr. bh. 123). 2° S. Sutra I 141: « Perchè essa è il contrario di ciò
69 che consta dei tre costituenti ecc. ». Ossia, come spiega Aniruddha; perchè i tre costituenti non sono da noi osser vati in essa (Anir. 77). L’osservazione interiore non ci dà in nessun modo il nostro io senziente come avente rispetto a noi la na tu ra del s a ttv a , del ra ja s , del tam as; perchè la pura coscienza non produce in noi, come i fatti che della coscienza sono oggetto, nè piacere nè dolore nè indifferenza. Quindi il nostro principio spirituale non consta dei tre costi tuenti ed è d’ un’ essenza diversa dalla Natura. Lo stesso concetto è variamente ripetuto nel sutra VI 2: « Essa (l’Anima) è alcunché di distinto dal corpo e dalle altre cose per via della sua eterogeneità ». 3° S. Sutra I 142: « E perchè essa dirige ». La N atura procede alla creazione, agisce e si evolve unicamente pel fine dell’Anima. In questo senso il Sankhya dice che l’Anima dirige la Natura. Ora se l’Anima fosse essa stessa un pro dotto della Natura, come potrebbe causarne e dirigerne l’a t tività? Poiché la N atura agisce pel fine dell’Anima esiste t ra di esse una certa connessione, nè vi può essere connes sione che fra due entità distinte (S. pr. bh. 152). 4° S. Sutra I 143: « E perchè è l’ essere senziente ». Oggetto della sensazione sono il s a ttv a , il rajas ed il tam as nei quali in ultima analisi tutte le cose si risolvono. Ora il soggetto senziente dev’ essere alcunché di distinto da tutti i composti dei tre costituenti ; perchè se fosse uno di essi, se fosse per es. l’ intelligenza, vi sarebbe contraddi zione in quanto l’ oggetto ed il soggetto della sensazione non sarebbero che una cosa sola. Dal che ci è necessario concludere che l’Anima non è un ag g re g a to di s a tt v a , rajas etc. (Kaum 63; S. pr. bh. 88, 151, 153). 5° S. Sutra I 144: « E perchè vi è una tendenza al l’isolamento ». L’ uomo aspira a sopprimere in sè stesso il dolore, a separare sè stesso dalla causa del dolore. Ma il dolore, noi sappiam o, appartiene all’essenza stessa della N atura e dei suoi prodotti. Come sarebbe dunque possibile tale separazione se l’Anima constasse essa stessa del sattva, r a ja s , tam as? Converrebbe che si separasse dalla medesima
70 sua essenza; ciò che non è possibile. Invece la separazione del dolore dall’Anima considerato come principio distinto nel quale esso non è che un’affezione sovrappositizia non ha nulla di assurdo. Dunque anche questo induce a credere che l’Anima sia d’ un’ essenza diversa dalla N atura (Kaum. 64; S. pr. bh. 153). N o t a . Nei sutra III 20 - 22 e V 129 si respinge la teoria dei materia listi (Carvakas) secondo i quali il pensiero non sarebbe che una funzione risultante dall’organizzamento della materia. Ecco come questa teoria viene esposta da Madhavacarya (Sarvadarfanasangraha p. 2 - 5 ) : « Secondo questa scuola principii delle cose sono i quattro elem enti, la terra, il fuoco, l’acqua e l ’aria: e solo da questi quattro elementi aggregati nella forma di corpo è prodotto il pensiero, come il potere inebriante è prodotto dalla m iscela di certi ingredienti; e quando i detti elem enti si disaggregano, perisce anche il pensiero........ Assumendo l’ anima essere identica al corpo, le espressioni come: « Io sono so ttile, io son nero » diventono intelligib ili in quanto questi attributi (e cioè da un lato la personalità espressa con la parola « io », dall’altro la qualità della sottigliezza ecc.) risiedono nello stesso soggetto; e tali frasi come « il mio corpo, etc. » hanno solo un senso metaforico ». Il Sankhya oppone (S. Sutra III 20): « Il pensiero non appartiene essenzialm ente al corpo perchè non si trova che esso sia nei singoli componenti del medesimo ». Il pensiero non appartiene essenzialm ente ad alcuno degli elem enti che costi tuiscono il corpo presi separatamente ; quindi non può nemmeno appartenere al corpo. Inoltre se il corpo fosse essenzialmente pensante non dovrebbe esservi nè sonno nè m orte, perchè l’essenza d’ una cosa permane tanto quanto la cosa stessa (S. Sutra 111 21 ; S. pr. bh. 217). Alcuno obbietterà: « Ma il pensiero può essere una risultante della aggregazione degli elem enti come accade per es. nelle sostanze venefiche composto d’ ingredienti che presi ad uno ad uno non hanno tal potere ». Si risponde: il potere venefico esiste già in sim ili casi noi singoli ingredienti allo stato latonte ed in occasione della m iscela dei medesimi non fa che ma nifestarsi: ma perchè ciò fosse nel caso dello spirito e del corpo occorrerebbe che quello esistesse almeno già allo stato latente nei singoli componenti del corpo m edesimo: il che non è provato (S. pr. bh. 2 1 6 -2 1 8 ).
L’essenza di questo principio senziente è spiritualità p u r a , coscienza p u ra (S. Sutra I 145; S. pr. bh. 153- 154, 356; Anir. 290; Markus 1 0 - 1 1 , 17-18). L’argomentazione di cui il Sankhya si vale per stabilire l’ essenza dell’Anima riposa come quella d ire tta a stabilire l’essenza della N atura sul principio di identificazione d’ una qualità essenziale col
71 suo substrato. Poiché l’Anima ci si rivela nella spiritualità della vita cosciente, per il Sankhya è evidente che essa non è altro che spiritualità pura. Essa non è quindi un principio di cui la spiritualità sia un attributo o, come i Vaigeshika insegnano , un principio cieco, non spirituale in cui in seguito alla connessione con l’ organo interno sorge quella luce spirituale che diciamo coscienza. Questa teoria pare al Sankhya un’inutile complicazione. Dicendo che l’Anima secondo la sua essenza è pura spiritualità tutti i singoli fatti spirituali possono essere spiegati semplicemente me diante la connessione della loro sede m a te ria le , dell’organo interno con l’Anima; e quindi è inutile il porre l’Anima come alcunché d’altro a cui si debba attribuire una qualità manifestantesi come spiritualità. Nè il paragone col fuoco è calzante; perchè dal fatto che esso può sussistere anche senza che nello stesso tempo si percepisca la sua proprietà particolare che noi diciamo luce si inferisce che la luce ed il fuoco sono cose distinte ; ma siccome per contro l’Anima non è percepibile in noi in nessun modo quando non per cepiamo nello stesso tempo la luce che significa conoscere (ossia quando il lume interno della coscienza è assente) così noi per semplicità ammettiamo una sostanza spirituale che è per sua essenza luce (ossia coscienza) senza ricorrere al rapporto di qualità e soggetto della qualità. In senso conforme la Tradizione dice: « Il conoscere non è in alcun modo una proprietà dell’Anima nè una sua qualità: l’Anima è il conoscere stesso ed è eterna, omnipresente, im perturbata» (S. pr. bh. 154 - 155). L’essere l’Anima pura coscienza non implica che essa sia un principio c o n s c i o . « (Le anime) nell’estasi, nel sonno profondo e nella liberazione hanno la natura di Brahma » (S. Sutra V 116). Il che significa che lo stato dell’ Anima nell’ esistenza assoluta ci si riv e la , oltreché nella liberazione, nell’estasi (incosciente) e nel sonno pro fondo, ossia è perfetta ed assoluta incoscienza. Ciò autorizza quindi in certo modo la spiegazione che dà Aniruddha nel
72 commento al sutra VI 50 circa l’essenza dell’Anima. L’Anima, secondo A niruddha, è detta essere di n a tu ra spirituale, constare di spiritualità perchè ci si rivela nella vita spiri tu ale , ossia perchè quando i prodotti della N atura si a g g re gano nella forma di essere umano sorge in essi per virtù dell’Anima la conoscenza di ciò che non è l’A n im a , la rappresentazione degli esseri empirici. Ma definendo l’Anima come la spiritualità, la p u ra coscienza noi non diciamo altro che essa è ciò per cui questa rappresentazione sorge, non facciamo che distinguerla essenzialmente da tutti gli esseri che costituiscono il contenuto della rappresentazione. Quindi la nostra definizione è una determinazione puram ente negativa la quale non attinge in alcun modo l’essenza dell’Anima che rimane sempre per noi alcunché d’ indefinibile e d’inconcepibile. A maggior ragione non appartengono all’Anima le per cezioni, i desideri, in una parola i fatti della vita interiore. L’Anima rispande la sua luce spirituale sui processi dell’or gano interno e li trasm uta in rappresentazioni, in senti menti, insomma in atti coscienti, ma questi non appartengono in nessun modo all’Anima. La ragione che il Sankhya ne adduce è duplice. In primo luogo sarebbe una complicazione inutile l’assumere anche l’Anima come causa materiale di tali affezioni dal momento che noi poniamo già l’organo interno come substrato materiale delle medesime. In secondo luogo esse sono alcunché di prodotto, di passeggero, di mutabile: attribuire questi fatti all’Anima sarebbe introdurre nell’Assoluto il concetto del mutabile, del perituro che con traddice alla sua essenza. Vijnana ne adduce ancora un’altra ragione attinta all’autorità delle Scritture. Nel Bhagavadgitam (3. 27) ed altrove è detto che causa della schiavitù è la rappresentazione: « Io sono, io agisco, io percepisco ». Ora dacché, nell’ ipotesi che i fatti interiori appartengano all’anima, tali rappresentazioni non sarebbero punto erronee, ne verrebbe non esser vero che la schiavitù sia distrutta dalla vera conoscenza. Inoltre nella Svetasv. Up. (6. 11) l’Anima è chiam ata « il testimonio, il veggente, per sè
73 esistente, senza qualità ». E nella Nris. Up. (2 , 1, 7, 8): « Lo spirito che è puro pensiero non agisce ». È vero che vi sono dei passi nei quali si parla dello spirito come cono scente tu tto ; ma tali passi sono espressioni positive inade guate e le Scritture stesse c’insegnano che le espressioni negative sono sempre le più vere: « Esso (lo spirito) non è così, non è così; perchè di più alto che questo « non è così » non vi è nul l a» (Brihad. Up. 2. 5. 6). Le espressioni: « io penso, io percepisco etc. » per quanto sembrino dimo s trare che è realmente l’io che pen sa, che percepisce etc. non debbono quindi avere alcun peso. Perchè del resto se queste semplici espressioni basate sull’ illusione avessero per noi maggior valore che non le argomentazioni o le testimonianze delle Scritture, allora perchè dall’espressione: « io sono giallo » non si dedurrebbe anche che l’Anima è gialla? (S. pr. bh. 156-157). Perciò errano anche i Vedantini i quali attribuiscono all’Anima la beatitudine. Anzitutto la beatitudine non è identica col pensiero: perchè quando si sente dolore il pen siero sussiste, non la beatitudine: e perciò sono due cose distinte. Nè si può dire che la beatitudine ed il pensiero siano una cosa sola ma che nel dolore questo p erm anga, quella venga sopraffatta, perchè a causa dell’indivisibile unità dell’Anima dovrebbero o scomparire amendue o perm anere amendue. Ed inoltre: la beatitudine sarebbe sentita nel tempo della liberazione o non? Nel primo caso da chi sa rebbe sentita? Non daH’Anima perchè questa non può essere ad un tempo soggetto ed oggetto. E nel secondo caso qual senso avrebbe ancora l’espressione che il Sè è essenzial mente beato? Noi dobbiamo dunque ritenere che l’Anima non è nè beata nè non b e a ta ; e quanto a quei passi delle Scritture che attribuiscono all’Anima la beatitudine noi dob biamo riguardarli o come riferentisi all’ organo in te rn o , o come espressioni inadeguate per disegnare la cessazione del dolore, o infine come espressioni usate a bella posta per adattarsi alla mente del volgare (Anir. 218-221; 291-292; S. pr. bh. 2 9 9 -3 0 1 ; Markus 16).
74 « Le Anime, dice il sutra I 160, sono molte e tutte uguali ». La ragione che il Sankhya adduce della pluralità delle Anime è in fondo lo stesso argom ento che da Alberto Magno e Tommaso d’ Aquino viene opposto ad Averroe e consiste in ultima analisi nella asserzione delFindivisibilità della co scienza. « La molteplicità delle Anime consegue dalla scom partizione della n ascita, della morte e degli o rg a n i, dal non identico agire non meno che dalle differenti condizioni dei tre costituenti » (Kar. 18; cfr. S. Sutra 1 149, VI 45). Se non vi fosse che un’Anima sola, quando alcuno nasce tutti nascerebbero, quando alcuno muore tutti morrebbero, quando alcuno diventa cieco, sordo, ecc. tutti dovrebbero risentirsene ugualm ente; quando alcuno agisce in questo o quel modo tutti dovrebbero contemporaneamente agire nello stesso modo; quando alcuno è beato tutti dovrebbero egual mente essere beati, ecc. L a nascita, la m orte, gli o rgani, l’ a g ire , le differenti condizioni dei tre costituenti sebbene non appartengano realm ente all’Anima vengono però alla coscienza per mezzo dell’Anima ed in virtù, anzi nel seno stesso, per così dire, della sua spiritualità; ed è evidente che la stessa Anima non potrebbe rispecchiare in sè, ossia avvol gere della sua luce cosciente che è u n a affezioni contempo raneam ente diverse anzi opposte (S. pr. bh. 160-161,164-165). Nè varrebbe all’ uopo di spiegare la pluralità delle coscienze amm ettere la distinzione delle coscienze delPAnima unica t ra sè stesse e tra sè e l’anim a; perchè allora essendo le singole coscienze alcunché di diverso dalPAnima, non si spiegherebbe come mai possano essere alcunché di spirituale (S. pr. bh. 163). Se fosse vero inoltre che un’Anima sola esiste e che la diversità delle anime empiriche non si fonda che sulla diversificazione dell’Anima unica nei vari a g gregati m ateriali, potremmo dom andare: Le anime empiriche sono per voi alcunché di realmente distinto fra loro o no? Se sono distinte si ammette la pluralità delle anime; se non sono tali, ossia se la diversità delle anime riposa unicamente sulla diversità degli organi in te rn i, cessando questi di esistere
75 nel tempo della liberazione cesserebbe di esistere anche l’anim a: e quindi a che fine la liberazione? S. pr. bh. 162). Ma si obbietterà, ammessa la pluralità delle Anim e, poiché un g ran numero di queste è pervenuta nel passato alla liberazione ed un gran numero vi perviene continuam ente, non finirà per esservi un vuoto universale? No, risponde il sutra I 158; perchè dal momento che ciò non è accaduto nella infinità del passato non avrà luogo nem meno nel futuro a causa del numero infinito delle Anime. « Sebbene quelli (dice un passo della Tradizione citato da Aniruddha) che giungono alla verità siano continuamente liberati non vi sa rà il vuoto perchè il numero degli esseri che sono nel mondo è infinito » (Anir. 85-86). N o t a . Vijnana s i preoccupa anche di riattaccare la dottrina della plu ralità delle Anime allo Scritture dicendo che i passi di queste i quali parlano dell’ unità deU’Anima non alludono che a ll’ unità gen erica , non all’ unità numerica (S. pr. bh. 166 - 1 7 2 ). Oppure essi si esprimono cosi imperfetta mente per adattarsi alla mente del volgare, non dal punto di vista assoluto (S. pr. bh. 297 - 298, 357).
I caratteri che il Sankhya attribuisce all’Anima sono, astrazion fatta dalla molteplicità, quelli stessi che la spe culazione indiana comunemente annette al concetto dell’Assoluto. Essa è i m p e r t u r b a t a e p u r a ossia non affetta da alcunché di esterno ad e s sa , perchè se essa potesse andar soggetta a perturbazioni, non si vede ragione per cui non potrebbe, anche dopo la liberazione, essere nuovamente op pressa dal dolore (S. Sutra I 12 - 18). Essa è i m m u t a b i l e perchè se fosse mutabile la sua spiritualità dovrebbe andar soggetta ad offuscamenti o anche ad un oscuramento totale; per cui, pur permanendo l’ organo interno nelle condizioni normali, dovrebbe sorgere in noi il dubbio: Conosco io o non? Gioisco io o non? oppure tali affezioni dovrebbero passare affatto inosservate. Ora noi vediamo che per tutto il tempo che la connessione dura le affezioni dell’ organo interno si ripercuotono sempre d’un modo costante ed uguale nell’ anim a perchè tutte pervengono uniformemente alla
76 coscienza. Quindi da ciò noi deduciamo che essa è immuta bile, che essa perm ane sempre uguale a sè stessa come una luce serena e tranquilla il cui splendore non si offusca nè si altera mai (S. pr. bh. 9 4 - 9 5 , 334; Marlcus 9-10). Essa è e t e r n a perchè non avendo avuto principio non avrà mai fine; ed o n n i p r e s e n t e ossia illimitata perchè se fosse limitata sarebbe spazialmente estesa, essendo estesa consterebbe di parti, constando di parti sarebbe un prodotto e perciò sarebbe peritura (S. pr. bh. 52). Bhag. Gita (2 24): « Essa (l’Anima) è e te rn a , om nipresente, invariabile ». Essendo assolutamente straniera al dolore, alla gioia ed a tutte le altre affezioni l’Anima è eternam ente l i b e r a ; è s o l i t a r i a perchè nella sua esistenza impersonale ogni cosa è per lei come se non esistesse: quindi è anche i n a t t i v a non essendovi per lei nè ragione, nè possibilità di agire. Le imagini delle cose per mezzo delle impressioni materiali si riflettono tranquillamente in lei come in uno specchio senza offuscarne la limpidezza; tutte le forme dell’esistenza si agitano intorno a lei travolte dal loro destino nel turbine doloroso delle esistenze: ma la loro miseria non la tange; essa vi assiste spettatrice impassibile « come un asceta che rimane astratto e solitario mentre intorno a lui ferve l’opera dei contadini intenti ai loro lavori ». Poiché l’Anima è e permane eternam ente p u r a , libera, illimitata, immutabile, è evidente che essa non è il soggetto della schiavitù del dolore. Questa impossibilità di attribuire all’Anima il dolore, oltre che dal concetto dell’ Assoluto quale è stato posto fin da principio, risulta, secondo il Sankhya, dalle considerazioni seguenti. L’Anima non può avere come qualità essenziale il dolore perchè ciò che è essenziale ad alcunché non può esserne disgiunto e dura finché dura la cosa stessa. Può forse il fuoco essere liberato dal calore che gli è essenzialmente connesso? « Se il Sè (dice un passo del Kurm a Purana) fosse nella sua essenza mac chiato, im puro, soggetto ad alterazione non vi sarebbe per esso liberazione anche dopo centinaia di rinascite ». (Anir.
77 93; S. Sutra I 7 , S. pr. bh. 21-24, 338). E nemmeno il dolore può esservi causato da alcuna delle cause esterna mente a g enti, perchè in tal caso l’Anima sarebbe eterna mente in balia dei loro dolorosi effetti. Il tempo p. es. con diziona bensì i rapporti sotto cui la schiavitù sussiste; ma non può essere causa diretta di dolore aU’Anima perchè il tempo che è eterno ed oinnipresente affetta tutte le cose e perciò è connesso con tutte le Anime, liberate e non libe rate. Se esso causasse la schiavitù dell’Anima, questa sussi sterebbe in eterno. Lo stesso si dica dello spazio che è in rapporto egualmente con tutte le a n i m e , liberate e non li berate (S. S. I 1 2 - 1 3 ; S. pr. bh. 2 5 -26). E nemmeno può la schiavitù procedere da una qualunque condizion m ate riale o dalle opere; perchè così le condizioni esteriori come le opere appartengono esclusivamente alla nostra personalità empirica e non si riferiscono in nessun modo direttamente all’Anima. « L’Anima perm ane im perturbata » dice il Sutra I 15 ripetendo un passo della Brihad. Up. (4, 3, 16). Nessuna cosa la tocca, l’affetta realm ente; essa è come una foglia di loto che non si bagna anche se è immersa nell’ acqua (S. pr. bh. 26-27). Se la schiavitù potesse sorgere nell’Anima da condizioni appartenenti al mondo empirico, non si vede ragione per cui essa non potrebbe in qualunque istante essere oppressa dal dolore. Inoltre (salvo che si volesse ammet tere che l’efficacia delle opere si riversi senza distinzione sulle Anime di tutti), la schiavitù dovrebbe essere prodotta direttamente in ogni Anima per le opere del rispettivo organo interno. Ma allora coinè mai nel sonno profondo e nel de liquio (duranti i quali l’organo interno persiste) e nel periodo della dissoluzione universale (durante il quale l’organo in terno persiste nello stato di indistinto) l’Anima non è sog g etta alla schiavitù del dolore? (S. S. I 16; S. pr. bh. 27, Anir. 11-12). Nè infine può l’Anima essere affetta direttamente dal principio generale della vita empirica, ossia dalla N atura; perchè q u e sta , essendo eterna ed omnipresente, dovrebbe causare una schiavitù eterna a tutte le Anime; schiavitù che dovrebbe persistere anche durante il sonno e
78 stati analoghi nei quali pur sappiamo l’Anima essere libera dal dolore (S. S. I 18; S. pr. bh. 28-29). Ciò nonostante, sebbene il dolore non esista nella sua oggettiva realtà nelPAnima, questa non è destituita d’ogni rapporto col mondo del dolore. La necessità di questa con nessione deH’Anima coll’esistenza empirica appare al Sankhya come un’evitabile conseguenza del principio dell’indivisibilità della coscienza. Se l’Anima fosse assolutamente straniera alla vita empirica dell’individuo, essendo inconcepibile che nel seno della N atura unica si produca una pluralità di coscienze, la molteplicità del sentire nei vari individui sa rebbe inspiegabile. (S. Sutra 1 17 : « La molteplicità del sentire sarebbe inspiegabile se (la schiavitù) appartenesse ad un altro (cioè al solo principio empirico, alla sola parte materiale del nostro essere) ». Resta quindi che dopo d’aver tra tta to dell’Anima in sè noi trattiam o dell’Ani ma nei suoi rapporti con l’esistenza attuale e dell’ io empirico che è il prodotto della connessione dell’Anima con i principii empirici. Noi lascieremo da parte per ora ogni questione sulla causa di questi rap p o rti, ne ci fermeremo a ricercare perchè accanto all’Anima sussista l’io empirico; ma ci occuperemo unicamente di rispondere alle due seguenti dom ande: Come è c o stituitola parte ma teriale della nostra personalità empirica? Quale è il rapporto che è stabilito tra essa e l’Anima ed in qual modo dalla loro unione sorge il nostro io attuale? Tutti gli individui che vivono nel mondo empirico con stano secondo il Sankhya di tre p a rti; il corpo materiale (in s. s.), il corpo sottile, l’Anima. Il corpo materiale è il corpo generato e perituro costi tuito dagli elementi grossolani che noi designiamo ordinaria mente con la parola « corpo ». Secondo alcuni esso consta di tutti e cinque gli elementi; secondo altri di tutti eccetto l’etere; secondo altri infine esso consterebbe d’ un solo elemento (S. Sutra III 17-19).
79 L’ ultimo asserto può ancora essere interpretato in due modi: o nel senso che l’elemento costitutivo del corpo sia uno degli elementi senza specificare quale ; potendosi dire che il corpo degli animali e degli uomini sia composto di te rra perchè in esso le particelle terree sovrabbondano e che invece quello degli dei celesti, a e re i, acquei etc. consti di luce, d’a r ia , d’acqua etc. prevalendo in essi le parti luminose, acquee, aeree etc.; o invece nel senso che l’elemento costitutivo di tutti i corpi sia la te rra e che gli altri elementi vi entrino solo secondariamente. A questa opinione si accosta l’autore dei Sutra nel secolo Y 112: « In tutti i corpi la te rra è l’elemento costitutivo per le sue particolari proprietà ». Le quali consistono secondo Yijnana nella m aggior quantità e nella capacità di ricettare in sè gli altri elementi. Con ciò non viene però escluso il concorso degli altri elementi nella formazione del corpo; m a essi non fanno che coope ra re alla stabilità del medesimo (S. pr. bh. 316 e nota; S. Sutra V 102, Gaudap. 123). I modi di generazione o meglio di produzione del corpo materiale sono sei. Possono essere prodotti dal c alore, come quello delle zanzare e simili; dall’ uovo come quello degli uccelli e dei rettili; dal seno m aterno come quello degli uomini; del seme come quello delle piante; dalla volontà come quello di Saunaka (figlio del dio Brahma il quale venne all’esistenza in forza del puro volere di suo padre); e infine dalla forza sovrannaturale come quelli che sono prodotti dagli scongiuri, dalla potenza degli asceti etc. (S. Sutra Y 111; S. pr. bh. 321-322). La vita organica del corpo m ateriale è sostenuta dai cinque spiriti vitali i quali procedono dall’organo interno o , secondo G audapada, da tutti e tredici gli organi. Essi ebbero il nome di spiriti vitali probabilmente dalla super ficiale analogia che l’ osservazione volgare riscontra fra il modo d’agire delle sostanze aeree ed i fenomeni in cui si estrinsecano le più importanti funzioni della vita organica (come il respiro, la pulsazione delle arterie etc.), ma non sono veram ente, nota Y ijn an a , che le cinque funzioni in
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80 cui si specifica l’attività fisiologica dell’organo interno (S. pr. bh. 196-197; Wilson 103). Il c o r p o s o t t i l e o l i n g a è un particolare corpo o veicolo impalpabile, invisibile, sottilissimo, che per così dire avviluppa l’Anima in ogni stadio dell’esistenza e l’accompagna fino alla sua separazione della N a tu ra , laddove il corpo materiale ad ogni migrazione si dissolve e perisce. Questa specie di corpo astrale o perispirito è composto dei prodotti più sottili della N atura, dell’ intelletto, dell’ a h a m k a ra , del m anas, dei dieci organi e dei cinque elementi sottili; è intimamente connesso con l’Anima di cui è il m inistro, ma separato dal corpo che è prodotto nel seno della m adre; ed accompagna l’Anima in tutte le sue migrazioni dal cielo d’Indra fino alle forme più vili dell’esistenza. Anzi si può dire che esso è il vero corpo, perchè esso è la sede della sensazione (Karika 40); e il vocabolo « corpo » non viene applicato al corpo materiale se non perchè è il ricettacolo di quello (S. pr. bh. 210, 211, 212). Esso a ttrav e rsa i mondi delle esistenze invariato nella sua essenza (S. pr. bh. 321), assu mendo la forma ora d’ una p ia n ta , ora d’un anim ale, ora d’un uomo, ora d’ un dio, come un attore che assume di verse parti l’ una dopo l’altra (Haum. 86). Esso è primitivo, ossia sbocciato dal seno della N atura per ogni singola Anima fin dal principio di ogni creazione; costante, ossia duraturo fino alla dissoluzione finale che chiude ognuno dei periodi dell’esistenza universale: non lim itato, ossia non impedito a causa della sua estrema sottigliezza da alcuna sostanza materiale. Esso non è tuttavia omnipresente come l’Anima. Perchè noi apprendiamo dalle Scritture che esso m igra: ora se fosse omnipresente non potrebbe migrare. S. Sutra III 14: « Esso è di limitata estensione perchè le Scritture parlano del suo m igrare » (Anir. 117, S. pr. bh. 214-302). Inintelligente, straniero alla gioia ed al dolore, esso è tuttavia la sede della sensazione, il ricettacolo della gioia e del dolore che in esso solo realmente esistono, ma che l’Anima sola sente. « La sensazione che noi diciamo piacere o dolore appar-
81 tiene al Unga e non al corpo grossolano : perchè tutti con vengono in ciò che in un corpo morto non hanno più luogo nè piacere nè dolore » (S. pr. bh. 209). Il merito ed il de merito delle azioni commesse si imprimono in lui e ne predeterminano fatalmente il futuro cammino, lo dirigono nelle sue migrazioni verso uno stato od un altro delle esistenze. Le une lo elevano ai mondi superiori, le altre lo abbassano e lo allontanano dalla liberazione (S. pr. bh. 201, 207). Esso è sostenuto in tutte le sue migrazioni dal corpo materiale perchè di per sè solo non potrebbe sussistere. Essendo di na tu ra luminosa (perchè vi predomina il sattva) deve come il sole trovarsi in stre tta connessione con una m assa m ateriale (S. Sutra III, 13). Il corpo materiale è inol tre necessario al linga per manifestarsi e per agire. 11 linga è soggetto alla gioia ed al dolore solo in quanto è connesso con il corpo m ateriale; non perchè esso non sia in astratto capace di gioia e di dolore (che anzi esso solo è la sede dell’ uno e dell’altro); ma perchè è necessario il corpo materiale affinchè esso possa trovarsi in queste o quelle circostanze che saranno per lui fonte di piacere e di dolore (Kaum. 84). Vijnana osserva anzi che nel breve tratto che corre tra u n ’ esistenza e la successiva non si può dare sensazione al cuna non esistendovi corpo materiale; e che quando le Scrit ture parlano dei dolori che l’anima soffre sulla via dell’inferno è a credersi che allora le anime si rivestano temporanea mente d’ un corpo aereo (S. pr. bh. 208-209). N ota. Gaudapada interpretando erroneamente il distico 39 della K arika pone accanto al corpo sottile o linga ed al corpo m ateriale una terza specie di corpo, il corpo generato dal padre e dalla m adre, il quale sarebbe come un quid medium tra i corpi sottili e la m ateria organizzata, quasi destinato a facilitarne il collegamento. Esso costituisce per cosi dire l’embrione; formato nel ventre della madre per effetto della mescolanza del sangue e dell’umor seminale esso avvolge il corpo sottile e si aggrega gli elementi m ateriali che per mezzo del cordone umbilicale il corpo della madre gli fornisce; e cosi dal suo svolgersi, dall'accedere ad esso degli elem enti grossolani risulta il corpo m ateriale propriamente detto; per modo che l’ individuo viene all'e si stenza costituito da tre specie di corpi : il corpo sottile, il suo immediato rive stim ento (il corpo generato), il corpo m ateriale propriamente detto (Gaud.
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82 123). A ragione osserva W ilson che questa distinzione è lungi dall’essere giustificata; in quanto che anche la seconda specie di corpi si riduce in fondo ad elem enti materiali. Ed in ciò conviene lo stesso Gaudapada quando asserisce che per la morte il corpo nato dal padre e dalla madre separato dal linga cessa di esistere e si dissolve nella terra e negli altri clem enti grossolani (Gaud. 121). 11 distico 41 porge occasione ad un'altra varietà d’interpretazione alla quale s’accosta Vijnana e, fra i recenti espositori, il Lassen. Secondo Vijnana i cinque elem enti sottili non offrono un sostegno abbastanza materiale agli organi nell'intervallo tra un’esistenza e l’ altra: quindi la necessità d'un terzo corpo intermedio fra i due, composto delle parti più sottili dei cinque ele menti grossolani. Conforme a ciò la Karika 39 sarebbe da interpretarsi come la interpreta il Lassen: « Vi sono tre specie di corpi distinti (o materiali): i corpi (materiali) sottili, i corpi materiali animati generati dal padre e dalla madre, i corpi materiali inanimati »; e per corpo m ateriale sottile s’intende rebbe appunto il secondo corpo composto bensì dei cinque elem enti grossolani, ma sottile in paragone a quello generato. E la Karika 41 avrebbe questo senso: « 11 linga non può sussistere da sè; nella vita è sostenuto dal corpo materiale; ma oltre a questo esso è ancora rivestito d'un altro corpo (il corpo materiale sottile), il quale, quando la morte costringe il linga ad abbandonare il cori» sensibile, gli serve di sostegno nelle sue migrazioni ad altri mondi » (S. pr. bh. 2 1 2 -2 1 3 , 317). Vijnana non nasconde che la Tradizione e le Scritture non parlano che di due corpi; ma eg li spiega ciò col dire che in esse ven gono identificati il linga ed il corpo m ateriale sottile perché mutuamente si pre suppongono c sono amendue sottili (S. pr. bh. 212). Anzi egli crede di trovare nelle Scritture stesse la conferma delle sue teorie (S. pr. bh. 317-318); ma la sua interpretazione è aftàtto arbitraria. N o t a 2a Come appresso si vedrà, sebbene il Sankhya ponga il mondo come eterno, anche ad esso è comune la teoria dei Kalpas o periodi mondani alla fine di ciascuno dei quali il mondo intiero si dissolve per dispiegarsi quindi nuovamente nella varietà infinita delle sue forme al principio d’ un altro Kalpa. A ll’ inizio di ciascuno di questi grandi anni mondani i linga indi viduali risorgono dal seno della Natura che si ridesta in condizioni varie per effetto delle opere antecedenti le quali si sono perpetuate allo stato latente attraverso al lungo sonno della Natura. Vijnana invece introduce nel Sankhya il concetto vcdantico del creatore delle cose che sorge dalla natura in prin cipio dell’ anno mondano e che forma tutte le cose con la sua onnipotenza. Secondo lui quindi all’ origine esiste un solo linga, quello dell’essere divino il quale col processo del tempo si scinde in una m olteplicità d’ individui in seguito alla necessità che le anime godano il frutto delle opere antecedente mente connesse (S. pr. bh. 209, 211).
Poiché il corpo materiale non è che un ricettacolo inerte che riceve movimento e vita dal linga, questo solo
83 è la vera sede della nostra personalità empirica. L’attività, che esso possiede e che lo incalza nel suo fatale andare non gli viene dall’Anima, nè da alcunché altro di este rn o , ma è insita in esso medesimo, poiché non è che una specificazione della forza cieca della Natura la quale conduce l’individuo attraverso le esistenze per toglierlo a ll’illusione innata onde l’ esistenza stessa procede (Karika 42; Gaudap. 138, S. Sutra III, 16). Quindi esso non è alcunché di inattivo, un effetto delle azioni e reazioni esteriori, m a è il principio attivo di tu tta la nostra esistenza, il punto onde si dispiegano tutte le varie attività dell’essere nostro. I singoli organi possedono un’energia propria ed un agire proprio: gli stessi organi di senso non sono considerati come alcunché d’inerte desti nato a ricevere passivamente le impressioni esteriori, ma come altrettanti principii attivi i quali proiettano la loro funzione fuori della loro sede come una lampada proietta attorno a sè la sua luce ed entrano così in connessione coi loro oggetti che si trovano nella rispettiva sfera d’azione, accogliendone in sè una specie d’ immagine (Anir. 251, S. pr. bh. 318-319: cfr. Markus 30). Inoltre questa stessa ener gia che ogni singolo organo possiede non è mossa nè dipende da alcun altro principio, o da alcuno degli altri organi, ma procede nel suo svolgersi in virtù d’ una iniziativa sponta nea e tu tta p ro p ria ; e l’ armonia che è nel funzionamento concorde dei varii organi non è se non il risultato d’ una specie di coordinazione inconscia di queste attività indipen denti procedente da una necessità predeterm inata e fatale (Karika 31). Gli elementi sottili non entrano nella composizione del linga se non per dare al medesimo una certa stabilità, per servire come di sostegno agli organi che sono veramente la parte attiva ed essenziale del linga. Di questi una parte, i dieci organi di senso e d’azione, esercita l’attività propria in relazione al mondo esteriore, i rim anenti e cioè il manas l’a h a m k a ra e la buddhi godono d’un’attività puram ente in teriore, centralizzatrice, in quanto ricevono ed elaborano le
84 impressioni sorgenti dall’agire degli organi per trasm etterle all’Anima. Questi tre ultimi principii considerati come un tutto prendono il nome di o r g a n o i n t e r n o . Esso è non sola mente il centro della vita organica, ma anche della vita psichica; e perciò è dalla K arika paragonato ad un portinaio, laddove i dieci organi sono come le porte (Kar. 35). A dif ferenza di questi ultimi i quali non si riferiscono che agli oggetti attuali e presenti, esso abbraccia anche il futuro ed il passato: perchè esso è la sede della memoria e delle fun zioni intellettuali più alte (Kar. 33). Nonostante la sua unità l’attività dei tre organi che lo compongono rimane distinta e può essere simultanea o consecutiva. Il manas elabora per mezzo del lavorio interiore della coscienza le impressioni degli o rgani; l’a h a m k a ra dà loro l’impronta della persona lità; l’intelligenza concepisce in modo determinato, distinto, conclusivo ciò che gli è trasmesso per presentarlo cosi all’Anima (Kaum. 68). Il fatto psicologico si compie perciò vera mente solo nell’ intelligenza, nella quale esso assume la sua forma definitiva e diventa per virtù dell’Anima un fatto co sciente (Kaum. 81). Di qui la preminenza che viene attribuita fra gli organi all’intelligenza: in quanto essa è lo strumento immediato dell’Anima, paragonabile ad un primo ministro al quale si riferiscono tutti gli ufficiali subordinati e che solo è col m onarca in diretta comunicazione (Kaum. 81). Esam inata così la s tru ttu ra dell’a g gregato materiale dalla cui unione con l’Anima risulta il nostro io attuale ci rimane a vedere in qual modo l’Anima sia connessa con questo a g g re g a to ed in qual modo dalla detta connessione risulti la nostra esistenza cosciente. Tutti i fatti della vita cosciente si riducono in estrema analisi, secondo il Sankhya, ad affezioni dell’organo interno. Nel caso della sensazione precede una affezione degli organi esterni ; nel caso del pensiero a stra tto o del volere precede un’affezione del m anas (S. pr. bh. 188); ma in ogni modo quest’affezione procedente dallo spontaneo agire dell’ uno o
85 dell’altro delli organi viene quindi trasm essa dal manas all’a h a m k a ra ed alla buddhi per essere poi comunicata all’Anima. Ora ogni affezione dell’organo interno, comunque sia essa prodotta, è fatta consistere in una modificazione dell’ organo medesimo che si trasm uta secondo la forma dell’ oggetto cui la detta affezione si riferisce. « Dal contatto (dice Vijnana) con gli oggetti per mezzo degli organi esterni (nel caso della sensazione) o dalla considerazione d’ un segno caratteristico (nel caso dell’ induzione) etc. sorge dapprima nell’organo interno un’affezione che corrisponde alla forma dell’ oggetto » (S. pr. bh. 105). Ed altrove: « Sentire equivale ad accogliere in sè piacere o dolore, e sentire piacere o dolore equivale ad accogliere in sè la forma (dell’oggetto piacevole, doloroso etc.)» (S. pr. bh. 15). Ora l’Anima che è immutabile, perennemente libera da ogni diretta azione esterna come potrebbe modificarsi? È evidente che la com prensione spirituale degli oggetti non può da parte dell’Anima im portare alcuna recezione reale delle loro forme. È quindi forza am m ettere (poiché quanto alla sua partecipazione alle affezioni non cade dubbio), che essa accolga le affezioni piacevoli e dolorose solo come forme sovrappositizie, come impressioni che arrivano fino a lei senza modificarla meno m am ente, simili alle imagini che gli oggetti producono nello specchio (S. pr. bh. 15, 105-106, 118, 119, 124, 129 etc.) Onde nel sutra VI 28 è detto: « Come nel caso del fiore Hibiscus e del cristallo (non vi è reale colorazione del cri stallo da parte del fiore, così nel caso dell’Anima e dell’or gano interno) non vi è un vero influsso ma un’illusione ». Cioè come nel caso del riflettersi del fiore Hibiscus in un cristallo questo appare colorato in rosso, sebbene tale non s ia , per una fugace ed illusoria apparenza, cosi l’ Anima non è realmente impressionata dalle affezioni dell’organo interno, ma le riceve soltanto come un riflesso e l’attribuire alla medesima un reale influsso da parte delle affezioni è un’illusione (S. pr. bh. 200,345). E Narayana (citato in Wilson 23) dice: « Gli organi non apprendono da sè stessi gli oggetti, ma sono unicamente gli strum enti per mezzo dei quali quelli
86 sono avvicinati all’intelligenza; nè l’intelligenza apprende quelli (spiritualmente) essendo, come derivato della Natura, incapace di sentire; ma le inconscie impressioni o modifi cazioni dell’intelligenza prodotte per mezzo dei sensi sono comunicate all’Anima che, riflettendole mentre esse sono presenti nell’intelligenza, appare per tal riflessione effetti vamente affetta dalle medesime ». E V yasa nel suo com m entario agli Y oga sutra (II 17): « Quando il sattva dell’organo interno prova un turbam ento allora pare che nell’Anima sorga un turbam ento corrispondente; perchè questa riflette le forme di quello ». L’ Anima è da riguardarsi come uno specchio nel quale le affezioni dell’ organo interno si riflettono e riflettendosi diventano coscienti. In questo senso la Tradizione dice: « In questo grande specchio (l’Anima) cadono le imagini delle cose: esse si riflettono in lei come gli alberi della riva in uno stagno ». E nel Yogavasishta lo stato dell’Anima pura (cioè non più connessa con l’organo interno) è paragonato ad uno specchio nel quale non cade alcuna immagine dal l’esterno (S. pr. bh. 200). La partecipazione dell’Anima all’esistenza empirica si riduce quindi semplicemente a ciò, che in virtù della connessione con l’ag g re g a to materiale corrispondente essa comunica a questo la luce della spiritualità onde l’attività del medesimo diventa un’attività cosciente. La nostra esi stenza può in certo modo essere concepita come il risultato dell’unione d’una volontà inconscia ed attiva (il linga) con un intelletto im perturbato ed immobile (l’Anima) per virtù del quale i moti della prim a pervengono alla coscienza di se stessi. Tutto ciò che vi è in essa di a t t i v o appartiene al linga. T utt’al più in questo senso si potrebbe dire che l’Anima è il principio attivo della vita spirituale: nello stesso senso cioè in cui si potrebbe dire che l’Anima è la creatrice dell’ universo, perchè è solo in grazia della medesima che ha luogo [lo svolgimento delle cose. Poiché l’organo interno
agisce in virtù dell’Anima duplicemente: anzitutto in quanto solamente perchè esiste la luce dello spirito la m ateria è t r a tta a fruirne, ad organizzarsi sotto forma d’organo interno per esistere coscientemente ed agire; in secondo luogo in quanto tu tta l’attività della N atura ha luogo unicamente (come si vedrà oltre) pel fine di liberare l’ anima empirica dal dolore. Così è che si può dire che il vedere, il parlare etc. sono opera dell’Anima (S. Sutra II 29, S. pr. bh. 194). L’Anima causa questi atti solo per mezzo della connessione senza agire direttamente essa stessa, come è l’azione della calamita che fa muovere il ferro. Quando si dice che l’Anima compie le funzioni di vedere, parlare etc. si deve intendere che essa è la causa di queste funzioni nel loro complesso; quando si nega che l’Anima senta, veda, oda, parli etc. si deve intendere essere falso che essa compia i singoli atti, che ad essa direttamente appartengano queste funzioni. Per questo Vijnana dice che l’Anima possiede le qualità di agente e di non agente; essa è non agente in virtù della sua immutabilità; essa è agente in virtù della connessione (S. pr. bh. 194-195). Ciò che vi è di s p i r i t u a l e invece appartiene all’Anima. Il che deve essere inteso non nel senso che l’Anima vera mente senta, ma che è per l’Anima sola che le affezioni del linga sono sentite. Ciò che sente è l’affezione stessa, o meglio quell’ essere fittizio che sorge dal continuarsi della medesima luce cosciente attraverso alla indefinita serie di fatti che si succedono in un medesimo aggregato. Quindi è che nel sutra I 107 è detto: « Nè l’ uno nè l’altro (il piacere ed il dolore) esistono ancora quando si è pervenuti alla conoscenza ». Distrutta la nostra illusoria personalità empirica per mezzo della conoscenza, che cosa può ancora essere sede del piacere e del dolore? Non la N atura che è inconscia; non l’Anima che è inaccessibile ad ogni modifi cazione. Questo essere fittizio, questo insieme di fatti successivi insieme collegati dalla unità di coscienza costituisce la nostra
88 a n i m a e m p i r i c a . Essa è il nostro io quale ci è pre sentato dall’ osservazione interiore, la personalità finita, mutabile, soggetta al dolore, peritura, che ognuno di noi, fino a che rimane dal punto di vista dell’illusione, ritiene per il proprio Sè in luogo dell’Anima purissima. Essa è alcunché di illusorio, perchè in realtà non è il nostro Sè, nè è ciò che a noi appare vale a dire alcunché di spirituale, di attivo e di mutabile; ma è semplicemente l’insieme dei nostri fatti interiori, un succedersi di fatti coscienti nei quali la parte attiva e mutabile, il fatto mate riale appartiene non a noi ma alla Natura, e la parte spiri tu ale , la coscienza è un’ irradiazione del Sè immutabile. Nonpertanto in essa risiedono veramente il piacere e il do lore; poiché nè la N atura nè l’Anima sono per sè stesse suscettibili dell’ uno o dell’altro. Quindi essa è anche il vero soggetto della schiavitù e della liberazione. La schiavitù consiste nel perpetuarsi accanto all’Anima di questa indi vidualità fittizia e dolorosa: la liberazione nel suo annien tam ento eterno. Vijnana si preoccupa anche di esplicarci in qual modo noi acquistiamo la rappresentazione di questo nostro io empirico. È evidente (egli dice) che essa deve, come tutte le altre rappresentazioni, èssere l’effetto della riflessione nell’Anima d’ un’affezione dell’ organo interno; perchè se si assumesse essere la medesima un semplice ripiegarsi della coscienza spirituale su di sè stessa, darebbe in tal caso la stessa cosa fungere da oggetto e da soggetto ad un tempo, il che è assurdo (S. pr. bh. 118). Ecco quindi la necessità di u n ’altra riflessione, della riflessione dell’Anima nell’organo interno, dalla quale è causata in questo l’affezione corri spondente alla rappresentazione dell’ io. L’organo interno, dice Aniruddha (p. 301) è lucido come uno specchio, onde il Sè vi si riflette. Il Sè riflettendosi nell’organo interno vi si riflette con tutte le sue affezioni riflessionali, provocandovi così la rappresentazione di queste. Questa seconda riflessione è un’affezione (non però ancora conscia) dell’organo interno, nella forma di coscienza riflessa delle prime affezioni del
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l’organo interno. Detta riflessione poi dell’Anima nell’organo interno si riflette nuovamente nell’Anima e di qui nasce la coscienza riflessa, l'immagine del nostro io empirico (cfr. Refut. 56, nota). È in questo modo che noi abbiamo una rappresentazione della nostra personalità empirica. L’Anima si riflette con tutte le sue affezioni riflessionali nell’organo interno; e questa nuova affezione dell’organo interno passa come tutte le altre e per il solito processo nel dominio della coscienza. Cosi l’igno r a n t e , colui che non sa distinguere l’Anima dalla N atura, comprendendo in un concetto solo l’Anima e l’organo interno in essa riflesso, ne fa una cosa sola ( l’anima empirica), cui egli attribuisce la spiritualità (che è proprio solamente dell’Anima) e l’attività (che è proprio solo dell’organo interno). « Cosi (dice la K arika 20) per effetto della connessione con l’Anima (è conseguente doppia riflessione) il corpo sottile che è materiale appar spirituale e l’ Anima che è inattiva appare attiva ». N ota . La teoria della riflessione è concepita diversamente nel Kaumudi. L’ intelligenza, dice Vacaspati, è cosa materiale, non spirituale: quindi anche le sue affezioni sono non spirituali. L ’ Anim a invece è spirito puro. Ora questo si riflette nell’ intelligenza e vi proietta una sua im agine; dal che nascono due effetti: 1. che le affezioni inconscio dell’ intelligenza diventano spirituali, conscie; 2. che lo spirito stosso viene percepito come senziente etc. La differenza tra le due veduto consiste quindi in questo che Vacaspati am m ette una sola riflessione, quella dell’ Anima n ell’organo interno, per mezzo della quale l ' Anima illum ina i processi materiali dell’ organo interno e nel tempo stesso proietta in questo 1' imagine che dà origine al concetto empi rico dell’ io; Vijnana invece am mette due riflessioni, quella dell’organo in terno n ell’ Anima che è causa della spiritualizzazione dol prim o, e quella dell’ Anima nell’ organo interno che è causa della formazione del concetto d e ll'io empirico (Kaum. 30; cfr. Markus 13-14). Vijnana cerca di confutare questa opinione nel commento al sutra I 87. E però facile vedere che si tratta unicamente d’ una differenza verbale la quale non tocca punto all’ essenza della cosa. 1 vocaboli di « connessione, riflessione, etc. » non sono che vocaboli simbolici usati per esprimere c h e , come per la vicinanza della calamita al ferro si produce in questo il m ovim ento, cosi sotto l’ influsso dell'A nim a si svolge nei processi dell’ organo interno la spiritualità. Quale sia poi 1’ imagine simbolica usata a rappresentare sensibilm ente questo concetto, ciò è indif ferente.
90 La riflessione delle affezioni dell’ organo interno nell’Anima ha luogo durante lo stato di v e g l i a , la quale è ca ratterizzata da ciò che durante la medesima l’ organo interno può essere modificato mediante l’azione dei sensi ed il s o g n o , durante il quale le modificazioni dell’organo interno sono provocate solo dalle impressioni preesistenti. Nel s o n n o p r o f o n d o invece e nell’ e s t a s i (come pure negli altri stati d’ incoscienza) la riflessione delle af fezioni nell’ Anima è sospesa e perciò la vita empirica subisce in certo modo un’ interruzione. Quindi il sutra V 116 dice: « Nell’estasi, nel sonno profondo e nella liberazione le anime hanno la natura di Brahma (cioè vivono dell’esistenza as soluta) » (S. pr. bh. 158-159; Garbe 276). Senonchè nel l’estasi e nel sonno profondo l’ Anima, per quanto nella pienezza della sua n a tu r a , è pur sempre connessa con il germe delle rinascite future (le impressioni delle opere e la non distinzione) che, inerendo all’organo interno, nel tempo dell’estasi e del sonno senza sogni non si riflette nell’ Anima e quindi non la limita. Ciò è dovuto nell’estasi a ll’in differenza suprem a che in quel momento raggiunge il suo culmine ed oppone quindi come un ostacolo invincibile al l’attività delle affezioni, cioè alla loro-riflessione nell’Anima; nel sonno profondo al prevalere del tamas, il quale produce nell’ organo interno un oscuramento il quale impedisce che le affezioni si riflettano nell’ Anima. Ma in ambo i casi ces sate le cause impedienti le affezioni si riflettono nuovamente nell’ Anima e l’ individuo riprende la sua esistenza ordinaria. Invece nella liberazione la riflessione non è più solo tem poraneamente impedita da cause passeggiere, ma è defini tivamente soppressa per la definitiva distruzione dell’organo interno; e quindi ogni ritorno all’esistenza finita è reso impossibile (S. Sutra V 119; S. pr. bh. 326-327).
Ca p .
IV
Lo svolgersi dell’esistenza empirica individuale è con siderato dal Sankhya come un processo meccanico, fatale, rinnovantesi incessantemente da tu tta l’ eternità per effetto d’ un principio attivo, l’i g n o r a n z a , che, pur essendo esso medesimo una manifestazione dell’esistenza, è ad un tempo causa del manifestarsi della stessa. P e r « ignoranza * intende il Sankhya quel modo spe ciale ed innato dell’ intelletto individuale che persiste fino all’apparire della conoscenza liberatrice e per cui l’individuo è istintivamente tratto a formarsi una certa intuizione, un certo concetto dell’ essere proprio e del mondo dal quale è guidato nei suoi sentimenti, nei suoi desiderii, nelle sue azioni. Essa si traduce per la m aggior parte degli uomini in as senza della riflessione filosofica nella superstizione religiosa; per i pochi i quali sono pervenuti ad un concetto filosofico delle cose si risolve in varie specie d’errori i quali consistono nell’ identificazione dell’Anima con la Natura o con l’ intel ligenza o con la Personalità o con alcun altro dei principii prodotti (Kaum. 87-88). In ogni caso però l’errore essen ziale è sempre il medesimo : e consiste nell’ ignorare la distinzione dell’Anima e della N a tu ra , nel sostituire alla concezione vera quella qualsivoglia altra concezione la quale toglie di vedere in tu tta la sua chiarezza la distinzione dei
due principii. Perciò il Sankhya chiama l’ ignoranza anche col nome di n o n d i s t i n z i o n e . N ota . Essa non deve quindi essere intesa nel senso puramente nega tivo di a s s e n z a d e l l a c o n o s c e n z a - « L ’ ignoranza non è (dice Vyasa nel commento alli Y oga sutra li, 5) una sem plice negazione, ma ó una intui zione di natura p ositiva, opposta alla vera conoscenza ». Ed in più luoghi Vijnana definisce l'ignoranza come quel modo di concepire l’Anima e la Na tura nel quale la distinzione dell’una e dell’altra rimane ignorata (S. pr. bh. 5 8 -5 9 , 339). E nemmeno essa è (come nel Vedanta e nel neobuddismo) un principio cosmico, una misteriosa potenza esistente antecedentemente e separatamente dagli esseri empirici (S. Sutra I, 20). Dire che l ’ ignoranza è la causa efficiente della mia esistenza attuale significa sem plicem ente che nel tempo passato esistette in qualche parte o sulla terra o in cielo un essere cosi reale come
10 sono attualm ente, il quale non possedette la conoscenza e perciò avvolto nelle spire della trasmigrazione produsse necessariam ente l’ esistenza mia presente (Old. 2 261-2 6 2 ).
Ora l’ esistenza non è a ltr o , secondo il S ankhya, che 11 tradursi in atto della concezione erronea dell’individuo con tutti i suoi effetti. La confusione soggettiva dell’Anima e della N atura da p a rte dell’ individuo ha cioè la potenza di creare fra i due principii quel reale rapporto che è la connessione. Come poi dall’ ignoranza procedono i desiderii, le azioni, etc. cosi dalla connessione procede la creazione speciflcantesi in corrispondenza alla varietà dei desiderii e delle azioni in un’ indefinita varietà di condizioni materiali. L’ ignoranza è quindi causa dell’esistenza sotto questo primo punto di vista: che l’ esistenza nel suo complesso non è che il realizzarsi del v o l e r e s s e r e dell’ individuo (in questa espressione comprendendo e l’ignoranza fondamentale e i suoi effetti), ed il fatto primo ed irreducibile di questo voler essere è l’ignoranza. Ma il desiderio di esistere, l’ allettatrice speranza che col miraggio di beni illusorii induce l’anim a a voler fruire della vita cosciente non hanno in realtà altro effetto che quello di trascinarla in un mare di dolori senza fine. Il do lore è inseparabile dall’esistenza e l’accompagna in tutte le sue forme. Quindi sorge nell’anim a il desiderio di sfuggire al
93 dolore; e per questo e rra di forma in forma finché non sorge in essa la conoscenza che il dolore è essenziale all’esistenza e che per sopprimere il dolore è necessario sopprimere la coscienza, separare il proprio Sè dalla Natura cui il dolore appartiene. Acciocché sia soddisfatto questo secondo desiderio che nella sua più comune espressione si traduce nell’univer sale desiderio di rimuovere il dolore, ma importa in fondo il desiderio di separare l’Anima dalla Natura, è necessario che l’Anima fruisca, l’ una dopo l’a lt r a , di tutte le forme di questa, e contempli la N atura in ogni sua parte abbrac ciando in tutta la sua pienezza la profonda miseria dell’esitenza. Quindi l’ignoranza è causa dell’esistenza anche sotto questo secondo punto di vista: che affinchè sia tolta l’ ignoranza (e con essa l’esistenza) è necessario che l’anima passi di forma in forma onde, vedendo nel succedersi delle esistenze che il dolore è inevitabile, essa prenda in orrore l’esistenza e se ne separi (Anir. 119). Questo esprime in breve la K arika 21: « L’ unione dei due, simile a quella d ’uno zoppo (simbolo deU’Anima che è spirituale ma inattiva) è d’un cieco (simbolo della Natura che è non spirituale ma attiva), ha luogo affinchè l’ anim a veda la N atura (ossia fruisca dell’esistenza) e ne venga se p a ra ta (per via dell’esperienza del dolore). Da essa la creazione ». Così l’esistenza è ad un tempo un effetto dell’illusione innata che eccita l’ individuo a fruirne ed un’ esperienza, un doloroso amm aestram ento che ha per iscopo di distruggere quell’ignoranza funesta. Nè nel fatto che l’esistenza pre suppone l’ ignoranza e l’ignoranza alla sua volta presuppone un’ antecedente esistenza vede il Sankhya alcun assurdo; in quanto così l’ ignoranza come l’ esistenza durano da tu tta l’eternità causandosi reciprocamente in modo alterno come la pianta ed il seme (Kaum. 67). L’ ignoranza precede l’esi stenza solo logicamente (e perciò le è attribuito il carattere di causa); in quanto essa è il fatto fondamentale dell’esistenza tolto il quale è tolta anche l’esistenza (S. pr. bh. 57). N ota . L a te o ria d e ll’ ig n o ra n z a n o n h a e v id e n te m e n te p e r fin e di d a re
un’esplicazione dell’ esistenza in sè stessa, la quale è considerata anche dal Sankhya come un processo doloroso e fatale del quale non è possibile o non è necessario ricercare la ragione ultima. Essa dice sem plicem ente che vi è da tutta l'eternità accanto alla Natura ed all’Anim a un essere fittizio (anzi una m olteplicità infinita di esseri fittizi) la cui esistenza si può ricondurre al voler essere causato dall'ignoranza, e che una provvida fatalità conduce per la via dolorosa dell’ esistenza alla quiete del nulla per mezzo del non voler essere; ma non dice perchè quell’ ignoranza e quel voler essere siano. Questo non può infatti ricondursi a nessuna proprietà essenziale della Natura e dell’A nim a, perchè in tal caso la schiavitù sarebbe eterna, nè ad alcun proposito dell'una o dell'altra perchè l ’ una e l’altra ne sono incapaci (la prima perchè inconscia, l’ altra perchè inattiva) e perchè anche ammettendo un tale proposito esso condurrebbe ad assurdi (Cfr. Qankara nel comm, ai Ved. Sutra II, 2, 6). Da rigettarsi è quindi l'opinione che pare adottata da Vacaspati (Kaum. 67, 107; cfr. Qankara iij. H( 2, 10) secondo la quale nell’Anima esisterebbe realmente una facoltà, anzi una tendenza a sentire, ad esistere coscientemente e nella Natura una tendenza ad essere sentita (e quindi a liberare l ’Anim a); perchè, come Vijnana oppone, non si vede come la conoscenza potrebbe distruggere tali tendenze; ed ove si assummesse l ’esi stenza essere causata dal t e m p o r a n e o attuarsi dL tali tendenze (e questo attuarsi essere a sua volta condizionato dalla non distinzione), non si vede che cosa questa spiegazione verrebbe ad aggiungere (S. pr. l)h. 34). Così anche le frequenti espressioni e della Karika e dei Sutra e dei commentatori nelle quali è apparentemente attribuito alla Natura il proposito di liberare l'anim a debbono essere intese come espressioni figurate dell’ imm utabile e cieca necessità per cui l’ esistenza corre fatalm ente alla liberazione e non s'arresta fino a che non vi è giunta: se non si vuole del resto cadere in con traddizione con altri passi (p. es. S. Sutra III, 60, etc.) nei quali l'agire della Natura è detto essere affatto inintelligente, meccanico, fatale come il tempo.
L’ ignoranza come ogni altro modo dell’intelletto inerisce all’ intelletto stesso, ma tutto il linga ne è penetrato; essa accompagna ( in colui che ne è vincolato), a n im a , colora, per così dire, ogni atto dell’esistenza, si imprime come un carattere nelle singole azioni e quindi nelle impressioni mate riali che ogni azione lascia come residuo nel linga, in queste impressioni persiste e vive quando l’ esistenza sensibile è temporaneamente interrotta e da esse risorge nell’ esistenza novella dispiegandosi in nuove illusioni ed in nuovi errori. Quindi l’ignoranza è, come la catena delle esistenze, senza principio e si perpetua ininterrottam ente dall’eternità nella
95 forma di successione alterna di predisposizioni all’ignoranza e di forme specifiche d’ignoranza (S. Sutra VI, 12). Essa causa direttamente soltanto la connessione dell’ Anima con la N a tu ra , ossia quel determinato rapporto t r a i due principii il quale si rivela nel fatto della coscienza. P er virtù poi della connessione la N atura è meccanicamente tr a tta ad evolversi, a produrre dal proprio seno i ventitré principii della creazione e ad organizzarsi in modo che l’anima possa fruirne; quindi per questo riguardo l’igno ranza è anche causa (sebbene indiretta) dell’attività della Natura traducentesi nelle condizioni d’esistenza e nelle af fezioni materiali del linga. Ma, si d irà , poiché la N atura è unica, perchè non si evolve essa in modo identico per tutte le Anime causando a tutte una schiavitù identica? Onde nasce la varietà delle condizioni materiali? Questo ci conduce a tra tta re della seconda causa dell’esistenza, cioè del m e r i t o . N o t a . L’ opinione di Aniruddha che identifica l'ignoranza con la con nessione è evidentemente errata. A ragione oppone Vijnana la concorde affer mazione dei testi che l'ignoranza è c a u s a della connessione ed obbietta il persistere della coscienza (è però della connessione) nel liberato vivente nel quale pure ogni traccia d’ ignoranza è scomparsa (S. pr. bh. 32-33, 56-57). N ota 2 ‘‘ Nei sutra 13-19 del libro V è confutato l ’opinione vedantica la quale fa procedere la schiavitù immediatamente dalla forza dell’ Illusione. Si confr. Qankara II, 1, 9-10.
Ogni atto umano lascia, secondo il Sankhya, dietro di sè una tra c cia , un residuo, un’impressione materiale la quale in fondo non è altro che una lievissima, inapprezza bile modificazione nelle proporzioni dei tre gunas costituenti l’intelletto. Nell’intelletto risiedono quindi un grandissimo numero di queste impressioni o d i s p o s i z i o n i ; le quali specificandosi in un’ indefinita varietà corrispondente all’indefinita varietà delle azioni sono la causa dell’estrema diversità che noi osserviamo nel cara tte re , nelle tendenze, nell’agire e nel destino degli individui. Esse vi permangono fuori del dominio della coscienza senza dar segno della loro
96 esistenza; ma quando il loro tempo è giunto (il che accade ordinariamente nelle esistenze successive, ma può aver luogo anche nella medesima esistenza), germ inano, si svolgono, fruttificano. Ed il loro frutto è duplice: da una parte si di spiegano nelle condizioni individuali d’esistenza creando così il d e s t i n o dei singoli individui; dall’ altra si riproducono in novelle azioni onde poi nuove disposizioni e così indefi nitamente (Markus o. c. 37 e ss.) Le disposizioni, sebbene per sè innumerevoli, vengono dal Sankhya rag g ruppate sotto quattro categorie, che sono come i quattro modi fondamentali in cui l’intelletto può per effetto delle azioni modificarsi. Ciascuno di essi poi può an cora svolgersi, secondo che è in prevalenza il sattva od il ta m a s, in due opposte direzioni; per cui noi abbiamo gli otto modi seguenti dell’ intelletto: conoscenza ed ignoranza, impassibilità e passione, virtù e vizio, potenza ed impotenza (Karika 23, 43). L’ intelletto nell’ assoluta sua purezza possiede natu ralm ente la conoscenza, l’ impassibilità, la virtù, la potenza soprannaturale. Ma Ivapila solo, il gran saggio, venne al l’esistenza con questi quattro modi in tu tta la loro perfe zione. Gli altri uomini nascono con l’ intelletto più o meno offuscato dal tam as e perciò in essi le quattro sopradette perfezioni sono non innate ma acquisite (Kaum. 86-87). Questi otto modi appartengono propriamente all’intelletto solo, ma tutto il linga ne è penetrato e dominato; come un abito che quando è posto in contatto con un flore odoroso s’ imbeve tutto del suo profumo (Kaum. 84).
Il primo di questi modi è la c o n o s c e n z a . L’ intelletto penetrato dalla conoscenza perviene alla distinzione e per essa alla liberazione. Quando essa domina l’intelletto anche gli altri modi si subordinano ad essa; la virtù cessa d’essere uno stimolo all’agire pio e si manifesta negli esercizi ascetici (Kaum. 69, Gaud. 83); l’impassibilità si rivela in quella in differenza interiore suprem a che è come il preludio immediato
97 della liberazione. L’individuo il cui intelletto è giunto alla acquisizione della conoscenza è un perfetto (Kaum. 89). Ma all’infuori del caso di colui che giunge alla perfe zione la conoscenza è solitamente oscurata nell’intelletto dal prevalere del tam as e si volge nel suo contrario che è l’ i g n o r a n z a . Essa è, come abbiamo veduto, il modo che causa il perpetuarsi dell’esistenza determinando il conti nuarsi della connessione dell’Anima con la Natura. Gli altri sei modi specificano poi variamente la sua efficienza ge nerica. L’i m p a s s i b i l i t à è quel modo dell’ intelletto che nasce dalla negazione del desiderio. Essa è di due specie : interiore ed esteriore. La prim a è quella che accompagna la cono scenza. La seconda è quella di colui che disprezza gli og getti sensibili osservando i loro difetti, la inquietudine che cagiona il loro acquisto e la loro conservazione, l’incon venienza di attaccarvi il proprio cuore, etc. Essa è già un alto grado di perfezione; ma nondimeno se è disgiunta dalla conoscenza l’ individuo non riconosce la distinzione dell’Anima e della Natura, scambia la Natura od una delle sue forme per il Sè ed immergendosi in questa contempla zione che lo conduce alla quiete suprema non riesce ad altro che ad effettuare l'annegam ento della propria indivi dualità nella Natura. Il suo corpo sottile ed i suoi elementi sono riassorbiti; ma ciò non equivale alla liberazione e non è che il termine d ’una serie di migrazioni, poiché l’anim a viene nuovamente dotata d’un altro linga che ricomincia il corso delle esistenze (per effetto delle disposizioni posteriori che non sono state annullate) fino a che ottenga la cono scenza (Kaum. 88) S. Sutra III, 54: « Con l’assorbimento nella causa non è ottenuto il fine dell’ Anima; perchè di nuovo si ritorna come nel caso d’ un uomo che si sommerge (e che ritorna tosto a galla) ». Yijnana commenta: « Come un uomo che si è sommesso ritorna a galla, così (al prin cipio d’ un nuovo anno mondano) le anime assorbite nella m ateria ritornano elevate alla dignità divina; poiché (in tal caso) nè le impressioni lasciate dietro a sè, nè (la forza della T
98 retribuzione delle opere, cioè del merito) sono state distrutte dalla conoscenza. Quindi etc. ». La na tu ra tende ciecamente ad operare la liberazione dell’anima per mezzo della cono scenza; questa non essendo stata effettuata, essa ritorna ad agire e ricomincia il corso interrotto delle migrazioni (S. pr. bh. 233-234). L’opposto dell’impassibilità è la p a s s i o n e , il desiderio, il cui effetto è di dirigere in questo o quel senso l’attività della N atura mossa dall’ ignoranza, conducendo a determi nate condizioni d’esistenza (Kar. 45). « Colui che concepisce in cuor suo desiderii, nasce fatalmente qua o là (in quei luoghi e in quelle condizioni che erano state oggetto dei suoi desiderii) » (S. Sara cap. I). La v i r t ù è quel modo dell’intelletto che è causato dalle opere pie e dai sacrifizi ed ha per effetto di elevare l’individuo alla beatitudine celeste (Kaum. 69). Questa non è però nè assoluta nè eterna e non dura se non fino a tanto che la relativa disposizione ha pienamente prodotto il suo fru tto ; dopo di che sottentrando l’effetto di nuove disposizioni l’esistenza ricomincia sotto nuove forme. Il vi zi o che è la modificazione dell’ intelletto procedente dalle male azioni causa il decadimento dell’individuo nella scala delle esistenze e la rinascita sotto forma di animale o di vegetale (Gaud. 143). La p o t e n z a (soprannaturale) è quella modificazione dell’ intelletto che è causata dalla contemplazione estatica (S. Sutra III, 29). Essa appartiene del resto naturalm ente (come le altre perfezioni, la conoscenza etc.) all’intelletto; se non che nella m aggior parte degli uomini è annullata dal sopravvento del rajas o del tam as (S. pr. bh. 186). Per effetto di questo modo l’ individuo perviene all’acquisto delle otto facoltà soprannaturali, ossia all’onnipotenza della propria volontà. P e r quanto meravigliosi siano gli effetti che la potenza produce, non conviene però dimenticare che in essa non è il fine dell’anima. Anche i suoi effetti, quando essa non è accom pagnata dalla conoscenza, sono transitorii come ogni altra cosa al mondo (S. Sutra Y, 82-83).
99 L’ i m p o t e n z a è causa invece del non adempimento delle nostre volontà; e quindi fonte di miseria senza fine. N o ta . Secondo il Sankhya le opere virtuose (in esse comprendendo anche i sacrifizi e le cerimonie religiose) hanno il solo effetto di perpetuare la schiavitù e non hanno nessun rapporto nò diretto nè indiretto con la libe razione. Esso esclude quindi assolutam ente che il saggio sia legato all’osser vanza dei precetti della morale e della religion e, i quali non rappresentano per esso che un punto di vista inferiore e connesso con l'ignoranza, di nessuna efficacia per il fine ultim o dell'uom o. S. Sutra 111, 2 5 : « Poiché la liberazione è un effetto della sola conoscenza, la combinazione (della mede sima con le opere) e la sostituzione (di queste a quella) sono escluse ». lb. 26: « Come dalla combinazione d’ alcunchó d’illusorio visto in sogno con alcunché di reale visto nello stato di veglia (non procede nulla), cosi non può procedere la liberazione da amendue ». Cioè come al compimento d’un lavoro materiale non si possono far concorrere duo strum enti dei quali l’uno sia alcunché d’ illusorio e l ’altro sia alcunché di reale, cosi è assurdo credere che le opere, le quali relativam ente all'A nim a sono come un’ illusione passeggiera basata sulla non distinzione, e la conoscenza, che è l’ essenza vera dell’ Anima e quindi alcunché di eterno e di supremamente reale, possano concorrere insieme a produrre la liberazione^ Per questo errano coloro i quali credono che l ’ uomo possa contribuire al prodursi della liberazione con gli esercizi ascetici (Kaum. 92 ); i quali secondo il nostro sistema hanno l’unico fine di purificare l’ intelletto, di impedire che il desiderio e le altre impurità soffochino il germe della conoscenza, ma per sé stessi non hanno nè direttamente nè indirettamente alcun'efficacia positiva. Egualm ente inefficaci sono le opere prima della conoscenza. Sia che esse siano compiute col desiderio di ricompensa, sia che siano compiute senza desiderio, il loro frutto è sempre il medesim o, quello cioè di prolungare l’esistenza, non di condurre alla conoscenza (S. Sutra 1, 84-85). Quindi l’opi nione di Vijnana e di Aniruddha che le opere suscitino la conoscenza (S. pr. bh. 103, 179, 260-261; Anir. 47-48, 122) è da considerarsi come un’aggiunta arbitraria precedente dal desiderio di conciliare le dottrine del sistem a con i precetti della morale religiosa.
Il primo degli effetti in cui si dispiegano le disposizioni è la c r e a z i o n e d e l l i n g a , vale a dire la produzione di quel complesso di condizioni materiali in cui si rinasce per effetto dell’agire antecedente. La trasmigrazione consiste appunto nel successivo pas saggio del linga da un complesso di condizioni ad un altro. F.ino a che rimane un residuo delle disposizioni che hanno
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cominciato a recare il loro frutto nell’esistenza presente, questa continua; allorché esse si sono dispiegate intera mente la vita si spegne per rinnovarsi in quelle condizioni che saranno state determinate dalle disposizioni sottentrate a quelle che hanno esaurite il loro frutto. Soggetto delle migrazioni è il linga; l’anim a omnipresente non può mi g rare (S. S. Ili, 3). La migrazione può avvenire tanto in una nuova esi stenza um ana quanto in uno dei mondi superiori od infe riori all'umanità. I mondi superiori sono otto e comprendono gli otto mondi divini a cominciare da quello di Brahma e degli dei altissimi a venire a quello dei Pi^acas (demoni), che è il più vicino all’umanità. 1 mondi inferiori sono cinque e comprendono quelli degli animali domestici, degli animali selvaggi, degli uccelli, dei rettili, delle piante. Nei mondi superiori prevale il sa ttv a ; nei mondi inferiori il tam as; e nel mondo umano il rajas (Karika 54, S. Sutra III, 48-50). In ciascuno di essi il linga si riveste d’ un corpo ma teriale e gode o soffre secondo il suo destino. Quindi anche i vegetali che a noi sembrano inanimati sono in realtà ani mati; perchè in ognuno d’essi risiede come in noi un linga; e sebbene non posseggano la facoltà di percepire le cose e ste rn e, hanno una certa coscienza interna e sono capaci di piacere e di dolore. « Quando l’anima abbandona un corpo animale questo si corrompe: la pianta, quando l’anima l’abbandona, si dissecca » (S. pr. bh. 328-329; S. Sutra V, 121- 122).
Il secondo degli effetti delle disposizioni è l’agire ( c r e a z i o n e d e l l e d i s p o s i z i o n i ) . Non però l’agire è proprio di tutti i gradi dell’esistenza; perchè in alcuni di essi, come per esempio nel mondo dei vegetali, il linga non fa che sopportare le conseguenze del suo agire passato (S. Sutra V 123). L’agire individuale è classificato dal S ankhya, secondo che esso è più o meno vicino alla liberazione, in quattro
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categorie che sono l’e rr o r e , l’ impotenza, la q u iete , la perfezione. L’errore e l’impotenza comprendono l’attività del g ra n dissimo numero di coloro i quali per l’acciecamento in essi prodotto dalle passioni e dallo sfrenato desiderio dei piaceri del senso o dalla superstizione, ovvero per l’ impotenza del loro intelletto ad elevarsi alla concezione filosofica della verità suprema sono impediti di pervenire alla conoscenza. La K arika divide l’errore in cinque specie che sono: l’oscurità, l’ illusione, la grande illusione, le tenebre, le fitte tenebre. L’oscurità consiste nell’ identificare l’Anima con la Natura o con uno dei suoi sette primi prodotti (intelligenza, perso nalità, i cinque elementi sottili) ed è quindi di otto specie. L’ illusione consiste nell’egoismo diretto all’acquisto delle otto facoltà soprannaturali. Gli dei p. es. che hanno ottenuto le otto facoltà suddette sono nell’ illusione che esse non siano periture e si lusingano che le stesse siano inerenti al loro Sè e perciò di d u rata e te rn a; in conseguenza di che non pervengono alla liberazione (Kaum. 90, Gaud. 149). L’estrema illusione consiste nell’amore smoderato dei cinque oggetti del senso: siccome però questi sono terreni o celesti, cosi l’estrema illusione è di dieci specie. Le tenebre compren dono tutte quelle condizioni mentali d’agitazione, di impa zienza, d’odio che sono causate in noi dalla ricerca affannosa dei dieci piaceri del senso e degli otto modi di potenza sovrannaturale; ed è perciò di diciotto specie. Le fitte tenebre consistono nel folle timore di perdere il godimento dei dieci piaceri del senso o l’esercizio delle otto facoltà sovranna turali: ed è di diciotto specie. Per gli dei è la pa u ra di perdere il loro g rad o , per gli uomini il terrore della morte e della sventura. L’impotenza è divisa in ventotto specie secondochè risulta dall’imperfezione di alcuno degli undici organi (im perfezione del manas o imbecillità: cecità, sordità etc.), ovvero da una delle diciasette affezioni dell’intelletto che sono il contrario delle nove specie di acquiescenza e delle otto specie di perfezione le quali verranno ora enumerate.
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La quiete comprende l’attività di coloro che, pur non essendo più impediti dalle passioni, nè dalla superstizione, nè dall’ impotenza, non hanno ancora potuto elevarsi alla perfezione e si sono arrestati in una specie di indifferenza a p a tica , la quale è certo di gran lunga preferibile allo stato di colui che giace nell’errore o nell’impotenza, ma è ancora un’imperfezione perchè la disposizione dell’impassibilità (pro cedente dalla quiete) conduce alla soppressione tem poranea dell’esistenza, non alla liberazione eterna. La quiete è suddi visa in nove specie, delle quali cinque sono esteriori, quattro interiori. Le prime cinque diconsi esteriori od oggettive perchè partono non dall’io , ma dalle cose esteriori ed hanno luogo prim a che l’ individuo sia pervenuto all’acqui sizione della conoscenza. Esse riposano quindi non sull’ap prezzamento filosofico che degli oggetti del senso fa l’uomo giunto alla conoscenza, ma come su d’una certa stanchezza, sullo scoraggiamento che gli oggetti del senso producono in chi ne ha tristemente esperimentato la fallacia e la miseria. La prima risulta dalla considerazione del dolore che è inerente all’acquisizione degli oggetti desiderati. La seconda dalla considerazione del dolore risultante dalla affannosa conservazione dei beni sensibili acquistati. La terza dalla considerazione del dolore che risulta dal carattere eminen temente passeggero e transitorio dei beni sensibili il cui acquisto ha costato tanti dolori e tante fatiche. La quarta dalla considerazione del dolore prodotto dalla insaziabilità dei desideri che tanto più crescono quanto più si crede di soddisfarli. L’ ultima infine dalla considerazione del dolore che non può non sorgere in noi quando si pensi che non è possibile alcun nostro godimento senza che ne risulti dolore ad altri esseri viventi. — Le quattro specie di quiete sog gettiviva od interiore hanno luogo invece quando colui che p ur ha già appreso la distinzione dell’Anima e della Natura più non si cura mediante la meditazione di a rrivare alla intuizione immediata della distinzione, ma s’acquieta in qualche falsa opinione o speranza. La prim a è quando l’uomo si acquieta nella considerazione seguente : « La intuizione
103 Wu immediata della distinzione è veramente una modificazione della Natura (perchè è un atto dell’ intelligenza) e solo la N atura può effettuarla. A che dunque la meditazione ed il resto? Basta che io mi rim anga inerte e passivo aspettando ». La seconda risulta dalla considerazione seguente: « La intui zione della distinzione per quanto consti d’ un processo m a teriale non può procedere dalla N atura sola: a ciò sono indispensabili le pratiche dell’ascetismo ed il rinunciamento al mondo: appigliamoci dunque a questi mezzi ». La terza è dalla riflessione seguente: Anche l’ascetismo non ha la forza di condurre alla salute: ma è necessario attendere che venga il suo tempo. Col processo del tempo la salute v e rrà : non preoccupiamoci oltre ». L’ultima è dalla consi derazione seguente: « Anche col tempo non avviene neces sariamente la liberazione, ma solo col favore di qualche buona occasione. Perciò basta attendere la fortuna e non v’è bisogno d’altro » (Kaum. 9 2 - 9 3 , S. pr. bh. 2 2 8 - 2 2 9 , Anir. 131-134). N o t a . Per i nomi m istici delle nove specie d’ acquiescenza si confr. il Kaumudi p. 9 3 -9 4 e Gaudap. in W ilson 155. Sotto le quattro specie di quiete interiore si nascondono molto probabilmente le opinioni di antiche scuole affini al nostro sistem a, nelle quali esso ravvisava bensì una certa perfe zione, ma una perfezione inferiore ed incompleta. Dal Samannaphala sutta (tr. Grimblot 199) si vede infatti che la dottrina del fatalismo assoluto non era ignota alle scuole contemporanee di Budda.
La perfezione infine comprende l’ attività di coloro i quali sono prossimi alla liberazione suprem a, ed è di otto specie. Secondo V acaspati le tre prime specie di perfezione (allontanamento del triplice dolore) si riferiscono a coloro che sono già pervenuti alla liberazione. Le altre cinque invece si riferiscono a coloro che sono già pervenuti bensì all’acquisizione della conoscenza, ma ancor hanno da tra sformare tal conoscenza (che è ancora puram ente esteriore ed inefficace) nell’ intuizione immediata della distinzione. Le cinque attività che costituiscono queste cinque ultime specie di perfezione sono lo studio, l’ insegnam ento, la meditazione, la conversazione con amici, la purificazione dell’ intelletto. Esse rivestono il carattere di causa perchè
104 conducono alle tre prime. Lo studio è semplicemente l’atto di raccogliere dalla bocca del maestro le parole nelle quali è contenuta la dottrina filosofica. L’ insegnamento è la cono scenza del senso delle parole, l’effetto prodotto nell’ intelli genza del discente dallo studio. La meditazione è la prova del contenuto dell’ insegnamento secondo un metodo logico. La conversazione è la comunicazione con i maestri ed i discepoli che ci conferma nella nostra opinione. La purificazione final mente consiste nel rimuovere dal nostro intelletto ogni traccia d’errore o di dubbio (Kaum. 95-96). Secondo Gaudapada invece la prima delle otto perfezioni è quella di colui che perviene da sè stesso m editando, indipendentemente da ogni tra dizione o inse g n a m en to , alla conoscenza liberatrice. La seconda è quella di colui che vi perviene per avere udito da altri l’ esposizione della dottrina. La terza quella di colui che vi perviene per mezzo dello studio dei libri sacri. La quarta, quinta e sesta sono costituite dalla acquisizione della conoscenza occasionata dal triplice dolore. La settima è quella che procede dalla conversazione con amici. L’ ul tima infine è quella che procede dalla liberalità verso i santi personaggi, i quali vi comunicano in cambio la scienza eh’essi posseggono (Gaudap. 156). Secondo Aniruddha le otto specie di perfezione sono l’ applicazione dell’ animo alla filosofia, lo studio della filosofia, la meditazione, il conversare con i sa g g i, la purificazione interiore, l’ allontanamento (sebbene non assoluto) del triplice dolore (Anir. 135). N o ta . Poiché non solo lo condizioni materiali d’esistenza ma anche gli atti sono necessariamente predeterminati dallo disposizioni, è chiaro che il Sankhya esclude il libero arbitrio. Ciò efie agisce infatti è il linga; il quale, come abbiamo veduto, è mosso da un’ attività spontanea e cieca, diretta e predeterminata in ogni minima sua parte dalla legge del merito. Come poi con questa concezione deterministica debbano conciliarsi le prescrizioni relative a ll’acquisizione della conoscenza il nostro sistem a non dice; veggasi a questo proposito l ’esposizione dei Y oga di P. Markus p. 5 8 -59.
Così dalle azioni procedono le disposizioni, da queste nuove condizioni di esistenza e nuove azioni, da queste
105 nuove disposizioni; così è da tu tta l’ eternità e così indefi nitamente nell’ avvenire. La diversità delle condizioni in cui si specifica la schiavitù per i diversi individui ha quindi la sua ragione nella sua esistenza ab aeterno e nel suo inin terrotto perpetuarsi attraverso le esistenze in virtù della legge del merito (S. Sutra III, 62). Perciò questo può essere definito: quella forza invisibile per effetto della quale la varietà delle condizioni e delle azioni di ciascuna esistenza è invariabilmente predeterm i n ata per mezzo delle disposizioni dalla varietà delle azioni delle esistenze antecedenti. Come è facile vedere esso non è nè una legge morale, nè un ordine morale imposto alle cose da un essere superiore: è una potenza cieca ed ineso rabile, una legge naturale dell’esistenza, una forza creatrice inerente ai desiderii ed alle azioni dell’ individuo, alla quale l’ individuo stesso non può sottrarsi. La sua ferrea necessità cui nessuno sfugge nè in cielo nè in te rra si estende tanto quanto si estende l’attività della N atu ra: esso determina e regge non solamente gli accidenti della vita um ana, ma anche i più insignificanti fenomeni naturali (Anir. 185). A quel modo però che nell’ordine degli effetti la mul tiforme ed incessante attività della N atura dipende da un fatto primo ed essenziale che è la connessione, così nel l’ ordine delle cause la forza del merito specificante in un’ infinita varietà l’attività unica della N atura è intera mente subordinata all’ignoranza. Finché l’ ignoranza per siste , persiste anche l’ efficacia del merito e l’ esistenza continua; ma quando l’ ignoranza si è dissipata, allora le azioni cessano di produrre impressioni attive, le disposizioni cessano di produrre i loro effetti e la catena delle esistenze è rotta per sempre.
Poiché la serie delle esistenze è senza principio ed il numero delle anime che attendono la liberazione è infinito, anche il mondo delle esistenze empiriche deve essere, come la Natura e l’ Anim a, infinito ed eterno. La sua durata è
106 però distinta in un infinito numero di creazioni successive, alla line di ciascuna delle quali l’universo ritorna alla sua causa ed alla varietà delle singole esistenze subentra la vita immobile ed uniforme dell’ indistinto primitivo nel cui seno riposano le anime non liberate. Ma al principio del nuovo periodo d’ esistenza l’attività sterm inata della N atura si ri d e sta , i prodotti si sviluppano nuovamente dalle loro cause ed una nuova creazione incomincia. Durante il tempo della gran dissoluzione le disposi zioni dei linga persistono allo stato latente ed ineriscono al sattva che è come il germ e dal quale al principio della nuova creazione si svolgerà la prima delle produzioni della N atura, l’ intelligenza; e da esse risorgono poi al principio del nuovo Kalpa (periodo d’esistenza) i corpi sottili per ricominciare', a quel modo che dalle rispettive impressioni sa rà determinato, la serie delle esistenze e delle migrazioni (S. Sutra III, 5 - 6 ; Anir. 111-113; S. pr. bh. 186-187). N ota . La dottrina delle successive creazioni e distruzioni dell’universo, che è comune a tutte le scuole filosofiche dell’india non è che l'elaborazione filosofica d’ un’antica tradizione cosmogonica. Cfr. Iacobi n. Gott. Gel. Anz. 1895 p. 210 e la breve trattaz. del Garbe (apparsa durante la «lampa del presente lavoro) « Sankhya und Yoga » nel Grundr. d. Indoar. Philologie etc. Ili, 4, Strassburg 1896, a p. 16, 20. L’analogia che esso presenta con la cor rispondente teoria degli stoici è veramente singolare.
*
Ga p .
V.
Dopo d’avere nei precedenti capitoli tolto in esame i due principii irreduttibili in cui la realtà si risolve e d’aver ricercato come e perchè si uniscano a produrre l’esistenza empirica, rimane ora che noi trattiam o di quello che è come lo scopo e la conclusione naturale di tutto il sistema, vale a dire della liberazione. Già si è veduto che la liberazione non è altro per il Sankhya che il termine naturale e necessario dell’esistenza, l’ effetto meccanico e fatale del vario agire della Natura. La N atura (esso dice), possiede un’ energia ed un’attività propria per cui contiene già in sè in potenza tutte le forme e le esistenze dell’ universo. Ma per sè essa è incapace d’agire, perchè è inintelligente e non può avere una volontà propria. Ciò che la spinge ad agire è la connessione creata dall’ignoranza. La connessione con l’anim a ridesta in lei l’attività produttrice che giaceva latente e determina il successivo sviluppo dall’ indistinto primitivo del complesso dei distinti onde è costituito l’ universo. Il moto della Natura, è paragonato dai S u tra al moto del ferro in vicinanza della calamita immobile. L’Anima immobile ed inerte eccita l’agire della Natura come la calamita, nella quale non è nè moto nè volontà, causa il moto del ferro (S. pr. bh. 115). Quindi la creazione delle cose avviene da parte della N atura in virtù d’ una forza propria, ma d’ una maniera affatto meccanica, senza intelligenza nè volontà. Questo suo
108 agire cieco e necessario ha nondimeno l’ effetto di condurre per successivi gradi l’anima alla liberazione. S. Sutra III, 59: « Sebbene non intelligente, essa (la Natura) agisce come il latte >. Il seno secerne il latte per un proposito di cui esso è ignaro, il nutrimento del giovane animale ed inconscia mente cessa quando quel proposito si è effettuato. Cosi la N atura, sebbene irrazionale, si svolge nell’ universo effet tuando la liberazione dell’anima e quando questa è avvenuta cessa d’agire. Lo stesso paragone è ripetuto nella Kar. 57: « Come l’effluire del latte che è per sè inconsapevole è la causa dello sviluppo del vitello, cosi l’agire della Natura è la causa della liberazione delle anime ». Essa effettua la liberazione dell’anim a disvelandosi tu tta innanzi a lei sotto le molteplici sue forme ed operando in lei la distinzione suprem a: ma in tutto ciò non agisce nè per una volontà propria, nè per un fine intrinseco. Perciò la K arika la chiama generosa: in quanto non essendo intelligente non può nè aver coscienza, nè gioire dell’opera sua. « L’attività creatrice della Natura per quanto spontanea ha luogo in grazia d’un altro, perchè essa non ne gioisce: come il cammello che trasporta lo zafferano e non è destinato a gioirne » (S. Sutra III, 35; Kaum. 102). Ed una volta pervenuta l’anima alla liberazione, l’atti vità sua meccanicamente cessa. Dissipata l’ ignoranza dal l’intelletto, la distinzione opera la separazione dei due principii: cessata la connessione, cessa per la N atura ogni stimolo ad agire. La K arika ed i Sutra esprimono figura tam ente questo concetto con paragoni diversi. « Come gli uomini nelle opere loro non agiscono che allo scopo di sod disfare i loro desideri (e, questi soddisfatti, si arrestano), cosi la Natura non agisce che per la liberazione dell’anima (e, questa compiuta, desiste dall’agire) » « Kar. 58; Gaud. 169-70; S. Sutra VI, 43). » S. Sutra III, 63: « In seguito alla conoscenza distintiva l’attività creatrice della Natura cessa come il cuoco dopo d’aver cucinato ». Lo stesso paragone nel Kaumudi (p. 100) S. Sutra III, 69: « Come una danzatrice essa (la Natura) sebbene attiva cessa di agire quando ha raggiunto
109 il suo scopo ». E più ampiamente nella Karika 59: « Come una danzatrice cessa di danzare quando essa si è m ostrata agli spettatori (ed ha finito la sua parte), così cessa la N atura di agire quando essa si è rivelata all’ anim a ». E nella K arika 61: « Niente vi è di più timido al parer mio che la Natura, la quale una volta che si è accorta di essere stata veduta non si espone più allo sguardo dell’ anima ». Vacaspati comm enta: < Come una donna di buona famiglia ritirata e pudica quando le avvenga di cadere sotto lo sguardo d’ un estraneo per esserle inavvertentemente caduto giù il lembo del velo si prende cura di non essere più così sorpresa uu’altra volta, cosi anche la Natura che è di sentir delicato quant’aitri mai poiché è sta ta veduta per la cono scenza distintiva non si lascia più vedere u n 'a ltr a volta » (Kaum. 103). Nei Sutra si ripiglia lo stesso paragone ma con un’intonazione diversa. S. Sutra III, 70: « Egualmente la N atura più non si avvicina quando il suo fallo è stato riconosciuto, come una donna di buona famiglia ». Quando la N atura si è svelata ad un’anim a e quindi sa che l’anima ha scoperto a lei essere dovute tutte le miserie della m igra zione, essa non si avvicina più a ll'a n im a ; come una donna di buona famiglia si vergogna quando pensa essere nota al marito la propria colpa e più non gli s’avvicina (Anir. 150; S. pr. bh. 242). N o ta . Ma si domanderà, se l’ attività creatrice della Natura cessa per virtù del sorgere della conoscenza distintiva in un’ anima, perché non ne segue la liberazione di tutte le animo ? Perché la Natura cessa d’agire solo relati vamente a quelle anime che hanno ottenuto la conoscenza, non per le altre. Come la rappresentazione d’un serpente sebbene cessi di produrre i suoi effetti in coloro i quali si sono accorti d 'aver scambiato una corda per un serpente, pure non cessa di agitare coloro che non ne hanno ancor compresa la vera natura suscitando in essi timore ed altri sim ili sentim enti, cosi la Natura quan tunque abbia cessato d’agire per quelle anime che sono giunte alla conoscenza non cessa tuttavia d’agire per le altre creando l ’ intelligenza etc. (S. Sutra III, 66; S. pr. bh. 240). La causa determinante della crca/.ione è in primo luogo, come si è detto, la connessione della Natura con l’Anima sorta per via della non distinzione, in secondo luogo il inerito. Ora nel liberato cessata la non distinzione e quindi la connessione, abbruciato dal fuoco della conoscenza il frutto delle opere, non vi è più motivo per cui la natura leghi l ’anima per
110 mezzo dell’intelligenza e degli altri principii. N egli altri invece persiste la non distinzione, persiste il frutto delle opere: quindi la creazione continua perchè ne persistono le cause determinanti (S. S. Ili, 6 6 -6 7 ).
Al Sankhya si oppone in questo punto la teoria del Yoga che riconosce nella creazione e nel cammino dell’a nima verso la liberazione l’ opera della provvidenza d’ un essere divino (i