Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger 9788898694273, 9788898694846

"Due gli aspetti, o momenti, di questo lavoro: l'uno 'storico-critico', fondamentale per comprendere

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Italian Pages 452 [450] Year 2016

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Table of contents :
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Studio sulla fenomenologia di Heidegger
Prefazione
Introduzione
Capitolo primo La dimensione di senso del discorso fenomenologico: la verità performativa della fenomenologia
Premessa
Capitolo secondo La performatività negativa della fatticità
Capitolo terzo Con-aversi: il negativo fotografico del
Capitolo quarto La rottura della práxis aristotelica: la riformulazione del performativo
Capitolo quinto
e intransitività dell’essere: il carattere «medio» del performativo negativo
Capitolo sesto L’impersonalità del performativo medio e negativo: le radici indicativo formali dell’hermeneúein
Bibliografia e abbreviazioni
Indice
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Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger
 9788898694273, 9788898694846

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Lucilla Guidi

Il rovescio del performativo Studio sulla fenomenologia di Heidegger

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 5 - Proposte

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Lucilla Guidi

Il rovescio del performativo Studio sulla fenomenologia di Heidegger

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 5 - maggio 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694273 ISBN – E-book: 9788898694846 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Cello on black background © arybickii - Fotolia.com

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«Es ist so schwer, den Anfang zu finden. Oder besser: Es ist schwer, am Anfang anzufangen. Und nicht zu versuchen, weiter zurückzugehen.» L. Wittgenstein, Über Gewißheit

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Alla mia famiglia

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Prefazione di Vincenzo Vitiello

“il più nascosto dono della verità” 1. Heidegger immer wieder. È accaduto anche a grandi personalità della storia, che in vita avevano richiamato su di sé l’attenzione del mondo, di patire post mortem di un notevole calo di interesse pubblico. Esemplare, per limitarmi all’ambito della filosofia, il caso di Hegel, che Marx lamentava venisse trattato come “un cane morto”1. Forse lo ‘spirito del mondo’ ha bisogno di silenzio, prima di esprimersi su un autore ‘celebrato’ in vita, e cioè se la sua opera merita di passare dagli effimeri clamori della cronaca alla più duratura presenza nella storia (dell’eterno è bene che noi mortali non si parli). Ma con Heidegger ciò non è accaduto: le ‘luci della ribalta’ non si sono mai spente su di lui, anche dopo la morte. E quando accennavano ad affievolirsi, le polemiche sulle sue scelte politiche e ideologiche – l’adesione al nazionalsocialismo e l’anti-

1. K. Marx, Il capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 19645, pp. 44-45.

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giudaismo – presto le riaccendevano2. Tuttavia mai Heidegger ha occupato la scena mondiale della filosofia e ancor più dei “media”, come da quando è cominciata la pubblicazione dei Quaderni neri, in particolare per lo scandalo sollevato dalle sue affermazioni contro gli ebrei. Schwarze Hefte, già il titolo fa pensare a chissà quali postume rivelazioni, ed invece ha modestissima ragione: il colore della copertina dei quaderni usati dal filosofo. Invero del nazismo e dell’antigiudaismo di Heidegger – mai da lui rinnegati, come pure qualcuno, un Poeta ebreo, aveva invano sperato, e pur chiesto3 – si sapeva, se non tutto, abbastanza, e non era certo poco. È peraltro sufficiente aprire le Conferenze di Brema, per sapere come la pensava Heidegger ancora nel 1949: è lì che si legge l’agghiacciante confronto tra la meccanizzazione dell’agricoltura e “la fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas e nei campi di sterminio”4. Questo per dire che l’importanza dei Quaderni neri va cercata altrove: nell’incessante interrogarsi del filosofo, in un periodo cruciale per la storia del mondo – gli anni che vanno dal 1932 al 1948 –, sull’incidenza della filosofia, la sua ma non solo la sua, nella prassi pedagogico-politica, e sul futuro del mondo, in un intreccio di temi che evidenziano insieme l’inquietudine del pensatore e la piena, orgogliosa consapevolezza del valore della sua opera. Non esitò, infatti, ad

2. Ben diverso destino conobbe Giovanni Gentile, ucciso dai partigiani dopo la sua adesione alla Repubblica di Salò (in merito v. G. Mecacci, La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Adelphi, Milano 2014), e per lunghi anni ‘rimosso’, in Italia, dal dibattito filosofico. 3. Il riferimento è a Paul Celan, del quale si veda la poesia “Todnauberg”: Id., Poesie, testo tedesco a fronte, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Mondadori, Milano 1998, pp. 960-963. In merito rimvio al mio I tempi della poesia Ieri / Oggi, Mimesis, Milano 2007, P. II, cap. II, “Erbe e pietre: il linguaggio della natura. Paul Celan”, pp. 123-138. 4. M. Heidegger, Bremer und Freiburger Vorträge, Klostermann, Frankfurt/M. 1994, trad. it. di G. Giurisatti, Adelphi, Milano 2002, p. 50.

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accostare Essere e tempo alla Fenomenologia dello spirito e al Capitale, affiancando le loro date di pubblicazione, come a suggerire nascoste cadenze temporali nella storia dell’essere5. E tra le note degli anni Quaranta, una delle più lunghe ed articolate, si legge che “L’unico pensiero” della sua vita, “che gli era stato destinato”, era “Essere e tempo”. E “Cosa è pensato in Essere e tempo? Essere e tempo pensa la verità dell’essere”. Die Wahrheit des Seins: la ‘domanda’, la Frage, su cui, senza quiete, aveva sempre ‘sostato’6. Niente di meglio per introdurre alla lettura di questo lavoro di Lucilla Guidi, dedicato all’interpretazione del libro che rese Heidegger un filosofo weltbekannt, che la diretta testimonianza del suo Autore sulla centralità dell’opera in tutto l’arco della sua vita. Testimonianza, peraltro, di molti anni successiva non solo alla pubblicazione di Sein und Zeit, ma anche alla cosiddetta “svolta”: quella Kehre su cui tanto si è scritto, spesso prestando attenzione più alla cronologia delle opere, che non al pensiero in esse espresso. Ha detto una volta Heidegger, parlando di sé, Herkunft bleibt stets Zukunft: “L’origine resta sempre futuro”7. Aveva certamente una grande considerazione di sé, ma non si può negare che si conoscesse bene. 2. Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger, sebbene sia limitato allo studio del decennio 19195. Cfr. M. Heidegger, Gesamtausgabe (= GA), Klostermann, Frankfurt/M, Bd 97, 2015, p. 131; ma cfr anche Bd. 94, p. 53. 6. “Stehenbleiben” – è il verbo che Heidegger impiega: cfr. GA, Bd. 97, pp. 174-177, e 181. 7. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Niemeyer, Pfullingen, 19755, p. 96; trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 1973, p. 90.

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1929, contribuisce, attraverso un’originale ri-lettura di Sein und Zeit e del suo processo di elaborazione, ad illuminare in modo significativo l’intero Denkweg heideggeriano. Infatti, come si dirà in modo più dettagliato al termine di questa Prefazione, il ‘conflitto’ con sé stesso che ha travagliato il filosofo per tutta la vita, e che, a partire dalla metà degli anni Trenta, assumerà la ‘figura storica’ di un’opposizione radicale tra la concezione pagana del mondo, da lui molto rimarcata8, e il mai spento sentimento giudaico-cristiano (si potrebbe anche dire “paolino”), trova la sua prima espressione in Essere e tempo, nel ‘contrasto’ tra l’ontologica appartenenza di Dasein al mondo e la Grundstimmung dell’“angoscia”, e di quanto ad essa si connette: dall’insignificanza (Unbedeutsamkeit) del mondo alla differenza tra proprio (eigentlich) ed improprio (uneigentlich). Due gli aspetti, o momenti, del lavoro della Guidi: l’uno propriamente ‘storico-critico’, volto alla ricostruzione del pensiero di Heidegger nel decennio sopra indicato, fondamentale per comprendere con la formazione l’esito di questa filosofia, che sin dall’inizio ha manifestato insoddisfazione per il modo tradizionale di praticare l’esercizio del pensiero; l’altro essenzialmente ‘teoretico’, che, approfondendo il senso di detta insoddisfazione, indica un passaggio essenziale per la riflessione filosofica: il passaggio dal ‘contenuto’ del pensiero – e del linguaggio, in cui il pensiero esprimendosi si ‘realizza’ – alla loro ‘pratica’. È un mutamento radicale che riporta la filosofia alla sua dimensione originaria, l’esistenza, fuori della tradizionale partizione “vita-riflessione”, “io-mondo”, ovvero, come nella modernità si usa dire, “soggetto-oggetto”. Ed è qui che l’originalità dell’interprete maggiormente si manifesta. Chiaramen-

8. Sino a dettare una fantasiosa etimologia del proprio cognome: cfr. GA, Bd. 97, p. 62.

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te i due aspetti, o momenti di questo studio, si richiamano a vicenda, in una circolarità virtuosa, per cui se l’intento propriamente teoretico – il concetto di “performatività negativa” – regge l’intera ricostruzione storica, questa a sua volta costituisce il terreno su cui quella concezione poggia, avendo avuto in quel pensiero la sua prima origine. La Guidi muove dalla diversità d’impostazione dell’“ermeneutica” heideggeriana rispetto alla “fenomenologia” husserliana, da cui pure quella ermeneutica, per esplicita ammissione del suo autore, deriva. In primo piano è la critica della logica del giudizio, in quanto tutta piegata sul ‘contenuto’ del discorso, sul ‘significato’, anche quando, anzi proprio quando, si fa valere con il primato dell’“intuizione categoriale” il principio dell’intenzionalità. Husserl resta, infatti, legato all’opposizione vero/falso, che caratterizza la logica del ‘significato’. Di qui il ‘passo indietro’ di Heidegger da Husserl ad Aristotele, in vista di una più originaria esperienza di verità. Avendo come riferimento l’interpretazione heideggeriana del capitolo X del libro Theta della Metafisica – aspramente critica dell’esegesi modernizzante, contraria alla concezione «non solo aristotelica, ma antica della verità», di Schwegler, Jaeger e Ross, che lo ritengono un frammento di ‘gnoseologia’ estraneo al contesto ‘ontologico’ del libro9 –, la Guidi rileva che nella distinzione aristotelica della phásis dalla katáphasis, Heidegger individua un ambito d’esperienza anteriore a quello della distinzione vero/falso proprio della logica apofantica: l’ambito del “toccare”, thigheîn, e dell’enunciare, phánai, in cui la cosa appare in presa diretta nel suo esser-proprio. Qui l’opposto del vero, dell’alethés, non è l’errore – la falsa attribuzione di un predicato ad un soggetto –, ma l’ágnoia, il non sapere, il

9. M. Heidegger, Vom Wesen der menschlichen Freiheit. Einleitung in die Philosophie, GA, Bd. 31, 1982, p. 82.

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mè thiggánein, il “non toccare”, dovuto all’assenza della cosa. Thighein, thiggánein: l’esperienza del phánai, del dire non predicativo, approssima la conoscenza noetica all’apprensione diretta della cosa, propria dell’aísthesis, della sensazione. Appare qui in primo piano la distanza che separa Heidegger da Husserl. L’intuizione che mette in presenza della cosa è per Heidegger non ‘teorica’, ma lato sensu ‘pratica’. Attiene cioè alla cura delle cose, per le cose, al Besorgen. Conosciamo il gesso – esemplifica Heidegger – non dal semplice guardare, ma quando, scrivendo alla lavagna, ne sperimentiamo la friabilità, lo spessore, il colore. È l’uso, non lo sguardo, che mette in presenza della cosa, che la rivela. E l’uso è in senso profondo ‘estetico’, sensibile, vale a dire: in esso si fa esperienza del legame originario dell’uomo non con le cose soltanto, ma col mondo. Il passaggio dalla pura presenza della cosa, dal suo semplice ‘esser-davanti’, vorhanden, a chi l’osserva, alla cosa quale ‘mezzo d’uso’, e cioè non semplicemente alla mano, ma per la mano, zuhanden, di chi la adopera, mostra l’originaria appartenenza di questi al mondo. Al mondo, non alla singola cosa, perché non ci sono singole cose, ma sempre e solo cose in relazione, sempre e solo cose in “connessioni operative” (Wirkungszusammenhänge: Dilthey). E questo è il mondo, il mondo circostante (Umwelt), l’insieme di operazioni ‘significanti’ che Heidegger chiama Bedeutsamkeit, significatività, a cui chi opera appartiene sin dall’inizio, nel senso che il suo ‘esserci’ è ontologicamente costituito da questa appartenenza. Nel Besorgen, nel ‘prendersi cura’ delle cose adoperandole, trasformandole, producendole e/o distruggendole, colui che opera fa parte della ‘significatività del tutto’, del mondo, alla pari di tutte le altre cose: nell’uso non soltanto la mano modella la cosa, sì anche la cosa modifica la mano. Da-sein, il termine impiegato da Heidegger per indicare “chi opera” – invece di ”uomo”, troppo pregiudicato dalla interpretazione tradizionale –, evidenzia questa appartenenza allo spazio del mondo,

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al Da del Sein, al Ci dell’Essere, al “qui”. Questa appartenenza costituisce l’essenza dell’uomo, appunto il suo Da-sein10. Chiara dunque la strategia dell’interpretazione heideggeriana di Aristotele, che la Guidi mette in luce: spostare l’asse del problema dalla Logica all’Etica, dalla definizione dell’òn hê ón all’analisi della phrónesis, dell’operare prudente. Lo testimonia già la traduzione di phrónesis con Gewissen: la coscienza operativa, non la coscienza riflessiva (Bewußtsein). Ma quello che ora è necessario rilevare è che la costante, mai dismessa meditazione su Aristotele, considerato il vertice della filosofia occidentale (rammento l’affermazione che si legge nel Nietzsche: «Aristoteles denkt griechischer als Platon», ove grie­chischer dice: ursprünglicher11), non fa di Heidegger un ‘aristotelico’, come pur s’è detto da interpreti anche autorevoli. La critica ad Aristotele è costante, non meno dell’apprezzamento: dal Natorp-Bericht sino ai Beiträge zur Philosophie, ed oltre. La Guidi sottolinea in più punti del suo lavoro questo aspetto. Ora, però, altro va messo in rilievo, più importante ai fini della comprensione di questa originale ‘lettura’ di Heidegger, e cioè che nel processo di formazione dei concetti fondamentali di Sein und Zeit la riflessione su Paolo ha avuto maggiore incidenza che non l’interrogazione dei testi di Aristotele.

10. Cfr. M. Heidegger, Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkit – Einsamkeit, GA, Bd. 29-30, 1983, pp. 526 ss (trad. it. di P. Coriando, Il melangolo, Genova, 1992,, pp. 464 ss.). Ma sul significato di Dasein resta fondamentale, anche per la ‘comprensione’ della Kehre, il Brief über den Humanismus, in Id., Wegmarken, Klostermann, Frankfurt/M 19782, pp. 311-360 (trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 267-315. 11. M. Heidegger, Nietzsche, Bde 2, Neske, Pfullingen 19612, II, p. 228; trad. it. di F. Volpi, vol. unico,. Adelphi, Milano 1994, p. 721.

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3. L’interesse di Heidegger per Paolo è rivolto non al ‘teologo’, ma all’‘uomo d’azione’, che vuole fondare un’ekklesía. Il che spiega la scelta heideggeriana delle Lettere di Paolo da ‘commentare’: non l’Epistola ai Romani e le due ai Corinzi, ma quella ai Galati e le due ai Tessalonicesi (la seconda per altro di dubbia attribuzione). Indica, inoltre, che la torsione fenomenologica dalla ‘teoria alla pratica’ non attende lo studio di Aristotele per essere formulata (le date, per quel che valgono, ci aiutano: il corso sulla Introduzione alla fenomenologia religiosa di cui le pagine su Paolo costituiscono la seconda parte, risale all’inverno 1920-21; il Natorp-Bericht è del 22). L’intento pratico ‘coinvolge’ il linguaggio: il fondatore di una chiesa non può non privilegiare la profezia, il discorso che educa, che ‘edifica’, alla glossolalia, al parlare diretto, interiore, con Dio. Ed è su questo aspetto che si concentra l’interesse della Guidi: sul linguaggio della prassi, e cioè sull’aspetto performativo del linguaggio. Che come tale è sempre legato alla fatticità (Faktizität) del presente vivente. Diversamente dal linguaggio constatativo, che ‘oggettiva’ il tempo, e pertanto, pur quando parla del momento presente, e contingente, lo inquadra nella serie ‘immobile’ del tempo – nel tempo che permane e non cambia, perché se cambiasse pur esso, dovremmo pensare ad un tempo ulteriore, non mutevole, per poter su di esso misurare il tempo che muta12–, il linguaggio proprio dell’agire parla sempre nel presente vivente, nell’adesso (nyn) dell’azione. Prestare attenzione alla fatticità del linguaggio performativo comporta un radicale mutamento della concezione del tempo. Il presente, nonché stare tra passato e futuro, diviene il centro da cui su dipartono passato e futuro. Muta il presente, non meno il passato, che pur esso non sta semplicemete dietro al presente, ma muta col presente stesso, essendo ciò che il pre12. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Akademie Textausgabe, de Gruyter, Berlin - New York 1968, A 183, B 226

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sente continuamente ‘ripete’, wiederholt, dalla sua prospettiva. Ma non è semplicemente il tempo della ripetizione (Wiederholung), è il tempo della ripetibilità (Wiederholbarkeit), della possibilità, cioè, di un’infinita ripetizione, custodendo esso un’inesauribile fonte di effettive ripetizioni (interpretazioni). Muta contemporaneamente (simul, háma) il futuro, che proprio nella ‘ripetizione’ (o “ripresa”: nella Wiederholung di Heidegger è ben presente il kierkegaardiano Gjentagelsen) di possibilità precedentemente non realizzate si compie. Palese la contiguità della riflessione su Paolo alla Daseinanalyse svolta in Essere e tempo, quale emerge dal saggio della Guidi. Ma siamo appena all’inizio, perché di quanto di essenziale sul tempo, e sulla struttura stessa di Sein und Zeit, Heidegger deve non a Paolo, ma alla sua riflessione su Paolo, dobbiamo ancora dire. Ed è la parte più interessante di questo libro. 4. Torniamo alla Erläuterung heideggeriana di Paolo, e in particolare delle due Lettere ai Tessalonicesi. La Guidi, trattando della disgiunzione sozómenoi/apollýmenoi, salvati/reietti, rileva che è tutt’altra dall’opposizione vero/falso. Coloro che credono nell’Anticristo non sono reietti, lo sono diventati. La motilità (Bewegtheit) dell’esistenza domina la vita del cristiano. La salvezza, così come la perdizione, non è uno stato, un essere, ma un divenire. Un unico divenire, s’aggiunga, perché non si dà salvezza che nell’afflizione, nella tribolazione, en tlypsei. Il ‘salvato’ è un ‘reietto’ che soffre, che patisce l’angustia della sua perdizione nel mondo. È nell’angustia, e per l’angustia, che è salvato. Perdizione nel mondo – s’è detto, per evidenziare immediatamente il nesso, attentamente studiato dalla Guidi, tra queste pagine su Paolo e quelle di Essere e tempo dedicate alla Faktizität, alla Verfallenheit ed alla distinzione tra Eigentlichkeit e Uneigentlichkeit – su cui sono sorti

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tanti equivoci tra gli interpreti. La Faktizität (fatticità, in italiano, e cioè: la situazione di fatto in cui si trova l’agire, e non “effettività”, che traduce invece il tedesco Wirklichkeit, l’operare che di fatto viene compiuto, posto in atto, en érgo), rileva la Guidi, ed è un passaggio analitico decisivo, coincide con la Verfallenheit, con la deiezione nel mondo, con la perdizione nella significatività del mondo del Man, del neutro Si, in cui ogni intenzione “propria” si perde. La perdita del “proprio” nell’“improprio” (dell’Eigentlichkeit nell’Uneigentlichkeit) non è un evento ‘particolare’ della storia, caratterizzato dal segno meno. È l’evento stesso della storia, ovvero: di quella motilità dell’ek-sistenza, che si compie nel passaggio dall’infinitezza indeterminata dell’esser-possibile, Möglichsein, al sempre determinato e finito poter-essere, Seinkönnen, che opera scegliendo e cioè de-cidendo, separando, un possibile dagli altri. Passaggio, peraltro, già da sempre avvenuto, come spiega Heidegger commentando Paolo: ché non si è, e neppure si diviene, ma “si è divenuti” apollýmenoi. L’esser-divenuto, das Gewordensein, sta a significare che si è salvi solo nel mondo, nella perdizione del mondo; che si è autentici – per adoperare l’equivoca traduzione italiana di eigentlich e uneigentlich – solo nell’inautenticità. Il nesso dis-giuntivo, la disgiunzione unitiva di sozómenoi e apollýmenoi indica qualcosa di radicalmente diverso dal rapporto hegeliano tra profondo e superficie: la superficie non realizza il profondo, lo nega essendolo. La Guidi spiega questa Verbindung-Nichtverbindung (uso di proposito il linguaggio di Hegel per spingere all’estremo il contrasto tra i due pensatori), richiamando l’hos mé, il “come non” paolino. Non si tratta di un “non” cosale, oggettivo, effettuale; non riguarda il was, il “che cosa”, il contenuto dell’esperienza; e neppure il Dass es ist, il che c’è; concerne il wie, il “come”, il modo di esperire quello stesso che tutti – ‘salvati’ e ‘reietti’ – esperiscono. Non vi sono due mondi, ma uno solo: il mondo dei sozómenoi è il medesimo mondo degli

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apollýmenoi. Ciò che li ‘divide’ è la modalità della loro esperienza: i ‘salvati’ sono nella dispersione del mondo non perduti. Per adoperare il linguaggio del quarto Evangelio, i sozómenoi sono nel mondo (en tô kósmo) ma non del e dal mondo (ek toû kósmou). Questo “non” non sopprime il mondo, né sottrae il sozómenos ad esso. Dà però all’esperienza del mondo una diversa Stimmung, un’altra tonalità affettiva. Ed è per questa diversa tonalità affettiva – sottolinea la Guidi – che l’angoscia si distingue dalla paura, che Heidegger, infatti, definisce come un’angoscia deietta, perduta nel mondo. 5. È in questo orizzonte concettuale ed esistenziale, fortemente problematico, che la Guidi articola la propria concezione della performatività negativa del linguaggio. Come v’è un mondo e un divenire, così v’è un linguaggio. Come il mondo e il divenire – il farsi mondo del mondo, die Welt weltet, e il farsi tempo del tempo, die Zeit zeitigt – sono lo “stesso”, das Gleiche, per salvati e reietti, apollýmenoi e sozómenoi, così è lo “stesso” il loro linguaggio. Lo stesso, ma non il “medesimo”, das Selbe. La differenza non tocca il contenuto del dire, ma la modalità, la Stimmung. Eguali le loro parole, ma parlate differentemente. Una differenza che non allude ad alcuna interiorità – nomina, al contrario, la più esteriore esteriorità del linguaggio: il fatto che non noi parliamo, ma le parole parlano (in) noi. Come die Welt weltet e die Zeit zeitigt, così die Sprache spricht. La negatività del performativo, come l’“hos mé” di Paolo, non ha nulla a che vedere con il nihil negativum e/o privativum, allude bensì a un diverso modo di rapportarsi – di rapportarsi o di essere rapportato? – al mondo. La Guidi ricorda l’“es ruft” di Sein und Zeit: la chiamata viene da me sopra di me” (der Ruf kommt aus mir über mich), per evidenziare l’impersonalità del linguaggio. La proprietà, l’Eigentlichkeit, del linguaggio è nel suo essere non-proprio, un-eigentlich. Ma

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questa non-proprietà, questo non essere il linguaggio proprietà del parlante, l’Uneigentliches che caratterizza la performatività negativa e mediale del linguaggio – s’è detto: non siamo noi che parliamo, sono le parole che parlano (in) noi – rende ‘proprio’, eigentlicatteh, il linguaggio al parlante, quando costui avverte non di parlare, ma per così dire, di essere parlato dal linguaggio. Ripetiamo: è la Stimmung che ‘appropria’ il linguaggio al parlante. Così come è il sentimento di estraneità alla significatività del mondo in cui si vive, che rende la paura angoscia. Sorge spontanea la domanda: quale il linguaggio della filosofia? Vale a dire: in quale linguaggio è detta la distinzione tra il linguaggio constatativo e il linguaggio performativo, ovvero tra il detto e la sua Stimmung? La domanda è ineludibile, perché la Stimmung non è solo ‘vissuta’ – è anche detta. Detta in un dire che non mostra soltanto, ma distingue, oppone, argomenta, articola un discorso, nel quale lo stesso mostrare è tema di dimostrazione, e un tema, parte e non tutto, ‘contenuto’ di discorso e non tonalità affettiva di esso. Orbene, quale rapporto c’è tra la Stimmung vissuta e la Stimmung parlata, tra la tonalità affettiva che avvolge il dire e la tonalità affettiva detta nel dire? La domanda si pone anche riguardo a Wittgenstein, a cui spesso la Guidi giustamente si richiama, anche sulla scorta degli studi di Thomas Rentsch: quale rapporto s’instaura tra il giuoco linguistico della filosofia e la molteplicità dei giuo­ chi linguistici che si praticano nel mondo, e fanno mondo? La domanda è antica: antica quanto la filosofia stessa, se già il platonico estensore della VII lettera affermava che tò prágma tês philosophías: – ciò che nella filosofia è in questione – non è assolutamente dicibile (retòn oudamôs, scrive, e non ouk retón) come le altre discipline; ed insieme moderna, se ancora Hegel si poneva il problema di come portare l’esperienza della coscienza a coscienza dell’esperienza – e non sembra abbia trovato altra soluzione che risolvere l’esperienza della coscien-

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za nella coscienza assoluta del puro stare a vedere (das reine Zusehen), negando il problema da cui aveva avuto origine: la prassi, l’esperienza attiva del ‘vedere’. E non è una questione ‘formale’ quella che qui si è posta: i giuo­chi linguistici sono Lebens-formen – forme di vita. In essi è in giuoco la vita stessa. La vita stessa è in giuoco nella torsione del linguaggio dalla constatazione alla performatività. Ma proprio perché tò prágma tês philosophías è la vita, vien fatto di chiedere: si distinguono Angst e Furcht soltanto come due diversi modi di rapportarsi (di essere-in-rapporto) al mondo, alla significatività mondana? O non v’è nella possibilità dell’ek-sistere, in quella Möglichkeit die höher als die Wirk­ lichkeit steht, in quella dýnamis che è próteron energheías, un rinvio ad altro dal mondo stesso? Alla “possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale”? Ma questa ‘possibilità’, radicale perché tocca le radici dell’ek-sistenza, è compatibile con la centralità del presente? Questa centralità non fa del presente un “essente per sé”, un kath’hautó? Che è certo in relazione ad altro (passato e futuro), ma solo perché ne è il fondamento. Quel fondamento ‘reale’ che revoca la possibilità del possibile. Che nega la dýnamis próteron energheías. 6. Torniamo, per una breve riflessione finale, là donde si è iniziato: ai Quaderni dalla copertina nera. Particolarmente negli ultimi, datati 1946-47, Heidegger insiste sul tema dell’identità, nella differenza, di pensiero rimemorante e oblio dell’essere: Das Andenken denkt die Vergessenheit. E ancora: “il non-oblio è un modo, in cui l’oblio si è preparato la sua dimora” (…die Un-Vergessenheit selbst [ist] eine Weise, wie die Vergessenheit sich zu ihrer Einkehr bereitet hat)13. E si po-

13. Bd. 97, p. 281.

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trebbe continuare a lungo, scorrendo le 1700 pagine di questa autobiografia filosofica che s’espande a storia dell’essere, in un intreccio difficile a districare, ma che pure è necessario – per Heidegger stesso – districare. Chiara la presenza nella più volte affermata identità dei differenti – l’“errore” (die Irre) come “il più nascosto dono della verità”14 – della dialettica paolina sozómenoi/apollýmenoi. Ma di questo Paolo non v’è parola nei Quaderni. In essi è ricordato soltanto il Paolo del Christentum, del cristianesimo storico, e cioè della “paolina-gnostica-romana-ellenistica organizzazione della vita evangelica di Gesù”15. Come si spiega questo silenzio? Col prevalere, nel pensiero di Heidegger dopo la svolta, del paganesimo. Documentato in vari scritti, come nell’Humanismusbrief, ma mai dichiarato con tanta fermezza come in questi Quaderni, ove leggiamo che il cristianesimo “non ha nulla a che fare con l’Occidente, poiché ripudia la Grecia (Griechentum) nel più insidioso dei modi, stravolgendone l’interpretazione per i suoi scopi; poiché la Grecia vale in quanto paganesimo (Heidentum).”16 Eppure il paganesimo non prevale a tal punto da ridurre al silenzio l’opposto ‘sentimento’ giudaico-cristiano, che, oppresso ma non mai vinto, riesce ancora a far sentire la sua voce nella distinzione tra Christentum e Christlichkeit, cristianesimo storico-metafisico e cristianità in quanto fede in Gesù, nel duplice senso di Glauben an Christus und in Christus17. Si apre qui un altro, complesso capitolo del pensiero di Heidegger, nel quale il senso della Kehre muta radicalmente e proprio in rapporto ad Essere e tempo. Non è difficile infatti vedere da un lato il nesso tra la I sezione di Sein und Zeit, tutta centrata sull’e14. Bd., 95 (anni 1938-1939), p. 14; l’originario errare del vero: “Ursprüngliche Wege sind Irr-wege”, ib., p. 214. 15. Bd. 97, p. 144. 16. Ibidem. 17. Bd. 97, p. 204.

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splicazione della radicale appartenenza dell’uomo al mondo, ovvero dell’In-der-Welt-sein che caratterizza l’esser-ci, e il più tardo neopaganesimo; e, dal lato opposto, il legame della II sezione, che tratta dell’angoscia e dell’essere-per-la-morte, della chiamata della coscienza (Ruf des Gewissens) che viene da (aus) noi sopra (über) di noi, e della temporalità originaria (Zeitlichkeit), con la tormentata riflessione dei Quaderni sul darsi della Unverborgenheit dell’essere e della verità solo nella identità/differenza (Unter-schied) con la Verborgenheit dell’essente e dell’”errore”. È così venuto in piena luce quanto all’inizio anticipato: il significativo contributo di questo saggio della Guidi ad una più profonda comprensione dell’intero sviluppo del pensiero di Heidegger. Ma qui, in chiusura, vogliamo aggiungere un’ulteriore considerazione che ci riporta, pur essa, all’inizio. Il contrasto che divide ab origine il pensiero di Heidegger è il motivo per cui non è mai uscito di scena. Ma, se nei quarant’anni successivi alla morte non ha mai smesso di inquietarci con le sue domande, ancor più ci interroga ed inquieta oggi, nell’età in cui l’Occidente, das Abend-land, sembra aver raggiunto la verità di sé stesso. Del suo errare. La verità dell’“ultimo Dio”: Hier geschieht keine Er-lösung18. Qui non avviene redenzione.

18. Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt/M. 1989, p. 413 (trad. it. di F. volpi, Adelphi, Milano, p. 404).

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Introduzione

Fenomenologia e performatività Questo lavoro si propone di far reagire la fenomenologia heideggeriana con il paradigma della performatività: da un lato, per inscrivere il senso del discorso e della prassi fenomenologica entro una dimensione performativa; dall’altro, per riformulare alla luce della fenomenologia la stessa figura della performatività, mostrandone il rovescio negativo. Il punto di partenza suona: se la fenomenologia non mira – con Heidegger – a fondare la forma logica della verità, non si attua, dunque, in quell’esercizio in prima persona che è l’intuizione d’essenza, esprimendo i suoi correlati in significati obiettivi, in che modo si trasforma la sua dimensione di verità? Rendere ragione del modo in cui i concetti fenomenologici possono essere effettivamente comunicati e compresi non significa interrogarsi soltanto sul senso metodico della filosofia, ma piuttosto assumere l’autoriferimento come tratto costitutivo di ogni comportamento determinato, che non può che essere riferito a sé stesso. Usare la performatività per provare a ripensare questo autoriferimento muove dall’esigenza di esibire l’impossibilità di ordinare i modi di essere-nel-mondo, smascherando – grazie

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all’impossibilità fenomenologica di un primato della filosofia – l’illusorietà di guadagnare comportamenti originari rispetto ad altri, di inserire, cioè, l’essere-nel-mondo entro un tale paradigma logico-disgiuntivo, criticando anche lo stesso primato che Heidegger attribuirà al fondare stati, al poetare e al pensare. Ma usare come reagente la performatività significa soprattutto provare a far emergere la disposizione trasformativa inscritta in ogni modo di essere determinato e nella sua dimensione di verità: la possibilità, cioè, del suo attuarsi non a partire dalla significatività in cui è assorbito, nell’indifferenza di questo riferimento, ma nella significatività di questa relazione, indifferentemente dal contenuto d’esperienza. Autenticità e inautenticità, proprio e improprio implicano un altro senso di disgiunzione che proviamo a pensare a partire dall’indissolubilità di constativo e performativo, “cosa” e “come” inscritta nell’attuazione di ogni comportamento, in ogni fenomeno, in questo “fatto”, nell’essere di volta in volta, proprio questa volta qui, di ogni esperienza. Far reagire fenomenologia e performatività significa, dunque, in primo luogo, tentare di far emergere il rovescio trasformativo che appartiene a ogni comportamento, alla verità dell’essere-nel-mondo (e dunque anche alla filosofia). Il senso performativo della formale Anzeige Ogni esistenziale, ogni concetto fenomenologico è formalmente indicante. La formale Anzeige, il primo attrezzo fenomenologico elaborato nei seminari friburghesi, è il “verso” del nostro confronto con i testi heideggeriani. Intendiamo l’indicazione formale come una “pragmatica”, non essendo altro che l’uso metodico di un senso nel suo significato più generale, che indica la modalità in cui ogni esperienza, ogni riferimento al contenuto si attua. Il discorso fenomenologico, dunque, non

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è né un Begreifen né un Anschauen ma risiede nel Vollziehen, nel “fatto” di indicare a “chi” è nel mondo i differenti contesti d’esperienza, la modalità in cui l’essere-nel-mondo è riferito a sé, a questo “che”. A partire da qui è possibile esibire il nesso tra fenomenologia e performatività. Performativo, in termini del tutto generali – riprendendo la descrizione che ne ha offerto J.L. Austin – è un enunciato il cui contenuto, il significato, non descrive uno stato di fatto ma compie un’azione: per essere vero, “felice”, giungere dunque alla sua dimensione di verità, implica che le circostanze del proferimento siano in un modo, o in più modi, appropriate. Parimenti, il senso d’essere esplicato dalla fenomenologia non prende avvio dalla forma dell’asserzione apofantica, dal senso constativo dell’«è», ma assume come punto di partenza il senso del verbo essere che si esprime con i pronomi personali e implica un costitutivo rimando alla totalità del contesto, all’esser-di volta in volta sempre mio l’un con l’altro nel mondo; per essere compreso, per essere “vero”, richiede una modificazione esistentiva, una trasformazione immanente, quel movimento trasformativo che martella i testi heideggeriani e che ha molti nomi: Umwendung, Umkehr, existenzielle Modifikation, Entschlossenheit, Verwandlung, solo per citarne alcuni. Da questa prospettiva, dunque, l’ontologia fondamentale, interrogando il senso d’essere che si esprime con i pronomi personali, esplicitando la dimensione di verità che questa espressione sottende, è “vera” solo in e con questa trasformazione immanente, nel “fatto” di questa trasformazione che coinvolge l’esser di volta in volta nel mondo. La sua verità è dunque (e in tal senso) radicalmente performativa. Ogni esistenziale non fa che indicare il “come”, esplicare (auslegen) la modalità in cui ogni situazione si attua, si temporalizza. Il modo in cui ogni comportamento è, la condizione di possibilità esistenziale di ogni comportamento determinato, non può essere dedotto poiché non appartiene a un soggetto trascendentale, né colto riflessivamente come

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correlato dell’intuizione, intenzionato in quella sfera “formale” che è la coscienza trascendentalmente ridotta. Il “come”, piuttosto, c’è, accade, si temporalizza, si fa, in e con ogni situazione determinata. E sono queste locuzioni impersonali in cui il sostantivo si fa verbo a offrire la vera e propria grammatica del pensiero heideggeriano. Affrontiamo i testi heideggeriani mettendoci sulle tracce di questa grammatica. Performativo negativo e performativo standard: Heidegger tra Paolo e Aristotele Per far emergere la riformulazione della figura della performatività teniamo insieme due luoghi del pensiero heideggeriano: il primo è l’interpretazione fenomenologica della temporalità paolina, il carattere di decadimento della fatticità, il suo essere attraversata da una negazione e sospensione costitutive. Il secondo è l’interpretazione fenomenologica del VI libro dell’Etica Nicomachea e il rapporto tra póiesis e práxis che qui si profila. La fatticità della “situazione”, il senso d’essere che si esprime con i pronomi personali, tiene in sé un carattere facticius: “come” la vita si rapporta ai contesti significativi mondani è indifferente e si spaccia per un significato, per un “che cosa”: in ciò consiste il feticismo della fatticità. E tuttavia significatività del “cosa” e indifferenza del “come” vanno insieme. Nell’interpretazione dell’hos mé paolino tenteremo di far emergere il carattere precipuamente negativo dell’autoriferimento della vita fattizia, elaborando, a partire dal rapporto apollýmenoi/sozómenoi, un altro senso di disgiunzione che non si situa nella dimensione apofantica. Autentico e inautentico, apollýmenoi/sozómenoi, non sono due tipi di esistenza descritti in un enunciato apofantico, bensì l’indicazione di uno scarto che attraversa la stessa esperienza. È qui che si situa la verità della fatticità, nel cambiamento d’accento che passa per lo stesso fenomeno e che può coin-

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volgere qui e ora ogni esperire: il passaggio dalla significatività del contenuto d’esperienza nell’indifferenza del riferimento a essa, al “fatto” dell’esperire, in cui – indifferentemente dal contenuto d’esperienza – a risaltare è la significatività della relazione. In tal senso, dunque, il non attuarsi della vita che va perdendosi non si identifica né con un nihil privativum né con un nihil negativum, ma è un non-conforme all’attuazione, non risiede dunque nella mancanza del coglimento noetico della póiesis rispetto alla capacità noetica della práxis in cui si attua la phrónesis. Ed è questo “non” a inscriversi nella Uneigentlichkeit dell’essere nel mondo. A partire, dunque, dal senso di negazione emerso nel confronto con Paolo proveremo a confrontarci criticamente con la tesi di Franco Volpi, sostenendo che nella fenomenologia heideggeriana non vi è semplicemente un rovesciamento della gerarchia delle exis; in gioco non è soltanto la critica del primato della sophía sulla phrónesis e la dimensione ontologica attribuita alla práxis, ma con e in questo capovolgimento a venir riformulato è tanto il senso del rapporto tra póiesis e práxis, quanto il senso di «ciò che può divenire altro»: è l’identità noetica, l’autó della autotelicità inscritta nella práxis aristotelica a venire spezzata. Ciò che può esser diversamente da ciò che è non è determinato a partire dal sempre essente, non è dunque nel senso della contingenza, piuttosto viene pensato a partire da sé, indicando la sottrazione di ciò che c’è, ed è così che va inteso l’essere di volta in volta nel mondo. Parimenti si tratterà di indagare la trasformazione del senso della possibilità, la metamorfosi della dýnamis nel Möglichsein, mostrando la rottura dell’autoriferimento autotelico inscritto nel performativo, quella práxis il cui contenuto coincide con l’attuazione del riferimento, in cui il fine coincide con il principio dell’azione. Criticare l’identità noetica – inscritta sia nell’autoriflessione sia nell’autotelicità – significa provare a ripensarla in quella riflessività indessicale implicata dal fenomeno della Stimmung.

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Dall’«Ego Cogito» all’«Io parlo» La dimensione pragmatica a partire da cui ci confrontiamo con i testi heideggeriani offre la possibilità di usare ogni esperienza indicandone il contesto attuativo. Esercitandoci sul principio della modernità per eccellenza, il Cogito cartesiano, seguendo un indizio offerto dallo stesso Heidegger (GA 17), ci proponiamo di mettere in luce la forma e il senso dell’autoriferimento: il con-aversi inscritto nella modalità in cui il riferimento c’è. A partire dal negativo fotografico del Cogito, nel suo carattere performativo e indicativo, affrontiamo in tal modo un’altra figura della performatività, elaborata da Paolo Virno in un altro enunciato: il performativo assoluto io parlo. La prospettiva di Virno mira a liberarsi del tutto del fantasma dell’intenzionalità per proporre una forma di materialismo linguistico. Pur rilevando gli elementi che accomunano la fenomenologia e la critica materialistica di Virno all’autoriferimento riflessivo, ci proponiamo di esibire l’infelicità del performativo assoluto. Quest’ultimo, infatti, non è in grado di colmare nel suo proferimento lo iato tra dire e voler dire. Nel pronunciare il performativo assoluto “io parlo”, il dictum coincide e menziona soltanto l’azione effettivamente compiuta, il parlare, a patto però che si intenda proprio il parlare come l’azione proferita e non ad esempio il respirare o il muoversi che le sono cooriginarie. L’intento di questo confronto è mostrare che lo iato tra dire e voler dire non viene affatto colmato, poiché non vi è perfetta identità tra dire e fare. Questo fallimento esibisce l’“impossibilità” di rendere appariscente l’apriori nella sua natura “materiale” (e, infine, “biologica”).

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Il performativo medio e negativo Si tratta, infine, di trarre alcune conseguenze dalla rottura del performativo e dalla infelicità del performativo assoluto, provando a pensare l’autoriferimento dell’esserci, il rapporto tra proprio e improprio, a partire dalla struttura fenomenologica della Stimmung, riformulando a partire dal senso di disgiunzione elaborato nel confronto con Paolo il rapporto tra angoscia e paura, noia essenziale e inessenziale e la disgiunzione proprio/improprio che permea tutti gli esistenziali. La centralità della Stimmung permette di disegnare una figura della performatività che non può più essere pensata come un’azione in prima persona, indicando l’accadere di un’azione verbale alla diatesi media: una disposizione, cioè, che non coincide né con l’azione né con l’avvenimento, non implicando né l’attività né un mero carattere passivo. Si tratta di pensare la performatività come una metamorfosi immanente che può coinvolgere ogni comportamento effettivo, qui e ora: la trasformazione della significatività del mondo nella significatività del mondo. Far reagire fenomenologia e performatività significa dunque provare a ripensare l’identità, l’autó, lo “stesso”, mostrando la sua distanza sia dall’autoriflessione sia dall’autotelicità, indicando un antidoto a entrambi questi fantasmi nel movimento della sottrazione; nel riconoscimento di quella costitutiva dis-giunzione che sottraendosi nasconde sé stessa, spacciando la “modalità” per un significato e coprendo così la significatività del “fatto” di questa sottrazione: il mondo, il come.

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Capitolo primo La dimensione di senso del discorso fenomenologico: la verità performativa della fenomenologia

§1 La critica di Husserl allo psicologismo e i suoi presupposti Si tratta di affrontare la critica di Husserl allo psicologismo per metterne a fuoco i presupposti, chiarendo perché l’interpretazione husserliana dell’atto giudicativo, sebbene non implichi la sua subordinazione all’idealità entro un rapporto genere/ specie, non renda tuttavia giustizia alla stessa struttura intenzionale del fenomeno, scoperta chiave della fenomenologia. In vista di inscrivere il discorso fenomenologico entro una dimensione performativa è cruciale comprendere in senso fenomenologico la realtà dell’atto: in termini del tutto generali, infatti, il significato dei performativi coincide con l’atto (reale) dell’enunciare in un contesto appropriato. Ecco, si tratta innanzitutto di escludere la comprensione della realtà dell’atto propria dello psicologismo. È opportuno analizzare questa prima questione a partire dal corso del 1925-1926 dedicato a Logica e il problema della verità1. E non solo perché qui Heidegger si confronta esplicita1. M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit. Klostermann, Frankfurt a. M. 1995 GA 21, trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Logica. Il

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mente con la critica husserliana allo psicologismo (al contrario di quanto avvenga in Sein und Zeit), ma ben più radicalmente perché in questo contesto emerge la convergenza tra il principio di tutti i principi husserliano e il noeîn aristotelico. La critica alla modalità di coglimento noetico implica infatti, come analizzeremo a partire dall’interpretazione fenomenologica della práxis aristotelica2, un’altra figura di autoriferimento performativo, permettendo di riformulare, dal punto di vista fenomenologico, a fronte del carattere precipuamente “negativo” inscritto nel fenomeno, la stessa figura della performatività. Nel corso del 1925, si diceva, Heidegger discute i presupposti che guidano la critica di Husserl allo psicologismo e con essi la forma e il senso della verità che essa implica. Secondo quanto Husserl dimostra nei Prolegomeni alle Ricerche logiche3, la verità della proposizione e dunque la verità della logica non può essere fondata sulla psicologia intesa come scienza induttiva, come generalizzazione di stati di fatto, siano essi fisici o psichici. problema della verità, Mursia, Milano 1986. Al corso del 1925/1926 sono stati dedicati numerosi studi, tra questi segnaliamo: F. Chiereghin, Essere e Verità. Note a Logik. Die Frage nach der Wahrheit di Martin Heidegger, Verifiche, Trento 1984; C.F. Gethmann, Heideggers Wahrheitskonzeption in seinen Marburger Vorlesungen, Zur Vorgeschichte von Sein und Zeit (§ 44), in Forum für Philosophie Bad Homburg. S. Blasche, W.R. Köhler, W. Kuhlmann, P. Rohs (Hrsg.), M. Heidegger, Innen-und Aussenansichten, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1989, pp. 101-130; H. Zaborowski, Wahrheit, Sein und Zeit. Zu Heideggers Vorlesung aus dem Winter Semester 1925/26 Logik. Die Frage nach der Wahrheit (GA21), in A. Denker, H. Zaborowsky (Hrsg.), Heidegger und die Logik, Rodopi, New York 2006, pp. 161-183. 2. Infra, cap. V, in particolare §§ 1 e 2. 3. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Prolegomena zur reinen Logik. Erster Band, Nijhoff, The Hague 1975, Husserliana XVIII, ed. it. a cura di G. Piana, Ricerche logiche. Prolegomeni a una logica pura, Vol. I, Il saggiatore, Milano 2005.

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È proprio la confusione tra l’essere reale del giudizio come atto giudicativo psichico e il contenuto giudicativo come essere ideale a guidare la critica husserliana a ogni forma di relativismo, antropologismo, scetticismo4. La confutazione husserliana dello psicologismo si fonda, in ultima analisi, sulla necessità di mettere in luce e criticare lo scetticismo che ne sta al fondo. Ciò che caratterizza ogni teoria scettica – scrive Husserl nei Prolegomeni – è il fatto che essa, in base al suo stesso contenuto teorico, «dice che le condizioni logiche o noetiche della possibilità di una teoria in generale sono false»5. Secondo Husserl, «costruire una teoria e contraddire nel suo contenuto, espressamente o implicitamente, i princìpi che fondano il senso e la legittimità di ogni teoria in generale ­­– ciò non è soltanto falso, ma radicalmente assurdo»6. L’autocontradditorietà di ogni teoria scettica si fonda dunque sulla confusione fondamentale tra l’essere ideale del contenuto giudicativo, che è assolutamente vero in sé – «sia che lo colgano con il giudizio uomini o mostri»7 – e l’essere reale dell’atto giudicativo. Su questa stessa base viene confutata ogni forma di relativismo: affermare che la verità è relativa alla specie o alla costituzione antropologica del soggetto o dei soggetti che la giudi-

4. Sulla critica husserliana allo psicologismo e sulla impostazione fenomenologica nelle Ricerche Logiche si vedano in particolare: R. Bernet, I. Kern, E. Marbach, Edmund Husserl, Darstellung seines Denkens, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1996, pp. 154-166; V. Costa, Husserl, Carocci, Roma 2009, in particolare i capitoli I e III; D. Willard, Logic and the objectivity of knowledge: a study in Husserl’s early philosophy, Ohio University Press, Athens, Ohio 1984. 5. E. Husserl, Logische Untersuchungen Vol. I, cit., p. 120, Ricerche Logiche Vol. I, cit. p. 128. 6. Ivi, p. 118, trad. it. p. 126. 7. Ivi, p. 117, trad. it. p. 132.

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cano, o al contesto storico in cui viene giudicata, significa contraddire il senso stesso sotteso alla proposizione: il suo criterio di verità, il suo carattere atemporale e apodittico. La confutazione si basa sulla distinzione, a cui Husserl si richiama con varie argomentazioni fondate sullo stesso nucleo concettuale, tra verità di fatto, cioè induttive, che conducono a una verità solamente probabile, e verità di ragione, il cui statuto veritativo riguarda gli stati di cose proposti nei giudizi e dunque l’essere ideale di ciò che nel giudizio come atto psichico è inteso in quanto tale. I principi logici non sono regole fattuali, relative al decorso di processi psichici, ma principi su proposizioni. Sintetizzando con le parole di Heidegger il punto centrale della critica husserliana: «le proposizioni sono quel che in un giudizio viene giudicato, gli stati di cose considerati nel giudizio: l’esser-b di A, il non esser-b di A. L’inconciliabilità appartiene alle proposizioni, non è un’impossibilità del pensiero ma del pensato»8. Secondo Husserl, infatti, «nessuna verità è un fatto, cioè qualcosa di temporalmente determinato»9. Nello stabilire i principi logici sulla base di fatti psichici, mentali, lo psicologismo non confonde soltanto, come sopra sottolineato, il pensato (lo stato di cose inteso nel giudizio) con l’atto giudicativo (il giudizio come processo fisico o mentale), ma anche la necessità logica con la necessità reale, causale, scambiando parimenti la validità dell’essere ideale con il carattere ipotetico induttivo delle verità delle scienze della natura e, di conseguenza, la certezza apodittica con quella fattuale. «Una verità – scrive Husserl – può indubbiamente significare che una cosa sia, che

8. M. Heidegger, GA 21 p. 49, trad. it. p. 34-35. 9. E. Husserl, Logische Untersuchungen Vol. I, cit., p. 87, Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 93.

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esista un certo stato, che abbia luogo una certa modificazione. Ma la verità è al di sopra di ogni temporalità»10. Qui si profila la costitutiva equivocità della posizione heideggeriana nei confronti della critica husserliana allo psicologismo11: se, da un lato, la fenomenologia husserliana ha l’enorme merito di non porre la questione nei termini di una psicologia sperimentale, di una scienza induttiva, e dunque può in tal modo escludere la modalità di fondazione del senso della verità propria del nominalismo e in generale dell’empirismo, aprendo così la via a un altro modo di intendere la psicologia, quello fenomenologico12; dall’altro essa – pur avendo di mira la struttura dello psichico nella sua costitutiva ossatura intenzionale, incarnandosi nel dirigersi-verso, nella correlazione – pensa tuttavia la verità della correlazione, il suo modo d’essere, sulla base di un’idea di verità come validità, che assume i tratti dell’esser permanente e atemporale, sulla base cioè di quei caratteri che appartengono al contenuto del giudizio e dunque a una verità che ha luogo primariamente nella proposizione.

10. Ibidem. 11. A. Denker, H.-H. Gander, H. Zaborowski, Heidegger und die Anfänge seines Denkens, Heidegger Jahrbuch, Vol. I, Verlag Karl Alber, FreiburgMünich 2004. In questo volume, si veda in particolare sulla trasformazione heideggeriana dei concetti fondamentali della fenomenologia di Husserl a partire dagli scritti primofriburghesi: H.-H. Gander, Phänomenologie im Übergang. Zu Heideggers Auseinandersetzung mit Husserl, pp. 294-306. 12. Questa posizione nei confronti dello psicologismo è sostenuta da Heidegger sin nella Dissertation: Die Lehre vom Urteil im Psychologismus (1914), in M. Heidegger, Frühe Schriften, Klostermann, Frankfurt a. M., 1978 GA 1, ed it. di A. Babolin, Recenti ricerche sulla logica, in Scritti filosofici (1912-1917), La Garangola, Padova 1972. Sull’evoluzione della posizione heideggeriana nei confronti dello psicologismo e della critica husserliana a quest’ultimo si veda in particolare: V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e Teoria del significato in Heidegger, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 7-24.

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È qui che si inserisce l’influsso esercitato dal neokantismo sulla fenomenologia husserliana e, in particolare, la separazione tra l’essere reale di cui si occupa la scienza della natura e l’essere ideale della validità, l’ambito unicamente delimitato per la logica: Di quest’opinione – scrive Heidegger – è la logica della validità e particolarmente la filosofia dei valori di Rickert; questo si vede nella maniera più chiara nel concetto rickertiano di psicologia, che è concepita del tutto analogamente alla meccanica. La psicologia ha a che fare con l’essere reale ed è quindi pura scienza naturale, mentre la logica ha a che fare con l’essere ideale della validità.13

Questa separazione, tuttavia, implica un naturalismo ancora più radicale sebbene più difficile da smascherare: Giacché, in fondo, ci si trova nella situazione di vedere in qualcosa di unico due serie separate, due campi, due sfere, due regioni, dell’ente e del valido, del sensibile e del non sensibile, del reale e dell’ideale, dello storico e del sovrastorico. Non si ha un essere originario a partire dal quale queste coppie sarebbero intese come possibilità e ad esso appartenenti, e non è neppure questo il problema, ma si ostenta la fondamentale particolarità di questa separazione vedendosi così costretti a lanciare un ponte o a collegare i due ambiti, perché possano toccarsi per formare un tutto.14

Questa separazione in Ordnungen viene operata sulla base della modalità di riferimento al proprio contesto di senso che caratterizza le scienze che hanno a che fare con l’ente (reale), con un ambito obiettivo, e che dunque possono sezionarlo e separarlo in regioni o elementi irrelati. Questa impostazione implica, sebbene in modo tacito, una modalità di rivolgersi

13. M. Heidegger, GA 21 p. 89, trad. it. p. 61. 14. Ivi, p. 92, trad. it. p. 63.

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all’essere ideale che appartiene al medesimo naturalismo che si vorrebbe confutare: l’essere ideale in tal modo viene pensato in contrapposizione a, e sulla base dell’ente (reale). È cruciale sottolineare che la critica di Heidegger a questa impostazione è una critica fenomenologica, si fonda cioè sull’analisi del modo (wie) in cui il riferimento all’essereideale compreso come validità si attua (dass). La validità dell’essere ideale di cui si occupa la logica rispetto alla realtà di cui si occupa la scienza naturale implica il misconoscimento dell’essere stesso dell’idealità, che viene compreso come un ambito (Sachgebiet), una regione cosale: il “genere” (la validità, il valore) sussume, costituendolo, il singolo, che intrattiene con esso un rapporto di genere/specie ottenuto in un processo di generalizzazione15, in cui determinante e determinato appartengono alla medesima regione cosale16. 15. Sulla differenza tra generalizzazione e formalizzazione, che corrisponde al rapporto tra il “che cosa obiettivo” e il “che cosa formale” si veda in particolare: M. Heidegger Zur Bestimmung der Philosophie, Klostermann, Frankfurt a. M. 1987, GA 56-57 pp. 64-76. Questa prima distinzione corrisponde alla differenza tra Objekt e Gegenstand, a questo proposito cfr. M. Heidegger, Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in Phänomenologie des religiösen Lebens, Klostermann, Frankfurt a. M 1995, GA 60 pp. 35 e ss., ed. it. a cura di F. Volpi, trad. it. G. Gurisatti, Introduzione alla fenomenologia della religione, in Fenomenologia della vita religiosa, Adelphi, Milano 2003. Questa distinzione è centrale negli scritti primo-friburghesi. L’intento di Heidegger è genealogico: si tratta di risalire al “qualcosa preteoretico” – das faktische Leben – da cui scaturiscono tanto l’Objekt quanto il Gegenstand. Cfr. M. Heidegger, Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt a. M., 1992, GA 58, pp. 106-107. Su questo Infra, cap. II. 16. In merito alla distinzione tra il processo di generalizzazione e quello di formalizzazione, esaminata da Husserl in Ideen I (§13), che corrisponde, in ultima analisi, alla differenza che intercorre tra neokantismo come filosofia dei valori e fenomenologia, riportiamo questa significativa considerazione di Bancalari: «Per quanto distanti siano due regioni, per quanto diversi i rispettivi modi di datità, esse risulteranno definibili come parti di un unico

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Come afferma Heidegger nel corso del 1920-1921 dedicato a una Introduzione alla fenomenologia della religione: La generalizzazione è un determinato ordinamento per gradi di determinatezze – ordinamento immanente alla dimensione cosale (Sachimmanent) – che sono in una relazione di reciproco riguardo (Betreffbarkeit), così che la determinazione più generale rimanda fino all’ultima e più bassa. […] Generalizzare è dunque un ordinare, il determinare qualcosa a partire da qualcos’altro, tale che questo altro come ciò che circonda, afferra e comprende (Umgreifendes) appartiene alla medesima regione di cose di ciò che deve essere determinato.17

L’impostazione fenomenologica, con la scoperta dell’intenzionalità, sebbene non ponga esplicitamente la domanda sul senso d’essere dell’ente che rende possibile i due modi di essere, l’ideale e il reale, mostrandone la cooriginaria unità, apre tuttavia la strada per il superamento del baratro tra i “regni”, offrendo – grazie a quella che nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo Heidegger definirà, insieme alla intuizione categoriale, «una delle scoperte fondamentali della fenomenologia»18 – la possibilità di una radicale eterogeneità: tutto, come articolazioni dell’unica regione somma (e vuota) dell’essere. Il che equivale a dire che la generalizzazione non consente reale eterogeneità tra i modi della manifestazione. A questo destino di univocità non sfugge il tentativo neokantiano di distinguere una pluralità di sfere di valore (il vero, il bello, il buono, il sacro) e di rispettive discipline (la logica, l’estetica, l’etica o la filosofia della religione)[…], l’eterogeneità prima non è quella tra diversi contenuti o cose, ma, in termini heideggeriani, quella tra contenuto, da una parte, e riferimento e attuazione, dall’altra; o, più semplicemente, è l’eterogeneità tra orizzonte e punto di vista che consente, o meglio: costringe ad un pensiero assai più profondo di un’alterità rispetto ai generi». S. Bancalari, Generalizzazione, formalizzazione, epoché. Le radici husserliane dell’indicazione formale, in «Fieri», 3, 2005, pp. 113-131, p. 124. 17. M. Heidegger, GA 60 p. 60, trad. it. p. 61. 18. M. Heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, Klostermann, Frankfurt a. M. 1979, GA 20 p. 34, ed. it. a cura di R. Cristin e A.

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è la struttura intenzionale dello psichico a costituire la «cosa stessa» della fenomenologia. Che il carattere fondamentale dello psichico sia l’intenzionalità significa che lo psichico è in sé stesso qualcosa come una relazione tra il reale e l’ideale, se per una volta vogliamo concederci l’uso di questa formulazione.19 […] La carenza fondamentale dello psicologismo risiede in ultima analisi nel mancato riconoscimento della differenza di una diversificazione fondamentale nell’essere dell’ente. Ma qui diviene palese che la concezione dello psicologismo come scienza fondamentale della logica […] sta e cade con il corretto riconoscimento della differenza nell’essere, che la logica è quindi costruita su un fondamento ontologico.20

§2 Gli enunciati d’essenza e la fondazione husserliana della verità del giudizio Analizzare la modalità in cui Heidegger fa emergere il circolo vizioso inscritto nella fondazione husserliana della verità permette di accertare – esercitando lo sguardo fenomenologico – il tessuto temporalizzante che intesse la correlazione, ritrovando il movimento della cosa stessa nel pensiero greco, in particolare in quella concezione della verità che, in questo contesto, viene definita (con una «ridicola mistura di greco e tedesco»21) noûs-Wahrheit. Parallelamente, le analisi che seguono sono volte a mostrare la convergenza tra la concezione husserliana della verità – l’atto d’identificazione, l’essere in rapporto con il vero – e la modalità in cui gli enunciati d’es-

Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il nuovo Melangolo, Genova 1998, p. 34. 19. M. Heidegger, GA 21 p. 98, trad. it. p. 67. 20. Ivi, p. 50, trad. it. p. 35. 21. Ivi, p. 110, trad. it. p. 74.

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senza significano e vengono effettivamente compresi. Questo ci permette di delimitare, almeno negativamente, la verità e il significato degli enunciati fenomenologici heideggeriani, muovendo un altro passo verso il chiarimento della dimensione performativa entro la quale ci proponiamo di inscrivere la verità della fenomenologia. Ciò che rende l’ermeneutica di Heidegger un pensiero radicalmente fenomenologico22 è l’enorme debito contratto con il concetto husserliano di esperienza, pensata come il darsi intenzionale del dato sempre strutturato categorialmente. È il concetto di rappresentazione – che restituisce un’ombra di ciò che è23 – a poter essere decostruito grazie alla nozio-

22. Sulla fenomenologia di Heidegger e in particolare sull’influsso che le Ricerche Logiche di Husserl hanno avuto sul suo sviluppo si veda F. Dastur, Heidegger und die Logische Untersuchungen, in «Heidegger Studies», 7, Berlin 1991, pp. 37-51. 23. Questa nozione di rappresentazione è sottesa all’impostazione del neokantismo di Rickert. «Un conoscere rappresentante ha bisogno di una realtà indipendente dal soggetto conoscente, poiché con le rappresentazioni noi siamo in grado di afferrare un elemento indipendente dal soggetto conoscente soltanto grazie al fatto che esse sono ritratti o segni della realtà». H. Rickert, Der Gegenstand der Erkentniss. Ein Beitrag zum Problem der philosophischen Transzendenz, Mohr, Freiburg i. Br. 1982, p. 78. Così Heidegger commenta questa tesi: «A Rickert è preclusa una visione del carattere conoscitivo primario della rappresentazione proprio perché presuppone un concetto mitico del rappresentare derivato dalla filosofia della scienza naturale, e giunge a sostenere che nel rappresentare sono rappresentate le rappresentazioni. Nel caso di una rappresentazione come semplice percezione non è rappresentata una rappresentazione ma io vedo proprio la sedia». M. Heidegger, GA 20 p. 45, trad. it. p. 44. Sul rapporto tra Heidegger e Rickert e in generale il neokantismo, si vedano: A. Savignano, L’influenza di Rickert negli scritti giovanili di Heidegger, in M. Signore (a cura di), Rickert tra storicismo e ontologia, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 339-355; I. Lyne, Rickert and Heidegger: On the value of everyday objects, in «Kant-Studien» 91.2, 2000, pp. 204-225; V. Costa, La verità del mondo, cit., pp. 42-47; K. Hobe, Zwischen Rickert und Heidegger. Versuch über eine Perspektive des

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ne di intenzionalità, inscindibile dalla possibilità che l’essere dell’ente, il come la cosa è, sia esso stesso dato in carne e ossa nell’intuizione categoriale, come eccedenza rispetto a ciò che è dato nell’intuizione sensibile e ciononostante come atto fondato in essa. Sarà proprio però la modalità in cui il categoriale è dato, la modalità in cui il come dell’ente si dà, è, a venir messo in questione da Heidegger, rompendo con quella forma di verità che, in Husserl, rimane la forma apofantica “S è P”, e mostrando piuttosto il circolo vizioso in cui incorre la fondazione della verità della proposizione in quella della visione in senso ampio, il cortocircuito inscritto nel rapporto tra noûsWahrheit e logos-Wahrheit24, fondamento e fondato25. Nel descrivere come Husserl intenda la differenza tra percezione e rappresentazione, Heidegger mette l’accento sul fatto che in entrambi i casi, trattandosi di atti intenzionali, ciò che viene preso di mira è l’ente stesso. Mentre nella rappresentazione della lavagna essa è presente nel modo dell’esser rappresentata, cioè dell’essere intesa in maniera vuota, nella percezione l’esser intesa nel modo del vuoto trova riempimento, viene alla coincidenza, nel modo dell’esser percepita in carne e ossa.

Denkens von Emil Lask, in «Philosophisches Jahrbuch», 78, 1971, pp. 360376; H. Holzhey, Neo-Kantianism and Phenomenology. The Problem of Intuition, in Neo-Kantianism in Contemporary Philosophy, Bloomington and Indianapolis 2010, pp. 25-40. 24. M. Heidegger, GA 21 p. 110, trad. it. pp. 74-75. 25. Su questo cortocircuito ha richiamato l’attenzione J. Taminiaux, Considerazioni su Heidegger e le “Ricerche logiche” di Husserl, in S. Poggi, P. Tomasello (a cura di), Martin Heidegger Ontologia, Fenomenologia, verità, LED, Milano 1995, p. 220-255. Questo cortocircuito argomentato da Taminiaux è stato ripreso e tematizzato da M. Gardini, Heidegger verso le “cose stesse” di Husserl, in «Discipline Filosofiche», IX, 2, 1999, p. 87.

46 Questo venire-alla-coincidenza di quel che è vuotamente rappresentato e di quel che è veduto è un fatto intenzionale, non un procedimento psichico tale che, per così dire, due lamine (rappresentazione e visione) si sovrappongono l’una all’altra e si coprono, e tale che lo si constata a cose fatte nella riflessione.26

Lo stesso atto d’identificazione27 in cui ciò che è inteso in maniera vuota viene a coincidenza con ciò che si dà in carne e ossa è esso stesso un atto intenzionale, si compie in un ulteriore atto che è quello di identificazione: questa prova si compie […] intenzionalmente, come dirigersiverso; questa vuota rappresentazione intenzionale, cioè, tendendo al riempimento, vive essa stessa nell’identificazione, essa stessa è in quanto si identifica; non solo la prova precede sé stessa, ma, in quanto intenzionale, la vuota rappresentazione che sta dando prova di sé sa di sé stessa, sa che sta dando la prova di sé. […] La prova non è qualcosa che si applichi alla vuota rappresentazione, ma un modo del compimento della stessa.28 [cors. mio]

È proprio questa la peculiarità degli enunciati della fenomenologia husserliana: si tratta di enunciazioni intuitive 26. M. Heidegger, GA 21 p. 107, trad. it. pp. 72-73. 27. Sulla concezione della verità tra Heidegger e Husserl si veda il fondamentale studio di E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, Walter de Gruyter & Co, Berlin 1970; in particolare sull’atto di identificazione e il primo concetto di verità in Husserl, pp. 88-95. Sull’atto d’identificazione e il concetto husserliano di evidenza, tra gli altri, si veda lo studio di D.O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 59-74. In generale sul rapporto tra Heidegger e Husserl il testo fondamentale di Marion che citiamo nella traduzione inglese: J.L. Marion, Réduction et donation: recherches sur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, Presses universitaires de France, 1989, ed. inglese Reduction and givenness: Investigations of Husserl, Heidegger, and Phenomenology, Northwestern University Press, Illinois 1998. 28. M. Heidegger, GA 21 p. 107, trad. it. p. 73.

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[anschaunliche]29, di un’enunciazione che fa vedere [anschauende], la cui verità risiede nello stesso compimento dell’atto d’identificazione, l’evidenza vissuta tra quel che si intende e quel che si vede. Come afferma Husserl, in quello che può essere considerato il manifesto programmatico della fenomenologia, intesa dal suo fondatore come scienza rigorosa: «tutti gli enunciati che descrivono i fenomeni mediante concetti diretti, lo fanno, nella misura in cui sono validi, mediante concetti d’essenza, dunque mediante significati concettuali che devono potersi riscattare in una visione d’essenza (Wesensschau)»30. È questa la peculiarità delle enunciazioni fenomenologiche husserliane: per essere comprese necessitano dell’esercizio, dell’habitus fenomenologico, quella prassi teorica che si esercita nella visione d’essenza esprimendosi in significati obiettivi. Per questo, «ciò che è colto e descritto nell’atteggiamento intuitivo – afferma Husserl – può essere compreso e confermato soltanto in questo atteggiamento»31. In tal modo, però, non la proposizione predicativa è il luogo della verità, bensì essa è il termine relativo, poiché i membri del giudizio trovano riempimento solo negli atti intuitivi corrispondenti32. Solo a partire da questo carattere intuitivo,

29. Ivi, p. 70. 30. E. Husserl, Die Philosophie als strenge Wissenschaft, in Aufsätzte und Vorträge 1911-1921, Husserliana XXV, Dordrecht 1987, p. 32, trad. it. C. Sinigaglia, pref. G. Semerari, La filosofia come scienza rigorosa, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 53-54. 31. Ivi, p. 39, trad. it. p. 66. 32. Riportiamo per intero questo importante passo heideggeriano: «La proposizione è vera nella misura in cui la si può provare riferendola alla cosa intesa in quel che si intende nel modo del vuoto rappresentare, del dire, nella misura in cui la cosa intesa è presente in carne e ossa nella visione. La proposizione ora non è nient’altro che qualcosa di vuotamente inteso. Que-

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che fa vedere, rende presenti gli stati di cose intenzionati nel giudizio e gli stessi concetti universali è possibile dare fondamento al senso logico del significato, della proposizione e della conoscenza, evitando il regresso all’infinito nella fondazione della verità della proposizione; solo nella visione d’essenza è possibile fondare il senso e la forma della verità, il sottotesto di ogni asserzione, la forma apofantica originaria “S è P”. Se, infatti, la correttezza della conoscenza è tale solo nel momento in cui viene provata in una ulteriore conoscenza, avrà anche questa seconda conoscenza bisogno di una prova, creando in tal modo la necessità di un regresso all’infinito nel circolo della fondazione33. E tuttavia è proprio la necessità di evitare il regresso all’infinito attraverso l’intuizione originariamente offerente e la prova che sa di sé stessa e vive in questa identità con sé stessa a esibire un cortocircuito tra fondamento e fondato che si mostra nella modalità in cui è pensata la stessa forma della verità intuitiva. Questo cortocircuito viene esplicato da Heidegger nel modo seguente: Husserl […] definisce anche lo stesso rapporto tra cosa intesa e cosa veduta sulla stessa linea dello stato oggettivo “S è P”, “la lavagna è nera”, la relazione di nero e lavagna, con la differenza che in questo stato oggettivo i membri sono la cosa e la determinazione della cosa, mentre nell’altro sono la cosa intesa in quanto tale e la cosa veduta in quanto tale. Nel momento in cui si coglie questo stato veritativo nel senso più ampio, esso ha lo stesso modo di essere della proposizione, ossia quello ideale, cosicché questa identità è colta come essere ideale. Percorrendo uno strano cammino, siamo tornati alla

sto significa però che la proposizione in quanto qualcosa di inteso è membro della relazione che è stata definita come verità; termine della relazione di identità. Membro di questa determinata relazione di identità, membro nel senso che è il termine che può essere provato, il membro cui spetta la possibilità della prova». M. Heidegger, GA 21 p. 108, trad. it. p. 75. 33. Ibidem.

49 posizione di partenza. La proposizione come membro della relazione è fondata sulla verità visiva dell’identità. D’altra parte, l’identità stessa come stato oggettivo ha il modo d’essere di una proposizione o uno stato proposizionale: l’essere ideale.34

Possiamo utilizzare un esempio simile – contenuto nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo – per sottolineare la differenza tra la verità come inerenza del predicato al soggetto collegato tramite il nesso della copula e la verità come atto identificazione, come sussistenza del rapporto con il vero. Possiamo sottolineare – scrive Heidegger – «essere-giallo. E con ciò non voglio esprimere l’essere-verace dello stato di cose giudicato, ma l’essere-P di S, cioè il pervenire del predicato al soggetto; qui è inteso l’essere della copula – la sedia è gialla. Con questo concetto di essere non è intesa la consistenza del rapporto con il vero, ma un momento strutturale dello stato di cose stesso»35. Parimenti, nell’enunciato “la lavagna è nera”, del tutto identico all’esempio della sedia, è possibile mettere l’accento su due aspetti: 1) nel caso della relazione tra la cosa e la sua determinazione, l’enunciato esprime l’esser-nera della lavagna, un momento strutturale dello stato di cose stesso, in cui vengono esplicitate la cosa e la sua determinazione collegate tramite il nesso della copula. Come afferma Heidegger nel brano citato contenuto in Logica e il problema della verità: «in questo stato oggettivo i membri sono la cosa e la determinazione della cosa»36. È possibile leggere l’enunciato, però, anche in un altro senso, ricalcando l’argomentazione svolta nei Prolegomeni: 2) possiamo sottolineare “essere-nero” e pensare quindi

34. Ivi, pp. 112-113, trad. it. p. 77. 35. M. Heidegger, GA 20 p. 72, trad. it. p. 67. 36. M. Heidegger, GA 21 p. 112, trad. it. p. 76.

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“la lavagna è realmente nera”, è verace. «Essere qui significa consistenza della verità, del rapporto con il vero, consistenza dell’identità»37. Il punto è comprendere questo secondo senso, il rapporto con il vero, l’atto d’identificazione, l’essere in rapporto con lo stato veritativo che fonda la predicazione: Ci si chiede ora cosa debba significare qui “sussistere”, il sussistere dell’identità come tale, ossia la relazione tra cosa intesa e cosa veduta. […] In ogni caso, nella verità come identità il discorso riguarda uno stato (Verhalt), uno stato che non sussiste tra la cosa e le sue determinazioni, quindi non una relazione (Verhältnis) che sussiste tra la lavagna e il nero; questa relazione appartiene al contenuto oggettivo della cosa intesa e al contenuto oggettivo della cosa veduta. Qui si tratta invece di una relazione del contenuto oggettivo inteso con la cosa veduta, quindi di qualcosa di doppio: nella proposizione come tale è contenuto il cosiddetto stato proposizionale (Satzverhalt) in cui la cosa è intesa secondo il suo stato oggettivo (Sachverhalt) e, allo stesso modo, nella cosa veduta è contenuto lo stato oggettivo stesso. In seguito però abbiamo anche nell’identità, colta come verità, una relazione, ossia uno stato della cosa intesa di fronte alla cosa veduta, stato che indichiamo come stato veritativo (Wahrverhalt).38

È in un certo modo il carattere stesso della sussistenza della relazione con il vero, il modo d’essere dell’atto d’identificazione, il suo vivere nell’identità con sé stesso, a essere pensato sulla base dell’essere ideale, dunque di una verità che appartiene alla proposizione. La noûs-Wahrheit, l’atto d’identificazione, che ha “liberato” la verità dalla proposizione e dal giudizio è pensata a partire da quello stesso modo d’essere e non ha altra funzione che fondare la stessa proposizione, il suo essere ideale, la sua validità. Ripetiamo come conclude Heidegger:

37. M. Heidegger, GA 20 pp. 71-72, trad. it. p. 67. 38. M. Heidegger, GA 21 p. 112, trad. it. p. 76.

51 Nel momento in cui si coglie questo stato veritativo (Wahrverhalt) nel senso più ampio, esso ha lo stesso modo di essere della proposizione, ossia quello ideale, cosicché questa identità è colta come essere ideale. Percorrendo uno strano cammino, siamo tornati alla posizione di partenza. La proposizione come membro della relazione è fondata sulla verità visiva dell’identità. D’altra parte, l’identità stessa come stato oggettivo ha il modo d’essere di una proposizione o uno stato proposizionale: l’essere ideale.39

A questo proposito, riportiamo il commento di Dahlstrom che attira l’attenzione sulla conclusione a cui giunge Husserl nella VI Ricerca: Husserl comprende apparentemente l’esser-vero come la costante presenza di uno stato di cose che può essere identificato con ciò che è inteso in un giudizio o una proposizione vera, anche se esso non è in effetti oggetto di un’attività giudicativa. Questa costante presenza è quella dell’essere ideale di una proposizione vera. Come afferma lo stesso Husserl, infatti: “Se nei giudizi vengono comprese non solo le intenzioni significanti che fanno parte di una proposizione effettiva, ma anche il possibile riempimento, perfettamente adeguato ad esse, allora è certamente corretto [dire] che l’essere può essere afferrato solo nel giudizio (LU II/2 140)”.40

39. Ivi, p. 113, trad. it. p. 77. 40. Riportiamo la versione originale, di cui abbiamo fornito la traduzione: «Husserl apparently understands “truly being” (Wahrhaftsein) […] as the constant present of a state of affairs that can be aquated with what is meant in a true judgment or sentence, even if it is not in fact the object of an actual judging. This constant present is that of the ideal being of (that is, designated by) a true sentence. As Husserl himself puts it: “If by judgmends one understands not only the intentions of meaning that are part of actual assertions, but also the possible fulfillments, perfectly suited to them, then it is certainly correct that a being can be grasped only in the judging (LU II/2 140)”». D. O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, cit., pp. 107-108.

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Se l’intuizione originariamente offerente ha, secondo Heidegger, “liberato” l’essere e la verità dal giudizio, secondo Husserl è proprio essa ad assicurare il riempimento e dunque l’essere ideale dell’operazione apofantica originaria. Si tratta per Heidegger, invece, di decostruire l’atto d’identificazione e parimenti ripensare il rapporto con il vero a partire dall’analisi fenomenologica dell’effettivo atto dell’enunciare, indagando il modo di essere di chi enuncia e la modalità stessa in cui un comportamento intenzionale come quello dell’enunciare si attua. Ciò, tuttavia, non vuol dire affatto pensare le circostanze dell’enunciazione e chi enuncia come fatti psicologici (fisici o psichici che siano), cioè contingenti, fattuali (tatsächlich), bensì implica la necessità di interrogarsi sul senso di attuazione, sul “dass”, sull’attuarsi stesso della relazione intenzionale, esperendo l’automanifestatività, l’accadere, della stessa struttura d’essere dell’intenzionalità, del rapporto con il vero, a partire dalla sua fatticità (Faktizität, Urfaktum): Perché la verità della proposizione è accoppiata in questo particolare modo con la verità della visione e perché quest’ultima riporta essa stessa alla verità della proposizione, non alla prima, ma a una dello stesso tipo? […] Come deve essere compresa innanzitutto la verità della visione?41

La possibilità di porre quest’ultima domanda implica tuttavia l’aver già esordito in modo diverso, smarcandosi dall’esigenza di fondare la Aussage, l’operazione apofantica originaria “S è P”, e domandando piuttosto come scaturisca l’esigenza di questa fondazione. Questa mossa è possibile solamente avendo già dislocato il luogo in cui si dà il “rapporto con il vero”. È proprio questa dislocazione dall’esser-coscienza-di (Bewusstsein) all’esserci (Dasein) a implicare la radicale riformulazione del senso e della forma della verità, riconfigurando pari-

41. M. Heidegger, GA 21 p. 113, trad. it. 77.

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menti la totalità del fenomeno, l’emergere, insieme al senso di contenuto (was) e al senso di riferimento (wie), del senso di attuazione (dass), la fatticità (Faktizität) della relazione intenzionale, il suo carattere linguistico, storico e attuativo, così come esso è stato elaborato nei primi scritti friburghesi42. A partire da qui Heidegger contesterà che l’esser-lavagna della lavagna si dia nel coglimento intuitivo categoriale fondato nella percezione sensibile, e parimenti che la verità sia primariamente quella dell’Aussage fondata nell’atto d’identificazione, ripensando l’aprirsi stesso del luogo in cui il dirigersi-verso diviene possibile, rivolgendosi, grazie alle scoperte husserliane, al pensiero greco, in cui Heidegger ritrova il movimento della cosa stessa della fenomenologia, in un certo senso l’incarnazione delle categorie nel sensibile, il darsi dell’essere dell’ente, la motilità dello svelamento. Non si tratta più, come negli enunciati d’essenza husserliani, che possono riscattarsi sono nell’atteggiamento intuitivo, di vivere in sé stessi, nell’atto d’identificazione in cui ciò che è inteso e ciò che è visto vengono alla coincidenza, in una infinita autopresentificazione, per fondare, nell’habitus fenomenologico, l’operazione apofantica originaria isolando la sfera immanente della coscienza – e riflettendo, grazie alla grande scoperta husserliana dell’intenzionalità, «non sugli atti come oggetti ma sugli oggetti di questi atti»43, esprimendo i correlati essenziali in concetti d’essenza – ma di «fare un’esperienza fondamentale della cosa

42. Sul carattere fattizio e attuativo della correlazione intenzionale e, in particolare, sul Vollzugsinn, termine chiave dei seminari primo-friburghesi (questione di cui ci occuperemo più lungamente nel prossimo studio: Infra, cap. II §2) si vedano, in particolare, tra i lavori più recenti: F. Dastur Heidegger: la question du logos, Vrin, Paris 2007, capp. I e II; M. Steinmann, Martin Heidegger: Philosophie als Intensität, in «Philosophisches Jahrbuch der Görres Gesellschaft», 112, 2005, pp. 311-334. 43. E. Husserl, Logische Untersuchungen Vol II, cit., p. 670, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. 2, cit., pp. 443-444.

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stessa: se si parte dalla coscienza questa esperienza non la si può proprio fare»44. Se ci interroghiamo sul tipo di presenza che è sovrana in questa “autopresentificazione” che è ogni coscienza dobbiamo allora convenire che questa “autopresentificazione” avviene nell’immanenza della coscienza. Qualunque cosa di cui io sono cosciente essa mi è presente. Ciò significa: questa cosa è nella soggettività, nella mia coscienza45

Si tratta invece di spezzare e di dislocare la correlazione: «“la cosa” non ha più luogo nella coscienza, ma nel mondo (che a sua volta non è immanente alla coscienza)»46. §3 La riformulazione heideggeriana dell’intenzionalità e il ruolo ambiguo dell’intuizione categoriale Le analisi che seguono intendono mostrare la riformulazione heideggeriana dell’intenzionalità e, parallelamente, il ruolo ambiguo che l’intuizione categoriale svolge nel ridefinire tema e metodo fenomenologici. La modalità d’accesso all’inapparente, al “come” (l’essere dell’ente: il tema della fenomenologia), è pensata da Husserl in analogia alla modalità di coglimento dell’ente (il “che cosa”), analogia che intesse lo stesso rapporto tra nóesis e aísthesis: a partire da qui si chiarisce il senso della critica heideggeriana alla “noûs-Wahrheit”. Ripercorrere questa critica dall’interno ci permette di delimitare il

44. M. Heidegger, Seminar in Zähringen 1973, in Seminare, Klostermann, Frankfurt a. M. 1986, GA 15, p. 383, trad. it. Seminario di Zähringen 1973, in Seminari, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2003, p. 159; Sul ruolo e il senso fondamentale dell’Erfahrung nella fenomenologia heideggeriana ha richiamato l’attenzione P. Vinci, Essere ed Esperienza in Heidegger. Una fenomenologia possibile tra Hegel e Hölderlin, Stamen, Roma 2008. 45. Seminar in Zähringen 1973, cit., p. 382, trad. it., p. 157. 46. Ivi, p. 158.

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peculiare autoriferimento inscritto nella dimensione veritativa dell’esistenza, elemento chiave per far reagire la fenomenologia con la dimensione performativa che, rimandando la verità dell’enunciato all’essere appropriato dell’intero contesto, riferisce in maniera caratteristica l’atto enunciativo a sé stesso. È proprio l’intuizione categoriale a fornire uno stimolo essenziale47 per ripensare tanto l’oggettività dell’oggetto quanto la soggettività del soggetto – modi scaturiti dall’essere-nelmondo – assumendo entro lo sviluppo della fenomenologia heideggeriana un ruolo equivoco. In primo luogo, certamente, essa offre un terreno per ripensare la forma della verità, poiché è proprio la possibilità che l’esser-lavagna della lavagna si automanifesti, così come l’«è», l’«o» e ogni forma logica e categoria, a offrire un nuovo terreno, questa volta ontologico, per ripensare il senso della verità oltre la rappresentazione e il giudizio. L’espressione intuizione categoriale […] significa: un’intui­ zione che fa scorgere una categoria, ovvero: un’intuizione (un essere presente per) orientata immediatamente su una categoria. Con l’espressione intuizione categoriale Husserl arriva a pensare il categoriale come dato.48 […] Per poter sviluppare in generale la domanda del senso dell’essere, l’essere doveva essere dato, così da poterne interrogare il senso. Il risultato

47. Sull’intuizione categoriale come “stimolo essenziale” e sull’influenza che questa scoperta esercita sulla fenomenologia di Heidegger, anche in riferimento al pensiero dell’Ereignis, il contributo fondamentale di P. Vinci, Essere ed esperienza in Heidegger. Una fenomenologia possibile tra Hegel e Hölderlin, cit., in particolare pp. 97-101. Sul ruolo che l’intuizione categoriale esercita negli scritti precedenti a Sein und Zeit e sulla trasformazione dell’intuizione categoriale e la sua torsione ermeneutica si veda J. Grondin, Die hermeneutische Intuition und Intention zwischen Husserl und Heidegger, in H. J. Adriaanse, R. Enskat (Hrsg.), Fremdheit und Vertrautheit: Hermeneutik im europäischen Kontext, Peeters, Leuven 2000, pp. 57-63. 48. M. Heidegger, GA 15 p. 374, trad. it. p. 149.

56 conseguito da Husserl si trova proprio in questa presentificazione dell’essere, che è presente come fenomeno nella categoria. Grazie a questo risultato […] io ho avuto finalmente un terreno su cui poggiare: “essere” non è più un semplice concetto, non è un’astrazione pura ottenuta tramite deduzione.49

Il categoriale tuttavia, il “come”, cioè lo stile di manifestatività in cui ogni cosa appare, l’essere dell’ente, non è esso stesso coglibile in prensione diretta, nell’intuizione, non è esso stesso “presente per”; o meglio: isolare, attraverso il processo delle riduzioni, una regione formale immanente (l’esser-coscienza di) in cui possano essere presi di mira soltanto gli atti stessi, dunque la modalità in cui lo stile di manifestatività della cosa appare, significa cogliere l’inapparente in presa diretta, intenzionandolo entro la sfera immanente della coscienza, rendere cioè questa stessa inapparenza il correlato – l’intentum – di un nuovo atto intenzionale. Si tratta in questo modo ancora una volta di rendere l’inapparente oggetto per una coscienza, e di vivere in questa immanente (auto)presentificazione. Dove sta la scoperta decisiva di Husserl e al tempo stesso la difficoltà essenziale? Io vedo un foglio bianco. Ma si tratta di un vedere duplice, perché ci sono due visioni: la visione sensibile e quella categoriale. La difficoltà risiede nel duplice significato di vedere – un duplice significato che è dominante già nel pensiero di Platone. La difficoltà consiste nel fatto che se vedo un foglio bianco, non vedo però la sostanza “come” vedo il foglio bianco. […] Ripetiamo: se io vedo questo libro, vedo dunque una cosa sostanziale, senza tuttavia vedere la sostanzialità come vedo il libro. Nondimeno è la sostanzialità ciò che, nella sua inapparenza, permette a ciò che appare di apparire.50

49. Ivi, p. 378, trad. it. p. 152. 50. Ivi, p. 377, trad. it. p. 151.

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Sebbene l’inapparenza che si dà nell’intuizione categoriale sia ciò che permette a ciò che appare di apparire, il come una cosa è, l’essere dell’ente, essa è pensata come atto fondato nella percezione sensibile e come eccedenza rispetto a essa. Come osserva Taminiaux, «questo strano parallelismo, nel quale il fondato è a sua volta fondatore e in eccedenza rispetto a ciò su cui si fonda, non comporta affatto, nella ricerca husserliana, una messa in questione della prospettiva che la ispira»51. Questo strano parallelismo non riguarda soltanto la fenomenologia husserliana ma individua la stessa impostazione della verità del logos, fondata nell’intuizione, nella visione del noûs: Husserl, cogliendo in modo caratteristicamente ampio e fondamentale il concetto di visione, come dare e avere un ente nella sua presenza in carne ed ossa, cogliendolo cioè in un modo che non si limita a un ambito particolare e a una capacità particolare, ma formula il senso intenzionale della visione, cogliendolo per la prima volta in modo radicale, ha pensato fino in fondo la grande tradizione della filosofia occidentale.52

La domanda di Heidegger sul “come”, sull’essere dell’ente, su come una cosa è e sul senso di questa inapparenza si sviluppa invece a partire dall’analisi fenomenologica della modalità in cui innanzitutto e per lo più ci si fanno incontro le cose, la domanda verte sul senso in cui comprendiamo com’è una cosa. Lo slittamento della fenomenologia heideggeriana – slittamento che riformula radicalmente la struttura intenzionale e lo stesso “discorso” sulla verità (dunque la verità fenomenologica), ripensando il senso dell’essere a partire dal carattere

51. J. Taminiaux, Considerazioni su Heidegger e le Ricerche logiche, cit. p. 242. Cfr. M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, Quodlibet, Macerata 2005, p. 58. 52. M. Heidegger, GA 21 p. 114, trad. it. p. 77.

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esistenziale dell’“io sono” e mostrando il carattere scaturito dell’operazione apofantica originaria (la terza persona dell’indicativo presente del verbo essere) – risiede, a mio avviso, nel mutamento di una semplice preposizione, che tuttavia ridefinisce tema e metodo fenomenologici: il passaggio dall’Hinsehen all’Umsehen. Come afferma Tugendhat, in uno dei più importanti lavori dedicati al confronto tra Husserl e Heidegger sul concetto di verità: [In Husserl] L’essere dato dell’intramondano viene compreso di contro all’esser dato dell’idealità della natura scientifica intesa come auto datità originaria (Selbstgegebensein), come evidenza originaria; e in tal modo anche la Umwelt viene pensata nel suo strato primario come natura materiale. Per Heidegger, di contro, si determina l’originarietà non a partire dall’autodatità originaria (Selbst­gegebensein) e parimenti non a partire dalla messa fuori circuito dell’ente, bensì a partire dalla domanda che verte su come lo stesso ente intramondano può essere incontrato.53

53. «Das umweltliche Gegebensein wird gegenüber dem idealisierten Gegebensein der wissenschaftlichen Natur als das ursprünglichere Selbstgegebensein, als die ursprünglichere Evidenz verstanden (oben S. 244); und daher wird auch die Umwelt in ihrer primären Schicht weiterhin als materielle Natur gedacht (oben S. 242). Für Heidegger hingegen bestimmt sich die Ursprünglichkeit nicht aus dem Selbstgegebensein und daher auch nicht aus dem Ausweisungsaufbau des Seienden, sondern aus der Frage, wie innerwelt1iches Seiendes überhaupt begegnen kann». E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, cit. p. 284. Nonostante T. metta in risalto il fatto che il problema della verità nella concezione heideggeriana non riguardi più la fondazione della verità della Aussage, parallela al primato dell’ente qua cosa materiale, implicando, insieme al primato della Umwelt, la coappartenza di verità e non verità entro l’Erschlossenheit, la dimensione veritativa dell’esistenza, secondo T. questa concezione non dà conto del problema, offrendo un concetto di verità che non permette di tracciare alcuna differenza tra l’Erschlossenheit come apertura preliminare dello spazio di manifestatività e “uno specifico riferimento alla verità”. Così commenta T.: «Geht aber nicht, wenn “Wahrheit” in dieser Weise ge-

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La preposizione Um non indica soltanto la necessità di avere come punto di partenza dell’analisi fenomenologica la Umwelt e parimenti l’aver-a-che fare, quel sapersi orientare avveduto (Umsicht) e coinvolto proprio della modalità in cui le cose sono, correlativamente al modo in cui vengono incontrate, mettendo in discussione il primato dell’intenzionalità teoretica (che è tale solo a partire da un processo di de-vitalizzazione dell’essere-nel-mondo) e ripensando lo stesso modo di essere delle cose come pragma, a partire dal primato del comportamento pratico orientato (pre-teoretico) sul comportamento teoretico guidato da uno sapere stabile; ma indica anche all’«Um sein Sein selbst gehen»54, al “ne va di”, a quell’esser riguardati dal proprio essere che è la modalità in cui l’esserci è aperto a sé, l’autoriferimento (Selbstverhältnis), il luogo in cui accade l’essere stesso dell’intenzionalità, che è (in quanto modo d’essere) sempre mio e di volta in volta (jemein und

radezu als die Erschlossenheit selbst verstanden wird und nicht als eine bestimmte Differenz innerhalb der Erschlossenheit, der spezifische Sinn von “Wahrheit” verloren?», ivi, p. 329. Ci confronteremo con questa tesi più ampiamente nel §6 (Infra). Al contrario di quanto sostiene T., la dimensione veritativa esistenziale non implica affatto, in base alla nostra prospettiva, una generica dimensione di apertura ma, essendo profondamente legata al Verfallen, cioè allo scadimento, alla sottrazione del “come” nel “cosa”, chiama in causa una dimensione veritativa attuativa e performativa in senso forte, una trasformazione che investe ogni esperienza e situazione esistentiva determinata. Lungi dal non individuare alcun riferimento specifico alla verità, la distinzione tra verità e non verità sul piano esistenziale mette in gioco un cambiamento nella modalità di temporalizzazione del fenomeno che possiamo descrivere come intreccio tra Uneigentlichkeit – significatività del “cosa” e indifferenza del “come” – e Eigentlichkeit – significatività del “come” e indifferenza del “cosa” (Infra, cap. II, in particolare §§2-3). È su questo “fatto” (dass) esistentivo, questo riferimento fattizio alla verità, che si gioca la distinzione tra verità e non verità esistenziale. 54. M. Heidegger, Sein und Zeit, Klostermann, Frankfurt a. M. 1977, GA 2 p. 204, trad. it. a cura di F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi Milano 2005, p. 189.

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jeweils): il carattere esistenziale, l’esser-ci del mondo. È l’apertura (Erschlossenheit) di questo luogo indicato nella parola Da-sein a dislocare in un ritardo, una rottura la struttura della correlazione – l’esser-coscienza di (Bewusstsein), la trasparenza di sé con sé55 – minando la possibilità di tracciare il movimento di riflessione e riformulando in maniera radicale il senso della verità, e quindi anche il senso degli enunciati fenomenologici. Questa rottura emerge innanzitutto a partire dal contesto dei rimandi in cui l’ente è già sempre inserito, sancendo l’impossibilità di un significato isolato, compreso – come nella Bedeutung husserliana – nell’intenzione che vuole dire, che intende con un segno qualcosa nella sfera psichica isolata56. La significatività è piuttosto, di volta in volta, già un “fuori” contestuale e olistico: l’aprirsi del mondo, della totalità dei rimandi (Verweisungszusammenhang) a partire da cui (woraufhin) le cose emergono nel loro nel loro a-che (wo-zu) e sono scoperte

55. Il passaggio dalla Bewusstsein al Dasein implica una vera e propria riformulazione di tema e metodo fenomenologici. Questa considerazione di Von Herrmann, contenuta nel testo dedicato al rapporto tra Subjekt e Dasein, sintetizza i tratti salienti di questa trasformazione: «Subjekt oder Bewusstsein ist das Forschungsfeld der vorhermeneutischen Phänomenologie in ihrer reflexiven Blickstellung (cors. mio). Im Begriff ‘Dasein’ ist dagegen die Position der Phänomenologie Heideggers angezeigt, aus deren hermeneutischer Blickstellung Dasein als Untersuchungsfeld hervorgeht. „Subjekt und Dasein“ heißt auch „Husserl und Heidegger“ […] (sie) ist die Zusammenstellung der unterschiedlichen Sachfelder der vorhermeneutischen und der hermeneutischen Phänomenologie». F.W. Von Hermann, Subjekt und Dasein, Klostermann, Frankfurt a. M., 1985, p. 4. 56. Sul concetto husserliano di Bedeutung innanzitutto le analisi di J. Derrida, La Voix et le phénomène, PUF, Paris 1967, trad. it. a cura di G. Dalmasso, pref. C. Sini, postfazione V. Costa, La voce e il fenomeno, Jaka Book, Milano 2010. Derrida traduce il Be-deuten come voler dire (vouloir-dire) per sottolineare l’ipoteca volontaristica e metafisica della Bedeutung husserliana.

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in quanto cose, implica, parimenti, l’esser rinviato (Angewiesensein) all’aprirsi del mondo di chi esiste in vista di esso, che è insieme un rimando a quell’ente in vista di cui la totalità di rimandi esiste, a un chi in vista di cui (worumwillen) le cose sono (scoperte) proprio come già sempre erano, sono scoperte in quanto cose. È la modalità il cui l’essere nel mondo è aperto a sé (esser-ci)57 a fornire la possibilità di mostrare il carattere scaturito del paradigma dell’intenzionalità e del dirigersi-verso, e dunque tanto della correlazione a due termini, quanto del primato dell’intuizione che fonda la verità predicativa. La critica al carattere intuitivo del categoriale, al modo di darsi del “come”, e dunque la riformulazione del carattere prepredicativo58 del senso viene esemplificata mostrando come scaturisca la “datità” categoriale, il suo essere compresa come “esser-dato”: Ricompare qui la domanda iniziale: quale itinerario percorre Husserl per giungere all’intuizione categoriale? La risposta è

57. «La sfera in un cui tutto ciò che può essere chiamato cosa può essere incontrato come tale, è ambito che schiude a questa cosa la possibilità di manifestarsi ‘là fuori’. L’essere dell’esserci deve conservare un ‘fuori’. Perciò in Essere e Tempo l’essere dell’esser-ci è caratterizzato dall’e-stasi. In senso rigoroso esser-ci significa dunque: essere estaticamente il Ci. Con ciò l’immanenza è spezzata». M. Heidegger, GA 15 p. 383, trad. it. p. 159. 58. Intendiamo con pre-predicativo una dimensione veritativa che non si dà primariamente nell’asserzione/giudizio, e in particolare ci riferiamo al fatto che Husserl, nell’interpretazione di Heidegger, fondi la verità dell’asserzione in quella della visione offerta dall’intuizione originariamente offerente. Com’è noto Heidegger, in questo contesto, si riferisce primariamente alle Ricerche logiche e ai due volumi delle Ideen. Con pre-predicativo non intendiamo dunque il ruolo che questo concetto assumerà negli scritti husserliani degli anni ’30. Per un’impostazione generale di questo problema e del suo sviluppo nel pensiero husserliano si veda: D. Lohmar, Erfahrung und kategoriales Denken. Hume, Kant und Husserl über vorprädikative Erfahrung und prädikative Erkenntnis, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/ Boston/London 1998, pp. 158-273.

62 inequivocabile: poiché l’intuizione categoriale è esattamente come l’intuizione sensibile (essendo infatti essa a dare), Husserl perviene all’intuizione categoriale seguendo la via dell’analogia. In una analogia qualcosa fornisce la misura per la corrispondenza. E, nell’analogia tra le due forme dell’intuizione, che cosa corrisponde a che cosa? Risposta: le datità sensibili forniscono la misura, e il categoriale è ciò che corrisponde ai dati sensibili. L’intuizione categoriale viene “resa analoga” a quella sensibile.59

Ciò significa in primo luogo pensare il categoriale, il come, l’essere dell’ente, per analogia, e dunque a partire dalla modalità di coglimento dell’ente, ma significa anche pensare la cosa stessa non a partire da sé, nei limiti in cui dà e così come si dà – come recita il principio di tutti i principi – a partire dunque dalla sua modalità di manifestazione, ma a partire dalla modalità in cui essa è colta. È la modalità di coglimento, cioè la posizione dell’atto, ad avere un primato e in un certo senso a imporre sul modo di darsi la modalità di coglimento da esso esigita: quella di una coscienza intenzionale, esser-coscienzadi, pensata come noesi che ha come correlato l’idealità, che dunque è, in questo atto di posizione, nella sua immanenza, in sé stessa, presente a sé stessa, permanente, atemporale, ideale: La differenza tra essere reale e essere ideale risale a questa fondamentale diversificazione ontologica della filosofia greca, risale a Platone. Queste due regioni dell’essere si possono anche caratterizzare, in vista del modo di coglierne i tratti, ancora più esattamente come regione dello stabile, dell’identico, dell’ideale e come regione del mutevole, del reale. Infatti negli oggetti sensibili l’aspetto permanente è quello che viene colto dalla ragione, dal noûs, le idee o l’idea sono il noetón, mentre al reale, mutevole e vario, si accede attraverso i sensi, nella aísthesis […]; anche qui l’essere ideale e quello reale 59. M. Heidegger, GA 15 p. 376, trad. it. p. 150.

63 sono caratterizzati in base al modo in cui vi si accede, non in base all’essere stesso e al suo modo di essere”.60 [corsivo mio].

La critica heideggeriana alla modalità in cui Husserl e con lui il gesto della filosofia platonica pongono l’accento sulla modalità di coglimento (compreso in analogia all’intuizione sensibile in senso ampio, alla aísthesis) piuttosto che sul modo di essere stesso dell’intenzionalità – sull’attuarsi stesso del modo di essere della relazione reale-ideale – mette da una parte in questione che il come dell’ente, il suo modo d’essere, si dia direttamente come correlato di un atto intuitivo categoriale, criticando questo modello di percezione; dall’altra, questa critica mina la possibilità di intenzionare in un ulteriore atto intuitivo che si rivolge a sé stesso questa stessa modalità di coglimento. A tale proposito, è molto chiara questa considerazione contenuta nel corso subito successivo alla pubblicazione di Sein und Zeit dedicato ai Grundprobleme der Phänomenologie: «All’intenzionalità della percezione appartengono non soltanto l’intentio e l’intentum ma anche la comprensione della modalità d’essere di ciò che è intenzionato nell’intentum»61. Il percepire non potrebbe rivolgersi a un percepito se non pre-comprendesse, se non trascendesse – essendo esso stesso questa anticipazione – se non fosse esso stesso rimandato al modo di essere del percepito, se l’esser-percepito cioè non fosse già scoperto come semplice presenza, se non fosse dunque già (de)significato e compreso come “dato”. E parimenti: il dirigersi verso intenzionale non è solamente un irradiarsi di atti che si dipartono da un io inteso come centro dell’irradiazione, irradiarsi che dovrebbe rapportarsi all’io solo successivamente, di modo che l’io si rivolgerebbero all’indietro, in un 60. M. Heidegger, GA 21 p. 57, trad. it. pp. 39-40. 61. M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, Klostermann, Frankfurt a. M. 1975, GA 24 pp. 100-101, trad. it. a cura di A. Fabris, Nuovo Melangolo, Genova 1998, p. 66.

64 secondo atto, verso questo primo atto (il primo dirigersi verso), ma piuttosto all’intenzionalità appartiene la con-scoperta del sé stesso.62

Il percepire non potrebbe percepire il suo percepire se non pre-comprendesse questo modo di essere in quanto “suo”, se non fosse dunque rimandato a sé stesso, se esso stesso non fosse in qualche modo già aperto a sé. Questo passaggio è cruciale: a essere messo in questione è lo stesso movimento di riflessione, quella reflexive Blickstellung che individua tema e metodo della fenomenologia husserliana.63 In fondo, pensare la fenomenologia alla luce della performatività per riformulare la figura della performatività alla luce dell’autoriferimento inscritto nell’esser-ci significa chiedersi: “in che modo è il sé stesso?” o, detto altrimenti, che senso ha il verbo essere che va espresso con i pronomi personali? Il fatto che Husserl pensi la dimensione pre-predicativa della verità come identità, come noûs Wahrheit – quella che in Heidegger diventerà la coappartenza nella differenza dell’essere dell’ente, l’in quanto ermeneutico – a partire dal primato della modalità di coglimento intenzionale e dunque dalla posizione dell’atto, e non dall’attuarsi stesso della modalità d’essere del-

62. Ivi, p. 225, trad. it. p. 151. 63. Sul rapporto tra la Selbstreflexion husserliana e la torsione ermeneutica della fenomenologia, si veda, tra i numerosi studi: F. W. Von Herrmann, Hermeneutik und Reflexion. Der Begriff der Phänomenologie bei Heidegger und Husserl, Klostermann, Frankfurt a. M. 2000. Sul debito heideggeriano nei confronti del concetto husserliano di Bewusstsein e la sua riformulazione si veda: G. Figal, Phänomenologie und Ontologie, in G. Figal, H-H. Gander (Hrsg.), Heidegger und Husserl: Neue Perspektiven, Klostermann, Frankfurt a. M. 2013, pp. 25-42. In generale sul rapporto tra la fenomenologia husserliana e la torsione ermeneutica di quest’ultima ad opera di Heidegger: H.-H. Gander, Selbstverständnis und Lebenswelt: Grundzüge einer phänomenologischen Hermeneutik im Ausgang von Husserl und Heidegger, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 2006.

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la correlazione intenzionale, è parallela al primato dell’ente come cosa della natura e dunque alla necessità di fondare una scienza rigorosa, universale, che tratti la storia come un’ontologia regionale. Un’indicazione in tale senso è contenuta in un passo tratto dal corso del 1923-24 dedicato a una Einführung in die phänomenologische Forschung. Nella fenomenologia husserliana – scrive Heidegger – «l’ente viene esemplificato in riferimento all’ente reale qua cosa. Solo un ente inteso come cosa della natura (Naturding), fondamento di tutte le diverse possibilità d’essere, diviene la base per la determinazione della cultura, della storia»64. L’intenzionalità, dunque, e la stessa esperienza pre-predicativa emergono per fondare l’idealità del giudizio e la verità apodittica dell’idealità, dei principi logici e della conoscenza teoretica delle cose della natura. Heidegger si domanderà invece come si manifesti l’esigenza di questa fondazione di una verità universale nell’intuizione originariamente offerente. A tale scopo a dover essere interrogata è la stessa verità della visione, la noûs-Wahrheit: mi servo di questa mistura, un po’ ridicola, di greco e tedesco per spiegare come questi due problemi relativi alla verità sia­ no orientati verso due punti di partenza fondamentali della filosofia antica, nella cui tradizione noi oggi ci troviamo: logos e noûs.65

La stessa verità della visione (noûs-Wahrheit), l’intuizione originariamente offerente, viene letta parallelamente al fenomeno del noûs aristotelico,66 preso in considerazione in questo stesso corso. Quest’ultimo si mostrerà la ratio cognoscendi del legame tra esserci, tempo e verità, pur costituendo l’esser-ci 64. M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, Klostermann, Frankfurt a. M. 1994, GA 17 p. 272 (trad. L.G.). 65. M. Heidegger, GA 21 p. 110, trad. it. p. 75. 66. Al confronto di Heidegger con il noeîn aristotelico è dedicato il §5 di questo stesso capitolo.

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stesso e la sua motilità di scadimento la ratio essendi della verità della visione che fonda la verità della proposizione. Così lo strano parallelismo del circolo delle fondazioni, per usare l’espressione di Taminiaux, in base al quale la noûs-Wahrheit fonda la verità dell’asserzione e tuttavia ne condivide tanto il modo di essere, l’idealità, quanto la forma “S è P”, così come l’intuizione categoriale (il darsi dell’inapparente) è un atto fondato nella percezione semplice e tuttavia permette al suo oggetto di apparire, può essere messo allo scoperto: è lo stesso logos, nel suo primario significato di rendere manifesto, essere-nel-mondo, essere-in “rapporto con il vero” nella sua costitutiva motilità di scadimento, ciò a partire da cui scaturisce la noûs-Wahrheit, in cui l’essere dell’ente – il rapporto con il vero – viene compreso a partire da un carattere del tempo: la presenza essenziale, il presente. A partire da qui è possibile comprendere il graduale allineamento, l’estinguersi del vettore dinamico-temporale che intesse la verità come rendere manifesto, dello stesso phaínesthai, fino al suo raffermarsi statico nella proposizione teoretica “S è P”, che acquisisce una forma infinitamente riproducibile, divenendo il luogo primario della verità come validità: è dallo stesso esserci in quanto rapporto con il vero a scaturire, parimenti, l’esigenza di assicurarsi nell’orizzonte della presenza, la verità “come identità e l’essere del vero come valere atemporale”, occultando l’esistenza, l’esserci (dass) di questa esigenza. §4 La torsione ermeneutica del discorso fenomenologico: l’enunciazione e suoi «giochi linguistici» Ci proponiamo di chiarire la torsione ermeneutica della fenomenologia disegnando una mappa dei differenti contesti attuativi di un’enunciazione, enumerando alcuni dei suoi

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giochi linguistici67 e mostrando così la trasformazione che il senso della verità subisce se l’enunciazione è impiegata in un contesto teoretico (assertivo o intuitivo), oppure mentre si è all’opera e si ha a che fare con qualcosa. In quest’ultimo caso, l’enunciare sottende una forma di verità che non ha i tratti della permanenza atemporale, bensì implica un costitutivo riferimento al contesto e parimenti un riferimento a chi la compie. Vedremo, tuttavia, che questa verità “riferita al contesto” non è affatto “contingente”, “relativa”: l’esser di volta in volta (Jeweiligkeit) della relazione è pensato infatti a partire da sé e non più in contrapposizione a (e dunque a partire da) ciò che è sempre68. Questo primo passo è volto a preparare il terreno per mettere in luce il processo di scaturigine dell’«è» inscritto nell’operazione apofantica originaria dal senso del verbo esse-

67. Thomas Rentsch nel suo lavoro Heidegger und Wittgenstein: Existential- und Sprachanalysen zu den Grundlagen philosophischer Anthropologie, Klett-Cotta, Stuttgart 2003 ha esplicitato la distinzione tra categoriali ed esistenziali in giochi linguistici determinati. Per un’impostazione generale si vedano in particolare pp. 150-170. Su questa base proviamo ad accostare quelli che nei corsi primo-friburghesi vengono definiti “contesti attuativi” dei significati fattizi e i giochi linguistici di Wittgenstein, descrivendo i differenti contesti in cui può essere attuata un’enunciazione. Un esempio di esplicazione fenomenologica a partire dai contesti attuativi è offerto dallo stesso Heidegger nell’analisi degli usi linguistici del termine “storia”. Cfr. M. Heidegger, Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks. Theorie der philosophischen Begriffsbildung, Klostermann, Frankfurt a. M. 1993, GA 59 pp. 45 e ss., trad. it. a cura di V. Costa, Fenomenologia dell’intuizione e dell’espressione. Teoria della formazione del concetto filosofico, Quodlibet, Macerata 2012, pp. 41 e ss. 68. La necessità di pensare il senso di ciò che può essere diversamente da quel che è non a partire dal sempre essente ma a partire da sé, questione dirimente su cui ruota la critica heideggeriana alla determinazione aristotelica dell’endechómenon állos échein, verrà approfondita nel confronto con l’interpretazione heideggeriana del VI libro dell’Etica nicomachea. Infra, Cap. IV.

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re da cui prende avvio la torsione ermeneutica della fenomenologia69. Potremmo esemplificare la motilità di scadimento che conduce alla cristallizzazione della verità della proposizione riprendendo un esempio simile a quello della lavagna, utilizzato per mettere in chiaro il rapporto tra la verità dell’asserzione (il senso d’essere della copula), e la verità della visione, come identità, noûs-Wahrheit. Possiamo sottolineare tre sensi70 dell’enunciazione “il gesso è friabile”: 1) “Il gesso è friabile”. In questo contesto, l’accento cade sull’esser-friabile del gesso, dunque sullo stato di cose, sulla cosa e la sua determinazione: l’esser-A di B (sintesi) implica parimenti il suo esser separata (diairesi): il suo esser non C, non D, non F ecc. In questo contesto attuativo si situa la verità assertiva: a questa dimensione di senso, di verità appartiene la disgiunzione tra poter-essere vero o falso. 2) Nella enunciazione “il gesso è friabile”, in cui l’accento viene posto sul rapporto con il vero, l’essere non ha il senso della copula, bensì quello dell’identità. Nell’attuazione della visione d’essenza husserliana a essere intesa è la sussistenza del rapporto con il vero, l’essere presente in carne e ossa del rapporto con il vero nell’intuizione originariamente offerente, nell’atto d’identificazione, in quell’autopresentificazione che è il venire a coincidenza della cosa intesa con la cosa veduta, la presenza

69. Infra, §6. 70. Su queste diverse accentazioni hanno attirato l’attenzione, con intenti differenti: M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 55; J. Watabee, Categorial Intuition and the understanding of Being in Husserl and Heidegger, in J. Sallis (ed.), Reading Heidegger. Commemorations, Indiana University Press, Bloomington 1993, pp. 113 ss.; D.O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, cit. pp. 105-106.

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essenziale della coappartenenza tra datità e modo di datità. Il senso di verità sotteso a questo contesto attuativo non implica la disgiunzione tra il poter-essere vero o falso, bensì quella tra riempimento o assenza di riempimento. 3) Se intendiamo infine la proposizione come un’esclamativa: “il gesso è friabile!”, il senso del verbo essere, dell’«è», non risiede né nel rapporto con il vero compreso come atto d’identificazione tra la cosa intesa e la cosa veduta, né implica il poter essere vero o falso della forma assertiva. In questo contesto, è tanto la forma della verità “S è P”, quanto il senso dell’essere come permanenza e identità a rivelarsi inappropriato. Nella fenomenologia heideggeriana si tratta di ripensare il senso dell’essere a partire da questo contesto di senso, mettendo in questione che il filo conduttore del discorso fenomenologico sia la proposizione apofantica originaria, che sia dunque questa forma di discorso quella appropriata al senso della fenomenologia (e parimenti che l’intenzionalità debba essere primariamente pensata come noesi o come theoreîn); si tratta di dare conto di come scaturisca quella concezione della verità come permanenza atemporale, presenza e identità a partire dal senso del rapporto con il vero in cui innanzitutto e per lo più siamo, mentre comprendiamo questa enunciazione nel discorso quotidiano, mentre cioè noi frequentiamo il mondo: Se mentre scrivo dicessi che questo gesso è troppo duro o troppo friabile o qualcosa di simile, allora farei un’enunciazione all’interno dell’effettuazione, all’interno dello scrivere, un’enunciazione che in nessun modo dovrei interpretare come segue: l’enunciazione “il gesso è troppo friabile” è non solo una determinazione del gesso, ma contemporaneamente anche un’interpretazione del mio comportamento e della possibilità di una mancanza di comportamento, ossia il fatto di non poter scrivere “correttamente”. In questa enunciazione, non voglio determinare questa cosa che ho in mano come qualcosa che ha la proprietà della durezza o della friabilità,

70 ma voglio invece dire che mi è d’impedimento nello scrivere; l’enunciazione è quindi, nell’interpretazione, riferita al comportamento di chi scrive (cors. mio), ossia nel commercio primario dello scrivere stesso, è cioè enunciazione in quanto interpretazione dell’in-essere, in quanto essere presso.71

Esclamare “il gesso è friabile!” non significa determinare la friabilità come una proprietà del gesso. La “correttezza” del discorso, la sua verità, il senso dell’«è» implicato in questo contesto attuativo, non risiede né nel venire a coincidenza della cosa intesa con la cosa veduta, né nella determinazione di uno stato di cose. In questo gioco linguistico, il senso intenzionale dell’enunciare indica, rimanda – essendone costitutivamente riferito – all’essere-in un mondo ambiente, all’essere-presso un ente, alla totalità olistica e de-finita del luogo in cui si compie qualsiasi effettuazione e parimenti a un determinato “chi” che la compie. Parimenti si profila una dimensione veritativa in cui non vige né la disgiunzione tra vero o falso, né quella tra riempimento o assenza di riempimento. In questo contesto la verità del discorso, ciò che il discorso esprime (più o meno compiutamente) implica un costitutivo rimando alla totalità della situazione. Usare l’enunciazione in senso esclamativo, a partire cioè dal modo in cui essa viene innanzitutto e per lo più impiegata, riformula il punto di partenza del discorso fenomenologico, imparentandosi con il famoso esempio offerto da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, volto anch’esso a detronizzare, insieme alla concezione denotativa del linguaggio, la forma apofantico-assertiva della verità. Al pari della Umgang – l’innanzitutto e per lo più dell’avere a che fare quotidiano da cui si diparte la fenomenologia heideggeriana – è la prassi in cui siamo immersi il terreno a partire da cui diviene possibile (anche) comprendere la differenza tra un’asserzione e un comando. Scrive Wittgenstein: 71. M. Heidegger, GA 21 p. 157, trad. it. p. 106.

71 Immagina un gioco linguistico in cui B, rispondendo a domande postegli da A, lo informa sul numero delle lastre o dei blocchi che si trovano in un mucchio, e sui colori e le forme delle pietre da costruzione che si trovano qua e là. – Un’informazione del genere potrebbe suonare: “Cinque lastre”. In che cosa consiste allora la differenza fra l’informazione, o asserzione “cinque lastre” – e il comando: “Cinque lastre!”? – Ebbene nella parte che l’enunciazione di queste parole ha nel gioco linguistico.72

Tuttavia, mentre Heidegger si interroga su come scaturisca il primato della “verità logica”, individuando nel Verfallen il trucco costitutivo del discorso – e cooriginariamente della comprensione, dell’interpretazione e della situazione emotiva – nella prospettiva di Wittgenstein il semplice “fatto” di enumerare la pluralità dei giochi linguistici fa sì che l’asserzione non venga più pensata come “modello” (Exemplum), unità elementare, forma logica del mondo, ma come Beispiel, gioco linguistico tra gli altri73. A mio avviso, è possibile inoltre distinguere nel contesto fenomenologico heideggeriano due modi in cui viene usata l’enunciazione ermeneutica: 1) Il gesso è friabile! può indicare il non essere appropriato del gesso alla totalità del contesto d’uso, all’opera (das Werk) in senso ampio. In questo caso l’esser-friabile! non solo non è affatto “proprietà” del gesso ma si riferisce al suo essere

72. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 2003 §21, trad. it. a cura di M. Trinchero, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2009, §21. 73. Scrive Wittgenstein: «Es ist interessant, die Mannigfaltigkeit der Werkzeuge der Sprache und ihrer Verwendungsweise, die Mannigfaltigkeit der Wort- und Satzarten, mit dem zu vergleichen, was Logiker über den Bau der Sprache gesagt haben. (Und auch der Verfasser der Logisch-Philosophischen Abhandlung)». Ivi, §23.

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scoperto, pre-tematicamente, pre-ontologicamente, in quanto mezzo-per, in quanto utilizzabile (Zuhanden). È qui che si situa, potremmo dire, il pragmatismo che molti interpreti hanno rilevato nella torsione ermeneutica della fenomenologia heideggeriana74, è in questo contesto che la verità sottesa all’enunciazione coincide con l’insieme delle azioni, gli abiti di risposta che siamo pronti a mettere in atto, è qui che possiamo affermare, con Peirce, che «ciò che una cosa significa è semplicemente l’abito che comporta»75. 74. Molti interpreti hanno avvicinato l’ermeneutica heideggeriana al pragmatismo. Una ottima visione d’insieme su questa prospettiva è offerta da M. Okrent, Heidegger’s pragmatism: Understanding, being, and the critique of metaphysics. Cornell University Press, Ithaka-NY 1988. Non è possibile discutere questo tema in maniera esaustiva, ci limitiamo a considerare alcuni elementi di questo confronto, senza alcuna pretesa di esaustività. Al contrario dell’interpretazione contenuta nel saggio di R. Rorty, Overcoming the tradition: Heidegger and Dewey, in The consequences of pragmatism: Essays, 1972-1980, Minnesota Press, Minneapolis 1982, l’ermeneutica heideggeriana implica, a mio avviso, una riformulazione della fenomenologia e parimenti del senso trascendentale-eidetico della “modalità” non coincidendo affatto con il semplice primato della Umgang e dunque del contesto pragmatico. Il contesto pragmatico è il punto di partenza dell’analisi ma è volto a ripensare la correlazione intenzionale e l’essere dell’intenzionalità come tale. Concordiamo inoltre con Dahlstrom nel rilevare una profonda differenza tra le due prospettive in relazione al fenomeno della temporalità. Sebbene, infatti, la fenomenologia ermeneutica heideggeriana implichi una temporalità orientata al futuro, l’estaticità, in quanto convergenza tra “futuro” e “passato”, “progetto” e “gettatezza”, viene a coincidenza nel senso esistenziale della negazione. Come afferma Dahlstrom, la temporalità heideggeriana non è «né mezzo né fine, né un fenomeno sperimentale né un risultato». D. O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, cit., pp. 199200. L’interpretazione di Carlo Sini, con cui non è possibile confrontarsi in questa sede (in particolare ci riferiamo a C. Sini, Passare il segno: semiotica, cosmologia, tecnica. Il saggiatore, Milano 1981), riformulando tanto il pragmatismo quanto la fenomenologia heideggeriana non rientra nel semplice accostamento delle due prospettive. 75. Riportiamo il brano in cui è contenuta questa tesi centrale di C.S. Peirce: «To develop its meaning, we have, therefore, simply to determine

73 Ciò che la logica costituisce a tema nella proposizione assertiva categorica, ad esempio “il martello è pesante”, essa lo dà già sempre per compreso “logicamente”, senza bisogno di analisi di sorta. Si dà come ovvio che il “senso” della proposizione stia nel fatto che la cosa martello ha la qualità della pesantezza. Nella visione ambientale preveggente e prendente cura non c’è posto innanzitutto per asserzioni di questo genere. La visione ambientale preveggente ha le sue forme specifiche di interpretazione, che, nel caso del “giudizio teoretico” summenzionato, possono essere formulate così: “il martello è troppo pesante”, o meglio ancora: “È troppo pesante”, “un altro martello!”. L’atto originario dell’interpretazione non consiste in una proposizione assertiva teoretica, ma nel riporre o nel cambiare l’utilizzabile che risulta inadatto alla visione ambientale preveggente, “senza dir verbo”.76

“Un altro martello!”, al pari del comando “Lastra!” – l’esempio di Wittgenstein – significa sapere o non sapere reagire così, in situazione: «nella pratica dell’uso del linguaggio (2) una delle parti grida alcune parole e l’altra agisce di conseguenza»77, non implicando né il venire a coincidenza della cosa intesa con il suo esser-data in carne e ossa, né tanto meno l’associazione della cosa con un’immagine mentale – come vuole una concezione denotativa del linguaggio.

what habits it produces, for what a thing means is simply what habits it involves. Now, the identity of a habit depends on how it might lead us to act, not merely under such circumstances as are likely to arise, but under such as might possibly occur, no matter how improbable they may be». C.S. Peirce, How to Make Our Ideas Clear, in «Popular Science Monthly», 12, 1878, pp. 286–302. 76. M. Heidegger, Sein und Zeit, Klostermann, Frankfurt a. M. 1977, GA 2 p. 209; trad. it. a cura di F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005, p. 194. 77. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, cit., trad. it. Ricerche filosofiche, cit., §7.

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2) È possibile sottolineare però, in questa forma del discorso interpretante implicata non espressamente nell’aver-a-che fare quotidiano, anche un altro significato, mettendo l’accento sull’esser!-friabile del gesso. Con questa differente accentazione a profilarsi è il carattere di rottura e di disturbo che interviene nell’aver a che a fare, in cui la totalità dei rimandi si fa esplicita (ausdrücklich): il complesso dei mezzi si fa di colpo un “tutto” già visto e compreso, quel “tutto” in cui si annuncia il fenomeno del “mondo”: che un mezzo non sia idoneo significa: il rimando costitutivo del “per” (Um-zu) a un a-che (Dazu) è disturbato. I rimandi stessi non sono osservati, ma “ci” sono nel sottoporsi a essi prendendo cura. Nel disturbo del rimando, nella inidoneità a… il rimando si fa esplicito. […] Allora il complesso dei mezzi non si illumina come qualcosa di mai visto finora, bensì come un tutto già costantemente visto sin dal principio nel corso della Umsicht. Con questo “tutto” si annuncia il mondo.78

Ciò implica l’esser già scoperta di una totalità olistica, il rilascio cioè di una totalità di “con” che trovano la loro appagatività “presso”79 qualcosa, cooriginariamente all’apertura, l’esserci di “chi” non trova alcuna appagatività presso qualcosa, ma in 78. M. Heidegger, GA 2 p. 100, trad. it. p. 98. 79. «L’appagatività implica l’appagamento con qualcosa presso qualcosa. Il rapporto espresso dal “con…presso” deve essere indicato mediante il termine rimando. L’appagatività è l’essere dell’ente intramondano, a cui esso è innanzitutto già sempre rilasciato. Questo avere un’appagatività è la determinazione ontologica dell’essere di questo ente e non un’asserzione ontica di esso come ente». Martin Heidegger, Ivi, p. 109. Il termine Bewandnis – di difficile resa, non solo nella lingua italiana – viene tradotto in inglese con relevance o involvement. Cfr. D. O. Dahlstrom, The Heidegger Dictionary, Bloomsbury, London-New York 2013. Sul significato dell’espressione Bewandnis nella lingua tedesca e la sua traduzione ontologica nell’analitica heideggeriana, cfr. E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, cit., pp. 289-290.

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vista di cui questa totalità è scoperta, che è esso stesso un essere-presso, poiché esiste in vista di una possibilità: Ad esempio con questo utilizzabile che noi, appunto, chiamiamo martello, sussiste l’appagatività presso il martellare, col martellare sussiste l’appagatività presso il costruire, col costruire sussiste l’appagatività presso il riparo contro le intemperie. Il riparo è fatto in vista dell’esserci che vi si ripara, cioè di una possibilità del suo essere.80

La catena dei rimandi, che risponde alla domanda a-che (serve), implica a sua volta il rimando a un “chi”, in vista di cui il “servire a”, “l’a-che” (Wozu), l’essente, “c’è”, un ente la cui modalità d’essere non ha la struttura del “con…presso”, bensì quella dell’in vista di (Worumwillen), l’esistenza, il poteressere (autotelicità). Questo essere-presso implica sempre un «mentre…», un «quando…», un «dove…», un «io», un «tu», un «noi», è costituito da un inestricabile e strutturale rimando all’essere-in, l’aprirsi di una totalità di rimandi (Verweisungzusammenhang), di significatività, a partire dall’apertura (Erschlossenheit) del mondo: si comincia dunque a profilare un senso dell’essere e del rapporto con il vero in cui il “tutto”, la totalità olitistica della significatività, così come la mondità del mondo, è parimenti un “di volta in volta” (Jeweiligkeit), non la presenza come permanenza atemporale81. Quel che mi interessa sottolineare è l’impossibilità di tradurre il senso di questo enunciato esplicitando il suo sottotesto attraverso l’operazione apofantica originaria “S è P”. “Il gesso è

80. M. Heidegger, GA 2 p. 112, ed. p. 109. 81. Si tratta di chiarire come scaturisca la verità come identità, parallela alla comprensione dell’essere come universalità atemporale: «Perché la verità è identità, perché l’essere del vero è valere atemporale?». M. Heidegger, GA 21 p. 124, trad. it. p. 84.

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troppo friabile!” non significa (è vero che) “il gesso è friabile”. Al contrario, la forma e il senso della verità fenomenologicoermeneutica implicano un riferimento alla “situazione”82. Riprendendo il famoso esempio di Gethmann: «La verità riempie un’intuizione come la soluzione un problema. […] Se le chiavi “corrispondono” alla toppa si mostra nel chiudere»83. Il primato che Heidegger ascrive alla cosa d’uso rispetto alla cosa della natura, che mette in primo piano l’aver-a-chefare, il sapere pre-teoretico di sé e delle cose intese come pragma, – dunque il primato metodologico dell’Umsehen, l’“atteggiamento naturale”, rispetto alla sua messa fuori circuito sulla base di quella che Heidegger definirà una descrizione

82. Si tratterà di indagare quale sia il senso della situazione, se quest’ultima non può più essere compresa, husserlianamente, come circostanza di fatto, reale, psicologica, oggetto di una scienza induttiva. A tale proposito, rimandiamo alle analisi di Thomas Rentsch, il quale ha interpretato la torsione ermeneutica della fenomenologia heideggeriana alla luce della “svolta linguistica”, ridefinendo parimenti il concetto di situazione in quanto Grundsituation. In questo contesto la Grundsituation non concide affatto con il contesto empirico o pragmatico dell’azione, bensì si riferisce a quel che Wittgenstein nel Tractaus indica «als Daß der logischen Form» e che nelle Ricerche filosofiche, secondo la lettura di Rentsch, permane come fenomeno al contempo «unhintergehbar» e «unverfügbar»: «Daß ein Sprachspiel gespielt wird». T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein: Existential- und Sprachanalysen zu den Grundlagen philosophischer Anthropologie, cit., p. 382. Si vedano anche i capp. II e III. A questo proposito, si veda anche: T. Rentsch, Transzendenz und Negativität, Religionsphilosophische und aesthetische Studien, De Gruyter, Berlin New York, 2011, in particolare cap. II, Zeit, Sprache, Transzendenz – phänomenologische Analyse zu den Grenzen und zum Sinngrund menschlicher Práxis, pp. 184-201. 83. C.F. Gethmann, Heideggers Wahrheitskonzeption in seinen Marburger Vorlesungen, Zur Vorgeschichte von Sein und Zeit (§ 44), cit. p. 116. Dello stesso autore, su questo tema, si veda anche C.F. Gethmann, Dasein: Erkennen und Handeln. Heidegger im phänomenologischen kontext, De Gruyter, Berlin/New York 1993.

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«naturalistica»84 più che naturale dell’atteggiamento quotidiano – implica la stessa torsione ermeneutica della fenomenologia. Mentre secondo Husserl il significato della lavagna è il suo essere intesa in un’intuizione signitiva vuota e la sua verità è data dalla coincidenza con l’essere intuita in carne e ossa, il ruolo svolto dall’“in quanto ermeneutico” ristruttura la correlazione intenzionale, mostrando il carattere scaturito del paradigma asserzione-intuizione-percezione dalla triade discorso-interpretazione-prassi. Il carattere derivato dell’atteggiamento teoretico e il primato del sapere orientato che guida il Bersorgen cominciano a delineare una particolare prassi fenomenologica, che non vive nell’identità con sé stessa e dà pienezza ed evidenza al giudizio, esprimendosi in significati obiettivi. Secondo Heidegger il “come”, l’essere della lavagna, nella modalità in cui ci si muove nel mondo circostante non è affatto dato in carne e ossa nell’intuizione categoriale fondata nella percezione semplice; al contrario, la modalità in cui la cosa è scoperta in quanto tale implica proprio che in questo modo «non abbiamo le cose in carne ed ossa, nel senso definito, presenti, neanche quando abbiamo a che fare con esse, anzi proprio in questo caso non le abbiamo presenti in carne e ossa»85. Il modo in cui la cosa è, il suo “come”, il suo esser scoperta in quanto tale, implica il suo essere già trascesa, anticipata, progettata, cioè riferita a una totalità di rimandi (significatività) a cui l’esserci è esso stesso rimandato. La lavagna è presente in carne e ossa in senso vero e proprio, nella sua propria effettiva presenza che essa possa mai avere, proprio quando la si usa in quel che essa è. In questo modo essa è aperta in senso vero e proprio, mentre se ci fosse qui

84. M. Heidegger, GA 20 p. 155, trad. it. p. 140. 85. M. Heidegger, GA 21 p. 104, trad. it. p. 70.

78 un selvaggio, pur vedendola, non la vedrebbe in quel che essa è.86

Qui si mostra uno slittamento fondamentale che riguarda sia la modalità d’essere della cosa, il suo “in quanto”, sia il modo di accesso ad esso. Questo accesso non è garantito dalla percezione della lavagna come semplice cosa della natura – come “oggetto” (datità) dell’Hinsehen, semplice-e-categoriale – non è dunque tale a prescindere da chi la colga; ma è necessaria la devitalizzazione della motilità temporale dell’interpretazione, dell’esser scoperto dell’ente in quanto alla mano (zu-handen) nel “con-che” di un’effettuazione, affinché la cosa sia scoperta come cosa della natura, in quanto qualcosa di semplicemente presente, affinché possa esser scoperta come “esser-data”, correlato, oggetto di percezione (semplice-categoriale). Ciò muta, parimenti, lo stesso significato della lavagna: esso non si costituisce come significato logico-ideale, non è eîdos, non ha, dunque, le proprietà dell’atemporalità, della permanenza e della presenza, non è l’essenza dell’intenzione significante – che intende con un segno sensibile qualcosa – e così vuole dire (bedeuten) nella vita psichica isolata, e dunque è tale a prescindere dalla modalità d’essere della realizzazione dell’atto e dalla modalità d’essere di chi attua: Dal punto di vista fattuale è da rilevare che le nostre più semplici percezioni e strutturazioni sono già espresse, più ancora, sono già sempre interpretate in un certo modo. Noi non vediamo tanto primariamente e originariamente gli oggetti e le cose, bensì parliamo riguardo a essi; più precisamente, non esprimiamo ciò che vediamo, ma vediamo ciò che si dice riguardo alle cose.87

86. Ivi, p. 104, trad. it. p. 71. 87. M. Heidegger, GA 20 p. 75, trad. it. p. 70.

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«Ogni semplice visione ante-predicativa dell’utilizzabile è già in sé stessa comprendente-interpretante»88. Il carattere già sempre interpretato delle cose, il loro emergere su uno sfondo di rimandi, di significatività (Bedeutsamkheit), a partire dall’aprirsi del mondo, ciò rispetto a cui (Woraufhin)89 esse sono già sempre anticipate, trascese, e in vista di cui l’esser-ci stesso esiste e a cui è già sempre rimandato (Angewiesensein)90, essendo già sempre assorbito in esso, comprendendo sé stesso e le cose a partire da ciò (was) che fa, a partire da ciò che di esse è “detto”, il decadere (Verfallen) dunque dell’esser-ci nella significatività, implica la stessa riformulazione del rapporto tra percezione ed espressione. L’intento di Heidegger, possiamo dire, è dar conto di come scaturisca il primato dell’asserzione fondata nell’intuizione a partire dal senso temporalizzante del fenomeno esserci. A tale scopo, è fondamentale il ritorno ad Aristotele e al carattere intenzional-scoprente del discorso, inteso come discorrere in senso ampio: Il discorrere con gli altri e con sé stessi è un comportamento attraverso cui l’uomo non solo si fa visibile in quanto uomo ma attraverso il quale guida e conduce tutti i suoi comportamenti […]. Un comportamento nel quale il mondo viene appellato.91

Il nostro intento è mettere in chiaro come il discorso fenomenologico – la forma media del phaínesthai, il “far vedere ciò che si mostra da sé stesso” – ristrutturi la forma della verità all’interno di una dimensione che non si situa né nella disgiunzione tra vero o falso, né in quella tra noeîn o agnoeîn. L’ambiguità del §7 b di Sein und Zeit, in cui «vero nel senso più puro

88. M. Heidegger, GA 2 p. trad. it. p. 198, p. 184. 89. Ivi, p. 116, p. 112. 90. Ivi, p. 117, p. 113. 91. M. Heidegger, GA 21 p. 3, trad. it. p. 4.

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e originario, cioè nel senso di ciò che non può che scoprire (e quindi mai coprire)»92 – che non si situa dunque nell’alternativa tra vero o falso – ma può restare un «non percepire (Unvernehmen), un agnoeîn»93, alla cui verità viene assimilata la verità ermeneutica, a mio avviso può essere sciolta proprio a partire dal parallelismo impostato in questa Vorlesung tra la fenomenologia husserliana e il pensiero greco. Il superamento di quella che Heidegger definisce la separazione tra logosWahrheit e noûs-Wahrheit e il ripensamento della dimensione ermeneutico-patico-discorsiva come esserci, modo d’essere, come movimento ontologico della cosa stessa, inscrive una rottura, un ritardo, una sottrazione nella trasparenza propria della correlazione intenzionale. A partire da qui è possibile guadagnare una dimensione veritativa che è sempre “vera”, potendo solo restare una “non verità”, che non si situa dunque nella disgiunzione apofantica (vero o falso), ma in cui la modalità stessa di questo non, della non-verità, della chiusura (Verschliessen) è strutturale e si inscrive nel carattere esistenziale della negazione, nella modalità d’essere dell’esserci: il suo essere strutturalmente dato a sé nel modo del via da sé, il carattere di fuga dell’esistenza, la sua Un-eigentlichkeit, il carattere temporale di decadimento. Ciò significa ripensare in maniera radicale il senso dell’agnoeîn: l’alfa privativo, la negazione. È proprio «presso i Greci, tanto in Platone quanto in Aristotele, [che] la differenza tra enunciazioni indicative-ermeneutiche e enunciazioni su cose semplicemente presenti nel mondo rimane nascosta»94. A partire da qui è possibile rendere conto di una differenza nella stessa modalità del discorso: il cambiamento d’accento che intesse il rapporto tra il Gerede e l’enunciato ermeneutico-formalmente indicante. Si tratta di far 92. M. Heidegger, GA 2 p. 45, trad. it. p. 49. 93. Ibidem. 94. M. Heidegger, GA 21 p. 410 nota 1, trad. it. p. 271 nota 7.

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emergere il carattere performativo negativo della dimensione veritativa, di senso, dei concetti indicativo-ermeneutici: quella Umstellung che si dà solo di volta in volta, in situazione, e che implica un cambiamento d’accento, una metamorfosi immanente, una trasformazione nell’esser sempre mio di tutti e di ciascuno. §5 Vero o falso e verità: il confronto con Aristotele Met. Theta 10 Questa breve incursione nell’interpretazione heideggeriana del capitolo 10 del libro Theta della Metafisica di Aristotele è volta a far emergere il parallelismo tra il noeîn aristotelico e il principio di tutti i principi husserliano, mettendo a fuoco il carattere temporalizzante, (auto)presentificante, dell’attuazione inscritta nell’intenzionalità, nel riferimento noetico. Il noeîn aristotelico – e correlativamente la verità di ciò che in esso è colto, il sempre essente, ciò che è sempre in atto, l’asŷntheta – non implicando la forma disgiuntiva apofantica, non potendo dunque essere vero o falso, offre un senso di disgiunzione che, al pari dell’atto d’identificazione husserliano, risiede nel percepire o non percepire. Il senso di questo “non” è fondamentale per delimitare negativamente la verità della fenomenologia ermeneutica e il senso esistenziale del suo rapporto disgiuntivo con la non verità. A partire da qui, infatti, sarà possibile dar conto, nel prossimo paragrafo, dello scadimento (Verfallen) temporale da cui scaturisce la presentificazione e la sua successiva cristallizzazione nella verità dell’asserzione, chiarendo il carattere performativo degli enunciati fenomenologici e la forma di verità a essi sottesa. Com’è noto, Heidegger capovolge quell’interpretazione secondo cui lo Stagirita sarebbe il fautore della tesi che erige

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l’asserzione a luogo della verità95. L’interpretazione heideggeriana di Aristotele si mette sulle tracce del “limite” fenomenologico della fenomenologia husserliana: il modo di essere dell’intuizione originariamente offerente, l’identità tra datità e modo di datità come autopresentificazione96; potremmo dire, la trasparenza di sé con sé inscritta nella correlazione intenzionale. É da qui che, secondo Heidegger, scaturisce anche il carattere di fondamento inconcusso che Husserl ascrive alla coscienza e che mette allo scoperto l’ipoteca moderna e cartesiana della fenomenologia. Il passaggio dal cogito me cogitare al cogito me cogitare cogitata, sebbene metta fuori gioco le rappresentazioni contenute nella coscienza, pensa il suo stesso carattere intenzionale come fondamento inconcussum, come immanenza “nella coscienza”, a partire dunque dal modo d’essere del dualismo soggetto-oggetto che la stessa scoperta dell’intenzionalità aveva messo fuori gioco. L’ontologia, la domanda sull’essere dell’ente, sull’ente in quanto ente e sul senso dell’“in quanto” come tale, sarà dunque il modo in cui si può fare fenomenologia, recuperandone la “scoperta” fondamentale: quella differenza ontologica già sempre attiva, sotterraneamente, nel pensiero. 95. Su questo punto si veda: M. Heidegger, GA 21 pp. 127 e ss., trad. it. p. 85 e ss. Questa argomentazione viene poi ripresa nel §44 di Sein und Zeit. 96. Come afferma lo stesso Berti, che critica fortemente l’interpretazione heideggeriana del noûs aristotelico, «quello che egli ci presenta non è il concetto aristotelico dell’essere come vero, bensì il concetto heideggeriano, fenomenologico, intuizionistico, cioè husserliano, di essere come manifestatività». E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 82. Sebbene in vista di uno scopo del tutto opposto, con questa tesi Berti conferma la convergenza fenomenologica tra il fenomeno del noûs e l’intuizione originariamente offerente. La tesi in base alla quale Heidegger ha forzato e frainteso il concetto aristotelico di noûs è articolata in E. Berti, Heidegger e il concetto aristotelico di verità, in R. Brague et J.F. Courtine (éd), Hermeneutique et ontologie. Mélanges en hommages à Pierre Aubenque, Puf, Paris 1990, pp. 97-120.

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È solo a partire da questa prospettiva a divenir comprensibile il carattere intenzionale dell’apophaínesthai, interpretato come comportamento scoprente o coprente. Heidegger, dunque, rintraccia in Aristotele il movimento della cosa stessa, l’intenzionalità: asserire e giudicare, non meno che percepire e intuire, sono atti intenzionali, atti che intendono direttamente i propri oggetti senza l’intermediazione di rappresentazioni o immagini. L’accento posto sul carattere intenzionale dell’asserire esclude, dunque, la tesi secondo cui Aristotele sarebbe il fautore di una teoria della verità come “corrispondenza”. Questa interpretazione viene confutata sottolineando, in questo corso del 1925 e in Sein und Zeit, che «essere vero […] significa esser-scoprente»97, mettendone dunque in risalto il senso intenzionale98. La lettura fenomenologica dell’apophaínesthai interviene anche nell’interpretazione del ruolo della synthesis: la disgiunzione tra l’esser-coprente o scoprente presuppone la sintesi, che tuttavia non risiede affatto nella combinazione di parole o concetti, bensì è il modo in cui l’ente è, il suo rendersi presente come “intorno a che” (worüber) dell’asserire. Il significato della synthesis è tale «non solo per la spiegazione del vero e

97. M. Heidegger, GA 2 p. 289, trad. it. p. 264. 98. Sul significato della filosofia aristotelica per lo sviluppo fenomenologico del problema della verità si veda lo studio di E. Brian, Anfang und Ende in der Philosophie. Eine Untersuchung zu Heideggers Aneingnung der aristotelischen Philosophie und der Dynamik des hermeneutischen Denkens, Duncker & Humboldt, Berlin 2002. In particolare, pp. 60-74. Franco Volpi ha dedicato molteplici studi, com’è noto, al rapporto tra Heidegger e Aristotele. Rispetto al problema della verità che stiamo affrontando, segnaliamo il seguente lavoro che si concentra sulla appropriazione fenomenologica del senso dell’alethéuein e parimenti sulla critica heideggeriana della verità del noûs: F. Volpi, Heidegger, Aristotele, i Greci, in «Enrahonar», 34, 2002, pp. 73-92.

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del falso del logos, ma anche della verità come scoprimento dell’ente, ossia per la costituzione di questo stesso ente»99. Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, prendiamo in considerazione più da vicino questa Vorlesung poiché il riferimento al noeîn aristotelico è argomentato e inserito in un contesto esplicitamente fenomenologico, il confronto è dunque con Husserl e con il principio di tutti i principi, con la noûs o Anschauungs-Wahrheit. Il rapporto tra il modo di coglimento del noûs e il problema della verità, inoltre, è sviluppato in maniera dettagliata; al contrario, in Sein und Zeit, a parte un accenno nel paragrafo 7 b in cui viene presentato il significato preliminare del termine fenomenologia e un rinvio criptico contenuto nel paragrafo 44, il problema del noûs – cioè il suo limite fenomenologico – non viene in questione; si chiama tuttavia in causa, in modo molto ambiguo, una verità “sempre vera” che può tutt’al più restare un agnoeîn, un “non percepire” e che perciò non si situa sul piano della disgiunzione tra poter esser vero o falso, verità che – come molti interpreti hanno messo in evidenza – sembra venga assimilata alla verità della fenomenologia ermeneutica100. 99. M. Heidegger, GA 21 p. 168, trad. it. p. 113. 100. Queste interpretazioni trovano il loro esempio paradigmatico nella lettura del rapporto tra logos e noûs offerta da J.F. Courtine, The preliminary conception of phenomenology and the problematic of truth in Being and Time, in C. Macann (ed.), Martin Heidegger: critical assessments, Vol. 1. Routledge, London 1992, pp. 68-95: «logos, riportato in tal modo allo alethéuein, colto in tutta la sua pienezza e in accordo con le sue forme semplici, cessa di apparire il luogo originario e privilegiato della verità ma presuppone in virtù del suo essere logos, un modo più originario di discoprimento, quello del toccare/vedere, puro e semplice, del nominare». Ivi, p. 77. Contro questa interpretazione che assimila la verità dell’enunciato fenomenologico ermeneutico al noeîn inteso come coglimento semplice, che espunge cioè l’“in quanto” e implica il primato del nome sul discorso, le illuminanti analisi di M. Gardini: «Se […] si vuole riabilitare la possibilità di un discorso fenomenologico, si deve altresì ammettere che la struttura com-

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Ai fini di questo lavoro, che mira a pensare la dimensione veritativa della fenomenologia a partire dalla performatività, riformulando parimenti, grazie alla fenomenologia, la figura stessa del performativo (non da ultimo mostrando la rottura dell’identità noetica inscritta nella práxis aristotelica, nella sua autotelicità) è necessario, almeno brevemente, prendere in considerazione il fenomeno del noûs101. Al contrario di altre interpretazioni, Heidegger assume il capitolo 10 del libro Theta della Metafisica come parte integrante della concezione

plessa del logos può assumere diversi significati, a seconda dell’oggetto che viene “descritto”, […] il fatto stesso che Heidegger parli di fenomenologia è la confutazione più elementare e potente della pretesa di rinvenire qui un modello di onomatotesia, […] di filosofia del linguaggio primitiva basata sul rapporto nome-cosa. […] La distinzione non corre dunque tra il nominare e l’asserire, tra il nome e l’enunciato, ma tra differenti logoi, cioè tra distinte forme d’enunciato: lógos apophantikós e lógos hermeneutikós », M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., pp. 113-114. L’impossibilità di assimilare la verità fenomenologico ermeneutica e il noeîn aristotelico è sostenuta anche da F. Volpi, Heidegger, Aristotele e i greci, cit., p. 80: «Se attraverso questa interpretazione del problema della verità in Aristotele – di cui rimangono tracce evidenti in Essere e tempo, parr. 7 B e 44 – Heidegger sgancia la comprensione della verità dalla struttura della predicazione, e guadagna una prospettiva ontologica più radicale, rimane tuttavia ancora aperta la questione dei fondamenti e dei presupposti sui quali poggia in ultima istanza la stessa concezione aristotelica della verità come determinazione dell’essere nel senso dell’essere-scoperto. La questione ulteriore che Heidegger si pone è: “Che cosa deve significare l’essere, affinché l’essere-scoperto sia compreso come carattere d’essere e addirittura come il più autentico di tutti, affinché di conseguenza l’ente debba essere interpretato in ultima istanza relativamente al suo essere in base all’essere-scoperto?” (GA 21, p. 190) […] Già verso la metà degli anni venti Heidegger crede di poter affermare che il presupposto dell’equazione aristotelica di essere e verità stia nella tacita assunzione di una certa relazione tra l’essere e il tempo». 101. Sul fenomeno del noûs aristotelico, si veda il fondamentale studio di P. Aubenque, La philosophie aristotélicienne et noûs, in Aristote aujourd’hui in M. A. Sinaceur (éd.), Unesco/Erès, Paris/Toulouse 1988, pp. 320-325.

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aristotelica della verità102. In esso vengono distinte due determinazioni del vero. Nella prima, Aristotele attribuisce la verità all’asserire, in questo contesto l’esser vero è il poter-essere scoprente o coprente. La disgiunzione tra coprimento o scoprimento, come abbiamo accennato, risiede nelle cose stesse: «la sintesi – come condizione di possibilità dell’esser-falso – è un concetto cangiante, ora logico ora ontologico, anzi, per lo più le due cose assieme, o, più precisamente, né l’una né l’altra.»103 Così Heidegger traduce il passo 1051b 33-35: Dunque, l’essere nel senso dello scoprimento e il non essere nel senso del coprimento sono una cosa sola: un’unità dell’insieme. Scoprimento: quando le cose stanno insieme; coprimento: quando non stanno insieme. Ma quest’unità è possibile solo quando l’essere dell’ente è così [determinato cioè dalla synthesis].104

Al secondo senso di verità, su cui si fonda il primo, non si contrappone il falso, bensì il non percepire, l’agnoeîn105. Questa è la verità degli enti semplici, degli indivisibili, degli asŷntheta, 102. Heidegger sceglie questo libro come “fondamento del problema della verità”, M. Heidegger, GA 21 p. 170, trad. it. p. 114. In tal modo non solo viene criticata la posizione di Wilhelm Christ e di Albert Schwegler, ma capovolta anche la tesi di Jaeger e Ross in base alla quale l’intero capitolo 10 andrebbe considerato una appendice giacché esso è privo di connessione con la parte precedente del libro. Un’aspra critica della traduzione e interpretazione di Heidegger è offerta da E. Berti, Aristotele nel Novecento, cit., pp. 84-85. 103. M. Heidegger, GA 21 p. 168, trad. it. p. 113. 104. Ivi, p. 177, trad. it. p. 118. 105. Sulla differenza tra la disgiunzione apofantica e il rapporto noeîn/ agnoeîn si veda: A. D’Angelo, Ignoranza e contrarietà in Aristotele, in «La Cultura», 45, 2007, pp. 247-262. Sull’interpretazione heideggeriana dei concetti aristotelici di potenza e atto: A. D’Angelo, Heidegger e Aristotele: la potenza e l’atto, Bibliopolis, Napoli 2000.

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una verità che può restare soltanto un non percepire e che dunque non implica la disgiunzione apofantica del poter-esser scoprente o coprente. La verità che è colta nel noeîn ha come modalità di accesso all’ente semplice il thigeîn e il phánai, il toccare106. Anche in questo caso, Heidegger accentua il senso intenzionale del coglimento noetico, mettendo in risalto l’inscindibilità tra la modalità di svelamento e il modo di essere di ciò che in essa è svelato. Il correlato del noeîn, l’ente semplice, l’asŷntheta, è ciò che è sempre in atto ed esclude qualsiasi possibilità di essere diversamente o di non essere107. Così Heidegger traduce la proposizione aristotelica pâsai eisín energheía ou dynámei (1051b 28-29)108: Queste cose semplici, questi ultimi enti, da cui ogni ente trae la sua determinazione, sono semplicemente presenti (vorhanden) e non e mai non ancora presenti (unvorhanden), non accade mai, quindi, che siano assenti. Il loro essere esclude ogni possibile assenza nella cosa stessa che essi sono e nel loro stesso modo di essere; questi enti non sono mai non presenti così come essi sono.109

106. Sul problema del parallelismo tra il noeîn e il thigeîn all’interno dell’interpretazione heideggeriana si è soffermato F. Chiereghin, Essere e Verità. Note a «Logik. Die Frage nach der Wahrheit» di Martin Heidegger, cit., pp. 133-134. Scrive Chiereghin: «I tangibili li percepiamo non per azione del mezzo ma insieme col mezzo. Ora in che cosa consiste la differenza elementare tra il percepire per azione del mezzo e il percepire insieme col mezzo? Nel primo caso, ad esempio l’aria per la propagazione del suono, il mezzo costituisce un elemento di irriducibile alterità tra il percipiente e il percepito. Nel caso del tatto invece il mezzo è incorporato nel percipiente e questo andare insieme connota una trasparenza, un immedesimarsi”. 107. Sul rapporto tra l’asŷntheta e ciò che è sempre in atto si veda: F. Chiereghin, Essere e Verità, cit, pp. 133 e ss. 108. Aristotele, Metafisica, Libro IX, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2005, p. 435. 109. M. Heidegger, GA 21 p. 178, trad. it. p. 123.

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Possiamo sottolineare il fatto che Heidegger traduca il modo d’essere degli enti che sono sempre in atto (eìsìn énergheìa) e mai in potenza (ou dynámei) come esser semplicemente presente e mai non presente, profilando – già con questa traduzione – una lettura del senso dell’atto e della potenza aristoteliche in riferimento all’ente incomposto e composto. In base a questa traduzione ciò che è sempre in atto, l’ente semplice, non è mai non presente110. In questo contesto, dunque, l’essere sempre in atto dell’ente semplice significa il suo essere sempre presente, il compositum invece implica la potenza cioè l’assenza, il non esser-presente (unvorhanden), ha cioè, nella traduzione di Heidegger, il senso del nihil negativum. Senza poterci soffermare oltre su questo tema, vogliamo tenere ben ferma questa traduzione (svilupperemo più avanti il capovolgimento heideggeriano del paradigma aristotelico e la riformulazione in senso esistenziale della negazione e della potenza)111. In questo contesto, ci limitiamo a rilevare il problema fenomenologico che sta alla radice di quel che Aristotele afferma riguardo al noûs. In Met. Theta 10 lo Stagirita riprende un tema affrontato nel libro epsilon e trattato anche nel De anima, l’intellezione degli indivisibili, ossia il modo in cui l’anima conosce o apprende i principi primi; l’atto noetico ha per Ari-

110. Mentre in questo corso Heidegger assume l’“esser-vero” come significato guida per la determinazione del significato dell’essere in Aristotele, nel 1931, nel corso dedicato a Aristoteles, Metaphysik Theta 1-3. Von Wesen und Wirklichkeit der Kraft, Klostermann, Frankfurt a. M. 1981 GA 33, individua questo significato guida nell’essere secondo la potenza e l’atto, operando, anche in questo contesto, un capovolgimento del paradigma aristotelico e sostenendo il primato della dýnamis sulla enérgheia. Su questo si veda F. Volpi, La riabilitazione della dýnamis e dell’enérgheia in Heidegger, in «Aquinas», 33, 1990, pp. 3-27. 111. Infra, cap. V in particolare §§3-4.

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stotele un carattere semplice, vale a dire non logico-apofantico. Come ha rilevato Ciccarelli: Heidegger interpreta questa tesi in senso schiettamente fenomenologico: il noûs altro non è che la “datità originaria”, ossia quella modalità di manifestazione o, nel lessico heideggeriano, di svelamento nella quale lo svelato appare direttamente in sé stesso. Si tratta dunque di una modalità ante-predicativa di apparire dell’ente nella quale non ha luogo la scomposizione sintetico-diaretica. La cosa cioè non si presenta in quanto qualcos’altro.112

Ciò spiega anche perché il noûs venga spesso determinato da Aristotele in analogia alla aísthesis e il riferimento, contenuto anche in Sein und Zeit, al rapporto tra il noeîn e la aísthesis113. Centrale è la modalità di coglimento, la correlazione: «Aristotele caratterizza il noeîn a volte come aísthesis, sebbene i sensi non svolgano qui alcun ruolo; è decisivo che nella aísthesis si abbia direttamente in sé stesso ciò che deve essere scoperto»114. Questo ritorno della fenomenologia all’ampiezza del concetto greco di verità comincia a profilare parimenti anche la rottura dell’identità noetica, quell’identità di sé con sé inscritta nella correlazione così come viene pensata da Husserl. Queste parole con cui Heidegger commenta la modalità di coglimento del noeîn aristotelico potrebbero essere infatti, a mio avviso, parimenti riferite all’intuizione originariamente offerente husserliana:

112. P. Ciccarelli, «Il difficile fenomeno del noûs». La phrónesis aristotelica nell’interpretazione di Heidegger, in «Quaderni di Acme», 133, 2012, pp. 121-152, pp. 133-134. 113. M. Heidegger, GA 2 p. 45 (§7b), trad. it. p. 49. 114. M. Heidegger, GA 21 p. 180-181, trad. it. p. 121.

90 L’ente che si mostra nel thigeîn e nel phánai ha la sua propria vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza […] c’è invece solo quel che si fa incontro in sé stesso, nient’altro che ciò che è presente puramente in sé stesso.115

Come del resto ha già rilevato Ciccarelli, «non è difficile accorgersi che alla base di questa interpretazione di Met. Theta 10 c’è l’accostamento tra il noûs aristotelico e il “principio di tutti i principi” husserliano […]. Osservato nella prospettiva dischiusa dal concetto fenomenologico di intenzionalità, il noûs […] di cui Aristotele parla in Met. Theta 10 risulta essere “eterno” da ambo i lati della correlazione: qui, infatti, immutabile e indivisibile è sia il dato (il noetón, l’eîdos), sia il correlativo modo di datità (noeîn)»116. Questa lettura fenomenologica del noeîn è ulteriormente suffragata dal fatto che Heidegger utilizzi in questa Vorlesung «una ridicola mistura di greco e tedesco»117 per esprimere i due poli in cui si muove la comprensione della verità: la fondazione della logos-Wahrheit (o Satz-Wahrheit) nella noûs-Wahrheit (Anschauungs-Wahrheit). È così che la fenomenologia husserliana fa riemergere l’intreccio tra sensibile e categoriale, ontico-ontologico: La fenomenologia rompe in questo modo con la limitazione del concetto di verità agli atti correlativi, ai giudizi. La verità degli atti correlativi è solo un determinato modo dell’essere-vero degli atti oggettivanti del conoscere in generale. Essa fa ritorno, senza esserne consapevole esplicitamente, a quell’ampiezza del concetto di verità nella quale i Greci – Aristotele – poterono dire “vero” anche la percezione come tale e il semplice percepire qualcosa.118

115. Ivi, pp. 180-181, trad. it. p. 121. 116. P. Ciccarelli, «Il difficile fenomeno del noûs», cit., p. 131. 117. M. Heidegger, GA 21 p. 110, trad. it. pp. 74-75. 118. M. Heidegger, GA 20 p. 73, trad. it. p. 69.

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Tanto quindi in quello che è per Husserl “il principio di tutti i principi” quanto nel noûs aristotelico, il presentarsi dell’ente in quanto tale, l’essere dell’ente, il suo primario esser-vero che rende possibile il disgiungere apofantico, è l’esser-presente della presenza, la (auto)presentificazione: così viene pensato il “come”, il suo modo di essere. Possiamo dire dunque che il rapporto che congiunge essere e tempo è radicalmente fenomenologico, si tratterà infatti di mettere in questione il senso d’attuazione dell’Anschauung, o meglio: di mostrare il suo scaturire dal senso d’essere che si esprime con i pronomi personali, il cui senso di riferimento (wie) è tale da essere a sua volta riferito alla totalità del contesto attuativo (dass), in questione è la stessa rottura della correlazione, dell’identità di datità e modo di datità: Il fondamento inespresso della logica tradizionale è una determinata temporalità, orientata primariamente al presentare (gegenwärtigen), orientamento che si esprime in maniera estrema nella formulazione del concetto greco di conoscenza come puro theoreîn, puro intuire (Anschauen). Tutta la verità della logica è verità dell’intuizione (Anschauungs-Wahrheit); intuire inteso come presentare. […] Ma se nella temporalità dell’esserci devono risiedere più radicali possibilità temporali, tali possibilità dovrebbero allora porre un limite essenziale alla logica e all’ontologia tradizionali.119

§6 L’enunciato ermeneutico-indicativo come enunciato performativo È possibile a questo punto mostrare il fondamento della verità assertiva, la modalità in cui si dà, c’è l’“in quanto” ritornando a quella forma di discorso all’interno dell’effettuazione che è modalità non assertiva, pre-predicativa ma non pre-di119. M. Heidegger, GA 21 p. 415, trad. it. p. 275.

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scorsiva120, in cui le cose sono scoperte in quanto tali. La verità dell’asserzione non si fonda nell’identità di datità e modo di datità come autopresentificazione, bensì è quest’ultima a scaturire dalla motilità di scadimento (Verfallen) temporale dell’esserci, dal suo essere presso le cose. Da questo modo d’essere scaturisce, dunque, l’autopresentificazione inscritta nell’attuazione del riferimento noetico e la sua graduale cristallizzazione nella verità dell’asserzione. A partire da qui è possibile chiarire il carattere performativo che appartiene tanto agli enunciati fenomenologici (e correlativamente ai modi d’essere che essi esprimono), quanto alla forma della verità da essi implicata. Nel corso del 1925, il carattere temporalizzante dell’in quanto ermeneutico, del “come”, viene descritto attraverso un movimento di slancio in avanti e retrocessione, «comportamento […] che si rivela come tempo»121. Leggiamo questo lungo passo: In questo comportamento fornito dall’in quanto, in questo significare, qualcosa è già sempre stato compreso, in quan120. Come afferma Demmerling, con cui concordiamo pienamente: «Dass der Begriff des “Vorprädikativen” sich bei Heidegger nicht allein auf Vorsprachliches, sondern v.a. auf etwas “vor der Aussage” bezieht, machen erst weitere Textstellen deutlich. So geht er offensichtlich davon aus, dass es neben den theoretischen Aussagen nicht nur weitere, sondern im gleichen Sinn fundamentale Sprachmöglichkeiten gibt, die sich nicht umstandslos auf die Aussage zurückführen lassen». C. Demmerling, Hermeneutik der Alltäglichkeit und In-der-Welt-sein, in T. Rentsch (Hrsg.), Martin Heidegger: Sein und Zeit Kommentar, Akademie Verlag, Berlin 2001, p. 109. La prospettiva di Demmerling si situa in continuità con quella di C. Lafonte, Sprache und Welterschliessung. Zur linguistischen Wende der Hermeneutik Heideggers, Suhrkamp Frankfurt a. M. 1994, si vedano p. 80 e ss. Al contrario, ad identificare pre-predicativo e pre-linguistico è, in particolare, H. Dreyfus, Holism and Hermeneutics, in «Review of Metaphysic», 34, 1980, pp. 3-23. 121. M. Heidegger, GA 21, p. 147, trad. it. p. 98.

93 to questo che ho inteso incontrando un oggetto, una cosa, questa porta. L’in-quanto-che-cosa a partire dal quale comprendo e che ho già sin dall’inizio […] è colto quindi non tematicamente in questo “aver fin dall’inizio”; io vivo nella comprensione dello scrivere, dell’illuminare, dell’uscire, dell’entrare. Più esattamente, come esserci sono qualcosa che parla, che cammina, che comprende, sono un rapporto di comprensione. Il mio essere nel mondo non è nient’altro che questo muovermi già comprendente in questi modi dell’essere. Se quindi adesso guardiamo più attentamente, vediamo che quelli che chiamiamo uno schietto avere-a-disposizione, uno schietto modo di cogliere questo gesso qui, come questa lavagna, come quella porta, considerati strutturalmente non sono affatto un modo di cogliere direttamente qualcosa; vediamo che io, preso strutturalmente, non accedo direttamente alla cosa schiettamente presa, ma che la colgo essendo già, per così dire, sin dall’inizio in rapporto con essa, che la comprendo in base a ciò cui essa serve. Dunque, in questo modo apparentemente schietto di cogliere le cose circostanti, io sono sempre nel cogliere e nel comprendere, già oltre […]; io sono sempre già oltre nella comprensione di ciò per cui (in quanto che cosa) viene preso quel che è dato e incontrato. E solo a partire dal per-cui e dall’in-quanto-che-cosa, presso il quale già sempre mi trovo, ritorno a quel che mi è venuto incontro. Lo schietto modo di cogliere proprio le cose circostanti […] nella maniera più naturale è quindi un costante retrocedere verso quel che mi viene incontro, ed è un constante retrocedere, che è necessariamente un retrocedere. […] Poiché il mio essere è fatto in modo che io sia sempre avanti a me, devo, per cogliere qualcosa che mi viene incontro, retrocedere da questo esser-avanti a quel che mi viene incontro. Già qui si mostra la struttura immanente del modo di cogliere, del comportamento adeguato all’in-quanto, struttura che […] si rivela come il tempo. E questo essere-

94 avanti-a-sé come retrocessione è un peculiare movimento, se così posso dire, che l’esserci compie costantemente.122

Se ritorniamo alla forma del discorso ermeneutico in cui viene espresso il con-che della prassi: “il martello è pesante!” possiamo mettere in risalto la motilità estatico-intenzionale da cui è intessuto, che coincide con il fenomenizzarsi del fenomeno: l’accadere della totalità di senso della cura, la verità (Erschlossenheit) come aprirsi dell’esser-ci. È possibile associare all’apertura (che, come ha sottolineato Tugendhat, va compresa come una forma media verbale123), dunque alla cooriginarietà dei suoi modi di temporalizzazione, le direzioni di senso elaborate nei primi scritti friburghesi: l’attuarsi (dass) del rife-

122. Ibidem. 123. E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, cit, p. 304: «Das Wort “Erschlossenheit” ist aber nicht nur als das Abstraktum zu “Erschließen” gemeint, sondern zugleich zu “Erschlossensein”, wobei das Wort von Heidegger nun aber nicht nur passivisch als das objektive Korrelat des Erschließens verstanden ist, sondern – wenn es vom Dasein selbst gebraucht wird – medial. Das Dasein “erschließt sich”, heißt also hier: es öffnet sich für (Erschließbares), und dieses Sich-Erschließen ist die Bedingung für alles Erschließen-von, nicht als bloße Voraussetzung, sondern als durchdringende Bestimmung».

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rimento (wie) al contenuto (was)124: l’esser-avanti-a sé (wie) essendo già sempre (dass) presso qualcosa (was)125. A partire dalla “forza”, dalla motilità estatica che incarna il discorrere ermeneutico inteso come avere-a-che-fare nel conche dell’effettuazione, reso dall’espressione “il martello è pesante!”, è possibile provare a descrivere, con un cambiamento d’accento, la motilità di scadimento costitutiva dell’esserci e il suo esser-dato a sé nel modo del via da sé, il suo esser già sempre assorbito in ciò (was) di cui si prende cura, il primato

124. Nei corsi primo-friburghesi la totalità del fenomeno – l’esperienza fattizia della vita – viene esplicata fenomenologicamente rispetto al suo senso di contenuto (was), al suo senso di riferimento (wie) e al suo senso d’attuazione (dass). Al senso di contenuto appartiene il carattere della significatività inscritto in ciò in cui la vita vive, cioè il mondo ambiente (Umwelt), il mondo del con (Mitwelt) e il mondo de sé (Selbstwelt). Al senso di riferimento (Wie), alla modalità in cui l’esperienza della vita esperisce la significatività dei mondi appartiene invece una costitutiva indifferenza, che coincide con la tendenza al decadimento (abfallende Tendenz) del “come” nel “cosa”. Indifferenza del “come” e significatività del “cosa” vanno insieme. Il Vollzug è il modo in cui il riferimento alla significatività si attua. Una sintesi della totalità delle direzioni di senso del fenomeno, presenti in tutti i primi corsi friburghesi, è offerta in M. Heidegger, GA 60 cit., in particolare pp. 4-18, trad. it. pp. 40 e ss. Come emergerà nel confronto con la lettura heideggeriana delle lettere paoline, inoltre, le tre dimensioni di senso del fenomeno hanno carattere temporale, o meglio: temporalizzante. Approfondiremo nel prossimo studio (Infra, cap. II) questi temi. 125. «La comprensione si fonda primariamente nell’avvenire (anticipare o aspettarsi). La situazione emotiva si temporalizza primariamente nell’essere-stato (ripetizione e oblio). La deiezione è radicata in senso temporale primariamente nel presente (presentazione o attimo)». M. Heidegger, GA 2 p. 463, trad. it. p. 414. Prenderemo in considerazione le modalità estatiche in cui si incarna il fenomeno esserci più dettagliatamente nel prossimo studio (Infra, cap. II) dedicato al confronto con la fatticità cristiana; per ora mi interessa soltanto sottolineare che temporalità propria e impropria – dunque presentazione/attimo, ripetizione/oblio, anticipare/aspettarsi – non si situano affatto su un piano assertivo-disgiuntivo che le oppone l’una all’altra. È necessario dunque recuperare un altro senso di dis-giunzione.

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cioè dell’orizzonte del presente da cui scaturisce anche l’interpretazione dell’essere dell’ente come presenza essenziale, “cristallizzazione” di quel presentificare (Gegenwärtigen) che è l’esser-scoperto dell’ente in quanto tale nell’aver a che fare con esso, il suo esser scoperto in quanto “per”: La comprensione dell’appagatività che rende possibile in generale l’uso di un mezzo è un aspettarsi ritenente in cui il mezzo viene presentificato come questo mezzo determinato.126

Come afferma Gardini, in questo caso, «l’estasi del presente, che qui viene privilegiata, ha come proprio schema la presenza, o, in senso più esplicito, il “per”: questo schema del “per”, che diviene qui dominante, esprime precisamente il carattere di utilizzabile, che è mezzo per qualche cosa»127. È proprio il carattere del “per” e dunque il primato del senso di contenuto (was) a profilare la motilità di scadimento dell’esserci, l’esseraperto a sé nel modo del via da sé e il suo comprendersi a partire da ciò di cui si prende cura. In questa costellazione di senso, l’accento cade sulla presentificazione, il fenomeno si fenomenizza come far presente, il senso di contenuto, il “che cosa” satura, per così dire, le altre dimensioni di senso. Qui emerge anche, tuttavia, la costitutiva ambiguità inscritta nella motilità di “scadimento” dell’esser-ci e cooriginariamente nella motilità dell’hermeneúein. Da un lato, l’essere del mezzo non è compreso come una proprietà di esso ma riferito alla “verità”, all’apertura (Erschlossenheit) del comportamento interpretante, nella trascendenza verso la sua appagatività, verso la totalità di significatività, dei rimandi; dall’altro, la ripetizione (dass) di questa anticipazione (wie), è un obliarsi (dass) dell’aspettarsi (wie) in ciò (was) che viene presentificato: così

126. M. Heidegger, GA 24 pp. 215-216, trad. it. p. 281. 127. M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 70.

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la totalità di rimandi appare come qualcosa di dato nel e col mezzo128 (il martello è pesante!). Questa motilità di temporalizzazione implica parimenti lo scadimento, l’oblio del “chi” in vista di cui la totalità di appagatività viene rilasciata: Alla temporalità costitutiva del lasciar appagare è essenziale un oblio particolare. Il sé-Stesso, per intraprendere «realmente» delle opere e volgersi alla manipolazione «perso» nel mondo dei mezzi, deve obliare sé stesso.129

L’essere appropriato del mezzo al contesto d’uso nella motilità dinamica del suo scoprimento fa tutt’uno dunque con il carattere temporalizzante del fenomeno: così il con-che dell’effettuazione “il martello è pesante!” si trasforma (in un Gradualismus non misurabile per “gradi”), devitalizzandosi, nell’esser-detto (Gerede) pesante del martello. Il sentire e il comprendere si sono attaccati anticipatamente a ciò che il discorso dice. La comunicazione non «partecipa» il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ma l’essere-assieme si realizza nel discorrere-assieme e nel prendersi cura di ciò che il discorso dice. […] L’essere detto […] si fa ora garante della genuinità e della conformità alle cose del discorso e della sua comprensione.130

Parimenti è dalla modificazione, dalla decontestualizzazione della prassi a offrirsi “l’intorno a cui” (worüber) del discorso assertivo determinante: Quando usiamo un mezzo sulla scorta della visione ambientale preveggente possiamo dire ad esempio: «il martello è troppo pesante»; oppure: «è troppo leggero». Anche l’affermazione «il martello è pesante» può esprimere una riflessione prendente cura e significare: «non è leggero», oppure:

128. Ivi, pp. 69-70. 129. M. Heidegger, GA 2 p. 468, trad. it. p. 431. 130. M. Heidegger, GA 2 pp. 223-224, trad. it. p. 207.

98 «renderà faticoso il suo uso». Ma l’affermazione può anche significare: l’ente che mi sta davanti e che noi conosciamo ambientalmente come martello ha un peso cioè ha la proprietà della pesantezza, esercita una pressione sul suo appoggio, togliendo il quale cade. Un discorso siffatto non si esprime più nell’orizzonte dell’attesa e del ritenimento di un insieme di mezzi e dei relativi rapporti di appagatività. […] Il discorso ambientalmente preveggente circa «il troppo pesante» e «il troppo leggero» non ha più alcun «senso»; l’ente che ora si incontra non offre più come tale alcun riferimento a qualcosa in virtù del quale esso possa essere «trovato» troppo pesante o troppo leggero. […] Nell’affermazione di ordine fisico: «il martello è pesante» non viene saltato solo il carattere di strumento dell’ente che si incontra ma la determinazione tipica di un utilizzabile: il suo posto.131

Inoltre, nella costellazione di senso determinata dal senso di contenuto, cioè dalla presentificazione, l’in vista di (worumwillen), il poter-essere in vista di cui l’esserci esiste, che è anche parimenti il “chi” con cui termina la catena dei rimandi, la dimensione “attuativa” (dass) della “modalità” (wie) si offre solo come poter-essere determinato, come “possibilità reale” tra le altre: L’inautentico auto progettarsi nelle possibilità desunte da ciò di cui ci si prende cura attraverso la presentazione attualizzante, è possibile solo se l’esserci ha già obliato il suo poteressere più proprio e gettato.132

Mentre la modalità impropria di temporalizzazione del fenomeno è un mantenersi presso le cose, assorbendosi in ciò che si fa presente, è dunque un obliante (dass) aspettarsi (wie) ciò che si presenta (was), nella modalità propria di temporalizza-

131. Ivi, pp. 477-478, trad. it. pp. 426-428. 132. Ivi, p. 448, trad. it. p. 401.

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zione del fenomeno l’estasi del presente si mantiene in quella dell’essere stato (dass) e dell’avvenire (wie)133. Il presente che fa parte della decisione si mantiene nello specifico avvenire (anticipazione) ed essere-stato (ripetizione) della Entschlossenheit. Il presente che appartiene alla decisione e che da essa scaturisce noi lo chiamiamo attimo.134

Nell’“attimo” si mantiene il “fatto” del “come”, la struttura di ripetizione (Wiederholung) dell’avvenire: in un certo senso l’attimo non è altro che un ritardo che trattiene, rimanda la motilità di temporalizzazione del fenomeno. Qui si comincia a profilare la radicale distinzione tra il non sapere, la non verità inscritta nell’esserci e dunque il senso della disgiunzione esistenziale di verità e non verità e la ágnoia come ignoranza, come non percepire, come mancato accesso alla trasparenza di sé con sé. Nel caso dell’enunciare ermeneutico, in questione è il carattere temporalizzante dello stesso fenomeno, la stessa motilità dell’enunciare (e cooriginariamente di tutti gli esistenziali): si tratta della motilità di scadimento dell’esserci in quanto tale, in questo scadere. La chiusura [infatti] non è affatto un non-sapere come fatto, ma costituisce l’effettività dell’esserci. Essa determina anche il carattere estatico dell’abbandono dell’esistenza al nullo fondamento di sé stessa.135

È qui ad emergere la necessità di una Umstellung, di una trasformazione immanente, in situazione, nell’esser-sempre mio di tutti e di ciascuno, che conduca la fenomenologia fino a sé. Si tratta di una dimensione costitutivamente ambigua (zweideutig) che pervade lo stesso discorso fenomenologico 133. M. Heidegger, GA 24 p. 407, trad. it. p. 275. Cfr. M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit. pp. 70-71. 134. Ibidem. 135. Ivi, p. 412.

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ermeneutico e che appartiene a tutti gli “esistenziali” cooriginari che la fenomenologia esplica. L’aver-a-che-fare mondano, il suo discorso comprendente e situato, in cui il “fatto” del “come” decade nel “cosa” e dunque in ciò che è dettointonato-compreso, presentificato, convive con l’enunciare indicativo ermeneutico, che invece ha la funzione di indicare il “come”, quel movimento di sottrazione (di attuazione) del “come” nel che cosa, “la ripetizione dell’avvenire” che accade, qui e ora, nell’esser di volta in volta dell’esser-ci: «nell’attimo (Augenblick), (dell’) aprire la rispettiva (jeweilige) situazione e con essa la situazione “limite” originaria»136. Questa Grenzsituation non è altro che la situazione qui e ora dell’esser sempre mio l’un con l’altro nel mondo, di volta in volta (jeweils), la cooriginarietà della temporalizzazione di tutti gli “esistenziali”. Come si legge in una delle tesi o, meglio, degli enunciati indicativo-ermeneutici di Sein und Zeit: «La cura nella sua apriorità esistenziale si situa “prima” di ogni “comportamento” e “situazione” effettiva dell’esserci, cioè già sempre in ognuno di essi»137. Quel che mi interessa sottolineare è l’intreccio tra proprio e improprio a partire da cui viene riformulata la disgiunzione tra verità e non verità e dunque il senso della negazione. In questo contesto, non è possibile intendere la Grenzsituation “originaria” in contrapposizione a una “non originaria”, in base a un rapporto logico disgiuntivo che appartiene alla sola dimensione apofantica: non si tratta di differenti stati di cose (Tatsache) o condizioni (Lage) rappresentati in un’asserzione. Parimenti, quindi, il discorso “autentico” non si situa in opposizione disgiuntiva al discorso “inautentico”, alla chiacchiera, così come il temporalizzarsi, l’aver-luogo, il “fatto” (dass) di questo discorso comprendente e intonato non è altro tempo che quello cronologico, e l’angoscia non è altra 136. M. Heidegger, GA 2 p. 461, trad. it. p. 413 137. Ivi, p. 257, trad. it. p. 236.

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Stimmung che la paura (e tutte le altre): «nicht nur Angst und erst recht nicht: Angst als bloße Emotion»138. È infatti proprio il primato della disgiunzione apofantica, del poter-essere vero o falso, a essere revocato e mostrato nel suo carattere scaturito. Alla dimensione veritativa fenomenologico-ermeneutica appartiene, piuttosto, quella che potremmo chiamare una disgiunzione strutturale in cui l’entweder-oder è il modo in cui la “cosa” stessa si dà, c’è (es gibt): l’Un-eigentlichkeit – l’Erschliessen che parimenti è un Verschliessen – la motilità di fuga dell’esserci, la verità dell’esserci che si situa “prima” di ogni esser-nella-verità effettiva, cioè già sempre, nell’esser di volta in volta in essa. La motilità […] non si conclude in uno stare per il fatto che alla fine l’esserci “c’è”. L’esserci è travolto nell’esser-gettato, cioè in quanto gettato nel mondo si perde presso il “mondo” per la sua remissione effettiva a ciò di cui ha da prendersi cura.139

Si tratta quindi di recuperare una dimensione veritativa, un modo di essere, una forma di discorso che da un lato non si situi soltanto sul piano assertivo – in quello che Heidegger, in questo contesto, definisce weltliche Aussage – in quella dimensione, dunque, che implica la disgiunzione (più o meno esplicita tematicamente) del poter-essere vero o falso; dall’altro, di non escludere la dimensione discorsiva, intonata, comprendente – il “di volta di volta” sempre mio l’un con l’altro dell’esserci – per fondare la verità predicativa nell’autopresentificazione del puro ente in atto, di ciò che è sempre presente, a cui non si contrappone il falso ma l’agnoeîn. Qui infatti «la chiusura non

138. Ivi, p. 353, trad. it. p. 318. «Non solo però angoscia, e ancor meno angoscia come mera emozione». [Glossa a margine dell’autore]. 139. Ivi, p. 461, trad. it. pp. 412-413.

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è affatto un sussistente (vorhanden) non-sapere come fatto, ma costituisce la fatticità [trad. mod.] dell’esserci»140. Si tratterà di mantenere proprio l’equivocità di tutte le altre forme del discorso e correlativamente degli altri modi di essere in esse svelate, viste dallo stesso Aristotele: nell’etica, nella poetica, nella retorica. E presenti in quella forma di esperienza e di discorso testimoniata dall’annuncio paolino alle comunità cristiane, per ripensare, a partire da questi modi di essere – forme del discorrere e correlativamente modi di essere dell’ente che non hanno il carattere dell’operazione apofantica originaria “S è P” – il senso d’essere del semplice comprendere intonato, del semplice dire: io sono. Aristotele vede qui una grande varietà di altri modi del discorso che non nomina, come il desiderare, l’impartire ordini, l’interrogare. Egli osserva solo che l’indagine a riguardo è pertinente a retorica e poetica. Frasi come: “Dammi le forbici, per favore!” o “Via dal prato!” o “c’è stata ancora burrasca oggi?” non sono asserzioni [Aussage, trad. mod.] perché non sono né vere né false. Questa distinzione aristotelica all’interno della verità dei discorsi non è stata sempre mantenuta, ma contestata con forza, per esempio da Bolzano, e in certa misura anche da Husserl, sicché anche nelle proposizioni che esprimono un desiderio, un comando, una domanda vi dovrebbe essere un carattere assertivo. Il problema è rimasto fino a oggi aperto, pur essendo la sua chiara soluzione, come si vede facilmente, una premessa fondamentale per l’impostazione di ogni grammatica scientifica.141

A partire da qui possiamo provare a dire: gli enunciati fenomenologico-ermeneutici appartengono a una dimensione veritativa strutturalmente performativa; essi non rappresentano uno stato di fatto entro una asserzione, non sono dunque veri 140. Ibidem. 141. M. Heidegger, GA 21 pp. 130-131, trad. it. p. 87 [trad. mod.].

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o falsi, bensì il loro dictum esprime la modalità in cui ogni comportamento effettivo si attua; sono dunque strutturalmente esposti alle circostanze dell’enunciazione e alla ricezione di volta in volta di chi parla e di chi ascolta, in base alla necessità di una Umstellung, di una trasformazione esistentiva nell’esser-sempre mio di tutti e di ciascuno142: 142. La dimensione performativa della fenomenologia heideggeriana è stata messa in rilievo in differenti studi. In particolare, D. O. Dahlstrom ha sottolineato la vicinanza tra la dimensione di senso della fenomenologia (in particolare la concettualità indicativo-formale), e la dimensione espressiva di alcune forme d’arte. In particolare – scrive Dahlstrom – «much as in a score and a script – in contrast to a sketch – something is espressed and formulated but in such a way that what it is can only be realized by being performed (rehearsed, intepreted, staged)». O. D. Dahlstrom, Heidegger’s Method: philosophical concept as formal indications, in «Review of Metaphysics» 47, 1994, pp. 775-795 (qui, p. 790). In Italia, A. Fabris ha messo in luce, a partire dal metodo dell’indicazione formale e, più in generale, a fronte della torsione ermeneutica della fenomenologia heideggeriana, il carattere performativo dell’indagine di Sein und Zeit. A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000. (Su questo, si veda Infra, Cap. IV). A. Cimino, concentrandosi sugli scritti primo-friburghesi di Heidegger, ha dedicato nel 2013 la prima monografia al rapporto tra fenomenologia e performatività. A. Cimino, Phänomenologie und Vollzug, Heideggers performative Philosophie des faktischen Lebens, Klostermann, Frankfurt am Main 2013. Il presente lavoro, approfittando di questi studi, si propone non solo di inscrivere la dimensione di senso della fenomenologia entro una dimensione performativa, ma anche di rileggere e riformulare la figura della performatività alla luce della fenomenologia. Ciò che accomuna le letture citate è la declinazione della performatività nella prospettiva della prima persona. Il presente lavoro mira a riformulare la figura della performatività sulla base della struttura fenomenologica della Stimmung, che porta con sé un carattere negativo, medio e impersonale. Rispetto alla lettura di Cimino, infine, la dimensione negativa della performatività, che è al centro di questo lavoro, sottolinea l’inseparabilità della dimensione constativa e di quella performativa e la necessità, dunque, di tenere insieme, entro una dimensione non disgiuntiva, proprietà e improprietà in ogni modo d’essere determinato, ripensando il senso del contro movimento, della Gegenbewegung che si oppone al carattere di decadimento dell’esserci e della fatticità. (Infra, Cap. II) A questo proposito, non concordiamo con Cimino quando

104 Una enunciazione mondana su cose semplicemente presenti, anche quando si compie in un semplice nominare, può intendere direttamente la cosa detta, mentre una enunciazione sull’esserci, e inoltre ogni enunciazione sull’esserci, richiede per la sua comprensione necessariamente la trasformazione (Umstellung) del comprendere, la trasformazione (Umstellung) in base all’indiziato, che essenzialmente non è mai semplicemente-presente. Poiché presso i greci, tanto in Platone quanto in Aristotele, la differenza tra enunciazioni categoriali e enunciazioni su cose semplicemente presenti nel mondo rimase nascosta e tutte le enunciazioni furono intese direttamente come enunciazioni mondane (Weltaussagen), accadde che l’essere stesso, non appena lo si scorse, fu concepito come un ente. Il fatto che questa differenza e i modi del porre i problemi e dell’interpretare ad essa corrispondenti siano rimasti celati è una delle radici del dissidio nella metafisica aristotelica tra metafisica come ontologia puramente formale e metafisica come teologia del noûs.143

È a partire da qui che si può provare a ripensare la dimensione veritativa dell’ermeneutica attraverso il concetto di performa-

afferma: «die “gegenruinante” Bestimmung der phänomenologischen Lebensform ist auch darin zu sehen, dass ihre eigene Performativität keineswegs als eine stabile Disposition und als ein fester besitz zu betrachten ist. Denn die Philosophie ist stets dem Risiko des Abfalls ausgesetzt. Deshalb ist sie immer aufgefordert, ihre eigene Performativität stets zu erneuern». Ivi, p. 141. Al contrario, il carattere negativo della performatività della fenomenologia e correlativamente dell’essere-nel-mondo, in base alla nostra prospettiva, risiede nell’esperire precipuamente il carattere di decadimento strutturale che appartiene all’attuazione della dimensione modale. La performatività del Vollzug, dunque, non è una motilità che va sempre rinnovata, ma implica una negazione strutturale che appartiene all’opacità di Dasein, all’apertura della Stimmung (Infra, Cap. V). 143. M. Heidegger, GA 21 p. 410, trad. it. pp. 271-272. [trad. mod.]. Abbiamo modificato la scelta del traduttore italiano, che rende la parola tedesca Umstellung con “risistemazione”. Si tratta, piuttosto, di un movimento trasformativo, di una vera e propria riconversione.

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tività, a partire cioè dalla modalità del significare di tutti gli esistenziali: Quando nelle nostre enunciazioni usiamo la locuzione “il tempo è questo e quello”, “il tempo è temporale”, allora questo “è” ha il significato di un porre categoriale specificamente fenomenologico che in quanto esprimente deve avere la struttura dell’enunciazione mondana [weltliche Aussage] e il cui senso enunciativo primario non è quello di presentare [Aufweisung] cose semplicemente presenti [Vorhanden], ma quello di far comprendere [verstehen lassen] l’esserci. Tutte le enunciazioni sull’essere dell’esserci, tutte le proposizioni sul tempo, tutte le proposizioni comprese nella problematica della temporalità hanno in quanto proposizioni espresse il carattere dell’indicazione (Anzeige), sono indizi soltanto dell’esserci, mentre in quanto proposizioni espresse intendono tuttavia qualcosa di semplicemente-presente; sono indizi dell’esserci e delle strutture dell’esserci e del tempo, sono indizi della possibile comprensione e della possibile afferrabilità, accessibile in tale comprensione, delle strutture dell’esserci. (In quanto proposizioni che sono indizio di un hermeneúein, esse hanno il carattere dell’indicazione ermeneutica). Le enunciazioni sul tempo in base al loro senso non sono enunciazioni mondane e non lo sono mai.144

Sebbene, dunque, queste enunciazioni abbiano la forma “S è P” esse non sono asserzioni, bensì esprimono, essendone esse stesse attraversate, e in questo attraversamento, la forza estatica, l’esistere del fenomeno, il fenomenizzarsi del fenomeno della fenomenologia, l’accadere dei modi di essere da esso espressi, la totalità del loro farsi-luogo, del loro esser-ci, qui e ora. Molto interessante, ai fini del mio lavoro, è questa osservazione di Dahlstrom, che attira l’attenzione proprio sul carattere performativo di tutti gli esistenziali:

144. Ibidem. [trad. mod.]

106 Gli esistenziali potrebbero essere chiamati “performativi riflessivi”; vale a dire, come il respirare o il cantare, riportano indietro l’azione all’agente che la compie. Tuttavia, al contrario del respirare o del cantare, gli esistenziali indicano modi di esistere che non possono essere adeguatamente descritti senza riferirsi al modo olitisco nei quali essi stessi si automanifestano, letteralmente, come modi di esserci (essere-nelmondo) nei quali le cose si manifestano. Gli esistenziali sono modi di agire che si auto manifestano, attuazioni pre-tematiche che costituiscono l’esserci per qualcuno manifestandolo, nel suo essere aprente in quanto totalità. Di nuovo è necessario sottolineare che gli esistenziali sono riflessivi (reflexive), ma preriflessivi (pre-reflective), da non confondere perciò con qualunque forma di autoriflessione.145

Al contrario di quanto afferma Dahlstrom, quel che mi preme sottolineare con forza è proprio il riferimento performativo alla totalità olistica della situazione inscritto nell’attuazione di ogni comportamento determinato, nel suo modo d’essere riferito a sé, al suo “che”. È proprio questo “contraccolpo” a dare conto delle radici ontiche della fenomenologia e del senso di quella trasformazione esistentiva, di quella Umstellung, che conduce il discorso, la verità fenomenologica fino a sé. Se gli enunciati indicativo-ermeneutici vengono intesi come dei performativi riflessivi, il cui contenuto indica, esplicita (auslegen) la totalità olistica dei modi d’essere in cui, qui ora!, la stessa fenomenologia (così come ogni altro comportamento determinato) è riferita a sé, al modo in cui c’è, a emergere è il potenziale 145. «Existentials are what might be called “reflexive performatives”; that is to say, like themselves, namely, as manners of being-here (being-in-theworld) in which things make themselves present. Existentials are, in other words, self-disclosive manners of acting, prethematic enactments that constitute being-here for someone by way of revealing it, her disclosive being as a whole – to her. (Again, it bears emphasizing that existentials are reflexive but prereflective and thus not to be confused with any sort of mental selfawareness.)» D. O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, cit. p. 233.

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trasformativo inscritto in ogni comportamento e parimenti l’illusorietà del primato che lo stesso Heidegger attribuirà esplicitamente alla filosofia146. Gli enunciati indicativo-ermeneutici indicano, esplicitano (auslegen) la dis-giunzione immanente inscritta nell’esser sempre mio l’un con l’altro nel mondo, nel suo modo d’essere: il suo esserci im-propriamente, non a partire dalla modalità di questo “fatto”, ma a partire dalla significatività di ciò presso cui ci si mantiene. È su questa trasformazione immanente, sul “fatto” di esperire il non esserci della modalità, che si gioca la verità dell’esserci e la sua disgiunzione con la non-verità. Diciamo dunque, riprendendo il passo di Dahlstrom, non: «al contrario del respirare e del cantare», ma proprio come il respirare e il cantare – e possiamo aggiungere: proprio come in ogni comportamento effettivo – la verità ermeneutica non può che sorgere dal senso d’essere dell’“io sono”, a partire dunque da un senso d’essere che essa stessa comprende, presuppone nel suo esser-sempre mio, essendo essa stessa riferita a sé, essendo essa stessa questo rapporto di comprensione, ha bisogno dunque di chi qui e ora comprende, vale a dire della totalità di volta in volta dell’essere-nel-mondo, della totalità della situazione «da cui l’indagine sempre sorge e su cui alla fine si ripercuote»147: Nelle enunciazioni d’essere relativa a questo ente che io chiamo esserci bisogna necessariamente fare ricorso al pronome personale; questo ente che ha il carattere dell’esserci è cioè un “io sono” o un “tu sei”. Comprendiamo questo fatto dicendo che l’esserci è sempre mio. Ed è sempre mio non in una qualche generalità formale, ma è sempre mio in questo o quel modo di esserci. Ed è sempre mio nella misura in cui ha già sempre deciso in quale modo essere mio; ha deciso

146. Infra, cap. V., §1. 147. M. Heidegger, GA 2 p. 51, trad. it. p. 54.

108 non nel senso che abbia fissato esso stesso la decisione ma nel senso che sull’esserci si è già deciso.148

Si tratterà di ripensare questo autoriferimento, questa “ErEntschlossenheit”, quelle che Dahlstrom chiama “attuazioni pre-riflessive” che il discorso fenomenologico esprime, essendone esso stesso attraversato, il carattere performativo di ogni esistenziale e parimenti la dimensione veritativa ermeneutica, a partire dal confronto con quella forma di discorso e correlativamente di esperienza che è l’annuncio testimoniato nelle lettere di Paolo, per provare a riformulare la stessa nozione di performatività e il suo rapporto disgiuntivo con la non-verità, mostrando l’impossibilità di declinare il performativo come un’azione in prima persona. Si tratterà di chiarire, inoltre, il senso della motilità estatico esistenziale (la cura) che è “prima” di ogni situazione e di ogni esperienza effettive e tuttavia in ognuna di esse; l’apriorità esistenziale, infatti, sebbene non sia affatto “dietro ai fenomeni”, non è neppure – come proveremo a mostrare nel confronto con il performativo assoluto di Paolo Virno – un post-posto reificato, un a priori appariscente. In tal modo sarà possibile rovesciare la figura della performatività distinguendola dall’autoriferimento autotelico inscritto nel senso fenomenologico della práxis aristotelica, la quale, implicando l’identità di sé con sé inscritta nell’autó, finisce per proiettare, sul piano pratico e “performativo”, l’immagine speculare dell’autoriflessione, costituendo la nemesi di questa figura di soggettività. L’“annuncio”, tuttavia, questa forma di discorso e la fatticità cristiana in esso testimoniata, è soltanto un esempio149 (Beispiel) di quella dimensione della parusía, della

148. M. Heidegger, GA 21, p. 299, trad. it. pp. 151-152. 149. «Di questa particolare connessione d’essere, che si colloca tra l’autenticità dell’essere dell’esserci e il prendersi cura deiettivo, c’è stata nel cristianesimo e nell’interpretazione cristiana dell’esserci una determinata concezione. Ma non si deve intendere questa struttura come se appartenes-

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presenza, in cui è costitutivamente inscritta una sottrazione, un discorso in cui accade «ciò che innanzitutto nell’espressione […] non c’è»150: l’esser-ci, di volta in volta, della situazione.

se specificamente essa stessa alla coscienza cristiana dell’esserci; è piuttosto il contrario, nella misura in cui l’esserci ha in sé stesso come cura questa struttura sussiste la possibilità di una concezione specificamente cristiana dell’esserci, e per questo motivo l’elaborazione di queste strutture […] è completamente isolata rispetto a ogni orientamento verso una qualche dogmatica. La differenza si vede già nel fatto che nelle presenti determinazioni viene condotta un’analisi delle strutture e delle determinazioni categoriali e, in secondo luogo, nel fatto che la concrezione di una interpretazione dell’esserci non deve necessariamente essere l’interpretazione cristiana, nel fatto che essa addirittura, per ogni filosofia, che in quanto filosofia sta al di fuori della fede, non può affatto essere tale, non solo non deve». Ivi, p. 232, trad. it. p. 154. 150. M. Heidegger, GA 60 p. 102, trad. it. 143. [corsivo nel testo].

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Premessa La performatività negativa della prassi fenomenologicoermeneutica: la struttura dell’autoriferimento tra temporalità paolina e práxis aristotelica

Il confronto con la fatticità cristiana e l’interpretazione delle lettere paoline segnano un momento fondamentale nel Denkweg heideggeriano: emerge, infatti, una struttura della temporalità che avrà importanza cruciale per l’elaborazione dell’estaticità che intesse la cura, la dimensione dell’esistenza. In questo contesto viene in luce un senso di negazione che è inscritto nella fatticità della vita, nella modalità in cui quest’ultima è riferita a sé, al suo “che” (dass) e non si identifica né con un nihil privativum, né con un nihil negativum. É questo senso di negazione a sottendere un peculiare autoriferimento, a partire dal quale è possibile ripensare la figura della performatività e con essa la Umstellung, la trasformazione immanente che conduce la fenomenologia fino a sé. Numerosi studi sono stati dedicati al confronto di Heidegger con il cristianesimo1 e molti di essi hanno sottolineato la lettura

1. Prima della pubblicazione del volume 60 della Gesamtausgabe (1995), il testo di queste lezioni non era ancora conosciuto nella sua interezza. Ciononostante numerosi autori ne avevano già fornito una esposizione preliminare e un’interpretazione generale nel quadro dei primi corsi friburghesi. Alcuni di questi contributi si rivelano, ancora oggi, molto im-

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fortemente appropriante della temporalità paolina, una vera e propria “traduzione”. Non si tratta, dunque, di ripercorrere questo confronto dall’esterno, bensì di mettere in luce come

portanti. Menzioniamo in particolare: O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, Neske, Pfullingen 1963, pp. 37-38; K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, in O. Pöggeler (Hrsg.), Heidegger, Perspektiven zur Deutungs seines Werkes, Athenäum, Königstein 1984, pp. 140-168; Vollzugssinn und objektgeschichtliche Methode, in B. Fraling, H. Hoping, J.C. Scannone (Hrsg.), Kirche und Theologie im kulturellen Dialog, Herder, Freiburg i. Br. 1994, pp. 33-42. T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 1993, p. 219 e ss. Tra i lavori più recenti, in cui è presente anche l’interpretatione heideggeriana di Paolo, nel quadro di un generale confronto con il cristianesimo paolino, si vedano in particolare: V. Vitiello, Paolo e l’Europa: l’incontro tra messaggio evangelico e filosofia, in Paolo e l’Europa, Città nuova, Roma 2014; G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai Romani, Einaudi, Torino 2000; J. Greisch, Le buisson ardente et les lumières de la raison. L’invention de la philosophie de la religion, Vol. III: Vers un paradigme herméneutique, Cerf, Paris 2002-2004. Al confronto di Heidegger con le lettere paoline sono stati dedicati numerosi studi. Tra gli altri si vedano: D. Vicari, Ontologia dell’esserci. La riproposizione della “questione dell’“uomo” nello Heidegger del primo periodo friburghese, Zamorani, Torino 1996; A. Ardovino, Heidegger. Esistenza ed effettività. Dall’ermeneutica dell’effettività all’analitica esistenziale. 1919-1927, Guerini e Associati, Milano 1998; L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo. 1916-1927, Liguori Editori, Napoli 2001; Heidegger e San Paolo. Interpretazione fenomenologica dell’epistolario paolino, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2008; M. Jung, Phänomenologie der Religion. Das frühe Christentum als Schlüssel zum faktischen Leben, in D. Thomä (Hrsg.), Heidegger-Handbuch, Leben-Werk-Wirkung, Metzler, Stuttgart 2003, pp. 8-13; A. Barizza, Filosofia e fenomenologia della religione nella Vorlesung heideggeriana Einleitung in der Phänomenologie der Religion, «Verifiche», 31, 1, 2002, pp. 127-164; F. Filippi, Il giovane Heidegger e la “distruzione fenomenologica” dell’Urchristentum: le lezioni friburghesi dei primi anni venti, in «Rivista di filosofia neo-scolastica», 97, 2005, pp. 651-672; V. Pinto, Storicità ed effettività dell’io ed esperienza cristiana originaria della vita. Paolo nel corso di Heidegger del 1920-1921, «Atti dell’accademia di Scienze morali e politiche di Napoli», XCVIII, 1987, pp. 165-193.

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lo stesso discorso, lo stesso modo di essere inscritto in quel comportamento determinato che è la fenomenologia giunga fino a sé in una Umstellung, una Umwendung, una trasformazione immanente, in situazione, ripensando questo movimento a partire dal concetto di performatività: da un lato, per dare conto della dimensione veritativa, di senso, della fenomenologia ermeneutica; dall’altro, per provare a mettere in questione, proprio a partire dalla interpretazione fenomenologica dell’hos mé paolino e dall’indissolubile intreccio di kairós e chrónos che qui si profila, la struttura di quel che definiamo in via preliminare performativo “standard”. A tale scopo è necessario sottolineare che, secondo la lettura proposta, l’appropriazione fenomenologica dell’attesa della parusía e la motilità della fatticità che in essa emerge è sottesa al confronto decostruttivo con la metafisica aristotelica e parimenti alla torsione ontologico-ermeneutica della fenomenologia, influenzando l’interpretazione heideggeriana dell’apophaínesthai e della concezione aristotelica del noûs esposta in Metafisica Theta 10. Non a caso infatti Heidegger si dedica – subito dopo il confronto con Paolo – a un’interpretazione sia della Retorica, sia dell’Etica aristoteliche2, volgendo Aristotele contro sé stesso e attribuendo un primato a quella motilità di svelamento propria del noûs e del logos rivolti a “ciò che può essere

2. Alla retorica è dedicato il seminario del semestre estivo del 1924, non ancora disponibile nella traduzione italiana: M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie. Klostermann, Frankfurt a. M. 2002, GA 18. All’Etica aristotelica è dedicata invece l’introduzione al corso del semestre invernale del 1924-1925. M. Heidegger, Platon: Sophistes, Klostermann, Frankfurt a. M. 1992 GA 19, ed. it. a cura di N. Curcio, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, Milano 2013.

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diversamente”3, dissodando così un terreno di verità, un senso dell’alethéuein, che non prende di mira il sempre essente (aeí ón), l’asŷntheta, ciò che è incomposto ed è sempre in atto (escludendo qualsiasi possibilità di essere diversamente o di non essere)4, bensì l’éschaton, giungendo così a quell’interpretazione del Dasein come práxis, documentata, tra gli altri, dal lavoro pioneristico di Franco Volpi5. Si tratta, tuttavia, di far reagire il testo aristotelico con e contro sé stesso, dal momento che – come abbiamo mostrato – il noûs non è propriamente disposizione umana, esso si attua nell’uomo solo in modo sintetico-diaretico, logico-apofantico, è infatti sempre un dianoeîn6.

3. Così viene tradotta l’espressione aristotelica endechómenon állos échein in M. Heidegger, Platon: Sophistes, Klostermann, Frankfurt a. M. 1992, GA 19, ed. it. a cura di N. Curcio, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, Milano 2013. 4. «Queste cose semplici, questi ultimi enti, da cui ogni ente trae la sua determinazione, sono semplicemente presenti (vorhanden) e non e mai non ancora presenti, non accade mai quindi che siano assenti. Il loro essere esclude ogni possibile assenza nella cosa stessa che essi sono e nel loro stesso modo di essere; questi enti non sono mai non presenti così come essi sono». M. Heidegger, GA 21 p. 183, trad. it. p. 123. 5. F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Laterza, Bari 2010; F. Volpi, Dasein comme práxis. L’assimilation et la radicalisation heideggerienne de la philosophie pratique d’Aristote, in C. Macann, (ed.), Martin Heidegger, Critical Assessments II, Routledge, London and New York 1992, pp. 91-129. 6. «Nel complesso, riguardo al noûs di Aristotele ci è stato tramandato poco: è il fenomeno che gli ha dato maggiori difficoltà. Aristotele è riuscito forse a chiarire questo fenomeno soltanto nella misura che era consentita all’interno della interpretazione greca dell’essere […]. In via preliminare si osservi che il noûs in quanto tale non è una possibilità d’essere dell’uomo [corsivo mio]. Ciononostante, nella misura in cui l’esserci umano è caratterizzato dal ritenere (Vermeinen) e dall’apprendere (Vernehmen), il noûs si trova nell’esserci umano, questo noûs è detto da Aristotele: “o kalúmenos tês psychês noûs ”: il “cosiddetto” noûs, vale a dire il noûs in senso improprio (uneigenlich). Tale noûs, quale è nell’anima umana, non è un noeîn, un puro e

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Per far emergere la riformulazione della nozione di performatività si tratta di tenere insieme due questioni: da un lato, l’interpretazione della temporalità paolina, l’attesa della parusía, il carattere di decadimento della fatticità, il suo essere attraversata da una negazione e sospensione costitutive: il carattere negativo dell’autoriferimento della vita fattizia che emerge a partire dal confronto con l’hos mé paolino, nel rapporto tra apollýmenoi/sozómenoi, mostrando come questa struttura restituisca una dis-giunzione che si inscrive nel discorso fenomenologico ermeneutico di Sein und Zeit, nel carattere estatico dell’esser-ci e nel rapporto Uneigentlich/eigentlich; dall’altro, rilevare come questa motilità negativa divenga costitutiva del rapporto póiesis /práxis tracciato nell’interpretazione heideggeriana dell’etica aristotelica, e come dunque si inscriva una rottura, un ritardo, una negazione, nel carattere autotelico della práxis, ridefinendo l’auto-riferimento dell’esserci, il rapporto tra schema del “per” (eterotelicità) e “in vista di” (autotelicità) e così la modalità del significare di tutti gli esistenziali, dell’essere-nel-mondo e della stessa prassi fenomenologica. A queste due questioni verranno dedicati i prossimi due studi: in questa prima parte viene affrontata la struttura dell’autoriferimento della vita fattizia – quello che vogliamo pensare come un performativo negativo – a partire dall’interpretazione dell’hos mé paolino; nel secondo, viene messa in evidenza la rottura dell’autó inscritto nell’autotelicità della prassi aristotelica – quella che chiamiamo “performativà standard” – a partire dall’inscindibilità di kairós/chrónos, póiesis /práxis. Non concordiamo del tutto con la lettura di C. Esposito, secondo cui «il passaggio dall’interpretazione della fatticità proto cristiana alla rilettura del pensiero aristotelico che avviene

semplice vedere, ma un dianoeîn, poiché l’anima umana è determinata dal logos». [trad.mod.]. M. Heidegger, GA 19 p. 59, trad. it. p. 101.

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nel Natorp Bericht è il frutto di una compenetrazione e traduzione reciproca: la storicità dell’esserci cristiano rappresenta la via che consente a Heidegger di riscoprire il senso storico fenomenologico del pensiero di Aristotele»7. Rispetto a questa lettura, è a mio avviso dirimente sottolineare in modo più radicale che questa traduzione reciproca avvenga in linguaggio fenomenologico; il carattere attuativo, la temporalità, il carattere negativo della fatticità cristiana che offre la via per rileggere il pensiero aristotelico è guidata sin da subito dalla “questione” fenomenologica: riguarda cioè la modalità del significare, il senso della fenomenologia e con essa delle cose stesse, è mossa cioè dalla necessità di delimitare il carattere formalmente indicante del suo statuto di espressione e di verità rispetto alla concettualità scientifico obiettiva e alla concettualità essenziale-formale, all’espressione husserliana. Non riteniamo, dunque, di per sé decisiva l’operazione di deellenizzazione del cristianesimo8, è cruciale, piuttosto, la fusione tra il recupero della dimensione di senso della fatticità cristiana, quella dimensione di senso che è propria del feno7. C. Esposito, Die Gnade und das Nichts. Zu Heideggers Gottesfrage, in (Hrsg.) P. L. Coriando (Hrsg.), Herkunft aber bleibt stets Zukunft, Martin Heidegger und die Gottesfrage, Klostermann, Frankfurt a. M. 1998, pp. 199-223, p. 216. 8. Quel che mi interessa analizzare è la dimensione di senso della fatticità della vita espressa nelle lettere di Paolo, cioè la dimensione di verità di questo discorso e correlativamente del modo di essere della fatticità. Secondo la prospettiva di questo lavoro, le Lettere e correlativamente la fatticità della vita offrono una figura di autoriferimento che non solo verrà inscritta nell’essere dell’esserci e nel rapporto proprio/improprio – come proveremo a mostrare – ma che permette anche di ripensare la stessa figura dell’autoriferimento performativo inscritto nella práxis aristotelica, rompendo la sua autotelicità. Su questa appropriazione “formale” della fatticità cristiana rispetto alla temporalità, si veda in particolare K. Lehmann, Christliche Geschichtserfahrung und ontologische Frage beim jungen Heidegger, cit., pp. 145-150.

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meno dell’annuncio (Verkündigung) testimoniato nelle lettere paoline, e la necessità di guadagnare una dimensione preteoretica della verità, cioè una forma di discorso e di prassi, e correlativamente un modo di essere, che risalga al di qua della distinzione tra etica, fisica e logica o, meglio, al luogo stesso in cui questa distinzione si dà, all’esser-ci, all’aprirsi di questa distinzione e, parimenti, al senso di quell’auto-interpretazione quotidiana dell’esserci in cui non vi è differenza tra discorso, prassi e linguaggio9 ma c’è diatesi media10, phaínesthai: «il far mostrare ciò che si mostra da sé»11: diatesi né attiva né passiva in cui queste due dimensioni entrano in corto circuito, che appartiene al senso della fenomenologia e che comparirà nei testi heideggeriani in più occasioni. Ci riferiamo innanzitutto a Sein und Zeit: «Der logos lässt etwas sehen (phaínesthai) nämlich das, worüber die Rede ist, und zwar für den Redenden (Medium)»12. E ancora: «phaínesthai selbst ist eine mediale [corsivo nel testo] Bildung von phaino, an den Tag bringen»13. Carlo Sini ha messo in estremo rilievo l’aporia strutturale contenuta nella stessa fenomenologia, sebbene attribuendole un senso del tutto differente rispetto a quello che tentiamo qui di elaborare, mettendo in luce proprio questo aporetico cortocircuito tra attivo e passivo che è vox media, phaínesthai:

9. M. Heidegger, GA 21 pp. 4-5. trad. it. pp. 4-5. 10. Sulla diatesi media del discorso fenomenologico ermeneutico, oltre all’opera citata di E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, ha attirato l’attenzione: M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 110. 11. M. Heidegger, GA 2 § 7. 12. Ivi, p. 27, trad. it. p. 47. 13. Ivi, p. 28, trad. it. p. 43.

118 Prendiamo per esempio la ripetuta espressione “lasciare”. Bisogna lasciare le cose, il fenomeno, la presenza… bisogna lasciare essere e così via. Che significa questa continua esortazione a “lasciare”? In filosofia le esortazioni, gli inviti e i toni “morali” non stanno al posto loro; la filosofia deve caso mai chiarire i fondamenti e i criteri e non se questo sia meglio di questo […]. E poi (e questo è il più importante): si invita a lasciare: ma chi deve lasciare? Che cosa deve lasciare? E infine perché deve? C’è un’altra domanda: si può, poi, lasciare?14

Anche alla Cura, alla cooriginarietà della temporalizzazione espressa in quella forma di impersonali in cui il sostantivo viene trasposto nella forma di un verbo, che sono la vera e propria grammatica heideggeriana sin dal 1919 (es weltet, es ereignet, die zeit zeitigt)15 appartiene un discorso, una modalità d’essere, una prassi alla diatesi media: Preoccupazione non significa una espressione triste, bensì l’esser-deciso, l’afferrare l’esistenza come ciò di cui ci si deve

14. C. Sini, Scrivere il fenomeno, Fenomenologia e pratica del sapere, Il Dodecaedro, Napoli 1999, p. 124. 15. Queste formulazioni compaiono nel corso del 1919, M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, GA 56/57, p. 73. Sul significato di queste impersonali ha attirato l’attenzione Kisiel, esse indicano, scrive K., «a sheer action, both objectless and subjectless. Heidegger has found his very first and most perduring formally indicative grammatical form. […] The German impersonal continues to play a central role in Heidegger terminology, out of German Neo-kantianism and most basically out of the ordinary German”. T. Kisiel, The genesis of Being and Time, cit., p. 24. Ricordiamo che perfino nella conferenza del 1962 dedicata a Tempo e Essere il modo in cui tanto l’essere quanto il tempo sono è pensato a partire dall’impersonale: «Es gibt». M. Heidegger, Zeit und Sein, in Zur Sache des Denkens, Klostermann, Frankfurt a. M. 1970, GA 14, p. 9, ed. it. a cura di C. Badocco, Tempo e essere, Longanesi, Milano 2007.

119 prendere cura. Se si assume “Sorgen” come vox media, allora la preoccupazione è la cura dell’esistenza16.

Questa “diatesi media”, che fa tutt’uno con la dimensione di senso della fenomenologia e con la modalità del significare del discorso fenomenologico, con il farsi-luogo della cosa stessa nell’esser-ci, coincide con l’inscrizione della struttura della temporalità paolina, dell’inscindibilità di kairós e chrónos nell’autoriferimento della fatticità della vita e poi dell’esser-ci al proprio essere. Il problema nel confronto con la fatticità dell’esperienza della vita delle comunità cristiane è quello di accedere a una dimensione pre-teoretica della fenomenologia. A nostro avviso, non è possibile leggere in termini astrattamente oppositivi il rapporto tra ontologia greca e fatticità cristiana; bensì si tratta di mettersi sulle tracce di tutti quei fenomeni, quei modi di essere, in cui non c’è né verità predicativa, la cosa non è nel senso di ciò che è detto, esperito, voluto, cercato, subito, amato, odiato ecc., né essa si dà direttamente nella regione formale della coscienza husserliana, non c’è nel modo di essere della struttura essenziale, eidetica, in questa dimensione espressiva. Il fatto che Heidegger ritrovi il movimento fenomenologico delle cose stesse e l’attuarsi della correlazione intenzionale anche nell’etica aristotelica, inoltre, nello svelamento della

16. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Anzeige der hermeneutischen Situation, Klostermann, Frankfurt a. M. 2005, GA 62. p. 357. Riportiamo il passo, di cui abbiamo fornito la traduzione, nella versione originale: «Bekümmerung bedeutet nicht eine Stimmung mit kummervoller Miene, sondern das faktische Entschiedensein, das Ergreifen der Existenz als des zu Besorgenden. Nimmt man “Sorgen” als vox media (die an sich selbst als Bedeutungskategorie ihren Ursprung im Ansprechen der Faktizität hat), dann ist die Bekümmerung die Sorge der Existenz».

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phrónesis e in particolare nella proháiresis 17, è già segno del fatto che gli elementi cristiani non confliggano semplicemente con quelli greco-ontologici, bensì si intreccino in una figura più complessa: sarà piuttosto in questione l’oscillazione irrisolta (e forse irresolubile) tra etica pagana e morale cristiana18 in seno alla domanda ontologica, alla modalità d’essere dell’esserci, all’autoriferimento dell’esserci al proprio essere e così al discorso fenomenologico e alla possibilità della domanda sul senso, la Seinsfrage. É tuttavia necessario sottolineare in via preliminare l’ateismo heideggeriano, un ateismo che coincide con il terreno fenomenologico ermeneutico, ontologico, lo spazio “indicativo formale” di questo discorso. Come emerge esplicitamente anche in Sein und Zeit, le scienze ontiche implicano l’apertura di un certo ambito dell’essere che è dato nella comprensione pre-scientifica, nella comprensione pre-ontologica dell’esserci quotidiano, e che è in continuità con questo stesso atteggiamento: l’ontologia come fenomenologia implica invece un contro-movimento entro l’esperienza fattizia, entro la sua stessa motilità di decadimento, il Verfallen dell’esserci. Da questo punto di vista, dunque, la filosofia si distingue in un senso di “principio” da tutte le scienze ontiche, teologia compresa. Tuttavia, come si legge nella conferenza del 1927 dedicata a Fenomenologia e teologia «il concetto racchiuso nella parola teo-logia vuol dire scienza di Dio. Ma Dio non è affatto 17. Su questo punto rimandiamo alla interpretazione di F. Volpi, “Das ist das Gewissen!”. Heidegger interpretiert die Phrónesis (Ethica Nicomachea VI, 5) in M. Steinmann ed., Heidegger und die Griechen, Klostermann, Frankfurt a. M. 2007, pp. 165-180, con cui ci confronteremo più ampiamente nel corso di questo lavoro (Infra, IV e V capitolo, di quest’ultimo si veda in particolare §3). 18. V. Vitiello, Heidegger: tra etica pagana e morale cristiana, in A. Ardovino (a cura di), Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica politica, religione, Guerini, Milano 2003, p. 274 e ss.

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oggetto della ricerca teologica come lo sono, ad esempio, gli animali per la zoologia»19. Il concetto di colpa, ad esempio, luogo cruciale di SundZ, «è determinante da un punto di vista formale, in quanto indica il carattere ontologico della regione dell’essere in cui il concetto di peccato, in quanto concetto esistenziale, deve necessariamente mantenersi»20. Il punto fondamentale è per noi, anche in questo caso, distinguere il senso “formale”, ovvero la dimensione di espressione dell’ontologia fenomenologica, dal logos che carazzerizza le scienze ontiche e la stessa ontologia tradizionale; affinché sia possibile un confronto con la teologia è necessario rendere conto della tradizionale divisione in discipline contrapposte l’una all’altra «con una dialettica senza radici, come pedine sulle caselle»21. Com’è noto, nel 1922, nelle Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, la filosofia in quanto fenomenologia viene pensata come un esercizio che per sua stessa natura non può che tenersi lontano da una ogni concettualità determinante (Begriff), anche teologica: Nella sua problematicità radicale che si basa su se stessa, la filosofia deve essere a-tea in senso di principio. Proprio in virtù della sua tendenza fondamentale, essa non deve avere l’ardire di possedere o di determinare dio. Quanto più è radicale, tanto più chiaramente si presenta come una via-da-lui e

19. M. Heidegger, Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a. M. 1976, GA 9, p. 59, ed. it. a cura di F. Volpi, Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 16. 20. Ivi, p. 64, trad. it. p. 21. 21. Briefwechsel (1918-1969) Carteggio E. Blochmann – M. Heidegger, Marbach a. N., Deutsche Schillergesellschaft 1989, trad. it. a cura di R. Brusotti, Carteggio 1918-1969, Il Melangolo, Genova 1991, p. 25, trad. it. pp. 48-49. Cfr. L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo, cit. p. 120.

122 tuttavia, proprio nell’attuazione radicale del “via”22, come suo proprio, difficile “presso di Lui” .23

Nella famosa lettera a R. Krebs del 1919 Heidegger afferma di essersi ormai distaccato dal «sistema del cattolicesimo», per quanto non «dal cristianesimo e dalla metafisica in quanto tali», nella misura in cui, però, essi vengano intesi in un nuovo senso: «intuizioni gnoseologiche, che coinvolgono la teoria del conoscere storico, hanno reso per me problematico e inaccettabile il sistema del cattolicesimo, non però il cristianesimo e la metafisica (sebbene quest’ultima intesa in modo nuovo)»24. La lettera a Krebs, in cui è affermato il rifiuto di qualsiasi vincolo extrafilosofico, indica la necessità di comprendere la filosofia – che si identifica in tutto e per tutto con la fenomenologia25 – a partire da sé stessa, e lascia emergere come, in questo

22. Quanto già in questo passo risuoni il tema dell’ultimo dio – nel suo Vorbeigehen – affrontato nei Beiträge esula dai fini di questo lavoro determinarlo. Sul tema, si veda il contributo di E. Forcellino, L’ethos dell’altro inizio: appunti sulla figura dell’ultimo Dio nei “Contributi alla filosofia (dell’evento)” di Heidegger, in «Etica & Politica/Ethics & Politics», XI, 2009, 1, pp. 69-91. 23. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, Klostermann, Frankfurt a. M. 1985, GA 61, p. 197, ed. it. a cura di E. Mazzarella, trad. di M. De Carolis, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, Guida, Napoli 2001, p. 225. 24. La lettera a Krebs, datata 9 gennaio 1919, è citata in: H. Ott, Martin Heidegger: Sentieri biografici, trad. it. di F. Cassinari, SugarCo, Milano 1990, p. 98. 25. Come è ampiamente dimostrato nei Seminari del 1973 e dallo stesso scritto Mein Weg in der Phänomenologie si tratta sempre, per Heidegger, della questione delle cose stesse, della fenomenologia. Nonostante la rottura con Husserl per la stesura della voce dedicata alla fenomenologia all’interno dell’Enciclopedia Britannica e la messa in questione della fenomenologia husserliana, Heidegger nel 1963 scrive: “Und heute? Die Zeit der phänomenologischen Philosophie scheint vorbei zu sein. Sie gilt schon

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contesto, non si tratti di orientarsi verso una filosofia religiosa, ma di appropriarsi della fatticità cristiana per affrontare fenomenologicamente il problema dell’attuazione: il Vollzug della correlazione intenzionale. Come afferma Savarino, con cui concordiamo pienamente, «l’ateismo heideggeriano possiede un significato “metodologico” […], l’intepretazione heideggeriana del cristianesimo delle origini non è funzionale all’elaborazione di una filosofia religiosa o all’identificazione di filosofia e teologia»26. Tanto il problema della fatticità della vita quanto la Seinsfrage sono sempre questioni fenomenologiche: si tratta di delimitare il senso dell’indicazione formale sia rispetto alla sfera obiettiva (che restituisce il piano della verità predicativo-assertiva), sia rispetto alla regione formale husserliana. Da qui la necessità interna al discorso della fenomenologia di guadagnare una

als etwas Vergangenes, das nur noch historisch neben anderen Richtungen der Philosophie verzeichnet wird. Allein die Phänomenologie ist in ihrem Eigensten keine Richtung. Sie ist die zu Zeiten sich wandelnde und nur dadurch bleibende Möglichkeit des Denkens, dem Anspruch des zu Denkenden zu entsprechen. Wird die Phänomenologie so erfahren und behalten, dann kann sie als Titel verschwinden zugunsten der Sache des Denkens, deren Offenbarkeit ein Geheimnis bleibt”. M. Heidegger, Mein Weg in der Phänomenologie, in Zur Sachen des Denkens, cit. GA 14, p. 101. Su questa prospettiva si veda C. Sini, Scrivere il fenomeno, Fenomenologia e pratiche del Sapere, cit, pp. 8 ss. Del resto, la necessità di pensare la fenomenologia come «possibilità del ricercare in filosofia» e non come scuola o corrente filosofica è già affermata nel 1925: «Das Große der Entdeckung der Phänomenologie liegt nicht in den faktisch gewonnenen, abschätzbaren und kritisierbaren Resultaten, die heute allerdings eine wesentliche Umbildung des Fragens und Arbeitens gezeitigt haben, sondern darin, daß sie die Entdeckung der Möglichkeit des Forschens in der Philosophie ist» [corsivo nel testo]. M. Heidegger, GA 20, p. 184. Sul conflitto tra Heidegger e Husserl intorno alla voce “Fenomenologia” si veda: E. Husserl, M. Heidegger, Fenomenologia, Storia di un dissidio, a cura di R. Cristin, Unicopli, Milano 1986. 26. L. Savarino, Heidegger e il cristianesimo, cit. p. 8.

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dimensione veritativa, di senso, che da un lato non si ponga nell’opposizione disgiuntiva tra poter-essere vero o falso, scoprente o coprente, dall’altro non fondi la verità dell’asserzione nell’intuizione, in quella modalità della correlazione in cui datità e modo di datità giungono alla coincidenza nella Anschauungs-Wahrheit. Lo sguardo fenomenologico è dunque già sempre all’opera; e guida lo stesso confronto degli anni Venti con la fatticità dell’esperienza delle vita cristiana, rintracciando in essa una struttura radicalmente fenomenologica: una coappartenza tra datità (was) e modo di datità (wie) in cui è inscritta una costitutiva sottrazione; un senso della negazione che appartiene alla fatticità (Faktizität) del fenomeno in quanto tale, all’attuazione (dass) temporale della correlazione intenzionale, alla sua motilità eventuale e fattizia: al Vollzug (dass) stesso di questa coappartenenza (wie-was), a partire da cui scaturisce l’atteggiamento teoretico in senso ampio. Questo senso di negazione verrà elaborato compiutamente proprio nel confronto con l’hos mé paolino e inscritto nell’attuarsi della correlazione. La motilità temporale che essa implica incide in modo decisivo sulla modalità del significare del discorso fenomenologico e sulla sua dimensione veritativa, lasciando emergere la necessità di una Umwendung – nella dimensione dell’esperienza della vita fattizia – che verrà declinata in molteplici modi negli scritti successivi: Umwandlung27,

27. M. Heidegger, GA 60 pp. 10-11, trad. it. p. 43.

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Gegenbewegung28, Umstellung29, existenzielle Modifikation30, Entschlossenheit31, Verwandlung32. Il fine di questo lavoro tuttavia non è né indagare gli slittamenti di questa nozione, né dar conto del complesso rapporto tra Heidegger, il cristianesimo e il pensiero aristotelico, bensì si tratta di affrontare queste questioni – in modo dunque nient’affatto esaustivo – solo lateralmente, allo scopo di far emergere una particolare forma di performatività, per disegnare cioè una figura che renda possibile ripensare da un lato, la verità fenomenologica entro una dimensione veritativa sempre “vera” (che può restare soltanto un agnoeîn); dall’altro, di interpretare questo “non percepire”, questo non sapere, come una struttura performativa che, a fronte della messa in questione da parte di Heidegger del primato che Aristotele ascrive all’atto sulla potenza, parallela alla critica del noeîn, riformula il senso della negazione che appartiene all’agnoeîn e dunque lo stesso senso dell’“esser di volta in volta dell’esserci” e la struttura dell’autoriferimento, la coappartenza tra datità e modo di datità, la correlazione. L’autotelicità propria di quella motilità di svelamento fenomenologico-ontologico che è la práxis aristotelica e il senso dell’Augenblick (dell’attimo) da cui essa è intessuta – letti a partire dalla temporalità elaborata nel confronto con Paolo – 28. M. Heidegger, Ontologie. Hermeneutik der Faktizität. Klostermann, Frankfurt a. M. 1988, GA 63 p. 109, ed. it. a cura di E. Mazzarella, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, Guida, Napoli 1998. 29. M. Heidegger, GA 21 p. 410, trad. it. pp. 271-272. 30. M. Heidegger, GA 2 p. 173, trad. it. p. 162. 31. Ivi, §54. 32. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit. Klostermann, Frankfurt a.M. 1983, GA 29/30, p. 259 e pp. 422423, ed. it. a cura di C. Angelino, I concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine. Il Melangolo, Genova 2005, p. 378.

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riformulano la nozione di performatività. L’autotelicità della fenomenologia ermeneutica e con essa il senso dell’autoriferimento dell’esserci al proprio essere33, della fatticità a sé stessa, implicano l’impossibilità di pensare la performatività come un’azione “in prima persona” in cui l’essere dell’agente, il “chi”, emerge in quanto tale, divenendo appariscente. “Ciò che può essere diversamente”, l’Unterwegssein infatti – il cui arché viene svelato nella phrónesis – non è più pensato in opposizione e dunque sulla base del “sempre essente”, ciò che

33. Il senso della Jeweiligkeit e della Jemeinigkeit propria dell’Unterwegssein di cui Heidegger si occuperà nel confronto con il VI libro dell’Etica nicomachea traducendo la proháiresis come Gewissen, Entschlossenheit, di cui ci occuperemo nel prossimo studio (Infra, cap. V), viene ripensato a partire da un senso di negazione e possibilità che non coincide con la contingenza di “ciò che può essere diversamente”, con il senso dunque della possibilità che appartiene a quell’ente che, in Aristotele, viene pensato – come afferma Heidegger – “in contrapposizione a e sulla base del sempre essente”, bensì proprio a partire dal senso di negazione elaborato nel confronto con la fatticità cristiana. Da qui la tesi – dimostrata in modo esemplare da Vitiello e ripresa dai maggiori interpreti di Heidegger – in base alla quale il celebre passo di Sein und Zeit “più in alto della realtà si trova la possibilità” indica un vero e proprio capovolgimento del primato aristotelico dell’atto sulla potenza, riformulando il senso della “possibilità”. Riportiamo in proposito un passo del Natorp Bericht: «L’essere di questo “con che” – e questo è già decisivo – non è caratterizzato ontologicamente in modo positivo, bensì solo formalmente come “ciò che può essere anche diversamente”, “che non necessariamente è sempre così come esso è”. Questa caratterizzazione ontologica è compiuta contrapponendo negativamente questo essere ad un altro e autentico essere. Questo, a sua volta, nel suo carattere fondamentale, non è esplicativamente ottenuto a partire dall’essere della vita umana come tale, ma scaturisce nella sua struttura categoriale da una radicalizzazione, compiuta in un certo modo, dell’idea dell’ente-mosso». M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (1922), Klostermann, Frankfurt a. Main 2005, GA 62, p. 385, trad. it. a cura di A. Ardovino, A. Le moli, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Indicazione della situazione ermeneutica, in «Fieri», Annali del Dipartimento di Filosofia, Storia e Critica dei Saperi, Università degli Studi di Palermo, 2005, p. 186.

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è sempre in atto, bensì diviene il modo d’essere della Jeweiligkeit, “l’esser-ci di volta in volta della situazione, e con essa della situazione limite”: l’esistenza dell’esser-ci, il temporalizzarsi del tempo. La coappartenenza di kairós e chrónos implica una negazione strutturale che si inscrive nella disgiunzione póiesis/práxis, apollýmenoi/sozómenoi, Uneigentlich/eigentlich: quella che vogliamo definire la performatività negativa del discorso e della prassi fenomenologica.

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Capitolo secondo La performatività negativa della fatticità

§1 Il carattere facticius del fenomeno Si tratta di mostrare la vicinanza tra il movimento di rimbalzo inscritto nel logos fenomenologico ermeneutico di Sein und Zeit, «nel terreno da cui l’indagine sempre sorge (entspringt) e alla fine si ripercuote (zurückschlägt)»1, e il rapporto tra fenomenologia e fatticità: è qui che si gioca l’intreccio tra proprio e improprio, il senso dunque di quella trasformazione immanente, in situazione, che conduce la fenomenologia fino a sé e risiede in una Umwendung nell’esperienza fattizia. La sfera semantica del termine di derivazione latina Faktizität, usato per connotare la motilità (Bewegtheit), il movimento (Bewegung) dell’esperienza della vita, la sua Bekümmerung (prima declinazione di quella che diverrà in Sein und Zeit “die Sorge”2), il Faktum della totalità di senso del fenomeno in cui la fenomenologia si radica, richiama una distinzione molto significativa che ricontestualizza i titoli “irrazionale”, “ateoretico”,

1. M. Heidegger, GA 2 p. 51, trad. it. p. 54. 2. A questo proposito, si veda la nota del curatore dell’edizione italiana di GA 60, cit. F. Volpi.

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“individuum” sottraendoli al senso che assumono nei dualismi razionale-irrazionale, teoria-pratica, universale-particolare. Tradurre Faktizität con effettività3 – come afferma De Carolis – fa perdere «il carattere di mascheramento e di non-autenticità che segna “das faktische Leben”»4. Al contrario della parola di derivazione sassone Tatsächlichkeit infatti, che denota la fattualità, la contingenza di qualcosa, il faktisch porta con sé il facticius che in opposizione al nativus indica in Agostino «qui non sponte fit» e viene usato nella locuzione un «genere di dei fattizi» in un’accezione simile al nostro termine «feticcio»5. La fatticità è una motilità di contraffazione, un “feticismo“ della modalità (wie, Bezugssinn) in cui la vita vive il mondo, che appartiene all’attuarsi (dass), al darsi del riferimento (wie) al mondo comune (Mitwelt), al mondo del sé (Selbstwelt) e al mondo ambiente (Umwelt). L’esperienza della vita, compresa nella coappartenenza intenzionale di esperire ed esperito, ha come senso di contenuto (was, Gehaltssinn) questa triplice articolazione di “mondi” e viene esplicata, nella sua totalità di senso (Vollsinn), mettendo in rilievo, oltre a quest’ultimo, il modo (Bezugssinn/wie) in cui l’esperire si rapporta a questi contenuti di mondo e la modalità in cui lo stesso rapporto è avuto, si attua (Vollzug, dass). Abbiamo inscritto questa triplice articolazione di senso (elaborata in molteplici scritti primo3. Tradurre con fatticità è la scelta di M. De Carolis, A. Fabris, A. Marini, F. Volpi, effettività quella di G. Vattimo. 4. M. De Carolis, Nota del traduttore, M. Heidegger, Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele, Introduzione alla ricerca fenomenologica, cit., pp. 231-232. 5. Per la ricostruzione del significato del termine ci siamo riferiti a G. Agamben, La passione della fatticità, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Neri Pozza, Vicenza 2005, pp. 306 ss. Per una ricostruzione del concetto di Faktizität nei primi corsi friburghesi si veda anche il contributo di T. Kisiel, Das Entstehen des Begriffsfeldes “Faktizität” im Frühwerk Heideggers, in «Dilthey Jahrbuch», 4, 1986/87, pp. 91-120.

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friburghesi ed esposta in modo approfondito nella parte metodologica che prelude all’interpretazione delle lettere paoline)6 all’interno della Cura, nel temporalizzarsi del tempo, nell’esistere dell’esserci, nei suoi orizzonti estatici: presentare (was), avvenire (wie), essere stato (dass); si tratterà di mostrare come nell’interpretazione della temporalità paolina essi compaiano in modo esplicito, predelineando l’estaticità della cura e configurando un autoriferimento della fatticità del discorso a sé stesso che implica una costitutiva negazione. È opportuno però sottolineare, in via preliminare, il fatto che nel 1920 emerga la necessità, per il raggiungimento della filosofia – che Heidegger identifica tout court con la fenomenologia7 – di una Umwendung, un rivolgimento, un contraccolpo nell’esperienza fattizia che conduca la fenomenologia fino a sé8. Come il discorso fenomenologico ermeneutico di Sein und Zeit – quel movimento che implica un «terreno da cui l’indagine sempre sorge (entspringt) e alla fine si ripercuote (zurückschlägt)»9 – ha radici ontiche: «die existentielle Analytik ist […] letztlich existenziell, d.h. ontisch verwurzelt»10, e «soltanto nel caso che l’indagine propria della ricerca filosofica venga esistentivamente afferrata come una possibilità d’essere dell’esserci di volta in volta esistente, consiste la possibilità di dischiudere (Erschliessen) l’esistenzialità dell’esistenza»11, ed 6. M. Heidegger, GA 60 in particolare pp. 4-18, trad. it. pp. 35-50. 7. M. Heidegger, GA 2 p. 51, trad. it. p. 54. 8. «La filosofia stessa può essere raggiunta solo mediante un’inversione di percorso (Umwendung) lungo la via, non però una semplice inversione che si limiti a indirizzare la conoscenza verso nuovi oggetti, bensì, in senso più radicale, una vera e propria conversione (Umwandlung)». M. Heidegger, GA 60 p. 10, trad. it. p. 43. 9. M. Heidegger, GA 2 p. 51, trad. it. p. 54. 10. Ivi, p. 18, trad. it. p. 26. 11. Ibidem.

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è per questo necessaria una «existenzielle Modifikation»12 che si inscrive nel rapporto proprio/improprio e nella verità (ErEntschlossenheit) dell’esserci; parimenti, «l’esperienza della vita è qualcosa di affatto peculiare: in essa si rende possibile la via verso la filosofia e si compie anche l’Umwendung che porta alla filosofia. […] La filosofia stessa può essere raggiunta soltanto mediante una Umwendung lungo la via»13. Per la figura del performativo che si tratta di disegnare è necessario mettere l’accento sul movimento dell’Entspringen e dello Zurückschlagen del discorso fenomenologico ermeneutico di SundZ che, parimenti, appartiene anche alla coppia Entspringen e Zurückspringen del rapporto tra fenomenologia e fatticità: «la filosofia scaturisce (entspringt) dall’esperienza della vita fattizia, per poi farvi ritorno rimbalzando al suo interno (zurückspringen)»14. La fenomenologia implica dunque una Umwendung, una existenzielle Modifikation, un contraccolpo esistentivo, una “Umkehr” qui e ora, in situazione, in chi esperisce, è nel mondo. Ulteriore formulazione: Finora i filosofi si sono sforzati di liquidare proprio l’esperienza fattizia della vita come cosa scontata e secondaria – nonostante il filosofare scaturisca proprio da essa – per poi farvi ritorno rimbalzando al suo interno con un rovesciamento (Umkehr) in verità essenziale.15

È centrale proprio questo carattere di rimbalzo, di Umkehr della fatticità, da intendere (con quello stilema heideggeriano ormai ben noto) nel duplice senso del genitivo oggettivo e

12. Ivi, p. 173, trad. it. p. 162. 13. M. Heidegger, GA 60 p. 11, trad. it. p. 43. 14. Ivi, p. 15., trad. it. p. 40. 15. Ibidem.

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soggettivo: Umstellung, Umkehr del “feticismo” che attraversa il fenomeno, di cui cioè esso è oggetto (genititivo oggettivo), e parimenti Umstellung, Umwendung, Umkehr che appartiene alla fatticità, che è sua (Habensbeziehung che si tratterà di indagare). Qui c’è l’equivoca tendenza della fatticità ad allontanarsi da sé, dal suo “che”: dall’attuazione (dass) del riferimento (wie) al proprio contenuto di senso, de-cadendo nel “mondo”, in ciò che è esperito, nel senso di contenuto del fenomeno. Non si tratta affatto, tuttavia, di negare astrattamente, di fare a meno di questa decadenza. Il feticismo della fatticità, la sua motilità di contraffazione è un “accidente necessario”, segna cioè il modo indifferente in cui la vita esperisce la significatività che appartiene ai contesti di mondo: Mit, Selbst e Umwelten sono infatti dimensioni caratterizzate dalla significatività, contenuti (was) di esperienza che sono tali proprio nell’indifferenza del riferimento (wie) a essi. Il carattere peculiare dell’esperienza fattizia della vita consiste nel fatto […] che la modalità dell’esperire non (cors. nel testo) è a sua volta esperita. […] L’esperienza della vita si situa completamente nel contenuto, mentre il come è tutt’al più implicito in esso.16

Questa indifferenza, «l’indifferenza [cors. nel testo] riguardo alla modalità dell’esperire»17 va di pari passo con il carattere significativo del contenuto esperito: «In questo modo della significatività, che determina il contenuto dell’esperire stesso, esperisco tutte le mie situazioni fattizie»18. Indifferenza del “wie” e significatività del “was” vanno insieme. Potremmo dire: la coappartenza tra oggetto sensibile e categoriale, tra “cosa” e “come”, l’essere dell’ente, l’in quanto in cui è presa

16. Ivi, p. 12 trad. it. p. 44. 17. Ibidem. 18. Ivi, p. 13 trad. it. p. 45.

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la cosa e senza di cui essa non è scoperta in quanto tale si dà qui come una coappartenenza non trasparente a se stessa ma sempre irriflessa, riferita cioè all’attuazione (Vollzug), al “fatto” (dass) del “come”, all’attuarsi del riferimento a qualcosa. Come afferma Ardovino: «Se i contenuti intenzionanti possono dare ragione del senso di contenuto e del senso di riferimento, non altrettanto può dirsi del Vollzugssinn. Irriducibile agli atti della coscienza (e sotto di essi non sussumibile) esso fa segno piuttosto verso una dimensione performativa, cioè storico e attuativa in senso forte»19. La totalità del fenomeno, la sua Sinnganzheit implica la cooriginarietà delle tre dimensioni di senso (was-wie-dass), e la coappartenza tra “cosa” e “come”, l’indifferenza del come e la significatività di “mondi” si lega al senso d’attuazione20. Nella sfera semantica del Vollziehen risuona un ossimoro, che a mio avviso fa cenno proprio al cortocircuito tra momento attivo e passivo21, alla “diatesi media”, alla peculiarità della dimensione di senso espressa proprio dalle “impersonali” che appartiene all’accesso al fenomeno della fenomenologia e correlativamente alla sua dimensione di senso: il Vollziehen tiene 19. A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit., p. 68. 20. Ibidem. 21. Come afferma F. Duque, «die Kategorien der Handlung und des Leidens, bestimmend im abendländischen Denken, bleiben so aus dem Spiel. Es sind nicht auf der einen Seite meine „Handlungen“ […] und auf der anderen Seite das, was mir widerfährt […]: das einzige, was radikal existiert, ist das immer unvollendete Spiel […]. Diese volle Verwirklichung, sofern sie meine eigenen Züge oder „Seinsweise“ konstituiert, ist der Vollzugssinn». F. Duque, Gegenbewegung der Zeit, die hermeneutische Verschiebung der Religion in der Phänomenologie des jungen Heidegger, in «Heidegger Studies», 15, 1999, pp. 97-116, p. 106. Su questo carattere “medio” – non riducibile alla separazione tra Handlung e Widerfahrnis – si è soffermato, negli stessi termini, T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit. pp. 82-86. Riprenderemo il problema in Infra Cap. V.

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in sé, infatti, tanto il fare, l’eseguire, il realizzare, il mettere in atto, quanto il compiere nel senso di adempiere e portare a compimento, il carattere cairologico dell’“evento”22, quel tempo contratto che tiene in sé kairós e chrónos – momenti che non possono essere separati ma vanno mantenuti in questa forza oppositiva che li tende l’uno dis-giunto dall’altro. Se l’at22. Nel Deutsches Wörterbuch di Jacob e Wilhelm Grimm il significato di Vollziehen è sia attuare e realizzare, sia compiersi nel senso cairologico dell’evento. Quest’ultimo senso viene riferito a Lutero. Riportiamo il passo della voce del dizionario che ci interessa. «Vollziehen kann wie vollenden auf etwas durch thätigkeit hervorgebrachtes bezogen werden, und die Vorstellung des abschlieszens und beendens tritt auch in andere Verbindungen vor: und “hat Moses ausgepredigt und sein Wort volzogen (Luther 16, 155 W.)”». J e W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, bearbeitet von R. Meiszner, Verlag von S. Hirzel, Leipzig 1951 p. 729. Come afferma Ardovino, con cui in questo contesto concordiamo pienamente: «va comunque tenuto presente che, nel Vollzug o nel Vollziehen della vita effettiva, oltre alla dimensione performativa dell’attuazione-esecuzione risuonano un “adempiere” e “portare a compimento” che si fanno carico di un’indubbia valenza cairologica, in base alla quale la stessa indagine “matura” una sua temporalità specifica e connessa alla decisione appropriante». A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit., p. 23. Non siamo d’accordo invece sul fatto che il Vollziehen – che è insieme un attuare e un compiersi – scompaia in Sein und Zeit. Scrive Ardovino: «la dimensione performativa ed esecutiva dell’attuazione dell’ermeneutica della vita effettiva andrà tenuta presente nella sua demarcazione dalla proposta sistematica e trascendentale dell’ontologia fondamentale». Ivi, p. 24. A mio avviso, è proprio il non tener presente la concettualità indicativoformale che si inscrive nella modalità del significare, nella dimensione di senso, di verità, di ogni esistenziale a condurre a una comprensione di Sein und Zeit a partire da una impostazione trascendentale e non più attuativa e performativa. L’esistenziale, il “come” è solo in quanto si temporalizza, si attua, solo nella Entschlossenheit, solo dunque in una trasformazione immanente, in situazione. Non si tratta di una a-priorità trascendentale ma “esistenziale”, cioè performativa (negativa), come ci proponiamo di mostrare. Sull’impostazione non trascendentale di Sein und Zeit ci soffermeremo (Infra, cap. V) seppur in modo breve e nient’affatto esaustivo. Sul tema rimandiamo al testo di V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976, in particolare pp. 321-385.

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tuazione della correlazione intenzionale a fronte dell’indifferenza del “come” conduce Husserl a sottoporre l’atteggiamento naturale al processo delle riduzioni, in questo contesto l’unico accesso a quello che viene determinato dapprima come “Situation-ich” (GA58), poi come Ich-Selbst, Dasein (GA60) è la Selbstwelt e dunque, inscindibilmente, la Mitwelt e la Umwelt, in cui l’esperirsi indifferente in questa significatività di mondi è parimenti il modo in cui la correlazione si attua. Coscienza trascendentale, connessione di atti […] tutto ciò non ha alcun interesse per noi. Nella vita effettiva io non esperisco me stesso né come connessione coerente di esperienze vissute (Erlebnisszusammenhang) […] e neanche come un qualche obietto-Io (Ich-Objekt), bensì mi esperisco in ciò che (was) faccio, subisco, e mi accade, nei miei stati di depressione e di gioia. Io stesso non esperisco nemmeno il mio io separatamente, bensì, nel farlo, sono sempre legato al mondo ambiente. L’esperire sé stessi non è né “riflessione” (Reflexion) teoretica, né “percezione interna”, bensì “selbst­ weltliche Erfahrung”, poiché l’esperire stesso ha un carattere mondano, possiede un’accentuata significatività, nel senso che, di fatto, il proprio mondo del sé non è assolutamente più staccato dal mondo ambiente (Umwelt).23

È proprio questa significatività a partire da cui l’esperienza esperisce sé stessa a mettere in questione la possibilità di seguire Husserl nel processo delle riduzioni24. È nota, infatti, la 23. M. Heidegger, GA 60 p. 13; trad. it. p. 45. 24. Sulla discussione del rapporto tra il metodo fenomenologico husserliano e la critica heideggeriana in questi primi anni di rielaborazione della fenomenologia come Urwissenschaft, segnaliamo in particolare: M. Riedel, La fondazione originaria dell’ermeneutica fenomenologica. Il primo confronto di Heidegger con Husserl, in «Paradigmi», VII, 1989, pp. 299-317; M. Großheim, Phänomenologie des Bewusstseins oder Phänomenologie des „Lebens“? Husserl und Heidegger in Freiburg, in G. Figal, H.-H. Gander (Hrsg.), Heidegger und Husserl. Neue Perspektiven, Klostermann, Frankfurt a. M. 2003, pp. 101-136.

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modalità in cui Heidegger interpreti il metodo riduttivo husserliano25, così come è emersa la critica al senso di riferimento formale-teoretico di una fenomenologia trascendentale. I passi delle riduzioni hanno la funzione di principio di eliminare l’attuazione fattizia di chi esperisce, per guadagnare la sfera della coscienza nella sua purezza trascendentale ed eidetica. In tal senso, con la riduzione trascendentale si mette fra parentesi l’atteggiamento naturale nella sua concreta attuazione, mentre la riduzione eidetica implica la possibilità di accedere al tema di una scienza trascendentale. Infine la riflessione, il terzo passo del metodo fenomenologico, comporta una presa di distanza dalla concreta e irriflessa attuazione dei molteplici riferimenti d’esperienza26. Tuttavia in questo caso la significatività – Mit-Selbst e Umwelten – i contesti di mondo implicati nel carattere attuativo, storico e mondano dell’esperienza vanno perduti, e con essi va perduta la totalità del fenomeno, il suo senso pieno (Vollsinn), che non può essere ricostituito ex post, in una regione immanente che ha i tratti del Cogito cartesiano. Fondamentale è il carattere di evento (Ereignis) espresso proprio con la forma delle impersonali, che tiene insieme due direzioni contrapposte: “spontaneità del Selbst” e impersonalità (es) dell’accadere (Geschehen, Geschichte), ridefinendo la correlazione coscienza-mondo. Il senso di riferimento non è un rapporto tra due oggetti, ma è già esso stesso il senso di un’attuazione (Vollzug). Il Sé non è un punto egologico ultimativo. Si può vivere pur senza ave25. Com’è noto, Heidegger si dedica a una approfondita discussione del metodo husserliano nel corso nel semestre estivo del 1925 contenuto in GA 20, cit., in particolare pp. 125-157. 26. Su questo punto si veda in particolare H-H- Gander, Phänomenologie im Übergang. Zu Heideggers Auseinadersetzung mit Husserl, in A. Denker, H.H. Gander, H. Zaborowski (Hrsg.), Heidegger und die Anfänge seines Denkens, in, «Heidegger-Jahrbuch», 1, Karl Alber, Freiburg-München 2004, pp. 294-306.

138 re sé stessi. A partire da questo si dà in vario grado (corsivo mio) una possibile Rückgang verso il raccogliersi dell’attuazione (Vollzug) (del senso di riferimento), e finalmente verso la spontaneità del Selbst. Il senso d’attuazione scaturisce dalla spontaneità del Selbst.27

Il senso di attuazione (dass) del riferimento (wie) ai contesti di mondo si lega dunque alla “Rückgang” e allo scaturire dalla “Spontaneität des Selbsts” che tuttavia assumono tratti che hanno ben poco a che fare con un “ritorno” e un «cominciare da sé»28: l’attuazione del riferimento alla significatività è piuttosto descritto in termini che mettono in risalto il cortocircuito tra attivo e passivo, a partire da cui può essere compreso anche il carattere feticistico della fatticità, la preoccupazione della vita come movimento di contraffazione. Questo feticismo costitutivo, il senso di riferimento dell’atteggiamento (Einstellung) che caratterizza l’indifferenza del “come”, è la motilità di decadimento in cui si incarna la Bekümmerung fattizia: L’esperienza fattizia della vita è l’autosufficiente cura della significatività conforme all’atteggiamento, decadente e indifferente quanto al riferimento. (die einstellungmässige, abfallende, bezügsmässig-indifferente, selbstgenügsame Bedeutsamkeitsbekümmerung).29

27. M. Heidegger, GA 58, p. 260. 28. La critica alla nozione di libertà come spontaneità, come cominciare da sé, è formulata anche in Vom Wesen des Grundes. Anche in questo contesto la libertà in quanto trascendenza si attua nel lasciare che all’esserci un mondo si imponga (walten) e si faccia mondo (welten). Il lasciare qui va inteso nel senso del “let” inglese (M.M. Olivetti): si tratta di un “far imporsi” e rimanda al cortocircuito tra attivo e passivo, al “medio” espresso con quella forma di impersonali in cui il sostantivo viene trasposto in verbo. Così suona il passo: «Freiheit allein kann dem Dasein eine Welt walten und welten lassen. Welt ist nie, sondern weltet». M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, in Wegmarken, GA 9, cit., p. 164, trad. it. p. 120. 29. M. Heidegger, GA 60 p. 15, trad. it. p. 49.

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Questa indifferenza del “come”, il carattere dell’atteggiamento (Einstellung) decadente (abfallende), non solo tende a costituire contesti significativi autonomi che acquisiscono una realtà indipendente dall’esperienza e nei cui confronti si atteggia una presa di conoscenza atematica, determinando una continuità tra l’indifferenza dell’atteggiamento fattizio e la Kenntnisnahme, che sfocia nella costituzione di Ordnungen obiettive, proprie delle scienze obiettive30, ma qui «il dabei sein des Ich e il suo essere coinvolto dal mondo (mitgenommenwerdens) è indifferente»31. Questa motilità di contraffazione appartiene costitutivamente alla struttura della Bekümmerung fattizia, e apparterrà costitutivamente anche alla Cura, a partire da quel movimento strutturale che è il Verfallen: la motilità di fuga che verrà inscritta nell’esistenza dell’esserci. Anche terminologicamente la decadenza del riferimento (Abfallen) della Bekümmerung e la deiezione (Verfallen) della Sorge si richiamano a vicenda. Ai fini del nostro discorso importa mettere l’accento proprio sul fatto che si tratta in entrambi i contesti di un movimento costitutivo. La “deiezione” (Verfallen), come si legge in SundZ, è «una determinazione esistenziale dell’esserci stesso e non ha nulla a che fare con un esserci concepito come semplice presenza. […] Il termine, che non importa alcuna valutazione negativa, sta a significare che l’esserci è innanzitutto e per lo più presso il “mondo” di cui si prende cura»32. Questa motilità «sarebbe fraintesa se si volesse attribuirle il senso di una qualità ontica negativa e deplorevole, che il progredire della civiltà potrebbe un giorno annullare»33. Si tratta piuttosto di

30. Ivi, in particolare pp. 14 ss., trad. it. p. 47 ss. 31. Ivi, p. 16, trad. it. p. 49. 32. M. Heidegger, GA 2 p. 233, trad. it. p. 216. 33. Ivi, p. 234, trad. it. pp. 215-216 .

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un modo esistenziale dell’essere nel mondo, di un «concetto ontologico di movimento»34: «l’esserci cade da sé stesso e in sé stesso (corsivo mio) nella infondatezza e nella nullità quotidiana impropria. Lo stato interpretativo pubblico gli nasconde però questa caduta [corsivo mio]»35. Non si tratta affatto dunque di negare, di eliminare “questa caduta nella infondatezza e nella nullità quotidiana impropria”, bensì di ri-trovarsi in questa in-fondatezza, in questa stessa im-proprietà, esperendo il nascondimento di questa “caduta”. Qui è in gioco il rapporto proprio/improprio e il costitutivo processo di scadimento, di caduta, di indifferenza decadente (abfallen) del riferimento ai contesti di mondo e con esso a sé, tanto per quanto riguarda la fatticità della vita, tanto in relazione all’esserci. Una formulazione di questo rapporto, contenuta nel testo Der Begriff der Zeit, è utile a chiarire che in questione è la stessa figura, anche perché, in questo contesto, gli “attrezzi” primofriburghesi sono ancora mescolati a quelli ontologico esistenziali: Il proprio (eigentlich) essere dell’esserci è ciò che è solo in quanto esso è propriamente (eigentlich) improprio (uneigentlich): l’inautentico autentico (l’improprio proprio): ovverosia si ‘supera’ [hebt auf]36 in sé stesso. Esso non è un qualcosa che debba e possa sussistere per sé accanto all’improprio; infatti il come acquisito nella risolutezza (Entschlossenheit) dell’anticipare è proprio solo e soltanto in quanto determinatezza di un agire da afferrare nell’adesso dell’essere-assieme.37

34. Ivi, p. 238, trad. it. p. 219. 35. Ivi, p. 237, trad. it. p. 218. 36. Sul confronto tra dialettica ed ermeneutica, che non rientra negli scopi di questo studio, si veda il testo di V. Vitiello, Dialettica ed ermeneutica, Hegel e Heidegger, Guida, Napoli 1979. 37. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, Klostermann, Frankfurt a. M. 2004, GA 64 p. 81 [trad. L.G.].

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La motilità di caduta dell’essere-nel-mondo – allo stesso modo della Bewegtheit di contraffazione dell’esperienza fattizia della vita – è costitutiva: lo stesso movimento di apertura è un rovinare via da sé stesso che nasconde però questo suo via da sé, questa improprietà, e si chiude quindi a sé stesso. Il toglimento38 della chiusura indicato dal suffisso Ent-, che si inscrive nell’apertura, nella verità dell’essere-nel-mondo (ErEntschlossenheit), l’“a sé”, si dà solo come accadere (es), qui e ora, del via da sè (Man) costitutivo che nasconde sé stesso. Non c’è dunque alcun “ritorno” a un “Sé autentico”, dunque, insieme, a “io” e “noi” intatti, che sarebbero a parte e prima del movimento di contraffazione, del Man, ma solo l’accadere (es), di volta in volta, di questo costitutivo movimento di contraffazione che, rovinando via da sé stesso, si nasconde perciò il proprio via da sé, la propria im-proprietà, nascondendo così sé stesso.39 Anche nel 1920 emerge tutta l’equivocità tra signi38. Il riferimento è, com’è noto, al §54 di Sein und Zeit. 39. La nostra lettura si discosta dalla tesi secondo cui la traduzione ontologica del Vollsinn del fenomeno e l’emergere della questione dell’essere a partire dal confronto con Aristotele segnerebbero una retrocessione del fattizio a favore dell’esistenziale. In base a questa prospettiva la fatticità verrebbe a coincidere con l’ontico e con l’esistentivo, e parimenti con l’essere-gettato, mentre si assisterebbe all’assunzione crescente dell’autenticità come carattere ontologico e originario dell’esistenziale. A mio avviso, invece, se si tengono presenti: 1) La modalità del significare di ogni “esistenziale”, dunque il carattere indicativo formale, performativo, dell’enunciato ermeneuticoindicativo (la non coincidenza quindi tra ontico/esistentivo e Geworfenheit e Befindlichkeit, in quanto si tratta di “esistenziali” cooriginari); 2) La centralità del rapporto tra Befindlichkeit e Verfallen, anch’essi esistenziali cooriginari; 3) Il ruolo chiave della Stimmung, in particolare dell’Angst a cui verrà riportato l’essere-per-la-morte; infine, 4) se si considera il convergere del progetto (wie) e della gettatezza (dass) nel carattere di “non” proprio dell’esistenza dell’esser-ci, inscindibile dal non della Uneigentlichkeit, questa lettura non è convincente: non solo finisce per riproporre l’annosa questione di un “primo” e “secondo” Heidegger, in cui ricomparirebbe il carattere fattizio e il primato della gettatezza, ma non dà conto della trasfor-

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ficatività di mondi (Um, Mit, Selbstwelten), il carattere indiffemazione esistentiva e dunque della dis-giunzione non apofantica autentico/ inautentico che può investire ogni comportamento determinato (dunque anche quello fenomenologico). Una sintesi paradigmatica di questa lettura con cui discordiamo è offerta da A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit.; ma è paradigmatica di una concezione del rapporto proprio/improprio che non ne coglie la dis-giunzione strutturale, pensando questo rapporto in senso disgiuntivo apofantico. Questa tendenza è presente in numerosi studi, a titolo di esempio citiamo il testo di R. L. Fetz, Zweideutige Uneigentlichkeit. Heidegger als Identitätstheoretiker, in «Allgemeiner Zeitschrift für Philosophie», 3, 1992, pp. 1-26, secondo cui o la priorità dell’autentico sull’inautentico sancisce l’impossibilità di pensare l’autentico come afferramento, come modificazione esistentiva dell’inautentico o se si assume l’inautentico come terreno d’origine (e dunque l’identità del sé e del si stesso disperso) non è possibile dare conto del passaggio dall’inautentico all’autentico. A mio avviso, invece, se si tiene presente il senso né privativo né negativo del non inscritto nella Uneigentlichkeit e dunque il costitutivo scadere, sottrarsi del “come” nel “cosa” si dissolve questo problema: l’inautentico, il “Si” altro non è che la motilità di fenomenizzazione, il negarsi, l’esser-via-da sè inscritto nel fenomeno: “il non sentirsi a casa propria”, l’“Es” che in questo unico movimento si dissimula a sé stesso (Man). Non siamo dunque d’accordo con la prospettiva di B. Hirlenborn, Die Uneigentlichkeit als Privation der Eigentlichkeit? Ein offenes Problem in Heideggers Sein un Zeit, in «Philosophisches Jahrbuch», 106, 1999, pp. 455-464, che rintraccia una negazione in senso privativo nell’improprietà dell’esserci. A mio avviso, dunque, è dirimente sottolineare la dis-giunzione costitutiva proprio/improprio che implica la loro inscindibilità e coappartenza, il Selbst, il “di volta in volta” dell’esser-sempre-mio l’un-con-l’altro è dunque l’accadere, qui e ora, della dis-giunzione tra proprio/improprio, tra Es/Man. Inoltre, in base alla nostra prospettiva, che pure non prende in considerazione gli scritti del cosiddetto “ultimo Heidegger”, la stessa Kehre va riportata al movimento immanente di Umkehr, vero e proprio topos di tutti gli scritti heideggeriani. Senza poter argomentare in maniera adeguata, accenniamo soltanto al fatto che non siamo d’accordo con la lettura, anch’essa paradigmatica, di Von Herrmann, altro punto fermo della letteratura su Heidegger, secondo cui vi sarebbe un mutamento radicale di approccio nella “svolta” che segnerebbe il passaggio dal percorso «trascendental-orizzontale» di Sein und Zeit al «pensiero storico dell’essere». Ci riferiamo in particolare al testo di F.W. Von Herrmann, Wege ins Ereignis. Zu Heideggers Beiträge zur Phiosophie, Klostermann, Frankfurt a. M. 1994, in particolare pp. 88 ss. Contro questa interpretazio-

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rente del riferimento che de-cade in questa significatività e l’es welten e mit-anklingen del Selbst: quel movimento di fenomenizzazione del fenomeno, espresso proprio da quella forma di impersonali in cui il sostantivo viene trasposto nell’accadere del verbo che tiene in sé il farsi mondo (es weltet) che è al contempo l’appropriarsi del sé nel suo risuonare in esso (Mitanklingen) e il darsi della stessa significatività mondana: L’elemento significativo è il carattere primario, mi si offre immediatamente, senza un detour intellettuale che passi per il concepire le cose. Vivendo in un ambiente, mi significa dappertutto e sempre, tutto è mondano, si fa mondo (es weltet).40

E parimenti: L’esperienza vissuta non mi sta davanti come una cosa che addito, come un oggetto, ma io me ne approprio ed essa si appropria, accade nella sua essenza.41 [ich selbst er-eigne es mir und es er-eignet sich in seinem Wesen nach]

Il termine Ereignis è usato in opposizione al processo (Vorgang) e pensato come accadere nel senso del Geschehen, Ge-

ne piuttosto, concordiamo in pieno con F. Duque il quale, sebbene da una prospettiva molto diversa dalla nostra, volta a pensare il legame tra filosofia e religione – una tragica, se si vuole «a-theistische Religion» – sottolinea come la Umwendung dell’interpretazione fenomenologica rimandi alla Kehre: «Heidegger interpretiert und verschiebt diese Botschaft des Trostes und der Rettung auf hermeneutische Weise und zielt so implizit auf die Kehre […]: “es handelt sich um eine absolute Umwendung”». F. Duque, Gegenbewegung der Zeit, cit., p. 115. 40. M. Heidegger, GA 56/57 p. 75 [trad. mod.]. 41. Ibidem.

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schichte42; sta qui, in questo primissimo corso del 1919 – come afferma Kisiel – «il punto zero del pensiero heideggeriano»43. In gioco dunque è questa stessa motilità di contraffazione della preoccupazione fattizia, inscindibile dalla modalità di accesso a essa, dalla necessità cioè di indicare il “come”, affinché esso non venga compreso in senso teoretico, assecondando la stessa tendenza della fatticità, ma sia lasciato in sospeso. Questa “sospensione” del “riferimento” e dell’“attuazione” teoretici – che è l’indicazione formale44 e che molti interpreti hanno avvicinato all’epochè husserliana45 – è inscindibile tuttavia proprio dall’equivocità del senso di attuazione del riferimento ai contesti di mondo propri della vita, dal suo essere segnato da una negazione strutturale: il suo essere già sempre contraffatto, il suo contraffarsi e il suo essere ripreso in questa motilità di contraffazione. Il contraccolpo in cui consiste la Umwendung, la Umkehr che conduce la fenomenologia fino a sé, lascia emergere una particolare forma di performatività: un’esperienza, una modalità 42. Sulla distinzione tra Vorgang ed Ereignis, e sull’uso di quest’ultimo nel senso del Geschehen, riportiamo questa considerazione paradigmatica: «Geschichte als Geschehen im Ereignischarakter des faktischen Lebens bezogen auf faktische Selbstwelt, Mitwelt und Umwelt». M. Heidegger, GA 59, p. 59. Sul significato di Vorgang in relazione al processo fisico e psichico: Ivi, p. 158. La distinzione tra Vorgang und Ereignis è contenuta nel corso Zur Bestimmung der Philosophie, GA 56/57 pp. 73 ss. Altre considerazioni sul tema sono presenti in M. Heidegger, GA 58 p. 258. 43. T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, cit. p. 25. 44. «L’indicazione deve indicare in anticipo il riferimento del fenomeno – invero in un senso negativo, quasi per avvertimento! (Warnung!) Un fenomeno deve essere dato in maniera tale che il senso del suo riferimento sia tenuto in sospeso. […] Il riferimento e l’attuazione del fenomeno non sono determinati in anticipo, ma sono tenuti in sospeso». M. Heidegger, GA 60 p. 63, trad. it. p. 100. 45. S. Bancalari, Generalizzazione, formalizzazione, epoché: le radici husserliane dell’indicazione formale, cit., pp. 113-131.

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del discorso (che è parimenti una modalità di comportamento in senso fenomenologico-intenzionale) “che non dice nulla”, che non parla cioè di qualcosa, che non ha come contenuto di senso qualcosa (was) che viene esperito, un contenuto significativo che appartiene al mondo comune, al mondo del sé e al mondo ambiente, bensì esprime, ha come contenuto, il modo indifferente in cui, di volta in volta, ogni riferimento alla significatività mondana si attua: questa espressione indicativa, negativa, di avvertimento, concentra, per così dire, la motilità di contraffazione della vita su di sé, su questa stessa indifferenza: tuttavia l’indifferenza tra “come” e “cosa” emerge in quanto tale nella sua in-differenza – e dunque la stessa epochè (se vogliamo usare il termine husserliano), la stessa indicazione formale, l’“esistenziale”, il “come”, viene ri-attuata – solo in un contraccolpo, qui e ora, in situazione, nella Umkehr del fenomeno: il suo farsi tale, l’accadere della motilità di contraffazione, la sua fenomenizzazione (es welten, es ereignet), il suo tratto negativo; solo così l’im-proprietà, l’in-differenza del “come” accade e insieme si compie (sich vollzieht). Questo movimento – che abbiamo voluto abbozzare in via preliminare – emerge in quella modalità di discorso e d’esperienza fattizi testimoniata dalle lettere paoline, nell’inaggirabilità – di volta in volta – di questa situazione fattizia. §2 Discorso, tempo e situazione: la fatticità cristiana e il fenomeno dell’annuncio Abbiamo accennato al significato che il termine parusía assume nel contesto della fatticità cristiana e al fatto che in esso si inscriva un senso che innanzitutto «non è contenuto nell’espressione letterale»46. Dopo una lunga introduzione dedicata

46. M. Heidegger, GA 60 p. 102, trad. it. 143. Sulla torsione del pàreimi e l’Avvento (Ankunft) che si inscrive nella presenza si veda G. Schneider,

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in questo stesso corso alla differenza tra concetto obiettivo e concetto essenziale oggettivo, alla «distinzione di principio tra filosofia e scienza»47, alla compiuta elaborazione dell’indicazione formale48, alla delimitazione negativa della sua dimensione di senso sia rispetto alla sfera dischiusa nel processo di Generalisierung, sia rispetto alla Ordnung “formale” ottenuta nella Formalisierung (la coscienza husserliana)49, non sembra inopportuno affermare che, quando viene introdotto il signi-

H. Balz (Hrsg.), Exegetisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1980. 47. M. Heidegger, GA 60 p. 5 s., trad. it. pp. 36 ss. 48. Ivi, p. 55 ss., trad. it. pp. 90 ss. 49. Heidegger ritorna sulla distinzione husserliana tra Formalisierung e Generalisierung (§13 Ideen I), che corrisponde alla distinzione tra scienza formale e scienza obiettiva, alla differenza tra oggetto (Gegenstand) e obietto (Objekt) in tutti i corsi primo-friburghesi (1919-1922). Di questa distinzione viene offerto un quadro sintetico esaustivo in GA 60 in particolare pp. 55-65, trad. it. 90-101. Questa distinzione appare per la prima volta nel 1919, nel semestre di guerra come differenza tra il «qualcosa obiettivo» del neokantismo e il «qualcosa formale» husserliano, a cui si contrappone l’«es weltet» della fenomenologia come scienza pre-teoretica (M. Heidegger, GA 56/57 pp. 62-70). Lo statuto di senso e d’espressione della fenomenologia come scienza pre-teoretica viene definito nel semestre successivo un «Vor und Rückgreifen». M. Heidegger, GA 58 p. 185. I concetti della fenomenologia, già in questo contesto, non implicano un Begreifen ma sono «Ausdrucksbegriffe — rück- und vorgriffliche Bezugsmomente» (Ivi, p. 147). Nel 19201921 questa differenza viene esplicata come differenza tra concetti d’ordine obiettivi (sachliche Ordnungen) e ordinare (Ordnen) formale – entrambi ottenuti nell’atteggiamento teoretico – e i concetti formalmente indicanti. M. Heidegger, GA 60 p. 59 ss., trad. it. p. 96 ss. È su questa differenza – che coinvolge tanto il tema della fenomenologia quanto il modo di accesso a esso – che viene modellata la «definizione principiale» di vita e di filosofia, la differenza cioè tra la definizione in senso scolastico (per genere e differenza specifica, definizione d’essenza), la definizione di principio teoretica (definizione di accesso) e la definizione principiale o «attuativa», cioè indicativoformale della fenomenologia. (Sulla definizione principiale della filosofia si veda: M. Heidegger, GA 61 I parte).

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ficato assunto dalla parusía nel contesto della fatticità cristiana, sia in questione proprio il piano del senso: un modo del discorso, una dimensione veritativa, che al contempo non è ‘innanzitutto’ contenuta nell’espressione letterale (wörtliche Ausdruck). Seguendo l’interpretazione delle lettere paoline verrà in chiaro dove sia – questo “senso” – se ‘innanzitutto’ non è nella parola, nella lettera. Cruciale è qui il richiamo al fatto che non si faccia riferimento soltanto a uno slittamento semantico, ma a una metamorfosi dello stesso tessuto del concetto, della dimensione di senso dell’espressione: Nella sua storia concettuale l’espressione parusía ha dapprima un senso che qui non è inteso. Nel corso della sua storia essa muta non solo il suo significato, ma anche la sua intera struttura concettuale. In questo mutamento concettuale si mostra la diversità dell’esperienza cristiana della vita. Nel greco classico parusía significa avvento (presenza); nell’Antico Testamento (ossia nei Settanta): “l’avvento del Signore nel giorno del giudizio”; nel tardo ebraismo: “l’avvento del Messia come vicario di Dio”. Per i cristiani, invece, parusía significa “la ricomparsa del Messia già comparso”, ossia qualcosa che in un primo momento non è contenuto nell’espressione letterale. In tal modo, però, l’intera struttura del concetto è diventata un’altra.50

Questo mutamento dell’intera struttura del concetto di parusía va di pari passo con la modalità in cui l’esperienza fattizia cristiana si attua: con il modo (wie) cioè in cui chi porta l’annuncio e chi lo accoglie si riferiscono alla significatività del mondo ambiente (Umwelt), del mondo comune (Mitwelt) e del mondo del sé (Selbstwelt), e alla modalità in cui questo stesso riferimento si attua (dass), c’è. Per far emergere la peculiare struttura performativa che appartiene al discorso e alla fatticità cristiana è cruciale il fatto che la dimensione di senso

50. M. Heidegger, GA 60 p.102, trad. it. pp. 142-143.

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della parusía propria di questo contesto fattizio sia parimenti connessa al senso che l’essere assume nelle espressioni con i pronomi personali, due elementi che concorrono a definire il concetto formalmente indicante – fenomenologico – di “situazione”. L’inversione (Umwendung) da ciò che è storicamente obiettivo a ciò che è relativo alla storia dell’attuazione è contenuto nella esperienza della vita fattizia stessa. È la svolta (Umwendung) verso la situazione. La parola “situazione” è intesa qui come termine fenomenologico, non è cioè impiegata per contesti obiettivi (nemmeno nel senso storico di condizione-Lage) […]. Dunque la parola “situazione” è per noi qualcosa di inerente al comprendere conforme all’attuazione e non designa nulla di conforme a un ordine. […] Non possiamo proiettare una situazione né in un determinato ambito dell’essere (Seinsbereich) né nella coscienza. Non possiamo parlare della “situazione come di un punto A tra i punti B e C”. Il linguaggio si ribella a ciò. E non possiamo farlo perché il punto non è nulla di “egoico” (Ichlich).51

Ai fini del nostro studio è necessario sottolineare il fatto che la situazione in senso fenomenologico, e dunque la dimensione di senso dell’espressione e del discorso fenomenologico, siano connessi al senso che l’essere assume nel contesto di ciò che è conforme all’ichlich, proprio quest’ultimo può dar conto dello scaturire dell’“è” predicativo: L’è non deve essere inteso nel modo apparentemente più universale, la predicazione, e ancora meno come […] accadere reale […]. Il problema è l’origine dei concetti ontologici (Seinsbegriffe). È l’è predicativo della esplicazione teoretica a scaturire dall’“io sono” […], non viceversa.52

51. Ivi, pp. 90-91, trad. it. pp. 130-131. 52. Ivi, p. 92, trad. it. p. 132.

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Il “sono”’ da cui scaturisce l’è dell’esplicazione teoretica viene definito formalmente nel modo seguente: «l’ichlich è e ha il nicht-ichlich, il nicht-ichlich è solo e non ha»53. A partire da ciò è possibile affermare che l’ichlich non è affatto un io rispetto a tu, a un egli, a un noi o a un loro, bensì indica al fenomeno, al senso d’essere, che appartiene a tutti i pronomi personali e che diverrà lo stesso senso d’essere che compare nella parola esser-ci e “indica” l’impossibilità di non porre la Seins­ frage in uno con la domanda indiretta che esplica (auslegt) com’è l’esserci di questo domandare. Inoltre, il nicht-ichlich non è qualcos’altro rispetto all’ichlich, non si tratta di qualcosa che non lo riguardi, bensì è la modalità in cui l’ichlich c’è nel modo del non-aversi, del non esser riferiti (wie) a sé (dass). Parafrasando: il nicht-ichlich è solo e non ha: l’ichlich invece non solo è ma ha il nicht-ichlich. Come deve essere intesa questa Habensbeziehung54 e, parimenti, in che modo deve essere compreso il non inscritto nel nich-ichlich? Non possiamo ancora rispondere, nel confronto con le lettere paoline verrà in luce il senso di questa negazione. Per ora mi interessa sottolineare che la messa in evidenza dei rapporti di fondazione tra l’è predicativo e il senso del sono e la determinazione indicativo formale55 di situazione colpiscano criticamente sia il senso

53. Ivi, p. 92 , trad. it. p. 131. Ho preferito lasciare il termine originale tedesco e non ricorrere al termine “egoico”, scelto dal traduttore italiano. 54. Su questa Habensbeziehung e in generale sul senso dell’“avere”, rimandiamo al contributo di G. Chiurazzi , Sul concetto di “avere” in Heidegger. La rivoluzione “kepleriana” dell’ermeneutica, in «Aut aut», 291-292, 1999, pp. 127-146. 55. Riportiamo questa importante considerazione di A. Fabris in merito al senso dell’indicazione formale, su cui ci soffermeremo più ampiamente in Infra, cap. III: «Polemizzando con quell’atteggiamento classificatorio e generalizzante, condiviso anche da Husserl, che mira a determinare le sfere regionali dell’essere entro le quali incasellare le individualità intese come oggetti, Heidegger ricerca ancora una volta le motivazioni preliminari

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dell’è predicativo della validità obiettiva – la regione obiettiva del neokantismo e i suoi apriori regionali (che appartengono alla medesima regione cosale di ciò che determinano), ovvero il senso d’essere della copula ottenuto nel processo di Generalisierung – sia la regione formale husserliana, la Einstellung teoretico-formale, l’operazione apofantica originaria “S è P” che, husserlianamente, è un atto intuitivo che ha essere ideale e implica il senso d’essere ottenuto nel processo di Formalisierung56. “rispetto alle quali” è possibile riferirsi a qualcosa. In tal modo, il compito dell’elaborazione di un’ontologia formale, teoreticamente intesa, viene ricondotto al più originario attingimento del senso stesso della possibilità di un rapporto e della sua attuazione. L’indicazione formale, all’interno di questa prospettiva, consiste appunto nell’apertura anticipata della direzione in cui un rapporto può essere attuato. Essa indica preventivamente il riferimento del fenomeno, senza con ciò determinare o subordinare a una generalità il caso particolare considerato, ma tenendolo invece “in sospeso” per quanto riguarda le sue potenzialità di realizzazione in un concreto rapporto. E proprio in tal modo, come indicazioni formali, devono essere intesi tutti i concetti di cui Heidegger fa uso». A. Fabris, L’ermeneutica della fatticità nei primi corsi friburghesi, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Bari 2002, pp. 87-88. 56. La formale Anzeige, il “modo” in cui si accede alla situazione fattizia, che è appunto formalmente indicata, viene delimitata negativamente sia rispetto all’espressione obiettiva (che determina il suo oggetto a partire dal genere che lo sussume, appartenendo alla medesima regione cosale di ciò che determina), sia rispetto all’espressione formale husserliana (che determina l’oggetto entro la Ordnung formale, a partire cioè dal “come” esso si dà ed è colto all’interno della coscienza ridotta). In quest’ultimo caso non si tratta di un processo che giunge per astrazione progressiva al genere sommo (Generalisierung), il quale condivide con la specie che sussume il medesimo ambito cosale, bensì di un’intuizione che dal singolo astrae il suo “modo” di datità (Formalisierung). Mentre nel rapporto tra genere e specie il genere sommo e il singolo appartengono al medesimo ambito cosale, nel rapporto tra singolo ed essenza vi è una radicale eterogeneità. A mio avviso, (contra S. Bancalari, Generalizzazione, Formalizzazione, epochè, cit.) è proprio questa eterogeneità a venir radicalizzata nella formale Anzeige: eterogeneo non è solo il “come” rispetto al “cosa”, ma la stessa “modalità” è eterogenea

151 Per la questione della unità o molteplicità della situazione è importante che la possiamo acquisire solo nell’indicazione formale. L’unità non è logico-formale, bensì solo formalmen-

rispetto a sé stessa, non può cogliersi riflessivamente ma appunto si attua (Vollzug) “irriflessivamente”. È questo il senso della Anzeige: indicare “l’attuazione” del “come”. Non si tratta dunque soltanto di lasciare in sospeso il “come”, di sottoporlo a epochè, ma di indicare al contesto di senso in cui, qui e ora, di volta in volta, esso si attua. (È qui a divenire anche comprensibile, a mio avviso, il senso della Destruktion: la mappatura dei contesti storici in cui il “come” si “attua”). È a partire dalla distinzione che ‘ossessiona’ Heidegger nei corsi primo-friburghesi tra “ordinamento obiettivo” (senso d’essere della copula) e “ordinamento formale” (operazione apofantica originaria, intuizione originariamente offerente) che è possibile leggere anche il ritorno ad Aristotele, cioè il significato precipuamente fenomenologico del rapporto tra Aussage e Anschauung, apophaínesthai e noûs. In vista di comprendere lo statuto di senso, di espressione, di verità, della fenomenologia a partire dalla performatività la formale Anzeige è cruciale. È infatti proprio il suo uso pragmatico, «quell’uso metodico di un senso nel suo significato più generale» (M. Heidegger, GA 60 p. 55, trad. it. p. 90), che avverte, dice: «Warnung!» (Ivi, p. 63, trad. it. p. 100) rispetto a una previa determinazione del “come” in senso teoretico – obiettivo e oggettivo – a offrire il “verso” a partire da cui leggere tutti gli enunciati fenomenologici; questi, infatti, sebbene abbiano la forma dell’asserzione, non fanno altro che indicare a chi scrive, legge e ascolta, a chi è nel mondo, la modalità in cui il “come” si “attua”. L’enunciato fenomenologico “segnala” il “modo” in cui di volta in volta l’esser-sempre-mio l’un-con-l’altro nel mondo è riferito a sé, al suo “che”. È dunque la formale Anzeige, il carattere indicativo formale di tutti gli esistenziali e del discorso fenomenologico a esibire la dimensione pragmatica e performativa della fenomenologia. Sul carattere formalmente indicante di tutti gli esistenziali Heidegger si esprime esplicitamente anche dopo SundZ, nel corso del 1929-1930: «Ich spreche daher bezüglich einer solchen Charakteristik des „als“ von „der formalen Anzeige“. Die Tragweite derselben für die gesamte Begrifflichkeit der Philosophie kann hier nicht dargelegt werden. Nur eins soll erwähnt sein, weil es für das Verständnis des Weltproblems – aber auch der beiden anderen Fragen – von besonderer Bedeutung ist. Alle philosophischen Begriffe sind formal anzeigend, und nur, wenn sie so genommen werden, geben sie die echte Möglichkeit des Begreifens». M. Heidegger, GA 29/30 p. 425. Su questo ci soffermeremo più approfonditamente in Infra cap. III.

152 te indicata. L’indicazione formale consiste nel “né-né” (das “Weder-Noch”): essa non è né qualcosa di conforme all’ordinamento né esplicazione di una determinazione fenomenologica.57

E ancora: non c’è alcun apriori regionale, bensì una originarietà storica e una decisione storica pro o contro – non in senso teoretico, ma in senso conforme all’attuazione, poiché si attua di volta in volta soltanto così.58

Si tratta di sottolineare proprio questa dimensione di senso che lega insieme l’essere nelle espressioni con i pronomi personali, quella differenza che qui viene messa in risalto come distinzione tra il già citato “è della predicazione e il sono dell’ipseità in modo conforme all’attuazione” e, parimenti, il carattere non intuitivo, non ideale, non “formal-logico” dell’apriori, e dunque della sua dimensione di senso, bensì “il suo attuarsi di volta in volta soltanto così”. Qui non c’è alcuna Ordnung “logico-formale” permanente, atemporale, ideale bensì “un attuarsi di volta in volta soltanto così”. Torneremo su questo punto, per ora mi interessa mettere l’accento proprio su questo “attuarsi di volta in volta soltanto così” che caratterizza il senso dell’esistenza, mettendo in evidenza il fatto che esso si leghi esplicitamente al senso dell’“io sono” e alla necessità di esprimere sempre questo senso d’essere facendo ricorso ai pronomi personali. Nella conferenza tenuta di fronte ai teologi di Marburgo nel luglio del 1924 e dedicata a Il Concetto di Tempo verrà usata anche l’espressione «Diesmaligkeit», «l’essere unicamente questa volta qui»59. «Il senso dell’è dell’ipseità

57. Ivi, 91, trad. it. pp. 130-131. 58. Ivi, p. 148, trad. it. p. 194. 59. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, GA 64 p. 124, ed. it. a cura di F. Volpi, Il concetto di tempo, Adelphi, Milano 1998, p. 49.

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(esistenza) in modo conforme all’attuazione»60 indica proprio all’essere questa volta qui della “situazione”, che viene definita formalmente, ribadiamo, come “il modo in cui l’ichlich è e ha il nicht-ichlich”. Tanto il senso del “sono” e la sua dimensione veritativa, espressiva, quanto il concetto fenomenologico di situazione vanno di pari passo con la necessità di ripensare la stessa attuazione della correlazione intenzionale a partire dalla temporalità della fatticità della vita, dal suo piano di senso, dalla sua espressione: si potrebbe dire: dato che ogni oggettualità si costituisce nella coscienza, essa è temporale, e con ciò si sarebbe ottenuto lo schema fondamentale del temporale. Tuttavia questa determinazione “universale-formale” del tempo non è una fondazione, bensì una falsificazione del problema del tempo, poiché con essa si prefigura un quadro per il fenomeno del tempo sulla base del teoretico. Invece il problema del tempo va concepito nel modo in cui noi, nell’esperienza fattizia, esperiamo originariamente la temporalità (Zeitlichkeit), quindi a prescindere completamente da ogni coscienza pura e da ogni tempo puro. La via è dunque quella opposta. Dobbiamo chiedere piuttosto: […] che cosa significano, nell’esperienza fattizia, passato, presente e futuro?61

Una considerazione contenuta nella recensione a Jaspers lega esplicitamente il senso dell’essere che va espresso con i pronomi personali, che Heidegger definisce nel ’20 il senso attuativo dell’io sono rispetto all’è della predicazione o anche l’è dell’ipseità (Esistenza) conforme all’attuazione, e la loro temporalità, che cosa significano cioè, nell’esperienza della vita fattizia, passato, presente e futuro62:

60. Ibidem. 61. M. Heidegger, GA 60 p. 65, trad. it. p. 101. 62. Sul legame tra l’indicazione formale e il senso della temporalità inscritto nell’esistenza si è soffermato A. D’Angelo, Heidegger e Kierkegaard: la

154 L’esperienza fondamentale dell’avere-me-stesso non è […] disponibile senz’altro e non è di tale natura da riferirsi necessariamente all’“io”, ma, se si vuole che il senso specifico del “sono” possa divenire esperibile in un’autentica appropriazione, l’attuazione dell’esperienza deve prendere origine nella piena concrezione dell’io e ad essa risalire in una determinata modalità. Quest’esperienza non è una percezione immanente attuata in un intento teoretico che miri a constatare qualità “psichiche” di atti e processi, ma essa ha la sua estensione storica autentica nel passato dell’io, passato che non è per quest’ultimo un’appendice che esso trascina con sé, ma viene esperito, nell’orizzonte d’attesa anticipato dall’io stesso, come passato dell’io che esperisce in senso storico e che in questa esperienza arriva ad aversi come sé. […] Nella misura in cui l’“io sono” può essere articolato come qualcosa, quindi in un “egli”, “ella”, “esso è” (qualcosa), allora si può dire formaliter dell’esistenza che è un senso, una modalità d’essere. Resta ancora da notare che l’“è”, quando lo si intende concretamente come “egli, ella, esso è” può significare di nuovo cose diverse, e queste diversità delimitano una molteplicità di connessioni vitali […]: “egli è” può avere il senso dell’essere presente sottomano, dell’apparire in una natura oggettivamente rappresentata (molteplicità di oggetti e di relazioni), oppure può significare l’avere un ruolo nel mondo sociale circostante come nella più banale delle domande: “che cosa fa il signor X in Y?”. Per questo “è”, assume un significato decisivo il suo “era” e il suo “sarà” in relazione all’“egli”.63

recensione a Jaspers e l’indicazione formale, in «La Cultura», 47, 2009, pp. 61-90, mettendo in rilievo la differenza tra il concetto kierkegaardiano di esistenza (inteso come l’individuo di un universale) e il concetto “indicativo formale” di esistenza. 63. M. Heidegger, Anmerkungen zu Karl Jaspers’ “Psychologie der Weltanschauungen”, in Wegmarken, GA 9, cit. p. 31, trad. it. a cura di F. Volpi, Note sulla “Psicologia delle visioni del mondo” di K. Jaspers, in Segnavia, Adelphi Milano pp. 459-460.

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Di questa lunga citazione mi interessa mettere l’accento sia sul fatto che «il passato viene esperito nell’orizzonte dell’attesa anticipato dall’io stesso», un senso del passato che si lega all’attesa e all’anticipazione che verranno in luce nel confronto con l’esser-divenuta della fatticità cristiana nell’attesa della parusía e in cui emerge un costitutivo senso della negazione, il «non conforme all’attuazione»64 che individua il “sapere” storico fattizio dell’esperienza della vita di coloro che vanno perdendosi e non accolgono il logos paolino – movimento che prefigura senza dubbio tanto il Verfallen quanto il Vorlaufen in SundZ, il rapporto proprio/improprio. Parimenti mi preme sottolineare il legarsi di questi elementi al significato che la temporalità assume nell’era, nell’è e nel sarà riferiti di volta in volta a chi esiste, al senso dell’essere sotteso a tutti i pronomi personali. A partire da queste considerazioni è possibile interpretare, in modo qui soltanto preliminare, i caratteri fondamentali della dimensione di senso del discorso paolino, il fenomeno dell’annuncio e la peculiarità della situazione fattizia di Paolo e delle sue comunità, la situazione cioè di chi porta e accoglie l’annuncio, e la modalità stessa in cui il riferimento (wie) al suo mondo ambiente, al suo mondo comune e al suo mondo del sé (was) si attua (dass). Fondamentale nel fenomeno dell’annuncio e nella dimensione di senso legata a questo modo del discorso e alla fatticità cristiana, all’esperienza della vita che esso implica, è il fatto che nasca «con l’annuncio che coglie l’uomo in un dato momento e da allora in poi conviva costantemente e simultaneamente nella attuazione della vita»65. Questa considerazione è cruciale per ripensare la dimensione veritativa della prassi fenomenologica a partire dalla riformulazione del

64. M. Heidegger GA 60 p. 109, trad. it. p. 151. 65. Ivi, pp. 116-117, trad. it. p. 159.

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concetto di performatività. Il momento sorgivo della fatticità cristiana, l’accoglimento dell’annuncio – ovvero il compimento (Vollzug) di questo discorso – non è mai passato bensì sempre, di volta in volta, co-esperito nella fatticità: «ständig mitlebendig im Vollzug des Lebens»66. La dimensione veritativa di questa espressione implica inoltre un cambiamento d’accento del feticismo, della motilità di contraffazione che appartiene costitutivamente alla vita, la sua preoccupazione della significatività decadente. In questo contesto: ciò che Paolo dice è caratterizzato dal fatto che egli lo dice ora (corsivo nel testo) ai Tessalonicesi (o ai Galati).67

E poco oltre: Ciò che egli dice loro, e il come lo dice, sono determinati dalla sua situazione […]. Con uno schema: Il “che cosa” di ciò che è annunciato (Was des kundgegebenen) si determina in base al fatto che (dass) Paolo ora comunica ai Tessalonicesi qualcosa. Il come (Wie).68

Il “contenuto” di questo discorso, ciò che il discorso rende noto, la dimensione di senso di questa Kundgabe – in quanto esperienza fattizia delle comunità cristiane (dunque a prescindere dal contenuto teologico e dogmatico delle lettere)69 – im66. Ibidem. 67. GA 60 p. 101, trad. it. p. 142. 68. Ivi, p. 100, trad. it. pp. 140-141. 69. La fatticità cristiana guida l’interesse di Heidegger nei confronti delle Epistole. Centrale, in tal senso, è la forma epistolare, il modo in cui Paolo si rivolge ai suoi. Lo stile, il tono, la pleroforia delle Lettere tradiscono la situazione attuativa (Ivi, pp. 107 ss., trad. it. pp. 171 ss.): l’esperienza fattizia di chi porta l’annuncio, il modo in cui i suoi rapporti al mondo comune, al mondo del sé e al mondo ambiente si attuano. La scelta di concentrarsi, in particolare, sulle due Lettere ai Tessalonicesi e di non dedicare altrettanta

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plica una dimensione di senso, un modo d’essere della fatticità, in cui ciò che è reso noto (was) e il “come” co-incidono nel Dass: «che Paolo comunica ora qualcosa ai Tessalonicesi»70. In questo contesto si registra un cambiamento d’accento essenziale, che implica, all’interno della stessa esperienza della vita fattizia, un rimbalzo, una rottura, una Umwendung, una peculiare dimensione performativa sottesa alla stessa fatticità dell’esperienza della vita: i contenuti significativi, i contesti di mondo (Mit-Selbst e Umwelten) ciò che (was) viene esperito trascinando con sé l’attuazione del riferimento ad esso, il dass del riferimento (wie) indifferente, decadente (abfallende), subiscono un contraccolpo, una rottura, un ritardo: Das christliche Leben ist nicht geradlinig, sondern ist gebrochen […]. Alle diese Bezüge erfahren jeweilig beim Vollzug eine Retardierung. […] Die Christen sollen solche sein, dass diejenigen, die eine Frau haben, sie so haben, dass sie nicht haben [corsivi nel testo].71 attenzione alla Lettera ai Romani, è motivata dall’intento fenomenologico di “immedesimarsi” nella situazione di Paolo. La Lettera ai Romani avrebbe reso più difficoltoso questo compito, poiché, insieme a quella ai Galati è «quella più ricca di contenuti dogmatici» (Ivi, p. 83, trad. it. p. 122). Com’è noto il confronto con Paolo si è concentrato in particolare proprio sulla lettera ai Romani. Nel ’900 è paradigmatica la lettura di K. Barth, Der Römerbrief (Zweite Fassung, 1922), Theologische Verlag Zürich, Zürich 2010. Nel contesto della teologia protestante, in cui Heidegger si trova, segnaliamo anche R. K. Bultmann, Glauben und Verstehen: gesammelte Aufsätze. Vol. 4. Mohr Siebeck, Tübingen 1984. Sul rapporto tra Heidegger e la teologia protestante si veda: O. Pöggeler, Philosophie und hermeneutische Theologie: Heidegger, Bultmann und die Folgen, Wilhelm Fink, München 2009. Affrontare il rapporto tra Heidegger, il cristianesimo e la teologia esula dai fini di questo lavoro che è volto soltanto a far emergere la disgiunzione non apofantica inscritta nella dimensione di senso, di espressione della vita fattizia (e nella dimensione veritativa fenomenologica) per ripensare la figura della performatività. 70. Ivi, p. 100, trad. it. pp. 140-141. 71. M. Heidegger, GA 60 pp. 119-120, trad. it. p. 162.

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L’indifferenza del riferimento (wie) decadente ai contesti di mondo, il feticismo della fatticità, tutti i riferimenti relativi al mondo comune, al mondo del sé e al mondo ambiente, esperiscono (erfahren) di volta in volta (jeweilig) un ritardo (eine Retardierung), una rottura. Nell’essere dei riferimenti fattizi, si inscrive il “dass” (corsivati nel testo). Per ora voglio sottolineare, prima di analizzare più da vicino l’hos mé, il fatto che il “dass” implichi un ritardo, una rottura dell’in-differenza di tutti i riferimenti decadenti della fatticità. Nel senso d’essere che è proprio della “situazione” e che, come abbiamo mostrato, appartiene all’esistenza, cioè al senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali, si inscrive un ritardo, una rottura. Inoltre, questa dimensione di senso, questo orizzonte di verità, non implica alcun ordine obiettivo, in questo contesto non siamo su un piano apofantico del discorso in cui uno stato di cose viene descritto entro una asserzione, non vige perciò la disgiunzione apofantica del poter-essere vero o falso: «Paulus hat geglaubt. Er hat aber nicht “falsch” geglaubt; es gibt hier kein wahr und falsch».72 Bensì il senso dell’essere, corsivato nel testo, si lega al ritardo, alla rottura, nel “dass”, di volta in volta, dell’in-differenza della fatticità, di tutti i riferimenti (alle diese Bezüge) della vita alla significatività dei contesti di mondo. Si tratta dunque di una dimensione strutturalmente performativa: ciò che (was) questo discorso dice è il riferimento (wie) del discorso a sé stesso, al suo che” (dass); riprendendo lo schema sopracitato: “Ciò che Paolo dice e come” si deter-

72. Ivi, p. 153, trad. it. p. 200.

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minano dalla sua situazione: «che Paolo comunica ora qualcosa ai Tessalonicesi»73. Parimenti la dimensione di senso del fenomeno dell’annuncio ristruttura la stessa configurazione del concetto di presenza, di parusía, e con essa la correlazione come coincidenza, identificazione di datità (was) e modo di datità (wie) trasparente a sé stessa, come esser-presente della presenza in quanto correlato dell’intuizione originariamente offerente, della AnschauungsWahrheit: atto intuitivo, modalità di coglimento che è immanente da ambo i lati della correlazione, presente a sé nel presentarsi ciò che si presenta. Da un lato, la fenomenologia e correlativamente la fatticità non implicano un modo di essere, una dimensione veritativa in cui vige l’alternativa vero o falso, «es gibt hier kein wahr und falsch»74; dall’altro, in questo contesto compare una dimensione che ha a che fare con lo “sviluppo” della “Anschauung”, con la «maturazione»75 della “intuizione” di Paolo: «Entsprechend ist die Frage der “Entwicklung” seiner Anschauung zu behandeln»76. Questo mostra che è proprio l’espressione, la dimensione del senso, ciò con cui la fenomenologia heideggeriana è alle prese: non basta però escludere che questo modo di essere, questa modalità del discorso, della fatticità – che cioè ha il modo d’essere, l’esperienza della fatticità come “tema” e che è questa stessa fatticità, come suo modo d’essere (metodo) – non implichi la dimensione veritativa che risiede

73. Ivi, p. 100, trad. it. pp. 140-141. 74. Ibidem. 75. Il tema della Reifung, dunque dello sviluppo inteso nel senso della maturazione temporale, è presente anche in M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, Einführung in die phänomenologische Forschung, GA 61 pp. 52 ss. 76. M. Heidegger, GA 60 p. 153, trad. it. p. 200.

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nella disgiunzione tra vero o falso, ma si tratta di ripensare la correlazione intenzionale, domandare cioè come si dà (es gibt), c’è, la coappartenza tra datità e modo di datità. A partire da qui possiamo disegnare meglio la figura strutturalmente performativa di questa dimensione di senso: l’annuncio della parusía, questa espressione, l’“ora” della fine dei tempi che Paolo annuncia77 ai suoi (tinés) – cioè l’avvento della parusía, il “quando verrà” – è indissolubile dal riferimento (wie) del discorso e dell’esperienza della vita a sé stessi: «nel caso del77. È importante ai fini di questo studio che Heidegger, nell’esplicare la Verkündigung, si riferisca a essa con il termine Kundgabe (Ivi, p. 100), poiché è qui che ci si può mettere sulle tracce della dimensione espressiva, veritativa, di senso della fenomenologia, esplicitando quella sottesa al discorso paolino. Proveremo a leggere questa Kundgabe (Infra, cap. VI) come controcanto alla Kundgabe husserliana, a partire dal cadere del dualismo husserliano tra Ausdruck e Kundgabe. In Essere e Tempo, infatti, l’andamento metodico del logos fenomenologico ermeneutico è Kundgabe: «il logos della fenomenologia dell’esserci ha il carattere dell’hermeneúein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’esserci sono resi noti (kundgegeben, corsivo nel testo)». M. Heidegger, GA 2, p. 50, trad. it. p. 53. L’hermeneúein dunque, l’in quanto, è tanto il luogo di costituzione della significatività – la riformulazione della Bedeutung logica husserliana – quanto la sua Kundgabe. In sintesi, è proprio questa distinzione a cadere: non c’è Bedeutung senza Kundgabe, bensì esse sono legate insieme in una strutturale promiscuità. La Bedeutung non si costituisce entro l’operazione apofantica originaria – nella Anschauungs-Wahrheit – bensì nell’hermeneúein come Auslegen, esplicitazione della comprensione, della situazione emotiva e del discorso, “esistenziali” cooriginari. La cooriginarietà di tutti gli esistenziali – Gleichursprünglichkeit su cui ha richiamato l’attenzione T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., in particolare pp. 276 ss. – è centrale per comprendere la decostruzione della Bedeutung logica che, husserlianamente, si costituisce nella sfera psichica isolata per poi essere resa nota agli altri (Kundgabe). Nella fenomenologia heideggeriana il “come”, l’“in quanto”, è auto-riferito, rimandato – irriflessivamente – al Dass: il progetto, l’in vista di (Wie) all’essere gettato nel mondo (Dass) nel modo improprio del Si, esistenziale cooriginario. La «Verweisungszusammenhang» è parimenti un «Angewiesensein». M. Heidegger, GA 2 p. 117, trad. it. 113.

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la domanda sul quando della parusía, l’elemento decisivo è “come” Paolo risponda, poiché soltanto in base a esso si può giudicare quello che dice (was er sagt)».78 Quello che dice – il was, il che cosa, “il quando” – si determina a partire dal come (Wie) e fa tutt’uno con il dass: «che (dass) Paolo comunica ora qualcosa ai Tessalonicesi»79. L’“ora”, il quando della parusía profila una dimensione di senso in cui il dictum dell’enunciato non è un contenuto significativo mondano bensì coincide con il riferimento dell’enunciato a sé stesso, al suo “dass”. In termini preliminari possiamo dunque affermare che l’“ora”, il “quando”, non è un contenuto significativo che appartiene ai contesti di mondo, non è dunque alcun tempo che riguarda la significatività del mondo del sé, del mondo degli altri e del mondo ambiente, non riguarda dunque alcun contenuto (Gehalt) esperito o esperibile, bensì segnala, indica la modalità (wie) in cui ciascun riferimento ai contenuti mondani, ai contesti di mondo, si attua (dass), c’è, e co-incide dunque con il “che”, l’attuarsi, di volta in volta, qui e ora, di questa modalità. La co-incidenza, il cadere insieme di “cosa” e “come”, la loro indifferenza costitutiva, implica un ritardo, un contraccolpo, una rottura che buca la coincidenza di datità e modo di datità, il suo esser-data a una Bewusstsein in un atto intuitivo, il farsi presente della presenza. Potremmo dire, è la “coincidenza” di datità e modo di datità, la sua presenza a sé a mutare. In questo contesto la co-incidenza, il “was” che si determina a partire dal “come”, è opaca, irriflessa, autoriferita cioè al dass, all’attuazione.

78. GA 60 p. 105, trad. it. p. 146. 79. Ivi, p. 100, trad. it. pp. 140-141.

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Riprendendo il passo sopra citato: ciò che il discorso (was) rende noto, il come – quando verrà la fine dei tempi – coincide con il Dass: «che egli rende noto ora (jetzt) qualcosa (corsivo nel testo) ai Tessalonicesi»80. La temporalità81 della fatticità cristiana implica infatti l’indissolubilità di chrónos e kairós che – come afferma Heidegger – sono «sempre usati insieme (immer in eins gebraucht)»82. Nella parusía come «ricomparsa del Messia già comparso»83, nel pàreimi come avvento (presenza), si inscrive il già del suo essere stato (dass) e il non-ancora del suo avvenire (wie), nell’attimo (kairós) del tempo per e in cui, «il momento che è stato, è, o sarà ben accetto o favorevole, la buona occasione del tempo opportuno, ma anche il momento difficile che insorge e di cui si è consapevoli, il tempo che va recuperato finché se ne dispone, ma anche gli ultimi tempi e la loro pienezza, il tempo o momento che si contrae e si fa breve, in cui emerge l’urgenza o l’impellenza di una decisione».84 Come afferma Ardovino, riprendendo Bultmann: «Il nucleo semantico della “presenza”, implicito nel termine greco, si sposta in modo decisivo verso quello dell’avvento (adventum), 80. Ivi, p. 100, trad. it. pp. 140-141. 81. Se da un lato concordiamo con O. Pöggeler quando afferma che, in questo contesto, «la temporalità non ha carattere cronologico ma cairologico […] i caratteri cairologici non contano e dominano il tempo ma pongono nella angustia del futuro; essi appartengono alla Vollzugsgeschichte des Lebens che non può essere obiettivata», dall’altro è necessario, a mio avviso, sottolineare con altrettanta forza che tempo cronologico e cairologico sono legati inestricabilmente in una coappartenenza costitutiva, che del resto viene più volte ribadita nel testo. Per questo studio, che mira a elaborare un senso non apofantico della disgiunzione, l’inscindibilità di kairós e chrónos è cruciale. Questa considerazione di O. Pöggeler è contenuta nel testo che ha aperto la via alle interpretazioni del confronto heideggeriano con le lettere paoline: O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers, cit., p. 34. 82. M. Heidegger, GA 60 p. 102, trad. it. p. 143. 83. Ibidem. 84. A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit. p. 100.

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e subisce in altri termini una torsione verso l’assenza, o meglio, nel caso specifico, verso il duplice e fondamentale nonpiù/non-ancora della presenza, l’equivocità dell’evento già “accaduto” ma ancora “atteso”».85 La parusía, il giorno della fine dei tempi, indica l’evento della fatticità, il suo tempo contratto (kairòs synestalménos), il “cadere insieme” di kairós e chrónos: «perí tôn chrónon kaì tôn kairôn […] immer in eins gebraucht»86, «su tempo e attimo (l’uso linguistico biblico non è casuale)»87; la parusìa indica, dunque, quella “certezza” – «necessità […] né logica né naturale»88, ma «angustia (Not)»89, “assillo”, «en thlípsei pollê metà charâs (1, Thess., 1-6) in afflizione e gioia»90 – che è il sapere della fatticità cristiana della vita e de-cide, di volta in volta, la dis-giunzione reietti/chiamati, apollýmenoi/sozómenoi. «Ciò che non è contenuto nell’espressione letterale»91, nella parola, non può essere dunque riempito nella Anschauung che offre la Bedeutung logica, nel venire a coincidenza di datità e modo di datità in quell’autopresentificazione immanente che è la parusía della presenza. «Bisogna far sì che i fenomeni ci si diano nella loro originarietà. Con il “renderli datità” non si è ottenuto ancora nulla. Solo mediante la distruzione fenomenologica si ottiene un buon esito»92. Si tratta in primo luogo di

85. Ivi, p. 98. 86. M. Heidegger, GA 60 p. 102, trad. it. p. 143. 87. Ivi, p. 150, trad. it. p. 197. 88. Ivi, p. 105, trad. it. p. 146. 89. Ivi, p. 107, trad. it. p. 149. 90. Ivi, p. 94, trad. it. pp. 134-135. 91. Ivi, p. 102, trad. it. p. 143. 92. Ivi, p.120, trad. it. p. 164 [trad. mod.].

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attuare quella Befreiung dei coprimenti «casuali»93 del fenomeno, liberando il loro Vollsinn dal carattere totalizzante della dimensione logico-apofantica che, per così dire, cristallizza il fenomeno, schiacciandolo sul suo solo senso di contenuto, sul suo “was”, e spacciandosi come unica dimensione veritativa, pur essendo “successiva”, “scaturita” cioè dalla faktisches Leben. Questa distruzione, potremmo dire riprendendo Thomas Rentsch, è una «negazione dei fraintendimenti»94, una «liberazione»95 delle “cose stesse” attraverso il disseppellimento dei contesti di senso fattizi in cui esse si radicavano, quella Befreiung dei coprimenti del fenomeno che «distrugge gli edifici di cartapesta», smascherando così proprio quella motilità di “saturazione” del fenomeno in cui l’è della predicazione – correlato di un atteggiamento “successivo”, quello teoretico-oggettivante – totalizza la dimensione veritativa, discorsiva, modellando di riflesso entro questa unica dimensione di verità il senso d’essere di chi c’è, il modo d’essere di chi questo suo “che” lo comprende, l’essere dell’esistenza, il modo d’essere del mondo. In questa Befreiung – usando le

93. Qui ci riferiamo, tentando un’interpretazione, alla distinzione tracciata nel §7 c di Sein und Zeit tra «coprimenti (Verdeckung) casuali e coprimenti necessari» M. Heidegger, GA 2 p. 49, trad. it. p. 52. Se il coprimento che corrisponde alla verità teoretico-predicativa – all’orizzonte assertivo cristallizzato – è un coprimento “casuale”, nel senso che può essere decostruito, distruggendo gli edifici di cartapesta, il coprimento necessario, cioè il necessario movimento di scadimento, di sottrazione del “come” nel “che cosa”, cioè la sua “attuazione” – detto altrimenti: l’im-proprietà, il Man, il Verfallen – è un coprimento “necessario” che indica qui e ora al farsi mondo del mondo, al suo movimento di nientificazione, di possibilizzazione. L’interpretazione più convincente del rapporto tra Schein, Phänomen, Erscheinung, a cui Heidegger dedica pagine non cristalline in SundZ, questione che ha diviso gli interpreti, è offerta, a mio avviso, ancora una volta da M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., in particolare cap. III. 94. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., p. 231. 95. Ibidem.

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parole di Wittgenstein –: «distruggiamo […] edifici di cartapesta, e distruggendoli, sgombriamo il terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano»96, il terreno della fatticità della vita da cui scaturivano. A mio avviso, però, questa Befreiung è e non è tutto: è tutto perché non c’è qualcos’altro da fare, si lascia tutto com’è; non è tutto perché la maturazione (Zeitigung) del terreno fattizio, il “farsi” della coappartenza di datità e modo di datità, di cosa e in quanto – quel coprimento necessario che è l’improprietà dell’ente che noi stessi sempre siamo e implica la costitutiva indifferenza di cosa e come, la coappartenza di verità e non verità – in altre parole: l’esserci del mondo che cresce con e negli edifici di cartapesta, e dunque in quegli stessi coprimenti che possono essere disseppelliti (la mappa della città, della storia), accade di volta in volta qui e ora ed è la sua stessa fatticità a farne segno. Si tratta di sintonizzarsi su questa indicazione (Anzeige): l’accadere, qui e ora, in situazione, della Umkehr della fatticità, il già-non- ancora della parusía, il sapere fattizio della Not: il passare «della figura del mondo (tò schêma toû kósmou)»97. Potremmo dire: il farsi mondo (es weltet) nel risuonare di volta in volta in esso (mitanklingen): «Die “Ausdrücke” sind immer als “Knäuel” von Bezügen, Sinnzusammenhängen zu nehmen. […] Gerade die “Stimmung” ist das Entscheidende»98. §3 Apollýmenoi/sozómenoi: un’altra figura di dis-giunzione. Prima di analizzare l’interpretazione heideggeriana della Prima e della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, per poi soffermarmi sulla interpretazione di un brano tratto dalla Prima 96. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, ed. it. Ricerche filosofiche, cit. §118. 97. M. Heidegger, GA 60 p. 120, trad. it. p. 162. 98. Ivi, p. 134, trad. it. p. 179.

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Lettera ai Corinzi e ridisegnare la figura della performatività a partire dal doppio senso di negazione che emerge nell’hos mé paolino, è necessario approfondire il “tempo-non-tempo” della conversione, della Umwandlung, il senso dunque della disgiunzione tra chiamati/reietti, apollýmenoi/sozómenoi99. 99. La lettura heideggeriana di Paolo costituisce un passaggio fondamentale anche per la comprensione degli Schwarze Hefte e, più in generale, per la comprensione del senso ontologico-politico della filosofia heideggeriana. Da un lato, infatti, come ha sottolineato Donatella Di Cesare, Heidegger risale all’Ur-christentum assumendo il greco come Urtext, senza attuare, dunque, alcuna Destruktion, rimuovendo così il debito con la lingua ebraica e l’ebraismo. “Heidegger svuota i contenuti ebraici mantenendo l’esperienza del tempo – e del linguaggio – l’annuncio, l’attesa”. D. Di Cesare, Heidegger e gli Ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri, Torino 2014 p. 266. Questa cancellazione dell’ebraismo suggerisce che lo stesso Heidegger – come ha ipotizzato Vincenzo Vitiello – avvertisse “in sé stesso un’istanza ‘giudaica’ che voleva strappare da sé”. Dall’altro lato, è la stessa inseparabilità tra apollýmenoi e sozómenoi emersa nella lettura di Paolo a percorrere tutto il  pensiero heideggeriano, restituendo l’inseparabilità tra proprio e improprio,  Ereignis e Gestell, Geschichte e Historie, presente anche negli Schwarze Hefte. Su questo rimandiamo al contributo di V. Vitiello, Historie e Geschichte negli Schwarze Hefte, in corso di pubblicazione. Questa inseparabilità – che è al contempo una differenza, una dis-giunzione costitutiva e non riguarda il contenuto dell’esperienza ma il modo del suo compimento (e ciò significa, dunque, che non v’è altro luogo che l’improprio, al pari della Historie, della Tecnica, quindi della metafisica) – viene tuttavia continuamente smentita dalla determinazione di comportamenti più originari rispetto ad altri, dal gesto che affida il riconoscimento della costitutiva improprietà a figure storiche e comportamenti essenzialmente (Was) determinati, inserendo in tal modo l’essere-nel-mondo ancora una volta in un paradigma logico-disgiuntivo. “«Principio» dei tedeschi è la lotta per la propria essenza” (GA, 95, p. 11), si legge negli Schwarze Hefte, ma ancor prima è ribadito il primato di pensatore, poeta e fondatore di stati. (GA 5). Su quest’ultimo punto ci soffermeremo, seppur in maniera niente affatto esaustiva, in Infra Cap. 5, nota 40. L’ambiguità radicale che percorre il pensiero heideggeriano, ovvero l’oscillazione tra il riconoscimento di questa differenza dello stesso inscritta in ogni comportamento effettivo, e la sua smentita nell’affidare tale riconoscimento a figure storiche e a comportamenti essenzialmente determinati – destituendo, dunque, il primato della modalità dell’esperienza

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Proviamo a dire: il senso pieno del fenomeno, il “che” del “riferimento” a qualcosa coincide con il suo accadere, di volta in volta, qui e ora, con l’attuarsi (Vollzug) dell’esperienza della vita, nel duplice senso di fare, realizzare, mettere in atto e di evento, compimento: diatesi media che abbiamo già sottolineato, in cui si impone un cortocircuito tra attività e passività inscritto nel senso della fenomenologia, «il lasciar vedere da sé stesso ciò che si manifesta, come si manifesta da sé stesso»100. È proprio questa “attuazione”, questo “dass” del “come”, la /

sulla determinazione del suo contenuto – può forse costituire un indizio del fatto che, così suona la nostra ipotesi, il pensiero heideggeriano tenga insieme nello stesso orizzonte ontologico-politico totalitarismo e democrazia. È infatti la Unbegründbarkeit della prassi, la sottrazione (Entzogenheit) della fatticità, a legare il pensiero di Heidegger sia a Wittgenstein, sia a un pensatore come Claude Lefort. Sul rapporto tra Heidegger e Lefort a partire dalla differenza ontologica declinata come differenza tra la politica e il politico, si è soffermato O. Marchart, Die politische Differenz, Surhkamp, Frankfurt a. M. 2010, pp. 118-151. Precipuamente questa Unbegründbarkeit, questa Entzogenheit inscrive nella messa in forma, per usare le parole di Lefort, ovvero nell’apertura di una costellazione di significatività storiche (historisch), un “fuori” che, pur non identificandosi con un alcun fondamento positivo, non si limita meramente a non sussistere, ma vige nel modo della assenza, sottraendosi a ogni determinazione. (Ivi, p. 119). Ed è questo “fuori” a venir riconosciuto nell’ordine simbolico democratico, “necessariamente contingente”, e parimenti a venire occupato, ovvero determinato, nel totalitarismo. Sull’ossimoro “contingenza necessaria” e la trasformazione ontologica del concetto di contingenza, sulla declinazione della differenza ontologica heideggeriana come differenza tra il politico e la politica e sul rapporto tra totalitarismo e democrazia in Claude Lefort, rimandiamo al fondamentale studio sul cosiddetto franzosischer Heideggerismus der Linken di Oliver Marchart, Die politische Differenz, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2010. Sul tema della impossibilità di una Letztbegründung, anche a partire da Wittgenstein, e il suo legame con l’orizzonte post-fondamentalista analizzato da Marchart, ha richiamato l’attenzione D. Di Cesare, Heidegger&Sons. Eredità e futuro di un filosofo, Bollati Boringhieri, Torino 2015, si veda in particolare il capitolo “La sinistra heideggeriana”. 100. M. Heidegger, GA 2 §7c, p. , 46, trad. it. p. 50.

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tra chiamati/reietti a inscrivere nel “cadere insieme” dell’essere dell’ente, nella indifferenza di cosa e come, un peculiare senso della negazione, uno scarto, una rottura, un “non” che si delinea a partire dal confronto con la fatticità cristiana, a fronte della modalità in cui l’esperienza cristiana della vita è riferita (wie) a sé, al suo “che” (dass). Secondo l’interpretazione heideggeriana, infatti, nel “discernimento” (dokimàzein) dell’antikeímenos – («colui che si pone contro il divino»101) ­­­– in cui i chiamati si dis-giungono dai reietti, nel discernimento cioè «dell’apparire dell’anticristo nei panni del divino»102 – «colui che non ha assunto l’attuazione, [infatti], non è per nulla in grado di vedere l’anticristo che fa la sua comparsa sotto le sembianze del divino, sicché ne diventa schiavo senza neppure accorgersene»103 – in quel sapere, dunque, che coincide con il discernere l’inganno dell’anticristo in quanto tale, si profila una Rückbeziehung, una Gegenbewegung, un contraccolpo che implica, insieme, un nuovo senso temporale che sopraggiunge (hos) e la «ripresa» (Rückbeziehung) nel “mé” (non) del “non conforme all’attuazione” (vollzugsmäßige-Nicht) della vita di coloro che vanno perdendosi. Prima di analizzare questo movimento più da vicino a partire dall’interpretazione heideggeriana delle lettere paoline, voglio anticipare il doppio senso di negazione che in questo contesto si profila. Il “non conforme all’attuazione” della fatticità della vita che contraddistingue gli apollýmenoi, coloro che vanno perdendosi – in cui è centrale l’accento posto sul fatto che «apollýmenoi non significa “reietti”, bensì “l’essere nello stato del divenire reietti” (Verworfen werden) [in cui] il participium praesentis al posto del participium perfecti pone l’accento

101. M. Heidegger, GA 60 p. 113, trad. it. 155. 102. Ibidem. 103. Ivi, p. 113, trad. it. pp. 154-155.

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sull’attuazione ancora perdurante»104 – dunque la motilità di decadimento nel was propria dell’attuazione, di volta in volta (perdurante) del riferimento indifferente ai contesti di mondo, in altre parole: il non inscritto nella fatticità della vita di chi non ha accolto l’annuncio (ouk edéxanto), il non comprendere il discorso di Paolo, è un “non” costitutivo che non si identifica né con un nihil privativum né con un nihil negativum: La posizione decisiva è caratterizzata dell’ouk edéxanto. L’ouk (non) non è né un non privativum né un non negativum, ma ha piuttosto il senso del “non” “conforme all’attuazione” (des “vollzugsmäßigen-Nicht”). Il “non conforme all’attuazione” non è un rifiuto dell’attuazione, non è un “porsi al di fuori” (sich-heraus-stellen) di essa. Il “non” concerne la posizione del contesto dell’attuazione nei confronti del riferimento da esso stesso motivato [corsivo mio]. Il senso del “non” può essere chiarito solo in base al contesto storico. Il déchesthai senza ouk non ha alcuna relazione [corsivo mio]. Dovrebbe avere un’accentuazione positiva, eppure anche un “tuttavia attuare” (ein doch Vollziehen) sarebbe fuorviante, perché in tal caso ciò che ha il carattere di attuazione sarebbe definito come un accadere. Invece ciò che ha carattere d’attuazione può essere esperito solo nell’attuazione stessa, non può essere oggettivato per sé.105

ll “non” che appartiene alla vita di coloro che vanno perdendosi e si inscrive nell’attuazione (vollzugsmäßige-Nicht) del riferimento indifferente ai contesti di mondo, la motilità di contraffazione della fatticità, il suo “cadere” (abfallen) nella significatività, il feticismo della fatticità, il non esserci del Dass che motiva l’indifferenza del come, non indica né una mancanza (nihil privativum) che possa essere colmata, né ha il senso del nihil negativum, non indica dunque qualcosa

104. Ibidem. 105. Ivi, p. 109, trad. it. p. 151.

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che non c’è, come il non esserci della pioggia, qualcosa che è o non è presente, riprendendo l’esempio di Sein und Zeit. Questa delimitazione del “non conforme all’attuazione”, che è un modo di darsi che motiva l’indifferenza del “come” e non può essere compreso né come un nihil privativum né come un nihil negativuum, è fondamentale per la riformulazione dell’autoriferimento dell’esserci che emergerà in SundZ, per il senso di totalità della Cura e parimenti per la dimensione di senso del discorso fenomenologico ermeneutico, poiché è proprio nel confronto con la fatticità cristiana della vita a profilarsi quel doppio senso del “non” – l’ouk della vita che va perdendosi (apollýmenoi) e l’hos “mé” della vita che è salva, che è vita (sozómenoi) – che verrà inscritto nella coappartenenza di apertura e aperto, quella “nullità” in cui progettualità (wie) e gettatezza (dass), esistenza e mondo, possibilità e necessità sono il medesimo e in cui si delinea anche il senso della dis-giunzione proprio/improprio, che trova la sua prima figura proprio nella dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi. La centralità del senso della negazione è infatti indubbia all’interno della struttura degli esistenziali e della totalità della cura, così come viene delineata in SundZ: «tanto nella struttura dell’esser-gettato, quanto in quella del progetto è insita una nullità. Essa è il fondamento della nullità dell’esserci non-autentico (uneigentlich) nella deiezione, in cui esso già da sempre fattiziamente è»106. È necessario sin da subito sottolineare che lo stesso accoglimento dell’annuncio, «la vita (zoé)»107 dei sozómenoi, non solo non esclude, colmando o “attuando” transitivamente il “non conforme all’attuazione” della vita di coloro che vanno perdendosi bensì, al contrario, ne dipende: l’accoglimento

106. M. Heidegger, GA 2 p. 378, trad. it. p. 340. 107. M. Heidegger, GA 60 p. 69, trad. it. p. 107.

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dell’annuncio infatti – come viene affermato esplicitamente – «il déchesthai senza l’ouk non ha alcuna relazione»108 e lo stesso hos mé, lo stesso “come non” che determina l’attuazione della fatticità dei sozómenoi, non è che una Rückbeziehung all’attuazione stessa nel sopraggiungere di un nuovo senso temporale (hos: kairós); si tratta di un ritardo, per così dire, che ‘passa’ per la vita di coloro che vanno perdendosi e coincide con la ripresa (Rückbeziehung) nel “mé” (non) del “non conforme all’attuazione” (ouk, chrónos) della vita: hos significa un nuovo senso che sopraggiunge. Il mé riguarda il contesto dell’attuazione della vita cristiana. […] Paolo mette a tema l’attuazione. Sta scritto: hos mé, non ou. Il mé indica la tendenza a ciò che è conforme all’attuazione. Il mé ha la Rückbeziehung con l’attuazione stessa109.

In questo caso non si tratta di una negazione logico-apofantica: «sta scritto hos mé, non ou»110. Il mé, dunque, non coincide con la semplice negazione (ou), bensì – come afferma Bultmnn – implica un «rapporto dialettico»111 con la significatività. In questo contesto, dunque, l’aut/aut chiamati/reietti, o idolatri o cristiani, il senso di questa dis-giunzione non può essere pensato entro la dimensione veritativa della logica apofantica, come alternativa tra poter-esser vero o falso, “autentico” o “inautentico”, “chiamati” o “reietti”, in cui il non esser A di B è il suo esser altro. Si tratta piuttosto di una dis-giunzione costitutiva. In questo contesto, inoltre, non trattandosi di de-

108. Ivi, p. 121, trad. it. p. 109. 109. Ivi, pp. 120-121, trad. it. pp. 163-165. 110. Ibidem. 111. R. Bultmann, Glauben und Verstehen, p. 181, trad. it. p. 179, citato in: A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit. p. 107. Ardovino sottolinea con Bultmann il carattere non unilaterale della negazione. Scrive Ardovino: «la distanza radicale che si instaura con il mondo è, paradossalmente, la corretta vicinanza a esso». Ibidem.

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terminazioni situate entro una dimensione logico-apofantica, non è possibile neppure intendere questa dis-giunzione entro quell’ambito (Sachgebiet) “etico-pratico” che, condividendo gli stessi presupposti della logica apofantica, declina la prassi, l’azione, entro il paradigma della scelta: l’aut-aut del soggetto sovrano, il dilemma moderno di Amleto: essere o non essere. Al contrario, in uno con il paradigma apofantico della scelta, a venire in questione è la stessa ‘operazione’ di separazione in Ordnungen, in cui l’attuazione del riferimento al Gebiet, all’ambito, il “dass” del riferimento (wie) ordinante (Einstellung), implica parimenti l’interruzione del riferimento (wie) del sé all’esperito: l’interruzione cioè dell’intero riferimento umano (corsivo mio) al contesto reale112; in questo modo è, dunque, la stessa separazione tra etica e logica ad essere pensata nel suo scaturire fenomenologico e compresa nel suo carattere derivato, successivo. L’entweder/oder apollýmenoi/sozómenoi che attraversa la fatticità della vita, il farsi di volta in volta della «situazione e con essa della situazione limite»113 implica un altro senso di disgiunzione, che è un modo di darsi: l’accadere, il “Dass” del “come”, la / espressa proprio dalle impersonali. Esser-ci, farsi, temporalizzarsi di volta in volta sempre mio l’un con l’altro, di datità e modo di datità, ente e in quanto, la soglia immateriale, la trascendenza immanente, il c’è (es gibt) della dis-giunzione mondo/significatività, quel “non” che chiude o schiude (Verentschliesst) la loro indifferenza o in-differenza: l’essere-nel-

112. M. Heidegger, GA 60 p. 48, trad. it. p. 83. Scrive Heidegger: «L’atteggiamento è un riferimento agli obietti tale che in esso il comportamento è completamente riassorbito nel contesto reale. Io mi regolo soltanto sulla cosa. […] Con questo atteggiamento è al contempo sospeso qualcosa (eingestellt nel senso di smetterla con qualcosa […]) il riferimento vivente all’oggetto della conoscenza». Ibidem. 113. M. Heidegger, GA 2 p. 461, trad. it. p. 413.

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mondo, che è «prima di ogni situazione e comportamento fattizi e già sempre in ognuno di essi»114. §4. Il rapporto tra ouk e hos mé come performativo negativo. Per ripensare l’autoriferimento inscritto nell’esserci a partire dalla figura del performativo e con essa la dimensione veritativa fenomenologica, che non si situa nell’opposizione apofantica vero o falso bensì implica una dimensione veritativa sempre vera che porta con sè un costitutivo non sapere (agnoeîn) – la dis-giunzione proprio/improprio – è necessario interpretare più da vicino la riformulazione heideggeriana del senso di questa negazione e, con esso, il senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali, il senso dell’esser di volta in volta sempre mio l’un con l’altro dell’esserci. A tale scopo, è opportuno soffermarsi dapprima sulla interpretazione heideggeriana della Prima e della Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Qui – come molti interpreti hanno messo in rilievo – emerge la prima formulazione heideggeriana del rapporto proprio/improprio115. Centrale è la situazione di Paolo, il riferimento di quest’ultimo alla sua comunità (Mitwelt), inscindibile dall’attuazione del

114. Ivi, p. 257, trad. it. p. 236. 115. Tra questi segnaliamo: G. Agamben, Il tempo che resta, cit., pp. 37-38; A. Ardovino, Esistenza ed effettività, cit., pp. 101-112; C. Esposito, Heidegger e l’esperienza protocristiana del tempo, in L. Ruggiu (a cura di) Il tempo in questione. Paradigmi della temporalità nel pensiero occidentale, Guerini e Associati, Milano, 1997, pp. 291-302; T. Sheehan, Heideggers Introduction to the Phenomenology of Religion 1920-1921, in J. Kockelmans (ed.), A companion to Martin Heidegger’s “Being and Time”, Center for Advanced Research in Phenomenology and University Press of America, Washington 1986, pp. 40-62; M. Haar, Le moment (kairós), l’instant (Augenblick) et le temps-du-monde (Weltzeit) [1920-1927]», in J.F. Courtine (éd.), Heidegger 1919-1929. De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, Vrin, Paris 1996, pp. 67-90.

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rapporto (wie) di chi annuncia (e accoglie l’annuncio) al proprio mondo del sé (Selbstwelt) e al proprio mondo ambiente (Umwelt). In questo contesto emerge un sapere che implica cooriginariamente tanto la Stimmung, quanto un modo del discorso che coincide con il comportarsi. La cooriginarietà di sapere, Stimmung, modo del discorso-comportarsi è intessuta di temporalità, si incarna cioè nella modalità in cui la vita fattizia esperisce, di volta in volta, il suo era, il suo è e il suo sarà, l’attuazione (dass) del riferimento (wie) ai contesti significativi (was). Qui emerge la dis-giunzione costitutiva che lega, separandoli, kairós e chrónos: chi non comprende il discorso e chi comprende, l’entweder-oder chiamati/reietti. Più da vicino. Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo si rivolge alla sua comunità, «a coloro che aderiscono a lui»116 rispondendo a due domande: 1) che ne sarà di coloro che sono morti prima della parusía; 2) quando verrà. Riportiamo il passo paolino su cui si concentra l’interpretazione heideggeriana: Riguardo poi ai tempi e momenti (perí tôn chrónon kaì tôn kairôn), fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete (oídate) che come un ladro di notte, così verrà il giorno del signore. E quando si dirà: “pace e sicurezza” (eiréne kai aspháleia), allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie la donna in cinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri. (I Ts. 5,1-6)

116. M. Heidegger, GA 60 p. 93, trad. it. p. 133.

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Ai fini del nostro discorso è cruciale il modo in cui Heidegger interpreti la risposta di Paolo alla domanda “quando?” poiché, in questo contesto, è lo stesso senso della domanda a venire in questione: il “domandare quando” non è inteso transitivamente, il quando non è l’oggetto, il contenuto (Gehalt) della domanda: «Paolo non dice “quando” perché tale espressione è inadeguata a ciò che va espresso»117. Il senso del “quando” coincide piuttosto con la modalità in cui Paolo attua, di volta in volta, il riferimento al domandare stesso, che parimenti coincide con la modalità del rispondere. Qui non abbiamo una domanda diretta a cui segue una risposta diretta, il quando non è inteso in termini obiettivi, bensì il suo senso è il modo in cui Paolo si riferisce (wie) a chi domanda, al dass del suo stesso domandare e rispondere. Se in una logica apofantica alla domanda segue la risposta, qui la risposta alla domanda è il modo in cui il riferimento a chi domanda si attua e parimenti è questo stesso dass la risposta. Potremmo dire: l’indicazione del necessario scadimento della domanda nella risposta118. La risposta quindi non è un contenuto significativo di MitUm-Selbstwelt, qualcosa che viene esperito entro i contesti significativi mondani, ma essa coincide con l’attuazione del

117. Ivi, p. 102, trad. it. 143. 118. Ancora una volta è Gardini ad aver messo in luce questo punto, sebbene in relazione all’oblio dell’essere. Mi sembra tuttavia che questa considerazione possa essere egualmente riferita allo scadimento del “come” nel “cosa”, al non conforme all’attuazione: «Il domandare deve scadere in una risposta e le modalità devono scadere in un paradigma essenzialista. L’oblio dell’essere è dunque un fatto necessario e congenito alle stesse strutture dell’ontologia. Ma questo scadere non deve necessariamente essere a sua volta obliato, non deve essere necessariamente rimosso e dimenticato, bensì […] può venire dissepolto e portato alla luce. Noi possiamo, in altre parole, collocarci al centro della parabola dello scadimento, per cogliere non il risultato acquisito e sedimentato ma il movimento stesso del suo prodursi». M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 90.

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riferimento, di Paolo e dei suoi, ai propri contesti di mondo. «Nella natura della sua comunità (tinés) è contenuto anche lo stesso Paolo. I Tessalonicesi sono tali da essergli toccati in sorte. In loro egli co-esperisce necessariamente anche sé stesso. […] Ciò significa che il loro esser-divenuti è anche un esserdivenuto di Paolo»119. Il domandare quando verrà la parusía, «la ricomparsa del messia già comparso», implica dunque la necessità di partire dal “come” del rispondere. Soltanto in base al “come” della risposta possiamo capire in che modo Paolo intenda la domanda. Egli non vi risponde in senso mondano; si tiene ben lungi dall’affrontarla in termini gnoseologici, però al tempo stesso non dice nemmeno che sia una questione inconoscibile. Fornisce la sua risposta mettendo a confronto (Gegenüberstellen) due modi di vita: ótan légosin (3), e umeîs de (4) […] Ne risulta il senso del “quando?”, il tempo e l’attimo120.

Prima di analizzare la dis-giunzione costitutiva di questi due “modi di vita”, e il senso di questa dis-giunzione, di questa Gegenüberstellung, che è parallela alla dis-giunzione costitutiva kairós/chrónos, è necessario chiarire meglio la cooriginarietà, sopra soltanto abbozzata, di sapere, fatticità, Stimmung, modo del discorso-comportarsi. Paolo esperisce i Tessalonicesi secondo due determinazioni: «1. fa esperienza del loro Gewordensein, del loro esser-divenuti […] e 2. del loro possedere un sapere dell’esser-divenuti»121. Nell’oídate, il cui senso ricorre in vario modo (sapete dunque, non sapete forse, non avete bisogno che ve ne scriva ecc.) o anche nel “ricordate” che esprime il tratto della memoria

119. M. Heidegger, GA 60 p. 93, trad. it. p. 133. 120. M. Heidegger, GA 60 p. 99, trad. it. p. 140. 121. Ivi, p. 93, trad. it. p. 133.

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non intesa come “grato ricordo”122 ma come sapere operante, emerge una caratteristica fondamentale di chi annuncia e accoglie, la dimensione di senso, di verità che appartiene a questa espressione, in cui ancora una volta abbiamo a che fare con la figura della dis-giunzione: il novum dell’essere cristiano rispetto al passato mondano: «La novità dell’essere cristiano in confronto al passato mondano viene descritta secondo lo schema un tempo – ora […]. Questa articolazione corrisponde di nuovo a quella tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo […] e non implica alcuna separazione oggettivante tra un passato e un presente»123. Heidegger interpreta l’oídate, il sapere che va di pari passo con l’esser-divenuti e ricorre nelle lettere, come “motivo”, in cui la stessa figura retorica della ripetizione «è qualcosa di diverso dalla ripetizione di un evento naturale»124. Inoltre, «il contesto dell’evento è accentuato qui in modo particolare. Vi compare ripetutamente l’egenéthe. Nello scrivere Paolo li vede come coloro nella cui vita egli è penetrato. Il loro esser-divenuti è collegato con il suo ingresso nella loro vita»125. E parimenti: «egli stesso ed essi nel loro esser-divenuti sono reciprocamente collegati»126. Molto significativa è l’inscindibilità, il reciproco collegamento tra la fatticità delle comunità cristiane, l’esser-divenuti di coloro che (tinés) aderiscono a Paolo, della sua Mitwelt, e parimenti l’attuazione del riferimento ai contesti mondo di Paolo stesso, in cui vi è una coappartenenza cruciale tra Mit e Selbst, tale che l’esser-divenuto del Selbst è parimenti l’esser-divenu-

122. Ivi, p. 117, trad. it. p. 159. 123. A. Ardovino A., Esistenza ed effettività, cit., pp. 94-95. 124. M. Heidegger, GA 60 p. 93, trad.it., pp. 133-134. 125. Ibidem. 126. Ibidem.

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to del Mit, e il Mit l’esser-divenuto del Selbst127, esperendosi in quanto tali, tutti e ciascuno, solo cooriginariamente, nell’attuazione del riferimento ai propri contesti di mondo, cioè alla significatività di Mit-Selbst e Umwelten. Inoltre, il sapere proprio di questo esser-divenuti che si esplica nell’accoglimento dell’annuncio, la comprensione della Kundgabe paolina, è parimenti connotata dalla Stimmung. La figura cruciale nel confronto di Heidegger con Paolo è, a mio avviso, proprio la Stimmung, che potremmo interpretare anche noi come “motivo”, in cui l’assillo (thlípsis) che intona l’accoglimento dell’annuncio, del logos, l’esser-divenuti di Mit e Selbst, di tutti e di ciascuno, implica parimenti lo scaturire della gioia, quella «afflizione la quale pure permane, benché al tempo stesso sia viva una gioia (en thlípsei pollê metà charâs I Thess 1, 6)»128. Ancora un ossimoro che tiene insieme in un solo patire gioia e afflizione, in cui la ripresa dell’afflizione, quella Not, l’angustia, necessità né logica né naturale della vita, implica parimenti il farsi viva della gioia. In questo contesto emerge inoltre la cooriginarietà di sapere, accoglimento del logos e Stimmung, cooriginarietà che, non sembra azzardato sostenere, contiene in nuce la Gleich­ ursprünglichkeit tra comprensione, discorso e situazione emotiva e prefigura proprio la cooriginarietà di tutti gli esistenziali. Ai fini del nostro discorso è cruciale sottolineare proprio la co-

127. Sulla radicale coappartenza tra Mit e Selbst nell’annuncio paolino rispetto all’accentuazione della Selbstwelt nell’interpretazione heideggeriana del fenomeno della fatticità si veda la prospettiva teoretica di S. Bancalari, L’altro e l’esserci. il problema del “Mitsein” nel pensiero di Heidegger, Cedam, Padova 1999. Sul rapporto tra Selbstwelt e Mitwelt nei primi scritti heideggeriani, si veda G. Bruni, L’altro, gli altri, il sé. Il giovane Heidegger tra “quotidianità” e “autenticità”, in «Teoria», 17, 1999, pp. 105-117. 128. M. Heidegger, GA 60 p. 94.

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originarietà129 di tutte le determinazione della fatticità cristiana: il sapere dell’esser-divenuti connotato da quella Stimmung in cui nell’afflizione, nell’assillo (en thlípsei), vi è parimenti lo scaturire della gioia, è parimenti accoglimento dell’annuncio, del logos, ed è a sua volta inscindibile dal modo di comportarsi: il «lógon theoû – al tempo stesso genitivo oggettivo e soggettivo»130 implica cooriginariamente un paralambánein, un comportarsi: «avete accolto il come di una condotta di vita. Ciò che è accolto riguarda il come del comportarsi»131. Inoltre, accanto alla cooriginarietà di sapere, Stimmung, accoglimento del logos e comportarsi, emerge la dipendenza della coappartenza di wie e was dal contesto dell’attuazione (dass). Centrale è comprendere l’attuazione (dass) del riferimento (wie) dell’esperienza cristiana ai contesti di mondo, rispetto all’attuazione del riferimento della vita non cristiana, della vita di coloro che vanno perdendosi. Qui, assieme alla dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi emerge anche l’indissolubilità tra la co-incidenza (la loro indifferenza o in-differenza) tra wie e was e l’attuazione (dass) del riferimento della fatticità ai contesti di mondo. La dis-giunzione reietti/chiamati coincide con il suo accadere, con la sua attuazione (dass): la / che indica l’esser-ci, l’accadere della situazione fattizia, di volta in volta, qui e ora. Vediamo in che modo questa figura possa riformulare il senso della performatività e come la dis-giunzione chiamati / reietti sottenda una dimensione di senso che non solo non si situa nell’opposizione vero-falso ma riformula, grazie al ripensamento del senso della negazione, la correlazione intenzionale e con essa la dimensione espressiva del discorso fenomenologico, l’esser129. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., pp. 451 ss.. 130. M. Heidegger, GA 60 p. 94, trad. it. p. 135. 131. Ibidem.

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ci di verità e non verità, il “non” dell’agnoeîn. A tale scopo, poniamo innanzitutto in primo piano il “sapere” che appartiene all’esser-divenuta della fatticità, quel sapere che determina l’attuazione del riferimento ai contesti significativi di chi ha accolto l’annuncio, della vita che è salva, che è vita, la Bekümmerung dei sozómenoi rispetto agli apollýmenoi. L’intera questione non è per Paolo una questione di conoscenza. Egli non dice: “in tale giorno il Signore ritornerà”, e nemmeno: “non so quando Egli ritornerà”, bensì: “voi sapete in tutta certezza”. Deve trattarsi di un sapere peculiare, poiché Paolo rinvia i Tessalonicesi a se stessi e al sapere che hanno in quanto esser-divenuti. Da questo genere di risposta emerge anche che la questione riguarda la loro propria vita. Paolo pone dunque a confronto due diversi modi di vita (5,3: ótan légosin… e 5,4: umeîs de). Non si tratta però di una contrapposizione tra due diversi tipi. Incontreremo nuovamente una contrapposizione siffatta nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi.132

In primo luogo possiamo rilevare che la figura della dis-giunzione martella il testo, offrendo un altro vero e proprio “motivo”; essa è, in certo modo, la figura retorica che offre, nella sua ripetizione, un indizio cruciale per ripensare la dimensione di senso che appartiene alla Kundgabe: chiamati/reietti ­­uomo vecchio/uomo nuovo, chrónos/kairós sono tutte dis-giunzioni dal carattere peculiare. Possiamo poi rilevare che il sapere della parusía e dunque il “quando” del ritorno del messia già comparso non è una questione logico-conoscitiva. In questo contesto, come emerso esplicitamente anche rispetto alla dimensione veritativa del discorso paolino, non c’è alcuna alternativa tra vero o falso, non siamo dunque su un piano apofantico; parimenti, non è possibile pensare la dis-giunzione tra questi due “modi di vita” come alternativa tra due diverse

132. Ivi, p. 102-103, trad. it. p. 143.

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condotte. Il discorso di Paolo non rappresenta alcun contenuto significativo (was), alcuna Tatsache entro un enunciato apofantico. Alla domanda chi sono gli apollýmenoi rispetto ai sozómenoi Heidegger risponde in modo chiaro: «non si tratta […] affatto di una contrapposizione tra due diversi tipi»133. Su questa base, a mio avviso, è del tutto conseguente escludere, come sopra sottolineato, una comprensione di questi “due modi di vita” come possibilità determinate, cioè opzioni, scelte disponibili; potremmo dire: possibilità comprese entro una logica della Vorhandenheit, condotte di vita semplicemente presenti di fronte all’azione transitiva di un soggetto sovrano che sceglie, “attuando” una condotta di vita o l’altra come si trattasse di differenti codici di comportamento inerenti a una morale di carattere prescrittivo o, che è lo stesso, diversi “patterns di possibilità”, “panieri” di scelte. Si tratta inoltre di delimitare negativamente la “certezza” di questo sapere escludendo, da un lato, la certezza apodittica della sfera logicoformale husserliana, la Ordnung formale della Bewusstsein, il cui senso d’essere coincide con la soggettività del soggetto e assume i tratti del Cogito cartesiano; dall’altro, la verità del noeîn rivolto al sempre essente (aeí ón), all’asŷntheta aristotelico, dal momento che, in questo contesto, «l’intera struttura del concetto di parusía è diventata un’altra»134: essa non indica affatto – come sopra sottolineato – la “presenza” intesa nel concetto greco. In questo caso, l’accesso alla correlazione intenzionale, al Vollsinn del fenomeno, la sua parusía, coincide con il senso d’attuazione, con il compimento qui e ora del riferimento (nel duplice senso di realizzazione ed evento). Tuttavia, non solo il “quando della parusía” non è concepito «nel

133. Ibidem. 134. Ivi, p.102, trad. it. pp. 142-143.

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senso di un tempo “obiettivo” conforme all’atteggiamento»135, in cui la Einstellung si riferisce all’interruzione136 del riferimento vivente all’intero contesto – interruzione che caratterizza l’atteggiamento teoretico, obiettivo e oggettivo (tanto perciò delle scienze obiettive, quanto della scienza rigorosa husserliana); ma si tratta anche di ripensare il fenomeno e la sua totalità di senso, così come il senso dell’apriori, il “come”, la temporalità assunta come “indicazione formale” in quanto «ciò che diviene nel tempo»137, a partire dal modo in cui l’esperienza della vita esperisce il suo è, il suo era e il suo sarà, a partire dall’accadere, dal compiersi, di volta in volta, qui e ora, del riferimento ai contesti di mondo. Parimenti, tuttavia, Heidegger sottolinea anche che «qui non si intende neppure il tempo della vita fattizia nel senso del tempo decadente monotono non cristiano. Paolo non dice “quando” perché questa espressione è inadeguata a ciò che va espresso»138. Da un lato, l’aut/aut apollýmenoi/sozómenoi non può essere inteso in senso logico-disgiuntivo, poiché il “quando” non va compreso in termini obiettivi; dall’altro, però, «è insufficiente anche l’espressione del tempo fattizio, monotono, […] decadente»139. Come dovrà essere inteso allora il rapporto tra il chrónos, il tempo mondano, monotono, decadente, e il kairós, il tempo contratto della parusía? E, parimenti, in quale dimensione di senso si situa questa disgiunzione, questa contrapposizione tra tempo cristiano/tempo mondano, sapere/non sapere, chiamati/reietti se, come più volte sottolineato, non si tratta né di una contrapposizione tra diversi tipi, tra due condotte di vita nel senso della contrapposizione tra due differenti 135. Ivi, p. 102, trad. it. 143. 136. Ivi, p. 48, trad. it. p. 93. 137. Ivi, p. 64, trad. it. p. 56. [trad. mod.] 138. Ivi, p. 102, tr. it p. 143. 139. Ibidem.

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Ordnungen rappresentate entro un enunciato apofantico né, d’altra parte, di un’assenza di sapere, quell’agnoeîn che, come afferma lo stesso Heidegger nell’interpretazione dell’Etica aristotelica, in quanto «noûs […] non è una possibilità di essere dell’uomo»140? In questo contesto, infatti, il non conforme all’attuazione della vita di coloro che vanno perdendosi – il non sapere della parusía, il non aver accolto l’annuncio (ouk edéxanto) – non ha affatto il senso del nihil negativum, del non esser semplicemente presente. Ai fini del nostro discorso è cruciale sottolineare l’indissolubilità delle due dimensioni di espressione, di verità, di esperienza proprie della fatticità della vita che emergono nella dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi, due dimensioni che sono implicate in un abbraccio inestricabile e che non possono che darsi in questa dis-giunzione costitutiva. A queste due dimensioni, che sconfinano, potremmo dire, l’una nell’altra, appartengono cooriginariamente due “accenti”, due “toni”, due “posture”, entro le dimensioni cooriginarie di sapere, comportarsi, discorso e Stimmung, che si determinano a partire da quella stessa dis-giunzione di tempo cronologico e cairologico da cui sono intessute. La figura della dis-giunzione, dunque, coinvolge tutte le determinazioni della vita fattizia, prefigurando il rapporto proprio/improprio che permea tutti gli esistenziali di Sein und Zeit e la loro cooriginarietà. Vediamo nel testo come Heidegger interpreti la dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi. In primo luogo, il sapere circa il quando della parusía implica quello che viene definito «un sapere peculiare, poiché Paolo rinvia (weist die Thessalonicher auf sich selbst zurück) i Tessalonicesi a sé stessi e al sapere che hanno in quanto divenuti»141. Ciò che Paolo dice rispetto al quando verrà la parusía, dun140. M. Heidegger, Sophistes, GA 19, cit. p. 120, trad. it. p. 101. 141. M. Heidegger, GA 60 p. 103, trad. it. p. 143.

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que, non implica un sapere circa una determinazione obiettiva, e neppure circa un contenuto mondano significativo che appartiene a Um Mit e Selbstwelten, alle significatività proprie dei contesti di mondo (was, Gehaltsinn); ciò che Paolo dice rispetto al “quando” si esplica piuttosto in un rinviare ognuno a sé (auf sich selbst), al sapere di sé in quanto esser-divenuto. Ciò che Paolo esperisce, dice ed esprime – in cui è cruciale la cooriginarietà tra esperienza, espressione e comunicazione, dunque l’impossibilità di inserirle entro un ordinamento gerarchico – si diceva, il contenuto di questa Kundgabe (das kundgegebene) coincide con il riferimento (wie), con il rinvio (Verweisung) di ognuno a sé stesso, al proprio “che”, all’esserdivenuto. Qui si profila la dis-giunzione costitutiva tra l’attuazione del riferimento della vita di coloro che vanno perdendosi, in cui il “come” decade nel “cosa”, e l’attuazione del riferimento della vita che è salva, che è propriamente vita. Si faccia attenzione: otan légōsin (5,3): “quando dicono” cioè essi sono tali da dire qualcosa in merito. Eiréne kai aspháleia (5,3) “pace e sicurezza” nella vita fattizia: questa espressione costituisce il “come” del comportarsi nei confronti di ciò che incontro nella vita fattizia. Ciò che incontro nel mio comportamento legato al mondo non reca in sé alcun motivo che produca un effetto inquietante. Coloro che in questo mondo trovano pace e sicurezza sono coloro che si attaccano al mondo […]. “Pace e sicurezza” caratterizzano la modalità del riferimento di coloro che parlano così.142

Questa indicazione è cruciale per la riformulazione della figura del performativo che vogliamo disegnare. Nel tedesco si legge infatti: «Wenn Sie sagen: d.h. Sie sind solche, die überhaupt darauf kommen, etwas darüber zu sagen. […] Frie­de und Sicherheit charakterisiert die Weise des Bezugs

142. Ivi, p. 103, trad. it. p. 143-144.

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derer, die so reden»143. La dimensione di verità, di senso in cui si situano gli apollýmenoi è tale da implicare il “darüber sagen”. Se dicono: ovvero – commenta Heidegger – «essi sono tali da dire qualcosa in merito: sie sind solche, die überhaupt darauf kommen, etwas darüber zu sagen [corsivo mio]»144. L’etwas darüber sagen – la cui importanza è a mio avviso cruciale – se letto in lingua greca esprime proprio il lógos ti kata tinos, indica dunque quella dimensione di senso in cui si dice qualcosa di, su (kata) qualcosa, in cui cioè il detto (Gesagte), l’esperito, non si determina a partire dall’attuazione del riferimento a esso, a partire dalla “situazione”, dal modo in cui il detto, l’esperito (nicht-ichlich), dunque i contesti significativi di mondo (Mit-Selbst e Umwelten) sono di volta in volta avuti, ci sono (ovvero in base al modo in cui «l’egoico è e ha il non egoico»145, riprendendo la definizione formalmente indicante di situazione). La Bekümmerung (quella che diverrà die Sorge) non si fenomenizza a partire dal dass del riferimento (wie) ai contesti di mondo, bensì l’accento della fenomenizzazione cade sul Gehalt, sul Dictum, su ciò che si dice, su quel che è reso noto, sul contenuto significativo mondano: il Was predomina l’attuazione del riferimento indifferente a esso. In questo caso, l’attuazione (dass) del riferimento (wie) ai contesti di mondo (was) (non) si fenomenizza nel suo stesso accadere, bensì viene, per così dire, inghiottita in questo stesso accadere dal contenuto significativo esperito, dal “che cosa”. In questo caso il fenomeno si fenomenizza a partire dal “che cosa”. In altre parole: nella motilità di fenomenizzazione della totalità del fenomeno cade l’accento sulla significatività, sulla dimensione constativa, sul darüber sagen, sul was: così (non) si attua

143. Ibidem. 144. Ibidem. 145. Ivi, p. 92, trad. it. p. 130.

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(vollzugsmäßige-Nicht) il riferimento indifferente ai contesti di mondo. Di contro: «Per Paolo la vita non è un mero flusso di esperienze vissute, poiché essa è solo nella misura in cui egli ce l’ha. […] Il modo dell’“avere” della vita stessa, che fa parte dell’attuazione, aumenta ancora la necessità (thlípsis). Ogni proprio contesto di attuazione la aumenta»146. Qui assistiamo a un “cambiamento d’accento” entro la motilità di fenomenizzazione del fenomeno della vita fattizia: qui l’esperienza della vita si fenomenizza a partire dal “compimento” (dass) del “riferimento” (wie) ai contesti di mondo: «essa è solo nella misura in cui egli ce l’ha», a partire da quel «modo dell’avere la vita stessa che fa parte dell’attuazione e aumenta ancora la necessità», quella Not che traduce il greco thlípsis – l’angustia ­– insicurezza necessaria147, «né logica né naturale»148 – in cui consiste il sapere d’esser-divenuto cristiano149. In que-

146. Riportiamo il passo in originale: «das Leben ist für Paulus kein blößer Ablauf von Erlebnissen, es ist nur, sofern er es hat. […] Die Weise des “Habens” des Lebens selbst, die mit zum Vollzug des Lebens gehört, steigert noch die Not (thlípsis). Jeder eigentliche Vollzugszusammenhang steigert sie». Ivi, p. 100, trad. it. p. 140. 147. «Für das christliche Leben gibt es keine Sicherheit; […] Das Unsichere ist nicht zufällig, sondern notwendig. Diese Notwendigkeit ist keine logische oder naturnotwendige». Ivi, p. 105, trad. it. p. 146. 148. Ibidem. 149. Su questo punto riportiamo le parole di V. Vitiello che, nel quadro di una più ampia „rilettura” di Paolo «oltre la tradizione del cristianesimo storico» attira l’attenzione sulla radicale insecuritas della fatticità cristiana sottolineata nell’interpretazione heideggeriana delle lettere paoline: «Il tempo è dono: “per la vita cristiana non c’è alcuna sicurezza […] l’insicuro non è casuale, bensì necessario, e questa necessità non è né logica né naturale” (GA 60 p. 146). È la necessità delle tribolazioni che caratterizzano l’esperienza cristiana, sui cui tanto Paolo insiste». V. Vitiello, Paolo e L’Europa: l’incontro tra messaggio evangelico e filosofia, cit., p. 242. Anche Vitiello mette al

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sto caso, l’“accento” fenomenologico cade sull’attuarsi (dass) del riferimento indifferente ai contesti di mondo, il fenomeno cioè si fenomenizza a partire dalla totalità della “situazione”: Senza la fatticità cristiana sarebbero le significatività della vita a decidere e a modificare il contesto del riferimento. Qui però la direzione di senso della vita fattizia va nel senso opposto.150

È proprio questa inversione di senso, questa Gegenbewegung, questo cambiamento d’accento entro la motilità di fenomenizzazione del fenomeno a essere in questione. Ed è qui a emergere la dis-giunzione tra l’attesa della parusía conforme all’atteggiamento indifferente e decadente (Abfallende) di coloro che vanno perdendosi (Verworfenenwerdens) (apollýmenoi), dunque l’indifferenza del “come”, quella Einstellung che si situa in continuità con l’interruzione che caratterizza l’attuazione del riferimento proprio dell’atteggiamento teoreticooggettivante (la dimensione apofantica “cristallizzata”) e la

centro del ‘suo’ Paolo la thlípsis: «Nell’orizzontalità della storia mondana la fede che è ragione, la ragione che è fede, “avverte” phaticamente – en taîs thlípsesin – il Sacro. In che modo? Nel modo dell’“assenza”». Ivi, p. 240. Parimenti, tuttavia, sottolinea anche la sua distanza da Heidegger: «per lui centro di costituzione del tempo è il presente, il presente di Paolo, per me l’incontro degli altri. Non l’andare di Paolo incontro agli altri, bensì il venire gli altri incontro a Paolo nel ricevere la sua Parola. Qui l’esperienza della radicale insecuritas, infirmitas, della vita cristiana, qui l’esperienza effettiva, faktisch, della ágnoia». Ivi, p. 252. La centralità del presente, tuttavia, in base alla nostra lettura dell’interpretazione heideggeriana, non coincide con la centralità del presente di Paolo, bensì con l’accadere della Parola, che non è né di Paolo, né dei suoi, ma fa cenno all’impersonalità (es ruft, Infra cap. VI); l’insicurezza di Selbst e Mitwelt si radica dunque nella dis-giunzione Man/Es, ouk/(hos) mé. 150. Riportiamo anche questo passo in originale: «Ohne die christliche Faktizität würden die Bedeutsamkeiten des Lebens entscheiden und den Bezugszusammenhang modifizieren. Aber hier läuft die Sinnrichtung des faktischen Lebens entgegengesetzt». M. Heidegger, GA 60 p. 122, trad. it. p. 164.

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vita che è salva, che è propriamente vita, l’attesa cioè cristiana della parusía. L’attendere (anaméin) che caratterizza il riferimento (wie) ai contesti di mondo dei sozómenoi, rispetto all’attesa come atteggiamento decadente nei confronti di un evento futuro, in cui si almanacca «intorno alla questione se la venuta del Signora sia prossima»151 e il “quando” è inteso in termini mondani, come determinazione significativa di Mit- Um e Selbstwelten, prelude in modo molto chiaro alla distinzione tracciata in SundZ tra l’attesa della morte come evento futuro – possibilità determinata, «Erfahrungstatsache»152 in cui il senso della possibilità è pensato a partire dal reale, entro cioè una logica della Vorhandenheit – e il Vorlaufen come anticipazione, in cui il senso della possibilità implica certezza, imminenza, indeterminatezza, insuperabilità (Unbezüglichkeit), secondo il senso esistenziale, ovvero formalmente indicante153 , di morte. Inoltre, questa dimensione di senso implica cooriginariamente la Stimmung, tanto che è assolutamente impossibile separare discorso, comportamento e Stimmung. La fatticità della vita,

151. Ivi, p. 107, trad. it. p. 149. 152. M. Heidegger, GA 2 p. 341, trad. it. p. 308. 153. Il concetto di morte e il suo senso esistenziale costituisce un esempio particolarmente efficace, afferma Heidegger nel 1929-30, del carattere formalmente indicante di tutti i concetti fenomenologici, della necessità dunque di una Verwandlung in situazione per la loro comprensione, per il raggiungimento della loro dimensione veritativa: «Was mit diesem Grundcharakter der philosophischen Begriffe im Unterschied von allen wissenschaftlichen Begriffen gemeint ist, sei durch ein besonders aufdringliches Beispiel erläutert - am Problem des Todes, und zwar des menschlichen». M. Heidegger, GA 29-30 p. 425. Questo carattere trasformativo dei concetti esistenziali nel loro status di indicazioni formali è sottolineato nelle pagine successive: «Weil die Begriffe […] immer nur diesen Anspruch solcher Verwandlung ansprechen lassen, aber nie selbst die Verwandlung verursachen können, sind sie anzeigend». Ivi, p. 429.

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piuttosto, il senso pieno del fenomeno (Vollsinn), e dunque la sua dimensione veritativa, di senso, è essa stessa insieme un sapere, un discorrere e un comportarsi intonati ed è così che il fenomeno nella sua totalità di volta in volta si temporalizza, si fenomenizza, si attua. “Pace e sicurezza” – la Stimmung che intona il “sapere” della parusía degli apollýmenoi, coloro che vanno perdendosi, ovvero il sapere della fatticità della vita in cui il riferimento ai contesti di mondo è indifferente e decade nel “che cosa” – «caratterizzano la modalità del riferimento di coloro che parlano così»154. Il darüber sagen, cioè il dire qualcosa di e su qualcosa, l’enunciare mondano constativo in cui il “quando” della parusía viene strutturalmente frainteso e spacciato per un contenuto significativo implica cooriginariamente la tonalità emotiva, la Stimmung: “pace e sicurezza”. Modalità del discorso, sapere e Stimmung sono co-originari e si determinano a partire dalla stessa temporalità. Possiamo confrontare questo modo del discorso e il sapere che esso implica, il darüber sagen cooriginario al decadere del riferimento nel “che cosa”, con la modalità in cui si comprende «che cosa Paolo abbia da dire ai Tessalonicesi»155. In questo caso, assistiamo a un contraccolpo, a un cambiamento d’accento che, osservato entro una prospettiva che riconosce la logica apofantica come unica dimensione veritativa, espressiva, di senso, costituisce nient’altro che una vuota tautologia. Il discorso di Paolo, infatti, non dice nulla, non aggiunge nessun significato, nessun “contenuto” (was) a ciò che la fatticità della vita esperisce, proprio perché non dice nulla darüber, bensì intensifica, per così dire, il “dass” dell’indifferenza del riferimento a ciascun contenuto esperito. È qui che abbiamo a che fare insieme con la Umkehr

154. M. Heidegger, GA 60 p. 103, trad. it. p. 144. 155. Ivi, p. 100, trad. it. p. 141.

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della fatticità e parimenti con la dis-giunzione apollýmenoi/ sozómenoi. Nella dimensione di senso della Kundgabe paolina, come abbiamo sopra provato a mostrare, «ciò che egli dice e il come lo dice sono determinati dalla sua situazione […]. Il che cosa di ciò che è annunciato si determina in base al fatto che Paolo ora comunica qualcosa ai Tessalonicesi»156. Questa Kundgabe, questa dimensione espressiva, di senso, non si situa sul piano constativo mondano, potremmo dire: non dice nulla di e su (es sagt nichts darüber). È lo stesso lógos ti kata tinos, il darüber sagen, l’attuazione del riferimento decadente ai contesti mondani che cade nel dictum, nel “che cosa”, ovvero nel contenuto significativo espresso nel discorso, a subire un contraccolpo, un ritardo, a venire spezzato. In questo caso, infatti, ciò che il discorso dice e come si determinano dalla situazione: “che comunica ora loro qualcosa”. Qui si profila una dimensione veritativa, espressiva in cui il dictum, il “quando”, l’ora della parusía, è la stessa attuazione del riferimento del discorso a sé stesso, in situazione: Per il cristiano può essere decisivo solo il “tò nŷn” del contesto dell’attuazione in cui egli effettivamente si trova, non già l’attesa di un evento futuro.157

Parallela alla Kundgabe paolina è la stessa attuazione del riferimento ai contesti di mondo dei sozómenoi. In questo contesto, dunque, le “due” dimensioni di senso, quella constativa del discorso mondano (il darüber sagen) e quella performativa – in cui il Dictum (il quando della parusía) è lo stesso riferimento (wie) del discorso, della fatticità, della Stimmung, del comportamento a sé stessi, al loro cooriginario compimento (dass), ora: tò nŷn – sono inscindibili: la dimensione performativa dunque è caratterizzata dal fatto di determinarsi dagegen, 156. Ibidem. 157. Ivi, p. 114, trad. it. p. 156.

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di contro al piano constativo mondano e tuttavia (e questo è a mio avviso il punto cruciale) in esso. Se la dimensione propriamente performativa, infatti, potesse essere esperita soltanto in opposizione a quella constativa mondana impropria, non si ricadrebbe nello stesso circolo delle fondazioni in cui incappa l’operazione apofantica “S è P”, in cui la verità dell’intuizione, sebbene fondi quella assertiva, ne condivide parimenti la forma? Si avrebbe, infatti, una dimensione di senso fondante (qui rappresentata dalla dimensione “fattizia”, “performativa” o “ermeneutico esistenziale” e non più intuitiva, anschaunlich) che, tuttavia, potendo essere raggiunta solo in contrapposizione a quella constativo-apofantica, accetterebbe tacitamente i presupposti dettati dalla forma di quest’ultima, pensandosi in disgiunzione da essa. Si tratta, invece, di tenere insieme nella stessa esperienza della vita fattizia, nella totalità del fenomeno, il contro movimento, la Gegen-bewegung, il contraccolpo, la Umkehr della esperienza decadente e indifferente, il Gegen, in questa motilità di contraffazione che caratterizza la vita stessa: di pensare cioè la “Gegenbewegung della fatticità” nel duplice significato del genitivo: oggettivo e soggettivo. È cruciale, quindi, interpretare proprio il senso di questo Gegen: queste due dimensioni di senso non si oppongono l’una all’altra, presentandosi separatamente gegeneinander, come farebbero se si trattasse di una distinzione situata all’interno della sola logica constativa-apofantica (che prende di mira isolatamente il “che cosa” o rende il “come” – il riferimento – dato di contro alla Bewusstsein, suo oggetto; in entrambi i casi si tratta di un atteggiamento che scaturisce dalla stessa esperienza constativa mondana che, astratta dalla situazione fattizia del suo stesso aver luogo, qui e ora, tratta fuori dal modo in cui, di volta in volta, unicamente questa volta qui, il riferimento all’esperito, al significato, al detto si attua, e “cristallizzata”,

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assicura la stessa motilità di scadimento che intesse la fatticità della vita entro un atteggiamento ordinante, interrompendo l’attuazione (vollzugsmäßige-Nicht) del riferimento indifferente all’intero contesto vitale in cui la fatticità è ‘innanzitutto e per lo più’ situata, essendo assorbita nella significatività dei contesti mondani). Qui è in gioco l’indissolubilità tra la dimensione di verità, di senso, dell’esperienza constativa mondana, decadente, indifferente – che tende a cristallizzarsi in un logica apofantica e a recidere il contesto vitale della significatività a cui la Bekümmerung si rapporta indifferentemente – e la vita che è salva, che è “propriamente vita”, la dimensione performativa della fatticità dei sozómenoi. Qui, nel caso della domanda sul “quando” della parusía, l’elemento decisivo è “come” Paolo risponda, poiché soltanto in base a ciò si può giudicare quello che dice. Per la vita cristiana non c’è alcuna sicurezza. […] L’insicuro non è casuale, bensì necessario, e questa necessità non è né logica né naturale. Qui, per vederci chiaro, si deve riflettere sulla propria vita e sulla sua attuazione. Coloro “che dicono pace e sicurezza” si consacrano totalmente a ciò che la vita arreca loro, occupandosi di ogni compito della vita, quale che sia. Sono catturati da ciò che la vita offre, mentre, quanto al sapere di se stessi, sono nelle tenebre. I credenti, invece, sono figli della luce e del giorno. La risposta di Paolo alla domanda sul “quando” della parusía consiste dunque nell’esortazione a vegliare e a essere sobri. C’è qui una frecciata contro l’entusiasmo, la smania di almanaccare di coloro che, fiutando questioni come quella del “quando” della parusía, ci speculano sopra. Si preoccupano soltanto del “quando”, del “che cosa”, della determinazione obiettiva.158

158. Ivi, p. 105, trad. it. 146.

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È qui cruciale che l’attuazione del riferimento alle significatività dei contesti di mondo, dunque la motilità di fenomenizzazione del fenomeno, il suo Vollsinn, sia tutta schiacciata sul “che cosa”, sul senso di contenuto (Gehaltssinn), che ricorre e martella il testo: gli apollýmenoi, coloro che vanno perdendosi, la cui fatticità è un andare perdendosi, sono catturati «da ciò che la vita offre», «si preoccupano del “quando”, del che cosa»159. La dimensione constativa mondana, il darüber sagen, che è al contempo intonata da “pace e sicurezza” – «coloro che dicono pace e sicurezza: cioè sono tali da dire qualcosa in merito»160 – e che implica il non sapere di sé stessi (le tenebre) si dis-giunge dalla certezza del sapere di sé in quanto essere divenuti, la certezza del “dass” a cui ognuno è in quanto tale rinviato (i figli della luce e del giorno). In questo caso la Stimmung che si oppone, che sta gegen a “pace e sicurezza” emerge come insicurezza costitutiva e coincide, da un lato, con il vegliare e l’essere sobri, dall’altro con la Not (thlípsis) in cui è parimenti viva una gioia. È questa Stimmung a intonare l’attuazione del riferimento alle significatività dei contesti di mondo che caratterizza i sozómenoi rispetto agli apollýmenoi. Se tuttavia non è possibile opporre entro il piano della logica disgiuntiva apofantica il rapporto tra apollýmenoi e sozómenoi e dunque la dimensione constativa mondana e quella performativa, proprio perché quest’ultima implica uno scarto, un ritardo, un contraccolpo rispetto alla dimensione mondana impropria e in essa e non si situa affatto quindi entro il contesto di senso che implica la disgiunzione logica “cristallizzata”, non è parimenti neppure possibile interpretare il rapporto tra “pace e sicurezza” e “vigili e sobri” come se si trattasse di sta159. Ibidem. 160. Ibidem.

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ti d’animo contrapposti, identificare cioè la Stimmung con il Gefühlzustand – lo “stato d’animo” – opponendo Stimmungen originarie a Stimmungen non-originarie. È a mio avviso cruciale mettere l’accento sul fatto che, essendo in questione la dimensione espressiva, di senso, di verità sottesa al discorso religioso, nel suo aspetto indicativo formale, cioè formalmente indicato, e parimenti la dimensione di senso, di verità, della fatticità della vita (e dunque della fenomenologia), essendo in questione un altro senso di dis-giunzione che non coincide con la disgiunzione logico-apofantica, bensì indica la / che, separandoli, unisce ciò che viene esperito (was) nel compiersi (dass) / del riferimento (wie) a esso, è necessario pensare tutte queste dis-giunzioni, dunque anche quelle che coinvolgono le Stimmungen, escludendo la possibilità di inserirle entro un tale paradigma “apofantico”: pace e sicurezza/gioia e afflizione non possono essere comprese come differenti “disposizioni d’animo”, “sentimenti”, “stati interni”, “emozioni”: i primi “autentici”, i secondi “inautentici”. Il punto decisivo in cui il senso di questa dis-giunzione può essere sciolto, mostrando l’indissolubilità tra il piano constativo-mondano e quello performativo, e che permette anche di ridisegnare la stessa figura della performatività, ovvero la struttura dell’autoriferimento, del rinvio (wie) a sé, al “che” della fatticità della vita, la stessa attuazione del riferimento della vita di coloro che vanno perdendosi rispetto a coloro che sono salvi, è l’hos mé paolino e il doppio senso di negazione che in esso emerge. Prima di occuparcene, è necessario analizzare parallelamente le determinazioni finora emerse e le dimensioni temporali da cui sono intessute, la struttura della temporalità che Heidegger in questo contesto elabora e che, come del resto è stato

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ampiamente mostrato dalla letteratura critica161, contiene in nuce la temporalità estatica che comparirà in Sein und Zeit. Risuona ben più di una assonanza tra l’interpretazione heideggeriana dell’attesa paolina della parusía, il riferimento (wie) che caratterizza i sozómenoi, e il Vorlaufen, l’anticipazione dell’essere-per-la morte, così come verrà delineato in Sein und Zeit: A tutta prima si potrebbe pensare che il comportamento fondamentale nei confronti della parusía sia un attendere e che la speranza (elpís) cristiana ne sia un caso speciale. Questo però è falsissimo! Mediante la semplice analisi di un evento futuro non giungeremo mai al senso del riferimento della parusía. La struttura della speranza cristiana, che in realtà è il senso del riferimento nei confronti della parusía, è radicalmente diversa da ogni attesa.162

Parimenti, in Sein und Zeit, è proprio in relazione all’attendere un evento futuro, possibilità determinata e realizzabile, che il Vorlaufen come motilità di riferimento al “senso della

161. In particolare sulla centralità dell’interpretazione fenomenologica delle lettere paoline per l’elaborazione dell’ermeneutica heideggeriana si vedano: G. Ruff, Am Ursprung der Zeit, Studie zur Martin Heideggers phänomenologischem Zugang zur christlichen Religion in den ersten “Freiburger Vorlesungen”, Duncker & Humblot, Berlin 1997, pp. 53-59. Sull’interpretazione delle testimonianze della vita cristiana come «spunto decisivo per una filosofia che si configura sempre più decisamente come ontologia», A. Fabris, Ermeneutica della fatticità, cit., p. 90. Sul rapporto tra la critica alla nozione metafisica di soggetto e la temporalità elaborata nel confronto con Paolo: D. Thomä, Die Zeit des Selbst und die Zeit danach: Zur Kritik der Textgeschichte Martin Heideggers 1910-1976, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1990, pp. 153-161. Sulla temporalità paolina e il suo rapporto con il pensiero dell’Ereignis: S. Gorgone, Il tempo che viene: Martin Heidegger, dal kairós all’Ereignism, Guida, Napoli 2005, in particolare sull’appropriazione fenomenologica della temporalità paolina si vedano pp. 46-76. 162. Ivi, p. 102, trad. it. p. 143.

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possibilità” – certo, imminente, indeterminato, insuperabile, più proprio – viene guadagnato: Un modo in cui l’esserci si rapporta a un possibile nella sua possibilità è l’attesa. […] Ma l’analisi del fenomeno dell’attesa non riguarda lo stesso modo d’essere rispetto al possibile che fu già connotato come mirare a qualcosa prendendosene cura? Ogni attesa comprende e “ha” il suo possibile in relazione al “se”, al “quando” e al “come” esso sarà realmente presente [corsivo mio]. L’attendere non è soltanto un distacco momentaneo dal possibile per guardare alla sua realizzazione possibile, ma essenzialmente è un essere attento a essa. Anche nell’attendere hanno luogo un allontanamento dal possibile e un far leva sul reale da cui ci si attende ciò che è atteso. Muovendo dal reale e tendendo a esso, il possibile è risolto nel reale che ci si attende.163 [corsivo mio].

L’avere a che fare con le cose è un attendersi qualcosa per: questo significa che l’attuazione della modalità – il “fatto” (dass) del riferimento (wie) – si temporalizza risolvendosi in ciò a cui si riferisce. Dimenticare (Vergessen), attendere (Warten) presentare (Gegenwärtigen) – la motilità di temporalizzazione impropria che intesse il fenomeno Cura – non sono affatto dunque comportamenti “inautentici” di un soggetto nel tempo, non si tratta di descrizioni ontiche o, che è lo stesso, di asserzioni constativo-apofantiche sulla esperienza della vita pre-compresa come “dato di fatto” (Tatsache); bensì vanno intese come “indicazioni formali”, “proposizioni ermeneutiche”, “esistenziali”, “enunciati ontologici”: segnali che indicano la trama invisibile che intesse ogni comportamento ontico, qui e ora! Anzeige che rimandano, indicano al farsi fenomeno del fenomeno, al suo temporalizzarsi (die zeit zeitigt). È a partire da qui che può esser compreso il senso di espressioni come

163. M. Heidegger, GA 2 p. 347-348, trad. it. p. 313.

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“l’esserci esiste” o la “fatticità della vita esperisce”, così come il rapporto tra temporalità propria e impropria. L’attenzione al “se”, al “quando”, e al “come” “ciò che è atteso” si realizzerà implica che il modo in cui l’attendere si rapporta al possibile «è risolto nel reale che ci si attende»164. Nell’attendere tanto la parusía quanto la morte come eventi futuri l’accento fenomenologico non cade sull’attuazione del riferimento, della “modalità”, sul senso della possibilità, sull’Adventum, bensì il riferimento, temporalizzandosi nell’attender(si) (warten) qualcosa, si risolve nel “come” e “quando” ciò che è atteso si presenterà. La motilità temporale che, “scadendo”, intesse l’attuazione della modalità o, in Sein und Zeit, il senso della possibilità più propria, indeterminata, certa, insuperabile, da cui l’esserci fugge, rifugiandosi nella significatività e dimenticando questa sua stessa motilità di fuga, si temporalizza a partire da ciò che è atteso, da ciò che si presenta. Per usare i termini primo-friburghesi, in questa fenomenizzazione del fenomeno l’accento non cade sulla modalità in cui riferimento (wie) è avuto, si attua (dass), bensì su ciò (was) a cui il riferimento mira. A questo proposito, l’interpretazione heideggeriana della distinzione tra l’attesa di un evento futuro e la speranza cristiana è molto eloquente: Lo sperare sta nel contesto dell’attuazione della vita cristiana. Così la Seconda lettera ai Tessalonicesi risulta facilmente comprensibile, nonostante alcune difficoltà. Rispetto alla prima lettera la situazione è mutata in questo senso: la frase “il giorno del signore giunge come un ladro nella notte” è intesa da alcuni nel modo giusto (quieta speranza), da altri in modo sbagliato.165

164. Ibidem. 165. M. Heidegger, GA 60 p. 112, trad. it. pp. 153-154.

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«Costoro almanaccano intorno alla questione, se la venuta del Signore sia prossima»166. Quest’ultima affermazione, assunta in modo indicativo formale, presa dunque come indicazione del contesto di senso, della totalità del fenomeno, ovvero del modo in cui l’esperienza della vita fattizia si attua (non riguardata perciò né nel suo contenuto teologico e escatologico, né entro il contesto di esperienza della fede) restituisce la struttura fenomenologica dell’attesa descritta in SundZ, in cui l’attendere è un «essere attento alla realizzazione di ciò che è atteso»167: «Gli uni abbandonano il lavoro, se ne stanno in ozio e chiacchierano, perché lo attendono ogni giorno»168, «coloro che, fiutando questioni come quella del quando della parusía […] si preoccupano soltanto del “quando”, del “che cosa”»169. […] «Mentre gli altri devono essere disperati perché la necessità si intensifica»170. È cruciale che, tanto nell’interpretazione delle Lettere paoline quanto in Sein und Zeit, il riferimento alla parusía (la speranza cristiana) e il riferimento alla morte (anticipazione) vengano guadagnati in e di contro all’attendere. In questo contesto emerge la prima figura in cui si delinea la dis-giunzione proprio/improprio: l’attendere decadente un evento futuro, il riferimento che scade sempre di nuovo nel “quando” verrà, nella quidditas della significatività cronologica, fuggendo via da sé stesso, “dimenticando il proprio sé”, dimenticando la certezza del rinvio a sé, al proprio “che”, si disgiunge dalla speranza cristiana in cui «il modo in cui la parusía sta nella mia vita rinvia all’attuazione della vita stessa»171, alla sua quodditas. Così il tempo cronologico mondano, la dimen166. Ivi, p. 107, trad. it. p. 149. 167. M. Heidegger, GA 2 p. 347-348, trad. it. p. 313 168. M. Heidegger, GA 60 p. 112, trad. it. p. 154. 169. Ivi, p. 105, trad. it. p. 146. 170. Ivi, p. 112, trad. it. 154. 171. Ivi, p. 104, trad. it. p. 144-145.

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sione constativa, si dis-giunge dalla dimensione performativa, cairologica. È qui che l’interpretazione fenomenologica della Kundgabe paolina può confrontarsi fino in fondo con l’enunciato formalmente indicante che fa da guida all’esplicazione: «l’esperienza cristiana vive il tempo stesso (transitivo)»172. Tra l’esser-divenuta della fatticità cristiana nell’attesa della parusía – l’attuazione del riferimento all’esperito che caratterizza i sozómenoi – e il vollzugsmäßige-Nicht che connota l’esperienza della vita degli apollýmenoi, l’esperienza della vita che è un andare perdendosi, un «non [corsivo mio] avere sé stessi, un aver dimenticato il proprio sé»173 non vi è alcuna opposizione apofantica. Il senso di questa dis-giunzione, di questo entweder/oder e dunque il rapporto proprio/improprio così come la stessa struttura del riferimento a sé della esperienza della vita può essere compreso solo a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos : «Zeit und Augenblick. perí tôn chrónon kaì tôn kairôn, usati sempre insieme»174. Si tratta di uno Sprachgebrauch che appartiene alla dimensione di senso di questa Kundgabe, e che non è “affatto casuale”, come sottolinea Heidegger a più riprese. Riportiamo per intero il passo a partire da cui questa figura può essere sciolta: Qui l’elemento dominante è costituito dal confronto fra comportamenti fondamentali della vita pratica: sozómenoi e apollýmenoi, che non significa “reietti”, bensì “l’essere nello stato del divenire reietti”. Il participium praesentis al posto del participium perfecti pone l’accento sull’attuazione ancora perdurante. Si tratta di un assumere che è un estremo decider-si (sich-entscheiden). L’ouk déchesthai ha un significato positivo in quanto esclude che si debba conoscere. Nel déche-

172. Ibidem. 173. Ivi, p. 103, trad. it. p. 144. 174. Ivi, p. 102, trad. it. p. 143.

200 sthai si fondano dunque tanto lo edénai quanto il dokimázein […] Il déchesthai agápen (l’amore in quanto attuazione) aletheías intende un contesto dell’attuazione che rende idonei a dokimázein il divino. Solo in base a tale dokimázein il sapiente intuisce il grande pericolo che minaccia l’uomo religioso: colui che non ha assunto l’attuazione non è per nulla in grado di vedere l’Anticristo che fa la sua comparsa sotto le sembianze del divino […], sicché ne diventa schiavo senza nemmeno accorgersene. Questo pericolo si rivela solo all’uomo di fede, e proprio contro il credente è diretta l’apparizione dell’Anticristo, che costituisce una prova per il sapiente.175

In primo luogo è necessario chiarire in che modo Heidegger interpreti all’interno della Kundgabe paolina il richiamo alla comparsa dell’anticristo. In base al contenuto della Seconda Lettera ai Tessalonicesi, infatti, Paolo sembrerebbe rassicurare le comunità, comunicando che prima della parusía vi sarà la comparsa dell’anticristo. Contro questa interpretazione del “contenuto” delle lettere, in cui il riferimento di Paolo alla sua comunità si attuerebbe nel tranquillizzare e parimenti nel tranquillizzarsi (in base alla coappartenenza sopra rilevata tra Mit e Selbst, tale che l’attuazione del riferimento ai contesti di mondo pervade la fatticità di tutti e di ciascuno, di Paolo e dei suoi) parla, secondo l’interpretazione fenomenologica heideggeriana, la pleroforia che pervade lo stile della lettera: Il passo è stato interpretato così: Paolo ci ha ripensato, ha mitigato la sua dottrina, non insegna più l’imminenza della parusía, è diventato più prudente e vuole tranquillizzare la gente. Contro questa lettura però parla l’intero tenore, l’intera modalità espressiva della seconda lettera, che non contiene alcuna attenuazione, bensì un’accresciuta tensione, anche nelle singole espressioni. Tutta la lettera è ancora più angustiante della prima, e non comunica un ripensamento, bensì una accresciuta tensione. I Tessalonicesi vanno richiamati a 175. Ivi, p. 113, trad. it pp. 154-155.

201 se stessi. Lo stile sovraccarico dell’espressione di Paolo può essere compreso solo da questo punto di vista: ovunque, nella lettera, sono accentuati proprio i contesti dell’attuazione della vita effettiva.176

La Verkündigung, quel modo del discorso, di espressione, che è la Kundgabe paolina, non si situa nella dimensione espressiva della sfera constativa mondana: annunciare la comparsa dell’anticristo prima dell’“ora” della parusía non significa enunciare ciò che precederà il farsi presente della parusía come evento futuro, bensì l’annuncio di questo prôton intensifica l’Adventum, la sua dimensione “imminente”: il tò nŷn, di volta in volta, qui e ora, dell’attuazione della vita effettiva. “Dire: prima”, in questo contesto, significa indicare la necessità dell’imminenza, il riferimento della vita a sé, al suo “che”, ora (perí tôn chrónon kaì tôn kairôn). È così che il passato, per usare la celebre espressione di Sein und Zeit, “scaturisce in certo modo dall’avvenire”. “Prima”, in questa dimensione di senso, di verità, in questa modalità del discorso (di cui sono cooriginari comportarsi-sapere-e-Stimmung) rimanda a un’intensificazione della necessità dell’imminenza della parusía. In questo contesto, dunque, il prôton non esprime ciò che precede un evento futuro, non enuncia qualcosa che sarà stata prima che la parusía sarà, bensì indica al “sarà stato” di questo tempo-momento: tò nŷn, ora. “Dire: prima” significa richiamare ciascuno a sé stesso, rinviare (wie) la vita al “che” del suo esser-divenuta, intensificando l’angustia dell’imminenza della parusía. «In questo caso, dunque, il “prima” (das “Zuvor”) è intensificazione della suprema necessità. Perciò Paolo dice soltanto: state saldi e conservate le tradizioni di cui avete esperienza»177. 176. Ivi, p. 108, trad. it. p. 149. 177. Ivi, p. 115, trad. it. p. 157.

202 Nella cosiddetta Apocalisse è contenuto l’elemento decisivo: la posizione decisiva è caratterizzata dall’ouk edéxanto (non aver accolto l’annuncio)178 […]. In base alla capacità di riconoscere l’anticristo si decide chi è veramente cristiano. L’evento, che deve giungere prima (corsivo mio) della parusía, è quindi, secondo il suo senso del riferimento, qualcosa che riguarda gli uomini […]. Alla comparsa improvvisa dell’anticristo ciascuno deve decidersi, e anche il non curante […] si decide per il fatto stesso di essere tale. Chi rimane indeciso si è già posto fuori dal contesto dell’attuazione della necessità dell’attesa, unendosi agli apollýmenoi.179

L’indecisione, il non riconoscere l’anticristo che fa la sua comparsa nei panni del divino, il non discernere l’inganno dell’anticristo in quanto tale implica la stessa motilità di caduta, di Abfallen nella significatività mondana che connota il non esserci dell’attuazione del riferimento ai contesti di mondo degli apollýmenoi, chi non ha accolto (ouk edéxanto) la Kungabe paolina, il “non conforme all’attuazione” della vita che va perdendosi e che è inghiottita nella dimensione constativa mondana, nel “was”, «senza neppure accorgersene»180. È dunque il riferimento all’anticristo a decidere la dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi e a determinare quella che, nell’interpretazione delle Lettere, si presenta come una Hinwendung, una vera e propria Umwandlung e che, sul piano indicativo formale, cioè fenomenologico, rimanda al movimento di inversione, alla Gegenbewegung, al contraccolpo esistentivo che conduce la fenomenologia fino a sé. È necessario chiarire sin da subito come si debba intendere l’annuncio dell’anticristo per comprendere il ruolo cruciale che esso gioca all’interno della interpretazione fenomenologica della Kundgabe paolina:

178. Ivi, p. 109, trad. it. pp. 150-151. 179. Ivi, p. 110, trad. it., p. 151-152. 180. Ivi, p. 113, trad. it., p. 155.

203 Non ci si deve attenere all’immagine secondo cui Paolo parla di “Satana”. […] La questione primaria non è speculare e interrogarsi se il diavolo ci sia e cosa sia bensì comprendere come [corsivi miei] esso sia presente e agisca nella via di Paolo: Satana ostacola di continuo l’opera di Paolo, aumentando la sua angustia.181

Ancora una volta compare la distinzione tra un darüber sagen, un parlare di Satana, una dimensione constativa, in cui Satana viene compreso come un contenuto significativo mondano (was, Gehaltsinn), in cui si chiede “se il diavolo ci sia e cosa sia”, e una dimensione performativa in cui l’antikeímenos – «ciò che si pone contro il divino»182 - è il modo in cui, di volta in volta, qui e ora, la vita è riferita a sé stessa, al suo “che”, nella modalità dell’ostacolar(si), del contro di sé. Il discorso “su” Satana non dice nulla darüber, l’antikeímenos cioè non è alcun contenuto significativo mondano, ma indica il modo in cui, qui e ora, la vita è riferita sé stessa, al suo “che”. In questo senso il “discorso su” Satana implica una dimensione di senso strutturalmente performativa: “dire Satana” significa indicare, qui e ora, al riferimento della fatticità (e dunque del discorso, del sapere, del comportarsi intonato) a sé stessa, al suo “che”. Qui c’è un indizio davvero cruciale per mettersi sulle tracce della costitutiva motilità di contraffazione della fatticità, il suo Abfallen nella significatività, e parimenti per comprendere quello che diverrà un esistenziale fondamentale in Sein und Zeit, il Verfallen, cooriginario a Befindlichkeit e Verstehen, la motilità di fuga da sé che apre l’essere-nel mondo nel modo della chiusura. In questo contesto, infatti, la vita è riferita

181. Ivi, pp. 98-99, trad. it., p. 139. 182. Ivi, p. 113, trad. it., p. 155.

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(wie) a sé, al proprio “che” (dass), nella modalità “intenzionale” dell’ostacolarsi: l’antikeímenos – in quanto ciò «ciò che si pone contro [corsivo mio] il divino»183 – è il modo in cui, di volta in volta, qui e ora, la vita è riferita a sé stessa, al suo “che”, nella modalità del contro di sé. In tal modo si delinea più chiaramente il rapporto tra il “prima” della comparsa dell’anticristo e l’“ora” della parusía. Si tratta di un’intensificazione dell’angustia, la necessità né logica né naturale che connota l’attuazione del riferimento al mondo della vita che è salva, che è propriamente vita, intensificazione che si esplica in un essere in grado di riconoscere ciò che si pone contro al divino. È il discernimento (dokimázein) di questo “ostacolo”, di questo “contro” ad essere primario. Nella Hinwendung verso Dio, infatti, dunque nel rinvio a sé, al proprio “che” della vita che è salva è cruciale non tanto il «volgersi via dagli idoli», bensì «il volgersi verso Dio»184. Questo epistréphein tuttavia si esplica nel discernimento (dokimázein) «di ciò che si pone contro» di lui (antikeímenos). È così che si attua la Umwandlung, la Umwendung che conduce la fenomenologia fino a sé: «Alla comparsa dell’anticristo ciascuno deve decidersi, e anche il non curante si decide, per il fatto stesso di essere tale»185. […] «Il senso dell’annuncio dell’anticristo è il seguente: bisogna riconoscere l’anticristo come tale»186.

183. Ibidem. 184. «Es handelt sich um eine absolute Umwendung, näher um eine Hinwendung zu Gott und eine Wegwendung von den Götzenbildern». Ivi, p. 95, trad. it. p. 135 e ancora: «Die Hinwendung zu Gott ist primär». Ivi, p. 97, trad. it. p. 137. 185. Ivi, p. 110, trad. it. p. 151. 186. Ibidem.

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Qui, a mio avviso, sono contenuti tutti gli elementi fondanti della fenomenologia heideggeriana e della sua dimensione di espressione, di verità, di senso. Il rapporto proprio/improprio, l’a sé (auf hin) di chi ha accolto l’annuncio e il via da sé (auf sich weg)187 di chi non ha accolto (potremmo dire, usando i termini dell’analitica esistenziale, il rapporto proprio e improprio, la dis-giunzione che lega il fenomeno e il suo contro concetto, Gegenbegriff188) sono implicati in un abbraccio complesso, che non si esaurisce nei due poli dell’“a sé” e del “via da sé”. L’a sé non è l’opposto, il contrario, del via da sé, bensì il costitutivo movimento del via da sé che emerge in quanto tale, la sua intensificazione. Non c’è dunque un “a sé” senza e prima del costitutivo movimento di contraffazione, del rovinio (ruinans) della vita, del suo Abfallen, bensì solo il farsi, il temporalizzarsi (die zeit zeitigt), il contraffarsi, per così dire, che emerge qui ora nella sconnessione del “contraffatto”, in quel ritardo che “passa” per l’attuazione del riferimento ai contesti di mondo in cui la fatticità è, di volta, in volta, assorbita. L’esser riferita a sé della vita che è salva, che è propriamente vita, cioè il rinvio (wie) al “che” (dass) della sua fatticità, la sua struttura performativa, si esplica infatti nel riconoscimento dell’inganno dell’anticristo in quanto tale, del “contro”, del via da sé costitutivo che, riprendendo le parole di Sein und Zeit, «nasconde sé stesso»189. «L’attesa deve essere già tale che, mediante la fede, l’inganno dell’anticristo sia riconosciuto come inganno»190. E ancora: 187. Ivi, p. 147, trad. it., p. 193. 188. M. Heidegger, GA 2, p. 48, trad. it. p. 51. 189. Ivi, p. 237, trad. it. p. 218. 190. M. Heidegger, GA 60 p. 115, trad. it. p. 157.

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«l’antikeímenos – ovvero “colui che si pone contro al divino” – egli è nemico dell’uomo di fede, benché compaia anch’esso nella forma del divino. Il diventare manifesto è tale soltanto per colui che ha la possibilità di distinguere. I reietti credono alla menzogna»191. E poco più avanti: «l’attesa deve essere già tale che […] l’inganno dell’anticristo sia riconosciuto come inganno»192. Infatti, «colui che non ha assunto l’attuazione non è per nulla in grado di vedere l’anticristo che fa la sua comparsa sotto le sembianze del divino, sicchè ne diventa schiavo senza neppure accorgersene»193. L’Hinwendung, lo Zurückspringen che conduce la fenomenologia fino a sé, e dunque la struttura dell’autoriferimento della vita a sé stessa, al suo “che”, avviene per contraccolpo: nel balzar fuori del “contro” di essa, in quel ritardo, quella sconnessione del farsi fenomeno del fenomeno, che accade, qui e ora, nel suo fenomenizzarsi scadendo: «il mistero del peccato è già all’opera ed è questo l’elemento decisivo. Il peccato è mistero tanto quanto la fede»194. Questo intreccio complica la figura della dis-giunzione, il rapporto tra «a sé (auf hin) e via da sé (von weg)»195, proprio e improprio, kairós e chrónos, e ristruttura lo stesso senso dell’autoriferimento e così la stessa struttura performativa che 191. Ivi, pp. 113-114, trad. it. pp. 155-156. 192. Ivi, GA 60 p. 115, trad. it., p. 157. 193. Ivi, p. 113, trad. it. p. 155. 194. Ivi, p. 109, trad. it. p. 151. 195. Ivi, p. 147, trad. it. p. 193. «Selbstwelt lebt “von weg” und “auf hin”». Qui si profila il rapporto tra a sé e via da sé che si rivelerà cruciale per ripensare il performativo “standard” inscritto nel carattere autotelico della práxis aristotelica, per ridisegnare cioè il rapporto tra il carattere autotelico della práxis e quello eterotelico della póiesis entro l’interpretazione heideggeriana del VI Libro dell’Etica nicomachea e così pensare la performatività negativa inscritta nella dimensione di senso della prassi fenomenologica.

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appartiene all’esperienza fattizia della vita e dunque alla fenomenologia. Il decidersi implica il riconoscimento di ciò che si pone contro al divino, l’inganno dell’anticristo in quanto tale, potremmo dire, il riconoscimento della contraffazione, del feticismo, del costitutivo via da sé, dal suo “che”, della fatticità. Per questo «il non aver accolto l’annuncio (ouk edéxanto) non è né un nihil privativum né un nihil negativum, bensì ha il senso del non conforme all’attuazione. Il non conforme all’attuazione non è né un rifiuto dell’attuazione, né un porsi al di fuori di essa. Il non indica la posizione del contesto dell’attuazione nei confronti del riferimento da esso stesso motivato. Il senso dell’ouk può essere chiarito solo in base al contesto storico. […] Il déchesthai senza ouk non ha alcuna relazione»196. Senza l’inganno dell’anticristo che è, «secondo il suo senso del riferimento, qualcosa che riguarda gli uomini»197, senza dunque il non-conforme all’attuazione della vita di coloro che sono un andare di volta in volta perdendosi e “non” hanno accolto l’annuncio, bensì almanaccano su quando “verrà”, assorbiti nella dimensione constativa mondana, non c’è zoé, poiché quest’ultima è possibile soltanto nel riconoscimento dell’inganno in quanto tale, nell’emergere di ciò che si pone contro, di questo “non”. Questa riflessione contenuta in Sein und Zeit restituisce, a mio avviso, proprio questo intreccio: il carattere estatico dell’avvenire originario sta proprio nel chiudere il poter-essere cioè nell’essere esso stesso chiuso e nel rendere quindi possibile, come tale, la decisa comprensione esistentiva della nullità.198

196. Ivi, p. 109, trad. it. p. 151. 197. Ivi, p. 110, trad. it. p. 152. 198. M. Heidegger, GA 2 p. 437, trad. it., p. 391.

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A partire da qui si può comprendere quale sia l’attuazione del riferimento ai contesti di mondo dei sozómenoi, della vita che è propriamente vita, rispetto all’attuazione del riferimento della vita che è un andare perdendosi, il senso della dis-giunzione proprio/improprio apollýmenoi/sozómenoi. Le significatività della vita rimangono, ma nasce un nuovo comportamento. […] L’effettiva esperienza cristiana della vita è determinata storicamente dal fatto di nascere con la predicazione, la quale coglie l’uomo in un dato momento e poi vive costantemente e simultaneamente nell’attuazione della vita. […] Con tutta la sua originarietà, la fatticità protocristiana non è né straordinaria né particolare. Per quanto assoluta possa essere la trasformazione dell’attuazione, riguardo alla fatticità mondana tutto rimane come prima. L’accentuazione (die Akzentuierung) della vita cristiana è conforme all’attuazione.199

È proprio un cambiamento di accento, un’accentazione che è al contempo un’intensificazione, il contraccolpo (zurückspringen) che conduce la fenomenologia fino a sé. La fatticità riferita a sé, al suo che, al suo costitutivo ostacolarsi, la dimensione performativa della vita dei sozómenoi, infatti, non implica alcuna separazione, alcuna ascesi rispetto ai contesti mondani: «il cristiano non esce fuori dal mondo»200. Ciò significa che non si tratta affatto di eliminare la dimensione constativa, il costitutivo scadere del “come” nel “cosa”, non dunque di trasporsi in un’altra dimensione di verità, bensì di aprire l’unica dimensione di senso possibile, quella in cui la fatticità è già sempre assorbita, alla sua strutturale chiusura, al “non conforme all’attuazione” del riferimento ai contesti di mondo:

199. M. Heidegger, GA 60 p. 116-117, trad. it. p. 159. 200. Ivi, pp. 118-119, trad. it. p. 161.

209 Ciò che viene trasformato non è il senso del riferimento, né tanto meno ciò che attiene al contenuto. […] Le direzioni di senso che mirano al mondo-ambiente, all’attività svolta e a ciò che si è (mondo del sé) non determinano in alcun modo la fatticità del cristiano, eppure ci sono, vengono mantenute e solo così attribuite in senso proprio.201

Riportiamo il passo della lettera ai Corinzi che Heidegger interpreta per mettere a tema il rapporto tra il chrónos e il kairós, in cui emerge finalmente in senso del tò nŷn in cui vive costantemente la fatticità che è riferita a sé, al suo “che”, e dunque il senso della struttura performativa della fatticità e, parallelamente, della fenomenologia. È nell’hos mé paolino infatti a profilarsi quel doppio senso di negazione in cui il “contro”, il “via da sé”, il “non conforme all’attuazione” emerge nel suo “non” e così viene ripreso – per contraccolpo – nel “mé” della fatticità della vita che è salva, che è propriamente vita: tò nŷn, adesso, in questo tempo momento: Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve (kairòs synestalménos); d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se (hos mé) non possedessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo. (1 Cor, 7, 29-32)

kairòs synestalménos, resta soltanto poco tempo. Questa contrazione, questo tempo contratto – kairós – è «“l’ancora soltanto” (das Nur-noch) che accresce l’angustia»202. Si tratta di una “temporalità concentrata”. Il riferimento della vita a sé, al suo “che”, della vita che è salva, rispetto alla vita di coloro che vanno perdendosi e “non” hanno accolto l’annuncio viene 201. Ibidem. 202. Ivi, p. 119, trad. it. p. 162.

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messo a tema nell’esplicazione dell’hos mé. L’attuazione del riferimento ai contesti di mondo che è lo stesso “accadere” /, la dis/giunzione kairós/chrónos sozómenoi/apollýmenoi subisce, nella fatticità cristiana, un ritardo, che “passa” per il contesto d’attuazione. L’esser-divenuta della fatticità, cioè il rinvio, il riferimento, nell’attesa imminente della parusía, della vita a sé, al suo “che” si situa nel contesto dell’attuazione: Per quanto sia radicale la trasformazione, qualcosa rimane. Come va inteso questo rimanere (ménein)? […] Questi riferimenti al mondo-ambiente non ricevono il loro senso dalla significatività del contenuto cui mirano, bensì, al contrario, è in base all’attuazione originaria che si determinano il riferimento e il senso della significatività vissuta. In termini schematici: qualcosa rimane invariato, eppure viene radicalmente trasformato.203

La zoé – come sopra citato – non è né straordinaria né particolare. Il contraccolpo che conduce la vita sé, al suo “che”, in questo tempo-momento, non riguarda né il senso di riferimento (wie) ai contesti di mondo, né i significati mondani (was). Per questo, «i rapporti stabiliti da Paolo vanno intesi in termini non etici. Perciò Nietzsche sbaglia quando gli rimprovera il ressentiment, che non rientra affatto in questa sfera. In tale contesto non si può assolutamente parlare di ressentiment»204. Senza poter analizzare questo punto, si tratta adesso di indagare l’hos mé paolino e il doppio senso di negazione che in esso emerge, che non solo risulta cruciale per il senso di negazione che appartiene al fenomeno – e allo stesso senso intenzionale di un comportamento aporetico come quello fenomenologico: “il lasciar/far mostrare ciò che si mostra da sé” – ma riformula la stessa struttura della performatività, lo stesso (auto)rife-

203. Ivi, p. 118, trad. it. p. 161. 204. Ivi, p. 120, trad. it. p. 162.

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rimento della vita a sé, al suo “che”, preparandone, per così dire, il rovesciamento. L’inversione verso l’esperienza cristiana della vita riguarda l’attuazione. Per evidenziare il senso del riferimento dell’esperienza fattizia della vita si deve prestare attenzione al fatto che essa è resa “più difficile”, attuandosi “en thlípsesis”.205

Questa thlípsis è proprio l’intensificazione che si inscrive nell’essere della fatticità cristiana, nell’attuazione (dass) di tutti i riferimenti della fatticità ai contesti di mondo: quel contraccolpo in cui, nel sopraggiungere di un nuovo senso temporale (os), si riprende (Rückbeziehung) nel “mé” il “non” conforme all’attuazione della vita di coloro che vanno perdendosi: Die Christen sollen solche sein, dass diejenigen, die eine Frau haben, sie so haben, dass sie sie nicht haben. […] Das christliche Leben ist nicht geradlinig, sondern ist gebrochen.206

L’indifferenza del riferimento (wie) decadente ai contesti di mondo, il feticismo della fatticità, “tutti i riferimenti” (Alle die Bezüge), dunque tutti i rapporti relativi al mondo del sé, al mondo comune e al mondo ambiente, esperiscono (erfahren) di volta in volta (jeweilig) un ritardo (eine Retardierung), una rottura: «Alle die Bezüge erfahren jeweilig beim Vollzug eine Retardierung»207. Nell’essere indifferente dei riferimenti fattizi si inscrive il “dass”: così emerge l’in-differenza del riferimento rispetto a ciò a cui esso si riferisce, la dis-giunzione / tra cosa/ come. Per questo, da una prospettiva fenomenologica, a fronte di questa struttura performativa che pervade la dimensione espressiva, di senso, di verità della fatticità, tradurre l’hos mé con “come se” non è corretto: «Il “come se” esprime un contesto obiettivo e spinge a ritenere che il cristiano dovrebbe 205. Ivi, p. 121, trad. it. p. 164. 206. Ivi, p. 119-120, trad. it. p. 162. [corsivi nel testo] 207. Ivi, p. 120, trad. it. p. 162.

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escludere i riferimenti al mondo ambiente. In termini positivi lo hos significa un nuovo senso che sopraggiunge. Il mé riguarda il contesto dell’attuazione della vita cristiana»208. Qui vi è un doppio senso di negazione, che è cruciale per definire quale sia l’attuazione del riferimento ai contesti di mondo, della vita che è propriamente vita e della vita che va perdendosi. La zoé infatti, l’attuazione del riferimenti della vita che è salva, non è altro che l’emergere del “contro”, del costitutivo via da sé, del “non” conforme all’attuazione (vollzugsmäßige-Nicht) della fatticità che è un andare perdendosi, nel sopraggiungere del kairós – «hos: un nuovo senso temporale»209. Per questo il “me” può esser definito una “Rückbeziehung con l’attuazione stessa” e non implica affatto una negazione logica: «sta scritto hos mé non ou. Il mé indica la tendenza a ciò che è conforme all’attuazione. Mé ha la relazione riflessiva (Rückbeziehung) con l’attuazione stessa».210 Il “come non” dell’attuazione del riferimento al mondo della vita che è salva non è altro che l’emergere del “non” conforme all’attuazione della vita che va perdendosi, in quel contraccolpo, quel ritardo (hos, kairós) in cui questo “non” si riconosce – si “avverte” – nel “mé” (non). Molto significativo, in tal senso, è il fatto che Heidegger delimiti proprio qui il senso della negazione, individuando un significato del “non” (ouk edéxanto) che non coincide né con un nihil privativum né con un nihil negativum. Il senso di questa negazione è fondamentale sia per il rovescio del performativo che vogliamo disegnare, sia per dar conto del senso di quella “grammatica formalmente indicante” in cui il sostantivo viene trasposto nella forma di un verbo, per comprendere, dunque, il senso degli enunciati fenomenologici, i quali segnalano, in-

208. Ibidem. 209. Ivi, p. 121, trad. it., p. 164. 210. Ibidem.

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dicano, l’attuazione, qui e ora, del riferimento della vita a sé, al suo “che”. In conclusione, possiamo dunque sottolineare che la fatticità, la sua dimensione di verità è costitutivamente performativa: implica infatti la co-incidenza di ciò a cui il discorso – e cooriginariamente il sapere e comportarsi intonati – si riferiscono (il loro contenuto) e il riferimento (wie) di questi ultimi a sé stessi, al loro “aver luogo” (dass), ora, quel tempo cronologico sconnesso, abbreviato che è il kairós – il “ritardo”, il “contraccolpo” del chrónos.

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Capitolo terzo Con-aversi: il negativo fotografico del Cogito

§1. Il rovescio performativo del «Cogito (ergo) sum» (note su performatività e indicazione formale) Vorrei accennare alla possibilità di usare metodicamente ogni esperienza (dunque ogni discorso, sapere, comportarsi e Stimmung, in base alla loro cooriginarietà) radicalizzandone la dimensione performativa, ovvero distogliendo l’attenzione dal suo contenuto (Was, Gehaltssinn), non ascoltando ciò che vuol dire, e prestando orecchio piuttosto alla situazione fattizia a cui indica, alla totalità del fenomeno cui fa segno: al modo in cui il riferimento (wie) al detto, all’esperito, al significato, si attua, c’è, ed è riferito a sé, a questo “che” (dass), qui e ora, in questo tempo momento. Questo “esercizio” è cruciale per interpretare alla luce della figura della performatività la dimensione di senso del discorso e della prassi fenomenologica, quell’«uso metodico di un senso nel suo significato più generale»1 che è la formale Anzeige, il «Weder-Noch»2 – né metodo né determinazione – attorno a

1. M. Heidegger, GA 60 p. 55, trad. it. 90. 2. Ivi, 91, trad. it. pp. 130-131.

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cui ruota la dimensione di senso, di verità della fenomenologia, esplicitamente in tutti i primi scritti friburghesi, implicitamente fino a Sein und Zeit e oltre. Come si legge nel corso del semestre invernale del 1929-1930: In ognuno di questi concetti – morte, decisione, storia, esistenza – è insita l’esigenza di questa trasformazione (Verwandlung), e non già come applicazione a posteriori, cosiddetta etica, di quanto è stato afferrato concettualmente, bensì come anticipante dischiudere la dimensione di quanto è afferrabile. Poiché i concetti, se ottenuti in modo vero, interpellano sempre e soltanto con la richiesta di una trasformazione, ma non possono provocare essi stessi la trasformazione, si limitano ad indicare in direzione dell’interno dell’esser-ci. Ma l’esser-ci – come lo intendo io – è sempre il mio. Poiché tali concetti, in questa indicazione, indicano sì in direzione di una concrezione del singolo esser-ci nell’uomo, ma non la portano con sé come loro contenuto, sono formalmente indicanti.3

Sebbene tematicamente scompaia dagli scritti heideggeriani – fatta eccezione per alcune rare ma significative occorrenze4 3. M. Heidegger, GA29/30 p. 428-429, trad. it. p. 378. 4. In particolare l’indicazione formale viene impiegata in SundZ in riferimento all’esistenza. Nel §9 ad esempio viene indicato il concetto formale di esistenza: «Dasein ist Seiedens, das sich in seinem Sein verstehend zu diesem Sein verhält. Damit ist der formale Begriff von Existenz angezeigt». E ancora: «l’indicazione formale dell’idea di esistenza era guidata dalla comprensione dell’essere implicita nell’essere stesso». M. Heidegger, GA 2 p. 153, trad. it. p. 372. Segnaliamo inoltre le altre occorrenze del termine in Sein und Zeit: GA 2: p. 153; p. 116; p. 237; p. 415, p. 417. Nel corso del 1929-30 sopracitato il termine formale Anzeige e il carattere formalmente indicante di tutti i concetti filosofici viene sottolineato a più riprese. Paradigmatica in tal senso è questa affermazione: «Dazu ist eine Besinnung auf den durchgängigen Charakter der philosophischen Begriffe notwendig, daß sie alle formal anzeigend sind. Sie sind anzeigend, darin ist gesagt: Der Bedeutungsgehalt dieser Begriffe meint und sagt nicht direkt das, worauf er sich bezieht, er gibt nur eine Anzeige, einen Hinweis darauf, daß der

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– la formale Anzeige risalta in quel che nella prassi fenomenologica si fa e non si dice o, meglio, in quel che si fa con e in questo stesso dire5, il discorso proprio della prassi fenomenologico ermeneutica, presentandosi in tal modo intimamente Verstehende von diesem Begriffszusammenhang aufgefordert ist, eine Verwandlung seiner selbst in das Dasein zu vollziehen». M. Heidegger, GA 29-30 p. 430, trad. it. pp. 379-380. 5. Sulla presenza implicita della formale Anzeige e sul suo aspetto pragmatico, che risalta cioè in quel si fa nell’esercizio fenomenologico, il contributo di Kisiel, che individua nella formale Anzeige la vera e propria Geheimwaffe della fenomenologia heideggeriana: T. Kisiel, Die formale Anzeige als Schlüssel zu Heideggers Logik der philosophischen Begriffsbildung, in A. Denker, H. Zaborowski (Hrsg.), Heidegger und die Logik, Rodopi, New York 2006, pp. 49-64; dello stesso autore, si vedano anche le osservazioni in merito al rapporto tra l’es gibt neokantiano e l’es weltet, la prima “indicazione formale”: The Genesis of Heidegger’s Being and Time, cit., p. 592; si veda anche: O. Pöggeler, “Heidegger Logische Untersuchungen”, in Martin Heidegger. Innen und Aussenansichten, cit., pp. 75-100. Inoltre, segnaliamo l’interessante studio di Th. C.W. Oudemans, Heideggers logische Untersuchungen, «Heidegger Studies», 6, 1990, pp. 85-105. Secondo quest’ultimo il senso dell’indicazione formale nelle lezioni friburghesi e in quelle marburghesi è radicalmente differente rispetto all’uso della formale Anzeige in Sein und Zeit (la cui presenza viene esplicitata dall’autore in maniera molto convincente). Secondo O., questa differenza decisiva riguarda lo status dell’autenticità: «Er betrifft den Status der Eigentlichkeit. Die Freiburger Vorlesungen können die Möglichkeit eines eigentlichen Sein-können außerhalb der Ruinanz nicht zulassen – Eigentlichkeit ist Steigerung der Ruinanz. In Sein und Zeit gibt es Stellen, die den Anschein erwecken, als könnte eine Position der Eigentlichkeit außerhalb der Uneigentlichkeit sein (SundZ, p. 263)». Ivi, p. 101. Non siamo d’accordo con questa lettura; piuttosto, una volta rintracciato il ruolo dell’indicazione formale anche all’interno di Sein und Zeit e dunque la necessità di una trasformazione esistentiva immanente che tutti gli esistenziali, in quanto formalmente indicanti, implicano per essere compresi, a venire esclusa è precipuamente la possibilità di una “autenticità” fuori dall’inautentico. In tal senso, a mio avviso, va intesa la stessa ontologia in quanto fenomenologia. Molto interessante invece è la tesi in base alla quale l’indifferenza inscritta nella Durchschnittlichkeit e l’Alltäglichkeit costituiscano il terreno della formale Anzeige. D. O. Dahlstrom, Heideggers Concept of Truth, cit., pp. 231-255 e 433 e ss.; J. Van Buren, The

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connessa a una dimensione pragmatica e performativa. Proviamo a smorzare i toni, a diradare l’aura affabulatoria del linguaggio heideggeriano, usando qui e ora l’indicazione formale. Beninteso, non si tratta affatto di negare che il “tono” dell’espressione heideggeriana sia questione cruciale e complessa; al contrario, è possibile ravvisare in esso una vera e propria contraddizione performativa6, tema rilevante anche per noi dunque, ma che, tuttavia, non affrontiamo, poiché preferiamo rivolgerci alla proposizione della modernità per eccellenza, esercitandoci sul “Cogito” cartesiano, per poi presentare questo stesso esercizio in riferimento al discorso quotidiano, riprendendo il lavoro di Thomas Rentsch, che ha ‘tradotto’ i sincategoremi heideggeriani in giochi linguistici determinati, dando conto, in una vera e propria «existenzial Grammatik», della circolarità ermeneutica, ripensando l’a priori a partire dal suo carattere perfekto come «Grundsituation»7. ethics of formale Anzeige, «American Catholic philosophical Quarterly», 64, 1999, pp. 157-170. 6. Sul rapporto tra il senso metodico della Stimmung e il “tono” del discorso heideggeriano l’interessante contributo di A. Granberg, Mood and Method in Heidegger’s Sein und Zeit, in «Contribution to Phenomenology», 49, 2003, pp. 91-113. 7. «Jedoch behaupten wir, dass solche Stilprobleme weitgehend durch bestimmte Umformulierungen vermieden werden können. So zum Beispiel lässt sich das Reden von einem „Um-zu“ und „Da-zu“ im vorigen Zitat aus Sein und Zeit unschwer so auflösen, dass wir auf umgangssprachliche Redeweisen mit solchen Bestandteilen zurückgehen, etwa „Ich brauche die Schreibmaschine dazu, um dieses Kapitel zu schreiben“. Dadurch, dass Heidegger solche Substantivierung vornimmt, um Phänomene des Lebens hervorzuheben, wird aber andererseits besonders deutlich, dass solche Phänomene die faktischen Möglichkeitsbedingungen ihrer Beschreibung sind. Heidegger gibt dieser Zirkularität eine transzendental(-anthropologische) Deutung. Gerade die explizite terminologische Thematisierung solcher faktischen Möglichkeitsbedingungen gestattet uns, ein methodisches Verständnis von Heideggers transzendentalem Anspruch zu gewinnen. Grundunterscheidungen wie die von „Kategorien“ und „Existentialen“ sind

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Ritorniamo all’esercizio. Come del resto ogni altro comportamento, l’esercizio va compiuto in prima persona, qui e ora. Deve essere compiuto in prima persona qui e ora? «E perché deve?»8, riprendendo la domanda di Sini. Non si deve compiere questo determinato esercizio, si può anche non compierlo, così come se ne può compiere un altro; tuttavia, in ogni esercizio che viene compiuto o rimane incompiuto (nel senso transitivo del verbo), quel che in questo esercizio si fa, il suo farsi (nel senso intransitivo e riflessivo della forma verbale) funge, per così dire, da sottotesto. Il “dovere” quindi, in questo contesto, non è un “tono morale” ma il non poter non fare come si fa (intransitivo). Del resto, anche gli enunciati husserliani possono essere compresi solo se i correlati d’essenza vengono (ri)visti. E con ciò non si vuole dire che “devono” essere rivisti, ma che in ogni visione non si può non vederli. Qui, tuttavia, alla visione in presa diretta husserliana, si sostituisce, per così dire, la post-sincronizzazione: un discorso che usa il “significato”, il contenuto d’esperienza, il “detto”, come indicazione formale, come cioè un segnale, un’indicazione al contesto di senso, alla totalità della situazione: «al modo in cui l’egoico» – chi vive, esperisce, sa, parla, sente, ascolta – «ha il

methodische Möglichkeitsbedingungen der Anthropologie; sie lassen sich sprachlich verdeutlichen in den Unterscheidungen der Anthropologie; explizit also, oder, wie Heidegger sagt: existential, und sie lassen sich andererseits sprachlich verdeutlichen an den Unterscheidungen der alltäglichen Rede, der Umgangssprache. Der transzendentale Konstitutionsgedanke bei Heidegger ist sehr wohl auch sprachphilosophisch orientiert. Mit Bezug auf seinen Phänomenbegriff heisst das: Der Phänomensbereich (hier: das menschlichen Leben) ist bereits sprachlich gegeben. Bestimmte existentielle Formen (Lebensformen) artikulieren sich immer schon in bestimmten Unterscheidungen der Sprache. Die transzendentale Phänomenologie der menschlichen Situation muss sprachphilosophisch fundiert sein». T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., pp. 164-165. 8. C. Sini, Scrivere in fenomeno, cit., p. 124.

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non-egoico»9, si riferisce cioè alla significatività e, parimenti, riferendosi a essa, è rimandato a sé, a questo “che” (dass), al contesto dunque dell’esperienza, alla totalità, di volta in volta, della sua situazione (in base alla distinzione secondo cui «l’egoico è e ha il non egoico il non egoico, è solo e non ha»10). È proprio questo Sich-mit-haben, che compare anche nella interpretazione indicativo-formale del Cogito cartesiano, questo “con-aversi”, il senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali. È questo peculiare autoriferimento11 (che non coincide con il carattere riflessivo della Bewusstsein) ciò che distingue l’è della predicazione apofantica dal senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali, dall’io sono, tu sei, egli è, noi siamo, voi siete, essi sono: l’esistenza12. Non a caso, in Sein und Zeit, è la stessa struttura fenomenologica dell’autoriferimento, «il ne va di»13, Existenz, a comparire esplicitamente come «indicazione formale»14 – altra rara ma cruciale occorrenza esplicita del termine. 9. M. Heidegger, GA 60 p. 193, trad. it. p. 131. 10. Ibidem. 11. L’intento di chiarire il senso d’essere del sum che compare nel Cogito cartesiano è, del resto, com’è noto, esplicitamente affermato in Sein und Zeit: «Cartesio, a cui si attribuisce con la scoperta del Cogito sum l’avvio della problematica filosofica moderna, indagò entro certi limiti il cogitare dell’ego. Per contro lasciò indiscusso il sum […] L’analitica pone il problema ontologico dell’essere del sum». M. Heidegger, GA 2 p. 61, trad. it. p. 65. 12. Su questo le pagine a cui abbiamo fatto già riferimento, in particolare M. Heidegger, GA 60 pp. 96 ss., trad. it. pp. 193 ss. 13. Come si legge nel §9 di Sein und Zeit «L’essere di cui ne va per questo ente nel suo essere è sempre mio. […] Il discorso rivolto all’esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”». M. Heidegger, GA 2 p. 57, trad. it. p. 61 14. Riportiamo il passo per intero: «Da ciò la tesi: la sostanza dell’uomo è l’esistenza. […]Ma anche questa idea, formale ed esistentivamente non obbligatoria, porta già con sé un “contenuto” ontologico determinato, sebbene

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Ritorniamo all’esercizio; com’è noto, ogni richiamo a Cartesio ha come bersaglio indiretto la fenomenologia husserliana. Senza poter analizzare, in questa sede, il complesso rapporto tra Cartesio, Husserl e Heidegger15 rispetto al senso e al menon chiarito, il quale, al pari dell’idea di realtà che si contrappone a esso, “presuppone” un’idea dell’essere in generale. Soltanto entro l’orizzonte di tale idea può aver luogo la distinzione di esistenza e realtà. Ambedue infatti significano essere. […] Con l’idea di esistenza si è forse stabilita una premessa dalla quale, poi, avvalendosi delle regole formali dell’inferenza, si dedurrebbero conseguenze intorno all’essere dell’esserci? O invece questo presupporre ha il carattere del progettare comprendente, cosicché l’interpretazione che elabora questa comprensione cede finalmente la parola proprio all’ente che deve essere interpretato, affinché esso, in base a sé stesso, decida se, in quanto è tale ente, possiede o no quella costituzione ontologica in conformità alla quale esso fu aperto nel progetto mediante un’indicazione formale?». M. Heidegger, GA 2 p. 417, trad. it. pp. 373-374. 15. Su questo tema, si veda in particolare il lavoro di J-L. Marion, L’ego et le Dasein. Heidegger et la ‘‘destruction’’ de Descartes dans Sein und Zeit, in «Revue de Metaphysique et de Morale», 92, 1988, pp. 25–53. Secondo Marion non si tratta affatto di rifiutare la questione del “soggetto” bensì di ripensarla radicalmente entro il Dasein. Segnaliamo anche il recente contributo di De Biase che ricostruisce il dialogo implicito ed esplicito di Heidegger con Descartes in tutti i primi scritti friburghesi e la critica indiretta alla fenomenologia husserliana: R. De Biase, L’interpretazione heideggeriana di Descartes: origini e problemi. Guida, Napoli 2005. Alla Vorlesung marburghese del 1923-1924 Einfühung in die phänomenologische Forschung (GA 17) sono dedicate in particolare le pp. 50-100 del suddetto studio. Sul rapporto tra Heidegger e Descartes in questa Vorlesung si veda anche: V. Vetter, Heideggers Descartes-Kritik in den ersten Marburger Vorlesungen, in Jürgen Trinks (Hrsg.) Bewußtsein und Unbewußtes, Turia +Kant, Wien 2000, pp. 179-195. Una ricostruzione dettagliata del confronto di Heidegger con Descartes in SundZ è offerta da H. L. Dreyfus, In-der-Welt-sein und Weltlichkeit : Heideggers Kritik des Cartesianismus (§§ 19-24), in Thomas Rentsch (Hrsg.), Martin Heidegger, Sein und Zeit, Akademie Verlag, Berlin 2001, pp. 69-87. Segnaliamo inoltre il recente lavoro di J. F. Courtine che rintraccia i motivi agostiniani che animano il primo confronto di Heidegger con Cartesio, in particolare gli scritti primo-friburghesi e la lezione marburghese a cui ci stiamo riferendo (GA17); secondo Courtine è la “Quaestio mihi factus sum” agostiniana a guidare la domanda sul “sum” entro il

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todo della fenomenologia, voglio solo accennare al fatto che, nel corso del semestre invernale del 1923-1924 dedicato a una Einfühung in die phänomenologische Forschung (GA 17)16, l’indagine passa in rassegna l’andamento del dubbio metodico cartesiano – in particolare la via della remotio – per poi analizzare il processo husserliano delle riduzioni. È in questo contesto a venir considerato lo stesso principio (Satz) del Cogito come “indicazione formale”. Questo breve accenno è sufficiente a presentare lo sfondo in cui il rovescio indicativo formale del Cogito viene discusso. È in questione la possibilità di considerare la proposizione, il principio chiave della modernità a partire da un cambiamento d’accento, radicalizzandone la struttura costitutivamente performativa. Il senso del principio cui approda il dubbio metodico non viene confutato direttamente, ricorrendo all’introduzione di un principio sostitutivo, bensì si fa risaltare il sottotesto di questo principio in quanto tale, intendendo la proposizione indirettamente. Si tratta di usare l’espressione lasciandosi rimandare da essa al contesto di senso a cui indica, seguendo le tracce del suo stesso aver luogo, qui e ora: L’esplicazione fenomenologica non mira isolatamente, esclusivamente e prioritariamente al contenuto, bensì ai riferimenti e alle attuazioni, che sono sì leggibili in base ai contenuti (in ogni forma temporalmente determinata), ma a loro volta

cogito cartesiano e la critica heideggeriana alla soggettività metafisica: J.F Courtine, Les Méditations cartésiennes de Martin Heidegger, in «Les Études Philosophiques», 88, 2009, pp. 103-115. Infine, si veda anche il recente contributo di Shockey che fornisce una buona sintesi del dibattito in lingua inglese intorno al rapporto tra Cartesio e Heidegger: R. M. Shockey, Heidegger’s Descartes and Heidegger’s Cartesianism, in «European Journal of Philosophy», Vol. 20 Issue 2, 2012, pp. 285-311. 16. M. Heidegger, Einfühung in die phänomenologische Forschung, Klostermann, GA 17, Frankfurt a. M. 1994, al confronto con Cartesio sono dedicate in particolare le pp. 247-275.

223 non posso essere conservati in un eterno arsenale a priori, giacché ricevono il senso piuttosto dall’appropriazione della loro stessa esistenza effettiva!17

La stessa proposizione (Satz), in quanto forma temporalmente determinata, può dunque da “principio ontologico formale” (formaler Grundsatz) rovesciarsi in una formale Anzeige. Vediamo come. (In questo contesto è in gioco il senso e la struttura dell’autoriferimento, quel Selbstbezug che «successivamente è stato determinato come Selbstbewusstsein»18). Innanzitutto è necessario porre l’accento sul Sich-mit-haben, Grundbestimmung del me cogitare, fenomeno che, a detta di Heidegger, sebbene sia scorto da Cartesio, non solo non viene tematizzato esplicitamente ma, poiché nelle Meditazioni il Cogito assume il senso del fundamentum certum simplex et inconcussum, punto di partenza di ogni deduzione, il senso d’essere del me cogitare – il «con-aversi» – viene, letteralmente, «rovesciato (verkehrt)»19. Prima di occuparci di questo “rovesciamento”, controcanto cruciale del movimento di inversione, di Umkehr che conduce la fenomenologia fino a sé – quel carattere di rimbalzo che è emerso anche nella dimensione di senso della Kundgabe paolina – è opportuno soffermarsi più da vicino sul fenomeno del Sich-mit-haben come determinazione fondamentale d’essere del me cogitare. Secondo l’interpretazione di Heidegger, su questo punto, Cartesio si esprime alla fine della Seconda Meditazione: Fieri enim potest ut hoc quod video non vere sit cera; fieri potest ut ne quidem oculos habeam quibus quidquam videatur; sed fieri plane non potest, cum videam, sive (quod jam non distinguo) cum cogitem me videre, ut ego ipse cogitans

17. M. Heidegger, GA 60 p. 136, trad. it. p. 181. 18. M. Heidegger, GA 17 p. 249. 19. Ivi, p. 250.

224 non aliquid sim. Ché può darsi che quella cera che vedo in verità non esista, può anche darsi che io non abbia neppure occhi con cui vedere alcunché, ma quel che sicuramente non può darsi è che, allorché io vedo, o penso di vedere, qualcosa (due cose, vedere e pensare di vedere, fra cui ora non faccio distinzione), non esista proprio io che penso così.20

Così Heidegger commenta il passo: Qui viene identificato il cum videam con il cum me videre cogitem. Descartes considera questa relazione nel modo seguente: [...] sentire significa cogitare me sentire, cogitare significa cogitare me cogitare. Ciò mostra che Descartes comprende preventivamente il cogitare nel modo seguente: un peculiare essere che è nel modo d’essere del “come” del con-aversi (Sich-mit-habens), che essendo nel suo “come” allo stesso tempo si ha. In questa determinazione fondamentale viene co-implicato un fenomeno che Descartes non fissa esplicitamente. Cogito non significa semplicemente: io constato qualcosa che pensa, bensì è un cogitare proprio grazie al fatto che io stesso con ho questo ente. Più tardi è stata contraddistinta questa determinazione come Selbstbewusstsein, come coscienza interna, che accompagna ogni atto di coscienza. Ma vediamo senza bisogno di andare oltre che già parlare di accompagnare (begleiten) non coglie come stanno propriamente le cose. L’essere del Cogitare è un con-aversi. Proprio perché all’essere del cogitare appartiene in un modo peculiare l’essere con-avuto da sé stesso Descartes può dire: is qui cogitat, non potest existere dum cogitat.21

20. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. e intr. di S. Landucci, con testo a fronte, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 55. 21. M. Heidegger, GA 17 p. 249. Il testo non è disponibile nella traduzione italiana. Riporto qui questo passo fondamentale nella versione originale: «Die Entscheidung gibt Descartes am Schluss der zweiten Meditation. […] Hier wird gleichgestellt: cum videam gleich cum me videre cogitem. Descartes sieht den Zusammenhang so: jam non, jetzt nicht, wo es mir darauf ankommt, das videre in die res cogitans zu versetzen, sentire gleich cogita-

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Qui emerge la determinazione fondamentale dell’“avere un rapporto con sé stesso”, indicato nel Sich-mit-haben (conaversi). Il Cogitare, inteso a partire dal contesto di senso a cui tale comportamento, cioè l’esperire, il proferire “chi cogita, non può non esistere mentre cogita” indica, ha come determinazione fondamentale proprio questo con-aversi, questo essere in rapporto con se stessi, riferimento che, a sua volta, è avuto sempre in un modo determinato. Il comportamento, il proferimento, l’esperienza: “ego Cogito, ego existo” implica cioè il riferimento a sé stessa, al suo “che”, e questo che, di volta in volta, si con-ha. «Il senso d’essere del me cogitare è un essere peculiare che è nel modo d’essere nel come del con-aversi. (Das ist in der Weise des Seins im Wie des Sichmit-habens)»22. Qui compare per ben due volte il “come”, la modalità: il con-aversi, l’esser riferito a sé del cogitare, l’essere del me cogitare, la sua relazione riflessiva è a sua volta sempre attuata in un certo “modo”. Non solo il cogitare ha come determinazione fondamentale d’essere un essere-in-rapportocon (il con-aversi, l’essere in rapporto a sé, l’esser riferiti a sé), ma questo autoriferimento si concretizza sempre in un certo modo, si attua sempre in un certa modalità: re me sentire, cogitare gleich cogitare me cogitare. Es zeigt sich also, daß Descartes im vorhinein das cogitare so faßt: ein eigentümliches Sein, das ist in der Weise des Seins im Wie des Sich-mit-habens, das seiend in seiner Art zugleich sich mithat. In dieser Grundbestimmung liegt ein Phänomen mitbeschlossen, das Descartes nicht ausdrücklich fixiert. Cogito heißt nicht einfach: ich stelle etwas fest, was denkt, sondern es ist ein cogitare, so zwar, daß ich selbst dieses Seiende mithabe. Später hat man diese Bestimmung als Selbstbewußtsein, als inneres Bewußtsein bezeichnet, das jeden Bewußtseinsakt begleitet. Sie sehen aber ohne weiteres, daß schon die Rede vom Begleiten den eigentlichen Tatbestand nicht trifft. Das Sein des cogitare ist ein Sich-mit-haben. Gerade weil es zum Sein des cogitare gehört, in eigentümlicher Weise von sich selbst mitgehabt zu werden, kann Descartes so sprechen: Is qui cogitat, non potest non existere dum cogitat». 22. Ibidem.

226 In questa determinazione fondamentale è compreso un fenomeno che Descartes non fissa esplicitamente. […] L’essere del cogitare è un con-aversi. Proprio perché all’essere del cogitare appartiene l’essere con-avuto da sé stesso in un modo peculiare, Descartes può parlare così: is qui cogitat, non potest non existere dum cogitat.23

Ciò non toglie che Descartes non solo non tematizzi questo fenomeno, ma che sia guidato nella sua meditazione, nell’esercizio del dubbio metodico, da una pre-comprensione della verità come certezza in cui accade il passaggio dal senso della verità come “manifestazione” al senso della verità come Ordo, Satz, principio: Si tenga a mente che nell’esercizio del dubbio metodico Descartes si attiene fin dal principio a un contesto determinato. Egli attribuisce importanza al fatto che si osservi questo ordo. […] Ciò appartiene al senso del metodo. L’ordo a cui si attiene e che per lui è fondamentale non è nient’altro che quello a cui si attiene la geometria, quell’ordo che risale a un certum, che è un assoluto e semplice a condizione che sia fondamento sufficiente per costituire il punto di partenza di ogni deduzione. Ciò che io cerco non può essere un “ens respectivum”. E ancora, esso deve essere semplice e non un compositum. […] Ma allora si potrebbe domandare: perché Descartes non dice subito: mi sono dati certi oggetti, io ad esempio colgo la extensio del camino e questo mio cogliere non posso metterlo in dubbio? […] Si comprende questo percorso solo se si tiene presente ciò che Descartes ricerca: certum, absolutum, simplex. Il dubbio metodico non può arrestarsi prima che questo certum venga guadagnato.24

23. Ibidem. 24. Ivi, pp. 231-232.

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È qui che avviene ciò che Heidegger definisce «il passaggio dal verum al certum»25, da ciò «che Aristotele comprende come verità» alla «modificazione di questo essere nel certum»26. Senza poterci soffermare in questa sede su questo passaggio, ci interessa piuttosto registrare un cambiamento d’accento entro lo stesso principio del Cogito, ovvero la possibilità di far risaltare non la realtà mentale del cogitare, res cogitans, fondamentum certum, inconcussum, simplex, «punto di partenza per ogni deduzione»27, ma la situazione fattizia in cui un comportamento come quello del cogitare si attua, qui e ora; esplicare dunque, per così dire, il sottotesto del cogitare, la situazione, l’esperienza, il modo in cui chi cogita si riferisce a sé, al suo “che”, e il modo in cui questo “che” è avuto, c’è. Anche in questo contesto, infatti, emerge quella Habensbeziehung che nell’interpretazione fenomenologica delle Lettere paoline contraddistingue la definizione formalmente indicante di situazione e parimenti il senso d’essere che appartiene a tutti i pronomi personali: se si assume questo principio [del Cogito] nel senso di una indicazione formale, in modo che esso non viene assunto direttamente (dove, del resto, non vuol dire nulla) ma riferito (bezogen) alla concrezione di ciò che esso, di volta in volta, significa, allora ha la sua ragione. All’essere della cogitatio appartiene il carattere della Jeweiligkeit. Ogni essere nel senso dell’esserci è caratterizzato dalla sua Jeweiligkeit e determinato dalla sua Zeitlichkeit e ulteriormente contraddistinto dallo specifico modo di essere di questo ego sum in ciò che egli ha.28

25. Ibidem. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ivi, p. 250.

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Si tratta di assumere la proposizione “colui che cogita non può non esistere mentre cogita” lasciandosi rimandare al contesto di senso cui indica, ovvero alla modalità in cui questo proferimento si attua ed è riferito (bezogen) a sé, a questo “che”, qui e ora. Possiamo qui distinguere (provando ad andare oltre al dettato heideggeriano) due aspetti, due ‘toni’, due ‘accenti’ della stessa proposizione; guardando al suo dictum, al senso di contenuto, isolando dunque il significato della proposizione “colui che pensa, non può non esistere mentre pensa”, quest’ultimo assume il carattere di un formale Grundsatz, un principio certo in grado di assicurare la regola e il punto di partenza di ogni deduzione. Se invece usiamo la proposizione come indicazione formale quel che accade è un cambiamento d’accento dal senso di contenuto del Satz, dal suo dictum, alla modalità in cui il dire-comportarsi-intonati “se penso, non posso non esistere mentre penso” si attua, qui e ora, e dunque è “avuto”, c’è. Qui è la totalità della situazione, del contesto d’esperienza, dunque cooriginariamente di discorso-comportamento-intonato, a risaltare. Si tratta di usare il principio come “Index”29 della totalità del fenomeno. Proviamo a descrivere il “trucco” in base al quale il contenuto del giudizio (Urteil) – nel nostro caso, il contenuto del Grundsatz: “ego Cogito ego existo” – diviene principio (Satz) dell’azione del giudicare (Urteilen) esprimendoci con le parole di Wittgenstein:

29. Il termine Index, prodromo della formale Anzeige, viene utilizzato nel corso del 1919, M. Heidegger, GA 56-57 pp. 39-40 e in quello del semestre invernale 1919/1920, M. Heidegger, GA 58 p. 168. Una ricostruzione molto efficace di questo primo sviluppo è offerta da: S. Lombardi, Il concetto di “Indicazione formale” nei primi corsi friburghesi di Heidegger (1919-1923), in «La Cultura», 44.3, 2006, pp. 503-530.

229 Es ist so schwer, den Anfang zu finden. Oder besser: Es ist schwer, am Anfang anzufangen. Und nicht zu versuchen, weiter zurückzugehen. […] Ich will sagen: Wir verwenden Urteile als Prinzip(ien) des Urteilens30. [È così difficile trovare l’inizio. O meglio: è difficile cominciare dall’inizio senza provare a risalire ancora all’indietro. […] Voglio dire: noi usiamo i giudizi come principi(o) del giudicare].

A questo trucco soggiace la stessa fenomenologia husserliana poiché intende raggiungere l’ossatura intenzionale dell’atto, formalizzando l’eîdos del contenuto giudicativo. È questo, a mio avviso, il senso della seguente critica mossa da Heidegger a Husserl: «il generale, l’idea, rispetto alla realtà degli atti, è tutt’al più l’essenza generale di atto, mai però il contenuto dell’atto. […] Per quanto si specifichi il contenuto giudicativo, l’idea in generale, non si giunge mai agli atti»31. L’intento dell’indicazione formale è rompere con questo schema attraverso un rimbalzo, un rovesciamento prospettico, un contraccolpo: il contenuto del giudizio non diviene il “principio” di ogni deduzione, producendo in tal modo l’illusione della necessità di un regresso all’infinito, in grado di fissare un punto fermo a patto di proiettare, in una strenua coazione a ripetere, un io dietro all’io, un Grund dietro al Grund, bensì a venir liberata è proprio l’indessicalità32 dell’Urteilen, inteso, questa volta, non come contenuto giudicativo, come sostantivo, giudizio formal-logico – Urteil – bensì come verbo – Urteilen –, a indicare la modalità in cui ogni prassi – ovvero ogni giudicare (così come ogni sentire, vedere, ecc.) – è riferi30. L. Wittgenstein, Über Gewißheit, Suhrkamp, Franfurt a. M. 1971, §471 e § 124. 31. M. Heidegger, GA 21 p. 61, trad. it. p. 42. 32. Per un inquadramento generale molto efficace della nozione di indessicalità si veda l’enciclopedia filosofia on line dell’Università di Standford: http://plato.stanford.edu/entries/indexicals/

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ta a sé, a questo “che”. Mentre la “cattiva riflessione” generata dal principio del Cogito costringe alla rincorsa di un fantasma sempre sfuggente, che scompare dietro a ciò che viene fissato come “principio”, costringendo a postulare un “Io sostanza” che dia consistenza al primo pronome “io” nella proposizione “io Cogito che (io) Cogito”, «dietro ai fenomeni della fenomenologia non c’è assolutamente nient’altro, a meno che non si celi qualcosa destinato a divenire fenomeno»33; l’esser-ci, il ne va di, il senso d’essere dei pronomi personali, l’esistenza, la ‘riflessività indessicale’, se così possiamo chiamarla, co-incide, ci pare di poter affermare, con il carattere riflessivo di una forma verbale, ovvero di una prassi, rilanciando il senso d’essere dell’esserci non all’indietro ma in avanti o, meglio, nel contraccolpo del temporalizzarsi (es zeitigt), del farsi mondo (es weltet), qui e ora, con e in ogni esperir(si). È proprio questo «ens respectivum»34 ciò che Descartes e Husserl escludono. Il reperimento del Cogito cartesiano è infatti guidato dalla necessità di assicurare, tramite la remotio, escludendo qualsiasi conoscenza incerta ed escogitando la presenza di un ingannatore maligno, un fondamento semplice e inconcusso da cui dedurre. Ciò su cui l’indicazione formale attira l’attenzione è invece la totalità della situazione fattizia in cui il comportamento del cogitare si attua. È dunque l’analisi fenomenologica della totalità della situazione in cui l’esperienza del cogitare è riferita (wie) a sé, al suo “che” (dass), a venire in questione. Ed è quest’ultima ad avere la forma del di volta in volta.

33. È questo, a mio avviso, il senso della critica che Heidegger nel paragrafo 7 c di Sein und Zeit muove al concetto di Erscheinung: «l’automanifestazione ha caratteri suoi propri e non ha nulla in comune con l’apparire (erscheinen). L’essere dell’ente non può assolutamente essere inteso come qualcosa “dietro” cui stia ancora alcunché “che non appare”». M. Heidegger, GA 2 p. 48, trad. it. p. 51. 34. M. Heidegger, GA 17 p. 233.

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Il punto, dunque, non è criticare la relazione: videre gleich me videre cogitare, relazione che riguarda anche l’affermare, il negare, il volere, l’immaginare, il sentire (in base al fatto che «una res cogitans è di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole e anche immagina e sente»35), per sostituirla con un’altra relazione, bensì domandare la modalità in cui questa relazione a sé si attua, è qui e ora avuta, dar conto del modo in cui c’è, del suo modo d’essere, del suo senso. Si tratta di guardare al rovescio di questa relazione, al modo in cui, di volta in volta, l’esperienza – cioè i cooriginari sapere, sentire, comportarsi, dire: “Cogito ergo sum” – è riferita a sé, al suo “che”. A mio avviso, questo significa assumere il Cogito come indicazione formale: Nel momento in cui il contenuto [del Cogito] viene preso in senso formale-ontologico, questo principio non è più pertinente. Anzi, proprio per il fatto che Descartes assume lo stato di cose (Sachverhalt) come un principio formale (formaler Satz) egli rovescia (verkehrt) proprio l’essere specifico di ciò che pure aveva precedentemente visto: il fenomeno del “Sich-mit-haben”. Al contrario, se si assume questo principio nel senso di una indicazione formale, in modo che esso non viene assunto direttamente (dove, del resto, non vuol dire nulla) ma viene riferito (bezogen) alla concrezione di ciò che esso di volta in volta significa [corsivo mio], allora ha la sua ragione.36

Il cogitare me cogitare viene definito un Sachverhalt, uno stato di cose, il correlato di un rapporto “intenzionale”, per usare i termini husserliani. Inoltre questo comportamento, questa esperienza, in quanto Anzeige, non solo ha come “indicato”, come contenuto, un rapporto – un “come”: il me cogitare nel senso del Sich-mit-haben – ma questo “come”, dunque il ri35. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit. p. 47. 36. M. Heidegger, GA 17 p. 250.

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ferimento a sé, la dimensione della modalità che coincide con il futuro, è parimenti sempre avuto, attuato, sempre stato in un modo determinato, per questo ha il carattere del di volta in volta, della Jeweiligkeit e parimenti della Zeitlichkeit, in base alla cooriginarietà della totalità delle dimensioni di senso dell’esperienza, del “dass” del “riferimento” a “qualcosa”, del “sarà stato” di questo tempo-momento. È a partire da qui che può esser messo in risalto il carattere performativo del Cogito. “L’essere di volta in volta” del cogitare me cogitare assunto come indicazione formale non implica un mera sostituzione del fondamento simplex, inconcussum e certum del principio cartesiano con un fondamento che invece ha il carattere dell’ens respectivum, ma riformula la stessa struttura dell’autoriferimento, il senso d’essere del cogitare a partire dal carattere ontologicamente costitutivo, e in questo senso “formale”, dell’indicazione: a essere formale, potremmo dire, è il carattere del riferimento, il suo essere costitutivamente riferito a sé, al suo “che”, cioè sempre, di volta in volta, caratterizzato da un con-aversi, da un attuarsi, un fenomenizzarsi. La forma del “di volta in volta”, dell’“unicamente questa volta qui” (Diesmaligkeit) coincide proprio con il riferimento a sé, al suo “che” di ogni esperienza, con la sua indessicalità37, con il suo temporalizzarsi (es zeitigt). Inoltre, ai fini del nostro discorso è cruciale sottolineare che anche qui emerge il concetto fenomenologico di situazione, quel senso d’essere del “sum”, il senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali, che è contrassegnato non solo dalla Jeweiligkeit e della Zeitlichkeit, dunque dall’esser-di-volta in volta e dal temporalizzarsi, ma «contraddistinto dallo specifico modo 37. A parlare di indessicalità nell’interpretazione indicativo formale del principio del Cogito è R. M. Shockey, What’s Formal about Formal Indication? Heidegger’s Method in Sein und Zeit, in «Inquiry», 53.6, 2010, pp. 525-539, p. 533.

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di essere di questo ego sum in ciò che egli ha»38. È dunque la totalità del fenomeno, la totalità di senso della situazione “ego sum” a essere in questione. §2 Dall’ego cogito all’io parlo La possibilità di interpretare il principio cartesiano mettendo in rilievo il suo carattere performativo è offerta dallo stesso Descartes, contro le intenzioni e gli scopi della sua metafisica dualistica. Su questo punto vorrei riportare il prezioso commento di Massimo Adinolfi, che attira l’attenzione su questa formulazione del Cogito contenuta nella Seconda delle Meditazioni metafisiche: ma c’è un non so quale ingannatore, sommamente potente, sommamente acuto che si industria ad ingannarmi sempre. Ma allora di certo non c’è dubbio che io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni pure quanto può, non riuscirà tuttavia mai a far sì che io non sia nulla, fintanto che penserò di essere qualcosa. Così dunque, dopo avervi parecchio riflettuto, si deve infatti ritenere che questa affermazione, io sono, io esisto, è necessariamente vera ogni volta che la pronuncio o la mente la concepisce. Qui – commenta Adinolfi - compare il proferre, il pronunciare, un proferire il cogito che quasi insensibilmente sposta la questione dell’ego dal piano del puro pensiero al piano del linguaggio. È come se Descartes ci desse un’indicazione, anche al di là della sua metafisica dualistica: ricercare anzitutto nel linguaggio, nel “dire io” quel cogito che altrimenti non si saprebbe bene in che modo potrebbe attestarsi e garantire sé stesso. […] Involontaria, perché Descartes non ha mai voluto che l’ego fosse nulla più che un’istanza mentale. E tuttavia se ha potuto dire necessariamente vera l’esistenza dell’io che

38. M. Heidegger, GA 17 p. 250.

234 affiora nell’atto in cui proferisce ego sum, ego existo, è proprio perché l’esistenza dell’ego appare indissolubilmente legata alla presa di parola.39

E non solo alla presa di parola, potremmo dire, ma alla totalità dell’esperienza, della situazione, cioè cooriginariamente al comportarsi-sapere-Stimmung: alla modalità cioè in cui il comportarsi-sentire-dire “ego cogito ego existo” è riferito a sé, al suo “che” e, di volta in volta, qui e ora, questo autoriferimento è avuto, c’è, si con-ha. Alla modalità in cui, riprendendo il passo heideggeriano sopra citato, l’esperienza «ego cogito ego existo è riferita (bezogen) alla concrezione di ciò che essa, di volta in volta, significa [corsivo mio]»40. Un altro filosofo italiano contemporaneo, Paolo Virno, di cui ci occuperemo più ampiamente nel prossimo studio41, ha formulato, nelle preziose analisi contenute nel testo Quando il verbo si fa carne – che tra l’altro rilevano la forma performativa del discorso religioso –­ un vero e proprio rovesciamento del principio cartesiano, individuando il carattere assoluto di un’altra proposizione: l’ego cogito, ego existo, diviene, con Virno, l’“io parlo (dunque) sono”. L’autoriferimento, in quest’ultimo caso, non solo non attesta affatto sé stesso, non è cioè riferito a sé, al suo “che”, nella realtà solo cogitata di un foro interno, non è dunque res cogitans, bensì si fa, qui e ora, in quel fenomeno affatto mentale e privato ma tutt’al contrario pubblico e vocalizzato che è la presa di parola, la cui forma viene individuata nell’enunciato performativo «io parlo»42. 39. M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, Transeuropa, Massa 2012, p. 225. 40. M. Heidegger, GA 17 p. 250. 41. Infra, cap. V. 42. P. Virno, Quando il verbo si fa carne. Linguaggio e natura umana, postfazione di D. Gambarara, Bollati Boringhieri, Torino 2003, cap. II, pp. 3374.

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Assistiamo qui, rispetto al cogito cartesiano, a una vera e propria inversione di marcia: non è il cogitare me cogitare, la res cogitans, a garantire, una volta che la meditazione si sia liberata del dubbio e abbia raggiunto un principio certo a cui ancorarsi, l’esistenza della res extensa, del mondo, dell’uomo e del suo corpo, in un movimento che procede dall’interno verso l’esterno, ovvero che va dalla sfera chiusa (mentale e privata) dell’ego cogito all’esistenza aperta (pubblica e condivisa) del mondo, bensì al contrario è proprio la vocalizzazione, la presa di parola innanzitutto nel suo aspetto esteriorizzato, indistinto, condiviso, pubblico a ricapitolare il farsi umano dell’uomo, l’aprirsi dello iato tra linguaggio e mondo, il suo essere, di volta in volta, in via di individuazione43. È a partire da qui che Virno può affermare che l’autocoscienza è un «atto linguistico performativo»44. «Essa – scrive Virno riprendendo J.L. Austin – è una cosa, thing, che si fa con le parole […]. L’io puro, sottostante alle categorie a priori che organizzano il pensiero, non è certamente una sostanza, ma neanche un presupposto ineffabile: esso consiste piuttosto in un atto linguistico. E un atto linguistico non può che essere estrinseco, fenomenico, percettibile»45. È in questo contesto che l’enunciato “io parlo” assume i tratti di un performativo «assoluto»: «sottotesto, forma, di ogni enunciato performativo»46; si tratta infatti dell’unico caso in cui ciò che si dice – il dictum dell’enunciato – coincide sempre con ciò che si fa, con il fatto che si parla: io parlo è l’unico performativo la cui validità non dipende da specifiche condizioni extralinguistiche. […] Soltanto “io

43. Ivi, si veda in particolare tutto il V capitolo. 44. Ivi, p. 130. 45. Ivi, p. 132. 46. Ivi, in particolare pp. 33 e ss..

236 parlo” è integralmente autoreferenziale. Il performativo ordinario menziona l’azione compiuta mediante il suo stesso proferimento, ma non fa cenno a quest’ultimo. L’angolo cieco del movimento autoriflessivo è, qui, il fatto che si parla. “Prendo questa donna per mia legittima sposa” rinvia alla realtà prodotta col dire o nel dire, non alla realtà del dire. “Io parlo” si riferisce invece alla propria enunciazione come all’evento saliente che esso produce per il solo fatto di essere enunciato. Non si limita a compiere un’azione parlando, ma menziona il parlare come l’azione effettivamente compiuta.47

Per questo dire: “io parlo” non è mai votato al fallimento ma sempre felice, non avendo bisogno di circostanze di contorno, di condizioni extralinguistiche da cui possa dipendere la sua “riuscita”, come invece accade a tutti altri enunciati performativi, la cui “felicità” – come afferma il filosofo oxoniense J.L. Austin, a cui si deve il concetto di performatività a partire dall’analisi del linguaggio ordinario – dipende dal fatto che «le circostanze dell’enunciazione in cui vengono pronunciate le parole siano in un certo modo, o in più modi, appropriate»48. Ci limitiamo a chiarire, solo in vista degli scopi del nostro lavoro, che cosa si intenda con enunciato performativo, riferendoci alla definizione elaborata da J.L. Austin nel testo ormai celebre How to do Things with Words. Ciò che contraddistingue gli enunciati performativi è innanzitutto la loro differenza rispetto agli enunciati constativi, il loro carattere non descrittivo. Al contrario dell’enunciato constativo, che appartiene a una dimensione di verità in cui vige l’alternativa tra vero o falso in quanto corrispondenza tra l’enunciato e lo stato di cose in esso rappresentato, l’enunciato performativo non descrive

47. Ivi, p. 39. 48. J. L. Austin, How to do Things with Words, Oxford University Press, Oxford 1962 p. 10, ed. it a cura di C. Penco e M. Sbisà, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987, p. 12.

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uno stato di fatto bensì compie un’azione. Enunciati come “io ti chiedo scusa” o “io ti battezzo” ne sono esempi tratti dal linguaggio ordinario. La felicità dell’enunciato, ovvero la sua dimensione di “verità”, dipende strutturalmente dal contesto del proferimento, dalle circostanze del proferre, tanto che la sua “verità” coincide con l’essere appropriato del contesto ed è dunque strutturalmente esposta al fallimento, al poter non portare a compimento quel che l’azione compiuta nel e con il pronunciamento dell’enunciato – che è al contempo dictum dell’enunciato – significa. L’atto di enunciare parole è, infatti – afferma Austin – di solito, un, o anche il fatto, dominante nell’esecuzione dell’atto (di scommettere o altro), l’esecuzione del quale è anche l’oggetto dell’enunciato, ma è lungi dall’essere solitamente, se mai lo possa essere, l’unica cosa necessaria affinché l’atto sia considerato eseguito. In generale è sempre necessario che le circostanze dell’enunciazione in cui vengono pronunciate le parole siano in un certo modo, o in più modi, appropriate.49

Austin non si limita a opporre enunciati constativi a enunciati performativi, bensì fa risaltare la natura performativa e constativa intrecciata in ogni enunciare. Potremmo dire, la caratteristica fondamentale di ogni situazione e presa di parola, il suo essere costituita inscindibilmente non solo da un dictum, da un significato e parimenti da un denotatum (ciò a cui il significato si riferisce) ma anche dal carattere indessicale, dalla peculiare riflessività del fatto che si parla tale che, per così dire, in ogni presa di parola è implicato allo stesso modo un parlar-si, in ogni esperienza un esperir-si, “si riflessivo”, però, che non precede affatto l’esperienza ma si fa con e in essa. Viene infatti distinto un aspetto illocutorio del discorso, che è l’atto che si compie nel dire qualcosa, da un aspetto locutorio, che è l’atto grazie al quale qualcosa è detto, e infine un aspetto 49. Ibidem.

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perlocutorio, ovvero l’atto che si compie mediante il dire e che cade oltre il dire stesso50. Proviamo a usare gli aspetti della figura della performatività appena abbozzata come reagenti, combinandoli con la dimensione pragmatica, di «Warnung!»51 e di “segnale” svolta dall’indicazione formale, quell’uso metodico di un senso nel suo significato più generale che è la formale Anzeige, l’indicazione previa del “come”, dunque il segnale al contesto di senso in cui l’esperienza si attua, che allontana, per così dire, il riferimento e l’attuazione in modo che essi non siano determinati in anticipo in modo teoretico, obiettivo e oggettivo52. Usiamo come reagenti proprio l’aspetto illocutorio del discorso, il suo riferimento a sé stesso, al suo “che”, e parimenti l’atto che si compie con il discorso stesso, quegli effetti non prevedibili che ogni enunciazione porta con sé e che non coinvolgono soltanto la convenzionalità linguistica bensì rimbalzano nel mondo. Come abbiamo mostrato in riferimento tanto alla dimensione di senso della Kundgabe paolina quanto al principio della modernità per eccellenza (la proposizione ego cogito ego existo), ciò che è in questione nell’uso dell’indicazione formale e dunque nella dimensione di verità, di senso, della prassi fenomenologica è un cambiamento d’accento: un rimbalzo, una Umkehr, un contraccolpo che sposti l’accento, nell’immanenza dell’esperienza, di volta in volta, qui e ora, da ciò che viene esperito, dunque dal dictum, dal significato, dal senso di contenuto del fenomeno, dal suo Was, dalla dimensione del “far presente”, alla modalità in cui l’esperire è riferito (wie) a 50. Ivi, p. 99, trad. it. p. 75. Abbiamo fatto riferimento alle sintesi del senso degli enunciati performativi in J. L. Austin contenute in: M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., p. 227 e a E. Berti, Aristotele nel Novecento, cit., pp.124 e ss.. 51. M. Heidegger, GA 60 p. 63, trad. it. p. 100. 52. Ivi, p. 64, trad. it. p. 100.

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sé, al suo “che” (dass), e dunque è di volta in volta avuto, si con ha, c’è. Traducendo la totalità del fenomeno nel linguaggio di Austin appena introdotto, potremmo dire: in questione è un cambiamento d’accento in cui a risaltare non sia il dictum, l’aspetto locutorio, bensì l’aspetto illocutorio e perlocutorio del discorrere, l’atto che si compie nel e con il dire, nel e con l’esperire. Al contrario di quel che accade nella proposizione “io parlo”, la verità di questo performativo dipende costitutivamente dalle circostanze del proferimento, allo stesso modo in cui l’espressione “prendo questa donna come mia legittima sposa” significa sposarsi solo se la situazione del pronunciamento si rivela, in un modo o in più modi, appropriata (se ad esempio ci sono due testimoni, un pubblico ufficiale, una firma su un contratto). È proprio il fenomeno del significare a saltare nel performativo assoluto “io parlo”. In che modo, infatti, riprendendo la critica che Adinolfi muove a Virno, si può dar conto del fenomeno del significare dalla vocalizzazione dell’enunciato io parlo, se lo pronunciasse un computer vi sarebbe discorso, significazione, mondo? E inoltre, questo performativo assoluto è davvero in grado di rendere appariscente “la natura biologica dell’animale umano”, non proverebbe in maniera ben più evidente la “radice biologica della linguaggio” un enunciato come “io respiro” che non solo, come “io parlo”, implica sempre la coincidenza tra il dictum e ciò che si fa, ma mette in mostra proprio l’aspetto biologico della presa di parola?53

Il performativo assoluto si assume infatti il compito, nelle intenzioni di Virno, di rendere l’apriori, il farsi umano dell’uomo, quel che nella nostra prospettiva fenomenologica è il senso d’essere dell’esserci, il suo temporalizzarsi (es zeitigt),

53. M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., pp. 231- 232.

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«appariscente»54, riducendolo alla facoltà, alla «potenza biologica di linguaggio»55; pensando dunque l’aletheúein, l’apophaínesthai – il far mostrare ciò che si mostra da sé – come facoltà di linguaggio (dýnamis) e sbarazzandosi così (almeno nelle intenzioni) del fantasma dell’intenzionalità, l’autoriflessione: quel Selbstbezug che viene radicalmente messo in questione dalla stessa fenomenologia heideggeriana, a partire dalla critica all’autoriferimento riflessivo inscritto nella Bewusstsein, ma non per questo meramente tolto di mezzo, isolando l’identità di dire e voler dire nel performativo assoluto e facendo ricorso a un fondamento biologico – «la facoltà di linguaggio»56 – il cui carattere potenziale è pensato, in ultima analisi, a partire dal senso della dýnamis57 aristotelica. È proprio la potenza di linguaggio, la dýnamis biologica dell’animale umano quel che l’enunciato “io parlo” si fa carico di mettere in mostra. Si tratta, nelle intenzioni di Virno, di sbarazzarsi del fantasma dell’intenzionalità, mostrando l’identità tra dire e fare, in modo da far coincidere il “significare” con l’esecuzione dell’enunciare. E tuttavia, accostato ad altri enunciati come “io respiro”, l’“io parlo” perde il suo carattere assoluto. Anche “io respiro” non solo coincide con il compimento dell’azione ma menziona solo l’azione effettivamente compiuta e non ha bisogno di alcuna “condizione extralinguistica” per essere feli-

54. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 77. 55. Ivi, p. 35. Per ora ci limitiamo soltanto ad usare il termine, nel cap. V proveremo a chiarire in che modo la performatività della fenomenologia riformuli la figura del performativo ripensando, a partire dal capovolgimento del primato aristotelico dell’atto sulla potenza, il senso della dýnamis. 56. La facoltà di linguaggio è pensata da Virno a partire dalla distinzione di De Saussure langue/parole/facultè de langage. Su questo punto si vedano, in particolare, Ivi, pp. 52-53. 57. Ivi, pp. 25 e ss e l’intero capitolo III.

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ce58. A ben vedere, dunque, nel dire: “io parlo” non si realizza affatto, «proferendolo, proprio e soltanto l’azione – il prendere la parola»59, ma insieme, anche il respirare ad esempio. Ciò significa che l’enunciare io parlo – al contrario di quanto sostiene Virno – non menziona soltanto «il parlare come l’azione effettivamente compiuta»60, rinviando anch’esso alle condizioni intra ed extralinguistiche della “situazione”, alla realtà prodotta nel e col dire, rimandando cioè alle circostanze dell’enunciazione in cui viene (com)preso in quanto io parlo, in maniera dunque appropriata (riguardato cioè nel suo significato, sotto l’aspetto del parlare, senza badare al fatto che mentre dico: “io parlo”, respiro, ad esempio). In tal modo dunque l’io parlo non si rivela affatto capace di rendere l’apriori appariscente. Riprendendo la critica che Adinolfi muove a Virno: Se c’è significazione, voler dire, se cioè nel dire io parlo chiedo di badare non solo a quel che faccio, ma a quel che dico, e chiedo di riconoscere il significato di quel che dico non già in virtù di quel che faccio (poiché quel che faccio è sia parlare che respirare e altro ancora), ma in virtù del suo significato e di ciò che le parole intendono, voler dire e dire non coincidono più. Ma se il voler dire si ritira dietro il dire e si misura in esso, non è nuovamente esposto alla possibilità del fallimento? Non è compromessa così l’assolutezza di io parlo? Non si rivela infruttuosa, o quanto meno insufficiente, la polemica di Virno contro il “fantasma dell’intenzionalità”?61

Un confronto più approfondito con il performativo assoluto io parlo e con la struttura dell’autoriferimento che esso implica, dunque con la riformulazione del Selbstbezug che esso coinvolge, sarà possibile a partire dall’analisi della peculiare 58. Ivi, p. 39. 59. Ibidem. 60. Ibidem. 61. M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., p. 240.

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struttura performativa della práxis aristotelica, da cui lo stesso Virno mutua l’ossatura del performativo assoluto e che, come ci proponiamo di mostrare62, viene messa in questione allorché, nella fenomenologia heideggeriana – nella dimensione di senso della prassi fenomenologica – emerge quel doppio senso di negazione che ridefinisce “l’esser di volta in volta”, il senso d’essere di “ciò che può essere diversamente” e, in tal modo, riformula il ‘verso’ della dýnamis, la potenza, non pensandola più in contrapposizione a e dunque a partire da: il reale, e ridefinendo così, insieme al senso della possibilità, la stessa struttura del performativo. Prima di passare all’analisi del confronto di Heidegger con il VI libro dell’Etica aristotelica e leggere il rapporto poíesis/ práxis alla luce della dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi emersa nel confronto con Paolo e alla peculiare dimensione negativa che permea l’autoriferimento dell’esperienza a sé, al suo “che”, vogliamo dedicare un breve accenno alla differenza, elaborata da Virno, tra feticismo e reificazione. Come emerso chiaramente nello stesso uso del termine “fatticità”, l’esperienza fattizia, l’essere-nel-mondo si incarna strutturalmente in una motilità di decadimento, di contraffazione, quel Verfallen («concetto ontologico di movimento»63) che coincide con la contraffazione della “modalità” – l’improprietà di esserci comprendendosi a partire da ciò che non si è – in cui il modo d’essere delle cose, correlato di un atteggiamento dapprima manipolante poi teoretico (in senso ontologico-genetico), si spaccia per il modo d’essere di chi c’è ed è riferito a questo “che”, per il peculiare modo d’essere che viene indicato formalmente come esistenza: “il ne va di sé stesso”.

62. Ivi, pp. 24-25. 63. M. Heidegger, GA 2 p. 238, trad. it. p. 219.

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Non possiamo qui neppure tentare di offrire una lettura del concetto di feticismo, la cui polivocità e pregnanza filosofica richiederebbero un approfondimento che in questo contesto non è possibile compiere64. Mi limito piuttosto a presentare la distinzione tracciata da Virno tra feticismo e reificazione per tentare, attraverso il lavoro di Thomas Rentsch dedicato a una vera e propria fondazione sprachphilosophisch della fenomenologia65, di indicare un’altra strada, che non opponga al feticismo il «rivelarsi del trascendentale nell’empirico (la reificazione)»66, il divenire appariscenti delle condizioni di possibilità dell’esperienza, bensì individui nel carattere «perfetto»67 dell’apriori, ovvero nel suo tratto in senso peculiare “negativo”, il rovescio, il rimbalzo, la Umkehr del movimento di contraffazione, il suo antidoto. Innanzitutto è necessario chiarire cosa intenda Virno con i termini ora introdotti: Il feticismo spaccia l’empirico per trascendentale; la reificazione culmina nella rivelazione empirica del trascendentale. Se attribuisco al fenomeno che mi sto rappresentando le prerogative spettanti unitamente alle categorie a priori da cui dipende la rappresentazione, trasformo quel fenomeno in un feticcio. Se però ho a che fare con fenomeni che rispecchiano punto per punto la struttura logica delle stesse categorie

64. Com’è noto, a rintracciare analogie tra la critica alla Vorhandenheit ontologie heideggeriana e la critica di Lukàcs al feticismo è stato il pensatore francese L. Goldmann, Lukács e Heidegger. Frammenti postumi, trad. it. di Y. Isaghpour, Bertani, Verona 1973. Nel nostro contesto impieghiamo i termini “feticismo” e “reificazione” in senso molto ristretto, ovvero in riferimento all’uso che ne fa Virno e al carattere facticius inscritto nella fatticità della vita, al carattere verfallende di Dasein. 65. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit.. 66. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 114. 67. M. Heidegger, GA 2 p. 114, trad. it. p. 110.

244 a priori, sono dinanzi a una genuina reificazione dell’attività rappresentativa.68

Un esempio di critica al feticismo può essere scorto proprio nella critica heideggeriana alla Vorhandenheitsontologie, in cui il presupposto di ogni esperienza, l’essere dell’ente, viene pensato come un ente di rango superiore e l’identità astratta di fondamento e fondato conduce al circolo vizioso del regresso all’infinito, necessitando di un ulteriore fondamento che assicuri l’operazione d’astrazione o culminando nel postulare un presupposto ineffabile e indisponibile che sta “dietro” ai fenomeni e che a sua volta non si mostra. Mi pare che la critica heideggeriana al concetto di bloße Erscheinung sopra citata sia ben sintetizzata da questa considerazione di Virno: si tratta – scrive Virno – non di proiettare «l’immagine di un Io prima dell’Io», bensì di «cedere il posto a un Io fuori dell’Io»69. Riportiamo questo passo tratto da Parole con Parole, in cui vengono in luce i tratti salienti della critica all’autoriferimento riflessivo come modo d’essere della soggettività, autoriferimento che il modo d’essere del Selbstbezug inscritto nel Dasein smaschera radicalmente. Scrive Virno: Appunto perché rimanda sempre di nuovo all’indeterminabile suo sostrato, l’autoriflessione soggettiva si emancipa dalla trama dell’esperienza. L’io-sostrato, al quale tende senza posa l’io-che-si-pensa, è il punto di fuga nei confronti della finitezza: la sua inattingibile anteriorità implica che il soggetto, nel riferirsi a sé stesso, si distacchi da ogni identità e contesto particolari.70

68. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 114. 69. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 113. 70. P. Virno, Parole con parole, poteri e limiti del linguaggio, Donzelli, Roma 1995, p. 103.

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La rincorsa di un io sostrato che precede l’io penso e che pure non fa altro che sfuggirgli, ancora e di nuovo, presuppone quell’«inconoscibile altrove – per dirla ancora con Virno – che autorizza uno sguardo privo di coinvolgimento sulla sfera dell’esperienza finita»71. La performatività assoluta, dunque, prende di mira proprio il fantasma dell’autoriflessione, il suo intento è quello di smascherare «l’immagine di un Io prima dell’Io», cedendo «il posto a quella, tanto più perspicua, di Io fuori dell’Io»72. Ma riesce a cedergli il posto, è in grado di pensare il “fuori”? È qui, a mio avviso, a emergere la debolezza del performativo assoluto e la necessità di riformulare la performatività a partire dalla dimensione di senso inscritta nel Selbstbezug di Dasein, il cui tratto fondamentale è proprio l’estaticità, l’ek-sistere, il costitutivo fuori di sé. Virno presenta il feticismo e la possibilità di rendere “appariscente” l’apriori grazie ai processi di reificazione come irrelati: «lungi dall’implicarsi a vicenda, i concetti di alienazione e di reificazione si collocano agli antipodi»73, così come «ugualmente drastica […] è l’opposizione tra reificazione e feticismo. […] In termini heideggeriani nei processi di reificazione non ha luogo un oblio dell’essere, ma la sua effettiva rammemorazione; è l’orizzonte di senso (ossia l’essere in quanto essere) contro cui si staglia ogni oggetto ed evento a mostrarsi infine, o una volta di più, come oggetto ed evento (dunque sul piano ontico)»74. Qui fa la sua comparsa l’oblio dell’essere in contrapposizione alla sua rammemorazione. Feticismo significa «rendere astratto un oggetto sensibile»75, la sua rammemorazione s’identifi-

71. Ibidem. 72. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 113. 73. Ivi, p. 112. 74. Ibidem. 75. Ivi, p. 114.

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ca con la reificazione «che culmina nella rivelazione empirica del trascendentale»76. Nei processi di reificazione dunque è in gioco proprio la rammemorazione dell’oblio dell’essere. Qui, a mio avviso, c’è un punto davvero cruciale. Il feticismo proprio della Vorhandenheitsontologie – la «Verwechselung di essere ed ente»77 – non è un «errore dei filosofi» bensì, in linguaggio heideggeriano, si fonda nel Verfallen, nel “fatto” (dass) dello scadimento del “come” nel “cosa”: concetto ontologico di movimento, motilità costitutiva. Per esprimerci usando gli attrezzi primo-friburghesi emersi nelle analisi svolte finora, l’esperienza fattizia della vita, l’attuazione del riferimento a qualcosa è un «vollzugsmäßige-Nicht», e questo “nicht” «non è né un nihil negativum né un nihil privativum»78. L’essere in quanto tale si dà obliandosi, si attua nientificandosi, e proprio così c’è. Nello stesso senso in cui «la temporalità non “è” assolutamente un ente […]. Essa non “è” ma si temporalizza (zeitigt sich)»79. In tal senso l’oblio dell’essere non è affatto soggetto a rammemorazione, poiché a poter essere rammemorato è precipuamente l’oblio dell’oblio, il dimenticare questo costitutivo obliarsi, sottrarsi, temporalizzarsi, nientificarsi. Parimenti, anche la fuga da sé, dal proprio “che”, è il modo in cui l’esserci è dato a sé stesso ed è in questo fuggire, dunque nella modalità della chiusura, che l’esserci è aperto a sé. Questo significa che non vi è alcun movimento distinto dalla motilità di contraffazione, di fuga da sé, non si danno cioè «fenomeni che rispecchiano punto per punto la struttura logica delle stesse categorie a priori»80, è in questione piuttosto

76. Ibidem. 77. M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, in Wegmarken, GA 9 p. 370. 78. M. Heidegger, GA 60 p. 109, trad. it. p. 151. 79. M. Heidegger, GA 2 p. 434, trad. it. p. 390. 80. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 114.

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la Befreiung da ciò che nasconde questo stesso contraffarsi spacciandosi per trasparenza, potremmo dire: si tratta di non rimuovere l’opacità costitutiva della totalità del contesto, la sottrazione della situazione limite in e con ogni situazione. Prendendo in prestito un’espressione di Oliver Marchart: «l’oblio dell’essere (Seinsvergessenheit) non può essere compreso soltanto come oblio in riferimento all’essere, bensì – ed è quel che è più importante – deve essere compreso come oblio in riferimento all’abbandono dell’essere (Seinsverlassenheit), ovvero come oblio della sottrazione (Entzug) dell’essere»81. Per questo, riprendendo il passo di Sein und Zeit: Il modo di temporalizzazione dello scaturire fuggendo via del presente si fonda nella natura finita della temporalità. […] Il presente scaturisce fuggendo via dal suo avvenire autentico e dal suo esser-stato autentico, lasciando pervenire l’esserci alla propria esistenza autentica solo per via indiretta. L’origine dello scaturire fuggendo via del presente, cioè la deiezione nella perdizione, è costituita dalla stessa temporalità originaria e autentica.82

Proprio/improprio, erranza/oblio sono dunque profondamente e inestricabilmente implicati. Se da un lato, quindi, la critica di Heidegger alla Vorhandenheitsontologie ha come bersaglio lo stesso feticismo che Virno prende di mira – il fanstasma dell’intenzionalità: l’autoriflessione – ; dall’altro, la Gegenbewegung, la Umkehr che conduce la fenomenologia fino a sé, ovvero la possibilità di una inversione dello stesso feticismo non si compie affatto nella reificazione. Il trascendentale, infatti, non diviene appariscente, non può essere isolato entro

81. O. Marchart, Die politische Differenz, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2010, p. 91. [trad. mia]. 82. M. Heidegger, GA 2 pp. 460-461, trad. it. p. 412.

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un enunciato sempre appropriato: il fatto che lo stesso performativo assoluto non basti a sé stesso scavando uno iato tra dire e fare e facendo in tal modo riemergere il “fantasma” dell’intenzionalità che doveva aver tolto di mezzo ne è la prova. Piuttosto, le stesse condizioni di possibilità esistenziali, il loro farsi fenomeni, è il loro temporalizzarsi, nientificarsi, di volta in volta, qui e ora, in questo tempo momento, in e con questa esperienza. In ogni situazione determinata infatti sono già sempre coinvolti e implicati gli apriori esistenziali, ogni comportamento ontico implica già una comprensione pre-ontologica, l’ontologico non si dà se non nel e con l’ontico. Al tempo stesso, lo spacciarsi dell’essere dell’ente per l’essere dell’ente, del “come” per il “cosa” è la sua stessa modalità di attuazione: l’antidoto al feticismo è dunque un rimbalzo che sposti l’accento dal contraffatto – “il feticcio” – al costitutivo movimento di contraffazione, al contraffar-si. E solo così si cede il posto “a un io fuori dell’io”. Mentre la Vorhandenheitsontologie è soggetta al movimento di contraffazione poiché dimentica, rimuove il costitutivo sottrarsi del “come” nel “cosa”, dell’essere dell’ente nell’essere dell’ente, autonomizzando il “risultato” di questo processo di scadimento e dunque, per dirla con Virno, «rendendo astratto un fenomeno sensibile»83, essendo in tal modo costretta a postulare dietro ai fenomeni un’entità ineffabile e nascosta; la fenomenologia ermeneutica, l’indicazione formale, richiama l’attenzione proprio su questo costitutivo movimento di contraffazione che, in un unico movimento, temporalizzandosi, nientificandosi, possibilizzandosi, sottraendosi, nasconde sé stesso, cioè la sua stessa motilità di sottrazione. Al contrario, la reificazione non offre un antidoto al feticismo poiché, come abbiamo visto, non solo non è in grado di dar conto del fenomeno del “significare”, ma è infine costretta a pensare il carattere eventuale (temporalizzante) del 83. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 114.

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farsi umano dell’uomo a partire da un presupposto metafisicobiologico: la potenza indeterminata (dýnamis) del linguaggio che è tale in contrapposizione alla determinatezza del codice inscritto nel linguaggio animale84. Possiamo ricapitolare questa questione, ponendo, con Rentsch, la seguente domanda: «In che senso il mondo è? È esattamente questa l’intenzione della nostra domanda: quale dimensione logica appartiene alle proposizioni antropologiche?»85 Il mondo non è affatto la natura newtoniana, bensì il mondo della vita, innanzitutto la vita quotidiana, poi, con l’analisi della Eigentlichkeit, il mondo […] che viene coperto attraverso la quotidianità. L’esserci ha in Sein und Zeit, da un certo punto di vista, a che fare solo con sé stesso. Ma il suo riflessivo riferirsi a sé è mediato: dalle condizioni di possibilità esistenziali di sé stesso. Queste condizioni di mondo non hanno bisogno di venir dedotte o postulate. L’analitica dell’esserci non ha bisogno di dedurle, bensì solo di mostrarle in modo ricostruttivo. Questa indicazione viene compiuta ricorrendo all’esperienza della vita, così come essa ci è “già sempre” familiare. Questa familiarità è innanzitutto non tematica, “implicita”. L’analitica esistenziale deve renderla tematica. “Il perfetto a priori” esprime questo intreccio ermeneutico.86

84. Ci soffermeremo su questo punto nel cap. V (Infra). 85. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., p. 269. 86. Riportiamo il passo nella versione originale, di cui abbiamo fornito la traduzione: «Welt ist nun ganz und gar nicht Newtonsche Natur, sondern die Lebenswelt, zunächst des alltäglichen Lebens, dann, bei den Analysen zur Eigentlichkeit, die Welt der wahren Lage, die durch die Alltäglichkeit verdeckt war. Das Dasein hat in Sein und Zeit in gewisser Hinsicht nur mit sich selbst zu tun. Aber sein reflexives Sich-zu-sich-Verhalten ist vermittelt: über die existentialen Möglichkeitsbedingungen seiner selbst. Diese Bedingungen von Welt brauchen nicht deduziert oder postuliert zu werden. Die Daseinsanalyse braucht sie nicht zu konstruieren, sondern nur rekonstruktiv aufzuweisen. Dieser Aufweis geschieht im Rekurs auf Lebenserfahrung, so wie uns immer schon vertraut ist. Diese Vertrautheit ist zunächst unthe-

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Il compito, dunque, della prassi fenomenologica è rendere esplicito ciò che ci è già sempre familiare, l’“immer schon da” delle condizioni di possibilità esistenziali. Un esempio di questa prassi è offerto da Rentsch nell’analisi della Räumlichkeit, concetto anch’esso formalmente indicante: Esemplifichiamo l’indicazione delle condizioni di possibilità esistenziali ancora una volta con l’esempio della spazialità. Lo spazio vivente – allo stesso modo del corpo vivente (Merleau Ponty) trascurato da Heidegger – è una forma di mondo. […] Lo statuto trascendentale degli esistenziali può esser mostrato anche ricorrendo al linguaggio quotidiano. […] Heidegger comincia la sua analisi a partire dalla spazialità quotidiana dell’esserci. Le cose con cui abbiamo a che fare, apparecchi, mezzi, sono nella loro utilizzabilità sotto mano, nei pressi, nelle vicinanze. Esse hanno il loro posto, al quale appartengono. Lo spazio è organizzato in modo sensato attraverso l’accorto aver a che fare. L’esserci si è già sempre procurato in questo modo un orientamento nello spazio. «Il “sopra” è “vicino al soffitto”, “il sotto” è “per terra”, il “dietro” è “vicino alla porta”. Tutti i “dove” sono scoperti in base alle direzioni e ai percorsi del commercio quotidiano e sono interpretati ad opera della visione ambientale preveggente; non sono quindi stabiliti e catalogati da una misurazione contemplativa dello spazio» (SZ 103). Inoltre, l’apriorità dello spazio si mostra nel fatto che l’esserci in quanto essere-nel-mondo è esso stesso spaziale. Nella “significatività” in quanto situazione dischiusa in maniera sensata è «con-aperto lo spazio» (SZ 110). In quanto forma del mondo l’esistenziale “spazialità” è, nell’esistenza vissuta, familiare. L’uso dei deiettici del linguaggio

matisch und “implizit”. Die Existentialanalyse soll sie thematisch machen […]. Das “perfektische Apriori” drückt dieses hermeneutische Anknüpfen […] methodisch-begrifflich aus». Ivi, pp. 270-271.

251 quotidiano (“vieni qui!”, “sono qui”, “vado di sotto”) mostra già sempre un tale orientarsi nello spazio.87

Non si tratta dunque di rendere oggetto di studio il modo in cui linguisticamente si esprime lo spazio, di analizzare cioè, come farebbe la linguistica, natura e senso degli avverbi di luogo, bensì di indicare in che modo nel linguaggio si mostra l’esser-spaziale dell’esserci. Come afferma Heidegger in relazione al tempo: «Prima della domanda su come il linguaggio esprima tematicamente il tempo ve n’è una più originaria su come nel linguaggio come tale si mostra l’esser-temporale dell’in-essere»88. A fronte di ciò possiamo dire che i luoghi non “sono” nello spazio, ma che il muoversi in luoghi familiari già sempre compresi, interpretati, intonati, parlati si fa spazio: il

87. Riportiamo ancora una volta il brano originale: «Exemplifizieren wir den Aufweis existentialer Möglichkeitsbedingungen noch einmal am Beispiel der existentielle Räumlichkeit. Der gelebte Raum ist – wie der von Heidegger vernachlässigte gelebte Leib (Merleau Ponty) – eine Form der Welt. Bei diesem Aufweis soll sich zeigen: Der transzendentale Status dieses Existentials kann auch unter Rekurs auf die Alltagssprache gezeigt werden. Und: Auch hier wird die Absetzung der Heideggerschen Analyse des Raums als Lebensform von der Analyse Kants (Raum als apriorische Anschauungsform) greifbar. Heidegger beginnt seine Analyse bei der alltäglichen Räumlichkeit des Daseins. Die Dinge, mit denen wir umgehen, Geräte, Werkzeuge sind in ihrer Dienlichkeit zuhanden, in der Nähe. Sie haben Ihre Plätze, wo sie hingehören. Der Raum ist durch das umsichtigbesorgende Dasein sinnhaft gegliedert. Dasein hat sich immer schon auf diese Weise im Raum Orientierung verschafft. “Das „Oben“ ist das „an der Decke“, das „Unten“ das „am Boden“, das „Hinten“ das „bei der Tür“; alle Wo sind durch die Gänge und Wege des alltäglichen Umgangs entdeckt und umsichtig ausgelegt, nicht in betrachtender Raumausmessung festgestellt und verzeichnet”. Ivi, p. 271. 88. Riportiamo questo passo cruciale nella lingua originale, di cui abbiamo fornito la traduzione: «Vor der Frage, wie die Sprache »die Zeit« selbst thematisch ausdrückt, liegt die ursprünglichere, wie in der Sprache als solcher sich das Zeitlichsein des Inseins zeigt». M. Heidegger, Der Begriff der Zeit, GA 64 p. 74.

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“come” di questo muoversi-in interpretato, parlato, intonato è spazio, “spazieggia”. Temporalità e spazialità esistenziali a rigor di termini, infatti, non “sono”: Il tempo è il “come”. Quando viene domandato cosa sia il tempo, non dobbiamo avventatamente dipendere da una risposta del tipo “il tempo è questo o quest’altro”, la quale intende sempre un “che cosa”. La proposizione fondamentale: “il tempo è temporale” è pertanto la determinazione più propria e non è affatto una tautologia, poiché l’essere della temporalità significa diversamente dall’essere della realtà. […] Il tempo è senza senso; tempo è temporale.89

O, come si esprimerà Heidegger in Essere e Tempo e in molti altri luoghi: “Zeitlichkeit zeitigt sich”. Possiamo quindi provare a rispondere alla domanda posta in precedenza: Qual è il senso del verbo essere nelle proposizione indicative, “esistenziali”? In che senso il mondo è? Ogni esistenziale, in quanto indicazione formale, non si riferisce né a un oggetto mondano, a un significato o a un denotato, non descrive dunque alcuna Tatsache in un enunciato constativo-apofantico, la cui forma di verità è il poter essere vero o falso, né si riferisce ad un correlato essenziale entro la Ordnung formale della Bewusstsein, l’operazione apofantica originaria “S è P”, bensì indica la modalità in cui, qui ora, ogni comportamento determinato riferendosi a un esperito, a un significato, è parimenti riferito a questo “che”, a “sé”, in questo tempo momento. Il senso del verbo essere sotteso a tutti i pronomi personali, a tutte le indicazioni formali, a tutti gli 89. Il brano originale: «Die Zeit ist das Wie. Wenn nachgefragt wird, was die Zeit sei, dann darf man sich nicht voreilig an eine Antwort hängen (das und das ist die Zeit), die immer ein Was besagt. […] Die Grundaussage: die Zeit ist zeitlich, ist daher die eigentlichste Bestimmung -und sie ist keine Tautologie, weil das Sein der Zeitlichkeit ungleiche Wirklichkeit bedeutet. […] Die Zeit ist sinnlos; Zeit ist zeitlich». Ivi, pp. 123-124.

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esistenziali può essere inteso come un performativo negativo: il contenuto degli enunciati esistenziali indica l’aspetto illocutivo e perlocutivo di ogni esperienza, l’accadere dei suoi stessi presupposti, qui e ora, in e con essa. In questo senso, il mondo non “è” ma si fa mondo (es weltet), così come lo spazio non “è” e il tempo si temporalizza. Nello stesso senso “è”, “esiste” l’esserci e il suo esser-sempre-mio essendo-l’un-con-l’altro-divolta-in-volta, così io sono, tu sei, egli è, noi siamo, voi siete, essi sono. Gli esistenziali indicano indirettamente i presupposti di ogni esperienza determinata e, parimenti, co-incidono con i cooriginari fenomenizzarsi (zeitigt sich, es gibt, es weltet) di questi stessi presupposti con e in questa esperienza determinata. L’apriori quindi non è né “dietro” ai fenomeni, né assume i tratti di un res, «di un post-posto reificato»90, bensì ha il carattere, se così possiamo esprimerci, di una forma verbale intransitiva, co-incide cioè con l’immanente trascendersi, temporalizzarsi, possibilizzarsi dell’esperienza, qui e ora, in e con ogni esperienza. Riprendendo le parole di Heidegger già citate: «La cura nella sua apriorità esistenziale si situa “prima” di ogni “comportamento” e “situazione” effettiva dell’esserci (cioè già sempre in ognuno di essi)»91. Non solo dunque “il contenuto” dell’enunciato indicativo formale, esistenziale, co-incide effettivamente con il “fatto” dell’enunciare, ma questo “fatto” non può essere pensato come un’azione in prima persona poiché implica l’esserci, il temporalizzarsi della totalità degli esistenziali cooriginari (che incarnano ogni esperienza determinata) con e in questa esperienza determinata:

90. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 121. 91. M. Heidegger, GA 2 p. 257, trad. it. p. 236.

254 L’esserci non è da dimostrare in quanto ente, ma neppure da mostrare. Il riferimento primario all’esserci non è la riflessione, bensì l’esserlo.92 [Das Dasein ist als Seiendes nicht zu beweisen, nicht einmal aufzuweisen. Der primäre Bezug zum Dasein ist nicht die Betrachtung, sondern das „es sein“.] 

Si tratta adesso di approfondire la natura media, negativa e impersonale di questo performativo, il senso della tautologia: die zeit ist zeitlich, che non mette in atto la potenza, la dýnamis di ciò che può essere diversamente da quel che è, ma indica il Möglichsein, un senso della possibilità che co-incide col negarsi.

92. M. Heidegger, Der Begriff der Zeit (Vortrag 1924), GA 64 p. 114, trad. it. Il concetto di tempo, cit. p. 34.

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Capitolo quarto La rottura della práxis aristotelica: la riformulazione del performativo

§1 L’interpretazione fenomenologica del VI libro dell’Etica nicomachea Affrontiamo l’interpretazione heideggeriana del VI libro dell’Etica nicomachea per provare a disegnare la figura di quel che in via preliminare abbiamo definito “performativo standard”. Il nostro intento non è quello di chiarire il rapporto tra Heidegger e Aristotele, a cui del resto sono stati dedicati già numerosissimi studi1, bensì di affrontare la questione solo 1. Segnaliamo gli studi a nostro avviso più significativi tra quelli che si concentrano sul rapporto tra Heidegger e Aristotele anteriore a SundZ e, in particolare, all’interpretazione fenomenologica del VI libro dell’Etica nicomachea, che è al centro di questo studio: J. A. Escudero, El giovane Heidegger. Asimilacion y radicalizacion de la filosofia pràtica de Aristòteles, in «Logos, Anales del Seminario de Metafisica», 34, 2001, pp. 179-221; R. Bernasconi, Heidegger’s Destruction of phrónesis, in «The southern Journal of philosophy», 28, 1989, pp. 127-147; J. Taminiaux, Heidegger and the project of fundamental ontology, SUNY Press, New York 1991; dello stesso autore si veda anche: Heidegger et la práxis, in «Cahiers de l’Ecole des Sciences Philosophiques et Religieuses», 6, 1989, pp. 29-54; J. Van Buren, The young Heidegger, Aristotle and Ethics, in A. Dallert e C. Scott (ed.), Ethics and Danger. Essey on Heidegger continental thought, State University Press, Albany 1992, pp. 165-185. Segnaliamo inoltre il primo numero monogra-

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indirettamente, in vista dei nostri scopi: usare l’interpretazione fenomenologica delle figure chiave dell’Etica aristotelica per provare a pensare, a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos, proprio e improprio inscritta nel Dasein (ed emersa nell’interpretazione fenomenologica della fatticità espressa nell’Annuncio paolino), la dimensione performativa negativa della prassi, la rottura della sua autotelicità, dell’identità pratico-noetica. In altri termini: il rovescio negativo della performatività. Perché infatti rivolgersi all’Etica nicomachea per esplorare i differenti modi dello scoprimento (alethéuein)? Perché, in altre parole, affrontare il problema della verità in un testo di “etica”, da anteporre (tra l’altro) all’analisi del Sofista platonico?2 La necessità interna al discorso fenomenologico di dar conto di quel circolo delle fondazioni in base al quale la Anschauungs-Wahrheit pur fondando la logos-Wahrheit ne condivide parimenti la forma, allo stesso modo in cui il noûs, pur risalendo al fondamento della verità apofantica, intende parimenti la coincidenza tra datità e modo di datità

fico dedicato a Heidegger e Aristotele dello Heidegger-Jahrbuch: A. Denker, G. Figal, F. Volpi, H. Zaborowski (Hrsg.), Heidegger und Aristoteles, Heidegger-Jahrbuch 3, Karl Albert, Freiburg und München 2007. Per una bibliografia completa rinviamo all’archivio della Albert Ludwig Universität Freiburg http://www.ub.uni-freiburg.de/fileadmin/ub/referate/02/heidegger/heidegger_20.html. Non abbiamo fatto riferimento qui ai lavori di Volpi poiché, nel corso di questo studio, ci confronteremo criticamente con l’interpretazione pioneristica e paradigmatica del filosofo italiano. Gli studi di Volpi verranno indicati nel prossimo paragrafo (Infra, cap. IV §2). 2. Il riferimento è alla Vorlesung del semestre invernale 1924-1925 dedicata al Sofista di Platone, introdotto con la lettura del VI libro dell’Etica nicomachea di Aristotele: M. Heidegger, Plato.Sophistes, Klostermann, Frankfurt a. M., 1992, GA 19, ed. it. a cura di N. Curcio, Il «Sofista» di Platone, Adelphi, Milano 2013.

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come identità, come esser presente della presenza3, impone di andare a cercare un’altra modalità del légein e parimenti dell’alethéuein, in base alla loro cooriginarietà. Ecco perché un testo di “etica”; o meglio, ecco perché un testo in cui si domanda quale sia la beltíste héxis umana: che al contrario del puro noeîn, áneu lógou, è sempre metá lógou dove il metá «non significa che il parlare sia un accessorio arbitrario dell’alethéuein, bensì il metá, che deriva da meson […] significa che in sé stesso, intrinsecamente, l’alethéuein è un légein»4. Questa osservazione trova la sua motivazione profonda nel fatto che l’essere umano dell’uomo risiede nel lógon échon: Poiché l’essere dell’uomo è determinato in quanto zôon lógon échon, poiché l’uomo parla e appella le cose che vede, il puro percepire (Vernehmen) è sempre un discutere (Durchsprechen). Il puro noeîn si attua come thigeîn. Ma il noeîn che si attua all’interno dell’ente che ha il logos è sempre un dianoeîn.5

Il puro noeîn rivolto all’asŷntheta la cui modalità di attuazione è il thigeîn implica una coincidenza tra datità e modo di datità, cosa (was) e come (wie), trasparente a sé stessa: la correla3. Dobbiamo l’impostazione fenomenologica dell’interpretazione heideggeriana dell’Etica aristotelica alle analisi svolte da P. Ciccarelli, Il difficile fenomeno del noûs: la phrónesis aristotelica nell’interpretazione di Heidegger, cit. p. 134. Al contrario di quest’ultimo, tuttavia, ritroviamo la figura della correlazione e dunque la coappartenenza di “cosa” e “come” nell’inscindibilità del rapporto tra kairós e chrónos emersa nel confronto con la fatticità cristiana, ben prima dunque del confronto con Kant, a cui C. attribuisce la radicalizzazione della finitezza. In ogni caso, quel che in questo studio ci interessa affrontare è la riformulazione della figura dell’autoriferimento performativo a partire da un senso non apofantico di disgiunzione, chiarendo in che modo si riconfiguri il rapporto tra póiesis/práxis a partire dalla dis-giunzione costitutiva kairós/chrónos e da un senso del “non” né negativo né privativo. 4. M. Heidegger, GA 19 p. 27, trad. it. p. 72 [trad. mod.]. 5. Ivi, p. 179, trad. it. p. 209.

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zione cioè assume il senso dell’esser presente di fronte a ciò che è eternamente presente (aei). Il noeîn, infatti, pensato in parallelo6 al toccare, è esso stesso il medio attraverso il quale il percepire si attua, non si tratta di un percepire tramite un medio, come è il caso ad esempio di vista e udito che per percepire hanno bisogno della luce e dell’aria. In tal senso dunque il noeîn, nel rivolgersi all’asŷntheta, a ciò che è sempre in atto e non permette alcuna separazione sintetico-diaretica – in linguaggio fenomenologico: nell’intenzionare il plesso in cui coincidono cosa e come – è parimenti trasparente a sé stesso. È proprio questo parallelismo, a mio avviso, a dar conto ancora una volta della convergenza tra il noûs aristotelico e il principio di tutti i principi husserliano: «l’ente che si mostra nel thigeîn e nel phánai ha la sua propria vicinanza – osserva Heidegger – al cui interno non c’è alcuna distanza […], c’è invece solo quel che si fa incontro in sé stesso, nient’altro che ciò che è presente puramente in sé stesso»7. Abbiamo quindi nel thigeîn una coincidenza tra datità e modo di datità, cosa e come, una trasparenza, che richiama con il “toccare” un “medio” che è esso stesso sárx, quell’avere le cose in carne e ossa in cui si rivela la cifra della fenomenologia, ovvero il luogo in cui la fenomenologia husserliana «concependo in modo caratteristicamente ampio e fondamentale l’intuizione – il dare e l’avere un ente nella sua Leibhaftigkeit

6. Ci riferiamo all’interpretazione heideggeriana di Met. Theta 10 contenuta in M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, GA 21, cit. p. 176, trad. it. p. 100. Sul rapporto tra il noeîn e il thigeîn nell’interpretazione heideggeriana si veda il già menzionato testo di F. Chiereghin, Essere e Verità, Note Logik. Die Frage nach der Wahrheit, cit. Chiereghin situa la rottura di Heidegger con la comprensione greco-aristotelica della verità proprio nell’attuazione (Vollzug) del thigeîn kai phánai. Secondo Heidegger, questo Vollzug, in sé stesso temporale, è infatti un presentare. 7. Ivi, p. 180, trad. it. p. 121.

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– […] ha pensato fino in fondo (zu Ende gedacht) la grande tradizione della filosofia occidentale»8. Il fatto che lo sguardo acquisito nell’esercizio della visione d’essenza si volga sin da subito al noûs aristotelico e guidi la ricerca della dimensione di senso, di espressione della fenomenologia è testimoniato anche dalle parole di Gadamer, secondo cui l’intento del confronto di Heidegger con il VI libro dell’Etica nicomachea «era la critica al concetto del divino inteso come l’ente che si mantiene interamente nel presente di un costante compimento, a cui nulla manca e nel quale nulla rimane soltanto inteso o desiderato, ma appunto essere divino e non umano»9. Critica da intendere in senso schiettamente fenomenologico, che fa leva cioè sul testo aristotelico per sollecitare la contraddizione interna alla fenomenologia tout court: Perciò l’idea di questo essere […] sta nell’essere costantemente presente alla presenza dell’aei. Tuttavia Aristotele sottolinea che l’esistere dell’uomo non perdura in questo atteggiamento per tutto il tempo della sua vita. Il modo del suo esser temporale gli rende impossibile essere costantemente presso l’aei. L’uomo ha bisogno di riprendersi, di riposarsi dal carico del theoreîn10.

L’esser presente della presenza non è altro che la figura della correlazione, il senso della coincidenza di “cosa” e “come”, le “cose stesse” della fenomenologia. È dunque il primato husserliano della Anschauung, del Vernehmen, pensato fino in fondo nel theoreîn greco, a venir criticato fenomenologica-

8. Ivi, pp. 113-114, trad. it. p. 77. 9. H. G. Gadamer, Heideggers “theologische” Jugendschrift, in M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles (1922), Philipp Reclam, Stuttgart 2003, p. 84. 10. M. Heidegger, GA 19 pag. 134, trad. it. p. 169.

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mente: le cose infatti non sono “date” di contro a (Gegenstände) o presenti nel loro esser presenti (Gegenwärtig) ma innanzitutto incontrate come pragma e, per questo, pro-gettate (Entworfen), oltrepassate. Già nel concetto paolino di parusía è emersa una co-incidenza tra datità e modo di datità che esclude l’immanenza, l’esser-presente della presenza intesa nel termine greco, implicando una torsione verso il non-più e il non-ancora (la ri-comparsa del messia già comparso) che inscrive nella presenza di ciò che è presente, nella co-incidenza di “cosa” e “come”, un “no” che non si identifica né con una privazione né con una semplice negazione, implicando parallelamente un senso peculiare del tempo in base al quale “futuro” non significa “ora non ancora” bensì in quanto non-ancora già non-più. Sintetizzando il senso della temporalità emersa nel confronto con Paolo: il modo in cui il futuro, il “come”, il “non-ancora”, l’attesa, si dà, si fenomenizza, è il “non-più”, l’esser-divenuto: il “dass”. Nei termini di Sein und Zeit: il “passato scaturisce dall’avvenire” poichè il modo in cui l’avvenire si dà è “l’esser-stato”. È questa stessa modalità di attuazione del “come”, l’esser-stato dell’avvenire, il suo carattere gewesen a implicare il suo oblio nell’aspettarsi: il suo non esserci, il non della sua non attuazione (vollzugsmäßige-Nicht), «il nascondimento del contesto d’attuazione da parte del riferimento da esso stesso motivato»11, la sua Un-eigentlichkeit; a dar conto cioè del fatto che «l’origine dello scaturire fuggendo via del presente, cioè la deiezione nella perdizione, è costituita dalla stessa temporalità originaria e autentica».12 Ai fini del nostro lavoro è cruciale sottolineare che, al contrario del puro noeîn rivolto all’asŷntheta, nel noeîn che appartiene alla motilità di svelamento dell’essere umano dell’uomo, ani-

11. M. Heidegger, GA 60 p. 109, trad. it. p. 151. 12. M. Heidegger, GA 2 p. 461, trad. it. p. 412.

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male che ha il linguaggio, è inscritto il dia: per questo, secondo l’interpretazione heideggeriana, il dianoeîn viene inteso da Aristotele come un noûs inautentico. È questa improprietà del dianoeîn umano rispetto al puro noeîn a offrire un indizio cruciale per la riformulazione della figura della performatività. Il rapporto tra noeîn e dianoeîn infatti non solo compare in maniera ossessiva ‘martellando’ la Vorlesung del 1924-25 e offrendo in tal modo un vero e proprio “motivo” fenomenologico su cui è possibile far leva, ma implica anche la necessità di domandare se la dis-giunzione proprio/improprio inscritta nella modalità d’essere dell’esserci, nell’autoriferimento dell’esserci a sé, al suo “che”, sia restituita dal rapporto noeîn-dianoeîn o se la lettura heideggeriana, piuttosto, non implichi un vero e proprio capovolgimento del paradigma aristotelico: Va detto in via preliminare che il noûs come tale non è una possibilità di essere dell’uomo. Ciò nonostante, il noûs è riscontrabile nell’esserci umano nella misura in cui quest’ultimo è caratterizzato da un intendere (Vermeinen) e un apprendere (Vernehmen). Aristotele chiama quest’ultimo o kalúmenos tês psychês: il “cosiddetto” noûs. Vale a dire: il noûs improprio. Tale noûs, qual è nell’anima umana, non è un noeîn, uno vedere puro e semplice, bensì un dianoeîn poiché l’anima umana è determinata dal logos. Il noeîn diviene un dianoeîn in virtù del logos, dell’appellare qualcosa in quanto qualcosa. Al di fuori del noûs non rimane nessun altro modo dell’alethéuein che in senso proprio sia un alethéuein delle archaí. Ora, poiché la sophía prende in considerazione ciò per cui le archaí sono archaí, Aristotele può connotare la sophía come noûs kaì epistéme, cioè come un alethéuein che da un lato si fa carico in un certo qual modo dell’alethéuein del noûs, dall’altro possiede il carattere specifico della epistéme.13

13. M. Heidegger, GA 19 p. 59, trad. it. p. 102.

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Si tratta non solo di dar conto del capovolgimento del primato che Aristotele attribuisce alla sophía sulla phrónesis, primato individuato a partire dal modo d’essere dell’ente colto dal puro noeîn, il sempre essente; ma si tratta anche di domandare se il carattere autotelico della phrónesis, la struttura dell’autoriferimento propria della proháiresis restituisca il senso dell’autoriferimento sotteso ai concetti formalmente indicanti (gli esistenziali), o se piuttosto la dis-giunzione proprio/improprio implichi, in uno con la inscindibilità di chrónos e kairós emersa nel confronto con Paolo un’altra comprensione del modo d’essere di ciò che può essere diversamente da quel che è, riformulando tanto il senso della “contingenza”, quanto la disgiunzione póiesis/práxis e parimenti il rapporto tra potenza e atto, e ripensando così lo stesso senso della dýnamis. Criticare fenomenologicamente la struttura autotelica della proháiresis permette (almeno è quel che ci proponiamo di mostrare) di riformulare la figura del performativo, facendo emergere il suo carattere negativo, medio e impersonale, lo stesso che appartiene alla dimensione di senso della prassi fenomenologica. §2 La cooriginarietà di aporeîn, alethéuein e légein e il capovolgimento del primato della sophía sulla phrónesis: Aristotele contro sé stesso L’analisi fenomenologica del VI libro dell’Etica nicomachea – come è stato rilevato dal lavoro pioneristico di Franco Volpi14 14. F. Volpi, Heidegger e Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2010; si tratta della riedizione del lavoro che ha aperto la strada agli studi sull’appropriazione heideggeriana di Aristotele, pubblicato per la prima volta nel 1984. Riportiamo di seguito le opere principali di Volpi in riferimento al tema che ci interessa: Dasein comme práxis: l’assimilation et la radicalisation heideggerienne de la philosophie pratique d’Aristote, in Heidegger et l’idée de la phénoménologie, Kluwer, Dordrecht 1988, pp. 1-41; „Sein und Zeit“: Homologien zur „Nikomachischen Ethik“, in «Philosophisches Jahrbuch»,

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– può essere letta come una traduzione sul piano ontologico delle virtù dianoetiche, interpretate come motilità di scoprimento dell’esserci. Eppure, a fronte della considerazioni finora svolte, questa “traduzione” non si limita affatto a capovolgere il primato che Aristotele attribuisce alla sophía, modalità di avere il logos rivolta all’ente che si mantiene eternamente nel presente, per attribuire lo stesso primato alla phrónesis, lasciando intatto il senso di queste determinazioni; ma implica piuttosto, in e con questo capovolgimento, una vera e propria riformulazione tanto del senso d’essere dell’ente intenzionato nella saggezza quanto, correlativamente, dell’autotelicità inscritta nella práxis, il senso d’attuazione (Vollzug) della phrónesis. Quest’ultima, in quanto modalità del logistikón, condivide con la téchne il fatto di scoprire l’ente che può essere diversamente da quel che è, quell’endechómenon che è proprio della modalità d’essere umano dell’uomo. Rispetto alla téchne però la phrónesis è maggiormente scoprente poiché è in grado, in riferimento all’ente che può essere diversamente, di coglierne le archaí, i “principi”, che in questo caso non sono prôta ma éschata.

96, 1989, pp. 225-240; La question du logos dans l’articulation de la facticité chez le jeune Heidegger, lecteur d’Aristote, in J. F. Courtine (éd.), De l’herméneutique de la facticité à la métaphysique du Dasein, Paris 1996, pp. 33-65; Phenomenology as possibility: the phenomenological appropriation of the history of philosophy in the young Heidegger, in «Research in Phenomenology», 30, 2007, pp. 120-145; “Das ist das Gewissen!” Heidegger interpretiert die Phrónesis (Ethica Nicomachea VI, 5), in M. Steinmann (Hrsg.), Heidegger und die Griechen, Klostermann, Frankfurt a. M. 2007, 165-180. Rimandiamo all’elenco completo delle opere di Volpi: http://www.istitutoveneto.it/iv/presentazione/soci/socio.php?id=211. In merito agli studi e lo sviluppo del pensiero del filosofo italiano abbiamo fatto riferimento per un inquadramento generale a P. Ciccarelli, Les Grecs de Heidegger iuxta propria principia. Hommage à Franco Volpi, in corso di pubblicazione.

264 Appartenendo al logistikón, la téchne è un’apertura dell’ente […] “che può anche essere diversamente” (Eth. Nic. VI, 4, 1140a1). A tale ente però si riferisce anche la phrónesis. All’interno dell’endechómenon vi è allora una differenza: esso può essere un poietón o un praktón, cioè tema di una póiesis, del produrre, o di una práxis, dell’agire.15

L’interpretazione di Volpi rintraccia nella lettura heideggeriana delle virtù dianoetiche aristoteliche quelle motilità fondamentali dello scoprire (Entdecken) e dell’aprire (Erschliessen) che verranno riprese e sistematizzate in Sein und Zeit: in particolare rileva il parallelismo tra la theoría e quel modo d’attuazione dell’Hinsehen che scopre l’ente in quanto Vorhanden; la póiesis e quel modo d’attuazione del riferimento che nell’avere a che fare con le cose le scopre in quanto Zuhanden ed è riferita a sé nel modo del “via da sé” (von sich weg); e infine la motilità d’apertura della práxis che, secondo Volpi, restituisce il carattere dell’autoriferimento dell’esistenza, il suo essere “in vista di sé” e del “mondo” (Worumwillen), la struttura fenomenologica dell’«auf sich selbst zurück»16:

15. M. Heidegger, GA 19 p. 38, trad. it. p. 82. 16. Secondo Volpi: «È possibile ora fare una ulteriore considerazione, dalla quale risulterà come Heidegger si riferisca in particolare alla determinazione aristotelica della práxis come a quel modo d’essere nel vero dell’anima che ha in sé stesso il proprio fine, e come egli la utilizzi nella determinazione della struttura dell’esserci», F. Volpi F., Heidegger e Aristotele, cit. pp. 6566. L’appropriazione ontologico-fenomenologica di Aristotele risiede per Volpi solo nel fatto che, al contrario di quanto avvenga in Aristotele «in Heidegger […] la determinazione pratico-morale non è solamente un aspetto determinato tra molti altri, ma è la connotazione fondamentale dell’esserci. Essa diventa così la determinazione ontologica dell’esserci e perciò assume rispetto all’attuarsi di quest’ultimo una dimensione per così dire omnicomprensiva, nel senso che il riferimento pratico-morale al proprio essere non è in atto soltanto nel compiere azioni morali determinate o nel perseguire finalità determinate, ma si ha tanto nel compiere che nel non compiere, tanto nel perseguire che nel non perseguire. Esso riguarda cioè il vivere stesso

265 In una interpretazione del VI libro dell’Etica nicomachea risalente agli anni del primo insegnamento […] ma della quale rimangono tracce evidenti […] in Essere e tempo Heidegger crede di poter individuare nella trattazione aristotelica delle virtù dianoetiche l’elaborazione di altrettante determinazioni della vita umana cosciente, che Husserl aveva invece appiattito sulle sole categorie della theoría. […] Con tutte le cautele che un raffronto del genere impone, non è azzardato vedere una corrispondenza, non solo formale, tra la distinzione heideggeriana di questi tre modi d’essere (Dasein, Zuhandenheit, Vorhandenheit) e le determinazione aristotelica della práxis, della póiesis e della theoría. […] Prima, però, è opportuno fare un’ulteriore considerazione. Bisogna cioè constatare che, quand’anche la corrispondenza fosse piena, ciò che distingue profondamente la ripartizione heideggeriana da quella aristotelica è la gerarchia secondo la quale i tre modi dell’essere sono coordinati fra di loro. In Aristotele, infatti, è il carattere dell’ente cui sono diretti rispettivamente l’atteggiamento teoretico, l’atteggiamento poietico e l’atteggiamento pratico a fungere da criterio per ordinare questi ultimi secondo una scala di valore; ed è appunto per il carattere del proprio oggetto che la theoría viene considerata come l’attività eccelsa per l’uomo. In Heidegger, invece, l’ordine di valore tra i tre modi d’essere distinti non si orienta sull’oggetto, ma è ricavato dalla riflessione sulla peculiarità del modo d’essere proprio della vita umana, dell’esserci, e dall’assegnazione a quest’ultimo del primato ontico e ontologico.17

Possiamo radicalizzare questa considerazione sottolineando il carattere precipuamente fenomenologico del rovesciamento nella sua cruda nudità». Ivi, p. 67. A nostro avviso, invece, come tenteremo di mostrare, nella lettura fenomenologica di Aristotele è in gioco la radicale riformulazione dell’autotelicità della práxis, che implica la rottura dell’autoriferimento, dell’identità noetica di ciò che può essere diversamente. Ci interessa guadagnare questo elemento poiché è a partire da qui che l’autoriferimento performativo si rovescia in un performativo negativo. 17. Ivi, pp. 58-60.

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della “gerarchia” delle virtù dianoetiche. Il fatto che lo Stagirita disponga i tre modi massimamente scoprenti adottando come criterio il «carattere del proprio oggetto» o «dell’ente» è un’affermazione che può risultare fuorviante se non si bada alla prospettiva schiettamente fenomenologica che guida l’interpretazione: la sophía in quanto noûs kaì epistéme è quella práxis massimamente scoprente che si attua come theoreîn – modalità del lógon échein (epistemonikón) che scopre l’aei – proprio perché in essa la modalità dello scoprimento (wie) e ciò che viene scoperto (was) coincidono (dass) nella pura trasparenza di sé: «in quella vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza»18 più volte citata. Tuttavia questa trasparenza, questo annullamento di ogni distanza – al contempo umana e non umana (come rilevato dallo stesso Heidegger nel passo sopracitato) – non è affatto “casuale”: essa si fonda piuttosto in quella motilità dell’aporeîn – a cui sono cooriginari légein e alethéuein – che intesse il movimento di fuga dalla ágnoia rintracciato nella psyché qua Dasein. Prima di tornare su questo punto è necessario ribadire che non è “l’oggetto” o “l’ente”, secondo una prospettiva fenomenologica, a guidare il gesto aristotelico (in tal caso non si darebbe conto della correlazione, dell’inscindibilità cioè tra il modo dell’esser scoperto di qualcosa (wie-was) e la modalità in cui lo scoprimento è riferito a sé, al suo “che”), ma è piuttosto una pre-comprensione dello svelamento come esser presente (wie) di ciò che è presente (was) in quanto presenza essenziale (dass) a rivelarsi cruciale. Non dunque l’“oggetto” o “l’ente” ­– come sostiene Volpi – ma quel modo d’essere che si attua come presentificare (Vergegenwärtigen) il cui correlato è parimenti nel modo dell’esser presente di fronte. 18. M. Heidegger, GA 20 p. 180, trad. it. p. 121.

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Beninteso, non si tratta affatto di abbracciare a tutti i costi l’interpretazione heideggeriana di Aristotele, bensì di assumerla per muovere un passo diverso, per domandare cioè, in e con essa, come possa esser ripensata la figura dell’autoriferimento inscritta nella performatività. Si tratta di far emergere il carattere performativo della prassi fenomenologica per ripensare da un lato la correlazione a partire dal performativo e, dall’altro, per riformulare a fronte del senso “negativo” della co-incidenza di “cosa” e “come” la stessa figura della performatività. Nell’interpretazione heideggeriana, si diceva, il primato di quella prassi che è la sophía (ricalcato sul modello del noûs: «virtù umanamente impossibile»19) non viene semplicemente sostituito con un altro primato, quello «ontico e ontologico dell’esserci»20. Al contrario di quanto sostiene Volpi, non si tratta, a mio avviso, di un semplice rovesciamento a fronte dell’assunzione di un altro criterio, fondato non più sul primato dell’oggetto ma del Dasein; in questione è, piuttosto, la possibilità di dar conto fenomenologicamente dello scaturire immanente del primato della sophía dall’interpretazione quotidiana dell’esserci (greco), indicando così quel contro movimento che, in questo tempo-momento, conduca la fenomenologia fino a sé; Gegenbewegung che, come ci proponiamo di mostrare, implica un ripensamento del rapporto tra téchne e phrónesis, riformulando lo stesso senso cairologico della Dies­ maligkeit. Leggiamo come Heidegger interpreti lo scaturire della sophía a partire dall’interpretazione quotidiana dell’esserci: La sophía prende le mosse dal thaumázesthai, cui già nell’esserci naturale si perviene assai presto – thaumázei ei oútos

19. L’espressione è di P. Ciccarelli, Heidegger e il difficile fenomeno del noûs, cit. p. 9. 20. F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit. p. 60.

268 échei (Cfr. 983 a 13 ss.) “Quando si incontra qualcosa ci si stupisce che sia effettivamente così” come si mostra. […] Qualcosa è sorprendente, “stupefacente” per l’osservazione nella misura in cui questa, basandosi sulla capacità di comprensione di cui dispone, di fronte alla situazione che incontra non riesce a venirne a capo. Essa urta contro ciò che le si mostra. E invero il primo stupore sorse inizialmente solo al cospetto di ciò che è a portata di mano: tà prócheira, “ciò che sta davanti alla mano”. […] Aristotele interpreta lo stupirsi come un fenomeno originario dell’esserci, mostrando che in esso emerge la tendenza al theoreîn; nell’esserci risiede già da principio una tendenza al puro vedere e al semplice comprendere. Aristotele usa in proposito una espressione comune nella filosofia del suo tempo: aporeîn. Áporos è ciò che manca di uscita, ciò da cui non si viene fuori.21

È interessante rilevare che Heidegger dia conto del primato della sophía a partire dalla comprensione quotidiana dell’esserci greco o, potremmo dire, dell’esserci tout court, come del resto già nella stessa fatticità della vita è emersa una tendenza al prendere conoscenza, così come in Sein und Zeit l’Hinsehen come atteggiamento contemplativo di fronte a ciò che è alla mano si fonda nel Verfallen e scaturisce dunque (capovolgendo il senso che questa locuzione assume nella fenomenologia husserliana) dall’“atteggiamento naturale” dell’esserci. Potremmo accostare a questa descrizione del thaumázein e dell’aporeîn quel luogo cruciale di Sein und Zeit in cui l’interruzione del commercio quotidiano con le cose (pragma) indica l’inizio tanto dell’atteggiamento puramente teoretico, che in questo contesto viene definito un «puro vedere e semplice comprendere»22, il theoreîn appunto, quanto del contro movimento che conduce la fenomenologia fino a sé. L’annunciarsi

21. M. Heidegger, GA 19 p. 126, trad. it. pp. 162-163. 22. Ibidem.

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del fenomeno del “mondo”, infatti, non è altro che il fenomenizzarsi nell’ente alla mano – tà prócheira – della totalità dei rimandi che, se innanzitutto e per lo più, nell’avere a che fare quotidiano, scompaiono per far emergere l’ente in quanto tale, intessendo il suo contesto, lo sfondo della sua figura, ora, quando il muoversi irriflesso nella catena dei rimandi viene interrotto23, “gravano” su di esso, si mostrano a suo carico. Qui si fenomenizza, nell’assentarsi che co-incide con l’emergere di volta in volta di una figura, lo sfondo con e in cui la si vede in quanto tale. In questo luogo, tà prócheira 24 possiede, infatti, un ruolo ambiguo e cruciale: è tanto indice del primo strato esistenziale del fenomeno del mondo – lo sfondo della figura, la totalità della significativà e dei rimandi che intessono il “contesto” sul quale si staglia il singolo ente, totalità che si annuncia quando il commercio diviene áporos, non ne viene a capo – quanto indice dell’atteggiamento teoretico, del theoreîn: è come se si indugiasse già sempre e ancora in questo luogo, ripetendo, qui e ora, l’atteggiamento dell’esserci greco di fronte a questa aporía, a questo non venirne a capo con il sapere di cui si dispone:

23. Ci riferiamo, com’è noto, al celebre luogo di SundZ, §16. 24. Su questo punto ha richiamato l‘attenzione, in riferimento a SundZ, lo stesso Volpi: «Durch den Terminus Vorhandenheit spielt Heidegger möglicherweise auf den aristotelischen Ausdruck tà prócheira an der berühmte Stelle der Metaphysik an, an der es heisst, dass die Menschen seit je durch das Staunen, und zwar über das unmittelbar Vorliegende und Auffällige tà prócheira, zu philosophieren begannen (Met I, 2, 982, b 12-13)». F. Volpi, Der Status der Existentialen Analytik, in T. Rentsch (Hrsg.) Martin Heidegger Sein und Zeit, Akademie Verlag, Berlin 2001, p. 37. Per un lettura del ruolo che la mano assume all’interno della fenomenologia heideggeriana e in particolare sul senso della Leibhaftigkeit: J. F. Courtine, Donner/prendre: la Main, in «Heidegger Studies», Vol. 3-4, 1987-1988, pp. 25-40.

270 Colui che prolunga questo aporeîn e diaporeîn e cerca di venirne a capo (durchkommen) rivela in tale sforzo di fuggire (fliehen) di fronte alla ágnoia, di fronte all’Unwissenheit, al coprimento (Verdecktheit) e di perseguire l’epístasthai, il sapere, l’avere lì innanzi a sé l’ente in quanto scoperto.25

Questo movimento di fuga di fronte all’Unwissenheit, di fronte alla ágnoia “tradito” dalla motilità transitiva dell’aporeîn è ciò dunque da cui scaturisce la sophía in quanto theoreîn. È questo stesso movimento a spiegare perché il primato della sophía sulla phrónesis sia deciso a partire dal carattere dell’ente a cui la sophía si riferisce, nonostante il fatto che il comportamento che appartiene allo scoprire il sempre essente escluda propriamente l’essere dell’uomo, a partire dal fatto che «il modo del suo essere temporale gli rende impossibile essere costantemente di fronte al sempre essente»26. Questo – a detta di Heidegger – «i Greci lo hanno chiarito per sé stessi […]. L’esistere dell’uomo non è aei, non è per sempre; l’essere dell’uomo nasce e scompare […]; con ciò si è preliminarmente indicato dove stia la base del primato della sophía rispetto alla phrónesis. La sophía ha il primato in riferimento all’ente in sé stesso, in quanto l’ente cui essa mira ha, in senso greco, il primato nell’ordine dell’essere. L’ente viene avvistato a partire da ciò che già sempre vi è in esso»27. Possiamo dunque dire con Volpi che la decisione del primato della sophía è presa da Aristotele a partire dall’ente che essa scopre, mentre Heidegger attribuisce questo primato all’esserci ma, più radicalmente, appartiene all’esserci stesso la tendenza a fuggire di fronte all’ágnoia, di fronte all’Unwissenheit: la sophía in quanto determinazione dell’aporúmenon,

25. M. Heidegger, GA 19 p. 128, trad. it. p. 164. [trad. mod.]. 26. Ivi, p. 134, trad. it. p. 169. 27. Ivi, p. 137, trad. it. p. 172.

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dell’ente di cui non si viene a capo, che coincide parimenti con il legómenon (di cui Heidegger in uno schema traccia la cooriginarietà)28, indica quel movimento di fuga di fronte all’Unwissenheit da cui essa stessa scaturisce assecondando per così dire questa sua stessa inclinazione. Il primato attribuito da Heidegger alla phrónesis, in quanto modalità massimamente scoprente, è volto, a mio avviso, a compiere un contro movimento rispetto a questo fuggire, volgendo Aristotele contro sé stesso; o meglio: è volto a comprendere fenomenologicamente questa motilità di fuga in quanto tale, quel «Fliehen»29 che, non a caso, in Sein und Zeit diverrà uno degli esistenziali fondamentali e che, a mio avviso, segna la distanza di Heidegger da Aristotele e implica una nozione di negazione che non è l’alfa privativo proprio della ágnoia, della Unwissenheit – nel senso transitivo che Aristotele le attribuisce – bensì quel senso del “non”, né privativo né negativo, che è emerso nel confronto con Paolo e che implica l’indissolubilità di kairós e chrónos. §3. Téchne e phrónesis – póiesis e práxis: la struttura dell’(auto)riferimento Per poter disegnare la figura del performativo “standard” è necessario approfondire il rapporto tra téchne e phrónesis, chiarendo il senso dell’improprietà che Heidegger attribuisce al comportamento poietico della téchne rispetto al carattere propriamente scoprente (cioè noetico) inscritto nell’attuazione pratica della phrónesis. In tal modo sarà possibile mostrare che l’appropriazione fenomenologica delle figure chiave dell’Etica aristotelica implica la loro radicale riformulazione,

28. Ivi, p. 127, trad. it. p. 163. 29. M. Heidegger, GA 2 § 40.

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che è in grado di ridisegnare, insieme al rapporto tra autotelicità ed eterotelicità, la stessa di-sgiunzione tra proprio e improprio, performativo/constativo, preparando il rovesciamento della figura della performatività. Come abbiamo accennato, Aristotele individua due modi fondamentali di avere il logos, l’uno relativo alla parte “scientifica” dell’anima (episthemonikón), l’altro a quella “calcolante” (logistikón). La prima tiene in sé sophía ed epistéme, modalità di scoprimento rivolte a ciò che non muta, che implicano correlativamente un alethéuein che ha il carattere di un sapere stabile (eigenstädiges alethéuein). Esse sono al contempo unite e distinte da un nesso strettamente fenomenologico: mentre l’epistéme non può svelare i principi (archaí) da cui procede poiché, pur rivolgendosi a ciò che è sempre, lo scopre solamente in modo sintetico-diaretico (nell’epistéme infatti non vi è alcun noeîn, alcuna modalità di scoprimento di ciò che è semplice), la sophía in quanto noûs kaì epistéme non solo scopre il sempre essente ma ne svela le archaí. L’epistéme presuppone in quanto apódeixis sempre qualcosa, e ciò che essa presuppone è proprio l’arché. Non è in grado di svelarlo propriamente da sé. Poiché dunque l’epistéme non può mostrare ciò che essa stessa presuppone si mostra nello svelamento della epistéme una mancanza. Essa non riesce a far vedere l’ente in quanto tale, poiché proprio l’arché si pone al di fuori della sua portata. Ecco perchè l’epistéme non è la beltíste héxis dell’alethéuein. La più alta delle possibilità nel novero della parte scientifica dell’anima è piuttosto la sophía30.

Heidegger rileva nel discorso aristotelico il rapporto proprio/ improprio; emerge infatti nella sophía uno scoprimento del sempre essente che è propriamente tale al contrario di quella

30. M. Heidegger, GA 19 p. 37, trad. it. p. 81. [trad. mod.].

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motilità impropria di scoprimento che è l’epistéme: mentre la sapienza volgendosi in modo noetico alle archaí (sebbene in maniera impropria rispetto al puro noeîn che si attua come thigeîn) tiene in sè la coincidenza di datità e modo di datità, essendo riferita a sé, al suo “che”, in un «eigenständiges»31 alethéuein, l’epistéme non può svelare l’arché da cui pure deve procedere, presupponendo dunque la coincidenza di datità e modo di datità relativa al sempre essente e procedendo in modo sintetico-diaretico. Attenzione, però (si tratta di un punto cruciale per il nostro lavoro su cui torneremo in relazione al rapporto tra téchne e phrónesis): la motilità di svelamento impropria dell’epistéme si distingue dall’esser propriamente scoprente della sophía a causa di una mancanza (corsivata nel testo): «poiché dunque l’epistéme non può mostrare ciò che essa stessa presuppone si mostra nello svelamento della epistéme una mancanza»32. Proviamo a leggere questo passo tenendo a mente il carattere fenomenologico della motilità di svelamento del noûs, «quell’unico alethéuein che scopre le archaí in quanto archaí»33, il venire a coincidenza in e con esso di datità e modo di datità, “cosa” e “come”, motilità – come abbiamo provato a mostrare – umanamente impossibile, che implica una struttura della correlazione come «essere costantemente presente alla presenza dell’aei»34: Anzitutto [Aristotele] si interroga sull’ente che deve essere dischiuso; quindi si chiede se il rispettivo alethéuein dischiuda anche l’arché dell’ente. La seconda questione costituisce sempre il criterio per decidere della autenticità o meno dell’a31. Ivi, p. 125, trad. it. p. 161. 32. Ivi, p. 37, trad. it. p. 81. 33. Ivi, p. 58, trad. it. p. 101. 34. Ivi, p. 134, trad. it. p. 169.

274 lethéuein. Tale duplice interrogazione viene adottata anche nel caso della téchne. Quest’ultima è un alethéuein all’interno del logistikón. E come nel caso dell’episthemonikón l’epistéme, in quanto forma più prossima dell’alethéuein, non era l’alethéuein in senso proprio, così anche nel caso del logistikón la téchne, in quanto modalità più prossima dell’alethéuein, si rivelerà un alethéuein inautentico.35

Al logistikón, che scopre ciò che può esser diversamente, appartengono téchne e phrónesis: esse hanno come modalità d’attuazione (Vollzugsweise) rispettivamente póiesis e práxis, scoprendo un poietón o un praktón, sono cioè un produrre o un agire. Il rapporto proprio/improprio in questo caso unisce, distinguendole, la modalità poietica di attuazione della téchne – che non è in grado di scoprire le archaí di ciò che può esser diversamente – e la práxis in quanto modalità d’attuazione della phrónesis che, nell’ambito del logistikón, è la héxis propriamente scoprente; rispetto alla téchne, infatti, in essa è inscritto quel noûs pratico che coglie i principi nel senso delle cose di volta in volta ultime, la Diesmaligkeit, le archaí di ciò che può essere diversamente, la coincidenza di datità e modo di datità di ciò che può esser di volta in volta diverso: l’éschaton dell’endechómenon. Si tratterà di indagare più da vicino questo rapporto per ridefinire la figura della performatività: per ridisegnare cioè la dis-giunzione proprio/improprio a partire dal performativo, riformulando parimenti la figura della performatività a partire dal senso peculiare del ripensamento fenomenologico della práxis aristotelica. Nell’interpretazione heideggeriana di Aristotele emerge, infatti, la struttura costitutivamente autotelica della práxis inscritta nella modalità d’attuazione della phrónesis e parimenti

35. Ivi, p. 38, trad. it. p. 82.

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la sua precipua differenza rispetto alla struttura eterotelica dell’attuazione poietica della téchne. In termini del tutto “formali”: la práxis ha in sé il proprio télos, la póiesis in altro da sé. Mentre la práxis, l’azione, è essa stessa principio e fine, ed è dunque rimandata a sé, al suo “che”, alla sua propria motilità d’attuazione, la póiesis in tanto anticipa (e dunque coglie) l’aspetto di ciò che ha da esser prodotto, in quanto nella motilità d’attuazione del produrre è rimandata ad altro da sé, a ciò a cui il prodotto stesso, in quanto ultimato, indica: il suo esser “per” qualcos’altro. In queste due modalità di svelamento che si attuano come un produrre e un agire può esser letta la disgiunzione proprio/ improprio che intesse gli esistenziali di Sein und Zeit36: la modalità dell’attuazione del via da sé in cui l’esserci si comprende in quanto Man; e il modo d’essere nella modalità d’attuazione 36. Secondo Volpi, impostazione che la nostra lettura intende criticare, è proprio il rapporto tra póiesis e práxis, rispettivamente eterotelica e autotelica, a dare conto del fatto che il Gewissen possa essere pensato come una trasposizione ontologica della phrónesis: «1) Die Kompetenz der phrónesis beschränkt sich nicht, wie diejenige der téchne, auf besondere Handlungsbereiche oder gar einzelne Handlungen, sondern visiert das Gelingen des Lebens im Ganzen an […] 2) práxis hat ihr télos in sich selbst, sie ist „autotelisch“ und ihr Gelingen (eupraxía) lässt sich nur durch ihre Perfektion erkennen, d.h. durch die Qualität des Handlungsvollzugs […]. Póiesis hingegen ist „heterotelisch“, d.h. Sie erreicht ihren Erfolg in etwas anderem ausserhalb ihrer selbst, im hergestellten Werk. 3) Phrónesis und téchne sind beide als logos Haltung bestimmt. Die téchne wird als héxis metà lógou alethoús bestimmt, wobei die Wahrheit dem logos zugesprochen wird. Die phrónesis hingegen als héxis alethés metà lógou, wobei die Wahrheit der Haltung selbst zugesprochen wird. 4) Die téchne kann in beiden Richtungen vollzogen werden – in dem Sinne, dass etwa der Arzt sowohl Gesundheit, als auch den Tod herbeizuführen vermag. Die phrónesis geht dagegen nur in einer Richtung, nur auf die Tugend zu. […] 5) […] Phrónesis kann je nur auf eine einzige Weise vollzogen werden: entweder trifft sie voll zu, oder verfehlt ganz ihr Ziel». F. Volpi, Das ist das Gewissen! Heidegger interpretiert die Phrónesis, cit. p. 177.

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dell’auf sich selbst zurück, in cui l’esserci esiste in vista di sé (Worumwillen). Póiesis e práxis, infatti, vengono interpretate da Heidegger in senso schiettamente fenomenologico: ovvero sono «modi d’attuazione (Vollzugsweise)»37 di quell’alethéuein che scopre ciò che può esser diversamente. Téchne e phrónesis, infatti, non si differenziano rispetto all’essente cui si volgono, entrambe si riferiscono all’ente che può essere diversamente: sono entrambe modalità di scoprimento che appartengono alla parte calcolatrice dell’anima; è piuttosto la modalità in cui il riferimento al contenuto si attua (Vollzugsweise) ed è dunque riferito a sé, al suo “che” (dass) a fare la differenza, a distinguere dunque lo stesso essente in poietón e praktón (correlato di una póiesis o di una práxis). «Insomma: nel caso della phrónesis il modo d’attuazione dell’alethéuein è in sé stesso diverso da quello della téchne; sebbene l’una e l’altra, considerate nel contenuto cosale, si dirigano all’ente che può anche essere diversamente».38 Si tratterà di indagare se il rapporto tra il senso d’attuazione poietico della téchne e il senso d’attuazione pratico della phrónesis restituisca la figura disgiuntiva proprio/improprio che intesse gli esistenziali di Sein und Zeit o se, piuttosto, il rapporto póiesis-práxis non debba essere riletto alla luce della temporalità emersa nel confronto con Paolo, ovvero sulla base della dis-giunzione tra l’improprietà della fatticità di coloro che vanno perdendosi (apollýmenoi) e la vita che è salva, che è propriamente vita, in cui «il non conforme all’attuazione»39

37. M. Heidegger, GA 19 p. 38, trad. it. p. 82. 38. «So ist die Vollzugsart des alethéuein in sich selbst bei der phrónesis eine andere als bei der téchne, obzwar beide, sachlich genommen, auf Seiendes gehen, das auch anders sein kann». Ivi, p. 54, trad. it. p. 97 [trad. mod.]. 39. M. Heidegger, GA 60 p. 109, trad. it. p. 151.

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della vita di coloro che vanno perdendosi non implica affatto una mancanza – non coincide cioè con l’esser mancante (nihil privativum) del noûs – allo stesso modo in cui «inautentico e non autentico non debbono affatto essere intesi come “autenticamente non”, quasi che in questo modo l’esserci perdesse il suo essere»40. Ciò implica per il nostro lavoro la possibilità di compiere alcuni passi essenziali: si tratta innanzitutto di formulare il rapporto proprio/improprio a partire da quello póiesis/práxis, produzione/azione, modalità d’attuazione impropria e propria di téchne e phrónesis, dando conto però – a partire dal capovolgimento del primato attribuito da Aristotele alla sophía – della modalità in cui nell’Analitica esistenziale venga ripensato il senso d’essere dell’ente che può divenir altro – il Dasein – e chiarendo quindi quali siano le conseguenze di questo capovolgimento tanto per la struttura fenomenologica del noûs praktikós – coincidenza tra datità e modo di datità della Jeweiligkeit: éschaton – quanto per il rapporto tra produzione e azione. La riformulazione del senso d’essere di ciò che può esser diversamente, ovvero il modo in cui esso è propriamente riferito a sé, al suo “che” mette in gioco un’altra struttura dell’autoriferimento rispetto a quella inscritta nella práxis aristotelica implicando, insieme, l’indissolubilità, la dis-giunzione costitutiva póiesis/práxis e, parimenti, sia un altro senso di possibilità rispetto alla nozione di potenza, sia un senso della Jeweiligkeit che non coincide con la “contingenza” di ciò che può essere di volta in volta diverso (endechómenon) e ridefinendo così la figura della performatività. Come ci proponiamo di mostrare al fine di ridefinire la figura della performatività alla luce della fenomenologia, la nostra prospettiva implica la critica dell’interpretazione di Franco Volpi, secondo cui non solo vi 40. M. Heidegger, GA 2 p. 234; trad. it. p. 215.

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è «la corrispondenza tra le determinazioni aristoteliche della práxis, della póiesis e della theoría e la distinzione heideggeriana dei tre modi d’essere fondamentali del Dasein, della Zuhandenheit e della Vorhandenheit»41, ma la stessa phrónesis restituisce il fenomeno del Gewissen42, luogo centrale di Sein und Zeit. Vediamo nel testo come Heidegger interpreti la motilità di scoprimento che incarna la téchne, radicalizzando questa figura in senso fenomenologico tramite gli attrezzi primo-friburghesi con cui abbiamo lavorato finora che, del resto,

41. F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit. p. 65. 42. Riportiamo un passo centrale della interpretazione di Volpi in relazione al rapporto tra Gewissen e phrónesis: «Se si considera la radicale distinzione che Heidegger introduce in base alla determinazione pratica dell’essere dell’esserci tra il modo d’essere della vita umana e il modo d’essere degli altri enti, si può vedere come questa corrisponda nella sostanza a quanto anche Aristotele osserva nel contesto della propria filosofia pratica a proposito del vivere umano. Secondo Aristotele, nel caso del vivere dell’uomo non si tratta di un vivere puro e semplice […], ma si tratta del come vivere, ossia del vivere nel modo migliore, del vivere bene […]. E ciò vuol dire che l’uomo è quell’ente che ha da decidere intorno ai modi e alle forme del proprio vivere, scegliendo il migliore di essi. Analogamente, per Heidegger l’esserci è quel particolare ente per il quale ne va del proprio essere, cioè quell’ente che ha da assumersi sempre e comunque il peso del decidere del proprio essere». Ivi, p. 66. Secondo Volpi, inoltre, la trasformazione fenomenologica della práxis e della phrónesis aristoteliche risiede nel fatto che «in Aristotele, la considerazione pratica ha a che fare con l’uomo come soggetto dell’agire […], in Heidegger, invece, la determinazione pratico-morale non è un aspetto determinato tra molti altri, ma è la connotazione fondamentale dell’esserci». Ivi, p. 67. Inoltre, poiché Heidegger traduce phrónesis come Gewissen «una rilettura in questa prospettiva dei §§54-60 di Essere Tempo, nei quali si tratta de “l’attestazione di un poter essere autentico e la decisione”, può mettere in luce come anche nel ricavare la propria determinazione della coscienza Heidegger si orienti su Aristotele, e precisamente sulla struttura di quel sapere pratico che Aristotele designa con termine phrónesis. Anche qui va comunque osservato che, mentre la phrónesis riguarda l’essere e l’agire morale dell’uomo, la coscienza diventa per Heidegger una connotazione ontologica dell’esserci». Ivi, p. 74.

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sono all’opera anche nel linguaggio heideggeriano. L’essente a cui si rivolge la téchne è endechómenon: Appartenendo al logistikón, la téchne è un’apertura dell’ente […] “che può essere anche diversamente”. A questo ente si riferisce però anche la phrónesis.43

È cruciale ancora una volta sottolineare che téchne e phrónesis si volgono allo stesso essente, che può essere anche diversamente. Il punto dunque è pensare in senso fenomenologico il rapporto tra produzione e azione: il produrre e l’agire non appartengono a due “ambiti” differenti, a due ordini separati, l’uno poietico-produttivo, l’altro pratico-attivo, bensì lo stesso ente può essere scoperto come poietón o come praktón, può essere cioè il correlato di una póiesis o di una práxis. Concentriamoci in primo luogo sulla modalità di svelamento della téchne: La seconda questione riguarda l’arché di questo ente, e cioè fino a che punto la téchne possa scoprire da sé l’arché dell’ente cui si rivolge. Per la téchne […], ciò a partire da cui la fabbricazione si mette in opera è “nel producente stesso”. Se qualcosa deve essere prodotto, occorre deliberazione. Prima di ogni produrre bisogna considerare il “per-che-cosa” […]. Per il producente, dunque, il poietón “c’è” già sin dal principio; infatti […] egli deve essersi chiarito quale aspetto dovrà avere l’opera. Così l’eîdos di ciò che deve essere prodotto – qual è ad esempio il progetto di un edificio – è determinato prima del produrre stesso. Il produttore quindi, ad esempio il capocantiere, procede alla realizzazione dell’opera in base a questo progetto. Dunque l’arché dell’ente della téchne, l’eîdos, è nella psyche […] “nel produttore stesso” […] ma non in ciò che deve essere prodotto, nell’érgon, che ancora non è prodotto. Si tratta di uno stato di cose affatto peculiare che, per ovvio che sia, deve essere chiarito. Lo si può fare

43. M. Heidegger, GA 19 p. 38, trad. it. p. 82.

280 con la massima chiarezza se lo si confronta con un ente che sia anch’esso prodotto, ma che si produca da sé: phýsei ónta. Questi si producono in modo tale che l’arché sta sia nel produttore che nel prodotto. […] “Infatti essi hanno l’arché in sè stessi”. Nella téchne, invece, l’érgon cade “pará”, “accanto”, rispetto all’atto del produrre, proprio come l’érgon, in quanto opera approntata, non è più oggetto della póiesis. Una scarpa si dice già pronta quando il calzolaio la consegna. Nella misura in cui a costituire l’arché contribuisce anche il télos, accade che in un certo senso che la téchne non disponga dell’arché. Si va prefigurando che la téchne è un alethéuein improprio.44

L’andamento fenomenologico viene effettivamente praticato: si presta orecchio in primo luogo al senso di contenuto, chiarendo in che modo esso è scoperto e indicando dunque il “come”; poi si “mappa” il contesto attuativo: la modalità in cui il riferimento (wie) al contenuto (was) si compie ed è dunque riferito a sé. L’interrogativo suona: la motilità d’attuazione poietica che intesse la téchne svela le archaí dell’ente che può essere diversamente? Ciò che viene scoperto (was) e il modo del suo esser-scoperto (wie) coincidono con questa stessa modalità di scoprimento, con il suo “che” (dass), con l’attuazione della póiesis, con il produrre stesso? Formuliamo questa domanda in base alla struttura fenomenologica del noûs sopra rilevata: lo svelamento delle archaí altro non è che quella apertura in cui contenuto (was) e riferimento (wie) coincidono nel “dass”, quell’apertura cioè in cui il modo dell’esser-aperto (was-wie) coincide con la modalità in cui il riferimento a esso si attua, con il suo “che” (dass), con la stessa motilità dell’aprire. È a partire da questa struttura che entra in gioco la dimensione performativa della prassi fenomenologica e con essa il peculiare autoriferimento inscritto nel Dasein, nella sua dimensione 44. Ivi, pp. 40-41, pp. 84-85.

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di verità (alethéuein). Si tratta di un alethéuein – e dunque di un discorrere (vedremo quale a partire dal superamento del dualismo noeîn-dianoeîn, noûs-logos) – il cui contenuto è la sua stessa modalità di compimento, allo stesso modo in cui nella figura del performativo abbiamo un dictum che coincide con il “fatto” del dire. Oggetto della téchne è il poietón, l’érgon, l’opera che scaturisce dalla produzione e dall’esecuzione. Questo érgon è uno énekà tinos (Cfr. Eth. Nic. VI, 2; 1139 b 1), un alcunchè “in vista di qualcosa” (um willen von etwas), esso ha il riferimento a qualcos’altro. Esso è oû télos aplôs (b 2 ss.) “non è affatto un fine”. L’érgon ha in sé il rimando a qualcos’altro; in quanto télos esso rimanda via da sé (von sich wegweisend): è un prós tì kaì tinós (b2 ss.), rimanda “a qualcosa per qualcuno”.45

Il modo di esser scoperto del poietón è l’eîdos: l’arché, infatti, è nel produttore e non nel prodotto. La scarpa è scoperta in quanto poietón, in quanto prodotta “per camminare”. È chiara la possibilità di avvicinare la Zuhandenheit al poietón, modo di esser scoperto di ciò che è alla mano in quel commercio quotidiano (Umgang) guidato da un intendersene (Umsicht). Questa (a mio avviso solo apparente) assonanza non riguarda soltanto il modo d’esser scoperto dell’ente in quanto Zuhanden (poietón), ma investe anche la struttura fenomenologica dell’Um willen für etwas, l’essere-presso, per utilizzare il linguaggio di SundZ, ovvero la modalità in cui l’apertura è riferita a sé, al suo che (dass): apparentemente, infatti, anche

45. «Dieses érgon ist ein énekà tinos (vgl. Eth. Nic. VI, 2; 1139b1), es ist “um willen von etwas”; es hat den Bezug auf etwas anders. Es ist oû télos aplôs (b2) “kein Ende schlechthin”. Das érgon hat in sich die Verweisung auf etwas anderes; als télos ist es von sich wegweisen: es ist ein prós tì kaì tinós “zu etwas für jemanden”». GA 19 p. 41, trad. it. p. 85 [trad. mod.].

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in Sein und Zeit l’esserci esiste impropriamente «in vista del Si»46 e dunque è via da sé. La struttura del rimando, l’attuazione poietica del riferimento al poietón – «il rimandare via da sé (von sich wegweisende)»47 – sembrerebbe restituire la struttura della temporalità impropria che intesse il Dasein, così come essa viene tratteggiata in Sein und Zeit. Nell’interpretazione della póiesis come modo d’attuazione della téchne si legge: L’espressione tò eídos en tê psychê significa una anticipazione dell’aspetto. In tedesco abbiamo una buona espressione: vergegenwärtigen: far presente. L’aspetto viene portato alla presenza. La casa, che un giorno dovrà essere presente, viene intanto tenuta presente nell’aspetto che dovrà avere. 48

In Sein und Zeit la temporalità impropria che intesse l’esserci sembra restituire tanto l’esser “pará” dell’érgon– il predominio della dimensione del presente nell’essere presso le cose – quanto la modalità d’attuazione impropria della póiesis, il suo esser riferita a sé nel modo dell’oblio, del “via da sé”. La comprensione dell’a-che, cioè del presso-che dell’appagatività ha la struttura temporale dell’aspettarsi. Soltanto in quanto si aspetta l’a-che, il prendersi cura può al tempo stesso ritornare a qualcosa con cui ha appagatività. L’aspettarsi il presso che, unitamente al ritenimento del con-che, rende possibile […] la presentazione manipolativa specifica del mezzo. Alla temporalità costitutiva del lasciar appagare è essenziale è un oblio particolare. Il sé-stesso per intraprendere

46. M. Heidegger, GA 2 p. 172, trad. it. p. 161. 47. Ibidem. 48. Ivi, p. 42, trad. it. p. 86.

283 realmente delle opere e volgersi alla manipolazione “perso” nel mondo dei mezzi, deve obliare sé stesso.49

La modalità d’attuazione poietica delle téchne pone l’accento sul far presente e implica parimenti un riferimento, un rimando che indica via da sé. Allo stesso modo, nella temporalità impropria l’accento cade sulla dimensione del presente e parimenti coincide con l’oblio di sé. Per poter confutare questa assonanza, non solo meramente apparente ma anche fuorviante, e mostrare invece il rovescio della práxis aristotelica e del rapporto póiesis/práxis in quell’autoriferimento che è l’esserci, è necessario esporre la modalità d’attuazione che appartiene alla phrónesis e che segna la motilità propriamente scoprente rivolta all’ente può essere diversamente: la práxis. Secondo l’interpretazione di Volpi la phrónesis – tradotta da Heidegger come «Gewissen»50 (che porta con sé l’eubulía: l’«Entschlossenheit»)51, punto su cui è necessario sin da subito attirare l’attenzione – offrirebbe la struttura dell’autoriferimento di Dasein, il suo “zu sein haben”52. Anche secondo 49. M. Heidegger, GA 2 p. 468; trad. it. p. 419. 50. M. Heidegger, GA 19 p. 56, trad. it. p. 99. 51. Ivi, p. 150, trad. it. p. 183. 52. Volpi instaura anche un parallelismo tra l’Entschlossenheit e prohairesis: «La decisione (Entschlossenheit) è quella disposizione strutturale in cui l’esserci sta in quanto vuole avere coscienza, in quanto ascolta la chiamata della coscienza e sceglie sé stesso, facendosi carico del proprio essere. Si può ora osservare che così come la coscienza corrisponde alla phrónesis, altresì la decisione ha il suo corrispettivo nella prohairesis; giacchè come in Aristotele l’avere la phrónesis […] determina il carattere moralmente buono della prohairesis, analogamente in Heidegger il voler-aver-coscienza dispone l’esserci a quella decisione per l’autenticità, nella quale esso sceglie di essere sé stesso. Inoltre, Heidegger asserisce che la decisione è sempre relativa al fenomeno della situazione, così come per Aristotele la saggezza è conoscenza del kairós». F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit. pp. 75-76. Secondo la nostra lettura invece, come proveremo a mostrare, il kairós viene pensato da Aristotele distintamente dal chrónos – critica che lo stesso Heidegger muove

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l’interpretazione fenomenologica finora seguita la proháiresis scopre l’ente che può esser diversamente, in essa cioè si dà una coincidenza tra datità e modo di datità non rispetto alle archaí del sempre essente bensì dell’éschaton, quel modo di essere che Heidegger in maniera molto significativa traduce qui come “Jeweiligkeit”. Riportiamo il passo in cui emerge la struttura fenomenologica che unisce e disgiunge l’improprietà della modalità d’attuazione poietica della téchne e il carattere invece propriamente aprente della phrónesis, la cui modalità d’attuazione è la práxis. Heidegger commenta il passo aristotelico (Et. Nic. Z 5) secondo cui phronimós è «colui che può adeguatamente deliberare (überlegen) su ciò che è buono […] e utile autô, per lui, per il giudicante stesso»53: L’oggetto della phrónesis è dunque definito come qualcosa che può essere anche altrimenti, ma esso è sin dal principio riferito al deliberante stesso (Bezug auf den Überlegenden selbst). Invece, la deliberazione della téchne si riferisce solamente a ciò che è utile per la produzione di qualcos’altro, cioè l’érgon, ad esempio la casa. Al contrario, la deliberazione (Überlegung) della phrónesis si riferisce a questo érgon nella misura in cui questo è utile per il deliberante stesso. Dunque l’alethéuein della phrónesis possiede già in sé la direzione del

allo Stagirita. Da ciò discende l’impossibilità di pensare sulla base del kairós aristotelico il fenomeno dell’attimo (Augenblick). Il rapporto tra téchne e phrónesis, infatti, sottende un senso di negazione che è l’esser-mancante del noûs nell’attuazione poietica della téchne rispetto alla práxis che intesse la phrónesis, e non coincide affatto, dunque, con la negazione esistenziale, da cui discende il “non” della Uneigentlichkeit. Questo senso della negazione è centrale per la comprensione del Gewissen, profondamente connesso alla nullità esistenziale che appartiene al fenomeno della colpa su cui ruota l’Entschlossenheit. La nullità esistenziale permea tanto il progetto quanto l’essere gettato, bucando l’autotelicità della práxis, l’attuazione pratica della phrónesis. 53. M. Heidegger, GA 19 p. 48, trad. it. pp. 91-92 [trad. mod.].

285 rimando all’aletheúon stesso (die Direktion der Verweisung auf den aletheúon selbst)54.

Riportiamo per intero il commento di Ciccarelli – il cui saggio ha guidato l’impostazione della nostra interpretazione del confronto di Heidegger con Aristotele – in cui viene rilevata la correlazione fenomenologica, la coincidenza di datità e modo di datità che appartiene alla práxis come modalità d’attuazione della phrónesis: Si osservi dove, nel testo aristotelico, Heidegger fa cadere l’accento. Egli evidenzia il pronome in dativo autô che Aristotele adopera per caratterizzare ciò a cui il phrónimos si riferisce. […] “Le cose buone e utili”, su cui chi è prudente sa giudicare, sono tali autô, “per lui stesso”, ossia per colui che sta giudicando, per lo aletheúon (participio presente di alethéuein): per lo “svelante” stesso. Ciò, però, va inteso in senso fenomenologico: non equivale cioè a una professione di utilitarismo. Nell’interpretazione di Heidegger, cioè, risulta evidente che Aristotele non intende dire […] che il prudente è tale perché sa perseguire il proprio interesse. Se interpretiamo queste parole in senso fenomenologico ci accorgiamo che esse determinano il maggior grado di originarietà, o “autenticità”, dello svelamento che caratterizza la phrónesis rispetto alla téchne […]. Ma che cosa […] è differente in questi due modi dello svelamento? È differente il rapporto tra lo svelato e il compimento dello svelamento. Il poietón, «l’érgon– aveva detto Heidegger – ha in sé il rinvio a qualcosa d’altro (Verweisung auf etwas anderen); in quanto télos esso è qualcosa indicante via da sé (von sich wegweisend)»: l’arché è nel produttore, non nel prodotto. Ma ciò significa […] che l’atto di svelamento, ossia il modo in cui l’érgon si dà, è rinviato oltre sé stesso, via da sé: il télos è, per il technítes, pará, “oltre”, “accanto”, “fuori” di lui. Per questa ragione la téchne non soddisfa il requisito della pura noeticità. All’oppo-

54. Ibidem.

286 sto stanno le cose nel caso della phrónesis e del suo “oggetto”. Ciò cui mira il phrónimos […] è tale autô, per il phrónimos stesso. Lo svelare fronetico ha cioè – così dice Heidegger nel passo menzionato – «la direzione del rimando all’aletheúon stesso».55

Così conclude Heidegger: «il télos della phrónesis non è [corsivo nel testo] dunque un pará rispetto all’essere del deliberare stesso, come invece è l’érgon della téchne. […] Il télos ha il medesimo carattere d’essere della phrónesis».56 Il punto è, a mio avviso, comprendere come vada inteso questo «non essere pará» del télos della phrónesis rispetto a quello della téchne e dunque che senso abbia l’esser-medesimo, l’identità di télos e arché, del modo dell’esser-aperto e dell’apertura. È di nuovo la figura dell’autoriferimento, della performatività a essere in questione. Per riuscire a rispondere dobbiamo compiere ancora alcuni passi: a) analizzare il modo in cui Heidegger interpreta fenomenologicamente la phrónesis e il senso che in questo contesto assume il kairós, emerso nella sua indissolubilità con il chrónos nell’hos mé paolino; b) dar conto della struttura fenomenologica del noûs praktikós, della correlazione tra datità e modo di datità intesa nel rapporto noûs/éschaton rispetto alla coappartenza tra apertura e aperto che in Sein und Zeit viene rilevata nel fenomeno dell’Angst; c) far valere l’interpretazione di Vincenzo Vitiello in merito al rovesciamento heideggeriano del rapporto tra potenza e atto, sia per criticare l’interpretazione di Volpi sia, soprattutto, per 55. P. Ciccarelli, Il difficile fenomeno del noûs, cit. p. 151. 56. M. Heidegger, GA 19 p. 49, trad. it. p. 92 [trad. mod.].

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riformulare il senso della performatività inscritta nella práxis aristotelica alla luce del senso della prassi fenomenologica; d) fare leva su due passi cruciali – l’uno contenuto nel Natorp Bericht, l’altro nei Grundprobleme der Phänomenologie (1927) – per dar conto della riformulazione del senso d’essere di ciò che può esser diversamente, della necessità di pensare la disgiunzione póiesis-práxis alla luce della dis-giunzione apollýmenoi/sozómenoi e, infine, per superare il dualismo noeîn-dianoeîn, noûs-logos, grazie all’analisi della struttura fenomenologica della Stimmung; e) su questa base formulare il carattere medio e negativo della performatività inscritta nella prassi fenomenologica rispetto alla performatività della práxis aristotelica. In tal modo potremo confrontarci di nuovo con Paolo Virno per far reagire il carattere temporalizzante del performativo assoluto “io parlo” con la temporalità del performativo medio e negativo “io sono”. §4 La struttura fenomenologica della phrónesis: la figura del performativo Quella di Heidegger è una forzatura, una contromanovra, il tentativo di far reagire il testo aristotelico con e contro sé stesso: a fronte del carattere discorsivo del dianoeîn umano, sempre metà lógou, le differenti modalità d’attuazione dello svelamento sono costitutivamente mancanti, insufficienti: la correlazione in quanto tale, la coincidenza di datità e modo di datità, l’esser presente della presenza, l’assoluta vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza che appartiene al thigeîn ed è immanente ed eterna da ambo i lati della correlazione rende il noûs/noetón per quell’ente che può esser diversamente da ciò che è e che ha il linguaggio, per l’essere umano dell’uomo, inaccessibile.

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Eppure ci si volge alla phrónesis: «comprendere più radicalmente la phrónesis»57 – suona il compito fenomenologico. E non solo per attribuirle il primato che Aristotele assegna invece alla sophía, ma per riformulare, in e con questo capovolgimento, lo stesso fenomeno del noûs, facendone emergere la contraddizione interna e ridisegnando così il senso della coincidenza di datità e modo di datità, il senso della correlazione. Il noûs infatti è «sia nella sophía che nella phrónesis»58. Si tratta però di una «duplice direzione: sophía: noûs – prôta; phrónesis: noûs – éschata»59: Il noûs può cogliere un termine estremo in una duplice direzione: il noûs si riferisce sia ai prôtoi óroi, alle delimitazioni prime, cioè alle archaí pure e semplici, agli elementi primari di ciò che è sempre, ma anche a ciò che è ultimo, vale a dire il questo qui di volta in volta singolare (jeweils einzelnen Dies-da). […] Prima possibilità: il noeîn concerne gli esiti ultimi della apódeixis, cioè della dimostrazione teoretica degli akíneta – di quell’ente che non è in movimento. Con ciò non si intende altro che le archaí, le quali sono oggetto della sophía. L’altra possibilità è la direzione inversa di questo noeîn. […] All’interno dei praktikoì lógoi c’è anche un noeîn. Qui il noeîn mira all’éschaton; éschaton è il concetto opposto a quello che nella apódeixis venne chiamato il prôton[…]. Qui il puro e semplice cogliere del noeîn si riferisce all’éschaton, a ciò che di volta in volta è un altro (das jeweils immer ein anderes ist).60

Il noeîn, la motilità di coglimento in cui datità e modo di datità coincidono, si prospetta dunque differente a seconda del modo d’essere dell’ente che viene svelato e parimenti della modalità 57. Ivi, p. 157, trad. it. p. 172. 58. Ibidem. 59. Ivi, pp. 158, trad. it. p. 189. 60. Ivi, pp. 158-159, trad. it. p. 190.

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dello svelamento. Mentre la sophía svela l’aeí ón e correlativamente è uno scoprimento autosufficiente, la phrónesis svela l’éschaton e correlativamente implica «uno svelamento nonautosufficiente al servizio della práxis»61. Il noûs che appartiene alla phrónesis in quanto “noûs pratico” svela il «di volta in volta unico questo qui», al contrario di quanto accade in quel noûs kaì epistéme che appartiene alla sophía che è invece rivolto all’ente che non è in movimento, al sempre essente. Abbiamo già sentito che la sophía è in un certo senso epistéme. Essa fa uso delle archaí. Ma essa è anche noûs. È il noûs a mirare alle archaí e a scoprirle; la sophía non è un puro noeîn. Nel suo noeîn vige la modalità d’attuazione (Vollzugsart) dell’uomo, in quanto, in esso, è l’uomo a pronunciarsi. La sophía è metá lógou […]. Parimenti, la sophía non è un mero dialéghesthai: essa in certo modo è noeîn. Il noeîn del noûs stesso è áneu lógou. Ebbene, come si presentano queste relazioni per la phrónesis? È in grado la phrónesis di scoprire e custodire l’arché dell’ente cui essa mira? – L’analisi dell’ente che è oggetto della phrónesis risulterà difficile per il fatto che la phrónesis è in certo modo implicata in questo ente che essa ha per tema. Infatti l’oggetto della phrónesis è la práxis, la zoé dell’essere umano, l’esserci umano stesso.62

Mi interessa porre l’accento su due elementi; in primo luogo la tensione interna al rapporto tra logos e noûs: tanto la sophía quanto la phrónesis per essere propriamente aprenti, per cogliere dunque la coincidenza di datità e modo di datità, devono implicare una modalità di svelamento, che sia più del “mero logos” (sintetico-diaretico), parimenti però il noeîn che (in certo modo) pure loro compete è – streng genommen – sempre insufficiente, mancante rispetto al puro rapporto fe61. Ivi, pag. 51, trad. it. p. 94. 62. Ivi, p. 143, trad. it. p. 177. [trad. mod.].

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nomenologico noeîn/noetón, rispetto cioè a quella coincidenza tra datità e modo di datità come esser presente della costante presenza che si dà nel noeîn come thigeîn, quella attuazione della correlazione che implica in quanto noûs una «vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza»63. A mio avviso, qui entra in cortocircuito il rapporto tra noûs e logos, la forma veritativa dell’intuizione (noûs Wahrheit) e quella assertiva (logos Wahrheit): è in questione, ancora una volta, la figura della verità e cooriginariamente dell’espressione. Mi interessa, inoltre, mettere in evidenza l’apparente assonanza tra la circolarità inscritta nella phrónesis (rilevata nel passo appena citato) e quella circolarità tra tema e metodo che costituisce la cifra della fenomenologia ermeneutica. Parafrasando: il tema della phrónesis – cioè l’ente che può esser diversamente, in quanto praktón – è parimenti il modo d’attuazione (Vollzugsweise) della phrónesis stessa: la práxis; in questo senso essa «è in certo modo implicata in questo ente che essa ha per tema»64. Questa interpretazione della phrónesis suggerisce un apparente parallelismo con il circolo ermeneutico, con la struttura fenomenologica del “domandare”65 (il senso dell’essere) che, come tale, non può non prendere avvio dall’analitica di Dasein, dall’indagine cioè che investe il modo d’essere di chi domanda, coincidendo infine con la modalità in cui il riferimento al domandare stesso è rimandato a sè, al suo “che”, e dunque si compie. Del domandare (inteso fenomenologicamente in quanto modo d’essere, Vollzugsweise) si può affermare infatti, al pari di quanto si possa dire della phrónesis, che esso «appartiene a questo essente che è il suo proprio

63. M. Heidegger GA 21 pp. 180-181, trad. it. p. 121. 64. M. Heidegger, GA 19 p. 143, trad. it. p. 177. 65. Ci riferiamo in particolare ai paragrafi 1-4 di SundZ.

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tema»66. L’analisi fenomenologica dell’esserci appartiene, in quanto suo modo d’essere, all’ente che è il suo tema. Ancora una volta emerge la figura della performatività: un modo del discorso e cooriginariamente una práxis (quella fenomenologica) che ha come “contenuto” il suo stesso modo di essere, il modo cioè in cui essa di volta in volta si compie. La circolarità ermeneutica dell’Analitica esistenziale tradisce la dimensione performativa della fenomenologia; non a caso, proprio a partire da qui è stato per la prima volta messo in luce il rapporto tra fenomenologia e performatività. Come afferma Fabris: [L]’analitica dell’esistenza non è altro che una delle modalità in cui la vita dell’uomo si annuncia, una delle sue possibili espressioni […]; una ricerca così concepita è chiamata non solo a studiare certe strutture che la riguardano, ma nel contempo anche a metterle in opera. In questo, insomma, consiste il carattere performativo della filosofia heideggeriana. La ricerca che così trova sviluppo, pertanto, non è solamente quella relativa all’ente stesso che noi siamo, alla comprensione dell’essere che ci contraddistingue e alla temporalità che ne costituisce l’orizzonte, ma rappresenta anche la maniera in cui viene messa in opera una certa possibilità d’essere che è data all’uomo e che egli è in grado di realizzare oppure no.67

Analizziamo, però, più da vicino la circolarità, l’autoriferimento inscritto nella phrónesis per tentare di leggere questa struttura fenomenologica alla luce della figura della performatività e riformulare parimenti da una prospettiva fenomenologica il senso stesso del performativo. Innanzitutto, secondo l’interpretazione heideggeriana, «l’oggetto della phrónesis è la práxis, qui risiede l’esserci umano»68. Inoltre, la totalità del

66. M. Heidegger GA 19 p. 143, trad. it. p. 177. 67. A. Fabris, Essere e Tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2000, p. 38. 68. M. Heidegger, GA 19 p. 146, trad. it. p. 179.

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fenomeno della phrónesis viene guadagnata per delimitazione negativa rispetto alla téchne: il télos della phrónesis viene infatti delimitato “gegen”, «di contro al télos della téchne»69; viene infine radicalizzata l’identità tra “cosa” e “come”70 a partire dall’impossibilità di trattare l’ente scoperto dalla phrónesis come suo “tema” se «per tema si intende quell’ente che è oggetto di osservazione teoretica»71. Ciò che caratterizza, infatti, l’ente svelato dalla phrónesis e correlativamente l’attuazione dello svelamento è l’essere da parte a parte práxis: La phrónesis non ha propriamente alcun tema, poiché ciò che essa scopre non viene avvistato in quanto tale. L’ente scoperto dalla phrónesis è la práxis. In ciò è implicato l’esserci umano, il quale è infatti determinato come zoé praktiké, ovvero – per citare la definizione completa – la zoé dell’uomo viene determinata come zoé praktiké metá lógou. […] Qualora si tratti di una determinata azione, si pone innanzitutto il problema di sapere quale sia ciò di cui (Wovon) tale azione si occupa. Ogni azione è tale in riferimento a un determinato ciò-di-cui (Wovon).72

Possiamo quindi radicalizzare la considerazione precedente: nella phrónesis come apertura, svelamento emerge una coincidenza di datità e modo di datità – in altri termini, “cosa” e “come” – tale che ciò che (was) la phrónesis svela è la práxis stessa, l’attuazione del riferimento al praktón: in essa dunque la coincidenza di “cosa” e “come” si declina come coincidenza, identità, “medesimezza” tra il ciò di cui (Wovon) dell’agire e il suo in vista di (Worumwillen):

69. Ivi, pp. 53 ss., trad. it. pp. 96 ss. 70. Vedremo in che senso questa coincidenza, pensata come coappartenza e non come identità noetica implichi una rottura dell’esser-identico, bucando così la coincidenza tra datità e modo di datità, la correlazione. Infra, Cap. V. 71. M. Heidegger, GA 19 p. 146, trad. it. p. 179. 72. Ivi, p. 146, trad. it. p. 180.

293 Il télos della phrónesis non è un prós ti nè un énekà tinos; esso è l’uomo stesso. […] Il télos è il retto essere dell’uomo. Questo però è zoé praktiké metà lógou. Il télos della phrónesis è un télos aplôs, un oû éneka, un in-vista-di (worumwillen). Ora in quanto l’esserci è scoperto come oû éneka, in-vista-di, risulta già prefigurato anche in vista di che cosa ci si debba di volta in volta prendere cura. Ecco che, se l’esserci è oû éneka, in sol un colpo è afferrata anche l’arché del deliberare (Überlegen) della phrónesis. (Eth. Nic. I, 7). […] L’esserci è l’arché del deliberare della phrónesis. E ciò che la phrónesis delibera non è qualcosa che ponga fine alla práxis. Ciò che costituisce l’essere dell’agire non è un risultato, ma unicamente l’eu, il come. Il fine della phrónesis è l’esserci stesso. Nella póiesis il fine è un altro, un ente mondano di contro al Dasein, mentre nella práxis non è così.73

«Ciò che è decisivo è la práxis. La práxis nella phrónesis è arché e télos»74. Inoltre «la phrónesis è nella práxis ancora più che nel logos»75. Mentre la póiesis è orientata verso un ente diverso dall’esserci, la práxis ha una struttura autotelica, ovvero ha come principio e fine il riferimento a sé stessa. È qui che emerge la struttura performativa della phrónesis, il cui modo d’attuazione è la práxis: ciò che la phrónesis apre, il suo senso di contenuto, coincide con il “come” (eu), con l’attuazione del riferimento a sé stessa, qui e ora, dovendo «scoprire anche le concrete e singole possibilità d’essere dell’esserci»76. Abbiamo a che fare con una struttura radicalmente performativa, una motilità di svelamento (alethéuein) in cui è inscritta una modalità di coglimento “semplice” (noeîn) il cui contenuto è la sua stessa attuazione. In questo caso il contenuto

73. Ivi, p. 50, trad. it. pp. 93-94 [trad. mod.]. 74. Ivi, p. 139, trad. it. p. 174. 75. Ibidem. 76. Ivi, pp. 138-139, trad. it. p. 173.

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dell’agire, il suo “wovon”, non è altro che il “come” (eu), la modalità del riferimento a sé stesso, al suo “che”, cioè l’attuazione dell’agire in quanto tale. La verità dunque di quella héxis metà lógou che è la phrónesis risiede nell’attuazione dell’azione stessa; mentre infatti – riprendendo le parole di Volpi – «la téchne viene determinata come héxis metà lógou alethou, in cui la verità viene attribuita al logos, la phrónesis al contrario viene caratterizzata come héxis alethés metà lógou, in cui la verità viene attribuita al comportamento stesso»77. Non è un caso che proprio qui emerga il senso cairologico della phrónesis il cui modo d’attuazione è la práxis. Il praktón non è altro che quel fine, quel worum dell’agire che coincide con la modalità – “das eu”, il come – in cui l’agire è riferito a sé stesso e si compie, di volta in volta, qui e ora. Qui “wovon e “worum” sono lo stesso, “ciò-di-cui” (wovon) l’azione si occupa e il suo “per cui” (worum), ciò che l’agire apre e la stessa apertura sono il medesimo. Nell’esser-identico di arché e télos, “ciò di cui” e “per-cui” emerge – almeno in termini formali – la struttura inscritta nel fenomeno dell’Angst, «quella medesimezza dell’aprire e dell’aperto»78 su cui torneremo a breve per evidenziarne – nonostante l’apparente assonanza – la radi77. F. Volpi, Das ist das Gewissen! Heidegger interpretiert die phrónesis, cit. p. 177. «Phrónesis und téchne sind beide als logos Haltung bestimmt. Die téchne wird als héxis metà lógou alethoús bestimmt, wobei die Wahrheit dem logos zugesprochen wird. Die phrónesis hingegen als héxis alethés metà lógou, wobei die Wahrheit der Haltung selbst zugesprochen wird». 78. Riportiamo per intero il famoso passo di Sein und Zeit in cui questa identità di apertura e aperto viene tematizzata: «Il per-che (worum) l’angoscia si angoscia si rivela come ciò davanti a che (wovor) essa si angoscia: l’essere-nel-mondo. L’identità del davanti-a-che (wovor) dell’angoscia e del suo per-che (worum) si estende perfino all’angosciarsi stesso, poiché esso, in quanto situazione emotiva, è un modo fondamentale dell’esserenel-mondo. L’identità esistenziale dell’aprire e dell’aperto, tale che in questa identità è aperto il mondo come mondo e l’in-essere come isolato, puro e gettato poter-essere, rivela che, col fenomeno dell’angoscia è assurta a tema

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cale differenza di senso rispetto alla struttura fenomenologica della phrónesis, provando a far emergere attraverso il fenomeno della Stimmung la necessità di ripensare il senso della co-incidenza di datità e modo di datità, esser-aperto (wovon) e modalità dell’apertura (worum), a partire dal carattere precipuamente negativo dell’esser-ci, a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos che è emersa nel confronto con Paolo e che appartiene al rapporto tra temporalità propria e impropria in SundZ. Inoltre, è nel bouleúesthai – tradotto da Heidegger come «Mit-sich-zu-Rate-gehen», «consultarsi con sé»79 – a emergere il modo d’attuazione della phrónesis: quella apertura in cui arché e télos, principio e fine, wovon e worum coincidono nell’attimo (Augenblick) della Entschlossenheit, «la retta risolutezza (rechte Entschlossenheit) come trasparenza (Durch­ sichtigkeit) dell’azione»80, che a sua volta non è altro che l’attuazione dell’azione stessa, la eupraxía, il “come”, il colpo d’occhio che scopre l’intera situazione: la modalità in cui la phrónesis è riferita a sé, al suo “che” (dass). «La conclusione del bouleúesthai è l’azione stessa; non è un qualche principio o una qualche conoscenza, bensì l’irrompere (losbrechen) dell’agente in quanto tale»81. La phrónesis si è resa visibile in questo momento strutturale fondamentale: in essa si compie anche qualcosa come un puro Vernehmen che non cade più nell’ambito del logos. Nel momento in cui questo puro Vernehmen mira all’éschaton esso è aísthesis. Ma poiché questa aísthesis non mira agli

dell’interpretazione una situazione emotiva eminente (eine ausgezeichnete Befindlichkeit)». M. Heidegger, GA 2 p. 250, trad. it. pp. 229-230. 79. M. Heidegger, GA 19 p. 143, trad. it. p. 177. 80. Ivi, p. 150, trad. it. pp. 183 [trad. mod.]. 81. Ivi, p. 150, trad. it. pp. 183-184 [trad. mod.].

296 ídia, ma ciò nonostante è un puro e semplice percepire, è anch’essa noûs. […] La phrónesis è, quanto alla sua struttura, la stessa della sophía; è un alethéuein áneu lógou; questo è il tratto comune di phrónesis e sophía. Ma il puro cogliere sta, per quanto riguarda la phrónesis, sul versante opposto. Abbiamo qui due possibilità del noûs: il noûs nella concrezione estrema, e il noûs del kathólou più estremo, nella massima universalità. Il noûs della phrónesis mira all’estremo nel senso dell’éschaton puro e semplice. La phrónesis è il colpo d’occhio su ciò che è unicamente questa volta qui (Diesmaligkeit), su ciò che concretamente è dato quest’unica volta in questo attimo. Essa è aísthesis del colpo d’occhio istantaneo (Augen-blick), del colpo d’occhio che all’istante è gettato sul di volta in volta concreto, che come tale può essere sempre altrimenti. Invece il noeîn della sophía è l’osservazione di ciò che è aei, di ciò che è sempre presente nella identità. Il tempo – l’attimo e l’esser-sempre – funge qui da criterio di distinzione del noeîn nella phrónesis e nella sophía.82

Nonostante l’appropriazione delle figure dell’Etica aristotelica, nel capovolgimento del primato della sophía sulla phrónesis, in uno con la critica al criterio che guida la distinzione tra sophía e phrónesis (l’esser-sempre e l’attimo), è in gioco una vera e propria riformulazione dell’autoriferimento autotelico inscritto nella práxis, nella correlazione. È cruciale inoltre sottolineare che il bouleúesthai della phrónesis, inteso come modo d’attuazione propriamente tale dello svelamento dell’ente che può esser-diversamente, sia pensato e tradotto nel contesto del Gewissen83, figura chiave della Analitica dell’esserci, a cui non solo è demandato il compito dell’«attestazione di una possibilità esistentiva autentica»84, ma in

82. Ivi, p. 163, trad. it. pp. 195-196 [trad. mod.]. 83. Ivi, p. 56, trad. it. p. 99. 84. Il riferimento è, com’è noto, al § 54 di Sein und Zeit.

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cui emerge cooriginariamente tanto la dimensione veritativa della totalità degli esistenziali (la Cura), quanto la sua dimensione d’espressione85. E tuttavia qui la phrónesis – tradotta come Gewissen – per cogliere ciò che è ultimo nel senso dell’éschaton, per portare a coincidenza principio e fine, deve al contempo implicare insieme al Durchsprechen anche un noeîn, una modalità di coglimento che non sia discorsiva, o meglio: sintetico-diaretica, ma capace di apprendere la totalità del questa volta qui, la pienezza dell’azione in quanto tale, la sua Jeweiligkeit. L’éschaton in quanto principio, infatti, è anch’esso un adiaíreton, esclude cioè la possibilità di essere distinto ed unito nel logos: Il modo d’attuazione della phrónesis è il bouleúesthai, che è esso stesso un logízesthai, un discutere (Durchsprechen). In tal senso, la phrónesis è una héxis metà lógou. La scoperta della phrónesis si attua metá lógou, nel parlare, nel discutere di qualcosa. A questo proposito bisogna osservare che il logos, così come entra in gioco qui, dev’essere inteso nel senso del rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa, cioè légein ti kata tinos. Quando ci si rivolge a un ente con l’intenzione, così

85. Il fenomeno del Gewissen, non saggezza ma coscienza morale, può esser letto come un vero e proprio contrappunto alla dimensione veritativoespressiva esclusa da Husserl nella I Ricerca – l’ammonimento – quando la fenomenologia, in cerca della sua espressione, finisce per attribuire “significato” (Bedeutung) al solo segno espressivo (Ausdruck), sussumendo sotto di esso tutti i segnali (Anzeige) – le parole, i gesti, la mimica, i silenzi, i contorni (comunicati, parlati, sentiti, agiti, subiti) – riducendoli a meri segni accessori, atti a rendere noto (Kundgeben) un significato ideale (eîdos) già costituito nella sfera immanente e isolata della coscienza, o considerati propriamente privi di significato. È un caso che il “consultarsi con sé stessi”, quel bouleúesthai tradotto qui come Gewissen, così come in SundZ ciò che “è noto all’autointerpretazione quotidiana come voce della coscienza” restituiscano proprio la dimensione di senso esclusa da Husserl nella I Ricerca, l’ammonimento, quel dir-si qualcosa che non ha la forma dell’operazione apofantica originaria “S è P”? Svilupperemo questo tema in Infra, cap. VI.

298 facendo, di scoprirlo, già questo implica una diairesis. […] Rivolgersi a qualcosa, chiamarlo in causa significa: articolare ciò a cui ci si rivolge. Solo sulla base di questa diairesis ha luogo la synthesis che è propria del logos. Il logos è diareticosintetico. Se, però, d’altro canto, la phrónesis deve essere una beltíste héxis, allora essa deve afferare l’arché di quell’ente che essa ha per tema. Ma un’arché, tanto più quando essa sia un’arché ultima […], non è più qualcosa cui ci si possa rivolgere in quanto qualcosa. Il modo appropriato di rivolgersi a un’arché non può essere dato dal logos, in quanto esso è una diairesis. Un’ arché può esser colta solo in sé stessa e non in quanto qualcosa d’altro. L’arché è un adiaíreton.86

Qui il dualismo tra il lógos ti kata tinos e il noûs emerso entro la parte “scientifica” dell’anima, entro il rapporto cioè tra sophía ed episthéme, motilità di svelamento propria e impropria del sempre essente, fondato sulla mancanza del noûs, sull’insufficiente capacità noetica della episthéme rispetto alla sophía e modellato su quel rapporto fenomenologico esemplare «di vicinanza al cui interno non c’è alcuna senza distanza»87 (la correlazione noeîn, noetón) viene trasposto nella parte “calcolatrice” dell’anima. Anche in questo caso, infatti, emerge da un lato una modalità solo sintetico diaretica di coglimento dell’ente che può esser di volta in volta diverso – la téchne –, dall’altro una modalità di svelamento che tiene in sé anche un coglimento semplice, noetico, pensata non a caso in analogia alla aísthesis. La domanda che vorrei porre è la seguente: il capovolgimento del primato della sophía sulla phrónesis lascia intatto il dualismo tra lógos ti kata tinos e noeîn, modellato sul puro rapporto fenomenologico noeîn-noetón, limitandosi a trasporlo, in maniera eguale e contraria, nella dimensione dell’ende86. M. Heidegger, GA 19 pp. 144-145, trad. it. pp. 178-179. 87. M. Heidegger GA 21 pp. 180-181, trad. it. p. 121.

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chómenon? Oppure, in e con il rovesciamento del primato che Aristotele attribuisce alla sophía viene parimenti riformulato il senso d’essere dell’éschaton e cioè la stessa struttura della correlazione, il rapporto tra logos e noûs, lógos ti kata tinos e noeîn/praktische aísthesis? A mio avviso, è in gioco una vera e propria riformulazione della figura della correlazione (e con essa del senso di ciò che può essere altrimenti) che spezza, buca la coincidenza di datità e modo datità, riformulando parimenti lo stesso senso della performatività. Nella correlazione, nell’autoriferimento autotelico della phrónesis si inscrive un costitutivo ritardo, un “non” che non è affatto l’insufficiente capacità noetica della téchne rispetto alla phrónesis, parallela alla mancanza del noûs nell’epistéme rispetto alla sophía e alla insufficienza della sophía rispetto al puro noeîn, né il non esser presente del noûs nel senso d’attuazione poietico della téchne. È lo stesso Heidegger, nel testo a cui è dedicato il confronto più profondo e più chiaro con la temporalità aristotelica, ad affermare che «Aristotele, pur avendo colto il fenomeno del kairós, e averlo determinato nel VI Libro dell’Etica nicomachea, non poteva mettere in relazione il carattere specifico del kairós con ciò che chiama altrimenti tempo (tò nŷn)»88. Questo punto è cruciale per la riformulazione della figura del performativo che stiamo provando a disegnare; ciò significa infatti che l’attimo, quel colpo d’occhio (Blick des Augens) che intesse l’attuazione noetica della phrónesis, il senso di compimento dell’azione, è

88. «Der Augenblick ist ein Urphänomen der ursprünglichen Zeitlichkeit, während das Jetzt nur ein Phänomen der abkünftigen Zeit ist. Schon Aristoteles hat das Phänomen des Augenblicks, den καιρός, gesehen und im VI. Buch seiner »Nikomachischen Ethik« umgrenzt, aber wiederum so, daß es ihm nicht gelang, den spezifischen Zeitcharakter des καιρός mit dem in Zusammenhang zu bringen, was er sonst als Zeit (νΰν) kennt». M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA 24 p. 409, trad. it. p. 276.

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pensato separatamente dal tempo cronologico: la motilità propriamente aprente della phrónesis in quanto eupraxía – il kairós – non è compreso a partire dal suo rapporto con il chrónos. Da ciò discendono enormi conseguenze per questo lavoro: ciò significa dover ripensare tanto la coappartenenza dis-giuntiva proprio/improprio, senso d’attuazione pratico e poietico di téchne e phrónesis, quanto il rapporto tra lógos ti kata tinos e noûs, a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos emersa nella Kundgabe paolina dove «il tempo e l’attimo, vanno usati sempre insieme!»89, a partire cioè «da quel tempo contratto, concentrato»90, «“l’ancora soltanto” (das Nur-noch) che accresce l’angustia»91, che tiene insieme nel senso del tò nŷn, nell’“ora”, una negazione inscritta nell’improprietà di coloro che vanno perdendosi (vollzugsmäßige-Nicht) che non si identifica né con un nihil privativum né con un nihil negativum, non significa dunque l’esser mancante del noûs92. Del resto, la necessità di ripensare la figura della phrónesis e cioè il senso di compimento (Vollzug) dell’azione stessa, è parallela all’esigenza di pensare l’éschaton a partire da sé stesso. Il senso d’essere dell’ente che può esser diversamente – così suona la tesi formulata esplicitamente dallo stesso Heidegger – viene ottenuto da Aristotele solo negativamente, per con89. M. Heidegger, GA 60 p. 102, trad. it. p. 143. 90. Ivi, p. 119, trad. it. p. 162. 91. Ibidem. 92. A partire da qui, dunque, il parallelismo tra il Gewissen e la phrónesis viene messo profondamente in questione. Secondo Volpi infatti, «la decisione è quella disposizione strutturale in cui l’esserci sta in quanto vuole avere coscienza, in quanto ascolta la chiamata della coscienza e sceglie sé stesso. […] Si può allora osservare che la coscienza corrisponde alla phrónesis, altresì la decisione ha il suo corrispettivo nella proháiresis. […] Heidegger asserisce che la decisione è sempre relativa al fenomeno della situazione, così come per Aristotele la saggezza pratica e conoscenza del kairós». F. Volpi, Heidegger e Aristotele, cit. p. 75.

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trapposizione al modo d’essere “autentico” che detiene il primato: il sempre essente, l’aei. Ciò significa che il senso dell’endechómenon e parimenti il senso dell’éschaton colto nel kairós non vengono compresi a partire da sé stessi, ma definiti solo negativamente, in contrapposizione a quell’essente che detiene un primato: l’aei, correlato del puro noeîn. Riguardo alla determinazione aristotelica dello endechómenon állos échein, nel Natorp-Bericht, Heidegger afferma esplicitamente: L’essere di questo “con che” – e questo è già decisivo – non è per questo caratterizzato ontologicamente in modo positivo, bensì solo formalmente come “ciò che può essere anche diversamente”, “che non necessariamente è sempre così come esso è”. Questa caratterizzazione ontologica è compiuta contrapponendo negativamente questo essere ad un altro e autentico essere. Questo, a sua volta, nel suo carattere fondamentale, non è esplicativamente ottenuto a partire dall’essere della vita umana come tale, ma scaturisce nella sua struttura categoriale da una radicalizzazione, compiuta in un certo modo, dell’idea dell’ente-mosso.93

§5 La disgiunzione costitutiva póiesis/práxis chrónos/kairós A fronte di queste considerazioni è necessario dunque provare a pensare il rapporto tra téchne e phrónesis a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos, sulla base cioè del rapporto tra la vita di coloro che vanno perdendosi (apollýmenoi) e la vita che è salva (sozómenoi), che è propriamente vita emerso nel confronto con Paolo, riconfigurando il senso della disgiunzione tra produrre e agire, tra il senso d’attuazione poietico della téchne e la práxis, senso d’attuazione della phrónesis, a partire

93. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, (1922), GA 62 p. 385, trad. it. 187.

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dalla dis-giunzione costitutiva proprio/improprio, apollýmenoi/sozómenoi. È la stessa struttura del rimando, descritta nella interpretazione fenomenologica del VI libro dell’Etica nicomachea, a offrire gli elementi per operare un tale confronto. Come abbiamo analizzato in precedenza, infatti, il senso d’attuazione poietico della téchne si distingue dalla práxis che incarna il senso d’attuazione della phrónesis a partire dalla modalità in cui essa è rimandata a sé, al suo “che”: la téchne, volgendosi a ciò che è da produrre, a “ciò davanti a cui” (wovor) la produzione è tale, in tanto ne anticipa l’eîdos (l’arché), in quanto nell’attuazione del produrre stesso, nella modalità cioè in cui il riferimento al prodotto si attua, è rimandata via da sé, “via” dal “che” (dass) del produrre, da chi produce; in tal senso il Vollzug poietico della téchne è via da sé (von sich weg) e il prodotto cade ‘pará’ rispetto all’attuazione del riferimento della produzione, essendo per qualcos’altro; il principio, infatti, nel caso della póiesis è nel produttore, non nel prodotto: ciò che viene anticipato nella produzione, l’eîdos della casa, non coincide con il fine per cui essa è prodotta, essa infatti è prodotta in vista di qualcos’altro, per essere abitata, ad esempio. In tanto l’attuazione (dass) del (wie) riferimento al prodotto (was) non è riferita a sé, al suo “che” (dass), al “fatto” del produrre, dunque a chi produce ma è via da sé, in quanto il prodotto rimanda (wie) ad altro da sé, al suo esser-prodotto per qualcos’altro. Oggetto della téchne è il poietón, l’érgon, l’opera che scaturisce dalla produzione e dall’esecuzione. Questo érgon è uno énekà tinos (Cfr. Eth. Nic. VI, 2; 1139 b 1), un alcunchè “in vista di qualcosa” (um willen von etwas), esso ha il riferimento a qualcos’altro. Esso è oû télos aplôs (b 2 ss.) “non è affatto un fine”. L’érgon ha in sé il rimando a qualcos’altro; in quanto

303 télos esso rimanda via da sé (von sich wegweisend): è un prós tì kaì tinós (b2 ss.), rimanda “a qualcosa per qualcuno”.94

Al contrario, il senso di attuazione della phrónesis è intessuto da parte a parte di práxis, in esso è inscritto un riferimento autotelico: l’attuazione (dass) del riferimento (wie) al praktón (was) è tale per cui in essa, in quanto práxis, coincidono arché e télos, ciò che l’azione svela e il compimento dello svelamento nell’agire stesso. In tal senso l’agire è rimandato (wie) a sé, al suo “che” (dass), ha la direzione del rimando all’aletheúon, al “chi” dello svelante, cioè all’attuazione della práxis in quanto tale: Al contrario, la deliberazione (Überlegung) della phrónesis si riferisce a questo érgon nella misura in cui questo è utile per il deliberante stesso. Dunque l’alethéuein della phrónesis possiede già in sé la direzione del rimando all’aletheúon stesso (die Direktion der Verweisung auf den aletheúon selbst).95

Ed è qui a emergere la dimensione cairologica della phrónesis, che non solo scopre i principi ultimi di ciò che può esser diversamente da ciò che è, ma in essa vi è l’«irrompere dell’agente in quanto tale»96. A questo punto è necessario muovere un passo ulteriore, provando a riformulare – a fronte della indissolubilità di kairós e chrónos inscritta nell’essere-nel-mondo, ovvero nel rapporto tra temporalità propria e impropria che intesse tutti gli esistenziali – la distinzione tra il senso d’attuazione della téchne e quello della phrónesis, la differenza tra póiesis e práxis, tentando di leggere la relazione tra produrre e agire, tra questi “due” modi d’attuazione dello “stesso”, alla luce del senso del “tò nŷn” emerso nel confronto con Paolo che, come abbiamo 94. M. Heidegger, GA 19 p. 41, trad. it. p. 85. 95. Ivi, pp. 48, trad. it. pp. 91-92 [trad. mod.]. 96. Ivi, p. 150, trad. it. pp. 183-184 [trad. mod.].

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mostrato, restituisce il senso della temporalità dell’essere-nelmondo. Ben nota è la tesi heideggeriana secondo cui la concezione aristotelica porterebbe per prima a espressione concettuale l’interpretazione ‘naturale’ del tempo, il suo esser compreso a partire dall’“ora”97. Senza potermi soffermare oltre su questa lettura, voglio ancora una volta sottolineare che è il senso dell’“ora” emerso nel confronto con Paolo a implicare l’indissolubilità di kairós e chrónos: e precipuamente questo rapporto rimane impensato in Aristotele. Il tò nŷn paolino, inoltre, porta con sè quel senso di negazione che non solo risponde alla domanda posta in precedenza, «in che senso il télos della práxis non è pará rispetto a quello della póiesis»98, ma restituisce anche un elemento cruciale per riformulare la stessa figura della performatività. Riprendiamo la struttura del rimando emersa nella dimensione di senso della Kundgabe paolina, ripensando il rapporto tra póiesis e práxis alla luce del rapporto tra la costitutiva motilità decadente della vita di coloro che vanno perdendosi (Verworfen werdens) e non hanno accolto l’annuncio – dove questo “non” non va inteso «né come un nihil negativum né come un nihil privativum»99 – e la vita che è salva, che è propriamente vita di chi, nell’attesa della parusìa, è rimandato a sé stesso

97. Secondo la lettura heideggeriana della fisica aristotelica, il senso del tò nŷn – “il numerato del movimento che si incontra nella prospettiva del prima e del dopo”, così suona la traduzione heideggeriana – non è intratemporale, dunque nel tempo, ma neppure eterno nel senso di “fuori dal tempo”, essendo esso stesso il tempo, quel continuum, quell’ek tinos eis ti, quel “da...a”, “inizio e fine” che non è limite ma numero. M. Heidegger, Die Grundprobleme der Phänomenologie, GA 24 cit., pp. 333 ss, trad. it. pp. 226 ss. 98. M. Heidegger, GA 19 p. 49, trad. it. p. 92 [trad. mod.]. 99. M. Heidegger GA 60 p. 109, trad. it. p. 151.

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(auf sich selbst) e vive le significatività hos mé. La struttura del rimando richiama infatti il rapporto tra il senso d’attuazione pratico della phrónesis, il suo esser rimandata a sé (auf sich selbst zurück), al suo “che”, cioè al “chi” dello svelante, e quello poietico della téchne che è via da sé (von sich weg). Da un lato, la fatticità dei sozómenoi, è caratterizzata da «un sapere peculiare, […] Paolo rinvia (weisst die Thessaloniker auf sich selbst zurück) i Tessalonicesi a sé stessi e al sapere che hanno in quanto esser divenuti»100; dall’altro vi è l’esser “von sich weg” di coloro che vanno perdendosi e «hanno dimenticato il proprio sé»101. In questo contesto, l’“auf sich selbst zurück”, l’esser rimandata a sé stessa” della fatticità di chi ha accolto l’annuncio si disgiunge dall’esser “von sich weg” della vita che è un andare perdendosi. È cruciale però che, entro la dimensione di senso della Kundgabe paolina, l’Hinwendung che conduce la fenomenologia fino a sé, e dunque l’attuazione performativa della fatticità si dia solo nel balzar fuori del “contro” di essa, in quel ritardo, quella sconnessione del farsi fenomeno del fenomeno, che accade, qui e ora, nel suo fenomenizzarsi scadendo. L’intreccio tra “a sé” (auf sich selbst zurück) e via da sé (von weg hin), tra proprio e improprio, è pensato a partire dall’inscindibilità di kairós e chrónos: ciò ristruttura lo stesso senso dell’autoriferimento, e così la stessa struttura performativa che appartiene alla phrónesis. Come abbiamo mostrato in rapporto al senso dell’antikeímenos, che restituisce la modalità in cui la vita è riferita a sé nel modo dell’ostacolarsi102, del “contro di sé”, il rapporto tra a sé e via da sé subisce una trasformazione radicale.

100. Ivi, p. 102- 103, trad. it. p. 143. 101. Ivi, p. 103, trad. it. p. 144. 102. Ivi, p. 113, trad. it., p. 155.

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Nella relazione tra práxis e póiesis, senso d’attuazione rispettivamente di phrónesis e téchne, si tratta di una mancante capacità noetica del senso d’attuazione poietico rispetto a quello della práxis. La relazione tra téchne e phrónesis viene ricalcata, infatti, su quella tra epistéme e sophía. Tra le modalità dello svelamento nella parte calcolatrice e scientifica dell’anima vige un rapporto di assoluto parallelismo, che potremmo esprimere con questa proporzione: téchne : phrónesis = l’epistéme : sophía Bisogna capire fino a che punto le diverse modalità dell’alethéuein riescano a scoprire e preservare l’ente nella sua arché […]. Aristotele lo ha illustrato innanzitutto nell’epistéme e nella téchne. La téchne anticipa nell’eîdos, l’arché, il télos, ma non giunge ad afferrarlo nell’érgon. Nemmeno nella epistéme ha luogo un coglimento propriamente tale (eingentliches) dell’arché.103

In base a questa analogia, inscritta del resto esplicitamente anche nel rapporto tra phrónesis e sophía – «la phrónesis è, quanto alla sua struttura, la stessa della sophía»104 – in che cosa consiste l’impossibilità di cogliere l’arché da parte di téchne ed epistéme? L’epistéme presuppone in quanto apódeixis sempre qualcosa, e ciò che essa presuppone è proprio l’arché. Non è in grado di svelarlo propriamente da sé. Poiché dunque l’epistéme non può mostrare ciò che essa stessa presuppone si mostra nello svelamento della epistéme una mancanza.105

È ancora una volta il fenomeno del noûs, quella modalità di coglimento dell’ente semplice, «quella vicinanza al cui interno

103. M. Heidegger, GA 19 p. 142, trad. it. p.176 [trad. mod.]. 104. Ivi, p. 163, trad. it. pp. 195-196. 105. Ivi, p. 37, trad. it. p. 81.

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non c’è alcuna distanza»106, a offrire “la misura” per decidere dell’esser propriamente tale dello svelamento. Ed è proprio l’esser “mancante” del noûs nella héxis umana, sempre metà lógou, a implicare la necessità di ripensare il rapporto tra póiesis e práxis. Infatti, così come «inautentico e non-autentico non debbono affatto essere intesi come “autenticamente non”, quasi che, in questo modo, l’esserci perdesse il suo essere»107, il non conforme all’attuazione (di coloro che vanno perdendosi) non è né un non privativum né un nihil negativum. «Il non conforme all’attuazione non è né un rifiuto dell’attuazione, né un porsi al di fuori di essa. Il non indica la posizione del contesto dell’attuazione nei confronti del riferimento da esso stesso motivato. Il senso dell’ouk può essere chiarito solo in base al contesto storico. Il déchesthai senza ouk non ha alcuna relazione»108. Ciò significa che senza il non-conforme all’attuazione della vita di coloro che sono un andare di volta in volta perdendosi e “non” hanno accolto l’annuncio, bensì almanaccano su quando “verrà”, assorbiti nella dimensione constativa mondana, senza dunque l’esser costitutivamente via da sé del senso d’attuazione poietico della téchne, non c’è zoé, práxis, poiché quest’ultima è possibile soltanto nel saltar fuori dell’inganno in quanto tale, nell’emergere di ciò che si pone contro, di questo “non”: del costitutivo via da sé del produrre. Riprendendo il passo già citato di Sein und Zeit: «il carattere estatico dell’avvenire originario sta proprio nel chiudere il poter-essere cioè nell’essere esso stesso chiuso e nel rendere quindi possibile, come tale, la decisa comprensione esistentiva della nullità»109.

106. M. Heidegger, GA 21 p. 103, trad. it. p. 121. 107. M. Heidegger, GA 2 p. 234; trad. it. p. 215. 108. M. Heidegger, GA 60 p.109, trad. it. p. 151. 109. M. Heidegger, GA 2 p. 437, trad. it., p. 391.

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Da ciò possiamo affermare che l’autoriferimento inscritto nella práxis, il senso d’attuazione cairologico della phrónesis, letto a partire dall’hos mé paolino, a fronte dell’indissolubilità di kairós e chrónos, temporalità propria e impropria, implica il fatto che l’esser riferita a sé dell’azione, al suo “che”, e dunque la motilità propriamente svelante di Dasein non è altro che il riconoscimento del costitutivo esser via da sé dell’attuazione poietica della téchne, ed è così che l’esser riferita a sé della práxis si attua. Ciò implica un rapporto profondamente diverso tra téchne e phrónesis: esse non solo, aristotelicamente, non si distinguono rispetto a ciò cui si volgono, essendo entrambe riferite all’ente può esser diversamente (endechómenon), ma a fare la differenza, a distinguere poietón e praktón, correlato di una póiesis e di una práxis, non è neppure un diverso senso del riferimento, l’uno dotato di capacità noetica, quella praktische aísthesis (áneu lógou) che caratterizza la práxis rispetto alla insufficiente capacità noetica della póiesis, intessuta della sola forza di separazione e divisione del logos; la práxis incarnata nel kairós, infatti, quel colpo d’occhio che scopre la Diesmaligkeit, pensata in base alla sua indissolubilità con il chrónos, non è altro che il ritardo, la rottura inscritta nel senso d’attuazione del riferimento al poietón, ovvero il riconoscimento del costitutivo esser via da sè che appartiene all’attuazione della téchne. Póiesis e práxis non solo, dunque, non indicano affatto due diversi “ambiti” – l’uno attivo, l’altro produttivo110 – ma non

110. Su questa base sarebbe possibile confrontarsi con il testo di H. Arendt, Vita Activa oder vom tätigen Leben. Se la critica da muovere a Arendt non riguardasse l’impossibilità di leggere il moderno a partire da categorie greche, a partire cioè dal contesto della polis, bensì al contrario individuasse nel gesto di Arendt la trasposizione di una separazione ordinante entro la distinzione aristotelica tra póiesis e práxis? Si potrebbe far valere come argomento a sostegno di questa tesi il fatto che nell’etica aristotelica non

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implicano né un diverso senso di contenuto né un differente senso del riferimento; ciò vuol dire che il «non essere parà»111 della práxis rispetto alla póiesis non significa il non esser più (presente) accanto (parà) del fine rispetto a “chi” agisce, il non essere più via da sé dell’agente, in modo che, nell’attuazione della práxis stessa, possa emergere, di volta in volta, l’identità di sé con sé, il “chi” dello svelante, che coincide in tutto e per tutto con il suo essere sempre, di volta in volta, pienamente appariscente, con «l’irrompere dell’agente in quanto tale»112. Piuttosto, a partire dall’indissolubilità di kairós e chrónos, nel senso d’attuazione poietico della téchne si inscrive una rottura, un ritardo: quel sopraggiungere di un nuovo senso temporale (os, kairós) che riconosce la motilità del via da sé (ouk) vivendola hos mé. Ciò significa che la motilità propriamente aprente della práxis, il suo esser rimandata a sé, al suo “che”, non è altro che il riconoscimento del suo costitutivo via da sé. L’attuazione della práxis è inficiata da uno squilibrio costitutivo, è sempre sconnessa, bucata: il movimento del via da sé, dal proprio “che” co-incide con l’apertura di ciò da cui l’esserci fugge, che tuttavia non è affatto prima e a parte rispetto alla motilità del fuggire, bensì si apre nella modalità della chiusura, del “contro di sé” con e in questo fuggire: In dieser verfallenden Abkehr ist freilich das Wovor der Flucht nicht erfasst, ja sogar auch nicht in einer Hinkehr er-

si tratta affatto di due “ambiti” differenti, l’uno produttivo, l’altro propriamente volto all’azione, bensì di due modalità di cogliere lo “stesso”, a fronte dell’identità dell’ente cui téchne e phrónesis si volgono, l’endechómenon. 111. M. Heidegger, GA 19 p. 49, trad. it. p. 92. 112. Ivi, p. 150, trad. it. pp. 183-184 [trad. mod.].

310 fahren. Wohl aber ist es in der Abkehr von ihm erschlossen “da”.113

Ciò significa che l’identità dell’agente che si compie nell’azione, nell’attimo che, aristotelicamente, intesse il coglimento noetico dell’éschaton, quella ‘vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza’ che appartiene al noûs praktikós, subisce un vero e proprio rovesciamento: è proprio l’emergere della distanza, dello iato, della dis-giunzione di sé con sé, kairós/ chrónos, a portare a compimento la prassi. E questo è il senso performativo del “fatto” di esserci.

113. M. Heidegger, GA 2 p. 185, trad. it. p. 226: «Questa diversione deiettiva non permette di cogliere il davanti-a-che della fuga, e meno ancora permette di esperirlo una conversione. Ma è indubitabile che il davanti-a-che “ci” è aperto nella diversione da esso».

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Capitolo quinto Stimmung e intransitività dell’essere: il carattere «medio» del performativo negativo

§1 La struttura fenomenologica della Stimmung: la dis-giunzione noia essenziale/inessenziale È la struttura fenomenologica della Stimmung e in particolare il fenomeno dell’angoscia – vero e proprio “negativo fotografico” del Verfallen in quanto esistenziale fondamentale – a riformulare il senso della correlazione, la coincidenza di “cosa” e “come”, il peculiare autoriferimento inscritto nel “fatto” di esser-ci, permettendo così di pensare il rovescio del performativo, il tratto precipuamente negativo della performatività. Si tratta in primo luogo di ricontestualizzare il Gestimmt-sein sottraendolo alla sfera psicologica – la stessa cui appartengono termini quali “emozione”, “sentimento”, “stato emotivo”, tutte parole che gravitano attorno a quel che conosciamo come “mondo interno” – per restituire alla Stimmung, oltre alla sua polivocità, quel tratto aperto, indiviso e insieme condiviso, che le deriva dal contesto in cui innanzitutto viene impiegata, quello musicale1.

1. J. W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, X/II, 2, Hirzel Verlag, Leipzig 1960, p. 3128.

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Pensare la Stimmung fenomenologicamente significa riportarla allo spazio aperto del mondo, del suono e del linguaggio, alla scena in cui il retore si rivolge agli akúontes, là dove è avvenuta la prima trattazione delle emozioni, che non è affatto «stata condotta nell’ambito della psicologia […] ma della retorica»2.

2. M. Heidegger, GA 2 p.184, trad. it. p. 172. All’interpretazione della Retorica di Aristotele Heidegger dedica inoltre il corso del semestre estivo del 1924 Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, Klostermann, Frankfurt a. M. 2002, GA 18. Prima della sua pubblicazione, del corso aveva fornito una esposizione preliminare Kisiel nel suo imprescindibile testo ricostruttivo di tutto il percorso del pensiero heideggeriano dalla tesi di libera docenza fino a Sein und Zeit. In relazione al tema che ci interessa e, in particolare, in rapporto a quel modo del discorso che non implica la disgiunzione veritativa apofantica, il confronto con la Retorica segna certamente un passo cruciale. In questo contesto, infatti, «parlare – come afferma Kisiel – […] è un “parlare dentro” (Über-reden, persuadere), convincere, e la sua “verità” è più un modo di accordare (Abstimmung) il sentire (mood), che una corrispondenza giudicativa». T. Kisiel, The Genesis of Heidegger’s Being and Time, cit. p. 284. Come ha riscostruito A. Caputo, L’origine dell’affettività. Martin Heidegger a Marburgo, in «Intersezioni», 20, 1, 2000, pp. 59-86, lo schema “a tre” del pôs, tinì e dià poía presente nella Retorica aristotelica può essere rintracciato nell’andamento dell’analisi fenomenologica delle Stimmungen, “l’aver-paura”, il “davanti a che” e il “per-che”. Il termine – seguendo ancora Caputo – «compare per la prima volta nel 1921-22 […] con l’uso dell’aggettivo “befindlich” in relazione a quello di “adfectus”, a indicare lo stretto legame tra teoria e prassi, comprensione ed emotività, azione e passione». Ivi, p. 75. Stimmung e Befindlichkeit emergono a partire dalla interpretazione heideggeriana di Agostino, come traduzione del termine agostiniano affectio, come ha mostrato in maniera esemplare M. De Angelis, Per un’ontologia fenomenologica delle emozioni, in «Discipline Filosofiche», IX, 2, 1999, pp. 183-225. Inoltre, sul confronto di Heidegger con la retorica aristotelica si vedano in particolare: D. M. Gross, A. Kemmann (eds.), Heidegger and Rhetoric, SUNY Press, Albany/New York 2005; T. Schirren, Martin Heidegger liest die Rhetorik des Aristoteles, in J. Knape, T. Schirren (Hrsg.), Aristotelische Rethorik-Tradition, Franz Steiner Verlag, Stuttgart 2005, pp. 310-327. In particolare sul senso dell’analisi della Retorica per l’approfondimento del Mit-sein si veda: A. Canzonieri, Per un’ermeneutica della vita

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La Stimmung somiglia più alle perturbazioni atmosferiche e ai cambiamenti del clima che non ai fantomatici oggetti incapsulati nell’interiorità di un “io”; non a caso, è nei Meteorologica che Aristotele ha parlato per la prima volta di páthe a proposito di tuono, uragano, terremoto, siccità: vere e proprie Stimmungen della natura3. Paura, speranza, noia, gioia, indifferenza – in tutta l’irriducibilità delle loro modulazioni – vanno comprese dunque come tonalità che per prime dispongono le situazioni e, in e con esse, la situazione (o «Grundsituation»)4, per dirla con le parole di Rentsch: l’essere-nel-mondo. Come si diceva, la parola Stimmung viene impiegata innanzitutto in un contesto musicale, la sua sfera semantica è legata all’accordare gli strumenti, offrendosi in questo contesto politica. Heidegger e le pratiche retoriche, in «Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio», 7, 1, 2013, pp. 93-109. 3. Si veda a proposito il contributo di M. De Angelis, Per un’ontologia fenomenologica delle emozioni in Martin Heidegger, cit., p. 187. Sulle Stimmungen all’interno del pensiero heideggeriano è possibile fornire una bibliografia relativamente completa, sono infatti molto meno numerosi gli studi che abbiano questo tema come punto focale. In particolare: O. F. Bollnow, Das Wesen der Stimmungen, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009; H. Byung-Chul, Heideggers Herz: zum Begriff der Stimmung bei Martin Heidegger, Wilhelm Fink, München 1996; A. Caputo, Pensiero e affettività: Heidegger e le Stimmungen: 1889-1928. Franco-Angeli, Milano 2001; P. L. Coriando, Affektenlehre und Phänomenologie der Stimmungen: Wege einer Ontologie und Ethik des Emotionalen, Klostermann, Frankfurt a. M. 2002; B. Ferreira, Stimmung bei Heidegger: das Phänomen der Stimmung im Kontext von Heideggers Existenzialanalyse des Daseins, Springer, Dordrecht/ Boston/London 2002; H. Fink-Eitel, Die Philosophie der Stimmungen in Heideggers “Sein und Zeit”, in «Allgemeine Zeitschrift für Philosophie», 17, 3, 1992, pp. 27-44; A. J. Escudero, Heideggers Phänomenologie der Stimmungen. Zur welterschließenden Funktion der Angst, der Langeweile und der Verhaltenheit, in «Heidegger Studies», 26, 2010, pp. 83-95; H.-H. Gander, Grund und Leitstimmungen in Heideggers “Beiträge zur Philosophie”, in «Heidegger Studien», 10, 1994, pp. 15-32. 4. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit. p. 78.

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come un vero e proprio terminus technicus. Stimmung inoltre significa anche «sviluppare il linguaggio, il tono»5 ma, al contrario della phoné aristotelica o del soliloquio dell’anima con sé stessa descritto nella scena fenomenologica husserliana, del Laut inscritto nella Verlautbarung fa risaltare non il dritto – il segno significante che intende dire qualcosa – bensì il rovescio, il “timbro”, il modo in cui risuona. È infatti proprio il contesto musicale a essere predominante; oltre ad «accordare uno strumento»6, Stimmung è anche «il suono ben temperato dell’organo»7, il «tono, [la] melodia»8. In merito al significato del termine, alla sua provenienza etimologica e alle sue radici storico-filosofiche riportiamo la ricostruzione offerta da Annalisa Caputo: Il significato di Stimmung risulta un “condensato” del concetto di “armonizzare” e di quello di “temperare”. Concetto intraducibile, che significa (e mette insieme): atmosfera, melodia, sentimento e tanto altro ancora […]. Nel senso di armonizzare, di armonia, indica una “con-sonanza”, un suonare insieme, un vibrare all’unisono di corde diverse […]. Ma insieme al senso di “armonia”, connesso e indisgiungibile, c’è il significato di “temperare”: disporre in maniera equilibrata, regolare; nel senso di temperare, accordare […]; da cui il mondo patico del temperamento, della temperanza; ma anche quello musicale: dall’equilibrio ben temperato all’arte dell’accordatura (temperament). E poi ancora il mondo “atmosferico” della temperatura, del tempo; ma, in questo, an-

5. J. W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, X/II, 2, p. 3127. 6. Ivi, p. 3128. 7. Ibidem. 8. Ivi, p. 3129.

315 che il mondo cronologico e kairologico: tempus e temperare come intervenire nel momento opportuno e in giusta misura.9

È proprio la struttura fenomenologica della Stimmung, a mio avviso, a riformulare il senso della correlazione e, con esso, la figura della performatività, offrendo un autoriferimento, una modalità d’esser riferito a sé, al suo “che” (esser-ci) che non si identifica né con la coincidenza di datità e modo di datità trasparente a sé stessa che appartiene alla sfera immanente della coscienza formale husserliana, né con l’autoriferimento della phrónesis, in cui il noûs pratico rivolto all’éschaton coglie l’esser contingente dell’azione, portando a coincidenza “cosa” e “come”, “wovon” e “worum” dell’agire nell’attuarsi della práxis stessa e implicando una struttura performativa, un senso di “coincidenza”, pensato in analogia al noeîn e alla aísthesis, in base cioè a quella modalità di coglimento in cui si dà «una vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza»10. La riformulazione del senso della correlazione può esser fatto emergere a partire da due elementi: il primo è il rovesciamento del primato aristotelico dell’atto sulla potenza – parallelo al capovolgimento del primato della sophía sulla phrónesis – che, ripensando la potenza (dýnamis), riscrive parimenti il senso del “contingente”, il modo d’essere di ciò che può esser diversamente da ciò che è; il secondo riguarda la peculiare riflessività – che abbiamo chiamato riflessività indessicale – inscritta nella struttura fenomenologica della Stimmung. Analizziamo in primo luogo questo secondo elemento. Il “si” 9. Annalisa Caputo, in una delle prime monografie in lingua italiana dedicate al tema della Stimmung nel pensiero di Heidegger, riporta la ricostruzione delle radici etimologiche e storiche del termine offerta nel lavoro di L. Spitzer, Classical and Christian ideas of World Harmony. Prolegomena to an Interpretation of the Word “Stimmung”. A. Caputo, Pensiero e affettività: Heidegger e le Stimmungen, cit., pp. 10-11. 10. M. Heidegger GA 21 pp. 180-181, trad. it. p. 121.

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riflessivo del rapporto indicato ad esempio nell’impaurirsi – (il Sich-befinden, infatti, l’esistenziale Befindlichkeit si temporalizza, qui e ora, nell’essere intonati in una Stimmung di volta in volta determinata) – non denota un ente la cui realtà precede l’accadere del rapporto, bensì indica la riflessività indessicale espressa in e con l’azione verbale che, con e nel sentirsi, apre tanto chi si sente, quanto ciò per cui (worum) e di fronte a cui (wovor) ci si sente (così): un ente dunque che come tale esiste. In riferimento alla speranza, ad esempio, «il carattere costitutivo di questa Stimmung è anch’esso riposto, in primo luogo, nello sperare come avere-speranza-per-sé. Colui che spera si coinvolge, per così dire, nella speranza, e va così incontro a ciò che spera»11. E tuttavia ciò non deve affatto venire inteso come una relazione di un polo all’altro, di qualcosa a qualcosa: la tonalità emotiva «non viene né dal “di fuori” né dal “di dentro”; sorge nell’essere-nel-mondo stesso come sua modalità»12. L’autoriferimento che è in questione non ha nulla a che fare con ciò che l’esserci «conosce, sa o crede»13, «è così poco una percezione riflessiva che coglie l’esserci proprio nella irriflessività del suo immergersi e sommergersi nel “mondo” di cui si prende cura»14. È questa struttura del Selbstbezug, il cui senso va analizzato in maniera radicalmente fenomenologica, a rendere la Stimmung la modalità d’apertura fondamentale e primaria dell’essere-nel-mondo – «le Stimmungen sono il “presupposto” e il “medio” del pensare e dell’agire»15 – e a dar conto del senso 11. M. Heidegger, GA 2 p. 457, trad. it. p. 409. 12. Ivi, p. 182, trad. it. p. 170. 13. Ivi, p. 181, trad. it. p. 169. 14. Ivi, p. 182, trad. it. p. 170. 15. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik, GA. 29/30, cit. p. 102, trad. it. p. 92.

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performativo negativo del fatto di esserci, della precipua dimensione performativa che appartiene al senso d’essere che va sempre espresso con i pronomi personali, nell’autoriferimento dell’esserci a sé, al suo “che”. Innanzitutto si tratta di non inserire la relazione tra l’emozione e il suo “oggetto” entro una logica causale, che presuppone la presenza di un soggetto cognitivo isolato, dagli altri e dal mondo, che sarebbe poi anche “dotato” di emozioni, stati psico-fisici provocati dall’azione del mondo esterno16: «gli stati d’animo non sono un ente, un qualcosa che in qualche modo semplicemente accade nell’anima, in secondo luogo non sono neppure, come si pensa, quanto c’è di più inconsistente e fugace»17. È interessante che queste delimitazioni negative vengano messe alla prova fenomenologicamente in una maniera che, a mio avviso, si avvicina molto alla descrizione sprachphilosophisch delle emozioni18 che Wittgenstein compie nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia e in generale alla descrizione

16. La comprensione fenomenologica della Stimmung – come ha sottolineato Annalisa Caputo – implica «la caduta delle opposizioni sé-altro e soggetto-oggetto, con essa cadono anche altre due barriere, due strutture con cui tradizionalmente si sono concepite e imbrigliate le emozioni: il dualismo cognitivo-affettivo e il rapporto causa-effetto. Cade il dualismo cognitivoaffettivo, ovvero quello intelletto-emozione, ragione-passione, conosceresentire». A. Caputo, L’origine dell’affettività. Heidegger a Marburgo, cit. pp. 64-65. 17. M. Heidegger, GA 29/30 p. 99, trad. it. p. 89. 18. Questa strada è stata del resto già esplorata da T. Rentsch: «Stimmungen sind in diesem Sinne weder objektiv noch subjektiv. Es ist die öffentliche Welt der existentiellen Sorge, die in Stimmungssätzen ausgesagt wird. Diese Welt der Menschen – je des In-der-Welt-seins – ist so solipsistisch, wie sie intersubjektiv ist. Alltagssprachlich verstehen wir: 1) ich bin ganz verzweifelt. 2) Ich bin so froh. 3) Mir ist so unheimlich. 4) Alles ist so traurig». T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., p. 239.

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dei giochi linguistici nelle Ricerche filosofiche19. Il compito fenomenologico “alle cose stesse” diventa nella fenomenologia heideggeriana un «vedere e dire ciò che qui accade»20: «non si tratta dello sforzo di introdurci in un particolare modo di vedere, bensì al contrario della libertà (Gelassenheit) del libero sguardo quotidiano»21. Leggiamo: Una persona con la quale stiamo in compagnia viene colta da tristezza. Dipende unicamente dal fatto che questa persona è in una situazione di esperienza vissuta in cui non ci troviamo, e quanto al resto rimane tutto come prima? Oppure cosa accade? La persona divenuta triste si chiude, diviene inaccessibile […]. Soltanto questo: diviene inaccessibile. Eppure stiamo insieme a lei come al solito, magari ancora più di frequente, e siamo nei suoi confronti ancora più gentili; anche lei non cambia nulla nel suo comportamento verso le cose e verso di noi. Tutto è come sempre, eppure è diverso, e non soltanto sotto questo o quel punto di vista. Bensì, ferma restando l’identità di ciò che facciamo e per cui ci adoperiamo, il come stiamo insieme è diverso. Ma ciò non è un fenomeno provocato dallo stato d’animo della tristezza presente in lei, bensì è parte del suo esser-triste. Cosa vuol dire affermare che quella persona in tale stato d’animo è inaccessibile? Il modo e la maniera in cui possiamo essere con lei e lei con noi è un altro. La tristezza è ciò che esprime questo “modo” di essere assieme. Quella persona ci introduce nel modo in cui è, senza che noi necessariamente dobbiamo essere tristi.22

19. Ci riferiamo in particolare al § 126 delle Ricerche filosofiche: «da alles offen daliegt, ist auch nichts zu erklären». E all’esortazione – che si avvicina molto alla Gelassenheit del libero sguardo quotidiano a cui Heidegger fa riferimento – : «Sieh auf das Sprachspiel als das Primäre!» L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, cit., §126 e §656. Cfr. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., pp. 160 e ss. 20. M. Heidegger, GA 29/30 p. 100, trad. it. p. 91. 21. Ivi, p. 137, trad. it. p. 122. 22. Ivi, p. 99, trad. it pp. 89-90.

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Prima di analizzare più da vicino questa lunga citazione procediamo per delimitazioni negative: l’esser-tristi non denota una «esperienza psichica vissuta»23, uno stato interno, un processo che si svolge nel mondo interiore; in questo contesto non ci troviamo affatto entro l’atteggiamento ordinante della psicologia e dunque nella dimensione veritativa che appartiene alla scienza obiettiva; potremmo dire, riprendendo le note critiche di Husserl allo psicologismo, non ci troviamo affatto entro un ambito di verità “probabile”. Osservando più da vicino questa connessione […] si rivela che lo stato d’animo non è dentro una qualche anima dell’altro e tantomeno lì accanto alla nostra, tanto che dobbiamo piuttosto dire e diciamo: questo stato d’animo pervade, si posa su tutto, non è affatto “dentro” un’interiorità, per apparire soltanto nello sguardo degli occhi, e proprio per questo è altrettanto poco al di fuori. Dov’è e com’è allora? Questo stato d’animo, la tristezza, è qualcosa in riferimento alla quale possiamo domandarci dov’è e com’è? […] Lo stato d’animo non è un ente che si presenta nell’anima come esperienza vissuta, bensì è il “modo” del nostro esser-ci-assieme.24

L’esser-triste inoltre non coinvolge neppure il piano constativo mondano, dal momento che «ciò che facciamo e per cui ci adoperiamo»25 non subiscono mutamenti; il senso di contenuto, il was, ovvero gli enti a cui ci si rapporta, l’esperito, le significatività rimangono: «ferma restando l’identità di ciò che facciamo e per cui ci adoperiamo, il come stiamo insieme è diverso»26.

23. Ibidem. 24. Ivi, p. 100, trad. it. p. 90. 25. Ivi, p. 99, trad. it. p. 90. 26. Ibidem.

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Ma come va intesa questa “modalità”, come va inteso il “dass” del “modo” in cui ci siamo, il “tono” del rapporto con il mondo, con gli altri, con le cose, con se stessi? La Stimmung, la sua dimensione di verità, non riguarda il senso di contenuto, astratto dalla modalità in cui il riferimento al contenuto si dà, c’è; l’esser-triste non asserisce (Aussagen) qualcosa di e su un ente semplicemente presente, bensì indica (Anzeigen) rende noto (Kundgeben) interpreta (Auslegen), comprende (Verstehen), dispone (Bestimmen) apre (Erschliessen), esprime il “come” dell’esserci: «La tristezza è ciò che esprime questo “modo” di essere assieme»27. Questo significa che non è lo stato d’animo (Gefühlzustand) della tristezza a provocare la tristezza di una situazione, in base a quell’idea secondo cui «noi trasmettiamo alle cose stesse gli stati d’animo che le cose causano in noi»28. Questa persona è triste significa semplicemente che «è divenuta inaccessibile»29, al pari di quel che Wittgenstein afferma dello stupore: «‘sorpresa’, la sensazione di rimanere all’improvviso con il fiato sospeso»30. Ma cosa vuol dire affermare che quella persona in tale stato d’animo è inaccessibile? La dimensione di verità, di espressione che appartiene alla Stimmung si situa su un piano radicalmente performativo: essa non denota un “che cosa”, non asserisce nulla, non appartiene cioè al piano della Aussage, non implica una motilità di svelamento e parimenti una modalità d’esser-svelato che può esser unita e divisa nel logos apofantico, cioè spiegata in quanto qualcos’al-

27. Ibidem. 28. Ivi, p. 127, p. 113. 29. Ivi, p. 99, trad. it pp. 89-90. 30. L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1984, p. 220, ed. it. a cura di R. De Monticelli, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi, Milano 1990, p. 321.

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tro, sotto questo o quel punto di vista, non coinvolge in alcun modo «ciò che facciamo o per cui ci adoperiamo»31, non si situa dunque in quella dimensione veritativa che implica il vero o il falso, bensì indica il “fatto” del “come”: l’esser-ci; (potremmo dire, il “fatto” di questo punto di vista, di questo “aspetto”, di volta in volta, proprio questa volta qui!). Di nuovo: «tutto è come sempre, eppure è diverso»32. È l’attuarsi della dimensione modale, il “dass” del “come” a esprimersi nell’esser-triste e a incarnare la peculiare dimensione performativa inscritta nell’esserci: «La tristezza è ciò che esprime questo “modo” di essere assieme»33: In qualche modo sembra che una tonalità emotiva ci sia già da sempre, che sia una sorta di atmosfera nella quale ci immergiamo e dalla quale veniamo poi pervasi (durchstimmt). […] Non qualcosa di solamente sussistente, bensì un modo e maniera fondamentali dell’essere, e ciò implica immediatamente l’essere assieme. […] Maniera nel senso della melodia la quale non fluttua al di sopra del presunto sussistere (Vorhandensein) autentico dell’uomo, ma dà il tono a questo essere, cioè dispone e determina (stimmt und bestimmt) il “modo” del suo essere.34

Ma in che modo il dass, l’attuazione (Vollzug) cioè la maniera in cui il “come” si dà, c’è (es gibt) è performativa? E su che base la struttura della Stimmung riformula il senso della correlazione, dell’autoriferimento, rovesciando quel che abbiamo definito performativo standard, la modalità di coglimento della praktische aísthesis che appartiene al noûs pratico inscritto nella phrónesis, quella vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza che implica il dualismo tra il lógos ti kata tinos e il 31. M. Heidegger, GA 29/30 p. 100, trad. it. p. 90. 32. Ibidem. 33. Ibidem. 34. Ivi, pp. 100-101, trad. it. p. 91.

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noeîn? E, parimenti, come viene ripensato il senso del contingente, quell’endechómenon che è tale solo in contrapposizione a (e dunque sulla base del) sempre essente? Proviamo a rispondere alla prima domanda riprendendo il rapporto tra a sé e via da sé che, nel caso della Stimmung, trova la sua formulazione paradigmatica, in cui emerge quel senso di negazione né privativo né negativo a partire dal quale abbiamo finora pensato la figura della performatività: La Stimmung c’è e non c’è. […] Questa differenza ha un carattere peculiare e non coincide affatto con il sussistere e non sussistere di una pietra. Il non-sussistere della pietra non è un modo determinato del suo sussistere, bensì ne è il contrario puro e semplice. Invece l’esser-via, l’assenza nelle sue diverse forme, non è il contrario dell’esserci che esclude quest’ultimo, bensì viceversa ogni esser-via presuppone l’esser-ci. Dobbiamo esser-ci per poter esser-via. Soltanto perché ci-siamo possiamo esser-via. Dunque l’esser-via, ossia questo esser-ci e non-esser-ci, è un qualcosa di peculiare, e la Stimmung è connessa in qualche maniera, per il momento oscura, con tale peculiare modo di essere.35

Viene di nuovo ribadita la necessità di pensare il senso del “non” escludendo una sua comprensione sia in senso negativo (il contrario del sussistere, dell’essere presente di qualcosa), sia in senso privativo (lo stesso senso del “non” che abbiamo incontrato nell’interpretazione heideggeriana di Aristotele, nell’esser mancante del noûs nella póiesis rispetto alla práxis); in questo caso il non esserci, l’esser-via è un modo di esserci che non solo non esclude l’esserci come suo contrario, né implica una mancanza, ma lo presuppone: «dobbiamo esserci

35. Ivi, p. 98, trad. it. p. 88.

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per poter esser via»36. Leggiamo questo passo in merito al senso della negazione: Ma l’esserci e l’esser-via dell’uomo è qualcosa di completamente diverso dall’esser presente o non esser-presente. Di esser presente e non esser presente parliamo in riferimento a una pietra […] o, entro una determinata accezione, in riferimento a un processo fisico […]. L’esser presente e il non esser-presente decide sull’essere e il non essere. Ma quanto abbiamo definito esserci ed esser-via è qualcosa nell’essere dell’uomo. È possibile solamente se e finché egli è. Anche l’esser-via è un modo del suo essere. Esser-via non significa: non essere affatto, ma è anzi una maniera dell’esser-ci. La pietra, nel suo esser-via, non è proprio qui. L’uomo invece deve esser-ci, per poter esser-via, e soltanto finché c’è (da ist), ha la possibilità dell’esser-via.37

E tuttavia l’esserci – che pure è il presupposto del non esserci, cioè dell’esserci nel modo dell’esser-via – non è nient’altro che un ritardo, un contraccolpo nella modalità di fenomenizzazione dell’esserci come esser-via, uno scarto nel “fatto” della “modalità” dell’esser-via. Torneremo su questo punto. Quel che mi preme ora sottolineare è l’esclusione della dimensione disgiuntiva apofantica: anche in questo contesto non abbiamo a che fare con Stimmungen “autentiche” rispetto ad altre “inautentiche”, così come il rapporto tra il risvegliare una Stimmung e il suo essere sopita, assente, non corrisponde affatto alla differenza disgiuntiva tra essere coscienti e non

36. Ibidem. 37. Ivi, p. 96, trad. it. p. 87 [trad. mod.]. Abbiamo preferito tradurre Vorhandensein e Nicht-vorhandensein come esser-presente e non esser-presente, modificando la scelta del traduttore italiano che è invece “sussistere” e “non sussistere” per sottolineare la differenza tra la negazione apofantica e la negazione esistenziale, questione che il termine esser-presente – traduzione più diffusa del tedesco Vorhandensein – esprime in maniera più chiara.

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essere coscienti. Nella dimensione di senso della Stimmung e correlativamente nel suo essere sopita o venir risvegliata non vige il contesto di senso logico-disgiuntivo, così come non è vi è alcuna separazione tra attività e passività, tra ciò che compio, agendo, e quel che mi accade, subendo, tra Handlung e Widerfahrnis, c’è piuttosto diatesi media, disposizione: “Ciò che dorme” è, in una maniera particolare, assente, eppure c’è. Se destiamo una […] Stimmung, vuol dire che c’è già. Ma ciò significa anche che, in un certo senso, non c’è. Singolare: la Stimmung è qualcosa che c’è e al tempo stesso non c’è. Se volessimo continuare a filosofare formalmente nel senso consueto, potremmo subito dire: una cosa che al tempo stesso c’è e non c’è ha un essere tale che si contraddice intimamente. Esser-ci e non esser-ci è infatti una contraddizione pura e semplice. Ma quanto si contraddice non può esistere, è in sé stesso impossibile, così come non può esistere un quadrato rotondo – questo è un principio della metafisica tradizionale. […] Eppure tutte le cose che conosciamo sono sottoposte a un inequivocabile aut-aut: una cosa è presente o non è presente. Vale anche per l’uomo? Certo: uno c’è oppure non c’è. Nel contempo si rammenterà però che qui la situazione è diversa rispetto a una pietra. Sappiamo infatti, per l’esperienza che facciamo di noi stessi in quanto uomini, che in noi qualcosa può essere presente e tuttavia non esserepresente.38

Il fenomeno della Befindlichkeit, infatti, che implica parimenti l’analisi di “due” Stimmungen che si trovano tra loro in quel rapporto dis-giuntivo proprio/improprio – a sé/via da sé – che permea tutti gli esistenziali, è «ciò che in sede ontologica indichiamo (Anzeigen) con l’espressione sentirsi situato (Befindlichkeit) [ed] è onticamente notissimo sotto il nome di tonalità emotiva, umore»39. In base alla nostra prospettiva, 38. Ivi, p. 91, trad. it. p. 83 [corsivo mio]. [trad. mod.]. 39. M. Heidegger, GA 2 p. 178, trad. it. p. 167.

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“dire: Befindlichkeit” significa “indicare” (Anzeigen) a questa Stimmung determinata, qui e ora, al situarsi dunque di volta in volta, proprio questa volta qui, in un determinato tono: il sentirsi situato infatti, in quanto esistenziale, si fenomenizza, si temporalizza (es zeitigt) di volta in volta in ogni Stimmung determinata. Il discorso sulla Befindlichkeit dunque appartiene, come ogni esistenziale, a una dimensione costitutivamente performativa, per essere compreso va propriamente esperito, qui e ora. A mio avviso, inoltre, è possibile leggere il rapporto tra Befindlichkeit e Stimmung, ovvero l’intreccio ontologico/ontico a partire dalla dis-giunzione performativo/constativo, proprio/ improprio, a sé/via da sé: la stessa che – come ci proponiamo di mostrare – pervade la dis-giunzione tra angoscia e paura. Tuttavia ciò non significa affatto che l’“ontologico” – parallelo all’“autentico” – porti con sé il primato (ontico) dell’ontologia intesa come comportamento determinato. L’ontologico, cioè l’esistenziale, non è altro che l’indicazione della modalità in cui ogni comportamento determinato si attua, c’è ed è dunque riferito a sé ed implica per essere compreso una trasformazione esistentiva, una trasformazione di chi è nel mondo; (e riguarda perciò anche quel comportamento determinato che è la filosofia). È proprio il primato del filosofare, così come di qualsiasi altro comportamento “originario” rispetto ad altri – anelito all’originarietà che pure è presente nel tono e nei testi heideggeriani40 – a poter esser messo radicalmente in questione. Inscri40. A mio avviso, il primato della verità di filosofare, poetare e fondare stati, intesi (fenomenologicamente) come modi di essere viene mostrato in maniera molto convincente in questa analisi di Gardini, che fa emergere la dimensione ontologico-politica di questa “triade”, riferendosi agli scritti heideggeriani successivi a Sein und Zeit e in particolare al saggio sull’Origine dell’opera d’arte: «Le riflessioni heideggeriane sull’arte sono più volte attra-

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vere l’intreccio ontico/ontologico, proprio/improprio in ogni versate dalla triade artista (poeta) - pensatore - uomo politico. Come mostra il celebre esempio del tempio – che Heidegger ama peraltro riprendere in opere differenti, e sempre con la stessa funzione – l’opera ha il compito di dischiudere ed instaurare una costellazione storica di senso, una determinata forma di manifestatività dell’ente, che “si diffonde nel dire del popolo” (M. Heidegger Holzwege, Klostermann, Frankfurt a. M. GA 5 p. 28); essa apre, in altre parole, un determinato sistema di rapporti di “in quanto”: “l’ampiezza dell’apertura di questi rapporti è il mondo di questo popolo storico” (Ivi, p.27). L’opera irrompe con la sua forza espressiva e plasma una direzione di senso, che il popolo recepisce mediatamente e fa propria. Colui che la fa propria direttamente è infatti innanzitutto l’uomo politico, “il fondatore di stati”, che impiega la potenza storica dell’opera d’arte per radunare “eticamente” la comunità intorno al tempio e plasmarne l’architettura politica. […] “Il Pensatore dice ciò che il poeta canta” (Ibidem). Il canto non è fatto di enunciati, neppure se in esso compare la parola è; il cantare poetico è una realtà certo articolata […] ma non predicativa. […] Questa caratteristica situazione merita qui almeno un cenno, perché la triade pensatore-poeta-statista gode appunto di questa vistosa peculiarità, che a decidere della sua natura sono ragioni di ordine tanto ontologico, quanto politico. Per Heidegger – quantomeno dello Heidegger degli anni ’30 – poeta e statista sono quasi due nomi propri, immediatamente identificabili con Hölderlin e con il Führer. Vi sono perciò pochi dubbi sul sistema di corrispondenze da tracciare in entrambi i casi. Il pensatore avrà il ruolo di prestare orecchio alla parola di Hölderlin, dispiegarla in forma pensante, ovvero enunciativa [non assertiva, mio] e recarla infine nelle mani del Führer, che attorno ad essa cementerà il popolo tedesco. Siamo di fronte a un’autentica ontologia politica o politica ontologica». M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., pp. 146 e ss. La nostra domanda suona: se a venir messa in questione è la totalizzazione della dimensione assertiva – mostrata nel suo scaturire dal senso d’essere che si esprime con i pronomi personali, l’essere-nel-mondo – non è un fraintendimento di questa stessa logica non disgiuntiva attribuire un carattere più originario a un modo di essere (nel mondo) rispetto a un altro, e dunque alla triade poeta-pensatore-fondatore di stati? A partire dal senso della disgiunzione fenomenologica e dal carattere performativo negativo di tutti gli esistenziali, si tratta piuttosto di sottolineare il carattere poetante, istituente e pensante inscritto in ogni comportamento determinato, nell’esser sempre mio l’un con l’altro nel mondo, inscindibile dall’improprietà in cui ogni modo di essere in quanto tale già sempre fattiziamente è, e che implica in vista della sua verità quel cammino attraverso i coprimenti

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comportamento determinato, in ogni modo di essere, significa sottolineare il carattere performativo negativo dell’essere-nelmondo, il contraccolpo de-presentificante inscritto in ogni comportamento: ovvero la possibilità del suo attuarsi non a partire dalla significatività in cui è assorbito, nell’indifferenza della modalità di questo rapporto, bensì nella significatività della “modalità” di questa relazione. Per analizzare il senso di questa dis-giunzione è opportuno preparare il terreno attraverso l’interpretazione fenomenologica della noia, in cui emerge in maniera più esplicita di quanto non avvenga in Sein und Zeit il senso dis-giuntivo che pervade tutti gli esistenziali e la stessa struttura costitutivamente zweideutig della Stimmung. Cominciamo con una indicazione preliminare del rapporto tra noia propria e impropria: Questa noia superficiale ci deve condurre alla noia profonda, cioè in termini più appropriati, la noia superficiale si deve rivelare come noia profonda, deve pervaderci nel nostro esser-ci. Questa noia fugace, occasionale, inessenziale, deve diventare essenziale.41

Non si tratta del passaggio da uno stato d’animo (Gefühlzustand) inautentico a uno autentico: noia superficiale e noia profonda, al di là di questa formulazione che sembra opporle

e quella trasformazione esistentiva in cui si attua la verità esistenziale nella sua dis-giunzione con la non-verità. A mio avviso, far emergere il carattere performativo negativo di ogni esistenziale permette di radicalizzare la dimensione storico-eventuale, l’accadere immanente della dimensione “modale”, mettendo fuori gioco la possibilità di ordinare – sebbene non entro una logica di genere e specie o di regioni formali, ma ontologicamente (genealogicamente?) (rispetto all’apertura della verità) – l’esser sempre mio l’un con l’altro nel mondo e i suoi modi di essere. È forse per questo – come sottolinea ancora Gardini – che «Heidegger ha scoperto solo molto tardi che la lingua quotidiana è una poesia dimenticata»? Ibidem. 41. M. Heidegger, GA 29/30 p. 122, trad. it. p. 109.

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come si trattasse di emozioni distinte cristallizzate entro una logica disgiuntiva apofantica, va intesa (anche se ciò fosse contro le intenzioni ‘profonde’ di Heidegger) in senso rigorosamente fenomenologico. Proviamo a parafrasare: la noia impropria si deve rivelare come propriamente è. Ma qual è la differenza tra la noia impropria (che non si è ancora rivelata come tale) e la noia propriamente tale? «I confini di questa seconda forma di noia, nei confronti della prima, non possono venir tracciati con precisione, perché si fondono l’uno nell’altro. Questo fatto non è casuale, bensì è connesso all’essenza interna della noia. D’altra parte, per scorgere una differenza dobbiamo rifarci a un caso opposto, accentuato ed estremo – estremo ovviamente in senso relativo – rispetto alla prima forma di noia»42. La dis-giunzione noia propria/impropria restituisce, dal punto di vista strutturale, la stessa figura fenomenologica che dis-giunge constativo/performativo, chrónos/ kairós, via da sé/ a sé. Nel venire annoiati da qualcosa siamo inchiodati da ciò che è noioso, non lo lasciamo andare o vi siamo per qualche motivo costretti, vincolati […]. Invece nell’annoiarsi di… si è già compiuto un certo distacco dalla cosa noiosa. Ciò che è noioso sussiste, certo, ma noi siamo annoiati senza che esso ci annoi in modo particolare ed esplicito; […] nell’annoiarsi di… la noia non è più inchiodata a…43

Ritroviamo anche in questo contesto la figura fenomenologica della dis-giunzione, l’intreccio tra il piano constativo e quello performativo. Nel primo caso, nella noia che non si è rivelata come propriamente è, nella noia uneigentlich si tratta di un venir annoiati da qualcosa di determinato, in modo tale che ci si annoia di questa precipua situazione alla quale siamo in-

42. Ivi, p. 164-165, trad. it. p. 145. 43. Ivi, p. 138, trad. it. p. 123.

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chiodati, (l’esempio di Heidegger è il venir annoiati dall’attesa di un treno che non arriva mai, inchiodandoci alla stazione). Nel venire annoiati da siamo assorbiti da ciò che è noioso, e parimenti inchiodati a questa situazione determinata.. Di contro, nell’essere annoiati di… non compare né qualcosa di determinato da cui veniamo annoiati, né l’essere inchiodati a una situazione. Nel primo caso di noia ciò che è noioso è chiaramente questo e quello, questa stazione, la strada, la regione. Nel secondo caso non troviamo nulla di noioso. Che significa ciò? Non diciamo di venir annoiati da questo o da quello […]. Nel secondo caso, non troviamo nulla di noioso. […] Più precisamente: non siamo in grado di dire che cosa ci annoi. Dunque, non è che nel secondo caso non ci sia affatto nulla che annoia; ciò che annoia ha piuttosto questo carattere del “non so cosa” […], nella situazione suddetta ci annoiamo. […] Dunque quando diciamo che nel secondo caso non si trova nulla di noioso, ciò significa che ciò che direttamente ci annoia non è un ente che possa venir indicato in modo determinato o una connessione determinata di enti. Ma non significa invece che in esso non si trovi nulla che annoia. Dal confronto tra le due forme di noia emerge che nella prima forma abbiamo un determinato qualcosa di noioso, e nella seconda forma un indeterminato qualcosa che annoia.44 [corsivi nel testo].

Anche in questo contesto abbiamo a che fare con un cambiamento d’accento che “passa”, che “attraversa” lo stesso fenomeno: o meglio, con un cambiamento d’accento nella fenomenizzazione, temporalizzazione dello stesso: mentre nell’essere annoiati da… l’accento dell’esperienza cade su ciò che annoia, sul senso di contenuto – l’ente, la situazione, il contesto determinato – nel secondo caso l’accento cade sull’annoiarsi: il contenuto dell’esser annoiati di… (ciò che annoia) co-incide

44. Ivi, pp. 172-173, trad. it. pp. 151-152.

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con l’esser riferito a sé, al suo “che”, con l’annoiarsi, con questo “fatto”, con questo “che” (dass) indeterminato. Nel secondo caso abbiamo, dunque, una struttura fenomenologica radicalmente performativa: ciò che annoia non è qualcosa, un was, un ente, una situazione ma, potremmo dire, “la” situazione che coincide con il “fatto” che ci annoiamo, con il “che” dell’annoiarsi, questo indeterminato. Il contenuto dell’annoiarsi di, ciò che (was) annoia coincide con il “fatto” (dass) dell’annoiarsi, con l’esser riferita (wie) sé, al suo “che”, della Stimmung: coincide col sentirsi situati nel “che” di questa noia indeterminata45.

45. Nonostante non venga riferita alla noia bensì all’angoscia, questa considerazione di Figal restituisce, a mio avviso, la dis-giunzione performativo/constativo, proprio/improprio. Scrive Figal, in uno dei lavori più noti e più importanti dedicati al pensiero heideggeriano: «Man wird jedoch, ohne Heideggers Intentionen zu verfehlen, sagen dürfen, dass eine solche Erschlossenheit von „Welt als Welt“ bereits dann erfahren wird, wenn es einem […] nicht mehr bruchlos gelingt, im Umgang mit Seiendem bestimmt zu sein. Mit dem Scheitern dieser Bestimmtheit aber tritt auch das bevorstehende und unbestimmte, sonst durch Projekte bestimmte Sein als das „Worum“ der Angst hervor». G. Figal, Phänomenologie der Freiheit, Mohr Siebeck, Tübingen 2013, p. 199. Tuttavia, rispetto alla prospettiva di Figal, che va in cerca di altre Stimmungen che interrompano l’andamento irriflesso dell’aver a che fare, quel che mi preme sottolineare è la possibilità di pensare il rapporto noia essenziale/inessenziale, angoscia/paura in ogni Stimmung determinata. Pensare la dimensione di senso della Stimmung entro la costellazione della performatività negativa significa sottolineare il sentirsi situati (Sich-befinden) in ogni Stimmung determinata e dunque la Umstellung, il cambiamento d’accento che può riguardare ogni modo d’essere intonato: ovvero il passaggio dall’essere intonata di una situazione determinata all’intonarsi nel fatto indeterminato della situazione, passaggio che può ripetersi, qui ora, in ogni concreta tonalità emotiva. Questo passaggio può essere anche descritto come una metamorfosi immanente dall’esser-riferito a qualcosa di determinato (bezüglich-sein) al non esser-riferiti a nient’altro se non all’indeterminato accadere della relazione (unbezüglich-sein). In questo senso concordiamo con Pöggeler, quando afferma che la struttura fenomenologica del rapporto tra angoscia e paura è sottesa a ogni Stimmung

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Nell’annoiarsi di… «non possiamo dire che cosa ci annoia»46: questa dimensione di senso cioè non appartiene al lógos ti kata tinos, al piano constativo apofantico, al dire qualcosa (was) di e su qualcosa, bensì l’annoiarsi di… rende noto, indica (zeigt an) che (dass) noi ci annoiamo. Il significato, il contenuto dell’enunciato “mi annoio” co-incide con il “fatto” dell’enunciare, del significare, ovvero con la modalità in cui chi enuncia è riferito a sé, al suo “che” (dass). Emerge in questo contesto un autoriferimento “riflessivo” che non è affatto un movimento di ritorno su sé stessi; al contrario, il Selbstbezug è un «Mitanklingen»47 e «Mitschwingen»48, coincide con l’essere intonati nel “fatto” (dass) indeterminato della situazione.

e dunque non è possibile pensare l’Angst in opposizione ad altre tonalità emotive: «Freude ist wesenhafte Freude, wenn sie mit der Angst zusammengeht. […] Die Angst ist wesenhaft nicht verstanden, wenn ihr die Freude entgegengesetzt wird. Beide gehen wesentlich zusammen», a patto di intendere questo Zusammengehen non come l’essere l’una accanto all’altra di due diverse Stimmungen, ma come il temporalizzarsi, in ogni Stimmung, della struttura fenomenologica dell’Angst nella sua dis-giunzione con la paura. Pöggeler, inoltre, nel lavoro da cui abbiamo tratto la citazione, critica in maniera molto istruttiva per l’intera comprensione del fenomeno della Stimmung la prospettiva di O. F. Bollnow, Das Wesen der Stimmungen, cit., sottolineando l’impossibilità di opporre su un piano antropologico-psicologico l’angoscia ad altre Stimmungen. Questa discussione critica è contenuta in O. Pöggeler, Das Wesen der Stimmungen. Kritische Betrachtungen zum gleichnamigen Buch O. Fr. Bollnows, in «Zeitschrift für philosophische Forschung», 14, 2, 1960, pp. 272-284. 46. Ivi, p. 172; trad. it. 151. 47. Il riferimento è al Kriegsnotsemester in cui i due termini indicano la necessità di pensare l’Erlebnis come Ereignis, in contrapposizione dunque al movimento di riflessione. M. Heidegger, GA 56/57 p. 73. Su questa “risonanza”, e sulla sua profonda differenza rispetto al movimento di ritorno su di sé che è proprio della coscienza riflessiva, ha richiamato l’attenzione J. Van Buren, The Young Heidegger: Rumor of the Hidden King, Indiana University Press, Bloomington 1994, in particolare pp. 288-289. 48. Ibidem.

332 Viene alla luce il fatto che gli stati d’animo non sono qualcosa di solamente sussistente, bensì un modo e una maniera fondamentale dell’essere, e precisamente dell’esser-ci, e ciò implica immediatamente l’essere-assieme. Sono maniere dell’esser-ci e in quanto tali dell’esser-via. Uno stato d’animo è una maniera, non semplicemente una forma o un modo, ma una maniera nel senso di una melodia, la quale non fluttua al di sopra del presunto sussistere autentico dell’uomo, bensì dà il tono a questo essere, cioè dispone e determina il “modo” del suo essere. Abbiamo così il dato corrispondente alla prima tesi negativa secondo la quale lo stato d’animo non è un ente: dal punto di vista positivo è un modo fondamentale, la maniera fondamentale di come l’esser-ci è in quanto esserci. Ora abbiamo anche la tesi contrapposta alla seconda tesi negativa, secondo la quale lo stato d’animo non è quanto c’è di più inconsistente e fugace, qualcosa di meramente soggettivo: poiché lo stato d’animo è il modo originario nel quale ogni esser-ci è come è, esso non è ciò che c’è di più inconsistente, bensì ciò che dà all’esser-ci, in senso fondamentale, consistenza e possibilità.49

§2 Dal noeîn alla Stimmung Ci proponiamo ora di rispondere alla seconda domanda, di chiarire, dunque, in che modo l’autoriferimento inscritto nella struttura della Stimmung riformuli il senso di quel che è stato definito performativo standard, ovvero quella modalità d’esser riferito a sé, al suo “che”, venuta in luce nell’interpretazione heideggeriana della phrónesis, in cui l’esser-via da sé della téchne coincide con l’esser-mancante del noûs. Come è emerso nell’interpretazione fenomenologica di Aristotele, infatti, la práxis è propriamente svelante rispetto all’improprietà della poíesis poiché è dotata di capacità noetica, è in grado di

49. Ivi, p. 101, trad. it. 91.

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cogliere l’éschaton tramite il noûs: quella praktische aísthesis analoga – sebbene in direzione contraria – alla “vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza” del puro noeîn. Anche in questo caso è il via da sé, il non esserci, il fenomeno del “contro di sé” – lo stesso emerso nel confronto con la fatticità cristiana, in particolare entro l’interpretazione fenomenologica dell’antikeímenos – a costituire l’indizio cruciale. La struttura fenomenologica della Stimmung, l’esser rimandato (wie) a sé, al suo “che” (dass) dell’esserci viene esplicitamente distinta da una modalità di coglimento “semplice”, in cui si dà perfetta coincidenza tra ciò che viene svelato e il compimento dello svelamento. È proprio questa perfetta coincidenza – la stessa che appartiene alla modalità di coglimento del noeîn – a venir inficiata, bucata, sconnessa dal “fatto” opaco di esser-ci, riferito a sé, al suo “che” nel sentirsi situati, cioè intonati sempre in un certo modo: «La Stimmung non apre l’essere-gettato limitandosi ad esibirlo, ma rivolgendovisi e distogliendosene»50:

50. M. Heidegger, GA 2 pp. 179-180, trad. it. pp. 167-168 [trad. mod.]. Tugendhat ha rilevato in modo molto preciso il fatto che Verschliessen ed Erschliessen non costituiscono soltanto provenienza e approdo del movimento transitivo dell’apertura; il Verschliessen, cioè, non indica soltanto “ciò a partire da cui” si diparte il movimento della Erschlossenheit ma, insieme, anche la Verschliessungstendenz inscritta nella Befindlichkeit (e nel Verstehen): «Jeder intentionale Akt ist in einem Erschlossenheitsgeschehen enthalten, das (als Befindlichkeit) ein Heraustreten des Erschließenden aus einem Verschlossensein und gleichzeitig (als Verstehen) ein Herausnehmen von Erschließbarem aus einer Verborgenheit ist. Erschlossenheit ist nicht das im Offenen Stehen des Erschließenden und Erschlossenen, sondern das Heraustreten aus der Verschlossenheit und das Herausnehmen aus der Verborgenheit. Aber die Verschlossenheit bildet nicht nur den Pol, von dem her die Erschlossenheit in ihrer Bewegtheit zu verstehen ist, sondern zum Sein des Daseins gehört zugleich eine gegenläufige Bewegtheit, eine Verschließungstendenz in der Befindlichkeit und eine Verdeckungstendenz

334 La Stimmung rivela “come va e come andrà”. In questo “come va” […] insedia l’essereci nel suo “Ci”. […] Questo “Dass es ist” lo chiamiamo l’esser-gettato di questo ente nel suo Ci. […] Il “che c’è e ha da essere” (Dass es ist und zu sein hat) aperto dalla situazione emotiva dell’esserci, non è quel “che” il quale, sul piano ontologico categoriale, esprime la fattualità della semplice presenza. Tale fattualità è accessibile solo alla constatazione osservativa. Al contrario, il “che” aperto nello stato emotivo deve essere inteso come determinazione esistenziale dell’ente esistente nel modo dell’essere-nel-mondo. La fatticità (Faktizität) non è la fattualità (Tatsächlichkeit), il factum brutum della semplice presenza, ma un carattere dell’esserci, inerente all’esistenza, anche se, innanzitutto, rimosso. Il “che” della fatticità non diviene mai accessibile in un semplice Anschauen.51

L’autoriferimento dell’esser-ci a sé, al suo “che” (dass) non coincide dunque con la trasparenza di sé con sé propria dell’Anschauen – la figura husserliana della Bewusstsein – quel Selbstbezug il cui essere è l’esser-formalizzato nel processo delle riduzioni in vista del raggiungimento della sfera pura

beim Verstehen». E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, cit., p. 311. 51. M. Heidegger, GA 2 pp. 179-180, trad. it. pp. 167-168. Nell’originale il passo suona: «Die Stimmung macht offenbar, “wie einem ist und wird”. In diesem “wie einem ist” bringt das Gestimmtsein das Sein in sein Da. […] Dieses “Dass es ist” nennen wir die Geworfenheit dieses Seienden in sein Da, so zwar, dass es als In-der-Welt-sein das Da ist. […] Das in der Befindlichkeit des Daseins erschlossene “Dass es ist und zu sein hat” ist nicht jenes “Dass”, das ontologisch-kategorial die der Vorhandenheit zugehörige Tatsächlichkeit ausdrückt. Diese wird nur in einem hinsehenden Feststellen zugänglich. Vielmehr muss das in der Befindlichkeit erschlossene Dass als existenziale Bestimmtheit des Seienden begriffen werden, das in der Weise des In-der-Welt-seins ist. Faktizität ist nicht die Tatsächlichkeit des factum brutum eines Vorhandenen, sondern ein in die Existenz aufgenommener, wenngleich zunächst abgedrängter Seinscharakter des Daseins. Das Dass der Faktizität wird in einem Anschauen nie vorfindlich».

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e apodittica della coscienza trascendentale; esso non coincide neppure, però, con quella “vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza” implicita nel pensiero di Aristotele, il primo fenomenologo, e sintetizzata in quell’orribile mistura di greco e tedesco che è l’espressione “Anschauungs-noûs-Wahrheit”. «La mera emozione [infatti] apre il Ci in modo più originario e parimenti lo chiude anche in modo più reciso di ogni non percepire»52. Il Verschliessen, dunque, anche in questo contesto, non va confuso con il non percepire. Ancora una volta, la chiusura, la negazione, il non esserci, il non esser rimandato a sé, al suo “che” – al pari del “non conforme all’attuazione” (Dass) – non si identifica con l’esser mancante o assente del Vollzug: il Verschliessen della Stimmung, il suo non-esserci non coincide con l’alfa privativo dell’agnoeîn, il contrario del percepire il semplice; né tanto meno implica l’esser mancante del noûs: non si identifica, dunque, con la mancanza di capacità noetica della póiesis rispetto alla práxis, analoga all’insufficienza noetica della sophía rispetto al puro noûs. È ancora una volta in gioco la figura della correlazione, la coappartenenza di “cosa” e “come”, il senso dell’intenzionalità: «la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersiverso»53. 52. Ivi, p. 182, trad. it. p. 137. 53. Ivi, p. 182, trad. it. p. 170. Come afferma Klaus Held, sottolineando, da un lato, il debito verso la fenomenologia husserliana, dall’altro, la rottura di quel luogo immanente che è la Bewusstsein, rottura che avviene proprio nel fenomeno della Stimmung: «Heidegger übernimmt in Sein und Zeit Husserls bahnbrechende Erkenntnis, dass jegliches Seiende den Menschen nur im universalen Verweisungszusammenhang der Welt begegnen kann. Diese Entdeckung radikalisiert er durch die Einsicht, dass die Welt: als Horizont dem Menschen vorab zu jeglichem Gegenstandbewusstsein in der Stimmung offensteht. So kann er den Menschen als Dasein definieren, d.h. als Stätte der Offenheit – als Da – für die Welt». p. 34 K. Held, Grundbestim-

336 In definitiva questo esser-via fa parte dell’essenza dell’esserci. Non è un avvenimento casuale che sopraggiunga di quando in quando, bensì un carattere essenziale dell’essere stesso dell’uomo, un “come” secondo il quale egli è; cosicché un uomo, in quanto esiste, nel suo esserci è anche già da sempre e necessariamente in qualche modo via.54

L’analisi della noia fa emergere nel modo più chiaro il carattere radicalmente costitutivo dell’esser-via entro la struttura fenomenologica della Stimmung e la sua distanza rispetto all’autoriferimento inscritto nella Anschauung-noeîn. Leggiamo: Vogliamo apprendere qualcosa sulla noia, sulla sua essenza, sul modo in cui dispiega la sua essenza. È possibile farlo in altro modo, se non ponendoci nello stato d’animo della noia, per poi osservarla, oppure immaginando una noia, e chiedendoci poi che cosa le sia proprio? […] Perché a noi non interessa la noia determinata che abbiamo in questo momento,

mung und Zeitkritik bei Heidegger, D. Papenfuss, O. Pöggeler (Hrsg.), Zur philosophische Aktualität Heidegger, Klostermann, Frankfurt a. M. 1989, p. 34. Ciò implica parimenti che questo “fuori” non possa esso stesso essere in potere di Dasein, Unverfügbarkeit che si manifesta proprio nel fenomeno della Stimmung: «Wenn die Offenbarkeitsdimension konsequent antivoluntaristisch als etwas vorgegeben, als ein echtes transsubjektives „Draußen” gedacht werden soll, dann muss sie dem Willen unverfügbar sein; sie darf dem Dasein nicht als etwas begegnen, was im Grunde seiner Freiheit entspringt, sondern als etwas, von woher: sie diese Freiheit allererst empfängt. Solche Empfänglichkeit des Daseins für die Offenbarkeitsdimension setzt aber voraus, dass diese Dimension sich der Verfügbarkeit entzieht». K. Held, Heidegger und das Prinzip der Phänomenologie, in A. GethmannSiefert, O. Pöggeler (Hrsg.), Heidegger und die praktische Philosophie, Klostermann, Frankfurt a. M., 1989, p. 124. A mio avviso, il “non” della Unwahrheit e della Verschliessung rimanda proprio a questa Unverfügbarkeit, ed è questo il senso esistenziale del “non”. La figura della Unverfügbarkeit è centrale nella prospettiva di T. Rentsch, in particolare, per uno sguardo d’insieme, cfr. T. Rentsch, Transzendenz und Negativität. Religionsphilosophische und ästhetische Studien, de Gruyter, Berlin/New York 2010. 54. M. Heidegger, GA 29/39 p. 95, trad. it. p. 86.

337 bensì la noia in quanto tale, ciò che le è proprio, cioè cosa è proprio di ogni noia possibile. Per cui una noia immaginata fa ugualmente al nostro caso. Così sembra, in effetti. Se ci poniamo all’interno di una noia o immaginiamo di farlo, e poi la osserviamo e ce ne occupiamo, soddisfiamo la regola fondamentale della ricerca. Eppure per quanto questo modo di porre il compito possa sembrare corretto non coglie il compito stesso. Fa dello stato d’animo, inteso come esperienza vissuta, un oggetto che nuota nel flusso della coscienza che esaminiamo come osservatori. In questa maniera non giungeremo affatto all’originario rapporto con la noia o viceversa. Se la riduciamo così a oggetto, le neghiamo proprio quanto dovrebbe essere nelle intenzioni più proprie del nostro interrogare. Le neghiamo di rivelare la sua essenza in quanto tale, in quanto noia di cui ci annoiamo, così da poter fare esperienza della sua essenza.55

In questo contesto, a essere criticata è la modalità d’accesso ai fenomeni che caratterizza la fenomenologia husserliana; a venir messa in questione è, com’è noto, la possibilità di accedervi nell’atteggiamento teoretico. È proprio la possibilità di rendere presente la modalità di manifestatività del vissuto, in questo caso la Stimmung, a ‘mancare’ il suo modo d’essere peculiare, il suo precipuo stile di manifestatività. Inoltre, questo render presente implicito nella Anschauung husserliana è sotteso anche al senso della definizione aristotelica che, secondo l’interpretazione heideggeriana, «non è affatto una definizione in senso scolastico, bensì è una definizione dell’accesso. […] La modalità del definiendum viene determinata attraverso il modo dell’unico accesso possibile a esso»56. Al contrario, nella fenomenologia heideggeriana, l’accesso al fenomeno passa per l’esperienza di ciò che si pone costituti-

55. Ivi, p. 136, trad. it. pp. 120-121. 56. M. Heidegger, GA 24 p. 362, trad. it. p. 246.

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vamente contro di esso, per il necessario coprimento che gli appartiene: Se ciò che è noioso annoia, e in uno con esso la noia è qualcosa per noi di sgradevole, che non vogliamo lasciar emergere, che, quando si avvicina, cerchiamo subito di scacciare, se la noia è qualcosa alla quale noi siamo fondamentalmente contrari, allora essa si manifesterà originariamente come ciò a cui siamo contrari là dove le siamo contro, dove […] la scacciamo. Ciò accade là dove ci procuriamo contro la noia un passatempo, dove con tale intenzione, di volta in volta in un modo oppure nell’altro, scacciamo il tempo. Proprio là dove noi ci opponiamo alla noia, proprio là essa deve volersi affermare, ed è proprio là dove si manifesta innanzi a noi, che ci sospinge verso la sua essenza. Così proprio nello scacciatempo raggiungiamo il giusto atteggiamento nel quale la noia ci viene incontro priva di travestimenti.57

In questione è la dis-giunzione di cosa/come, tema/metodo, ontico/ontologico, lo squilibrio / inscritto nella correlazione, nell’autoriferimento dell’esserci a sé, al suo “che”: «Non possiamo rendere la noia oggetto dell’osservazione che si presenta per sé, bensì dobbiamo prenderla come noi ci imbattiamo in essa, cioè quando cerchiamo di scacciarla»58, quando siamo contro di essa. «La noia è qualcosa alla quale noi siamo fondamentalmente contrari»59. È proprio là dove il “contro”, l’“esser-via”, il costitutivo “non-esserci” viene esperito in quanto tale che “la noia inessenziale diviene essenziale”. L’accesso alla Stimmung, così come a ogni esistenziale, in base alla loro cooriginarietà, è sempre mediato, passa sempre per la modalità del contro, del no, del via da sé, che non è la negazione astratta del suo corrispettivo positivo, bensì il suo constituens

57. M. Heidegger, GA 29/30 p. 136, trad. it. p. 121. 58. Ibidem. 59. Ibidem.

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essenziale; a dover esser propriamente compresa, potremmo dire, non è altro che l’improprietà che appartiene allo stile di manifestatività del fenomeno. Nel caso della noia, ad esempio, è lo scacciatempo – la modalità in cui ci si volge contro la noia – a indicare la modalità in cui l’esser-ci è aperto a sé, al suo “che”, in questo caso, al “fatto” (dass) che si annoia. Si tratta del «rimando (Verweisung) alla profondità autentica della noia in quanto tale»60: Ciò che conta è […] vedere la noia nel modo in cui annoia, e coglierla nella maniera in cui ci tiene occupati. Essa si mostra sempre in modo tale che noi le ci rivolgiamo immediatamente contro. Se, posto che sia lecito parlare in questi termini, rendiamo la noia oggetto, dobbiamo fin da principio farla emergere come qualcosa contro cui ci rivolgiamo, non in un modo qualsiasi, bensì […] in questa peculiare reazione che viene suscitata automaticamente dalla noia che emerge.61

L’improprio, ovvero la costitutiva fuga da sé dell’esser-ci, il suo non esser-ci, l’esser-via – come del resto è testimoniato dal fenomeno del Verfallen, esistenziale cooriginario – non indica, quindi, la semplice mancanza di trasparenza, la Undurchsichtigkeit dei fenomeni che la fenomenologia deve lasciar manifestare da sé, bensì il loro precipuo stile di manifestatività; è dunque null’altro che questa Undurchsichtigkeit a dover essere propriamente compresa.

60. Ivi, p. 163, trad. it. p. 144. 61. Ivi, p. 143, trad. it. p. 126. Riportiamo questo passo cruciale nella lingua originale: «Vielmehr kommt es darauf an, die Langeweile darin zu sehen, wie sie langweilt, und in dem, wie sie uns beschäftigt, zu fassen. Sie zeigt sich immer so, daß wir uns auch schon gegen sie wenden. Wir müssen von vornherein die Langeweile, wenn wir sie zum Gegenstand machen – falls wir so sagen dürfen –, als etwas aufkommen lassen, wogegen wir uns wenden, nicht in einer beliebigen Art, sondern in dieser eigentümlichen – roh gesprochen – Reaktion, die durch die aufkommende Langeweile von selbst hervorgerufen wird».

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§3 Il senso performativo negativo dell’esserci: dalla potenza alla possibilità Dobbiamo compiere ancora un ultimo passo per dar conto della performatività negativa inscritta nell’esser-ci, nel senso d’essere che va espresso sempre con i pronomi personali; si tratta di riformulare il performativo standard a partire dalle implicazioni del capovolgimento del primato che Aristotele attribuisce alla sophía rispetto alla phrónesis: il rovesciamento del primato aristotelico dell’atto sulla potenza. A partire da qui potremo far emergere la differenza tra l’autoriferimento inscritto nel senso d’attuazione della práxis propria della phrónesis e la dis-giunzione angoscia/paura in cui la co-incidenza di wovor e worum è segnata da una nullità strutturale, che pervade tanto il modo d’essere del mondo (wovor) quanto il senso del poter-essere (worum). Il rovesciamento del primato della sophía sulla phrónesis conseguito nell’interpretazione fenomenologica del VI Libro dell’Etica nicomachea porta con sé un elemento cruciale che implica un vero e proprio capovolgimento del paradigma aristotelico: non si tratta semplicemente di discutere il primato della sophía per attribuirlo invece alla phrónesis; ma ben più radicalmente di ripensare la distinzione tra l’aeí ón, cui si volge la sophía, e l’endechómenon, correlato della phrónesis, mettendo in questione questa stessa separazione, ovvero indicando la modalità in cui questa separazione si attua. Capovolgere questo primato non lascia affatto intatto il senso di ciò che può essere diversamente, bensì in gioco è la possibilità di guardare alla Jeweiligkeit – l’esser di volta in volta – a partire da sé e non in contrapposizione al permanere identico di ciò che è sempre. Si tratta, dunque, di discutere fino in fondo il senso dell’esser-contingente che, nel caso di Aristotele, è pen-

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sato in contrapposizione a e dunque a partire da: il sempre essente62. Questa considerazione (che abbiamo già citato e che è contenuta nel Natorp Bericht) cambia la posta in gioco: la fenomenologia non si limita a rovesciare il primato della sophía sulla phrónesis, bensì riformula il senso d’essere di ciò che può esser diversamente. Ciò implica, insieme al capovolgimento del paradigma aristotelico, la riformulazione della tavola delle categorie e la ridefinizione del plesso essenza-esistenza – questione, quest’ultima, che meriterebbe un lavoro a sé, su cui non possiamo soffermarci e che, del resto, è stata analiticamente discussa da molteplici autori63. Piuttosto, quel che mi interessa sottolineare è il fatto che questo capovolgimento metta in questione il senso dei termini che compaiono nei dualismi universale-particolare, necessario-contingente, ideale-reale, medesimo-altro. Al fine di disegnare la figura della performatività negativa e tracciare il senso dell’autoriferimento che essa implica rispetto alla práxis aristotelica, è necessario analizzare più da vicino la radicale riformulazione che subisce il senso dell’esistenza, cioè della possibilità; si tratta di mettere alla prova la tesi portante di questo lavoro, che suona così: 62. M. Heidegger, Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles, GA 62, p. 385, trad. it. p. 187. La stessa critica, inoltre, viene rivolta a Husserl, mostrando ancora una volta la convergenza fenomenologica dell’interpretazione heideggeriana di Husserl e Aristotele nella critica del noeîn: «Jedes Sich-richten-auf Furcht, Hoffnung, Liebe hat den Charakter des Sich-richtens-auf, den Husserl als Noesis bezeichnet. Sofern noeîn aus der Sphäre des theoretischen Erkennens genommen wird, ergibt sich hier eine Deutung der praktischen Sphäre aus der theoretischen». M. Heidegger, GA 20 p. 61, trad. it. p. 58. 63. In particolare, segnaliamo D. O. Dahlstrom, Heidegger’s Concept of Truth, cit., pp. 232 ss.; M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., pp. 80 ss.; T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., pp. 434-435.

342 il senso d’essere che si esprime con i pronomi personali – l’esserenel-mondo – è un performativo negativo: questa è la dimensione di senso di tutti gli “esistenziali” cooriginari – la modalità, dunque, in cui ogni comportamento determinato si attua – e quindi (anche) la dimensione di senso della fenomenologia ermeneutica.

Come ha mostrato Vincenzo Vitiello (riflessione fondamentale che i maggiori interpreti di Heidegger hanno poi ripreso) la tesi centrale di Sein und Zeit, Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit – […] letta nella lingua in cui fu pensata – il greco di Aristotele – dice: próteron dýnamis energhéias: la possibilità è prima dell’atto, e superiore. Possibilità, non potenza, perché non avendo in sé l’atto che la porta a essere, a realizzarsi, non è destinata alla realizzazione, all’attuazione di sé; anzi ogni suo atto resta inferiore alla sua possibilità, contenendo questa anche altre possibili attuazioni, realizzazioni. Anche opposte a quelle che sono state attuate. Il Möglichsein […] è oltre tutto quello che il Seinkönnen realizza e realizzerà mai. Ma questo comporta che il poter-essere, il progettare umano, l’ek-sistere resta sospeso a se medesimo. Non ha base su cui poggiare, perché l’esser-possibile, la possibilità che ogni possibile con-tiene (= tiene insieme e comprende in sé), non è uno stabile fondo (Grund) su cui è possibile poggiare, è piuttosto un abisso (Abgrund). Lo stacco, il distacco, l’«ent-», che divide il poteressere dall’esser-possibile, il vuoto che separa i due, rivela un più profondo vuoto, un più profondo Nulla. Il Nulla del mondo, della significatività, che ora si rivela essere non una trama di relazioni umane e storiche poggianti sul fondamento sicuro di una universale natura «sensibile», bensì solo una rete di convenzioni umane e solo umane.64

64. V. Vitiello, Heidegger: tra etica pagana e morale cristiana, in A. Ardovino (a cura di), Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica, Guerini, Milano 2003, p. 274.

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La possibilità dunque non solo non è dýnamis, ma non si identifica neppure con il poter-essere, il Seinkönnen, la natura progettuale, modale dell’esistenza; o meglio: la modalità, il “wie”, la dimensione del futuro, l’ad-venire, l’Ent-wurf c’è, si dà, si temporalizza come “fatto” (dass) inattingibile; e non (solo) perché esistere significa esser già sempre in una situazione storica concreta, in un contesto di significatività già comprese, intonate, parlate; bensì, più radicalmente, perché, ancora con le parole di Vitiello: la situazione-di-fatto rinvia a sua volta ad un passato che non è solo accumulo storico, tradizione. V’è un passato più antico, più essenziale dell’esserci, un passato che non è il tempo trascorso e conservato ma quell’«esser-stato», quell’«essergià-da-sempre» nel modo in cui siamo che è il nostro «esserpossibile», che non è frutto di nostra scelta, perché sono le nostre scelte possibili per esso, che è certo costitutivo della fatticità della nostra esistenza, ma pure infinitamente la sorpassa, perché comprende sì tutto quello che siamo e possiamo essere, meglio: tutto quello che siamo in quanto poteressere, ma comprende insieme tutto quello che non saremo mai, che non progetteremo mai. […] Che Dasein metta in primo piano, col suo Da, il suo «stato», la sua “presenza”, la concreta effettività della sua vita, la Faktizität dell’esistere si spiega bene: è in questa effettività dell’ek-sistere, nella sua storica determinatezza che si dà la possibilità possibile (l’esser-possibile, das Möglichsein), la dimensione ontologica fondamentale dell’ek-sistenza […].65

Così non solo si dissolve la questione di un primato della progettualità rispetto alla gettatezza nel cosiddetto “primo” Heidegger rispetto al “secondo”, topos della letteratura heideggeriana66, ma viene radicalmente riformulato il senso della 65. Ivi, p. 272. 66. La cesura tra un “primo” e “secondo” Heidegger e la svolta nel pensiero heideggeriano è, com’è noto, una vexata quaestio nella letteratura critica.

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possibilità. Del resto, anche in Vom Wesen des Grundes, in cui la progettualità di Dasein in quanto trascendenza deterrebbe un assoluto primato67, facendo retrocedere la Geworfenheit Il primo ad aver introdotto il tema di una “svolta” – termine utilizzato dallo stesso Heidegger – è stato Karl Löwith, secondo cui la svolta implica «un’inversione della direzione ideale della possibile fondazione del tempo. In Sein und Zeit, il tempo dell’evenienza storica viene fondato a partire dalla cosiddetta evenienza dell’esserci finito; dopo Sein und Zeit, invece, a partire dall’Essere stesso, come evenienza dell’essere». K. Löwith, Heideggers Denker in dürftiger Zeit, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1960, trad. it. C. Cases, A. Mazzone, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino 1966, p. 49. A opporre a questa tesi di Löwith l’unitarietà di fondo del pensiero di Heidegger è stato invece O. Pugliese, Vermittlung und Kehre. Grundzüge des Geschichtsdenkens bei Martin Heidegger, Albert, Freiburg München 1965. Secondo Gethmann, invece, il pensiero del secondo Heidegger implicherebbe una negazione del metodo fenomenologico ermeneutico. C. F. Gethmann, Verstehen und Auslegung, cit., p. 257-288. Su questa stessa linea si situa l’interpretazione paradigmatica di Walter Schultz, in base alla quale il pensiero dell’ultimo Heidegger neutralizzerebbe la metafisica della soggettività presente in Sein und Zeit. A queste posizioni di fondo – la cui ricostruzione dettagliata è offerta da A. Fabris, Logica ed ermeneutica. Interpretazione di Heidegger, ETS, Pisa 1982, pp. 72-73, da cui abbiamo tratto le citazioni – si accompagna anche una diversa comprensione del rapporto tra progettualità e gettatezza. 67. Il saggio Vom Wesen des Grundes (1929, GA 9, cit.) rappresenterebbe l’apice del primato della progettualità di Dasein a cui con la svolta – datata nel 1930, in corrispondenza della conferenza Vom Wesen der Wahrheit – si assisterebbe invece o a un primato della gettatezza e al retrocedere della dimensione progettuale, o alla cooriginarietà. Paradigmatica in tal senso è la posizione di Tugendhat: « „Der Mensch ist ... vom Sein selbst in die Wahrheit des Seins geworfen“ (BH 75, vgl. Auch 84, 90). Indem also der Entwurf den „aktivischen“ (setzenden) Charakter verliert, den er in SuZ und Vom Wesen des Grundes hatte, kann er sich mit der Geworfenheit zu einer einzigen einheitlichen Bewegtheit verbinden, und diese verliert nun ihrerseits den „passivischen“ Charakter, der ihr in SuZ eignete». E. Tugendhat, Der Wahrheitsbegriff bei Husserl und Heidegger, cit., p. 381. Leggere Heidegger a partire dalla prospettiva della performatività negativa che permea tutti gli esistenziali e, in generale, tutte le proposizioni fenomenologiche permette non solo di rilevare una unitarietà di fondo nella grammatica

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all’irruzione dell’ente, vi è un’indicazione cruciale rispetto alla co-incidenza, all’inscrizione nell’Ent-wurf della Geworfenheit, dell’inseparabilità del “che” (dass) dal come (wie): un senso della possibilità che co-incide con il Da, il luogo-nonluogo negativo e opaco che c’è e non c’è, “possibile” in quanto possibilità certa, imminente, indeterminata, insuperabile, più propria – possibilità dell’impossibilità – «morte [che] è essenzialmente angoscia»68, Unheimlichkeit: Dass es der Möglichkeit nach ein Selbst und dieses faktisch je entsprechend seiner Freiheit ist, dass die Transzendenz als Urgeschehen sich zeitigt, steht nicht in der Macht dieser Freiheit selbst. Solche Ohnmacht (Geworfenheit) aber ist nicht erst das Ergebnis des Eindringens von Seiendem auf das Dasein, sondern sie bestimmt dessen Sein als solches. Aller Weltentwurf ist daher geworfener.69

Ancora con le parole di Vitiello: La proposizione fondamentale di Essere e Tempo dice: Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit. La si può tradurre solo nel linguaggio di Aristotele – ché della tesi fondamentale di Aristotele: pháneron oti próteron enérgheia dynámeos – è il capovolgimento […]. Ma il rovesciamento non lascia

formalmente indicante, nelle tautologie che martellano tutti i testi heideggeriani, individuandone il Leitfaden nel senso fenomenologico del “non” in cui co-incidono progettualità e gettatezza, ma soprattutto – ed è questo quel che mi preme – questa prospettiva permette di radicalizzare la dimensione di rimbalzo che può riguardare ogni modo di essere determinato, lasciando emergere il contraccolpo esistentivo che conduce la fenomenologia fino a sé e quindi la disposizione trasformativa inscritta in ogni comportamento determinato. 68. M. Heidegger, GA 2 p. 353, trad. it. p. 318. Per un approfondimento del senso della co-incidenza di morte e angoscia entro la riformulazione delle categorie della modalità, rimandiamo ancora una volta a M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit. pp. 79-105. 69. M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, GA 9 p. 175.

346 immutato il senso della dýnamis, della potenza, della possibilità. La possibilità, la vera possibilità, contiene in sé un’opposizione radicale, un’opposizione che giunge alla radice del possibile. Non l’opposizione tra il positivo e il negativo della sua realizzabilità. Questa opposizione è ciò che caratterizza la potenza aristotelica – sempre misurata all’atto, sempre misurata all’enérgeia, che è appunto to próteron. Non questa opposizione soltanto è nella possibilità – ma oltre questa una più ampia e, si diceva, radicale opposizione: l’opposizione del possibile e dell’impossibile. La possibilità è autentica possibilità se contiene in sé non solo la possibilità di attuarsi e non attuarsi, sì anche l’impossibilità di attuarsi e non attuarsi. Soltanto così, infatti, non è costretta, necessitata ad essere “possibilità” […]. Intesa come possibilità dell’impossibile, la possibilità non si rapporta ad altro che a sé. Ma proprio nel rapportarsi a sé, in questa assoluta riflessione su di sé, la possibilità non resta chiusa in sé.70

Con Rentsch: Heidegger sottolinea soprattutto ciò che differenzia la possibilità esistenziale dalla possibilità logica conosciuta: ciò che l’esserci “nel suo poter-essere non è ancora è un esistenziale (SZ p. 145)”. È codeterminante per la mia situazione attuale e per la mia autocomprensione che posso attuare possibilità nel futuro, che tra queste devo scegliere e, infine, che nel momento in cui scelgo devo “lasciar essere” non-attuate numerose possibilità. Già nel poter-essere […] si mostra la finitezza umana in un particolare aspetto. […] Sul fondamento di ciò Heidegger determina l’agire umano come “nullo”. Nullità (Nichtigkeit) significa: la libertà umana finita è solo nell’attuare di volta in volta una possibilità e tutte le altre […] no.71

La possibilità in quanto tale, dunque, non solo non è dýnamis ma non è neppure poter-essere, essendo piuttosto il re70. V. Vitiello, Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992, p. 122. 71. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., p. 402 [trad. mia].

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troverso del poter-essere, il possibile in quanto nulla informe che, nell’esser-per una possibilità, non si realizza, l’immanenza della nullità del possibile inscritta in ogni poter-essere determinato. Il termine Entschlossenheit tradisce il senso della possibilità, l’“ent”, nel nostro linguaggio, la dis-giunzione, il “fatto” unheimlich / del “come”: certo, imminente, indeterminato, unbezüglich, più proprio, il “dass” del senso “modale” dell’ek-sistere72. È l’aggettivo unbezüglich, il non essere riferita a nient’altro che al suo “che” e dunque, insieme, alla possibilità dell’impossibile, a costituire il tratto fondamentale della possibilità esistenziale. Riprendendo le parole di Vitiello: «la possibilità non si rapporta ad altro che a sé. Ma proprio nel rapportarsi a sé, in questa assoluta riflessione su di sé, la possibilità non resta chiusa in sé»73. Sull’analisi fenomenologica dell’Angst grava, inoltre, il problema metodologico dell’accesso ai fenomeni. Come è stato mostrato da numerosi studi, nel fenomeno dell’angoscia si attua la Vernichtung der Welt, vero e proprio controcanto della riduzione trascendentale husserliana74. Riportiamo ancora una 72. A partire da ciò, dunque, la performatività negativa inscritta nella fenomenologia rovescia l’interpretazione di Franco Volpi, che potremmo sintetizzare con il titolo del suo testo “Dasein comme práxis”: l’autoriferimento inscritto nell’esser-ci implica la rottura dell’autó che appartiene al coglimento noetico della phrónesis, riformulando, parallelamente, il senso di endechómenon, éschaton e kairós. 73. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 122. 74. Sul rapporto tra la riduzione husserliana e il fenomeno dell’Angst, si vedano in particolare: J.F. Courtine, Heidegger et la phénomenologie, Jean Vrin, Paris, 1990, in particolare cap. III pp. 232-234; J.-L. Marion, Réduction et donation. Recherches zur Husserl, Heidegger et la phénoménologie, cit., pp. 79-104; B. Merker, Selbsttäuschung und Selbsterkenntnis. Zu Heideggers Transformation der Phänomenologie Husserls, Surhkamp, Frankfurt a. M. 1988, pp. 153-193; A. J. Escudero, Heidegger y la genealogía de la pregunta por el ser: una articulación temática y metodología de su obra temprana, Herder, Barcelona 2010, pp. 465-487.

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considerazione di Thomas Rentsch, cruciale per comprendere la dimensione radicalmente performativa che appartiene alla fenomenologia e, parimenti, il senso negativo e medio di questa performatività, che va di pari passo con l’indissolubilità tra il piano ontico-esistentivo e quello ontologico-esistenziale: Gli esistenziali non si riferiscono a determinate “proprietà’’ di “soggetti’’, bensì alla forma di ogni situazione in cui noi uomini già sempre ci troviamo. Questa Grundsituation viene denominata da Heidegger con l’espressione sincategorematica essere-nel-mondo75. […] Da un lato, le condizioni di possibilità esistenziali, così come vengono indicate negli esistenziali, sono implicate in ogni descrizione di una specifica situazione, già sempre in ogni singola azione; dall’altro, esse esplicano le forme della condizione umana, della Grundsituation dell’uomo nella sua totalità.76

Proviamo a dire, la Grundstimmung Angst, nella sua disgiunzione costitutiva con l’essere “spaurito” «non deve essere intes[a] onticamente come una disposizione di fatto, “particolare”, ma come la possibilità esistenziale essenziale della situazione emotiva dell’esserci in generale»77. E ancora: «l’angoscia […] non tollera nessuna contrapposizione alla gioia o al comodo piacere tranquillo del lasciarsi andare»78. Come afferma De Angelis: la situazione emotiva fondamentale della Befindlichkeit esemplifica […] la dinamica ontologica dell’aprirsi dell’esserci come e-mozione, e-stasi che ritorna immediatamente in sé, così situandosi. Ogni Stimmung, in quanto definita dal ritornare riflessivamente su di sé nel sentir-si così e così, è possibile solo dacché l’esser-nel-mondo è originariamente un

75. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit., p. 93 [trad. mia]. 76. Ivi, p. 233 [trad. mia]. 77. M. Heidegger, GA 2 p. 189, trad. it. p. 176. 78. M. Heidegger, Was ist Metaphysik, GA 9, cit. p. 118.

349 angosciar-si. […] In modo del tutto conseguente, ogni tonalità emotiva rinnova la struttura dell’emozione ontologicamente originaria in quanto è insieme un sentire il mondo (Was), gli altri e se stessi (Wer) in un certo modo (Wie).79

Questo significa che la dis-giunzione angoscia/paura è, in quanto sentirsi situati, in ogni Stimmung determinata. Ed è implicata (insieme a tutti gli altri esistenziali) nella stessa descrizione fenomenologica: co-incide cioè con il sentirsi situati (sich befinden) nella situazione della descrizione (così come in ogni altra). In questo senso, la «Cura, in quanto totalità strutturale unitaria, si situa, per la sua apriorità esistenziale “prima” di ogni comportamento e di ogni situazione effettiva dell’esserci (cioè già sempre in ognuno di essi)»80. Il senso del verbo essere espresso negli enunciati ontologici, esistenziali, indicativo formali è perciò un performativo negativo: non asserendo la presenza di qualcosa che è, il contenuto di questo enunciato così come il senso del verbo essere indicato nell’espressione esserci co-incide con lo stesso accadere, qui e ora, di volta in volta, del riferimento di chi esiste (cooriginarimente comprende, interpreta, sente, parla, essendo sempre mio l’un con l’altro) a sé, al suo “che”: al «fatto che (dass) la trascendenza in quanto Urgeschehen si temporalizza»81. In tal senso l’espressione esser-ci ha la forma della Jeweiligkeit e della Jemeinigkeit, va sempre espressa con i pronomi personali. Il senso dell’“io sono” (al pari del tu sei, egli è, noi siamo, voi siete, essi sono) è performativo negativo poiché il suo contenuto, il suo significato co-incide con la modalità in cui qui e ora, l’esser sempre mio l’un con l’altro, l’esser di volta in volta

79. M. De Angelis, Per un’ontologia fenomenologica delle emozioni, cit., p. 213. 80. M. Heidegger, GA 2 p. 252, trad. it. p. 236. 81. M. Heidegger, Vom Wesen des Grundes, GA 9 p. 175.

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nel mondo è rimandato a sé, al suo “che”, al “fatto” che c’è. In questo senso, l’apriorità che è in gioco nella fenomenologia ermeneutica non è trascendentale ma esistenziale, performativa negativa, accadendo82 qui e ora in e con ogni situazione determinata; le forme dell’esperienza dunque – gli a priori – non sono “necessarie universali” bensì “di volta in volta possibili”, essendo assegnate all’esperienza effettiva della sottrazione, alla modalità in cui ogni comportamento si attua. §4 La disgiunzione costitutiva angoscia/paura, il carattere medio della performatività negativa: dall’endechómenon alla Jeweiligkeit

82. Sebbene non sia possibile confrontarsi adeguatamente con questa tesi, voglio solo accennare al fatto che E. Levinas, nell’opera del 1949, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, J. Vrin, Paris, sottolinei la necessità di pensare l’essere come forma verbale transitiva. La nostra prospettiva, in base alla quale il senso del verbo essere che va espresso con i pronomi personali è un performativo negativo, poiché indica l’“accadere” della totalità cooriginaria degli esistenziali in e con ogni situazione determinata, implica una mossa differente: l’essere non solo non è, ma si temporalizza, ha dunque forma verbale, ma quest’ultima non è transitiva ma intransitiva o, potremmo dire, impersonale, in base a quella grammatica formalmente indicante che non solo trasforma il sostantivo in verbo ma lo pensa come es gibt – vera e propria cifra linguistica del pensiero heideggeriano, che ritroviamo tanto nel ’19 quanto in Tempo e Essere. Pensare l’essere come forma verbale transitiva implica soltanto un carattere cinetico di motilità, una performatività “positiva”, potremmo dire, che tuttavia ancora presuppone una “attività” e una figura di soggettività come “verso cui” del transitare. L’essere, invece, temporalizzandosi, si sottrae, chiamando (es ruft) (si) tace, implica perciò una forma verbale intransitiva, media e impersonale, indicata in quel luogo nullo che è il Da nell’esser-ci. Accenniamo soltanto alla possibilità di analizzare la differenza tra l’impersonalità dell’«es gibt» in Heidegger rispetto a «il y a» in Levinas, tema il cui approfondimento meriterebbe uno studio a parte che qui non è possibile compiere.

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Per provare a chiarire il carattere medio della performatività negativa inscritta nel senso d’essere che va sempre espresso con i pronomi personali (l’essere-nel-mondo) vorrei riportare ancora una volta le parole di Rentsch: L’antropologia filosofica è volta a descrivere la vita umana. Conformemente alla nostra prima osservazione […] questa descrizione può essere compiuta solo come descrizione della situazione umana e non come descrizione della soggettività o delle condizioni obiettive della vita umana, pensate isolatamente. Inoltre, la sottile struttura delle situazioni di vita non si lascia afferrare attraverso la fondamentale distinzione tra azioni e avvenimenti. Le situazioni sono contesti d’evento (Geschehniszusammenhänge) dotati di senso nei quali di volta in volta ci troviamo. La realtà della vita umana non possiede primariamente carattere d’azione e non è primariamente costituita da avvenimenti, ma tutto accade e anche noi possiamo far accadere qualcosa. Le situazioni, in quanto di volta in volta sensati e comprensibili (o fraintendibili) contesti d’evento, sono – sia effettivamente che metodicamente – inaggirabili condizioni di comprensione di tutti i fenomeni della vita. Solo in riferimento alle situazioni si possono comprendere e rendere comprensibili azioni e avvenimenti, aspetti soggettivi e oggettivi di situazioni. Il primario essere in situazioni in quanto contesti d’evento dotati di senso è perciò condizione di possibilità di ogni comprendere.83

83. T. Rentsch, Heidegger und Wittgenstein, cit. p. 86 [trad. mia]: «Die philosophische Anthropologie will das menschliche Leben beschreiben. Gemäß unserer ersten […] Grundbehauptung kann diese Beschreibung nur als Beschreibung der menschlichen Situation ausgeführt werden und nicht als Beschreibung der menschlichen Subjektivität oder der – isoliert gedachten – objektiven Bedingungen menschlichen Lebens. Ferner ließt sich die Feinstruktur von Lebenssituationen durch eine Grundunterscheidung von Handlungen und Widerfahrnissen nicht erfassen. Situationen sind sinnhafte Geschehniszusammenhänge, in denen wir uns je befinden. Die Wirklichkeit des menschlichen Lebens besitzt nicht primär Handlungscharakter, und sie ist auch nicht primär durch Widerfahrnisse konstituiert. Sondern:

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Senza poterci soffermare in maniera analitica su questo lavoro – una grammatica esistenziale (Existenziale Grammatik) che fonda la fenomenologia in senso sprachphilosophisch84 tematizzando l’indissolubilità del nesso tra prassi, linguaggio e mondo, facendo reagire l’analitica dell’esistenza e la sua dimensione ontologica con la filosofia di Wittgenstein, (in particolare con il rapporto tra giochi linguistici e forma di vita), – mi interessa mettere l’accento sulla distinzione tra azione e avvenimento, richiamata in polemica con Wilhelm Kamlah85. Attraverso una comprensione fortemente olistica del fenomeno del significare, Rentsch supera questa separazione sottolineando il carattere d’evento dell’esser-primariamentein-situazione – Grundsituation – il suo “accadere” irrisalibile: Geschehen che non può essere pensato come un’azione dell’essere-nel-mondo o come un avvenimento che lo travolge passivamente senza riproporre un aggiornamento del dualismo soggetto-oggetto, e ripiombare così nella empasse di dover tracciare ex post la relazione, sia che si prediliga il modello attivo, che fa coincidere l’apertura del senso, l’accadere della Grundsituation con l’azione (Handlung), sia che si scelga la via opposta che ne fa un avvenimento (Widerfahrnis) che traAlles geschieht, und auch wir können etwas geschehen lassen. Situationen als je bereits sinnvolle und verstehbare (oder mißverstehbare) Geschehniszusammenhänge sind faktisch und methodisch unhintergehbare Verständnisbedingungen für alle Lebensphänomene. Erst in bezug auf Situationen lassen sich Handlungen und Widerfahrnisse, subjektive und objektive Aspekte von Situationen verstehen und verstehbar machen. Das primäre Sein in Situationen als sinnhaften Geschehniszusammenhängen ist daher Möglichkeitsbedingung jeden Verstehens». 84. Ivi, p. 165: «Der Phänomenbereich (hier: das menschliche Leben) ist bereits sprachlich gegeben. Bestimmte existentielle Formen (Lebensformen) artikulieren sich immer schon in bestimmten Unterscheidungen der Sprache. Die transzendentale Phänomenologie der menschlichen Situation muss sprachphilosophisch fundiert sein». 85. Ivi, in particolare, pp. 75-87.

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volge l’uomo passivamente. In fondo, non è qui che passa la differenza tra uomo e esserci? Più originariamente delle azioni sono gli eventi (Geschehen). Le situazioni accadono (geschehen) e a partire dall’accadere della situazione (Situationsgeschehen) si possono poi distinguere azioni (Handlungen) e avvenimenti (Widerfahrnisse) come suoi aspetti (non parti). Anche la mia azione mi accade (mir geschieht), nel momento in cui la compio, così come travolge (widerfaehrt) gli altri, poiché accade (weil sie geschieht). […] Un esempio può illustrare dove conduca la separazione tra azioni e avvenimenti se viene tracciata nel modo di Kamlah (cioè dualisticamente). […] Per quest’ultimo nascita e morte sono avvenimenti (Widerfahrnisse) all’inizio e alla fine della vita. […] Nella sua concezione questa è l’ultima parola sulla finitezza umana. Ché la finitezza contraddistingua ogni movimento della vita non viene preso in considerazione. […] La vita è sempre all’inizio e già sempre alla fine. […] Guidato da questa distinzione di fondo Kamlah identifica la finitezza umana con i singoli avvenimenti di nascita e morte.86

86. Ivi, p. 84. Riportiamo di seguito il passo in lingua originale: «Ursprünglicher als Handlungen sind Geschehnisse. Situationen geschehen, und an diesem Situations-Geschehen lassen sich dann in der Tat Handlungen und Widerfahrnisse als Aspekte (nicht Teile) unterscheiden. Auch meine eigenen Handlungen geschehen mir, indem ich sie ausführe, so wie sie anderen widerfahren, weil sie geschehen. […] Ein Beispiel kann illustrieren, wohin die Unterscheidung von Handlungen und Widerfahrnissen führt, wenn sie in der Kamlahschen Weise getroffen wird (nämlich dualistisch). Für ihn sind Geburt und Tod Widerfahrnisse am Anfang und am Ende des Lebens. In seiner Deutung ist dies das letzte Wort bezüglich der menschlichen Endlichkeit. Daß Endlichkeit jede Lebensbewegung kennzeichnet, gerät nicht in den Blick. […] Das Leben ist immer am Anfang und immer schon zu Ende. Das heißt, auch ein ‚endloses‘ menschliches Leben wäre ein in jedem Vollzug endliches Leben. […]. Durch seine Grundunterscheidung geleitet, identifiziert Kamlah die menschliche Endlichkeit mit jenen Einzelwiderfahrnissen, Geburt und Tod».

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Si tratta di pensare, dunque, tanto la dimensione del progetto quanto quella della gettatezza mettendo fuori gioco quel paradigma che le interpreta rispettivamente come attività e passività. Il “fatto” del “come”, l’esser-stato dell’avvenire in quanto “accadere”, implica una azione verbale alla diatesi media, una medietà costitutiva che ridefinisce il movimento dell’autoriferimento e dunque la figura della performatività, il modo in cui, qui e ora, l’essere-nel-mondo è riferito a sé, al suo “che”: quella medesimezza, co-incidenza di apertura e aperto, “wovor” e “worum” inscritta nella struttura fenomenologica dell’Angst, in quanto Grundstimmung, rispetto all’autoriferimento della práxis (noeîn in quanto praktische aísthesis) come senso d’attuazione (dass) della phrónesis. Si tratta di dar conto del carattere “medio” della dimensione performativa negativa del senso d’essere che si esprime con i pronomi personali e, con essa, della fenomenologia. Al pari della dis-giunzione tra noia essenziale e inessenziale, tra cui, ribadiamo, non è possibile tracciare un confine netto87, mentre l’impaurirsi è tale di fronte a (wovor) un ente sottomano o alla mano che si avvicina nel suo esser-minaccioso e, parallelamente, è un impaurirsi per (worum) una possibilità determinata, l’angosciarsi si dis-giunge dall’impaurirsi proprio in quanto ciò di fronte a cui è tale «ist völlig unbestimmt. […] Nichts von dem, was innerhalb der Welt zuhanden oder vorhanden ist, fungiert als das wovor die Angst sich ängstet»88. Qui a mio avviso emerge un punto cruciale: il “nulla” di fronte a cui l’angoscia si angoscia – «cioè il mondo in quanto tale»89 – è il nulla a cui la totalità dell’essente, che non offre più alcun appiglio e sprofonda nella insignificanza (Unbedeutsamkeit),

87. M. Heidegger, GA 29/30 p. p. 164-165, trad. it. p. 145. 88. M. Heidegger, GA 2 p. 247, trad. it. p. 228. 89. Ibidem.

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indica: il suo contraccolpo. Riportiamo questa citazione cruciale nella lingua originale: Die völlige Unbedeutsamkeit […] bedeutet nicht Weltabwesenheit, sondern besagt, dass das innerweltlich Seiende an ihm selbst so völlig belanglos ist, dass auf dem Grunde dieser Unbedeutsamkeit des Innerweltlichen die Welt in ihrer Weltlichkeit sich einzig noch aufdrängt.90

È sul fondamento di, «in virtù di questa insignificanza dell’intramondano [che] ciò che ancora ci colpisce […] è il mondo nella sua mondità»91, cioè «la possibilità dell’intramondano».92 L’angoscia dunque è il «sentimento del nulla»93, a patto che il “sentire” non venga compreso come una prensione diretta del “nulla”, che in tal modo non potrebbe che esser ridotto a correlato, lasciando nonostante tutto immutata la struttura dell’intenzionalità e riproponendo la modalità di coglimento del noeîn, quella vicinanza al cui interno con c’è alcuna distanza94.

90. Ibidem. 91. Ibidem. [trad. mod.]. 92. Ibidem. 93. L’espressione è di M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 96. 94. Come emerge altrettanto, se non più chiaramente in Was ist Metaphysik?, il nulla in tanto non si identifica né con il nihil negativum né con nihil privativum, in quanto non si offre come Gegenstand, come correlato di un Erfassen; l’angoscia non è un coglimento (Erfassen) del nulla: «Das Nichts enthüllt sich in der Angst – aber nicht als Seiendes. Es wird ebenso wenig als Gegenstand gegeben. Die Angst ist kein Erfassen des Nichts». Ciò significa che è la struttura fenomenologica della Stimmung a non coincidere con un mostrarsi direttamente del nulla. Piuttosto: «das Nichts begegnet in der Angst in eins mit dem Seienden im Ganzen. Was meint dieses »in eins mit« mit dem seiendem?» Risposta: «Vielmehr bekundet sich das Nichts eigens mit und an dem Seienden als einem entgleitenden im Ganzen (cors. mio) ». M. Heidegger, GA 9 p. 114.

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Contro l’“immediatezza” dei sentimenti e delle emozioni, il carattere riflessivo della Stimmung in quanto Sich-befinden va compreso come un contraccolpo, un costitutivo rimbalzo inscritto nel suo stesso accadere, nella sua struttura fenomenologica. Come afferma De Angelis, «ciò che l’esser-ci trova nel sentirsi non è allora preesistente a questo, ma è dischiuso dalla modalità del sentire che è di volta in volta implicata»95. Questo trovarsi intonati è affetto da una opacità strutturale, che può essere rimossa o esperita in quanto tale, ma che, come tale, è un “fatto” ineludibile. Ancora una volta l’a sé non è semplicemente il contrario del via da sé, non è prima e a parte rispetto al non-esserci, all’esser-via; poiché è proprio il contraccolpo del via da sé, è l’esser già sempre assorbito nel “mondo”, trovando rifugio nelle significatività e nelle possibilità progettate (cioè determinate) a indicare, con il suo dileguarsi e nel suo dileguarsi – “mit und an dem Seienden als einem entgleitenden im Ganzen” – il movimento di fuga dell’esser-ci, la sua nientificazione: Nell’angoscia c’è un indietreggiare davanti a... che certo non è più un fuggire. […] Questo indietreggiare davanti a prende le sue mosse dal niente. Quest’ultimo non attrae a sé ma per sua essenza respinge. Ma questo respingere da sé è in quanto tale il rinviare, facendolo dileguare, all’ente nella sua totalità che affonda. Questo rinviare, respingendolo nell’insieme, all’ente nella sua totalità che si dilegua – in quanto tale il niente opprime nell’angoscia l’esserci – è l’essenza del niente: la nientificazione (Nichtung). Essa non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica.96 95. M. De Angelis, Per un’ontologia fenomenologica delle emozioni, cit., p. 202. 96. M. Heidegger, Was ist Metaphysik?, GA 9 p. 114, trad. it. pp. 69-70. cit. Riportiamo il passo nella lingua originale: «Diese im Ganzen abweisende

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L’angoscia, dunque, costituisce da parte a parte nient’altro che il movimento del Verfallen: La quotidianità di questo fuggire mostra […] fenomenicamente che alla costituzione essenziale dell’esserci in quanto essere-nel-mondo – costituzione che, in quanto esistenziale, non è mai semplicemente presente ma è sempre in uno dei modi dell’esserci fattizio e quindi in una situazione emotiva – appartiene l’angoscia come situazione emotiva fondamentale.97

L’a sé, dunque, non è il contrario del via da sé, ma ciò a cui il via da sé, il non esserci come tale indica, ciò a cui il non autentico rimanda, il suo contraccolpo: il cambiamento d’accento dal “cosa” – ente alla mano o sottomano che si avvicina minacciando una possibilità determinata – al “fatto” del “come”: il “nulla” che «in virtù della Unbedeutsamkeit della totalità dell’essente ci colpisce»98. È così che la significatività in quanto sistema dei rimandi che poggia su “nulla”, è cioè sospesa sulla sua stessa sospensione, rimanda, indica al “nulla” del “fatto” del suo rimandare. Parimenti l’angosciarsi si dis-giunge dall’impaurirsi quando, non potendo più progettarsi in vista di possibilità determinate, a fronte della insignificatività in cui la totalità dell’essente sprofonda, è rimandato al suo stesso in vista di, è cioè riferito a un in vista di certo, imminente, indeterminato, insuperabile, più proprio, un in-vista-di che non è in vista di altro che di questo “fatto”: l’esser-possibile.

Verweisung auf das entgleitende Seiende im Ganzen, als welche das Nichts in der Angst das Dasein umdrängt, ist das Wesen des Nichts: die Nichtung. Sie ist weder eine Vernichtung des Seienden, noch entspringt sie einer Verneinung. Die Nichtung läßt sich auch nicht in Vernichtung und Verneinung aufrechnen. Das Nichts selbst nichtet». 97. M. Heidegger, GA 2 p. 259, trad. it. p. 231. 98. Ivi, p. 247, trad. it. p. 228.

358 Il per-che dell’angoscia non è un determinato modo di essere o una possibilità dell’esserci. […] Essa rigetta l’esserci nel per-che del suo angosciarsi, nel suo essere-nel-mondo più proprio. […] Insieme al per-che dell’angosciarsi, l’angoscia apre l’esserci come esser-possibile.99

Anche in questo contesto, dunque, nell’attuazione della Stimmung, nel “che” dell’Angst, nel modo in cui l’esser-ci è riferito a sé, al suo “che”, coincidono wovor e worum, così come avviene nella práxis in quanto senso d’attuazione della phrónesis, nella coincidenza di télos e arché: Il per-che l’angoscia si angoscia coincide dunque col davantia-che essa si angoscia: l’esser-nel-mondo. […] L’identità esistenziale dell’aprire e dell’aperto, tale che in questa identità è aperto il mondo come mondo e l’in-essere come isolato puro e gettato poter-essere, rivela che, col fenomeno dell’angoscia, è assurta a tema dell’interpretazione una situazione emotiva eminente.100

Ma il senso di questa coincidenza è del tutto antitetico alla praktische aísthesis inscritta nel noeîn che appartiene alla phrónesis: il wovor (o wovon) e il worum non coincidono nell’éschaton colto noeticamente e intessuto di kairós, l’occasione in cui la phrónesis porta a coincidenza télos e arché, quell’azione in cui principio e fine coincidono, facendo emergere l’esser riferito a sé dell’agente, la sua buona natura101. 99. Ivi, p. 249, trad. it. p. 229. 100. Ivi, p. 250, trad. it. pp. 229-230. 101. Come afferma Vincenzo Vitiello, in contrasto con l’interpretazione di Franco Volpi: «La decisione, il progetto di esserci non ha più nulla a che fare con la libertà greca, la libertà teorizzata da Aristotele, che non ha certo la natura, la physis, della pietra, che per infinite volte che la si scagli in alto, mai apprenderà a non cadere, laddove la physis umana è plasmabile dall’abitudine, anzi nasce dall’abitudine […], e perciò è êthos. Ma per plasmabile o “seconda” che sia, anche la natura dell’uomo ha una costituzione di base immodificabile, affatto indipendente dall’agire, perché condizione di que-

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Bensì il contrario, wovor e worum, mondo e in vista di, coincidono nella “nullità”: nella nullità del “fatto” (dass) della significatività dell’essente a cui l’esser-ci è in quanto tale riferito (wie) e nella nullità del “fatto” (dass) di aver da essere (wie) in vista di possibilità determinate, da scegliere, in vista di cui la totalità dell’ente viene rilasciata e trova posto. Nell’angoscia è proprio la struttura del rimando (wie) a sé, al “che” del farsi mondo (dass) tanto del poter-essere quanto della totalità delle significatività a vibrare, a risuonare, ad accadere. L’Angst, cioè la Stimmung, implica una riflessività indessicale. L’emozione così compresa è, allora, tutto il contrario di una prensione diretta e immediata del “mondo”. Leggiamo questa formulazione, che sembrerebbe affermare esattamente il contrario di quel che stiamo sostenendo: «Das Sichängsten erschliesst ursprünglich und direkt die Welt als Welt» – «l’angosciarsi apre originariamente e direttamente il mondo in quanto mondo»102. È proprio il carattere riflessivo del verbo a mutare la prensione diretta in un contraccolpo: non “l’angoscia apre direttamente e originariamente il mondo in quanto mondo”, ma l’angosciarsi. A fronte della struttura fenomenologica della Stimmung, esserci significa sentir-si cioè esser-costitutivamente rimandato (angewiesen) al proprio “che”, al farsi mondo del mondo (es weltet): questa apertura passa per l’“accadere” di un’azione

sto. Distinguendo phrónesis da deinótes, la sapiente capacità di organizzare i mezzi per la realizzazione di un fine buono dalla abilità di predisporre strumenti per una qualsiasi finalità, Aristotele osserva che non c’è phrónesis áneu aretés, “prudentia” senza virtù, e questa, la virtù in quanto visione del bene, non è in potere dell’uomo. L’uomo prudente, il phrónimos, sceglie i mezzi in vista del bene, non il bene, che gli è dato, gli è dato es physeos. È la buona natura, l’euphyía che gli permette di scegliere il bene». V. Vitiello, Heidegger: tra etica pagana e morale cristiana, cit., pp. 273-274. 102. M. Heidegger, GA 2 p. 249, trad. it. p. 229.

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verbale alla diatesi media, per una riflessività indessicale, passa per così dire per un movimento di sottrazione, di espropriazione che apre il mondo in quanto mondo, cioè la possibilità dell’essente, rimandando di volta in volta l’esser-sempre-mio l’uno con l’altro a questo “che”: «Dass es ist und zu sein hat»103. Il si riflessivo, non essendo un ente la cui realtà precede l’accadere del verbo, non può osservare, sentire, comprendere, percepire, verbalizzare transitivamente l’intransitività del suo stesso accadere, poiché si temporalizza (es zeitigt) in e con questo stesso accadere, è di volta in volta così. In altre parole: il si riflessivo non coincide col sé stesso. Non a caso, l’esserpossibile e il mondo, il worum e wovor dell’angosciarsi coincidono nel “nulla”: nello «spaesamento»104, nel «non sentirsi a casa propria»105. E questo è il senso dell’esser di volta in volta sempre mio l’un con l’altro dell’esserci. Qui emerge tutta la distanza tra il senso dell’endechómenon, il modo d’essere di quel che può esser diversamente da ciò che è, pensato in contrapposizione a e dunque a partire dal sempre essente, e l’esser-di-volta-in volta dell’essere-nel-mondo. La Jeweiligkeit non coincide con la contingenza di ciò che può realizzarsi o non realizzarsi, bensì indica la costitutiva espropriazione, sottrazione, dis-giunzione di ciò che c’è. Il «di volta in volta», dunque, non significa affatto l’ogni volta diverso. Se così fosse, la Jeweiligkeit verrebbe ancora una volta pensata per opposizione/disgiunzione al sempre lo stesso logico-ideale, che manterrebbe così il suo primato. Non vi sono affatto dunque “tante volte”, ognuna diversa, se non finché guardiamo al “di volta in volta” in maniera subalterna, cioè di nuovo per opposizione al sempre lo stesso. Si tratta piuttosto di pensare «il di

103. Ivi, p. 377, trad. it. p. 399. 104. Ivi, p. 251, trad. it. p. 230. 105. Ibidem.

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volta in volta» come l’unica volta. E non ad esclusione delle altre. Parallelamente, la struttura fenomenologica del noeîn, “quella vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza” che coglie l’éschaton, portando a coincidenza nell’attuazione dell’azione stessa arché e télos dell’agire e disegnando un autoriferimento, un compimento circolare perfettamente chiuso in sé, viene propriamente bucata, inficiata da uno squilibrio costitutivo: il riferimento a sé, al suo “che” inscritto nell’esserci è un rimando al “che” del rimandare, un’indicazione che indica al “nulla” del suo stesso “accadere”. Per dirla con le parole di Hölderlin che Heidegger tradurrà fenomenologicamente: «un segno che nulla indica»106. La struttura della Stimmung implica dunque una vera e propria riformulazione della performatività inscritta nella práxis aristotelica (quel che abbiamo chiamato performativo standard). La paura, così come la speranza, la noia, la gioia, il distacco, la rabbia, l’indifferenza, oltre a non essere affatto “stati 106. Riportiamo l’intero brano in cui sono contenuti i versi di Hölderlin: «Wenn der Mensch auf dem Zug in das Sichentziehende ist, zeigt er in das Sichentziehende. Auf dem Zug dahin sind wir ein Zeichen. Aber wir zeigen dabei ein Solches, was nicht, was noch nicht in die Sprache unseres Sprechens übersetzt ist. Es bleibt ohne Deutung. Wir sind ein deutungsloses Zeichen». M. Heidegger, Was heisst Denken?, Klostermann, Frankfurt a. M. 2002, GA 8 p. 20. O ancora: «Insofern der Mensch auf diesem Zug ist, zeigt er als der so Ziehende in das, was sich entzieht. Als der dahin Zeigende ist der Mensch der Zeigende. Der Mensch ist hierbei jedoch nicht zunächst Mensch und dann noch außerdem und gelegentlich ein Zeigender, sondern: gezogen in das Sichentziehende, auf dem Zug in dieses und somit zeigend in den Entzug, ist der Mensch allererst Mensch. Sein Wesen beruht darin, ein solcher Zeigender zu sein. Was in sich, seinem Wesen nach, ein Zeigendes ist, nennen wir ein Zeichen. Auf dem Zug in das Sichentziehende ist der Mensch ein Zeichen. Weil dieses Zeichen jedoch in das Sichentziehende zeigt, deutet es nicht so sehr auf das, was sich da ent-zieht, als vielmehr in das Sichentziehen. Das Zeichen bleibt ohne Deutung». Ivi, p. 11.

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interni” di un “io”, dispongono, modulano, intonano nel “fatto” di impaurirsi o di sperare sia ciò di fronte a cui (wovor) ciò che speriamo è tale, sia ciò per cui (worum) c’è da sperare, sia “chi” spera. Nello sperare dunque, così come in ogni altra Stimmung, cioè in ogni situazione, ci si trova come chi. In cui il trovarsi non va inteso in senso ontico-constativo bensì è, come ogni esistenziale, un performativo medio e negativo: il situarsi, sich befinden è, si fa, si temporalizza (es zeitigt), accade, in e con ogni situazione determinata, di volta in volta, proprio questa volta qui!

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Postilla* La Stimmung tra tema e metodo

Ci limitiamo a sintetizzare i punti che si concentrano nell’Angst, in cui si intrecciano (almeno) due piani di senso differenti, entrambi cruciali ai fini del nostro lavoro. La dis-giunzione proprio/improprio è parallela alla dis-giunzione angoscia/paura: indica cioè il dritto e il rovescio del Verfallen, rimodula con un’inversa accentazione l’essere gettati nel mondo nel modo della diversione evasiva, nel modo del via da sé e in tal senso accenta “ciò da cui” l’esserci fugge ed è già sempre fuggito, rimandando al riconoscimento, qui e ora, del costitutivo non-esserci, dell’esser-via di tutti e di ciascuno. «La paura è un’angoscia deietta nel “mondo”, inautentica e dissimulata a sé stessa come tale»107, ma ciò significa che l’angoscia non è altro che l’improprietà della paura propriamente compresa, non dissimulata a sé stessa. Sul fenomeno dell’Angst grava inoltre la questione del metodo fenomenologico, sulla Stimmung si gioca l’accesso ai fenomeni. Concordiamo con questa affermazione di Gardini: «la fenomenologia […] ha lo stesso statuto concettuale

107. M. Heidegger, GA 2 p. 252, trad. it. p. 231.

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dell’angoscia ed è praticabile solo nella modalità del sentirsi angosciati»108. A patto, però, che con questo enunciato non si intenda dire che l’angoscia sia l’unica Stimmung determinata in cui il movimento del fuggire via da sé possa come tale venir compreso; a patto, dunque, che l’enunciato non venga inteso in senso ontico-constativo, preso quindi nel suo “dictum”, il suo “contenuto”, il suo “significato”, ma venga compreso in senso performativo negativo, indicativo formale, ontologico, esistenziale: “si può praticare la fenomenologia solo nella modalità del sentirsi angosciati” non significa che ci si debba sentire angosciati per fare fenomenologia, ma che “il sentirsi angosciati” (cioè il contenuto dell’enunciato) co-incide con la modalità in cui la fenomenologia (così come ogni altro comportamento determinato) si fa, accade, con il “dass” del suo farsi. È dunque la struttura fenomenologica della Grund­ stimmung, nel suo accadere qui e ora in ogni Stimmung, in ogni situazione determinata, a implicare la Unheimlichkeit: lo spaesamento, il non sentirsi a casa propria, la dimensione performativa negativa del “fatto” di esser-ci. Possiamo dire: la fenomenologia giunge fino a sé e dunque si compie, non attraverso il processo metodico delle riduzioni, ma quando la stessa familiarità col mondo si rivela spaesante. La fenomenologia è quindi assegnata a una trasformazione immanente: il passaggio dall’essere intonati in una situazione determinata, all’intonarsi nel “fatto” indeterminato della situazione. Angoscia significa, dunque, accordarsi – Einstimmen – differentemente al mondo. Possiamo concludere parafrasando le parole di Vitiello: la distanza della fenomenologia husserliana da quella heideggeriana non riguarda l’«io penso» ma l’«io posso»109.

108. M. Gardini, Filosofia dell’enunciazione, cit., p. 97. 109. V. Vitiello, Heidegger: tra etica pagana e morale cristiana, cit., p. 277.

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§5 Ripensare fenomenologicamente la coincidenza di condizioni permanenti e condizioni originarie. Una critica al performativo assoluto di Paolo Virno Gli esistenziali propriamente non sono, ma accadono, si temporalizzano. O meglio, il senso esistenziale del verbo essere è un performativo negativo: il suo contenuto, il significato, coincide con la modalità in cui l’essere-nel-mondo è riferito a sé, al suo “che”. Si tratta di mettere alla prova il senso performativo negativo dell’esserci a partire dal suo carattere temporalizzante. A tale scopo, può rivelarsi fruttuoso un confronto con Paolo Virno, di cui ci siamo occupati in riferimento al performativo assoluto “io parlo”. Virno pensa, infatti, la cooriginarietà di antropogenesi e logogenesi inscritta nella loro temporalizzazione a partire da una tesi radicale: il tratto distintivo dell’essere umano dell’uomo risiede nella coincidenza tra condizioni originarie e condizioni permanenti. Si tratta di provare a pensare questa coincidenza fenomenologicamente, a partire da quella co-incidenza – che è parimenti dis-giunzione costitutiva – tra il modo in cui l’esserci è l’ente che è, e ciò che qui e ora esso è. In fondo, la critica heideggeriana alla semplice presenza e al carattere totalizzante della dimensione apofantica implica la necessità di pensare il “come”, le condizioni originarie, l’apriori, entro una dimensione “esistenziale” (cioè performativa negativa), portando con sé l’impossibilità di risalire a un fondamento necessario e universale che garantisca a priori l’unità dell’esperienza110.

110. Non è possibile svolgere in questa sede un confronto tra Kant e Heidegger in riferimento al senso del trascendentale. Ci limitiamo, dunque, a riportare questa considerazione di Vitiello in merito al “superamento dell’impostazione trascendentale del problema dell’essere”: «In Kant “l’oggetto trascendentale” (l’orizzonte di manifestatività) è distinto dall’ente; in

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Questo tentativo mira, da un lato, a precisare il senso temporalizzante inscritto nel performativo negativo “esserci” e a radicare la fenomenologia e il suo statuto ontologico in una dimensione costitutivamente performativa; dall’altro, a ridefinire la stessa performatività, la sua struttura e il suo senso grazie all’approccio fenomenologico e alla sua pretesa ontologica. Si tratta di far reagire la temporalità, il senso temporalizzante del performativo assoluto io parlo con la temporalizzazione dell’esserci, per dar conto del carattere medio e negativo della performatività. Il rifiuto di pensare l’essere (umano) dell’uomo entro una concezione lineare del tempo è punto di partenza ineludibile, terreno comune senza il quale tale confronto non sarebbe praticabile. Ma ben più radicalmente, la performatività assoluta, la coincidenza di condizioni permanenti e condizioni originarie, il senso, cioè, dell’apriori elaborato da Virno, è pensato a partire dal circolo aristotelico di potenza e atto, offrendo un reagente estremamente potente per ridisegnare la performatività alla luce della fenomenologia, che, come abbiamo mostrato, implica un vero e proprio capovolgimento del paradigma aristotelico, rovesciando il primato dell’atto sulla potenza e ripensando così il senso della possibilità. Affermando la coincidenza di condizioni originarie e condizioni permanenti, Virno riprende la tesi di Ferdinand de Saussure secondo cui «è un’idea completamente falsa credere che in materia di linguaggio il problema delle origini differisca da quello delle condizioni permanenti»111, ampliandone la portata Heidegger il «mondo» è l’essere stesso dell’ente, è l’essente; ed il mondo è un “esistenziale”». V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino, 1976, p. 380. A questo problema sono dedicate in particolare le pp. 321-385. 111. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 78.

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al processo ricorsivo di antropogenesi che, in questo contesto, coincide in tutto e per tutto col farsi umano dell’uomo, ovvero con la genesi delle condizioni di possibilità dell’esperienza e porta con sé, quindi, una profonda ridefinizione del concetto di apriori. Radicalizzando la nozione di “apocalissi culturali” dell’antropologo italiano Ernesto de Martino, in base alla quale «contingenti non sono solo le esperienze definite, ma, in certa misura, le stesse condizioni di possibilità dell’esperienza»112, Virno afferma che «la natura umana consiste nell’avere sempre a che fare con l’origine dell’uomo»113. Il farsi umano dell’uomo, la sua origine, l’antropogenesi, non è mai un fatto archiviato, semplicemente passato, non più presente, bensì «la soglia antropogenetica […] costituisce […] la dimora abituale dell’animale linguistico. Il “c’era una volta” prende le sembianze dell’“ancora una volta”»114. Parimenti, la genesi del linguaggio non rimanda alla scena di un passato che fu, bensì è un processo ricorsivo: ci si appropria sempre di nuovo della facoltà, della potenza (faculté/dýnamis) di linguaggio in ogni atto di parola (parole/atto), poiché il parlante non fa che attualizzare sempre di nuovo la potenza (dýnamis) indeterminata del dire, emancipandosi e riscattandosi ancora una volta dallo stato di afasia; ecco perché «l’atto inaugurale non affonda in un “altroquando” ormai archiviato, ma resta sempre in primo piano»115. Ai fini di questo lavoro è di estremo interesse il fatto che la coincidenza tra condizioni originarie e condizioni permanenti

112. Ivi, p. 77. 113. Ibidem. 114. Ivi, 79. 115. Ivi, p. 77.

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venga pensata sulla base del circolo aristotelico di potenza e atto e che questa ricorsività sia propriamente temporale; o, meglio, temporalizzante: ogni atto di parola determinato non è più potenziale, si temporalizza dunque in quanto “non-più” eccependo l’indeterminatezza della potenza del dire (dýnamis), il suo costitutivo essere “non-ora”. Scrive Virno: Chi dice «non-ora» dice potenza. Ciò che è potenziale è per definizione assente, privo di una realtà sua propria, estraneo al decorso cronologico. Chi dice «adesso», dice atto. Essere in atto significa essere presente. Potenza e atto sono concetti temporali. Di più, sono concetti temporalizzanti. […] L’atto mette provvisoriamente in mora la potenzialità indeterminata, la eccepisce per un istante. E quell’istante è l’adesso. La sola definizione pertinente di «adesso» è, dunque, non più non ora. La cronogenesi, ossia la coppia inattualità/presenza, è all’opera in ogni singolo frammento del divenire. Qualsiasi momento storico comprende in sé potenza e atto, non-ora e adesso, un aspetto lacunoso e uno saturo.116

È qui che il performativo assoluto funziona come reagente: è ancora una volta la nozione di potenza, il “non-ora” come modalità di temporalizzazione della dýnamis a differire dal senso della possibilità inscritto nel performativo medio e negativo, nel “fatto” di esser-ci, l’esser-stato dell’avvenire, il “già-nonancora”. Il circolo potenza e atto, cioè l’attualizzazione, la realizzazione della potenza nell’atto, implica, come citato, la coappartenenza di un aspetto indeterminato, lacunoso, assente – il “nonora” come motilità di temporalizzazione della dýnamis – e un aspetto saturo, attuale, presente – l’atto che eccepisce la potenza non esaurendola ma tornando in essa. Questa circolarità rispecchia la struttura di ogni enunciato che, come tale, implica sia un dictum, un significato, un aspetto saturo, sia un 116. Ivi, p. 80.

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elemento lacunoso, indeterminato, che coincide con il “fatto” che si parla, con la presa di parola: Ogni enunciazione, quale che sia il suo contenuto, scaturisce sempre di nuovo dalla identica potenza di enunciare. La relazione potenza/atto ha, dunque, il tipico andamento di un ciclo votato alla reiterazione. La freccia e il ciclo si danno a vedere indirettamente già all’interno di un singolo enunciato, se solo si sappia distinguere in esso due aspetti concomitanti e però eterogenei: ciclica è la presa di parola, l’azione di produrre una voce significante, la rottura del silenzio, la transizione dalla potenza all’atto; irreversibile al pari della freccia è, invece, il particolare contenuto semantico, il messaggio comunicativo trasmesso qui e ora, insomma ciò che di volta in volta si dice.117

Nel performativo assoluto “io parlo” è proprio il passaggio dalla potenza all’atto, dall’assenza alla presenza, dall’inattualità all’attualità a divenire – almeno nelle intenzioni di Virno – contenuto dell’enunciato, suo dictum. In base alla prospettiva di Virno, il contenuto, il dictum del performativo assoluto “io parlo” coincide con la stessa presa di parola, reificando l’apriori biologico, la dýnamis indeterminata sempre da determinare, e rendendo così le condizioni di possibilità dell’esperienza pienamente appariscenti: È possibile estrapolare il fatto-che-si-parla […] esprimendolo con un enunciato a sé stante? Ovviamente sì. Basta dire: «Io parlo».118

Come abbiamo provato a mostrare119, invece, non è affatto così: non è possibile, infatti, isolare la verità, l’evento del linguaggio dalle condizioni linguistiche ed extralinguistiche del

117. Ivi, p. 82. 118. Ivi, p. 38. 119. Infra, cap. III §2.

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contesto in cui ha luogo e viene compreso, ricapitolando il farsi umano dell’uomo in un unico enunciato in prima persona mai soggetto al fallimento. Nel dire “io parlo”, infatti, il significato dell’enunciato coincide effettivamente con quel che si fa, solo a patto che questa esecuzione (il fare) venga compresa proprio come l’azione che l’enunciato in effetti significa, il “parlare”. Solo in tal modo ciò che si dice coincide con quel che si fa. È dunque il significare a garantire la felicità dell’“io parlo”, la coincidenza tra l’enunciato e la sua esecuzione, il dire e il fare; ancora una volta, dunque, si scava uno iato tra dire e fare che esibisce l’impossibilità di rendere appariscente l’apriori, lasciando riaffacciare il “fantasma” dell’intenzionalità, l’autoriflessione. Questo fallimento, tuttavia, è molto istruttivo: mostra, infatti, che l’intenzionalità non viene affatto smascherata senza essere presupposta. Ci siamo già soffermati, a questo proposito, sull’impossibilità di considerare irrelati il costitutivo feticismo inscritto nella Faktizität, nel carattere facticius che contraddistingue il “fatto” del “come” – la motilità del Verfallen come decadimento del “come” nel “cosa” e, insieme, oblio della costitutiva sottrazione di questo “fatto” (dass) inscritto nel modo di essere dell’esserci – e il suo antidoto, provando a chiarire l’impossibilità di opporre al feticismo (dunque anche al feticcio dell’intenzionalità) i processi di reificazione120. A questo punto ci proponiamo di riformulare tanto il senso della performatività, quanto la coincidenza di condizioni originarie e condizioni permanenti, provando a trarre alcune conseguenze dallo iato tra voler dire e dire esibito dall’infelicità del performativo assoluto, analizzandone la struttura temporalizzante. Se questo iato non fosse altro che la rottura inscritta nel circolo potenza/atto: la dis-giunzione kairós/chrónos, proprio/improprio? Ogni esistenziale, del resto, è tempo: il

120. Infra, cap. III §2.

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senso performativo negativo dell’esser-ci, la struttura della Cura, tutti gli esistenziali cooriginari sono concetti ontologici, indicativo-formali, ossia, infine, temporalizzanti. Così come, secondo Virno, «l’atto inaugurale non affonda in un “altroquando” ormai archiviato, ma resta sempre in primo piano»121 e «l’Ultimo Giorno è sempre all’ordine del giorno»122, in base alla concezione fenomenologica heideggeriana, «il “fra” che congiunge la nascita con la morte è già insito nell’essere stesso dell’esserci. Mai l’esserci “è” reale in un determinato punto del tempo e “circondato” dalla non realtà della sua nascita e della sua morte. Considerata esistenzialmente, la nascita non è e non è mai qualcosa di passato nel senso di non più presente, allo stesso modo che la morte non ha il modo d’essere della “mancanza” di qualcosa non ancora presente ma che sarà tale. L’esserci fattizio esiste come essente nato e, in quanto tale, muore nel senso dell’essere-per-la-morte. Ambedue le “fini” e il loro “fra” sono fintanto che l’esserci effettivamente esiste, e lo sono su quell’unico fondamento che è reso possibile dall’essere dell’esserci in quanto Cura. […] La totalità della costituzione della Cura ha però il fondamento possibile della sua unità nella temporalità»123. Temporalità che fonda la Cura nel senso che la modalità in cui tutti gli esistenziali cooriginari di volta in volta sono, la loro dimensione di verità, di senso non è ma si temporalizza (es zeitigt). La triplice articolazione del fenomeno – il “fatto” (dass) del riferimento (wie) a qualcosa (was) – altro non è che la natura estatica della cura: l’esser-avanti a sé essendo già presso qualcosa. Si tratta, dunque, di concetti indicativo-formali, ontologici, ermeneuti-

121. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 77. 122. Ibidem. 123. M. Heidegger, GA 2 p. 495, trad. it. pp. 442-443.

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ci: “segnali”124 che attirano l’attenzione, indicando l’accadere qui e ora, in e con ogni esperire determinato, delle condizioni di possibilità dell’esperienza, le quali, temporalizzandosi in e con ogni situazione determinata, non possono essere pensate come condizioni universali e necessarie di un soggetto trascendentale. Piuttosto si trasformano in “a priori esistenziali”, a priori dal carattere perfetto125: sono il modo in cui ogni comportamento determinato si compie. Ogni esperienza, infatti, in tanto può rapportarsi a qualcosa, in quanto ne anticipa il modo d’essere, essendo dunque oltre sè stessa (avanti a sè). Parimenti, in tanto l’esperienza anticipa il modo d’essere di ciò a cui si rapporta, in quanto è già riferita a un insieme di possibili modalità di rapporto, trovandosi già in esse. Così va intesa la coappartenenza di essere-stato e avvenire nella presentazione, triplicità che intesse ogni esperienza determinata, il suo “già non-ancora”: L’unità originaria della struttura della Cura è costituita dalla temporalità. L’avanti-a-sé si fonda nell’avvenire. L’esser-giàin… manifesta l’essere-stato. L’esser-presso è reso possibile nella presentazione.126

Nascere e morire, dunque, così come il loro “fra”, vanno compresi in senso radicalmente esistenziale, appartengono cioè a una dimensione costitutivamente performativa, non possono essere intese come azioni verbali, sia pure passive, predicabili del soggetto uomo; in questo contesto il piano constativo-

124. Rimandiamo al prossimo capitolo il chiarimento dell’uso dei termini “concetti ermeneutici”, “indicazioni formali” e “segnali” come sinonimi. A partire da un confronto con la I delle Ricerche Logiche di Husserl e dunque con le radici dell’indicazione formale heideggeriana ci proponiamo di mostrare il superamento del dualismo husserliano tra Ausdruck e Kundgabe. 125. M. Heidegger, GA 2 p. 114, trad. it. p. 110. 126. Ivi, p. 433, trad. it. p. 388.

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apofantico si dimostra inappropriato. Piuttosto, le espressioni “nascere” e “morire” indicano la modalità in cui, di volta in volta, qui e ora, l’esser-ci è riferito a sé, al suo “che”, sono nel senso che si temporalizzano (es zeitigt), si fanno, accadono in e con ogni esperienza determinata, proprio questa volta qui. In tal senso gli esistenziali appartengono a una dimensione di senso performativa negativa: il contenuto della loro espressione, il significato, co-incide con ciò che, di volta in volta qui e ora si fa. Il modo in cui di volta in volta l’esser-ci è riferito a sé, al suo “che” non è esso stesso un ente, un che cosa, un was, per questo non è in senso constativo ma esiste, accade, si temporalizza. Solo in questo senso l’esser avanti a sé essendo già presso, il ”fatto” del “riferimento” a qualcosa, cioè «la Cura è costituita dalla temporalità»127. E così a mio avviso va intesa l’espressione “io sono”, che è un performativo negativo poiché il suo significato, il suo dictum, il suo contenuto (was) co-incide con il “fatto” del “come”, con la modalità in cui ogni esperienza determinata, di volta in volta, si compie: la temporalità non «è» assolutamente un ente. Essa non è, ma si temporalizza (es zeitigt). La ragione per cui non possiamo fare a meno di dire: «La temporalità “è” il senso della Cura», oppure: «la temporalità “è” determinata in questo o quel modo», riuscirà comprensibile solo quando avremo chiarito le idee di essere e di «è» in generale. La temporalità si temporalizza, e precisamente nelle diverse modalità che sono proprie di essa. Queste rendono possibili i vari modi di essere dell’Esserci e, prima di tutto, la possibilità fondamentale dell’esistenza autentica e inautentica.128

Non solo proprio e improprio sono possibilità fondamentali ma, in questo passo, emerge una gradualità nel temporaliz-

127. Ibidem. 128. Ivi, pp. 434-435, trad. it. p. 390.

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zarsi dei modi d’essere dell’esserci di cui proprio e improprio sono, per così dire, il “piano” e il “fortissimo” dell’esecuzione. Tanto il peculiare Gradualismus129 nei ‘toni’ della temporalizzazione, quanto l’impossibilità di comprendere la temporalità in senso constativo-apofantico implicano la necessità di mettere fuori gioco una concezione lineare del tempo e cioè una comprensione ontologica che interpreta nascita e morte come un “ora non più” e “ora non ancora”. Quanto fu detto esclude da sé la possibilità di intendere l’«avanti» dell’«avanti-a-sé» e il «già» in base alla comprensione ordinaria del tempo. L’avanti non significa un «oltre ora» nel senso di un «ora non ancora, ma poi sì»; allo stesso modo il «già» non significa un «non più ora, ma prima sì». Se le espressioni «avanti» e «già» avessero un significato temporale di questo genere, significato che possono anche avere, la temporalità della Cura verrebbe a significare che essa sarebbe qualcosa che, «prima» e «dopo», rispettivamente «non era ancora» e «non sarà più». La cura risulterebbe concepita come un ente che si presenta e scorre «nel tempo». L’essere dell’ente avente il carattere dell’esserci verrebbe degradato a semplice presenza. Se tutto ciò è assurdo, il significato temporale delle espressioni suddette deve essere un altro.130

Questo altro significato – così suona la tesi di questo lavoro – è performativo negativo. Il temporalizzarsi (es zeitigt) della temporalità esistenziale, riformulando il senso temporalizzan-

129. Thomas Rentsch ha sottolineato a partire dall’analisi dell’uso del comparativo in Sein und Zeit la necessità di radicalizzare la presenza di una gradualità nel passaggio proprio/improprio per superare ogni residuo dualistico mettendo parimenti in questione un’interpretazione del rapporto proprioimproprio in senso decisionistico. T. Rentsch, Zeitlichkeit und Altäglichkeit, in T. Rentsch, (Hrsg.), Martin Heidegger, Sein und Zeit, Akademie Verlag, Berlin 2007, pp. 201 ss. 130. M. Heidegger, GA 2, p. 435, trad. it. p. 390.

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te del circolo potenza/atto, ridisegna la figura della performatività. Centrale è ancora una volta il senso del “non”, inscritto tanto nel concetto esistenziale di morte, in cui si attua la dis-giunzione tra temporalizzazione impropria e propria dell’avvenire – aspettarsi e precorrere – tanto nell’angoscia – in cui si disgiungono oblio e ripetizione, estasi propria e impropria della temporalizzazione dell’esser-stato – che insieme alla presentazione e all’attimo come modi di temporalizzazione del presente, intessono il performativo negativo “io sono”. Ciascun esistenziale si temporalizza, qui e ora, nella coappartenza delle estasi temporali, nel “fuori” inscritto nel “fatto” dell’esistenza, nella totalità delle sue dimensioni di senso (dass, wie, was): «Perciò noi chiamiamo […] avvenire, esserstato e presente le estati della temporalità. La temporalità non è prima di tutto un ente che poi esce fuori di sé. La sua caratteristica essenziale è la temporalizzazione nell’unità delle estasi» – «l’ekstatikón puro e semplice».131 Anche in questo caso è in gioco un cambiamento d’accento nella motilità di temporalizzazione del fenomeno, che mostra la coappartenenza tra piano constativo e performativo, chrónos e kairós, improprio e proprio, inscritta in tutti gli esistenziali cooriginari. Mentre nell’aspettarsi, motilità di temporalizzazione impropria del riferimento (wie), la “morte”, il “non ancora”, il “come” è una significatività, una effettività esperibile («Erfahrungstatsache»)132 – nel pensare alla morte, esperire la morte degli altri, dare conforto a chi sta per morire – appartiene cioè a una dimensione di verità mondanoconstativa o performativa (con tutte le differenze di significato

131. Ibidem. 132. Ivi, p. 341, trad. it. p. 308.

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che appartengono all’esperienza del lutto, all’aspetto rituale della mortalità, alla sepoltura e al suo legame con l’istituzione di una comunità); quel che in questo caso è in questione è il senso esistenziale, cioè performativo negativo di morte, che propriamente non è né un significato, né una práxis, non è cioè nel senso di un’effettività esperibile, bensì co-incide con la modalità in cui ogni riferimento al contenuto, ogni prassi determinata si attua, c’è, ed è riferita a sé, al suo “che” (dass), al suo stesso aver luogo. A mio avviso dunque, il precorrimento, in quanto possibile motilità di temporalizzazione del riferimento (wie) inscritto in ogni esperienza determinata, non implica alcuna “etica del trascendimento”, nessuna azione da compiere e tanto meno si identifica con un’etica prescrittiva, bensì è semplicemente un cambiamento d’accento dal “cosa” al “fatto” del “come”: il precorrere inscritto nell’essere-per-lamorte non è altro che lo scarto – nell’accadere in cui si temporalizza ogni situazione determinata – in cui l’accento della fenomenizzazione non cade sul senso di contenuto, sull’essere presso qualcosa, sulla dimensione della presentazione, bensì sul “fatto” del “come”, sull’esser-stato dell’avvenire, ovvero sulla costitutiva inappropriabilità del modo in cui ci rapportiamo agli altri, a noi stessi e alle cose, sulla costitutiva Unbegründbarkeit di ogni situazione. Solo questo è il senso esistenziale di “morte”: Noi concepiamo esistenzialmente la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’esserci [cors. mio]. La morte non si aggiunge all’esserci all’atto della sua «fine»; ma è l’esserci che, in quanto cura, è il gettato (cioè nullo) «fondamento» della sua morte.133

133. Ivi, p. 406; trad. it. p. 365.

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Tanto la di-sgiunzione tra precorrere e aspettarsi come motilità di temporalizzazione propria e impropria dell’avvenire (wie), quanto il rapporto tra oblio e ripetizione come temporalizzarsi improprio e proprio dell’esser-stato (dass), così come il presente come presentazione o attimo (was), vanno compresi in senso radicalmente fenomenologico, cioè performativo negativo. Ciò che è in questione è, a mio avviso, la possibilità di ripensare l’apriori in senso esistenziale, cioè il riferimento dell’esserenel-mondo a sé, a questo “che” (dass), il senso della Jeweiligkeit; possiamo dire, la co-incidenza tra ciò che l’esser-ci di volta in volta è e il modo in cui di volta in volta esso è l’ente che è, la coincidenza tra condizioni permanenti e condizioni originarie, ordine del giorno e ultimo giorno. Riprendiamo il passo sopra citato: cruciale, come si diceva, è ancora una volta il senso del “nulla” in cui co-incidono la dimensione dell’avvenire, il “come”, «la morte in quanto possibilità dell’impossibilità dell’esistenza, cioè […] pura e semplice nullità dell’esserci»134 e l’essere-stato, il “dass”, «il gettato (cioè nullo) fondamento»135 di essa. Si tratta di un cambiamento d’accento nella modalità di temporalizzazione del fenomeno: dalla dimensione della presentazione (was), a partire da cui si temporalizzano avvenire e essere stato come aspettarsi e oblio – aspettarsi che «aspetta sé stesso da ciò che l’oggetto della sua cura gli può offrire e rifiutare»136 e in cui il “come”, l’avvenire, de-cade nel presente mentre questo stesso “fatto”, il suo esser-stato, si temporalizza obliandosi – ; all’esser-stato dell’avvenire nell’attimo della

134. Ibidem. 135. Ibidem. 136. Ivi, p. 446, trad. it. p. 400.

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Entschlossenheit, che non è altro che la co-incidenza tra la nullità del progetto, dell’avvenire (wie) e quella dell’esser-stato (Dass): il “fatto” infondato dell’esistenza: Tanto nella struttura dell’esser-gettato quanto in quella del progetto è insita per essenza una nullità. Essa è il fondamento della possibilità della nullità dell’esserci non-autentico nella deiezione, in cui esso già da sempre effettivamente (faktisch) è. La Cura stessa, nella sua essenza, è totalmente permeata dalla nullità.137

In questo caso, dunque, la possibilità non è affatto l’indeterminatezza della potenza (dýnamis), misurata alla sua determinazione, bensì l’indeterminabilità della possibilità, «cioè la pura e semplice nullità»138. La possibilità dunque – al contrario di quanto accade nella dýnamis sottesa al performativo assoluto – non appartiene affatto a «chi dice “non-ora”»139. Non solo la performatività non è assoluta, sciolta cioè dell’essere-in-situazione, dalle condizioni linguistiche ed extralinguistiche, dall’essere-di-volta in volta nel mondo, ma non ha neppure la forma di un’azione in prima persona, non è affatto un “io parlo”. Riprendendo ancora le parole di Adinolfi: senza dire, con Benveniste, che la prima persona non compare nel linguaggio senza una seconda persona, e che, a bene osservare il modo in cui l’uomo acquisisce il linguaggio, onto-

137. Riportiamo questo passo cruciale nella versione originale: «In der Struktur der Geworfenheit sowohl wie in der des Entwurfs liegt wesenhaft eine Nichtigkeit. Und sie ist der Grund für die Möglichkeit der Nichtigkeit des uneigentlichen Daseins im Verfallen, als welches es je schon immer faktisch ist. Die Sorge selbst ist in ihrem Wesen durch und durch von Nichtigkeit durchsetzt». Ivi, p. 378, trad. it. p. 340. 138. Ivi, p. 406; trad. it. p. 365. 139. P. Virno, Quando il verbo di fa carne, cit., p. 80.

379 geneticamente e filogeneticamente, forse bisognerebbe anteporre una proposizione dalla forma: a parlare sono io, in cui resti traccia di uno stadio in cui non sono io a parlare ma sono le parole che si parlano in me, prima che io le parli140.

Il performativo negativo io sono – il senso d’essere sotteso a tutti i pronomi personali – indica proprio questo parlarsi in me delle parole prima che io le parli, con e in ogni esperienza: a temporalizzarsi, a sottrarsi nascondendo questo stesso oblio è lo stesso “accadere” del senso; non c’è dunque un “io parlo” senza quell’impersonale tautologica che è “il linguaggio parla”, senza l’accadere del senso, l’evento del linguaggio. Questo accadere, riprendendo la distinzione già tracciata, non è pensabile né come azione né come avvenimento, non è né Handlung né Widerfahrnis. D’altro canto, criticare la proposizione io parlo e la forma di performatività che essa implica non significa affatto rassegnarsi fatalisticamente alla subalternità, pensare che ci sia un «si può che preceda ed autorizzi l’io posso­»141. In questo contesto – come abbiamo provato a mostrare in riferimento al rapporto tra progettualità e gettatezza – è il paradigma che oppone attivo e passivo, autonomia e assoggettamento, libertà e destino, genio e provvidenza, a mostrarsi inadeguato a quel che va espresso. Il “si parla”, piuttosto, è il modo in cui ognuno è aperto a sé nel modo del “Si”: dettatura da cui non è possibile sottrarsi dicendo semplicemente “io parlo” – fosse solo per il fatto che il significato di questo io parlo è pur sempre intonato, tramandato, parlato, sarà già stato parlato. La dettatura del “si parla” non è, dunque, un errore da evitare o un’autorizzazione previa da richiedere, ma scaturisce dall’erranza del senso, che non può che scadere in significati, tramandati, detti, ripetuti,

140. M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., p. 240. 141. Ivi, p. 235.

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raccontati, istituiti. Ed è proprio questa dettatura a indicare il percorso attraverso i coprimenti in vista della verità dell’esserci, e parimenti la costante possibile ri-apertura dell’esser-sempre-mio l’un con l’altro nel mondo al dimenticare il sottrarsi che è questo “fatto”, essendo essa stessa lo spazio di quella trasformazione immanente in cui l’esperienza non è assorbita nella significatività, nell’indifferenza del rapporto a essa, ma nel fatto dell’esperire, nella significatività di questo rapporto, di questa relazione (del “come”). Potremmo dire, ancora con una tautologia: in gioco è la trasformazione immanente della significatività del mondo nella significatività del mondo. Il “si parla”, dunque, è la rimozione, il feticcio, il «coprimento necessario»142, poiché indicativo, di una strutturale sottrazione: il fatto (dass) che il linguaggio parla e solo così a parlare sono io. La possibilità, dunque, ritornando al performativo assoluto, non coincide con la «potenza biologica»143 dell’animale umano inscritta nel processo ricorsivo dell’antropogenesi ed esclude, quindi, la perfetta coincidenza tra condizioni permanenti e condizioni originarie, riscatto e crisi. Questo significa, parimenti, che le stesse condizioni originarie non divengono affatto appariscenti in un’epoca determinata, la nostra. Scrive Virno: bisognerebbe ritenere che la ripetizione dell’antropogenesi non sia più, nell’epoca nostra, una risorsa apotropaica […], ma un immediato e assai ragguardevole contenuto dell’esperienza ordinaria. Bisognerebbe ritenere, cioè, che la prassi

142. M. Heidegger, GA 2 p. 49, trad. it. p. 52. 143. P. Virno, Quando il verbo si fa carne, cit., p. 72.

381 umana sia giunta al punto da mettere esplicitamente a tema (e all’opera) le proprie condizioni di possibilità.144

Al contrario, le condizioni originarie, l’apriori esistenziale, la dimensione ontologica si temporalizza, di volta in volta, qui e ora (in e con ogni epoca determinata) nel “già non ancora”: il fatto dell’esistenza. La modalità in cui l’esserci, di volta in volta, è l’ente che è (le condizioni originarie) co-incide con ciò che qui e ora esso è (le condizioni permanenti), a patto di pensare questa coincidenza come squilibrio costitutivo, non essendo altro che lo scarto che in e con ogni epoca ed esperienza determinata può riemergere come tale, il contraccolpo della costitutiva nullità, il temporalizzarsi di quel “fatto” che è il “come”, che implica per questo il suo de-cadimento nel “cosa”, l’oblio dell’avvenire nel presente, del suo essere-stato. Possiamo solo accennare, (senza poter approfondire questo elemento che meriterebbe ulteriore studio), all’intreccio fenomenologico tra l’epoca della tecnica, la nostra, e il movimento dell’Ereignis, che può essere compreso come un’altra figura della coincidenza tra condizioni permanenti e condizioni originarie, improprio e proprio, cosa e come. Anche qui Virno ci offre un potente reagente per ridefinire la figura della performatività alla luce della fenomenologia: dal punto di vista fenomenologico, come abbiamo visto, il feticismo e il suo antidoto, improprio e proprio non sono affatto fenomeni irrelati, bensì modalità di temporalizzazione dello stesso. Nella prospettiva antropogenetica di Virno si tratta, invece, di processi non solo opposti ma indipendenti. Solo a partire da questo presupposto è possibile sostenere che le condizioni di possibilità dell’esperienza divengano nella nostra epoca «contenuto della prassi ordinaria»145. 144. Ivi, p. 74. 145. Ibidem.

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Al contrario, il Gestell, l’epoca della tecnica, secondo una prospettiva fenomenologica, è «il negativo fotografico dell’Ereignis»146. L’essere-nel-mondo propriamente tale, il modo in cui l’esser-ci di volta in volta riferito è a sé, al suo “che”, non coincide affatto con la nostra epoca; ma non coincide neppure con un’altra epoca (né perciò dobbiamo prepararci ad alcunché) – e ciò a partire dal significato di epoca: invio dell’essere che, nell’apertura della manifestatività dell’essente, inviandosi, si sottrae147. Il Dasein piuttosto si fa, accade, si temporalizza (das ereignis ereignet, possiamo dire usando la stessa costante “grammatica formalmente indicante”) in e con ogni epoca, è in senso performativo negativo. Ancora con Vitiello: «l’Ereignis non è l’epoca ventura al cui avvento ci dobbiamo preparare. L’Ereignis non appartiene al domani più di quanto non appartenga al passato. L’Ereignis è d’ogni tempo se per esso il tempo “è”. Ma se nel Gestell si pre-annuncia è perché il Gestell, la nientità dell’ente che è propria della tecnica moderna, è prossima al massimo al nulla del movimento.

146. M. Heidegger, Seminar in Le Thor 1969, GA 15 cit., p. 366, trad. it. p. 139. 147. «Das Denken steht dann in und vor Jenem, das die verschiedenen Gestalten des epochalen Seins zugeschickt hat. Dieses aber, das Schickende als das Ereignis, ist selbst ungeschichtlich, besser geschicklos. Die Metaphysik ist die Geschichte der Seinsprägungen, d. h. vom Ereignis her gesehen, die Geschichte des Sichentziehens des Schickenden zugunsten der im Schicken gegebenen Schickungen eines jeweiligen Anwesenlassens des Anwesenden. Die Metaphysik ist Seinsvergessenheit und d. h. die Geschichte der Verbergung und des Entzugs dessen, das Sein gibt. Die Einkehr des Denkens in das Ereignis ist somit gleichbedeutend mit dem Ende dieser Geschichte des Entzugs. […] Das besagt, daß der Entzug, der in der Gestalt der Seinsvergessenheit die Metaphysik kennzeichnete, sich jetzt als die Dimension der Verbergung selbst zeigt. Nur daß jetzt diese Verbergung sich nicht verbirgt, ihr gilt vielmehr mit das Aufmerken des Denkens» [corsivo mio]. M. Heidegger, Protokoll zu einem Seminar über »Zeit und Sein«, in Zur Sache des Denkens, cit. GA 14 p. 50.

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Prossima non nel senso della vicinanza spaziale o temporale, ma dell’intimità dell’essenza. Attraverso il Gestell, come attraverso un foglio sottile o una spoglia impalcatura, si vede la nullità dell’essere, la nullità dell’ac-cadere»148. Nel performativo medio e negativo non si tratta, dunque, dell’attualizzazione in ogni esperienza determinata, in ogni atto di parola, dell’indeterminatezza della potenza, non esaurendola ma tornando in essa, ma dello scarto, del ritardo, dello iato tra il poter-essere improprio (la possibilità determinata, poter-essere ‘reale’) e proprio (l’indeterminatezza non come virtualità ma come possibilità dell’impossibile: Unbezüglichkeit); è in gioco lo scarto tra il poter-essere determinato a partire da cui l’esserci è aperto a sé, in quanto “Si” e in vista di cui la totalità dell’essente viene rilasciata, e la possibilità certa, imminente, indeterminata, più propria perchè unbezüglich: la nullità che co-incide con la Unheimlichkeit, lo spaesamento, con il situarsi nel “fatto” dell’esistenza. Tra il “Sé” e il “Si” passa l’impersonalità dell’es zeitigt: la nullità del “fatto” di esser-ci, ossia uno scarto, uno squilibrio, una sconnessione. La possibilità in quanto nullità in cui co-incidono progettualità e gettatezza non è dunque l’assenza inscritta nel “non ora”, l’indeterminatezza della potenza di dire, sempre misurata alla sua realizzazione, bensì la costituiva estraneità, il limite immanente, ossia lo spaesamento come aver luogo del linguaggio. E perciò il carattere performativo negativo dell’apriori esistenziale. La temporalità originaria e autentica si temporalizza a partire dall’avvenire autentico in modo tale che esso, stato come adveniente (corsivo mio) prima di tutto susciti il presente. […]

148. V. Vitiello, Topologia del moderno, cit., p. 117.

384 L’esserci non ha una fine, raggiunta la quale semplicemente cessa, ma esiste finitamente.149

Non solo, dunque, ciclo e freccia, l’aspetto inattuale e quello saturo sono inestricabilmente legati, ma il tempo cairologico si dà sempre e solo in quello cronologico proprio in quanto tra il ciclo e la freccia c’è un salto, un vuoto, una sconnessione; il ciclo è spezzato, bucato, aperto da uno squarcio costitutivo: la nullità che trasforma, insieme, anche la gittata irreversibile della freccia, che non è la realizzazione inconvertibile nell’“adesso” del “non ora”, ma l’attimo, la ripetizione del chrónos.

149. M. Heidegger, GA 2 p. 436, trad. it. p. 391.

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Capitolo sesto L’impersonalità del performativo medio e negativo: le radici indicativo formali dell’hermeneúein

§1 Fenomenologia ermeneutica, un ossimoro. Note sul superamento del dualismo husserliano tra segno e segnale Soffermiamoci brevemente su quell’ossimoro costituito dall’espressione «fenomenologia ermeneutica» che, mentre contraddice «le cose stesse» cui mira, frapponendo tra esse e lo sguardo fenomenologico la distanza dell’interpretazione, nega l’ermeneutica, l’infinita dialettica di domanda e risposta con il richiamo alle «cose stesse». Cominciamo col dire, attraverso le parole di Jean Grondin, in che modo non si dà conto del senso di questo ossimoro: Vi è un modo semplice di illuminare il rapporto tra l’ermeneutica e la fenomenologia che si trova spesso nella letteratura su Heidegger, ma che mi sembra mancare di precisione. È l’idea secondo la quale i fenomeni con i quali la filosofia avrebbe a che fare sarebbero dei dati già impregnati di interpretazione. Fare ermeneutica consisterebbe nel ricordare che i fenomeni appartengono già all’ordine dell’interpretazione. In altri termini, Heidegger sosterrebbe che non vi

386 sono mai «cose stesse», ciò che in sé giustificherebbe l’entrata in scena di un’ermeneutica.1

Piuttosto, l’ossimoro inscritto in quest’espressione è profondamente legato al rapporto tra il fenomeno e il suo controconcetto, all’intreccio tra quel si mostra da sé e in sé stesso e quel che è coperto, contraffatto, nascosto. La chiave dell’enigma si trova, credo, nell’idea, spesso ricordata nel §7 [di SundZ], secondo la quale l’oggetto per eccellenza che deve occupare la fenomenologia si trova «dissimulato» (verborgen), si potrebbe anche dire «nascosto» (versteckt), «contraffatto» (verstellt) «coperto» (verdeckt) […]. Il non apparente che interessa Heidegger non appartiene a una qualsivoglia realtà intellegibile, a un retro-mondo infra-fenomenico, ma a un non apparente che ha interesse o del quale “si” pretende che abbia interesse a restare nascosto, celato. […] Il fatto è che questo fenomeno per eccellenza che resta per lo più verborgen (nascosto, dissimulato, coperto) non è, diceva Heidegger, meno essenziale a tutto ciò che si mostra, «in modo da esprimerne il senso e il fondamento» – Sinn und Grund!2

Come si legge nel §7 di Sein und Zeit: «Verdecktheit è il Gegenbegriff di “Phänomen”»3. Tuttavia, è proprio quel che innanzitutto e per lo più è nascosto, dunque proprio questo contro-concetto, a costituire «il senso e il fondamento»4 di ciò che si mostra, a «dover dunque diventare fenomeno»5, se – come è necessario ancora una volta sottolineare – «dietro ai fenomeni della fenomenologia non c’è assolutamente nient’al1. J. Grondin, L’ermeneutica in Sein und Zeit, in «Discipline Filosofiche», IX, 2, 1999, p. 159. 2. Ivi, pp. 160-161. 3. M. Heidegger, GA 2 p. 48, trad. it. p. 51. 4. Ivi, p. 47, trad. it. p. 51. 5. Ibidem.

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tro, a meno che non vi si celi qualcosa di destinato a divenire fenomeno»6. Inoltre, il rapporto tra il fenomeno e il suo contro-concetto, tra l’esser-nascosto, contraffatto, coperto e il mostrarsi da sé e in sé stesso del fenomeno è inscritto nel senso di Dasein che, essendo di volta in volta una modalità di rapporto, non è mai reale, non è mai semplicemente presente ma, qui e ora, di volta in volta, si fa, accade, si temporalizza, esiste: ossia ha essenzialmente a che fare con il non-apparente, con quel “fatto” nascosto, dissimulato, contraffatto, coperto che è il “come”; e ha a che con questo “fatto” non in maniera casuale o accessoria, ma è di volta in volta rimandato, rinviato, assegnato (angewiesen)7 a esso. «Il discorso rivolto all’esserci deve, in conformità alla struttura dell’esser-sempre-mio, propria di questo ente, far ricorso costantemente al pronome personale: “io sono”, “tu sei”. E di nuovo l’esserci è sempre mio in questa o quella maniera di essere (Weise zu sein) [corsivo mio]. L’esserci ha già sempre deciso in quale maniera sia sempre mio»8. In questo senso, «la determinazione dell’essenza di questo ente non può avere luogo mediante l’indicazione della quiddità (Was) di un contenuto reale»9. L’essere che qui è in questione e che deve diventare fenomeno è «essere come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale»10. Non altro significa la celebre tesi di Sein und Zeit «l’essenza dell’esserci consiste nella sua esistenza»11: «il termine “Esserci” […] esprime l’essere e non il che-cosa, come quando si dice pane, casa, albero»12. Ciò significa che il rapporto tra il Phänomen e il suo 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 117, trad. it. p. 113. 8. Ivi, p. 57, trad. it. p. 61. 9. Ivi, p. 16, trad. it. p. 25. 10. Ivi, p. 73, trad. it. p. 75. 11. Ivi, p. 56, trad. it. p. 60. 12. Ivi, p. 57, trad. it. pp. 60-61.

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Gegenbegriff, ciò che è innanzitutto nascosto, dissimulato, coperto, è inscritto nel Dasein e dunque – non può che essere così – anche in quella modalità d’essere (così come in ogni altra), in quella possibilità determinata che è la filosofia. Si tratta di pensare il senso di questo Gegen a partire dalla modalità in cui Dasein è riferito a sé, al suo “che”, a partire cioè dalla struttura dell’autoriferimento che lo contraddistingue; il “fatto” del “riferimento” a qualcosa, infatti, come abbiamo visto, non è altro che la dis-giunzione costitutiva tra sé e via da sé. Come afferma Grondin, riprendendo sia la formale Anzeige dei primi scritti friburghesi, sia l’espressione Weg-sein – due questioni che si sono rivelate cruciali per individuare la dimensione performativa negativa della fenomenologia: Dasein […] vuole dire «Nicht weg laufen», letteralmente: non scappare via, non tagliare la corda. […] Il Dasein è dunque meno l’esser-ci, cosa che è sempre vera in modo parziale, bensì è colui che può esser-ci, ma che – per lo più – non c’è precisamente. Accade che egli sia altrove. Heidegger ha parlato […] a questo proposito di un Wegsein! La formula è geniale e quasi più pertinente di Dasein. Il contrario di Dasein non è l’inesistenza, il non essere, ma proprio l’essere-altrove, l’essere distratto, l’essere lontano da sé.13

Il rapporto tra il Phänomen e il suo contro-concetto si inscrive, dunque, nella dis-giunzione costitutiva proprio/improprio. E ancora una volta è il senso del contro, del “no”, che non è né mancanza né assenza, a rivelarsi cruciale. Il coprimento, il nascondimento, l’esser-via, l’essere-altrove possono essere semplicemente rimossi grazie a quel «cammino attraverso i coprimenti»14 che è il percorso, il metodo della fenomenologia? In altri termini, qual è il rapporto tra quel “coprimento”

13. J. Grondin, L’ermeneutica in Sein und Zeit, cit., pp. 161-162. 14. M. Heidegger, GA 2 p. 49, trad. it. p. 52.

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che costituisce il senso e il fondamento di ciò che si manifesta – non l’ente «ma l’essere dell’ente»15 – e la necessità di ridestare la comprensione del senso dell’essere come problema? O – che è lo stesso – qual è il rapporto tra il Weg-sein, l’esserdistratto, via da sé, altrove, e il risveglio di Dasein a sé stesso? Non potendo sostituirsi al risveglio che tocca a ciascuno di noi l’ermeneutica del Dasein si accontenterà di indicazioni formali. La loro funzione è di dare notizia (è il significato di Kundgeben del §7 di Sein und Zeit, che sarà ripreso in Unterwegs zur Sprache allorché Heidegger chiarirà il senso della sua originaria ermeneutica) al Dasein delle strutture fondamentali di potenziale risveglio.16

Questo indizio di Grondin è davvero cruciale – e non, nel nostro caso, per sostenere che l’ermeneutica heideggeriana «è condizione di possibilità di un’etica»17 – ma per radicare il “risveglio” in una dimensione profondamente fenomenologica e gettare così luce sul senso fenomenologico dell’hermeneúein. La formale Anzeige18, infatti, in quanto “indicazione”, attira l’attenzione, rende desti, dà notizia, avverte, rende noto: allo stesso modo in cui «il logos della fenomenologia dell’esserci ha il carattere dell’hermeneúein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’esserci sono resi noti (kundgegeben) [corsivo nel testo] alla comprensione d’essere propria dell’esserci»19. Ecco che torna in primo piano il gesto inaugurale della fenomenologia: la separazione husserliana tra il segno espres-

15. Ivi, p. 47, p. 51. 16. J. Grondin, L’ermeneutica in Sein und Zeit, cit., p. 164. 17. Ivi, p. 165. 18. Sul senso della formale Anzeige e la sua elaborazione nei primi scritti friburghesi, compiuta in particolare in GA 60, si veda Infra, cap. II e III. 19. M. Heidegger, GA 2 p. 37, trad. it. p. 53.

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sivo – il significato – e il segnale (Anzeichen) che rende noto (Kundgeben) il significato obiettivo già costituito nell’espressione (Ausdruck). Sotto questa luce, il termine hermeneúein assume altri contorni, rimandando non tanto all’ordine dell’interpretazione ma alla Kundgabe, cioè al problema del segno, dell’espressione e del significato, rimandando insomma alla “prima scena” della fenomenologia. A mio avviso, inoltre, è molto significativo che il “risveglio”, il “ridestare” si inscriva nell’hermeneúein come Kundgabe e compaia anche nell’apertura di Sein und Zeit, affidata, com’è noto, al celebre passo del Sofista platonico; si tratta, infatti, proprio di “ridestare” (Wecken) quello stato di perplessità espresso dallo Straniero: È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete propriamente quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo, ma ora siamo caduti nella perplessità.20

«Ma noi, oggi – come suona l’ormai celebre commento heideggeriano – siamo almeno in uno stato di perplessità per il fatto di non comprendere l’espressione “essere”? Per nulla. È dunque necessario incominciare col ridestare la comprensione del senso di questo problema»21. A fronte, dunque, della provenienza radicalmente fenomenologica dell’hermeneúein vorrei provare a dar conto della modalità in cui il senso di questa Kundgabe, di questa formale Anzeige, risalga al di qua della distinzione husserliana tra segno e segnale, implicando parimenti la necessità di pensare la forma della verità a partire dal senso d’essere che va espresso con i pronomi personali; la verità esistenziale, infatti, non ha

20. Platone, Sofista, 244 a. 21. M. Heidegger, GA 2.

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la forma ideal-teoretica «S è P», né quella del performativo standard, che sottende l’autoriferimento performativo inscritto nella práxis aristotelica; e non coincide neppure con la potenza di dire reificata nell’atto performativo assoluto “io parlo”; bensì implica la diatesi media del performativo negativo, e ha come sottotesto, come “senso”, la forma impersonale: es gibt, es zeitigt, es weltet, das nicht nichtet, quella «grammatica formalmente indicante»22 che martella tutti gli scritti heideggeriani, dall’inizio alla fine. Vorrei provare, dunque, a pensare il senso dell’hermeneúein a partire dalla riformulazione del rapporto tra Bedeutung e Kundgabe tracciato da Husserl nella I Ricerca Logica. O meglio: si tratta di andare (al) di qua di questo dualismo, provando a far emergere, a partire dal fenomeno della “coscienza” – quel Gewissen con cui Heidegger traduce anche la phrónesis aristotelica – un fenomeno di significazione, un modo del discorso, che non ha né la forma della proposizione teoretica (l’operazione apofantica originaria «S è P»), né quella del performativo standard (la práxis aristotelica), bensì implica la “riflessività indessicale” emersa nel fenomeno della Stimmung, che sottende, assieme alla ridefinizione della figura della correlazione, il carattere impersonale di quel performativo medio e negativo che è il senso d’essere inscritto nell’«io sono», «tu sei», nell’esserci. A tale scopo, è necessario in primo luogo presentare la scena della I Ricerca, in cui Husserl si occupa di chiarire il rapporto tra “Espressione e significato”. Com’è noto – e come del resto ha analizzato in maniera radicale Derrida23 – in questo

22. Questa espressione è di T. Kisiel, The Genesis of Being and Time, cit. 23. J. Derrida, La Voix et le phénomène, PUF, Paris 1967, trad. it. a cura di G. Dalmasso, pref. C. Sini, postfazione V. Costa, La voce e il fenomeno, Jaka Book, Milano 2010.

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contesto, Husserl distingue tra il significare (Bedeuten) dell’espressione (Ausdruck) e l’indicare del segnale (Anzeichen), separando l’atto di conferimento di senso proprio del segno espressivo in cui si intende qualcosa tra sé e sé, e il rendere noto (Kundgabe) agli altri, nel contesto della comunicazione, il significato già costituito nella sfera immanente della coscienza. Ogni segno è segno di qualche cosa, ma non ogni segno ha un «significato», un «senso» che in esso «si esprime». […] Voglio dire che i segni nel senso di segnali (Anzeichen) (segni di riconoscimento, segni distintivi, ecc.) non esprimono nulla, a meno che, oltre alla funzione dell’indicare, non assolvano anche una funzione significante. […] Il significare non è una specie dell’essere-segno, intendendo il segno come indicazione (Anzeige).24

In queste poche proposizioni sono contenute quelle “distinzioni essenziali” su cui si basa l’intero progetto fenomenologico husserliano; non solo il segno espressivo va nettamente distinto dal segnale, e i due tipi di segno non sono affatto tra loro «in un rapporto di maggiore o minore estensione»25, ossia il segnale non è affatto il genere di cui quel peculiare segno che è l’espressione è specie; ma ciò che è cruciale nell’impostazione fenomenologica husserliana è il fatto che, sebbene «nel discorso comunicativo tutte le espressioni fungano da segnali, [poiché] all’ascoltatore […] servono come segni dei “pensieri” di chi parla, cioè dei suoi vissuti psichici significanti»26, sebbene, dunque, la funzione espressiva sia intrecciata con quella

24. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, Max Niemeyer, Halle 1901 p. 23, ed. it. a cura di G. Piana, Ricerche Logiche, Vol. I, Il saggiatore, Milano 2005, p. 292. 25. Ivi, p. 24, trad. it. p. 292. 26. Ivi, p. 33, trad. it. p. 300.

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che Husserl chiama funzione informativa, con la Kundgabe, è possibile individuare un caso in cui si ha a che fare con le sole espressioni, mettendo dunque “tra parentesi” – anticipando con Derrida il comparire dell’epochè – la funzione di Kundgabe con cui esse sono intrecciate: Le espressioni svolgono la loro funzione significante anche nella vita psichica isolata dove non fungono più come segnali.27

Ecco che compare la vita psichica isolata, quello spazio senza distanza in cui è possibile individuare il solo segno espressivo, la sola intenzione significante che intende tra sé e sé qualcosa, in modo tale che ciò che viene inteso nel segno espressivo sia assolutamente distinto da qualsiasi funzione indicante della parola, da quella funzione del segno linguistico che, in quanto segnale, rende noto il vissuto psichico nella comunicazione, la funzione informativa, la Kundgabe con cui l’espressione convive. In gioco è la possibilità di fissare significati obiettivi e, a partire da essi, volgendosi via da essi, rivolgersi al senso, all’eîdos, in quanto correlato dell’intuizione originariamente offerente; la posta in gioco è dunque lo stesso progetto fenomenologico husserliano. Eppure c’è un caso – analizzato dallo stesso Husserl – in cui segno e segnale si con-fondono, in cui cioè il significato, il segno, è espressivo (significa) solo se tiene in sé un “appellarsi”, un “rendere noto”, un indicare nel senso del segnale (la Anzeige della Kundgabe), che trova riempimento solo in situazione, nel contesto, dunque, del proferimento. È il caso di quelle che Husserl definisce «espressioni essenzialmente occasionali»28, che comprendono tutte le indessicali, le proposizioni interrogative, ottative, imperative, i pronomi personali, i deittici, gli avverbi di luogo, di tempo,

27. Ivi, p. 24, trad. it. pp. 291-292. 28. Ivi, p. 79, trad. it. p. 348.

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così come i performativi, i desideri, gli ordini, le preghiere, tutte quelle espressioni cioè del linguaggio quotidiano e non del linguaggio logico-teoretico. Il significato di queste espressioni «si appella all’ascoltatore: colui che hai di fronte intende sé stesso»29, riempiendosi in quanto indicante solo nel significato indicato e orientandosi «secondo l’occasione, la persona che parla e la sua situazione»30. Scrive Husserl: Già ogni espressione che contiene un pronome personale manca di senso obiettivo. La parola io designa di volta in volta una persona diversa, assumendo così un significato sempre nuovo. Si può decidere quale sia di volta in volta questo significato solo a partire dal discorso vivente e dalla circostanze intuitive che gli sono proprie.31

E tuttavia, secondo Husserl, «il contenuto che viene inteso in ogni caso determinato dall’espressione soggettiva che orienta il suo significato secondo l’occasione, è un significato idealmente unitario esattamente nello stesso senso in cui lo è il contenuto di un’espressione stabile»32.

29. Ivi, p. 83, trad. it. p. 351. 30. Ivi, p. 81, trad. it. p. 350. 31. Ivi, p. 82, trad. it. p. 350. Riportiamo gli esempi husserliani di espressioni essenzialmente occasionali: «Ciò che vale per i pronomi personali, vale naturalmente anche per i pronomi dimostrativi. Se qualcuno dice questo, non suscita direttamente nell’ascoltatore la rappresentazione di ciò che egli intende, ma anzitutto la rappresentazione o la convinzione che egli intenda qualcosa che si trova nel suo ambito dell’intuizione o del pensiero, su cui egli vuole richiamare l’attenzione dell’ascoltatore». Ivi, p. 83, trad. it. p. 352. […] Poco oltre: «Alla sfera delle espressioni essenzialmente occasionali appartengono inoltre le determinazioni riferite al soggetto qui, là, sopra, sotto, oppure ora, ieri, domani, dopo, ecc.». Ivi, pp. 84-85, trad. it. p. 353. Anche i «verbi impersonali del linguaggio comune offrono buoni esempi che dimostrano come espressioni apparentemente stabili e oggettive, […] siano in realtà soggettivamente fluttuanti». Ivi, p. 87, trad. it. p. 355. 32. Ivi, p. 90, trad. it. p. 357.

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E qui è il punto centrale: l’indicazione, il richiamare l’attenzione, il rendere noto, l’appello, «la funzione indicativa che in un certo senso si appella all’ascoltatore: colui che hai di fronte intende sé stesso»33, implica il fatto che il pronome personale io, secondo Husserl, sia «un segnale universalmente efficace»34, «il veicolo di una funzione indicativa»35 che, nella comunicazione, si avvantaggia del significato che l’io ha per sé stesso: Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzione di indici (Anzeichen) dell’esistenza (Dasein) di atti psichici, perché questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante (im Selben Augenblick).36

Al contrario, nella fenomenologia heideggeriana, si tratta proprio di rendere noto il senso d’essere – «l’infinito dell’io sono»37 – alla comprensione dell’esserci. Ancora una volta: «il logos della fenomenologia è un hermeneúein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’esserci sono resi noti [kundgegeben, corsivo nel testo] alla comprensione d’essere propria dell’esserci»38, al pari del senso dell’indicazione formale (formale Anzeige), il primo attrezzo fenomenologico, che ha «la funzione del richiamare l’attenzione – dall’esistenza […] e per essa – e co-determina la struttura del concetto»39.

33. Ivi, p. 83, trad. it. p. 351. 34. Ivi, p. 82, trad. it. p. 351. 35. Ivi, p. 83, trad. it. p. 351. 36. Ivi, pp. 36-37, trad. it. p. 303. 37. M. Heidegger, GA 2 p. 73, trad. it. p. 75. 38. Ivi, p. 37, trad. it. p. 53. 39. M. Heidegger, Phänomenologie der Anschauung und des Ausdrucks. Theorie der philosophischen Begriffsbilduung, GA 59, cit., p. 197, trad. it. p. 164.

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Inoltre, questa Kundgabe, l’hermeneúein, in quanto esistenziale, non è affatto separato dalla costituzione del significato, bensì nell’interpretazione, «la comprensione, comprendendo, si appropria di ciò che ha compreso. Nell’interpretazione la comprensione non diventa altra da sé, ma se stessa»40. Inoltre, «situazione emotiva e comprensione sono cooriginariamente determinate dal discorso»41: Ogni discorso sopra…, che comunica attraverso ciò-che-dice ha anche il carattere dell’esprimersi. Parlando, l’esserci si esprime; non perché sia dapprima incapsulato in un «dentro» contrapposto a un fuori, ma perché esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo, è già «fuori». Ciò che viene espresso è proprio l’esser-fuori, cioè il rispettivo modo della situazione emotiva (della tonalità emotiva) che, come abbiamo mostrato, investe in pieno l’apertura dell’in-essere. L’indice linguistico della manifestazione della situazione emotiva dell’in-essere da parte del discorso è costituito dalla cadenza, dalla modulazione, dal «tempo» del discorso, dal «modo di parlare».42

Mentre nella fenomenologia husserliana, come ha analizzato in maniera radicale Derrida, «solo l’Io compie il suo voler dire nel discorso solitario e funziona al di fuori di esso come un indice universalmente efficace»43 – l’io infatti vivendo nei suoi atti psichici si intende sempre e non ha dunque bisogno di rendersi noto (Kundgeben) alcunché – nella fenomenologia heideggeriana è in questione proprio il “risveglio”, il render(si) noto a sé. Il sé, l’ipseità non è affatto trasparente a sé stessa, ma proprio il contrario:

40. M. Heidegger, GA 2 p. 197, trad. it. it. p. 183. 41. Ivi, p. 177, trad. it. p. 166. 42. Ivi, p. 216, trad. it. p. 199. 43. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 108. In particolare si veda tutto il cap. III: Il voler-dire come soliloquio, pp. 63-80.

397 Innanzi tutto «io» non «sono» io nel senso del me-Stesso che mi è proprio, ma sono gli altri, nella maniera del Si. È a partire dal Si e in quanto Si che io, innanzi tutto, sono «dato» a me «stesso». Innanzi tutto l’esserci è il Si, e per lo più rimane tale. Se l’esserci scopre autenticamente il mondo e vi si inserisce, se apre a sé stesso il suo essere autentico, questa scoperta del «mondo» e questa apertura dell’esserci si realizzano sempre sotto la forma di rimozione dei velamenti e degli oscuramenti e come chiarificazione delle contraffazioni con cui l’esserci si occlude contro sé stesso44. […] Pertanto il chiarimento del fenomeno positivo dell’essere-nel-mondo quotidiano più vicino ci permette di scoprire le radici dell’interpretazione ontologica erronea di questa costituzione d’essere dell’Esserci. È tale costituzione stessa che, nel modo di essere della quotidianità, fallisce e nasconde sé stessa. […] L’autentico essere sé-Stesso non consiste in uno stato eccezionale del soggetto separato dal Si, ma è una modificazione esistentiva del Si in quanto esistenziale essenziale. Tuttavia la medesimezza del sé-Stesso che esiste autenticamente è separata da un abisso ontologico dall’identità dell’io che permane nel variare delle sue esperienze vissute.45

Secondo A. J. Escudero, uno dei pochi interpreti che ha affrontato questo problema46, le espressioni essenzialmente oc44. M. Heidegger, GA 2 p. 172, trad. it. p. 161. 45. Ivi, p. 173, trad. it. p. 162. 46. A. J. Escudero, Heidegger y la genealogía de la pregunta por el ser. Una articulación temática y metológica de su obra temprana, Herder, Barcelona 2010. La provenienza della formale Anzeige dalla espressioni essenzialmente occasionali husserliane è sottolineata anche da S. Lombardi, Il concetto di indicazione formale nei primi corsi friburghesi di Heidegger (1919-1923), «La Cultura», 3, 2006, pp. 503-530. Un altro prodromo della formale Anzeige e della sua dimensione di senso è la comunicazione indiretta di Kierkegaard. Su questo punto si è soffermato, nel testo sopra citato, Escudero, si vedano in particolare le pp. 396-410. Sul rapporto tra l’indicazione formale e la comunicazione indiretta di Kierkegaard rimandiamo anche a S. Hüsch, Langeweile bei Heidegger und Kierkegaard. Zum Verhältnis philosophi-

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casionali costituiscono dei precedenti della formale Anzeige e dunque – in base alla pista aperta da J. Grondin che stiamo seguendo – dello stesso hermeneúein come Kundgabe. Molto significativo è il fatto che l’indicazione formale venga sviluppata proprio a partire dall’analisi di tutte quelle espressioni il cui significato implica un costitutivo rimando al contesto, che sottendono dunque un intreccio ben più radicale di quello postulato da Husserl nella “distinzione essenziale” tra segno e segnale, tra la costituzione del significato nel segno espressivo e la sua comunicazione agli altri tramite gli indici, i segnali. Una traccia significativa in questa direzione è rappresentata dai continui richiami nei primi anni di rielaborazione della fenomenologia, (che approderanno all’ermeneutica della fatticità), alle espressioni in cui compaiono i pronomi personali47, e alle proposizioni impersonali48 e all’uso categorico del linguaggio49, esempi costanti attraverso i quali si articola il tentativo di sviluppare una modalità d’accesso alla sfera pre-teoretica: la fatticità della vita. Le espressioni essenzialmente occasionali husserliane e l’intreccio tra segno e segnale che in esse si profila offrono, dunque, certamente, un impulso significativo allo sviluppo della formale Anzeige, ma questa non può essere affatto identificata con quelle, poiché Husserl analizza le espressioni essenzialmente occasionali proprio per mostrare l’impossibilità di mettere in dubbio l’idealità del significato, questione su cui

scher und literarischer Darstellung, Francke, Tübingen 2014, in particolare pp. 176-191. 47. Oltre alle considerazioni già citate contenute in SundZ, segnaliamo i passi nell’edizione tedesca a cui facciamo riferimento. In particolare: M. Heidegger, GA60, p. 65; M. Heidegger, GA 9, pp. 29-30. 48. M. Heidegger, GA 58, p. 219. 49. M. Heidegger, GA 56/57, p. 93.

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si gioca l’espressione dei correlati essenziali colti nella visione d’essenza, quell’esercizio in prima persona che è l’habitus fenomenologico. Infatti, conclude Husserl: «a considerare più esattamente le cose, il fluttuare dei significati è propriamente un fluttuare del significare. Cioè, fluttuano gli atti soggettivi che conferiscono significato alle espressioni. […] Ma non mutano i significati stessi, anzi questo discorso è senz’altro un controsenso, se continuiamo a intendere i significati come unità ideali»50. A fronte, dunque, della necessità di separare espressione e comunicazione, segno e segnale, Husserl finisce per scavare uno iato tra il significato e il discorso. Per Husserl, in fondo, «altro l’eîdos, altra la parola, potremmo dire in breve»51. La formale Anzeige non coincide, dunque, con il segnale, inteso husserlianamente, né, parimenti, l’analitica esistenziale può essere intesa come un’ontologia regionale che esprime e insieme comunica in espressioni essenzialmente occasionali (le okkasionelle Ausdrücke husserliane), bensì in quanto fenomenologia ermeneutica esibisce la costitutiva promiscuità tra segno e segnale, Ausdruck e Kundgabe, ripensando la dimensione del senso a partire da quel segno (Anzeige) che è l’essere nel mondo per sé stesso.

50. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 91, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit. p. 359. 51. M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., p. 146.

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§2 Il Gewissen come controcanto al fenomeno husserliano dell’«ammonimento»? La formale Anzeige inscritta nell’hermeneúein Vorrei provare ad analizzare il fenomeno della coscienza, quel Gewissen con cui Heidegger traduce anche la phrónesis aristotelica52, il consigliarsi con sé stessi, provando a pensare l’«es ruft», ossia la dimensione di senso della “chiamata”, del “risveglio”, come un controcanto al fenomeno dell’“ammonimento” descritto (ed escluso) da Husserl nella I Ricerca, provando in tal modo a far emergere quel senso dell’hermeneúein come Kundgabe che risale (al) di qua del dualismo husserliano tra segno e segnale, esibendone la costitutiva promiscuità. Il fenomeno con cui la fenomenologia ermeneutica ha a che fare, infatti, è proprio il senso d’essere esistenziale – «essere come infinito di “io sono”»53 – quel senso d’essere che va sempre espresso con i pronomi personali e che non solo ha la forma dell’esser-sempre-mio l’un con l’altro ma, per essere compreso, implica una modificazione esistentiva, un cambiamento d’accento nella modalità di fenomenizzazione del fenomeno, chiamando in causa, dunque, una trasformazione immanente, un costitutivo rimando, qui e ora, a chi è nel mondo – ossia comprende, interpreta, parla, sente, ascolta, di volta in volta, proprio questa volta qui. Mi sembra un indizio rilevante, inoltre, che la riconfigurazione del senso della correlazione e della sua “espressione” sia affidata all’analisi di quel che l’interpretazione quotidiana conosce come «voce della coscienza»54, modalità del discorso che restituisce proprio il fenomeno dell’ammonimento descritto

52. M. Heidegger, GA 19 p. 56, trad. it. p. 99. 53. M. Heidegger, GA 2 p. 73, trad. it. p. 75. 54. Ivi, p. 356, trad. it. p. 325.

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da Husserl nella I Ricerca, analisi cruciale per separare il segno espressivo dalla Kundgabe e raggiungere così, nella sfera psichica isolata, l’espressione fenomenologicamente “ridotta”. Riportiamo il passo in cui Husserl compie – usando le parole di Derrida – la prima “riduzione”: In un certo senso si parla indubbiamente anche nel discorso isolato, ed è certo possibile in questo caso intendere se stessi come persone che parlano ed eventualmente anche che parlano a se stesse, così come quando, rivolgendoci a noi stessi, diciamo: «Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così». Ma in senso proprio, in senso comunicativo, in questi casi non si parla, non ci si comunica nulla, non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e che comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzione di segnali dell’esistenza di atti psichici, poiché questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante.55

Voglio riportare questo lungo e importantissimo passo tratto dal fondamentale studio che Derrida ha dedicato alla scena fondante della fenomenologia, cruciale per il tentativo di pensare il “risveglio”, il carattere di “chiamata” del Gewissen come quella formale Anzeige, quel rendere noto, «attirare l’attenzione»56, «rendere desti»57, che non solo costituisce il senso profondo dell’hermeneúein e si inscrive nel senso d’essere dell’esserci per sé stesso, risalendo (al) di qua del dualismo husserliano tra Ausdruck e Kundgabe, ma può dar conto del carattere impersonale della performatività negativa: 55. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., pp. 36-37, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 303. 56. M. Heidegger, GA 59, p. 197, trad. it. p. 164. 57. M. Heidegger, GA 29/30, p. 87, trad. it. p. 80.

402 L’esempio scelto da Husserl («Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così») deve dunque provare due cose contemporaneamente: che questa frase non è indicativa (e dunque è una comunicazione fittizia) e che essa non fa conoscere nulla del soggetto a lui stesso. Paradossalmente, essa non è indicativa perché, in quanto non teorica, non logica, non conoscitiva, non è nemmeno espressiva. Perciò essa sarebbe un fenomeno di significazione perfettamente fittizio. In tal modo si verifica quell’unità dello Zeigen prima della sua rifrazione in indice ed espressione [corsivo mio]. Ora la modalità temporale di queste frasi non è indifferente. Se queste frasi non sono frasi di conoscenza, ciò significa che non sono immediatamente nella forma della predicazione: esse non utilizzano immediatamente il verbo essere e il loro senso, se non la loro forma grammaticale, non è al presente: verbale di un passato in forma di rimprovero, esortazione al rimorso e alla riparazione. L’indicativo presente del verbo essere è la forma pura e teleologica della logicità dell’espressione. Meglio: l’indicativo presente del verbo essere alla terza persona. Piuttosto ancora: proposizione del tipo «S è P» nella quale S non sia una persona che si possa sostituire con un pronome personale, avendo quest’ultimo in ogni discorso reale un valore soltanto indicativo. Il soggetto S deve essere un nome e un nome di oggetto. E si sa che per Husserl S è P è la forma fondamentale e primitiva, l’operazione apofantica originaria da cui ogni proposizione logica deve essere derivata per semplice complicazione. Se si pone l’identità dell’espressione e della Bedeutung logica (Ideen I par. 24), si deve dunque riconoscere che la terza «persona» dell’indicativo presente del verbo essere è il nucleo irriducibile e puro dell’espressione. Di una espressione di cui Husserl diceva, si ricordi, che non era originariamente un «esprimersi», ma fin dall’inizio «un esprimersi su qualche cosa» (über etwas sich äussern, par. 7). Il «parlarsi» che Husserl vuole qui restaurare non è un «parlare tra sé e sé», a meno che quest’ultimo non possa prendere la forma di un «dir-si che S è P». È qui che bisogna parlare. Il senso del verbo «essere» (di cui Heidegger ci dice che la sua forma infinitiva è stata enigmaticamente determinata dalla

403 filosofia a partire dalla terza persona dell’indicativo presente) mantiene con la parola, cioè con l’unità della phonè e del senso, un rapporto molto singolare.58

«Hai agito male, non puoi continuare a comportarti così», il fenomeno dell’ammonimento, del rimprovero, restituisce per l’appunto l’interpretazione ordinaria della coscienza, che – con le parole di Heidegger – «innanzitutto e per lo più non fa che rimproverare e ammonire»59. Si tratta, nella prospettiva di Husserl, di un fenomeno di significazione puramente fittizio che, in modo del tutto paradossale, non è né indice né espressione: non si tratta di un segnale, di un indice perché, secondo il ragionamento60 husserliano, 58. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., pp. 110-111. 59. M. Heidegger, p. 370, trad. it. p. 333. 60. Su questo vorrei citare le considerazioni di Carlo Sini riportate e commentate da M. Adinolfi: «Quando si parla con se stessi, conclude Husserl, non si ha bisogno di indici o segni. Non è che la parola interiore faccia schermo e che io debba inferire da essa i miei stati d’animo. Questi li vivo direttamente e così pure i significati delle espressioni. Non ho bisogno di segni e di indizi per sapere che sto pensando quello che sto pensando; infatti sto direttamente vivendo il fatto che lo sto pensando. È strano che Husserl, che invita sempre a guardare ai fenomeni, in questo caso sembri averli osservati così poco. Anziché analizzare le espressioni come effettivamente fungono nei loro stati interni, le giudica dall’esterno, dal punto di vista degli indici o segni comunicativi. Se nella comunicazione esterna le espressioni funzionano e non possono che funzionare come indici, perché hanno una funzione comunicativa, tolta questa relazione esterna, e cioè prese nell’intimità del parlare a se stessi, non c’è ragione che esse continuino a essere indici. Con questo ragionamento la questione è liquidata e Husserl trascura di descrivere davvero la comunicazione interiore. Se l’avesse fatto, si sarebbe forse accorto di aver parlato del monologo interiore a partire dal dialogo esteriore, sicché ciò che egli dice del monologo è tratto dall’osservazione del dialogo, non dall’osservazione del monologo, il che è, quanto meno, filologicamente scorretto» C. Sini, Teoria e pratica del foglio-mondo. La scrittura filosofica, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 11. Così commenta Adinolfi: «In breve: se le parole servono per comunicare ad altri, allora, quando parlo a

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«nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzione di segnali dell’esistenza di atti psichici, […] questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo, gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante»61; ma il punto cruciale è che questa frase non è indicativa proprio perché, come afferma Derrida, «in quanto non teorica, non logica, non conoscitiva, non è nemmeno espressiva»62. E non è espressiva perché nel rimproverarsi, secondo Husserl, non si parla, non si esprime propriamente nulla. L’espressione infatti, secondo Husserl, «è un pronunciarsi su qualcosa», un «über etwas sich äussern»63, un esprimersi su qualcosa. Nel

me stesso, non funzionano più come segni comunicativi e quindi saranno dei segni espressivi. Si vede nel modo in cui è tratta la conclusione (se… allora) che si tratta di una costruzione raziocinante sopra i fenomeni stessi. Se davvero li osservassimo, come il metodo fenomenologico richiede, se prima di ragionarci su ci preoccupassimo davvero di “andare alle cose stesse”, ci accorgeremmo anzitutto che “è scorretto dire che io parlo a me stesso, che mi dico qualcosa. Ciò che davvero accade è che io vengo sorpreso dalla parola. Sono loro, le parole, che accadono e non un io che vuole dire qualcosa”. Già, se proviamo ad osservarci per davvero, non troviamo in nessun caso un “io” sospeso in uno spazio vuoto, non ancora abitato, occupato e pre-occupato dalle parole, che alle parole si rivolge come se esse stessero da qualche altra parte, in attesa di essere prelevate e messe in un discorso. Se stiamo veramente ai fenomeni e osserviamo quel che succede nella vita psichica, ci accorgiamo che sono piuttosto le parole che accadono. È molto più genuina, più schietta ed autentica, dunque, l’espressione che adoperiamo quando diciamo, ad esempio, “mi è venuta un’idea”, la quale vuol significare propriamente non che io penso, ma che un’idea è venuta a me». M. Adinolfi, Ermeneutica della comunicazione, cit., pp. 150-151. 61. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., pp. 36-37, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 303. 62. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 110. 63. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 32, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 299.

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rimprovero, al contrario, non si esprime nulla, bensì non si fa altro che rappresentare sé stessi come chi parla e comunica. Ma in tal modo – ancora con Derrida – «si verifica quell’unità dello Zeigen prima della sua rifrazione in indice ed espressione [corsivo mio]»64. Questa unità dello Zeigen prima della sua rifrazione implica però l’impossibilità di tracciare, con Husserl, la distinzione tra segno e segnale, mettendo in luce la costitutiva mancanza di trasparenza dell’ipseità che si esibisce nel fenomeno della coscienza, luogo chiave della fenomenologia heideggeriana. L’indicazione – la formale Anzeige – infatti, quel rendere desti, dare notizia, rendere noto, che si inscrive nel senso dell’hermeneúein, parla nella “chiamata della coscienza”, nell’es ruft: Un’analisi più approfondita della coscienza la rivela come chiamata. Il chiamare è un modo del discorso. La chiamata della coscienza ha il carattere del richiamo dell’esserci al suo più proprio poter-essere e ciò nel modo del risveglio al suo più proprio essere-in-colpa.65

In quel modo del discorso che è il chiamare, che si articola come un richiamo che risveglia, compare la costitutiva intimità tra la funzione del “rendere desti”, del «risvegliare»66 inscritta nella formale Anzeige, «il ridestare il problema dell’essere come problema» che compare nell’esergo di Sein und Zeit e l’hermeneúein, «attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’esserci sono resi noti [kundgegeben, corsivo nel testo] alla comprensione d’essere propria dell’esserci»67. Ed è proprio qui, a mio avviso, che si apre quello spazio di senso che si situa (al) di qua della

64. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 110. 65. M. Heidegger, GA 2 p. 358, trad. it. p. 322. 66. M. Heidegger, GA 29/30, p. 87, trad. it. p. 80. 67. M. Heidegger, GA 2 p. 37, trad. it. p. 53.

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distinzione husserliana tra indice ed espressione, quello Zeigen prima della sua rifrazione, la formale Anzeige che esibisce la loro costitutiva promiscuità. Il senso d’essere coinvolto nella Seinsfrage, infatti, è l’infinito dell’«io sono» «tu sei», quel senso d’essere che va sempre espresso con i pronomi personali, che in questo caso, tuttavia, non sono affatto segnali, indici degli atti che nella vita psichica isolata “vengono vissuti nel medesimo istante”. E non si tratta di indici, di segnali in senso husserliano proprio perché ad essere “bucata”, “sconnessa”, è la forma pura e teleologica della logicità dell’espressione, l’indicativo presente del verbo essere alla terza persona. Nei termini di Derrida: «il nucleo irriducibile e puro dell’espressione»68, la forma della Aussage «S è P». Quel modo del discorso, quella modalità di significazione che è il chiamare, il rendere desti, buca, fende la coincidenza di datità e modo di datità, il presente vivente dell’espressione, l’identità di sé con sé, spezzando il nucleo irriducibile e puro dell’«esprimersi su qualcosa»69. Leggiamo in tedesco questa frase cruciale che in una battuta chiarisce la dimensione di senso della chiamata: «Der ruft sagt nichts aus»70. La chiamata non ha la forma della Aussage, non ha la forma dell’“esprimersi su qualcosa”; a venir revocata è proprio l’operazione apofantica originaria «S è P», il nucleo eidetico dell’espressione husserliana a partire da cui viene elaborato anche il senso della Kundgabe. Possiamo concludere che l’analitica dell’esistenza non è, dunque, un’ontologia regionale che esprime e insieme rende noti i suoi atti che, in quanto espressioni essenzialmente occasionali, sarebbero anch’essi “significati indicanti” che 68. J. Derrida, La voce e il fenomeno, cit., p. 111. 69. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 32, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 299. 70. M. Heidegger, GA 2 p. 363, trad. it. p. 327.

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si riempirebbero nei significati indicati, in “situazione”, intesa husserlianamente come «circostanza di fatto»71, reale, psicologica. Al contrario, essa non lascia affatto intatta l’ontologia formale husserliana, che esprime e poi rende noti in significati obiettivi i correlati essenziali colti nella visione d’essenza; bensì l’analitica dell’esistenza, ossia la fenomenologia ermeneutica, lascia emergere quel fenomeno di significazione, quello Zeigen che si situa prima della sua rifrazione in Bedeutung e Kundgabe inscrivendo la Anzeige, l’indicazione, il rimando, il richiamo, il risveglio, nel senso d’essere dell’esser-ci per sé stesso, nel senso d’essere inscritto nell’“io sono”: quell’«hermeneúein, attraverso il quale il senso autentico dell’essere e le strutture fondamentali dell’essere dell’esserci sono resi noti (kundgegeben, corsivo nel testo) alla comprensione d’essere propria dell’esserci»72 e a partire da cui vengono in luce «le radici dell’interpretazione ontologica […] di questa costituzione d’essere dell’esserci»73. È infatti proprio il Si, il modo in cui «sono» innanzitutto dato «a me stesso» a dare conto dell’interpretazione ontologica dell’esserci come semplice presenza, e quindi (anche) del suo essere inteso come correlato dell’operazione apofantica originaria, la regione formale della Bewusstsein. È infatti proprio quell’esistenziale fondamentale che è il Si, è proprio «questa costituzione che […] fallisce e nasconde se stessa»74. La totalità del fenomeno della Cura, che ha la forma dell’esser-sempre-mio l’un con l’altro di volta in volta, è in questo senso «separata da un abisso ontologico dall’identità dell’io 71. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 81, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 350. 72. M. Heidegger, GA 2 p. 37, trad. it p. 53. 73. Ivi, p. 173, trad. it. p. 162. 74. Ibidem.

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che permane nel variare delle sue esperienze vissute»75; l’esser-sempre-mio l’un con l’altro presenta, piuttosto, una struttura triadica: non solo l’io non può affatto intenzionare i suoi atti nella vita psichica isolata, non li vive nel medesimo “istante” (Augenblick), dal momento che – lo ripetiamo ancora una volta – «è a partire dal Si e in quanto Si che io, innanzitutto, sono “dato” a me “stesso”»76, ma tra il Si-stesso (Man) e il séstesso (Selbst), tra il “nessuno” e l’esser-sempre mio l’un con l’altro di tutti e di ciascuno si inscrive un limite, una distanza che co-incide con il senso della possibilità, del “non” che è proprio dell’esserci: Es ruft. L’attimo non è affatto il presente vivente in cui si vive tra sé e sé e che, come ha analizzato Derrida, si avvantaggia di quel medium trasparente che è la voce77, bensì lo scarto, la sottrazione, il “non”, «l’esserci nel

75. Ibidem. 76. Ibidem. 77. L’accusa di logocentrismo mossa da Derrida alla tradizione della metafisica occidentale è strettamente connessa alla voce, in grado, secondo Derrida, di garantire, con la sua trasparenza, l’idealità del significato e la presenza a sé della soggettività metafisica. Una critica alla posizione derridiana sul tema della voce è sviluppata, a partire dalla prospettiva ermeneutica di Gadamer, da D. Di Cesare. Scrive Di Cesare: “L’idealità del segno intaccata dalla ripetizione del segno scritto non è […] meno intaccata dalla ripetizione del segno orale. Perché mai la phoné in quanto sostanza dell’espressione dovrebbe garantire meglio a un tempo l’idealità e la presenza vivente, meglio cioè della sostanza grafica? Questo potrebbe valere solo nel caso in cui la voce fosse assunta come “spiritualità del soffio”. Il che può essere ammesso per la voce fenomenologica, quella “carne spirituale” che continua ad essere presente a sé e a intendersi nell’assenza del mondo. Ma non può essere ammesso se si assume la voce nella sua corporeità empirica e nel suo nesso con l’articolazione, dunque con la scrittura. […] La complicità tra voce e idealità potrà sussistere […] per la voce che mantiene il silenzio nel dialogo interiore, ma non per la voce ermeneutica che è sempre anzitutto la voce dell’altro”.  D. Di Cesare, Ermeneutica della finitezza, Guerini, Milano 2004, pp. 99-100. Sul rapporto tra la fenomenologia ermeneutica di Heidegger e l’er-

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suo spaesamento»78: il risuonare di quell’azione alla diatesi media che è il farsi mondo del mondo, la riflessività indessicale inscritta nel fenomeno della Stimmung, il suo accadere impersonale, il suo Mitanklingen. Proviamo a dire: in tanto l’intimità di sé con sé del presente vivente, dell’“esprimersi su qualcosa”, dell’operazione apofantica originaria viene spezzata, in quanto il sé stesso è innanzitutto Si-stesso e lo è sul fondamento dell’autenticità possibile, sul fondamento dell’«“Es” [che] chiama»79, (e «chiama innanzi dentro la situazione»)80. §3 L’impersonalità del performativo medio e negativo: «es ruft» Si tratta a questo punto di analizzare quel modo del discorso, quel fenomeno della significazione, quello Zeigen che si situa prima della sua rifrazione in indice ed espressione lasciando emergere la riflessività indessicale, il rimando, l’azione verbale alla diatesi media inscritta nel performativo negativo «io sono». A partire da un’analisi più dettagliata dell’es ruft, vorrei provare a mostrare che l’impersonale costituisce la “forma”, il sottotesto di questo performativo medio e negativo. Non solo quel modo del discorso che è il chiamare sagt nichts aus, non è affatto un “esprimersi su qualcosa”, non ha la forma dell’operazione apofantica originaria «S è P» ma, anche in questo contesto, ritroviamo quella medesimezza, quella coincidenza di apertura e aperto, chiamante e chiamato, di fronte a che e per che, avvenire e essere-stato che è emersa nella

meneutica di Gadamer si vedano le fondamentali riflessioni di Donatella Di Cesare contenute nel testo sopra citato, in particolare pp. 35-68. 78. Ivi, p. 367, trad. it. 331. 79. Ivi, p. 366, trad. it. p. 329. 80. Ivi, p. 398, trad. it. p. 357.

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dis-giunzione costitutiva proprio/improprio che investe tutti gli esistenziali e che buca, in quel senso di negazione né privativo né negativo – il “non” in quanto “senso della possibilità” – l’autoriferimento dell’esser-ci a sé, al suo “che”, ridisegnando la figura e il senso del performativo. Con l’espressione «se-Stesso» abbiamo risposto alla domanda intorno al Chi dell’esserci. L’ipseità dell’esserci fu determinata come una maniera di esistere e non come un ente semplicemente-presente. Il Chi dell’esserci per lo più non lo sono io stesso, ma lo è il Si-stesso. L’esser se-Stesso proprio si determina come una modificazione esistentiva del Si.81

Non solo il Si-stesso è un «esistenziale e appartiene, come fenomeno originario alla costituzione positiva dell’esserci»82 e, anche in questo caso, il proprio, il sé stesso, non è altro che una modificazione esistentiva, immanente dell’improprio, un cambiamento d’accento nella modalità di fenomenizzazione del fenomeno, ma nel rapporto tra Si stesso e sé stesso non è affatto in gioco l’identità dell’“io”, bensì l’esser di volta in volta nel mondo. Al senso d’essere che va espresso con i pronomi personali appartiene infatti la spazialità esistenziale, in modo tale che il rapporto tra il Si e il Sé stesso implichi parimenti una riformulazione del senso del «qui», del «là», del «questo», del «quello». In gioco dunque non è affatto l’“io”, bensì il senso esistenziale di quelle che la grammatica chiama ‘preposizioni semplici’: il «di qualcosa», l’«a qualcuno», il «da qualche parte», l’«in un luogo», il «con qualcuno», il «lì su», il «per qualcosa», il «tra due», il «fra noi»; così come il senso degli avverbi di luogo, di tempo, delle proposizioni impersonali, delle esclamazioni, degli auguri, delle promesse; in questione è la dimensione di 81. Ivi, p. 355, trad. it. p. 320. 82. Ivi, p. 172, trad. it. p. 161.

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verità di tutte quelle espressioni che, in linguaggio husserliano, sono essenzialmente occasionali o, come i saluti, i silenzi, i gesti, la mimica – sempre da una prospettiva husserliana –­ «non hanno propriamente alcun significato»83. Questa è la dimensione della verità esistenziale: l’essere-nel-mondo. La ridefinizione dell’autoriferimento dell’esser-ci a sé, al suo “che” è l’indicazione (Anzeige), l’interpretazione (Auslegen), il “rendere noto” (Kundgeben), il “risveglio” dell’esser-ci a sé, ovvero il ridestarsi dell’intero contesto del proferimento, l’apertura della «situazione»84, che non è, come la intende Husserl, circostanza di fatto85, reale, psicologica né, come abbiamo visto, occasione opportuna – il kairos che intesse la práxis aristote83. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 31, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 298. 84. M. Heidegger, GA 2 p. 397, trad. it. p. 357. Il senso esistenziale di situazione non solo è delimitato negativamente rispetto alla circostanza, ma è esplicitamente riferito alla spazialità come Entfernung e all’apertura di Dasein: «In dem Terminus Situation (Lage – »in der Lage sein«) schwingt eine räumliche Bedeutung mit. Wir werden nicht versuchen wollen, sie aus dem existenzialen Begriff auszumerzen. Denn sie liegt auch im „Da“ des Daseins. Zum In-der-Welt-sein gehört eine eigene Räumlichkeit, die durch die Phänomene der Ent-fernung und Ausrichtung charakterisiert ist. Das Dasein »räumt ein«, sofern es faktisch existiert. Die daseinsmäßige Räumlichkeit aber, auf Grund deren sich die Existenz je ihren »Ort« bestimmt, gründet in der Verfassung des In-der-Welt-seins. Das primäre Konstitutivum dieser Verfassung ist die Erschlossenheit. So wie die Räumlichkeit des Da in der Erschlossenheit gründet, so hat die Situation ihre Fundamente in der Entschlossenheit. Die Situation ist das je in der Entschlossenheit erschlossene Da, als welches das existierende Seiende da ist. Die Situation ist nicht ein vorhandener Rahmen, in dem das Dasein vorkommt, oder in den es sich auch nur selbst brächte. Weit entfernt von einem vorhandenen Gemisch der begegnenden Umstände und Zufälle, ist die Situation nur durch und in der Entschlossenheit». Ibidem. 85. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., p. 81, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 350.

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lica inscritta nella phrónesis – ma si fa mondo (es weltet), potremmo dire usando la prima impersonale che compare negli scritti heideggeriani: non è altro che un rimbalzo, un contraccolpo, un’azione intransitiva e in questo senso “impersonale” nel suo accadere immanente, quel contraccolpo inscritto «nel terreno da cui l’indagine sorge e su cui alla fine si ripercuote (zurückschlägt)»86. Rileggiamo, dunque, le considerazioni di Heidegger sul senso d’essere dei pronomi personali: W. von Humboldt ha richiamato l’attenzione sulle lingue in cui l’«io» si esprime col «qui», il «tu» col «lì», l’«egli» col «là»; in cui, quindi, in linguaggio grammaticale, i pronomi personali sono resi con avverbi di luogo. È controverso se il significato originario delle locuzioni di luogo sia avverbiale o pronominale. La controversia cade nel nulla quando si osservi che gli avverbi di luogo si riferiscono all’io in quanto esserci. Il «qui», il «là» e il «lì» non sono primariamente determinazioni spaziali di un ente intramondano semplicementepresente in un luogo, ma caratteri della spazialità originaria dell’esserci. I presunti avverbi di luogo sono determinazioni dell’esserci, hanno quindi un significato originario esistenziale, non categoriale. Ma ciò non significa che siano pronomi; il loro significato è infatti anteriore alla distinzione tra avverbi di luogo e pronomi personali; il significato autenticamente spazio-esistenziale di queste espressioni documenta come una retta interpretazione dell’esserci veda immediatamente l’esserci nella sua «spazialità», cioè nel suo disallontanante e orientante «essere presso» il mondo di cui ci si prende cura.87

E ancora: «Nel “qui”, l’Esserci immedesimato col suo mondo non si volge verso sé stesso, ma, prescindendo da sé, si rivolge al “là” di un utilizzabile ambientalmente considerato, e coglie quindi sé stesso nella propria spazialità esistenziale»88. Pari86. M. Heidegger, GA 2 p. 51, trad. it. p. 54. 87. Ivi, pp. 159-160, trad. it. pp. 150-151. 88. Ibidem.

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menti: «in ciò di cui ci prendiamo cura nel mondo-ambiente incontriamo gli altri così come essi sono, ed essi sono ciò che vanno facendo»89. La dis-giunzione tra il Si stesso e il sé stesso è profondamente legata – a mio avviso ben più di quanto Heidegger abbia messo in rilievo – a quella “spazialità esistenziale” che è un annullare la distanza (Entfernung): tanto l’«io sono» quanto il «noi siamo» “sono” ciò che fanno, ciò a cui si rapportano, le cose presso cui si mantengono, poiché sottraendosi, esistendo in senso performativo negativo sono parimenti ri-chiusi nella dimensione constativa: essendo nel mondo, annullando cioè la distanza, l’esserci si comprende a partire da ciò che è più vicino, da ciò che ha disallontanato, obliando questo annullamento della distanza. In questo senso, «la costituzione del Si […] fallisce e nasconde se stessa»90. Si tratta dunque nient’altro che del rendere noto, dell’indicare, del risvegliare questa chiusura, questo essere via da sé, potremmo dire: questo annullamento della distanza in quanto tale. È proprio nel movimento di Entfernung, in cui si fa incontro l’ente sottomano, che il fenomeno esserci si temporalizza a partire dal far presente: l’accento della temporalizzazione cade cioè sulla dimensione del “che cosa”, sul senso di contenuto, sull’essere presso le cose, e il “fatto” della modalità, il “come”, la relazione, si oblia nell’aspettarsi: L’esserci comprende il suo «qui» a partire da «là» del mondo ambiente. Il «qui» non significa il «dove» di una semplicepresenza, ma il «presso che» di un dis-allontanante esserepresso… unitamente a questo dis-allontanamento stesso. In conformità con la sua spazialità, l’esserci non è mai innanzitutto «qui», bensì in quel «là» a partire dal quale esso ritorna

89. Ivi, p. 168, trad. it. p. 157. 90. Ivi, p. 173, trad. it. p. 162.

414 al suo «qui», e ciò, di nuovo, soltanto in quanto esso interpreta il suo esser-prendente-cura-di …a partire da ciò che «là» è utilizzabile.91

Essere nel mondo significa, in breve, «disallontanare [Entfernen], […] annullare (Verschwindensmachen) la lontananza [Ferne] […], significa avvicinamento. […] L’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza»92. E questa tendenza alla vicinanza, questo annullamento della lontananza, della distanza [Entfernung] è il suo essere familiare, quella prossimità che determina il senso esistenziale dell’essere nel mondo come «abitare presso…, avere familiarità con…»93. A mio avviso, a partire da qui, assume contorni più chiari anche quel modo del discorso che è l’es ruft, in cui è in questione proprio l’attestazione della dimensione di senso dell’intero “contesto esistenziale”, della Grundsituation, per usare le parole di Rentsch, quel fenomeno di significazione, quello Zeigen che si situa prima della sua rifrazione in indice ed espressione. Nella “chiamata” viene tematizzato il rapporto tra lo spaesamento, il non sentirsi a casa propria e la prossimità, il sentirsi a casa, la dis-giunzione costitutiva proprio/improprio, performativo/constativo, sé /Si. Della chiamata, in quanto modo del discorso, fa parte «ciò-dicui il discorso discorre. Il discorso informa su qualcosa e per un determinato riguardo. Da ciò su cui il discorso verte deriva ciò che il discorso dice in quanto è questo rispettivo discorso, ciò che è detto come tale»94.

91. Ivi, p. 144, trad. it. pp. 136-137. 92. Ivi, pp. 140-141, trad. it. pp. 133-134. 93. Ivi, p. 73, trad. it. p. 75. 94. Ivi, p. 362, trad. it. p. 326.

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Il punto cruciale è che il dictum di questo discorso, “ciò che è detto” non solo non è affatto il contenuto di un’asserzione – der ruf sagt nichts aus – dunque il chiamare revoca il primato dell’espressione (l’esprimersi su qualcosa del monologo husserliano) a partire da cui è pensata la Kundgabe, ma «al sé stesso richiamato non è detto “nulla”; esso è semplicemente ridestato a sé stesso, cioè al suo più proprio poter essere»95, «lo Stesso del Si-Stesso è richiamato»96. Nell’ammonimento, infatti, come ha sottolineato lo stesso Husserl, «non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che parlano e che comunicano»97. È proprio il modo di essere di questo “rappresentare sé stessi”, di questo esser-riferiti a sé, al proprio a “che” a venire in questione nella “chiamata della coscienza”. Ancora una volta il “chiamare” implica la dis-giunzione costitutiva proprio/improprio, performativo/constativo, sé/Si, sottende cioè la figura del performativo negativo, implicando qui e ora un cambiamento d’accento nella modalità di fenomenizzazione del fenomeno, una trasformazione immanente in chi è nel mondo. Mentre nel Si «il sentire e il comprendere sono attaccati anticipatamente a ciò che il discorso dice (das Geredete)»98, nella chiamata a venir interrotto e ritardato è proprio il riferimento a ciò che è detto, questo “essere attaccati a”, questo de-cadimento nel “dictum”. «Ma in che consiste ciò-che-viene-detto (das Geredete) in questo discorso? Che cosa dice la coscienza nel suo

95. Ivi, p. 363, trad. it. p. 327. 96. Ivi, p. 362, trad. it. p. 326. 97. E. Husserl, Logische Untersuchungen. Untersuchungen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, cit., pp. 36-37, trad. it. Ricerche Logiche, Vol. I, cit., p. 303. 98. M. Heidegger, GA 2, p. 223, trad. it. p. 207 [cors. mio].

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chiamare il richiamato? A rigor di termini, nulla»99. Il dictum (das Geredete) della chiamata non è dunque alcun contenuto mondano, alcuna significatività, alcuna Tatsache; tuttavia, questa indeterminatezza del senso di contenuto, del dictum, non implica che la chiamata non abbia nulla da dire, bensì il suo dictum co-incide con «la direzione precisa del suo appello»100, con la modalità cioè in cui l’appellare, il chiamare è riferito a sé, al suo “che”. Dal senso di contenuto, in cui si è già sempre assorbiti in ciò che è detto, l’accento della fenomenizzazione del fenomeno passa al “fatto” del “come”, all’aver luogo del discorso come esistenziale fondamentale, come modalità di esserci, che accade qui e ora – cooriginariamente a tutti gli esistenziali – proprio questa volta qui. Così, a mio avviso, va inteso il “richiamo allo Stesso nel sistesso” che, infatti, «non sospinge quest’ultimo dentro di sé nel senso di un’interiorità che lo separerebbe dal “mondo esterno”»101. Tra il Si a partire da cui sono “dato” a me stesso, l’improprietà, e il proprio “sé” stesso si inscrive il Dass: es ruft. L’indeterminatezza e l’indeterminabilità che caratterizzano il chiamante non sono un nulla, ma una sua determinazione positiva. Esse attestano che il chiamante consiste nel puro e semplice «risvegliare a…» e che solo in quanto tale vuol essere sentito.102

Ciò che la chiamata dice, il contenuto di questo discorso, il suo dictum, co-incide dunque con la modalità in cui chi chiama (il chiamante) è riferito a sé, al suo “che”.

99. Ivi, p. 363, trad. it. p. 327. 100. Ivi, p. 364, trad. it. p. 327. 101. Ivi, p. 363, trad. it. p. 327. 102. Ivi, p. 365, trad. it. p. 328.

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Ed è qui che l’identità dell’io, il Selbst che si costituisce nell’espressione, nell’esprimersi su qualcosa, “quella vicinanza al cui interno non c’è alcuna distanza”, quel vivere nel medesimo istante i propri atti, viene spezzata: il “chi”, il chiamante co-incide con il “dass” di un’azione verbale, con “il risvegliare a”: l’es, dunque, non è un pronome neutro che possa fungere da soggetto del chiamare, bensì, riprendendo le analisi sopra citate, è la stessa distinzione tra pronome e avverbio di luogo a cadere, ad essere pensata a partire dalla spazialità esistenziale, a partire da quel luogo-non-luogo, da quell’“annullare la distanza” che è esser-ci. «Qualcuno» chiama, contro la nostra attesa e contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata non proviene certamente da un altro che sia nel-mondo-insieme a noi. La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me. Questo reperto fenomenico non può essere cancellato.103

Il chiamare, il cui contenuto co-incide con il riferimento a sé stesso, “con la direzione dell’appello”, con l’accadere dell’azione verbale del “risvegliare a” «viene da me e tuttavia da sopra di me»104. Non solo la dimensione di questo discorso non si situa in una dimensione constativa, non è affatto un’azione transitiva: «la chiamata non è mai né progettata né preparata né volutamente effettuata da noi stessi»105 – poiché, potremmo dire, è proprio nell’accadere del chiamare, nel risvegliare a, nella riflessività indessicale di questa azione verbale che si dà (es gibt) quel selbst inscritto nel noi stessi; ma il punto cruciale è, a mio avviso, come vada inteso quell’avverbio di luogo che è il «sopra» (di me) da cui la chiamata proviene. 103. Ivi, pp. 365-366, trad. it. p. 329. 104. Ibidem. 105. Ibidem.

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Non solo il «sopra» non può essere identificato con una potenza estranea: «seguendo tale direzione interpretativa si finisce per ipotizzare dietro quella potenza un possessore, o per assumerla senz’altro come la manifestazione di una persona (Dio)»106. D’altra parte il “chiamare”, il “sopra di me” che indica la provenienza della chiamata, il carattere performativo negativo del “fatto” di esserci, la sua riflessività indessicale, non può neppure essere semplicemente respinto dando «alla coscienza una spiegazione semplicemente biologica»107, identificandola, come fa ad esempio il performativo assoluto di Paolo Virno, con la “dýnamis biologica”, la facoltà di linguaggio: «entrambe queste interpretazioni saltano […] il contesto fenomenico. Esse sono guidate da un implicito presupposto ontologico di ordine dogmatico: ciò che è, ossia ciò che è in modo effettivo come lo è la chiamata, deve essere una semplice presenza; ciò che non può essere oggettivamente mostrato come semplice presenza non è»108. Ma il chiamare non parlando per asserzioni non dice nulla sulla presenza o l’assenza di un soggetto che chiama, né sull’assenza o lo presenza di una dýnamis biologica, bensì il contenuto di questo discorso non è altro che il costitutivo riferimento del discorso a sé stesso, il suo stesso aver luogo. Es ruft, in quanto azione verbale intransitiva, in quanto “risvegliare” coincide in tutto e per tutto con la struttura fenomenologia della Stimmung, con l’Angst, in cui risuona quella Entfernung, quell’annullamento della distanza in quanto tale – lo spaesamento – che fa sì che ci si senta a casa, ci si orienti. Possiamo provare a dire: il «sopra» di me (l’avverbio di luogo) co-incide dunque con l’“es” (il pronome). O meglio, «il loro si106. Ibidem. 107. Ibidem. 108. Ibidem.

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gnificato è anteriore alla distinzione tra avverbi di luogo e pronomi personali; il significato autenticamente spazio-esistenziale di queste espressioni documenta come una retta interpretazione dell’Esserci veda immediatamente l’esserci nella sua “spazialità”»109. Spazialità esistenziale che è primariamente Stimmung: «il fatto che l’esserci ci sia effettivamente»110: «l’originario e gettato essere-nel-mondo come non sentirsi-a-casa-propria, il nudo “fatto che” nel nulla del mondo»111. E qui, ancora una volta, emerge la riflessività indessicale, il carattere performativo negativo inscritto nel fenomeno dell’Angst, quell’esser-medesimo, quella co-incidenza di apertura e aperto che pervade la chiamata stessa: «la chiamata pone l’esserci innanzi al suo poter-essere, e ciò in quanto chiamata che viene dallo spaesamento», in cui «il da dove-viene la chiamata […] coincide con il verso-dove del richiamo»112. Nell’identità di sé con sé, nel Selbst, nella figura della correlazione, ossia nel riferimento dell’esser-ci a sé, al suo “che”, si inscrive ancora una volta quell’annullamento della distanza che coincide con il senso del “non” che ha guidato il nostro tentativo di ripensare il performativo113. La colpa che la chiamata dà a comprendere, nella medesimezza di chiamante e 109. Ivi, p. 160, pp. 150-151. 110. Ivi, p. 367, trad. it. p. 330. 111. Ivi, p. 367, trad. it. p. 331. 112. Ivi, p. 372, trad. it. p. 335. 113. Sul luogo della negatività e il significato di shifter di Da-sein – che indica l’aver luogo del linguaggio – si è soffermato G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 2008. Dà da pensare la tesi di Agamben, ovvero l’impossibilità di superare la metafisica radicalizzando la negatività, ossia l’articolazione tra l’essere mortale e parlante dell’uomo che si realizza nella voce come voce tolta, silenzio o gramma. La domanda che resta aperta è se il non-luogo in cui accade il linguaggio – il nulla e in nessun luogo a cui Dasein è consegnato nella Stimmung – possa essere lasciato o non vada, piuttosto, differentemente abitato.

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chiamato, «verso dove» e «da dove» del chiamare, mette ancora una volta in scena il senso della nullità, quell’azione verbale che accadendo qui e ora, sottraendosi, nullificandosi, parimenti si dimentica di sé, si copre, quella nullità che pervade tanto la struttura del progetto quanto quella dell’essere gettato ed è «il fondamento della possibilità della nullità dell’esserci non-autentico»114: Il sé-Stesso, che come tale ha da porre il fondamento di sé stesso non può mai insignorirsi di questo fondamento; ma, esistendo, ha da assumere l’esser-fondamento. […] Esso non è mai esistente davanti al proprio fondamento […]. Essendo sé-Stesso, l’esserci è l’ente gettato che è in quanto è sé stesso; non è in virtù di sé stesso, ma è lasciato essere in sé stesso a partire dal fondamento, per aver da essere questo fondamento.115

Parimenti: essendo come poter-essere, l’esserci è sempre nell’una o nell’altra possibilità; non è mai e l’una e l’altra. Il progetto in quanto sempre gettato, non è soltanto determinato dalla nullità del fondamento, ma è essenzialmente nullo in quanto progetto.116

A partire da qui, possiamo provare a pensare la “forma” della verità esistenziale, il sottotesto del performativo medio e negativo: «Es ruft mich» è un’espressione eminente dell’Esserci. La chiamata, emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’esserci possa progettarsi nel suo poter-essere più proprio.117

114. Ivi, p. 378, trad. it. p. 339. 115. Ivi, p. 377, trad. it. p. 339. 116. Ivi, p. 378, trad. it. p. 340. 117. Ivi, p. 368, trad. it. 331.

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La nostra tesi suona: es ruft non è altro che l’indicazione, il rendere noto, il richiamare l’attenzione a quell’azione verbale che, nel suo accadere qui e ora, per contraccolpo, risveglia il mich e il mit di tutti e di ciascuno: il Selbst nel e del Si stesso. La voce della coscienza, infatti, «chiama nel modo spaesante del tacere»118; «lo spaesamento è il modo fondamentale dell’essere-nel-mondo. […] L’esserci stesso – come coscienza – chiama dal profondo di questo suo essere»119. Il silenzio della “voce della coscienza”, l’afonia, non è allora il taciturno “dialogo con sé stessi”, “il presente vivente dell’espressione” che, come ha mostrato Derrida, si avvantaggia di quel medium trasparente che è la voce per vivere i suoi atti nel medesimo istante (Augenblick), bensì indica l’afonia della Stimmung, che è afona perché non è voce significante, phoné, Verlautbarung, ma l’attimo (Augenblick) del risuonare del mondo, quel mitanklingen che abbiamo incontrato nel ’19: l’es weltet e mitanklingen del Selbst, quell’annullamento della distanza che coincide con lo spaesamento, con non sentirsi a casa propria. Il silenzio, l’afonia dello spaesamento, non coincide neppure con l’afasia della potenza di linguaggio sottesa al performativo assoluto di Virno, indeterminata, potenziale, poiché biologicamente sprovvista di un codice, di uno spartito predefinito, quell’afasia da cui ci si riscatta ancora una volta, di volta in volta, attualizzando a voce alta nell’atto di parola la dýnamis, la potenza di dire. Il silenzio dello spaesamento, infatti, «dà a comprendere»120, non “intende”, non “vuole dire”, ma “intona”, implica cioè il situarsi nel mondo, quel contraccolpo in cui l’esserci è aperto a sé con, in e come Stimmung. Nella Stimmung emerge la costitutiva promiscuità tra espressione e comunicazione, voler dire e dire: il “come” si esibisce nella 118. Ibidem. 119. Ibidem. 120. Ivi, p. 371, trad. it. p. 334.

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propria modalità di manifestazione, il “fatto” della sottrazione. La colpa di cui parla ammonendo la coscienza – «hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così», quel fenomeno che Husserl ha come tale messo da parte – è proprio il carattere esistenziale del «non».

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Bibliografia e abbreviazioni

Vengono citate dall’edizione completa le opere di M. Heidegger, Gesamtausgabe, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main. Viene utilizzata l’abbreviazione “GA” seguita dal numero dell’edizione tedesca e dal numero di pagina. Quando disponibile, è indicata anche la corrispettiva edizione italiana, con l’abbreviazione “trad. it.”, seguita dal numero di pagina relativo all’edizione italiana. Laddove compaia la sigla “trad. mod.”, si riferisce alla modifica della traduzione italiana, la cui edizione è indicata in bibliografia. Piccole modifiche alla traduzione italiana delle opere di Heidegger ai fini della omogeneità del testo (l’uso delle maiuscole e la punteggiatura) sono state apportate senza ulteriori segnalazioni. Le traduzioni delle opere di Heidegger non disponibili nell’edizione italiana sono di chi scrive. GA 1 Frühe Schriften (1912-1917) 1972, ed it. a cura di A. Babolin, Recenti ricerche sulla logica, in Scritti filosofici (1912-1917), La Garangola, Padova 1972. GA 2 Sein und Zeit (1927) 1977, ed. it. a cura di F. Volpi sulla traduzione di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2005.

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448

449

Indice Prefazione di Vincenzo Vitiello

p. 11

Introduzione

p. 27

Capitolo primo La dimensione di senso del discorso fenomenologico: la verità performativa della fenomenologia

p. 35

Premessa La performatività negativa della prassi fenomenologico-ermeneutica: la struttura dell’autoriferimento tra temporalità paolina e práxis aristotelica

p. 111

Capitolo secondo La performatività negativa della fatticità

p. 129

Capitolo terzo Con-aversi: il negativo fotografico del Cogito

p. 215

Capitolo quarto La rottura della práxis aristotelica: la riformulazione del performativo

p. 255

Capitolo quinto Stimmung e intransitività dell’essere: il carattere «medio» del performativo negativo

p. 311

Capitolo sesto L’impersonalità del performativo medio e negativo: le radici indicativo formali dell’hermeneúein

p. 385

Bibliografia e abbreviazioni

p. 423

450

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 5 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788898694846

Dalla prefazione di V. Vitiello: Due gli aspetti, o momenti, di questo lavoro: l’uno ‘storico-critico’, fondamentale per comprendere, con la formazione, l’esito della filosofia di Heidegger; l’altro, ‘teoretico’, concernente il passaggio dal ‘contenuto’ del pensiero e del linguaggio alla loro ‘pratica’. Un mutamento radicale che riporta la filosofia alla sua dimensione originaria: l’esistenza, fuori della tradizionale partizione “vita-riflessione”, “io-mondo”, “soggetto-oggetto”. I due aspetti, o momenti, di questo studio si richiamano a vicenda, per cui se l’intento propriamente teoretico – il concetto di “performatività negativa” – regge l’intera ricostruzione storica, questa a sua volta costituisce il terreno su cui quella concezione poggia, avendo avuto in quel pensiero la sua prima origine. Lucilla Guidi si è laureata all'Università la Sapienza di Roma e ha conseguito un dottorato binazionale tra l'Italia e la Germania. Post-dottoranda presso la cattedra Praktische Philosophie-Ethik, svolge attualmente ricerca presso la Technische Universität di Dresda. È autrice di numerosi articoli sul tema della prassi in Heidegger, Arendt e Wittgenstein, apparsi su riviste italiane ed internazionali.

€ 14,00