Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile 9788885716384, 9788885716391

"Sessant'anni fa fu ucciso il maggiore filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile. A differenza del suo

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Un pensiero sublime. Saggi su Giovanni Gentile
 9788885716384, 9788885716391

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Massimo Donà

Un pensiero sublime Saggi su Giovanni Gentile

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 7 - Classici

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Massimo Donà

Un pensiero sublime Saggi su Giovanni Gentile

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

© 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 7 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716384 ISBN – E-book: 9788885716391 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Sacra eleganza © Massimo Donà, 2018

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A Emanuele Severino, per tutto quello che mi ha insegnato. Infinitamente grato.

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13 «Sessant’anni fa fu ucciso il maggiore filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile. A differenza del suo fraterno nemico, Benedetto Croce, Gentile fu dannato nella memoria accademica e civile perché fu fascista e da fascista fu ministro della Pubblica istruzione, ispiratore della dottrina fascista, impresario di cultura. Ma di lui non si ricorda un solo atto di intolleranza: mai condivise la persecuzione degli antifascisti, che anzi protesse e portò a collaborare all’Enciclopedia e alla pubblica istruzione, criticò le leggi razziali e fu detestato dai razzisti, non amò l’alleanza con Hitler. E produsse una grande riforma della scuola, promosse la più grande impresa culturale del nostro Novecento, l’Enciclopedia italiana, guidò le massime istituzioni culturali italiane e scrisse opere destinate a restare nei classici del pensiero. Fu ucciso perché non volle cambiare idea né tirarsi indietro di fronte alle responsabilità, al punto da accettare dopo anni di emarginazione dal regime, di assumere la guida dell’Accademia d’Italia al tempo della Repubblica sociale, in piena guerra civile. Pochi mesi prima aveva scritto: «Il coraggio civile è la ferma fedeltà alla propria coscienza nel parlare e nell’agire secondo i suoi dettami, assumendosene di fronte agli altri tutta la verità». Infine rivolse, pochi mesi prima di morire, dal Campidoglio, un discorso a tutti gli italiani con un appello accorato alla concordia e al superamento delle fazioni che suscitò l’ammirazione di molti italiani ma anche le ire di fascisti e antifascisti intransigenti. Gentile pensò il fascismo come il braccio secolare dell’Italia; il fascismo passa, l’Italia resta. Ma noi non abbiamo ancora fatto i conti con Gentile e viviamo sulle tracce di quel parricidio rituale che fu consumato non solo nel rito di sangue del 15 aprile di 60 anni fa, ma ancor più negli esorcismi e amnesie degli anni seguenti. Rimozione totale di quel che Gentile ha fatto e scritto pur avendo lasciato una traccia profonda nella cultura italiana» Marcello Veneziani, Gentile, un’eredità da rilanciare, ne «Il Messaggero», 4 marzo 2004.

14 «Se un merito filosofico va attribuito a Gentile è quello di aver definitivamente liberato l’idealismo da ogni residuo di idea di fondamento e da ogni supina accettazione della concezione del soggetto, propria della filosofia moderna. Ora non si tratta, dal crinale speculativo conquistato da Gentile, di “tornare indietro”, di abbandonare la posizione, ma di guardare in direzione di nuove prospettive capaci di indurre il superamento della dimensione meramente gnoseologica dell’attualismo. Allo scopo sarebbe necessario, a nostro parere, porsi all’ascolto delle due più originali e potenti vie transattualiste proposte agli uomini del secolo scorso, ma attualissime, quelle di Julius Evola e di Andrea Emo» Giovanni Sessa, A settant’anni dalla morte di Giovanni Gentile, in «Totalità.it».

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Immediatezza e negazione Giovanni Gentile: di un aporetico pensare

La concezione di Gentile, pensata a fondo, va a postulare l’Io come principio metarazionale di assoluta, arbitraria libertà… mentre nel G ­ entile quella funzione (l’atto puro) resta un ché di vuoto e di in sé indistinto, una notte.1

Sta per concludersi il Diciannovesimo secolo; è il 27 dicembre 1899, e il non ancora venticinquenne Giovanni Gentile scrive l’ennesima missiva a Benedetto Croce (di nove anni più anziano di lui). Gli scrive da Campobasso, e prende posizione a proposito di una questione che li vedeva in radicale disaccordo, e intorno alla quale i due si stavano confrontando in modo molto puntuale e preciso. Una questione della massima rilevanza, anche se apparentemente molto tecnica e particolare: la questione del rapporto tra “pensiero” ed “espressione”. In una lettera spedita al giovane filosofo di Castelvetrano solo qualche giorno prima, Benedetto Croce aveva affermato che «nell’atto che lo spirito esprime non pensa, e nell’atto che

1. J. Evola, Saggi sull’idealismo magico, Edizioni Mediterranee, Roma 2006, p. 127.

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pensa non esprime»2. Certo, Croce s’era anche premurato di precisare che: «ogni pensiero si concreta in un’espressione; ma in quanto diventa espressione cessa di essere pensiero»3. Di questa presa di posizione, il giovane Gentile confessa di non riuscire a comprendere il senso. Egli non capisce come Croce possa davvero pensare che il pensiero sia antecedente l’espressione. A lui, infatti, sembra massimamente evidente anzitutto questo: che, «se il pensiero si concreta nell’espressione, allora il pensiero avanti all’espressione non sia nulla»4. Il pensiero senza espressione è ai suoi occhi una pura astrazione; così come lo è (una pura astrazione) l’espressione a prescindere dal pensiero che vi si esprime, appunto. Sì perché, ogni volta che un’espressione viene a costituirsi come tale, “qualcosa” deve pur venire ad esprimersi. Questo o quel determinato “contenuto”, un pensiero… per l’appunto. Così come anche il contenuto non è in alcun modo rinvenibile se non per il tramite di un’espressione che sarà ‘sua’, in quanto solo per il suo tramite riconoscibile appunto come semplice ‘contenuto’. Insomma, per Gentile «l’astratto nasce come prodotto dell’analisi, che si esercita sull’organismo della realtà, che è concreta, reale appunto nel suo organismo»5. Per il filosofo di Castelvetrano, infatti, l’atto del pensare è un che di originariamente esprimentesi; esprimentesi, appunto, come atto del pensare – quello in cui, ad esprimersi, sarà, ab 2. B. Croce - G. Gentile, Carteggio. Vol. I (1896-1900), Aragno, Milano 2014, p. 320. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 323. 5. Ibidem.

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origine, un determinato contenuto. Come a dire che il contenuto è sempre contenuto di un’espressione e l’espressione indica sempre l’esprimersi di un determinato contenuto. Perché l’atto è unico; a costituirsi essendo sempre e comunque un unico atto in cui “qualcosa-si-esprime”. La struttura è la stessa che tiene insieme, nel modo specifico in cui tali determinazioni si tengono insieme, l’apparire e quel che appare. Insomma, non si dà mai un apparire che non sia apparire di qualcosa; così come non si dà mai un qualcosa se non in forza del suo apparire. Perciò ogni cosa è riconoscibile sempre e solamente in virtù del suo apparire; in quanto appare, dunque, e solo in quanto appare, ogni cosa è cioè riconoscibile come contenuto dell’apparire. Certo, Gentile sa bene che è l’analisi a consentirci di distinguere l’apparire dalla cosa di cui esso sarebbe appunto l’apparire. Ma sa anche che, a poter essere distinto è sempre e solamente quel che in rebus non è mai distinto – in senso proprio. Nel senso che, ad apparire, è sempre e comunque il negarsi di una certa distinzione – come quella tra l’apparire e il suo contenuto. A dire, però, anche questo: che quel che non è mai astrattamente distinto, può apparire come tale (ossia, come negazione della distinzione) solo in relazione ad una effettiva distinzione di cui potersi appunto configurare come originaria “negazione”. Lo stesso dicasi a proposito del rapporto “espressione-pensiero” – d’altro canto, neppure «un sentimento si può pensare», rileva Gentile, «senza esprimerlo, e senza saperlo esprimere: e poi, che cosa potrà mai voler dire che io ci ho un’idea e non so esprimerla?»6.

6. Ivi, p. 324.

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Ancora una volta, l’eterna questione dell’identità e della differenza – con cui il giovane Gentile non poté evitare di tornare a fare i conti, mostrando un già piena maturità e una sorprendentemente lucida consapevolezza in relazione al paradossale rapporto tra astratto e concreto; che significa poi tra identità e differenza. A Gentile è perfettamente chiara almeno una cosa: che il “concreto” (quel che ogni volta è dato come realmente esistente) è sempre un’unità (anzi, l’identità di un molteplice) e che l’astratto non si dà se non come risultato di un’analisi (cioè di una divisione dell’unità, di un distinguersi in cui a distinguersi sarà sempre ciò di cui l’unità dice appunto il non esser distinto, o anche, l’esser identico). Originaria è per lui l’identità di espressione e pensiero; perché, ovunque si dia un pensiero o un’espressione, a darsi è sempre e solamente l’identità di quei due che il discorso (l’espressione) comunque distingue, facendo dell’uno l’espressione e dell’altro il contenuto di cui l’espressione sarebbe per l’appunto espressione. Dunque, prima è il negativo (che dice sì anche il positivo, ma lo dice appunto come negato) e poi, solo a seguito di un processo analitico (ed ogni discorso, anche quando dice l’identità dei distinti, è un processo analitico, in quanto tale destinato a distinguere… a distinguersi anche quei distinti di cui esso, in quanto discorso, può anche dire il non esser distinti), viene rilevato il distinguersi… o meglio cosa si distinguerebbe, nel e per il discorso, anche là dove quest’ultimo fosse volto a rilevare l’immediato (od originario), e quindi a constatare il suo costituirsi come originaria negazione della distinzione da esso medesimo istituita, nell’atto stesso con cui la nega. Ma neppure questo dire “poi il positivo” è corretto, a ben vedere. Ché non può esservi, gentilianamente parlando, prima il negativo e “poi” il positivo; se non venisse consustanzialmente

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posto il positivo (come distinto), infatti, non vi sarebbe nulla di cui dirsi negazione, da parte del negativo. Insomma, l’identità è tale solo per e nelle differenze da essa medesima per l’appunto “negate”. Come dire che la forma e il contenuto dicono diversamente (in quanto forma, l’una, e in quanto contenuto, l’altro) quel che diverso non è. Quel che non è mai solo forma o solo contenuto; ma sempre forma di un contenuto o contenuto di una forma, sì che, nel darsi dell’una, sia sempre dato anche l’altro e viceversa. L’uno “come” l’altro e l’altro “come” l’uno. Con Gentile, insomma, viene a costituirsi una ‘originalissima’ concezione metafisica che sembra rendere anzitutto impossibile distinguere e ordinare gerarchicamente “mediazione” e “immediatezza”, come avrebbe fatto invece lo Hegel. In ciò una delle ragioni fondamentali che rendono l’idealismo gentiliano sostanzialmente inassimilabile a quello tedesco. In Gentile, infatti, nessun arbitrario primato della “mediazione” – come quello che avrebbe condotto Hegel all’istituzione di una semplice “parvenza” d’immediatezza (che mai s’è data e mai si darà – come la negazione del principio di non contraddizione tematizzato da Aristotele nel libro IV della Metafisica), invero già da sempre inscritta nell’orizzonte disegnato da una “mediazione” rispetto alla quale mai ci si sarebbe riusciti a liberare. Non a caso, in Hegel, il primo momento dialettico è una semplice figura retorica a cui mai sarebbe potuta corrispondere una reale astrattezza, non ancora risolta nella mediazione; non a caso Hegel finisce per ipostatizzare una mediazione che da ultimo non riesce neppure ad essere tale, in quanto priva di una reale immediatezza che la determini, appunto, rendendo possibile il suo costituirsi come effettivo “superamento” (Aufhebung) dell’immediatezza medesima.

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Solo da Gentile la mediazione è posta come il vero immediato. Come incondizionatezza che, in quanto tale, non anela ad alcuna alterità, deputata a suggellare il suo potere. La mediazione non è mediabile – e non lo è, proprio perché originaria e dunque immediata. Ossia, destinata a negare qualsivoglia ipotetica mediazione; e dunque anche la sua. Perciò il vero mediato è l’assoluta immediatezza che a nulla consente di essere quello che è; ossia, di riconoscersi adeguato al proprio “concetto”. Neppure a se stessa; ovvero, alla propria mediatezza. Il vero mediato è per Gentile solo quello in grado di negare finanche la propria mediatezza; quello capace di essere – per tornare alla questione da cui abbiamo cominciato queste pagine – espressione (immediatezza intuitiva) e, in-uno, pensiero (mediazione concettuale). Sì che né l’unità dei molti sia semplice unità, e neppure i molti indichino una semplice ­molteplicità. Lo avrebbe rilevato anche nella Teoria generale dello spirito come atto puro, il nostro, riconoscendo anzitutto che «tanto l’unità quanto la molteplicità non siano principi reali, ma semplici astrazioni, dalle quali convien tornare all’unità vera e alla vera molteplicità»7. Ossia, ad una unità e a una molteplicità che, come dice esplicitamente lo stesso Gentile: «lungi dall’essere l’una fuori dell’altra, sono la stessa cosa, lo svolgimento della vita»8. Gentile ha capito, di là da ogni dialettismo “di maniera” (che sarebbe, da ultimo, sempre un po’ meccanico), che la vera concretezza è data solo da un modo «che non lasci concepi-

7. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 41. 8. Ibidem.

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re l’unità se non attraverso la molteplicità e viceversa; quello che, nella molteplicità, mostra la realtà e la vita dell’unità»9. Perciò, nel distinguersi dell’espressione dal pensiero, a mostrarsi è il loro essere l’uno l’altro, e l’altro l’uno. Ossia, il non esser sé tanto dell’uno quanto dell’altro. Quel non esser sé che, solamente, sa farsi testimonianza della vita dello Spirito. Di ogni determinatezza, infatti, esso dice quel non esser più (di quel che era), in cui, a mostrarsi, è appunto sempre e solamente il suo non-esser-ancora (di quel che sarà); senza che nulla venga a determinarsi tra la prima e la seconda negazione, come puramente positivo. D’altro canto, il positivo – quel che si distingue, e solo distinguendosi, è quel che è – altro non dice se non quel che e il passato e il futuro, propriamente, negano; e che, al di fuori di tale negazione, non indica alcuna identità in qualche modo “altra” da quei diversi che sono appunto il suo non esser ancora e il suo non esser più. L’identità che in ogni presente si manifesta, dunque (meglio sarebbe dire, nel presente – che è solo uno), è solo quel che sempre nel presente dice la propria originaria irrequietezza, il proprio divenire, il proprio non esser più e il proprio non esser ancora. Perché, anche quell’unità in cui consiste l’Atto che è l’Io, si disegna nella forma di un “Io=Non-Io” che da ultimo dà luogo ad «un’identità di termini che è pura differenza… che è Io in quanto identico e differente seco stesso»10. Ritrovandosi inattingibile, in primis, per se medesimo. Come «quello che egli pensando sente di essere»11.

9. Ibidem. 10. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 2 voll., Le Lettere, Firenze 2003, vol. II, p. 81. 11. Ivi, p. 63.

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Sì, perché la sintesi originaria di essere e non-essere, di Io e Non-Io, mostra all’Io il suo non essere affatto l’Io che crede di essere. Il suo aver a che fare, cioè, con «quell’essere oscuro, inattingibile che ogni uomo vede nel fondo del proprio animo, e che si dice senso, o temperamento o natura»12. Con quel sé profondo, quell’essere naturale che ognuno di noi può al massimo “sentire” di essere. Ma mai conoscere; oggettivare e costringere alla pura positività del concetto. Ché, se lo conoscesse, non potrebbe che riconoscerne l’esser quel che esso stesso fa essere, negandolo; ossia, non potrebbe che riconoscere il suo non essere quello che è – e dunque il suo divenire. Che è poi il divenire non tanto del mondo e dei suoi significati – di cui il pensiero riconosce e dice il non-essere –, quanto piuttosto di se stesso, in quanto negazione che pone quello stesso che nega, nell’atto stesso di negarlo, ossia nel farcene riconoscere la morta staticità in rapporto ad una vita che è solo del pensiero che in quello (nel mondo, o nei suoi significati) comunque si ‘esprime’… facendosi sua originaria “negazione” – la sola, che mostra quel che in ogni espressione sempre oggettiva e positiva viene propriamente pensato-negato. Mostrando la molteplicità del ‘pensato’; mostrando cioè, in essa e per essa, quel “negare” che, solo, la fa essere, come espressione, appunto – in cui sempre e comunque finisce per dirsi e ridirsi l’unità del pensiero pensante, ovvero il suo “immanente divenire”. Ma, se «prima di tale atto, in cui l’Io celebra la propria spiritualità, non c’è nulla»13, allora, davvero, il suo costituirsi sempre in virtù di una mediazione da concepirsi come identità dei diversi, dice l’atto del vero Inizio. Quello che sempre si ripete facendosi vero e proprio “ritmo di pensiero” (l’espressione è

12. Ibidem. 13. Ivi, p. 83.

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dello stesso Gentile), e soprattutto connettendo e unificando negativamente i distinti che, proprio in quanto negati, peraltro, potranno riflettere, traendo origine e valore, «il ritmo auto­sintetico del logo concreto»14. E che, in quanto negati, non possono certo venire conosciuti, ma, più semplicemente, “sentiti”. Come viene sentita ogni esperienza di cui riconosciamo il fare capo a quel che noi stessi più propriamente saremmo. Che qualcosa – in questo caso non questo o quello, bensì l’intrascendibile “atto” da cui nessun astratto potrà mai esser lasciato così com’è (anzitutto perché nessun astratto potrà mai darsi, di là dal suo originario esser-negato – perché nessun astratto, cioè, si darà mai se non nella concretezza che dice sempre una medesima unità – negativa –… l’unità del molteplice, ossia l’unità originaria che connette ogni astratto e distinto significato, e dunque ogni distinta espressione), da cui tutto, cioè, viene ineludibilmente negato – si dia come originario, significa anzitutto questo: che qualcosa (ossia l’intrascendibilità dell’atto cui ci siamo appena riferiti) non venga posto. Ossia, significa che non venga posto, nel nostro caso, l’intrascendibile “porre” che, anche ponendo se medesimo, finirebbe per ripristinare un porre non ridotto, quanto meno esso, al porre che esso medesimo avrà posto riconoscendone appunto l’intrascendibilità. Significa che è proprio il porre (che tutto unifica e sintetizza) a farsi residuo non accessibile alla propria potenza incondizionata. Solo esso, infatti, sfugge alla propria presa (che di ogni cosa fa un “posto”), e proprio in virtù della propria potenza incondizionata; la stessa che gli consente, appunto, ponendo finanche 14. Ivi, p. 85.

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se medesimo, di ‘sentirsi’ come qualcosa di non-posto, ma ponente; quanto meno nei confronti della propria intrascendibile, ma insieme ogni volta trascesa, potenza posizionale. Da cui il residuo di immediatezza e astrazione che determina l’astrattezza, infine, della stessa facoltà mediatrice; quella che, tutto ponendo, tutto unifica e riconsegna alla propria più autentica condizione di possibilità. Ossia, alla propria originaria immediatezza. Lo dice benissimo anche Carmelo Meazza, in un importante volume da lui dedicato a Gentile (e pubblicato nel 2004), là dove rileva come la maturità dell’attualismo precisi distintamente questo quadro di riferimento: «il Concreto dell’atto non può non avere nella caduta dell’Astratto la sua più propria possibilità. E questo perché il pensiero del pensante è sempre un pensato. E il pensato non è l’inautentico del pensante»15. Il pensato è ciò che lo stesso pensare diventa, proprio nel riconoscersi come non riducibile a un “pensato”; perché la concretezza dell’atto intrascendibile finisce per negarsi, facendosi residuale finanche rispetto alla propria concretissima intrascendibilità – e sottraendosi da ultimo finanche alla presa con cui l’hybris posizionale in cui esso medesimo consiste vorrebbe catturarla, trasformandola in un semplicemente astratto (nel morto simulacro di un ‘semplicemente posto’). Con il risultato di fare, della potenza infinita del porre e della sua sfrenata concretezza, l’espressione di un astratto sostanzialmente irrelazionabile, e per ciò stesso anche fondamentalmente inconcepibile. È sempre Meazza a vedere bene, in questo aporetico slittamento, ciò che renderebbe la dinamica dell’atto gentiliano

15. C. Meazza, Note, appunti e variazioni sull’attualismo… passando per Heidegger, ETS, Pisa 2004, p. 115.

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addirittura più radicale del dialettismo che aveva caratterizzato, di fatto, lo speculativo hegeliano. «Mentre per Hegel il momento filosofico dell’Idea è sempre la pienezza speculativamente concreta, per Gentile, non si comprende lo statuto della stessa hybris filosofica se si prescinde dall’economia di valore che si determina nel momento in cui l’Astratto del Concreto viene messo in opera come Concreto»16. Ché l’Atto gentiliano non è mai risolto, a differenza dell’eterna compiutezza che in Hegel appariva destinata a mostrare l’esser già da sempre risolto in sé da parte di ogni sommovimento della storia. Anche per Gennaro Sasso, comunque, nonostante le non irrilevanti tentazioni di ascendenza hegeliana (che qua è là hanno rischiato di depistare Gentile e incatenarlo nuovamente alla seduzione del “compimento”), la filosofia del fondatore dell’attualismo avrebbe finito per lasciare aperta una ferita – una ferita incicatrizzabile – nel cuore stesso della sintesi e della sua intrascendibile concretezza. «Dopo aver tante volte detto e ripetuto che il pensiero non può “astrarre da se stesso”, e che, di sospendere il suo ritmo gli è vietato dalla sua stessa intrascendibile natura, Gentile apriva la prospettiva di una drastica e fatale sospensione. Dopo aver tante volte detto e ripetuto che sempre la sintesi precede l’analisi e che non c’è analisi di sintesi che non si determini come sintesi di analisi, era ad un atto supremo, ed irrazionale, di analisi senza sintesi, era alla morte e alla sua brutale irruzione nell’ordine delle cose eterne del pensiero, che egli concedeva spazio»17.

16. Ibidem. 17. G. Sasso, La potenza e l’atto. Due saggi su Giovanni Gentile, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 98.

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A qualcosa, cioè, che non poteva non aver intimamente a che fare con la specifica accezione custodita dal suo “negativo”; o meglio con quella che era per lui la natura originariamente negativa del pensare in atto; la stessa che, alla fine della Terza Parte del Sistema di logica, Gentile definisce appunto negatività del pensiero pensante o negatività dell’autoconcetto; o ancora, negatività del logo concreto. Lo rileva giustamente anche Emanuele Lago, che, in un intelligente studio dedicato a Nietzsche e Gentile, ci ricorda come la vita dello spirito, per Gentile, «sia la realizzazione dell’impulso diveniente dell’Io come negazione della determinatezza del non-Io. Questa negazione del contenuto determinato che è appunto il suo divenire altro»18. E che lo Spirito propriamente non possiede. Lo dice bene lo stesso Gentile, nel secondo volume del Sistema di logica, là dove riconosce come l’Eros conoscitivo (e dunque lo stesso pensiero-pensante) non sia desideroso d’altro che di se stesso: speranza eternamente compientesi, la definisce il nostro. Insomma, è per quanto siamo venuti sin qui rilevando, che, da ultimo, lo Spirito sembra non poter che amare se stesso, ossia quel proprio essere (che in quanto proprio, è ‘suo’) che, pur non essendo fuori dell’Io, l’Io non possiede affatto, «perché questo suo essere si pone come unità di sé e del suo altro; ed è, non essendo; e diviene»19. Per tutto questo, l’Io, ponendo e negando quel che pone, mostra di amare sempre e solamente se stesso; conoscere è ama-

18. E. Lago, La volontà di potenza e il passato. Nietzsche e Gentile, Bom­ piani, Milano 2005, p. 108. 19. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 238.

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re, insomma, proprio come per Platone. Ma, diversamente dall’Eros platonico – è sempre Gentile a precisarlo – l’amore che muove il pensiero a negare (a negare l’alterità dell’altro e a ricondurla a sé, e a trasformarsi negando l’altro… come banco di prova per una autentica trasformazione di se stessi) parla proprio di quella che è sempre il nostro filosofo a definire «antecedente e condizione della coscienza»20, e dunque di ogni suo anelito conoscitivo. Come stupirsi dunque del fatto che in Gentile venga a configurarsi un significato dell’eros conoscitivo tale per cui esso non sia passione, ma nello stesso tempo non sia neppure semplice «oggetto inattuale dell’attuale coscienza»21? Amore, volere; «come non si è mai potuto riconoscere»22; ché il pensiero lo ha sempre voluto riconoscere fermandosi «nella distinzione dell’analisi senza sintesi… come mero oggetto suo»23. Il fatto è che, ci suggerisce Gentile, non c’è teoria senza prassi – che vi sia da un lato un patimento che ci riguarderebbe in quanto spettatori e dall’altro un’azione che concorrerebbe alla formazione dell’oggetto suppone «una distinzione insostenibile»24. Parlando di questo amore, dunque, Gentile ci invita a riconoscere quello che «è lo stesso pensiero nella sua attualità»25; dove «il soggetto pensa in quanto ama e ama in quanto

20. Ivi, p. 239. 21. Ivi, p. 240. 22. Ibidem. 23. Ibidem. 24. Ivi, p. 241. 25. Ibidem.

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pensa»26. A destituire la distinzione tra conoscere e agire, per non «lasciarsi sfuggire quel più profondo amore, che non è accanto al pensiero, né dentro ad esso, distinto tuttavia da esso, ma è lo stesso pensiero nella sua attualità, dove coincide puntualmente il soggetto dell’amore col soggetto del pensare»27. Attività autopatica e autonoetica, in virtù della quale l’unità originaria «non si moltiplica se non nell’astratto oggetto in cui si pone, ma che si mantiene incrollabilmente una pur tra gli oggetti che risolve in concreto nel suo proprio processo»28. Già qui Gentile avverte la cogenza di una questione che avrebbe messo definitivamente a tema, comunque, solo nella Filosofia dell’arte; avverte cioè che la potenza del giudizio, e dunque la concretezza intrascendibile del logos è in verità espressione di un vero e proprio sentimento originario. Che il logos tutto intero e la sua vocazione sintetica (destinata ad unire tutto quanto la sua processualità non può nello stesso tempo fare a meno di distinguere) non hanno mai a che fare (come se fosse di contro a lui) con l’immediatezza di un astratto sentire, originariamente distinto dall’espressione logica e mediatrice del pensare – d’altronde, se fosse davvero di contro al pensare, quell’esperienza patica sarebbe un suo oggetto, e dunque non sarebbe affatto altra (come si vorrebbe far credere) dal pensare, ma si risolverebbe in un suo semplice positum. Gentile si rende conto che, di tale sentimento, è originaria “espressione” anzitutto la potenza incondizionata del logos (la cui incondizionatezza, peraltro, dice, in quanto tale, che l’orizzonte logico, o della mediazione, non è affatto mediato. Che, a disegnarsi, in esso, è ciò di cui va riconosciuta l’originaria ne-

26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ivi, p. 242.

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gazione (im-mediatezza); qualcosa di valevole appunto come espressione mediata di un sentimento immediato – che dice ‘originaria paticità’ dell’attività assoluta e intrascendibile che non a caso ‘sentiamo’, semplicemente, esser nostra. Così il nostro finisce per rovesciare la dicotomia crociana di espressione (intuizione, sentimento) e pensiero (mediazione, ragione), facendo del pensiero l’espressione del sentimento immediato – unico vero contenuto di ogni forma espressiva. Espressione mediata dell’immediato. Di cui l’immediatezza è appunto semplice “negazione”; che non unifica a posteriori espressioni che potremmo in ogni caso ricondurre agli infiniti possibili verba che popolano l’orizzonte della mediazione. A saltare sono, dunque, sempre in Gentile, tutte le concezioni astratte che vorrebbero anzitutto l’astratto da un lato e il concreto dall’altro; la cui unità sarebbe per ciò stesso sempre di là da venire. No, per il filosofo di Castelvetrano logo astratto e logo concreto sono davvero la stessa cosa (in quanto “assolutamente opposti”, evidentemente – era stato lo stesso Gentile, d’altro canto, a dirci che «ogni molteplicità non si attribuisce al pensiero pensato se non a patto che si neghi»29, sì che il logo concreto risultasse dalla semplice negazione del logo astratto, in modo tale da costituire un’opposizione che può dirsi “assoluta” proprio in quanto la negazione da cui viene investito il logo astratto non aggiunge nulla di determinato a ciò che il logo astratto già è). Sempre per lo stesso motivo Gentile avrebbe anche potuto sostenere questa apparentemente inspiegabile tesi: che «noi pensiamo sempre il tutto e non lo pensiamo mai»30. Che, pen-

29. Ivi, pp. 71-72. 30. Ivi, p. 169.

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sando concretamente ogni cosa, pensiamo di fatto la semplice negazione della sua determinatezza (quella restituitaci dalla vocazione cristallizzante del logo astratto), e dunque anche là dove provassimo a pensare una determinatezza positiva, e la volessimo far valere come la determinatezza del tutto, dovremmo riconoscere che quel che abbiamo pensato ‘in verità’ nega di essere la determinatezza del tutto. Ecco perché pensare il tutto significa pensare una determinatezza (prodotta dal logo astratto e dunque sempre parziale, proprio per la sua natura determinante) e indicare quel che determinato e parziale non è. “Tutto”, dunque, in Gentile non indica mai qualcosa (magari caratterizzantesi come “maius quam cogitari possit”), ma semplicemente il suo (di quel qualcosa) farsi. Quello che è poi in verità il nostro stesso farci, il nostro ritrovarci originariamente inscritti in un processo «che mai potrà precipitare in un risultato»31. Lo stesso che rende anche il mondo «un mondo che non è, non è un fatto, ma si fa»32. E che per questo appare come vita del logo concreto (che «è la realtà stessa»33), come quell’autoconcetto che altro non è che «la negatività del concetto determinato»34. Questo dice insomma il reale (questo o quello), ovunque si manifesti come vita del logo concreto; dice quello che aveva già detto lo Jago di Shakespeare: di non essere mai quello che è. «Per cui, se esso è questa carta, non è questa carta: se è questa penna, non è questa penna»35. Se è questa pipa, avrebbe detto un artista belga, solo tre anni dopo la pubblicazione del 31. Ibidem. 32. Ivi, p. 212. 33. Ivi, p. 166. 34. Ibidem. 35. Ibidem.

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secondo volume del Sistema di logica (che venne pubblicato nel 1923), esso non è questa pipa. Perché il logo concreto si costituisce per la semplice negazione del logo astratto e delle sue statiche e mortifere definizioni. E solo in questo modo chiama in causa sempre e comunque il divenire del tutto; che diviene, appunto, perché non è mai quel che di esso si potrebbe ritenere di dover dire. «Essere senza fondo, o senza scorza, come diceva Goethe. Non essere che si svela; ma essere che consiste appunto nello svelarsi. Né il pensiero è fiore che si levi e si pieghi sull’esile gambo: ma tutta la pianta, e le radici, e il suolo, e il sistema dell’universo da cui per le radici e per le foglie la pianta trae la vita che fiorisce sulla rima ondeggiante della sua più tenera fronda. E fiorisce non il fiore, ma l’universo tutto»36. Ecco per quale motivo il logo concreto viene fatto coincidere, da Gentile – e proprio nelle pagine in cui articola la propria critica al realismo –, con l’assoluta irrelatività a partire dalla quale, solamente, le irrelatività e del pensiero e dell’essere sono pensabili solo “come unità”. Perché «l’essere irrelativo, non avendo di contro a se nulla che esso neghi per affermar se stesso, è l’essere che è tutto: e così il pensiero irrelativo è l’autoconcetto che afferma sé e non nega nulla fuori di sé, perché esso è già il tutto: e quindi uno»37. Esso è essere, comunque; pensiero equivalente all’intuito, precisa Gentile. Che non può certo essere pensiero. «Perché questo pensiero che s’identifica con l’intuito, ciò può fare in quanto si spoglia di quell’attività oggettiva con cui esso se ne è distinto, e ritorna a quella ingenuità divina dello spiri-

36. Ivi, pp. 166-167. 37. Ivi, p. 218.

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to primitivo tutto occhi per vedere»38. E che, però, in quanto essere, «è già mediato in se stesso, che infatti si può pensare»39 – e per questo si offre come semplice negazione di quel che, in esso e per esso, viene di fatto pensato. Essere che non è. Determinatezza che nega di essere quello che la medesima comunque mostra di essere. Ma allora, è proprio in quanto mediato, che l’essere si risolve nella propria originaria im-mediatezza. Negando quello stesso cui la sua originaria concettualità sembra destinarlo, facendone un essere distinto dal pensare. Insomma, a Gentile accade di farsi testimone di uno stranissimo contraccolpo: se è vero che quel che per molti versi insiste a definire logo astratto e a qualificare come immediatezza, riconoscendovi quella «posizione dell’essere che è puro essere»40 – «il soggetto che si vede dall’esterno, come concetto che è risoluzione di un essere immediato, in quanto questa risoluzione è avvenuta»41 –, presuppone comunque che «l’essere sia la negazione del pensiero, come il pensiero sia la negazione dell’essere»42. Perché è proprio qui che nasce la logica: «quando l’essere è l’essere del pensiero: e il non-A c’è sì, ma come posto da A che lo nega»43. A prodursi è quindi un’ambigua oscillazione tra la pura positività del pensato (quella che determina la legge fondamentale della logica dell’astratto come principio di identità, dove il pensiero si risolve in un semplice “contenuto del ­pensare”,

38. Ibidem. 39. Ivi, p. 221. 40. Ivi, vol. I, p. 175. 41. Ivi, p. 184. 42. Ivi, p. 189. 43. Ibidem.

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ma che è già pensiero, e dunque non consente all’essere di rimanere puro essere immediato, ovvero natura, «che è im­ pensabile»44… pur indicando «una realtà che non sarebbe pensiero, e che sarebbe perciò immediata, senza divenire»45), che viene concepita come prima forma dell’immediatezza, come l’immediatezza dell’astratto (fermo restando che «ogni astrattezza – sempre per Gentile – consiste nell’immediatezza e nel sottrarsi alla dialettica del processo»46), e una seconda forma di immediatezza che ha invece a che fare con la natura propriamente e originariamente negativa del pensare e del suo costituirsi come puro divenire. In relazione alla quale, va anche precisato – sempre con Gentile – che non si tratta comunque di qualcosa di astrattamente contrapposto a ciò che avrebbe natura puramente affermativa («affinché si attui la concretezza del pensiero, che è negazione dell’immediatezza di ogni posizione astratta, è necessario che l’astrattezza sia non solo negata ma anche affermata»47). Perciò il suo stesso costituirsi come immediatezza non si contrappone affatto alla mediazione come dall’esterno. Come a qualcosa di altro da essa. Ma si costituisce come immediatezza mediata, o come immediatezza della mediazione – la stessa che si fa immediata proprio in ragione del suo originario negarsi. Ossia del negarsi di ciò che essa, in quanto mediazione, fa essere come distinti: il pensiero e l’essere, relazionantisi, appunto, ognuno come altro dal proprio altro. In ragione del negarsi di una distinzione che, solo e proprio in virtù di tale negarsi, appare come originaria espressione dell’identità. E dunque di quell’amore che allude alla natura origi44. Ivi, p. 179. 45. Ivi, p. 105. 46. Ivi, p. 149. 47. Ivi, pp. 149-150.

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nariamente sentimentale di ogni concettualità. Ossia, ancora una volta, alla sua originaria immediatezza. Ma Gentile oscilla, appunto, tra questi due sensi dell’immediatezza; e dunque va rigorizzato, mostrando che il suo logo concreto indica qualcosa che il dialettismo hegeliano avrebbe impedito di pensare. Ossia, indica la natura originariamente immediata della “mediazione”. Quella che, solamente, gli consente di affermare, con Protagora (a differenza di Hegel), che «la filosofia non sta ferma, non si definisce, non si determina, non è un pensiero, che sia un concetto, un sistema, una dottrina»48; ma, a differenza di Protagora, gli consente anche di sorridere dell’incrollabile certezza di una posizione (come quella di Protagora, appunto) «che è verità; e verità non desiderata, ma posseduta»49. Perché, dal suo punto di vista, «lo spirito è tale per cui il suo essere consiste nel suo divenire»50. Sì che il pensiero sia dialettico solo nel senso che «il pensiero non è mai identico a se stesso… pensiero pensante che è sempre unità e molteplicità insieme, identità e differenza»51 – ma non come queste ultime si determinano nel dialettismo hegeliano (che fissa la legge archetipica del pensiero «in concetti astratti e quindi immobili, che sono affatto privi di dialettismo, e di cui perciò non è dato intendere come possano, per se stessi, passare l’uno nell’altro e unificarsi nel reale continuo moto logico»52), bensì come le medesime si determinano in relazione ad un identico «in se medesimo differenziato»53, che impedisce di risolvere il 48. Ivi, vol. II, p. 34. 49. Ivi, p. 35. 50. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 42. 51. Ivi, pp. 44-45. 52. Ivi, pp. 54-55. 53. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, vol. II, cit., p. 58.

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dinamismo costituente l’originario nella circolarità di memoria hegeliana. Perché, se «il circolo come processo esaurito è conclusione di un movimento, che ha il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo, differenti ancorché identici… il pensiero pensante o Io, invece, non entra nel circolo perché non lo presuppone: esso lo costituisce, lo crea, creando se stesso»54. E dunque in questo troverà il suo essere, ossia, nel suo non essere – «slancio verso se stesso quale non si è e si vuol essere»55. Ed è proprio in questa prospettiva – radicalmente a-sistematica – che Gentile avrebbe potuto rinvenire, come stiamo ormai vedendo, il vero senso dell’immediatezza (a cui egli stesso non fu sempre fedele, continuando a definire immediata anche la fissità del logo astratto); deducibile dal fatto che, se l’Io non è mai quel è, essendo sempre quel che non-è-ancora («appunto questo è il suo essere: il suo non essere quel che sarà»56), allora il medesimo sarà sempre ancora quell’essere naturale, «quell’essere oscuro, inattingibile che ogni uomo vede nel fondo del proprio animo, e che si dice senso, o temperamento, o natura»57; quello che «egli pensando sente di essere»58. Un nulla, in verità, conclude Gentile – perché «l’essere naturale conosciuto come tale è quello che si può conoscere senza pensare: il niente»59. Una prospettiva, dunque, quella disegnata da Gentile, che non ha nulla di umanistico – in quanto non è ancorata ad un’i-

54. Ibidem. 55. Ivi, p. 61. 56. Ibidem. 57. Ivi, p. 63. 58. Ibidem. 59. Ibidem.

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dea ‘positiva’ di Io o di Autocoscienza, come vorrebbe Natoli (che con la potenza del pensare gentiliano si confronta in un breve ma intensissimo libretto pubblicato nel 1989). Secondo quest’ultimo, infatti, l’atto di Gentile «resta ancora troppo Io e come tale è autocoscienza»60. Ma le cose non stanno così, perché quest’atto non appare mai come positività, secondo quanto sembra invece credere Natoli («il formalismo dell’atto, da Gentile perfettamente guadagnato, esigeva che quest’atto rimanesse forma e non apparisse mai come positività, non divenisse mai contenuto»61). Non poteva essere più chiaro, infatti, Gentile, quando ebbe a scrivere che proprio nel fondo dell’animo, «nell’atto vivo, nel fremito della vita spirituale» troveremo «quell’oscuro limite dell’essere nostro spirituale, dal quale si diparte e al quale sempre ritorna la vita del nostro spirito… perché proprio lì si trova quella natura cosiffatta che è lo stesso non-essere della nostra vita interiore (non già il non-essere a cui altri s’arresterebbe col pensiero… ma il non-essere interno al vostro atto medesimo: come ciò che dovete pur non essere, e diventare, con l’atto stesso onde vi ponete)»62. Un negativo che, peraltro, non si trova neppure “prima” dell’essere o positivo, come vorrebbe Vitiello, secondo il quale «per Gentile il pensiero che pone la negatività nell’essere, che dice No al Sì, va anticipato all’essere – è prima, non dopo»63.

60. S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 47. 61. Ibidem. 62. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 241. 63. V. Vitiello, Bertrando Spaventa e il problema del cominciamento, Guida Editori, Napoli 1990, p. 48.

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In un bellissimo e lucidissimo volumetto teso a riportare al centro dell’attenzione l’indimenticabile magistero di Spaventa, Vitiello sostiene infatti che Gentile non avrebbe saputo raggiungere la coerenza ed il rigore del suo maestro (lo Spaventa, per l’appunto). Ma, anche in questo caso, ci sembra di poter contrapporre a questa lettura le parole del filosofo di Castelvetrano, secondo il quale, appunto, «né essere, né non-essere. Il pensiero non può dire di non essere senza essere: il suo dubbio è certezza, la sua negazione è affermazione»64. E, allo stesso modo, neppure è vero – ci sembra di poter sostenere – che, come vorrebbe ancora una volta Vitiello, solo Spaventa sarebbe a riuscito a percorrere le due vie che portano dal pensiero all’essere e dall’essere al pensiero, mentre Gentile sarebbe rimasto fermo alla posizione fichtiana, perché «la sua deduzione del fatto dall’atto non avrebbe comportato la reciproca»65. Gentile, cioè – sempre secondo Vitiello –, non avrebbe capito che nella Fenomenologia dello Spirito, proprio questo Hegel s’era proposto di fare: di «ritrovare il pensiero nell’essere»66. Ecco, che questa interpretazione non sia corretta – cioè che Gentile non abbia affatto tralasciato il cammino dal reale al pensiero – ci sembra provato già dal semplice rilievo operato dal filosofo di Castelvetrano, nel secondo volume del Sistema di logica, là dove si afferma che, se «la logica dello spirito alloga l’astratto nel concreto», la medesima «fa altresì scaturire

64. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. I, p. 104. 65. V. Vitiello, Bertrando Spaventa e il problema del cominciamento, cit., p. 25. 66. Ivi, p. 22.

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l’identico dal diverso»67; ossia l’atto del pensare dalla realtà in cui il primo sempre e solamente esiste e vive. Merita ricordare, a questo proposito, anche la distinzione, operata da Emanuele Severino, nella sua importante prefazione all’edizione di una raccolta di opere di Giovanni Gentile pubblicata dalla casa editrice Bompiani nel 2014. Il riferimento è al volume intitolato «L’attualismo», e concerne nello specifico la distinzione tra quella che Severino chiama «negatività originaria» (quella per la quale il pensiero realizza se stesso) e la negatività connessa al semplice divenire del mondo. Certo, anche la negatività originaria, ci ricorda il filosofo bresciano, è divenire, anzi ne è la fonte (pur non essendo una fonte che preesista alla corrente che da essa proviene), «ma non può nemmeno essere tralasciata quando si voglia intendere il significato concreto e l’evidenza del divenire a cui l’attualismo si rivolge»68. Una negatività originaria che Gentile concepirebbe come destinata ad evocare l’atto del pensiero che, non condizionato da alcuna realtà esterna o presupposta, viene altresì inteso come eterno e infinito; ma concepito come ciò che nulla avrebbe a che fare con «l’eternità di un essere immediato», e dunque non unito al non-essere. «Esso è piuttosto l’eternità del divenire dell’atto. Ossia della negatività originaria dell’atto che nega la natura per realizzare se stesso… dove è impossibile che il divenire incominci da una natura non ancora pensata (cioè presupposta, come accade nello stesso pensiero hegeliano e nel rude naturalismo evoluzionistico) e pervenga al pensiero che nega la natura»69.

67. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 27. 68. E. Severino, Attualismo e storia dell’Occidente. Introduzione, in G. Gentile, L’attualismo, Bompiani, Milano 2014, pp. 45-46. 69. Ivi, p. 46.

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Perciò, secondo Severino, la negatività originaria (la negatività dell’atto) dev’essere completamente interna all’atto, sì che sia l’atto «a produrre quella natura che esso nega pensandola, a produrre l’errore che esso nega»70. Peccato che Severino non veda come, proprio in tale negatività originaria, a costituirsi sia invece proprio l’eternità di un essere immediato (originariamente costituentesi appunto come “negazione” della determinatezza sempre “mediata”, in virtù della quale le cose fanno credere di essere quello che sono, e sempre in funzione di un rapporto con l’altro che, solo, sembra poter giustificare la loro stessa determinatezza, anzi la loro positiva determinatezza). Che non dipende dal pensiero, per quanto il pensiero dipenda da esso, e ne sia appunto immediata espressione (d’altronde, potrebbe l’espressione dell’immediato non essere a sua volta immediata?). D’altro canto, se non fosse così, davvero non si capirebbe l’apparentemente azzardata autonomia dello Spirito e un paragone come quello istituito da Augusto Del Noce fra Gentile e Cartesio. Secondo Del Noce, infatti, «lo spirito come atto puro altro non è che il Dio cartesiano, causa sui e creatore libero delle verità eterne, reso immanente, ma mantenendo nella nuova versione quei caratteri che lo rendono unico nella storia del pensiero»71. Lo spirito come Dio, dunque; ma ciò non di meno uno Spirito che dovrà, anzitutto, rendersi consapevole del fatto «che il “concetto” avrebbe potuto esaurire la totalità solo quando avesse aderito all’atto che lo aveva suscitato, divenendo»72.

70. Ivi, p. 48. 71. A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, il Mulino, Bologna 1990, p. 97. 72. D. Spanio, Gentile, Carocci, Roma 2011, p. 216.

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Insomma, quel si tratta di comprendere, suggerisce giustamente Davide Spanio, è che «il concetto è molto, ma non è tutto»73. Anche perché, se ogni realtà è solo nel suo non essere ancora quel che la medesima nello stesso tempo anche è veramente, allora… in relazione a quel che siamo, non ci resterà che prendere coscienza del fatto che non saremo mai così come, in ogni caso, già saremo: ossia “tutto”.

73. Ibidem.

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Di un semplice “sentimento” Alla radice di ogni distinzione Gentile e la “Filosofia dell’arte”

Tratteremo di un semplice sentimento, come quello che hanno provato e raccontato fino alla fine, Pietro Brahe e Ira Epstein. “Adesso dovrebbe cominciare una storia ­nuova”. “E questa?”. “Questa è finita”. “Finita finita?”. “Finita finita”. “La scriverà qualcuno?”. “Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.1

1 Il fatto è noto. L’hanno già sviscerato in moltissimi, tra gli studiosi dell’attualismo. Ma val la pena rammentarlo: in tutti i modi Gentile avrebbe cercato di dissodare il terreno della “dialettica” (nella sua versione hegeliana) da qualsivoglia sospetta forma di staticità – che, in quanto tale, si sarebbe rivelata fin troppo “autonoma” dall’atto del pensare e dalla sua intrinseca dialetticità. Che non poteva dunque venire accettata dal fondatore dell’Attualismo. Il quale s’era ben reso conto del fatto che, anche in Hegel – la cui filosofia sembrava aver pun1. D. Del Giudice, Atlante Occidentale, Einaudi, Torino 1985, p. 152.

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tato tutto sull’esaltazione della natura dinamica dell’essere – il ragionamento sarebbe confluito in quel concetto antidialettico per eccellenza di fatto responsabile del risolversi, da parte del divenire, in un semplice “divenuto”. Secondo il filosofo di Castelvetrano, insomma, Hegel si sarebbe accontentato di una forse troppo vaga intuizione del divenire; e soprattutto non ne avrebbe posseduto il concetto autentico. Certo, il tedesco avrebbe da ultimo voluto fondare, cioè dedurre, la necessità del divenire, e fornirne in qualche modo la ragione; ma si sarebbe risolto a scoprire, da ultimo, l’identità degli opposti al di sotto della differenza. D’altro canto, è proprio vero: a realizzarsi, nel divenire, è in ogni caso, per Hegel, nient’altro che l’identità; destinata a concretarsi sempre e comunque nella cosiddetta “unità degli opposti”. E poi, fermo restando che, nel sistema hegeliano, la vera identità volesse darsi come movimento e non come quiete – al modo di un’astratta immobilità –, come non ricordare che proprio il divenire doveva risolversi, in Hegel, in un’“unità quieta” nella quale ogni contraddizione sembrava poter essere da ultimo risolta? In ciò la ragione di quella che al fondatore dell’Attualismo sarebbe apparsa come una vera e propria neutralizzazione del divenire, trasformato di fatto in semplice manifestazione dell’identico; lo stesso cui sempre il medesimo divenire avrebbe finito per tornare, per quanto funzionante anche come vero e proprio “inizio” di qualsivoglia processualità – o meglio, di un processo già da sempre operante (sì che non si desse mai una ‘prima mossa’, preceduta da un inizio quieto, perché ogni ipotetica prima mossa sarebbe risultata in verità già da sempre avviata, e nello stesso tempo anche già da sempre risolta in un avviarsi che “da nulla” viene e “a nulla” va… ché non si trattava di ristabilire una sorta di quiete dopo la tempesta). Insomma, agli occhi di Gentile, Hegel avrebbe finito per rendere il ‘movimento’, e dunque la vita reale, pura “parvenza”.

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D’altro canto, per questo stesso motivo, ogni momento “astratto” del medesimo divenire va a costituirsi come solo apparentemente parziale e astratto (certo, in quanto “momento”, esso non può che esser “astratto” – anzi deve esserlo); anche solo in quanto già da sempre risolto nella quiete dell’identità appena evocata – in cui tutto quel che appare (secondo l’ordine del tempo) si ritroverebbe già da sempre ‘compreso’. E per ciò stesso detto nella forma “concreta” che può competere solo a ad un inizio cui da ultimo, e non a caso, tutto sembra destinato a tornare. Ecco, per Gentile, proprio questa idea di un risultato concepito come “neutralizzazione del divenire nel divenuto” è qualcosa di intrinsecamente antidialettico. Non a caso, nel filosofo tedesco, la differenza tra essere e nulla sarebbe rimasta del tutto ingiustificata; di questo è pienamente convinto Gentile – appunto perché il divenire sarebbe stato dedotto a partire dall’identità. Là dove, invece, dall’identità nessun diverso sarebbe mai potuto esser fatto ragionevolmente pro-venire… se non trasformando quella stessa origine in qualcosa di (almeno potenzialmente) già “molteplice”. Stante che l’identità dice l’originario “non esser diversi” dei diversi, ossia il loro essere in verità già da sempre “identici”… da dove proverrebbe, e come potremmo giustificare il semplice fatto del loro distinguersi… e quindi del distinguer-si da parte dell’identità? Ossia, da parte di un’identità che, pur avendo già in se stessa i diversi, può comprenderli ed esserli solo in quanto non-diversi. Avendo la medesima già da sempre “negato” una differenza che, solo apparentemente, dunque, si afferma e si pone “astrattamente”, palesandosi in quella forma intellettuale destinata a far apparire i diversi in sequenza, uno dopo l’altro, o anche… momento dopo momento, come se potessero davvero dimenticare l’identità di cui sono in verità ineludibili espressioni e che – per quanto negata dal loro re-

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ciproco distinguersi, ossia dal distinguersi (per quanto astrattamente) l’uno dall’altro (sempre da parte di quei diversi che, nel tempo, si manifestano appunto uno dopo l’altro, facendosi reciprocamente ed “esteriormente” diversi) – in verità non può dai medesimi venire affatto “obliata”. Stante che lo stesso distanziarsene, rendendosene per ciò stesso liberi, non può che accadere in riferimento ad essa. In ogni caso, è evidente: se non apparisse il “concreto”, neppure potremmo riconoscere l’astrattezza dell’astratto; il quale può costituirsi come tale solo in quanto “separato” (ma dunque per ciò stesso sempre anche relazionato alla sua concretezza) dall’identico. Ma, quel che più fa specie è che, per giustificare la differenza, Hegel chiami in causa la semplice “opinione” – dice infatti, e con la massima naturalezza, il tedesco, che… semplicemente, ‘si opina’; si crede, cioè, che l’essere funga da assolutamente altro rispetto al nulla. Questa, davvero, l’unica ragione in grado giustificare, sempre agli occhi di Hegel, l’insorgenza del “differire”. Riconducibile, cioè, al semplice fatto che lo si ritenga evidente… e che si creda ad esso. Ad ogni modo, se tra l’essere e il nulla, concepiti nella loro assoluta mancanza di determinazione, non v’è differenza alcuna, da cosa potrà mai scaturire la dialetticità, ossia il movimento? L’identità tra essere e nulla esclude che possa già vivere, e pulsare in essa, quella “differenza” di cui il divenire, peraltro, ha assoluto bisogno per essere quel che è. Insomma, nel contesto della prospettiva hegeliana, la differenza rischia davvero di farsi evanescente; e di risolversi in mero ‘fantasma’. L’unica soluzione sembra risiedere nel fatto che il divenire andrebbe inteso non tanto come dedotto; quanto piuttosto come il vero “originario”. Solo in questa prospettiva, diventa possibile riconoscere che il divenire non ha affatto la sua ragione

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nell’identico – trattandosi piuttosto di un semplice “impulso” (che spingerebbe appunto la realtà a divenire)… che, in ogni caso, rimane assolutamente privo di ragioni; avendo la propria unica possibile ragione in se medesimo. Una sorta di impulso originario, e per ciò stesso, necessariamente “infondato”. Esprimente appunto l’originario; e con non minore attendibilità, peraltro, di quanto riuscirebbe a fare la semplice ed astratta identità. Si guardi alla vita del pensiero… ovvero, al suo dispiegarsi originario; al suo disegnarsi nella forma di un atto destinato a negare tutto quel che intenda anche solo “essere quel che è” (e che invece sarà sempre il pensiero, e proprio in quanto pensiero in atto, ad aver posto). Secondo Gentile, dunque, Hegel si sarebbe lasciato sfuggire l’assoluta soggettività del “pensare” – perciò, quella messa a tema dal filosofo tedesco si sarebbe risolta in una mera dialettica del “pensato”. Stante che solo l’attività pura del “soggetto” può fungere da prova della vera e propria originarietà del divenire. Da cui la “negazione” messa in atto dall’allievo di Spaventa nei confronti di qualsiasi tentativo di “fondare” il divenire, mostrandone appunto la condizione di possibilità. Per lui, infatti, la dialettica deve piuttosto limitarsi ad esprimere la “contraddizione” in cui lo stesso “originario” anzitutto consiste: la stessa in virtù della quale quest’ultimo verrà ad esprimersi in un semplice movimento, ossia in un puro divenire. Non a caso, l’Io è intima alterità – dice sempre Gentile… come un “essere che si ripieghi su se stesso”, negandosi proprio in quanto essere. Perciò «questo Sé non è pensabile anteriormente e separatamente dalla coscienza di cui è oggetto nell’autoconcetto. Il quale si realizza nel realizzare il proprio

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oggetto o, per dirla in altro modo, si realizza come posizione di sé oggetto e di sé oggetto»2. Insomma, non si dà mai “prima” il pensare, e “poi” qualcosa come il suo negarsi. Ché in quest’ultimo, a venire negato è di fatto sempre anche il pensare; un pensare, cioè, capace di farsi esso medesimo oggetto nei propri confronti. D’altronde, l’Io altro non è che processo, sempre secondo Gentile. Un processo in virtù del quale lo stesso “pensare” progressivamente si conosce e, così facendo, si crea; ecco perché l’atto mediante il quale l’Io si conosce è lo stesso mediante cui il medesimo si crea. Creandosi, poi, l’atto soggettivo si determina come oggetto, ossia come altro da sé… o anche: come negativo di se medesimo. «L’Io è identità che si pone. È riflessione, sdoppiarsi come sé ed altro, e ritrovarsi nell’altro»3. È l’unità stessa, dunque, che “si” dualizza in quanto tale… e che vive così solo nel suo dualizzarsi e contraddirsi, «ponendo la propria identità a fondamento della propria differenza»4. Fermo restando che tesi e antitesi possono ritrovare la propria realtà solo nella sintesi… la quale è soltanto soggetto. Il soggetto reale vive dunque come “Io”; che, peraltro, deve la propria realtà al suo intimo contraddirsi, cioè all’intima opposizione di tesi e antitesi, rispetto alle quali esso funge appunto da sintesi originaria – sintesi di opposti che esso manterrebbe comunque in originaria unità. Pur divenendo, cioè, esso li tiene “processualmente” uniti. Perciò lo spirito si trova sempre davanti a sé come alla negazione di se medesimo – «ed ecco il dolore provvidenziale che ci spinge di collo in collo […] la molla interna per cui lo spirito progredisce, e vive a patto di 2. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 238. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 239.

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progredire»5. Un dolore provato dal pensiero che nega “negandosi”, nel farsi originariamente altro da sé, e trovando in questo stesso “altro” un vero e proprio limite. Ma allora… i due opposti dovranno essere pensati nella loro unità originaria; in cui, solamente, i medesimi possono sperimentare la propria realtà. La stessa in cui, solamente, il contrasto si fa reale. Ma allora… allora va anche riconosciuto che la negazione è intrinseca e connaturata all’Io – ossia allo Spirito. Insomma, se il suo farsi è comunque un atto dell’Io “in quanto sintesi” – ossia unità e cioè identità –, il “differenziarsi” rimane comunque funzione dell’identità… facendosi per ciò stesso vita di quest’ultima. Insomma, per Gentile il soggetto – il vero soggetto dell’assoluto – rimane comunque “identità”. Ad ogni modo, ha ragione Vitiello quando, rileggendo Gentile, ci ricorda come, in realtà, il vero problema del nostro filosofo sia quello di dedurre la quiete. Ché, se il divenire, in quanto evento dell’identità, dice l’originario… da dove potrà mai provenire la “quiete”? Certo, in qualche modo il divenire è già perfetta quiete – anche solo in quanto valevole e funzionante “come tale” già da sempre. Sì, ma come render conto della pura e astratta quiete? Quella, cioè, realmente estranea al divenire. E dunque concepita nella sua pura ‘differenza’. Da cosa verrebbe resa possibile, ammesso che sia possibile, e soprattutto dove e come potremmo esperirla? Insomma, come si determina la pura quiete?

5. Ivi, p. 234.

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Ma, innanzitutto, è davvero possibile qualcosa come una pura quiete? Da dove, insomma – nell’orizzonte disegnato da questo scenario infuocato (che è poi il nostro) –, lo spazio per individuare qualcosa di veramente e solamente “quieto”? Il fatto è che, se anche l’unica quiete possibile dovesse essere quella guadagnata dal contenuto “posto-negato” dal pensiero pensante… rimarrebbe comunque da capire come sia possibile anche solo ipotizzare qualcosa come una “pura quiete” (in relazione a quanto può davvero darsi nell’orizzonte dell’esperienza…). Una quiete, cioè, non relazionata o in qualche modo contaminata dal “divenire” – rispetto al quale la medesima sembra potersi fare al massimo pura “atmosfera”. Insomma, come facciamo ad ipotizzare e a pensare quel che, per definizione, non rientra affatto nelle nostre possibilità conoscitive? Ecco ciò che resta ancora da capire. Perciò il pensiero non può non porsi il problema costituito da quel che il pensiero medesimo sembra non poter comunque attingere, in quanto “non-pensabile”… eppure nello stesso tempo pensato – sia pur come impossibile, nella forma di una intrascendibile “aporia”. La questione è cioè la seguente: se originario è il divenire, perché mai la quiete, il finito, il limite? Da cosa, cioè, questi ultimi verrebbero realmente resi possibili? E si badi bene che non ci stiamo riferendo alla quiete originariamente negata “nel” e “dal” movimento. Ma a quella che dovrà essa stessa comprendere, piuttosto, il movimento, esibendolo in sé. Da dove, potremmo chiederci a questo punto (per essere più chiari), la quiete non-negata? Una quiete, dunque, “puramente affermata”? Una quiete in grado di costringere a sé finanche il movimento, in quanto ca-

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pace di inglobarlo. Una quiete concepita come verità originaria (come “concreto”, direbbe Hegel) in cui dovrebbe risolversi, da ultimo, la stessa negazione della quiete operata dal movimento trascendentale tematizzato dal teorico dell’attualismo. Una “quiete” in grado di dire la definitiva determinatezza del “concreto”; quello stesso che, in quanto immobile (incatenato alla propria già da sempre risolta verità), non può avere alcuno sviluppo… e proprio in quanto già da sempre in pace con se medesimo. La “quiete” di una perfezione che nessuno e nulla potranno mai negare; indicando proprio il negare l’atto con cui la medesima nega ogni finitezza che intenda dirsi autonoma rispetto al suo intrascendibile orizzonte… in quanto volta a mostrare, nella forma limitata che le compete, quel che, comunque, va mostrato. Volta cioè a mostrare astrattamente… quel che “il concreto”, in virtù del suo stesso atto negatore, riporta alla propria originaria concretezza. Riportandolo a sé – ossia, alla sua stessa eterna definitività; quella che, in quanto intrascendibile, non può mai apparire nella propria determinatezza (ché, se lo potesse, dovrebbe poter apparire come limitata e insieme illimitata… determinata e indeterminata… facendosi intrascendibile, appunto perché costituentesi come determinatezza di un “concreto” intrascendibile e già da sempre risolto). Ché nulla può determinarla ab alio. Insomma, essa non può farsi “de-terminata”, in quanto non può esserci nulla “da cui” la medesima possa farsi de-terminare. Eppure, proprio manifestandosi, ossia determinandosi come tale, essa finisce per rendersi “finita” – cristallizzandosi come datità altra dal “concreto” in cui la medesima consiste. Folle rimane dunque la pretesa di pensarla come “determinata”, cioè pensare di poterne riconoscere la ­determinatezza (come quella che pur sempre appare); da cui la necessità di “negare” qualsivoglia pretesa “datità”, fatta valere come sua – che conseguirebbe al reale determinarsi di una c­ oncretezza

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che, de-terminandosi, si farebbe appunto necessariamente “astratta”. Il fatto è che noi dovremmo saper riconoscere, nella determinatezza del ‘finito’, la stessa indeterminatezza dell’infinito; ossia, del “concreto originario” (che si costituisce come “presupposto”, appunto perché la sua già sempre risolta perfectio non può che venire presupposta da determinatezze di fatto sempre finite e imperfette… e per ciò stesso mancanti, nonché sofferenti). Eppure – come non riconoscerlo? – dobbiamo pur rilevare che è proprio “il finito” ad uscire vincitore dalla lotta con l’infinito. Appunto perché in grado di costringerlo a farsi ‘altro’ dal finito medesimo (come suo “presupposto”, per l’appunto). Di fatto, insomma, il “finito” esce vincitore dalla lotta con l’infinito perché riesce a “de-finire” quel che lo nega (ossia, l’in-finito). Perché è il “finito” a subordinare a sé l’infinito, e dunque il movimento – il quale, per realizzarsi, avrà sempre bisogno di un ordine finito e in qualche modo de-terminato. Ad esempio, quello del prima e del poi. Se è vero che, per muoversi nel tempo, è necessario disporre di una prospettiva futura… Anche perché, se tutto cambia, almeno il cambiamento (secondo il “prima” e il “poi”) dovrà permanere. Perché anche il cambiamento può venir meno solo cambiando. Ma, se le cose stanno così, sarà la totalità del sistema ad imporsi sul movimento. Fermo restando che il sistema si costituisce come lo stesso inoltrepassabile orizzonte del cambiamento. Perciò va riconosciuto che l’identità è in-vincibile ed in-aggirabile. Certo, sappiamo bene che Gentile non vorrebbe subordinare il dialettismo all’identità e all’astratto; sappiamo bene che egli vorrebbe il primato del “concreto” – anche nel Sistema di ­logica, infatti, il nostro si premura di mostrarci come il logo

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concreto non neghi affatto l’astratto (ma solo “il concetto astratto” del medesimo). Ché, al contrario, l’astratto in quanto tale viene, sempre secondo lui, compreso nel concreto. Eppure va anche rilevato come il teorico dell’attualismo si trovi in ogni caso a fare i conti con il problema costituito da un “concreto” che, negando l’astratto, e comprendendolo in sé, non potrà che pensarsi come già da sempre risolto. Sì da costituirsi come orizzonte rispetto a cui qualsivoglia divenire si farà inevitabilmente ancillare (nel senso che potrà al massimo mostrarlo, sia pur astrattamente). Il fatto è che il “concreto” non nega mai un astratto posto fuori di lui, ma la sua semplice pretesa di essere fuori di lui; e la nega mostrando il suo esser da lui originariamente compreso. D’altronde, non potendo mostrarsi nella propria concreta determinatezza, il “concreto” non potrà che farsi “negazione” della determinatezza astratta; sancendo così l’illusorietà della convinzione secondo cui la determinatezza concreta potrebbe farsi in qualche modo “altra” dal semplice negarsi della determinatezza astratta. Eppure, a quella astratta, la determinatezza concreta si contrappone comunque come “un altro” (anche se il “concreto” non è altro dall’“astratto” – e che non sia tale lo mostra il suo incessante negare un “astratto” che non è mai stato fuori di lui, e che viene negato nel suo stesso esser posto da lui – si pensi a Spaventa). Come ciò che da essa viene per l’appunto ‘negato’. Insomma, un “altro” dalla concretezza si pone comunque come tale; perché, solo in quanto così posto, esso può lasciarsi negare. Come non riconoscere, quindi, che, a venire negato, nel suo lasciarsi negare, è appunto sempre e comunque qualcosa che si pone come altro? Che, ad esser come negato, è sempre e solamente un “altro”? Anzi, l’alterità dell’altro.

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Un “altro” che verrà in ogni caso riconosciuto come realmente “altro”. Pena l’irrealtà della sua stessa “negazione”. Ma… appunto: da dove una tale nozione di alterità, se un “altro” dal concreto sembra non potervi assolutamente essere, e neppure poterci essere mai stato? Forse il concreto non è se non il non esser altro di un “altro” che deve porsi – sia pur come negato. Come ciò che non è mai quel che è. Vitiello ritiene che il pensare (ossia, il “concreto”) gentiliano avrebbe dovuto rendere ragione del darsi di qualcosa come “un altro”. E si sente autorizzato a pretenderlo. Ma si tratta di una pretesa fondata? E se, diversamente da quanto pensa Vitiello, l’altro che non è mai tale… non dicesse nulla di diverso dal “concreto” mostrarsi negandosi da parte della sua stessa alterità? Vitiello sa bene che, per Gentile, il ‘cogito’ pensa sempre e solamente se stesso come soggetto (cogito me cogitare cogitata). Perciò ritiene di potersi chiedere: perché… e da dove l’oggetto? Insomma, perché un oggetto “di contro”, cioè opposto al soggetto? Un oggetto che, per definizione, dovrebbe costituirsi come semplice “quiete” o “identità”… e nella forma della “non-contraddizione”. Il fatto è che non basta dire che, senza il “permanere”, non si dà “mutamento”. Dovendosi altresì rendere ragione (lógon didónai) di questo fatto: del fatto, cioè, che, senza il permanere, non si dà neppure mutamento. Certo… si tratta di un fatto della ragione; ché è la ragione a non saper spiegare il movimento senza ricondurlo ad un ordine stabile. Ma sembra non ci possa davvero esimere dal “rendere ragione” di questo fatto – sembra esigerlo la stessa impostazione filosofica gentiliana – che implica appunto il rifiuto di qualsivoglia presupposto.

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Questo, ci sembra di dover dire. Ma… stanno proprio così le cose? Ossia: è davvero giustificata una tale pretesa? E perché mai dovremmo rendere ragione di quel che (nel suo “negarsi”) dice appunto l’originario? Perché si dovrebbe rendere ragione dell’originario… che, in quanto tale, non dovrebbe avere ragioni? Che non dovrebbe averle proprio in quanto valevole esso medesimo, piuttosto, come ragione di tutto. Vitiello ci ricorda che, volendo davvero farsi autoctisi, ossia principio di se medesima… tale ‘ragione’ dovrebbe rendere ragione del suo stesso rendere ragione. Là dove Gentile, invece, sembra rendere ragione solo dell’oggetto, riuscendo a farlo, peraltro, proprio grazie ad un esame della libertà concepita come carattere immanente del pensiero… – il soggetto, infatti, è libero “non” in quanto rispetta “la legge”, ma in quanto la pone. Non l’atto, insomma, dipende dal sistema, ma il sistema dall’atto. Lo stesso andrebbe poi detto anche in relazione al tempo. Il domani, ad esempio, è solo quello che l’atto si prefigura; perché il presente della coscienza è come una circonferenza a raggio infinito (lo mostra bene Gentile nella Teoria generale dello spirito come atto puro). Nella Logica come teoria del conoscere, peraltro, Gentile mantiene sì l’oggetto come oggettivazione del soggetto e lo mantiene come opposto al soggetto, e dunque tiene fermo il principio di identità e di non contraddizione, ma li mantiene all’interno del dialettismo dell’atto – ossia, li tiene fermi solo come momenti di quest’ultimo. Mostrando, da ultimo, come la stessa logica dell’astratto (A=A) abbia senso solo in quanto già intrisa di natura dialettica (sin dall’inizio, infatti, A è uguale ad A solo in quanto uguale a Non-A).

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Ma, se anche l’immoto (ossia, l’identità) si muove… se anche e già l’identità differisce, come potrà mai l’astratto svolgere la propria funzione? Perché esso non ha affatto la stabilità che gli si vorrebbe attribuire – ossia, non dice affatto l’identità necessaria a spiegare il movimento dialettico del concreto. Per questo tutti i tentativi di tenere ferma la distinzione tra logica dell’astratto e logica del concreto “naufragano”. Perché l’identico è tale, ossia è identico a sé, solo in quanto “differente” dal diverso. Ma allora, se per un verso si dovrà riconoscere che non-A non può essere attribuito ad A, per un altro verso, stante che nella formula A=A il secondo A è diverso dal primo A (e dunque non dice altro che Non-A), si dovrà nello stesso tempo riconoscere che A=Non-A proprio là dove A=A. Anzi, che solo tale uguaglianza consente di opporre A=A ad A=Non-A. Fermo restando che questo giudizio viene “negato” per il semplice fatto che, in esso, la contraddizione viene posta al di fuori di A (di A=A); cioè non viene riconosciuta come già presente e vivente in A (o meglio, in A=A). Ma, per Gentile, là dove il pensato è posto dal pensante, è il pensante, in verità, a porre se medesimo. Sia pur nella forma di un altro. Perché altro il cogito, altro il cogitatum. Ad ogni modo – si chiede ancora Vitiello, sempre nel medesimo volume, intitolato Hegel in Italia. Dalla storia alla logica6 –: in che cosa consisterebbe, davvero, l’atto del pensare? In che cosa consiste cioè “l’Io penso”? Nel pensiero; anzi, nel pensiero “determinato” – ossia, nel pensare un questo o un quello.

6. V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Guerini e Associati, Milano 2003.

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Come a dire che, quando penso al teorema di Pitagora, io sono quel teorema. Quando penso un tale teorema, cioè, il mio pensare non si distingue affatto dal processo argomentativo in cui consiste appunto la dimostrazione del medesimo. Ma allora… come determinare la distinzione tra “pensante” e “pensato”? E non si dica – continua il filosofo napoletano – che l’Io che pensa il teorema di Pitagora è quello stesso che, pensando, gioisce e patisce… sente e brama; vive e muore e può morire. Mentre tutto questo non sarebbe pensabile del teorema in questione7. Un discorso, questo, che sposta la questione dell’Io su un altro terreno: che è quello del “sentire”, o del “sentimento”. Un terreno che il filosofo di Castelvetrano affronterà tematicamente solo dieci anni dopo aver dato alle stampe il Sistema di logica8 (cui si riferisce, di fatto, tutta l’argomentazione di Vitiello). Ma riprendiamo il nostro ragionamento: se è vero che, per Gentile, “la sintesi” dice l’originario, è anche vero che, sempre per il nostro, questa stessa originarietà non conviene affatto alla sintesi, ossia, al concreto… in quanto “altro” dall’astratto. Originaria essendo per lui non tanto la sintesi, ovvero il concreto… quanto piuttosto il fatto che l’astratto appaia come tale; come se l’astratto fosse dotato di una consistenza sua propria, al di fuori del suo costituirsi come semplice manifestazione, in quanto “negantesi”, del concreto. Il “concreto”, infatti, non dice altro che il negarsi dell’astratto; il quale, essendo sempre e solamente altro da un altro astratto (solo tra “determinatezze”, infatti, ci si può dire altri gli uni dagli altri), non potrà che rapportarsi anche al concreto come 7. Cfr. ivi, p. 145. 8. Il volume intitolato Sistema di logica come teoria del conoscere sarebbe stato pubblicato da Giovanni Gentile, in seconda edizione completa, in due volumi, presso l’editore Laterza (Bari) nel 1922.

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se si trattasse di un “altro da sé” (sì da rendere anche quest’ultimo un “astratto”). Ma il concreto non è un “altro”; perché dice sempre e solamente il non esser altro dell’altro. Da dove, dunque, l’astratto, ossia il semplicemente identico a sé? Una sola, la risposta possibile: dal suo negarsi – quello in cui si risolve il “concreto” medesimo. L’astratto, cioè, non dice altro che l’originario esserci del concreto in quanto esso medesimo “originariamente astratto”. In quanto ineludibilmente presente nel negarsi da parte di un astratto che, in questo stesso negarsi, non dice certo di essere un “altro” rispetto alla propria astrattezza (che è altra solo dall’astratto… e dunque da se medesima). Perciò l’astrattezza del concreto originario si dice nel darsi come originario da parte di un identico che sarà solo esso, di fatto, veramente “altro-da-sé”. D’altronde, già nel 1909, ossia nel saggio sulle Forme assolute dello Spirito9, Gentile aveva rivendicato l’originarietà dell’Iosintesi – ovvero, la sua “apriorità”. Insomma, alla radice della dualità di “Io” e “Non-Io”… non starebbe certo l’Io, che è opposto al Non-Io, ma solo l’unità ancora indistinta dei due termini, ossia il tutto. Quello che ognuno di noi sente palpitare e agitarsi conformemente al ritmo della propria coscienza, e pur sempre in conformità ad un dinamismo di per sé assolutamente universale. Ma ciò significa che l’Io opposto al Non-Io rampolla da un Io originario che Gentile definisce appunto “unità ancora indistinta”. 9. G. Gentile, Forme assolute dello Spirito, in Id., Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Laterza, Bari 1909.

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Originaria la “sintesi”, dunque, ma… ancor più originaria, sempre secondo Gentile, l’unità “ancora indistinta” dei due opposti – che non è Io, ma “radice” tanto dell’Io quanto del Non-Io. Ma una radice che non allude affatto a qualcosa d’altro rispetto alla sintesi. Questo, il punto. Insomma, la radice della sintesi non indica un “ek” di provenienza; ossia, un presupposto. Un “altro”. No. L’in-distinta unità va intesa piuttosto come quel che i distinti medesimi (soggetto e oggetto) finirebbero per dire, in virtù del loro semplice ed “originario negarsi”. La domanda a cui dovremmo a questo punto rispondere è però la seguente: a cosa allude di fatto questo “negarsi”, stante che non si tratta di quello che noi, dopo il Sofista platonico, siamo soliti concepire come semplice “rinvio” ad un altro? Non è certo un caso che Gentile si affretti a precisare che non esiste neppure un momento in cui la sintesi manchi (in cui manchi cioè la “relazione tra gli opposti”); in cui, cioè, la radice non abbia ancora germinato. La “radice” è infatti, per lui, solo nella pianta che dalla medesima germoglia. Fermo restando che uno dei rami di questa pianta ha un pregio particolare; che tutti possiamo riconoscere, in relazione alla coscienza. E cioè al soggetto. Ossia, all’Io in quanto vera antitesi del Non-Io. Perché solo quest’ultimo sembra in grado di conservare nella memoria l’immemoriale. Facendosi memoria della radice per come essa doveva o poteva esser stata, a prescindere dal suo stesso germinare. In ogni caso, la coscienza non è mai solo coscienza; ossia custodisce sempre in sé, immanente, anche l’autocoscienza – se è vero che solo per quest’ultima viene conservata la memoria dell’immaginaria radice, fonte immemoriale di ogni esistenza. Una radice che va dunque essenzialmente ri-cor-data; fermo

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restando che sempre la medesima dovrà anche dirsi “altra” (per quanto nella forma di un’alterità “negata”, ancora una volta) dalla differenza… che, guarda caso, non può che vederla e riconoscerla come “un altro”. Come radice ricordata, cioè, dall’interno dell’orizzonte della differenza; ricordata dunque come “differenza” che non vive solo nella forma di una datità immota… e, in quanto tale, puramente positiva. Appunto perché sempre “negantesi”. Il fatto è che qui, nell’orizzonte della “differenza”, ci si può sì rapportare ad un altro; ma in questo caso, a venire evocato e ricordato è un altro “che non è altro”; ecco perché non vi ci si può rapportare con il logos, che non potrebbe che distinguere (distinguendo anche l’identità dalla differenza). Bisognerà piuttosto appellarsi a qualcosa che non potrà essere “pensiero”. Davvero, infatti, questa coscienza-memoria non può costituirsi come “pensiero” – “pensiero” v’è infatti solo in relazione alla dualità unificata del “concreto” e dell’“astratto” – del soggetto e dell’oggetto. Il pensiero, infatti, si produce solo nella e per la “relazione” – appunto, come sintesi di soggetto ed oggetto. Il primato dell’Io, insomma, starebbe solo in ciò: che esso “sente” la radice immemoriale dello Spirito – una radice mai presente “in sé” – ma sempre e solamente in “altro”, e come “altro”. Quello che da essa stessa, peraltro, promanerebbe. L’indistinto, infatti, dal punto di vista dell’astratto “determinato”, non può che venire ricordato come “un altro”… stante che l’astratto non vede se non “altri”; per quanto l’orizzonte in cui tutto è altro da un altro coincida con lo stesso orizzonte del logos (fondato di fatto sul principio di non contraddizione). Ad ogni modo, ad avvertire l’autentico “senso” del negarsi dell’astratto, non è certo il logos; destinato, come tale, a trasfi-

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gurare il negarsi, riducendolo a mero rinvio ad un “altro”. Non il logos, dunque – ma un semplice “sentimento”. Perciò il pensiero, in quanto sintesi di Io e Non-Io, rinvia sempre e comunque al “sentire”; e quindi ad un “sentimento”. Che sente ciò che, in quanto eterno passato – in quanto passato che, nell’atto stesso di nascere, muore –, muore appunto in quanto sentimento, e nasce come “pensiero”. Muore, cioè, come “passato”, e nasce come “presente”. Fermo restando che, nel cogito, cioè nell’Io che funge da antitesi rispetto al Non-Io, si conserva solo “una traccia” di tale eterno-passato. Ossia, di un “immediato” che è tale, di fatto, solo nella mediazione. Che è tale solo nella “negazione”. Stante che il pensiero nega l’immediato facendolo valere come “un altro”; solo così, infatti, noi “concepiamo” l’identità immediata – pur potendone avere un “sentimento”. D’altronde, la “negazione del sentire”, operata dal pensiero, rimane in ogni caso l’unico modo, per lo stesso sentire, di farsi “presente”. Se non che… in un’opera della maturità, Gentile tenterà comunque di recuperare quel che, sin qui, veniva ancora riconosciuto come solo ‘ricordabile’ dal pensiero in atto. Il riferimento è alla Filosofia dell’arte10, dove il nostro sembra proporsi di recuperare, dal passato intemporale dello spirito, proprio quell’identità che il “logo astratto” (non meno del “concreto”, peraltro) avrebbe finito per continuare a “negare” nella differenza istituita appunto dal giudizio.

10. G. Gentile, Filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 1975.

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2 Diciamolo subito, comunque: l’identità del “sentimento immediato”, per come esso viene tematizzato nella Filosofia dell’arte, non è affatto diversa dall’Io “radice” evocato nello scritto sulle Forme assolute dello Spirito. In quest’ultimo lavoro, infatti, Gentile affermava che, dovendo la vera assolutezza costituirsi come risoluzione della relatività, la medesima non può certo ammettere una relatività accanto a sé. Per questo, sempre secondo lui, si sarebbe dovuto riconoscere che l’oggetto della coscienza (che è poi lo stesso soggetto, solo, oggettivato e risolto in un suo momento determinato) non è altro che il sé “variamente determinato” nel flusso dell’unità. Lo Spirito, dunque, non è sintesi di due opposti nati come tali; ma di due opposti rampollanti dall’unità fondamentale dello stesso soggetto o Io; un’unità che in ogni caso non va assolutamente confusa con quel che diciamo quando diciamo “Io”, riferendoci all’opposto del Non-Io. Perché allude piuttosto a quell’Io radice (che diventa a questo punto problematico anche solo definire “Io”) che chiama in causa l’unità ancora indistinta dei due termini, ossia il Tutto, di cui ognuno di noi sente il ritmo nella propria coscienza; sentendolo appunto come palpito universale. Certo, qui l’Io evocato da Gentile non dice l’“indistinto” come qualcosa che precederebbe i distinti; per quanto sia lo stesso fondatore dell’Attualismo a rischiare di tradirsi, là dove, a proposito di tale ‘principio’ e della sua unità, usa l’espressione “ancora indistinta”. Il fatto è che i distinti devono darsi anche come solamente “distinti”. A dire il vero, l’identità evocata da Gentile in qualche modo lo è, ancora, indistinta, se non altro in rapporto a quei d ­ istinti

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che devono comunque e da qualche parte riuscire a darsi come anche ‘privi’ dell’unità indistinta, e dunque come “altri”… non già detti dalla medesima – sì da poter costituire un vero e proprio “ostacolo” per noi. Ciò che accade sempre, di fatto, là dove una differenza si offre come ‘altra’ da noi. Senza che per questo ci si possa sentire autorizzati a ritenerli davvero e astrattamente “autonomi” rispetto all’unità dell’Io. D’altro canto, è proprio di questa loro ‘astratta’ distinzione che l’Io si fa ab origine “unità indistinta” (negando proprio tale astratta distinzione). Perciò, là dove non si desse (ancora) la mera positività dei distinti, finirebbe per non potersi dare neppure quella che viene riconosciuta come loro “negazione”… perché, là dove apparisse una differenza, sia pur negata, ci si dovrebbe comunque riconoscere abbagliati da una mera parvenza o un semplice inganno ottico. Davvero, insomma, la realtà del negarsi che sempre appare è toto caelo connessa alla realtà della distinzione astratta – indipendentemente dalla quale mai potrebbe darsi qualcosa come la sua (non meno realistica) “negazione”. Eppure, va anche detto che l’astratta distinzione, “in quanto originariamente negata”, non può essere quella stessa che a noi si presenta appunto come “datità”, e che viviamo di norma con dolore, in quanto la percepiamo come ostacolo e alterità reale. Ossia, “deve” essere altra da quest’ultima. Per quanto come un “altro” che non è affatto l’altro che dice di essere; altrimenti l’identità che nega l’astratta distinzione non sarebbe semplice “negazione” di questa distinzione, ma in quanto “altra” da essa, si ritroverebbe ancora una volta assoggettata al suo (della distinzione) Nomos. In quanto ‘distinta’, infatti, essa non riuscirebbe a costituirsi come vera e propria “negazione della distinzione”. Fermo restando che, anche là dove non si distinguesse, il suo esser

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“negata” e il suo non esserlo direbbero da ultimo il medesimo. Ecco perché “deve assolutamente darsi” finanche l’astratta distinzione, cioè quella “non-negata” – e deve darsi come realissima (nonostante Gentile) –, ché è solo quest’ultima a lasciarsi per l’appunto “negare”. Anche se questo suo stesso lasciarsi negare – ribadiamo – non potrà aggiungere nulla alla distinzione “non-negata”. E dunque – si dovrà per ciò stesso rilevare – non può in alcun modo modificarla (qualsivoglia modifica, infatti, la trasformerebbe in qualcosa d’altro – di mancante, appunto, alla pura e astratta distinzione). Da ciò il mistero, ossia l’enigma di una “negazione” che non aggiunge davvero nulla a ciò di cui pur si costituisce come “negazione”; né lo modifica. In modo tale che il suo “non-essernegata” appaia davvero… costituendosi come quello stesso di cui si riconosce insieme l’esser originariamente “negato”. Dove, il mistero dipenderà propriamente dal fatto che risulta assai difficile capire cosa comporti davvero questo suo “essernegato” – stante che, come abbiamo appena rilevato, tale negazione non può aggiunger nulla di positivo a quel che viene dalla medesima per l’appunto negato. Ad ogni modo, Gentile è chiaro, almeno su un punto: ‘prima’ del distinguersi dei distinti, del loro realissimo (per quanto negantesi) distinguersi, non v’è nulla. Nessuna unità indistinta vive, per lui, al di qua del distinguersi di cui la medesima deve valere come il perfetto oscuramento-annullamento: prima che si levi la luce della coscienza con l’atto distinguente-uniente di soggetto e oggetto, lo spirito non c’è. Un istante in cui tale luce non sia, non è mai dato. Certo, l’Io-sentimento è per Gentile destinato all’Io-penso; ché, solo in funzione di quest’ultimo, esso si lascia riconoscere per quel che è; ossia, come puro sentimento.

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Ma ciò significa che sin da subito l’Io-sentimento è coinvolto nel dialettismo del pensiero, e quindi nel suo “movimento”. D’altro canto, sempre secondo Vitiello, sarebbe solo la possibilità di una “fine” a salvaguardare il cambiamento dal suo stesso ‘essere’, ossia dal dominio dell’identità. Solo se il cambiamento potesse ‘finire’, il differire non verrebbe assoggettato ad una identità destinata a dominare incontrastata per tutto il corso di un divenire… ‘costretto’ a divenire per l’eternità. Ma anche qui, vien da chiedersi: non dovremmo forse riconoscere che finanche questa possibilità della “fine” di tutto finirebbe per ritrovarsi inscritta nell’orizzonte del divenire? Non è cioè essa medesima espressione di una delle possibilità di quel divenire, che, solo, rende possibile finanche il ‘passaggio’ definitivo alla fine di tutte le cose? Anche questo conclusivo sarebbe infatti “un passaggio – rinviante di fatto a quello stesso divenire di cui avrebbe voluto costituire la più radicale messa in questione. Anzi, proprio tale passaggio finisce per disegnare l’estrema opposizione; quella che, sola, può fondare l’ordine definitivo”, e dunque il definitivo trionfo dell’identità. Vitiello cerca in tutti i modi di concepire ed indicare un’identità che sappia farsi meramente “opposta” al movimento; costituendosi come un semplicemente “altro” rispetto a quest’ultimo. Come alterità che sempre finirebbe per sottrarsi a qualsivoglia presa, sì da favorire il cambiamento, ma nello stesso tempo negandolo – e nella forma più radicale. «Solo la possibilità della fine – ci dice il filosofo napoletano – salvaguarda il cambiamento dal suo stesso essere. Ma questa possibilità non appartiene al futuro, più che al passato. Non appartiene al tempo […] perciò la possibilità della morte concerne non il tempo, ma l’esistenza. Il mutamento in totalità.

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Il pensiero è davvero pensiero in atto solo se non s’arresta in nessun istante in una figura determinata, de-finita […] solo se sa riconoscere il suo limite, non storico ma essenziale. Come dire […] solo il pensiero mortale è davvero infinito»11. Vitiello ritiene insomma che l’assolutizzazione del divenire operata da Gentile non riesca; e si impegna a mostrarcene l’autocontraddittorietà; facendoci altresì vedere come essa si rovesci da ultimo nel dominio “ingiustificabile” (e presupposto) della permanenza, e quindi dell’identità. Ma l’identità gentiliana non dice l’altro in cui finirebbe per rovesciarsi (dialetticamente) il “diverso”; non riuscendo a disegnare l’orizzonte di un puro altro che non dica il semplice manifestarsi dell’immobile quale indeterminata “negazione” della mobilità del mobile. Che valga cioè come indicazione di un “altro” (immobilmente altro dal mobile) – in grado di tradire la mobilità del tutto. La quale può venire tradita solo da un immobile concepito come semplicemente diverso dalla mobilità – là dove, invece, a venire indicato da quello, non è altro che la mobilità concepita nel suo semplice “negarsi”.

3 Una cosa è certa: il problema dell’arte non viene trattato da Gentile come semplice curiosità, ma come vero e proprio problema filosofico. Non si tratta cioè di mera accidentalità, ma di qualcosa di assolutamente necessario12.

11. V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, cit., p. 149. 12. Cfr. G. Gentile, Filosofia dell’arte, cit., p. 5.

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Perché l’arte è, ai suoi occhi, quanto di più intimo vi sia in rapporto all’uomo; e quindi di meno separabile dalla sua vita. Potremmo anche dire che, così come non può spogliarsi di sé, allo stesso modo, per Gentile, l’essere umano non può neppure privarsi dell’arte; «e non può non trovarla “dentro di sé” come un aureo filo intessuto alla trama della sua vita»13. Perché, in tutte le forme d’arte, a darsi, è, sempre per il maestro dell’attualismo, «un abbraccio sempre più possente che lo spirito umano dà a tutte le cose materiali che lo circondano, o di cui egli si circonda, per assimilarsele e farne espressioni dell’inesauribile vita che gli sgorga di dentro; vita di un sentimento onde tutto si anima e parla e s’innalza in un mondo superiore a quello delle cose materiali e finite»14. Ragion per cui, se è vero che va inteso come processo, allora è chiaro come, nei confronti delle cose materiali – la cui forma immediata è quella della datità (esse infatti si presentano all’Io come oggetti ‘indipendenti’… cioè, non fatti dall’Io medesimo) – l’Io gentiliano abbia il compito primario di superare il dolore provvidenziale che ci spinge di collo in collo (per dirla con lo stesso Gentile); un dolore provocato da tutto quel che “sembra” fare (e “fa”) da ostacolo alla nostra attività. Provocato, cioè, da oggettualità che possono venire vissute come ostacolo… solo là dove non se ne capisca il senso (quello che esse avrebbero cioè per la mia esistenza). Solo in quanto non se ne capisca il senso, infatti, queste ultime possono davvero costituire un reale ostacolo per l’Io. L’uomo appena nato «ha appena aperti gli occhi alla luce, e già nelle fasce […] cerca nel duro mondo in cui gli tocca vivere le

13. Ivi, p. 6. 14. Ivi, p. 7.

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condizioni adatte e favorevoli alla sua esistenza»15; ed è quindi «proclive al pianto quando urti in un ostacolo da superare»16. Ecco, questo essere umano «è aiutato a vincer la lotta e quasi sollevato al di sopra di essa – là dove tutti gli ostacoli e i limiti dell’esistenza naturale siano stati superati nell’infinità dello Spirito – dalla dolcezza del canto materno, che, solo, sembra in grado di trovare le vie del cuore, molcere gli affanni, tergere le lacrime e dare la serenità»17. C’è qualcosa, insomma, che sembra poterlo aiutare a superare l’estraneità del mondo. Qualcosa che proverrebbe dal suo interno, anzi dal suo passato più profondo… o anche: da quella cura materna che non è mai stata concetto, ma puro e semplice “sentimento”. È l’amore materno, infatti, a farsi condizione di rafforzamento per una convinzione come quella che, sola, sembra consentirci di superare l’immediata estraneità dell’esistente; con cui, peraltro, ci troviamo sin dall’inizio in relazione. L’altro è qualcosa di originario per l’Io – perché l’Io di Gentile non è mai puro Io; ma parla piuttosto dell’originarietà di una vera e propria opposizione (in forza della quale, peraltro, si articola finanche la sua critica ad Hegel). Insomma, a venire a galla è qui una forza che verrebbe a noi dalla nostra stessa Origine – o Madre/Origine. La cui potenza risulta rasserenante solo perché, tramite essa e grazie ad essa, l’opposizione originaria sembra riuscire a dirci che, ad esser altro, in essa e per essa, è per l’appunto il medesimo. Sì da svelare il suo (dell’opposizione) originario costituirsi come parola doppia ed oppositiva dell’identità. 15. Ibidem. 16. Ibidem. 17. Ivi, pp. 7-8.

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Ma l’identità – e questo è forse il punto più interessante – può manifestarsi, sempre secondo Gentile, solo tramite un sentimento. Lo stesso che, così come accade in virtù delle cure materne nei confronti del bambino, sembra sgorgare dal cuore più profondo dell’esperienza artistica. Dice infatti Gentile che la dolcezza del canto materno infonde serenità con «quello stesso potere catartico che avrà sempre sull’animo dello stesso uomo fatto adulto e sempre più pensoso dei dolori del mondo ogni opere schietta d’arte che gli svelerà la sua bellezza»18. Poi il nostro mostra anche come lo stesso bambino, e proprio in virtù di questa spinta, cominci a muoversi e a raccogliere pagliuzze e pezzetti di carta, fino a quando, con il lapis e i carboni, comincerà a disegnare le sue figure… ossia, a riordinare il mondo. A riordinarlo, cioè, rendendolo in qualche modo conforme ad una sua vaga idea (un’idea che gli brillerebbe da lungi nell’animo). Da allora in poi, e per tutta la vita, sarà «uno sforzo incessante per riuscire, con le proprie forze e con quelle degli altri (che si fondono con le sue), nella produzione delle cose belle di cui l’uomo va in cerca, e che, trovatele, non si stanca di contemplare e gustare, facendone suo proprio alimento e patrimonio e quasi sostanza della sua stessa anima»19. L’arte, insomma, costituirebbe il proseguimento di un istinto che da sempre sembra spingerci a negare l’estraneità del mondo; a dimostrazione del fatto che, proprio nell’alterità del mondo oggettuale, a dirsi, è sempre e comunque qualcosa che già pulsa in noi. Qualcosa che, se portato alla luce, non potrà che fare, dell’oggettualità medesima, un puro speculum; per

18. Ivi, p. 8. 19. Ibidem.

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il semplice fatto che, solo sulla sua superficie, riusciremo a vedere finalmente noi stessi – e quindi a rifletterci. Una bellezza, questa, che, anche là dove venisse realizzata e conseguita, proverrebbe comunque da noi. E in virtù di una forza manifestantesi come “canto”. Non è certo un caso che Gentile parli del canto materno come origine di questa stessa nostra capacità. Quella che ci consentirebbe di «colmare le lacune del mondo dell’esperienza»20. Di colmarle, appunto, con i «fantasmi dell’arte»21. È il canto, dunque, a muoverci… a darci la forza per negare l’alterità del mondo (si noti che quella dell’alterità è in ogni caso un’esperienza di “pensiero” – stante che il “divenire” in cui si mostra la verità dell’identità originaria, mostrandovisi appunto come opposizione, come “differenza”, è per Gentile nient’altro che la soggettività del pensare… un “divenire” irriducibile di fatto a quello da Hegel risolto invece nella quiete caratterizzante un risultato inteso come puro “essere-determinato”, risolto cioè nella forma di un ‘pensato’). Il canto sembra invitarci a ricondurre la “differenza” in cui si dà ogni atto di pensiero – che è sempre “coscienza di qualcosa”, anche là dove tale qualcosa sia quel sé che, comunque, per Gentile, «non è mai pensabile anteriormente e separatamente dalla coscienza di cui è oggetto nell’autoconcetto»22 – alla sua vera e propria “radice”. Il canto come voce di un’identità che agisce e si rende riconoscibile solo in virtù dell’originariamente costituitasi opposizione; rendendosi riconoscibile anzitutto per la ritmica di questa stessa opposizione originaria – quale movimento musicale destinato a dire gli opposti nella loro

20. Ibidem. 21. Ibidem. 22. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 238.

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verità, e cioè nel loro originario movimento (che è come tale negazione della loro astratta oppositività o determinatezza). Dunque, già in queste prime pagine della sua Filosofia dell’arte, Gentile ci mette a disposizione gli elementi per riconoscere il ruolo centrale che la musica e il ritmo rivestono nel contesto della sua prospettiva estetica. Fermo restando che, per lui, come già detto, l’uomo va in cerca delle cose belle solo «per riuscire a colmare le lacune del mondo dell’esperienza con i fantasmi dell’arte […] cose belle che l’uomo non trova già esistenti, ma crea con divina potenza»23. Insomma, gli umani si raccoglierebbero in un sentimento solo: «quello che l’artista ha espresso nella tragedia, nel canto, nella sinfonia […]; un’anima che è in tutti identica e perciò veramente umana, e per ciò stesso capace di ritrovare la propria unità attraverso epoche e nazioni e razze diverse […] quantunque ogni opera d’arte rechi l’impronta indelebile del tempo e del luogo in cui nacque»24. In forza e in virtù del manifestarsi della bellezza, quindi, a palesarsi sarebbe qualcosa di non condizionato dalla peraltro intrascendibile storicità che questa o quella esperienza della bellezza hanno sempre dovuto riconoscere quale loro espressione determinata. Ed è proprio in virtù di tale esperienza, che i molti rivelano la propria inconfondibile unità; e le componenti parziali e determinate dell’unità (che è sempre e comunque chiamata in causa) riescono a ‘risolvere’ le proprie lacune, le proprie mancanze… sì da rendere evidente l’identità che unisce ab origine anche cose che sembrano del tutto prive di fattori comuni. O meglio, ciò che, nelle cose, non è affatto riconducibile a quelli

23. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 8. 24. Ivi, p. 9.

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che potremmo riconoscere come i loro ‘fattori comuni’; e che perciò sembrerebbe poter dare voce ad una “differenza” totalmente priva di identità – ad una differenza per ciò stesso rigida ed astratta. Ossia, non risolvibile in quel divenire che, solo, sembra poter dire la verità degli opposti o diversi. Per una tale esperienza, sembra poter trovare la propria unità anche l’elemento soggettivo dell’esperienza; ossia, tutti quegli individui che si rapportano all’opera ed hanno modo di farne una reale esperienza estetica. Tutto ciò risulta quanto mai commovente ed eloquente, sempre secondo Gentile. In questo contesto, il nostro ci invita quindi a riflettere su quel che accade in una sala da concerto; là dove «una moltitudine d’uomini d’ogni età, sesso e condizione, tralasciata la fatica quotidiana […] obliate le cure personali, si raccoglie tutta in un sentimento solo: quello che l’artista ha espresso nella tragedia, nel canto, nella sinfonia»25. Così uniti, ci dice Gentile, gli esseri umani sentono la propria identità; e si ritrovano accomunati da un unico sentimento – quello che anche Kant avrebbe considerato connesso al “piacere estetico”. Dunque, che questa o quella siano delle opere d’arte, appare evidente, sempre secondo il filosofo di Castelvetrano, proprio in ragione del fatto che, al suo cospetto, i molti esseri umani sembrano vocati a “negare” il proprio differire l’uno dall’altro. Insomma, è come se ognuno di quei diversi sentisse in sé la luce dell’arte; riconoscendola in virtù di un “sentire” che non si rapporta mai a qualcosa di semplicemente “altro” da sé; facendo, anzi, dell’altro (quello in relazione a cui, solamente, esso medesimo – tale sentire – sembra potersi costituire), l’occasione per realizzare di fatto due vere e proprie negazioni.

25. Ivi, pp. 8-9.

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La negazione dell’alterità dell’altro, in cui posso riconoscermi e ritrovarmi a casa, e quella di un sé che, in quanto tale, potrebbe anche fermarsi al riconoscimento della propria identità in senso esclusivo o escludente (ossia, al riconoscimento di ciò che lo identifica rendendolo nello stesso tempo concepibile come semplicemente altro dagli “altri”). Perciò, forse, l’essere umano è naturalmente artista; ché, «da quando albeggia in lui la coscienza, per tutta la vita, in ogni condizione e maniera di vivere, egli si trova davanti, dentro la sua propria coscienza, questa luce dell’arte»26. Certo, il proprio della vita spirituale, a differenza di quella naturale, è che, in essa, l’essere coincide immediatamente con l’essere saputo e conosciuto; ma, se ognuno di noi è naturalmente artista, e vive la propria vita spirituale partecipando continuamente al mondo dell’arte, ognuno di noi sarà «pure naturalmente portato a sapere che c’è questo elemento essenziale nella vita sua»27. Fermo restando che nulla, del mondo, può essere da noi accettato come “non-consaputo”; stante che nulla di oggettuale (nulla di quel che appare a noi come altro da noi stessi, che ci si ponga di-contro) può passare “inosservato”; «niente posto lì, o lì in atto di venirsi attuando, a maturare come un germe, a crescere come un organismo vivente, senza che quel principio stesso che lo fa esser lì, o muovere nel suo attuarsi e maturare e crescere, lo assuma come termine di consapevolezza e materia di esame»28. Infatti, l’Io è all’origine di tutto.

26. Ivi, p. 9. 27. Ivi, p. 10. 28. Ibidem.

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E, sempre per lo stesso motivo, il medesimo Io non potrà neppure rimanere indifferente alla straordinarietà dell’esperienza estetica – non potendo fare a meno di commisurarla alla propria principialità. Sì, perché la vita dell’oggettualità – e non solo di quella concepita nella sua determinatezza staticamente intesa –, è sempre e tutta riconducibile ad un “principio” che l’essere umano cercherà in ogni caso di assumere quale termine di consapevolezza e materia di esame. L’Io, infatti, non può non riconoscersi, da ultimo, quale origine di quella stessa vita oggettuale, di quella crescita e di quel divenire. Ché è proprio Lui a costituirsi quale apertura del divenire, ossia come divenire. Sì che anche il divenire dell’oggettualità, in quanto fatto oggetto di pensiero, in quanto, cioè, ci si rapporti ad esso con lo scopo di negare la sua supposta ed eventuale autonomia, apparirà come generato e avente il proprio principio nella soggettività. Ossia, nell’atto di un soggetto che non può mai rinunciare – come avrebbe precisato Gentile – a “ritrovarsi nell’altro” (secondo quanto si dice anche nella Teoria generale dello spirito). E dunque a ritrovarsi come principio stesso di quella vita e del suo movimento – cioè, della sua esistenza dinamica. Sì, perché il reale soggetto di ogni movimento è per Gentile sempre e comunque l’Io – il quale dovrà in ogni caso la propria realtà al suo intimo contraddirsi. Ecco perché quello dell’arte è un «problema di cui nessuno può disinteressarsi»29. Stante che quel che accade, in essa (cioè, nell’arte), e viene reso possibile dalla medesima, altro non è che il mostrarsi “originariamente mio” da parte di quel 29. Ivi, p. 13.

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che potrebbe anche sembrare, in quanto natura, semplicemente “altro da me”. D’altronde, è anche un fatto che il divenire della natura, o meglio dell’oggettualità “in quanto vissuta come natura”, disegni un movimento ripetitivo, stabile… e immobile. Che va dunque ricondotto alla sua vera origine. E per ciò stesso trasfigurato dal fare umano, che non potrà fare a meno di volerlo rendere “bello”. Ecco perché l’arte è qualcosa che riguarda tutti (perciò tutti – avrebbe detto qualche tempo dopo Beuys – sono ‘potenzialmente’ artisti). Eppure, abbiamo visto con Gentile che l’arte è un vero e proprio problema per il pensiero. Ma cos’è in senso proprio “un problema”? Potremmo dire che si configura come un ‘problema’ ogni ostacolo che il pensiero si trovi costretto a superare per procedere oltre… assecondando quello svolgimento in cui consiste propriamente la sua vita – anzi, il suo stesso essere. Fermo restando che, per “pensiero”, si dovrà intendere qui non tanto un attributo dell’essere pensante, quanto l’essere pensante medesimo30. “Problema” è insomma il limite con cui s’incontra il pensiero e al quale esso non può rassegnarsi, senza rinunziare per ciò stesso ad una “infinità” che dice sempre anche “libertà” – e quindi alla propria esistenza. Che è peraltro il suo unico vero oggetto. Sì, quello che dapprima non è conosciuto – e poi viene conosciuto; in modo tale il suo rapporto con il pensiero (la

30. Cfr. ivi, p. 13.

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conoscenza stessa) si configuri come un vero e proprio passaggio dal non-essere all’essere31. Infatti, l’oggetto, in quanto non-artistico, propriamente non è; questo ci sta dicendo Gentile. Solo per questo, compito della coscienza – un compito realizzabile proprio grazie al fare artistico – sarà quello di “farlo essere”. D’altronde, già secondo Platone la poiesis sta ad indicare «ciò per cui qualcosa passa dal non-essere all’essere» (he gár toi ek toû mè óntos eis tò òn iónti hotoioûn aitía pâsá esti poíesis). Dunque, la cosa, ‘in se stessa’, non-è; perché viene fatta essere solo da quel fare che, proprio ri-ordinando il mondo, può anche renderlo “bello”. Rendendo bello ciò che, nella sua distinzione da me, dice in ogni caso l’altro in cui, solamente, l’identico che io stesso sono, può riconoscersi; riconoscendovisi appunto come “negazione della sua alterità”. Per una radicale eliminazione del limite costituito dalla sua solo apparente estraneità. Un’estraneità, cioè, che sarà apparente nella misura in cui indicherà qualcosa di fatto essere dal soggetto medesimo che vi si rapporta come a qualcosa di estraneo. Ma che è reale, nella misura in cui, nello stesso tempo, a dirsi, in essa, è appunto una reale alterità. Un’alterità che, se non fosse reale, sempre secondo Gentile, non potrebbe neppure venire riconosciuta come espressione dell’originaria “differenza” in cui, solamente, l’identico vive appunto come divenire.

31. Cfr. ivi, p. 14.

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Infatti, sin tanto che non viene ‘conosciuto’, l’oggetto sta lì, al confine, a far sentire al soggetto il proprio limite. Mentre, quando riesce a conoscerlo, il soggetto vede cadere il proprio limite, e si ritrova, proprio in quanto “pensiero”, “solo”… ovvero, nella sua perfetta infinità. Anche se, di fatto, tale dualità sgorga da un’originaria unità, che è poi la ­ragione ultima dell’unità finale (questo lo si è largamente esposto altrove)32. La dualità, dunque, sgorga dall’unità originaria come sua vera e propria facies; perciò la medesima, in senso proprio, non viene mai “da”, ma si dice, nello stesso dirsi da parte dell’identità originaria… dicendosi come sua immediata manifestazione. Quella che sempre si dice, appunto, in virtù di un movimento che non va dall’uno ai molti, e neppure dice l’esser già passato dell’uno nei molti. Questo, il punto. Ché il pensiero, secondo Gentile, da sempre deve fare i conti con tale problema: «Questo oggetto non ancora conosciuto, e da conoscere, è, sempre, il problema del pensiero. Problema eterno, s’intende»33. Per il pensiero, infatti, v’è sempre qualcosa di non-conosciuto da conoscere; perciò «deve dirsi che sempre si viene a conoscere quel che non si conosceva»34. Ecco perché il pensiero non sarebbe neppure quello che è, se non si ritrovasse inscritto in un originario rapporto con l’altro; o meglio, con un “altro” dato a lui come perfettamente “estraneo”. Ossia, come vero e proprio ostacolo da superare. Come altro, cioè, di cui non può esser data, in alcun modo, l’identità con il pensiero medesimo. 32. Cfr. ibidem. 33. Ibidem. 34. Ibidem.

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Perciò, ogni volta che raggiunge determinati confini, il soggetto, «se non cessa di vivere, e però di pensare, comincia a scavare dentro quei confini, per aver ogni giorno dinanzi a sé l’oggetto da conoscere e quasi riguadagnare il suo problema perduto con la conquista della soluzione»35. L’Uno, quindi, non gli appare mai come “già passato nei Molti” (secondo quanto si potrebbe anche finire per credere, a partire dall’attestazione dell’originarietà del differire e dell’estraneità di un “altro” che, sempre, incontrerò come problema per me) per il semplice fatto che ogni alterità (e dunque ogni forma di molteplicità) si costituisce per lui come “problema”. Infatti, se in relazione a tale alterità l’Uno fosse già da sempre passato nell’Altro (come avrebbe detto Hegel), l’Altro non potrebbe affatto costituirsi come “problema”. L’Uno, insomma, non si dice già ‘passato’ nei Molti; e che non si dica così passato è dimostrato dal semplice fatto che l’alterità appare appunto come “problema”. Infatti, l’esistenza eccede sempre e comunque l’essenza. Insomma, solo se in tale “distinzione” l’Uno fosse già da sempre passato, l’alterità non costituirebbe un problema. Sì dà quindi un ‘problema’, solo perché il Due si dice sempre come “non-due”. Perciò l’alterità dell’altro costituisce un ‘problema’; costituisce un problema solo per il fatto che l’unità è sempre nell’atto di passare; ossia, è sempre presente come unità che “non lascia mai quieta” la differenza in cui pur si manifesta. E non la lascia quieta solo perché non si sente risolta nella medesima. Perciò “fa essere” quel che, in quanto semplicemente ‘altro’, rimarrebbe mero “non-essere”. Sì che, solo in tale “essere” (che è sempre, comunque, l’essere di un non-essere, un essere che

35. Ibidem.

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si dice appunto come l’essere di un “non-essere”), esso possa dirsi, dicendosi appunto come divenire… ossia come vita che si esplica nel divenire stesso in cui l’Io già da sempre consiste. Per Gentile, dunque, l’altro non apparirà mai nella quiete di una semplice determinatezza; non apparirà mai, cioè, come semplicemente “altro” – e dunque quieto nella propria astratta alterità… e per ciò stesso impossibilitato a manifestare l’inquietudine che dice in verità il suo essere più proprio. Che è sempre l’essere di un non-essere. Riconoscibile nella manifestazione di un “divenire” che dice da ultimo la vita stessa del soggetto in quanto “atto pensante”. Per questo il pensiero non concede all’uomo un istante di tregua, né di gioia, e non smette mai di svegliargli un nuovo problema, che lo spronerà a una nuova guerra col dolore… fino a quando «non risorgerà, dalla soluzione, il nuovo problema, e non vi sarà più nulla da conoscere, non si penserà più… e la vita sarà spenta; e sarà la morte»36. Perciò il ‘pensiero’, per Gentile, è inquietudine irrisolvibile. Ed è proprio rispetto a questa ineludibile natura del pensare che il “bello” si costituisce appunto come soluzione – come soluzione, cioè, della sua inquietudine, nella memoria e nella radice. Il problema è quindi per il soggetto quello di assimilare e interiorizzare l’oggetto37. Certo, il soggetto è e sa di essere «sempre lo stesso soggetto e sempre un soggetto diverso, come ognuno di noi sa per sua propria esperienza»38.

36. Ivi, p. 15. 37. Cfr. ibidem. 38. Ibidem.

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Gentile sa bene, cioè, che “esistenza” ed “essenza” indicano due forme fondamentali e indefinibili dell’essere del soggetto39. Ma egli sa anche che, così come è vero che il soggetto non sarebbe nulla se prima di tutto non esistesse, è anche vero che esso «non sarebbe neppure nulla, se non esistesse nella sua essenza di consapevolezza di sé, poiché esiste soltanto in quanto si afferma»40. Come per una sorta di circolo… tutt’altro che vizioso. Gentile, insomma, sa bene che il soggetto è “due in uno”; che esso costituisce cioè una vera e propria endiadi. Il fatto è che, nel pensiero, “essenza” ed “esistenza” sono tanto strettamente congiunte da vivere come “una sola cosa”; perché solo nell’essere che è pensiero, l’esistere si configura come il realizzarsi secondo una certa essenza; perché «il pensiero esiste pensando, e dunque costituendosi come concetto di sé»41. Per questo, là dove al pensiero si proponga qualcosa come “un problema”, sì da costringerlo a cercare di assimilare e riportare a sé l’oggetto ipoteticamente in questione, sempre il medesimo pensiero potrà anche non sapere che la soluzione si configura sempre e comunque come riduzione dell’oggetto al concetto – a quel concetto «in cui il pensiero stesso da ultimo consiste»42. Da cui l’inquietudine cui ci siamo appena riferiti. Perciò l’esistere, ossia l’essere, rimarrà sempre eccedente rispetto al pensare.

39. Cfr. ibidem. 40. Ibidem. 41. Ivi, p. 16. 42. Ibidem.

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Di ogni cosa, insomma, si potrà dire che è «in quanto esiste, ed esiste essendo qualche cosa»43; ma, nel pensiero, essenza ed esistenza saranno sempre una cosa sola. Perché nel pensiero l’essere non si lascia affatto distinguere, e quindi definire, nella sua distinzione dall’essere “come consapevolezza di essere”. In modo tale che, ovunque si incontri l’essere del soggetto, a darsi sia per ciò stesso sempre anche il suo sapere di essere quel che è. Quel che sarebbe da capire è invece quale sia davvero la differenza tra gli esistenti in generale e il pensiero, in rapporto alla struttura appena evocata (quella che fa, di ogni cosa, qualcosa che esiste in un certo modo, cioè sempre come un certo qualcosa). Ecco perché la verità definitiva e ultima sembra non poter consistere se non nella piena assimilazione dell’oggetto al pensiero. Di mera utopia si tratta, comunque… ché, non appena, «al di là delle cose che egli accerta, lo riassale il sospetto che vi sia un fondo oscuro, qualcosa di misterioso e inaccessibile (l’essere che eccede, l’estraneo, la datità) di fronte a cui non si possa non confessare la propria impotenza»44, ecco che lo riassale l’affanno, il travaglio, l’inquietudine. E «il pensiero chiederà a se stesso una più potente energia – in grado di condurlo al di là dell’essenza di quel che esiste, per spiegare appunto esistenza ed essenza…»45. A questo punto, però, è chiaro, vi sarebbe bisogno di una terza domanda, volta a rinvenire il “perché”, ossia, la causa prima od origine.

43. Ibidem. 44. Ivi, pp. 17-18. 45. Ivi, p. 18.

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Una risposta di certo non manca, lo sappiamo bene; ma sappiamo anche che la medesima non può essere rinvenuta se non là dove questo essere venga tanto radicalmente assimilato al pensiero da lasciarsi intendere come identico a quest’ultimo. Eppure… la vera risposta continuerà sempre e comunque a mancare. Almeno, sino a quando “altro” sarà il pensiero (concetto-essenza) e “altro” l’essere (esistenza)46. Insomma, la risposta alla domanda relativa al “perché”… che chiede in virtù di quali ragioni la cosa esista ed esista come quel certo qualcosa (per il pensiero), può essere una sola: quella in grado di ricondurre l’essere di quel che è al pensiero. Sì, perché solo là dove il pensiero riuscisse davvero a ricondurre l’essere a un concetto (in termini di essenza di quel certo esistente), la cosa si risolverebbe nel suo venire concepita dal pensiero secondo la sua essenza, e fatta essere dal medesimo. Solo là dove l’estraneità della cosa, il fondo oscuro che la rende inaccessibile e misteriosa, venisse sciolta dalla definizione della sua essenza, ecco… solo là – dove nulla vi fosse più di estraneo e ignoto –, solo là, la cosa riuscirebbe ad identificarsi con la propria essenza; o meglio, con ciò che quest’ultima ci dice, della medesima. E il suo essere potrebbe dirsi tutto risolto in quel che, di essa, fossimo riusciti a dire, dicendone appunto l’essenza. Nulla, della cosa e nella cosa, si rifiuterebbe di lasciarsi ricondurre alla sua essenza; ossia, a quel che, del suo essere, possiamo sempre ricondurre a noi. A ciò che il nostro pensiero riesce a dire, della medesima.

46. Cfr. ibidem.

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Ecco perché, al cospetto delle cose – delle cose in quanto oggetti –, l’Io si affanna; appunto perché avverte un problema: quello costituito dalla loro estraneità. Ossia, dal limite che esse costituiscono per me; un limite che fa “problema” appunto perché l’estraneità da questo stesso istituita non può lasciarmi tranquillo. E non può farlo proprio perché avverto che non si tratta affatto della quieta estraneità che sembra palesarsi; stante che nello stesso tempo la medesima mi infastidisce e m’inquieta. Mentre, guardando al pensiero, è facile riconoscere come l’essere che esso medesimo è non dica mai nulla di estraneo rispetto a quello stesso pensiero che, comunque, anche lo concepisce; ma venga appunto riconosciuto come l’essere dello stesso pensiero che lo pone in quanto tale. Per questo accade che il pensiero, di fronte all’oggettualità, senta sin da subito il bisogno di trasfigurarla, o meglio di ricondurla a sé… rinvenendone per ciò stesso la ragione. Risolvendo così tutto il suo essere in una semplice “concettualità” (cioè, in un’essenza). Anche l’arte (così come quasi ogni altra forma del fare) nasce dal sentire le cose tutte come “un limite”. Per il loro apparire come fatte di essenza ed esistenza, ma soprattutto per il loro apparire in modo tale che queste due dimensioni risultino in esse sempre anche “distinte”; e dunque mai risolte l’una nell’altra. Tutto questo, per l’appunto, inquieta il soggetto. Che si sente per ciò stesso spinto a lavorare su tale distinzione; convinto, com’è, e sin da subito, del fatto che tale astratta distinzione non sia affatto quel che la medesima sembra essere; che essa, cioè, non sia affatto così come appare al pensiero. Il quale, proprio per ciò, si sentirà impotente e ne soffrirà.

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Ma anche in rapporto all’arte, è necessario porsi la domanda relativa al “perché”. Lo sa bene, Gentile, che molti saranno coloro che si rifiuteranno di ammetterne la necessità. Che molti contesteranno l’utilità di tale domanda, in relazione all’arte. Perché sono convinti del fatto che l’unica possibile domanda sia, a questo proposito: «cos’è quest’arte di cui tutti parlano?»47. Certo, i più si limitano alla sola ricerca dell’essenza dell’arte… ed evitano con cura la domanda intorno al suo perché e alla sua origine48. Ma in realtà non basta affatto interrogarsi sull’essenza dell’opera d’arte; innanzitutto perché, più che in ogni altra forma d’esistenza, nelle opere che riconosciamo come artistiche, l’essenza, ossia l’essere artistico di quel che appare appunto come “artistico”, non aggiunge nulla di determinato all’esserci di quella medesima esistenza (che appare appunto come “artistica”). Fermo restando che, anche di fronte all’opera d’arte, noi continuiamo a distinguere il suo essere dal suo essere artistico; se non altro nella misura in cui, in essa, sembra esservi comunque qualcosa di “inquietante”. Quasi che, nel suo esserci, fosse paradossalmente riconoscibile qualcosa di non disponibile a lasciarsi risolvere in ciò che, della medesima, a tutti noi sembrerebbe di poter comunque riconoscere. Ossia, i “significati” che la sua determinatezza comunque custodisce. Come se, in essa, avvertissimo un essere artistico che non si configura affatto come uno qualsiasi degli altri “significati” comunque connessi alla sua determinatezza. Anzi, che non si configura affatto come un significato; stante 47. Ivi, p. 19. 48. Cfr. ibidem.

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che, lungi dal lasciarsi partecipare anche da altre esistenze determinate, essa dice l’unicità di una determinatezza che, essa sì, invece, non è mai solo della cosa in questione. Ammesso che essa si configuri come un blocco di marmo di quel certo color avorio – che, in quanto caratteristiche universali, possono esser rinvenute anche in molte altre esistenze –, il suo eventuale apparire come artistica dice piuttosto ciò che rende quella marmoreità e quella bianchezza ‘uniche’ e non riducibili a ciò che le rende di fatto universalmente partecipabili. Il fatto è che, proprio in questo paradossale significato – “costituito appunto dal suo essere-artistico” –, a dirsi è qualcosa di non ben identificabile… rispetto a cui, quel che sappiamo (dicendo il suo semplice essere artistico), di fatto, non dice quasi niente. O meglio, appare assolutamente insoddisfacente… rinviando allo stesso insoddisfacente, nonché insondabile, esserci suo proprio. Ecco perché coloro che si limitano a cercare l’essenza dell’arte, e non si avventurano nella ricerca del “perché”, finiscono per convincersi che la strada indicata dalla ricerca del ‘perché’ sia davvero senza via d’uscita; si convincono cioè che si tratti di una ricerca aporetica, e dunque senza soluzione. Ma di ciò si convincono (ossia, del fatto che si tratti di una strada senza vie d’uscita), ci dice ancora Gentile, «perché non riescono a scorgere l’unità di essenza e concetto, in cui è la soluzione, secondo che abbiamo accennato»49. Non capiscono che l’essenza dell’artisticità non parla affatto di qualcosa d’altro (di de-terminatamente “altro”) rispetto al “concetto” che in essa viene comunque a costituirsi (mi riferisco in questo caso alla complessa concettualità di cui ogni esistenza è fatta,

49. Ibidem.

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secondo quel che, in essa, viene appunto riconosciuto quale “suo significato”… cioè, nel nostro caso, al suo essere fatta di marmo, al suo essere pesante, al suo essere fatta di un solo colore, al suo avere forma piramidale… etc. etc.). Ma ciò significa che non ci si rende conto del fatto che, nella sua (dell’opera di volta in volta chiamata in causa) “significazione”, non si dice mai qualcosa che possa venire determinatamente distinto da qualcos’altro di altrettanto de-terminato, che chiameremmo appunto artisticità. L’artisticità, infatti, allude piuttosto e chiama in causa un significato alquanto problematico… se non radicalmente enigmatico. Che viene senz’altro riconosciuto, ma nello stesso tempo, per quanto distintamente riconosciuto come attributo di questa e non di altre esistenze, non si lascia mai ricondurre ad un “diverso significato”, esso medesimo de-terminato e in qualche modo composito. Per questo l’opera d’arte costituisce un chiaro invito a spostare lo sguardo sull’essere, e a capire che, in verità, nessun significato (nessuna determinazione d’essenza) dice qualcosa che si lasci definitivamente e chiaramente distinguere dall’essere di cui costituisce appunto il predicato. A capire cioè che non è affatto vero che esso si distingue così come sembra accadere all’essere della medesima determinatezza; che, in esso e per esso, si distingua sempre anche l’essere, secondo una sua propria determinatezza. Il fatto è che, se per un verso l’essere non si distingue mai secondo una sua propria determinatezza (e questo vale per qualsivoglia esistenza), per un altro verso, in ogni esistenza, il suo esserci può venire e viene da ultimo (dovendo esserlo) ricondotto alla concettualità in cui il pensiero in ogni caso si esprime; cioè, può e deve essere risolto in qualcosa di posto dal pensiero – per questo, per il pensiero, anche l’essere, da ultimo, viene a costituirsi come un semplice “significato”.

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Sì, perché anche l’essere, ogni essere, è posto come tale da quell’atto significante che è sempre atto pensante, o atto “del pensiero”. Insomma, qualsivoglia “fatto” è sempre oggetto insieme d’apprensione e interpretazione. Perciò non si può dire: eccolo, il fatto… ossia, qualcosa che sarebbe davvero fuori discussione. In quanto fatto… il fatto supposto “fuori discussione” è in verità sempre qualcosa di già interpretato. Insomma, è davvero impossibile partire da un fatto che non sia un concetto50. Ma allora, se così stanno le cose, il problema dell’arte sembra condannato non solo a non essere risolto, ma non poter venire neppure posto51. I suoi ‘fantasmi immateriali’ sembrano destinati a non trovar luogo nell’orizzonte dell’esperienza («tutti ideali che non han luogo nel mondo dell’esperienza»52). Eppure, essi prendono corpo «con parole e canti, con linee e colori e forme plastiche e geometriche, ma vivono come qualche cosa di superiore e affatto indipendente da questi mezzi materiali con cui si esprimono per presentarsi alla nostra sensata percezione […] Che non pare si possano chiamare altrimenti che creazioni del genio, che li trae a sé, originalmente, e li lancia nell’infinito mondo delle cose ideali ed eterne»53. Che sembrano avere come compito proprio quello di appagare il nostro natural desiderio e «bisogno di vivere in un mondo infinito liberamente percorso dalla sua volontà, per mezzo dell’arte»54.

50. Cfr. ivi, pp. 26-27. 51. Cfr. ivi, p. 29. 52. Ivi, p. 33. 53. Ibidem. 54. Ivi, p. 34.

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D’altronde, il mondo risulta comunque misterioso, anche solo per il fatto che, piaccia o meno, l’esistenza non si lascia mai compiutamente risolvere nell’essenza che ogni volta comunque la significa. Sì, perché il mondo disegna un orizzonte all’interno del quale mai ci sentiamo definitivamente padroni di noi stessi e del mondo a noi comunque connesso. Sempre per lo stesso motivo, rimetteremo sempre in moto il nostro desiderio di conoscenza e di dominio. Ecco, rispetto a questo nostro modo di essere “nel” mondo e “del” mondo, solo l’arte sembra offrirci una via d’uscita. Consentendoci di esperire un’infinitudine che non ci ostacola davvero più, ma ci appaga e ci entusiasma provocando un consenso irresistibile, per quanto (o proprio in quanto) non rispettoso di alcuna valutazione razionale e tantomeno di una qualche analisi intellettuale; e neppure provocato da un qualche giudizio. Né argomentabile né argomentato, quindi, ma riconducibile ad una sorta di forza originaria – quasi un’unità che, dei diversi, sembra in grado di mostrare l’originaria identità… senza fare, di quest’ultima, qualcosa che starebbe all’origine del differenziarsi come suo semplice presupposto. Che vive sempre e comunque in quel differenziarsi in cui consiste anzitutto il nostro pensiero; unico vero ‘fatto’ capace «di sottrarsi ad ogni discussione»55; e in grado di mostrarci come il vero fatto, la vera datità non sia mai quella che sta di contro a noi come ‘oggetto’ (che, in quanto tale, è tutta nei significati che di essa predichiamo, facendo, dello stesso suo “essere”, un semplice significato), ma quella consistente nel semplice fatto del nostro pensare. Nelle oggettualità, infatti, anche il semplice essere si lascia in qualche modo ricondurre ad una “concettualità”, che farà in ogni caso capo all’azione in cui consiste il nostro pensare – che 55. Ivi, p. 49.

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di tutto rende in qualche modo ragione. Fuorché di se stesso, comunque. Infatti, dire che la ragione di tutto si spiega da sé è come dire che la medesima non si spiega affatto; stante che il sé che dovrebbe spiegarla è quello stesso che vuole essere spiegato. A spiegare, è dunque qui quel che, solamente, e innanzitutto, va spiegato. E che pretenderemmo di spiegare nella forma di una radicale autoctisi. Ma che in verità è un fatto assolutamente misterioso e radicalmente inspiegabile; e che solo per questo può, di tutto, farsi spiegazione e condizione di possibilità. Ad ogni modo, proprio per questo esso non sarà mai un fatto56. Ma evocherà piuttosto una necessità coincidente con la perfetta di libertà di un atto che da nulla potrà mai venire condizionato. Il pensiero è un fatto necessario; un fatto che è puro “fare”… lo stesso fare del pensiero da cui è prodotto57. D’altro canto, nella Riforma della dialettica hegeliana, Gentile conveniva con Spaventa, il quale già rilevava come «io non possa afferrare me stesso come pensare, come non-essere; mi afferro come essere: come pensare, sono l’essere che è il nonessere. Questo dire: io sono il pensare, e non potermi afferrare come pensare – questa inquietezza, quest’essere che è la stessa inquietezza – questo è il divenire»58. Quel che non riesco a fare è cioè concepire il “pensare” nella sua negativa attuosità – già compresa come tale, rileva Gentile, da Bertrando Spaventa. Quella che pur devo riconoscere di essere. 56. Cfr. ibidem. 57. Cfr. ibidem. 58. B. Spaventa, Logica e metafisica, in Id., Opere, Sansoni, Firenze 1972, vol. III, p. 174.

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Spaventa sapeva bene che senza il pensare non sarebbe il “no”, non sarebbe il “non-essere”. E chi nega, questi vince l’invincibile e fende l’invisibile, cioè l’essere; e così facendo, distingue e contrappone, nell’essere medesimo, in quanto medesimo, ciò che è da ciò che non è. Ecco, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è appunto il pensare. Infatti, se non vi fosse altro che essere, il “no” non sarebbe neppure. Ma, a dire il vero, il puro essere, ossia l’essere in quanto solo essere, non dice neppure essere, cioè non dice “è”. Anzi, non dice, e basta. Perché anche il semplice “è”, ossia la pura affermazione, è già un pensare, un distinguere… un concentrare l’essere e semplificarlo… e per ciò stesso un germinarlo. Ecco, tutto questo lo sapeva già il maestro di Gentile. Atto immanente dell’essere che non è, il pensare (concepito in questo modo già da Spaventa, dunque) non riesce a cogliersi. Ché, cogliendosi, si trasformerebbe, in quanto colto o pensato, in morto e vuoto essere; svuotato della forza vivificante e “negativa” di quel pensare che, di ogni essere, dice appunto il “non essere”. Ma è proprio per questo che neppure Gentile sembra riuscire a liberarsi dalla forma da lui giustamente criticata in rapporto alla dialettica hegeliana; quella della “presupposizione”. Perché sembra esserci qualcosa – almeno il vero “fatto”, il fatto originario, costituito appunto dal pensare medesimo – che non può essere colto; e che sta quindi sempre alle spalle di qualsiasi ‘pensato’. Anche là dove il pensato sia costituito dallo stesso incoglibile pensare cui ci si stiamo in qualche modo riferendo. Anche Gentile, insomma, sembra presupporre l’identità che avrebbe voluto far vivere come cifra della stessa immediatezza dell’originario. Ma il fatto è che, ad essa, egli dà il nome di ‘sentimento’. E non è cosa di poco conto. Ossia, non è affatto inessenziale. Questo, infatti, il nome che Gentile ritiene di dover dare alla

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sua indistinta “unità”, valevole appunto come scaturigine di qualsivoglia “differenza”. Molto probabilmente, dunque i cogitata danno luogo ad un “problema” proprio perché, al pensare, essi appaiono come ciò in relazione a cui l’identità originaria sembra non darsi mai come tale, per quel che essa davvero è. Ma questo è vero solo per il pensiero; ossia, solo per quel pensiero giudicante che, come sapeva bene anche Kant, è condannato a distinguere per determinare. E dunque a distinguere anche la differenza (che appare, sempre al medesimo pensiero, come ‘altra’ dall’identità in cui si risolvono il pensare medesimo e la sua strutturale negatività). Facendo dei cogitata le espressioni di un’alterità che va – dal punto di vista del ‘pensiero’ – comunque ricondotta ad una dimensione destinata a rimanere sempre di là dall’essere raggiunta. Perché l’Io che Gentile definisce pensiero in atto non è mai né “questo” né “quello”. Nulla di empirico, cioè, in esso, che ci autorizzi a confonderlo con un qualsivoglia Io finito e subbiettivo. Diceva infatti il nostro, nelle pagine della Teoria generale dello spirito come atto puro, che «ogni tentativo che si faccia di oggettivare l’Io, il pensare, l’attività nostra interiore […] è un tentativo destinato a fallire, che lascerà sempre fuori di sé quello che vorrà contenere; poiché nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione»59. Un atto, questo, a cui mai si riuscirà a pervenire in virtù del suo stesso procedere sempre ponente e distinguente, e che potrà per ciò stesso sentirsi legittimato a non farsi rinchiu-

59. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 8.

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dere nella cinta d’oro del pensiero puro, perché coincidente piuttosto con «lo stesso esistente; con l’esistente in tutta la sua complessità e varietà delle sue determinazioni»60, precisa Gentile. Ossia, con tutto quel che è; e proprio in relazione al fatto che “è”. Sì, perché è di fronte all’esserci di tutto quel che c’è che il pensiero si eccita; cioè, di fronte alla sua costitutiva problematicità – riconducibile, peraltro (come abbiamo già visto), al semplice fatto che, mai, l’esserci di quel che c’è si lascia risolvere in toto nell’essenza che, di tale esserci, il pensiero può ogni volta rinvenire e definire. Lo dice bene Gentile: «la prima categoria con cui si concepisce lo stesso ignoto, che si aspira a scoprire, è questa: che esista»61. Ed è proprio in tale esistere che il pensiero ritrova l’unica possibile datità; la sua. L’unico esserci non significabile, se non riducendolo a qualcosa d’‘altro’ rispetto all’essenza. E dunque facendo, anche di esso, un significato, ossia un’essenza – un ‘pensato’. Per Gentile, infatti, il pensiero non ha altro oggetto che se medesimo; perciò l’irriducibile esistere che al pensiero fa ogni volta problema è il suo. Perciò Gentile può affermare che «il pensiero è autocoscienza, vita e sviluppo dell’Io – che si travaglia sempre sopra se stesso»62. Solo l’esistere del pensiero in atto è dunque davvero necessario, sì da imporsi senza titubanze come ineludibile al pensiero che tenti di pensarlo. E che, tentando di pensarlo, non potrà non riconoscere come “problema”.

60. G. Gentile, La filosofia dell’arte, cit., p. 60. 61. Ivi, p. 78. 62. Ibidem.

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Nulla il pensiero può cioè pensare che non sia lui stesso – perciò non è possibile che il pensiero sia nulla di inesistente63. Ma è proprio questo se stesso a fare problema; e lo fa, proprio nell’esistere di qualcosa il cui significato non esaurirà mai il mistero costituito dal suo stesso “esistere”. Lo fa nell’esistere di tutto quel che esiste. In quell’esistere rispetto a cui ogni significato, e dunque ogni discorso, fungeranno da mera ‘cornice’. Quella che, «trattando l’arte come arte, non sarà arte – anzi, se ne differenzierà e vi si opporrà. Si chiamerà dunque critica, riflessione sull’arte, storia […] ma sarà quel che sarà in quanto, per mettere a fuoco e svelare alla conoscenza l’arte, non sarà arte»64. Ma se «l’arte, come il sogno, non è nel pensiero che l’afferma e può affermarla, nella riflessione che vi si esercita su, nella critica che mira ad apprenderla e rendersene conto, nella storia che si sforza d’individuarla, nella filosofia che la definisce, in queste o simili forme del pensiero l’arte non c’è più»65. Insomma, «quando c’è, non è arte; e quando ci sembra di poter dire: eccola lì […] l’arte […] Essa non c’è più»66. Perciò, rispetto a tutti i modi di esprimere la nostra consapevolezza dell’arte, o dell’artisticità dell’artistico, l’arte si può rassomigliare alla vita d’una pianta o di un animale, all’operare istintivo – che è al di qua del pensiero… che però potrà investirlo e magari negarlo. O anche al buon senso – che pare si regga sempre su intuizioni – e di cui il poeta disse che la scienza l’avrebbe ucciso per vedere come era fatto67. 63. Cfr. ibidem. 64. Ivi, pp. 103-104. 65. Ivi, p. 104. 66. Ibidem. 67. Cfr. ivi, p. 105.

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Da cui una forma di strutturale inconsapevolezza dell’artisticità dell’arte, relativa, certamente… ma nello stesso tempo anche necessaria68. Perciò, forse, continua Gentile, «gli artisti con più vigoroso temperamento artistico rinunciano e ripugnano a ogni riflessione critica e filosofica – perché fuori della loro arte, essi non vedono altro. Eterni sognatori. E i critici e i filosofi, eterni insonni, sono accusati di frigidezza e insensibilità estetica […]. Perché la forma del loro pensare li trae al di là dell’arte […] insomma, o arte o filosofia dell’arte»69. Per questo, se da un lato l’artisticità dell’opera non esaurisce affatto il suo contenuto, ma comprende solo quel tanto che, dell’opera d’arte, rimane dopo aver idealmente sottratto dalla medesima tutto ciò che è critica, riflessione, consapevolezza, dall’altro lato, questo stesso residuo risulterà isolabile solo idealmente – ché, in realtà, sarà sempre uno con il corpo intero dell’opera d’arte e apparirà perfettamente inseparabile dal medesimo. Ma ciò significa sia che l’arte pura è perfettamente inattuale – che essa entra nell’attualità spirituale, e con la sua presenza concorre certo alla vita dello spirito, ma in verità trascende ogni contenuto della coscienza –, sia che le analisi chimiche dirette a distinguere nei poeti, anzi nel loro poema, poesia e non poesia, non servono a nulla. Ché i due elementi non vivono mai separati – insomma, la poesia non vive come un sale precipitato al fondo della provetta. Stante che «l’intuizione si sposa in indissolubile connubio al pensiero»70.

68. Cfr. ibidem. 69. Ibidem. 70. Ivi, pp. 110-111.

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Ma come concepire allora la distinzione tra artisticità e pensiero, nell’arte? Il fatto è che l’opposizione che possiamo concepire è solo quella in virtù della quale nessuno degli opposti si lascia mai pensare indipendentemente dall’altro (anche l’opposizione è infatti una forma di “relazione”); in ciò l’esito della potenza del logo; «il principio generatore del rapporto medesimo»71. Infatti, quel che si troverà sarà comunque pensiero, concetto – ogni distinto (l’abbiamo già visto) essendo comunque espressione della potenza distinguente dell’intelletto. Fermo restando che ciò non significa affatto che si debba rinunciare a fare esperienza dell’elemento propriamente artistico. Ecco il punto. Lo rileva senza mezzi termini lo stesso Gentile; anzitutto affermando che «la distinzione tra opera d’arte e pensiero non vien meno – solo […] non è più perpendicolare rispetto al piano della realtà spirituale, ma trasversale»72. Sì che l’arte pura si costituisca come essenzialmente «inattuale»73. E risulti per ciò stesso inafferrabile; ma tutt’altro che inesistente. Sì, essa «è inafferrabile; ma ciò non significa che non esista. Solo, essa non si può separare, qual essa è e per quel che essa è, dal resto dell’atto spirituale in cui esiste e in cui dimostra tutta la sua energia esistenziale»74. «Assurdo quindi voler definire i caratteri della materia propria dell’arte»75; ché ci troveremmo in ogni caso tra le mani qualcosa di ‘pensato’. Non si tratta

71. Ivi, p. 113. 72. Ivi, p. 115. 73. Ivi, p. 117. 74. Ivi, pp. 117-118. 75. Ivi, p. 119.

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neppure, sempre secondo Gentile, di distinguere la fantasia (materia vera dell’arte) dal pensiero. Ché «la nostra fantasia è sempre pensiero – quantunque suscettibile di una distinzione di momenti nel suo sviluppo. Il suo prodotto non è altro che pensiero nella pienezza dei suoi momenti […]. Il fantastico è tutt’uno col logico e quindi esiste nella forma del logico»76. Eppure, non c’è rappresentazione artistica che «non sollevi l’animo sopra il mondo delle cose caduche a cui tutti i particolari appartengono, e non induca a vagheggiare qualcosa d’immortale, infinito e divino»77. Perché, di là qualsivoglia possibile contenuto, l’arte avrà sempre anche una “forma” propria. Quella che la sua materia (fatta di concetti, contenuti, istanze, desideri, progetti, intenzioni…) mai riuscirà a ricondurre a sé. «Materia o contenuto dell’arte è il pensiero […] immagine e giudizio a un tratto. E la poesia, l’arte, è tutta nella forma che questa materia assume»78. Forma, comunque, non sta qui ad indicare il disegno con cui essa si rende, come ogni altra cosa, visibile. Condizionata sempre da altri esistenti che, nello spazio, ne delimiteranno sempre ‘significativamente’ il corpo proprio. No, forma sta qui piuttosto per ciò che, solamente, rimane «sottraendo idealmente da ogni pensiero attuale il suo contenuto – ossia, tutto ciò che viene ad essere, nell’attuale pensiero, pensato»79. Quella che Gentile definisce anche “anima del pensiero”. 76. Ivi, p. 120. 77. Ivi, p. 119. 78. Ivi, p. 121. 79. Ivi, pp. 122-123.

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Perciò, chi «non è capace di fissare il suo sguardo su quest’anima in sé, su questo inattuale e pur presente principio della vita di ogni opera dello spirito, potrà girare intorno alla porta dell’arte […] ma aprirla mai. Solo a questo principio, a quest’anima ascosa e presente, compete il valore della bellezza»80. L’arte, dunque, partecipa senz’altro alla dialettica caratterizzante la vita spirituale in cui si produce. Ma bisogna precisarlo subito: «la dialettica dell’arte non è la dialettica del ­pensiero […] e bisogna accuratamente definire il significato della prima»81. «Non importa cioè una dialettica che si compia nell’interno della forma […] ma una dialettica che non lascia sussistere tale forma nella sua idealità (inattuale), ma la trae con la sua immanente energia ad uscire da sé – a negarsi come quella forma puramente soggettiva che ella è. Questa interna inquietudine, questa vita intima alla stessa forma dell’arte - per cui l’arte, questa infanzia dello spirito, non può non progredire e risolversi gradatamente nella maturità del pensiero – questa è una dialettica che contiene l’arte e non vi è contenuta»82. Questa, infatti, sarebbe una dialettica destinata a costringere l’arte a farsi pensare, cioè a venire riconosciuta e incorniciata dal pensiero; e a rimanere come puro vuoto di determinazioni cui solo la cornice sembra poter dare un senso. Destinata, quindi, a rimanere ancorata alla propria sublime ­immediatezza. Che è però, precisa Gentile, l’unica vera immediatezza; «che è quella del concreto e non più astratto immediato»83. «Dell’immediato che si pone come immediato e insieme si nega»84. 80. Ivi, p. 124. 81. Ivi, p. 133. 82. Ivi, pp. 137-138. 83. Ivi, p. 139. 84. Ibidem.

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Quello che fa, della stessa mediazione, la sua vita. Vera immediatezza che non esclude la mediazione, precisa il teorico dell’attualismo. Ma è tutt’uno con essa. Ché sarebbe un assurdo se l’immediato «non contenesse la propria negazione»85. Così questo immediato si fa “forma”; cioè, forma artistica. Ed agisce su quello da cui prende le mosse – qualsiasi sia il pensato su cui abbia iniziato ad operare l’artista. Facendolo essere e non essere; «operando con un processo per cui nulla più rimane d’immediato. Neppure l’immediato»86. Per cui un pensiero sempre desto rimanga pronto ad interpretare l’ispirazione, a correggerla e plasmarla, facendo sì che essa sia «quella che viene ad essere nella sintesi di quel che immediatamente scaturisce dalla profonda e segreta sorgente del soggetto e di quel che sopravviene come pensiero non più soggettivo, anzi materia di ogni pensante in quanto dotato della più pura oggettività»87. Ossia, come semplice “sentimento”. Liberando altresì tale concetto da qualsiasi residuo psicologistico. Non a caso, rileva sempre Gentile, «il sentimento è sempre stato la crux philosophorum»88. Valutato sempre come facoltà inferiore dell’anima, esso sarebbe rinato con il Cristianesimo; una religione fondata sull’amore – che è un sentimento. Sull’amore che ricrea, che dà speranza, e che non può certo essere dedotto con un sillogismo.

85. Ivi, p. 140. 86. Ivi, p. 141. 87. Ibidem. 88. Ivi, p. 144.

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È con questa rinascita che lo spirito sarebbe tornato ad ­elevarsi sulla meccanicità del naturale. D’altro canto, «tutti i sentimenti, si sa, a parlarne, inaridiscono e dileguano»89. Perciò, «un sentimento conosciuto, s’è detto, non è un sentimento – ma una conoscenza»90. E in ogni caso, se il filosofo riuscisse davvero a scaricar l’anima da ogni elemento passionale, «si priverebbe della vita […] e crollerebbero dentro di lui le colonne dell’universo. Perché la forza che regge e sorregge l’animo, e nell’animo tutto ciò che vi si accorge ed incentra, è appunto il sentimento»91. Certo, «il sentimento è sempre superato e disciolto nel pensiero – che ha virtù di oggettivare e quindi alienare dal soggetto quel che altrimenti sarebbe intimo a lui […] – ma se al pensiero venisse a mancare il sentimento che esso oggettiva, il pensiero medesimo verrebbe a lavorare nel vuoto – e cadrebbe nel nulla»92. Perché il sentimento è il soggetto stesso… solo il pensiero potendo distinguere il soggetto dal sentimento concepito come suo attributo. Ma «il sentimento distinto dal soggetto di questo stesso sentimento non è altro che il prodotto della distinzione che il pensiero opera sempre e comunque»93. «Il sentimento, in ogni caso, è duplice: o piacere o dolore»94. Tutti i sentimenti sono infatti espressioni di piacere o di dolore; «ma anche questi due sentimenti sono due e non sono due»95. 89. Ivi, p. 153. 90. Ibidem. 91. Ivi, p. 154. 92. Ibidem. 93. Cfr. ibidem. 94. Ivi, pp. 154-155. 95. Ivi, p. 155.

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Insomma, non sono due come se aggiungessero ciascuno delle proprietà generiche accomunate da qualcosa di specifico: cioè «non sono in parte identici e in parte differenti […] perché l’uno è qui assoluta negazione dell’altro»96. Il piacere può dirsi infatti non-dolore e il dolore non-piacere. Si tratta cioè di due contrari; la cui reciproca opposizione è evidentemente contraddittoria. Ché «si escludono a vicenda e totalmente. Infatti, il sentimento che si prova è sempre o di piacere o di dolore – non c’è indifferenza»97. Ma proprio per questo la loro dualità dice «la contrarietà di un’unità in se stessa; di qualche cosa di unico – che vive, si sviluppa […] diviene, ed è in quanto non è, e viceversa. E perciò si pone come identità di opposti»98. Perciò qualcuno ha definito il piacere cessazione di dolore, e viceversa. Nella loro opposizione, cioè, sono due “astratti”… perciò «l’ottimismo e il pessimismo sono due filosofie false perché costruite sopra codeste astrattezze»99. Che si concretizzano solo nel “divenire”, che nega indefinitamente, nonché dialetticamente, tali astrattezze. Ma in sé non si possono congiungere o in qualche modo comporre – potremmo anche dire “sintetizzare”, sì da dar luogo a qualcosa come un terzo. Solo il divenire, infatti, può accoglierli; dando vita a determinatezze divenienti, che non li uniscono né li confondono, però; ma offrono se medesime conformemente a quella com-

96. Ibidem. 97. Ivi, pp. 155-156. 98. Ivi, p. 156. 99. Ibidem.

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plicatio che rende rinvenibili, in esse, ora l’uno ora l’altro di tali “opposti”. Che rende rinvenibili tali inconciliabili in virtù del “pensiero che li pensa”. Perché solo il pensiero è movimento e tutto mette in movimento. Anche se medesimo; negando il proprio stesso essere in quanto pensiero (negando cioè quella morta e astratta determinatezza in cui si risolve facendosi ‘pensato’), e godendo di tale negazione, che è poi tutta la sua vita. Per il fatto stesso di pensarsi, infatti, precisa Gentile, il pensiero gioisce. Per quanto negandosi, e dunque soffrendo, anche; ma provando piacere per questo. Ecco, questo essere del pensiero è per Gentile un ‘sentire’; e un compiacersi, sentendosi, per quel che si diviene (e mai per quel che si è)100. Proprio questo potente essere, assolutamente dialettico e dinamico, autonomo e libero e attivo, è “sentimento”. Centro produttivo universale – lo definisce, anche, il teorico dell’attualismo. Potenza di un sentire che è sempre anche un sentir-si. Che non incontra mai davvero l’esterno nella sua esteriorità; eppur lo “sente” – un po’ come la monade leibniziana, che non ha né porte né finestre, ma riflette nella propria perfetta chiusura l’universo intero. Fermo restando che l’esperienza di cui il sentire è un modo d’essere, pur non essendo più in relazione con l’esterno, lo incontra. E dunque ne viene colpita; soffre e gioisce nel riconoscerlo, riconoscendovisi. E sentendolo, ne riconosce l’artisticità.

100. Cfr. ivi, p. 159.

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Perciò l’arte, per Gentile, non è semplice espressione del sentimento; «ma è lo stesso sentimento»101 in quanto tale. Che, come sarebbe stato confermato anche da De Sanctis, vien da ultimo a coincidere con la forma estetica concepita nella sua essenza più autentica. Che certo si riflette nei mille colori e nelle meraviglie che possiamo di volta in volta incontrare; e che ogni volta si determinano anche come un ostacolo per la nostra volontà di conoscenza. Ma che, nello steso tempo, riflettono «come un prisma dalle facce infinite (il prisma del pensiero in atto), un unico e sempre indeterminabile “sentimento”, che, incorporandosi nel pensiero, in cui è in ogni caso chiamato ad attualizzarsi, assume corpi e fattezze molteplici e diverse. Facendosi tanti pensieri e altrettanti sentimenti»102 – ognuno dei quali sarà infinito, e dunque non paragonabile a nulla di diverso, chiuso in sé e quindi perfettamente incomparabile. Perciò Gentile può anche precisare che «quel che si dice opera d’arte, in quanto è opera d’arte, è chiusa in sé, e non ragguagliabile ad altra opera»103. E finisce per essere riscontrabile anche nel sentimento che ravviva l’anima; «che la regge e ce la fa sentire dentro come qualcosa di vivo, per cui batte il nostro cuore di quella segreta commozione in cui ferve la nostra stessa vita»104. Questo, dunque, il sentimento per cui batte il nostro cuore. E che sta «alla radice di ogni distinzione, ed è indistinto e uno – e senza parti, ma che è insieme tutto. Ché nulla è fuori di esso […] stante che tutto quel che verrà fuori per la vita dello

101. Ivi, p. 171. 102. Ivi, p. 175. 103. Ivi, pp. 175-176. 104. Ivi, p. 176.

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spirito non potrà derivare se non dal suo senso, e non potrà essere se non un suo prodotto»105. Perciò le opere d’arte sono tante, infinite – almeno potenzialmente –, ma «ciascuna è un albero che impedisce di veder la foresta; ché dentro c’è un mondo di cui lo spirito mai riesce a toccare i confini e vedere oltre»106. Le opere d’arte sono molte… ma ciascuna è un albero che impedisce di vedere la foresta; ché dentro c’è un mondo di cui lo spirito mai riesce a toccare i confini; non riuscendo neppure a vedere oltre i medesimi. Non si mostra così, infatti, solo là dove si prescinda dalla personalità del poeta, e si consideri solo il suo astratto contenuto; «un pensiero che è materia di pensare (pensiero pensato, logo astratto); un pensiero che si riassume dal pensiero come parte d’un più vasto pensiero, che sarà la storia del costume, del pensiero politico, delle dottrine poetiche, del pensiero filosofico, religioso»107. In tal modo, però, quell’unicum verrebbe soppresso. E non si coglierebbe più l’infinitudine del sentimento che vi circola dentro – precisa il teorico dell’attualismo. Da ciò la rilevanza del tema dell’amore; stante che il bello fa per natura innamorare; fa innamorare e unire, per la propria forza attrattiva, tutti quanti. Perciò, rileva ancora Gentile, «la sua immortalità, l’immortalità dell’arte, della poesia e della musica […] sgorgano dalla fonte stessa da cui deriva la sua [dell’artista] arte»108. Cioè,

105. Ibidem. 106. Ibidem. 107. Ibidem. 108. Ivi, p. 177.

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«dal sentimento»109. Che è annidato in ciascuno di noi; «e ci richiama, ci avvicina, ci stringe in una stessa vita, anche a distanza di spazio e di tempo, gettando nei nostri petti un ardore che è identico in tutti, e ci fa sentire che i corpi sono diversi, ma l’anima è una»110. Ma – si badi bene! –, non si tratta di qualcosa che starebbe prima del pensiero che pensa, giudica e divide; perché emerge piuttosto in questo stesso diversificarsi, quale segno dell’assolutezza di ogni distinzione, che sarà sempre e comunque perfetta ed immediata espressione dell’identico di cui proprio il “sentimento” sa farsi perfetta esplicazione e determinazione. E proprio perché non giudica, e dunque non rende l’artisticità diversa dai contenuti, cioè dalla materia dell’opera. Ma ne attinge il mistero per il tramite di un semplice “sentire”; riconoscibile appunto come sentimento che non si separa mai, neppure esso, da ciò di cui, nonostante la sua bellezza, sempre continuiamo a voler conoscere il senso, facendoci forti del significare e del giudicare – consentendo finanche quella giustificazione che, persino del sentimento, vorrebbe impropriamente rendere ragione, senza lasciarlo liberamente divampare. Rischiando per ciò stesso di rendere del tutto inessenziali lo sforzo tecnico e quello conoscitivo che ogni sforzo di scrittura, di disegno e di intonazione… chiamano inevitabilmente in causa. Ma che ogni grande scrittore – quale è appunto Daniele Del Giudice – cesella e continua indefesso a rifinire solo per farcene provare un sentimento.

109. Ibidem. 110. Ivi, pp. 177-178.

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Uno e molteplice Giovanni Gentile e l’alterità reale

L’idealismo ha ritrovato Dio, e ad esso volgesi, ma non ha bisogno di rifiutare nessuna delle cose finite [come fa invece il misticismo]; ché anzi, senza di esse riperderebbe Dio… per cui la cosa finita è sempre la realtà stessa di Dio. E sublima così davvero il mondo in una teogonia eterna, che si adempie nell’intimo del nostro essere.1

È un filosofo ancora abbastanza giovane (quando scrive La riforma della dialettica hegeliana, Giovanni Gentile ha solo 38 anni) a ricordarcelo… di come Spaventa fosse seriamente convinto del fatto che tutto il valore di Hegel lo si potesse risolvere in questo: “provare l’identità” (mirando dunque giusto al problema della logica hegeliana). E sarebbe stato ancora Spaventa a chiedersi se Hegel l’avesse provata davvero questa “identità” – ma questa era per lui un’altra questione. Tutto questo il filosofo di Castelvetrano ce lo ricorda nel capitolo VIII della sua Riforma della dialettica hegeliana, intitolato appunto Nuovi studi dello Spaventa. 1. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, p. 265.

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Secondo Spaventa non si spiegherebbe, davvero, l’immediato negarsi dell’essere – tematizzato dallo Hegel nelle prime pagine della Scienza della logica –, se non si capisse cosa sia già l’essere vuoto e indeterminato da cui la Logica sembra prendere le mosse. Secondo Spaventa, l’essere “si nega” solo perché, in esso, a dirsi è già, fin dall’inizio, la potenza infinita del pensare. Si chiede infatti lo Spaventa, negli Scritti filosofici: «perché il no? Il non-essere, la negazione? E dopo, e nonostante il sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il sì? Perché tutto non è essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica»2. È Gentile a ricordarcelo. Spaventa, comunque, se la dà, una risposta: «Quel che sappiamo è che, senza il pensare non sarebbe il no, non sarebbe il non-essere»3. «Quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il pensare. Se non fosse altro che l’essere, non sarebbe il no»4. Insomma, per lui l’essere, il semplice “è”, è già pensare, distinguere… è ridurlo ad un punto, sempre il medesimo essere, e dunque germinarlo. Ma, si badi bene, sempre per Spaventa, il pensare non interviene «ab extra nell’essere»5. Perciò, rileva Gentile, «lo S ­ paventa 2. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa con appendice, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1975, p. 31. 3. Ibidem. 4. Ivi, pp. 31-32. 5. Ivi, p. 32.

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vede già il pensare come l’atto immanente dell’essere che non è»6. Insomma, il filosofo abruzzese (nato in provincia di Chieti), rileva ancora una volta Gentile, «dovrà essere condotto a scoprire l’unità logica degli opposti, che è il segreto della dialettica, riportando, non pure il non-essere, ma lo stesso essere dentro a questo atto del pensare»7. Spaventa, in buona sostanza, non proverebbe, in senso proprio, l’identità, ma “la scoprirebbe” in virtù dell’atto stesso con cui l’essere si dice – che è poi il medesimo in virtù del quale anche si nega. L’identità, cioè, sembrerebbe non poter essere provata! D’altronde, l’idea dell’essere non può muoversi da sé; e neppure potrà essere un pensiero concepito come altro dall’essere a muoverla; insomma, per Spaventa, «il vero è che pensiero e idea sono ciò che sono, in quanto sono uno, sebbene distinti; e ciascuno per sé solo non è né pensiero né idea. L’idea è tale, in quanto è pensata; e il pensiero è il pensiero in quanto pensa l’idea. In questa unità (e distinzione) consiste l’immutabilità e la dialetticità dell’idea»8. A riconoscere l’essere non solo come un pensato, ma come «il pensare medesimo» che, in esso, appunto, si farebbe pensato, Spaventa sembra essere giunto gradatamente, passo dopo passo; anche se all’inizio sembrava convinto del fatto che l’essere fosse un pensato, e non il pensare9.

6. Ibidem. 7. Ivi, pp. 33-34. 8. Ivi, pp. 34-35. 9. Cfr. ivi, p. 30.

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Sempre secondo Gentile, comunque, «lo Spaventa vede fin dal ’64 la meta, benché non abbia una chiara nozione della via per raggiungerla»10. Solo in uno scritto inedito del 1881, infatti, il filosofo abruzzese mostra di aver raggiunto la consapevolezza dell’identità di essere e pensare; si tratta di uno scritto che Gentile avrebbe riportato per intero nel suo volume sulla dialettica hegeliana. In questo testo Spaventa sembra riuscire ad andare a fondo nella comprensione della dialettica hegeliana, quasi portando Hegel oltre se medesimo – e chiedendosi in ogni caso (come abbiamo già rilevato) se Hegel fosse davvero riuscito a provare quell’identità che lui (Spaventa) ormai aveva riconosciuto come originaria e già operante finanche nel semplice “essere”. Sì che non si potesse più dire, come avrebbe fatto lo stesso Spaventa, almeno sino al 1864, che, nell’essere, il pensare si estingue. Che il pensare, cioè, riguarderebbe solo il non-essere e che il medesimo, nell’essere, non può che ritrovarsi come assenza di ogni distinzione. Il fatto è che il pensiero non si estingue in un “altro” (nell’essere concepito cioè come altro dalla negatività del pensare), ma in se medesimo – insomma, bisogna che lo stesso essere sia pensare. Una meta che né lo Spaventa (a quel punto della sua riflessione) né il Fischer in effetti raggiungono. Anche se Spaventa intravvede presto come, anche nel pensato, si debba riconoscere il pensare («quantunque l’oggettivarsi del soggetto a se stesso apparisse ancora piuttosto come un’impotenza, anzi che come la celebrazione della reale potenza del pensare»11). Per Gentile, in buona sostanza, il vero attualismo vede innanzitutto questo: che non c’è alcuna idealità, alcuna forma

10. Ivi, p. 31. 11. Ivi, pp. 30-31.

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dell’essere «che trascenda l’attualità del pensiero come pensare; e fa avvertire che ogni pensato è reale nell’atto unico del pensiero che la pensa, e soltanto lì ha la sua verità»12. Ma il nostro vede anche che non v’è affatto qualcosa come una molteplicità di pensieri; infatti, «il pensiero è uno e immoltiplicabile; e in questa unità è veramente infinito, in quanto pensare»13. Solo «il pensato è dunque molteplice: ma il pensato, colto nella sua concretezza, poiché esso è il pensato del pensare, ossia lo stesso pensiero nella sua concretezza, risolva tutta la sua molteplicità nell’unità del pensare»14. Perciò, sempre secondo Gentile, tutti gli atti del pensiero «sono un atto solo»15. Dunque, se le categorie sono infinite di numero – in quanto categorie del pensare che si guarda come pensato (la storia) –, sempre le medesime esprimono tutte, in ogni caso, «una sola infinita categoria, in quanto categoria del pensare nella sua attualità»16. Ragion per cui il processo dialettico – quello che dovrebbe istituire la “mediatezza” quale forma propria del reale –, questo identico processo che è la concretezza e la realizzazione dell’idea, «non è moltiplicabile dal punto di vista trascendentale, ma solo dal punto di vista empirico o storico»17. Per moltiplicarsi e differenziarsi, infatti, esso deve trasformarsi da

12. Ivi, p. 12. 13. Ivi, p. 13. 14. Ivi, pp. 13-14. 15. Ivi, p. 14. 16. Ibidem. 17. Ivi, p. 10.

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processo del pensare «in processo del pensato»18, rileva ancora una volta Gentile. Non v’è dubbio alcuno: per il filosofo di Castelvetrano originaria è l’identità. Ogni differenza rivelandosi semplice manifestazione di un’identità originariamente moltiplicantesi in sé medesima. Mai, infatti, il molteplice determina una qualche fuoriuscita dall’identità (dal punto di vista trascendentale, di cui quello empirico non può che essere originaria manifestazione, e dunque immediata parzializzazione… in relazione alla quale, peraltro, la parte è lo stesso tutto che si parzializza). È per questo che Gentile può anche affermare che, «staccata che sia la parte dal tutto, la parte diventa tutto, e il processo della parte non può che essere identico al processo del tutto»19. Ecco perché la dialettica della relazione (si badi bene che, per Gentile, già la dialettica antica era dialettica della relazione!) va oramai intesa (soprattutto dopo Kant e dopo Hegel) come vera e propria dialettica del pensare20. E perché, se «l’uomo antico si sentiva malinconicamente diviso dalla realtà, da Dio: l’uomo moderno sente in sé Dio, e celebra nella potenza dello spirito la divinità essenziale del mondo»21. Una trasformazione che Gentile vede già operante nello Hegel; da ciò il convincimento secondo cui «la categoria di Hegel non è pensiero pensato, ma è la vera forma che è attività e funzione creatrice del conoscere e però del reale, e in questo senso è massima concretezza»22. 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Cfr. ivi, p. 5. 21. Ivi, p. 7. 22. G. Gentile, Origine e significato della logica di Hegel, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 72.

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Ma il nostro sarebbe andato ancora più in là; spingendosi ad affermare che non importa nulla della verità di quel pensiero (quello hegeliano), perché «tutto diviene, niente è; e come si forma la natura, così si forma il pensiero; e di assoluto non c’è se non questo formarsi, questo divenire, che è appunto la logica»23. Questo, comunque, non comporta affatto, per lui, una banale relativizzazione delle forme con cui il pensare si presenta ogni volta, “in quanto pensato”. Come se ne conseguisse che nulla è vero, eccetto il negarsi incessante di ogni forma. Il fatto è piuttosto (ecco la vera grandezza del Gentile!) che, se ogni pensato disegna e genera il relativizzarsi dell’assoluto pensare, questa assolutezza dovrà comunque potersi rinvenire in ognuna delle sue specifiche relativizzazioni Nessuna notte in cui tutte le vacche sarebbero nere, insomma (come troppo spesso si è detto anche di Nietzsche, in rapporto alla convinzione – affermata a chiare lettere dal filosofo dell’eterno ritorno – secondo cui l’essere andrebbe risolto in semplice “divenire”; da cui il destinale indebolimento riconosciuto e fatto proprio da importanti filoni del pensiero contemporaneo). Gentile sa bene che «respinger il relativo per amor dell’assoluto è respinger lo stesso assoluto, che solo nel relativo manifesta appunto la sua assoluta potenza»24. Per lui, dunque, «il principio della filosofia è l’assoluto. Esso ha un carattere necessario: è uno, unità o identità di tutto quel che è finito. Questa unità contiene e risolve tutte le opposizioni: corpo e anima, necessità e libertà, natura e io, soggetto ed oggetto, concetto ed essere. Queste forme più fondamentali

23. Ivi, p. 73. 24. Ibidem.

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di opposizione s’implicano tutte l’una nell’altra, ed Hegel per esempio usa l’opposizione tra soggetto ed oggetto per dire lo stesso che l’opposizione tra pensiero ed essere»25. Insomma, per tornare alla nostra questione, il fatto che Hegel andasse superato poteva dipendere solo da un fatto: che l’identità egli intendeva ancora provarla (come si sarebbe potuto evincere dalla domanda che si poneva lo Spaventa – da noi ricordata all’inizio di queste pagine); mentre è solo a partire da quella (l’identità) che tutto si spiega; ché proprio in essa tutto rinviene la propria condizione di possibilità. Perciò la medesima viene riconosciuta da Gentile come orizzonte originario! In questo senso, il nostro riesce anche a spiegare l’origine del bisogno di filosofia, riconducendola al semplice smarrimento del senso dell’identità («che pur rimane implicitamente presente in fondo al pensiero»26). E si rifà, nel precisare tale sua convinzione, proprio allo Hegel, citandolo alla lettera: «La rottura, l’isolamento, la divisione è (dice Hegel) la fonte del bisogno della filosofia»27. Quest’ultima, perciò, avrebbe il compito essenziale di restaurare e rivelare alla coscienza l’identità fondamentale, riaffermando la supremazia dell’assoluto. E dimostrare la sua presenza attuale «in ogni realtà finita e determinata, e mostrare altresì che tutte le identità relative finite sono semplici ripetizioni di una medesima identità suprema»28. Ripetizioni in cui quest’ultima, peraltro, non si presenta mai come “oggetto”.

25. Ivi, p. 83. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ibidem.

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Certo, essa assumerà comunque il volto di questa o quella oggettualità o distinzione, ma quel che importa è che, in queste ultime, la Medesima continuerà in ogni caso ad indicare un concetto trascendentale – che, come sapeva bene già Kant (ci ricorda Gentile), è sì qualcosa di immanente «ai concetti che ci troviamo a pensare connessi nella sintesi dell’esperienza»29, ma indica esso medesimo un ‘concetto (già per Kant «la relazione è concetto essa stessa»30) che, paradossalmente, non ha certo il carattere oggettivo della verità, risolvendosi piuttosto nella semplice attività «del soggetto che conosce la verità»31. Infatti, la relazione o sintesi kantiana diventa qui puro atto del pensare; in relazione a cui, solamente, sembra potersi costituire il pensato – senza che ne derivi l’ambiguità che ancora mina il concetto platonico di “relazione”; ancora concepita, dal fondatore dell’Accademia, come semplice rapporto tra concetti pensati, che sarebbero, proprio essi, il vero prius rispetto al posterius costituito dalla “relazione”. Un atto del pensare, dunque – quello messo a tema da Gentile –, che si riflette sì nei pensati, o meglio nella loro tendenzialmente infinita molteplicità, ma che in questi ultimi riconosce appunto una molteplicità di cui esso, in quanto atto del pensare, dice la semplice “negazione”. Gentile ritiene di averlo dimostrato, che “la molteplicità è del pensiero come pensato”; mostrando di aver perfettamente compreso che non ha senso alcuno tentare di dedurre le categorie, numerarle, cercare di capire quante siano… («la ricerca del numero delle categorie, esplicita in Kant ed implicita in Hegel, è dunque per lui una deviazione dalla linea su cui sorge 29. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa con appendice, cit., p. 4. 30. Ibidem. 31. Ibidem.

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e deve procedere il problema trascendentale delle categorie costitutive del pensare»32). Lo stesso Hegel, sempre secondo Gentile, era stato condotto, e proprio dal suo metodo, ad annullare il numero delle categorie (pur numerandole ancora tutte); non a caso, «tutta la molteplicità delle categorie hegeliane si risolve, in fine, nella concreta categoria dell’idea assoluta, e quindi dell’assoluta unità»33. Sì che la concretezza dell’dea assoluta appaia moltiplicabile solo dal punto di vista empirico (o, per dirla con Kant, fenomenico). E il divenire di tutto, pur cambiando di volta in volta i termini del rapporto (essere determinato, essere indeterminato – misura, qualità – concetto, misura…), nella sua dialetticità intrinseca, ossia nella sua costitutiva irrequietezza (Unruhe) – la stessa di cui parla già Hegel –, solo esso, per l’appunto, «non muti, né possa mutare»34. Nessuna forma dell’essere, infatti, trascende più questo “divenire” del pensiero in atto; nessuna forma trascende più «l’attualità del pensiero come pensare»35, perché ogni reale è tale solo nell’atto unico «del pensiero che la pensa, e soltanto lì ha la sua verità»36. Quello che è sempre uno e immoltiplicabile; «e che proprio in questa unità è veramente infinito, in quanto pensare»37. Sì, perché solo «il pensato è molteplice; ma il pensato, colto nella sua concretezza – stante il suo costituirsi come il pensato del pensare, ossia lo stesso pensiero nella sua concretezza –,

32. Ivi, p. 9. 33. Ibidem. 34. Ivi, p. 11. 35. Ivi, p. 12. 36. Ibidem. 37. Ivi, p. 13.

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risolve tutta la sua molteplicità nell’unità del pensare…perciò tutti gli atti del pensiero sono un atto solo»38. Ecco per quale ragione Gentile può concludere il capitolo III de La riforma della dialettica hegeliana, affermando che «le categorie sono infinite di numero, in quanto categorie del pensare che si guarda come pensato (la storia), ma sono una sola infinita categoria, in quanto categoria del pensare nella sua attività»39. Pur aggiungendo poi che, «dove dunque ti viene innanzi la differenza, il vario delle categorie, cessa il dialettismo del pensare e risorge la finità morta del pensato, come nell’antica dialettica»40. Importante, questa conclusione, che sembra far valere la forma molteplice caratterizzante il “pensato” (in quanto oggettivazione dell’unico pensiero in atto) come vera e propria “caduta”; da cui un opposto che, in quanto realmente opposto, non potrà che farsi “morta finitezza”. Da ciò il bisogno di filosofia; da intendersi come vero e proprio bisogno di ridisegnare l’unità che, in qualche modo, la finitezza oggettivata delle categorie molteplici non può fare a meno di obliare, dando vita ad una vera e propria dimenticanza. Di cui solo la finità avrebbe potuto farsi protagonista. Dando appunto luogo al “dimenticar-si” da parte dello stesso pensiero in atto; che, d’altro canto – va anche detto –, se non “si” dimenticasse, ossia se non perisse nella molteplicità del pensato, non potrebbe neppure venire riconosciuto come “atto realmente autonegantesi”. E non darebbe neppure luogo a qualcosa come un bisogno di filosofia. Cioè, non direbbe

38. Ivi, pp. 13-14. 39. Ivi, p. 14. 40. Ibidem.

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alcun vero “dialettismo”; non potrebbe dirlo, là dove l’altro non si facesse reale alterità rispetto al divenire e alla vita del pensiero in atto. Là dove l’altro, cioè, non si determinasse realmente come morta finità – e non si desse quello stesso annientamento che era stato sempre Gentile, peraltro, a criticare… nelle pagine di Spaventa precedenti il 1881, là dove il filosofo abruzzese si riferiva ad un essere in cui il pensare sembrava essersi estinto. Se l’essere di Spaventa non fosse stato reale estinzione del movimento del pensare (e della negatività caratterizzante questo movimento), il negarsi del pensare non si sarebbe mai costituito come un reale negarsi. Fermo restando che è la stessa vita del pensiero in atto a farsi, anche nella prospettiva gentiliana, morta finità del pensato (analoga a quella delle categorie tematizzate dalla dialettica antica). Gentile sta in sostanza decostruendo la sua stessa critica a Spaventa. Anche lui, infatti (forse non avrebbe potuto non farlo… ma vedremo se è così), finisce per mettere a tema qualcosa di cui l’intrascendibile divenire che caratterizza il pensare (cui nulla sembra poter sfuggire) non avrebbe mai potuto fare a meno: ossia, la necessità di un essere statico, morto, una sorta di una idealità di natura platonica, la cui radicale fissità (la cui autonomia, cioè), solamente, sembra in grado di rendere ragione della potenza infinita del pensare medesimo; che non può dirsi tale (cioè potenza infinita), ribadiamo, se non facendosi radicalmente altra da sé. Se non ritrovandosi al cospetto di qualcosa che, si badi bene… proprio e solo in quanto prodotto dalla sua stessa infinità (ossia, dall’infinità della potenza del pensare), potrà sembrare autonoma, ossia non prodotta dal pensiero, e farsi per ciò stesso fissa e statica, morta e finita, nonché “molteplice”.

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Il fatto è che la potenza del pensare è realmente infinita solo e proprio in quanto capace di produrre un assolutamente “altro” da sé. In quanto capace di disegnare una situazione in cui il proprio prodotto non appaia più come “suo prodotto”. A condizione, cioè, che possa capitargli di esperire quella che è lo stesso Gentile a definire “cessazione” del pensare; di esperire, cioè, il risorgere da parte della finità morta del pensato. Se, dunque, in Hegel, il divenire svanisce nella negazione del divenire medesimo (ché la deduzione delle prime categorie della Scienza della logica «contravviene al proposito essenziale della dialettica hegeliana, rendendo possibile quel concetto antidialettico per eccellenza a cui essa mette capo in termini di neutralizzazione del divenire nel divenuto – sì che, così come l’essere svanisce nel non-essere, anche il divenire si risolva nella negazione del divenire… in modo tale che tutta la deduzione approdi da ultimo ad un’analisi di concetti, per cui si tende a scoprire l’identità degli opposti al di sotto della differenza»41), la stessa deduzione dell’unità – dell’unità di determinazioni la cui unica determinatezza sembra costituita dal non contenere, né l’una né l’altra, alcuna determinazione (questa la determinazione «che è appunto la medesima in entrambi»42) –, sarà una deduzione «del tutto analitica… dove il procedere non sarà altro che il porre esplicitamente quel che è già contenuto in un concetto»43. Ma così, a venir meno, è la stessa pretesa dialetticità del logo hegeliano.

41. Ivi, p. 17. 42. Ivi, p. 18. 43. Ibidem.

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Eppure, rileva giustamente Gentile, a differenza della logica aristotelica, fondata sul principio di identità, quella hegeliana non avrebbe voluto che si unisse l’identico, «ma il diverso»44. Non a caso Hegel si premura di precisare che questi apparentemente diversi (l’essere e il nulla, in primis) sono anche affatto diversi; rilevando, subito dopo, però, che, non essendovi qui la differenza ancora determinata, la medesima (differenza) resta qual è, in essi, l’ineffabile, ossia la semplice opinione. Hegel voleva certo includere la contraddizione esclusa da Aristotele45, quella in virtù della quale il processo si concluderebbe nella risoluzione di una contraddizione effettiva, come «immedesimazione di due termini differenti; e non esprime il processo in cui dovrebbe apparire anche questa differenza»46. Ma la non identità del soggetto e del predicato nel giudizio non viene espressa. La “differenza”, cioè, rimane qui una semplice “esigenza”. Non si capisce cioè, lamenta Gentile, in cosa consista la differenza dell’uno rispetto all’altro. Il Trendelenburg dirà che questa differenza, effettivamente, non c’è. Che manca, in Hegel, il principio dialettico, e quindi la vera contraddizione – di cui il filosofo di Stoccarda pur aveva parlato. Il fatto è che Hegel, non potendo, analiticamente, «dedurre il divenire se non dall’identità, ricorse all’opinione della differenza»47. Ma in che cosa consisterebbe questa opinione? si chiede a questo punto Gentile. Essa «è l’affermazione di qualcosa d’ineffabile, secondo il luogo citato della Enciclopedia, ma ribadito anche nella Scienza 44. Ibidem. 45. Ivi, p. 19. 46. Ibidem. 47. Ivi, p. 20.

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della logica»48. La differenza insomma, rileva Gentile, finisce per trascendere l’attualità del processo (in quanto «non entra nel processo logico del divenire»49). Hegel si troverebbe così costretto a trascendere l’attualità del processo, rileva sempre Gentile, passando ad una semplice riflessione esterna che sembra avere la forma del giudizio: “essere e niente sono identici”. Forma, quest’ultima, inadeguata, agli occhi del filosofo di Castelvetrano, «perché estranea all’atto dell’immedesimazione degli opposti, che pur dovrebbe esprimere»50. Il fatto è tra essere e nulla sembra non esservi alcuna differenza. Certo, il divenire supererà la differenza, la presupporrà e la supererà, «ma non potrà giovare ad illuminarci circa il modo di soddisfare l’esigenza che si è detta»51. D’altro canto, anche nel processo ulteriore della logica, «la sintesi presupporrà la differenza come qualche cosa di già superato in sé; ma questo superamento della differenza non importerà l’impossibilità di porre la differenza di là dal suo superamento»52. Hegel, insomma, sempre secondo Gentile, «ha l’intuizione vaga del divenire, ma non ne ha il concetto»53. Cioè, non lo pensa dialetticamente in conformità all’identità di essere e pensiero (così si chiude il capitolo V de La riforma della dialettica hegeliana).

48. Ibidem. 49. Ivi, p. 21. 50. Ibidem. 51. Ibidem. 52. Ivi, p. 22. 53. Ibidem.

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Insomma la “differenza” si pone al di là del divenire del pensiero in atto, perché il pensiero non la pensa; e non può pensarla, in quanto mera posizione di un’identità astratta tra solo apparentemente differenti. E quindi il supposto superamento della differenza si fa, in Hegel, intollerabile assenza di una reale differenza – che, quindi, verrebbe solo apparentemente superata, in quanto in verità mai davvero posta dal pensiero. Il quale, peraltro, riterrà di averla già da sempre superata, e quindi di poterla relegare in una sorta di esteriorità morta e da ultimo impossibile. Ma, ribadiamo: non è proprio il presentarsi da parte della differenza come esteriorità pura rispetto al pensiero che di fatto “non la pensa”, cioè non ne vede il prodursi a partire dalla propria potenza infinita…, ecco, non è proprio questo destino la prova del suo esser stata realmente prodotta dalla potenza infinita del pensiero? Che, pur non potendosi esimere dal riconoscere che è stata posta da lui stesso, la troverà solo come datità morta ed estranea, di cui solo a posteriori potrà riconoscere l’esser stata posta da lui stesso. Anzi, che il pensiero non può neppure mostrare di aver prodotto, altrimenti verrebbe meno la perfetta estraneità dell’essere rispetto al pensiero, per l’appunto. Il fatto è che solo un pensiero infinito può averla prodotta, tale estraneità. Stante che tutto viene posto dal pensiero; insomma, anche quel che sembra non esser stato posto dal pensiero, quel che appare, cioè, quale pura e ignota, nonché inconoscibile datità, dovrà venire ricondotto al pensiero – che, appunto, solo in quanto infinito, potrà aver prodotto finanche la pura estraneità rispetto a sé.

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Insomma, solo quel che appare come non posto dal pensiero “mostra” di esser stato posto da quest’ultimo; ché il pensiero in atto è potenza infinita… non lo si dimentichi. E dunque non può esimersi dal produrre anche qualcosa che riesca ad istituire una assoluta alterità rispetto a sé (altrimenti la supposta potenza infinita del pensare sarebbe limitata da questa stessa impossibilità – dal non poter cioè produrre l’assoluta alterità rispetto a sé –, e dunque non sarebbe affatto potenza infinita). Il pensiero che non rendesse possibile l’incontro con qualcosa che, proprio in quanto assolutamente altro dal pensiero, finisca per non sembrare prodotto dal pensiero, non sarebbe un pensiero infinitamente potente; e dunque “mancherebbe”. Cioè, si ritroverebbe ancora una volta mancante, proprio come il pensiero che, in quanto infinito, fosse in grado di produrre l’assoluta alterità rispetto a sé. Aporia radicale, dunque, è quella in cui ci si viene a trovare. Che disegna appunto l’aporeticità di un pensiero che, solo in quanto infinito, può ritrovarsi finito; di un pensiero pensante che, proprio in quanto infinitamente potente, può esperire la propria più radicale impotenza, ritrovandosi appunto costitutivamente “mancante” – mancante in primis dell’assoluta alterità rispetto a sé. E quindi di quella finitezza morta e statica in cui per un verso il pensiero non potrà mai riconoscersi, ma in cui, solamente, per altro verso, il medesimo potrà finanche rinvenire la vera prova della propria infinità. O meglio la prova che finità e infinitudine del pensiero sono il medesimo; dando esse in ogni caso luogo all’esperienza della finitezza in quanto limite del pensiero in atto; in quanto limite che la sua stessa infinitudine avrà (per quanto appena rilevato) in verità prodotto. Che essa dovrà aver prodotto; perché solo una potenza infinita – come quella del pensiero in atto –, come abbiamo già detto, può averla prodotta quale assoluta alterità rispetto a sé. Un’infinitudine che, nel corso della storia, si è preferito chiamare Dio

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(Dio come principio e causa della molteplicità finita di cui è fatto il mondo); ma che il pensiero può sperimentare già riconoscendo che nulla può essere pensato che non sia appunto “un pensato”, ossia che non dipenda e non sia istituito dallo stesso pensiero che lo pensa, anche là dove ne riconosca l’esser fatto in modo radicalmente antitetico rispetto al pensiero (come statico, morto, finito, rispetto alla dinamicità, alla vita e all’infinitudine del pensiero in atto). Detto in altri termini: Gentile critica Hegel, senza accorgersi del fatto che il pensiero non può fare a meno (in quanto pensiero in atto) di incontrare la morta astrattezza familiare all’intelletto (sempre rivolto a pensati), in quanto inequivocabile espressione, essa medesima, della potenza infinita del pensiero pensante. D’altro canto, era stato lo stesso Gentile, solo due anni prima di pubblicare la Riforma della dialettica hegeliana (che sarebbe uscita nel 1913), a scrivere che «tutti i limiti sono generati dalla stessa dialettica del pensiero. Il limite del pensiero non può essere limite del pensiero se non comincia dall’essere il pensiero stesso; se, come limite, non è nella sfera stessa del pensiero. La natura – unico limite possibile del pensiero – solo astrattamente è natura, in concreto è esso il pensiero nella sua interna mediazione»54. Insomma, il limite costituito dall’astrattezza del naturale, ossia del pensato in quanto connesso alla fissità del “vero”, e in quanto mero “passato cieco”, è necessariamente posto, esso medesimo, dal pensiero, appunto come suo limite reale, ossia come alterità reale rispetto a sé – dove, reale, per un pensiero infinito e infinitamente potente, non avrebbe potuto essere altro che l’impotenza del naturale. Ossia, la fissità in cui, sola54. G. Gentile, L’atto del pensare come atto puro, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 188.

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mente, il pensiero sembra poter ritrovare la propria originaria dinamicità… ritrovandola in ogni caso in forma rovesciata, e dunque come assolutamente altra da sé. Data a lui come “stasi” – indipendentemente dalla quale, il pensiero non potrebbe neppure svolgersi nella libertà assoluta concretamente implicata dalla propria originaria incondizionatezza. Dunque, solo nella maschera della morta astrattezza il pensare può incontrare, riflessa, la propria natura realmente e concretamente “incondizionata”, ossia, la propria libera infinità – di contro a quel rovescio di sé che si pone a lui come “limite reale”, e dunque come effettiva sfida alla sua potenza infinita. Alimentandola, comunque… e consentendo al pensiero di svolgersi appunto «come attività che si pone negandosi»55. E di realizzare proprio così la propria unità; stante che l’unità o identità del pensiero in atto, o del pensare come atto puro, si ‘realizza’ solo in un infaticabile moltiplicarsi della sua identità, e dunque nel suo originario farsi numero (è la natura, infatti, sempre per Gentile, a dirsi nella forma del numero – «perché negazione del pensiero, è negazione dell’unità, e però numero»56). Assumendo così quel volto meccanicistico o meccanico che siamo soliti attribuire alla natura in quanto astratta “negazione del pensiero”; ché proprio questa natura «è negazione dell’unità, e però numero»57. Gentile non demorde, comunque, dalla propria convinzione di fondo: che sia «lo stesso pensiero a crearsi il suo altro, la natura»58. Proprio perché posto da lui, infatti, l’universo della molteplicità (che è necessariamente particolare, sempre secondo 55. Ibidem. 56. Ivi, p. 191. 57. Ibidem. 58. Ivi, p. 192.

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Gentile, ma ospiterebbe una molteplicità disperata, precisa ancora Gentile, se – stante che il «numero postula, come suo elemento, l’unità» –, «l’unità nel regno del molteplice dovesse essere un’unità assoluta, anziché una unità provvisoria, e quindi arbitraria, come può essere appunto la determinazione del particolare»59) non può certo impedire lo sforzo logico che «contrappone a ciascuna tesi la sua antitesi, superi l’astrattezza del mondo kantiano, e troverà quella realtà concreta, a cui spetta appunto essa antitesi… sì da consentirci di passare dal mondo dei fatti, che sono molti e nient’altro che molti, al mondo dell’atto che è uno, come radice dei molti»60. Insomma, l’alterità reale del mondo meccanico (popolato di molte cose e dominato dalle leggi meccanicistiche e ripetitive della natura) è essa medesima pensiero, proprio in quanto espressione dell’infinità caratterizzante quest’ultimo (pur determinandola, e rovesciandone il senso… sì che in essa l’infinito si ritrovi davvero finito, e la libertà si presenti con il volto della necessità, ma soprattutto l’unità assuma le fattezze di un mondo meramente molteplice). Solo che la riflette in forma rovesciata, appunto per il suo stesso originario “negarsi”. Ma, insistiamo, proprio in quanto pensiero, la natura è realmente fuori dal pensiero (anche perché, chi potrebbe essere davvero in grado di uscire fuori di sé, se non la potenza infinita del pensiero? nessuna potenza finita potrebbe infatti negare il proprio limite, se non trasformandosi in potenza infinita, mentre la potenza infinita dimostra la propria reale infinità proprio negandosi e facendosi finita… mostrando cioè che neppure la propria infinitudine è per essa un limite, ossia una condizione insuperabile… che, come tale, la limiterebbe, dimostrando il suo non esser affatto infinita). 59. Ibidem. 60. Ibidem.

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Così si esprime infatti Gentile in un passo di straordinaria potenza speculativa: «appena dall’atto si scende al fatto, si è fuori del pensiero, nel mondo della natura»61. Gentile si sbilancia e fa esplicito riferimento ad una sorta di ‘fuori’ del pensiero. Un fuori rispetto all’infinità del pensiero in atto… sì, quasi un’eresia rispetto al suo sistema e ai principi fondamentali del medesimo… da Gentile peraltro ossessivamente ribaditi! Un’eresia anche rispetto a quanto da lui stesso affermato solo due righe più in là, dove si dice che l’atto dello spirito «non patisce in sé opposizione alcuna»62. Se la natura è fuori, e non solo apparentemente fuori, allora l’atto dello spirito non potrà che patirla, quella opposizione, così come si patisce ogni forma di esteriorità. Ma la patisce, ribadiamo, proprio perché è riuscito a produrla, questa reale alterità; la patisce proprio perché è lui stesso ad averla prodotta. Paradosso assoluto! Come dire che il molteplice è altro dall’uno, ed è realmente altro da esso, solo perché si costituisce come originaria produzione dell’uno medesimo che… “non-è” certo quella molteplicità – senza essere, però, in alcun modo ‘altro’ dalla medesima. Perché i molti non vengono dall’uno come da un “altro” rispetto a loro stessi; essi, infatti, si fanno altro da quello, proprio in quanto quest’ultimo non è affatto altro da essi… perciò non li produce, quanto piuttosto si mostra nei medesimi. Esibendo così il proprio semplice non esserli; mostrandosi in essi, senza farsi mai “altro” rispetto agli stessi, e, proprio così, riuscendo a rimanere assolutamente altro da essi (non rinun61. Ivi, p. 193. 62. Ibidem.

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ciando neppure a farsi altro da loro, proprio perché questi ultimi non lo limitano; non trovando mai, in essi, qualcosa che lo renda “altro” – dai medesimi –, ossia molteplice esso stesso). Altro, cioè, da un’alterità (quella del molteplice) che non può certo limitarlo, e che non lo limiterà mai proprio per il suo non esser neppure limitato dall’impossibilità a costituirsi come “un altro”. E dunque per il suo saper rimanere sempre anche altro da un’alterità (quella costituita dal molteplice, appunto – in quanto altro dalla sua perfetta identità o unità) di cui andrà a costituirsi come semplice “negazione”… reale, certo, ma proprio in ragione della realissima alterità di cui esso funge appunto da autentica “negazione” (proprio in quanto negazione di un’autentica “alterità”). Ma è proprio Gentile a non tener dietro a questa sua stessa indiscutibile e straordinaria intuizione. Infatti, quando, nel 1916, pubblica la Teoria generale dello spirito come atto puro, torna a ribadire, con ossessiva insistenza, che la forma non può avere, in quanto assoluta, «di contro a sé una materia, in quanto il concetto non solo va inteso come attività, ma come attività che non produce nulla che espella da sé e abbandoni fuori di sé, inerte e bruto. Niente quindi che si ponga innanzi al pensiero senza essere radicalmente identico al pensiero stesso»63. Quasi avesse rimosso l’intuizione di qualche anno prima. Come se non avesse già lui capito, in verità, che, proprio in quanto identica al pensiero, la materia inerte può e deve farsi, e quindi anche dirsi, assolutamente altra dal pensiero – costituendosi, quest’ultimo, come vera e propria potenza infinita… 63. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 232-233.

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come tale non certo impossibilitata a produrre una realissima “alterità”. Stante che «lo spirito umano non può raggiungere come reale niente che sia fuori di se stesso»64. Ma Gentile oscilla. E infatti l’intuizione torna anche nei corsi degli anni successivi, quelli in cui compare l’affermazione che sembra attestare una vera e propria rimozione della felice intuizione degli anni precedenti (raccolti appunto nella Teoria generale dello spirito come atto puro); si ripresenta anche nella sua opera forse più nota, insomma, là dove, subito dopo aver ribadito che lo spirito umano non può raggiungere nulla che sia fuori di sé, precisa anche che non può raggiungere tale esteriorità, «trovandosi tuttavia alle prese, sempre, con qualche cosa, con cui ripugna alle sue più profonde esigenze che s’identifichi»65. Dove, cioè, l’esteriorità del naturale viene addirittura identificata con il male. «Perché male è ciò che non deve essere, ciò che si oppone allo spirito in quanto questo dev’essere e si pone come fine da raggiungere»66. Questo è infatti per lui doloroso: «il non essere dello spirito»67. In quanto non essere, infatti, lo Spirito deve sempre ancora farsi (il ciò il suo vero essere, quello che sempre ha da farsi, e che mai “già è”). Lo Spirito celebra dunque la propria natura proprio in quanto «questa non è già realizzata e perciò si realizza»68.

64. Ivi, p. 233. 65. Ibidem. 66. Ibidem. 67. Ibidem. 68. Ivi, p. 234.

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Male, dolore, alterità, o anche “errore”; questo dicono tutte queste determinazioni esperienziali: ciò che «sta di rimpetto al concetto nostro, come suo non-essere»69. Ma il pensiero di Gentile continua ad oscillare: subito dopo, infatti, il nostro precisa anche che questo dolore «non è una realtà che si opponga (davvero) a quella che è spirito, ma la stessa realtà di qua dalla sua realizzazione: in un suo momento ideale»70. Inquietudine costitutiva, dunque, quella caratterizzante il pensare gentiliano. Insomma, il nostro sa bene che l’Io è «identità che si pone. È riflessione: sdoppiarsi come sé ed altro, e ritrovarsi in altro. Il Sé che fosse sé senza essere l’altro, evidentemente non sarebbe né pur sé, perché questo esso è in quanto è l’altro»71. Sa bene che è certamente l’Io a differenziarsi da sé («ponendo quindi la propria identità a fondamento della propria differenza»72) e in se stesso – solo per questo può rilevare come sia proprio l’identità a fondamento della sua differenza –, ma come è possibile credere (non possiamo non chiederci) che a fondamento ci sia l’identità, quasi che la differenza fosse un semplice attributo dell’identità… di un’identità che, in quanto valevole come fondamento, sembrerebbe poter vantare (sia pur in modo vago e indeterminato) una qualche anteriorità, perlomeno logica, rispetto alla differenza? Come crederlo, se, ab origine, il farsi altro da sé, da parte dell’identità, costituisce (in virtù della potenza realmente in-

69. Ibidem. 70. Ivi, pp. 234-235. 71. Ivi, p. 238. 72. Ivi, p. 239.

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finita di quel che si fa appunto sempre altro da sé) un “altro” che l’Io non può che incontrare come reale ostacolo e dunque come male reale, in quanto tale, da redimere? Cioè, come natura realmente estranea alla potenza pur infinita dello spirito. D’altro canto, Gentile rimane, nonostante tutto, caparbiamente ancorato al primato dell’identità. Perciò può sostenere, poche righe più in là, che la sintesi reale, il concreto od originario, non è soggetto e oggetto, «ma soltanto soggetto, come reale soggetto che si realizza nel processo onde si supera la idealità del puro soggetto astratto e la concomitante idealità del puro astratto oggetto»73. Atto vivo, sì, processo eterno che sempre continua a realizzarsi; ma che Gentile continua a definire appunto in termini di “soggetto”. Certo, la natura è per lui «il non-essere interno all’atto medesimo; come ciò che voi (ogni soggetto) dovete pur non essere, e diventare, con l’atto stesso onde vi ponete»74. Ossia, «la forma determinata del vostro non-essere, ossia di quell’ideale momenti a cui dovete contrapporvi, e che dovete a voi contrapporre, per esser voi un determinato reale»75. Ma il fatto è che, se fosse un elemento semplicemente ideale, non potrebbe venire considerato risultato di una potenza creativa e fabbrile realmente incondizionata. Quest’ultima può dirsi tale, infatti, solo in quanto capace di dar vita ad una alterità “reale”… che il soggetto non potrà non vivere come realissimo ostacolo, ossia, come morta datità realmente “naturale” (e non solamente “ideale”! – l’abbiamo già

73. Ivi, pp. 239-240. 74. Ivi, p. 241. 75. Ibidem.

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detto, e a più riprese) – ma, come poi vedremo, addirittura come Dio –, che risulterà necessariamente intollerabile agli occhi del nostro agire e porre incondizionato. Certo, poi Gentile fa riferimento, sempre a questo proposito, a due volti della natura, a due volti dell’alterità con cui l’Io si troverebbe a dover fare ogni volta i conti. E ristabilisce l’aporeticità che avrebbe dovuto impedirgli di definire la sintesi (ossia, il “vero”) come “soggetto”. D’altro canto, già nelle pagine precedenti, dedicate alla questione del “molteplice”, Gentile mostrava di aver compreso alla perfezione le reali implicazioni di questa strutturale aporeticità. Per quanto fosse poi tornato ad oscillare rispetto a questa stessa peraltro profondissima consapevolezza. Già in quelle pagine, infatti, egli rilevava «che non basta concepire un mondo svariato e ricco di particolari, perché questo mondo esista: può essere un sogno. E sogno sarebbe per l’atomista, se le nostre rappresentazioni non potessero spiegarsi trascendendo il soggetto, e additandone l’origine nella molteplicità reale delle cose»76. In una sorta di molteplicità in sé – così la definisce lo stesso Gentile, poche righe dopo –; «solido fondamento di tutte le differenze e opposizioni individuali, e quindi della complessa vita della realtà»77. Ma poi questa intuizione viene nuovamente persa di vista: il nostro, infatti, sosterrà l’impossibilità di una pura molteplicità. Sembra infatti non poterci essere, dal suo punto di vista, opposizione assoluta tra pensiero e realtà (tra identità e molteplicità), perché «relazione importa certa identità»78. 76. Ivi, p. 108. 77. Ivi, p. 109. 78. Ivi, p. 110.

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Perciò non è possibile che «una cosa non sia l’altra assolutamente»79, se non a patto di negare ogni relazione tra le due. Il fatto è che anche l’opposizione assoluta indica una qualche relazione, per quanto assoluta. Così come la relazione importa sempre una qualche identità. La molteplicità pura, insomma, reca con sé l’irrelatività assoluta dei molti; ma questo è assurdo, continua Gentile. «Perché chi dice “non essere” dice esclusione reciproca, e quindi relazione»80. Una tale molteplicità, infatti, renderebbe impossibile lo stesso urto con la sua alterità da parte del soggetto; perché l’urto implica comunque una qualche “relazione”. Ma se pur va riconosciuto che «l’Io non è se non autocoscienza, non come coscienza che presuppone il Sé, suo oggetto, anzi come coscienza che lo pone»81, e anche che «i diversi non si possono pensare se non come differenziazione dell’identico»82, quello cui Gentile fa continuo riferimento è un identico che non è mai, perché sempre e solamente “diviene” – «non è infatti una sostanza, un’entità fissa e definita, ma un processo costruttivo, uno svolgimento»83. Ossia, esso non è altro che «infinita unificazione del molteplice, com’è infinita moltiplicazione dell’uno»84. Come a dire che né il molteplice né l’uno sono mai tali; ossia, uno e molteplice.

79. Ibidem. 80. Ibidem. 81. Ivi, p. 98. 82. Ivi, p. 99. 83. Ivi, p. 41. 84. Ivi, p. 42

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Come la mettiamo, dunque, con la successiva affermazione relativa ad una sorta di primato dell’identità? Gentile oscilla, l’abbiamo detto e lo ribadiamo. Oscilla irresolubilmente, forse perché non possiede un logos che gli consenta di dire quel che comunque “sente” – e più di qualche volta, peraltro – di dover dire. Eppure con il Cristianesimo Gentile si è confrontato come pochi altri. E l’ha fatto proprio. Facendo proprio più di qualche elemento di quella che potremmo definire una vera e propria “ontologia trinitaria”. Certo, il suo non è un logos esplicitamente trinitario. Eppure, solo lasciandosi alimentare da quello che costituisce uno dei più profondi misteri della fede cristiana, il nostro avrebbe potuto pensare un’identità, ossia un’unità capace di farsi “vera” proprio nel consegnarsi ab origine ad una molteplicità che avrebbe sempre potuto non ritrovare la propria condizione di possibilità. Ché l’umanità può sempre perdersi, pur rimanendo espressione originaria dell’infinitudine divina, in quanto da quell’unico Dio necessariamente fatta essere. Da cui la possibilità dell’abbandono del Figlio – proprio in quanto pienamente uomo –, da parte del Padre… nella fatidica ora nona. Da cui un rapporto intrinsecamente aporetico come quello istituentesi appunto tra Dio e l’essere umano, nel cuore di tutte le grandi teologie monoteiste. E dunque anche tra il Padre e il Figlio nel cuore della cosiddetta dinamica trinitaria. Che poi dice l’aporeticità originariamente implicata da quel rapporto imprescindibile che, anche secondo Gentile, tiene insieme filosofia e religione. Sì, perché non solo il filosofo di Castelvetrano è convinto che «la religione cristiana sia la religione dello spirito, per la quale Dio è spirito; ma è spirito in quanto l’uomo è spirito; e Dio

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e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno: sicché l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio: pensiero divino e divina volontà»85. Infatti, egli è anche convintissimo del fatto che «la religione cresce, si espande, si consolida e vive, dentro la filosofia, che elabora incessantemente il contenuto immediato della religione e lo immette nella vita della storia»86; sì, perché, sempre secondo il nostro, non solo l’uomo è veramente tale solo nella sua unità con Dio, ma altresì anche «Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutt’uno con l’uomo, che lo compie nella sua essenza: Dio incarnato, fatto uomo e crocefisso»87. Gentile sa bene, d’altro canto, che l’assunzione di una forma mentis radicalmente cristiana gli deriva dall’essersi reso egli perfettamente consapevole del fatto che «senza il momento dell’obiettivazione la vita dello spirito sarebbe infranta e repressa nell’atto stesso del suo slancio verso la realtà»88. E che il soggetto si differenza, «si aliena, e quindi si media, e pensa»89; ma non solo, ché «se l’oggetto apparisse immediatamente identico al soggetto, il soggetto non si differenzierebbe, ma si realizzerebbe, e non sarebbe soggetto»90. Gentile è davvero lucidissimo a questo proposito (di più non si potrebbe) – ogni soggetto, per lui, implica un oggetto «come altro da esso»91. Un’alterità, quest’ultima, che non può costi-

85. G. Gentile, La mia religione, in Id., La religione, Sansoni, Firenze 1965, p. 408. 86. Ivi, p. 424. 87. Ivi, p. 408. 88. G. Gentile, Il problema filosofico, in Id., La religione, cit., p. 348. 89. Ibidem. 90. Ibidem. 91. Ibidem.

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tuirsi come mera parvenza d’alterità; ché non è fittizia. Ma sempre “realissima” – coincidendo da ultimo con la stessa vita del soggetto… con la sua vita reale, per l’appunto. «Questa alterità dell’oggetto è pertanto la vita del soggetto, se questa vita si deve concepire dialetticamente, come svolgimento e non come un presupposto immediato, a modo della vecchia psicologia metafisica»92. Noi, infatti, «siamo noi solo in quanto ci dividiamo, dentro di noi stessi, tra noi che abbiamo coscienza e quel noi di cui abbiamo coscienza… che è diverso da noi»93. «Qualche cosa di assolutamente diverso»94 – precisa ancora il nostro, dando nuova vita alle intuizioni (cui abbiamo già fatto riferimento) della Riforma della dialettica hegeliana e della Teoria generale dello spirito come atto puro. Qualcosa senza di cui «lo spirito sarebbe vuota soggettività; sarebbe, esso stesso, un’astrattezza»95. Proprio questo astratto, dunque, è la vita – ribadisce Gentile –, o il contenuto della vita del soggetto. Un assolutamente altro che, da ultimo, più che con la natura o con l’essere astratto costituito dalla pura datità, viene a coincidere, da ultimo, con lo stesso Dio. Gentile lo dice a chiare lettere, e senza ambiguità di sorta; che «l’oggetto, come altro, è trascendente, divino. Divino, perché, essendo altro da noi, in quanto tale, è infinito; e ci chiude infatti nel circolo delle sue determinazioni. In quanto infinito, quest’ultimo, è conosciuto come inconoscibile»96. Una verità, la sua, «di cui l’animo umano non può fare a meno, e in cui 92. Ibidem. 93. Ivi, pp. 348-349. 94. Ivi, p. 349. 95. Ibidem. 96. Ivi, p. 350.

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ritrova se stesso perdendo se stesso»97. Senza la quale «noi non siamo niente; e in essa è tutto il nostro essere; in guisa che essa ci si pone innanzi come la vita, che ci attrae e in cui noi possiamo trovare la nostra vita; e ad essa perciò noi partecipiamo misticamente»98. Infatti, la nostra vita non consisterebbe, sempre per il nostro, se non «in questa posizione di sé a se stesso: e di sé come altro da sé, e come infinito, e trascendente, e inconoscibile, e fermo, immoto, eterno, termine fisso d’ogni umano consiglio»99. Insomma, dagli anni Venti agli anni Quaranta (al 1920 risalgono i Discorsi di religione, mentre solo nel 1943 Gentile scrive La mia religione), il teorico dell’attualismo sembra prendere decisamente le distanze dal proprio precedente e radicale immanentismo; venendo così a capo anche delle oscillazioni che abbiamo rilevato a proposito degli scritti precedenti al 1920). Ormai Gentile è lucidamente consapevole del fatto che «qualunque oggetto è, fissato che sia in sé, e guardato nella sua isolata particolarità astratta, infinito, Dio»100. A questo punto della sua riflessione, insomma, pur ribadendo che «questo infinito sarà sempre oggetto del pensiero, e dunque sarà sempre un infinito destinato ad essere superato dal pensiero»101, il filosofo di Castelvetrano sa anche che «la religione non chiuderà mai la sua storia»102, perché, per quanto ricompresa, tale infinità (e proprio in quanto infinità) non sarà mai definitivamente risolta nell’oggettivazione fattane dal sog97. Ibidem. 98. Ibidem. 99. Ivi, p. 351. 100. Ivi, p. 353. 101. Ibidem. 102. Ibidem.

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getto (che, comprendendola e riconducendola a sé, non potrà fare a meno di riconoscere che, quel che sarà stato da lui ricondotto a sé, non sarà ancora l’infinito che avrebbe voluto ricomprendere – perché ogni oggettivazione tornerà a presentarsi come una natura finita che mal si concilia con l’infinitudine che avremmo voluto ricomprendere e ricondurre a noi stessi. Perciò, non solo «noi saremo sempre alla presenza di Dio, e stretti ad esso dalla fede che non si potrà superare se non si sarà vissuta»103, ma soprattutto, di tale infinitudine oggettuale, Gentile sa che «quando sarà superata, sarà in quello stesso atti restaurata e viva in nuova forma»104. Ma in verità le oscillazioni degli scritti precedenti ritornano anche in questo caso; infatti Gentile non perde l’occasione, anche nello scritto sul “problema filosofico”, per ribadire che l’atto non è mai superabile né superato, ché esso non è oggetto, ma «quel soggetto che è autocoscienza, unità di sé e d’altro»105. Atto che supera sempre l’oggetto, dunque – qualsiasi oggetto –; che lo supera come concretezza della vita spirituale, in cui «lo spirito attinge se stesso, e in se stesso la realtà dialettica suprema»106. Perciò la filosofia «lavora sempre sulla religione; ma affinché possa proseguire il suo eterno lavoro, occorre che non le venga mai meno la materia»107 – che nasce appunto con la filosofia (e non sta mai prima di quest’ultima come suo presupposto), ed «è prodotta dallo stesso atto in cui essa consiste»108.

103. Ibidem. 104. Ibidem. 105. Ivi, p. 352. 106. Ibidem. 107. Ivi, p. 353. 108. Ibidem.

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Gentile sembra non poter fare a meno, insomma – come in una sorta di eterna sistole e diastole –, di ribadire l’ineludibilità di un inconoscibile da conoscere, quale figura dell’assoluta alterità del reale… di quel reale infinito che chiamiamo Dio ma che non ci impedisce di riconoscere come nello stesso tempo tale assoluta alterità sia in qualche modo anche prodotta dalla potenza infinita dello spirito. Di uno spirito che, però, in quanto soggetto, non potrà fare a meno di riconoscere, nell’oggetto, anche una reale (e dunque assoluta) alterità. Un assolutamente altro dalla propria infinita finitudine (quella che lo destina a trovarsi sempre di contro ad un ostacolo nell’oggetto posto di contro a lui) che consentirà a Gentile di affermare che «l’uomo non si può concepire senza concepire Dio»109. Fermo restando che questo uomo non è quello visto dal di fuori «come uno degl’infiniti oggetti del pensiero, definito e classificato nelle sue relazioni con tutti gli altri»110; bensì quello «che attua l’esperienza della sua umanità, realizzando nella vita spirituale quella coscienza di sé ond’egli si distingue dalle cose»111. E che «non nega la religione, ma soltanto l’interpretazione che la religione dà di se stessa, o meglio del proprio obbietto»112. Perché «la nostra vita, secondo l’attualismo idealistico – chiarisce definitivamente Gentile –, consiste appunto in questa posizione di sé a se stesso; e di sé come altro da sé, e come infinito, trascendente e inconoscibile, fermo, immoto, eterno, e termine fisso d’ogni umano consiglio»113.

109. G. Gentile, Che cosa è la religione?, in Id., La religione, cit., p. 397. 110. Ibidem. 111. Ibidem. 112. G. Gentile, Il problema filosofico, cit., p. 347. 113. Ivi, p. 351.

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Sapersi non sapendo Gentile e Socrate: di una sorprendente continuità

Socrate: «La verità è davanti a noi e noi non comprendiamo più».1

Se oggetto della filosofia di Gentile è la non oggettualità dello spirito “in quanto atto” – in quanto “atto” che mai può riconoscersi nelle forme oggettivate e morte che pur tuttavia gli vengono incontro, ogni volta che si sia esplicato, appunto, come pensiero in atto2 –, da dove potrà mai essere sorta la convinzione secondo cui il pensiero giudicante e determinante sarebbe impossibilitato a “conoscersi”? Certo, per Gentile, «lo spirito (che per lui è ‘pensiero in atto’) è una realtà che par si ribelli di continuo ad ogni definizione,

1. P. Valéry, Eupalinos o l’architetto, in Id., Tre dialoghi, tr. it. di V. Sereni, SE, Milano 2012, p. 51. 2. «Lo spirito si sottrae, nella sua attualità, a ogni legge prestabilita, e non può essere definito come essere stretto a una natura determinata, in cui si esaurisca e conchiuda il processo della sua vita, senza perdere il suo proprio carattere di realtà spirituale, e confondersi con tutte le altre cose, alle quali egli deve invece contrapporsi; e in quanto spirito, infatti, si contrappone… perciò tutto quello che si è inteso, è nulla rispetto a quel che si vuole intendere e non s’è ancora inteso» (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 23-24).

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arrestandosi e fissandosi come realtà realizzata, oggetto del pensiero»3. E dunque, sempre per il nostro, diventa un autentico problema definirne la verità. D’altro canto, «ogni verità, in quanto oggetto, posizione di un atto spirituale concreto, come concepirla, se non per mezzo di un concetto fisso e chiuso in sé, esaurito nel suo processo formativo, irriformabile e incapace di svolgimento?»4. Gentile sa bene che «il concetto dello spirito come processo è un concetto difficile»5. Non a caso, contro di esso operano continuamente le astrazioni fissate tanto dal pensiero comune quanto dalla scienza. Ma la questione rimane aperta: se l’unità dello spirito dice la sua infinità (ché nulla può limitarne il raggio d’azione), e dunque «lo spirito non può ritenere la propria realtà limitata da altre realtà»6, ossia non può mai uscire da sé («lo spirito non può staccare niente da sé nel suo proprio seno»7), e dunque se, per ciò stesso, le forme molteplici e oggettive vengono «tutte raccolte nell’unità della coscienza, nell’unità della sintesi»8 (sì che Gentile possa affermare che «la molteplicità delle cose non sta accanto all’unità dell’Io; quest’ultima, infatti, appartiene alle cose in quanto queste sono oggetto dell’Io»9), perché mai il pensiero pensante non potrebbe/saprebbe riconoscersi nelle forme oggettivate con cui ha sempre e comunque a che fare?

3. Ivi, p. 28. 4. Ibidem. 5. Ivi, p. 29. 6. Ivi, p. 31. 7. Ivi, p. 33. 8. Ivi, p. 35. 9. Ibidem.

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Certo, se lo spirito è processo e svolgimento, merita anche ricordare (è lo stesso Gentile, d’altro canto, a sottolinearlo) che «chi dice svolgimento dice non solo unità, ma anche molteplicità»10. Insomma, per il filosofo di Castelvetrano – in conformità ad un principio che si sarebbe rivelato di straordinaria rilevanza per tutto l’attualismo – «il pensiero è dialettico perché non è mai identico a se stesso»11. Cioè, non è mai identico a quel che il medesimo, peraltro, si ritrova ogni volta ad essere – potremmo, aggiungere… nelle forme oggettivate e sempre molteplici in cui, solamente, la sua identità può manifestarsi – non essendo mai quel che verrà ogni volta ad essere, ossia, quel che ognuna di tali forme riuscirà a dire, in positivo, del medesimo. Solo in questo contesto diventa perfettamente chiara, peraltro, la distinzione, operata sempre dal nostro filosofo, tra ‘pensiero pensato’ (forma oggettivata del pensiero) e ‘pensiero pensante’ (l’atto pensante che ogni pensiero pensato chiama in causa, per il semplice fatto di apparire appunto come “pensato”). E si spiega anche come mai il nostro possa ritenere che il principio di non contraddizione valga solo a livello del pensiero pensato («per quest’ultimo il principio di non contraddizione ha un senso»12, mentre al pensiero pensante in quanto atto dell’Io trascendentale, «il principio di non contraddizione non può applicarsi»13). Secondo l’attualismo gentiliano, cioè, un vero e proprio paradosso sarebbe custodito nel cuore di qualsivoglia filosofia, 10. Ivi, p. 39. 11. Ivi, p. 44. 12. Ivi, p. 45. 13. Ibidem.

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sempre che quest’ultima intenda porsi davvero all’altezza del proprio compito: un paradosso connesso al fatto che, compito del pensiero, sarebbe quello di mettere a tema il senso di questo suo stesso mettere a tema. Proprio questo è infatti il compito del pensiero, per il filosofo siciliano. Al pensiero spetta cioè riconoscere anzitutto che ciò di cui il pensare è testimonianza, nell’atto stesso del suo costituirsi come pensiero di qualcosa, dice che il ‘suo’ qualcosa (là dove qualcosa venga appunto pensato) altri non è che il pensare che ‘crede’ di “pensare qualcosa” – ma in verità pensa sempre e solamente “il pensarlo” (questo qualcosa). Questo comporta, ad esempio, il fatto che «l’oggetto sia una realtà spirituale… e dunque che il medesimo debba risolversi del soggetto»14. Fino al punto che anche «quello che noi consideriamo come attività di altri, debba essere la nostra stessa attività»15. Ma è proprio un tale riconoscimento a comportare che, proprio in quanto pensante, il pensare non possa mai pensarsi come tale; se è vero che, pensandosi – in qualsivoglia pensiero si palesi come semplice pensiero di questo o di quello –, il pensiero finirà per pensare ogni volta un “oggetto” relazionato ad un “soggetto”… ma ad un soggetto, appunto, che non sarà mai quello che si contrappone all’oggetto ed a quest’ultimo si relaziona, appunto, ab origine. Ad essere pensata sarà sempre e solamente un’oggettualità – o meglio, un soggetto risolto comunque in mera datità oggettuale – che potrà solo “rappresentare” il soggetto che il medesimo dice appunto di essere. Potremmo anche dire che il pensiero non riesce a pensarsi proprio in quanto ‘si pensa’; ossia, proprio in quanto destinato a pensare sempre e comunque se medesimo… in quanto, cioè, pensa sempre e solamente se stesso, ovunque pensi a qualco14. Ivi, p. 26. 15. Ibidem.

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sa; quel se stesso che “in ogni pensato” viene a concretizzarsi come tale, già per il fatto di pensarsi in ogni caso come “un qualcosa”… e cioè come “oggetto” del proprio pensare, appunto. Gentile sa bene che «affinché si possa conoscere l’essenza dell’attività trascendentale dello spirito, bisogna non considerare mai, esso stesso, come oggetto della nostra esperienza»16; sa bene, cioè, che «in quanto oggetto di coscienza, la coscienza non è più coscienza»17. Che, in quanto fatta oggetto di pensiero, essa non è già più soggetto, ma oggetto. Ma il nostro sa anche che la coscienza è “atto puro”, o atto in atto, che «non si può assolutamente trascendere, né in alcun modo oggettivare»18. Insomma, il nostro sa molto bene che «la vera attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce»19. Ossia, una sorta di “processo costruttivo” (così lo definisce Gentile, rifacendosi a Vico). Come per Vico, dunque, anche per lui “vero è quel che si fa”; ma allora, più che verum et factum convertuntur, bisognerà dire che verum et fieri convertuntur. Proprio per questo, mai, dello spirito, si potrà dire che “è” – rileva acutamente Gentile. Ad essere, sono infatti sempre e solamente determinatezze come la pietra, la pianta. Ma, così concepite, queste ultime appaiono appunto come processi di realtà «logicamente esauriti, quantunque non ancora del tutto attuati nel tempo»20; mentre lo spirito si trova solo nella ricerca del medesimo. 16. Ivi, p. 8. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 23.

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Per Gentile, addirittura, «essere e spirito sono termini contraddittori, e uno spirito, pel fatto stesso di essere, non sarebbe spirito»21. Insomma, «per trovare la realtà spirituale bisogna cercarla: e cercarla significa non averla dinanzi a sé, ma lavorare per trovarla»22; ma se, per trovarla, bisogna cercarla, e trovarla significa cercarla, «noi non l’avremo mai trovata, e l’avremo trovata sempre»23. Perciò, «quando si è cessato di cercare e si dice d’aver trovato, non si è trovato nulla, non si ha più niente!»24. Ma tutto questo comporta che, se da un lato il soggetto è destinato ad incontrare sempre e solamente oggetti, pensieri pensati – anche quando crederà di aver finalmente incontrato se medesimo –, dall’altro, e nello stesso tempo, quando incontrerà il molteplice oggettuale dell’esperienza, si accorgerà di aver incontrato ancora una volta se stesso. Perché, se è vero che «è sempre l’oggetto che si contrappone al soggetto»25, e che l’oggetto così contrapponentesi è sempre in qualche modo estraneo alla vita «ond’è animato il soggetto, giacché questo è attività, ricerca, movimento verso l’oggetto… mentre quest’ultimo è inerte e sta»26, è anche vero che la molteplicità oggettuale («l’infinita molteplicità dei punti costituenti la sfera dei suoi oggetti»27 – suoi, dello spirito concepito come sfera «il cui raggio è infinito»28) «per essere quella molte-

21. Ibidem. 22. Ivi, p. 27. 23. Ibidem. 24. Ibidem. 25. Ivi, p. 34. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ivi, p. 32.

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plicità che costituisce di fatto ogni oggetto della coscienza, necessita della risoluzione di quella stessa molteplicità; implica cioè l’unificazione di questa nel centro a cui tutti i raggi infiniti della sfera convergono»29. Insomma, Gentile non avrebbe potuto essere più chiaro: «gli oggetti dell’esperienza non possono avere tra sé anche il soggetto, perché sono tutti esso»30. Perciò, ogni volta che pensa un oggetto, il soggetto pensa sempre e innanzitutto se stesso. Ma pensandosi, ancora una volta, il soggetto si fa “oggetto” a se medesimo. Sì, proprio pensandosi (sempre e comunque, anche là dove potrebbe sembrare intento a pensare una datità naturale od oggettiva)… il pensiero “si oggettiva” (non per altro si ritrova sempre come “soggetto” contrapposto ad un “oggetto”, ossia, come pensiero che mai potrà sentirsi adeguatamente pensato in quel che di fatto si verrà ogni volta a pensare), sì da non riuscire mai davvero a pensarsi come “pensiero pensante in atto”. Sapendo di non essere mai risolvibile nei “pensati” che di volta in verrà ad istituire… perché costituentesi come puro ed autentico “pensiero pensante”, il pensiero non si saprà mai come tale; sapendosi, cioè, non saprà mai qualcosa di cui si possa dire che “è”. «Che sia si può dire infatti solo di quel che lo spirito oppone a sé come termine della propria attività trascendentale»31; di esso si potrà quindi dire solo che non è. E che, proprio per questo, sapendosi, non si saprà – sapendo sempre qualcosa che, in quanto spirito, non sarà mai quel che, del medesimo, si sarà comunque riusciti a sapere. Anzi, proprio perché consapevole di non esser mai riducibile ad ‘oggetto’… lo spirito o pensiero pensante non si saprà mai;

29. Ivi, p. 35. 30. Ibidem. 31. Ivi, p. 23.

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risolvendosi sempre nella posizione di un “pensato” (anche là dove, ad esser posto, sia appunto il “pensiero pensante”), in relazione al quale, il suo ritrovarsi e pensarsi non saranno mai un ritrovarsi come quel ‘pensiero-pensante’ che il medesimo pur sa di (non) essere32.

32. Interessantissimo, a questo proposito, il rilievo operato da Gentile nel suo Sistema di logica, là dove viene radicalmente criticata la posizione hegeliana, per il semplice fatto che in essa l’astratto sembra potersi definitivamente risolvere nel concreto o (che è lo stesso) viva come già da sempre risolto in esso. Un tale astratto, infatti, non è assolutamente astratto; astratto si rivelerebbe piuttosto il concreto medesimo, in quanto destinato a rendere radicalmente impossibile il costituirsi stesso dell’astratto – ché quest’ultimo, in quanto da sempre compreso nel concreto, in quanto costituentesi cioè come concetto concreto dell’astratto, non riesce neppure distinguersi da un supposto concetto astratto dell’astratto. Perciò l’unità deve vivere sempre e comunque in una molteplicità reale, a partire dalla quale, solamente, il concreto possa incontrarsi e riconoscersi come “non” di questa stessa molteplicità. Sperimentando così l’impossibilità di conoscersi ‘come tale’ (come pensiero in atto o pensiero pensante). Secondo Gentile, insomma, se la verità non è né dell’astratto soggetto, né dell’astratto oggetto, né della loro astratta opposizione – perché il conoscere è il superamento di tutte queste astrattezze –, è anche vero che tale conoscenza non potrà mai ragguagliarsi al conoscere (come invece parve ad Hegel)… sempre che «questo conoscere s’intenda come risoluzione definitiva (tutta positiva, e che abbia esaurito il proprio processo) di tutte le astrattezze. Perché ogni astrattezza consiste nell’immediatezza e nel sottrarsi alla dialettica del processo; sicché, se lo stesso processo esaurisce il suo compito, e ci dà il conoscere come una concretezza, la quale abbia avuto una buona volta ragione di tutti gli astratti; ecco che il concreto stesso diventa un astratto, e la concretezza, in cui consiste la vita in atto del pensiero, riesce un fallace miraggio, e una verità ancor più irraggiungibile che non sia, alla natura e all’uomo che ne partecipa, l’idea platonica. Insomma, affinché si attui la concretezza del pensiero, che è negazione dell’immediatezza di ogni posizione astratta, è necessario che l’astrattezza sia non solo negata ma anche affermata; a quel modo stesso che a mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile, occorre e che ci sia sempre del combustibile, e che questo non sia sottratto alle fiamme divoratrici, ma sia effettivamente combusto» (G. Gentile, S ­ istema di logica come teoria del conoscere, 2 voll., Laterza, Bari 1922, vol. I, pp. 129-130).

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Ma già qui emerge la necessità di interrogare la paradossale enigmaticità di una posizione come quella di Gentile; dalla quale siamo indotti a porre la seguente domanda: da dove il suo (del pensiero) “sapere” di costituirsi come “pensiero pensante”, se, per l’appunto… come pensiero pensante non potrà mai incontrarsi (potendosi incontrare, per dir così, solo come pensiero pensato)? Vale a dire: quale sapere ci autorizzerebbe ad affermare con forza (che è quanto fa Gentile) di non poterci mai sapere come pensieri pensanti? O meglio ancora: da dove la semplicissima nozione di qualcosa come un “pensiero-pensante”… quella che qualsivoglia forma di pensiero-pensato sembra destinata a tradire, in rapporto al suo senso? Anche perché, per poter dire che si tratta di un tradimento (a proposito di quello che offre al pensiero sempre e ­solamente l’oggettualità di un “pensato”), si dovrà pur sapere cosa sia ciò rispetto a cui il tradimento verrebbe a costituirsi appunto come tradimento. Insomma: da dove questo sapere (che, solo, ribadiamo, può consentirci di dire che mai nessun oggetto di pensiero potrà restituire al pensiero pensante il suo più autentico “esser pensante”), se il sapere è in quanto tale un oggettivare determinante? Da dove, cioè, la possibilità di riconoscere l’erroneità di quel che non riuscirebbe mai a farsi pensiero pensante? Se, a costituirsi come impossibile, sempre per Gentile, è proprio la conoscenza del pensiero pensante “in quanto pensante”. Da dove… se impossibile sembra essere appunto la verità, rispetto alla quale, solamente, sembra poter venire riconosciuta l’erroneità dell’errore? Gentile – come abbiamo già ricordato – è ben consapevole della difficoltà del problema qui chiamato in causa.

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Non a caso sa bene che le astrazioni del pensiero comune e quelle della scienza si affollano nel nostro intelletto e lo traggono di qua e di là, e non gli lasciano mantenere «senza un’aspra fatica l’esatta intuizione della vita spirituale»33. Ma il nostro filosofo sembra anche ritenere possibile una sorta di intuizione della vita spirituale. «Quella intuizione da cui pure si attinge, in tutti i momenti più vivaci di essa, norma e ispirazione verso la scienza e la virtù»34. Certo, il soggetto – scrive Gentile – è quello che, nell’autocoscienza, «oppone sé come oggetto a sé come soggetto… sì che l’oggetto suo, nella stessa autocoscienza, gli si opponga come negazione della coscienza, ossia come realtà inconsapevole»35; eppure sembra qui miracolosamente profilarsi la possibilità di una stranissima “intuizione”. Che non dice astratta oggettivazione. E che, proprio per questo, sembra consentirci di guardare ‘più a fondo’, «alla radice di cotesta realtà, dove l’oggetto è la vita del soggetto, la cui sintesi è perciò assolutamente reale»36. Gentile la chiama anche “intendimento” – quando dice, ad esempio, che «prima di giudicare bisogna intendere; e la verità è che quando s’intende e non ancora si giudica, non si giudica per riprovare, ma si giudica intanto, provvisoriamente, per consentire»37. Intuizione-intendimento, dunque; che non guarda alla realtà spirituale come ad un oggetto della ricerca. «Comunemente, infatti, si dice che ogni volta che dobbiamo intendere qualche 33. Ivi, p. 29. 34. Ibidem. 35. Ivi, p. 34. 36. Ivi, p. 191. 37. Ivi, p. 9.

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cosa che abbia valore spirituale e che si possa dire un fatto spirituale, abbiamo bisogno di guardare a un siffatto oggetto della nostra ricerca non come a qualche cosa di opposto a noi che cerchiamo di intenderlo, anzi come a tal cosa che s’immedesimi con la nostra attività spirituale»38. D’altronde, il punto di vista trascendentale, fatto proprio da Gentile, è quello che si coglie nella realtà del nostro pensiero «quando il pensiero si consideri non come atto compiuto, ma, per così dire, quasi atto in atto»39. Ecco perché questa realtà, sempre per Gentile, non si può cogliere; ossia, non la si afferra come un oggetto qualsiasi. Tale atto, infatti, «non si può mai e in nessun modo oggettivare»40. Questo, il “nuovo” punto di vista guadagnato dalla riflessione del nostro filosofo. Quello per cui «non è possibile mai che si concepisca l’Io come oggetto di se medesimo»41. Insomma, il pensare sembra a Gentile destinato a fallire; perché «nel definire come oggetto determinato di un nostro pensiero la nostra stessa attività pensante, dobbiamo sempre ricordare che la definizione è resa possibile dal rimanere la nostra attività pensante, non come oggetto, ma come soggetto della nostra stessa definizione»42. Ecco perché la vera attività pensante non sarà mai quella che definiamo – sempre secondo l’attualista siciliano. Ed ecco perché l’intuizione-intendimento a cui il nostro da ultimo si riferisce – come abbiamo appena rilevato – non è

38. Ibidem. 39. Ivi, p. 8. 40. Ibidem. 41. Ibidem. 42. Ibidem.

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un “concepire”. E neppure un “determinare”, un ridurre ad oggetto; che è quanto fa il pensare in quanto tale (che proprio per questo non sarà mai quel che, del medesimo, potremmo anche esser riusciti ad oggettivare). Perciò, quando ci riferiamo (come fa il nostro) a «noi che pensiamo quello che pensiamo»43, non ci riferiamo a quello che anche Gentile, parafrasando Kant, riconosce come semplice “io empirico”. E a cosa ci riferiamo, allora? A ciò che non sarà mai in quel che saremo comunque riusciti a pensare! Che non lo sarà mai, appunto perché, in quanto tale, ‘inaccessibile’. Come non chiedersi, però, a questo punto: da dove il riconoscimento della strutturale inaccessibilità (dal punto di vista conoscitivo) del pensiero pensante? Da dove, cioè, un assunto che a Gentile appare appunto essenziale e massimamente “evidente”… nonché paradigmatico? Può quella che, anche ai suoi occhi, sembra configurarsi come semplice (ma in vero del tutto indeterminata) intuizione-intendimento, determinare qualcosa per il pensiero? Ossia, tradursi in “conoscenza”? Se non altro in quella conoscenza in virtù della quale, ad esser saputo, sarà il semplice non poter venire oggettivato, da parte dell’atto puro o pensiero pensante (o “Io trascendentale”). Domande che rimangono senz’altro aperte, ma che non ci impediscono di riconoscere come le sue carte, Gentile, le giochi davvero bene – anche questo va detto, in verità. Il nostro, cioè, si mostra lucidissimamente consapevole almeno di una cosa: ossia, del fatto che, se a nulla sembra poter essere attributo lo statuto di “altro dal pensiero” (quale pre-

43. Ivi, p. 7.

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supposto che il pensiero, cioè, si troverebbe costretto a riconoscere come ‘dato’, e non come ‘posto da lui stesso’), allora ogni volta il medesimo pensiero, proprio pensando i pensati che di volta in volta si troverà a pensare (qualsiasi pensato, non ha alcuna importanza quale), penserà necessariamente “il proprio stesso pensare”; certo, almeno in quanto consapevole del fatto che questo o quell’oggetto (qualsiasi oggetto si trovi a pensare, da soggetto qual è) si costituiranno tutti come “risultati “del suo stesso porre o pensare (ragion per cui si ritroveranno inscritti nell’orizzonte trascendentale all’interno del quale tutto quel che è, è in quanto posto dall’Io – per dirla con Fichte); ossia, di quel porre e pensare che, riconoscendosi come ponenti quel che riconoscono appunto come posto da loro stessi, riconosceranno il loro stesso “porre” quale ragione essenziale dell’esserci di tutto quel che c’è; ma riconosceranno questo, riconoscendo (dovendo riconoscere!) nello stesso tempo che… quel porre che funge da condizione di possibilità di ogni posto, nell’atto stesso del suo venire riconosciuto e dunque oggettivato, non sarà mai (e non potrà mai essere) quella ragione o condizione di possibilità che in ogni caso esso sarà venuto ad essere. Lo riconosceranno, appunto, riconoscendo in-uno il suo non essere mai quel che, della medesima, saremo ogni volta riusciti a pensare. Certo, qui Gentile mostra di saperne uscire davvero bene. La questione che gli avevamo posto, domandandogli come si giunga a sapere che «il pensiero pensante è inaccessibile»… ossia, che non è mai quel si potrà esser riusciti a pensare, del medesimo (pensando di fatto sempre qualcosa, ossia una qualche oggettualità, la quale sarà appunto quel che il pensiero pensante, propriamente, non-è), è infatti costitutivamente ambigua. Essa, infatti, suppone almeno questo: che il pensiero pensante viva come realtà esterna (analoga alla realtà esterna al pensiero concepita dalla metafisica antica) quanto si sarà in

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qualche modo riusciti a pensare. Come ulteriorità concepibile come tale solo in virtù di un realismo ingenuo che di sicuro non può esser attribuito a Gentile. Il fatto è che non si tratta di qualcosa d’altro! Ecco il punto (che poi, se fosse qualcosa di semplicemente “altro”, non sarebbe neppure al di là dell’orizzonte del pensabile e del pensato, ma si risolverebbe in qualcosa di semplicemente diverso da quel che ci si fosse ritrovati a pensare, e dunque, come tale, tutt’altro che eccedente l’orizzonte intrascendibile dove tutto esiste sempre come “un pensato”). Cioè, non è inafferrabile perché, ad essere afferrato, è sempre qualcosa di diverso da esso. Nulla viene infatti sostituito al medesimo – quasi si trattasse di due determinatezze sostanzialmente analoghe. No, esso non viene afferrato proprio nel lasciarsi comunque afferrare da parte di quel che verrà in ogni caso afferrato. Ossia, esso (non) viene afferrato nel semplice non venire afferrato da parte di quel che verrà comunque afferrato. Che appunto non sarà mai quel che si sarebbe voluto afferrare (ossia, il pensiero pensante). Ma non lo sarà mai proprio nel suo venire sempre e comunque afferrato… afferrato nella forma appunto del suo non venire mai afferrato. Perché, se riconosciuto quale espressione della vita e della processualità in cui consiste il pensiero in atto, esso non sarà mai stato afferrato; ché, in esso, a venire afferrato sarà sempre e solamente la vita del pensiero che lo pone, ossia il processo di un pensare che potrà riconoscersi, dunque, solo nel negarsi da parte di quel che, sempre dal medesimo, verrà comunque posto. Forse, dunque, l’intuizione-intendimento cui ci si riferiva prima ha proprio a che fare con la capacità di porsi in relazione all’oggettualità di volta in questione, ponendosi in relazione

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anzitutto con il suo non esser quel che la medesima sembrerà ogni volta essere. Ecco perché quello con cui il pensiero “si conosce” (conoscendo-si, di fatto, ogni volta che conosce qualcosa) è un conoscere del tutto particolare (che in certi casi Gentile definisce appunto intuizione-intendimento) – che non ci consente di dire “cosa sia” quel che per esso viene propriamente conosciuto: ma piuttosto cosa esso “non-sia”. Ad una condizione, però: che non si intenda questo non-sapere cosa sia (coincidente con il sapere piuttosto cosa non-sia quel che verrà in ogni caso saputo), come astratta esclusione di qualcosa a favore di qualcos’altro… cioè, come sottrazione di qualcosa che verrebbe escluso “in quanto oggetto di conoscenza”. Al cui posto dovremmo quindi indicare cosa occuperebbe il posto lasciato vuoto dalla semplice consapevolezza del fatto che “non si tratta” di quello che pur si sta indicando e ­ponendo. Perché, se per un verso qui il “non-conoscere” “non è” e “non può” esser altro dal “conoscere” (stante che, come stiamo vedendo, a venire realmente conosciuto non è mai quel che si potrà esser comunque riusciti a conoscere), per un altro verso tutto questo lo si può dire solo in quanto si conosce e si sa. Ché, ad esser saputo, in questo caso, sarà almeno questo: che il saputo medesimo non è mai quel che il medesimo sarà comunque riuscito a dire, di sé – almeno, dal punto di vista della sua definizione in positivo. Il fatto è che lo si sa come il “non” del saputo; e per ciò stesso come il “non-saputo”. Solo questo, infatti – “che non è saputo” –, si sa, di esso… là dove si sappia il suo non essere il saputo che si sarà comunque riusciti a determinare.

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E lo si saprà nella forma di una ‘intuizione’ – concetto che a questo punto starebbe ad indicare il semplice non esser quel che di esso si sarà comunque riusciti a sapere, da parte del conosciuto. Ovvero, il suo costituirsi come non-conosciuto. Per questo esso non verrà mai propriamente “conosciuto”; ma, più, semplicemente “intuito” o “inteso”. Questo lo si saprà, appunto, per il tramite di una semplice “intuizione”; in virtù della quale, ad esser saputo non potrà che essere il non esser mai, da parte del conosciuto, quel che, sapendolo, saremo comunque riusciti a dire, del medesimo… in positivo, cioè secondo questa o quella determinazione sue proprie. Sapere “cosa” il saputo non sia non significa dunque trovarsi costretti a dire cosa, invece, esso sarebbe, al posto di quel che, del medesimo, saremo comunque riusciti a sapere; cosa sarebbe, cioè, più propriamente, quel saputo (qualcosa di diverso, dunque, da quel che del medesimo saremo riusciti a sapere). Altrimenti ci troveremmo costretti ad indicare un’altra determinatezza… della quale si dovrebbe in ogni caso ripetere il non essere, neppure essa, quel che, della medesima, si sarà in qualche modo riusciti a sapere. Nel senso determinato che spetta al sapere in quanto definitorio e oggettivante. Appunto perché, di ogni significato, il pensare dice quel che, nel pensato (qualunque esso sia), non sarà stato in alcun modo pensato. Dicendo però non tanto quel che sfuggirebbe al pensare medesimo (per aver confuso qualcosa con qualcos’altro). Non quel che si nasconderebbe al pensare, e che il pensare “non riuscirebbe a determinare”, determinando al suo posto sempre qualcos’altro; ma sempre e solamente quel che questo o quel pensato “non sarebbero mai stati”. O meglio il loro non essere mai stati quel che saranno comunque venuti ad essere.

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Gentile, in buona sostanza, ci sta dicendo e mostrando che il “pensare” non è mai riducibile ad “oggetto”, a “determinatezza”, a “cosa”, proprio in quanto non è altro che il non esser cosa che, in quella cosa, sempre mi si mostrerà, là dove mi si mostri almeno il suo esser un ‘pensato’. Fermo restando che, se c’è un pensato, deve sempre esservi anche il pensare; ossia, l’azione che viene riflessa, sia pur in forma rovesciata, dall’oggetto in quanto patito… in quanto manifesto, cioè, nel suo semplice esser-pensato – nel suo apparire, cioè, in relazione ad un pensare che non sarà mai qualcos’altro, in ogni caso, dal pensato, ma che nel pensato apparirà sempre nella forma del suo (di quell’oggetto) semplice non esser “un pensato”. Da cui la necessità di tematizzare un “non essere” non semplicemente riducibile alla forma dell’alterità; che non si lasci cioè catturare dalla riduzione operata da Platone nel Sofista – là dove veniva sancito che il “non essere” può venire predicato solo quale indicazione generica di una qualche alterità, che dovrebbe poter essere in ogni caso determinata. Ed è proprio in questa prospettiva che ci si profila – in ciò l’obiettivo centrale di questo lavoro – la possibilità di reinterpretare la famosa massima socratica, di cui Gentile sarebbe stato, da questo punto di vista, il vero e unico rigorizzatore… in grado di esplicitarla, e di restituire, alla medesima, il suo più autentico significato. Mostrandocene l’eversiva portata teoretica – che ha davvero ben poco a che fare con la modestia scettica di un filosofo convinto di non possedere la verità, ma di essere un semplice “ricercatore”. Sempre instancabilmente a caccia di una verità che solo Platone sarebbe stato in grado di formalizzare e condurre a sistema. Consapevole di amarla, quella verità (in quanto filo-sofo), ma di amarla in quanto sempre in cammino verso il suo riconosci-

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mento, e mai presuntuosamente persuaso di averla in pugno, ossia, di averla trovata44. Un’immagine, questa, che è stata indiscutibilmente dominante nel corso della storia della filosofia; ad esempio in relazione al contrasto tra Socrate, e la sua umile attitudine di semplice “ricercatore”, da un lato, e la presunzione di Platone, dall’altro; il discepolo che quella verità, invece, si sarebbe convinto di poter definire, tanto da costruire addirittura un sistema dialettico volto a disegnarne quantomeno i tratti essenziali. Solo Gentile, insomma, ci consentirebbe di intendere davvero Socrate e il suo ‘sapere di non sapere’. Quale filosofo impegnato a ricercare (per parafrasare un passo di Gentile citato poco sopra) una verità che non troverà mai, avendola in verità già da sempre trovata. Il fatto è che la massima socratica non va letta concependo il “sapere” e il “non sapere” come due contrari. Dove l’uno (il sapere) sarebbe altro dall’altro (il non-sapere). In tale massima non si opera infatti la semplice identificazione di due diversi. Perciò Socrate non teme le solite confutazioni, volte a rilevare come perlomeno questo egli sappia: appunto, di “non-sapere”. Di norma, infatti, si tende a rilevare come Socrate si trovi di fatto a smentire il supposto “non-sapere” di cui vorrebbe farsi testimone. Se Socrate sa questo – si dice, anzi, si è detto fin troppo spesso –, sa troppo; e dunque non è affatto vero che non sappia.

44. In ciò, precisa ancora una volta Jaeger, la vera differenza tra Socrate e Platone: «La mancanza di una via d’uscita, che per Socrate era stata condizione permanente, per Platone vale come incitamento e pungolo a liberarsene, a sciogliere questa “aporia”» (W. Jaeger, Paideia, vol. II, tr. it. di A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 151).

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Se sapesse, ma soprattutto se il sapere venisse concepito come altro dal non-sapere, allora certo: il non sapere, in quanto fatto oggetto di un sapere, ci autorizzerebbe a rilevare il suo stesso non esser affatto un non-sapere. Ci autorizzerebbe, cioè, a rilevare l’ingannevolezza e l’autocontraddittorietà della massima socratica – destinata a subire le stesse sorti del mentitore e del paradosso al medesimo connesso45. Se sapere e non sapere fossero davvero altri l’uno dall’altro, il sapere scalzerebbe via il non sapere, e lo escluderebbe in virtù del suo semplice esser saputo. Ma, proprio seguendo Gentile, possiamo in verità mettere radicalmente in questione tutta questa tradizione ermeneutica. Ed affermare che, forse, Socrate aveva perfettamente capito proprio questo, in verità: che, ad esser saputo è sempre e comunque qualcosa che “non sarà mai” quel che di esso si sarà comunque riusciti a sapere. E che dunque il “saputo” non sarà mai saputo. O meglio, che esso sarà saputo sempre e solamente come il “non-saputo”.

45. Si tratta di un notissimo paradosso attribuito ad Epimenide di Creta (VI secolo a.C.) – ma citato anche in una lettera paolina –, il quale avrebbe affermato, da cretese, che tuti i cretesi sono bugiardi. Affermazione che, se fosse vera, risulterebbe immediatamente falsa (ché almeno Epimenide non sarebbe bugiardo), e se fosse falsa, e dunque non fosse vero che i cretesi sono tutti bugiardi, finirebbe per negare il proprio contenuto, ed Epimenide, proprio ritrovandosi a dire il falso, metterebbe in luce la verità del proprio enunciato. Insomma, se è vera è falsa, e se è falsa è vera. Un simile paradosso lo avremo poi ritrovato anche nella versione che, sempre del medesimo paradosso, Diogene Laerzio attribuisce invece a Eubulide di Mileto (IV secolo a.C.); qui il paradosso si sarebbe presentato con il volto della seguente affermazione: “io sto mentendo”. Ancora una volta, se la proposizione fosse vera, sarebbe falsa (cioè il soggetto della frase non starebbe affatto mentendo, e dunque si tratterebbe di una proposizione falsa), mentre, se fosse falsa, il contenuto della proposizione risulterebbe vero… e il soggetto della frase non starebbe affatto mentendo.

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Perciò Platone avrebbe radicalmente tradito Socrate, nel volerci mostrare che no… che qualcosa in verità si può sapere; e soprattutto che la posizione scettica o dubitante sarebbe propria solo del neofita, di chi si stesse avviando alla ricerca… ma che la medesima può venire senz’altro superata da un risultato (della ricerca medesima) in grado di farci finalmente sapere quel che all’inizio, appunto, non si sarebbe ancora saputo (sapendo, di esso, all’inizio, solo che non lo si sapeva). Ma potremmo altresì mostrare (intorno a ciò, comunque, non diremo nulla, in questa occasione) come neppure in Cartesio il “dubbio” svolga una funzione semplicemente propedeutica, che lo renderebbe necessario solo quale “punto di partenza” non contaminato da pregiudizi o da astratti presupposti; che rimarrebbero inevitabilmente ingiustificati. Il fatto è che neppure il ritrovamento di Dio avrebbe consentito a Cartesio di superare un dubbio iniziale che sarebbe stato, dunque, solo apparentemente propedeutico… ché quello di Dio si sarebbe costituito piuttosto come ri-trovamento di una verità sorprendentemente valevole quale vera e propria ipostatizzazione dello stesso “dubbio” di partenza. D’altro canto, che questa sia la direzione in cui vada interpretata la posizione di Socrate risulta evidente anche in virtù del fatto che, a fargli prendere coscienza dell’altissimo valore del suo “non-sapere” sarebbe stata addirittura una divinità. È infatti il dio a dirgli che, proprio in quanto “consapevole di non sapere”, egli, Socrate, si sarebbe rivelato il più sapiente di tutti. In questo senso L’Apologia di Socrate è chiarissima: «Udita la risposta dell’oracolo46, riflettei in questo modo – afferma So46. Cherofonte, amico di Socrate fin dalla giovinezza, si era recato a Delfi per interpellare la Pizia, l’oracolo di Delfi (sacerdotessa di Apollo Pitico a Delfi), e chiederle se vi fosse qualcuno più sapiente di Socrate. La sacerdo-

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crate nel dialogo appena citato –: “Che cosa mai vuol dire il dio? Che cosa nasconde sotto l’enigma? Io, infatti, certo ho coscienza di essere sapiente né molto né poco; cosa dunque dice il dio affermando che io sono il più sapiente? Certamente egli non mente; non gli è consentito, infatti”. E per lungo tempo rimasi in questa incertezza, vagavo con la mente, ignorando cosa mai volesse dire il dio» (Apologia di Socrate, 21 b). Socrate, dunque, non capisce bene; o sembra non capire bene. Neppure lui, cioè, sembra capire subito cosa possa fare, del suo “non-sapere”, la forma più alta di sapienza. Secondo quando attestato dal dio, per bocca di Pizia. In ogni caso, a dirlo (che si tratta della forma più alta di sapienza) è un dio. È evidente, dunque: quel “non” che anche a Socrate, inizialmente, sembra indice di mera penìa, ossia, di mancanza o povertà, non può significare quello che Platone ci avrebbe costretto ad intendere, per lo meno a partire dal Sofista. Sì, perché, se il “non” indicasse semplice privazione, ossia qualcosa d’altro rispetto alla pienezza, non servirebbe certo l’intervento di una parola divina per farcene intendere il significato. E soprattutto non sarebbe in alcun modo possibile definire tale indigenza come somma sapienza (che è quando fa il dio attraverso le parole della Pizia). Al nostro intelletto, infatti, il “non” appare come semplice esclusione, semplice indicazione di qualcosa d’altro; sì che ciò che non è ‘sedia’, non possa che essere ‘tavolo’, o ‘finestra’ oppure qualcos’altro. La “non-sedia”, insomma, indica per noi sempre qualcosa di diverso rispetto a una determinata esistenza; indica sempre

tessa rispose che «più sapiente di Socrate non c’era nessuno» (Apologia di Socrate, 21 a).

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qualcosa di diverso dalla sedia di cui il “non” dice appunto la semplice negazione; escludente. Questo finirebbe per intendere un intelletto i cui ragionamenti fossero inevitabilmente fondati sul principio della distinzione (o “principio di non contraddizione”). Ma qui, a parlare è appunto un dio. Che invita Socrate a porsi da un altro (altro?) punto di vista. Provocando un profondo sconcerto nel maestro di Platone. Indicandogli per ciò stesso una prospettiva che neppure Socrate riesce bene a decifrare; e che, proprio per questo, provoca in lui autentica “meraviglia” – un misto, cioè, di terrore e sorpresa, un vero e proprio entusiasmo angosciato. D’altronde, proprio di questa indicazione Socrate avrebbe fatto il vessillo del proprio pensiero; capendo in verità alla perfezione che proprio in tale enigma (anche perché un dio non avrebbe potuto parlargli se non in modo enigmatico) doveva riposare, “non visto”, il segreto della conoscenza. Di quella conoscenza che egli tanto amava (da cui il suo definirsi filo-sofo), e che pur tuttavia lo avrebbe reso capace di far emergere solo aporie, senza consentirgli mai di offrire conoscenze o soluzioni ‘positive’ ai propri interlocutori47. Dunque, il dio manifesta a Socrate un senso inaudito del “sapere”, che, proprio in quanto divino, non avrebbe potuto che “negare” quello che per gli umani significa propriamente sapere. 47. Lo dice bene, ancora una volta, Werner Jaeger, in Paideia, là dove si premura di precisare che, stando ai primi dialoghi platonici (cosiddetti ‘socratici’), a dover essere riconosciuto è il fatto che, agli occhi Socrate, nessuna delle risposte dei suoi interlocutori appare soddisfacente. Perché nessuna si adegua al proprio oggetto. Insomma, «in tutti questi dialoghi minori, manca la soluzione aspettata, e la domanda si ripropone intatta alla fine, mettendo il lettore in uno stato di tensione filosofica, che ha la più alta efficacia educativa» (W. Jaeger, Paideia, cit., p. 149).

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Sì da negare finanche che “sapere” significhi acquisizione di un numero sempre maggiore di conoscenze positive. E farci prendere coscienza del fatto che, proprio quel che sappiamo, in verità, “non lo sappiamo” affatto. Suggerendoci, peraltro, e proprio in questo modo, che la verità (il senso divino delle cose) di quel che sappiamo è custodita da un “non” che, in quanto espressione del divino in quanto tale, non può certo fungere da semplice diminutio. D’altro canto, Socrate era quello stesso che, sempre in accordo con l’oracolo di Delfi, ci aveva spiegato che “conoscere” significa anzitutto conoscere se stessi. Ogni volta che conosciamo qualcosa, insomma, di fatto e in verità conosciamo sempre e solamente noi stessi. Ma il noi stessi che si tratta ogni volta di conoscere (anche là dove ci si ritenga impegnati a conoscere questo o quello, ossia, là dove ci si trovi impegnati a conoscere un qualche oggetto) – come sapeva bene già Eraclito48, e in conformità a quanto sarebbe stato ribadito finanche da Gentile49 – non è alcunché di ‘de-terminato’. Se è vero che la nostra anima è come una terra senza confini… o, anche, una sorta di cerchio a raggio infinito. Perciò, quando conosciamo qualcosa, conoscendo in verità sempre e solamente noi stessi, conosciamo qualcosa che non sarà mai la determinatezza che saremo in ogni caso riusciti a conoscere. Insomma, Gentile capisce alla perfezione il messaggio di Socrate; chiarendo, di sicuro in forma più rigorosa e stringente,

48. «Per quanto tu cammini, ed anche percorrendo ogni strada, mai potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profonda è la sua vera essenza» (Eraclito, Frammenti 55 [45]). 49. «La coscienza non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito» (G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, cit., p. 32).

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che “conoscersi” (quel conoscer-si in cui ogni conoscere può di fatto essere risolto) significa anzitutto capire di non aver affatto conosciuto quel che ‘oggettivamente’ saremo comunque riusciti a conoscere. Il “soggetto”, infatti, non sarà mai quel che, di sé, sarà in ogni caso riuscito a conoscere… nella forma oggettivata propria di qualsivoglia conoscenza astrattamente positiva. Ma attenzione: non perché manchi, ancora una volta, di qualcosa (ossia, di un determinato numero di conoscenze che, sole, avrebbero potuto rendere finalmente “compiuta” una conoscenza solo di fatto, cioè provvisoriamente, “parziale”… ma che quel soggetto avrebbe sempre potuto proporsi di completare).

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Nel cuore dell’essere Gentile e le parole di un’impossibile differenza

Nulla, per noi ‘pianeti’, è più immutabile del movimento – e proprio del movimento-delpensiero.1

Nel primo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere, Gentile si confronta con il principio primo aristotelico, che lui sorprendentemente definisce «legge fondamentale della logica dell’astratto». Anzitutto, dunque, si tratta di capire perché il filosofo dell’atto si premuri di collocare tale principio nell’orizzonte dell’astratto. E soprattutto cosa intenda per “astratto”. Per il filosofo di Castelvetrano, a fondare la logica dell’astratto sarebbe stato Parmenide, con il suo essere immobile e privo di vita. Una logica che si sarebbe poi sviluppata con Socrate, facendosi rapporto tra soggetto definito e predicato – da cui la possibilità di lasciarsi alle spalle l’astratta identità dell’essere naturale di Parmenide e Democrito. Ma, ancora una volta, la forma logica si sarebbe risolta in un’ennesima realtà immediata; caratterizzante appunto il pen-

1. M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 1990, p. 158.

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siero come natura; concepito come puro “presupposto” dello spirito, al modo dell’idea platonica. La necessità della mediazione, invece, sarebbe stata portata alla luce solo da Aristotele con la sua teoria del sillogismo – anche quest’ultimo, peraltro, risolto dallo Stagirita in una nuova natura, concepita appunto come semplice oggetto del pensiero. Come tale, originariamente risolto in quel rapporto dell’essere con se medesimo che, in ogni caso, può realizzarsi solo nel pensiero. Insomma, il nucleo del pensiero logico si sarebbe rivelato l’unità del nome e del verbo, dove A sembra indicare un essere che è tale solo in quanto vien pensato attraverso il verbo (=A). Insomma, «il primo svegliarsi della coscienza nel pensiero è fissare o determinare quell’essere che ne diviene perciò oggetto, in quanto si pone nella propria identità con se medesimo, come A=A»2. Pensare infatti non è solo pensare qualcosa, ma pensare l’esistente come identico a se medesimo: conformemente al principio di identità, per l’appunto. Un essere identico che si sarebbe ritrovato comunque al di là del puro essere naturale (quello di Parmenide e Democrito); in quanto vero e proprio essere-pensato. Il pensiero, dunque – potremmo anche dire, con Gentile –, non tanto come atto del pensare, quanto come semplice “contenuto” del pensare. Ossia, come quell’essere che il pensiero, pensando, afferma. Sì che l’identità dell’essere coincida con l’identità dell’affermazione (in cui il pensiero pone l’essere che pensa).

2. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, 2 voll., Le L ­ ettere, Firenze 2003, vol. I, p. 178.

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In questo modo, rileva poi Gentile, noi opponiamo a noi, attività affermante, lo stesso oggetto dell’affermazione – che non indicherà mai, dunque, il semplice “A”, bensì l’affermazione secondo cui “A=A”. Insomma, noi opponiamo a noi stessi l’oggetto dell’affermazione; di un’affermazione in cui il pensiero (di cui essa esprime l’essenza) non è certo l’atto del pensare, ma il semplice oggetto in cui questo stesso atto si pone. Insomma, «non affermazione affermante, ma affermazione affermata»3. Certo, già qui è in opera, secondo Gentile, il pensiero (tale oggettività, infatti, per quanto astragga dal pensiero, può astrarre soltanto dal momento soggettivo del pensiero) – se è vero che «senza l’atto del pensiero l’essere (A) sarebbe rimasto puro essere immediato: la natura, che è impensabile»4. Ma il pensiero vi è in opera, appunto, come semplice pensiero pensato. Il fatto è che anche a livello del logo astratto, il pensiero agisce – agisce rendendo impossibile concepire quel che ivi si pensa come semplice “A”. “A”, infatti, non è questo “A=A”. Perché «l’essere naturale, o puramente immediato, non è l’essere pensato o mediato»5. Certo, esso agisce, ma pur sempre nella forma di un’astratta oggettualità, ossia, come semplice principio d’identità. Quel che ci interessa rilevare, comunque, è che, anche là dove venga messo tra parentesi il pensiero in quanto atto pensante (ciò che accade a livello della logica dell’astratto), abbiamo pur sempre a che fare con una sintesi, ossia, con una mediazione nel cui orizzonte l’essere naturale non poteva che ritrovarsi originariamente “negato”. Sì che «l’affermazione

3. Ivi, p. 179. 4. Ibidem 5. Ivi, p. 180.

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oggettiva dell’essere, come essere pensato, fosse non solo affermazione dell’essere pensato, ma insieme negazione dell’essere naturale»6. Ciò significa, continua Gentile, che il nome (A) viene affermato dal verbo (=A) solo in quanto sub eodem negato dal medesimo. «Affermato come pensiero, negato come essere. Omnis affirmatio est negatio»7. In ciò il valore logico dell’affermazione; che, dunque, si costituisce ab origine come negazione della negazione di questa identità; «negazione di quell’identità che è appunto l’essere nella sua naturale immediatezza»8. Dove, una negazione sarà comunque attiva (la prima), mentre l’altra sarà sostanzialmente passiva e irreale (la seconda, quella costituita dalla naturale immediatezza dell’essere). In modo tale che, affermando sé, l’essere si affermi come opposto all’essere immediato (quello riferito, da Gentile, alla negazione passiva ed irreale). Ma, sempre dell’essere naturale ed immediato, Gentile dice anche questo: che, se esso fosse, il concetto non sarebbe; ma, “essendo” il concetto, solo esso non è. Sì che esso “finisca per negare” per riflessione della sola reale negazione, «che è appunto quella del concetto, nella funzione del verbo»9. Ecco perché la legge fondamentale del pensiero, per come si struttura nella logica dell’astratto, ha, oltre alla forma del principio d’identità, anche quella del “principio di non contraddizione”. Una forma che potremmo schematizzare nel modo seguente: “A non è Non-A”. 6. Ibidem. 7. Ibidem. 8. Ibidem. 9. Ivi, p. 181.

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Dove, a venire negato è un essere che non si flette su se stesso e non s’identifica con sé. Perché il pensiero non può ritrovarsi nell’essere naturale; esso infatti «non conosce mai altro che se stesso»10. Già a livello del logo astratto, dunque, abbiamo a che fare con un processo che è insieme affermazione e negazione. Fermo restando che, a venire negata, è qui la semplice realtà immediata del soggetto. Rimane comunque un conto in sospeso: ci eravamo chiesti, all’inizio, cosa si dovesse intendere per “astratto”. Ecco, è solo a questo punto che Gentile può darci una risposta: affermando che «la logica dell’astratto è quella che prescinde bensì dalla coscienza della soggettività dell’oggetto; ma l’oggetto resta per lei quel che è, idea in quanto idea della realtà»11. La quale sarà essere, e non pensiero; o anche, «il soggetto come oggetto a se medesimo, ancora inconsapevole della propria soggettività: il soggetto che si vede dall’esterno come concetto che è insieme risoluzione di un essere immediato»12. Vale a dire: «identità realizzata attraverso la negazione della contraddizione»13. Costituendosi come contraddizione, appunto, quello stesso essere naturale, che, nel giudizio di identità, viene più semplicemente negato. Perciò la legge fondamentale del logo astratto è l’unità del principio di identità e di quello di non contraddizione. Che sono sì due principi, ma dicono l’articolazione di un medesimo nomos; pur senza confondersi l’uno con l’altro. E senza che si possa rinunciare a nessuno dei due.

10. Ivi, p. 183. 11. Ivi, p. 184. 12. Ibidem. 13. Ibidem.

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Insomma, ogni pensiero, affermando se stesso, nega il proprio opposto. Ma – rileva subito dopo Gentile – c’è opposizione e opposizione. Ad esempio, c’è l’opposizione dell’identico, ma c’è anche «l’opposizione dell’opposto»14: per quanto, quella che realizza il concetto senza impedirlo, sia solo una: quella interna all’essere del concetto. Il fatto è che quello negato da ogni affermazione non è l’opposto in quanto identico, ma l’assolutamente opposto. Quello interno al principio… ché solo esso è assolutamente opposto all’incondizionato. Ma cerchiamo di capire in che senso. Se si deve individuare l’opposto, il realmente e dunque assolutamente opposto all’essere che è, ossia all’identità, non possiamo limitarci a chiamare in causa il primo A – che sta certo anch’esso in rapporto di opposizione (anch’esso) con il secondo A (nella formula A=A). Quest’ultimo opposto, infatti, non fa alcuna resistenza al realizzarsi del concetto, anzi lo rende possibile. Stante che è proprio il distinguersi di un primo A da un secondo A, a rendere possibile il costituirsi di un concetto come quello risolvibile appunto nell’identità di A. Il realmente opposto è invece quello che non viene mai istituito come identico (secondo quanto accade al primo A in rapporto al secondo A), ma sempre e solamente come assolutamente opposto ad A; opposto, a dire il vero, anche ad A=A. A venire chiamata in causa essendo in questo caso l’opposizione del nome astratto o dell’essere naturale, rimasto fuori dall’identità, ovvero l’opposizione che c’è «tra A concepi14. Ibidem.

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to come esterno alla sintesi A=A, e A come elemento della sintesi»15. Questo, e solo questo, dunque – ossia, l’opposto negato da ogni affermazione –, è l’assolutamente opposto (che non è mai tale in quanto identico). Il cui non essere, solamente, dice e comporta l’essere dell’opposto. Da tutto ciò, il principio del terzo escluso, secondo Gentile; a questo punto, infatti, si dovrà anche riconoscere che o A è A (nel caso in cui A sia quello dell’opposizione dell’identico) oppure A è Non-A (dove A starebbe invece per quella naturalità immediata che non sarà, e dunque non sarà A, perché, ad essere, è appunto l’A che, opponendosi, dice “identità”). A è A, insomma, solo se escludiamo o neghiamo quell’A che, in quanto non costituentesi come A (la naturalità del puramente immediato), dice di non essere A (ossia, di essere Non-A). O l’uno o l’altro. Se A è davvero A, va escluso che si tratti di quell’A che è Non-A. Se invece A è Non-A, allora a non essere sarà l’identità di A con se stesso. Ma a questo punto Gentile rileva anche qualcos’altro; qualcosa di particolarmente interessante, peraltro. Rileva come questa opposizione assoluta, che nega il costituirsi e dunque l’esserci di un A immediato, non si costituisca come relazione del principio con qualcosa di esterno o semplicemente “altro” da esso. Come sarebbe il secondo A rispetto al primo, nella formula dell’identità. Che A sia Non-A viene escluso, cioè, dal principio di non contraddizione (A non è Non-A) in quanto falso (stante la verità del principio), anche in conformità al principio del terzo escluso, senza che ci si debba sporgere (per dir così) fuori dal principio. Di opposto al non-essere di un concetto, infatti,

15. Ivi, p. 185.

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s­econdo Gentile, non v’è altro che quello stesso concetto di cui esso (il suo non essere) è appunto negazione. Insomma, il falso «non ha luogo se non come la negatività immanente del vero»16. Falso essendo A in quanto astrattamente pensato, nome senza verbo. Il falso non nega il principio ab alio. O ab extra. Come a dire che «il non A è dentro ad A; e l’A come identico a Non-A è dentro ad A come identico ad A»17. Dicendo Non-A come concetto di A, infatti, si dice prima il vero, ossia A come concetto di A. «Il falso è dunque un momento della sua (del pensiero) verità, al quale esso può spingersi, ma per tornare alla verità»18. Il movimento si svolge dunque tutto in A, in rapporto ad una negazione di cui esso medesimo è originaria negazione, senza peraltro dire nulla di “diverso” da A. Dicendo A, solo, dicendolo come negato. Insomma, la negazione di A, costituita da una naturalità irreale e impossibile – che non si costituisce, se non nella negazione fattane ab origine da A –, non si contrappone al principio di identità; ma tace silente nel suo cuore. Come originariamente messa a tacere dal principio medesimo. Quello che, dicendo l’esserci di A come identico a sé, dice il non costituirsi, ossia l’irrealtà, di A=Non A. Se reale è A (A, in quanto identico a sé), sarà necessariamente irreale che “A sia Non-A”. Il principio del terzo escluso, dunque, dice l’unità tra l’affermazione e la negazione, che nei primi due principi (quello di identità e quello di non contraddizione) sono ‘diverse’. Ogni 16. Ivi, p. 186. 17. Ivi, p. 187. 18. Ibidem.

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concetto, infatti, si afferma ed è in quanto il suo negativo non è; si afferma, cioè, come «negazione del suo negativo, con una circolarità che fa del concetto un sistema chiuso»19. La contraddizione (secondo cui “A=Non-A”) vive come tolta nel principio di identità. La cui negazione si contrappone, dunque, all’incondizionatezza del principio medesimo; che è intrascendibile e insuperabile. Se è vero che, al di fuori di esso, nulla si costituisce come un qualcosa; tanto meno la sua negazione. Che, in ogni caso, non rimane semplicemente esclusa in quanto autotoglientesi, al modo della negazione del principio di non contraddizione di aristotelica memoria. La critica alla formulazione del principio nella sua versione aristotelica è netta ed esplicita, da parte di Gentile. Contra Aristotele egli precisa che «la contraddizione non è estrinseca all’essere in quanto identico seco stesso, cioè pensato: c’è dentro, e vi è negata»20. D’altronde, «la verità oggettiva non deve apprendere nulla dai suoi negativi: nella sua stessa struttura deve esservi così il proprio essere come l’espulsione del suo non-essere»21. Non si tratta cioè di rivendicare l’incompatibilità della verità con la sua negazione, ma di mostrare la verità di questa incompatibilità, «che non avrebbe valore se non fosse costitutiva dell’intima natura della stessa verità»22. Non si deve dunque credere che la negazione non abbia valore per il suo opporsi all’affermazione, precisa ancora Gentile; cioè, «per il suo opporsi all’affermazione in cui è la verità»23. 19. Ibidem. 20. Ivi, p. 182. 21. Ibidem. 22. Ibidem. 23. Ibidem.

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Se così fosse, infatti – continua il nostro –, essa, esterna ed eterogenea alla verità, «non avrebbe in quest’ultima la sua misura»24. Perciò si dovrà riconoscere che «la negazione negata è nella stessa affermazione, in quanto essa è bensì essere, ma essere pensato o pensiero»25. Perciò il nome “essere” è affermato come pensiero dal verbo e negato come essere, sempre dal medesimo pensiero. Insomma, la contraddizione è dentro all’essere, secondo il filosofo di Castelvetrano. E pur lo sostiene, in quanto, solo per il suo lasciarsi negare, l’essere è. Infatti, solo per il non essere dell’essere immediato, che in quanto tale “non è”, l’essere è. E dunque è come mediazione. Sì che l’immediatezza sia tolta da quel che essa medesima nega; ossia, dalla mediazione. Ma proprio questo suo lasciarsi negare dice l’intrascendibilità e l’incondizionatezza di un essere che è sempre identico a sé proprio nel distinguersi da sé, e nel dirsi identico a quello da cui si sarà comunque anche distinto. Perciò l’essere immediato è quel che già da sempre “non è”; ché non può mai essere apparso al cospetto del principio come altra voce in scena. Come voce di un altro che, in quanto altro, non può esserci mai stato – neppure per Aristotele. Il quale, dunque, avrebbe finito per mettere in scena il fantasma amletico dell’essere che è (la sua ombra, il suo non essere), dandogli voce. Fingendo una mossa decisiva sferrata dal principio di identità e non contraddizione. Che, in realtà – e Gentile ce lo mostra benissimo –, non può aver sferrato alcun colpo m ­ ortale;

24. Ibidem. 25. Ivi, p. 183.

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e dunque neppure può aver messo in moto alcun elenchos. Perché l’avversario non c’è mai stato. Per Gentile, infatti, l’avversario, ossia, la contraddizione, ha la propria misura nella potenza incondizionata del principio; ce l’ha in esso, proprio perché è dal medesimo costituita come impossibile. Come un impossibile che, proprio in quanto tale, disegna l’intrascendibilità del principio. Scandendo però anche la sua impossibilità – e proprio nel suo stesso (del principio) costituirsi come affermazione che lo nega. Insomma, il negare il non-essere da parte dell’essere non implica alcuna sporgenza dell’essere contro qualcosa di esterno, di nemico… ma implica piuttosto il suo volgersi alla “propria” negazione esibendone l’impossibilità. Da cui il suo (di tale “negazione”) rimanere tutta interna al principio, sia pur come negata. Messa fuori gioco, cioè. Come giocatore impossibile di cui il gioco stesso non è altro che originaria negazione. Questa, la riflessione su se stessa, da parte di una negazione come quella propria dell’affermazione, conclude Gentile. Ragion per cui «Non-A significa, né può significare altro che il non pensato, in quanto il pensiero astrae da se stesso, e fissa quindi l’astratto essere»26. Dove, anche la sua virtù ripulsiva – connessa al suo respingere da sé il pensiero – gli vien conferita in verità dallo stesso pensiero. Non si tratta d’altro, cioè, che della forza dell’astrazione. Che è tutta nel suo stesso respingere da sé il pensiero – quel pensiero in relazione a cui “A è A”. La forza dell’astrazione, in virtù della quale A viene ad essere Non-A.

26. Ivi, p. 188.

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A, dunque, sarebbe senz’altro Non-A, ma lo sarebbe solo se «fosse possibile pensare l’essere non pensato»27. Ma poiché questo è impossibile, «tale impossibilità si esprime pure in questa forma, che se potesse non pensarsi A=A, bisognerebbe pensare che A è Non-A»28. Insomma, o essere o pensiero; ma la logica nasce appunto quando l’essere si costituisce come essere del pensiero. «E il Non-A c’è, sì, ma come posto da A che lo nega. Perciò Non-A non può esser vero se non nel senso di un’ipotesi irreale, incompatibile con l’essere del pensiero»29. Non a caso, sempre secondo Gentile, tra l’essere e il non-essere di un concetto non v’è il termine medio (principio del terzo escluso). Ma, per l’appunto il Non-A c’è; e proprio perché A lo nega e lo destituisce in se stesso. E proprio per questo “A=A” – affermazione di un pensiero in atto che, affermando, si fissa e pietrifica – lo concepisce e lo riconosce come ostacolo… come “quiete” di cui, solamente, il suo movimento dialettico potrà dirsi negazione. Insomma, il concreto vede l’astratto, come il soggetto vede l’oggetto, come il principio vede la sua negazione. Per negarla, infatti, deve vederla, così come il movimento del pensiero pensante deve vedere l’assoluta e per ciò stesso impossibile alterità del pensiero pensato, che, per lasciarsi riconoscere come impossibile, deve comunque darsi a vedere. In qualche modo. Ma cosa vede, appunto, l’identità non contraddittoria nel vedere la contraddizione e negandola? Che è come dire: cosa

27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Ivi, p. 189.

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vede l’essere, quando vede il nulla come il suo (dell’essere) stesso non essere? Cosa vede, quando vede quello di cui avrebbe potuto essere negazione già nel riconoscere la vanità del suo volersi costituire come pura immediatezza naturale? Ripetiamo: di cosa è “negazione” l’essere che è, se quello di cui l’essere è negazione, per l’appunto, non è? Stante che l’essere che è essere (A=A) dice il non essere di qualcosa che è per definizione inconoscibile e impensabile. E poi: cosa pensa il pensiero quando pensa l’impensabilità di qualcosa di cui ritiene comunque di poter indicare finanche la semplice impossibilità? Insomma, cosa dice quel negativo (l’essere immediato che non-è) di cui ci sembra di poter affermare l’impossibilità? Cosa dice, stante che la sua impossibilità si identifica con il suo semplice esser negato? Esso appare, certo; ma appare davvero qualcosa come il “nonessere”? E poi… cosa appare quando ciò che chiamiamo nonessere appare (fermo restando il suo dover apparire, anche solo per lasciarsi negare)? Cosa appare, cioè, di quel che ha da esser già da sempre negato? Cosa appare come soggetto di tale esser negato? Cosa appare quando diciamo “essere”? O “A”? Ma anche quando diciamo che “A è A”, e distinguiamo i due A per poter dire l’identità (che è sempre identità di diversi)? Cos’è insomma quell’A di cui rileviamo l’essere in relazione con il secondo A, ovvero l’esser identico al suo stesso essersi fatto altro da sé? Cosa è ciò di cui, dicendo il suo esser identico al proprio altro, vediamo solo l’esser identico al proprio altro? Forse, identico al proprio altro è l’esser identico al proprio altro – da parte di un diverso che, in quanto tale, dice nient’al-

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tro che la propria impossibilità. Perché sempre e solamente “identico”. Per quanto assolutamente opposto a tale suo esser identico. Per quanto, insomma, a risultare originariamente identico al proprio altro, sia paradossalmente l’assolutamente opposto; quel che dice, cioè, la propria identità solo facendo essere una reale differenza… come quella implicata dal fatto che l’affermazione oggettiva dell’essere come essere pensato è, per Gentile, «non solo affermazione dell’essere pensato, ma insieme negazione dell’essere naturale»30. Di un essere naturale cui è rivolta ab origine l’attività negatrice del pensare oggettivato. Ché, certo, l’essere naturale, come nome astratto che, sempre secondo Gentile, non nega niente «per il fatto che esso non ha nessun diritto ad esistere, è assurdo»31. Non ha nessuna forza attiva; non è niente, in verità. Ma un niente su cui si riversa tutta l’incondizionata potenza del pensare; strana cosa! D’altronde, è lo stesso Gentile a dirci che «è il pensiero che consiste nella negazione di quest’assurdo, e si pone così come concetto, e non più come essere naturale… e affermando sé, si afferma come l’opposto di quell’essere immediato»32. Questo è il pensiero: negazione di un assurdo che non nega nulla, che non indica alcuna forza attiva, perché è niente. L’opposizione assoluta, l’unica opposizione assoluta esperita dal pensare è dunque quella che lo fa essere come negazione dell’assurdo o dell’essere immediato – che non è. Opposizione indipendentemente dalla quale neppure il pensiero, davvero,

30. Ivi, p. 180. 31. Ivi, p. 181. 32. Ibidem.

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sarebbe; stante il suo essere in primis proprio questa “negazione”. Opposizione assoluta che, in quanto tale, non avrebbe potuto costituirsi se non come “impossibile”; per quanto decisiva al fine di consentire al pensiero stesso di essere la negazione attiva che esso già da sempre è; che esso è, anche se non nei confronti di qualcosa di esterno – che, in quanto tale, ­sarebbe solo “relativamente” altro (determinatamente “altro”). Ma solo nei confronti di ciò che pulsa come suo cuore, come suo motore immobile, sostenendo addirittura (nella propria assoluta passività o immobilità) il movimento incondizionato e libero del pensiero in atto. Consentendo la sua stessa incondizionatezza (del pensiero) proprio per il suo non costituirsi come un qualcosa. D’altronde, è proprio quello che non è un qualcosa, e proprio per il suo non esser alcunché, a consentire l’incondizionatezza del pensiero medesimo. Che, proprio perciò, è nello stesso tempo condizionato da quel nulla che è l’essere immediato (come avrebbe detto Hegel nell’incipit della Scienza della logica). Che, solo, fonda la sua (del pensiero) incondizionatezza. Nel cuore dell’essere-che-è vive dunque, smuovendo tutto, il nulla in cui si risolve l’essere che non è, ossia, l’assurdo. E che non nega («stante che la sola reale negazione è quella del concetto, nella funzione del verbo»33); esso infatti non nega, secondo Gentile, ma «è negato come un negativo, cioè nega solo per riflessione della sola reale negazione»34. Un nulla che tutto muove a sé senza muoversi, dunque: questo il cuore del logo astratto, che fonda il movimento dell’essere e «c’è dentro, e vi è negato»35. 33. Ibidem. 34. Ibidem. 35. Ivi, p. 182.

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E, proprio per questo, rende l’oggettualità costituita dal pensiero pensato come tale (di cui esso è appunto il cuore) un assolutamente diverso dal pensiero pensante; rendendo la differenza che così viene a crearsi (per il logo concreto) tra pensiero pensante e pensiero pensato una differenza senz’altro assoluta. Infatti, «la differenza è tale che non potrebbe essere maggiore; è la differenza tra non essere ed essere»36. Ecco da dove la condizione di possibilità del fatto che proprio quel che la legge del logo astratto respingeva (l’identità di A e non-A) divenga, nella logica del concreto, «legge immanente del logo concreto»37. In quel nulla che tutto muoveva, infatti, l’astratto negava ciò che lo negava; ossia, il concreto – di cui, la naturalità dell’essere immediato non è altro che il semplice riflesso… risolto appunto nella forma dell’oggettualità. Quel riflesso che, solo, garantisce l’abissale differenza (assoluta, incondizionata) tra Pensiero pensante e Pensiero pensato. Perciò Gentile può dire che l’essere naturale – oscuro e “inattingibile” – è quello stesso «che ogni uomo vede nel fondo del proprio animo, e che si dice senso o temperamento, o natura»38. Natura è dunque il fondo stesso del pensare; quel che muove il pensare e lo attira a sé come radice del suo stesso movimento – come legge di un movimento che, negando il logo astratto dell’oggettualità, nega da ultimo la sua stessa (del pensiero pensante) originaria naturalità. Questo è il niente. «Sicché l’essere naturale conosciuto come tale è quello che si può conoscere senza pensare: il niente»39. 36. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, cit., vol. II, p. 62. 37. Ibidem. 38. Ivi, p. 63. 39. Ivi, p. 63.

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Ciò che, dal fondo dell’oggettualità che ‘sta’, e, stando, contraddice l’inarrestabile movimento del pensare, mostra al pensiero pensante ciò che lui stesso è. Ossia, nulla. Quello stesso che dal pensiero viene percepito appunto come il massimamente distante, come l’assolutamente altro – talmente altro da non potersi determinare come questa o quella alterità. Da doversi determinare, cioè, come quell’assoluta immediatezza o indeterminatezza che il determinato comunque presente già da sempre nega e camuffa, mascherandola appunto da “alterità”. Da alterità sottoponibile alla misura del principio di identità e non contraddizione; che la trasforma, ab origine, in qualcosa di esso medesimo identico a sé e diverso dal proprio altro (in ciò la ragione del suo negarsi, per Aristotele – dovuto cioè al suo conformarsi alla misura del principio, e dunque al suo non riuscire per ciò stesso a negarlo davvero). Ma tale niente, nel logo astratto, dice appunto distanza abissale e incolmabile dal concreto. Quella distanza che consente a Gentile di affermare che «l’astratto come tale non è dialettizzabile… ché il logo astratto può essere mantenuto nella sua astrattezza»40. Ad ogni modo, è il sistema gentiliano stesso a richiedere una identità «mediante la differenza»41. «Sicché l’autocoscienza, al cui processo va ricondotto il logo astratto, per attingere la concretezza, storicità e positività della libertà non richiede soltanto l’identità dell’oggetto col soggetto del pensare, ma anche la differenza»42. La dura e rigida «opposizione del pensare col pensato, del logo concreto col logo astratto»43. 40. Ivi, p. 151. 41. Ivi, p. 40. 42. Ibidem. 43. Ibidem.

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Quella dura differenza che ha nel nulla, cioè nell’assurdo che il logo astratto nega “in se stesso” e da cui è comunque tutto mosso, la propria figura esemplare; in grado di rendere ragione della differenza non meno assoluta tra pensiero pensante e pensiero pensato – resa essa pure possibile dal fatto che finanche nel fondo del pensiero pensante, come abbiamo appena visto, si agita quel medesimo niente. Paradossale, tutto ciò? Sì, assolutamente paradossale; a darsi essendo sempre una differenza assoluta in cui, a palesarsi, è il fondo comune del pensiero pensato e del pensiero pensante – d’altronde, solo l’identità dei due avrebbe potuto garantire l’assolutezza del loro stesso differire. Ché due distinti od opposti assoluti, nulla possono avere di determinatamente comune; solo così, infatti, cioè in quanto radicalmente opposti l’uno all’altro, essi possono farsi espressioni di un comune perfettamente incondizionato; che nulla è. Ossia, che non è. E che li affida alla loro impossibile differenza. Solo così essi possono dire quel comune: disegnando un’opposizione tanto assoluta da farsi ab origine “impossibile”. Ché impossibile è innanzitutto il rapporto “condizionato-incondizionato”, che poi equivale a quello “finito-infinito”… stante che il secondo termine di queste coppie non indica “un altro”. Ma l’identità immoltiplicabile che Gentile avrebbe definito “pensiero pensante”, o pensiero in atto. L’unico capace di autentica autoctisi. Ecco perché quel secondo termine destituisce lo stesso rapporto in quanto tale, negando finanche che si tratti propriamente di “un rapporto” (come quelli che tengono insieme le determinatezze; di quelle mai assolutamente diverse… almeno, in apparenza).

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Per concludere, una domanda Si può davvero parlare di originaria astrattezza dell’atto, riconoscendo il suo esser paradossalmente deducibile proprio dall’intrascendibile concretezza del medesimo?

Come non c’è un oggetto dell’esperienza, così non c’è n suo soggetto, divino o umano che sia. Non soltanto, infatti, il suo pensiero è irriducibile a una semplice forma di soggettivismo, ma è lontano da ogni inclinazione classicamente umanistica. L’uomo non subentra a Dio nel ruolo di soggetto della storia, ma entrambi si risolvono in un processo che dissolve ogni sostanza, compresa la sostanza-uomo. C’è qualcosa – in questa presa di distanza dall’antropocentrismo – che richiama l’universo senza centro di Bruno. Anche in Gentile manca un centro destinato a unificare, sotto il proprio controllo, la varietà illimitata del mondo.1

Secondo Rocco Ronchi, anche Gentile, analogamente a tutti i filosofi di quella che lui chiama “la linea minore”, avrebbe sollevato «la stessa questione del Parmenide platonico: perché la filosofia possa cominciare, insomma, bisogna pensare il processo e questo non è affatto facile»2. Ma Gentile avrebbe 1. Roberto Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010, p. 171 2. R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017, p. 439.

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nello stesso tempo esitato «di fronte alle conseguenze teoretiche della sua veggenza speculativa»3. Certo il filosofo di Castelvetrano sapeva bene – ci ricorda Ronchi – che «chi dice svolgimento dice non solo unità, ma anche molteplicità; e dice rapporto immanente tra unità e molteplicità»4 – e, solo per questo, sarebbe riuscito a concepire l’Uno come atto in atto del divenire, come puro accadere, come unità immediata, e non sintetica, in virtù della quale, peraltro, «il processo è costruttivo dell’oggetto in quanto è processo costruttivo dello stesso soggetto»5. Ma… come non notare, in queste parole, un’eco della grande lettura che di Gentile c’era già stata lasciata in eredità da Scaravelli? Al quale appariva già perfettamente chiaro come comprendere Gentile significasse anzitutto prendere coscienza del fatto che «il principio dinamico del divenire non ha accanto a sé quello d’identità, come il pensiero non ha accanto a sé l’essere di cui è pensiero: ma come l’essere è la realtà stessa del processo autocreativo del pensare in atto, così la concretezza interna che il divenire sviluppa nel suo svolgimento è appunto quel principio di identità nel quale si pone perennemente… nel principio di identità, per formarsi e costituirsi nella sua immobilità è già inchiuso il movimento, e non c’è bisogno di cercarlo fuori di esso, poi, per prender coscienza di questo processo onde A è stato posto dall’=A, onde cioè il nome è stato determinato dal verbo»6.

3. Ivi, p. 448. 4. Ivi, p. 440 (qui Ronchi cita G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, Le Lettere, Firenze 2002, p. 39). 5. Ivi, p. 450. 6. L. Scaravelli, La logica gentiliana dell’astratto, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1999, p. 102.

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Ma allora… aveva ragione il filosofo fiorentino quando si proponeva di mostrare (secondo quanto acutamente rilevato da Mario Visentin) «che il tentativo perennemente rinnovato dal pensiero di afferrare e comprendere la realtà si risolve in una continua, speculare e analitica riproposizione dell’identità monadistica del concetto»7?

7. M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano. I. Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Bibliopolis, Napoli 2005, p. 84.

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Indice

Immediatezza e negazione. Giovanni Gentile: di un aporetico pensare

p. 17

Di un semplice “sentimento”. Alla radice di ogni ­distinzione. Gentile e la “Filosofia dell’arte”

p. 43

Uno e molteplice. Giovanni Gentile e l’alterità reale

p. 105

Sapersi non sapendo. Gentile e Socrate: di una sorprendente continuità

p. 139

Nel cuore dell’essere. Gentile e le parole di un’impossibile differenza

p. 163

Per concludere, una domanda. Si può davvero parlare di originaria astrattezza dell’atto, riconoscendo il suo esser ­paradossalmente deducibile proprio dall’intrascendibile concretezza del medesimo?

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Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 7 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716391

Dalla prefazione di Marcello Veneziani Sessant’anni fa fu ucciso il maggiore filosofo italiano del Novecento, Giovanni Gentile. A differenza del suo fraterno nemico, Benedetto Croce, Gentile fu dannato nella memoria accademica e civile perché fu fascista e da fascista fu ministro della Pubblica istruzione, ispiratore della dottrina fascista, impresario di cultura. (…) Fu ucciso perché non volle cambiare idea né tirarsi indietro di fronte alle responsabilità, al punto da accettare dopo anni di emarginazione dal regime, di assumere la guida dell’Accademia d’Italia al tempo della Repubblica sociale, in piena guerra civile. (…) Infine rivolse, pochi mesi prima di morire, dal Campidoglio, un discorso a tutti gli italiani con un appello accorato alla concordia e al superamento delle fazioni che suscitò l’ammirazione di molti italiani ma anche le ire di fascisti e antifascisti intransigenti. Gentile pensò il fascismo come il braccio secolare dell’Italia; il fascismo passa, l’Italia resta.

Massimo Donà, oltre che musicista jazz, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano. Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Sull’Assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano, Einaudi, 1992; Sulla negazione, Bompiani 2004, Il tempo della verità, Mimesis 2010; Filosofia dell’errore. Le forme dell’inciampo, Bompiani 2012, Teomorfica. Sistema di estetica, Bompiani 2015; In Principio. Philosophia sive Theologia. Meditazioni teologiche e trinitarie, Mimesis 2017.

€ 11,00