Alle origini della teologia di Pelagio. Tematiche e fonti delle expositiones XIII epistularum Pauli 9788862273701, 9788862273718


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Table of contents :
SOMMARIO
Introduzione
Capitolo 1. Il contesto storico-dottrinale : cronologia e caratteristiche delle principali fonti delle Expositiones
1. Origene
2. Ambrosiaster
3. L’Anonimo di Budapest
4. Agostino
Capitolo 2. Lex naturae : valore e significato del concetto di ‘natura’ nelle Expositiones
1. Le radici stoiche del concetto di lex naturae
2. Il concetto di lex naturae negli autori cristiani
3. Il rapporto lex naturae-lex litterae in Ambrosiaster e Pelagio
4. Il concetto di lex naturae in Origene : analogie e differenze con Pelagio
5. Lex naturae, lex litterae, lex fidei : una concezione tripartita della storia dell’umanità
Capitolo 3. Il peccato di Adamo : natura e conseguenze della colpa dei progenitori
1. Il peccato di Adamo presso i Padri Greci
2. Il peccato di Adamo nei Padri Latini
3. Rm 5, 12-20 : le interpretazioni di Origene-Rufino e Pelagio a confronto
3. 1. Rm 5, 12
3. 2. Rm 5, 13-14
3. 3. Rm 5, 16-20
3. 4. Rm 5, 15
4. Ambrosiaster e Pelagio sul problema del peccato originale
4. 1. Rm 5, 12
4. 2. Rm 5, 14-15
4. 3. Rm 5, 16-20
5. Pelagio e l’Anonimo di Budapest : due diverse concezioni a confronto
6. Pelagio, Agostino e la questione del peccato originale : analisi di un complesso rapporto letterario
Capitolo 4. Il libero arbitrio : valore e ruolo della volontà nellavita dell’uomo
1. Pelagio e il testo di Paolo : difficoltà esegetiche e difesa del libero arbitrio
1. 1. Rm 1, 24 e 11, 8
1. 2. Rm 7, 14-21
1. 3. Rm 9, 16-24
2. Prescienza divina e libero arbitrio
2. 1. Rm 8, 28-30
2. 2. Rm 9, 10-15
3. Il De induratione cordis Pharaonis
Capitolo 5. Gratia : il problema della giustificazione e della salvezza
1. La presenza del concetto di gratia nelle Expositiones
2. I significati di gratia nelle Expositiones : perdono dei peccati, riconciliazione con Dio, adiutorium
3. Un’apparente contraddizione : dono gratuito della grazia o riconoscimento dei meriti ?
4. Pelagio e i suoi predecessori : analogie e differenze nella concezione della grazia
Capitolo 6. Impeccantia : progresso morale e conquista della perfezione nel pensiero di Pelagio
1. Gerolamo, Agostino e Pelagio : un’analisi delle fonti sul problema dell’impeccantia
2. La presenza del concetto di impeccantia nelle Expositiones
Conclusioni
Bibliografia
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Alle origini della teologia di Pelagio. Tematiche e fonti delle expositiones XIII epistularum Pauli
 9788862273701, 9788862273718

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ST U D I S ULLA TA R D OAN T IC HITÀ Collana diretta da Claudio Moreschini

* 6.

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AL L E OR I G I N I DE L L A T EO LO G I A DI P EL AG I O TEM AT I C H E E F O N T I D E L L E EXPOSITI O NE S XI I I E PI S T U L A RU M PAU L I S AR A M ATTEO LI

P I S A · RO MA FA B RI Z I O SERRA E D I TO R E MMXI

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy * issn 1974-0999 isbn 978-88-6227-370-1 (brossura) isbn 978-88-6227-371-8 (elettronico)

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SOMMARIO 9

Introduzione Capitolo 1. Il contesto storico-dottrinale : cronologia e caratteristiche delle principali fonti delle Expositiones

15

1. Origene 2. Ambrosiaster 3. L’Anonimo di Budapest 4. Agostino

16 19 24 26



Capitolo 2. Lex naturae : valore e significato del concetto di ‘natura’ nelle Expositiones

29

1. Le radici stoiche del concetto di lex naturae 2. Il concetto di lex naturae negli autori cristiani 3. Il rapporto lex naturae-lex litterae in Ambrosiaster e Pelagio 4. Il concetto di lex naturae in Origene : analogie e differenze con Pelagio 5. Lex naturae, lex litterae, lex fidei : una concezione tripartita della storia dell’umanità

29 37 39 45 48

Capitolo 3. Il peccato di Adamo : natura e conseguenze della colpa dei progenitori

55









1. Il peccato di Adamo presso i Padri Greci 2. Il peccato di Adamo nei Padri Latini 3. Rm 5, 12-20 : le interpretazioni di Origene-Rufino e Pelagio a confronto 3. 1. Rm 5, 12 3. 2. Rm 5, 13-14 3. 3. Rm 5, 16-20 3. 4. Rm 5, 15 4. Ambrosiaster e Pelagio sul problema del peccato originale 4. 1. Rm 5, 12 4. 2. Rm 5, 14-15 4. 3. Rm 5, 16-20 5. Pelagio e l’Anonimo di Budapest : due diverse concezioni a confronto 6. Pelagio, Agostino e la questione del peccato originale : analisi di un complesso rappor to letterario

105

Capitolo 4. Il libero arbitrio : valore e ruolo della volontà nella vita dell ’ uomo

117

1. Pelagio e il testo di Paolo : difficoltà esegetiche e difesa del libero arbitrio 1. 1. Rm 1, 24 e 11, 8 1. 2. Rm 7, 14-21 1. 3. Rm 9, 16-24 2. Prescienza divina e libero arbitrio

118 118 121 125 135





57 60 65 66 74 76 80 83 85 93 97 103







8

sommario

2. 1. Rm 8, 28-30 2. 2. Rm 9, 10-15 3. Il De induratione cordis Pharaonis

135 142 145

Capitolo 5. Gratia : il problema della giustificazione e della salvezza

157



1. La presenza del concetto di gratia nelle Expositiones 2. I significati di gratia nelle Expositiones : perdono dei peccati, riconciliazione con Dio, adiutorium 3. Un’apparente contraddizione : dono gratuito della grazia o riconoscimento dei meriti ? 4. Pelagio e i suoi predecessori : analogie e differenze nella concezione della grazia

162 166 170

Capitolo 6. Impeccantia : progresso morale e conquista della perfezione nel pensiero di Pelagio

175

1. Gerolamo, Agostino e Pelagio : un’analisi delle fonti sul problema dell’impeccantia 2. La presenza del concetto di impeccantia nelle Expositiones

175 183

Conclusioni

189

Bibliografia

193

158













INTRODUZIONE

L

e Expositiones XIII epistularum Pauli rappresentano una delle opere di maggiore interesse della produzione di Pelagio, non solo per la loro notevole estensione, ma anche perché, essendo databili fra il 406 e il 409, 1 precedono di alcuni anni la polemica con Agostino. Infatti, l’autorevolezza di cui il vescovo di Ippona ha sempre goduto e l’interesse suscitato dalla sua produzione hanno spinto gli studiosi ad analizzare il pensiero di Pelagio soprattutto tramite gli scritti di questo grande padre della Chiesa, senza tenere nella dovuta considerazione il fatto che Pelagio aveva composto alcune delle sue opere e aveva iniziato ad elaborare ed approfondire il suo pensiero già prima del 411, quando, giunto a Cartagine, si scontrò con Agostino dando inizio ad una polemica destinata a protrarsi a lungo. Dunque, le Expositiones furono composte durante gli ultimi anni trascorsi da Pelagio a Roma, prima che il sacco di Alarico del 410 lo costringesse ad abbandonare la città : 2 esse si configurano, di conseguenza, come uno strumento indispensabile per ricostruire la sua teologia prima della controversia con il vescovo di Ippona, e offrono allo stesso tempo la possibilità di indagare se gli elementi che saranno successivamente caratteristici del suo insegnamento si trovino già in nuce nella sua prima produzione. Come ha osservato De Bruyn, 3 è probabile che il Commento alle Epistole di Paolo sia stato un prodotto dell’attività di Pelagio come maestro dell’aristocrazia cristiana di Roma : alla fine del iv secolo era piuttosto frequente che gli esponenti dell’aristocrazia si affidassero a delle guide spirituali in grado di offrire loro un aiuto nella comprensione di questioni teologiche e un sostegno nella disciplina spirituale ; 4 si pensi, ad esempio, al legame di Gerolamo con Marcella e Paola, o all’amicizia di Rufino di Aquileia con Melania l’Anziana e la sua famiglia. L’opera di Pelagio non si configurava certo come una novità : nel momento in cui egli si accingeva a scrivere il suo commento alle Epistole di Paolo, altre opere del genere erano già state composte. È stato osservato come nella seconda metà del iv secolo si assista nella Chiesa latina ad una rinascita dell’interesse per la produzione di Paolo. 5 Proprio  

   





   





1  Nell’introduzione alla sua edizione delle Expositiones Souter dà per certa questa datazione : vd. A. Souter, Pelagius’s Expositions of Thirteen Epistles of St. Paul, i. Introduction (1922) ii. Text (1926) iii. Pseudo-Jerome Interpolations (1931), Cambridge, Cambridge University Press (« Text and Studies », 9), pp. 4-5 ; la sua opinione è stata condivisa da tutti gli studiosi che si sono occupati della produzione di Pelagio. 2  Per notizie sulla vita e la personalità di Pelagio si rimanda ad alcune monografie che offrono un preciso quadro storico-teologico, indispensabile punto di partenza per chiunque intenda avvicinarsi allo studio di questo autore : J. J. Dempsey, Pelagius’s Commentary on St Paul. A Theological Study, Rome, Pontificia Universitas Gregoriana, 1937 ; G. De Plinval, Pélage. Ses écrits, sa vie et sa réforme, Lausanne, Payot, 1943 ; J. Ferguson, Pelagius : A Historical and Theological Study, Cambridge, W. Heffer & Sons, 1956 ; S. Prete, Pelagio e il Pelagianesimo, Brescia, Morcelliana, 1961 ; R. F. Evans, Pelagius : Inquiries et Reappraisal, London, Black, 1968 ; A. Wayens, Un Chrétien nommé Pélage, Bruxelles, Marginales, 1971 ; B. Rees, Pelagius : A Reluctant Heretic, Woodbridge, The Boydell Press, 1988 (rist. 1991). 3  Vd. T. De Bruyn, Pelagius’ Commentary on St Paul’s Epistle to the Romans, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 11-12. 4  Vd. P. Brown, Pelagius and his Supporters : Aims and Enviroment, « JTh », 38, 1987, pp. 106-119, p. 97. 5  Il periodo che va dalla metà del iv all’inizio del v secolo offre un numero notevole di commentari a San Paolo : conosciamo infatti l’esistenza di 14 commentari greci al corpus paolino, 1 siriaco e 7 latini. Le ragioni di questo interesse particolare per gli scritti dell’apostolo sono state indagate da M. G. Mara, Il significato storicoesegetico dei commentari al corpus paolino dal iv al v secolo, « AnnSE », 1, 1984, pp. 59-74.  







































10

sara matteoli

in questo periodo, infatti, furono composti i commenti dell’Ambrosiaster (a tutte le epistole, ca. 366-384 d.C), di Mario Vittorino (a Eph., Gal. e Phil., pochi anni dopo il 363), di Gerolamo (a Phil., Gal., Eph. e Tit., maggio-ottobre 386), di Agostino (Exp. prop., Gal., Exp. inch., 394-395), di un autore anonimo 1 (a tutte le epistole, fra il 396 e il 405), e infine la traduzione latina del commento ai Romani di Origene realizzata da Rufino (405-406). 2 Come ha notato T. De Bruyn, 3 non è privo di significato che tre di questi commenti, quello di Mario Vittorino, dell’Ambrosiaster e di Pelagio (se non quattro, se includiamo quello dell’anonimo), siano stati composti a Roma. Per quanto ognuno di questi commenti presenti proprie peculiarità e rifletta gli interessi del suo autore, un filo conduttore unisce queste opere, che si presentano simili nell’impostazione e nello stile : commenti tendenzialmente brevi e letterali, sintassi semplice e chiara. Avremo modo di approfondire nel corso della trattazione il rapporto di Pelagio con i suoi predecessori : per il momento basti ricordare che le Expositiones si inseriscono in una successione di commenti alle epistole paoline che testimoniano un rinnovato interesse per gli scritti dell’Apostolo. Tale interesse va probabilmente ricondotto al conflitto con i Manichei ; infatti, l’uso particolare che Marcione aveva fatto degli scritti di Paolo può aver persuaso gli autori cattolici della necessità di interpretare gli insegnamenti dell’Apostolo : non era sufficiente citare quest’ultimo come un’autorità, dal momento che anche gli eretici vi si appellavano frequentemente per sostenere le loro tesi, ma era necessario anche comprendere correttamente il suo pensiero ; di qui il ricorso al commento come mezzo per proporre una corretta interpretazione della teologia di Paolo, che escludesse ogni visione riconducibile al manicheismo : come vedremo, anche le Expositiones presentano molti passi in cui l’autore confuta le dottrine manichee, e in particolar modo la concezione negativa della carne e il determinismo che essa implica. 4 Probabilmente Pelagio intendeva realizzare un’opera pratica e maneggevole ; in linea con questo intento, scelse il metodo che più gli consentiva di essere chiaro e preciso nelle sue osservazioni : copiò quasi per intero il testo delle epistole, pericope per pericope, alternando ai vari lemmi il relativo commento. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di osservazioni concise, che mirano a chiarire e precisare il significato di un versetto o di parti di versetto. Pelagio offre interpretazioni semplici e letterali ; raramente si abbandona a lunghe digressioni : i suoi commenti consistono spesso in un breve paragrafo, talvolta addirittura in una frase. 5 Un aspetto notevole del Commento è dato dal fatto che l’autore propone soluzioni alternative (spesso due, talvolta tre), introdotte dalla congiunzione sive : in molti casi le spiegazioni riportate sono presentate come opinioni di altri, ai quali si fa riferimento con espressioni vaghe come quidam, multi, alii, diversi, ecc. Come vedremo nel corso della trattazione, questo modo di procedere non deve indurre a pensare che Pelagio non fornisca una linea di interpretazione, limitandosi a mettere insieme i commenti di altri : pur attingendo agli scritti di quanti lo hanno preceduto, egli mostra indipendenza di pensiero, realizzando un’opera sotto molti aspetti originale.  

































1  Si tratta di un commento anonimo conservato in un manoscritto dell’Hungarian National Museum di Budapest, vd. infra, pp. 24-26. 2  Sui commenti a Paolo in lingua latina si veda A. Souter, The Earliest Latin Commentaries on the Epistles of St. Paul, Oxford, The Clarendon Press, 1927. 3  Vd. De Bruyn, op. cit., pp. 2 sg. 4  Vd. De Bruyn, op. cit., pp. 15-16. 5  Per quanto riguarda la lingua e lo stile di Pelagio, si rimanda allo studio di G. de Plinval, Essai sur le style et la langue de Pélage suivi du traité inédit De induratione cordis Pharaonis, Fribourg, Librairie de l’Université, 1947 (« Collectanea Friburgensia », ns 31).  



introduzione

11

Nel presente lavoro per il testo latino delle Expositiones XIII Epistularum Pauli ci si è basati sull’edizione di Alexander Souter : 1 alla ricca e dettagliata introduzione dello studioso rimandiamo anche per la storia della complessa tradizione manoscritta dell’opera ; tuttavia, dal momento che nel corso della trattazione faremo più volte riferimento ai vari codici e ad alcuni significativi problemi testuali, riteniamo necessario, ai fini di una corretta comprensione, fornire in breve alcune informazioni basilari. Per stabilire il testo del Commento, Souter si è basato sui seguenti testimoni : – alcuni frammenti antichi ; in particolare : interpolazioni del vi secolo di materiale proveniente dal Commento di Pelagio in alcuni manoscritti del Commento dell’Ambrosiaster a 1Cor 15, 44 - 2Cor 1, 5 ; 2 i Fragmenta Vaticana (ℜ), consistenti in due resti di un manoscritto del vi secolo in semi-onciale, scoperti da Giovanni Mercati presso la Biblioteca Vaticana nel 1905-1906 ; 3 e, infine, i Fragmenta Friburgensia (K), provenienti da un manoscritto dell’viii-ix secolo. 4 – Due manoscritti quasi completi, basati su archetipi del v-vi secolo : il codice di Karlsruhe, Augiensis CXIX (A), databile all’viii-ix secolo, e il Codex Collegii Balliolensis Oxon. 157 (B), del xv secolo. 5 – La versione del Commento elaborata da Cassiodoro e dai suoi discepoli (Cas ; Codex Gratianopolitanus 270, fine xii secolo), che effettuarono una revisione delle Expositiones al fine di eliminare gli aspetti ‘pelagiani’ dell’opera. La versione così prodotta fu successivamente attribuita a Primasio. 6 – Due famiglie di manoscritti appartenenti alla tradizione dello Pseudo-Gerolamo (H), una che attesta una versione più breve, detta da Souter « anglo-sassone » (H1), una che riporta invece una versione più lunga, detta « irlandese » (H2). 7 – Il Codex Parisinus Bibl. Nat. 653, databile all’viii-ix secolo (V). 8 – Il Codex Sangallensis Stiftsbibliothek 73, del ix secolo (G). 9    









   

   

























Confrontando i manoscritti con le citazioni del Commento di Pelagio fatte da Agostino e Mario Mercatore, Souter è giunto alla conclusione che tutti i manoscritti, fatta eccezione per A e B, sono gravemente interpolati. Un ulteriore confronto di questi manoscritti con i Frammenti Vaticani, i Frammenti di Freiburg e le interpolazioni presenti in alcuni manoscritti del Commento dell’Ambrosiaster, confermò questa impressione : 10 Souter ha dunque stabilito la sua edizione sulla testimonianza di A e B. 11 La particolarità dell’edizione di Souter consiste in un uso insolito dei segni diacritici : infatti, le parentesi quadre non sono impiegate, come di norma, per indicare le parti di testo da espungere, ma soltanto per segnalare quando non c’è accordo fra i testimoni principali, ovvero quando una parte del testo è attestata soltanto da A o da B. L’editore si limita così ad indicare la presenza di varianti, senza operare fra di esse una scelta : un modo di procedere che non mancò di suscitare perplessità. 12 Prendiamo in considerazione, ad esempio, il commento di Pelagio a Rm 8, 3 (p. 61 Souter) :    











  1  Vd. supra, p. 9, n. 1.   3  Vd. Souter, Pelagius’s Expositions, cit., pp. 48-51.   5  Ibid., pp. 201-223.   8  Parisiacus Souter, vd. ibid., pp. 245-264.

2  Vd. Souter, Pelagius’s Expositions, cit., i, pp. 51-59. 4  Ibid., pp. 229-231. 6  Ibid., pp. 318-326. 7  Ibid., pp. 268-318. 9  Vd. ibid., pp. 232-245. 10  Vd. ibid., pp. 48-60. 11  Ibid., p. 343. 12  Vd. D. De Bruyne, Review of ‘Pelagius’s Expositions of Thirteen Epistles of St Paul, i. Introduction’, by Alexander Souter, « balcl », i, 1921-1928, No. 115, pp. 57-59 ; No. 589, pp. 242-244 ; vd. anche T. De Bruyn, Pelagius’ Commentary on St Paul’s Epistle to the Romans, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 30 sg.  







12

sara matteoli

‘Nam quod inpossibile erat legis’. Ut homines carnales faceret custodire iustitiam, mortificandae carnis nec exemplo dato [nec gratia].

L’espressione nec gratia è posta fra parentesi quadre non perché l’editore ritienga che debba essere espunta, ma perché è attestata soltanto da A e omessa invece da B e dagli altri codici. A presenta spesso varianti rispetto a BHG. In alcuni casi il manoscritto di Karlsruhe concorda con V : dal momento che in genere V supporta BHG contro A, il suo accordo con A in questi casi costituisce una prova che la testimonianza di A è più attendibile di quella di BHG ; infatti, in questi passi Souter non ritiene che il testo di B sia da accogliere : il suo giudizio fu confermato da Frede nel suo studio sul manoscritto di Budapest, Codex Latinus Medii Aevi I dell’Hungarian National Museum. 1 La scelta fra le varianti risulta, invece, molto più complessa quando A, talvolta supportato da G, contrasta con BHV ; come avremo modo di vedere, in questi casi i problemi di tradizione testuale assumono un’importanza particolare perché vanno ad incidere sul significato teologico delle osservazioni di Pelagio : tali questioni saranno affrontate nel dettaglio nel corso della trattazione. Nel presente lavoro, dei commenti di Pelagio alle varie epistole paoline, si è preso in considerazione soprattutto quello all’Epistola ai Romani, vista l’importanza assunta da questo testo nella storia dell’esegesi per le tematiche fondamentali che vi sono affrontate. Tramite lo studio del Commento di Pelagio, è stato possibile enucleare alcune linee di pensiero, che costituiscono l’ossatura del suo impianto argomentativo : – Il concetto di lex naturae o lex naturalis e il suo rapporto con la lex litterae. – I limiti della lex litterae e l’importanza e centralità della fede come unico mezzo di salvezza. – Le conseguenze del peccato di Adamo e la responsabilità personale dell’uomo nel dare il suo assenso al peccato. – La dottrina della giustificazione e della salvezza : l’importanza dell’exemplum Christi. – Il problema della prescienza divina e del libero arbitrio. – Il problema dell’impeccantia.  















Il nostro studio assume questi concetti come linee-guida, tramite le quali sviluppare un’analisi del pensiero dell’autore : il punto di partenza della nostra riflessione è rappresentato sempre dal testo di Pelagio, il cui significato, talvolta poco perspicuo, abbiamo qui tentato di indagare. Lo scopo ultimo che ha guidato il presente lavoro è stato quello di mettere in luce con quali modalità le questioni sopra elencate siano state affrontate dall’autore nel suo commento e quale ruolo abbiano svolto nello sviluppo successivo del suo pensiero : si è tentato, in particolar modo, di chiarire se e in che misura, scrivendo in un periodo in cui le dottrine della Chiesa non erano ancora del tutto definite, Pelagio si sia fatto portavoce di posizioni teologiche diffuse al tempo e quali aspetti vadano invece ricondotti alla sua personale ed originale riflessione.  



* 1  Vd. H. J. Frede, Ein neuer Paulustext und Kommentar, i. Untersuchungen, Freiburg, Verlag Herder, 1973, pp. 193-196 ; De Bruyn, op. cit., pp. 31 sg.  

introduzione

13

Questa pubblicazione è il risultato del lavoro di ricerca da me svolto presso il Dipartimento di Filologia Classica dell’Università di Pisa durante i tre anni del Dottorato di Ricerca in Filologia e Letterature Greca e Latina. Vorrei in questa sede rivolgere i miei più sentiti ringraziamenti al Prof. Claudio Moreschini, che mi ha introdotto allo studio della Letteratura Cristiana Antica e ha seguito con grande attenzione tutte le fasi di stesura della mia tesi: senza i suoi preziosi consigli e la sua guida non avrei potuto ottenere i presenti risultati. Alla fine di questo mio percorso di studi, un pensiero va anche alla memoria di mio padre, cui è dedicato il presente lavoro.

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Capitolo 1 IL CONTESTO STORICO-DOTTRINALE : CRONOLOGIA E CARATTERISTICHE DELLE PRINCIPALI FONTI DELLE EXPOSITIONES  

C

ome abbiamo accennato nell’introduzione al presente lavoro, la fine del IV secolo fu caratterizzata da un forte interesse per le Epistole di Paolo, cui fece seguito un’intensa attività esegetica : le Expositiones di Pelagio, dunque, non rappresentano un caso isolato, ma si inseriscono in una lunga tradizione di commenti al testo paolino. Il primo a mettere in luce i punti di contatto e le analogie riscontrabili fra il commento di Pelagio e quelli dei suoi predecessori è stato Alexander Souter : nella prefazione alla sua edizione egli passa rapidamente in rassegna le possibili fonti sia greche che latine delle Expositiones, riscontrando paralleli con l’Ambrosiaster, Gerolamo, Agostino, Giovanni Crisostomo e Teodoro di Mopsuestia ; 1 il suo lavoro fu ripreso e approfondito dallo studio dettagliato di A. J. Smith sulle fonti latine del Commento di Pelagio all’Epistola ai Romani. 2 Smith prese in considerazione i commenti in lingua latina alla lettera di Paolo ai Romani databili a prima del 409 : il campo di ricerca risultava così limitato alle opere dell’Ambrosiaster, di Origene-Rufino e di Agostino, le uniche che rispondevano a tali caratteristiche. Lo studioso offrì un elenco dei passi in cui i rapporti fra i vari autori risultavano più evidenti, soffermando la propria attenzione soprattutto sulle corrispondenze nel lessico e nella struttura della frase. Nonostante il suo lavoro sia ormai datato e presenti alcuni limiti che avremo modo di porre in evidenza nel corso della trattazione, può ancora costituire un valido strumento di lavoro e un punto di partenza per sviluppare un’analisi che non si soffermi soltanto sulle semplici coincidenze verbali. Il rapporto di Pelagio con i suoi predecessori rappresenta l’aspetto più importante del presente lavoro : infatti, è proprio mediante il confronto con i vari autori che abbiamo tentato di chiarire alcuni aspetti del suo pensiero. Per questo riteniamo indispensabile fornire alcune informazioni di base sulle fonti principali : è importante, infatti, avere un quadro chiaro della cronologia delle varie opere e di alcune questioni di tradizione testuale, cui faremo riferimento nel corso della trattazione. Abbiamo limitato la nostra indagine agli autori dei quali Pelagio sembra aver avuto una conoscenza diretta, ovvero Origene-Rufino, l’Ambrosiaster, l’Anonimo di Budapest e Agostino. Infatti, le fonti greche chiamate in causa da Souter nella sua introduzione hanno suscitato forti perplessità : come ha osservato De Bruyn, 3 è assai improbabile che Pelagio abbia letto le omelie di Giovanni Crisostomo alle epistole di Paolo, dato che la sua conoscenza del greco al momento della stesura delle Expositiones era piuttosto scarsa e non sembra che nella prima decade del quinto secolo circolasse una traduzione latina delle omelie di Crisostomo. Del resto, già Chapman aveva dimostrato in maniera  



   













1  A. Souter, Pelagius’s Expositions, cit., pp. 174-200. 2  A. J. Smith, The latin sources of the commentary of Pelagius on the epistle of St. Paul to the Romans, « JThS », 19, 1917-1918, pp. 162-231 ; 20, 1919-1920, pp. 53-177. 3  Vd. op. cit., p. 3.  





16

capitolo 1

evidente che Pelagio ignorava il greco : 1 in seguito al suo studio, anche Souter era stato costretto a rivedere le sue precedenti posizioni. 2 Per quanto riguarda, invece, Teodoro di Mopsuestia, sembra ormai acclarato che sia Teodoro ad essere indebitato con Pelagio e non viceversa. 3 Fra le fonti latine, Souter aveva tenuto presente anche Gerolamo, pur rilevando scarsi punti di contatto fra le opere dello Stridonense composte prima del 405 e le Expositiones ; per quanto concerne nello specifico il commento alle epistole paoline, Gerolamo si è dedicato soltanto all’esegesi di Filemone, Galati, Efesini e Tito, senza offrire sul piano teologico un contributo significativo. Importante risulterà invece, come vedremo, il suo Dialogus adversus Pelagianos, a cui più volte faremo riferimento nel presente lavoro, dal momento che offre informazioni preziose, in particolar modo per quanto concerne il problema dell’impeccantia.    







1. Origene Fino almeno alla metà del iv secolo non abbiamo alcuna informazione circa la conoscenza di qualche scritto di Origene in Occidente. Del resto, i contatti fra l’Alessandrino e Roma erano stati scarsi, e spesso non di segno positivo : Eusebio ci informa che Origene si recò a Roma al tempo di papa Zefirino per visitare l’antica chiesa della capitale, 4 ma non siamo in grado di stabilire se egli abbia mai pensato di impartire anche lì i suoi insegnamenti. Successivamente, stando alla testimonianza di Gerolamo, 5 papa Ponziano ratificò la condanna di Origene, accusato dal vescovo di Alessandria Demetrio di predicare la salvezza del diavolo. La stessa accusa fu mossa dal successore di Demetrio, Eracla, che costrinse Origene a scrivere una lettera a papa Fabiano per giustificarsi : 6 i contatti fra Origene e Roma fin che fu in vita si limitano a questi episodi sporadici. Come ha osservato Simonetti, 7 forse un’influenza delle dottrine origeniane si può cogliere nel De trinitate di Novaziano, databile al 235-240, là dove l’autore afferma l’incorporeità di Dio (5, 29), fino ad allora dichiarata esplicitamente soltanto da Origene ; si tratta, tuttavia, di una ipotesi : di fatto per lunghi decenni a Roma e nell’Occidente in generale la produzione dell’Alessandrino sembra del tutto ignorata. Mentre in Oriente la grande eredità teologica di Origene suscitò fin da subito accesi dibattiti, in Occidente prevale a lungo un certo disinteresse per le questioni dottrinali ; solo quando la polemica trinitaria giunge a coinvolgere prima Roma e poi tutto l’Occidente si registra un cambiamento di tendenza, dovuto alla necessità di affrontare e comprendere complesse questioni teologiche : ne offre una testimonianza Ilario di Poitiers che, poco dopo il 360, compone, ispirandosi strettamente a Origene, i Tractatus in Psalmos. Inizia così un’attività esegetica che, secondo Gerolamo, 8 era addirittura esagerata : tale successo deve probabilmente essere spiegato anche con il rapido diffondersi della religione cristiana in ambienti socialmente elevati e colti, dove, se la conversione era stata sincera, si avvertiva l’esigenza di una più profonda comprensione delle Scritture, e in particolar modo delle Epistole di Paolo, che rappresentavano per ogni cristiano il fondamento della morale. Era naturale, dunque, che ci si volgesse ad Origene, che alla metà del iv secolo rappresentava l’unico autore in grado di offrire strumenti adeguati per la comprensione  





   















1  J. Chapman, Pélage et le texte de S. Paul, « rhe », 18, 1922, pp. 472-473. 2  Souter, The earliest, cit., p. 225. 3  Vd. infra, p. 60. 4  Vd. Eus., Hist. Eccl. vi, 14, 10. 5  Vd. Hier., Epist. 33, 5. 6  Vd. Hier., Epist. 84, 10. 7  Vd. M. Simonetti, Origene in Occidente prima della controversia, « Augustinianum », 46/1, 2006, pp. 25-26. 8  Vd. Epist. 53, 7.  







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del testo sacro. 1 Inoltre, come ha notato Simonetti, negli anni sessanta-ottanta del iv secolo la controversia origeniana, divampata in Siria e Palestina fra la fine del III e gli inizi del iv secolo, era ormai lontana nel tempo, mentre la ripresa della polemica da parte di Epifanio è ancora di là a venire : si viene dunque a creare un clima favorevole per la diffusione degli scritti dell’Alessandrino. Parallelamente, il progressivo ridursi, anche fra i ceti colti, della conoscenza del greco, rese indispensabile disporre delle opere di Origene e degli altri autori cristiani greci in traduzione ; in molti casi gli autori facevano circolare sotto il loro nome scritti che erano largamente tributari di Origene : Ilario, ad esempio, fece ampio uso delle opere dell’Alessandrino non solo per i Tractatus in Psalmos già citati, ma, secondo la testimonianza di Gerolamo, 2 anche per i Tractatus in Iob ; allo stesso modo Ambrogio pubblicò a suo nome numerosi commenti alla Scrittura derivati in gran parte da fonti greche, ricorrendo ad Origene soprattutto per il Tractatus in Lucam. Sarà Girolamo, negli anni ottanta del iv secolo, prima della ripresa della controversia, a segnare una svolta nella diffusione degli scritti di Origene, dal momento che egli non si accontenterà di riprendere nelle proprie opere le dottrine dell’Alessandrino, ma realizzerà vere e proprie traduzioni in latino degli scritti origeniani, consentendone una fruizione più immediata e diretta : si pensi alle due omelie sul Cantico dei Cantici da lui tradotte nel 384, e alle ben trentanove omelie sul Vangelo di Luca di cui si occupò negli anni 389-390. 3 A Rufino si deve, invece, il merito di aver tradotto in latino il Commento alla lettera ai Romani di Origene, offrendo uno strumento fondamentale per gli scrittori cristiani successivi che si cimentarono nell’esegesi dell’epistola paolina. Origene aveva scritto, infatti, un commento in 15 libri 4 alla lettera ai Romani : probabilmente l’opera fu composta a Cesarea verso il 243, comunque prima del Commento al Vangelo di Matteo e del Contro Celso, 5 che contengono rimandi ad essa. 6 È probabile che a spingere l’autore ad un lavoro così impegnativo sia stata la necessità di contrastare le dottrine degli gnostici, che facevano spesso ricorso alle epistole di Paolo per sostenere le proprie tesi : fin dall’introduzione, infatti, Origene dichiara l’intenzione di confutare quegli eretici che ricorrevano ad alcuni passi della lettera ai Romani per negare il libero arbitrio. 7 Del testo originale greco restano soltanto frammenti : una parte consistente di questi sono stati conservati in catene e pubblicati da A. Ramsbotham, 8 che ha assunto come punto di partenza il precedente lavoro del Cramer, 9 rivedendolo alla luce di un nuo 

































1  Vd. Simonetti, art. cit., pp. 27-28. 2  Vd. De vir. ill. 100. 3  Vd. M. Simonetti, art. cit., pp. 29-32. Sui rapporti fra Origene e l’Occidente vd. anche Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1985, pp. 254 sg. ; G. Sfameni Gasparro, Origene e la tradizione origeniana in Occidente. Letture storico-religiose, Roma, Libreria Ateneo Salesiano, 1998, pp. 97-106 ; 123-150 ; E. Prinzivalli, La controversia origeniana di fine iv secolo e la diffusione della conoscenza di Origene in Occidente, « Augustinianum », 46/1, 2006, pp. 35-50. 4  Il numero dei libri è testimoniato sia da Rufino, nella prefazione alla sua traduzione (vd. Tyranni Rufini Opera, ccsl 20, p. 275), sia da Gerolamo (vd. Epist. 33, 4). 5  Per la datazione dell’opera vd. P. Nautin, Origène, Paris, Beauchesne, 1977 ; F. Cocchini, Origene. Commento alla lettera ai Romani, Casale Monferrato, 1985 - Genova, Marietti, 1986, vol. i, p. xiii. 6  Vd. Comm. in Mt xvii, 32 ; C. Cels. v, 47 ; viii, 65. 7  Vd. Orig., Expl. in Rom, i, 1 (praefatio), p. 37 Bammel (Der Römerbrief kommentar des Origenes, kritische Ausgabe der Übersetzung Rufins, Freiburg, Verlag Herder, Buch 1-3, 1990 ; Buch 4-6, 1997 ; Buch 7-10, 1998) : … haeretici … ex paucis huius epistulae sermonibus totius scripturae sensum qui arbitrii libertatem concessam a Deo homini docet conantur evertere. 8  A. Ramsbotham, The commentary of Origen on the Epistle to the Romans, « JThS », 13, 1912, pp. 209-224 ; 357368 ; 14, 1913, pp. 10-22. 9  J. A. Cramer, Catenae Graecorum patrum in Novum Testamentum, iv, Oxford, 1844.  





























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vo manoscritto. Altri frammenti sono stati pubblicati dallo Staab, 1 mentre due lunghi frammenti si trovano nella Philocalia, ai capitoli 9 e 25. 2 Un altro brevissimo frammento si trova nel De Spiritu Sancto (29, 73) di Basilio. Tuttavia la testimonianza più importante del testo greco originale è data da ampi estratti copiati su un papiro rinvenuto a Tura nel 1941 ed editi da J. Scherer : 3 questi estratti comprendono il commento che va da Rm 3, 5 a Rm 5, 7. 4 Come Smith ha dimostrato, 5 Pelagio ha letto il commento di Origene nella traduzione latina di Rufino, databile al 405-406, proprio pochi anni prima della stesura delle Expositiones. In seguito alla scoperta del papiro di Tura, 6 che ha permesso di confrontare il testo greco e la ‘versione’ di Rufino, quest’ultima, a lungo considerata dagli studiosi poco attendibile, è stata molto rivalutata : si è giunti alla conclusione che Rufino si mantenne nella sostanza fedele al pensiero di Origene, nonostante non si possa pretendere da un traduttore antico la precisione e la letteralità che richiede oggi un lavoro di traduzione. 7 Le prove addotte da Smith risultano piuttosto convincenti. In primo luogo, dal momento che Rufino si è preso grande libertà nella traduzione dal greco del testo di Origene, i punti di contatto esistenti fra Pelagio e Origene-Rufino, che in alcuni casi giungono ad una vera e propria identità di espressione, portano a pensare che Pelagio abbia fatto uso della traduzione di Rufino e non dell’originale greco. Inoltre Smith, comparando Pelagio con i frammenti di Origene pubblicati da Ramsbotham, ha notato come non vi siano punti di contatto fra Pelagio e Origene quando non vi siano anche punti di contatto fra Pelagio e Origene-Rufino, e come vi siano dei punti di contatto fra Pelagio e Orig.-Ruf. quando non ce ne sono fra Pelagio e Origene, e quando Rufino ha evidentemente aggiunto qualcosa rispetto a Origene. 8 Tenendo presente anche l’alta considerazione di cui godeva l’opera di Rufino e la sua utilità e diffusione, l’uso di questa da parte di Pelagio può essere ormai considerato un dato acquisito. I due commenti sono fra loro molto diversi : come abbiamo già avuto modo di osservare, Pelagio scrive note brevi a singoli versetti o a parti di versetti, mentre Origene  



   















1  K. Staab, Neue Fragmente aus dem Kommentar des Origenes zum Römerbrief, « BiZ », 18, 1927-1929, pp. 72-83. Si tratta di 15 frammenti conservati in una catena attestata nel ms. Vindob. gr. 166 (xiv sec.). 2  Il passo del Commento ai Romani citato nel cap. 9 della Philocalia tratta del termine « legge » e dei suoi vari significati : il punto di partenza dell’argomentazione sembrerebbe essere Rm 7, 7, ma non è certo se il frammento sia tratto dal commento a tale passo. Il frammento citato al cap. 25 prende in considerazione Rm 1, 1 e affronta il tema del libero arbitrio : in questo caso è probabile che si tratti proprio del commento al passo in questione. Per la bibliografia di riferimento vd. Cocchini, op. cit., pp. xv-xvi e note. 3  J. Scherer, Le Commentaire d’Origène sur Rom. iii, 5 - v , 7 d’après les extraits du Papyrus n. 88748 du Musée du Caire et les fragments de la Philocalie et du Vaticanus gr. 762, Le Caire, Institut Français d’Archéologie Orientale, 1955. 4  Per la trasmissione del testo e i riferimenti bibliografici sul tema vd. Cocchini, op. cit., vol. i, pp. xv-xix. 5  Smith, art. cit., pp. 127-129. 6  Sul testo del commento di Origene rinvenuto nel papiro di Tura vd. O. Gueraud, Note preliminaire sur les papyrus d’Origène decouverts a Toura, « rhr », 131, 1946, pp. 85-108 ; H. C. Puech, Les nouveaux ecrits d’Origène et de Didyme decouverts a Toura, « RHPhR », 31, 1951, pp. 293-329 ; L. Doutreleau, Quae savons-nous aujourd’hui des papyrus de Toura, « RecSR », 43, 1955, pp. 161-193 ; L. Koenen, L. Doutreleau, Nouvel inventaire des papyrus de Toura, « RecSR », 55, 1967, pp. 547-564. 7  Vd. H. Chadwick, Rufinus and the Tura Papyrus of Origen’s Commentary on Romans, « JTh », 10, 1959, pp. 1042 ; K. H. Schelkle, Paulus Lehrer der Väter, Düsseldorf, Patmos-Verlag, 1959², pp. 444-445 ; M. Wagner, Rufinus, The Translator, Washington, dc, The Catholic University of America Press, 1945, pp. 6-10 ; A. Jaubert, Origène. Homélies sur Josué, Paris, Ed. du Cerf, 1960 (SCh 71), pp. 68-82 ; Cocchini, op. cit., p. xii. 8  Ad esempio, nel commento a Rm 6, 23 sia Pelagio che Rufino, per indicare la militanza nel peccato che riceve come compenso la morte, ricorrono ad una metafora militare che non appare in Origene.  













































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è ampio e discorsivo, e commenta solitamente più versetti allo stesso tempo ; inoltre, Origene è dedito al metodo allegorico di interpretazione : egli invita a non fermarsi mai ad una prima lettura del testo, ma a ricercare in ogni parola dell’Apostolo un senso recondito ; di un medesimo versetto l’autore offre più letture, cercando di coglierne tutti gli aspetti, ricorrendo frequentemente ad immagini e metafore per spiegare un concetto : ne deriva un’opera di ampio respiro, complessa, talvolta di difficile lettura per le numerose digressioni compiute dall’autore. Niente sembrerebbe più lontano dal commento di Pelagio, caratterizzato da osservazioni concise e da una esegesi letterale : tuttavia, come vedremo nel corso della trattazione, Origene è forse l’autore che più ha offerto a Pelagio spunti di riflessione : molte delle dottrine pelagiane sembrano, infatti, trovare nelle osservazioni del grande Alessandrino la loro prima fonte di ispirazione.  











2. Ambrosiaster Il Commentarius in epistulas paulinas dell’anonimo autore noto come Ambrosiaster, si presenta come un commento completo a tutte le epistole di Paolo, ad esclusione della sola lettera agli Ebrei, che l’autore non riteneva autentica. 1 È possibile datare l’opera con sicurezza grazie al commento a 1Tim 3, 15 (csel 81/3, p. 270) dove troviamo le parole : ecclesia ... cuius hodie rector est Damasus, che ci consentono di collocarne la stesura fra il 366 e il 384 ; al pontificato di Damaso sembra alludere anche il commento a Rm 12, 11 (csel 81/1, p. 405) dove l’autore sostiene di vivere in un periodo di pace religiosa. Inoltre nel commento a 2Thess 2, 7 (csel 81/3, p. 240) l’Ambrosiaster, nel contesto di una dura polemica contro i Pagani, menziona alcuni imperatori colpevoli di aver perseguitato i Cristiani :  







Mysterium iniquitatis a Nerone inceptum est, qui zelo idolorum apostolos interfecit. Instigante patre suo diabolo, usque ad Diocletianum, et novissime Iulianum, qui arte quadam et subtilitate coeptam persecutionem implere non potuit.

L’uso dell’avverbio novissime induce a pensare che l’autore scriva non molto tempo dopo il regno di Giuliano, che fu imperatore soltanto per due anni, dal 361 al 363. Questa datazione è confermata dai dati offerti da un’altra opera, di cui tratteremo fra breve, le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti. Le Quaestiones contengono numerose allusioni ad eventi storici e fatti di cronaca che consentono di collocarne la stesura in un periodo compreso fra la morte dell’imperatore Giuliano (363) e quella di papa Damaso (384). Ad esempio, nella Quaestio 44 (csel 50, p. 79) l’autore afferma che sono passati circa 300 anni dalla distruzione di Gerusalemme, un’informazione che rimanda circa al 370. Nella Quaestio 115 (csel 50, p. 334) si fa riferimento alla devastazione della Pannonia ad opera dei Quadi e dei Sarmati avvenuta nel 374 ; sempre nella stessa Quaestio si accenna all’editto con cui Giuliano autorizzava le donne sposate a ripudiare i propri mariti e alla  

1  Sull’Ambrosiaster fondamentali sono A. Souter, A Study of Ambrosiaster, Cambridge, Cambridge University Press, 1905 (« Texts and Studies », 7/4) ; Idem, The earliest, cit., pp. 39-95 ; C. Martini, Ambrosiaster. De auctore, operibus, theologia, Roma, Antonianum, 1944 ; H. I. Vogels, Ambrosiastri qui dicitur commentarius in epistulas paulinas, Vindobonae, Hoelder-Pichler-Tempsky, 1966 (csel 81) ; A. Pollastri, Ambrosiaster. Commento alla lettera ai Romani. Aspetti Cristologici, L’Aquila, L. U. Japadre, 1977 ; Ambrosiaster. Commento alla lettera ai Romani. Traduzione, introduzione e note a cura di Alessandra Pollastri, Roma, Città Nuova Editrice, 1984 ; M.-P. Bussières, Ambrosiaster. Contre les Païens (Question sur l’Ancien et le Nouveau Testament 114) et Sur le destin (Question sur l’Ancien et le Nouveau Testament 115), introduction, texte critique, traduction et notes, Paris, Les Éditions du Cerf, 2007 (SCh 512).  















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carestia che colpì le province italiche e africane nel 383. 1 Infine, in una lettera di Damaso a Gerolamo databile al 384, il vescovo di Roma sottopone allo Stridonense cinque questioni che presentano una straordinaria rispondenza con le Quaestiones 6, 9, 10, 11 e 12 dell’Ambrosiaster : non sembra si possa trattare di una coincidenza casuale ; è probabile che Damaso stesse leggendo in quel periodo le Quaestiones dell’Ambrosiaster e questo farebbe del 384 un terminus ante quem. 2 Quanto al luogo di composizione, da vari riferimenti contenuti nelle Quaestiones sembra possibile ipotizzare che l’Ambrosiaster abbia composto le sue opere a Roma : l’indicazione più esplicita in tal senso si riscontra nella Quaestio 115 (csel 50, p. 323), dove troviamo le parole hic enim in urbe Roma et finibus eius ; tale ipotesi è avvalorata dal fatto che molte Quaestiones si comprendono solo a partire dalla situazione concreta dell’Urbe, che costituisce in molti casi il contesto di riferimento delle problematiche affrontate. 3 Tuttavia, da alcune indicazioni si potrebbe forse dedurre che l’autore non abbia trascorso tutta la sua vita a Roma, ma abbia avuto contatti sia con l’Italia settentrionale sia con la Spagna. 4 Il problema dell’identità dell’autore, a lungo dibattuto, resta tuttora irrisolto : la maggior parte dei codici attribuisce il Commentarius ad Ambrogio, altri, fra cui il manoscritto più antico, quello di Monte Cassino (vi secolo), la presentano anonima, mentre nella tradizione manoscritta irlandese è trasmessa sotto il nome di Hilarius. 5 Souter ritiene probabile che il Commentarius sia circolato fin dall’inizio in forma anonima ; a favore di questa ipotesi lo studioso ricorda che anche il più tardo commento di Pelagio circolò in un primo momento in maniera anonima : questi primi commentatori probabilmente non cercavano la fama personale, ma intendevano soltanto fornire strumenti utili alla comprensione degli scritti dell’Apostolo. Importante risultava in definitiva il testo sacro, mentre il commento era semplicemente un’appendice ad esso : solo quando i commentatori ottenevano una certa reputazione i loro nomi potevano essere associati ai loro scritti. 6 Fu Erasmo il primo a rendersi conto che il Commentarius non poteva essere attribuito ad Ambrogio : coniò, dunque, non senza una sfumatura dispregiativa, il nome Ambrosiaster. 7 Gli studiosi si sono a lungo interrogati sulla personalità che si nasconde dietro l’Ambrosiaster, formulando numerose e spesso contrastanti ipotesi : dal diacono luciferiano Ilario, al prete romano Faustino al giudeo convertito Isacco che difese la causa di Ursino contro Damaso e che nel 378, accusato di essere tornato al giudaismo, fu esiliato in Spagna. 8 Quest’ultima ipotesi fu avanzata da Morin, 9 ed incontrò ampio favore, ma fu respinta da Souter per motivi linguistici, visti gli scarsi punti di contatto fra le opere dell’Ambrosiaster e il trattato “Sulla Trinità” attribuito ad Isacco. 10 Pochi anni dopo Morin propose di identificare l’Ambrosiaster con Decimo Ilario Ilariano, governatore  







































1  Vd. Souter, A study, cit., pp. 168-174 ; Idem, The earliest, cit., pp. 42-43 ; Pollastri, op. cit., pp. 8-9. 2  Vd. Souter, The earliest, cit., p. 43 ; H. J. Vogels, Ambrosiaster und Hieronymus, « Rben », 66, 1956, pp. 14-19. 3  Vd., ad esempio, la Quaestio 101, che reca il titolo De iactantia Romanorum levitarum. 4  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 43-44 ; Vogels, op. cit., p. xv ; Pollastri, op. cit., p. 9. 5  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 39-40. 6  Ivi, p. 40 ; Vogels, op. cit., i, p. x. 7  Vd. R. Hoven, Notes sur Erasme et les auteurs anciens, « ac », 38, 1969, pp. 172-174 ; Vogels, op. cit., i, p. viii. 8  Vd. A. Pollastri, Ambrosiaster. Commento alla lettera ai Romani, Roma, Città Nuova Editrice, 1984, pp. 9-10. 9  Vd. G. Morin, L’Ambrosiaster et le Juif converti Isaac, contemporain du pape Damase, « rhlr », 4, 1899, pp. 97121. 10  Vd. Souter, A Study of Ambrosiaster, cit., p. 46.  

























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d’Africa nel 377, praefectus urbis nel 383, e prefetto del pretorio nel 396, 1 per poi cambiare nuovamente opinione, individuando in Evagrio di Antiochia il possibile autore del Commentarius. 2 Morin coglieva, infatti, significativi paralleli fra la carriera di Evagrio e il ritratto dell’Ambrosiaster che possiamo ricavare dalle sue opere : l’anonimo autore doveva essere un aristocratico e doveva avere una buona conoscenza del diritto romano ; probabilmente non era un ecclesiastico quando compose le sue opere, ma potrebbe essere divenuto vescovo prima della sua morte ; mostra, inoltre, di aver visitato numerosi paesi e di conoscere particolarmente bene l’Egitto. Un quadro che ben corrisponde alla figura di Evagrio, che visitò varie parti dell’Impero, trascorrendo dieci anni in Italia, a Roma, dove godette della fiducia di papa Damaso e fece la conoscenza di Gerolamo. Souter ritenne che questi argomenti risultassero rafforzati da un confronto fra lo stile della traduzione di Evagrio della Vita di Antonio di Atanasio e le opere dell’Ambrosiaster : il fatto che egli, pur di lingua greca, facesse uso del latino, si può forse spiegare con la sua appartenenza all’ordine dei decurioni di Antiochia, e quindi alla burocrazia imperiale. Souter ritenne dunque accettabile la proposta di Morin, ricordando come E.W. Watson 3 avesse dedotto dal latino dell’Ambrosiaster che fosse un greco di nascita. 4 L’identificazione con Evagrio, al di là del fatto se sia o meno accettabile, apre una questione di importanza fondamentale : l’Ambrosiaster conosceva il greco ? La risposta a questa domanda è di grande interesse perché ha ripercussioni su un altro tema, quello del rapporto fra l’Ambrosiaster e Origene. Souter e Smith, i due studiosi che hanno dato il contributo più significativo allo studio dell’Ambrosiaster, presentano riguardo a questo problema una posizione tutt’altro che chiara. Smith, infatti, dopo aver affermato che l’Ambrosiaster aveva probabilmente scarsa conoscenza del greco, ritiene che siano rintracciabili sicuri punti di contatto con Origene-Rufino, 5 posizione a mio giudizio piuttosto incoerente : se l’Ambrosiaster, che, come abbiamo visto, compone il suo commento in un periodo databile fra il 366 e il 384, ha utilizzato come fonte Origene, deve aver attinto all’originale greco e non alla traduzione latina di Rufino, che risale al 405-406. In maniera analoga Souter nella sua monografia sull’Ambrosiaster sosteneva che l’autore avesse poca o nessuna conoscenza del greco ; 6 inoltre, dal fatto che nel commento a Rm 5, 14 l’Ambrosiaster rifiutasse la lezione offerta dai codici greci, deduceva la sua avversione per le auctoritates greche e riteneva fortemente improbabile che ne avesse fatto uso. Questa opinione è stata accolta in tempi più recenti anche da A. Pollastri : anche la studiosa ritiene plausibile che l’Ambrosiaster avesse solo una conoscenza approssimativa del greco. 7 Tuttavia lo stesso Souter mutò in seguito opinione : infatti, nel suo studio sui più antichi commenti in lingua latina alle epistole paoline, pur sottolineando come l’Ambrosiaster non faccia alcun uso del metodo di interpretazione allegorico e si mostri piuttosto ostile nei confronti degli autori greci, riconosce tuttavia la possibilità che il commen 























   







1  Vd. Morin, Hilarius-Ambrosiaster, « Rben », 21, 1903, pp. 113-121. 2  Vd. Morin, Qui est l’Ambrosiaster ? Solution Nouvelle, « Rben », 31, 1914, pp. 1-34 ; pochi anni dopo lo studioso avanzò un’ultima ipotesi, proponendo di identificare l’anonimo autore del Commentarius con un certo Claudio Callisto Ilario, personaggio nominato nell’iscrizione 31965, c.i.l. vi, 4, 2 (vd. Una nuova possibilità a proposito dell’Ambrosiastro, « Athenaeum », 6, 1918, pp. 62-71). 3  Vd. E. W. Watson, Pseudo-Augustini Quaestiones Veteris et Novi Testamenti, recensuit Alexander Souter, Vindobonae, Tempsky - Lipsiae, Freytag, 1908, « cr », 23, 1909, p. 237. 4  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 44-49. 5  Vd. Smith, art. cit., pp. 167-168. 6  Vd. Souter, A study, cit., pag. 200. 7  Vd. Pollastri, op. cit., p. 17.  



















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tatore abbia fatto ricorso anche a materiale greco e in particolar modo ad Origene. 1 Inoltre, come abbiamo visto, in questa sede lo studioso ritiene probabile la proposta di Morin di identificare l’Ambrosiaster con Evagrio di Antiochia. Senza pretendere di dare un’identità precisa all’anonimo autore, resta il fatto che egli mostra di avere una certa familiarità con i codici greci 2 e, dato ancor più significativo, la sua opera mostra notevoli punti di contatto con il commento di Origene : ritengo assai probabile che l’Ambrosiaster abbia fatto uso di Origene per la stesura del suo Commentarius, un dato, questo, che avremo modo di valutare nel corso della trattazione. Se così stanno le cose, egli doveva avere una buona conoscenza del greco, non potendo leggere Origene in traduzione. Per quanto riguarda la struttura del Commentarius, riscontriamo un metodo di lavoro che verrà successivamente seguito anche da Pelagio : l’Ambrosiaster analizza singoli versetti o più versetti riuniti insieme, facendo seguire ad ogni lemma il proprio commento, di solito non troppo esteso. L’autore predilige il metodo di interpretazione letterale : si attiene al significato immediato del testo, senza ricercare nelle parole un senso recondito. Lo stile è semplice, scarno, privo di ornamenti, caratterizzato dall’uso di un linguaggio colloquiale ; le regole della sintassi non sono sempre rispettate : questo dato, unito ad una certa tendenza alla brevità di espressione, rende la lettura talvolta faticosa. 3 La tradizione manoscritta dell’opera risulta estremamente complessa : possediamo, infatti, 72 codici che presentano fra loro differenze non trascurabili. Il primo a dedicarsi ad uno studio attento dei manoscritti fu il Brewer, anche se fu il Souter a renderne noti i risultati ; 4 secondo i due studiosi esistono tre diverse edizioni del commento alla lettera ai Romani, due dei commenti alla prima e alla seconda lettera ai Corinzi, mentre i restanti commenti sopravvivono in un’unica recensione : queste edizioni sono da attribuire tutte ad un unico autore. La prima edizione (a), trasmessa in forma anonima, ma in alcune copie attribuita a Hilarius, contiene i commenti ai Romani e alle altre epistole, eccetto Galati, Efesini e Filippesi. I sei manoscritti principali che la attestano 5 riportano tutti il commento ai Romani in una forma non completa (si interrompono a Rm 16, 19) e presentano i commenti alle varie epistole nella stessa successione. La seconda (b) è attestata dal maggior numero di manoscritti ed è trasmessa sotto il nome di Ambrogio ; presenta rispetto alla prima una revisione di Rm e 1-2Cor, e aggiunge il commento a Galati, Efesini e Filippesi, assente nella prima. La terza (g), infine, in forma anonima, contiene una terza revisione di Rm e ripropone gli altri commentarii nella stessa forma in cui apparivano nella seconda edizione. Per quanto riguarda in particolare il commento alla lettera ai Romani, la rec. a presenta la forma più breve, la rec. b invece la più ampia : manca, infatti, di alcuni tratti di a, ma ne presenta altri di estensione maggiore ; g presenta un commento lievemente più breve rispetto a quello di b, ma comunque molto simile ad esso : il Vogels nota come le differenze siano dovute soprattutto a motivi stilistici. Secondo Vogels a rappresente 

















   













1  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 65-66. 2  Vd. Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, p. 177. 3  Per un’analisi dello stile e della lingua dell’Ambrosiaster vd. A. Souter, A study, cit., pp. 63-148 ; The earliest, cit., pp. 84-95 ; M. Zelzer, Zur Sprache des Ambrosiaster, « ws », n.f. 4, 1970, pp. 196-213, Pollastri, op. cit., pp. 15-17. 4  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 49-59. 5  Cod. Monacensis 6265 (ix sec.) ; cod. Salzburgensis a ix 25 (ix sec.) ; cod. Coloniensis 34 (sec. x) ; cod. Godvicensis 42 (xii sec.) ; cod. Zwettlensis 33 (xii sec.) ; cod. Veronensis 75 (ix sec.) : vd. Vogels, op. cit., i, p. xxiii.  



















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rebbe la prima stesura dell’opera, ampliata successivamente dal suo autore, g l’ultima, mentre b occuperebbe una posizione intermedia : spesso, infatti, le parti mancanti in a e presenti in b e in g sembrano voler confermare o chiarire con nuovi argomenti il tema trattato. 1 Resta ora da affrontare la trattazione di un’altra opera cui abbiamo già accennato : le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti. Si tratta di una raccolta composita : la maggior parte dei testi è dedicata all’interpretazione di passi particolarmente difficili della Scrittura, e rientra dunque nel genere delle quaestiones, ma vi sono anche veri e propri trattati, di maggiore estensione, dedicati ad argomenti filosofici o teologici, oppure di carattere polemico o apologetico ; l’impressione che abbiamo è quella, come ha osservato Simonetti, di trovarsi di fronte a “una massa di membra disiecta appartenenti ad opere e raccolte diverse, raccozzati insieme dall’autore o chi per lui”. 2 Gli studi condotti da Souter sullo stile e la lingua delle varie quaestiones hanno dimostrato che esse appartengono ad uno stesso autore, 3 un dato che possiamo ormai considerare certo. L’opera assume una particolare importanza, dal momento che rappresenta per noi la prima attestazione in Occidente di questo genere letterario, che aveva goduto di grande fortuna nella letteratura profana, per poi essere applicato alla Scrittura a partire da Filone Alessandrino. 4 Le Quaestiones ci sono state tramandate sotto il nome di Agostino : il fatto che fra le opere originali del vescovo di Cartagine ve ne siano diverse che contengono la parola quaestio nel titolo (De diversis quaestionibus lxxxiii liber unus, De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri duo, De octo Dulcitii Quaestionibus liber unus) può aver favorito l’errore di attribuzione. 5 Souter, nella sua monografia sull’Ambrosiaster, condusse un confronto minuzioso fra le Quaestiones e il Commentarius, analizzando le immagini, le citazioni scritturistiche, lo stile, la lingua, il pensiero : lo studioso rilevò corrispondenze a livello lessicale, sintattico e concettuale talmente numerose da lasciare pochi dubbi sulla comune paternità dei due scritti. Lo stesso Souter curò successivamente l’edizione critica  





















1  Vd. Souter, The earliest, cit., pp. 49-63 ; Pollastri, op. cit., pp. 5-7 ; Vogels, op. cit., pp. xviii-lvi. 2  Vd. M. Simonetti, Lettera e/o allegoria. Un contributo alla storia dell’esegesi patristica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1985, p. 244. 3  Vd. Souter, A study, cit., pp. 10 sg. 4  G. Bardy ha evidenziato una parentela del genere delle Quaestiones et Responsiones non solo con le aporie filosofiche, ma anche con l’esegesi omerica degli Alessandrini ; ha inoltre ritenuto che sullo sviluppo di questo genere letterario abbiano esercitato un notevole influsso i commenti alla Bibbia di Filone Alessandrino (vd. La littérature patristique des ‘Quaestiones et Responsiones’, « Rben », 41, 1932, pp. 211-217). A. Mutzenbecher, nella sua introduzione al De diversis quaestionibus ad Simplicianum di Agostino (ccsl 44, Turnhout 1970, p. ix) fa invece risalire le quaestiones cristiane ai commenti letterari, senza prendere in considerazione i problemata di carattere filosofico. L’apporto dei commenti di Filone alla conoscenza del genere delle quaestiones presso i Padri della Chiesa fu notevolmente ridimensionato da H. Dörries, il quale riteneva che l’origine di questo genere nella letteratura cristiana andasse ricercata nella tradizione cristiana delle consultazioni dei monaci del deserto (vd. Erotapokriseis, Reallexikon für Antike und Christentum vi, 1964, col. 347). Anche L. Perrone ritiene che non sia corretto affermare una dipendenza diretta da Filone per le questioni cristiane, sottolineando le differenze fra le « Questioni su Genesi ed Esodo » di Filone e le Quaestiones Evangelicae di Eusebio di Cesarea, che rappresenta per noi il primo testimone del genere nella letteratura patristica (vd. L. Perrone, Sulla preistoria delle ‘quaestiones’ nella letteratura patristica. Presupposti e sviluppi del genere letterario fino al iv secolo, « AnnSE », 8, 1991, pp. 490-498). Altri hanno invece voluto ricondurre il genere ai midrash rabbinici (vd. A. G. Wright, Midrash. The Literary Genre, Staten Island, ny, Alba House, 1967, p. 71) : vd. M.-P. Bussiéres, Ambrosiaster. Contre les Païens, cit., pp. 50-51. Su questo genere letterario e sulle sue origini vd. H. Dörrie, Erotapokriseis. A. Nichtchristlich, Reallexikon für Antike und Christentum vi, 1966, col. 342-347 ; H. Dörries, Erotapokriseis. B. Christlich, ibid., col. 348-370 ; G. Bardy, La littérature patristique, cit., « Rben », 41, 1932, pp. 210-236 ; 341-369 ; 515-537 ; « Rben », 42, 1933, pp. 14-30 ; 211-229 ; 328-352 ; L. Perrone, art. cit., pp. 485-505 ; A. Volgers, C. Zamagni (ed.), Erotapokriseis : Early Christian Question-and-Answer Literature in Context, Leuven, Peeters, 2004. 5  Vd. Souter, A study, cit., pp. 8-9.  















































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delle Quaestiones, comparsa nel Corpus di Vienna nel 1908 : 1 l’edizione fu preceduta da un primo fondamentale contributo sul problema della trasmissione testuale dell’opera, che costituirà poi la base dei prolegomena dell’edizione critica. 2 Le Quaestiones, infatti, presentano una tradizione testuale estremamente complessa, essendoci giunte in tre recensioni. La prima è formata da 150 quaestiones (in origine dovevano essere 151, ma l’ultima, purtroppo, è andata perduta) di cui 56 ex Veteri Testamento e 94 ex Novo Testamento ; la seconda è formata invece da 127 quaestiones, 47 dell’Antico Testamento, 50 del Nuovo, e le ultime trenta raccolte dagli editori in una sezione a parte intitolata Ex utroque mixtim ; la terza recensione, infine, è costituita da 115 quaestiones, 38 dell’Antico Testamento e 56 del Nuovo, cui se ne aggiungono altre 21 numerate separatamente. Le quaestiones di quest’ultima recensione sono presenti in entrambe le raccolte più lunghe : Souter è propenso a credere che si tratti di una compilazione realizzata nel Medio Evo a partire dalle prime due collezioni. 3 Le prime due recensioni sono fra loro abbastanza simili : è probabile che le varie quaestiones siano circolate indipendentemente le une dalle altre in forma anonima, e, dopo una prima diffusione, siano state raccolte in un corpus dall’autore o da qualche compilatore successivo ; 4 è difficile, dunque, stabilire, per una stessa quaestio, quale delle due recensioni sia più attendibile. Come avremo modo di vedere nel corso della trattazione, anche le Quaestiones hanno offerto interessanti spunti di riflessione per la nostra indagine, nonostante il Commentarius rimanga il testo privilegiato per un confronto con le Expositiones, vista l’appartenenza al medesimo genere letterario.    













   

3. L’anonimo di Budapest Nell’introduzione al presente lavoro abbiamo accennato ad un commento anonimo a tutte le epistole di Paolo, precedente alle Expositiones di Pelagio. 5 Il commento anonimo fu scoperto ed edito da H. J. Frede ; 6 il testo è tràdito in parte da un manoscritto dell’Hungarian National Museum di Budapest, Codex latinus medii aevi I, e in parte da un gruppo di manoscritti interpolati del commento di Pelagio, noti come i manoscritti dello Pseudo-Gerolamo (H), nei quali il testo del commento anonimo è interpolato non solo con le osservazioni di Pelagio, ma anche con le note di un revisore pelagiano : secondo Frede, è probabile che poco dopo la stesura dell’opera di Pelagio, qualcuno abbia realizzato una compilazione dei due commenti, introducendo nel testo originale delle Expositiones osservazioni tratte dal commento dell’Anonimo. Questa compilazione non presenta alcuna presa di posizione dogmatica pro o contro Pelagio, e può essere datata in maniera plausibile al 412 circa, quando la polemica contro gli insegnamenti di Pelagio e Celestio non era ancora divampata.  

   



1  Pseudo-Augustini Quaestiones Veteris et Novi Testamenti CXXVII, recensuit A. Souter, Vindobonae, Tempsky - Lipsiae, Freytag, 1908 (csel 50). 2  Vd. A. Souter, De codicibus manu scriptis Augustini quae feruntur Quaestionum Veteris et Novi Testamenti CXXVII, Wien, C. Gerold’s Sohn, 1905 (« Sitzungsberichte der Kais. Akademie der Wissenschaften in Wien », 149), pp. 1-25. 3  Vd. Souter, Pseudo-Augustini Quaestiones, cit., p. xi ; xxxiii. 4  Vd. Souter, Ps.-Augustini Quaestiones, cit., pp. xxi ; Idem, A study, cit., p. 11 ; 189 ; C. Martini, op. cit., pp. 19-20 ; De ordinatione duarum Collectionum quibus Ambrosiastri ‘Quaestiones’ traduntur, « Antonianum », 22, 1947, pp. 25-26. 5  Vd. p. 2. 6  H. J. Frede, Ein neuer Paulus text und Kommentar (« Vetus Latina : Die reste der altlateinischen Bibel, Aus der Geschichte der lateinischen Bibel »), i, no. 7 : Untersuchungen, Freiburg, Herder, 1973 ; ii, no. 7 : Die Texte, Freiburg, Herder, 1974.  





























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Successivamente, la compilazione fu edita da un pelagiano, che rielaborò le osservazioni tratte dal commento anonimo e ne aggiunse delle nuove a sostegno della prospettiva di Pelagio. Questa revisione, che prese il nome di “Pseudo-Gerolamo” dai manoscritti in cui fu trovata, fu completata prima del 432, quando si trova citata nel Praedestinatus. 1 Il commento anonimo è stato scritto fra il 396 e il 405, probabilmente a Roma : il terminus post quem è fissato da un’allusione, in 1Cor 12A, alla Hebraica veritas, menzionata da Gerolamo nell’epistola 57 a Pammachio e nel prologo della traduzione latina del Chronicon di Eusebio, entrambi databili fra il 395 e il 396 ; 2 il terminus ante quem, invece, è stabilito in base alla citazione che del commento anonimo fa Pelagio nell’interpretazione di Rm 8, 19. 3 L’autore mostra una certa familiarità con la tradizione esegetica greca, che divenne sempre più autorevole in Occidente verso la fine del iv secolo : l’opera risulta, infatti, influenzata da Origene, che l’anonimo doveva conoscere nell’originale greco, anche se non indulge mai al metodo di interpretazione alessandrino e ricorda piuttosto, nello stile, gli Antiocheni. 4 Nelle sue caratteristiche formali il commento anonimo si avvicina molto al lavoro esegetico di Pelagio : brevi note che offrono spiegazioni letterali dei singoli lemmi. Nell’opera ampio spazio doveva essere dato alla polemica contro gli eretici : nei frammenti rimasti, infatti, sono numerosi i passi che contengono riferimenti a dottrine eretiche. 5 Data la mancanza di dati certi, è molto difficile attribuire un’identità all’anonimo autore ; risulta interessante a questo proposito l’ipotesi avanzata da T. De Bruyn. 6 Secondo lo studioso, l’anonimo potrebbe essere identificato con Costanzo, personaggio ricordato nel primo libro del Praedestinatus, opera composta a Roma fra il 432 e il 435, che include nel suo catalogo di eresie una discussione sul Pelagianesimo. L’autore, probabilmente Arnobio il Giovane, 7 prende in esame gli atti del concilio di Cartagine del 411, descrive la situazione a Roma nel periodo in cui Pelagio e Celestio furono condannati da Innocenzo I e affronta alcune tematiche della controversia. Nel suo resoconto viene ricordato un certo Costanzo, che sarebbe stato il primo a tentare di controbattere alle tesi di Pelagio e Celestio. 8 Costanzo viene definito tractator, termine con cui nel latino cristiano si indica solitamente un predicatore abile nell’esegesi della Scrittura : 9  



   





















   

1  Vd. Frede, op. cit., pp. 192-197. Le interpolazioni dello ‘Pseudo-Gerolamo’ furono pubblicate da Souter nella terza parte della sua edizione del commento di Pelagio, e corrette successivamente da Frede, op. cit., i, pp. 164-185. 2  Vd. Frede, op. cit., i, 215-217. 3  Vd. Frede, op. cit., i, 200-205. 4  Vd. Frede, op. cit., i, p. 217. 5  Fra i nomi ricordati troviamo : Apollinaris (Eph 5), Arriani (1Cor 05), Carpocratiani (Rm 28B), Catafrigae (1Cor 36C ; 62E), Ebioni (1Cor 39D), Manichaei (Rm 017 ; 31A ; Eph 9), Montanus (1Cor 043) ; vd. Frede, op. cit., p. 219. 6  T. De Bruyn, Constantius the Tractator author of an anonymous commentary on the pauline epistles ?, « JThS », ns 43, 1992, pp. 38-54. 7  Per la datazione e la paternità dell’opera vd. M. Abel, Le Praedestinatus et le pélagianisme, « RecTh », 35, 1968, pp. 5-25. Ad Arnobio vanno con ogni probabilità attribuiti, oltre al Praedestinatus, anche i Commentarii in psalmos, il Conflictus Arnobii et Serapionis, il Libellus ad Gregorium e le Expositiunculae in Evangelium ; infatti, le differenze dottrinali fra i Commentarii e il Praedestinatus da una parte (caratterizzati da una tendenza semi-pelagiana), e il Conflictus dall’altra (che mostra invece un’adesione incondizionata alla dottrina agostiniana sulla grazia) possono essere spiegate con il tempo intercorso fra la stesura degli scritti, un periodo caratterizzato da varie vicende che portarono l’autore a modificare il suo giudizio sulla dottrina di Agostino : vd. Arnobio il Giovane. Disputa tra Arnobio e Serapione, edizione critica a cura di F. Gori, Torino, Corona Patrum, 1993, pp. 6-43. 8  Vd. Praed. i, 88 : Contra hos [sc. Pelagio e Celestio] suscepit sine scriptura quidam Constantius tractator. Post hunc autem, scripsit contra hos et Augustinus Hipponensis episcopus et Hieronymus presbyter Bethleites. 9  Vd. C. Mohrmann, Praedicare-Tractare-Sermo, in Études sur le latin des chrétiens, ii : Latin chrétien et médiéval, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961, pp. 63-72.  



























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alla fine del quarto secolo tractator è impiegato in maniera più specifica per indicare chi compone commenti sulle scritture. 1 Anche nell’Epitoma Chronicorum di Prospero d’Aquitania, testo contemporaneo al primo libro del Praedestinatus, si fa menzione di un Costanzo, ex vicario, che si oppose con forza al partito pelagiano. 2 Secondo De Bruyn non è da escludere un’identificazione del personaggio citato nelle due opere con il vescovo Costanzo, al quale Pelagio, come da lui stesso ricordato nell’epistola ad Innocenzo, avrebbe inviato una lettera in cui riconosceva la necessità della grazia. 3 Lo studioso propone, dunque, in via del tutto ipotetica, la seguente ricostruzione dei fatti : Costanzo avrebbe composto il suo commento in un periodo in cui la polemica intorno al peccato originale non era ancora divampata ; successivamente, quando gli aspetti principali della controversia risultarono più chiari, forse nello stesso periodo in cui Pelagio stava componendo a Roma il suo commentario, Costanzo avrebbe assunto una posizione più esplicita contro le dottrine di Celestio e Pelagio. Quest’ultimo, riconoscendo l’auctoritas di Costanzo, avrebbe tentato di chiarire il suo punto di vista in una lettera che successivamente incluse nell’epistola ad Innocenzo, ma senza ottenere risultati. 4 Tale ipotesi risulta senza dubbio suggestiva, anche se, di fatto, non è possibile portare a sostegno di essa prove inconfutabili : all’attuale stato degli studi, l’identità dell’anonimo di Budapest continua a rimanere oscura. Purtroppo del commento anonimo restano soltanto frammenti : su alcune questioni, tuttavia, e in particolar modo per quanto riguarda il tema del peccato originale, il testo sopravvissuto offre interessanti spunti di riflessione ed è risultato comunque utile per mettere in luce alcuni aspetti del pensiero di Pelagio.  















4. Agostino Includere Agostino fra le fonti di Pelagio può apparire singolare, viste le posizioni in molti casi diametralmente opposte dei due autori ; tuttavia, come già Souter osservava, 5 non dobbiamo dimenticare che Agostino ebbe modo di approfondire molti aspetti basilari della propria dottrina solo dopo il palesarsi delle posizioni pelagiane, nel corso della controversia ; inoltre, i suoi lavori esegetici dovevano godere di una certa fama, ed è difficile pensare che non siano stati tenuti in considerazione da Pelagio proprio nel momento in cui si accingeva ad intraprendere un’opera di commento alle epistole paoline. Ancora una volta si deve a Smith il merito di aver indagato per primo i rapporti fra i due autori : nell’articolo più volte citato, 6 lo studioso prendeva in considerazione due opere di Agostino, l’Expositio quarundam propositionum ex Epistula ad Romanos e l’Epistulae ad Romanos inchoata expositio, entrambe databili circa al 394 d.C. L’occasione della prima opera, come Agostino stesso ci informa, fu offerta dalle lezioni sull’Epistola ai Romani da lui tenute a Cartagine : alcuni ‘fratelli’ chiesero ad Agostino chiarimenti sul testo di Paolo e lo esortarono a porre per scritto le sue risposte. 7 La seconda opera, come il titolo stesso dice, si interrompe praticamente all’inizio, dal momento che si arresta alla spiegazione di Rm 1, 7 : l’intenzione dell’autore era quella di realizzare un  















1  Per i passi che testimoniano questo specifico uso del termine, vd. De Bruyn, art. cit., p. 41. 2  Vd. Epit. Chron. 1265, mgh AA 9. 468 : Hoc tempore Constantius servus Christi ex vicario Romae habitans et Pelagianis pro gratia dei devotissime renitens factione eorundem multa pertulit, quae illum sanctis confessoribus sociaverunt. 3  Vd. Aug., De grat. Chr. i, 35, 38 ; 37, 40. 4  Vd. De Bruyn, art. cit., p. 51. 5  Vd. Pelagius’s Expositions, cit., pag. 185. 6  Vd. art. cit., pp. 55-65. 7  Vd. Aug., Retr. i, 23.  



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commento di ampio respiro, ma, come egli stesso confessa, fu spaventato dalla difficoltà e dall’estensione del lavoro e preferì dedicarsi ad opere meno impegnative. 1 Incoraggiato dai risultati ottenuti e intuendo che il debito contratto da Pelagio con Agostino doveva essere più grande di quanto avesse immaginato, Smith proseguì la ricerca analizzando altre opere del vescovo di Ippona precedenti le Expositiones di Pelagio, in particolar modo il De libero arbitrio, il De diversis quaestionibus LXXXIII e il De diversis quaestionibus ad Simplicianum. Come testimoniano le Retractationes, 2 il trattato De libero arbitrio trae ispirazione da una discussione che ebbe luogo a Roma nel 388 fra Agostino e l’amico Evodio : il primo libro fu terminato nel corso dello stesso anno, mentre il secondo e terzo libro furono terminati al più tardi fra il 393 e il 395, dopo l’ordinazione sacerdotale dell’autore. Il tema principale del trattato, più che il libero arbitrio in sé, è il problema dell’origine del male : la preoccupazione di Agostino, infatti, sembra essere quella di contrastare le dottrine manichee, alla confutazione delle quali egli dedica in questo periodo gran parte della sua attività letteraria. 3 Le altre due opere menzionate appartengono invece al genere delle quaestiones et responsiones, che abbiamo già avuto modo di ricordare. La raccolta che ha per titolo De diversis Quaestionibus LXXXIII nasce da una serie di domande su argomenti vari (la natura dell’anima, l’origine del male, la Trinità, la cristologia, ecc.) poste ad Agostino dagli amici che condividevano con lui a Tagaste una vita di povertà, preghiera e studio : la composizione dell’opera, iniziata nel 388, si protrasse fino al 396. Al primo anno dell’episcopato di Agostino (397) appartiene probabilmente il De diversis quaestionibus ad Simplicianum : l’opera è, ai fini del nostro studio, particolarmente importante, perché Simpliciano, successore di Ambrogio sulla cattedra di Milano, chiede chiarimenti ad Agostino sull’interpretazione di alcuni passi dell’Epistola ai Romani, sollecitando la riflessione su temi fondamentali come la predestinazione e la salvezza, la legge e la grazia. Pur ammettendo di non aver avuto il tempo e l’energia necessari per un’indagine approfondita, Smith ritenne opportuno rendere noti alcuni risultati emersi da una sommaria lettura delle opere che abbiamo indicato in un articolo pubblicato in The Journal of Theological Studies, 4 che costituisce ancora un valido punto di partenza per una più attenta riflessione sui rapporti fra Agostino e Pelagio. Successivamente fu Torgny Bohlin, nel suo brillante saggio sulla genesi della teologia pelagiana, a riconsiderare il problema del rapporto fra Pelagio e Agostino ; 5 lo studioso concentrò la propria attenzione esclusivamente sul De libero arbitrio, individuando in quest’opera varie dottrine che potevano aver incontrato il favore di Pelagio ed influenzato il suo pensiero : in particolar modo egli riscontrava analogie fra i due autori nello spirito antimanicheo, nella valutazione del libero arbitrio e nella concezione della prescienza divina. Viste le prove addotte dai due studiosi, possiamo ormai affermare con una certa sicurezza che Pelagio conosceva, al momento della stesura delle Expositiones, le opere di Agostino : negli scritti del vescovo di Ippona egli poteva trovare un’analisi attenta del pensiero di San Paolo e l’elaborazione di concetti e categorie che costituivano indubbiamente dei forti stimoli alla riflessione teologica. Nel corso della trattazione ricorreremo più volte al confronto fra le Expositiones e le opere del vescovo di Ippona, tentando di approfondire e verificare i risultati di quanti ci hanno preceduto.  















   





1  Vd. Aug., Retr. i, 25. 2  Vd. Aug., Retr. i, 9. 3  Vd., ad esempio, il De moribus Ecclesiae catholicae e il De moribus manichaeorum, anch’esse databili al 388. 4  Pelagius and Augustine, « JThS », 31, 1929-1930, pp. 21-35. 5  T. Bohlin, Die Theologie des Pelagius und ihre Genesis, Uppsala-Wiesbaden, A.-B. Lundequist, 1957 (« Acta Universitatis Upsaliensis », 9), pp. 46-56.  







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Capitolo 2 LEX NATURAE : VALORE E SIGNIFICATO DEL CONCETTO DI ‘NATURA’ NELLE EXPOSITIONES  

1. Le radici stoiche del concetto di lex naturae

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no dei temi più importanti che emergono dalla lettura del commento di Pelagio all’Epistola ai Romani è quello del rapporto fra lex litterae e lex naturae. Prendendo spunto dalla riflessione di Paolo in Rm 1, 18-20, Pelagio elabora un sistema complesso, dove un ruolo di primo piano è svolto proprio dalla lex naturae in rapporto alla legge mosaica. In Rm 1, 18-20 Paolo afferma la capacità dell’uomo di conoscere Dio tramite la contemplazione del mondo creato : Dio, di per sé invisibile e inaccessibile nei suoi attributi, manifestò agli uomini le sue proprietà invisibili, la sua eterna potenza e divinità, tramite le proprie opere, ovvero in primo luogo tramite la creazione. Il tema della conoscenza attinta dal mondo creato è introdotto da Paolo essenzialmente ai fini della condanna dei pagani. In Rm 2, 14, infatti, l’Apostolo afferma che i pagani, che non hanno la legge mosaica, possono compiere in forza di una disposizione naturale interiore le azioni prescritte dalla legge, cosicché essi sono legge per se stessi. 1 I Pagani, dunque, pur non avendo la legge mosaica, hanno comunque avuto la possibilità di conoscere Dio e quindi di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è : la legge è scritta nei loro cuori, come attesta la loro coscienza, che vigila con la sua testimonianza imparziale, fatta di ragionamenti, di pensieri che si accusano o difendono a vicenda. 2 Di conseguenza anche i Pagani, come i Giudei, sono inescusabili e le loro azioni ricadono sotto il giudizio di Dio. Tuttavia, come ha notato giustamente Pohlenz, 3 Paolo svolge questa dottrina della conoscenza naturale di Dio e della osservanza naturale della legge, che come vedremo è di origine stoica, al solo fine di dimostrare che i pagani non avevano alcuna scusa per la loro idolatria e meritavano pienamente l’ira di Dio : questa tesi, secondo Pohlenz, pur non risultando nella teologia di Paolo come un corpo estraneo, si presenta tuttavia priva di saldi legami con l’organismo complessivo e non viene ripresa e approfondita altrove, fatta eccezione per alcuni brevi riferimenti. 4 Quello che negli scritti dell’Apostolo è un argomento trattato parzialmente e a fini polemici, in Pelagio diventa uno dei cardini della trattazione : la lex naturae è uno dei temi principali del Commento ai Romani, punto di partenza di riflessioni che saranno ricche di conseguenze negli sviluppi successivi della sua teologia. Commentando Rm 1, 19, Pelagio riprende la teoria di Paolo, approfondendo l’argomento mediante un’ampia dimostrazione, sviluppata in maniera chiara e rigorosa, procedendo per deduzioni e sillogismi : l’uomo sa ‘per natura’ che cos’è Dio e che Dio è giusto. Infatti, nessuna creatura presenta le caratteristiche di Dio (invisibile, incomprensibile, inestimabile, ecc.) : ne consegue logicamente che nessun elemento può essere identificato con Dio. Le creature esistenti, d’altra parte, sono sottoposte alla mutazione  



















1  Vd. Rm 2, 14. 2  Vd. Rm 2, 15. 3  M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 266-267. 4  Vd. Rm 1, 26 (para; fuvsin) e 1Cor 11, 14 (aujth; hJ fuvsi~ didavskei), dove il termine greco fuvsi~ è usato per indicare l’ordine naturale creato da Dio.

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capitolo 2

e al cambiamento, che sono inconciliabili con l’eternità : proprio la loro mutabilità dimostra che sono state create. Ma è chiaro che non possono essersi create da sole, altrimenti avrebbero dovuto esistere prima ancora di essere create, che è assurdo. Dunque è evidente che sono state create da un autore, Dio, e che compiono non la loro volontà, ma la volontà del Signore, ai cui ordini non possono disobbedire. Ne consegue che la nozione di Dio può essere attinta dal mondo creato ; infatti, osservando la bellezza della creazione, l’intelligenza umana può arrivare a conoscere Dio. 1 È interessante osservare come, rispetto alla normale prassi del commento di Pelagio, caratterizzato, come abbiamo detto, da osservazioni brevi e concise, la dimostrazione della possibilità di dedurre l’esistenza di un Creatore tramite la riflessione e l’osservazione del creato viene sviluppata in maniera assai ampia, segno del particolare interesse dell’autore per questo tema ; è proprio in questa dimostrazione, del resto, che bisogna ricercare il presupposto logico per la definizione del concetto di lex naturae : se l’uomo è in grado di conoscere Dio, è in grado anche di intuirne la volontà e di uniformarvisi, distinguendo il bene dal male, ciò che è giusto da ciò che non lo è. Nelle Expositiones l’espressione lex naturae si trova per la prima volta, in opposizione a lex litterae, nel commento a Rm 2, 12, 2 dove si dovrà intendere per lex litterae la legge scritta di Mosè, mentre per lex naturae la capacità naturale dell’uomo di conoscere Dio e di sapere a quale condotta di vita attenersi. Infatti, l’uomo, anche senza la legge giudaica, ha in sé per natura la capacità di distinguere il bene dal male e di uniformarsi alla volontà di Dio, comportandosi da giusto : è la coscienza stessa, dal momento che è presa da inquietudine quando si commettono colpe e gioisce quando il peccato è vinto, ad attestare che la natura ha posto una legge nel cuore degli uomini. 3 Ci troviamo di fronte a due concetti di chiara matrice stoica : la possibilità di intuire l’esistenza di un creatore tramite la contemplazione del creato e la capacità innata di distinguere il bene dal male, che del primo presupposto è diretta conseguenza. Come ha osservato Pohlenz, 4 la spiritualità stoica era caratterizzata da un senso di stupore di fronte alla vastità e bellezza del cosmo : il finalismo dell’universo era per gli Stoici una prova inconfutabile dell’esistenza di una divinità che crea in modo conforme a ragione. L’esistenza della divinità è per gli Stoici un dato di fatto che si può dimostrare scientificamente. Tutti gli uomini hanno, infatti, una coscienza soggettiva della divinità ; 5 l’uomo non nasce avendo già in sé la perfetta conoscenza di Dio, ma fin dall’inizio è consapevole di essere dotato di una natura razionale e, allo stesso tempo, di non essere indipendente, ma di aver bisogno dell’aiuto degli altri : tali elementi lo spingono a formulare l’idea di un essere razionale superiore e onnipotente. Fra le ragioni che hanno originato l’idea della divinità, Cleante 6 poneva come principale la bellezza degli astri e l’ordine e la regolarità dei loro moti : dalla loro osservazione l’uomo deduce in maniera naturale l’idea che devono esistere un’intelligenza e delle forze infinitamente superiori alle sue, che un essere razionale, eterno e perfetto governa il mondo con la sua provvidenza.  





















   







1  Vd. Exp. in Rm 1, 19-20, pp. 13-14 Souter. 2  Exp. in Rm 2, 12, p. 22 Souter : ‘Quicumque enim sine lege peccaverunt, sine lege [et] peribunt, et quicumque in lege[m] peccaverunt, per legem iudicabuntur’. Sine lege litterae in lege naturae. Hic ‘peribunt’ et ‘iudicabuntur’ unum voluit intellegi, quia et qui perit per dei iudicium perit, et qui iudicatur peccator perit, sicut scriptum est : ‘quia peccatores peribunt’. Nam et similes illos facit, dicendo non auditores tantum legis iustos esse, sed factores, et paulo inferius dicit gentes in die domini iudicandas … 3  Exp. in Rm 2, 15, p. 23 Souter (vd. infra, p. 31). 4  Op. cit. i, pp. 184 sg. 5  Vd. Cic., Leg. i, 24. 6  svf i, 528 (Cic., Nat. deor. ii, 13-15) ; vd. anche svf ii, 1009 ; ii, 1010.  







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Un’altra testimonianza interessante è offerta da Cicerone, che in De natura deorum ii, 16 riporta la dimostrazione di Crisippo sull’esistenza degli dei, i cui passaggi logici richiamano alla mente la dimostrazione di Pelagio nel commento a Rm 1, 19 : nel mondo esistono delle cose, come i corpi celesti, che la mente, la ragione e le forze dell’uomo non sono in grado di produrre. Tuttavia, queste devono essere pur state create e ciò che le ha create deve essere necessariamente superiore all’uomo. Dal momento che nessuna creatura è superiore all’uomo, che è l’unico essere dotato di ragione, è chiaro che esiste un dio superiore all’uomo che ha creato l’universo. 1 In quanto creato da un essere razionale, eterno e perfetto, che tutto governa nella sua provvidenza, l’universo risulta razionalmente ordinato : l’uomo, dotato a sua volta di ragione, è parte di questo universo e realizza a pieno se stesso quando pone la sua razionalità in armonia con la razionalità del tutto. ‘Ragione’ e ‘natura’ : questi sono i due elementi che secondo gli stoici guidano tutta la morale, che risulta quindi naturale e universale. Come ha osservato Pohlenz, 2 nel pensiero greco il concetto di natura costituisce il punto di partenza e il punto di arrivo : la natura è la forza che con le sue leggi immutabili regola l’universo, ma è anche quella che determina l’essenza dell’uomo e fissa le regole del suo agire ; in questo modo la moralità viene a configurarsi come pieno sviluppo della natura razionale dell’uomo. Si delinea così il concetto di ‘legge naturale’ : esiste un lovgo~ comune della natura, 3 che svolge la funzione di legge naturale e universale. Secondo la testimonianza di Cicerone, il concetto di ‘legge di natura’ risale allo stesso Zenone, il quale riteneva che la legge di natura fosse divina e possedesse una forza che comanda di compiere il bene e vieta il contrario. 4 Crisippo, secondo quanto afferma Diogene Laerzio, 5 riteneva che vivere secondo virtù consistesse nel vivere secondo natura, senza nulla compiere di ciò che proibisce la legge comune a tutti, ovvero la retta ragione diffusa per tutto l’universo. La legge di natura è dunque concepita dagli Stoici come una capacità insita in tutti gli uomini, una sorta di istinto che la natura ha posto nell’animo umano e che consente di intuire ciò che deve essere fatto e ciò che deve essere evitato, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. 6 Queste definizioni del concetto di lex naturae che troviamo nelle fonti stoiche sembrano riecheggiate dalle parole di Pelagio nel commento a Rm 2, 15 (p. 23 Souter) :  

























‘Qui ostendunt opus legis scriptum in cordibus suis, testimonium reddente illis conscientia’. Natura agit legem in cordis [illis] per conscientiae testimonium. Sive : Conscientia testatur legem se habere timendo dum peccat et victis gratulando peccatis, etiam si nullum hominem vereatur ipse qui peccat.  

I riferimenti alla lex naturae nel commento ai Romani sono numerosissimi, anche se, fatta eccezione per il passo citato, non si trovano definizioni o spiegazioni estese di questo concetto : 7 come vedremo, il significato attribuito da Pelagio alla lex naturae emerge    

1  Vd. anche De Nat. deor. ii, 79 ; II, 87. 2  Op. cit., ii, p. 263. 3  Vd. svf ii, 937 : oJ koino;~ th`~ fuvsew~ lovgo~. 4  svf i, 162 (Cic., Nat deor. i, 36). 5  Diog. Laert., Vitae phil. vii, 88. 6  La definizione più chiara di questo concetto è forse quella offerta da Cicerone in De legibus i, 18 : Lex est ratio summa insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt prohibetque contraria ; vd. anche Leg. ii, 8 ; Resp. iii, 33 ; Fin. i, 31 ; Off. iii, 23. 7  Troviamo una definizione chiara in Exp. in Rm 7, 22 (p. 59 Souter) : Interior homo rationabilis et intelligibilis anima, quae consentit legi Dei ; lex enim eius est rationabiliter vivere et non duci inrationabilium animalium passionibus. Tuttavia questo passo è attestato soltanto in B, mentre non è presente in A : si tratta quasi sicuramente di una interpolazione successiva.  



















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capitolo 2

soprattutto nella contrapposizione con la legge mosaica. Nell’Epistula ad Demetriadem, 1 invece, questo tema verrà ripreso, approfondito e trattato in maniera più esplicita, con espressioni che ci potremmo aspettare in un trattato stoico :  



Est enim, inquam, in animis nostris naturalis quaedam (ut ita dixerim) sanctitas, quae par velut in arce animi praesidens, exercet mali bonique iudicium, et ut honestis rectisque actibus favet, ita sinistra opera condemnat, atque ad conscientiae testimonium diversas partes domestica quadam lege diiudicat … Huius legis, scribens ad Romanos, meminit Apostolus, quam omnibus hominibus insitam velut in quibusdam tabulis cordis scriptam esse testatur. 2  

È stato osservato come Pelagio sembri qui riprendere il seguente passo di Seneca :  

Sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos. 3  

In entrambi gli autori si pone in evidenza il carattere ‘sacro’ della coscienza : si tratta, come ha notato J. B. Valero, 4 non di una santità ‘conseguita’, ma di una santità ‘originaria’, che lega l’uomo a Dio come fonte di ogni bene. La coscienza testimonia questa santità, che è norma e giudizio della condotta umana. 5 Anche Seneca mette in luce questa connessione fra la coscienza e Dio : poco prima del passo riportato leggiamo : prope est a te deus, tecum est, intus est. 6 La presenza di elementi di origine stoica nella teologia di Pelagio è stata messa in luce da vari studiosi. 7 Del resto, come vedremo, già Gerolamo nel prologo del Dialogus adversus Pelagianos riconduceva all’ajpavqeia stoica la dottrina dell’impeccantia attribuita ai Pelagiani, 8 e nel corso del dialogo insisteva sull’influenza esercitata dalle dottrine di Crisippo e Zenone sul pensiero di Pelagio. Ricondurre le posizioni dell’avversario a idee proprie di dottrine e filosofie pagane era un metodo cui Gerolamo ricorreva frequentemente : basti ricordare il titolo di Epicurus Christianorum che egli attribuisce a Gioviniano. 9 Questo dato impone una certa cautela nell’accogliere la testimonianza dello Stridonense : non sarà superfluo indagare in che misura e con quali modalità Pelagio abbia attinto a dottrine stoiche. Interessante è a questo proposito l’articolo di Valero cui si è già fatto riferimento : l’autore, infatti, ritiene di poter individuare non solo delle generiche coincidenze ideologiche, ma anche dei veri e propri indizi letterari che metterebbero in stretta relazione Pelagio con il pensiero stoico. Valero insiste soprattutto sui concetti stoici di oijkeivwsi~ e constitutio-oJmologiva, dei quali ritiene di poter rintracciare in Pelagio precisi corrispettivi. L’oijkeivwsi~ è uno dei concetti fondamentali dell’etica stoica e nei suoi tratti essen 























1  Si tratta di una lettera indirizzata da Pelagio alla giovane Demetriade, appartenente alla famiglia degli Anici-Probi ; in seguito al sacco di Roma del 410, Demetriade insieme alla nonna Anicia Proba Faltonia e alla madre Giuliana si era rifugiata in Africa, e qui aveva deciso di compiere il voto della consacrazione verginale : la vicenda è ricordata da Gerolamo nell’epistola 130. Per consolidare Demetriade nella sua decisione Giuliana e Proba sollecitarono consigli e parole di incoraggiamento dai più insigni maestri di vita ascetica : Agostino, Gerolamo e Pelagio. Pelagio rispose all’appello componendo una lettera che si configura per estensione e contenuto come un vero e proprio trattato e rappresenta per noi il manifesto più compiuto del suo pensiero. 2  Ad Dem. i, pl 30, 20B. 3  Sen., Epist. 41, 2 ; vd. anche Epist. 43, 5 ; Epist. 97, 15. 4  J. B. Valero, El estoicismo de Pelagio, « ee », 57, 1982, pp. 39-63. 5  La testimonianza della coscienza è un argomento frequentemente addotto da Pelagio : vd. Exp. in 2Cor 1, 13, p. 235 Souter ; Exp. in 2Cor 3, 2, p. 244 Souter ; Exp. in Gal 6, 4, p. 339 Souter ; Exp. in 1Tm 1, 15, p. 477 Souter. 6  Sen. Epist. 41, 2. 7  Vd. M. Pohlenz, op. cit., pp. 390-394 ; M. Spanneut, op. cit., pp. 162-164 ; G. De Plinval, op. cit., pp. 202-206 ; M. Zappala, Stoicismo e Cristianesimo nell’etica pelagiana. La lettera di Pelagio a Demetriade, « Boll. di studi storicoreligiosi », 2, 1922, pp. 49-65. 8  Hier., Dial. adv. Pel., prol. 1 (vd. infra, pp. 175 sg). 9  Hier., Adv. Jovin. i, 1.  































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ziali risale probabilmente a Zenone stesso. La traduzione del termine, così come la sua interpretazione, risulta estremamente complessa : le testimonianze contrastanti degli autori antichi rendono l’espressione praticamente intraducibile ; il quadro è complicato dal fatto che, come accade per molti temi della dottrina stoica, anche in questo caso non sono giunte fino a noi trattazioni sistematiche che affrontino in maniera esaustiva il problema dell’oijkeivwsi~. 1 Nel pensiero stoico, infatti, l’espressione oijkeivwsi~ abbraccia più significati : può indicare coscienza di sé, affinità naturale, appropriazione. 2 Il termine implica tutta una gamma di sentimenti : il passaggio dall’amore di sé all’amore per gli altri, dall’amore per la propria città all’amore per l’umanità, l’interesse per le cose benefiche o per l’arte. Nel tentativo di fare chiarezza su un problema così complesso, possiamo assumere come punto di partenza la spiegazione che di questo concetto offre Diogene Laerzio, il quale utilizza a sua volta come fonte il primo libro del Peri; telw`n di Crisippo :  













Th;n de; prwvthn oJrmhvn fasi to; zw/`on i[scein ejpi; to; threi`n eJautov, oijkeiouvsh~ aujto; th`~ fuvsew~ ajp∆ ajrch`~, kaqav fhsin oJ Cruvsippo~ ejn tw/` prwvtw/ Peri; telw`n, prw`ton oijkei`on levgwn ei\nai panti; zw/vw/ th;n auJtou` suvstasin kai; th;n tauvth~ suneivdhsin: ou[te ga;r ajllotriw`sai eijko;~ h\n ` to; zw/`on, ou[te poihvsasan aujtov, mhvt∆ ajllotriw`sai mhvt∆ oijkeiw`sai. ∆Apoleivpeaujto; tai toivnun levgein susthsamevnhn aujto; oijkeiw`sai pro;~ eJautov: ou{tw ga;r tav te blavptonta diwqei`tai kai; ta; oijkei`a prosivetai. 3  

Per Crisippo il primo impulso (oJrmhv) che ogni animale presenta è quello all’autoconservazione : il prw`ton oijkei`on, il primo interesse, di ogni animale è la propria costituzione (suvstasi~) e la coscienza di sé (suneivdhsi~). In questo passo l’oijkeivwsi~ si delinea come istinto di conservazione : è quella forza che spinge ogni essere vivente a mantenere e sviluppare la propria natura. Infatti, per istinto l’essere vivente respinge ciò che per lui è dannoso, mentre ‘si appropria’ (oijkeiou`n), ‘si concilia’ con ciò che è necessario alla conservazione e allo sviluppo del suo essere, 4 ovvero con ciò che è conforme alla sua natura (ta; prw`ta kata; fuvsin 5) : all’oijkeivwsi~ gli Stoici contrappongono l’ajllotrivwsi~, ovvero il sentimento di repulsione che l’essere vivente prova per tutto ciò che gli è estraneo. 6  











1  Le nostre fonti principali sono date dai riferimenti contenuti in Cicerone e Seneca, dalle discussioni tendenziose che troviamo in detrattori del pensiero stoico come Plutarco e Alessandro di Afrodisia e dalle informazioni offerte da Diogene Laerzio. A queste dobbiamo aggiungere un trattato, ridotto a pochi frammenti di papiro, opera di Hierocles, filosofo stoico vissuto nel ii secolo d.C., probabilmente da identificare con lo stoicus, vir sanctus et gravis di cui parla Aulo Gellio (Noct. Att. ix, 5, 8) : il papiro, scoperto a Hermopolis nel 1901 e pubblicato da H. von Arnim nel 1906 (Hierokles. Ethische Elementarlehre, « Berliner Klassikertexte », iv, Berlin, 1906), conserva 300 linee di un’opera intitolata Elementi di Etica (hJqikhv stoiceivwsi~). Altri passi dell’opera di Hierocles sono stati conservati da Stobeo (Ecl. iv, 671 sg.) : vd. T. Brennan, The Stoic Life. Emotions, Duties and Fate, Oxford, Clarendon Press, 2006, pp. 154-155. 2  Oijkeivwsi~ è un nome verbale : il verbo oijkeiovw e l’aggettivo oijkei`o~ derivano entrambi dal termine oi\ko~, ‘casa’. Il termine oijkei`o~ viene dunque applicato sia a quanti sono membri della famiglia o hanno relazioni di sangue con i membri della famiglia sia a quanti sono legati a questa da vincoli di matrimonio o da legami di altro tipo. Nella sfera familiare oijkei`o~ denota anche la proprietà, quindi viene applicato per estensione a qualsiasi cosa appartenga ad una persona. L’aggettivo oijkei`o~ indica in generale ‘l’avere a che fare con la casa’, ‘l’avere a che fare con la famiglia’, e può di conseguenza indicare anche qualcosa per cui si sente affinità, affiliazione o familiarità, qualcosa che viene percepito come ‘nostro’, ‘proprio’ : vd. A. A. Long, Problems in Stoicism, London, The Athlone Press, 1971, pp. 115-116. 3  Vitae phil. vii, 85. 4  Vd. svf ii, 724 ; iii, 188. 5  Vd. svf iii, 140 ; 181. Vd. Cic., Fin. iii, 21 : Prima est enim conciliatio hominis ad ea, quae sunt secundum naturam. Vd. anche svf i, 552 ; iii, 5 ; 12 ; 15. 6  Vd. svf i, 197 (Porph., Abst. 3, 19) : toi`~ de; oujqevn ejstin aijsqhtovn, ou{tw~ de; oujde; ajllovtrion oujde; kako;n  

























oujde; blavbh ti~ oujde; ajdikiva. Kai; ga;r oijkeiwvsew~ pavsh~ kai; ajllotriwvsew~ ajrch; to; aijsqavnesqai. Th;n de; oijkeivwsin ajrch;n tivqentai dikaiosuvnh~ oiJ ajpo; Zhvnwno~.

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capitolo 2 Lo stesso concetto si trova espresso anche in Cicerone, che traduce i termini tecnici

oijkeiou`sqai prov~ e ajllotriou`sqai con conciliari e alienari :  

Placet his, inquit, quorum ratio mihi probatur, simulatque natum sit animal - hinc enim est ordiendum –, ipsum sibi conciliari et commendari ad se conservandum et ad suum statum eaque, quae conservantia sint eius status, diligenda, alienari autem ab interitu iisque rebus, quae interitum videantur adferre. 1  

L’oijkeivwsi~ si delinea, dunque, come inclinazione a conservare la propria esistenza e attaccamento a se stessi. Questo istinto è presente inizialmente anche nell’uomo, ma con il trascorrere del tempo assume una connotazione diversa : se l’oijkeivwsi~, come abbiamo visto, è quella forza che spinge ogni essere a conservare e sviluppare la propria natura, nel caso dell’uomo, la cui natura è caratterizzata dal lovgo~, l’oijkeivwsi~ si delineerà come impulso a sviluppare il proprio lovgo~ in una vita etico-spirituale. 2 Il concetto di oijkeivwsi~, dunque, è strettamente collegato a quello di oJmologiva o to; zh`n oJmologoumevnw~ : il primo designa la tendenza naturale che permette di realizzare la norma costituita dal secondo. Come abbiamo detto, tale istinto è presente anche nell’uomo, ma subisce nel tempo un’evoluzione : con il passare degli anni e lo svilupparsi del lovgo~, l’oijkeivwsi~ si volge ad esso come intima vera essenza dell’uomo, spingendolo a ricercare ciò che l’aiuta a vivere secondo la sua natura razionale. Si tratta appunto del concetto del to; zh`n oJmologoumevnw~, ovvero vivere in conformità, in armonia con la ragione. 3 L’espressione presa da sola indica il condurre una vita armoniosa, equilibrata e coerente, come sembra indicare anche la traduzione di Seneca, 4 vita concors sibi, mentre in Cleante e Crisippo si aggiunge una precisazione : oJmologoumevnw~ th/` fuvsei, 5 ‘vivere in conformità con la natura’, sia quella comune, sia quella specificamente umana, entrambe espressione del lovgo~ universale. L’oijkeivwsi~ ci appare, dunque, come un elemento fondamentale della dottrina stoica, che condiziona tutta l’etica : l’aspetto più interessante è forse dato dal fatto che questa teoria unisce razionalità e irrazionalità, istinto e ragione, oJrmhv e lovgo~. Tornando a Pelagio, secondo Valero 6 una ripresa del tema dell’oijkeivwsi~ stoica si può cogliere nel commento a Rm 5, 10 (p. 44 Souter) :  





















‘Si enim, cum inimici essemus, reconciliati sumus deo per mortem filii eius’ ... Inimici ergo actibus, non natura. Reconciliati autem quia conciliati naturaliter fueramus.

Nell’usare il verbo conciliare, con cui, come abbiamo visto, Cicerone traduce oijkeiou`n, Pelagio mostrerebbe l’intenzione di richiamarsi al concetto stoico : l’uomo ha una conciliazione naturale con Dio. Il termine di riferimento di questa conciliazione, Dio, dissimulerebbe appena il contenuto stoico dell’idea di ‘conciliazione con la natura’. Pelagio dunque, secondo Valero, concepisce la riconciliazione dell’uomo con Dio come restituzione dell’uomo alla sua conciliazione naturale con Dio, ovvero dell’uo 

1  Fin. iii, 16. 2  Vd. Sen., Epist. 121, 14 : ‘Dicitis’ inquit ‘omne animal primum constitutioni suae conciliari, hominis autem constitutionem rationalem esse et ideo conciliari hominem sibi non tamquam animali sed tamquam rationali ; ea enim parte sibi carus est homo qua homo est’. Vd. Brennan, op. cit., pp. 156-157 ; Long, op. cit., pp. 117-118 ; Pohlenz, op. cit., pp. 105-106. 3  Vd. svf i, 179 (Stob., Ecl. ii, p. 75, 11 W.) : To; de; tevlo~ oJ me;n Zhvnwn ou{tw~ ajpevdwke to; oJmologoumevnw~ zh`n: tou`to d∆ e[sti kaq∆ e{na lovgon kai; suvmfwnon zh`n, wJ~ tw`n macomevnw~ zwvntwn kakodaimonouvntwn. Come osserva Pohlenz (op. cit. i, p. 235), è probabile che Zenone avesse scelto il termine oJmologoumevnw~ per la sua connesione etimologica con lovgo~ : per to; oJmologoumevnw~ zh`n bisognerà allora intendere una condotta di vita in intima coerenza sotto la guida del lovgo~. 4  Epist. 89, 15. 5  Vd. svf iii, 4. 6  Art. cit., p. 47.  











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mo con la sua natura. La stessa idea sarebbe espressa in termini analoghi in un altro passo : 1    

Unde propheta praedixerat : ‘gratis venundatis estis, et sine pecunia redimemini’. Hoc est quia nihil pro vobis accepistis et Christi estis sanguine redimendi. Simul illut notandum quia redemit nos, non emit, quia ante per naturam ipsius fueramus, licet simus nostris ab eo alienati delictis.  

L’argomentazione di Valero non mi sembra fino in fondo convincente, soprattutto se il fine dello studioso è quello di individuare delle coincidenze letterarie che provino in maniera inconfutabile lo stoicismo di Pelagio. Infatti, non sono del tutto persuasa che l’uso del verbo conciliare sia stato determinato dalla volontà consapevole di richiamarsi all’oijkeiou`n degli Stoici. Già nel testo biblico Pelagio leggeva reconciliati sumus, traduzione del greco kathllavghmen : l’uso di questo termine può aver offerto lo spunto iniziale per una breve riflessione volta, come spesso avviene nel commento di Pelagio, a confutare posizioni manichee o gnostiche. L’autore, infatti, pone l’accento sul binomio actibus-natura : Pelagio non si lascia sfuggire l’occasione per sostenere con forza come l’allontanamento da Dio sia conseguenza delle azioni e della volontà dell’uomo : questo significa che l’uomo non è nemico di Dio per natura e che la sua natura non è di per sé malvagia. La stessa interpretazione si trova, sviluppata in forma più ampia, nel commento di Origene 2 che, come abbiamo detto, costituisce una delle fonti del commento di Pelagio. Reconciliare e conciliare sembrano avere dunque qui il significato generico di ‘riconciliare’ nel senso di ‘ritornare in amicizia’, ‘essere in amicizia’ : la riconciliazione con Dio non ha in questo contesto niente a che vedere con il concetto stoico di oijkeivwsi~ come impulso a ‘conciliarsi’ con ciò che ci è affine, a sviluppare la nostra natura, ma va intesa in senso letterale come recupero di un’amicizia con Dio un tempo posseduta e perduta in seguito al peccato. Per concludere, se nell’idea che la natura umana non è viziata dal male, ma anzi l’uomo è per sua natura portato a vivere in armonia con Dio, si possono rintracciare influenze della dottrina stoica, non coglierei tuttavia nel commento a Rm 5, 10 l’uso consapevole di termini tecnici dello stoicismo. Innegabili sono invece gli echi stoici che Valero individua nell’uso di termini come bonum conditionis o ordo naturae. 3 Già Gerolamo denunciava nel suo Dialogus adversus Pelagianos l’espressione ordo conditionis come prova della base stoica dell’argomentazione pelagiana. 4 Per Pelagio l’uomo deve attenersi all’ordine naturale delle cose, all’ordine della sua stessa natura, seguendo la regola in omnibus ordinem servans : 5 l’ordine della natura si delinea come norma oggettiva di ogni azione umana. Al contrario l’umanità che si è allontanata da Dio ha pervertito l’ordine della natura : omnem rationabilis naturae ordinem pervertit et perdidit. 6 Il termine ordo si trova talvolta sostituito dal termine modus, secondo l’idea, propria anche dello stoicismo, 7 che rispettare l’ordine naturale significa  













   







1  Exp. in Rm 3, 24, p. 33 Souter. 2  Orig., Expl. in Rom iv, 12, p. 354 Bammel : Quod dicit, ‘cum inimici essemus, reconciliati sumus Deo’, evidenter ostendit non esse aliquam substantiam, quae secundum definitionem Marcionis vel Valentini naturaliter inimica sit Deo : alioquin si quod inimicum est, naturae esset et non voluntatis, reconciliationem utique non haberet. 3  Art. cit., pp. 48 sg. ; vd. anche, dello stesso autore, Las bases antropológicas de Pelagio en su tratado de las Expositiones, Madrid, upcm, 1980, pp. 101-109. 4  Gerolamo sembra in effetti attribuire l’espressione a Pelagio, quando dice : quomodo in ceteris creaturis conditionis ordo servatur : sic concessa semel liberi arbitri potestate, nostrae voluntati omnia derelicta sunt (Dial. i, 5). 5  Exp. in 1Cor 13, 4, p. 204 Souter. 6  Exp. in Phil 2, 15, p. 401 Souter. 7  Vd. Sen., Epist. 92, 3 : Quid est beata vita ? ... Ad hanc quomodo pervenitur ? ... si veritas tota perspecta est, si servatus est in rebus agendis ordo, modus, decor.  















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capitolo 2

anche condurre una vita ispirata al principio di misura e moderazione : quidquid naturae modum excedit deliciis deputatur. 1 Secondo Valero, dunque, le espressioni bonum conditionis e ordo naturae rintracciabili in Pelagio corrispondono ai due concetti stoici di constitutio e oJmologiva. Il primo indica l’essenza costitutiva dell’uomo, essere per natura razionale, il secondo invece l’armonia, la condotta nell’agire, quell’unità di pensiero, desiderio e azione che non lascia emergere alcun dissidio interiore. Inoltre, è possibile cogliere echi del concetto stoico del to; zh`n oJmologoumevnw~ nell’uso ricorrente nelle Expositiones dei termini ratio, rationalis, rationabiliter. Bastino alcuni esempi : Omne opus bonum tunc placet deo si rationabiliter fiat ; 2 bona est oboedientia, sed si rationabilis sit ; 3 Libram in omnibus tenens et omnia rationabiliter et moderate dispensans ; 4 Sapientiae sermo est sapienter et apte ac rationabiliter loqui ; 5 Ut ipse det intellegendum quid quando vel cui rationabiliter debeat praedicari. 6 Possiamo dunque rintracciare nella teoria della conoscenza naturale di Dio, nel concetto di lex naturae e nell’uso insistito del termine ratio una dipendenza di Pelagio da certe dottrine e posizioni proprie della filosofia stoica. Ritengo tuttavia che Valero, come altri studiosi, insistendo sul fatto che Pelagio avrebbe utilizzato fonti stoiche dirette (in particolar modo Cicerone e Seneca), pur senza citarle esplicitamente, 7 finisca per non tenere nel dovuto conto l’influenza esercitata su di lui da altri autori cristiani, che hanno a loro volta utilizzato, assimilato e rielaborato le tesi etiche della Stoa. Il concetto di lex naturae, ad esempio, ha goduto di grande fortuna, risultando forse la più influente fra le dottrine stoiche : gli autori cristiani se ne impadronirono ben presto adattandola alle loro esigenze. Se il concetto di lex naturae in Pelagio affonda le sue radici nel pensiero stoico, il complesso sistema in cui è inserito in rapporto con la lex litterae e la lex fidei, trova precise corrispondenze in altri autori cristiani, in particolar modo nell’Ambrosiaster. Se questo contesto storico-dottrinale non viene tenuto presente, il rischio è di ridurre la figura di Pelagio a quella di un uomo che, per usare le parole di Zappala, 8 « nonostante la sua professione di Cristianesimo, è rimasto pagano nell’anima », giudizio a mio avviso troppo reciso e non corrispondente a verità, come avrò modo di mostrare meglio in seguito. Dunque, dopo aver individuato le origini stoiche dell’idea di lex naturae, passeremo ora a indagare come questo concetto sia stato recepito dagli autori cristiani : partendo dalle analogie fra Pelagio e gli autori di commenti alle epistole di Paolo che lo hanno preceduto, cercheremo di cogliere gli aspetti in cui il suo pensiero si discosta dalla visione dei suoi predecessori, nel tentativo di porre in luce quei tratti di originalità che già nel commento a Paolo preannunciano l’elaborazione di una teologia dal carattere fortemente distintivo.  





   

   

   

   















1  Exp. in 1Tim 5, 6, p. 494 Souter. 2  Exp. in Rm 12, 1, p. 94 Souter. 3  Exp. in Rm. 16, 20, p. 125 Souter. 4  Exp. in 1Tim 4, 6, p. 490 Souter. 5  Exp. in 1Cor 12, 8, p. 196 Souter. 6  Exp. in Col 4, 4, p. 470 Souter. 7  Vd. Valero, art. cit., pp. 60-63. 8  Art. cit., p. 61. Zappala trova molte analogie fra l’Epistola a Demetriade da una parte e l’epistolario di Seneca e il trattato De liberis educandis di Plutarco dall’altra, arrivando alla conclusione che il Cristianesimo di Pelagio è solo di superficie, mentre nell’intimo egli sarebbe rimasto legato alle più pure e nobili tradizioni dell’etica pagana, attribuendo all’uomo ogni capacità di bene e di male e la forza di vincere con la sola volontà ogni istinto malefico : in questo modo egli annullerebbe di fatto la necessità della grazia divina.  

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2. Il concetto di lex naturae negli autori cristiani La Stoa esercitò a lungo un’influenza decisiva sul mondo antico, offrendo agli uomini di cultura e alla classe dirigente un sistema coerente di valori cui improntare la propria vita. Come ha notato Pohlenz, 1 i Cristiani dovettero rendersi presto conto di una certa affinità fra la loro fede e alcuni aspetti della dottrina stoica, in particolar modo per quanto riguarda il piano etico : si pensi ad esempio al disprezzo dei beni materiali e all’idea di un giudizio morale che si esercita anche sui più profondi moti del cuore. I due concetti stoici, strettamente connessi fra loro, che abbiamo analizzato, ovvero l’idea di un mondo razionalmente ordinato e di una ‘legge naturale’, vengono ripresi e rielaborati da numerosi autori Cristiani. In Ireneo di Lione, ad esempio, si trova espressa chiaramente l’idea secondo cui le creature hanno percezione del loro creatore :  





Necesse est igitur ea quae providentur et gubernantur cognoscere suum rectorem, quae quidem non sunt irrationabilia neque vana, sed habent sensibilitatem perceptam de providentia dei. 2  

La convinzione della possibilità di intuire l’esistenza di Dio tramite la contemplazione della natura è propria anche di Aristide, per il quale l’ordine mirabile dell’universo presuppone un autore, Dio, che ha costituito e governa tutte le cose. 3 Anche per Atenagora Dio può essere compreso nw/` movnw/ kai; lovgw/. 4 Il problema della conoscenza di Dio è ampiamente dibattuto in Tertulliano : Dio, invisibile, incomprensibile, inestimabile, sfugge ai nostri sguardi e alla nostra comprensione, ma allo stesso tempo la sua grandezza si impone con una evidenza che condanna quanti volontariamente lo ignorano. 5 Tertulliano individua due mezzi per conoscere Dio : la Sua esistenza può essere intuita ex operibus ipsius, 6 ma allo stesso tempo è rivelata dalla testimonianza dell’anima, che nel suo stato schiettamente naturale, quando ancora non è suggestionata dalle opinioni umane, dai pregiudizi, si appella ad un Dio unico, buono, e al tempo stesso giudice del bene e del male. 7 Per Tertulliano la fede si fonda essenzialmente su « nozioni comuni e argomenti giusti », 8 in quanto tutti gli uomini « per natura » (naturaliter) intuiscono l’esistenza di una entità superiore ed eterna. 9 I riferimenti ai precetti naturali comuni a tutti gli uomini ricorrono frequentemente anche in Ireneo :  



























Et qui Dominus naturalia legis, per quae homo iustificatur, quae etiam ante legislationem custodiebant qui fide iustificabantur et placebant Deo, non dissolvit, sed et extendit et implevit. 10  

Anche in Atenagora e Giustino Martire si riscontra un modo di intendere la ‘legge naturale’ vicino alla concezione stoica : Atenagora definisce gli uomini come « esseri che operano secondo una legge e una ragione innata in loro », 11 mentre Giustino sottolinea come tutti gli uomini siano in grado di distinguere ciò che è giusto e ciò che non lo è, a meno che, corrotti da una cattiva educazione e da costumi malvagi, non abbiano per 







  1 

Op. cit. ii, p. 261. 2  Adv. Haer. iii, 25, 1. 3  Vd. Ap. i, 1, 1-2. Vd. Leg. 4. 5  Vd. Ap. 17, 2-3.   6  Ap. 17, 4 ; Vd. anche Res. 2, 8 ; Paen. 5, 4 ; Adv. Marc. i, 10, 1 ; ii, 5, 3. 7  Ap. 17, 5-6.   8  Adv. Marc. 16, 2. 9  Vd. Adv. Marc. i, 3, 2 ; Res. 3, 1 ; Ad Scap. 2, 1. 10  Vd. anche Adv. Haer. iv, 13, 4 : Quia igitur naturalia omnia praecepta communia sunt nobis et illis, in illis quidem initium et ortum habuerunt, in nobis autem augmentum et adimpletionem perceperunt … ; 15, 1 ; 16, 5. 11  Res. 24, 4.   4 



















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so le nozioni naturali (fusikai; e[nnoiai). 1 In maniera analoga Clemente Alessandrino pone come fine per i Cristiani una vita in conformità con il lovgo~ : 2 Dio ha creato l’universo tramite il Suo lovgo~ e l’uomo, creato ad immagine di Dio, deve compiere belle azioni tramite la parte « logica » della sua anima ; 3 al contrario il peccato si configura come atto contrario al lovgo~. 4 Il concetto di ‘legge naturale’ viene spesso utilizzato dagli autori cristiani in relazione ai patriarchi ; per spiegare come Abramo, Isacco, Giacobbe riuscirono a essere giusti e graditi a Dio senza che ancora fosse stata data alcuna legge scritta cui attenersi, i padri della Chiesa fanno ricorso al concetto stoico della legge interiore, che guida l’uomo indirizzandolo verso giuste azioni : i patriarchi avevano una legge iscritta nei loro cuori, che ha permesso loro di attenersi alla volontà di Dio prima ancora dell’avvento della legge giudaica. Questa convinzione trova chiara espressione ancora una volta in Ireneo :  

   





   









Iusti autem patres, virtutem decalogi conscriptam habentes in cordibus et animabus suis, diligentes scilicet Deum qui fecit eos et abstinentes erga proximum ab iniustitia, propter quod non fuit necesse admoneri eos correptoriis litteris, quoniam habebant in semetipsis iustitiam legis. 5  

La stessa idea è ribadita anche in Giustino, il quale giunge a sostenere che non solo i patriarchi, ma tutti gli uomini che come loro, prima dell’avvento della legge giudaica, hanno compiuto ciò che è universalmente, per natura ed eternamente bello, sono destinati a salvarsi tramite Cristo nell’ora della resurrezione, insieme a coloro che hanno riconosciuto il Figlio di Dio. 6 In maniera ancora più esplicita, nella prima Apologia, Giustino dichiara che tutti coloro che sono vissuti in conformità con la ragione sono Cristiani, anche se sono stati giudicati atei, come Socrate ed Eraclito fra i Greci, Abramo, Azaria, Anania, Misaele e Elia fra i barbari. 7 Come ultimo esempio, possiamo ricordare il passo in cui Atanasio riconosce come siano esistiti uomini santi e puri, liberi da ogni colpa, nonostante la natura umana resti debole, mortale e sottoposta alle passioni in seguito al peccato di Adamo. 8 Il problema dei giusti vissuti prima dell’avvento della legge mosaica assumerà in Pelagio particolare importanza e verrà letto, come avremo modo di vedere fra breve, in una chiave nuova, offrendo spunti per riflessioni che avranno notevoli conseguenze nello sviluppo futuro della sua teologia. I riferimenti alla legge naturale sono presenti anche in altri autori cristiani, come Ambrogio 9 e Gaudenzio, 10 per citarne alcuni : ricordare tutti i passi e gli autori in cui si può cogliere una ripresa di questo tema sarebbe impresa ardua che ci porterebbe lontano dall’oggetto della nostra indagine. L’importante è capire che Pelagio, quando riprende il concetto di lex naturae facendone uno dei temi più importanti del suo commento a San Paolo, non attinge soltanto alla tradizione stoica, ma si inserisce anche in una lunga tradizione di autori cristiani, che avevano ripreso questa idea rielaborandola nel contesto della nuova fede e arricchendola di nuovi significati, soprattutto alla luce del rapporto con la legge mosaica ; infatti, il concetto stoico originale, sebbene espresso in termini analoghi, subisce una trasformazione di fondo : nella concezione stoica la fuvsi~ è quella forza universale e sovrana che secondo le proprie leggi immanenti regola il divenire naturale e non ammette alcun intervento dall’esterno, mentre la moralità,  















1  Dial. 93, 1 ; vd. anche Ap. ii, 14, 2. 4  Paed. i, 101, 1. 7  Ap. i, 46, 3. 9  Vd. De Fuga 15 ; Exp. Sal. 36, 69 ; 37, 32.  







2  Strom. ii, 134, 2. 3  Strom. vi, 136, 3. 5  Adv. Haer. iv, 16, 3. 6  Dial. 45, 4. 8  Orat. III contra Arianos 33, 1-2. 10  Vd. Serm. 10, 18.

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come abbiamo visto, coincide con la piena esplicazione della natura umana ; ad ordinare all’uomo ciò che deve fare non è un dio posto sopra di lui, ma la sua propria natura e la legge naturale. Negli autori cristiani invece, a partire da Paolo, il novmo~ non è più la legge razionale degli Stoici, ma diviene la legge data da Dio e iscritta nel cuore degli uomini : la legge naturale è dono di Dio all’uomo e caratterizza la natura umana per volontà di Dio. 1 Dopo il quadro generale che abbiamo delineato, è opportuno ora indagare nello specifico il rapporto fra Pelagio e le sue fonti relativamente al tema della ‘legge naturale’ ; in particolare, prenderemo in considerazione l’Ambrosiaster e Origene : i due autori, infatti, hanno mostrato più di altri interesse per questa problematica, dedicando ad essa ampio spazio nei loro scritti. Soprattutto cercheremo di valutare quale relazione i commentatori stabiliscano fra lex naturae, lex litterae e lex fidei, e in che misura le categorie da essi elaborate siano state riprese da Pelagio e piegate alle esigenze di una diversa sensibilità.  









3. Il rapporto lex naturae-lex litterae in Ambrosiaster e Pelagio Come abbiamo già avuto modo di osservare, nel suo studio sulle fonti latine delle Expositiones Smith ha ampiamente dimostrato la dipendenza di Pelagio dall’Ambrosiaster : 2 entrambi gli autori scrivono brevi e precise osservazioni (in Pelagio si riscontra in genere una maggiore concisione), entrambi tendono ad evitare il metodo di interpretazione alessandrino o allegorico, entrambi stigmatizzano le posizioni eretiche più diffuse al tempo, in molti casi si giunge a vere e proprie corrispondenze nel lessico e nella struttura della frase. Tuttavia, al di là delle coincidenze verbali e delle questioni di metodo interpretativo, quel che più interessa ai fini della nostra trattazione è capire in che misura alcuni aspetti del pensiero di Pelagio trovino riscontro nel Commento dell’Ambrosiaster, dato questo a cui Smith dedica scarsa attenzione. Per quanto riguarda, ad esempio, il rapporto fra lex naturae e lex litterae, un confronto fra i due commenti è risultato particolarmente illuminante. Per definire il concetto di lex naturae, anche l’Ambrosiaster, come Pelagio, prende le mosse dalla conoscenza naturale di Dio : Dio ha creato gli astri tanto belli, perché tramite la loro osservazione potesse essere ammirata la Sua potenza creatrice, ed Egli potesse essere riconosciuto e adorato. Per questo il genere umano è inescusabile, in quanto è capace di apprendere per legge di natura quanto è scritto nella legge di Mosè. 3 Come in Pelagio, anche nell’Ambrosiaster troviamo espressa chiaramente la convinzione che l’uomo sia in grado per natura di conoscere Dio e dunque di comportarsi secondo la Sua volontà : non tramite la legge, ma tramite la natura, plasmata da Dio, siamo stati portati alla fede, perché è proprio nella natura che possiamo riconoscere da chi, per chi e in chi siamo stati creati. 4 Simili a quelle di Pelagio nel commento a Rm 2, 15, che abbiamo già preso in considerazione, sono anche le parole con cui l’Ambrosiaster sottolinea il ruolo importante svolto dalla testimonianza della coscienza :    











Dum natura duce credunt, opus legis ostendunt non per litteram, sed per conscientiam ... Teste interiori conscientia sua credunt ... 5  

1  Vd. Pohlenz, op. cit. ii, p. 297 sg. 2  Vd. supra, p. 15. 3  Vd. Ambst., Comm. in Rom 1, 18, csel 81/1, p. 39 ; vd, anche Comm. in Rom 1, 19, csel 81/1, p. 19 ; Comm. in Rom 2, 14, csel 81/1, p. 75. 4  Comm. in Rom 6, 17, csel 81/1, p. 205. 5  Ambst., Comm. in Rom 2, 15, csel 81/1, p. 77.  



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Tuttavia, rispetto a quello di Pelagio, il commento dell’Ambrosiaster è più esteso e, se si vuole, più complesso : anche a proposito della legge naturale la sua trattazione risulta più approfondita e caratterizzata da una maggiore attenzione e precisione nel delinearne i vari aspetti. Ad esempio, l’Ambrosiaster sostiene un’articolazione della lex naturae in tre parti, di cui non si trova in Pelagio alcuna traccia : la prima è quella che ordina di riconoscere e onorare il Creatore, la seconda è quella morale, che ordina di vivere rettamente, la terza è quella idonea a trasmettere agli altri la conoscenza di Dio e l’esempio dei costumi. 1 Nonostante questo, risulta chiaro dai passi presi in esame che Pelagio condivide con l’Ambrosiaster la concezione di fondo, riconoscendo alla legge di natura le stesse funzioni : essa agisce nel cuore degli uomini esortando a riconoscere l’esistenza di Dio e a condurre una vita retta. Ma in questo quadro, qual è il ruolo assunto dalla legge mosaica ? Per quale motivo essa si è resa necessaria, se l’uomo era già in grado per natura di uniformarsi alla volontà di Dio ? I due commentatori offrono a queste domande la stessa risposta. Per Pelagio fu il progressivo cadere in oblio della lex naturae a rendere necessario che fosse data all’uomo la legge scritta. È tramite la legge mosaica, infatti, che l’uomo acquista di nuovo la consapevolezza del peccato : la legge mosaica gli consente di recuperare la capacità, andata progressivamente perduta a causa della consuetudo peccatorum, dell’abitudine a peccare, di distinguere il bene dal male, di valutare ciò che è giusto e ciò che non lo è, di conoscere la volontà di Dio e uniformarsi ad essa. 2 La legge scritta pone fine al tempus oblivionis e rende l’uomo consapevole della gravità anche di quegli atti che, in quanto non dannosi per il prossimo, non venivano riconosciuti come peccati. 3 La funzione fondamentale della lex litterae è dunque quella di punire il peccato : prima della legge il peccato già esisteva, ma non era riconosciuto come tale, perchè l’uomo aveva perso la scientia naturalis. 4 Simile, anche se forse più complesso, appare il punto di vista dell’Ambrosiaster, che individua anche nella legge scritta tre parti : la prima parte concerne il mistero di Dio, la seconda proibisce il peccato e corrisponde alla legge naturale, la terza riguarda le opere, ovvero sabati, novilunii, circoncisione, ecc. È proprio la legge naturale, in parte ristabilita, in parte rafforzata da Mosè, che, reprimendo i vizi, ha reso noto il peccato. 5 Per l’Ambrosiaster la legge di Mosé si rese necessaria non tanto perché la lex naturae era stata dimenticata del tutto, 6 ma perché, pur non essendo ignorata, si pensava che avesse autorità solo temporaneamente e che non rendesse colpevoli anche davanti a Dio : gli uomini ignoravano che Dio avrebbe giudicato il genere umano e per questo il peccato non era imputato loro, come se non fosse peccato presso Dio e Dio non se ne curasse. Mosé dunque ricordò agli uomini che Dio sarebbe stato giudice, un dato che essi non tenevano più in considerazione, calpestando la prima parte della legge naturale, quella che, come abbiamo avuto modo di vedere, ordina di riconoscere e onorare il Creatore. 7 Per entrambi i commentatori quindi la legge mosaica svolge un ruolo fondamentale nel guidare moralmente gli uomini, ed è santa, buona e spirituale, perché proibisce il  































1  Ambst., Comm. in Rom 5, 13, csel 81/1, p. 169. 2  Pel., Exp. in Rm 11, 24, p. 90 Souter. 3  Pel., Exp. in Rm 3, 20, p. 32 Souter ; vd, anche Exp. in Rm 7, 8, p. 57 Souter ; Exp. in Rm 7, 9, p. 57 Souter. 4  Vd. Pel., Exp. in Rm 5, 13, pp. 45-46 Souter. 5  Vd. Ambst., Comm. in Rom 3, 20, csel 81/1 pp. 115-117. 6  Vd. Quaest. iv, 1, p. 24 Souter. 7  Vd. Ambst., Comm. in Rm 5, 13, csel 81/1, pp. 167-169.  



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peccato, rendendolo manifesto. 1 Pelagio però, rispetto all’Ambrosiaster, si spinge ben oltre in questa valutazione positiva, arrivando a sostenere che prima della venuta di Cristo l’osservanza della legge mosaica garantiva la vita eterna, mentre la fede in Cristo si rende necessaria per la salvezza solo dopo la Sua venuta.  

‘Quoniam qui fecerit ea homo, vivet in eis’. Nemo ergo illorum vivet, quia in hoc tempore nemo perficit legem sine Christo, quia et hoc legis est ut ipsi credatur. Quidam ex hoc loco putant Iudaeos praesentem tantum vitam ex legis operibus meruisse, quod verum non esse domini verba declarant, qui de vita interrogatus aeterna, mandata legis apponit dicens : ‘si vis in vitam venire, serva mandata’ : unde intellegimus quod qui suo tempore legem servavit vitam habuit sempiternam. 2  





È in espressioni del genere che emerge la fiducia di Pelagio nella capacità dell’uomo di compiere il bene : l’uomo ha in sé per natura la forza di eseguire i mandati della legge, condizione sufficiente, prima della venuta di Cristo, ad ottenere la vita eterna. Un’analoga convinzione si può cogliere in una breve osservazione di Pelagio nel commento a Gal 3, 12 (pp. 319-320 Souter) :  



‘Lex autem non est ex fide’. Non iustificat sola[m] fide[m]. ‘Sed qui fecerit ea [homo], vivet in eis’. Suo labore conquirebant iustitiam, ut viverent in aeternum.

Il passo non risulta di immediata comprensione : non è chiaro quale sia il soggetto di conquirebant, ma dal momento che nel lemma tratto dall’epistola paolina si sta parlando delle opere della Legge, (a cui si riferisce ea), sarei portata a pensare che qui Pelagio si stia riferendo a quanti, prima della venuta di Cristo, tentavano di compiere i precetti della legge e di essere giusti con le loro forze (suo labore), per ottenere la vita eterna. La convinzione che la legge prima della venuta del Salvatore fosse capace di giustificare sembra trovare espressione anche in un altro passo, che risulta tuttavia di interpretazione non sicura :  



‘Quoniam non iustifica[bi]tur omnis caro ex operibus legis coram illo’. Modo non iustifica[bi]tur. Sive : Opera legis circumcisionem dicit sabbatum et ceteras caerimonias, quae non tam ad iustitiam quam ad carnis laetitiam pertinebant. 3  



Il significato da attribuire alla prima spiegazione offerta da Pelagio dipende dal valore che attribuiamo all’avverbio modo. La traduzione offerta da De Bruyn, 4 « [Will] be all but justified », non mi sembra dotata di senso. J. B. Valero 5 propone invece di intendere modo nel senso di « ora, adesso », con riferimento al tempo presente : se così fosse, qui Pelagio intenderebbe dire che la legge nel tempo presente, quindi dopo la venuta del Cristo, non giustifica più, dal che dovremmo dedurre che era in grado di giustificare in passato. Questa interpretazione sembrerebbe confermata dalla prima parte del commento a Rm 10, 5 sopra riportato, dove fondamentale risulta l’espressione in hoc tempore, che in qualche modo delimita l’importanza della fede in Cristo ai fini della salvezza al tempo presente : solo nel tempo successivo alla venuta del Salvatore credere in Cristo diviene parte della legge e nessuno può quindi compiere la legge senza il Cristo. La stessa espressione ricorre anche nel commento a Gal 2, 16 (p. 315 Souter) :  

















1  Vd. Pel., Exp. in Rm 7, 12, p. 57 Souter : ‘Itaque lex quidem sancta et mandatum sanctum et iustum et bonum’. Contra impugnatores legis et contra eos qui iustitiam a bonitate secernunt, lex et bona et sancta dicitur et gratia iusta : ‘nisi enim abundaverit iustitia vestra’ ; Ambst., Comm. in Rom 7, 12, csel 81/1, p. 229 : ‘Itaque lex ...’ Ut nihil suspicionis adversae remaneret in lege, sic illam commendat, ut non solum iustam hanc, sed et sanctam et bonam pronuntiet. 2  Exp. in Rm 10, 5, p. 82 Souter. 3  Exp. in Rm 3, 20, p. 32 Souter. 4  Vd. T. De Bruyn, op. cit., pp. 80-81. 5  Vd. J. B. Valero, Las bases, cit., pag. 268.  







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‘Scientes autem quoniam non iustificatur homo ex operibus legis’. Opera legis circumcisio et sabbatum [et] dies festi et cetera, quae non propter iustitiam, sed ad edomandam populi duritiam sunt mandata. [Sive : non iustificatur hoc tempore].  

La seconda spiegazione offerta dall’autore è attestata soltanto dall’Augiensis, ma sarei propensa ad accoglierla, visto il parallelo con il commento a Rm 10, 5 dove il testo risulta sicuro. Questa convinzione rilevata in Pelagio non si riscontra invece nell’Ambrosiaster : anzi l’Ambrosiaster sembra proprio poter essere uno dei quidam di 10, 5, la cui opinione Pelagio non condivide :  



‘Moyses enim scripsit iustitiam quae ex lege est, quia qui fecerit ea homo, vivet in eis’. Hoc dicit, quia iustitia legis Moysi reos illos non faciebat ad tempus, si servaretur, id est vivebant faciendo legem ; debitores enim erant. Hoc dictum est in Numeris et in Levitico. 1  



L’Ambrosiaster afferma in maniera esplicita che mettere in pratica tutti i precetti della legge non è possibile, ma, anche se lo fosse, questa giustificherebbe solo nel presente, non di fronte a Dio : 2 se non si è accolta la fede, a nulla giova presso Dio tenersi lontano dai peccati ; infatti, il motivo per cui gli uomini non sono giustificati presso Dio non consiste nel fatto che non hanno osservato le prescrizioni, ma nel fatto che non hanno voluto credere in Cristo. 3 Affermazioni analoghe si riscontrano anche nel commento dell’Anonimo di Budapest, il quale dichiara esplicitamente che non esiste nessuno in grado di adempiere tutti i mandati della legge 4 e che la legge non è in grado di offrire la giustificazione, premio destinato solo a quanti credono in Cristo. 5 Ancora più netta risulta a questo proposito la posizione di Agostino nell’Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos, dove l’autore afferma con forza e in più occasioni l’assoluta incapacità dell’uomo di compiere i mandati della legge basandosi sulle sue sole forze, senza l’aiuto della grazia divina. 6 Rispetto alle affermazioni dei suoi predecessori, emerge chiaramente l’originalità della visione di Pelagio ; il suo punto di vista, infatti, appare ben diverso, almeno da quanto sembra di poter cogliere da alcune sfuggenti allusioni : la brevità del commento di Pelagio in molti punti, unita ad una certa oscurità di espressione, spinge ad usare cautela. Ma c’è di più : Pelagio non sembra sostenere soltanto che prima della venuta del Cristo l’osservanza della legge giudaica era sufficiente alla salvezza, ma anche che prima dell’avvento della legge giudaica, la sola legge naturale permetteva agli uomini di essere giusti e di salvarsi dalla morte spirituale, come testimoniano Abramo, Isacco e Giacobbe :    



















Dum ita peccant, et similiter moriuntur : non enim in Abraham et Isaac et Iacob pertransiit (sc. mors), de quibus dicit dominus : “omnes enim illi vivunt”. 7  





1  Ambst., Comm. in Rom 10, 5, csel 81/1, p. 345. 2  Vd. Ambst., Comm. in Rom 11, 7, csel 81/1, p. 365 ; vd. anche Comm. in Rom 4, 2, csel 81/1, p. 129. 3  Vd. Ambst., Comm. in Rm 2, 12, csel 81/1, p. 73 ; Comm. in Rom 3, 20, csel 81/1, pp. 113-115. 4  In Gal 3, 22 (014b Frede) : Ostendit quia non potuit invenire qui omnia legis impleret. 5  In Rm 2, 13-15 (24A Frede) : ‘Iustificatur’ ergo ‘a deo’ patre quicumque vero praeceptis paruerit Christo credens. Praemium enim vitae suae invenit iustificationem, quam per ‘opus legis’ minus potuit conquirere. Hoc ergo, ut dixit, credenti in Christo praemium statuit iustificationem ; In Rm 3, 28-30 : Hinc docet quoniam ‘ex operibus legis iustificari’ non possumus sed ‘ex fide’. 6  Vd. Exp. prop. 12, 6 : Sed cum quisque illam (sc. legem) viribus suis se putat implere, non per gratiam liberatoris sui, nihil ei prodest ista praesumptio. Vd. anche Ad Simpl. 1, 7 ; Exp. prop. 37, 2. 7  Exp. in Rom 5, 12, p. 45 Souter.  















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Come abbiamo visto, anche in altri autori cristiani, e soprattutto presso i Padri Greci, si tende a ricordare come siano esistiti dei giusti prima della venuta di Cristo ; 1 tuttavia, si può cogliere a mio avviso una differenza : negli autori che ho preso in considerazione, se da una parte si sottolinea la giustizia o la santità dei patriarchi e più in generale di quanti si sono comportati rettamente prima dell’avvento dell’era cristiana, dall’altra si tende anche a tacere sulla loro sorte, o a ricordare, come abbiamo visto in Giustino, 2 il fatto che comunque anche questi devono aspettare per la loro salvezza la fine dei tempi e il ritorno del Cristo, oppure, come in Atanasio, 3 si sottolinea la loro natura mortale, debole e sottoposta alle passioni ; in Pelagio invece, secondo quanto si può cogliere dalle sue concise osservazioni, sembra emergere l’idea di una capacità della legge giudaica e della legge naturale di garantire, ciascuna per il tempo in cui furono in vigore, la salvezza, un aspetto questo che risulterà più chiaro quando prenderemo in analisi la concezione tripartita della storia della salvezza. Dobbiamo segnalare che una posizione analoga a quella di Pelagio si riscontra nel Liber de Fide di Rufino di Siria, 4 dove si ricorda come i giusti vissuti prima della legge siano riusciti, grazie al loro comportamento irreprensibile, ad evitare la morte. 5 Tuttavia la datazione di questo breve trattato è tutt’altro che certa ; infatti, Altaner, nel suo studio sul Liber de Fide, 6 ha rifiutato l’ipotesi di Garnier, secondo il quale l’opera era stata scritta originariamente in greco, e poi tradotta in latino prima del 410 : 7 Altaner considerava tale datazione impossibile, soprattutto perché, a suo avviso, la dottrina pelagiana dei cc. 29-42 risultava troppo ben organizzata e sviluppata per un trattato precedente il 411. Considerando Agostino il primo pensatore cristiano ad aver elaborato il theologoumenon della dannazione dei bambini non battezzati, Altaner ha visto nel De fide una risposta al primo scritto anti-pelagiano di Agostino, il De peccatorum meritis, composto nel 412. Egli, inoltre, riteneva che difficilmente il trattato potesse essere stato scritto prima del 413, dal momento che in esso non si trova alcun riferimento al Nestorianesimo : l’opera veniva così ascritta ad un periodo databile fra il 413 e il 428. 8 Al contrario, Refoulé 9 ha ritenuto di poter individuare nel De Fide proprio l’opera confutata da Agostino nel De peccatorum meritis, e ne ha quindi collocato la stesura prima del 412, datazione, questa, accolta da Bonner, 10 soprattutto sulla base della considerazione che, su 61 capitoli totali,    

















   









  1 

Vd. supra, p. 38. 2  Vd. ibid. 3  Vd. supra, p. 38. Secondo Mario Mercatore, Rufino di Siria sarebbe stato il primo a diffondere a Roma, sotto il pontificato di Anastasio (399-402), le dottrine successivamente fatte proprie da Pelagio (vd. Marius Mercator, Lib. Subn. in verb. Iul., praef. 2).   5  Ruf. Syr., Liber de Fide 39, p. 94 Miller (Rufini Presbyteri Liber de Fide : A critical Text and Translation with Introduction and Commentary by Sister Mary William Miller, Washington d.c., Catholic University of America Press, 1964 (« The Catholic University of America Patristic Studies », 96) : Neque enim meminit usquam divina Scriptura quasi ipsi secundo peccaverint, sicuti de Cain, quod secundo peccavit narrare non distulit. Quippe cum etiam de Abel, quod a peccatis fuerit alienus, aperte docuerit. Quid vero etiam de Enoch atque Elia dicent, quod cum bene placuissent Deo, translati sunt, ut mortem penitus non viderent, non ab Adam praevaricatione prohibiti permanere immortales, cum per eosdem clare docuerit Unigenitus Deus ante carnalem adventum suum spem ipsam resurrectionis ? Quid etiam de Noe dicent, quem Deus iustum esse testatur ?   6  B. Altaner, Der Liber de Fide ein werk des Pelagianers Rufinus des Syrers, « ThQ », 130, 1950, pp. 432-449.   7  Vd. pl 48, 449C.   8  Vd. Altaner, op. cit., pp. 426-428 ; la proposta di datazione di Altaner è stata accolta anche da M. W. Miller, nella sua edizione del Liber de Fide (vd. Rufini Presbyteri Liber de Fide, cit., pp. 8-10).   9  F. Refoulé, Datation du premier concile de Carthage contre les Pélagiens et du Libellus Fidei de Rufin, « ReAug », 9, 1963, pp. 41-49. 10  Vd. G. Bonner, Rufinus of Syria and African Pelagianism, « AugStud », 1, 1970, pp. 31-47.   4 



























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soltanto i cc. 29-41 e 48 presentano argomenti senza dubbio “pelagiani”, mentre il resto dell’opera è dedicato alla confutazione delle eresie trinitarie più diffuse (Arianesimo, Eunomianesimo, Sabellianesimo), alla difesa della perpetua verginità di Maria (c. 43) e della dottrina della resurrezione del corpo (c. 51) : secondo Bonner, 1 se, come ritiene Altaner, il Liber de Fide fosse stato concepito veramente come una risposta al De peccatorum meritis, il tentativo sarebbe piuttosto mal riuscito. A suo avviso, inoltre, oggetto delle critiche di Rufino sarebbero non tanto i traducianisti, quanto i sostenitori di Origene : una polemica che sarebbe perfettamente in linea con le controversie teologiche che caratterizzarono il periodo del pontificato di Anastasio. 2 È difficile assumere una posizione in merito : tuttavia, se pure accogliamo l’ipotesi che il De fide preceda le Expositiones, ed abbia quindi influenzato Pelagio, dobbiamo riconoscere a quest’ultimo una certa indipendenza di pensiero. In primo luogo, Rufino afferma chiaramente che Adamo ed Eva sono stati creati immortali per quanto riguarda l’anima, mortali per quanto riguarda il corpo : 3 una teoria di cui nelle Expositiones non si trova traccia e che appare simile, invece, come ha notato Bonner, 4 a quella espressa da Agostino nel De peccatorum meritis. 5 Inoltre, Rufino ricorda in effetti quanti, grazie al loro comportamento irreprensibile, sono riusciti prima di Cristo ad evitare la morte, ma intende soprattutto la morte fisica, come dimostra il riferimento a Enoch ed Elia, mentre Pelagio, come vedremo meglio in seguito, sembra pensare alla morte spirituale. 6 Infine (e questo è il dato che maggiormente interessa il tema che stiamo trattando), Rufino non sembra ritenere la legge in grado di giustificare, ma sembra attribuire all’azione di Cristo un effetto retroattivo per quanto riguarda i santi dell’Antico Testamento ; tale dato emerge soprattutto dal c. 39, dove Rufino cita 1Pt 3, 19-21, passo in cui si descrive Cristo che predica agli spiriti ancora prigionieri negli inferi. 7 Possiamo dunque concludere che, nonostante sia probabile che Pelagio abbia ripreso a proposito dello status dei giusti vissuti prima di Cristo opinioni già espresse da autori cristiani precedenti, egli si limita a trarre spunto da tali convinzioni, elaborando un pensiero sotto molti aspetti originale. Un altro passo del Commento ai Romani deve essere preso in considerazione :  









   













‘Naturalis quae legis sunt faciunt’. Sive : De his dicit qui naturaliter iusti fuerunt ante legem. Sive : Qui etiam nunc boni aliquid operantur. 8  





La seconda spiegazione offerta è piuttosto oscura : chi dobbiamo intendere per coloro qui etiam nunc boni aliquid operantur ? De Bruyn 9 traduce « Those who even now do some good », cogliendo in questo passo un riferimento all’abilità naturale grazie alla quale ciascuno può divenire giusto anche senza conoscere la legge di Mosè o compiere opere buone anche senza conoscere Cristo. Se così è, troviamo qui accennato un tema che ricorrerà spesso nelle opere successive di Pelagio, ovvero il bonum naturae come capacità  









1  Vd. Bonner, art. cit., pp. 36-37. 2  Vd. Bonner, art. cit., pp. 37-38. 3  Vd. De fide 29, p. 94 Miller : Illos igitur primos homines, Adam dico et Evam, licet immortales secundum animam creatos esse dixerim, mortales vero secundum corpus ; numquam tamen mortem gustassent, siquidem mandatum Dei servare voluissent, sicut beatus Henoch meruit. 4  Vd. Bonner, art. cit., p. 40. 5  Vd. Pecc. merit. i, 2, 2 : Quamvis enim secundum corpus terra esset et corpus in quo creatus est animale gestaret, tamen, si non peccasset, in corpus fuerat spiritale mutandus et in illam incorruptionem quae fidelibus et sanctis promittitur, sine mortis supplicio transiturus. 6  Vd. infra, p. 67. 7  Vd. De fide 39, p. 113 Miller ; vd. anche De fide 49, p. 126 Miller dove l’autore sottolinea l’importanza della resurrezione di Cristo per ogni creatura. 8  Pel., Exp. in Rm 2, 14, p. 23 Souter. 9  Vd. T. De Bruyn, op. cit., p. 73.  







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che si manifesta anche in coloro che vivono senza culto di Dio. 1 Si tratta, come abbiamo detto, di affermazioni brevi e fugaci, che tuttavia sembrano testimoniare già nel commento ai Romani una visione che definirei ‘ottimistica’ delle possibilità dell’uomo : prima dell’avvento di Cristo non sono mancati uomini (anche se certo non erano la maggioranza) che seguendo la legge naturale o applicando i precetti della legge giudaica, hanno meritato la salvezza ; è dunque esistito un tempus naturae in cui almeno alcuni uomini praticarono la giustizia, realizzando così il fine stabilito da Dio per l’uomo al momento della creazione. La peculiarità di questa posizione emerge con ancora più forza se prendiamo in considerazione il seguente passo dell’Ambrosiaster :  







In veteribus sanctis non ita fuit Spiritus Sanctus, sicut nunc est in fidelibus, quia exeuntes de saeculo apud inferos erant et non potest dici quia spiritus sanctus causa peccati Adae, quod per traducem generis omne semen eius subiectum fecit in inferis, simul tenebatur sententia data Adae. 2  

L’autore sostiene che nei santi del passato non vi era lo Spirito Santo come nei fedeli di oggi, convinzione, questa, condivisa anche dall’Anonimo di Budapest. 3 Per l’Ambrosiaster i giusti vissuti prima dell’avvento di Cristo hanno dovuto attendere relegati negli inferi la venuta del Salvatore per poter ottenere la vita eterna : nonostante possano essere considerati santi per il comportamento irreprensibile tenuto in questa vita, la mancata fede in Cristo ha impedito loro di essere accolti immediatamente nella gloria. 4 Non si trova traccia in Pelagio di simili posizioni : quello che emerge dal confronto con l’Ambrosiaster che abbiamo sviluppato, è, al contrario, una visione ottimistica, dove la salvezza sembra garantita anche a quanti, pur non credendo in Cristo, si sono tuttavia comportati da giusti seguendo la legge naturale o la legge giudaica. Nonostante i due autori mostrino indubbie affinità e Pelagio riprenda categorie già impiegate dall’Ambrosiaster, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della lex litterae e i suoi rapporti con la lex fidei, da una analisi più approfondita emerge una diversa impostazione di fondo : Pelagio mostra già nelle Expositiones la tendenza ad esaltare le capacità dell’uomo che, a suo avviso, è in grado di attenersi a principi di giustizia ed equità, siano essi intuibili tramite la legge naturale o noti grazie alla legge scritta. Un confronto con il Commento di Origene consentirà ora di arricchire e sviluppare ulteriormente le riflessioni finora svolte : sarà importante valutare, infatti, in quale misura il grande Alessandrino abbia esercitato, relativamente alle tematiche che stiamo affrontando, un’influenza sul pensiero di Pelagio.  











4. Il concetto di lex naturae in Origene: analogie e differenze con Pelagio Come ha osservato F. Cocchini, 5 la « legge » costituisce uno degli argomenti più trattati nel Commento di Origene, che si abbandona a lunghe e complesse riflessioni sui signi 





1  Vd. Ad Dem. pl 30, 19B : Cuius (sc. naturae) bonum ita generaliter institutum est, ut in gentilibus quoque hominibus, qui sine ullo cultu Dei sunt, se nonnunquam ostendat ac proferat. Quam multos enim philosophorum et audivimus et legimus, et ipsi vidimus castos, patientes, modestos, liberales, abstinentes... 2  Quest. cxxiii, 13, csel 50, p. 379. 3  Vd. In Rm 8, 24 (88A Frede) : Hoc loco ostendit eos qui in Christo crediderunt. Quod autem dicit : ‘Primitias spiritus habentes’ ostendit Christianos spiritus sanctus dona principalia percepisse et maiorem habere gratiam omnibus retro sanctis qui ante Christi adventum fuerunt. 4  Vd. infra, p. 92. 5  F. Cocchini, Origene. Commento alla lettera ai Romani, i-ii, traduzione, introduzione e note a cura di F. Cocchini, Casale Monferrato, 1985 - Genova, Marietti, 1986, « Ascolta Israele », i, pp. xx-xxiii.  









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ficati che il termine novmo~ / lex, citato settantasei volte nell’Epistola ai Romani, assume. Infatti, con questa parola l’Apostolo non intende riferirsi sempre alla stessa realtà e Origene deve ogni volta esaminare il testo per comprendere di quale legge Paolo stia parlando : nella maggior parte dei casi la sua conclusione è che si debba intendere la legge naturale. 1 La lex naturae assume nel Commento di Origene una rilevanza tutta particolare ; riprendendo i concetti stoici che abbiamo precedentemente illustrato, anche Origene parla di una legge, di una norma comune a tutti gli uomini, che consente di distinguere il bene dal male : Dio, infatti, ha donato all’uomo tutte le inclinazioni, tutti gli impulsi, mediante i quali possa tendere verso la virtù e lo ha dotato di ragione perché sia in grado di discernere cosa deve o non deve fare. 2 Tale capacità di acquisisce crescendo e si può dire di essere sottoposti alla legge, e quindi passibili di giudizio, solo quando si è raggiunta l’età della ragione, acquisendo la solidità della legge interiore e naturale. 3 Anche in Origene, come in Pelagio, torna il tema stoico della testimonianza della coscienza, che rimprovera aspramente quanti agiscono contro la legge naturale :  













Nam et de gentibus sub peccato factis eodem modo intellegemus quo supra diximus, cum coeperint naturaliter quae legis sunt facere et ipsi sibi esse lex cum redarguuntur a conscientia in his quae contra legem facere videntur. 4  

Di conseguenza, non c’è differenza alcuna fra Ebrei e Gentili : i primi hanno la legge Mosaica, i secondi la legge naturale, entrambi sono dunque inescusabili e si trovano in una condizione di peccato. 5 Tuttavia, pur assegnando alla legge naturale un ruolo importante come guida per attenersi ad un comportamento giusto, Origene ne sottolinea a più riprese i limiti : la legge naturale non può dare a suo avviso alcun aiuto per la conoscenza della giustizia di Dio, ma può comprendere solo ciò che è giusto fra gli uomini. 6 Egli afferma inoltre che per ottenere la fede la legge naturale non è sufficiente, 7 e che la giustizia di Dio, che è Cristo, si manifesta senza la legge naturale, ma non senza la legge mosaica e i Profeti. 8 Un tale giudizio sulla legge naturale è senza dubbio condizionato dalla volontà di Origene di contrastare le dottrine marcionite : spesso, infatti, pur di scagionare da eventuali accuse la legge Mosaica, l’autore ricorre ad interpretazioni forzate del testo paolino, attribuendo alla legge naturale le critiche volte in realtà dall’Apostolo alla legge giudaica ; per fare un esempio, commentando Rm 3, 21, Origene sostiene che l’espressione « Ora senza legge si è manifestata la giustizia di Dio », sia da riferire alla legge naturale e sostiene di conseguenza che la giustizia di Dio si è manifestata senza la legge naturale, ma sulla base della legge mosaica, 9 con una interpretazione che diverge da quella consueta, seguita anche da Pelagio. 10 Come ha osservato F. Cocchini, 11 la volontà di Origene di difendere la legge mosaica emerge con particolare forza quando egli ne dà un giudizio positivo anche se interpre 

























  1  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 376 Bammel : Sed et illud saepe iam diximus, in hac Epistola Paulum de multis quidem legibus, sed de naturali lege frequentius disputare … ; vd. Cocchini, op. cit., i, p. xx, n. 53.   2  Vd. Expl. in Rom iii, 3, pp. 222-223 Bammel. 3  Vd. Ibid. iii, 2, pp. 207-208 Bammel.   4  Ibid. iii, 2, p. 132 Bammel. 5  Vd. Expl. in Rom iii, 2, p. 207 Bammel.   6  Expl. in Rom iii, 4, p. 230 Bammel.   7  Expl. in Rm iv, 4, p. 293 Bammel. Tali posizioni trovano riscontro anche nell’Anonimo di Budapest : vd. In Rm 3, 21-25 (032 Frede) : Hoc est quod dicit, quia ‘iustitia’ quae in Christo ‘manifestanda erat’ in lege naturali non erat cognita, ‘testimonio’ autem ‘legis’ Moysi ‘et prophetarum’ adnuntiatione praedicatur.   8  Expl. in Rm iii, 4, p. 232 Bammel. 9  Expl. in Rm iii, 4, pp. 232-233 Bammel. 10  Vd. Pel., Exp. in Rm 3, 21, p. 32 Souter. 11  Vd. F. Cocchini, op. cit., p. xxii.  







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tata secondo la lettera. Infatti, sulla base di Paolo, Origene distingue due aspetti nella legge di Mosè : lo « spirito » e la « lettera », giudicando, nella maggior parte dei casi, positivo il primo, negativo il secondo. 1 Tuttavia, commentando Rm 7, 5 (Cum enim essemus in carne, passiones peccatorum, quae per legem erant, operabantur in membris nostris) si chiede in forma retorica :  













Quaenam lex ista est per quam vitia peccati operantur ? Nunquid lex Moysi etiam si secundum litteram observetur, vitia generat peccatorum ? 2  





Un’altra valutazione positiva si trova nel commento a Rm 5, 14, dove Origene ritiene che la legge Mosaica abbia costituito un valido strumento, anche se non sufficiente, per contrastare la tirannide del peccato, proprio in quanto prescriveva “riti di espiazione, sacrifici, precetti” : 3 il riferimento è, dunque, alla parte rituale della legge mosaica, solitamente giudicata in maniera negativa dai commentatori cristiani. Un altro passo importante è rappresentato dal commento a Rm 11, 6, dove Origene, pur riconoscendo che le opere di carattere cultuale non sono assolutamente richieste per conseguire la salvezza, tuttavia sostiene che si devono osservare affinché la grazia, ottenuta con la giustificazione, non sia vana. 4 Tale posizione non si riscontra in Pelagio, che fa salve solo le opere di giustizia, mentre considera del tutto inutili le prescrizioni cultuali. 5 Nonostante queste evidenti differenze di impostazione, è possibile individuare un aspetto in cui l’influenza di Origene può essere stata per Pelagio particolarmente stimolante. Infatti, commentando Rm 2, 10, Origene sostiene che se qualcuno fra i Giudei, pur non credendo in Cristo, opera comunque il bene, si attiene alla giustizia, osserva la castità e la continenza, anche se non può ottenere la vita eterna, che è concessa solo come premio della fede in Cristo, tuttavia non vedrà perire la gloria delle sue opere. Allo stesso modo, il pagano che è saldo a motivo della ragione naturale, anche se, non avendo ricevuto il battesimo, non può entrare nel regno dei cieli, tuttavia non può perdere del tutto la gloria delle opere buone, l’onore e la pace. 6 Origene non specifica quale sia allora il destino di quanti, pur essendosi comportati bene, non hanno creduto in Cristo : è chiaro che il regno dei cieli è loro precluso, tuttavia è importante che Origene sottolinei come il merito delle loro buone azioni non vada perduto ; l’Ambrosiaster, ad esempio, non effettua distinzioni, ritenendo che sia i Giudei sia i Greci, se non credono in Cristo saranno condannati :    













… quoniam ostendi Iudaeum sive Graecum non despici a Deo, si tamen credat in Christum, sed accepto ferri ambobus iustitiam fidei, sic iterum non credentes pariter reos esse … 7  

Se l’Ambrosiaster pone al centro la fede in Cristo come unico mezzo di salvezza, tanto che senza di essa non vede speranza alcuna di una ricompensa dopo la morte, Origene mostra una maggiore sensibilità per il caso di quanti, pur non volendo o non avendo potuto per ragioni cronologiche credere in Cristo, tuttavia hanno tenuto un comportamento virtuoso. Le osservazioni di Origene possono aver catturato l’attenzione di Pelagio, che sembra porsi lo stesso problema dell’Alessandrino e risolverlo elaborando una nuova visione dove la legge di natura e la legge mosaica assumono valore di per sé e garantiscono, ciascuna limitatamente al periodo in cui furono in vigore, la salvezza :  

1  Vd. Orig., Expl. In Rom ii, 7, pp. 134-135 Bammel ; vi, 7, pp. 489-490 ; ii, 8 p. 144 ; ii, 9, p. 153 ; iii, 4, p. 232 ; passim. 2  Expl. in Rom vi, 7, p. 494 Bammel. 3  Vd. ibid. v, 1, p. 382 Bammel. 4  Vd. Expl. in Rom viii, 6, p. 672 Bammel. 5  Vd. Pel., Exp. in Rm 3, 28, p. 34 Souter. 6  Vd. Expl. in Rom ii, 5, pp. 127-128 Bammel. 7  Comm. in Rom 2, 10, csel 81/1, p. 71.  









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così quanti si sono comportati rettamente prima della venuta di Cristo, non solo non hanno visto andar perduto il loro impegno, ma hanno ottenuto la giustificazione. Una simile visione non si riscontra nei commenti a Paolo in lingua latina contemporanei o precedenti le Expositiones : se il concetto di lex naturae non è originale di Pelagio, ma ha alle spalle una lunga tradizione che dalla filosofia stoica arriva per trasformazioni successive fino agli autori cristiani, l’insistenza sulla forza interiore, sulla capacità dell’uomo di attenersi ad una retta condotta grazie alle sue sole forze sembra essere peculiare di Pelagio. Certo, nel Commento ai Romani si fanno solo brevi e fugaci accenni a temi che assumeranno poi in opere successive ben altro spessore, ma sono comunque già indizi di un modo di concepire l’uomo e il suo rapporto con Dio che avrà poi precise implicazioni nel futuro sviluppo della teologia di Pelagio. È infatti nell’idea di lex naturae che dobbiamo ricercare le radici di quelli che saranno i temi fondamentali del pensiero pelagiano, come l’impeccantia e il libero arbitrio, temi destinati a suscitare ampi e aspri dibattiti in seno alla Chiesa.  

5. Lex naturae , lex litterae , lex fidei : una concezione tripartita della storia dell ’ umanità ‘Beatitudo ergo haec in circumcisione [tantum dicta est] an [etiam et] in praeputio ?’ Vult istam beatitudinem tribus temporibus adsignare, naturae, circumcisionis et Christianitatis. 1  



Con queste parole Pelagio fa esplicito riferimento ad una concezione tripartita della storia dell’umanità : il tempo della natura, da Adamo a Mosè, il tempo della legge, da Mosè a Cristo, e il periodo successivo alla venuta di Cristo, dove la fede assume una posizione di centralità ai fini della salvezza. Tale articolazione può essere compresa solo alla luce del complesso sistema di rapporti che intercorre fra lex naturae, lex litterae, lex fidei. La relazione che viene stabilita fra questi tre elementi non è frutto di una personale elaborazione di Pelagio, ma si trova già espressa nei suoi predecessori, e in particolar modo nell’Ambrosiaster, che fra le sue fonti sembra quella che più è stata tenuta presente per quanto concerne questa particolare tematica. Infatti, come abbiamo avuto modo di valutare, anche in Origene il tema della legge naturale è ampiamente affrontato, ma non è rintracciabile nel suo commento un’esposizione sistematica come nell’Ambrosiaster e in Pelagio : il tema della caduta in oblio della lex naturae, ad esempio, è appena accennato ; inoltre, anche se nel commento a Rm 5, 14 Origene parla di un’epoca in cui il peccato regna incontrastato e della legge Mosaica che oppone un primo ostacolo alla malvagità umana, in attesa che il Cristo trionfi completamente sulla morte, tuttavia il tema dei tre stadi della storia della salvezza non risulta ulteriormente sviluppato. Infine, abbiamo visto come il tentativo di scagionare da ogni possibile accusa la legge mosaica, porti spesso Origene ad interpretazioni insolite, lontane dalle scelte esegetiche degli altri commentatori. Come avremo modo di vedere in maniera dettagliata in seguito, 2 Pelagio ritiene che il peccato di Adamo non abbia segnato irreparabilmente la natura umana e che l’uomo conservi di conseguenza intatta la capacità di vivere in modo conforme alla volontà di Dio. È chiaro, tuttavia, che Adamo ha fornito comunque un esempio negativo a cui soltanto pochi uomini, come i patriarchi, hanno saputo opporre resistenza. Questo, nella visione di Pelagio, spiega perché, nonostante tutto, si rese necessaria la legge giudaica,  







1  Exp. in Rm 4, 9, p. 37 Souter.

2  Vd. infra, cap. iii.

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che in seguito non fu più a sua volta sufficiente a garantire la salvezza dell’uomo, a causa della sempre più forte abitudine al peccato. Pelagio, infatti, nonostante la valutazione positiva della legge mosaica e nonostante sembri riconoscere che l’adempimento scrupoloso dei precetti possa essere garanzia di salvezza, ritiene che nella maggior parte dei casi la legge non sia sufficiente alla salvezza dell’uomo, in quanto l’uomo, a causa della consuetudo peccatorum, dell’abitudine a peccare, non è in grado di osservare le prescrizioni della legge e desistere dal peccato : l’uomo sa di non dover compiere il male, ma non è in grado di adempiere il precetto perché l’abitudine al peccato oppone resistenza alla sua volontà. 1 Pelagio pone in evidenza il potere, la forza che la consuetudo peccatorum (o consuetudo delictorum o consuetudo mortifera) esercita sui peccatori : l’abitudine al peccato, che causa l’oblio della legge naturale e impedisce di adempiere ai precetti della legge giudaica, viene vista come una sorta di compulsione, di forza coercitiva (necessitas) che obbliga l’uomo ad agire anche contro la sua volontà. 2 Pelagio e l’Ambrosiaster offrono una valutazione simile della legge mosaica : senza sottovalutarne i meriti, fra cui quello di aver riportato alla memoria la legge naturale, 3 individuano in essa forti limiti. La legge mosaica, infatti, rivelando il peccato, ha fatto sì che l’uomo, acquisendo la consapevolezza di compiere un atto esplicitamente vietato, peccasse di più e in maniera più grave, in quanto cosciente delle proprie azioni : queste conseguenze negative non vanno imputate alla legge, che di per sé è santa, ma all’uomo, che della legge si serve in modo sbagliato. 4 In questo modo il peccato, che sembrava essere morto a causa della dimenticanza degli uomini, rivisse tramite la legge. 5 Di conseguenza la legge, che era stata data per la vita e di per sé non è fonte, ma solo indice del peccato, diviene « legge di morte », perché assoggetta a sé gli uomini, li dichiara peccatori e in quanto tali li fa morire : 6 la legge mosaica ha un grosso limite, in quanto, pur condannando il peccato, non è in grado di rimetterlo e di salvare l’uomo. 7 La lex litterae è dunque superata dalla lex fidei : solo la fede salva l’uomo e lo libera dalla morte, rendendo vane le opere della legge, cioè essenzialmente le prescrizioni cultuali, come il sabato, le regole di purità, ecc. Anche in questo caso, si riscontrano forti analogie fra l’Ambrosiaster e Pelagio : si confronti la seguente breve osservazione di Pelagio a Rm 4, 5 :  





















   









‘Secundum propositum [gratiae] dei’. Quo proposuit gratis per solam fidem peccata dimittere. 8  

con il più esteso commento dell’Ambrosiaster allo stesso versetto :  

‘Credenti autem in eum qui iustificat inpium, reputatur fides eius ad iustitiam’. Hoc dicit quia sine operibus legis credenti inpio, id est gentili, in Christo reputatur fides eius ad iustitiam sicut et Abrahae. 1  Pel. Exp. in Rm 7, 18, p. 59 Souter : ‘Nam velle adiacet mihi’. Est voluntas sed non est effectus, quia carnalis consuetudo voluntati resistit ; ibid. 7, 23-24, p. 60 ‘Et captivum me ducentem in lege peccati quod est in membris meis’. In consuetudine delictorum. ‘Infelix ego homo ! Quis me liberabit de corpore mortis huius ?’ Ego qui sic detineor, quis me liberabit de consuetudine mortifera corporalis ? 2  Exp. in Rm 7, 20, p. 59 Souter : ‘Si autem quod nolo, hoc ago, non ego illut opero, sed quod habitat in me peccatum’. Non ego, quia invitus, sed consuetudo peccati, quam tamen necessitatem ipse mihi parui. 3  Vd. supra, p. 40. 4  Vd. Pel. Exp. in Rm 5, 20, p. 48 Souter ; ibid. 7, 8, pp. 56-57 Souter ; ibid. 7, 13, p. 58 Souter ; Ambst., Comm. in Rom 7, 7, csel 81/1, p. 223 ; ibid. 7, 10, csel 81/1 p. 227 ; ibid. 7, 13, pp. 229-231. 5  Vd. Pel., Exp. in Rm 7, 9, p. 57 Souter ; Ambst., Comm. in Rom 7, 9, csel 81/1, p. 227. 6  Pel., Exp. in Rm 7, 10, p. 57 Souter ; Ambst., Comm. in Rom 7, 10, csel 81/1, p. 227 ; ibid. 7, 6, csel 81/1, pp. 219-221. 7  Vd. Pel., Exp. in Rm 4, 16, p. 39 Souter ; Ambst. Comm. in Rom 7, 6, csel 81/1, pp. 219-221. 8  Pel., Exp. in Rm 4, 5, p. 36 Souter.  





























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capitolo 2

Quomodo ergo Iudaei per opera legis iustificari se putant iustificatione Abrahae, cum videant Abraham non opera legis, sed sola fide iustificatur ? Non ergo opus est lex, quando inpius per solam fidem iustificatur apud deum. 1  



Entrambi gli autori affermano chiaramente il superamento delle opere grazie alla sola fede in Cristo ; Pelagio in particolar modo insiste sul concetto di ‘gratuità’ (l’espressione gratis è più volte ripetuta 2) : la giustificazione è dono concesso gratuitamente da Dio, indipendentemente dalle opere e dai meriti personali. In Pelagio il tempus christianitatis, il tempo della fede, si delinea come soluzione ultima riservata da Dio per l’uomo : nella storia della salvezza ogni epoca ha un valore relativo. La ‘natura’ e la ‘legge’ hanno svolto la loro funzione e fatto il loro tempo, Dio dispone ora un tempo nuovo, il tempo della fede. La fede è soprattutto superamento delle disposizioni legali della legge mosaica e liberazione dal castigo e dalla schiavitù, che la legge impone al peccatore. Per questo in Pelagio, come già nell’Ambrosiaster, diviene centrale la figura di Abramo, emblema della giustificazione tramite la sola fede ; Abramo, infatti, è per entrambi gli autori l’archetipo del Cristiano : egli rappresenta ogni credente, sia esso Gentile o Giudeo, perché si è salvato grazie alla sola fede, offrendo a tutti un esempio da seguire. 3 Nei due commentatori riscontriamo quindi un’analoga concezione per quanto riguarda il rapporto fra legge mosaica e fede, anche se l’Ambrosiaster tende a spiegazioni più estese ed esaurienti : Pelagio sembra quasi condensare in brevi espressioni gli ampi giri di pensiero dell’Ambrosiaster, tanto che a volte si ha l’impressione che i suoi concisi enunciati possano essere meglio compresi alla luce delle spiegazioni del suo predecessore. Torniamo dunque al commento di Pelagio a Rm 4, 9. Nell’Ambrosiaster il rapporto fra le tre leggi che abbiamo illustrato, sottintende senza dubbio una concezione tripartita della storia della salvezza : tale visione, tuttavia, non viene mai esplicitamente richiamata. Il fatto che Pelagio, a differenza dell’Ambrosiaster, senta la necessità di precisare tale articolazione in tre tappe, fra l’altro in un contesto in cui essa non appare necessaria a spiegare il senso delle parole di Paolo, è indice di quanto questa tematica doveva interessarlo. Come ha notato Valero, 4 Agostino vide in questa divisione uno dei punti più vulnerabili della teologia di Pelagio. A preoccuparlo non era tanto l’individuazione di tre epoche : lo stesso Agostino sosteneva una divisione quadripartita della storia della salvezza, coincidente con quella di Pelagio per le prime tre epoche, cui veniva aggiunta la quarta, comprendente lo stadio escatologico della storia :  























Itaque quattuor istos gradus hominis distinguamus : ante legem, sub lege, sub gratia, in pace. Ante legem sequimur concupiscentiam carnis, sub lege trahimur ab ea, sub gratia nec sequimur eam nec trahimur ab ea, in pace nulla est concupiscentia carnis. 5  



Come abbiamo detto, Pelagio conosceva con ogni probabilità l’Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos di Agostino : il fatto che egli escluda dall’indicazione delle tappe dell’umanità il quarto stadio appare come un atto voluto e, quindi, ancor più significativo. Del resto, non solo in Agostino, ma in quasi tutti i Padri della Chiesa si  

1  Ambst., Comm. in Rom 4, 5, csel 81/1, p. 131. 2  Vd. anche Pel., Exp. in Rm 4, 6, pp. 36-37 Souter. 3  Vd. Ambst., Comm. in Rom 4, 2, csel 81/1, p. 129 ; Pel., Exp. in Rm 4, 3, pp. 35-36 Souter. 4  J. B. Valero, op. cit., p. 241. 5  Aug., Exp. prop. 12, 2. La divisione quadripartita della Storia è una costante del pensiero di Agostino (vd. anche Div. quaest. 66, 3 ; 66, 7 ; Exp. ad Gal. 5, 17 ; En. in Ps. 29, 16 ; Tract. in Jo. 49, 12 ; Ench. 31, 118).  











lex naturae : valore e significato

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riscontra una visione quadripartita della Storia, secondo una tradizione che risale fino a San Paolo. Infatti, è l’Apostolo il primo ad individuare nella storia della salvezza quattro tappe : legge naturale, legge mosaica, grazia, gloria. 1 Questo schema viene in seguito ripreso da tutti i Padri : si riscontra in Ireneo, 2 Clemente Alessandrino, 3 Origene, 4 Cipriano, 5 Gregorio di Nissa, 6 Tertulliano, 7 Ilario di Poitiers, 8 Ambrogio, 9 per citare i più importanti. 10 Tuttavia, nei Padri viene data scarsa rilevanza all’era della legge naturale ; se anche riconoscono una legge di natura, questa è considerata di fatto ininfluente ai fini della salvezza : sterile come la figlia del faraone, dirà Gregorio di Nissa, la legge naturale non ha prodotto i frutti che ci si attendeva da essa. 11 Anche Ilario di Poitiers, per fare un altro esempio, se pure conosce la legge naturale, non la colloca nella storia e non la considera come epoca. 12 Inoltre, i Padri tendono a cogliere nella storia uno sviluppo omogeneo, un progresso in cui il Cristianesimo costituisce la tappa decisiva : le varie epoche sono concepite come tappe di uno stesso cammino e non hanno valore di per sé, ma sussistono in funzione dell’avvento dell’era cristiana. Questo aspetto emerge con particolare evidenza in Tertulliano : un confronto fra la concezione di Tertulliano e quella di Pelagio permetterà di cogliere in maniera più chiara gli aspetti innovativi di quest’ultima. Nei primi capitoli dell’Adversus Iudaeos, Tertulliano, per descrivere i rapporti fra legge naturale e legge giudaica, ricorre all’immagine, di origine stoica, 13 dello sviluppo biologico dei vegetali : come ogni seme contiene in sé, allo stato potenziale, le caratteristiche che si manifesteranno nello sviluppo successivo, così la legge naturale fu il seme, i cui primi frutti furono i precetti della legge mosaica. 14 Prima dell’Adversus Iudaeos Tertulliano aveva fatto ricorso a questa immagine anche per illustrare il progresso dalla legge mosaica a quella evangelica ; 15 tuttavia, in seguito, limiterà l’uso della metafora solo al primo passaggio, quello dalla legge naturale alla legge mosaica, mentre insisterà sulla rottura che esiste fra quest’ultima e la legge nuova che abroga le precedenti prescrizioni. Le ragioni di una simile scelta, come ha notato Fredouille, 16 sono chiare : la metafora della crescita biologica attenua le differenze, di conseguenza ricorrere a questa per rendere conto del passaggio dalla legge mosaica alla legge del Vangelo significava attenuare l’originalità profonda, la novità fondamentale  









































   





1  Vd. Gal 3-4 ; Rm 1-2. 2  Vd. Adv. Haer. iv, 25, 1. 3  Vd. Strom. i, 21, 135, 3 ; ii, 2, 12, 2 ; ii, 9, 43, 5. 4  Vd. De princip. iii, 6, 1. 5  Vd. Test. iii, 99. 6  Vd. Vita Moysi, gno 7/2, pp. 108-109 ; Or. Cat., gno 3/4, pp. 50-51. 7  Adv. Iud. 2-4 ; Spect. 2, 21 ; Adv. Marc. iii, 21 ; iv, 2 ; iv, 1-6 ; iv, 16 ; iv, 34 ; An. 55. 8  Vd. De Trin. i, 3 ; i, 7. 9  Vd. Epist. 73, 3-5 ; 70, 16 ; De interpell. Iob et David iv, 4, 18 ; Exp. in salm. 118, serm. 19, 5-6. 10  Su questo argomento vd. A. Luneau, L’histoire du salut chez les Péres de l’Eglise, Paris, Beauchesne, 1964. 11  Vd. Vita Moysi, gno 7/2, pp. 35-36. 12  De Trin. i, 3 ; i, 7. 13  L’immagine dello sviluppo biologico si può rintracciare nella nozione dei semina virtutum di cui parla Cicerone, seguendo Crisippo, in Tusc. iii, 2 : vd. anche Fin. v, 18 e 43 ; Sen., Epist. 108, 8 e 120, 4. Questa similitudine deve aver goduto di una certa fortuna, se la ritroviamo, sempre per descrivere la relazione lex naturae-lex litterae nell’Ambrosiaster, Comm. in Rom 5, 20, csel 81/1, p. 185. 14  Adv. Iud. 2, 3-6 : In hac enim lege Adae data omnia praecepta condita recognoscimus, quae postea pullulaverunt ... Primordialis enim lex data est Adae et Evae in paradiso quasi matrix omnium praeceptorum dei ... Igitur in hac generali et primordiali dei lege ... omnia praecepta legis posterioris, specialiter indita, fuisse cognoscimus, quae suis temporibus edita germinaverunt. 15  Vd. De test. animae 5, 6 : (Iudaei) in quorum oleastro insiti sumus ; Adv. Marc. iv, 11, 11 : Sicut fructus separatur a semine, cum sit fructus ex semine, sic et evangelium separatur a lege, dum provehitur ex lege, aliud ab illa, sed non alienum, diversum sed non contrarium. 16  J. C. Fredouille, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris, Études Augustiniennes, 1972, pp. 258 sg.  











































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dell’insegnamento di Cristo. È significativo, dunque, che Pelagio riprenda la metafora già impiegata da Tertulliano e la utilizzi proprio per descrivere il passaggio dalla legge mosaica alla legge del Vangelo :  

‘Propter gloriam vultus eius, quae evacuatur’. Gloria legis per gloriam evangelii evacuatur, sed i[s]ta evacuatur ut proficiat, sicut infantiam ipse dicit evacuari in viri perfecti aetatem. Semen quoque evacuatur in fructu : melior quidem fructus semine, sed sine eo esse non potest fructus, [et] non perit, sed multiplicatur semen in fructu[m] et ita evacuatur, sicut prophetia et scientia destruentur. 1  



Se nel brano citato è affermata la superiorità del Vangelo rispetto alla Legge, è espressa anche la convinzione che la Legge sia un’esperienza fondamentale, senza la quale non si sarebbe potuto avere la predicazione del Cristo : l’uso della metafora del seme che non muore né si disperde, ma produce frutto, sembra indicare che l’autore attribuisca ai due Testamenti se non pari valore, almeno pari dignità e importanza nella storia della salvezza. Tertulliano ci propone anche una seconda interpretazione dell’economia della salvezza, fondata sulla potenza e libertà di Dio che, in quanto legislatore supremo, possiede il diritto di adattare alle circostanze e alle necessità le leggi che promulga. Egli distingue fino all’avvento di Cristo due grandi periodi : quello della legge naturale, la legge primordiale non scritta donata ad Adamo ed Eva e compresa da tutti naturaliter, 2 e quello della legge mosaica, la legge scritta che rappresenta un progresso rispetto alla precedente. Infatti, Dio ha accresciuto e perfezionato la legge pro temporum condicione. La legge mosaica, del resto, ha continuato essa stessa a progredire : Tertulliano insiste sul diritto di Dio di riformare i precetti della legge a seconda delle circostanze al fine della salvezza degli uomini. 3 Tuttavia, la legge antica, il cui progresso non si è mai arrestato, ha sempre avuto un carattere temporaneo e non fu data ai Giudei perché la osservassero per sempre. 4 Tertulliano non descrive il passaggio dalla legge antica alla legge nuova, ma non cessa di ripetere che la seconda abroga la prima : fra l’una e l’altra c’è soluzione di continuità. Dunque, anche in questa seconda interpretazione dell’economia della salvezza ritroviamo la volontà di opporre radicalmente la legge naturale e la legge mosaica alla legge nuova ed eterna ; in entrambi i casi emerge l’idea secondo cui la legge naturale e la legge mosaica rappresentano fasi incompiute, imperfette : Tertulliano pone in primo piano la necessità di uno sviluppo, di un progresso, che giunge a compimento e perfezione solo con il Cristianesimo. Dunque, nonostante la distinzione in epoche sia simile a quella che abbiamo individuato in Pelagio, in Tertulliano si nota una maggiore insistenza sulla novità e superiorità dell’era cristiana, che realizza pienamente quei principi di giustizia ed equità che nelle epoche precedenti erano stati espressi solo in maniera imperfetta. La vera novità di Pelagio rispetto alla visione di Tertulliano e degli altri Padri della Chiesa consiste soprattutto nel fatto che egli non riconosce, o comunque non pone in evidenza l’organicità, l’unità che la storia della salvezza, pur nella diversità delle epoche, presenta nel suo progredire verso una meta precisa, l’era cristiana, dove troverà la sua piena e perfetta realizzazione.  

















1  Exp. in 2Cor 3, 7, p. 247 Souter. 2  Vd. Adv. Iud. 2, 7 : ... ante legem Moysei scriptam in tabulis lapideis legem fuisse contendo non scriptam, quae naturaliter intellegebatur et a patribus custodiebatur. 3  Vd. Adv. Iud. 2, 10 : non adimamus hanc Dei potestatem pro temporum condicione legis praecepta reformantem in hominis salutem. 4  Vd. Adv. Iud. 4, 11 : Unde manifestum est ad tempus et praesentis causae necessitatem huiusmodi praecepta convaluisse et non ad perpetui temporis observationem huiusmodi legem eis deum ante dedisse.  





lex naturae : valore e significato

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Sarà soprattutto Agostino a sottolineare l’unità al di là della diversità delle varie epoche, e insisterà in particolar modo su questo aspetto nel corso della lotta contro Pelagio, accusato di attribuire a Cristo solo l’epoca della grazia. Era, infatti, inammissibile per Agostino che la mediazione di Cristo fosse ridotta da Pelagio soltanto alla terza epoca. 1 Il vescovo di Ippona aveva ben chiaro quale fosse il punto debole della visione del suo avversario : sostenere che alcuni, anche se pochi, erano stati giusti e avevano ottenuto la salvezza prima della venuta del Cristo, significava in definitiva attribuire all’uomo la capacità di sfuggire alla morte e al peccato senza la mediazione del Salvatore, una posizione audace che, come abbiamo visto, l’Ambrosiaster evita relegando i giusti negli inferi fino alla venuta di Cristo. Certo, nel commento ai Romani non troviamo ancora affermazioni esplicite al riguardo, né tanto meno una trattazione estesa della questione : tuttavia il riconoscimento dell’autonomia delle varie epoche, che hanno valore già di per sé, e non solo in relazione all’avvento dell’era cristiana, sembra andare in questa direzione. Per concludere, per quanto concerne il tema della lex naturae Pelagio si mostra debitore non solo nei confronti della filosofia stoica, ma anche del pensiero cristiano precedente, che aveva già ampiamente ripreso e rielaborato i concetti propri dello stoicismo, attribuendo ad essi nuovi significati : in particolar modo, Pelagio poteva trovare nei suoi predecessori una già approfondita riflessione sul rapporto che intercorre fra lex naturae, lex litterae e lex fidei. È proprio in questo ambito che egli introduce una novità che avrà conseguenze fondamentali nello sviluppo del suo pensiero : il valore autonomo delle varie epoche, con la convinzione che la legge di natura e la legge mosaica siano state in grado di garantire la salvezza già prima della venuta di Cristo. L’impressione che ne deduciamo, dunque, è che, partendo da idee e convinzioni diffuse fra gli autori cristiani, Pelagio inizi già al momento della stesura delle Expositiones un proprio personale percorso, che lo porterà a meditare su temi fondamentali come la natura dell’uomo, il peccato originale, il libero arbitrio, la giustificazione e la salvezza.  









1  Vd. De gra. Christi et de pec. orig. 26, 30-31 ; De gra. et lib. arb. 12, 24.  

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Capitolo 3 IL PECCATO DI ADAMO : NATURA E CONSEGUENZE DELLA COLPA DEI PROGENITORI  

D

opo aver individuato nel concetto di lex naturae, così come viene espresso nelle Expositiones, il punto di partenza per l’elaborazione di alcune concezioni che avranno poi ampio spazio negli sviluppi successivi della dottrina pelagiana, possiamo ora affrontare un tema estremamente complesso e di importanza capitale nella teologia di Pelagio : il peccato di Adamo e le sue conseguenze per l’umanità. Le affermazioni del discepolo di Pelagio, Celestio, poste sotto accusa al sinodo di Diospolis del 415 1 riguardavano, fra gli altri, i seguenti punti : Adamo fu creato mortale ; di conseguenza, sia che peccasse, sia che non peccasse, sarebbe comunque morto. Il peccato di Adamo ha avuto conseguenze solo per il progenitore e non per l’umanità intera. I bambini appena nati si trovano nella stessa condizione di Adamo prima del peccato. In conseguenza della colpa di Adamo non tutti gli uomini muoiono, così come in conseguenza della resurrezione di Cristo non tutti gli uomini risorgono. 2  









Stando al resoconto di Agostino, Pelagio ammise di condividere con il discepolo la convinzione della possibilità per l’uomo di vivere senza peccare e dell’esistenza di giusti prima della venuta del Cristo, ma rifiutò in blocco le tesi riguardanti il peccato di Adamo e le sue conseguenze. 3 La sincerità di Pelagio al Sinodo di Diospoli è stata oggetto di ampio dibattito fra gli studiosi, senza che si sia giunti ad una soluzione certa : Pelagio condivideva le idee di Celestio ? Aveva posizioni più moderate sul problema della grazia e del libero arbitrio ? Oppure, nel tentativo di sfuggire alla condanna, ha rinnegato idee che gli erano proprie, lasciando ricadere sul discepolo ogni responsabilità ? Il problema non è di facile soluzione : la nostra fonte principale di informazione sugli eventi di Diospoli è rappresentata dal De gestis Pelagii di Agostino, opera considerata attendibile per quanto riguarda la ricostruzione degli eventi, ma certo non scevra da intenti polemici. Se una parte della critica, a partire da Klasen, 4 ha visto in Celestio un pensatore indipendente, la cui eresia sul peccato originale si sarebbe sviluppata parallelamente a quella di Pelagio, altri, fra cui Ferguson e Evans, 5 ritengono che Pelagio al Sinodo di Diospoli abbia dato risposte evasive e non del tutto sincere, finendo, nella volontà di apparire ortodosso,  















1  Il Sinodo di Diospolis fu convocato in seguito alle accuse mosse contro Pelagio e Celestio da due vescovi in esilio provenienti dalla Gallia, Heros di Arles e Lazaro di Aix, che presentarono un Libellus accusationis al metropolita Eulogio di Cesarea. Il Sinodo si tenne in presenza di 14 vescovi che condannarono Celestio, ma giudicarono ortodosso il pensiero di Pelagio, il quale prese le distanze dalle tesi del discepolo (vd. Aug., De gestis 1 ; 35, 60, passim). 2  Vd. Aug., De gestis 11, 23. 3  Vd. De gestis 11, 24. 4  Fr. Klasen, Die innere Entwicklung des Pelagianismus, Freiburg-im-Breisgau, 1882, p. 20. 5  Vd. Ferguson, op. cit., pp. 85-89 ; R. F. Evans, Pelagius’ veracity at the Synod of Diospolis, in Studies in Medieval Culture, edited by J. R. Sommerfeldt, Kalamazoo, Western Michigan University, 1964, pp. 21-30.  



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capitolo 3

per tradire il proprio pensiero. 1 Indipendentemente da come debba essere valutato il comportamento di Pelagio di fronte al sinodo, dal punto di vista della nostra ricerca sarà importante capire se e in che misura già nelle Expositiones si trovino posizioni che possono aver offerto lo spunto per lo sviluppo di dottrine in seguito condannate, sia che queste ultime siano state propagandate da Celestio, ma elaborate in realtà segretamente da Pelagio, come insinuarono Gerolamo, Agostino e Mario Mercatore, 2 sia che siano frutto di una riflessione personale del discepolo a partire da alcune idee condivise con il maestro. Prima di analizzare i passi delle Expositiones dove l’autore affronta il tema del peccato originale, risulterà utile tracciare un rapido quadro della storia del problema, in modo da chiarire lo status quaestionis al momento in cui Pelagio si accinse a comporre il suo commento alle epistole paoline. È noto che l’episodio della caduta dei progenitori, narrato in Gn 3, trova poco spazio negli altri libri dell’Antico Testamento : presso i Profeti Adamo è quasi sconosciuto, solo in Os 6, 7 viene ricordato come primo esempio di trasgressione della legge di Dio. Nella Sapienza troviamo qualche riferimento più esplicito, come, ad esempio, in 10, 1, dove però non si fa alcun accenno alla sentenza pronunciata da Dio contro i progenitori. È con San Paolo che si ha una prima riflessione sulla natura del peccato di Adamo e sulle sue conseguenze per l’umanità intera : Rm 5, 12-21 diverrà il passo con cui gli autori cristiani successivi saranno chiamati a confrontarsi ogni volta che si troveranno ad indagare il problema del peccato. Nell’Epistola ai Romani, infatti, San Paolo individua nella caduta di Adamo la fonte della morte e del peccato e mostra come in conseguenza di questo primo atto di ribellione a Dio l’uomo rechi nelle sue membra e nella sua carne un impulso a peccare che solo l’opera di redenzione del Cristo può cancellare. Tuttavia l’Apostolo ha lasciato senza risposta molte altre questioni, come era inevitabile in uno scritto che non nasce come trattazione monografica di argomenti teologici, ma come lettera volta a rimproverare, esortare ed incoraggiare i membri di una comunità ; proprio per la sua brevità il passo dell’epistola ai Romani in questione risulta estremamente complesso e di non immediata comprensione, soprattutto per le difficoltà date dal versetto 12 :  











Dia; tou`to w{sper di∆ eJno;~ ajnqrwvpou hJ aJmartiva eij~ to;n kovsmon eijsh`lqen, kai; dia; th`~ aJmartiva~ oJ qavnato~, kai; ou{tw~ eij~ pavnta~ ajnqrwvpou~ oJ qavnato~ dih`lqen, ejf∆ w/| pavnte~ h{marton.

L’espressione ejf∆ w/| pavnte~ h{marton darà luogo nel corso dei secoli a varie interpretazioni e sarà oggetto, come vedremo, di attenta riflessione da parte di Agostino. Non è questa la sede per un’analisi approfondita della teologia di San Paolo : ciò che ci preme maggiormente è indagare come il pensiero dell’apostolo sia stato interpretato nella tradizione patristica. Tuttavia sarà utile ricordare come in Rm 5, 12-21 l’oggetto principale della riflessione dell’Apostolo non sia tanto il peccato di Adamo, quanto la dottrina della redenzione. Infatti, l’attenzione è tutta concentrata sul parallelo CristoAdamo : Cristo, nuovo Adamo, libera l’uomo dalla legge, dalla morte e dal peccato, e come Adamo ci ha perduto, Cristo ci ha salvato. Il parallelo non deve tuttavia trarre in  



1  Sul Sinodo di Diospoli vd. anche S. Prete, op. cit., pp. 100-103 ; G. de Plinval, op. cit., pp. 284-292 ; A. Wayens, op. cit., pp. 156-161. 2  Vd. Hier., Dial. adv. Pel. iii, 16 ; Aug., De pecc. orig. ii, 12, 13 ; De gestis 21, 45-46 ; 33, 58 ; Mar. Merc., Commonitorium de Coelestio 4 (pl 48, 102A) ; Commonitorium adversus haeresim Pelagii et Coelestii 4 (pl 48, 113A).  













il peccato di adamo: natura e conseguenze

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inganno, in quanto Adamo è stato meno potente nel perderci del Cristo nel salvarci : infatti, « il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia da molte cadute per la giustificazione », 1 di conseguenza « dove ha abbondato il peccato, la grazia ha sovrabbondato ». 2 Concentrando la sua attenzione sulla dottrina del primo e del secondo Adamo, Paolo lascia aperte, come abbiamo detto, molte altre questioni : non risulta chiaro, infatti, quale sia il pensiero dell’Apostolo riguardo allo stato del primo uomo, e soprattutto se si possa riscontrare in lui l’idea del ‘peccato originale’ come un peccato di natura che ci rende tutti solidali con Adamo e di conseguenza tutti colpevoli di fronte a Dio. 3 I Padri della Chiesa, dunque, non ereditarono da San Paolo una chiara dottrina del peccato originale, ma elaborarono, a partire dal testo paolino, concezioni spesso fra loro divergenti ; capire quali conclusioni essi hanno tratto dalla riflessione su questo problema, quali interpretazioni hanno offerto della caduta del progenitore e delle sue conseguenze per l’umanità intera risulta fondamentale per valutare in maniera corretta l’apporto dato da Pelagio alla trattazione di questa tematica, che diverrà il principale terreno di scontro nel corso della controversia con Agostino.  



















1. Il peccato di Adamo presso i Padri Greci La dottrina del peccato originale non occupa un posto di rilievo nella speculazione dei Padri Greci, che tendono a concentrare la loro attenzione sulla figura e l’opera del Salvatore e a guardare alle speranze future dei Cristiani, piuttosto che indagare le questioni inerenti il peccato dei progenitori. Infatti, se tutti riconoscono che la pena subita da Adamo ha avuto conseguenze negative per l’intera umanità, dal momento che a causa della sua ribellione il male e la morte sono entrati nel mondo, tuttavia nella maggior parte dei casi non sono altrettanto chiari nello stabilire se questa solidarietà nella pena comporti anche una solidarietà nella colpa. È il caso, ad esempio, di Giustino e di Teofilo d’Antiochia, che senza dubbio non ignorano il problema della caduta e delle sue dolorose conseguenze per l’umanità intera, ma restano vaghi sulla trasmissione della colpa del progenitore ai discendenti. 4 Maggiore attenzione merita il caso di Ireneo. In maniera chiara Ireneo sostiene che tutti abbiamo peccato in Adamo e tutti abbiamo perso insieme a lui l’immagine e la somiglianza con Dio : noi formiamo un’unità mistica con i nostri progenitori, così come  



1  Rm 5, 16. 2  Rm 5, 20. 3  Vd. P. Grelot, Péché originel et Redemption dans l’Epitre aux Romains, « NRTh », 90, 1968, pp. 353-362 ; 449478 ; S. Lyonnet, Le sens de ejf∆ w/| en Rom 5, 12 et l’exégèse des Pères Grecs, « Biblica », 36, 1955, pp. 436-456 ; A. M. Dubarle, Il peccato originale nella Scrittura, Roma, ave, 1968 ; H. Rondet, Le Péché originel dans la tradition patristique et theologique, Paris, Fayard, 1966, pp. 1-32 ; J. Turmel, Histoire des dogmes. Le Péché originel. La Rédemption. Paris, Rieder, 1931, pp. 19-34 ; M. Flick, Z. Alszeghy, Il peccato originale, Brescia, Queriniana, 1974, pp. 46-54 ; P. F. Beatrice, Tradux peccati. Alle fonti della dottrina agostiniana del peccato originale, « Studia Patristica Mediolanensia », 8, 1978, pp. 142-158. Sulla teologia di Paolo la bibliografia è sterminata, ci limitiamo a segnalare alcuni studi che presentano esposizioni delle opere e del pensiero paolino : P. Althaus, La lettera ai Romani, Brescia, Paideia, 1970 ; F. Cordero, L’epistola ai Romani. Antropologia del Cristianesimo paolino, Torino, Einaudi, 1972 ; G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiane, Assisi, Cittadella, 1985 ; Idem, La teologia di Paolo. Abbozzi in forma epistolare, Bologna, edb, 1999 ; G. Barbaglio, R. Fabris, Le lettere di Paolo, 3v., Roma, Borla, 1980 ; R. Penna, L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Milano, Edizioni Paoline, 1991 ; R. Fabris, La tradizione paolina, Bologna, Dehoniane, 1995 ; Paolo. L’Apostolo delle genti, Milano, Edizioni Paoline, 1997 ; A. Pitta, Il paradosso della croce. Saggi di Teologia Paolina, Casale Monferrato, Piemme, 1998 ; Idem, Lettera ai Romani, Milano, Edizioni Paoline, 2001. 4  Vd. Iust., Dialog. 88, 4 ; 100, 4-6 ; Theofil., Ad Autolyc. ii, 23 ; 25-27.  



















































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capitolo 3

formiamo un’unità mistica con Cristo per la salvezza ; 1 per questo motivo l’umanità intera, che è coinvolta nella trasgressione primitiva, necessita a qualsiasi età, anche nell’infanzia, della purificazione del battesimo. 2 Da questi brevi riferimenti, risulta chiaro perché Agostino, per difendere la dottrina del peccato originale, abbia fatto appello proprio all’autorità di Ireneo. 3 Tuttavia dobbiamo inserire queste affermazioni nel loro contesto immediato e comprenderne il significato nella più ampia riflessione di Ireneo. Il vescovo di Lione, infatti, insiste soprattutto sulla bontà di Dio : l’accento dunque è posto non tanto sulla caduta, quanto sul cammino provvidenziale verso un avvenire pieno di promesse che Dio ha preparato per l’uomo. Se Dio ha creato l’uomo, è per riversare su di lui i Suoi doni. 4 Per questo Ireneo sostiene la salvezza di Adamo : ad essere stato colpito dalla maledizione divina è stato il serpente, non il primo uomo. 5 Adamo è il prototipo dell’umanità che, a meno che non vi sia una volontaria ostinazione nel compiere il male, come nel caso di Caino, non può essere destinata alla dannazione. 6 Quella di Ireneo è in fondo una visione ottimistica, dove l’uomo, anche dopo la caduta, resta creatura di Dio e conserva il proprio libero arbitrio : la preoccupazione del vescovo di Lione, come abbiamo detto, è quella di sottolineare la bontà di Dio, che non ha abbandonato l’uomo peccatore, ma al male ha previsto un rimedio, un piano salvifico che si realizza con la venuta del Cristo. Per quanto riguarda gli Alessandrini, ci occuperemo in maniera approfondita di Origene più avanti, quando confronteremo, sul tema che stiamo affrontando, il suo commento ai Romani con quello di Pelagio : in questa sezione introduttiva ci limitiamo ad esporre brevemente il pensiero di Clemente e di Atanasio. Le posizioni di Clemente Alessandrino rispecchiano l’atteggiamento diffuso fra i Padri Greci per quanto riguarda il peccato dei progenitori. Clemente, infatti, pur riconoscendo che il peccato è entrato nel mondo tramite Adamo e pur insegnando che il Cristo ha riscattato l’umanità dalla schiavitù del peccato, 7 non spiega in maniera chiara il rapporto che intercorre fra la corruzione universale e la colpa del primo uomo. Da quanto si può dedurre da alcune affermazioni, Clemente sembra ritenere che l’uomo nasca in qualche modo puro 8 e che l’influenza del peccato di Adamo sia da limitare al cattivo esempio, che gli uomini seguono commettendo peccati personali. 9 Il peccato non ha consistenza propria, ma è un prodotto dell’attività dell’uomo ; i fattori principali che spingono l’uomo a commettere peccato sono da individuare nell’ignoranza e nella debolezza (a[gnoia e ajsqevneia), che agiscono rispettivamente nella facoltà conoscitiva e in quella volitiva dell’uomo. 10 In questa prospettiva l’opera di redenzione del Logos incarnato si attua tramite l’insegnamento e la purificazione (didachv e kavqarsi~), mentre la via della salvezza passa attraverso l’apprendimento e l’esercizio della volontà (mavqhsi~ e a[skhsi~). Clemente considera il periodo che va da Adamo a Cristo come un periodo di oscurità e morte, ma anche come una fase di preparazione alla redenzione e alla vita tramite l’opera di redenzione del Cristo : il ruolo che in questa fase svolge la colpa del progenitore non è chiaro, e se viene esaltata la bellezza della redenzione, il suo fine ultimo, ovvero la remissione del peccato trasmesso da Adamo, non è chiaramente espresso. Per quanto riguarda Atanasio, nelle opere giovanili egli concepisce il peccato del progenitore come abbandono della contemplazione delle cose divine per la ricerca delle    

































1  Vd. Adv. haer. v, 16, 3 ; 34, 2. 2  Vd. Adv. haer. ii, 22, 4. 3  Vd. C. Iulian. i, 3. 4  Vd. Adv. haer. iv, 14, 1. 5  Vd. Adv. haer. iii, 23, 1-24. 6  Vd. Adv. haer. iii, 23, 4. 7  Vd. Protrept. xi, 111 ; Strom. ii, 12, 53-55 ; iii, 14, 94-95. 8  Vd. Strom. iv, 25, 160. 9  Vd. Adumbr. in ep. Judae, pg 9, 733. 10  Vd. Strom. vii, 13, 83 ; i, 6, 34.  









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cose sensibili : l’uomo, creato libero di scegliere, ha abbandonato la contemplazione di Dio per cercare ciò che è più vicino a lui, ovvero il corpo e la sensazione. 1 La prima conseguenza della colpa commessa da Adamo è stata la perdita della grazia della conformità all’immagine di Dio : 2 a causa della trasgressione del progenitore hanno fatto la loro comparsa la morte e la corruzione, 3 l’errore e l’ignoranza idolatrica. 4 Se nelle opere della giovinezza l’autore concentra la propria attenzione sulla misera condizione che Adamo ci ha trasmesso, non fa alcun esplicito riferimento ad una trasmissione anche della colpa. Solo nei Discorsi contro gli Ariani, l’autore lascia intendere che il peccato di Adamo è passato a tutti gli uomini : eij~ pavnta~ ajnqrwvpou~ e[fqasen hJ aJmartiva. 5 Tuttavia dal momento che più oltre l’autore, come abbiamo già avuto modo di vedere, insegna che prima della venuta di Cristo alcuni uomini furono santi e senza peccato, 6 ne deduciamo che il passo in questione non può essere inteso in senso ‘agostiniano’ e che in Atanasio i concetti di ‘natura’ e ‘grazia’ sono ancora vaghi e non precisati. In maniera analoga, i Cappadoci affermano in qualche misura una partecipazione di tutti gli uomini al peccato di Adamo 7 e riconoscono un processo di decadenza, un contrasto fra l’uomo primitivo e l’uomo attuale, che ha perso la sua vera natura e la somiglianza con Dio, 8 tuttavia non sembrano aver insegnato che l’anima umana sia in senso stretto contaminata dalla colpa originaria, come dimostra il fatto che Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo hanno negato la necessità del battesimo per gli infanti. 9 Tra gli Antiocheni, Giovanni Crisostomo ha frequentemente parlato del peccato originale nelle sue omelie sulla Genesi e sulle epistole di San Paolo. Egli riconosce che il peccato di Adamo ha provocato una decadenza profonda rispetto alla condizione paradisiaca sia per i progenitori, sia per i loro discendenti ; tuttavia tende a porre in evidenza come Dio, anche nella punizione, manifesti sempre la Sua provvidenza nei confronti dell’uomo : 10 perfino i frutti più amari della colpa originale, la mortalità e la perdita dell’innocenza, assumono un valore positivo, perché tramite la morte Dio impedisce che il peccato si perpetui in eterno e offre così agli uomini, mediante il timore che il pensiero della morte incute, un mezzo di santificazione. 11 Che egli veda nella mortalità la conseguenza principale della caduta dei progenitori risulta evidente anche dall’interpretazione che offre della celebre espressione ejf∆ w/| pavnte~ h{marton : egli ritiene, infatti, che l’affermazione di Paolo vada intesa nel senso che, in seguito alla caduta di Adamo, anche coloro che non si sono cibati dei frutti dell’albero sono divenuti « mortali ». 12 In maniera analoga intende aJmartwloiv di Rm 5, 19, non nel significato di « colpevoli », ma di « condannati alla morte ». Come ha notato Tixeront, 13 è singolare che Giovanni Crisostomo, così letterale solitamente nella sua esegesi, offra questa spiegazione particolare dell’espressione paolina : come altri Padri Greci, sembra concepire una solidarietà di tutti gli uomini con Adamo nella punizione, ma non nella colpa.  



   



















   























  1 

Vd. Cont. Gent. 3. 2  Vd. De incarn. 7, 4 : th;n tou` kat∆ eijkovna cavrin ajfaireqevnte~. Vd. ibid. 3, 4. 4  Vd. Cont. Gent. 8-10. 5  Orat. i, 51.   6  Vd. Orat. III contra Arianos 33, 1-2 ; vd. supra, p. 38.   7  Vd. Basil., Hom. dicta temp. famis et sicc. 8, 7 ; Greg. Naz., Orat. 22, 13 ; 19, 13 ; Greg. Nyss. In bapt. Christi, pg 46, 600A.   8  Vd. Greg. Nyss., De beat., or. iii, gno p. 104 ; Or. catech. 5, gno 3/4, pp. 18-20.   9  Vd. Greg. Nyss., De anima et res., pg 46, 120 ; Greg. Naz., Orat. 40, 23. 10  Vd. In Gen., hom. xviii, 3. 11  Vd. In Gen., hom. xviii, 3 ; In Rom., hom. x, 3. 12  Vd. In Rom., hom. x, 1. 13  J. Tixeront, Histoire des dogmes dans l’Antiquitè chrétienne, Paris, Librairie Lacoffre, 1924, t. ii, p. 148.  

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capitolo 3

Ai fini del nostro studio, particolarmente interessante risulta il pensiero di Teodoro di Mopsuestia. Questi compose un commento a tutte le epistole di Paolo, di cui restano soltanto frammenti della parte dedicata alle quattro epistole maggiori, e una traduzione latina del commento alle dieci epistole più brevi, dai Galati a Filemone. I rapporti fra l’opera esegetica di Teodoro e le Expositiones di Pelagio sono stati indagati da Swete, 1 il quale giunse alla conclusione che è Teodoro ad essere indebitato con Pelagio e non viceversa, opinione oggi generalmente accettata. 2 In effetti i punti di contatto con la dottrina pelagiana sono evidenti : la prima conseguenza del peccato di Adamo è stata quella di rendere gli uomini mortali. 3 È questa condizione di mortalità che rende l’uomo incline a peccare : ogni idea di una colpa trasmessa per generazione dal progenitore alla sua discendenza risulta esclusa. La posizione di Teodoro doveva essere ancora più chiara in un’opera che purtroppo conosciamo solo in maniera frammentaria, ma dal titolo programmatico : Pro;~ tou;~ levgonta~ fuvsei kai; ouj gnwvmh/ ptaivein tou;~ ajnqrwvpou~, probabilmente composta dopo il concilio di Diospolis del 415 per confutare le posizioni di Gerolamo. Infatti, basandosi sulla ragione e sulla Scrittura, l’autore tentava di dimostrare come solo la morte appartenesse alla natura, mentre il peccato è da ascrivere non alla natura, ma alla volontà. 4 Per concludere, tutti i Padri Greci riconoscono la decadenza ereditaria, ovvero riconoscono nel peccato di Adamo la fonte della condizione mortale, delle miserie fisiche e morali dell’umanità. Occorre tuttavia tenere presente una distinzione messa in luce da Joseph Turmel nella sua Histoire des dogmes : 5 decadenza ereditaria e peccato ereditario sono due concetti ben diversi ; riconoscere la prima non implica accettare anche il secondo e ritenere che Adamo abbia trasmesso ai suoi discendenti, oltre alla pena del peccato, il suo peccato medesimo. I Padri Greci riconoscono che gli uomini nascono soggetti alla morte fisica e al dolore e che la loro natura in seguito al peccato originale è decaduta e corrotta, ma non sembrano ritenere che essi vengano al mondo anche in una situazione di vero e proprio peccato, quello che hanno ereditato da Adamo e che li condanna alla dannazione eterna. Se dunque nei Padri Greci, fatta eccezione per Teodoro di Mopsuestia, non si riscontra una esplicita condanna della trasmissione ex traduce del peccato originale, non troviamo neppure esplicite dichiarazioni a favore di questa dottrina.  













   



2. Il peccato di Adamo nei Padri Latini Presso i Padri Latini non troviamo trattazioni specifiche riguardanti il peccato originale : sarà utile tuttavia soffermarsi sulle loro dichiarazioni occasionali, nel tentativo di capire  

1  H. B. Swete, Theodori Episcopi Mopsuesteni in epistolas b. Pauli Commentarii : The Latin Version with the Greek Fragments. With an Introduction, Notes and Indices, Cambridge, Cambridge University Press, 1880-1882, pp. lxxivlxxxvi. 2  Fu incline invece alla conclusione opposta C. H. Turner (Greek Patristic Commentaries on the Pauline Epistles, in A Dictionary of the Bible, ed. James Hastings with John A. Selbie, Edinburgh and New York, 1898-1904, v, pp. 484-530), ritenendo inusuale che un autore greco si sia servito di una fonte latina e considerando inoltre che, in almeno due paralleli (Gal 3, 20 ; Tim 2, 20), mentre Teodoro offre solo la propria interpretazione, Pelagio premette al commento che risponde a quello di Teodoro la formula ut quidam putant. Tuttavia, a sostegno della posizione di Swete, ricordiamo che Teodoro conosceva il latino (come dimostra la sua nota a 2 Tim 4, 13) ed era intimo di Pelagio, dato che sembra convalidare l’ipotesi che possa aver tenuto presenti le Expositiones nella stesura del suo commento. 3  Vd. In Rom. 5, 13 ; 5, 21 ; 7, 19 ; In Gal. 1, 4-5 ; 3, 21 ; In Eph. 4, 22-23. 4  Vd. pg 66, 1010C. 5  Op. cit., p. 9.  













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se l’idea di una contaminazione originale fosse già presente, anche se non pienamente sviluppata, nella Chiesa d’Occidente prima di Agostino e del sorgere della controversia pelagiana. Come nel caso dei Padri Greci, ci limiteremo ad un breve excursus, con l’intento di delineare il contesto storico-dottrinale in cui si svilupparono le idee di Pelagio : prenderemo in analisi, dunque, il pensiero di Tertulliano, Cipriano e Ambrogio, mentre le opere dell’Ambrosiaster e i trattati composti da Agostino prima del 411, visti i loro stretti rapporti con le Expositiones di Pelagio, saranno oggetto successivamente di una più approfondita trattazione. Secondo Tertulliano, la colpa di Adamo, commessa sotto l’influenza del demonio, ha portato la morte ed è stata causa di altre colpe ed altri castighi, ma soprattutto ha generato in noi l’‘irrazionale’, divenuto una sorta di seconda natura : l’irrazionale ha avuto origine dall’istigazione del serpente e si è poi insinuato nell’anima, crescendo insieme ad essa quasi fosse una proprietà della natura umana. 1 Il male dunque viene dal diavolo e da un vizio originale che ha corrotto la nostra natura ; 2 Adamo soltanto ha posseduto, prima della caduta, la vera natura nella sua purezza : all’umanità successiva egli ha trasmesso una natura corrotta, segnata dalla colpa originale. Questa trasmissione avviene ex carnis societate 3 per traducianesimo : Totum genus a suo semine infectum, suae etiam damnationis traducem fecit. 4 Questa solidarietà con Adamo nella corruzione implica anche una certa partecipazione alla colpa, come risulta evidente dal seguente passo del De resurrectione mortuorum :  





   











Portavimus enim [eam] imaginem choici per collegium transgressionis, per consortium mortis, per exilium paradisi. 5  

Questa corruzione, questo vizio originale è trasmesso anche ai bambini, siano essi figli di gentili o di fedeli : tutti perciò necessitano del battesimo, perché nessuna anima nasce pura. 6 Questa convinzione deriva da una concezione dell’anima come sostanza materiale che si trasmette per generazione dai genitori ai figli : 7 ogni anima è affetta da un vitium originis, perché ogni anima ha tratto la sua origine da quella di Adamo. 8 Dobbiamo tuttavia precisare che la dottrina di Tertulliano riguardo al peccato originale non è così chiara e lineare come potrebbe apparire ad una prima analisi. Ad esempio, nel De baptismo l’autore afferma di non comprendere l’uso di battezzare i bambini, dal momento che la loro età innocente non richiede la remissione dei peccati. 9 Inoltre, se in Res. 49, 6 l’espressione collegium transgressionis sembra implicare una solidarietà diretta con Adamo nella colpa, poco dopo l’autore sembra suggerire che l’uomo ha perduto il Regno dei Cieli imitando la trasgressione del progenitore e dedicandosi alle opere della carne. 10 Nonostante il pensiero di Tertulliano risulti piuttosto incerto e fluttuante, non si potrà negare la presenza nei suoi scritti di concetti che verranno ripresi, sviluppati e definiti con maggiore precisione nella speculazione teologica successiva. Cipriano riprenderà le tesi del maestro, mostrandosi però meno equivoco per quanto riguarda il battesimo dei bambini. Per designare le conseguenze del peccato di Adamo Cipriano utilizza una metafora che diverrà in seguito classica : il Salvatore è venuto per guarire le ferite ricevute da Adamo e il veleno del serpente (vulnera et venena serpentis antiqua). 11 Cipriano difende l’assoluta necessità del battesimo subito dopo la nascita, in quanto il bambino, che discende da Adamo secondo la carne, contrae il contagium  



   













1  An. 16, 1-2. 5  Res. 49, 6. 9  Vd. Bapt. 18, 5.

2  Vd. An. 41, 1. 6  An. 39, 4.

3  Ibid. 40, 1. 7  Vd. An. 6, 1-5 ; 22, 2. 10  Vd. Res. 49, 12.  

4  Test. 3, 2. 8  Vd. ibid. 40, 1. 11  De opere et elem. 1.

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capitolo 3

mortis antiquae : 1 di conseguenza si rende indispensabile la remissione dei peccati, sebbene si tratti non di propria peccata, che il neonato non ha evidentemente ancora potuto commettere, ma di aliena peccata, 2 ovvero del peccato che egli porta in sé discendendo carnalmente da Adamo. Beatrice 3 ha osservato come nell’espressione contagium mortis antiquae sia possibile cogliere una chiara allusione alla trasmissione di un’infezione, alla propagazione di un male, la ‘morte antica’, che si verifica tramite la procreazione fisica. Questo contagio altro non è che la sporcizia (sordes) inerente al processo di generazione, sporcizia che può essere lavata via solo tramite il battesimo : 4 secondo Beatrice sono presenti in una formulazione tutt’altro che vaga tutti gli elementi costitutivi della nozione di ‘peccato ereditario’, e non a caso l’Epistola 64 ad Fidum di Cipriano verrà menzionata spesso da Agostino 5 e ricordata anche da Gerolamo al termine del Dialogus adversus Pelagianos per sostenere la correttezza delle posizioni agostiniane. 6 Tuttavia, lo studioso tiene anche a precisare come Cipriano sia ben lungi da una cupa concezione della nascita umana e della generazione : a suo avviso, infatti, non solo i bambini nascono innocenti, ma il vero motivo che spinge ad amministrare il battesimo il prima possibile non è dato tanto dalla necessità di purificarli dal peccato originale, quanto piuttosto dalla volontà di aggregare il più rapidamente possibile alla Chiesa delle creature che, in quanto uscite direttamente dalle mani di Dio, sono caratterizzate da una bontà naturale. 7 Beatrice giunge quindi alla conclusione che Cipriano non poteva accogliere senza riserve il principio della trasmissibilità del peccato che, se condotto alle estreme conseguenze, avrebbe finito per minare le basi di un altro fondamentale principio etico, quello della responsabilità personale. A questo principio Cipriano attribuisce grande valore, insistendo sul fatto che ciascuno è responsabile del suo proprio peccato e che nessuno può, di conseguenza, essere ritenuto colpevole per conto di un altro. 8 Non troviamo in Cipriano trattazioni più estese e approfondite del problema, ma i brevi riferimenti presi in considerazione consentono di affermare che per il vescovo di Cartagine esiste comunque un contagio, un vizio che da Adamo si è trasmesso all’umanità intera : una posizione, questa, molto vicina a quella già espressa precedentemente da Tertulliano. Più complessa appare la dottrina del peccato originale in Ambrogio. In primo luogo il vescovo di Milano sottolinea la nostra solidarietà in Adamo :    





   















Potest tamen et hic in uno accipi species generis humani. Fuit Adam, et in illo fuimus omnes. Periit Adam et in illo omnes perierunt. Homo igitur et in illo homine qui perierat, reformatur. 9  

Questa solidarietà non è soltanto nella pena, ma anche nella colpa : ogni uomo è caduto in Adamo, è stato cacciato con lui dal Paradiso, è morto con lui, essendo in illo culpae obnoxium. 10 Secondo Beatrice 11 in questi passi è affermato con chiarezza il principio dell’identità di Adamo con l’umanità, un’identità fisica, seminale, per la quale gli uomini, contenuti nei lombi di Adamo, hanno subito le conseguenze del suo peccato. 12 Basandosi sulle parole di Sal 50, 7 (« Ecco, sono stato concepito nelle iniquità ») e su Gb 14, 4-5a (« Chi sarà puro dalla sozzura ? Nessuno, nemmeno se la sua vita sulla terra è di un giorno ! »), Ambrogio afferma che gli uomini sono colpevoli per generazione e che il  















   

  1  Vd. Hab. virg. 2. 2  Epist. 64 Ad Fidum 5. 3  Beatrice, op. cit., pp. 185-190.   4  Vd. Hab. virg. 23.   5  Vd. Pecc. merit. iii, 5, 10 ; Sermo 294, 20, 19 ; De nupt. conc. ii, 29, 51 ; C. duas epp. Pel. iv, 8, 23 ; C. Jul. i, 3 ; 6 ; iii,  

17 ; Op. imp. i, 106.   8  Vd. Epist. 55, 27. 11  Op. cit., p. 178.  



6  Dial. adv. Pel. iii, 18. 9  In Luc. vii, 234. 12  Vd. De paradiso 13, 67.





7  Vd. Ep. 64, 2. 10  De exces. fratris 2, 6.





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concepimento non è privo di iniquità, perché anche i genitori pagano il loro tributo alla caduta di Adamo. 1 Solo il Cristo fu esente da questa condizione, perché in seguito alla Sua nascita virginale non recò in sé il mortalis originis inquinamentum, il generationis naturale contagium : 2 tutti siamo colpevoli, perché la colpa si è trasmessa in tutti per successione naturale. 3 In queste affermazioni Beatrice 4 individua pressoché tutti gli elementi costitutivi della dottrina del peccato originale che egli rileva anche nell’opera di Agostino : l’uso dei caratteristici testimonia biblici, il salmo 50, 7 e Gb 14, 4, l’idea della nascita naturale dell’uomo come tramite per la propagazione del peccato, la nascita virginale di Gesù come condizione del Suo essere esente dall’umiliazione del peccato originale. Si potrebbe dunque ricavare l’impressione che Ambrogio abbia elaborato una chiara dottrina del peccato originale, basata sulla nozione della trasmissione della colpa per mezzo della generazione sessuale. In realtà il pensiero del vescovo di Milano è molto meno lineare di quanto possa apparire. In primo luogo egli sostiene che i bambini nascono innocenti, senza alcuna colpa. 5 Se rivendica la necessità assoluta del battesimo degli infanti, ritiene anche che ai bambini morti senza essere battezzati sia riservata una immunità dalle pene, mentre si mostra incerto se possano accedere o meno all’onore del Regno. 6 Inoltre Ambrogio interpreta in maniera molto singolare il rito battesimale della lavanda dei piedi : sostiene, infatti, che mentre con il battesimo vengono cancellati i peccati personali, con la susseguente lavanda dei piedi viene eliminato il peccato originale che gli uomini ricevono per trasmissione da Adamo. 7 Questa iniquitas calcanei è, per Ambrogio, non un vero e proprio peccato (reatus), quanto piuttosto un’inclinazione a commettere il male (lubricum delinquendi) : 8 per questo motivo non deve essere temuta, perché nel giorno del giudizio saranno puniti soltanto i peccati personali, non l’iniquità di Adamo. 9 Come ha osservato Beatrice, questa strana lettura del rito della lavanda dei piedi mostra una certa avversione per le conseguenze radicali della dottrina della colpa ereditaria : quella del peccato originale costituiva probabilmente una credenza ampiamente diffusa nella teologia occidentale del iv secolo, ma non mancava di suscitare in alcuni pensatori, come Ambrogio, inquietudini per certe sue implicazioni, come il venir meno del concetto stesso della responsabilità personale. 10 A che punto si trovava dunque la riflessione teologica quando Pelagio si accingeva a comporre le sue Expositiones ? Nel rispondere a questa domanda non possiamo non accennare alla problematica riguardante l’origine del dogma del peccato originale : a lungo infatti gli studiosi hanno discusso se vedere o meno in questo concetto un prodotto della riflessione di Agostino, una novità che il vescovo di Ippona avrebbe introdotto nella dottrina della Chiesa. Turmel, ad esempio, riteneva che sia i Padri Greci sia i Padri Latini precedenti Agostino avessero avuto idee piuttosto confuse sul peccato originale : se in questi autori è possi 

   















   













  1  Vd. Apol. David i, 11, 56. 2  Apol. David i, 11, 57. 3  Ibidem ii, 12, 71.   4  Op. cit., p. 176. 5  Vd. De paradiso 6, 31. 6  Vd. De Abraham ii, 11, 84.   7  Vd. De myst. 6, 31-32 ; vd. anche De sacr. 3, 4-7 ; En. in Ps. 48, 8-9. 8  En. in Ps. 48, 9.   9  Ibid. : Dominus autem, qui sua peccata non habuit, nec cognovit proprias iniquitates, ait : ‘Iniquitas calcanei mei  







circumdabit me’ hoc est iniquitas Adae, non mea. Sed ea non potest mihi esse terrori : in die enim iudicii nostra in nobis, non alienae iniquitatis flagitia puniuntur. 10  Beatrice, op. cit., pp. 181- 185. La bibliografia sul peccato originale è molto vasta, mi limito a ricordare le opere più importanti, che sono state tenute presenti nella stesura di questa sezione introduttiva al problema : A. Gaudel, Péché originel, in Dictionnaire de Théologie catholique, xii, i, Paris, Letouzey et Ané, 1933, coll. 317-382 ; Grelot, art. cit. ; Turmel, op. cit. ; Rondet, op. cit. ; A. M. Dubarle, Il peccato originale, Bologna, edb, 1984 ; E. Testa, Il peccato di Adamo nella patristica, Gerusalemme, Tipografia dei PP. Francescani, 1970 ; Tixeront, op. cit.  

   











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capitolo 3

bile rintracciare la dottrina della decadenza ereditaria, non si può sostenere altrettanto per quanto riguarda il concetto di peccato ereditario, che a suo avviso sarebbe stato creato ex novo da Agostino e da lui consegnato alla teologia latina medievale. 1 Diversa è la posizione di Gaudel, per il quale Agostino non avrebbe fatto altro che riprendere, sviluppare ed organizzare in un sistema coerente dottrine già presenti negli autori precedenti. Questa opinione fu condivisa da Rondet, il quale ritenne che Agostino si richiamasse alla tradizione e che le differenze fra Greci e Latini fossero essenzialmente verbali e non toccassero la sostanza della dottrina. 2 Altri studiosi hanno tentato di individuare le fonti a cui Agostino può avere attinto per elaborare la sua dottrina. Buonaiuti, ad esempio, riteneva di poter cogliere in nuce tutta la dottrina spiegata da Agostino nella sua campagna antipelagiana nel commento dell’Ambrosiaster a Rm 5, 12, 3 una posizione che avremo modo di valutare e discutere quando confronteremo i vari commenti ai celebri versetti paolini. In tempi più recenti Gerard Bonner ha ripreso una teoria già accennata da Refoulé. Come abbiamo già avuto modo di vedere, 4 questi riteneva il Liber de Fide di Rufino precedente al De peccatorum meritis di Agostino e di conseguenza vedeva nella concezione detta ‘agostiniana’ del peccato originale e della sorte dei bambini morti senza battesimo, un theologoumenon diffuso non solamente in Africa, ma anche in Italia prima dello scoppio della crisi pelagiana nel 411. 5 Prendendo spunto dall’articolo di Refoulé, Bonner 6 individuava il punto di partenza della riflessione agostiniana nella dottrina della colpa originaria espressa da Cipriano e nella credenza nella sorte miserevole di quanti sono morti senza battesimo, che doveva essere diffusa in Africa e che a suo avviso trova espressione nella Passio Perpetuae. 7 In questa linea di ricerca si colloca anche Beatrice, che nel suo saggio Tradux Peccati ha proposto una teoria tanto innovativa, quanto criticata, rintracciando le fonti della concezione agostiniana del peccato originale nelle dottrine dei circoli encratiti diffusi in Egitto nella seconda metà del ii secolo, dottrine che trovarono in Giulio Cassiano un autorevole esponente. Secondo lo studioso, infatti, per Agostino, proprio come per gli encratiti, il peccato originale coincide con la concupiscenza sessuale : fin da quando nasce l’uomo reca in sé questo demone che lo tiene schiavo e che gli deriva dalla nascita fisica trasmessa da Adamo. 8 Secondo Beatrice, dunque, la teoria agostiniana non va ricondotta troppo semplicisticamente alle pure fonti della rivelazione neotestamentaria, ma, nell’affermare le sue tesi sul peccato originale, Agostino avrebbe ripreso con grande fedeltà un’antichissima dottrina giunta sino a lui tramite la tradizione popolare e liturgica (il pedobattesimo) del cristianesimo latino, africano in particolare, fortemente caratterizzato da elementi di origine encratita. 9 La tesi di Beatrice ha incontrato forti resistenze : in particolare Trapé e De Simone hanno mosso obiezioni all’assunto di partenza, ritenendo che Agostino mai abbia iden 





















1  Turmel, op. cit., pag. 9. 2  Rondet, op. cit., pp. 154-155. 3  E. Buonaiuti, Agostino e la colpa ereditaria, « RicR », 2, 1926, pp. 401-427. 4  Vd. supra, p. 43. 5  Refoulé, art. cit. pp. 44-49. 6  G. Bonner, Les origines africaines de la doctrine augustinienne sur la chute et le péché originel, « Augustinus », 12, 1967, pp. 97-116. 7  Secondo Bonner (art. cit., pag. 114) l’episodio della Passio Perpetuae in cui la martire ha la visione di suo fratello Dinocrate (Pass. Perp. 7), poteva costituire un argomento a favore della necessità del battesimo, che evita i tormenti sofferti da Dinocrate prima di essere liberato per intercessione della sorella ; vd. anche C. Beretta, La visione di Dinocrate nella Passio Perpetuae come ermeneutica di 1Cor 15, 29, « asr », 7, 2002, pp. 195-223. 8  Op. cit., p. 239. 9  Op. cit., p. 302.  













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tificato il peccato originale con la concupiscenza e la concupiscenza con la sessualità. Secondo i due studiosi, per quanto riguarda concupiscenza, matrimonio e peccato originale, pessimismo encratita e dottrina agostiniana sono radicalmente diversi : Agostino a più riprese difende la bontà del matrimonio e della procreazione, il bonum prolis, nonché la bontà della natura umana in quanto opera di Dio, nonostante la condizione di corruzione e peccato in cui viene trasmessa. Le fonti della dottrina agostiniana del peccato originale andrebbero allora ricercate nella scrittura e nella tradizione stessa della Chiesa occidentale, in particolar modo in Cipriano e Ambrogio. 1 Se non è facile individuare con certezza quali possono essere stati gli autori e i testi che hanno influenzato Agostino nella sua riflessione su un argomento tanto importante, possiamo considerare ormai un dato acquisito il fatto che il vescovo di Ippona non possa essere considerato l’inventor della dottrina della colpa ereditaria : il suo ruolo nella storia di questo theologoumenon è stato senza dubbio di capitale importanza e non va in alcun modo sottovalutato, ma mi sembra ormai evidente, dagli studi che sono stati condotti sui Padri Latini precedenti la controversia pelagiana, che egli ha ripreso, rielaborato e approfondito un’idea ampiamente diffusa a suo tempo, in particolar modo in Occidente. Al momento in cui Pelagio compose il suo commento, il dogma non era ancora stato fissato e varie erano le teorie circolanti sull’origine dell’anima, sulla natura e sulle conseguenze del peccato dei progenitori : fra queste anche l’idea, non ancora delineata con precisione, di una trasmissione ex traduce del peccato di Adamo, che rende tutti colpevoli di fronte a Dio. Sarà interessante vedere come la questione viene affrontata nelle Expositiones, partendo proprio dall’analisi di Rm 5, 12-21 e confrontando le posizioni di Pelagio con quelle di commenti precedenti o contemporanei : seguendo lo stesso metodo che abbiamo impiegato per indagare il significato attribuito da Pelagio alla lex naturae e alle sue relazioni con la legge mosaica, prenderemo in analisi i commenti di Origene-Rufino, dell’Ambrosiaster, dell’Anonimo di Budapest, e le opere di Agostino precedenti lo scoppio della polemica nel 411 ; un confronto fra i vari autori per quanto riguarda l’interpretazione di Rm 5, 12-21 consentirà di ricostruire il background culturale delle Expositiones e di cogliere gli aspetti innovativi del pensiero di Pelagio rispetto alle dottrine circolanti al tempo.  











3. Rm 5, 12-20: le interpretazioni di Origene-Rufino e Pelagio a confronto Anche per quanto riguarda la tematica del peccato originale, come nel caso della lex naturae, il confronto fra il Commento alla lettera ai Romani di Origene e le Expositiones risulta indispensabile per comprendere alcuni aspetti del pensiero di Pelagio. Il punto di partenza per un’analisi dei rapporti fra i due commenti è rappresentato, come sempre, dallo studio di Smith, che presenta tuttavia dei limiti : come vedremo, lo studioso ha dato troppo peso a certe corrispondenze nel lessico e nella costruzione della frase, individuando delle somiglianze anche là dove il pensiero dei due autori diverge sensibilmente. Il nostro studio si svilupperà tramite un’analisi parallela dei due commenti ai singoli versetti del testo di Paolo : si tenterà di mettere in luce il debito contratto da Pelagio con  



1  Vd. A. Trapé, Tradux Peccati. A proposito di un libro recente, « Augustinianum », 19, 1979, pp. 531-538 ; R. J. De Simone, Modern research on the sources of Saint Augustine’s doctrine of original sin, « AugStud », 11, 1980, pp. 205-227.  









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il grande esegeta Alessandrino, ma anche gli aspetti peculiari del suo pensiero, aspetti che si possono già cogliere nelle concise osservazioni delle Expositiones. 3. 1. Rm 5, 12 Il punto di partenza della nostra riflessione sarà rappresentato dal commento dei due esegeti a Rm 5, 12. Pelagio, con la brevità che lo caratterizza, così spiega il versetto in questione :  

Quo modo, cum non esset peccatum, per Adam advenit, ita etiam, cum paene aput nullum iustitia remansisset, per Christum est revocata ; et quo modo per illius peccatum mors intravit, ita et per huius iustitiam vita est reparata. 1  



Questa breve osservazione sembra quasi riassumere l’ampia esposizione di Origene : il testo di Paolo presenta, infatti, un anacoluto che i due autori completano allo stesso modo. A Rm 5, 12 l’Apostolo introduce un paragone, un confronto di cui viene esplicitato solo il primo termine :  



Propter ea sicut per unum hominem in hunc mundum peccatum introiit et per peccatum mors. Et ita in omnes homines pertransiit, in quo omnes peccaverunt.

Origene dedica alla spiegazione delle parole di Paolo una trattazione molto più estesa rispetto a Pelagio, 2 ma l’integrazione che propone per completare il senso del testo è la stessa :  



‘Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransiit, in quo omnes peccaverunt’, non retulit ut diceret, verbi causa : Ita et per unum hominem iustitia introivit in hunc mundum, et per iustitiam vita, et sic in omnes homines vita pertransiit, in qua omnes vivificati sunt : hoc enim videbatur propositi eloquii sensus expetere, secundum ea quae in aliis ipse proloquitur.  



L’Apostolo ha dunque voluto stabilire, secondo i due commentatori, un parallelo fra Adamo e Cristo : come a causa di un solo uomo il peccato ha fatto il suo ingresso nel mondo e con il peccato la morte, così a causa di un solo uomo ha fatto il suo ingresso la giustizia e tramite la giustizia la vita. I termini del confronto utilizzati dai due autori sono gli stessi : peccatum, mors, iustitia, vita. Non deve tuttavia sfuggire una sottile quanto significativa differenza : l’utilizzo in Pelagio dell’avverbio paene e del verbo revocare in riferimento alla giustizia, là dove Origene impiega introire. Pelagio sostiene che il peccato ha fatto il suo ingresso nel mondo per la prima volta in seguito alla colpa commessa da Adamo, mentre in precedenza non esisteva (cum non esset peccatum, per Adam advenit) ; prima di Cristo, invece, la giustizia non era rimasta quasi presso nessuno, e non si è manifestata per la prima volta nel mondo con la venuta di Cristo, ma è stata da Cristo ‘richiamata’, ‘fatta tornare’, ‘ristabilita’ (cum paene aput nullum iustitia remansisset, per Christum est revocata). Non si tratta di una differenza di poco conto ; alla base vi è la convinzione secondo cui prima dell’avvento del Salvatore esistevano dei giusti, anche se pochi : uomini che ubbidendo alla legge interiore si sono mantenuti sulla retta via e si sono resi graditi a Dio. Come abbiamo già avuto modo di vedere, si tratta di una posizione, di un modo di concepire la storia dell’umanità e della salvezza, che sembra peculiare di Pelagio, probabilmente frutto  











1  Pel., Exp. in Rm 5, 12, p. 45 Souter.

2  Vd. Expl. in Rom., v, 1, p. 360 Bammel.

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di una sua personale riflessione : non se ne trova traccia in Origene, il quale avverte il problema della salvezza dei patriarchi, ma lo risolve in maniera del tutto diversa, come risulta evidente dal commento alla restante parte del versetto 12. La seconda parte del versetto 12 assumerà un ruolo centrale nella storia del dogma del peccato originale e verrà ripetutamente chiamata in causa nel corso del dibattito sulla trasmissione ex traduce della colpa dei progenitori. Sarà utile riportare il commento di Pelagio :  



‘Et ita in omnes homines [mors] pertransiit, in quo omnes peccaverunt’. Dum ita peccant, et similiter moriuntur : non enim in Abraham et Isaac [et Iacob] pertransiit, [de quibus dicit dominus : ‘omnes enim illi vivunt’] hic autem ideo dicit omnes mortuos quia in multitudine peccatorum non excipiuntur pauci iusti, sicut ibi : ‘non est qui faciat bonum, non est usque ad unum’, [et ‘omnis] homo mendax’. Sive : In eos omnes pertransiit qui humano [et] non caelesti ritu vivebant.  







Innanzi tutto dobbiamo notare come il soggetto di pertransiit è per Pelagio, come per Origene, la morte : 1 anche se probabilmente nel testo il termine mors va espunto, in quanto assente in B, in V e nei Fragmenta Vaticana, questo dato risulta evidente dal commento successivo (dum ita peccant et similiter moriuntur). Non si tratta di un elemento trascurabile : il soggetto da dare a pertransiit sarà causa di aspri dibattiti fra i seguaci di Pelagio e Agostino, il quale accuserà gli avversari di non aver inteso correttamente il testo paolino e considererà soggetto di pertransiit non mors, ma peccatum. 2 Il successivo riferimento a Abramo, Isacco e Giacobbe, dei quali si dice che non sono stati toccati dalla morte, ci fa capire come Pelagio intenda qui per mors non la morte fisica, ma la morte spirituale, la morte dell’anima : i giusti non sono stati sfiorati dalla morte dell’anima, conseguenza del peccato di Adamo. Del resto, se avesse voluto far riferimento alla morte fisica, avrebbe potuto ricordare Enoch ed Elia, che furono rapiti in cielo e non conobbero la morte, esempi citati sia da Rufino di Siria nel suo Liber de Fide, 3 sia da Origene. 4 Equivoca risulta invece a questo riguardo l’interpretazione di Origene : se, infatti, in Expl. in Rom v, 1 (p. 371 Bammel) 5 parla in maniera esplicita di morte dell’anima come conseguenza del peccato, in Expl. in Rom v, 4 (p. 406 Bammel) 6 afferma che le parole di Paolo possono essere anche spiegate in maniera più semplice, vedendo nella morte comune, nella morte fisica che colpisce tutti, anche i giusti, la condanna per la colpa commessa da Adamo : i casi di Enoch e Elia sarebbero solo l’eccezione che conferma la regola. Le due realtà risultano comunque per l’Alessandrino strettamente connesse : la morte fisica è come l’ombra della morte dell’anima, in quanto la prima segue necessariamente la seconda. 7 È probabile, dunque, che, quando parla di una trasmissione della    























1  Nel testo latino la pericope et sic in omnes homines pertransiit è priva di un soggetto espresso, che invece è presente nel greco ed è oJ qavnato~. 2  Vd. Aug., C. duas epp. Pel. iv, 4, 7 ; vd. G. Raspanti, Il peccato di Adamo e la grazia di Cristo nella storia dell’ umanità. Rilettura del commento di Ambrosiaster a Rom. 5, 12-21, « Augustinianum », 2008, pp. 435-479, pp. 439-440. 3  Vd. De fide 39, p. 112 Miller. 4  Vd. Expl. in Rom v, 4, p. 406 Bammel. 5  ‘Et per peccatum’, inquit, ‘mors’. Illa sine dubio mors de qua et propheta dicit quia ‘anima quae peccat, ipsa morietur’ cuius mortis hanc corporalem mortem umbram merito quis dixerit. Quocunque enim illa incesserit, hanc necesse est subsequi, velut umbram corpus. 6  Et sufficere forsitan potest secundum semplicem expositionem, ut dicamus condemnationem esse delicti communem hanc mortem, quae omnibus venit, et veniet, etiam si iusti videantur. Quod si forte aliquis obiiciat de Enoch et Elia qui translati sunt ne viderent mortem, hoc modo haec causa salvatur, quod non continuo falsa videantur ea quae de omnibus dicuntur, si aliqua dispensatio Dei in uno vel duobus hominibus facta est. 7  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 371 Bammel (cf. supra, n. 5).  





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morte a tutti i discendenti di Adamo in conseguenza della generazione fisica, Origene consideri il fenomeno tenendo presenti entrambi gli aspetti, cioè la morte fisica, corporale, e quella spirituale :  

Si ergo Levi, qui generatione quarta post Abraham nascitur, in lumbis Abrahae fuisse perhibetur, multo magis omnes homines qui in hoc mundo nascantur, et nati sunt, in lumbis erant Adae, cum adhuc esset in Paradiso ; et omnes homines cum ipso vel in ipso expulsi sunt de paradiso, cum ipse inde depulsus est ; et per ipsum mors, quae ei ex praevaricatione venerat, consequenter et in eos pertransiit qui in lumbis eius habebantur. 1  





L’espressione in lumbis erant Adae è molto forte, ma non deve trarre in inganno : Origene non fa mai riferimento alla trasmissione ex traduce del peccato, della colpa del primo uomo. Infatti, se riconosce una solidarietà di tutti gli uomini con Adamo nella pena, che, comminata al progenitore, ha avuto conseguenze per l’umanità intera, non parla mai di una corresponsabilità nella trasgressione al precetto divino : questo aspetto risulterà più evidente procedendo nell’analisi dei due commenti, che metterà in luce su questo tema i punti di contatto, ma anche le profonde divergenze fra i due autori. Ma torniamo al problema dei giusti vissuti prima dell’avvento di Cristo : la posizione di Origene in proposito fa emergere con evidenza la novità del pensiero di Pelagio. Infatti, Origene sostiene che tutti, in misura maggiore o minore, hanno peccato : anche Abele, Matusalemme, Noè prima di divenire giusti e graditi a Dio hanno commesso le loro mancanze, 2 per questo l’Apostolo dice che tutti hanno peccato e su tutti gli uomini è passata la morte. 3 La visione di Pelagio è, come abbiamo visto, molto diversa ; lo spinoso problema della salvezza di quanti sono stati giusti prima dell’avvento di Cristo è risolto da Pelagio in maniera semplice e chiara : quanti, prima della legge mosaica e della venuta del Salvatore, si sono comportati rettamente seguendo la legge naturale, che tutti gli uomini possiedono nel loro cuore come guida per volontà di Dio, sono scampati alla morte spirituale, conseguenza del peccato di Adamo. Trovo dunque non accettabile quanto sostenuto da Smith 4 a proposito del commento di Pelagio a Rm 5, 15 :  



















Quia Adam tantum se et suos posteros interfecit, Christus autem et qui erant tunc in corpore et posteros liberavit. 5  

Lo studioso, infatti, osserva che l’interpolatore pelagiano delle Expositiones 6 in vari punti precisa che posteros indica non tutti coloro che discendono da Adamo, ma quanti, seguendo Adamo, hanno peccato a somiglianza della sua trasgressione. A suo avviso la visione dell’interpolatore è la stessa di Pelagio e anche di Origene, di cui riporta la seguente affermazione : 7  

   

1  Expl. in Rom v, 1, p. 368 Bammel ; vd. anche ibid. v, 1, pp. 367-368 Bammel. 2  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 372 Bammel. 3  Ibid. : Absoluta sententia pronuntiavit apostolus in omnes homines mortem pertransisse peccati, in eo in quo omnes peccaverunt. 4  Art. cit., p. 145. 5  Exp. in Rm 5, 15, p. 46 Souter. 6  Il commento di Pelagio subì due revisioni ; alla prima abbiamo già fatto riferimento parlando dell’Anonimo di Budapest (vd. supra, p. 19) : essa è databile fra il 412 e il 432 e si svolse in due fasi. Inizialmente fu apprestata una compilazione del commento di Pelagio e del commento anonimo alle epistole di Paolo, che alternava osservazioni tratte dall’una e dall’altra opera. Successivamente questa compilazione fu edita da un pelagiano (secondo alcuni Celestio), che vi introdusse osservazioni volte ad accentuare il carattere ‘pelagiano’ dell’opera. Le interpolazioni introdotte dal pelagiano sono conservate nella tradizione del così detto « Pseudo-Gerolamo » del commento di Pelagio. La seconda revisione è invece opera di Cassiodoro e dei suoi studenti, e fu in seguito attribuita a Primasio. Vd. Souter, Pelagius’s Expositions, cit., pp. 6-32 ; De Bruyne, op. cit., pp. 24-35 ; Frede, op. cit., i, pp. 224 sg. 7  Vd. Smith, art. cit., p. 145.  















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mortem dicit regnasse ... non in omnes, sed in eos tantum qui secundum similitudinem praevaricationis Adae peccaverunt. 1  

Smith, estrapolando la frase di Origene dal suo contesto, ne travisa il significato ; inoltre, basandosi solo sulla ricorrenza in entrambi i commenti dell’avverbio tantum, fonda su basi fragili un parallelo non corretto. Tralasciando per un attimo il valore da attribuire al commento di Pelagio, che avremo modo di analizzare in seguito, concentriamoci sulla complessa argomentazione di Origene. L’affermazione di Origene citata da Smith si inserisce in un’ampia esposizione (Expl. in Rom v, 1, pp. 363-383 Bammel) in cui l’autore tenta di risolvere un problema che evidentemente lo tormentava : se Paolo sostiene che la morte ha regnato su tutti, allora non viene fatta alcuna distinzione di merito per quanti dopo il peccato di Adamo si attennero ad una condotta giusta ed onesta. La risposta data da Origene è complessa e si basa su una sottile analisi delle espressioni utilizzate dall’Apostolo :  





Sed et quod peccatum quidem non dixit in omnes homines, sed in mundum introisse ; mortem vero non ‘in mundum’, sed ‘in omnes homines’, et non introisse, sed pertransisse : non puto quod frustra hac diversitate usus sit Paulus.  



Secondo il commentatore, Paolo designa con il termine mundus gli uomini terreni et in terrena conversatione permanentes, con il termine homines, invece, quanti hanno iniziato ad apprendere di essere stati creati ad immagine di Dio : nei primi il peccato è entrato (intrasse) e non è più uscito, nei secondi è solo transitato (pertransisse), ovvero è entrato, ma è stato espulso per poenitentiam conversionis. 2 In maniera analoga la morte è entrata nel mondo ed è passata su tutti, ma non su tutti ha regnato. Una cosa, infatti è passare (pertransire) una cosa è regnare (regnare) : la morte, dunque, è passata su tutti, ma ha regnato soltanto su coloro che hanno peccato a somiglianza del peccato di Adamo. 3 L’affermazione di Origene riportata da Smith non è dunque espressione di un pensiero simile a quello di Pelagio, come risulta evidente prendendo in considerazione il seguente passo :  









Peccatum enim pertransiit etiam in iustos, et levi quadam eos contagione perstrinxit. In praevaricatoribus vero, id est his qui se ei tota mente ac devotione subiiciunt, regnum tenet, et omni potestate dominatur. 4  

La posizione di Origene è chiara : nessuno è esente dal peccato e dalla morte, il peccato è passato anche sui giusti, ma è come se li avesse sfiorati appena, regna invece sui praevaricatores, ovvero su coloro che gli si sono sottomessi tota mente ac devotione. In maniera analoga egli distingue fra peccare e peccatorem esse per risolvere la contraddizione fra Rm 5, 12, dove Paolo dice omnes peccaverunt, e Rm 5, 19, dove invece leggiamo sicut enim per inoboedientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi. Secondo Origene occorre distinguere fra peccare ed essere peccatore : è peccatore colui che ha l’abitudine inveterata al peccato, pecca invece chi, anche se giusto, talvolta commette ciò che non è lecito. 5 È interessante notare come, nel fare questa distinzione, Origene probabilmente riprenda, adattandole ad un nuovo contesto, categorie già proprie dello  





1  Orig., Expl. in Rom v, 1, p. 382 Bammel. 2  Ibid., p. 374 Bammel. 3  Ibid., p. 383 Bammel. 4  Expl. in Rom v, 1, p. 383 Bammel. 5  Ibid., v, 5, p. 408 Bammel : Aliud est peccare, aliud peccatorem esse. Peccator dicitur is qui multa delinquendo, in consuetudinem, et, ut ita dicam, in studium peccandi iam venit. ... Ita et iustus peccasse quidem dicetur si aliquid commiserit aliquando quod non licet, non tamen ex hoc peccator appellabitur, qui peccandi usum et consuetudinem non tenet.  

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Stoicismo : si pensi, ad esempio, alla distinzione presente in Cicerone fra iracundia e ira, dove il primo termine indica una costante predisposizione all’ira, il secondo invece una passione transitoria, 1 oppure fra vitia come condizioni permanenti e perturbationes come alterazioni momentanee dell’animo. 2 Secondo Origene, dunque, a buon diritto l’Apostolo può dire che molti sono stati costituiti peccatori, ma tutti hanno peccato, perché tutti, anche i giusti, hanno commesso qualche mancanza. 3 I brevi accenni di Pelagio fanno invece intravedere una diversa soluzione : coloro che hanno avuto la forza di resistere alle seduzioni e al peccato si sono sottratti alla morte dell’anima, da cui non sono stati nemmeno sfiorati. Tuttavia, il solo fatto che Origene abbia avvertito il problema dei giusti vissuti prima dell’avvento del Salvatore, dedicandogli una così profonda riflessione, può aver rappresentato per Pelagio uno stimolo, un incentivo a portare avanti un’idea nuova : Origene non poteva accettare una visione in cui tutti, senza alcuna considerazione per i meriti personali e la diversità di condotta, subissero le conseguenze dell’errore del progenitore e tentava di aggirare l’ostacolo con una interpretazione un po’ cavillosa delle parole di Paolo : come ha osservato E. Mascellani 4 in Origene è sempre presente una tensione irrisolta fra l’idea secondo cui tutti gli uomini, senza eccezioni, sono peccatori, e la necessità di sottolineare la responsabilità individuale nel peccato, in modo che il giusto e l’empio, il santo e il peccatore non siano equiparati in un’unica massa dannata. Pelagio sembra recepire questa problematica, e vi trova una soluzione portando alle estreme conseguenze la riflessione dell’Alessandrino, fino a negare una trasmissione del peccato e della morte da Adamo a tutti gli uomini indiscriminatamente. Come risolve allora Pelagio il problema posto dall’affermazione di Paolo secondo cui tutti sono morti in conseguenza della colpa di Adamo ? Due sono le soluzioni prospettate nel commento a Rm 5, 12 : o l’Apostolo ha esagerato e ha detto ‘tutti’, tralasciando di ricordare nella moltitudine di peccatori i pochi giusti, oppure non ha precisato, lasciandolo sottinteso, che per omnes bisogna intendere omnes qui humano non caelesti ritu vivebant. Smith 5 ha suggerito di confrontare la prima soluzione prospettata da Pelagio con quanto detto da Origene in Expl. in Rom v, 1 (p. 362 Bammel) : omnes homines et multos homines idem esse. Senza dubbio è interessante notare come i due commentatori si soffermino sullo stesso problema, ovvero il senso da dare al termine omnes ; tuttavia, a Smith sfugge il fatto che la riflessione di Pelagio è, sì, analoga a quella di Origene, ma di segno opposto : Origene attribuisce a multi, omnes e plures lo stesso significato, 6 con il fine di dimostrare che anche laddove l’Apostolo utilizza multi, intende in realtà omnes, Pelagio, invece, parte dalla stessa considerazione per arrivare alla conclusione opposta, sostenendo che anche se Paolo ha detto « tutti », in realtà voleva intendere « molti ». La differenza non è priva di significato, perché ha evidenti conseguenze sull’interpretazione del passo paolino.  





































1  Vd. Cic., Tusc. Disp. iv, 27 ; Sen., De ira i, 4. 2  Vd. Cic., Tusc. Disp. iv, 30 ; vd. anche Stobaeus, Ecl. ii, 93. 1. 3  Expl. in Rom v, 5, p. 409 Bammel : omnes enim potest fieri ut peccaverint, etiamsi sancti fuerint, quia ‘Nemo mundus a sorde, nec si unius diei fuerit vita eius’. Quis enim est qui non aut in facto, aut in verbo, aut qui cautissimus certe est, vel in cogitatione peccaverit ? Et ideo, ut dixi, peccasse quidem omnes merito dicentur, peccatores autem facti non omnes, sed multi. 4  Op. cit., pp. 65-72. 5  Art. cit., p. 144. 6  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 362 Bammel : Nec multum interesse quod ibi (Rm 5, 12) in omnes homines dixerit pertransisse peccatum, hic (Rm 5, 15) vero donum et gratiam Iesu Christi in plures abundasse, cum et omnes homines plures esse intelligantur, et plures omnes intelligi non videatur absurdum ... Et quod superius omnes dixerat homines, hic eodem sensu multos nominavit.  









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Origene afferma che il peccato e la morte sono ricaduti su tutti gli uomini, anche se talvolta Paolo sembra riferirsi solo ad una maggioranza, essendo costretto a ricorrere a qualche astuzia per stimolare i propri fedeli : infatti, nel momento in cui stabilisce un confronto fra Adamo e Cristo, non può dire che la morte e il peccato si sono riversati su tutti gli uomini, come la vita e la giustificazione abbonderanno in tutti, perché i più negligenti, sicuri del fatto che tutti beneficeranno della bontà divina, senza lo stimolo del timore, saranno meno solleciti sulla strada della perfezione. 1 Pelagio al contrario è mosso dalla preoccupazione di offrire il giusto riconoscimento alle buone azioni che gli uomini possono compiere anche solo obbedendo alla legge naturale ; di conseguenza impone al testo paolino un’interpretazione forzata e sostiene che l’Apostolo, dicendo che le conseguenze del peccato di Adamo sono ricadute su tutti, volesse in realtà riferirsi solo alla maggioranza. Ancora una volta il nostro autore sembra aver preso le mosse dal commento di Origene, mantenendo però indipendenza di giudizio e utilizzando gli stessi metodi interpretativi offerti dal modello per sostenere la tesi opposta. Per comprendere il modo in cui i due autori concepiscono il peccato di Adamo e le sue conseguenze per l’umanità, si impone a questo punto una riflessione sul valore che essi attribuiscono all’espressione in quo omnes peccaverunt. L’espressione paolina ejf∆ w/| pavnte~ h{marton, tradotta nella Vetus Latina con in quo omnes peccaverunt, pone non poche difficoltà di interpretazione. Qual è infatti il senso di ejf∆ w/| ? Come ha osservato Lyonnet 2 i Padri Greci, senza alcuna eccezione, non intesero mai questa locuzione nel senso di in quo, ma la interpretarono come un’espressione abbreviata per attrazione, equivalente a ejpi; touvtw/ o{ti, attribuendogli dunque lo stesso significato di o{ti o diovti, ‘per questo motivo che’, ‘perché’. Di conseguenza la formula pavnte~ h{marton veniva ad assumere ai loro occhi lo stesso senso che possiede a Rm 3, 23 : designava cioè, a loro avviso, non un peccato commesso ‘in Adamo’, ma i peccati attuali, personali degli uomini. Sarà Agostino ad imporre come canonica una diversa interpretazione, che aveva già fatto la sua comparsa, come avremo modo di vedere, nell’Ambrosiaster : a in quo non era più attribuito il senso di propter quod, ma valore di relativo riferito ad Adamo. Come ha osservato Bonner, 3 nella sua riflessione il vescovo di Ippona pone frequentemente in relazione il testo di Rm 5, 12 con quello di 1Cor 15, 22 (Sicut enim in Adam omnes moriuntur, ita et in Christo omnes vivificabuntur) : 4 la giustapposizione dei due testi costituisce per Agostino una prova inconfutabile, nonostante a 1Cor 15, 22 il testo greco presenti ejn, proposizione con valore ben diverso rispetto ad ejpi;. Il valore dato da Agostino ad ejf∆ w/| condiziona, com’è prevedibile, l’interpretazione del successivo pavnte~ h{marton : l’Apostolo non farebbe riferimento ai peccati attuali commessi dopo Adamo da tutti gli uomini, ma al peccato unico di Adamo, al quale tutti avrebbero partecipato. La maggioranza degli esegeti moderni ha abbandonato ormai la soluzione prospettata da Agostino, che non è sostenibile sul testo greco ; l’antecedente sarebbe, infatti, situato assai lontano dal relativo e separato da altre parole  















   





1  Vd. Expl. in Rom v, 2, p. 394 Bammel : Non autem absque profunda sapientia, quam Paulus inter perfectos loqui se dicit, in hoc loco sermones suos moderatus est, et quod alibi ‘omnes’ dixerat, hic ‘multos’ vel ‘plures’ appellavit, ubi comparationem diffusi in omnes homines peccati et mortis ab Adam facit, et iustificationis ac vitae a Christo ; ne forte si absolute pronuntiaret quia pari ratione atque eodem ordine quo ab Adam in omnes homines mors diffusa peccati est, etiam iustificatio et vita, quae a Christo est, in omnes homines diffunditur, resolveret auditores et segniores fierent erga observantiam, certi de securitate vitae quae in omnes homines per Christi gratiam traderetur. 2  Vd. S. Lyonnet, La storia della salvezza nella lettera ai Romani, Napoli, M. D’ Auria, 1966, pp. 69 sg. 3  Vd. Bonner, art. cit., pp. 109-111. 4  Vd. C. Faust. 22, 78 ; Pecc. merit. i, 8, 8 ; iii, 11, 19 ; En. in ps. 50, 10 ; 70, 1, 2 ; Ep. 190, 1, 3 ; Sermo 293, 12.  















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(mondo, morte), che potrebbero anch’esse svolgere la funzione di antecedenti : adottare la costruzione « Adamo...nel quale tutti hanno peccato » significherebbe senza dubbio fare violenza al corso normale della frase. 1 Il senso comunemente accettato è dunque quello di « perché », o meglio « mediante questa condizione che », come ha suggerito Lyonnet. 2 Vediamo dunque il valore che i nostri due commentatori attribuiscono a in quo. Anche in questo caso l’interpretazione offerta da Origene non risulta chiara e univoca. Come abbiamo detto, commentando Rm 5, 12, Origene stabilisce un parallelo fra Adamo e Cristo e completa l’anacoluto ‘Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransiit, in quo omnes peccaverunt’ con la frase ita et per unum hominem iustitia introivit in hunc mundum, et per iustitiam vita, et sic in omnes homines vita pertransiit, in qua omnes vivificati sunt. 3 Il fatto che egli utilizzi la locuzione in qua riferita alla vita come parallelo di in quo, spinge a ritenere che attribuisse a in quo un valore relativo in riferimento alla morte. Traducendo dal greco, Rufino non avrebbe allora tenuto conto dell’interpretazione di Origene, seguendo comunque la traduzione comune del passo in questione : nel testo latino, infatti, in quo non potrebbe riferirsi a mors, termine di genere femminile, a differenza del corrispettivo greco qavnato~, che è invece maschile. Dunque, Adamo, con il suo atto di ribellione, ha dato adito al diffondersi del peccato nel mondo, il peccato ha avuto come conseguenza la morte, la morte è passata in tutti gli uomini e « in essa » o « per essa » tutti hanno peccato : si tratta di un in implicativum, lo stesso che ricorre nell’espressione in Christo omnes vivificabuntur di 1Cor 15, 22, passo citato come termine di confronto dallo stesso Origene. Ad una lettura superficiale può apparire una visione vicina a quella che sarà successivamente elaborata da Agostino, ma un’analisi più approfondita porta alla luce chiare differenze. Come abbiamo già osservato, Origene riconosce che il peccato di Adamo ha ridotto l’umanità intera ad una condizione di miseria e sofferenza : sottoposti alla morte e al peccato, tutti gli uomini, per il solo fatto di essere stati presenti nei lombi di Adamo al momento della cacciata dal paradiso o per qualche altra ragione imperscrutabile nota solo a Dio, 4 sono confinati in questa valle di lacrime, condannati a vivere in questo luogo di umiliazione. 5 Tuttavia, Origene, pur riconoscendo una solidarietà di tutti gli  





































1  Sull’interpretazione del versetto paolino si veda Dubarle, op. cit., 129 sg. ; Grelot, art. cit., pp. 463-466. 2  Dopo approfondita ricerca lessicografica, Lyonnet è giunto alla conclusione che la locuzione in greco può assumere vari significati, ma il senso più plausibile in questo contesto è « a questa condizione, che ». Infatti, tanto nella lingua dei classici, quanto in quella dei papiri e delle iscrizioni, questa locuzione è usata principalmente per introdurre una clausola o una condizione annessa ad un trattato o ad un contratto. Dal momento che nel passo di San Paolo la condizione non è posta come da realizzarsi in futuro, ma come già realizzatasi in passato, solo una lieve sfumatura separa questo senso dal significato di « perché » con cui la locuzione è tradotta solitamente. La distinzione è lieve ma non priva di significato, in quanto esprime « una causalità reale, ma subordinata e non soltanto giustapposta a quella del peccato di Adamo » : vd. Lyonnet, art. cit., p. 456 ; vd. anche, del medesimo autore, Le péché originel et l’exégèse de Rom 5, 12-14, « RecSR », 44, 1956, pp. 63-84 ; Rom. v , 12 chez Saint Augustin. Note sur l’elaboration de la doctrine augustinienne du péché originel, in Mélanges offert au Pére Henri de Lubac, i, Paris, Aubier, 1963, pp. 328-339. 3  Expl. in Rom v, 1, p. 360 Bammel. 4  È probabile che nell’espressione sive alio quolibet inenarrabili modo et soli Deo cognito, si debba cogliere un riferimento alla teoria della preesistenza e della caduta precosmica di ogni anima, teoria esposta in maniera chiara ed esplicita da Origene nel secondo libro del De principiis (De princ. ii, 8-9). Secondo questa concezione ciascuno personalmente (unusquisque) sarebbe stato esiliato su questa terra per una colpa personale compiuta prima di aver rivestito un corpo mortale. Tuttavia, nel Commento ai Romani si trovano soltanto cenni a questa dottrina, mai una esposizione sistematica (vd. E. Mascellani, op. cit., pag. 93). 5  Vd. Expl. in Rom v, 4, pp. 406-407 Bammel.  























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uomini con Adamo nella pena, non sembra assolutamente concepire una corresponsabilità nell’atto di ribellione compiuto dal progenitore : quel che condanna gli uomini alla morte non è il peccato di Adamo trasmesso per generazione ai discendenti, sono piuttosto i peccati personali di ciascuno. Questo aspetto risulta evidente da quanto detto in Expl. in Rom v, 1 (p. 372 Bammel) :  



Absoluta sententia pronuntiavit Apostolus in omnes homines mortem pertransisse peccati in eo in quo omnes peccaverunt.

In questo caso chiaramente in quo non può riferirsi alla morte. Quale valore dare allora a in eo in quo ? Non concordo con la soluzione prospettata da Gaudel, 1 che intende in eo in quo nel senso di ‘a causa di colui per cui’ e considera dunque eo pronome maschile riferito ad Adamo. Dunque, Rufino non avrebbe in questo caso tradotto correttamente il testo di Origene : da quanto segue, infatti, risulta evidente che Origene si stava riferendo ai peccati individuali, personali, non alla colpa del primo uomo trasmessa a tutti i suoi discendenti ; non a caso subito dopo è riportato il passo di Rm 3, 23 (omnes enim peccaverunt et egent gloria Dei), dove il riferimento è senza ombra di dubbio a colpe individuali, e sono inoltre ricordate le mancanze commesse dai patriarchi, anch’esse da imputare alla responsabilità individuale. Non credo, come Gaudel, che la traduzione di Rufino sia sbagliata o non fedele al testo greco : ritengo, infatti, che eo sia neutro, non maschile, e che l’espressione in eo in quo abbia valore causale come quod, o possa essere tradotta in italiano con ‘in quanto’. 2 È probabile, come ha osservato Beatrice, 3 che all’in eo in quo di Rufino corrispondesse nel testo greco qualcosa come ejpi; touvtw/ ejf∆ w/.| A mio avviso, dal passo in questione risulta evidente che ejf∆ w/| aveva per Origene un senso causale e non relativo come nella Vulgata e in Agostino : questo dato è confermato anche da un passo del commento al Vangelo di Giovanni, di cui possediamo anche il testo greco, dove ejf∆ w/| pavnte~ h{marton è tradotto con eo quod omnes peccaverunt. 4 L’interpretazione particolare data a in quo in Expl. in Rom v, 1 (p. 360 Bammel) può essere forse giustificata con l’esigenza di completare l’anacoluto e di rendere evidente, palese, il parallelo fra Cristo e Adamo, giustapponendo due frasi di analoga costruzione sintattica. 5 Lo stesso significato causale sembra attribuito a in quo anche da Pelagio. A differenza di Origene, non troviamo in Pelagio una lunga riflessione sul passo paolino, ma la lapidaria sentenza dum ita peccant, et similiter moriuntur rende evidente che l’autore coglie in in quo omnes peccaverunt un riferimento ai peccati individuali che gli uomini commettono seguendo l’esempio di Adamo. Non comprendo a questo proposito il confronto  



















1  Op. cit., 334. 2  Un valore simile a quello che questa locuzione presenta, ad esempio, in Cicerone, De Off. 1, 96 : sic fere definiri solet decorum id esse quod consentaneum sit hominis excellentiae in eo in quo natura eius a reliquis animantibus differat ? 3  Op. cit., p. 218, n. 46. 4  In Joa. xx, 33 : ... quoniam didicissent quomodo per unum hominem peccatum intravit in mundum, et per peccatum mors, et ita in omnes homines pervasit, eo quod omnes peccaverunt (ejf∆ w/| pavnte~ h{marton). Consentaneum vero etiam est vidisse mortem regnasse in eos qui peccaverunt ad similitudinem transgressionis Adae, habuisseque sermonem de morte, quae per peccatum in omnes homines pervasit, eo quod omnes peccaverunt (ejpi; tw/` pavnta~ hJmarthkevnai). 5  Non concordo dunque con quanto sostiene E. Mascellani (op. cit., pag. 53, n. 4), secondo la quale Origene può benissimo aver inteso anche in questo passo ejf∆ w/| come nesso causale e inteso invece in qua (verosimilmente ejf∆ h/|) come “nella quale (o grazie alla quale) tutti hanno ricevuto la vita”. Se si opta per questa soluzione, mi sembra che vada perduto il parallelo stabilito dall’autore fra le due espressioni e il senso stesso dell’intera frase. Ritengo piuttosto che in questo passo ejf∆ w/| abbia in via eccezionale valore relativo, una sfumatura non colta da Rufino, che ha seguito anche in questo caso la comune traduzione.  





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suggerito da Smith 1 fra l’affermazione di Pelagio e la seguente riflessione di Origene : Neque enim multum differt illud quod alibi dicit : ‘Sicut enim in Adam omnes moriuntur’. 2 Forse lo studioso è stato ancora una volta tratto in inganno dalla corrispondenza lessicale fra i due passi, dal momento che in entrambi ricorre il verbo moriuntur. Tralasciando il fatto che nel caso di Origene si tratta di una citazione da Paolo e non di parole personali del commentatore, ritengo che il confronto vada stabilito piuttosto con quei passi di Origene che insistono sul ruolo importante rivestito dall’exemplum Adae, tema che avremo modo di trattare fra breve a proposito del commento a Rm 5, 14.  







3. 2. Rm 5, 13-14 Il commento di Pelagio a Rm 5, 13 (pp. 45-46 Souter) presenta notevoli differenze rispetto all’interpretazione di Origene :  

‘Usque ad legem enim peccatum [erat] in [hoc] mundo’. [Lex] peccati vindex advenit, ante cuius adventum peccatores liberius vel praesentis vitae longitudine fruebantur. Erat quidem ante legem peccatum, sed non ita putabantur esse peccatum, quia iam paene obliterata fuerat scientia natura[lis]. ‘Peccatum autem non imputabatur, cum lex non est’. Quo modo mors regnavit, si non imputa[ba]tur peccatum ? Nisi subaudias : ‘in praesenti’ non inputabatur.  



Infatti, dal riferimento alla scientia naturalis dimenticata dagli uomini, risulta chiaro che in questo passo per lex Pelagio intende la legge mosaica : il peccato non era imputato prima della legge mosaica, in quanto, essendo stata dimenticata la legge di natura, non era riconosciuto come tale. Al contrario Origene ritiene che in questo versetto non si possa intendere per lex la legge mosaica, dal momento che prima di questa, come dimostrano gli esempi di Caino, Lamech e del diluvio universale, il peccato era commesso e imputato : se infatti non fosse stato imputato, la punizione inflitta ai peccatori come Caino e Lamech sarebbe stata arbitraria. 3 Esclusa questa ipotesi, il commentatore offre un’interpretazione piuttosto cavillosa : a suo avviso a Rm 5, 13 l’Apostolo ha lasciato la frase incompleta ; il versetto dunque potrà essere compreso solo sulla base di Rm 7, 8-9, dove Paolo dice : sine lege enim peccatum mortuum erat : ego autem vivebam sine lege aliquando. Secondo Origene, il significato dei due passi è identico, dal momento che ciò che manca nella frase di Rm 5, 13, Paolo lo ha completato in Rm 7, 8-9 : infatti, l’Alessandrino ritiene che nell’espressione usque ad legem enim peccatum erat in hoc mundo, Paolo abbia lasciato sottinteso, in riferimento a peccatum, il termine mortuum, che risulta invece esplicitato in Rm 7, 8-9. Per lex bisognerà di conseguenza intendere a Rm 5, 13 la legge naturale, prima della quale il peccato è morto : il tempo prima della legge in cui il peccato non viene imputato è tuttavia esistito non tanto nella storia collettiva dell’umanità, quanto nella storia individuale di ogni uomo, che da bambino diviene adulto. Infatti, il peccato è come morto nell’uomo quando è un bambino, incapace di ragione, mentre “rivive” quando, raggiunta l’età adulta, si manifesta in lui la legge naturale, ovvero la capacità razionale di distinguere il bene dal male. 4 Si tratta di un’interpretazione molto particolare che, non trovando riscontro in altri commenti, è probabilmente frutto di una personale riflessione dell’esegeta Alessandrino. Tornando al testo di Pelagio, si noti di nuovo l’uso, come poco prima nel commento a Rm 5, 12, dell’avverbio paene : l’autore non trascura mai di precisare come, nonostan 























1  Vd. art. cit., p. 143. 3  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 375 Bammel.

2  Expl. in Rom v, 1, p. 360 Bammel. 4  Vd. ibid., pp. 374-377 Bammel.

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te il peccato di Adamo, non proprio da tutti era stata dimenticata la legge naturale. L’immagine che Pelagio ci offre della condizione dell’umanità dopo la caduta del progenitore, prima della legge e della venuta di Cristo, non è di completa perdizione, ma è una situazione difficile, una condizione certo di peccato grave, però non del tutto generalizzata. Veniamo ora all’analisi del commento a Rm 5, 14. Il testo di Paolo circolava secondo due diverse lezioni : Sed regnavit mors ab Adam usque ad Moysen in eos qui peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, oppure in eos qui non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae. 1 Origene mostra di conoscere entrambe le versioni, ma accetta come principale e commenta per prima quella senza negazione. Come abbiamo già osservato, egli offre una spiegazione piuttosto cavillosa del testo paolino, sostenendo che la morte è entrata nel mondo e si è trasmessa a tutti gli uomini, ma non su tutti ha regnato, bensì soltanto su quanti hanno peccato a somiglianza del peccato di Adamo. 2 Il commentatore ricorda anche la lezione qui non peccaverunt, che egli trovava in alcuni esemplari, riferendola ai giusti vissuti prima della venuta di Cristo : questi, infatti, pur non avendo peccato a somiglianza del peccato di Adamo, hanno comunque conosciuto la morte fisica e sono stati trattenuti negli inferi finché non sono stati liberati dal Cristo. 3 Passiamo alle osservazioni di Pelagio su questo versetto :  











‘Sed regnavit mors ab Adam usque ad Mosen [etiam] in eos qui [non] peccaverunt in similitudine[m] praevaricationis Adae’. Sive : Dum non esset qui inter iustum et iniustum ante distingueret, putabat se omnibus dominari. Sive : Non solum in eos qui praeceptum, sicut Adam, transgressi sunt -hoc est de filiis Noe, quibus iussum est ne animam in sanguine manducarent, [et] de filiis Abrahae, quibus circumcisio mandata est-, sed etiam in eos qui sine praecepto legem contempsere naturae.  



La prima questione da affrontare è un problema di carattere testuale : la negazione non è infatti omessa da B, che riporta nei lemmi un testo paolino affine a quello della Vetus Latina ; la negazione è attestata, invece, in A e negli altri codici, che presentano un testo delle epistole vicino a quello della Vulgata. Nel passo preso in considerazione, il testo corretto sembra quello riportato da A : ci troviamo di fronte a uno di quei casi in cui il commento dell’autore sembra riferirsi al testo della Vulgata. 4 La seconda spiegazione  







1  La lezione in eos qui peccaverunt è presente, in ambito latino, nel ms. di Monza (mon. ; Biblioteca Capitolare) e nel cod. Claromontanus (D ; Bibliotheque Nationale de France), mentre gli altri codici della Vetus Latina, come poi la Vulgata, hanno et in eos qui non peccaverunt. La tradizione manoscritta greca presenta il testo : kai; ejpi; tou;~ mh; aJmarthvsanta~, tranne alcuni codici minuscoli che omettono il mhv : vd. Pollastri, op. cit., p. 134, n. 23 ; K. H. Schelkle, Paulus, Lehrer der Väter, Düsseldorf, Patmos-Verlag, 1956, pp. 185-186 ; F. Cocchini, Origene. Commento alla lettera ai Romani. Annuncio pasquale, polemica antieretica, L’Aquila, Japadre, 1979, pp. 41-44. 2  Vd. Expl. in Rom v, 1, pp. 382-383 Bammel. 3  Vd. ibid., p. 386 Bammel. 4  Il problema del testo latino delle Epistole di Paolo impiegato da Pelagio nelle Expositiones risulta tuttora irrisolto ; la questione è estremamente complessa e la sua trattazione non può essere affrontata nel presente lavoro : ci limiteremo a ricordare che il testo di Paolo che troviamo in Pelagio corrisponde ampiamente alla Vulgata, ma presenta anche alcune varianti della Vetus Latina, attestate principalmente nel Codex Balliolensis. Souter ha ipotizzato che Pelagio abbia utilizzato il testo della Vetus : questo sarebbe stato sostituito successivamente nei lemmata con quello della Vulgata, che andava acquisendo nel tempo sempre maggiore importanza e influenza. Di diverso parere è invece De Bruyn, secondo il quale Pelagio avrebbe utilizzato il nuovo testo della Vulgata, ripiegando solo occasionalmente sulle più familiari lezioni della Vetus Latina. Per una trattazione approfondita della questione, si veda Souter, Pelagius’s Expositions, cit., pp. 116-173 ; De Bruyn, op. cit., pp. 7-10 ; B. Fischer, Das Neue Testament in lateinischer Sprache, in Kurt Aland (ed.), Die alten Übersetzungen des Neuen Testaments, die Kirchenväternzitate und Lektionare, Berlin and New York, Walter de Gruyter, 1972 (« Arbeiten zur neuentestamentlichen Textforschung », 5), pp. 25 ; 73 ; D. De Bruyne, Étude sur les origines de notre texte latin de  





























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offerta da Pelagio si adatta bene, infatti, a commentare etiam in eos qui non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae : la morte ha regnato anche su coloro che non hanno peccato a somiglianza del peccato di Adamo, ovvero ha regnato non soltanto su quanti hanno commesso peccato trasgredendo come Adamo un precetto loro imposto, come hanno fatto, ad esempio, i figli di Adamo o di Mosè, ma anche su quanti, pur non violando un precetto, hanno disprezzato la legge di natura. Pur partendo da due lezioni diverse del versetto paolino, nonostante la diversità di impostazione, i commenti di Pelagio e Origene trovano ugualmente, a mio avviso, un punto di contatto. Infatti, Origene spiega in che cosa consista la similitudo praevaricationis : non certo nel fatto che alcuni abbiano commesso lo stesso identico peccato di Adamo, cosa che sarebbe assurda, ma in una inclinazione a peccare, sia trasmessa per generazione (ex semine), sia assunta per il cattivo esempio dato dai genitori (ex institutione) : tutti infatti subiscono l’influenza dell’ambiente circostante e sono non solo figli, ma anche discepoli di peccatori. Anche Abele inizialmente seguì, secondo Origene, il modello negativo del padre, anche se in seguito, richiamato dalla legge di natura, tornò a Dio e Gli offrì sacrifici. 1 Il riferimento alla legge di natura, prima disprezzata, poi seguita da Abele, richiama alla mente il commento di Pelagio su quanti peccano non solo commettendo un peccato analogo a quello di Adamo, ma anche disprezzando la legge naturale. Inoltre, come avremo modo di vedere analizzando i commenti a Rm 5, 16 sg., Pelagio sviluppa, in parte estremizzandola, l’idea già presente nell’Alessandrino, secondo cui il peccato si diffonde per imitazione di un modello negativo. Quanto alla relativa che conclude il versetto, qui est forma futuri, è interessante notare come entrambi gli autori offrano due possibili spiegazioni. Pelagio, infatti, indica due modi diversi di intendere la definizione di Adamo come forma futuri : o Adamo è ‘forma’, ‘modello’ di Cristo, perché, come Adamo è stato creato da Dio senza generazione sessuale, così Cristo nascerà da una vergine per opera dello Spirito Santo, oppure è ‘forma’ di Cristo per contrario (forma e contrario), ovvero come Adamo è stato fonte di peccato, Cristo sarà fonte di giustizia. 2 Mentre la prima opinione non trova riscontro in altri commenti ed è probabilmente originale di Pelagio, la seconda è attribuita a dei non precisati quidam : è molto probabile che fra questi fosse compreso Origene, che spiega l’espressione paolina con parole analoghe. 3 Invece, l’altra interpretazione di Origene, secondo la quale Adamo è forma futuri, non in quanto prefigurazione di Cristo, ma in quanto prefigurazione di coloro che peccheranno a sua somiglianza, 4 non trova in Pelagio alcun riscontro.  

















3. 3. Rm 5, 16-20 Il confronto fra Adamo e Cristo viene ripreso e sviluppato in maniera analoga dai due autori anche nel commento ai versetti 16-20. saint Paul, « Rbi », ns 12 (1915), pp. 358-392 ; E. Buonaiuti, Pelagius and the Pauline Vulgate, « et », 27 (1916), pp. 425427 ; J. Chapman, Pélage et le texte de s. Paul, « rhe », 18, 1922, pp. 469-481 ; 19, 1923, pp. 25-42 ; K. Schäfer, Pelagius und die Vulgata, « nts », 9 (1962-1963), pp. 361-366. 1  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 385. 2  Vd. Pel., Exp. in Rm 5, 14, p. 46 Souter : Sive : Ideo forma fuit Christi quia, sicut Adam sine coitu a Deo factus est, ita ille ex virgine, spiritu sancto operante, processit. Sive, ut quidam dicunt : Forma a contrario : hoc est, sicut ille peccati caput, ita et iste iustitia. 3  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 388 Bammel ; vd. anche ibid. v, 2, p. 392 Bammel. 4  Ibid., p. 391 Bammel.  

































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Iniziamo la nostra riflessione dalle osservazioni di Pelagio sul versetto 16 :  

‘Et non sicut per unum delictum, ita et donum’. Sed amplius. ‘Nam iudicium [quidem] ex uno in condemnationem’. Ex uno [iusto] peccante processit iudicium mortis. ‘Gratia autem ex multis delictis in iustificatione[m]’ : Quia non invenit Adam multam iustitiam quam [suo exemplo] destrueret, Christus autem gratia sua multorum peccata dissoluit, et Adam solam formam fecit delicti, Christus vero [et] gratis peccata remisit et iustitiae dedit exemplum.  

La prima espressione su cui dobbiamo concentrare la nostra attenzione è ex uno peccante processit iudicium mortis. Questa dichiarazione ha suscitato in Dempsey 1 non poche perplessità : lo studioso, infatti, riteneva che sostenere che la sentenza di morte è passata da Adamo all’umanità intera equivalesse ad un’ammissione dell’esistenza del peccato originale ; inoltre, l’ipotesi che l’autore si riferisse in questo passo ad una trasmissione del peccato a tutti gli uomini, era a suo avviso deducibile, nonostante il testo non lo espliciti, dall’espressione ex uno peccante, altrimenti priva di significato. Le parole di Pelagio apparivano dunque ai suoi occhi apertamente in contrasto con le posizioni espresse dall’autore in altri passi. Credo che le osservazioni di Dempsey non siano del tutto corrette. In primo luogo è significativo il fatto che Pelagio sostenga che a diffondersi da Adamo sia stato non il peccato in sé, ma il iudicium mortis. Si tratta di una distinzione sottile, ma fondamentale : ad essersi trasmesso da Adamo ai discendenti non è il peccato, non è una colpa che grava su tutti e tutti rende responsabili di fronte a Dio, ma il iudicium mortis, ovvero la sentenza di morte, la pena imposta all’uomo per il reato commesso. L’autore inoltre non dice che questa sentenza si è estesa all’umanità intera, ma soltanto che ha avuto inizio, origine da un solo uomo (processit) : questo, a mio avviso, non implica automaticamente che dal solo Adamo si sia diffusa su tutti ; probabilmente, come possiamo ricavare dai commenti precedenti e successivi, Pelagio riteneva che ad essere colpiti dalla sentenza di morte fossero soltanto quanti si erano resi responsabili di peccati individuali. Come abbiamo visto, una concezione analoga è espressa anche da Origene, pur con alcune differenze non trascurabili. Origene, infatti, ritiene che le conseguenze della caduta del progenitore tocchino tutti gli uomini, e che la condizione di mortalità che ne deriva si trasmetta in qualche modo per generazione. Tuttavia, al di là di questi aspetti significativi, abbiamo dimostrato come anche Origene non parli mai di un peccato commesso dal progenitore e imputato a tutti gli uomini, ma piuttosto di una inclinazione a peccare che tutti condividono, sia in quanto discendenti di Adamo (ex semine), sia per imitazione di modelli negativi (ex institutione). Origene oscilla sempre fra queste due alternative, tuttavia, per quanto faccia riferimento ad una trasmissione delle conseguenze del peccato originale tramite la riproduzione sessuale, sembra dare maggior valore e soffermarsi più diffusamente sull’importanza dell’exemplum, del modello negativo che a partire da Adamo i genitori trasmettono ai figli di generazione in generazione :  













Diximus quidem iam et in superioribus quod parentes non solum generant filios, sed et imbuunt ; et qui nascuntur, non solum filii parentibus, sed et discipuli fiunt, et non tam natura urgentur in mortem peccati, quam disciplina. 2  



1  Vd. J. J. Dempsey, Pelagius’s Commentary on Saint Paul. A Theological Study, Roma, Pontificia Universitas Gregoriana, 1937, pp. 33-34. 2  Expl. in Rom v, 2, p. 396 Bammel ; vd. anche ibid. v, 1, p. 385 Bammel : Omnes enim qui in hoc mundo nascuntur, non solum nutriuntur a parentibus, sed et imbuuntur, et non solum sunt filii peccatorum, sed et discipuli.  



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In queste passo alla disciplina sembra dato un ruolo maggiore a quello svolto dalla natura nella diffusione della mors peccati. Il principio dell’exemplum Adae viene teorizzato in maniera chiara ed esplicita nel commento a Rm 5, 19 :  

Dedit ergo Adam peccatoribus formam per inobedientiam, Christus vero e contrario iustis formam per obedientiam posuit ... Propterea enim et ipse ‘obediens factus est usque ad mortem’ ut qui obedientiae eius sequuntur exemplum, iusti constituantur ab ipsa iustitia, sicut illi inobedientiae formam sequentes constituti sunt peccatores. 1  

Risulta evidente il parallelo con il commento di Pelagio allo stesso passo :  

‘Sicut enim per inoboedentiam unius hominis peccatores constituti sunt plurimi, ita et per unius oboedientiam iusti constituentur multi’. Sicut exemplo inoboedientiae Adae peccaverunt multi, ita et Christi oboedientia iustificantur multi. Grande ergo crimen inobodientiae est, quod tantos occidit.

Pelagio sembra quasi sintetizzare la più ampia e articolata esposizione di Origene : per entrambi gli autori Adamo ha dato ai peccatori un modello negativo di comportamento, un esempio di disobbedienza, così come il Cristo ha offerto ai giusti un esempio di obbedienza. Fra i due passi vi sono chiare corrispondenze verbali : inobedientiae formamexemplo inoboedientiae ; obedientiae eius-oboedientiae Christi. Non concordo dunque con Smith, 2 il quale sostiene che il passo di Origene in questione non ha esercitato su Pelagio alcuna influenza : a mio avviso, è, al contrario, evidente come alla base delle osservazioni dei due autori vi sia la stessa concezione. Gli stessi termini, exemplum e forma, ricorrono anche nel commento di Pelagio a 5, 12, dove, dopo aver riportato le parole di Paolo, Propter ea sicut per unum hominem in hunc mundum peccatum introiit et per peccatum mors, il nostro autore glossa, in maniera lapidaria, exemplo vel forma, un nota brevissima che può essere confrontata con quanto l’autore aveva detto poco prima commentando Rm 5, 11 (p. 45 Souter) :  











Hinc ostendere vult propter ea Christum passum, ut qui sequentes Adam discesseramus a Deo, per Christum reconcilia[re]mur deo.

L’uso del verbo sequor è indicativo : l’uomo si allontana da Dio non perché la sua natura sia viziata da una colpa di origine, ma perché subisce il condizionamento di un modello negativo. Torniamo ora all’interpretazione di Rm 5, 16 : quanto detto può aiutare a chiarire le parole di Pelagio. In primo luogo non risultano banali le parole non invenit Adam multam iustitiam quam [suo exemplo] destrueret : in maniera sottile l’autore suggerisce che i giusti rimasti dopo la colpa del progenitore che potessero in qualche modo essere perduti a causa del suo esempio non erano molti, il che equivale a dire che delle persone rette, per quanto poche, comunque esistevano. Ancora una volta Pelagio non si lascia sfuggire l’occasione per affermare e sostenere quella che abbiamo riconosciuto essere una delle linee-guida del suo pensiero. Il termine suo exemplo è omesso da A, ma attestato in tutti gli altri codici. Come abbiamo detto, 3 A riporta solitamente varianti che non sono attestate negli altri manoscritti : tali varianti tendono solitamente ad attenuare la portata delle affermazioni di Pelagio, soprattutto, come vedremo, nei passi riguardanti la possibilità dell’uomo di  









1  Ibid. v, 5, p. 411 Bammel.

2  Vd. art. cit., p. 146.

3  Vd. supra, p. 12.

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non peccare. In questo caso, invece, non si tratta di una variante aggiunta, ma di una omissione : secondo De Bruyn 1 le parole suo exemplo potrebbero essere state interpolate successivamente da un pelagiano per dare ancora più risalto all’esempio come veicolo del peccato. Ritengo questa valutazione condivisibile : suo exemplo sembra un’integrazione suggerita dalla volontà di creare un parallelismo rispetto a gratia sua, conferendo al periodo una struttura più equilibrata ; allo stesso tempo, l’interpolatore poteva dare maggiore enfasi ad un concetto per lui di capitale importanza come l’esempio di Adamo, concetto peraltro già presente nel commento originale (et Adam solam formam fecit delicti). La precisazione suo exemplo risulta così superflua, tanto che la sua mancata ricezione non crea, in definitiva, alcun sensibile mutamento del significato di base del testo. Dopo il parallelo fra Adamo e Cristo, quasi a spiegare il sed amplius precedente, l’autore precisa che rispetto ad Adamo l’azione del Cristo ha un elemento in più : et Adam solam formam fecit delicti, Christus vero [et] gratis peccata remisit et iustitiae dedit exemplum. Cristo ha compiuto un’opera immensamente più grande di quella di Adamo, perché Adamo ha dato soltanto la forma delicti, Cristo invece ha offerto un exemplum iustitiae, ma ha anche rimesso gratis i peccati con la Sua grazia. 2 A mio giudizio, il commento di Pelagio può trovare un parallelo in Origene, Expl. in Rom v, 2 (p. 397 Bammel) :  













et ibi relinquit Adam qui eum vel genuit, vel docuit in mortem, et sequitur Christum, qui eum et docet, et gignit ad vitam.

Poco dopo, parlando della secunda nativitas introdotta dal Cristo e della regeneratio tramite la quale ha abolito il vitium primae nativitatis, dice :  

Et sicut generationi substituit regenerationem, ita et doctrinae substituit aliam doctrinam ... sciens igitur utrumque esse in culpa, utrique remedium dedit, ut generatio mortalis regeneratione baptismi mutaretur, et impietatis doctrinam doctrina pietatis excluderet.

Per quanto i due autori non utilizzino gli stessi vocaboli, ritengo che la visione espressa da Origene abbia fortemente influenzato Pelagio. Consideriamo le espressioni docet et gignit ad vitam ; regeneratione baptismi ; doctrina pietatis. In Origene l’azione di Cristo è duplice : da una parte abbiamo la rigenerazione tramite il battesimo, dall’altra l’insegnamento. In maniera analoga Pelagio sostiene che Cristo ha rimesso gratuitamente i peccati e ha offerto un esempio di giustizia : alla regeneratio baptismi di Origene corrisponde in Pelagio l’atto di rimettere i peccati, nesso che risulta ancora più evidente se teniamo presente il commento di Pelagio a Rm 3, 22-24, dove chiaramente si riconosce la remissione dei peccati come fine del battesimo ; 3 alla doctrina di Origene corrisponde in Pelagio l’insegnamento di Cristo, l’exemplum iustitiae che tramite le Sue parole e le Sue azioni Cristo offre. L’influenza della concezione origeniana risulta ancora più evidente in un altro passo di Pelagio, dove sono ripresi gli stessi termini incontrati in Origene :  







   



‘Nunc vero liberati a peccato, servi fac[ti] estis iustitiae ’. In doctrina et exemplo Christi, qui non solum peccata, sed etiam occasiones auferri docuit delictorum. 1  Vd. op. cit., p. 95, n. 38. 2  Sulla remissione gratuita dei peccati si veda anche Exp. in Rm 1, 7, p. 10 Souter ; 3, 22-24, pp. 32-33 Souter ; 4, 5, p. 36 Souter ; 5, 1, p. 41 Souter. 3  Vd. Exp. in Rm 3, 22-24, pp. 32-33 Souter : Sine legis operibus per baptismum, quo omnibus non merentibus gratis peccata donavit.  







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capitolo 3

Per concludere, Pelagio sembra trarre da Origene l’idea secondo cui l’azione salvifica di Cristo si esercita su due piani, l’insegnamento e la nascita a nuova vita tramite il battesimo : avremo modo di approfondire questo aspetto quando affronteremo il tema della redenzione e della salvezza nelle Expositiones. Egli ha recepito, inoltre, l’importanza che l’esegeta Alessandrino attribuiva all’esempio negativo offerto da Adamo e ha posto quest’ultimo al centro della sua riflessione : se in Origene l’idea di una trasmissione dell’inclinazione al peccato tramite la generazione sessuale, per quanto non posta in primo piano, è pur sempre presente, in Pelagio non se ne trova ormai traccia e l’unica conseguenza dell’atto di trasgressione del primo uomo resta quella di aver aperto una via verso la perdizione che la maggioranza dei posteri percorrerà, seguendo le orme del progenitore.  



3. 4. Rm 5, 15 Per completare il quadro fin qui tracciato, passiamo ora ad affrontare il commento di Pelagio a Rm 5, 15, a cui sarà dedicata la sezione finale di questa analisi, visti i numerosi e complessi problemi che il brano in questione pone. In primo luogo, sarà utile riportare le parole di Pelagio :  

‘Si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia dei et donum in gratia unius hominis Iesu Christi in plures abundavit’. Plus praevaluit iustitia in vivificando quam peccatum in occidendo, quia Adam tantum se et suos posteros interfecit, Christus autem et qui erant tunc in corpore et posteros liberavit. Hi autem qui contra traducem peccati sunt, ita illam impugnare nituntur : ‘si Adae,’ inquiunt, ‘peccatum etiam non peccantibus nocuit, ergo et Christi iustitia etiam non credentibus prodest ; quia similiter, immo et magis dicit per unum salvari qua[m] per unum ante perierant’. Deinde aiunt : ‘et si baptismum mundat antiquum illut delictum, qui de duobus baptizatis nati fuerint debent hoc carere peccato : non enim potuerunt ad filios tra[n]smittere quod ipsi minime habuerunt. Illut quoque accidit qu[i]a, si anima non est ex traduce, sed sola caro, ipsa tantum habet traducem peccati et ipsa sola poenam meretur’. Iniustum esse dicentes ut hodie nata anima, non ex massa Adae, tam antiquum peccatum portet alienum, dicunt [etiam] nulla ratione concedi ut deus, qui propria [homini] peccata remittit, imputet aliena.  







Si è già dimostrato come il parallelo stabilito da Smith fra la prima parte del commento di Pelagio (Plus praevaluit ... liberavit) e l’osservazione di Origene in Expl. in Rom V, 1 (p. 382 Bammel) sia a nostro giudizio inconsistente. 1 Abbiamo visto, inoltre, come Smith attribuisca a Pelagio lo stesso pensiero dell’interpolatore, che precisa come per posteros bisogna intendere soltanto quanti peccano a somiglianza della trasgressione di Adamo : in questo modo lo studioso tentava di spiegare un’affermazione sorprendente come Adam … suos posteros interfecit, che risulta senza dubbio in contrasto con la concezione del peccato originale espressa nelle Expositiones. Una tale interpretazione, tuttavia, è a mio avviso arbitraria e non autorizzata dal testo latino. Si può forse trovare una soluzione all’apparente contraddizione affrontando il problema da una diversa prospettiva e valutando il commento di Pelagio a 5, 15 nella sua interezza. La maggior parte della critica, infatti, tende a concentrare la propria attenzione solo sulla seconda parte del commento, da Hi autem qui contra traducem peccati sunt, limitandosi a valutare in che misura Pelagio prenda qui posizione contro il traducianesimo e perché attribuisca ad altri le opinioni riportate, invece di presentarle come  



1  Vd. supra, pp. 69 sg.

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proprie. 1 Nel modo in cui gli studiosi moderni affrontano l’analisi di questo passo si può forse cogliere anche l’influenza di Agostino, che in De pecc. mer. III, 3, 5-6 riporta il commento di Pelagio a partire da Hi autem qui e si interroga sull’atteggiamento del suo avversario, prospettando due diverse ipotesi : o Pelagio ha compreso tutta la novità delle sue teorie rispetto alla tradizione della Chiesa e di conseguenza si è vergognato e ha temuto di esporle come proprie, oppure è rimasto talmente colpito dalle opinioni di quanti si oppongono al traducianesimo, che, desideroso di conoscere le posizioni dei loro avversari, ha intanto sollevato il problema, affinché la questione fosse analizzata ; allo stesso tempo, tuttavia, ha preso le distanze da queste teorie, attribuendole ad altri, per non dare l’impressione di condividerle. Queste stesse spiegazioni ricorrono presso la maggior parte dei critici moderni. Quanti poi, come Smith e De Bruyn, 2 prendono in considerazione anche la prima parte del commento, tentano, come abbiamo visto, di conciliarla con la seconda, anche a costo di offrire una interpretazione forzata del testo latino. A mio avviso, invece, commentando Rm 5, 15 Pelagio riporta volutamente due diverse opinioni sulle conseguenze del peccato di Adamo : quella di quanti ritengono che la colpa del progenitore sia ricaduta su tutta l’umanità, provocando la morte non solo di Adamo, ma anche dei suoi discendenti, e quella di coloro che al contrario si oppongono al traducianesimo. Non ritengo dunque necessario tentare di conciliare la prima parte del commento con il pensiero di Pelagio, intendendo per posteros non tutti i discendenti di Adamo, ma soltanto quanti peccano a sua somiglianza, come Smith ha suggerito. Pelagio sta confrontando due possibili interpretazioni del versetto paolino, un modo di procedere che, come abbiamo detto, ricorre frequentemente nel suo commento : egli è solito offire due o tre alternative, senza pronunciarsi in maniera esplicita in favore dell’una o dell’altra. Che le teorie di quanti si oppongono al traducianesimo, riportate da Pelagio, non debbano essere valutate indipendentemente dal contesto in cui si collocano, ma anzi vadano considerate in relazione a quanto precede, mi sembra abbastanza evidente dalla frase ita illam impugnare nituntur, dove illam è a mio parere da riferirsi ad una opinio sottintesa : quanti si oppongono al traducianesimo tentano di confutare l’opinione degli avversari, riportata dall’autore poche righe sopra. Ne consegue che il problema dell’atteggiamento assunto da Pelagio di fronte a questa scottante questione deve essere analizzato da una diversa prospettiva : non è corretto, a mio avviso, chiedersi perché Pelagio qui non si assuma la responsabilità di quanto afferma, attribuendo ad altri le proprie tesi. In realtà l’autore non si allontana dal suo modo consueto di procedere : offrire più di una chiave di lettura, senza dichiarare in maniera esplicita quale deve essere preferita. Se Pelagio affronta la questione del traducianesimo con lo stesso modo di procedere, con la stessa impostazione con cui nel corso del commento prende in analisi altre problematiche, non si potrà tuttavia negare un aspetto distintivo : l’inconsueta estensione del commento e lo spazio ben maggiore riservato alle tesi di coloro che negano il traducianesimo rispetto alla teoria dei loro avversari, riassunta in poche righe, una differenza di trattamento che fa trasparire se non un’aperta simpatia, perlomeno un forte interesse per una dottrina che, avvalendosi soprattutto della testimonianza dei Padri Greci, si stava sempre più diffondendo in Occidente.  



















1  Così Dempsey, op. cit., p. 28 ; Beatrice, op. cit., pp. 51-52 ; Ferguson, op. cit., p. 142 ; Plinval, op. cit., p. 150 e nota ; Prete, op. cit., p. 61 ; Valero, op. cit., pp. 87-88 ; 322. 2  Op. cit., p. 41.  











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capitolo 3

Queste tesi, così come Pelagio le presenta, possono essere riassunte in tre punti fondamentali :  

– considerato il rapporto di analogia per contrario che l’Apostolo ha stabilito fra Cristo e Adamo, se si assume che la colpa del primo uomo ha nuociuto anche a coloro che non hanno peccato, allora bisogna credere che la giustizia di Dio giovi anche a coloro che non credono. – Se si assume che l’anima sia trasmessa per generazione, il peccato originale, lavato dal battesimo, non può ricadere su chi nasce da due genitori battezzati, dal momento che questi non possono trasmettergli ciò che non possiedono più. Se invece si assume che l’anima non sia ereditata, ma soltanto la carne, allora solo la carne veicolerebbe la trasmissione del peccato e solo la carne meriterebbe di essere punita. Comunque sia non è giusto che un’anima nata oggi porti su di sé il peso di un peccato tanto antico commesso da un altro. – Non è logico che lo stesso Dio che rimette all’uomo i peccati personalmente commessi, imputi poi all’uomo un peccato commesso da un altro. È interessante osservare come la seconda tesi trovi ampio sviluppo nel Liber de Fide di Rufino di Siria :  

Quippe cum omnes qui baptizati sunt, et propter hoc filii Dei facti, peccatum habere non possunt. Et si quidem propter peccatum Adam baptizantur infantes, qui ex parentibus Christianis nati sunt, baptizari minime debebunt, et quasi sancti perinde haberentur, quia de parentibus sunt fidelibus procreati ... 1  

Abbiamo già avuto modo di vedere i problemi di datazione che l’opera di Rufino pone. 2 Non ritengo che la corrispondenza fra questo passo e il commento di Pelagio possa essere considerata una prova sufficiente a sostegno dell’anteriorità del Liber de Fide rispetto alle Expositiones : delle altre tesi riportate da Pelagio nell’opera di Rufino non si trova traccia ; più che ad un debito di Pelagio nei confronti di Rufino, è forse preferibile pensare che le due opere, che condividono lo stesso background storico-dottrinale, riflettano l’eco di teorie circolanti al tempo, teorie sostenute di volta in volta con varie argomentazioni. Interessante risulta anche il terzo assunto, caratterizzato dall’uso significativo dell’espressione propria peccata ... aliena, che, come abbiamo visto, ricorre già in Cipriano (Epist. 64, 5) : 3 si ha quasi l’impressione, come del resto anche nel ricorso alla formula tradux peccati, di trovarsi di fronte a dei termini tecnici, il cui impiego era, per così dire, d’obbligo quando si affrontava la problematica del peccato originale. Quando Pelagio compose le Expositiones, doveva essere già in corso un dibattito sulle conseguenze del peccato di Adamo : esistevano evidentemente dei gruppi che contestavano la trasmissione ex traduce, sostenuta da altri sulla base dell’autorità di Cipriano e Tertulliano. Pelagio si inserisce in questo dibattito in maniera per il momento molto cauta : sembra quasi limitarsi a fare presente la questione, dando voce alle parti in causa. Le problematiche poste dal commento a Rm 5, 15, e più in generale dalla riflessione di Pelagio sulla natura del peccato di Adamo e le sue conseguenze, non si esauriscono qui : se il confronto con Origene ha fatto già emergere alcuni dati significativi, il quadro sarà completo soltanto dopo un’attenta analisi del commento dell’Ambrosiaster, dell’Ano 





   







1  De Fide 40, p. 114 Miller.

2  Vd. supra, pp. 43-44.

3  Vd. supra, p. 62.

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nimo di Budapest e soprattutto delle opere di Agostino che possono in qualche misura aver influenzato la riflessione di Pelagio. 4. Ambrosiaster e Pelagio sul problema del peccato originale Trattando del rapporto fra lex naturae, lex litterae e lex fidei abbiamo già avuto modo di valutare come su questo tema Pelagio abbia tratto numerosi spunti di riflessione dal commento dell’Ambrosiaster, pur sviluppando una concezione sotto molti aspetti autonoma e originale. Indagheremo ora se è possibile rintracciare fra i due autori alcune analogie anche per quanto riguarda il complesso problema del peccato dei progenitori. Come vedremo, Smith non ha mancato di segnalare anche per i versetti 5, 12-20 dell’epistola ai Romani punti di contatto letterali e stilistici, 1 confermando l’ipotesi, già avanzata da Souter, 2 di una dipendenza di Pelagio dall’Ambrosiaster. Questa opinione non fu tuttavia condivisa da Buonaiuti, il quale ritenne che i due studiosi, avendo condotto la loro ricerca con scarsa sensibilità e preoccupazione dottrinale-teologica, avessero soltanto sfiorato, senza coglierlo, un problema di importanza fondamentale per la storia del pensiero cristiano. 3 Secondo Buonaiuti, infatti, Pelagio, lungi dal riprendere posizioni dottrinali presenti nell’opera dell’Ambrosiaster, fu spinto a comporre il suo commento proprio dalla volontà di contrapporsi in maniera netta al suo predecessore. 4 Per lo studioso Pelagio segue passo passo le tracce dell’Ambrosiaster, ma le interpretazioni che offre del testo paolino sono quanto di più divergente e contrastante si possa immaginare. L’Ambrosiaster è, infatti, a suo avviso, permeato da quelle concezioni dualistiche, derivate più o meno direttamente dal manicheismo, che caratterizzavano tanta parte della religiosità cristiana dell’età post-costantiniana : il male e il peccato gli appaiono inerenti alla stessa natura umana, che è viziata e corrotta in seguito al peccato del progenitore. Il peccato, che ha fatto il suo ingresso con Adamo, ha corrotto la carne, e questa corruzione si trasmette ex traduce di generazione in generazione : l’uomo è dunque schiavo della colpa e del peccato, corrotto nel corpo e trasmettitore di una semenza viziata. 5 In questa prospettiva il commento di Pelagio viene a delinearsi agli occhi del Buonaiuti come quanto di più distante possa esistere dalla concezione dell’Ambrosiaster : l’opera di Pelagio è a suo avviso una contrapposizione intenzionale, una confutazione in regola del commento del suo predecessore, 6 posizione questa in parte condivisa da Bohlin, 7 Evans 8 e Greshake. 9 Secondo Buonaiuti, dai due commenti emergono due concezioni morali contrapposte : una, dominata da un’antropologia pessimisticamente dualistica, che dispera delle possibilità umane, viziate profondamente da una misteriosa colpa originaria, l’altra, invece, satura di moralismo stoico e fiduciosa nelle capacità innate dell’uomo. 10 Il Buonaiuti dunque, come già prima di lui Harnack e Seeberg, 11 vide nell’Ambrosiaster un precursore della dottrina agostiniana del peccato  





























  1 

Vd. art. cit., pp. 186-188. 2  Vd. op. cit., pp. 176-183. Vd. E. Buonaiuti, Pelagio e l’Ambrosiastro (per la storia del dogma del peccato originale), « RicR », 4, 1928, pp. 1-17. 4  Vd. art. cit., pag. 7. 5  Ibid., pp. 10-13.   6  Art. cit., pag. 14. 7  Vd. T. Bohlin, op. cit., pp. 60-61.   8  Vd. Evans, op. cit., p. 160, n. 30.   9  Vd. G. Greshake, Gnade als konkrete Freiheit : eine untersuchung zur Gnadelehre des Pelagius, Mainz, Grunewald, 1972, pag. 82, n. 13. 10  Art. cit., pag. 16. 11  Vd. A. Harnack, Grundriss der Dogmengeschichte, Freiburg i. Br., Mohr, 1889-1891 ; R. Seeberg, Lehrbuch der Dogmengeschichte, Leipzig, Deichert, 1917-1920 ; vd. Souter, The earliest, cit., p. 81.   3 











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capitolo 3

originale : egli ritenne che nel suo commento fosse rintracciabile in nuce tutta la dottrina spiegata da Sant’Agostino nella sua campagna antipelagiana, 1 una posizione che avremo modo di valutare e discutere in maniera più approfondita in seguito, quando tratteremo dell’uso e del significato del termine massa. Le critiche che il Buonaiuti ha mosso all’analisi condotta da Souter e Smith sono in parte condivisibili : abbiamo già avuto modo di verificare come talvolta Smith tenda a stabilire dei paralleli arbitrari fra i vari commentatori, basandosi solo su coincidenze linguistiche e lessicali, senza prestare la dovuta attenzione al contesto e agli aspetti dottrinali. Nonostante le premesse e l’impostazione della ricerca condotta dal Buonaiuti siano corrette, mirando ad un confronto che non si limiti alle pure corrispondenze verbali, ma che ponga in primo piano la speculazione teologica dei due autori, non ritengo tuttavia che la tesi conclusiva del suo lavoro possa essere accolta : vedere nel commento di Pelagio un’intenzionale confutazione dell’opera del suo predecessore mi sembra una posizione troppo netta e radicale, che non tiene conto della complessità del pensiero dell’Ambrosiaster. Infatti, dalla lettura del Commentarius e delle Quaestiones emerge una concezione tutt’altro che chiara e definita del peccato originale : sul peccato di Adamo, sulle sue conseguenze per l’umanità, sul corpo e sulla sua relazione con l’anima, sulla natura umana e sulle responsabilità individuali dell’uomo l’Ambrosiaster presenta una visione complessa e spesso contraddittoria, in cui non mancano punti di incontro con il pensiero di Pelagio. Se prendiamo in analisi il commento a Rm 5, 12-21 e altri passi della produzione dell’Ambrosiaster, risulta a mio avviso evidente come sia riduttivo vedere nel commento di Pelagio una semplice confutazione dell’opera del predecessore. Pelagio, infatti, non sembra aver composto la sua opera mosso da vis polemica nei confronti dell’Ambrosiaster, dalla volontà di respingerne le posizioni dottrinali : i rapporti fra i due commentatori risultano più complessi, come se Pelagio interpellasse il testo dell’Ambrosiaster, ora rifiutando alcune posizioni, ora accogliendo alcune tesi di fondo, traendo sempre spunti stimolanti per la riflessione sul testo paolino. Quanto ai rapporti fra l’Ambrosiaster e Agostino, la tesi del Buonaiuti incontrò fin da subito forti opposizioni : Borgongini Duca, Casamassa e Concetti 2 contestarono energicamente l’idea di una dipendenza di Agostino dall’Ambrosiaster, e anche in epoca più recente non sono mancati studiosi, come Beatrice, 3 Leeming 4 e De Veer, 5 che hanno negato l’ipotesi di una reale e significativa influenza dell’anonimo commentatore sul vescovo di Ippona. Prendere una posizione chiara in merito è molto arduo ; le difficoltà sono aumentate proprio da quella mancanza di coerenza e linearità nel pensiero dell’Ambrosiaster cui si è accennato sopra : basti pensare che mentre alcuni studiosi, come abbiamo visto, hanno ritenuto l’anonimo commentatore un precursore di Agostino, altri invece l’hanno  

























1  Vd. Buonaiuti, Agostino e la colpa ereditaria, « RicR », 2, 1926, pp. 401-427. Buonaiuti presentò per la prima volta la sua tesi nell’opuscolo La genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale, Roma, 1916, riprendendola poi e approfondendola nei vari articoli cui faremo riferimento nel corso della trattazione. 2  F. Borgongini Duca, Il profilo di Sant’Agostino e La genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale. Saggio critico su due scritti del prof. Buonaiuti, Roma, 1919 ; A. Casamassa, Il pensiero di Sant’Agostino nel 396-397, i tractatores divinorum eloquiorum di Retract. I, 23, 1 e l’Ambrosiastro, Roma, 1919 ; N. Concetti, Esame della genesi della dottrina agostiniana intorno al peccato originale di Ernesto Bonaiuti, Fermo, 1922. 3  Beatrice, op. cit., pp. 159-173. 4  B. Leeming, Augustine, Ambrosiaster and the massa perditionis, « Gregorianum », 11, 1930, pp. 58-91. 5  A. De Veer, Saint Augustin et l’Ambrosiaster, « Bibliotheque Augustinienne », 23, 1974, n. 43.  















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giudicato un ‘pelagiano’ ante litteram o hanno comunque sottolineato l’affinità fra le teologie dei due autori. 1 Tenteremo di fare chiarezza nell’intricata questione assumendo come punto di partenza per la nostra ricerca proprio il testo dell’Ambrosiaster. Non risulterà inutile, inoltre, un confronto con Pelagio : permetterà, infatti, di valutare le affermazioni di Buonaiuti sui rapporti fra i due autori e di affrontare un aspetto della questione tenuto in minor considerazione dalla critica, maggiormente interessata al problema delle possibili relazioni fra l’Ambrosiaster e Agostino.  



4. 1. Rm 5, 12 Le recensioni b e g del commento dell’Ambrosiaster a Rm 5, 12 attestano la seguente osservazione, assente in a : 2    

In quo -id est in Adam- omnes peccaverunt. �������������������������������������������������������������� Ideo dixit in quo, cum de muliere loquatur, quia non ad speciem retulit, sed ad genus.

L’espressione id est in Adam rende subito evidente come per l’Ambrosiaster in quo sia da intendere come relativo riferito ad Adamo, un’interpretazione che influenzerà tutto lo sviluppo successivo dell’argomentazione. Come ha notato Gaudel, 3 l’autore sembra qui fare eco alle parole di Ireneo in Adv. haer. v, 16, 3 (…Deum, quem in primo quidem Adam offendimus) e riprendere il concetto, già espresso da Origene, dell’identità seminale di tutta la razza umana con Adamo : se dalla complessa e articolata visione origeniana Pelagio sembra recepire e sviluppare soprattutto l’idea dell’imitazione del modello negativo offerto dal progenitore, l’Ambrosiaster, come vedremo, sembra invece riflettere piuttosto sull’immagine dell’umanità presente in lumbis Adae al momento della caduta. È interessante, inoltre, notare come la precisazione secondo cui l’Apostolo, basandosi sulla specie e non sul genere, ha usato in quo nonostante si riferisse alla donna, richiami alla mente la spiegazione analoga offerta da Origene in Expl. in Rom v, 1 (p. 367 Bammel) : anche l’esegeta alessandrino si chiedeva, infatti, perché Paolo sostenesse che la morte aveva fatto il suo ingresso nel mondo per unum hominem, se in realtà la responsabilità della caduta era da imputare alla donna, e prospettava l’ipotesi che l’Apostolo avesse fatto riferimento all’uomo dal momento che è da lui, e non dalla donna, che si è sviluppata la specie umana. 4 Colpisce nei due autori la presenza di una analoga precisazione rispetto al dato offerto dal testo paolino ; come avremo modo di valutare nel corso della nostra analisi, i commenti dei due autori presentano corrispondenze tali da rendere assai probabile l’uso da parte dell’Ambrosiaster del commento di Origene. 5 Dopo aver sostenuto che « tutti hanno peccato in Adamo », l’Ambrosiaster aggiunge, precisando meglio le sue parole :  

















1  Vd. C. Martini, Ambrosiaster, cit., pag. 107 ; Plinval, op. cit., pp. 86 sg. ; Beatrice, op. cit., pp. 168-173. 2  Per le recensioni del Commentarius in epistulas paulinas dell’Ambrosiaster vd. supra, pp. 22-23. 3  Op. cit., col. 369. 4  … et ideo quoniam de peccato loquebatur, ex quo mors in omnes homines pertransierat, successionem posteritatis humanae quae huic morti succubuit ex peccato venienti, non mulieri ascribit, sed viro. Non enim ex muliere posteritas, sed ex viro nominatur … et ob hoc mortalis posteritas et corporalis successio viro potius tanquam auctori, et non mulieri deputatur. 5  Sulla conoscenza del greco da parte dell’Ambrosiaster, che probabilmente lesse il Commento di Origene nell’originale e non in traduzione, vd. supra, pp. 21-22.  



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capitolo 3

Manifestum est itaque omnes in Adam peccasse quasi in massa. Ipse enim per peccatum corruptus quos genuit, omnes nati sunt sub peccato. Ex eo igitur cuncti peccatores, quia ex ipso sumus omnes. 1  

Si tratta del celebre passo che Agostino cita nel Contra duas epistulas Pelagianorum, 2 attribuendolo però a Ilario di Poitiers : è proprio questa citazione ad aver spinto la critica ad interrogarsi sui rapporti fra i due autori. Il primo dato su cui dobbiamo soffermare la nostra attenzione è senza dubbio l’uso del termine massa : la stessa espressione impiegata dall’Ambrosiaster ricorre, come abbiamo visto, 3 anche nel commento di Pelagio a Rm 5, 15. Pelagio impiega l’espressione ex massa Adae nell’ambito della polemica contro il traducianesimo : secondo un’ipotesi avanzata dal Buonaiuti 4 e accolta da Souter 5 Pelagio avrebbe ricavato questa metafora proprio dal commento del suo predecessore. Ritengo plausibile che nel redigere il suo commento a Rm 5, 15, Pelagio abbia tenuto presente l’opera dell’Ambrosiaster, dal momento che nell’analisi di questo versetto paolino, come vedremo, non solo il termine massa, ma anche altri elementi dell’argomentazione richiamano alla mente il commento dell’Ambrosiaster. Il Buonaiuti riteneva che l’Ambrosiaster fosse stato il primo ad ideare questa metafora : il termine compare, infatti, nella Vulgata una dozzina di volte, di cui quattro nel Nuovo Testamento (Rm 9, 21 ; 11, 16 ; 1Cor 5, 6 ; Gal 5, 9), dove corrisponde al greco fuvrama, ma sempre per indicare un composto amorfo di sostanze inorganiche e vegetali, quindi con valore neutro. In realtà, già l’uso che del termine fa l’Apostolo poteva a mio giudizio suggerirne un impiego metaforico ad indicare la massa dei peccatori : Paolo, infatti, utilizza fuvrama in paragoni o in espressioni proverbiali, con il fine di ammonire i fedeli ad essere una « pasta nuova » e a vigilare per evitare i peccati, in modo che « poco lievito » non faccia fermentare « tutta la pasta ». 6 Il passo di Paolo che più degli altri può aver suggerito la metafora della massa è senza dubbio Rm 9, 21, dove troviamo l’immagine del vasaio che dalla medesima massa di argilla crea vasi per uso nobile e per uso volgare, versetto che l’Ambrosiaster così commenta :  







































… ita et deus, cum omnes ex una atque eadem massa simus in substantia et cuncti peccatores, alii miseretur et alterum despicit non sine iustitia. 7  

Le parole riportate sono attestate in tutte e tre le redazioni del commento, mentre l’espressione quasi in massa di Rm 5, 12 è presente in b e g, ma non in a : è probabile, dunque, che l’Ambrosiaster abbia elaborato l’immagine della massa a partire dalla riflessione su Rm 9, 21, riproponendola successivamente anche nell’esegesi di Rm 5, 12. La metafora impiegata da Paolo a Rm 9, 21 senza dubbio godette di ampia fortuna e si ritrova in vari autori, soprattutto greci, che dalle parole di Paolo ricavarono l’idea di un’umanità formata da un’unica e medesima sostanza. Nella maggior parte dei casi il termine fuvrama è impiegato metaforicamente, come in 1Cor 5, 7 (vd., ad esempio, Giovanni Damasceno, Hom. in sabb. Sanctum, pts 29, 122 : eJautou;~ ejkkaqavrwmen th`~ palaia`~ zuvmh~ kai; nevon genwvmeqa fuvrama), oppure per indicare la sostanza umana assunta da Cristo nell’incarnazione, come in Ippolito di Roma (De res., fragm. 8, gcs  



1  Comm. in Rom 5, 12, csel 81/1, p. 165. 2  Vd. Aug., C. duas ep. Pel. iv, 4, 7. 3  Vd. supra, p. 80. 4  Vd. Buonaiuti, Pelagio e l’Ambrosiastro, cit., pp. 4-5 ; Agostino e la colpa ereditaria, cit., p. 417, n. 1. 5  Vd. Souter, Pelagius’s Expositions, cit., p. 178. 6  Vd. 1Cor 5, 6 ; Gal 5, 9 ; Rm 11, 16. 7  Comm. in Rom 9, 21, csel 81/1, pp. 327-329.  





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1/2, 253 : ejk tou` aujtou` furavmato~ savrka labw;n oJ swthvr, h[geire tauvthn...) e Gregorio di Nazianzo (Or. 14, 15 : Cristou` … tou` tapeinwvsanto~ eJauto;n mevcri tou` hJmetevrou furavmato~). In questi casi fuvrama mantiene un valore neutro, indica la « pasta » da cui tutti gli uomini sono formati, senza riferimenti al peccato originale. La stessa espressione utilizzata dall’Ambrosiaster, massa Adae, si trova in Basilio, ma sempre per indicare la sostanza della natura umana assunta da Cristo nell’incarnazione. 1 Il proverbio citato da Paolo in 1Cor 5, 6 e in Gal 5, 9 (« un po’ di lievito fermenta tutta la pasta »), poteva però suggerire l’impiego del termine fuvrama in un contesto diverso da quelli finora analizzati : già l’Apostolo usava l’immagine del lievito in senso metaforico ad indicare che pochi peccatori potevano esercitare un’influenza negativa sull’intera comunità. Non stupisce, quindi, una ripresa della stessa figura in relazione ai peccati in generale, e al peccato del primo uomo in particolare. Melitone di Sardi, ad esempio, afferma che le stirpi degli uomini sono « impastate » nei peccati (tai`~ aJmartivai~ pefuramevnai), 2 espressione che ricorre in forma simile anche nel Pastore di Erma, dove si ricorda come gli uomini dediti alle attività profane siano « impastati in questo mondo » (ejmpefurmevnou~ tw/` aijw`ni touvtw/). 3 Non solo, come ha osservato Beatrice, 4 non mancano autori che applicano le immagini della pasta e del fermento proprio al peccato di Adamo. Ad esempio, Efrem Siro così commenta Rm 5, 12 : “Come il primo Adamo seminò il peccato immondo nella carne monda e così fu sepolto in tutta la nostra pasta (gbı¯ltâ = fuvrama) il fermento (h≥mı¯ra = zuvmh) della malizia, così il Signore nostro seminò la giustizia nella carne peccatrice, e mutò la nostra pasta nel suo fermento…”. 5 In maniera analoga lo Pseudo-Macario paragona il peccato di Adamo al fermento che corrompe la pasta di cui è composta la natura umana : « Come Adamo per la sua trasgressione divenne ricettacolo del fermento della malizia delle passioni (zuvmhn kakiva~ paqw`n), e così per partecipazione i suoi discendenti e tutto il genere umano ebbe parte a quel fermento… ». 6 In ambito latino, diversamente da quanto sostiene Beatrice, 7 l’Ambrosiaster non rappresenta l’unico testimone, insieme ad Agostino, per l’uso del termine massa, ma la stessa espressione ricorre anche in Gaudenzio, successore di Filastrio vescovo di Brescia e amico di Sant’Ambrogio :  













































Sed haec est omnis ratio in ambiguitate sermonis, quod iste immaculatus agnus Dominus Jesus, et iustorum et peccatorum carnem suscipere sit dignatus ex Virgine : corpus enim non solum de patriarchis et prophetis, sed ex totius humani generis massa suscepit. 8  



Anche in questo caso massa sembra utilizzato in riferimento ai peccatori : infatti, avendo detto poco prima che il Cristo ha assunto non solo la carne dei « giusti », ma anche quella dei « peccatori », è logico ascrivere alla prima categoria i patriarchi e i profeti, alla seconda la totius humani generis massa. Dunque, se l’Ambrosiaster rappresenta per noi il primo autore ad utilizzare in maniera esplicita il termine massa per indicare il coinvolgimento dell’umanità intera nel peccato di Adamo, tuttavia il ricorso a questa metafora era preparato dall’ampia diffusione del termine in contesti in cui si trattava del peccato come corruzione della sostanza costitutiva dell’uomo. La metafora della massa viene ripresa da Agostino : impiegata per la prima volta  











1  Vd. Basil., Epist. 262, 1 : aujtou` tou` qeou` eij~ savrka trapevnto~ kai; oujci; proslabovnto~ diav th`~ Mariva~ 2  De Pascha 103. 3  Pastor 44, 2. 4  Op. cit., pag. 81. 5  Commentarii in Epistolas D. Pauli nunc primum ex armenio in latinum sermonem a patribus Mekhitaristis translati, Venetiis, 1893, p. 14. 6  Hom. 24, 2-3. 7  Op. cit., p. 81. 8  Serm. 4, 5.  

to; tou` jAda;m fuvrama.

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nell’Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos, 1 ricorrerà poi frequentemente nelle sue opere, divenendo l’immagine privilegiata per descrivere il coinvolgimento dell’umanità intera nella colpa del primo uomo : a causa del peccato di Adamo i suoi discendenti sono stati condannati alla morte e alla perdizione eterna, divenendo una massa luti, peccati, peccatorum, iniquitatis, irae, mortis, perditionis, damnationis, offensionis, una massa tota vitiata, damnabilis, damnata. 2 Come abbiamo accennato, il Buonaiuti, basandosi sulla citazione del commento dell’Ambrosiaster nel Contra duas epistolas Pelagianorum e su una dichiarazione dello stesso Agostino, che nelle Retractationes 3 afferma di aver apportato un cambiamento significativo al suo pensiero dopo la lettura di alcuni non meglio identificati tractatores divinorum eloquiorum, riteneva che fosse stata proprio la lettura dell’Ambrosiaster a provocare un’evoluzione nella riflessione del vescovo di Ippona sul peccato originale. Dall’Ambrosiaster Agostino avrebbe attinto non solo la formula netta per esprimere la nostra corresponsabilità in Adamo peccatore, ma anche l’interpretazione dei più discussi passi paolini, primo fra tutti Rm 5, 12 : secondo Buonaiuti, a partire dal 396-397 il vescovo di Ippona mostra di possedere una visione chiara del peccato di origine come infezione che si propaga inesorabilmente di padre in figlio ; tutta l’umanità gli appare come conglutinata in Adamo, peccatrice e condannata in lui. 4 Come la critica successiva ha notato, l’argomentazione del Buonaiuti presentava alcune imprecisioni : prima di tutto, nel passo delle Retractationes in questione Agostino non parla affatto del peccato originale, ma dei problemi suscitatigli dall’esegesi del capitolo vii dell’Epistola ai Romani ; 5 inoltre, se è innegabile un mutamento profondo nel pensiero di Agostino negli anni 396-397, 6 questo non riguarda tanto la dottrina della trasmissione ereditaria, ma quella dell’initium fidei. Infatti, se nelle opere databili al 394-395 (Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romanos ; Epistolae ad Romanos inchoata expositio ; De diversis quaestionibus octoginta tribus) Agostino ascriveva l’atto di fede alla volontà umana, di cui difendeva l’autonomia, a partire dall’Ad Simplicianum comprese che l’uomo non poteva reclamare nulla come proprio possesso e che anche la fede è opera della grazia. 7 Si deve dunque negare un’influenza dell’Ambrosiaster su Agostino ? E come valutare in questo caso la citazione del Contra duas epistolas Pelagianorum ? Leeming, ritenendo strano che l’Ambrosiaster fosse menzionato da Agostino una sola volta e in un’opera piuttosto tarda, avanzò l’ipotesi che il vescovo d’Ippona non conoscesse direttamente l’intero commento, ma che un ignoto amico gli avesse inviato da Roma, insieme con estratti di Giuliano d’Eclano, anche la frase dell’Ambrosiaster : lo studioso, quindi, negava che l’opera dell’Ambrosiaster potesse aver avuto un qualche ruolo nello sviluppo del pensiero agostiniano. 8 Questa posizione è stata condivisa anche  















   

















1  Vd. Exp. prop. 54, 19 : Quamdiu figmentum es, inquit, et ad massam luti pertines nondum perductus ad spiritalia… 2  Per la ricorrenza di questi termini nelle opere di Agostino vd. O. Rottmanner, L’Augustinisme. Étude d’histoire doctrinale, « msr », 6, 1949, pp. 31-48, pag. 33. 3  Retr. i, 23, 1. 4  Buonaiuti, Agostino e la colpa ereditaria, cit., pp. 410-413. 5  Vd. Casamassa, art. cit., pp. 18 sg. ; Beatrice, op. cit., pp. 160-161. 6  È lo stesso Agostino, nelle opere dell’ultimo periodo, a sottolineare il radicale cambiamento verificatosi nel suo pensiero, un cambiamento tanto profondo da essere considerato una ‘rivelazione’ : mihi Deus in hac quaestione solvenda, cum ad episcopum Simplicianum scriberem, revelavit (De praed. sanct. 4, 8). 7  Vd. Casamassa, op. cit., pp. 12 sg. ; A. Pincherle, La formazione teologica di Sant’Agostino, Roma, Edizioni Italiane, 1947, pp. 175 sg. ; Beatrice, op. cit., pp. 162 sg. 8  Vd. art. cit.  













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da Beatrice, il quale sostiene « che l’Ambrosiastro non esercitò alcuna reale influenza nell’elaborazione della dottrina agostiniana del peccato ereditario e che solo per puro caso, e ancora in maniera per noi incomprensibile, esso si trova ad essere citato in una sua opera antipelagiana ». 1 Non credo, però, che una citazione venga riportata da un autore ‘per puro caso’ : evidentemente Agostino aveva colto nelle parole dell’Ambrosiaster qualcosa di molto vicino al suo pensiero e nella metafora della massa l’immagine perfetta per rendere la sua idea di una corresponsabilità di tutti gli uomini nella colpa del progenitore. Il fatto che il pensiero dell’Ambrosiaster in materia di peccato originale non sia, come vedremo, lineare, ma presenti anche aspetti che sembrano preannunciare la visione pelagiana, non esclude a mio giudizio che Agostino possa essere stato colpito da certe affermazioni, da certe idee e posizioni espresse nel commento. Già TeSelle 2 aveva segnalato delle coincidenze dottrinali fra Agostino e l’Ambrosiaster ; la sua tesi è stata ripresa e sostenuta da Cipriani, 3 per il quale è impossibile negare una dipendenza di Agostino dai commenti paolini dell’Ambrosiaster nelle opere esegetiche scritte prima dell’Ad Simplicianum, anche se il suo influsso va individuato, a suo avviso, non tanto nella dottrina del peccato originale, quanto in quella della grazia : proprio dall’Ambrosiaster Agostino può aver tratto l’idea, espressa nelle opere del 394-395, secondo cui la fede dipende dalla sola volontà umana. Con questo non si vuol abbracciare la tesi del Buonaiuti : sostenere che nell’Ambrosiaster si trova già in nuce tutta la dottrina agostiniana del peccato originale ci sembra una posizione non sostenibile, proprio per quella mancanza di unità di pensiero che dimostra come l’anonimo commentatore non avesse elaborato in proposito alcuna dottrina definita. Ci limitiamo a mostrare come nell’opera dell’Ambrosiaster trovino spazio concezioni diverse e spesso contrastanti, come è comprensibile in un periodo di grande fluidità di pensiero, quando nessun dogma in materia di peccato originale era ancora stato fissato : fra le varie opinioni espresse incontriamo anche l’idea di un peccato che si trasmette di padre in figlio, di una colpa originale le cui conseguenze si estendono all’umanità intera “conglobata” in Adamo, un’idea che l’autore non approfondisce, non porta alle estreme conseguenze, ma anzi, come vedremo fra breve, ‘mitiga’ ponendo in evidenza anche il ruolo svolto dalla responsabilità individuale. Agostino può aver colto questo aspetto del pensiero dell’Ambrosiaster, trovando nelle sue parole un sostegno a quanto egli forse stava già autonomamente meditando e uno stimolo a continuare, ad approfondire in questo senso la riflessione sul rapporto fra Adamo peccatore e i suoi discendenti. È a mio avviso necessario mantenere una posizione equilibrata, evitando di proiettare retrospettivamente sull’Ambrosiaster idee che saranno proprie di Agostino, ma senza correre il rischio di cadere nell’errore opposto, ovvero tentare di ricondurre il suo pensiero ad una uniformità e una coerenza che non possiede, cogliendovi unicamente elementi ‘pelagiani’. Si tratta dell’errore in cui, a mio avviso, incorse Concetti, quando sostenne che l’Ambrosiaster dava all’espressione quasi in massa un significato che  



















1  Op. cit., p. 173. 2  E. TeSelle, Augustine the Theologian, London, Burns and Dates, 1970, pp. 156 sg. 3  L’autonomia della volontà umana nell’atto di fede : le ragioni di una teoria prima accolta e poi respinta da Sant’Agostino, in Il mistero del male e la libertà possibile. Linee di antropologia agostiniana. Atti del vi seminario di studi agostiniani di Perugia, Roma, 1995, pp. 7-17. Dello stesso avviso è anche A. A. R. Bastiaensen, secondo il quale Agostino, nel redigere i suoi commentari alle epistole di Paolo non ha tenuto presente l’opera di Mario Vittorino, ma ha consultato sicuramente quelle di Gerolamo e dell’Ambrosiaster, di cui conosceva bene non solo le Quaestiones, ma anche i Commentarii. (vd. A. A. R. Bastiaensen, Augustine commentateur de Saint Paul et l’Ambrosiaster, « Sacris Erudiri », 36, 1996, pp. 37-65).  





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abbracciava soltanto i peccatori attuali : secondo lo studioso la metafora massa luti era stata applicata dall’Ambrosiaster in senso strettamente pelagiano. 1 Ritengo che una tale posizione non sia sostenibile : per quanto in maniera non perfettamente lucida e coerente, mi sembra innegabile la presenza nell’Ambrosiaster dell’idea secondo cui tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato del progenitore, in quanto fisicamente discendenti da lui. Adamo ha peccato e così facendo, ha sottomesso il suo seme all’iniquità, così che tutti gli uomini, in quanto da lui generati per traducem, sono soggetti al peccato :  







Primae enim causae facit mentionem, ex qua praevaricando Adam genus hominum obnoxium fecit peccato. Suasu enim et fallacia inimici iniquitatem concipiendo omne semen suum iniquitati subiecit, ut ex eo omnes per traducem geniti peccato essent obnoxii. 2  

Se in questo passo l’espressione per traducem non è riferita direttamente al peccato, ma alla generazione, alla trasmissione fisica del seme di Adamo, in Quaest. cxii, 27 (csel 50, p. 297) il riferimento è proprio al peccato del primo uomo che, per traducem, si trasmette a tutti i discendenti :  

... ut ab omni peccato liberentur sperantes in salute promissa, quia non solum a propriis, sed et ab Adae peccato, quod per traducem in omnes pervenit, liberabuntur per Christum.

Alla luce dei testi proposti, non mi sembra possibile sostenere che l’Ambrosiaster intese l’espressione paolina in quo omnes peccaverunt in senso pelagiano. Per l’Ambrosiaster il peccato di Adamo ha lasciato agli uomini un’eredità, un fardello, se vogliamo, che passa da una generazione all’altra tramite la trasmissione fisica del seme di Adamo : un concetto del tutto assente in Pelagio ma presente, come abbiamo visto, in Origene, un concetto che Agostino ha approfondito e sviluppato in maniera lucida e coerente, spingendo la tesi fino alle sue ultime conseguenze, fino a minare le basi del libero arbitrio e della responsabilità umana. Resta ora da indagare in cosa consista precisamente per l’Ambrosiaster l’eredità lasciata da Adamo ai suoi discendenti. Dopo le parole di sapore ‘agostiniano’ che abbiamo analizzato, il commento dell’Ambrosiaster a Rm 5, 12 prosegue con considerazioni che sembrano attenuare il significato delle affermazioni precedenti :  



Hic enim beneficium dei perdidit, dum praevaricavit, indignus factus edere de arbore vitae, ut moreretur. Mors autem separatio animae a corpore est. Est et alia mors, quae secunda dicitur in gehenna, quam non peccato Adae patimur, sed eius occasione propriis peccatis adquiritur, a qua boni immuni sunt, tantum quod in inferno erant, sed superiore quasi in libera, quia in caelos ascendi non poterat ; sententia enim tenebantur data in Adam. Quod cirografum in decretis morte Christi deletum est. Sententia autem decreti haec fuit, ut unius hominis corpus solveretur super terram, anima vero vinculis inferni detenta exitia pateretur.  

Dopo aver sostenuto che in Adamo tutti hanno peccato e che in conseguenza della colpa commessa dal primo uomo tutti sono destinati a morire, il commentatore specifica che la morte di cui si parla è la morte fisica, la separazione dell’anima dal corpo. La prima conseguenza del peccato di Adamo è dunque la fine dell’immortalità di cui l’uomo godeva nel paradiso terrestre e l’ingresso nel mondo della morte fisica, a cui tutti gli uomini, proprio in quanto discendenti dal seme di Adamo, sono sottoposti. Esiste però anche una mors secunda, ovvero la morte spirituale, che non è conseguenza della colpa del progenitore, ma si acquisisce propriis peccatis, tramite peccati personali. 1  Art. cit., p. 197.

2  Quaest. cxii, 8, csel 50, p. 290 ; vd. anche Quaest. cxxiii, 13 (csel 50, p. 379).  

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È interessante in primo luogo notare la presenza anche in questo commento di espressioni che ricorrono nei vari autori cristiani ogni volta che viene affrontata la problematica del peccato originale, quasi dei ‘termini tecnici’, divenuti di uso obbligato nella trattazione dell’argomento : si è visto come anche in Pelagio si incontri l’espressione propria peccata contrapposta ad aliena peccata, 1 per distinguere i peccati ascrivibili alla responsabilità personale dalla colpa aliena trasmessa dal progenitore ai suoi discendenti, distinzione già presente in Cipriano. Interessante risulta anche la locuzione secunda mors, 2 probabilmente ripresa dall’Apocalisse, 3 l’unico libro della Scrittura che ne attesta l’uso ; si incontra anche in Pelagio, nel commento a Rm 6, 7 :  











‘Scientes quod Christus surgens ex mortuis iam non moritur : mors in eum iam non dominabitur’. Ita et nos, si hic voluntate mortui fuerimus, secundam non timebimus mortem.  

In realtà, Pelagio nel suo commento non fa alcun riferimento alla morte fisica come conseguenza della colpa del progenitore ; allo stesso tempo non è rintracciabile alcuna allusione alla dottrina che si diffonderà in seguito fra i suoi seguaci, secondo cui Adamo non divenne mortale in seguito alla colpa commessa, ma tale fu creato da Dio fin dall’inizio : 4 sembra che l’autore abbia cautamente evitato l’argomento, limitandosi a parlare della « morte seconda », la morte spirituale, conseguenza dei peccati individuali. Questa convinzione è condivisa dai due autori : la morte dell’anima nella gehenna è punizione dei peccati individuali, delle colpe che l’uomo commette deliberatamente, seguendo l’esempio negativo offerto da Adamo. Significativa è infatti l’espressione eius occasione impiegata dall’Ambrosiaster : la « morte seconda » interviene a causa delle colpe commesse individualmente, seguendo l’esempio negativo di Adamo, che per primo trasgredì il precetto, offrendo anche ai suoi discendenti l’occasione, la possibilità di peccare. 5 I due autori condividono la preoccupazione di salvaguardare il libero arbitrio e la responsabilità personale : rispetto all’Ambrosiaster, tuttavia, Pelagio si spinge oltre, fino a limitare le conseguenze del peccato del progenitore al solo esempio negativo, che gli uomini possono scegliere liberamente di seguire o meno, procurandosi così la dannazione o la vita eterna. Diversa è la posizione dell’Ambrosiaster : la sentenza emessa nei confronti di Adamo è vincolante per tutti gli uomini, perché tutti, indistintamente, nascono nel peccato ; è come se Adamo peccando avesse contratto un debito, che tutta l’umanità insieme a lui ha sottoscritto di fronte a Dio : solo con la morte e resurrezione del Cristo il debito è stato completamente estinto e il certificato di debito (chirographum) annullato. 6 Si poneva tuttavia al commentatore il problema che già si era presentato a Origene : se tutti sono condannati per la colpa di Adamo, bisogna forse pensare che non venga fatta alcuna distinzione fra i peccatori e quanti al contrario si sono comportati da giusti prima della venuta del Salvatore ? Questa problematica è avvertita da tutti i commentatori e poneva non poche difficoltà : infatti, la visione dell’umanità come una massa  

   































1  Vd. supra, p. 82. 2  Vd. anche Ambst., Quaest. xxxiv, 1, csel 50, p. 62 : Vita autem et mors sic a deo est, quia legem dedit, quae servantibus se vitam promittit, contemptoribus vero mortem, sed illam quae secunda dicitur. 3  Apoc. 2, 11 ; 20, 6 ; 21, 8. 4  Vd. Aug., De gestis 11, 23. 5  Lo stesso significato presenta il termine occasio in Pelagio, Exp. in Gal 5, 15, p. 335 Souter : alter alteri occasio perditionis existit. 6  La metafora del chirographum è tratta da Col 2, 14 (deleto chirographo, quod adversum nos erat in decretis…). Vd. anche Ambst., Comm. in Col. 2, 13-15, rec. alt. 4, csel 81/3, p. 186.  







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indistinta di peccatori, tutti ugualmente condannati senza che in alcun conto siano tenuti i meriti individuali, finiva inevitabilmente per minare le basi stesse del concetto di giustizia divina. Abbiamo visto la soluzione semplice di Pelagio : il problema cessa di esistere, nel momento in cui si nega una corresponsabilità degli uomini nella colpa di Adamo e si ascrive alla sola volontà individuale la possibilità o meno della salvezza. L’Ambrosiaster, che invece accoglie l’idea di un coinvolgimento di tutti gli uomini nel peccato del progenitore, si trova ad affrontare maggiori difficoltà e opta per una soluzione per molti aspetti simile a quella di Origene. Infatti, commentando la variante di Rm 5, 14 che presenta la negazione non, Origene sostiene che quella morte che tratteneva le anime nell’inferno ha regnato anche sui santi : per questo Cristo è sceso agli inferi, non solo per non essere egli stesso trattenuto dalla morte, ma anche per strappare al suo dominio quelli che vi si trovavano non tanto per colpa del peccato di trasgressione, quanto per la loro condizione mortale. 1 In questo modo viene fatta salva sia la responsabilità personale, che è determinante in ultima analisi per ottenere la condanna eterna, sia la misericordia divina, di cui tutti, compresi i giusti, come nota anche l’Ambrosiaster, hanno bisogno per essere liberati dalla morte eterna :  







Promiscue igitur profeta locutus est, ut omnes dono dei indigere significaret, ut, sive peccatores sive iusti, dei misericordiam expectasse noscerentur, peccatores propter delicta propria, ut de faucibus mortis eriperentur, iusti vero paterno absoluti peccato deleta sententia data in Adam, per quam cunti tenebantur a morte, libertate accepta in dei regnum intrarent, iam non servi, sed filii dei. 2  

L’idea che i buoni fossero trattenuti negli inferi, in attesa della liberazione da parte del Salvatore, doveva essere diffusa, perché suggerita dalla Scrittura ; 3 i commentatori, a partire da Origene, la riprendono e la sviluppano nell’ambito della riflessione sul peccato di Adamo e sulle sue conseguenze. La concezione dell’Ambrosiaster mi sembra molto vicina a quella di Origene, tanto che si può ritenere assai verisimile che nell’esegesi di Rm 5, 12 egli abbia tenuto presente gli insegnamenti del maestro Alessandrino ; entrambi gli autori pongono in evidenza l’esistenza di due tipi di morte : la morte fisica, descritta da ambedue come « separazione dell’anima dal corpo », 4 a cui tutti gli uomini sono sottoposti in conseguenza del peccato di Adamo, e la morte spirituale, giusta punizione dei peccati personali. Entrambi ritengono che il peccato di Adamo abbia avuto conseguenze per l’umanità intera e che tutti necessitino della misericordia divina, compresi i giusti vissuti prima di Cristo, trattenuti agli inferi fino all’avvento del Salvatore. Entrambi, infine, sembrano ricondurre a due fattori il perpetuarsi e il rinnovarsi della colpa adamitica di generazione in generazione : la trasmissione del seme di Adamo tramite la riproduzione, e l’educazione, il modello negativo offerto dal primo uomo.    













1  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 386 Bammel. 2  Quaest. xlvii, 5, csel 50, p. 94. 3  Vd. Mt 27, 52 ; 1Pt 3, 19 ; 4, 6. 4  Vd. Orig.-Ruf., Expl. in Rom vi, 6, p. 480 Bammel : Etenim separatio corporis ab anima mors nominatur. Tale definizione aveva alle spalle una lunga tradizione : si riscontra già in Platone, Phaedo 64C : ”Ara mh; a[llo ti  









h] th;n th`~ yuch`~ ajpo; tou` swvmato~ ajpallaghvn… kai; ei\nai tou`to to; teqnavnai, cwri;~ me;n ajpo; th`~ yuch`~ ajpallage;n aujto; kaq∆auJto; to; sw`ma gegonevnai, cwri;~ de; th;n yuch;n ajpo; tou` swvmato~ ajpallagei`san aujth;n ei\nai… a\ra mh; a[llo ti h/\ oJ qavnato~ h[ tou`to… Questo passo è ripreso da Cicerone, Tusc. i, 74 : secernere autem  

a corpore animum, nec quicquam aliud, est mori discere.

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4. 2. Rm 5, 14-15 Di particolare interesse ai fini della nostra trattazione risulta l’interpretazione del versetto 14 (Sed regnavit mors ab Adam usque ad Moysen), che l’Ambrosiaster commenta introducendo una prosopopea della morte : prima che fosse data la legge di Mosè, il peccato non era imputato ; per questo la morte regnava sicura del suo dominio su tutti i peccatori, sia su quanti già su questa terra scontavano le pene per le loro colpe, sia su quanti sembravano, per il momento, sfuggire al giudizio : Satana si rallegrava di questa situazione, e, a causa di Adamo, teneva in suo possesso l’uomo abbandonato da Dio. 1 Come abbiamo già osservato, 2 Pelagio offre due diverse interpretazioni di questo passo paolino ; nella prima troviamo, come nell’Ambrosiaster, una personificazione della morte che regna sicura del suo dominio sugli uomini :  













Dum non esset qui inter iustum et iniustum ante distingueret, putabat se omnibus dominari.

Già Smith 3 ha messo in evidenza l’analogia fra i due commenti, notando come entrambi gli autori personifichino la morte. Se sembra plausibile che Pelagio abbia ripreso dall’Ambrosiaster la personificazione della morte, ritengo tuttavia che vi sia nell’interpretazione del versetto una differenza, resa ancora più significativa dal ricorso alla stessa immagine. È, infatti, indicativo che Pelagio puntualizzi come la morte pensasse, si illudesse di regnare su tutti (putabat), semplicemente perché prima della legge mosaica non c’era nessuno che distinguesse fra giusti ed ingiusti ; il dominio della morte è in definitiva presentato come apparente : i giusti, infatti, sfuggivano al suo controllo, nonostante essa non ne avesse percezione, mancando qualcuno che operasse una distinzione in base ai meriti. L’Ambrosiaster al contrario presenta il dominio della morte come un dato reale : il peccato non era imputato e proprio in virtù dell’impunità del suo abuso la morte regnava sugli uomini, dominando sia su quanti venivano puniti su questa terra, sia su quanti riuscivano ad evitare momentaneamente le pene imposte per le loro azioni malvagie. La diversa interpretazione tradisce una diversa concezione di partenza : nell’Ambrosiaster, un coinvolgimento dell’umanità intera nel peccato di Adamo, che rende tutti soggetti alla morte, in Pelagio, la libertà individuale di seguire o meno l’esempio del progenitore, la quale consentì ad alcuni, anche se pochi, di sfuggire alla morte spirituale anche prima della venuta del Salvatore. Si nota di nuovo la capacità di Pelagio di riprendere immagini e concetti già impiegati dai suoi predecessori, piegandoli a nuove esigenze interpretative. Anche dall’analisi del commento alla seconda parte del versetto 14 emergono aspetti interessanti. Innanzi tutto, l’Ambrosiaster, diversamente da Pelagio, accoglie la lezione in eos qui peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, che, abbiamo visto, 4 anche Origene accetta come principale e commenta, pur essendo a conoscenza di entrambe le lezioni. Anche l’Ambrosiaster è consapevole che i codici greci presentano il testo con la negazione, ma ne rifiuta l’autorità, sostenendo che alcuni codici latini sono stati  











1  Vd. Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, pp. 169-171 : Quoniam non imputabatur peccatum, priusquam lex daretur per Moysen, sicut dixi, ipsa usurpationis inpunitate regnabat mors, sciens sibi illos devotos. Regnabat ergo mors securitate dominationis suae tam in hos, qui ad tempus evadebant, quam in istos, qui etiam hic poenas dabant pro malis operibus suis, omnes enim suos esse videbat, quia ‘qui facit peccatum servus est peccati’. Inpune etenim cedere putantes magis delinquebant, circa haec peccata promptiores, quae mundus quasi licita nutriebat. Quo facto gaudebat satanas securus quod causa Adae relictum a Deo hominem possidebat. Regnabat ergo mors. 2  Vd. supra, p. 75. 3  Op. cit., pag. 186. 4  Vd. supra, p. 75.  

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tradotti da antichi codici greci e si sono mantenuti incorrotti, mentre i manoscritti greci venivano adulterati per amore di polemica ; inoltre egli si richiama alla testimonianza di Tertulliano, Vittorino 1 e Cipriano, 2 che attestano la lezione priva di negazione. Il Vogels 3 ha osservato come tutto questo passo (Ad Rom 5, 14, 4a-e ; 5a) sia assente nella recensione a e avanza l’ipotesi che si tratti di brani aggiunti in un secondo tempo dall’Ambrosiaster in polemica con Gerolamo. Fra le varie prove addotte dallo studioso a sostegno della propria tesi, particolarmente convincente risulta l’analisi dell’epistola 27 di Gerolamo, indirizzata a Marcella, databile al 384-385 d.C. In questa lettera Gerolamo si lamenta di quei detrattori, da lui definiti bipedes aselli, che hanno avanzato forti critiche al lavoro da lui condotto sul testo sacro, accusandolo di aver apportato correzioni ai Vangeli “contro l’autorità degli antichi e l’opinione del mondo intero” (adversus auctoritatem veterum et totius mundi opinionem). 4 Gerolamo difende le proprie scelte, sostenendo che i codici latini sono corrotti, come provano le divergenze che si riscontrano fra di essi, e che è dunque necessario ricorrere all’originale greco da cui quelli derivano : chi non apprezza questa fonte purissima, continui ad attingere a rivoli fangosi. 5 Le parole dell’Ambrosiaster, et tamen sic praescribere nobis volunt de Graecis codicibus, quasi non ipsi ab invicem discripent, sembrano proprio presentare un’allusione polemica alle posizioni di Gerolamo, e tutto il passo aggiunto dopo la prima redazione si configura come una risposta alla lettera 27. Questa tesi risulta corroborata da un altro dato significativo : nell’epistola 27 Gerolamo presenta tre versioni a suo avviso errate del testo latino (Rm 12, 12 ; 1Tim 5, 19 ; 1 Tm 1, 15) e oppone a queste il testo da considerarsi corretto : tutte e tre le varianti rifiutate da Gerolamo sono, al contrario, accettate dall’Ambrosiaster. Tornando al passo del commento in questione, l’Ambrosiaster osserva che, se si accettasse ciò che affermano i codici greci, cioè che la morte regnò anche su coloro che non peccarono a somiglianza della trasgressione di Adamo, allora bisognerebbe pensare che Paolo in questo versetto faccia riferimento non alla morte spirituale, ma alla morte fisica, come già Origene aveva osservato : 6 in questo caso però l’Apostolo non avrebbe circoscritto il regno della morte al periodo che va da Adamo a Mosè, dal momento che, chiaramente, la dissoluzione fisica è un fenomeno che riguarda tutti gli uomini di tutte le epoche. Come spiega dunque l’Ambrosiaster il versetto paolino ? In primo luogo l’autore precisa in cosa consista la ‘somiglianza’ con il peccato di Adamo : la colpa del progenitore si configura come un peccato di idolatria, in quanto Adamo ha preteso di divenire pari a Dio, pur essendo un uomo ; di conseguenza quanti disprezzano Dio, quanti trascurano il Creatore, peccano in maniera simile ad Adamo e su loro regna la morte. 7 Esiste, tutta 























   









1  Non è chiaro a quale Vittorino l’Ambrosiaster faccia qui riferimento : C. Martini (op. cit., p. 33) suggerisce Vittorino di Pettau, antesignano dell’esegesi biblica in lingua latina, cui dedicò la maggior parte della sua attività letteraria, come risulta dai numerosi scritti che Gerolamo gli attribuisce (Vd. De vir. ill. 74). P. Séjourné, invece, ha pensato al retore africano Caio Mario Vittorino, (vd. Victorinus Afer, in Dictionnaire de Théologie catholique, cit., 15, 1950, col. 2893), di cui ci sono giunti, con qualche lacuna, i commenti a Efesini, Galati e Filippesi : se si accetta questa ipotesi, l’affermazione dell’Ambrosiaster conforterebbe la tesi secondo cui il retore africano compose anche un commento alla lettera ai Romani ora perduto. 2  L’Ambrosiaster cita Tertulliano e Cipriano come auctoritates a sostegno della propria tesi, ma in realtà non risulta che abbiano citato Rm 5, 14 secondo la lezione priva di negazione da lui accolta. 3  Vd. H. J. Vogels, Ambrosiaster und Hieronimus, « Rben », 66, 1956, pp. 14-19. 4  Vd. Hier., Epist. 27, 1. 5  Vd. ibid. 6  Vd. Expl. in Rom v, 1, p. 386 Bammel. 7  Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, p. 171 : Itaque non in omnes regnasse mortem manifestum est, quia non omnes peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, id est, non omnes contempto deo peccaverunt. Qui autem sunt qui contempto deo peccaverunt, nisi qui neglecto creatore servierunt creaturae deos sibi constituentes, quos colerent ad iniuriam dei ?  











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via anche una seconda categoria di peccatori : per l’Ambrosiaster, infatti, tutti gli uomini hanno peccato, perché inpossibile est non peccare ; tuttavia occorre fare una distinzione fra quanti hanno peccato sub deo e quanti hanno peccato in deum : i primi riconobbero Dio, non in base alla legge mosaica, che ancora non era stata promulgata, ma per tradizione ereditaria (ex traduce) e per giudizio naturale (iudicio naturali), e Lo adorarono, ma commisero comunque delle mancanze nei confronti della legge naturale, i secondi invece si macchiarono di una colpa più grave, perché peccarono contro Dio e Lo disprezzarono. 1 L’Ambrosiaster elabora una concezione sotto molti aspetti analoga a quella di Origene : anche l’esegeta Alessandrino sosteneva che tutti hanno peccato, perché è impossibile non commettere peccati, ma distingueva fra quanti occasionalmente commettono delle colpe e quanti, invece, hanno un’abitudine inveterata al peccato, sostenendo che solo su questi ultimi la morte ha regnato. 2 Evidentemente entrambi gli autori, una volta riconosciuta la condizione di peccato comune a tutti gli uomini in seguito alla trasgressione del progenitore, avvertono l’esigenza di operare delle distinzioni in base alla gravità delle colpe, al fine di salvaguardare la responsabilità personale. L’Ambrosiaster arriva così a sviluppare una concezione tripartita dell’umanità, distinta in « giusti », « peccatori » e « empi » : 3 la morte fisica ha colpito tutti, la « morte seconda », la morte spirituale, invece, ha regnato soltanto sugli empi. Fino alla venuta del Salvatore tutti, anche i giusti, si trovano negli inferi, ma separatamente, in modo che ci sia un abisso fra i giusti e i peccatori e una voragine ancora più ampia fra i giusti e gli empi, trattenuti in inferno inferiori : 4 così ai primi è destinato il refrigerium, ai secondi l’aestus, ai terzi l’ardor. 5 Pelagio sembra riprendere dall’Ambrosiaster la distinzione fra quanti peccano a somiglianza del peccato di Adamo e quanti invece peccano trasgredendo la legge naturale ; 6 la sua visione risulta tuttavia più semplice : da una parte quanti, seguendo la legge naturale e attenendosi ad una condotta giusta, sfuggono alla morte spirituale, dall’altra i peccatori che, scegliendo liberamente di imitare la colpa di Adamo, si procurano la morte eterna tramite i peccati individuali. L’Ambrosiaster e Origene sono costretti ad elaborare una visione più complessa per tutelare l’idea stessa di una giustizia divina, inevitabilmente compromessa in un quadro in cui tutti subiscono le conseguenze della colpa di un solo uomo. L’Ambrosiaster si chiede, infatti, se si può dire che la morte ha regnato su chi si è attenuto, sotto la guida della natura, a quanto in seguito prescrisse la legge mosaica. 7 In Pelagio questa domanda trova una risposta negativa ; stimolato dalle riflessioni e dai dubbi dei suoi predecessori, egli giunge ad una soluzione estrema : non più un’attenuazione della pena o un  























   





   



   









1  Ibid., p. 173 : Fuerunt etiam qui peccaverunt non praeterito deo, sed in lege naturali. Qui enim intellexit, sive ex traduce sive iudicio naturali et veneratus est deum, nulli honorificentiam nominis et maiestatis eius inpertiens, si peccavit, -quia inpossibile est non peccare,- sub deo peccavit, non in deum, quem iudicem sensit. Ideoque in huiusmodi mors non regnavit, sicut dixi, qui sub specie idolorum servierunt diabolo. 2  Vd. supra, p. 69. 3  Vd. anche Quaest. cx, 17, csel 50, pp. 276-277. 4  Vd. Comm. in Rom 5, 16, csel 81/1, p. 181. L’immagine del chaos che separa i giusti dai peccatori è tratta da Lc 16, 26 : Et in his omnibus inter nos et vos chaos magnum firmatum est ... 5  Vd. Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, p. 173. Su questa concezione tripartita dell’umanità si veda anche A. Pollastri, Ambrosiaster. Commento alla lettera ai Romani. Aspetti Cristologici, L’Aquila, Japadre, 1977, pp. 114-126. 6  Vd. Pel., Exp. in Rm 5, 14, p. 46 Souter. 7  Ambst., Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, p. 175 : Igitur qui ante legem hoc servavit natura duce quod postea lex mandavit, numquid potest dici, quia mors regnavit in eum ?  







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momentaneo soggiorno negli inferi per quanti hanno peccato lievemente o sono stati giusti, ma l’immunità dalla morte spirituale. Che nel commentare questi versetti Pelagio abbia tenuto presente il lavoro esegetico del suo predecessore, sembra dimostrato dalla riflessione sulla definizione di Adamo come forma futuri. Come abbiamo visto, 1 Pelagio offre due diverse spiegazioni, attribuendo la seconda a dei non precisati quidam, che interpretano l’espressione paolina definendo Adamo forma Christi e contrario. Fra questi anonimi interpreti possono rientrare sia Origene, sia l’Ambrosiaster, che così commenta :  



Adam autem forma futuri est, quia iam tum in mysterio decrevit deus per unum Christum emendare, quod per unum Adam peccatum erat …. 2  

La breve osservazione di Pelagio a Rm 5, 15 (p. 46 Souter : ‘Sed non, sicut delictum, ita et gratia’. Ne in forma aequalitas putaretur) sembra condensare la più ampia spiegazione offerta dall’Ambrosiaster :  



Propter quod enim formam dixit esse unius Christi unum Adam, ne et causam Adae talem significasse putaretur, qualis et Christi est, ait : ‘sed non sicut delictum, ita et donum’, quia in eo tantum forma Adam Christi est, quia quod unus peccavit unus emendavit. 3  



La parte successiva del commento dell’Ambrosiaster al versetto 15 pone in evidenza un altro aspetto che poteva suscitare l’interesse di Pelagio ; l’Ambrosiaster, infatti, afferma che, se per la colpa di uno solo, molti sono morti imitando la sua trasgressione (imitantes prevaricationem eius), la grazia di Dio si è riversata in abbondanza su un numero ancora maggiore di persone ; la morte cui l’Apostolo fa riferimento non è la morte fisica, comune a tutti, ma la morte spirituale che ha regnato non su tutti, ma su quanti hanno peccato in modo simile ad Adamo (similiter peccantes). 4 Le espressioni imitantes praevaricationem eius e similiter peccantes pongono in evidenza l’importanza dell’exemplum Adae, un tema che, come abbiamo visto, era già presente in Origene e diverrà centrale in Pelagio. Ricorrono nell’Ambrosiaster le stesse parole-chiave che ritroveremo in Pelagio : l’uso del verbo sequor 5 e di espressioni come similiter, exemplum, 6 similitudo, ad indicare l’allontanamento da Dio per condizionamento di un modello negativo. Come Origene, anche l’Ambrosiaster riconosce due fattori che spingono l’uomo a peccare : una sorta di ‘tara’ ereditaria, che ha la sua origine nella colpa adamitica, e l’esempio negativo che il primo uomo, trasgredendo il precetto divino, ha offerto. È significativo il fatto che Pelagio non faccia nel suo commento alcun riferimento al primo fattore, che pur trovava teorizzato nelle sue fonti, e focalizzi l’attenzione unicamente sul secondo, fino a considerarlo l’unico elemento che eserciti una reale influenza sulla libera scelta dell’uomo. L’Ambrosiaster sottolinea inoltre l’importanza dell’azione redentrice del Salvatore : condizione assolutamente necessaria per la salvezza è credere in Cristo, la cui grazia sovrabbondante libera dagli inferi sia quanti hanno peccato in similitudine praevaricationis Adae, sia quanti non hanno imitato il progenitore. Questa affermazione sembra in contrasto con quanto l’autore aveva affermato nel commento a 5, 14, dove gli idolatri sembrano destinati alla dannazione futura. In realtà, come ha osservato A. Pollastri, 7 la  

















1  Vd. supra, p. 76. 2  Comm. in Rom 5, 14, csel 81/1, p. 179. 3  Comm. in Rom 5, 15, csel 81/1, p. 179. 4  Vd. Comm. in Rom 5, 15, csel 81/1, pp. 179-181. 5  Vd. Comm. in Rom 5, 19, csel 81/1, p. 185 : Plures enim delictum Adae secuti sunt praevaricando, non omnes, et multi iusti constituentur per fidem Christi, non omnes. Non ����������������������������������������������������������������� ergo in eos regnavit mors, qui non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae. 6  Vd. Comm. in Rom 8, 12, csel 81/1, pp. 269-271. 7  Ambrosiaster. Aspetti Cristologici, cit., pp. 162-173.  

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soluzione della contraddizione è offerta da quanto l’Ambrosiaster afferma commentando Rm 10, 7 : chi, visto il Salvatore negli inferi ha creduto in Lui, si salva ; dunque Cristo ha salvato tutti coloro che morirono prima della Sua venuta, ma solo se, quando discese agli inferi, furono pronti a credere in Lui. 1 In Pelagio, come vedremo, il concetto di gratia Christi non è affatto ignorato, anche se non risulta così insistito. Nel confronto con l’Ambrosiaster colpisce il fatto che Pelagio non si preoccupi di specificare come l’azione redentrice del Salvatore sia assolutamente necessaria anche per i giusti vissuti prima della Sua venuta : l’argomento non è affrontato in maniera esplicita, ma tramite brevi allusioni, e silenzi ancor più significativi, si insinua nel lettore l’idea che quanti non hanno potuto conoscere il Salvatore, essendo vissuti prima del suo avvento, se si sono attenuti ad una condotta irreprensibile sotto la guida della legge naturale, hanno ottenuto comunque la salvezza.  







4. 3. Rm 5, 16-20 Un altro particolare interessante emerge confrontando i due commenti a Rm 5, 16. Infatti, illustrando la differenza fra le conseguenze del peccato di Adamo e quelle dell’azione redentrice del Cristo, l’Ambrosiaster fa riferimento unicamente alla grazia divina che tramite il Salvatore ha garantito la remissione dei peccati, 2 mentre Pelagio aggiunge un elemento significativo :  



… et Adam solam formam fecit delicti, Christus vero [et] gratis peccata remisit et iustitiae dedit exemplum.

Accanto all’azione della grazia, Pelagio non trascura di ricordare l’exemplum iustitiae che il Cristo ha offerto ; l’azione redentrice del Salvatore si attua su due piani diversi : la remissione gratuita dei peccati e l’exemplum di un comportamento irreprensibile che l’uomo è tenuto a seguire per libera scelta. Come un tempo l’uomo si era allontanato da Dio seguendo l’esempio negativo offerto da Adamo, ora ha la possibilità, imitando il Cristo, di riconciliarsi con Dio : affiancando all’azione puramente gratuita della grazia divina l’exemplum Christi, Pelagio sottolinea quanto nella strada verso la salvezza sia fondamentale anche l’impegno dell’uomo, la scelta libera e consapevole di imitare il modello che Gesù ha offerto con i Suoi insegnamenti e il Suo comportamento. Se l’aspetto dell’imitazione di Cristo non è del tutto assente nell’Ambrosiaster, 3 tuttavia non è mai posto su un piano di parità rispetto alla grazia divina, come due cause che concorrono in ugual misura alla salvezza dell’uomo : l’accento è sempre posto sulla grazia divina che tramite la passione, la morte e la resurrezione di Cristo opera la salvezza dell’uomo. Come abbiamo detto, il rapporto di Pelagio con l’Ambrosiaster è complesso, e se in alcuni casi le loro concezioni appaiono distanti e quasi irriducibili, in altri si scoprono  









1  Vd. Comm. in Rom 10, 7, csel 81/1, p. 347 : Omnis enim quicumque viso salvatore apud inferos speravit de illo salutem, liberatus est … 2  Comm. in Rom 5, 16, csel 81/1, p. 181 : Manifeste diversum est, quia uno Adae peccato condemnati sunt, qui in similitudinem praevaricationis eius peccaverunt, gratia vero dei per Christum non ex uno delicto, sed ex multis peccatis iustificavit homines, dando illis remissionem peccatorum. 3  Vd., ad esempio, Comm. in Rom 8, 4, csel 81/1, p. 259 (itaque si et nos salvatoris exemplo non peccemus, damnamus peccatum), dove tuttavia la breve esortazione a seguire il modello offerto da Cristo conclude una lunga riflessione concentrata sulla remissione gratuita dei peccati e l’azione redentrice del Salvatore tramite la morte in croce e la resurrezione.  



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sorprendenti convergenze. È il caso del commento a Rm 5, 18, dove l’Ambrosiaster offre una riflessione che sembra portare con sé un’eco dei dibattiti teologici del tempo :  

Hoc est, sicut unius delicto omnes condemnationem meruerunt similiter peccantes, ita et in iustitia unius omnes iustificabuntur credentes. Si qui autem condemnationem hanc generalem esse putant, simili modo et iustificationem generalem accipient. Sed non est verum, quia non omnes credunt.

L’Ambrosiaster non condivide l’idea di una condanna generale che grava su tutti gli uomini : a suo avviso, coloro che la sostengono devono, in base al parallelo stabilito da Paolo (sicut per unius delictum in omnes homines in condemnationem, sic et per unius iustitiam in omnes homines in iustificationem vitae), riconoscere anche una giustificazione generale, tesi assurda, dal momento che non tutti credono e non tutti di conseguenza meritano la giustificazione. Le parole dell’Ambrosiaster trovano un significativo riscontro nelle argomentazioni di coloro qui contra traducem peccati sunt riportate da Pelagio :  



‘Si Adae’, inquiunt, etiam non peccantibus nocuit, ergo et Christi iustitia etiam non credentibus prodest’. 1  

Il problema del peccato originale, di una condanna che grava su tutti gli uomini senza distinzione, era evidentemente già dibattuto ai tempi dell’Ambrosiaster, il quale prende posizione contro una tesi che Pelagio attribuisce ai sostenitori del traducianesimo : l’idea di una condanna generale che ricade su tutta l’umanità è confutata dai due autori facendo ricorso allo stesso argomento, che doveva essere divenuto quasi topico nel dibattito sul tradux peccati. Stupisce la mancanza di coerenza nella visione dell’Ambrosiaster, quasi incerto fra due diverse concezioni : da una parte la convinzione che esista una tara ereditaria trasmessa di generazione in generazione e risalente alla colpa del progenitore, dall’altra il rifiuto di quella che dovrebbe essere la logica conseguenza di un tale assunto, ovvero la condanna dell’umanità intera corresponsabile della trasgressione di Adamo. La stessa preoccupazione di effettuare delle distinzioni e di non coinvolgere l’umanità intera nella colpa del primo uomo si riscontra nel commento a Rm 5, 19 (csel 81/1, p. 185) :  





‘Sicut enim per inobaudientiam unius hominis peccatores constituti sunt plurimi, ita et per unius obaudientiam iusti constituentur multi’. Quos supra omnes dixit, hic ‘plures’ et ‘multos’ significat. Plures enim delictum Adae secuti sunt praevaricando, non omnes, et multi iusti constituentur per fidem Christi, non omnes. Non ergo in eos regnavit mors, qui non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae.

Abbiamo già visto nel confronto fra Pelagio e Origene come l’alternanza nel testo di Paolo (Rm 5, 12-15) fra omnes, multi e plures creasse difficoltà agli esegeti ; se tuttavia Origene risolveva il problema sostenendo che anche là dove Paolo usava multi e plures intendeva in realtà omnes, 2 l’ipotesi interpretativa dell’Ambrosiaster va nello stesso senso di quella offerta da Pelagio : 3 l’apostolo parla in questo caso di multi e plures, perché in molti seguirono la caduta di Adamo, prevaricando, ma non tutti ; allo stesso modo molti saranno costituiti giusti per mezzo della fede in Cristo, ma non tutti. Così, se nel ricorso all’immagine della massa si poteva cogliere quasi un’anticipazione del pensiero di Agostino o comunque una posizione distante dalle idee di Pelagio, nel  



   



1  Exp. in Rm 5, 15, p. 47 Souter. 2  Vd. supra, p. 70. 3  Vd. Exp. in Rm 5, 19, p. 48 Souter : Sicut exemplo inoboedientiae Adam peccaverunt multi, ita et Christi oboedientia iustificantur multi.  

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concetto di exemplum Adae, nel rifiuto di una visione dove tutta l’umanità è destinata alla perdizione senza alcuna considerazione per le colpe o i meriti individuali, nella convinzione che la condanna eterna si acquisisce in definitiva con i peccati personali, e quindi per libera scelta dell’uomo, troviamo invece dei punti di convergenza con le opinioni espresse da Pelagio nel suo commento. Di fronte ad un pensiero così articolato e sotto molti aspetti contraddittorio non sembra possibile, se non al prezzo di una riduttiva semplificazione, accogliere la tesi del Buonaiuti, che rintracciava nel commento dell’Ambrosiaster posizioni dualistiche e manichee, con una severa condanna del corpo, viziato e irrimediabilmente corrotto da una perversione che si trasmette per via ereditaria. 1 Abbiamo visto come in realtà l’anonimo autore affianchi sempre alla tabes ereditaria i peccati personali, 2 determinanti, in definitiva, per ottenere la condanna eterna. Sarà ora opportuno porre la nostra attenzione sul modo in cui egli valuta il corpo : anche in questo caso un confronto con Pelagio risulterà utile per mettere in luce alcuni aspetti significativi del suo pensiero. Anche nel modo di valutare la funzione e la responsabilità del corpo l’Ambrosiaster presenta incertezze e incoerenze : ancora una volta si percepisce una tensione irrisolta fra due visioni diverse, una difficoltà nell’operare una scelta chiara che già si era presentata ad Origene. Da una parte, troviamo nei suoi scritti una presa di posizione decisa contro la concezione manichea del corpo come sostanza malvagia e corrotta ; commentando Rm 7, 5, ad esempio, l’Ambrosiaster polemizza apertamente contro quanti colgono l’occasione offerta dalle parole di Paolo per condannare la carne e sottolinea come le membra sono soltanto il mezzo tramite il quale si traducono in atto i vizi che hanno origine nel cuore. 3 Più oltre, l’autore sostiene in maniera ancora più esplicita come la carne non sia una sostanza di per sé malvagia e come l’apostolo condanni non tanto la substantia, quanto la sapientia carnis. 4 Nelle Quaestiones questa posizione si fa ancora più netta fino ad arrivare ad affermazioni di sapore ‘pelagiano’ :  















Manifestatum itaque puto nullam naturam debere dici malum, quia omne malum, sicut claruit, ex voluntate fit, quae per sensus accidit naturae. 5  

In maniera chiara e decisa l’Ambrosiaster con queste parole nega l’idea del male come inerente alla natura, riconducendolo alla sola volontà umana. Nella Quaestio lxxx giungerà a sostenere che l’uomo non nasce macchiato da colpa, ma sine sensu, ovvero in grado di apprendere il bene o il male a seconda degli insegnamenti ricevuti, 6 mentre nella Quaestio cxxvii mostra quanto sia assurdo porre sotto accusa la natura corporis, dal momento che il peccato viene dall’anima. 7 Di contro a queste affermazioni già il commento a Rm 7, 18 sembra introdurre una diversa prospettiva ; l’Ambrosiaster, infatti, in un primo momento ribadisce che la carne non è in sé malvagia e che il peccato non deve essere considerato una sostanza, ma una praevaricatio boni, 8 concezione già presente in Origene ; 9 in seguito, tuttavia, offre delle considerazioni che sembrano dipingere un quadro diverso : egli afferma chiaramente, infatti, l’esistenza di una corruptio peccati che permane nel corpo, facendo della carne  







   





1  Vd. Buonaiuti, Pelagio e l’Ambrosiastro, cit., pp. 14 sg. 2  Vd., ad esempio, Comm. in Rom 7, 14, csel 81/1, pp. 233-235. 3  Vd. Comm. in Rom 7, 5, csel 81/1, p. 219. 4  Comm. in Rom 8, 7, csel 81/1, pp. 261-263. 5  Quaest. ii, 8, csel 50, p. 21. 6  Quaest. lxxx, csel 50, p. 136. 7  Quaest. cxxvii, 24, csel 50, p. 409. 8  Vd. Comm. in Rom 7, 18, csel 81/1, p. 237. 9  Vd. Expl. in Rom vi, 1, p. 457 Bammel.

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una carne di peccato : il corpo è stato corrotto dal peccato del primo uomo e quella che si trasmette per generazione è una carne corrotta. Questa corruzione consiste nel fatto che ora il corpo dell’uomo è sottoposto alla dissoluzione e alla morte ed è incapace di resistere alle attrattive del male. 1 Una visione del genere è completamente estranea a Pelagio, mentre si trova in Origene, il quale presenta la stessa ambiguità dell’Ambrosiaster : da una parte la convinzione che il peccato non sia una sostanza, ma risieda nell’agire dell’uomo, e vada dunque ricondotto in ultima analisi alla volontà umana, dall’altra l’idea di un corpo corrotto e di una polluzione trasmessa per generazione, che impediscono di fatto all’uomo di compiere il bene. 2 Per l’Ambrosiaster il peccato risiede nell’uomo come un nemico, in conseguenza di quella che egli chiama hereditas praevaricationis : 3 la carne, una volta corrotta e sottoposta alla morte, ha accolto in sé le passioni, i desideri, trasferendone il peso all’animo, che risulta anch’esso traviato. 4 L’autore tuttavia precisa che il peccato abita nella carne, non nell’animo : l’animo è influenzato dalla corruzione della carne, e ciò nonostante il peccato non risiede in esso, altrimenti ne risulterebbe compromesso il libero arbitrio : 5  







   





   

Hic est interior homo, quia non in animo habitat peccatum, sed in carne, quia est ex origine carnis peccati, et per traducem omnis caro fit peccatum. In animo autem non permittitur habitare propter arbitrium liberum voluntatis. Igitur in carne habitat peccatum quasi ad ianuas animae, ut non illam permittat ire quo vult. In animo autem si habitaret, perturbaret eum, ne se omnino cognosceret. Nunc autem cognoscit se et delectatur lege dei.

Si tratta di un’affermazione importante che avvicina il pensiero dell’Ambrosiaster, pur nelle dovute differenze, alla visione di Pelagio : il peccato si ferma ad ianuas animae, condiziona senza dubbio le scelte dell’uomo, esercitando un’influenza cui è difficile resistere, ma non pregiudica il libero arbitrio. Un punto di convergenza ancor più significativo con la dottrina di Pelagio emerge dalle recensioni a e b di questo passo, che presentano, in luogo della frase in animo autem non permittitur habitare propter arbitrium liberum voluntatis, il seguente testo :  



Si enim anima de traduce esset et ipsa, et in ipsa habitaret, quia anima magis Adae peccavit quam corpus ; sed peccatum animae corrupit corpus.  

Si tratta di una chiara presa di posizione contro la teoria della generazione dell’anima ex traduce : se l’anima si trasmettesse per traducem, allora il peccato abiterebbe in essa, perché è l’anima di Adamo ad aver peccato più che il corpo ; invece, ad essere trasmesso tramite la generazione non è il peccato dell’anima, ma la corruzione del corpo. Una riflessione analoga si riscontra fra le argomentazioni degli oppositori al traducianesimo riportate da Pelagio nel commento a Rm 5, 15 :  





Illud quoque accidit quia, si anima non est ex traduce sed sola caro, ipsa tantum habet traducem peccati, et ipsa sola poenam meretur.

Si tratta della seconda analogia con le parole dell’Ambrosiaster ricorrente nello stesso passo : sembra probabile che Pelagio nel riportare le opinioni di coloro qui contra  

1  Vd. Comm. in Rom 7, 18, csel 81/1, pp. 237-239. 2  Vd. Expl. in Rom v, 1, pp. 368-369 Bammel ; ibid. v, 9, pp. 439-440 ; vi, 1, pp. 455-456 ; vi, 12, p. 525. 3  Vd. Comm. in Rom 7, 24-25, csel 81/1, p. 245. 4  Vd. Comm. in Rom 7, 24-25, csel 81/1, p. 247. 5  Comm. in Rom 7, 22, csel 81/1, p. 241.  





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traducem peccati sunt abbia tenuto presente il commento dell’Ambrosiaster, in quanto fermo oppositore di una trasmissione ex traduce dell’anima. 1 Vediamo dunque quanto complesso è il rapporto di Pelagio con il suo predecessore : se poco prima i due autori sembravano esprimere concezioni fra loro irriducibili, poco dopo convergono insospettabilmente su analoghe posizioni. Dal confronto con i passi presi in considerazione dell’Ambrosiaster, emerge però anche la peculiarità della visione pelagiana. In primo luogo, Pelagio insiste molto più del suo predecessore sulla bontà della carne, ripetendo a più riprese che ad essere condannate dall’apostolo sono le opere della carne, non la carne in sé. 2 In particolar modo, interessante risulta la distinzione introdotta nel commento a Rm 8, 3 :  







Non ipsa caro, ut Manichaei dicunt, sed sensus carnalis inimicus est deo. Omne enim non subiectum inimicum est, et quicumque se voluerit vindicare, etiam veteris legis numquam modum excedit.

Nemico di Dio non è la carne, ma il sensus carnalis ; da esso, infatti, non dalla carne, derivano i vizi :  



Ecce de quibus vitiis carnales iudicantur, quae non proprie per carnem fiunt, sed de carnali sensu descendunt. 3  

Come ha osservato Valero, 4 il sensus carnalis non può essere considerato come ‘potenza’ della carne, ma deve essere posto in relazione con l’anima : il sensus carnalis è l’anima che è stata attratta nell’ambito della carne, rendendo l’uomo carnale. Infatti, nel commento a Rm 8, 5 Pelagio afferma chiaramente che l’uomo è costituito da due sostanze, carne e spirito, e, a seconda che prevalga l’una o l’altra, è considerato ‘carnale’, o ‘spirituale’. Carne e spirito hanno ciascuno il proprio campo di competenza (dicio), però allo stesso tempo cercano entrambe di prevalere una su l’altra : quando la carne riduce lo spirito al proprio ambito, questo perde la sua forza e il suo nome. 5 In Gal 5, 16, gli stessi vizi citati in 1Cor 3, 3, sono detti da Paolo « opere della carne », Pelagio tuttavia li attribuisce all’anima, non alla carne : la carne del resto non può concupire senza l’anima, piuttosto, è l’anima stessa, quando pensa in modo carnale, ad essere definita « carne ». 6 Il sensus carnalis si identifica con lo spirito, quando questo è orientato alle opere della carne. Il fatto che Pelagio insista su questo concetto è indicativo : ascrivendo la tendenza al peccato al sensus carnalis, Pelagio pone il peccato in relazione con l’anima, presentandolo di conseguenza come atto volontario dell’uomo. Valero ha notato come caratteristica di Pelagio sia proprio la distinzione fra la carnesostanza e le opere della carne : 7 la carne non è malvagia, come affermano i manichei, malvagia è l’azione dello spirito che segue la legge della carne ; in questo modo Pelagio può concentrare sul sensus carnalis ogni riferimento di Paolo alla malvagità della carne.  





















   



1  Vd. Quaest. xxiii, csel 50, p. 49 : Inhonestum puto, si dicantur animae cum corporibus generari, ut anima nascatur ex anima, quod nec animae ipsi conpetit. Aut si certe singulae caelestes postestates factae sunt et ex ipsis ceterae natae sunt, potest et ex una Adae anima credibile videri ceteras nasci ? Sed non convenit, quia soli deo hoc possibile fuit, ut simplex generaret, non ceteris concederetur. 2  Vd. Exp. in Rm 6, 19, p. 53 Souter ; ibid. 7, 17, p. 59 Souter ; ibid. 8, 8, p. 62 Souter ; ibid. 8, 13, p. 64 Souter ; Exp. in Gal 5, 26, p. 338 Souter. 3  Exp. in 1Cor 3, 3, p. 141 Souter. 4  Op. cit., pag. 56. 5  Vd. Exp. in Rm 8, 5, p. 62 Souter : Homo ex spiritu et carne constructus est. Quando ergo carnalia agit, totus caro dicitur, quando vero spiritalia, totus spiritus appellatur. Una quaeque enim substantia, cum eam altera in suam dicionem redegerit, et vim quodam modo propriam et nomen amittit. Nam singulae [substantiae] cognata sibi et vicina desiderant. 6  Vd. Exp. in Gal 5, 16, p. 335 Souter : Non quo[d] caro sine anima concupiscat, sed ipsa anima, quando carnalia cogitat, [caro] dicitur, quando vero spiritalia, unus cum deo fit spiritus. 7  Op. cit., pp. 49 sg.  















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capitolo 3

Anche nell’Ambrosiaster troviamo una concezione « binaria » dell’uomo, 1 costituito da carne e spirito, così come è ugualmente presente l’idea secondo cui il termine caro può indicare non solo il corpo, ma anche l’anima che pecca, 2 tuttavia non riscontriamo nei suoi scritti la distinzione sottile che Pelagio effettua fra caro e sensus carnalis, e soprattutto egli pone in rilievo una polluzione, una contaminazione della carne, di cui in Pelagio non si fa parola. Come ha notato A. Pollastri, 3 l’Ambrosiaster attribuisce un valore sostanzialmente negativo alla carne e al mondo, pur precisando, per prendere le distanze dalla posizione manichea, che la situazione da lui descritta è quella della carne decaduta, non della carne così come è stata creata da Dio, e che la carne non è cattiva in se stessa. Pelagio non fa alcun accenno alla « carne decaduta » che con la sua corruzione influisce negativamente sull’anima, ma preferisce parlare di sensus carnalis, assumendo, rispetto all’Ambrosiaster, una posizione più decisa contro ogni possibile deriva manichea. Risulta significativo a questo proposito il commento a Rm 6, 12 :  















Quo modo [autem] regnet in corpore peccatum exposuit, per oboedientiam scilicet et consensum.

Il peccato regna nel corpo, non perché questo sia stato corrotto dalla colpa del progenitore, ma piuttosto in conseguenza dell’assenso dato coscientemente dall’uomo. È la volontà, in definitiva, non la natura che deve essere posta sotto accusa :  

De illius carnis substantia quae ante serviebat peccato, vicit [sc. Christus] numquam peccando peccatum, et in eadem carne damnavit peccatum, ut ostenderet voluntatem esse in crimine, non naturam… 4  

La sostanza del corpo non è di per sé malvagia, come dimostra il fatto che Cristo, che ha assunto la stessa carne degli uomini quanto alla natura, se ne è potuto servire per sconfiggere il peccato. È significativo che commentando lo stesso versetto, l’Ambrosiaster abbia invece avvertito l’esigenza di insistere sulla nascita virginale del Cristo, precisando che la sua carne era simile a quella degli uomini, ma non uguale, perché santificata nel grembo di Maria e nata senza peccato, 5 una preoccupazione che si riscontra, non a caso, anche in Origene. 6 Tale visione viene rifiutata da Pelagio, nonostante egli la incontrasse nelle sue fonti : i rischi che l’ammissione dell’esistenza di una polluzione in grado di inficiare la natura di tutti gli uomini comportava per il libero arbitrio dovevano essergli ben chiari. Del resto non sfuggivano nemmeno ai suoi predecessori, costretti, nel tentativo di salvaguardare l’autonomia della volontà umana, ad elaborare una visione complessa e spesso contraddittoria. Ogni tentativo di presentare l’Ambrosiaster come anticipatore delle idee di Pelagio o di Agostino risulta fuorviante : come ha osservato Souter, 7 sul problema del peccato originale l’anonimo autore sembra parlare con due voci distinte. L’Ambrosiaster offre un’importante testimonianza della fluidità di idee che doveva caratterizzare il pensiero cristiano del tempo, non ancora vincolato per le questioni che stiamo affrontando a dogmi definiti : la sua riflessione, proprio perché ricca di dubbi e sfumature, deve aver costituito per Pelagio un incentivo alla ricerca e all’approfondimento dei problemi più complessi posti dal testo paolino.  











1  Vd. Comm. in Rom 7, 25, csel 81/1, p. 247 : quia ergo duplex est homo, †carne conversus et animo†. 2  Vd. Comm. in Rom 3, 20, csel 81/1, p. 115 ; 6, 8, csel 81/1, p. 197 ; 8, 10, csel 81/1, p. 267. 3  Ambrosiaster. Aspetti Cristologici…cit., p. 62. 4  Exp. in Rm 8, 3, p. 61 Souter. 5  Vd. Comm. in Rom 8, 3, csel 81/1, p. 255. 6  Vd. Orig., In Leviticum Homilia xii, 4. 7  The earliest, cit., p. 81.  







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5. Pelagio e l’Anonimo di Budapest: due diverse concezioni a confronto Abbiamo già avuto occasione di analizzare alcuni passi del commento anonimo alle epistole di Paolo in relazione al problema della lex naturae : sarà ora utile riprendere il confronto riguardo alla questione del peccato originale. Ancora una volta, la nostra discussione prenderà le mosse dall’analisi del commento a Rm 5, 12 (40A Frede) :  



Hic ostendit apostolus, ‘Quemadmodum uno Adam praevaricante peccatum in hunc mundum ingressum sit cunctis’, eo quod tam naturalem quam scriptam legem nullus potuisset implere.

Il primo dato da rilevare è che l’Anonimo di Budapest, come Pelagio, interpreta l’in quo paolino in senso causale, come dimostra l’espressione eo quod ; la frase che segue, tuttavia, introduce già una diversa prospettiva : il peccato si diffonde nel mondo perché nessuno è più in grado di osservare né la legge naturale né la legge scritta. L’idea dell’incapacità dell’uomo di adempiere ai precetti della legge, più volte ribadita dall’Anonimo, è estranea, come abbiamo avuto modo di valutare, al pensiero di Pelagio ed è indicativa di una diversa concezione di fondo : cercheremo di ricostruirla, nonostante ben poco del commento originario sia giunto fino a noi. Nel commentare Rm 5, 14, l’anonimo offre qualche elemento in più, che ci consente di valutare con maggiore precisione la sua posizione riguardo al peccato del progenitore :  







Vult ostendere, quoniam ante adventum Christum ‘mors omnibus regnaverit’, ‘regnare’ enim non potuit absque peccato. ‘Regnat’ autem et infantibus qui praecepto sicut Adam non tenentur obnoxii. Unde ostendit eos naturali condicione peccare per inbecillitatem humanae naturae, quae legem dei custodire non potuit. 1  

Nonostante, come ha osservato De Bruyn, 2 si possa riscontrare un punto di convergenza con Pelagio nella convinzione che la morte non può regnare su chi non ha commesso peccato, quanto segue sembra allontanare inevitabilmente l’Anonimo dalle posizioni che saranno di Pelagio, avvicinandolo a quelle dei traducianisti : la morte regna anche sui bambini, per quanto non abbiano trasgredito un precetto come Adamo ; se gli infanti peccano, lo fanno per condizione naturale (naturali condicione), a causa della debolezza della natura umana (per inbecillitatem humanae naturae), che rende impossibile per l’uomo osservare i comandamenti divini. 3 Esiste dunque, secondo l’Anonimo, un’infermità, una debolezza che inficia la natura umana, rendendo incapace l’uomo di compiere i precetti della legge. Se la convinzione secondo cui anche i neonati sono sottoposti al dominio della morte sembrerebbe collocare l’anonimo fra i sostenitori del traducianesimo, dal suo commento a Rm 5, 14 (44A Frede) emergono elementi che rendono il quadro meno chiaro di quanto si potrebbe pensare :  









Quomodo ‘in similitudinem praevaricationis Adae’ obnoxii esse dicuntur ‘qui non peccaverunt’, nisi quia illud ostenditur per infirmitatem naturae eos servare legem minime potuisse ? Et idcirco etiam super infantes ‘mors regnasse’ monstratur ‘qui non peccaverunt in similitudinem Adae’, sed alia mala peccata fecerunt ; ‘ in similitudinem Adae’ ostenduntur aliter ‘peccasse’.  



1  43A Frede. 2  T. De Bruyn, Pelagius’s Interpretation, cit., p. 35. 3  Vd. anche Rm 7, 7 (054 Frede) : Exinde vult ostendere, quoniam in non custodiendo legem non fuit legis infirmitas, sed humanae naturae ...  

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capitolo 3

In primo luogo l’Anonimo, come Pelagio e diversamente da Origene e dall’Ambrosiaster, segue la lezione qui non peccaverunt : è significativo, tuttavia, che lo stesso lemma venga commentato secondo due prospettive ben diverse. Entrambi, infatti, intendono per coloro che non hanno peccato a somiglianza di Adamo quanti hanno disprezzato la legge, ma se in Pelagio si trattava di un atto volontario, frutto di libera scelta, nel caso dell’anonimo la mancata esecuzione dei precetti è ascritta alla infirmitas naturae : così, mentre Pelagio fa riferimento semplicemente ad eos qui sine praecepto legem contempsere naturae, l’anonimo precisa che i successori di Adamo “non poterono” (minime potuisse) osservare la legge. Il riferimento successivo ai bambini sui quali la morte ha regnato rende più profondo lo iato rispetto alla visione pelagiana. Tuttavia, una breve, ma significativa osservazione, impedisce di vedere nell’anonimo un precursore del traducianesimo : sed alia mala peccata fecerunt. L’espressione è piuttosto oscura e l’autore non offre ulteriori elementi che permettano di stabilire quali e di che natura siano questi alia mala peccata ; un dato però risulta evidente : se i neonati sono sottoposti alla morte, non è perché recano in se stessi la colpa, il peccato di Adamo, trasmesso per traducem di generazione in generazione, ma perché hanno commesso dei non meglio specificati alia mala peccata, che vengono a configurarsi senza dubbio come peccati personali. Questa interpretazione sembra confermata anche dall’osservazione dell’anonimo a Rm 1, 32 (021 Frede) :  











Hic ostenditur quoniam unusquisque hominum ‘scit’ se a deo secundum actus proprios iudicandum, ‘in quo’ et ipse peccantem ‘alium’ hominem ‘iudicat’ atque ‘condemnat’.

In questo caso l’autore afferma in maniera esplicita che gli uomini saranno giudicati secundum actus proprios, ovvero in base alle colpe individuali. Se sono in definitiva i peccati personali, e non il peccato di Adamo, a determinare la condanna dell’uomo, è indubbio tuttavia che per l’anonimo esiste anche una inclinazione al male insita nella natura umana a causa della sua debolezza. Quale sia l’origine di questa infirmitas non viene specificato nei pochi frammenti del commento giunti fino a noi e non possiamo sapere se questa problematica trovasse o meno spazio nell’opera. Possiamo tuttavia supporre che l’anonimo presentasse una visione simile a quella di Origene e dell’Ambrosiaster : il peccato di Adamo ha avuto come conseguenza principale quella di inficiare la natura umana, rendendola incapace di resistere al peccato e di compiere il bene ; come gli altri due commentatori, però, anche l’anonimo non arrivava a portare questo assunto alle sue estreme conseguenze, fino a negare il libero arbitrio e la responsabilità individuale, ma cercava di ricondurre in ultima istanza la condanna alla morte spirituale a colpe personali. Conciliare due concetti così diversi, responsabilità personale e infirmitas naturae, certo non doveva risultare compito facile : anche l’anonimo, come Origene e l’Ambrosiaster, sembra incontrare difficoltà, e se da una parte deve ammettere che nessuno, neanche i bambini, è in grado di sfuggire al dominio della morte, dall’altra, per salvaguardare la giustizia divina, è costretto a riconoscere che per meritare la condanna anche i neonati qualche peccato devono pur averlo commesso, nonostante non sia in grado di specificare quale e di che natura. Ai fini del nostro studio, è significativo che in Pelagio sia del tutto assente l’idea di una debolezza della natura umana causata dal peccato di Adamo e trasmessasi per generazione ai suoi discendenti : dal momento che questo concetto è presente in tutte le sue fonti, è plausibile che Pelagio abbia consapevolmente deciso di ignorarlo, elaborando  







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una visione nuova, che assegnasse unicamente alla libera volontà di ciascuno la scelta del proprio destino. Anche per quanto riguarda il modo di concepire la carne e il corpo, rintracciamo nell’anonimo le stesse ambiguità già notate nell’Ambrosiaster. Infatti, nel commento a Rm 8, 6 (076a Frede) l’anonimo precisa che l’apostolo intende porre sotto accusa non la carne in sé, ma la sapientia carnalis vel prudentia : nel fare questa precisazione l’autore è probabilmente mosso, come l’Ambrosiaster, dall’esigenza di opporsi ad ogni interpretazione in senso manicheo delle parole di Paolo. Tuttavia nell’esegesi di Rm 8, 3-5 sembra delinearsi una diversa concezione ; l’anonimo insiste, come l’Ambrosiaster e Origene, sulla nascita virginale del Cristo : l’incarnazione del Figlio è avvenuta absque peccato, ovvero il Salvatore ha assunto una carne santa e l’ha conservata pura da ogni colpa (ab omni cognitione peccati). 1 Tale precisazione sembra sottintendere l’idea di una tabes, di una contaminazione della carne che solo il Cristo ha potuto evitare nelle condizioni straordinarie della Sua nascita : è significativo, ancora una volta, che Pelagio non senta la necessità di insistere su questo dato, presente al contrario in tutte le sue fonti. Un altro elemento interessante emerge dal commento a Rm 8, 7-9 (76A Frede), dove possiamo rintracciare una concezione dell’uomo vicina a quella pelagiana :  











Dicendo apostolus ‘prudentia carnis mors est’, ostendit nos ‘passiones carnis’ cum pecoribus habere com���������������� autem ‘prumunes ; quibus si ‘serviamus’ nihil ab animalibus inrationabilibus distare invenimur. Quod dentiam spiritus’, id est animae, ‘vitam et pacem’ dicit, demonstrat eam rationabilem factam nihil cum iumentis habere commune.  

In queste osservazioni possiamo cogliere una concezione ‘binaria’ dell’uomo, che, costituito da carne e spirito, può seguire le inclinazioni dell’una o dell’altro, degradando o innalzando la sua natura. Come abbiamo visto, 2 una visione analoga è presente anche nell’Ambrosiaster ed era suggerita agli esegeti dallo stesso testo paolino : a differenza dei suoi predecessori, Pelagio non si limiterà a recepire passivamente le parole di Paolo, ma trarrà da queste lo stimolo per elaborare una nuova visione, formulando il concetto fondamentale di sensus carnalis che abbiamo già avuto modo di analizzare. Il confronto con i pochi frammenti restanti del commento anonimo conferma, in definitiva, quanto emerso dall’analisi delle opere di Origene e dell’Ambrosiaster : Pelagio sembra assumere come punto di partenza della propria riflessione le opere dei suoi predecessori ; le loro osservazioni talvolta sono accolte, talvolta respinte, in altri casi offrono lo spunto per ulteriori speculazioni : l’attenta meditazione sul testo di Paolo, arricchita dalla conoscenza del lavoro degli altri esegeti, spinge Pelagio a gettare già nella sua prima opera le basi di quella che diverrà in seguito una dottrina ben strutturata.  









6. Pelagio, Agostino e la questione del peccato originale: analisi di un complesso rapporto letterario Come abbiamo già osservato, per quanto singolare possa apparire se consideriamo l’aspra polemica che intercorse successivamente fra i due, Agostino può essere anno1  Vd. Rm 8, 3-5 (074a Frede) : Hic ostendit quoniam ‘lex per infirmitatem carnis’ non potuerit ‘impleri’. In eo autem in quo dicit : ‘Deus cum filium suum in similitudinem carnis peccati et propter peccatum misisset’, demonstrat quoniam ante incarnationem erat filius, et suscepta ‘carne’ quae postea esset obnoxia, ipse tamen ‘absque peccato’ eam susciperet. Et idcirco dicitur ‘in similitudinem carnis peccati’ suscepta ‘carne’ venisse et ‘peccatum in’ eadem ‘carne damnasse’, quoniam ‘carnem’ quam susceperat sanctam et innoxiam servaverit ab omni ‘cognitione peccati’. 2  Vd. supra, p. 102.  



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capitolo 3

verato fra le fonti di Pelagio : 1 la nostra indagine sui rapporti fra quest’ultimo e i suoi predecessori, relativamente alla questione del peccato originale, non poteva dunque concludersi senza un confronto con gli scritti del vescovo di Ippona. Il nostro obbiettivo non sarà quello di ricostruire la genesi e lo sviluppo della dottrina agostiniana sul peccato originale, tema quanto mai complesso e ampiamente dibattuto, 2 che travalicherebbe i limiti e gli scopi del presente lavoro : le opere e il pensiero di Agostino saranno da noi analizzate in funzione di un confronto con Pelagio, nel tentativo di cogliere analogie e differenze e chiarire così alcuni aspetti della riflessione del monaco bretone sul problema della colpa dei progenitori. Delle numerose opere composte da Agostino prima del 411 prenderemo in considerazione quelle in cui il problema del peccato originale è affrontato in maniera più approfondita e che possono essere state di maggiore interesse per Pelagio, come gli studi di Souter, Smith e Bohlin hanno dimostrato : oltre alle opere esegetiche sull’epistola ai Romani e al De libero arbitrio, il De genesi ad litteram, il De diversis quaestionibus lxxxiii e l’Ad Simplicianum. Nella nostra indagine non seguiremo un ordine cronologico, ma prenderemo le mosse dall’Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos, opera che, condividendo con le Expositiones di Pelagio lo stesso intento esegetico, consente un confronto più agevole : dopo aver individuato in tal modo alcuni concetti-chiave, ne approfondiremo il significato avvalendoci della testimonianza offerta dagli altri scritti. In primo luogo stupisce il fatto che Agostino non prenda in considerazione Rm 5, 12, trascurando del tutto di commentare questo versetto, che abbiamo visto al contrario essere oggetto di ampie riflessioni da parte degli altri commentatori. A questo proposito Trapé 3 ha osservato che Rm 5, 12 non è il primo testo che Agostino cita quando si trova ad affrontare la tematica del peccato originale ; inoltre, non è l’unico ad essere tenuto presente e non viene mai citato isolatamente dalla pericope e dal resto della Scrittura. Riprendendo le considerazioni di Trapé, Di Palma, in un articolo recente, 4 precisa che il testo paolino cui Agostino fa in primo luogo ricorso per la dottrina del peccato originale è 1Cor 15, 22 (In Adam omnes moriuntur), e che, quando cita Rm 5, 12, egli mostra grande interesse per tutto il contesto in cui è collocato il versetto : a suo avviso bisogna, dunque, ridimensionare l’importanza del ruolo di Rm 5, 12 nella teologia agostiniana. Del resto, già Lyonnet 5 aveva notato come in De div. quaest. LXXXIII, q. 68, 3 e in Ad Simpl. I, q. 2, 16-20 Agostino, trattando ex professo del peccato originale, esponesse la propria dottrina della massa damnata a partire da Rm 9, 11-21 e da Rm 7, 14 sg., ma non a partire da Rm 5, 12, che non viene riportato. Anche in questo caso, l’unico versetto paolino che menziona esplicitamente Adamo ad essere citato è 1Cor 15, 22, che    



















1  Vd. supra, pp. 26-27. 2  Ingente è la bibliografia sull’argomento, in questa sede ci limitiamo a indicare alcuni testi di riferimento : W. S. Babcock, Augustine’s interpretation of Romans (AD 394-396), « AugStud », 10, 1979, pp. 56-74 ; Bastiaensen, art. cit. ; Beatrice, op. cit. ; J. De Blic, Le péché originel selon Saint Augustin, « rsr », 17, 1927, pp. 512-531 ; Bonner, art. cit. ; Buonaiuti, La genesi, cit. ; Agostino e la colpa ereditaria, cit. ; Manicheism and Augustine’s Idea of « massa perditionis », cit. ; De Simone, art. cit. ; G. Di Palma, Ancora sulla interpretazione agostiniana di Rom 5, 12, « Augustinianum », 44/1, 2004, pp. 113-134 ; J. Gaudel, Péché originel iii. La traditione ecclesiastique avant la controverse pélagienne : Les Pères latins, Saint Augustin avant la controverse pélagienne in op. cit., coll. 371-382 ; Leeming, art. cit. ; Lyonnet, Rom. v, 12 chez Saint Augustin, cit. ; Pincherle, op. cit. ; R. Pirenne, Romani 5, 12-13 in S. Agostino, « smsr », 37, 1966, pp. 279-280 ; Rottmanner, art. cit. ; A. Sage, Péché originel, naissance d’un dogme, « REAug », 13, 1967, pp. 211-248 ; A. Trapé, Rom 5, 12 e la dottrina agostiniana del peccato originale, in Agostino, Natura e grazia. Introduzione generale, introduzioni particolari e note di A. Trapè, Roma, 1981 (« ba », xvii/1), pp. cxxviiicxxxii. 3  Op. cit., pp. cxxx-cxxxii. 4  Art. cit., pp. 119-120. 5  Art. cit., pag. 329.  

































































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ricorre due volte nel secondo scritto. 1 Bisognerà dunque concludere con Lyonnet che Agostino iniziò ad occuparsi di Rm 5, 12 solo nel corso della controversia pelagiana. Dello stesso avviso è anche Beatrice : 2 Agostino fu spinto prepotentemente a concentrare la propria attenzione sul versetto in questione proprio perché i pelagiani se ne servivano per negare l’esistenza del peccato originale, attribuendo, come abbiamo visto, a in quo non un valore relativo, ma causale. Il fatto che nel suo primo commento all’epistola ai Romani, Agostino, esegeta attento e scrupoloso, ignori semplicemente questo passo, prendendo le mosse dal versetto 13, sembrerebbe confermare tale ipotesi. Del resto lo stesso Agostino nel De genesi ad litteram attesta come Rm 5, 12 fosse, già prima del suo impegno personale nella controversia, terreno di scontro fra i sostenitori e i critici del traducianesimo, che ricorrevano al testo di Paolo piegandolo ciascuno a sostegno delle proprie convinzioni, a seconda dell’interpretazione data a in quo. 3 Nel momento in cui affronta l’esegesi dell’epistola ai Romani, tuttavia, Agostino non ha ancora preso parte alla polemica ed il versetto 12 non cattura la sua attenzione, ma egli inizia la sua analisi dal versetto successivo. Il commento a Rm 5, 13 non offre, ad una prima lettura, osservazioni particolarmente significative : Agostino, come tutti i commentatori che abbiamo preso in considerazione, precisa che la legge mosaica non ha il potere di rimettere i peccati : la sua funzione è solo quella di imputare il peccato, ovvero di renderlo palese. 4 Abbiamo già avuto modo di vedere come anche per Pelagio la legge mosaica presenti questa funzione di restituire all’uomo la cognizione del peccato, andata persa con il cadere in oblio della lex naturae, ma non sia in grado di assolvere dalle colpe commesse. 5 Tuttavia, come è emerso dalla nostra precedente indagine, 6 Pelagio attribuiva un ruolo molto importante alla legge mosaica nella storia della salvezza, ritenendo che, prima della venuta del Salvatore, essa fosse in grado di garantire la vita eterna a quanti riuscivano ad adempierne tutti i precetti. Questa convinzione non è stata riscontrata negli altri commentatori, e deriva da una profonda fiducia nelle capacità umane : che queste non siano state compromesse irrimediabilmente dalla colpa del progenitore risulta palese, per Pelagio, dal fatto che alcuni, sebbene pochissimi, riuscirono ad attenersi alle prescrizioni della legge, meritando così la salvezza. La diversa impostazione di fondo rispetto ad Agostino risulta evidente anche dall’interpretazione che i due commentatori danno dell’espressione usque ad legem enim peccatum in mundo fuit di Rm 5, 13. Per Pelagio, infatti, come del resto per l’Ambrosiaster, la perifrasi usque ad legem è da intendersi nel significato di “fino all’avvento della legge mosaica” : prima che fosse data la legge, infatti, si peccava più liberamente, dal momento che il peccato non era riconosciuto come tale. La legge, invece, subentra come vindex peccati, consentendo all’uomo di recuperare la capacità di distinguere il bene dal male e di attenersi, di conseguenza, ad una condotta corretta. La prospettiva assunta da Agostino è ben diversa : egli offre un’interpretazione del tutto nuova del passo in questione, ritenendo che l’Apostolo abbia voluto dire non « fino all’avvento della legge », ma « per tutta la durata del tempo della legge », cioè fino alla  

   



























1  Vd. Ad Simpl. i, q. 2, 16. 2  Op. cit., pp. 130-133. 3  Vd. De gen. ad litt. 10, 11, 18. 4  Exp. prop. 21, 2-3 : … Dicit enim apostolus manifestata esse peccata per legem, non autem ablata, cum dicit : ‘Peccatum autem non deputabatur cum lex non esset’. Non enim ait : Non erat, sed : ‘Non deputabatur’. Neque cum lex data est, ablatum est, sed deputari coepit, id est apparere. 5  Vd. Exp. in Rm 3, 20, p. 32 Souter ; 4, 16, p. 39 Souter. 6  Vd. Exp. in Rm 2, 20, p. 24 Souter ; 10, 5, p. 82 Souter.  











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capitolo 3

venuta di Cristo ; 1 in questo modo la figura di Cristo viene ad assumere un ruolo centrale : Agostino sente la necessità di precisare come solo dopo la venuta del Salvatore e l’intervento della Sua grazia il peccato può considerarsi veramente sconfitto. 2 Mentre Pelagio tende a ricordare i pochi giusti che, seguendo la legge naturale o attenendosi alla legge mosaica, hanno ottenuto la salvezza prima della venuta di Cristo, quasi ad ispirare nei suoi lettori fiducia nella capacità che l’uomo ha, se lo desidera, di compiere il bene, Agostino pone in primo piano la necessità della grazia e il ruolo di Cristo nella storia della salvezza. L’importanza della grazia, la sola in grado di vivificare tramite la fede, è ribadita poco oltre, nel commento a Rm 5, 20 (Exp. prop. 24, 2) :    







Non enim data est, quae possit vivificare, quia gratia vivificat per fidem, sed data est lex ad ostendendum quantis quamque arctis vinculis peccatorum constringerentur, qui de suis viribus ad implendam iustitiam praesumebant.

Colpiscono la nostra attenzione in particolare le ultime parole : pensare di riuscire a tenere un comportamento irreprensibile basandosi solo sulle proprie forze è considerato da Agostino un atto di presunzione. Già in quest’opera, dunque, composta ben prima della polemica con Pelagio, Agostino mostra convinzioni notevolmente differenti. Dopo quanto si è osservato, mi sembra difficilmente condivisibile il giudizio di Sage ; lo studioso, infatti, cui va il merito di aver ricostruito con chiarezza, nelle sue varie tappe, lo sviluppo del dogma del peccato originale in Agostino, riteneva che nelle opere del periodo compreso fra il 386 e il 397 Agostino tendesse a ridurre l’opera redentrice del Cristo solamente all’insegnamento e all’esempio. 3 Dedicheremo al problema della redenzione e della salvezza una sezione del presente lavoro e vedremo quali analogie e differenze si possono cogliere a proposito di questo tema fra Agostino e Pelagio : per il momento basti dire che, dal materiale finora preso in considerazione, Agostino non sembra assolutamente sottovalutare il ruolo fondamentale della grazia per la salvezza dell’uomo. Il commento a Rm 5, 14 offre alcuni elementi interessanti per quanto pertiene il problema del peccato originale. Agostino, come Pelagio, accoglie la lezione qui non peccaverunt, e come lui offre due possibili interpretazioni, delle quali la seconda presenta forti affinità con la seconda ipotesi interpretativa suggerita da Pelagio :  









... aut certe : « regnavit mors et in his, qui non in similitudinem praevaricationis Adae peccaverunt », sed ante legem peccaverunt, ut illi peccasse intellegantur in similitudinem praevaricationis Adae qui legem acceperunt, quia et Adam accepta praecepti lege peccavit ... 4  







Agostino, come Pelagio, ritiene che le parole di Paolo possano essere interpretate nel senso che, in seguito al peccato del progenitore, la morte regnò non solo su quanti, ricevuta la legge, trasgredirono un precetto, come fece Adamo, ma anche su quanti peccarono prima che la legge fosse loro data, e quindi senza violare alcuna prescrizione, ma comunque contravvenendo alla legge di natura. Ma quel che colpisce la nostra attenzione, più dell’analogia fra le spiegazioni date in alternativa dai due commentatori, è la diversa concezione di fondo che le prime due soluzioni prospettate sottendono. 1  Exp. prop. 21, 3 : Non ergo putemus ‘usque ad legem’ ita dictum esse, quasi iam sub lege non esset peccatum, sed dictum est sic : ‘usque ad legem’, ut totum legis tempus annumeres usque ad finem legis, quod est Christus. 2  Exp. prop. 21, 1 : Quod autem ait : ‘usque ad legem enim peccatum in mundo fuit’, intelligendum est quousque veniret gratia … 3  Art. cit., p. 215. 4  Exp. prop. 22, 2.  







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Infatti, mentre Pelagio, come abbiamo visto, 1 sottolinea che il dominio della morte era in realtà apparente, perché, non essendovi chi distingueva fra giusti e ingiusti, essa si illudeva di tenere tutti gli uomini in suo possesso, Agostino analizza il versetto da un altro punto di vista, offrendo una spiegazione che non trova riscontro in altri commenti ed è probabilmente frutto di una sua personale riflessione :  



Quod autem ait : ‘Sed regnavit mors ab Adam usque ad Moysen et in his, qui non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae’, duobus modis distinguitur ; aut ‘in similitudinem praevaricationis Adae regnavit mors’, quia et qui non peccaverunt, ex origine mortalitatis Adam mortui sunt ... 2  





Agostino propone di strutturare la frase riferendo l’espressione in similitudinem praevaricationis Adae a regnavit mors : ne deduce che la morte ha regnato con una prevaricazione simile a quella di Adamo, perché anche coloro che non commisero peccato le furono sottoposti a causa della mortalità originaria derivante da Adamo (ex origine mortalitatis Adam). La morte, dunque, regnò su tutti, perché tutti, traendo origine da Adamo, ereditano la mortalitas. Avremo modo di tornare fra breve sul concetto di mortalitas ; per il momento è importante osservare come si trovi qui già espressa, anche se non pienamente sviluppata, l’idea secondo cui la colpa del primo uomo ha avuto conseguenze che ricadono su tutti i suoi discendenti, indipendentemente dalla loro condotta ; questa concezione, presente non solo in Agostino, ma anche nell’Ambrosiaster e in Origene, pur con modalità diverse, è, invece, del tutto rifiutata da Pelagio : egli sembra non accogliere volutamente un’opinione ben attestata nelle sue fonti per seguire una diversa linea interpretativa, che lo porterà ad elaborare una dottrina dalle caratteristiche fortemente innovative. Vale la pena osservare anche che, concludendo il commento al versetto 14, Agostino riprende l’interpretazione di Adamo forma futuri a contrario, che abbiamo già riscontrato in Origene : insieme all’esegeta alessandrino, Agostino può allora essere stato uno dei quidam ai quali Pelagio attribuisce questa interpretazione delle parole di Paolo. 3 Il commento ai vv. 15-19 non offre dati di particolare interesse : l’autore si limita a spiegare come debba essere intesa l’espressione Sed non sicut delictum, ita est et donatio, presentando argomentazioni che abbiamo già riscontrato negli altri commentatori. Si può però notare come, pur citando Rm 5, 12, Agostino non dedichi al versetto alcuna riflessione, ma si limiti a dire che quanto affermato dall’Apostolo in quel passo è ribadito al v. 18 : di nuovo una prova del fatto che in questo periodo della sua produzione Rm 5, 12 non aveva ancora assunto l’importanza che acquisirà nella speculazione teologica successiva . Maggiori informazioni riguardo al problema del peccato originale e delle sue conseguenze sono offerte dal commento a Rm 7, 23-25 (Exp. prop. 38, 7) :  

















Legem autem peccati dicit ex transgressione Adae conditionem mortalem, qua mortales facti sumus. Ex hac enim labe carnis concupiscentia carnalis sollicitat et secundum hanc dicit alio loco : ‘Fuimus et nos natura filii irae sicut ceteri’.  

In questo passo le conseguenze del peccato del progenitore sono individuate nella mortalitas e nella concupiscentia carnalis. Che per mortalitas non si debba intendere semplicemente il destino di dissoluzione e morte fisica che attende tutti gli uomini, è intuibile dall’espressione labe carnis : la condizione mortale che deriva all’uomo dalla trasgressione di Adamo comporta anche una labes carnis, quasi una ‘macchia’, un ‘difetto’, una  

1  Vd. supra, p. 93.

2  Exp. prop. 22, 1.

3  Vd. supra, p. 76.

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capitolo 3

‘rovina’ della carne, come se in seguito alla colpa del progenitore tutti gli uomini possedessero una carne ‘decaduta’, fragile, incapace di opporsi alla concupiscenza. In che cosa consista la mortalitas, Agostino l’aveva ben spiegato in un’altra opera esegetica, databile circa al 392, le Enarrationes in Psalmos :  

Sed iam quod accepit ad mortalitatem istam radix nostra, duxit de Adam. Quid duxit ? Istam fragilitatem carnis, hoc tormentum dolorum, hanc domum paupertatis, hoc vinculum mortis, et laqueos tentationum ; portamus omnia ista in carne hac ; et ira Dei est ista, quia vindicta Dei est. 1  







Con mortalitas, dunque, si indica non soltanto la condizione mortale che caratterizza l’umanità intera, ma anche la riduzione del corpo, dopo la colpa del progenitore, al suo stato naturale, con la perdita di tutti i privilegi, compresa l’esenzione dalla concupiscenza ; si tratta di un principio di corruzione allo stesso tempo materiale e spirituale, come risulta chiaro da De gen. ad litt. 11, 32, 42, dove Agostino ricostruisce con precisione che cosa avvenne in seguito alla colpa di Adamo : la morte sopraggiunse ai progenitori lo stesso giorno in cui compirono l’azione che Dio aveva proibita ; essi persero, infatti, la condizione privilegiata che conservavano anche grazie al nutrimento dell’albero della vita, che avrebbe potuto preservarli dalle malattie e dal processo di invecchiamento : una volta perduta questa condizione, il loro corpo assunse la proprietà di essere esposto alle malattie e destinato alla morte, caratteristica questa propria del corpo degli animali ; e come gli animali, anche l’uomo fu sottoposto all’impulso di riprodursi. Come ha osservato Lyonnet, 2 nell’utilizzare la categoria di mortalitas Agostino si ispira alla terminologia dei suoi predecessori, in particolare di Cipriano, di cui frequentemente invoca la testimonianza, 3 il quale aveva individuato gli effetti del peccato di Adamo nel contagium mortis antiquae. 4 Allo stesso tempo il concetto di mortalitas presenta molte affinità con la nozione greca di fqorav : presso i Padri Greci la fqorav, come la mortalitas di Agostino, non indica solamente l’ineluttabilità della morte biologica, ma comporta anche l’esclusione dalla salvezza, che solo la grazia di Dio dona gratuitamente tramite l’unione con Cristo risorto. È significativo che il termine mortalitas non sia attestato nel Commento ai Romani di Pelagio : il nostro autore fa riferimento alla mors introdotta nel mondo dal peccato di Adamo, ma, come abbiamo avuto modo di vedere, si tratta esclusivamente della morte spirituale, acquisita tramite i peccati individuali per imitazione della trasgressione del primo uomo. Per quanto Agostino non parli ancora della trasmissione della vera e propria colpa di Adamo, è chiaro che l’atto di ribellione del progenitore ha avuto a suo avviso delle conseguenze che travalicano il fatto di aver fornito un esempio negativo ai suoi discendenti ; la sua colpa, generando la mortalitas ed insieme ad essa l’incapacità di opporsi alla concupiscentia, ha inficiato la natura stessa dell’uomo, rendendo il suo corpo fragile e schiavo delle passioni : un concetto totalmente estraneo al pensiero di Pelagio. In questo contesto, si delinea una concezione del corpo simile a quella che abbiamo già riscontrato nell’Ambrosiaster : il corpo, sottoposto alla corruzione e alla morte comunica la sua debolezza all’anima, 5 la quale, appesantita da una carne che non è più in grado di dominare, non può giungere, con le sue sole forze, alla completa verità. 6  































1  En. in Ps. 84, 7. 2  Rom. v, 12 chez Saint Augustine...cit., p. 332. 3  Vd. Pecc. merit. iii, 5, 10-11 ; Sermo 294, 20 (19). 4  Epist. 64 ad Fidum, 5. 5  Vd. De musica 6, 4, 7. 6  Vd. De gen. contra Man. ii, 20, 30.  



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Il corpo diviene così un pesante fardello per l’anima, incapace ormai di dominare le passioni : di tutte le cose che si possiedono in questa vita il corpo è per l’uomo il vincolo più pesante a causa dell’antico peccato, che resta, come ammette lo stesso Agostino, un mistero difficile da comprendere. 1 A rendere incapace l’uomo di opporre resistenza al peccato non è, tuttavia, solo la mortalitas ; negli scritti di Agostino precedenti al 411 ricorre spesso un concetto che deve aver suscitato interesse in Pelagio :  







Huc usque sunt verba (sc. Rm 7, 15-23) hominis sub lege constituti, nondum sub gratia ; qui etiamsi nolit peccare, vincitur a peccato. Invaluit enim consuetudo carnalis et naturale vinculum mortalitatis, quo de Adam propagati sumus. Imploret ergo auxilium qui sic positus est, et noverit suum fuisse quod cecidit, non suum esse quod surgit. 2  



In questo passo, oltre al naturale vinculum mortalitatis, viene indicata, fra i fattori che impediscono all’uomo non ancora rigenerato dalla grazia di vincere l’inclinazione al male, la consuetudo carnalis, l’abitudine inveterata al peccato, concetto che diverrà centrale nel pensiero di Pelagio. È da notare anche il fatto che in questo periodo Agostino insiste molto sulla responsabilità personale dell’uomo, che deve solo a se stesso la condizione in cui si trova (et noverit suum fuisse quod cecidit) ; questa convinzione è espressa in maniera più esplicita poco oltre nella stessa opera, nel momento in cui l’autore si trova ad analizzare le parole di Paolo a 1Cor 15, 54-56 : 3 infatti, nella quaestio 70, Agostino identifica la morte di cui parla l’Apostolo con la consuetudo carnalis che resiste alla buona volontà a causa dell’amore per i piaceri temporali, e sostiene che abbiamo meritato questa morte con il peccato, peccato che risiedeva totalmente nel libero arbitrio, dal momento che in paradiso nessun dolore per un piacere negato si opponeva alla buona volontà dell’uomo : è con il peccato, infatti, che è nato il senso del piacere, che ora l’uomo può reprimere soltanto con il dolore. Anche in questo caso, dunque, Agostino sottolinea come la fonte del peccato sia comunque da ricercare nel libero arbitrio, nella libera volontà dell’uomo che ha scelto il male, meritando la punizione divina : un insegnamento che avrà suscitato in Pelagio forte interesse, come avremo modo di vedere in maniera più approfondita fra breve. Ma è soprattutto nell’immagine della carnalis consuetudo, che si oppone alla buona volontà, impedendo all’uomo di compiere il bene, che si riscontrano le maggiori affinità con il pensiero di Pelagio. Per quest’ultimo, come abbiamo visto, 4 quasi tutti gli uomini, fatte solo poche eccezioni, non sono in grado di compiere i mandati della legge a causa dell’abitudine al peccato : la consuetudo peccatorum si è talmente radicata nell’animo umano da assumere un carattere coercitivo, obbligando l’uomo ad agire anche contro la sua volontà :  

   











‘Nam velle adiacet mihi’. Est voluntas sed non est effectus, quia carnali consuetudo voluntati resistit. 5  

Questa affermazione sembra riecheggiare le parole di Agostino sopra citate, ma è stata messa in relazione da Bohlin 6 anche con un passo del De libero arbitrio :  



Nec mirandum est quod vel ignorando non habet arbitrium liberum voluntatis ad eligendum quid recte 1  De moribus ec. i, 22, 40. 2  Div. quaest., q. 66, 5. 3  « La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è o morte, la tua vittoria ? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione ? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge ». 4  Vd. supra, p. 49. 5  Exp. in Rm 7, 18, p. 59 Souter, ma vd. anche Exp. in Rm 7, 7, p. 56 Souter ; 7, 20, p. 59 Souter ; 7, 23-25, p. 60 Souter ; 8, 4, pp. 61-62 Souter ; 11, 24, pp. 90-91 Souter. 6  Op. cit., p. 53.  















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capitolo 3

faciat, vel resistente carnali consuetudine, quae violentia mortalis successionis quodam modo naturaliter inolevit, videat quid recte faciendum sit et velit nec possit implere. 1  

Il confronto stabilito dallo studioso è giusto : i due autori sembrano esprimere una concezione analoga nel momento in cui pongono in primo piano la resistenza opposta dalla consuetudo carnalis alla volontà dell’uomo di compiere il bene. Ritengo sia necessaria, tuttavia, una certa cautela nell’indagare i rapporti fra i due commentatori : nonostante alcuni elementi di indubbia affinità, mi sembra, per quanto attiene la questione del peccato originale, che le due concezioni restino, nelle loro componenti di fondo, molto diverse. A tal proposito non credo, ad esempio, che si possa ritenere valido il secondo parallelo individuato da Bohlin, che rileva forti analogie fra le parole di Agostino quae violentia mortalis successionis quodam modo naturaliter inolevit, e il commento di Pelagio a Rm 11, 24 (p. 90 Souter) :  





Qui[a] iam [ollim] patres eorum, naturalem obliti legem, deg[en]eraverant a natura et per successiones peccandi, consuetudine permanente, quasi naturaliter amari et infructuosi esse coeperant.

Lo studioso è stato, a mio avviso, tratto in inganno dall’uso in entrambi i passi del termine successio, che assume, invece, nei due contesti, un significato diverso. Mentre Pelagio, infatti, con l’espressione per successiones peccandi indica il succedersi nel corso del tempo dei peccati personali, che, divenendo un’abitudine permanente, vanno a costituire una sorta di seconda natura, in Agostino la violentia mortalis successionis si riferisce alla propagazione fisica della specie ; la consuetudo peccandi non è mai scissa dalla mortalitas, dalla fragilità che si trasmette di generazione in generazione, ma costituisce piuttosto una causa concorrenziale nel determinare la misera condizione attuale dell’uomo ; in Ad Simpl. i, 10 Agostino si chiede da dove deriva il peccato, e ne individua la radice nella mortalitas e nella assiduitas voluptatis : la prima si configura come pena del peccato originale (poena originali peccati), l’altra come punizione del peccato ripetuto (poena frequentati peccati) ; con la prima entriamo in questa vita, l’altra invece l’alimentiamo vivendo. Unite insieme, natura e abitudine (natura et consuetudo) rendono invincibile la concupiscenza, che esercita sulla carne una sorta di dominio e tirannia. 2 In Pelagio, invece, non troviamo alcun riferimento ad una debolezza di natura trasmessa per discendenza ; rispetto a quella delle sue fonti, in particolar modo Agostino e Origene, la sua appare una visione più semplice : egli mantiene l’idea della consuetudo, che deriva unicamente dai peccati personali e ricade dunque sotto la responsabilità diretta di ciascun individuo, ma rifiuta l’idea che il peccato commesso da Adamo abbia una qualche conseguenza per i suoi discendenti, se non quella di offrire un cattivo esempio. È opportuno soffermarci brevemente sulla convinzione, presente in entrambi gli autori, che la consuetudine finisca per costituire una sorta di seconda natura. 3 Questa idea si trova già espressa in Cicerone, De finibus v, 25, 74 :  

















1  Lib. arb. iii, 18, 52. 2  Vd. Ad Simpl. i, 10 : ‘Scio enim, inquit, quia non habitat in me, hoc est in carne mea, bonum’ (Rm 7, 18). Ex eo quod scit, consentit legi : ex eo autem quod facit, cedit peccato. Quod si quaerit aliquis unde hoc scit, quod dicit habitare in carne sua non utique bonum, id est peccatum : unde nisi ex traduce mortalitatis et assiduitate voluptatis ? Illud est ex poena originali peccati, hoc est ex poena frequentati peccati. Cum illo in hac vita nascimur, hoc vivendo addimus. Quae duo, scilicet, tanquam natura et consuetudo, coniuncta, robustissimam faciunt et invictissimam cupiditatem, quod vocat peccatum, et dicit habitare in carne sua, id est, dominatum quemdam et quasi regnum obtinere. 3  Vd., ad esempio, Aug., De musica 6, 7, 19 : Non enim frustra consuetudo quasi secunda et quasi affabricata natura dicitur.  









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Quin etiam ipsi voluptarii diverticula quaerunt et virtutes habent in ore totos dies voluptatemque primo dumtaxat expeti dicunt deinde consuetudine quasi alteram quandam naturam effici, qua impulsi multa faciant nullam quaerentes voluptatem.

Nel passo dell’Ad Simplicianum di cui sopra si può forse cogliere una reminiscenza di queste parole di Cicerone, tanto più che Agostino sta trattando proprio della voluptas cui l’uomo non sa opporre resistenza. Un’anticipazione di quello che diverrà in Agostino e Pelagio la valutazione della consuetudo peccatorum come sorta di seconda natura, si può forse cogliere, pur nella diversità della terminologia impiegata, in Tertulliano, De anima 16, 1 :  

Inrationale autem posterius intellegendum est, ut quod acciderit ex serpentis instinctu, ipsum illud transgressionis admissum, atque exinde inoleverit et coadoleverit in anima ad instar iam naturalitatis, quia statim in naturae primordio accidit.

Per Tertulliano, la parte irrazionale dell’anima non è ‘naturale’, ovvero non è un elemento costitutivo dell’anima fin dai primordi, ma ha avuto origine dalla trasgressione del primo uomo ; entrato a far parte dell’anima umana, l’irrazionale si è radicato in essa al punto di divenirne quasi una componente naturale : il concetto, come possiamo vedere, è analogo a quello espresso da Agostino. Ma l’incapacità di resistere alla consuetudo peccatorum e la mortalitas non sono le sole conseguenze della colpa commessa da Adamo : infatti, secondo Agostino, dopo l’atto di ribellione del progenitore, l’uomo, che era stato creato da Dio capace di compiere il bene senza difficoltà, perde, come giusta punizione, questo dono ; inoltre, lui che coscientemente scelse di non compiere il bene, è incapace ora, quasi per una sorta di contrappasso, di riconoscere ciò che è bene : così, dal momento che non volle compiere il bene, quando poteva farlo, ora non ha più la capacità di compierlo, pur volendolo. Alla mortalitas e alla concupiscentia, si aggiungono quindi anche la difficultas e l’ignorantia :  











Illa est enim peccati poena iustissima, ut amittat quisque quod bene uti noluit, cum sine ulla posset difficultate si vellet ; id est autem ut qui sciens recte non facit amittat scire quid rectum sit, et qui recte facere cum posset noluit amittat posse cum velit. Nam sunt re vera omni peccanti animae duo ista poenalia, ignorantia et difficultas. 1  



Questi concetti non sono estranei al pensiero di Pelagio, per quanto ricorrano con minore frequenza rispetto al tema della consuetudo carnalis. Si veda, ad esempio, il commento a Rm 7, 7 :  

‘Nam concupiscentiam nesciebam, nisi lex diceret : Non concupisces’. Non dixit ‘non habebam’ aut ‘non faciebam,’ sed ‘nesciebam,’ hoc est nesciebam concupiscentiam esse peccatum.  

Secondo Pelagio, a causa del progressivo cadere in oblio della lex naturae e del consolidarsi dell’abitudine a peccare, l’uomo diviene incapace persino di riconoscere il peccato in quanto tale. Una simile ignorantia è eliminata dalla legge mosaica, che imputa il peccato, insegnando di nuovo all’uomo quali azioni devono essere evitate :  

Dicit ergo quod occasio mandati, quod excusationem ignorantiae abstulit, gravius eum fecerit quam ante peccare, sicut omnis invidus agit ... 2  

Anche in questo caso, tuttavia, nonostante i concetti espressi siano simili, resta una diversità nell’impostazione dei due autori, che non può essere sottovalutata ; se, infatti,  

1  Lib. arb. iii, 18, 52 ; Vd. anche ibid. iii, 20, 55.  

2  Exp. in Rm 7, 8, p. 56 Souter.

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capitolo 3

Agostino individua con chiarezza la fonte delle miserie umane – ignoranza, debolezza, mortalità, concupiscenza – nella punizione inflitta giustamente da Dio all’umanità intera per la colpa di Adamo, Pelagio considera la condizione abietta in cui l’umanità si trova la conseguenza del comportamento errato dei singoli individui, che, lasciandosi plagiare dal cattivo esempio di Adamo, scelgono di compiere il male : con il passare del tempo, l’uomo finisce per assuefarsi al peccato, al punto di non sapere più opporre resistenza alle lusinghe del mondo. Partendo da premesse ben diverse da quelle di Pelagio, Agostino arriva a sviluppare l’immagine della massa damnata, di cui ci siamo già occupati : l’origine comune da Adamo ci rende una massa indistinta di peccatori, tutti ugualmente responsabili di fronte a Dio, il quale, di conseguenza, sia che decida di perdonare la nostra colpa, sia che ne esiga l’espiazione, agisce comunque secondo giustizia ; 1 la concupiscenza della carne, conseguenza e pena del peccato d’origine, che si propaga con il perpetuarsi della specie, infetta l’umanità intera, rendendola un’unica ‘pasta’ colpevole agli occhi di Dio. 2 Occorre distinguere, secondo Agostino, fra la natura dell’uomo così come si presentava prima del peccato originale, e la natura dell’uomo dopo la trasgressione di Adamo : mentre la natura dell’uomo prima del peccato originale era una natura innocente, dalla pena del progenitore condannato si nasce mortali, ignoranti e schiavi della carne. 3 Una simile distinzione non si riscontra in Pelagio ; la distanza fra le posizioni dei due autori è resa evidente dall’interpretazione che quest’ultimo offre di Ef 2, 3 :  



   











‘Et eramus natura filii irae, sicut et ceteri’ : ita nos paternae traditionis consuetudo possederat, ut omnes ad damnationem nasci videamur.  

Mentre per Agostino gli uomini sono definiti dall’Apostolo filii irae, perché nascono già gravati dalla colpa paterna e meritano dunque la perdizione, Pelagio sostiene che noi tutti sembriamo destinati alla condanna, perché fin dalla nascita siamo preda della consuetudo paternae traditionis, dove per traditio dovremo qui intendere ‘insegnamento’, ‘esempio di comportamento’ : fin da piccoli siamo condizionati dal modello negativo offerto da quanti ci hanno preceduto, e, crescendo in noi l’abitudine al peccato, finiamo per meritare la condanna divina. In definitiva, filii irae non sono per Pelagio gli uomini in quanto nascono già macchiati da una colpa, ma quanti, seguendo il cattivo esempio dei predecessori, si allontanano da Dio e perdono la fede, diffidando della Sua promessa. 4 Dove però le posizioni di Pelagio e Agostino convergono, trovando notevoli affinità, è nell’esigenza di opporsi al manicheismo, come Bohlin 5 ha sostenuto e come già i pelagiani avevano intuito, servendosi spesso del De libero arbitrio per accusare il vescovo di Ippona di aver mutato nel corso della sua vita le proprie idee. Secondo Agostino, infatti, anche se l’uomo nasce in uno stato di ignoranza e debolezza, ha tuttavia la possibilità, se lo vuole, di non permanere in questa condizione, anzi, l’ignoranza e la debolezza devono costituire uno stimolo per l’anima a progredire nella conoscenza, ad avanzare verso la perfetta felicità : se, di propria scelta, pur essendogliene stata concessa la possibilità, l’anima trascurerà di progredire nelle conoscenze più alte e nella pietà, verrà giustamente precipitata in uno stato ancora più miserevole. In definitiva, non viene im 







1  Vd. Ad Simpl. ii, 16. 2  Vd. Ad Simpl. i, 20. 3  Vd. Lib. arb. iii, 19, 54. 4  Vd. Exp. in Ef 2, 3, p. 351 Souter : ‘In filios diffidentiae’. In eos qui non credunt. Illi autem qui desperant atque diffidunt de promissione dei, dicuntur filii diffidentiae, sicut filii irae et gehennae et mortis. 5  Op. cit., pp. 51 sg.  

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putato all’anima a colpa il fatto che per natura non conosce il bene e non è in grado di compierlo, ma piuttosto il fatto di non impegnarsi per superare questa sua condizione. 1 In questo modo, Agostino può, contro il determinismo manicheo, far ricadere sull’uomo la responsabilità dei mali che lo affliggono, insistendo sull’importanza del libero arbitrio, con parole che certo devono aver colpito Pelagio. Nel De libero arbitrio, infatti, l’autore insiste con forza su un dato fondamentale : il peccatum e il supplicium peccati non sono ‘nature’ (naturae quaedam), con una consistenza propria, ma adfectiones naturarum, ‘affezioni’, ‘perturbazioni’ dell’essere, volontario l’uno, penale l’altro. 2 Questa convinzione è condivisa anche da Pelagio, che si esprime in termini analoghi :  







‘Sed quod habitat in me peccatum’. Habitat quasi hospes et quasi aliut in aliud, non quasi unum, ut accidens scilicet, non naturale. 3  

Da questo principio che i due autori condividono, si sviluppa una visione sotto molti aspetti analoga per quanto pertiene il problema della responsabilità umana : il peccato ha origine nel libero arbitrio dell’uomo, è frutto di una scelta volontaria e, come tale, può essere evitato, se solo lo si desidera. Effettivamente, nel De libero arbitrio sono numerosi i passi di sapore pelagiano e non stupisce che proprio questa fosse l’opera a cui gli avversari di Agostino facevano riferimento per dimostrare che in passato egli aveva espresso idee simili a quelle di Pelagio ; si pensi, per fare un esempio, alla seguente affermazione :  





Et illud simul mihi videre iam videor absolutum atque compertum, quod post illam quaestionem, quid sit male facere, deinceps quaerere institueramus, unde male faciamus. Nisi enim fallor, ut ratio tractata monstravit, id facimus ex libero voluntatis arbitrio. 4  

Come ha osservato Smith, 5 inoltre, entrambi gli autori distinguono due diverse cause del peccato : si può peccare, infatti, per pensiero spontaneo oppure esservi indotti dalla persuasione di un altro ; in ogni caso, si tratta sempre di una libera scelta. 6 Nessuno, infatti, può essere costretto a peccare, sostiene Agostino, dalla sua stessa natura o da quella di un altro. 7 Risulta chiaro da simili prese di posizione l’intento di opporsi alla concezione del male come sostanza e alla convinzione che l’anima, in seguito all’unione con il corpo, subisca il peccato senza esserne responsabile, insegnamenti tipici del manicheismo. La polemica contro il manicheismo spinge Agostino ad elaborare idee di cui Pelagio può aver fatto tesoro, ma non dimentichiamo che, ancora una volta, l’impostazione complessiva dei due autori rimane nella sostanza diversa. Infatti, poche righe dopo il passo di De lib. arb. ii, 20, 54, cui si è fatto riferimento, dove con tanta forza si sosteneva che niente può accaderci nella vita che non dipenda dalla nostra volontà, Agostino precisa :  











Sed quoniam non sicut homo sponte cecidit, ita etiam sponte surgere potest ; porrectam nobis desuper  

1  Vd. Lib. arb. iii, 22, 64. 2  Vd. Lib. arb. iii, 9, 26 : Non enim peccatum et supplicium peccati naturae sunt quaedam, sed adfectiones naturarum, illa voluntaria, ista poenalis. 3  Exp. in Rm 7, 17, pp. 58-59 Souter. 4  Lib. arb. i, 16, 34-35. 5  Op. cit., p. 27. 6  Cf. Aug., Lib. arb. iii, 10, 29 (Cum enim duo sint origines peccatorum, una spontanea cogitatione, alia persuasione alterius … utrumque voluntarium est quidem) e Pel., Exp. in Rm 7, 23, p. 60 Souter (‘Video autem aliam legem in membris meis repugnantem’. Desideria consueta vel persuasionem inimici). 7  Vd. Lib. arb. iii, 16, 46.  

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capitolo 3

dexteram Dei, id est Dominum nostrum Iesum Christum, fide firma teneamus, et exspectemus certa spe, et charitate ardenti desideremus. 1  

Dunque, se la caduta è da ascrivere alla nostra responsabilità, la salvezza non può essere conseguita facendo affidamento solo sulle nostre forze, ma è necessario l’aiuto di Dio, che si concretizza nell’opera redentrice del Cristo : una concezione diversa da quella di Pelagio, come Agostino stesso farà notare, citando proprio questo passo come risposta anticipata ai pelagiani in Retractationes i, 9, 4. È chiaro comunque che l’esaltazione della libertà dell’uomo, pienamente responsabile delle sue azioni, che costituisce il tema principale del De libero arbitrio, avrà colpito Pelagio e forse lo avrà incoraggiato a concentrare la sua attenzione proprio su questa problematica : dedicheremo al significato e al valore del libero arbitrio nelle Expositiones una sezione del presente lavoro. Per quanto riguarda la questione del peccato originale, il confronto con Agostino conferma quanto è emerso dall’analisi precedentemente condotta : mentre i predecessori di Pelagio, vale a dire Agostino, l’Ambrosiaster e Origene, mostrano, pur nelle differenze, una visione complessa, in cui si coglie lo sforzo di conciliare l’importanza della responsabilità individuale nel compiere il male con la convinzione dell’esistenza di una tara ereditaria che affligge tutti gli uomini in seguito alla colpa di Adamo, Pelagio decide di ignorare quest’ultimo aspetto e di concentrare la propria attenzione solo sul condizionamento dell’educazione ricevuta e sulla consuetudo peccatorum. Possiamo concludere, dunque, che anche per quanto concerne il problema del peccato originale già nelle Expositiones si colgono elementi di profonda novità rispetto alla tradizione precedente : il dato più eclatante consiste proprio in un rifiuto di una inclinazione al male conseguenza di una carne corrotta dal peccato del primo uomo. Questo aspetto innovativo, pur importante, non deve tuttavia condizionare il nostro giudizio, impedendoci di rilevare e valutare correttamente le analogie che pure il commento di Pelagio presenta con le posizioni espresse ora dall’uno ora dall’altro commentatore ; abbiamo visto, infatti, come il monaco bretone guardi spesso all’opera dei suoi predecessori, pur senza limitarsi ad un atteggiamento di passiva ricezione : egli si dedica piuttosto ad un intenso lavoro di elaborazione delle fonti, da cui ha tratto stimoli importanti per giungere a costruire una nuova teologia.  











1  Lib. arb. ii, 20, 54.

Capitolo 4 IL LIBERO ARBITRIO : VALORE E RUOLO DELLA VOLONTÀ NELLA VITA DELL’UOMO  

È

noto come uno dei temi rappresentativi dell’etica pelagiana sia la difesa della libertà dell’uomo nell’operare la propria scelta fra il bene e il male, guadagnandosi la salvezza o la perdizione. La fiducia incondizionata nelle capacità dell’uomo, la convinzione che ogni individuo sia perfettamente padrone delle proprie azioni e sia quindi in grado, con un libero atto di volontà, di evitare il peccato e compiere con facilità i mandati divini, trovano la loro più chiara espressione nella già ricordata Epistola a Demetriade, 1 opera databile al 412, che, per i temi affrontati e la profondità di pensiero, assume quasi le caratteristiche di una sorta di ‘manifesto’ del pensiero di Pelagio. L’autore infatti, nell’intento di sostenere Demetriade nella sua scelta di prendere il velo di vergine cristiana, pone in rilievo la qualità e la forza della natura umana, poiché solo con la consapevolezza delle innate capacità al bene proprie dell’animo umano, l’uomo può tendere alla virtù. La preoccupazione morale, il desiderio di esortare i propri fedeli alla perfezione e all’ascesi, di far comprendere loro le potenzialità insite nella natura umana, affinché, ritenendo irrealizzabile un ideale di vita santa e virtuosa, non siano presi dallo sconforto, spinge Pelagio a dichiarazioni improntate ad un sincero ottimismo :  



Omnes voluntate propria regi et suo desiderio unumquemque dimitti ; 2 Volens namque Deus rationabilem creaturam voluntarii boni munere et liberi arbitrii potestate donaret ; 3 Posse hominem sine peccato esse, et Dei mandata facile custodire, si velit. 4    

   



In quest’ultima affermazione possiamo cogliere l’essenza della dottrina dell’impeccantia, che tanto scandalo suscitò nei suoi avversari e che Pelagio tenterà con ogni mezzo di difendere e conciliare con il principio della grazia divina negli anni del duro scontro con le gerarchie della Chiesa d’Africa (411-418 d.C.). Si rende tuttavia necessaria, ai fini del nostro lavoro, un’indagine relativa a questa tematica nel periodo precedente lo scoppio della polemica : qual era il pensiero di Pelagio a proposito del libero arbitrio al momento della stesura delle Expositiones ? Aveva già maturato l’idea dell’impeccantia ? Come si poneva rispetto alle posizioni dei suoi predecessori ? L’argomento si presta ad essere analizzato da varie prospettive e risulta inevitabilmente connesso a numerosi altri temi, in primo luogo quello della grazia e della predestinazione ; tenteremo di far luce su questo spinoso problema, assumendo come base di partenza per la nostra riflessione le Expositiones : ancora una volta sarà utile sviluppare un confronto con le fonti impiegate dal nostro autore, metodo già risultato proficuo per comprendere l’apporto dato dalla riflessione di Pelagio alla tradizione teologica precedente.  













1  Vd. supra, p. 32, n. 1. 2  Aug., De gestis iii, 6. 4  Vd. Hier., Dial. adv. Pel. i, 33 ; Aug., De gestis vi, 16.  

3  Ad Dem. 2, pl 30, 17D-18A.

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capitolo 4

Ci concentreremo, in primo luogo, sui passi dell’Epistola ai Romani dove il tema del libero arbitrio viene affrontato in maniera più approfondita, in particolar modo i capitoli 7 e 9, per volgerci successivamente all’analisi di alcuni concetti-chiave, come l’impeccantia, la predestinazione, la grazia divina. 1. Pelagio e il testo di Paolo: difficoltà esegetiche e difesa del libero arbitrio L’epistola ai Romani offriva senza dubbio a quanti ne affrontavano la lettura numerosi spunti di riflessione per quanto concerne il problema del libero arbitrio : risultavano in particolar modo stimolanti, ma di ardua interpretazione, i capitoli 7 e 9, dove Paolo discuteva la necessità della liberazione in Cristo e il mistero dell’elezione divina. I predecessori di Pelagio si erano già confrontati con la complessità di questi passi, che, come nota Origene nel iii libro del Peri; ajrcw`n, 1 se male interpretati, potevano spingere a pensare che la salvezza o la perdizione non dipendano dalla libera volontà dell’uomo, e avevano prospettato varie soluzioni per superare le difficoltà esegetiche poste dal testo paolino. Tenendo presente i contributi dati dai singoli esegeti, tenteremo di valutare le proposte di interpretazione avanzate da Pelagio e di capire in che misura egli segua la tradizione precedente o se ne discosti.  



1. 1. Rm 1, 24 e 11, 8 Il primo passo in cui Pelagio fa esplicita menzione del libero arbitrio è il commento a Rm 1, 24 (p. 15 Souter) che riportiamo di seguito :  

‘Propter quod tradidit illos deus in desideria cordis eorum’. ‘Tradere’ in scripturis dicitur deus, cum non retinet delinquentes propter arbitrii libertatem, sicut in psalmo [dicit] : ‘et dimisi eos secundum desideria cordis eorum’ et reliqua.  

L’autore precisa come l’atto da parte di Dio di « abbandonare » quanti hanno peccato « ai desideri del loro cuore », sia dettato dalla necessità di salvaguardare il libero arbitrio, in modo tale che chi ha scelto il male, sia lasciato libero di seguire la propria inclinazione al peccato. Nell’interpretazione di questo brano Pelagio introduce con chiarezza la tesi del rispetto di Dio per la libertà dell’uomo, un principio che sarà affermato più volte nel corso delle Expositiones, 2 e che trova la sua più esplicita espressione nel commento a Rm 11, 8 (p. 87 Souter) :  











‘Dedit illis deus spiritum compunctionis, oculos ut non videant, et aures ut non audiant’. [Scriptura dicit :] ‘ante hominem vita et mors ; quod placuerit ei, dabitur illi’, ne libertas scilicet tollatur arbitrii. Dei ergo dare permittere est ; spiritum autem compunctionis, quem desiderabant : semper enim verbis dei fuerunt increduli. Nam si voluissent habere spiritum fidei, accepissent …  







Le parole di Paolo, dedit illis deus spiritum compunctionis, potevano essere male interpretate e citate come prova autorevole per negare la responsabilità umana : infatti, se è Dio a dare ad alcuni uomini uno spirito di torpore, 3 se è Dio ad ottenebrare la loro  



1  Vd. Orig., Peri; ajrcw`n iii, 1, 7. 2  Vd. Exp. in 2Cor 4, 4, p. 251 Souter ; Exp. in 2Thess 2, 11, p. 445 Souter ; Exp. in 2Thess 3, 3, p. 448 Souter ; Exp. in Rm 8, 32, p. 69 Souter. 3  L’espressione spiritum compunctionis traduce il greco pneu`ma katanuvxew~ ; l’uso del termine compunctio con  







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mente, allora essi non devono essere ritenuti responsabili dei loro peccati. Il rischio di trarre una simile conclusione dalle parole dell’Apostolo è abilmente evitato da Pelagio tramite una lettura particolare del testo, dove il verbo dare viene ad assumere il valore di permittere : in realtà Dio si limita a concedere quello spirito di torpore che gli uomini desideravano e che si sono meritati come conseguenza di una loro libera scelta ; avrebbero ottenuto, al contrario, lo spiritus fidei, se solo lo avessero voluto. Una spiegazione analoga si incontra nel commento dell’Ambrosiaster a Rm 1, 24 (csel 81/1, p. 47) :  





Tradere autem est permittere, non incitare aut inmittere, ut ea quae in desideriis conceperant adiuti a diabolo explerent operibus …

Il parallelo fra i due passi è abbastanza forte per pensare che Pelagio abbia tenuto presente la spiegazione offerta dall’Ambrosiaster : del resto, quest’ultimo avverte in misura non minore l’esigenza di salvaguardare l’autonomia della volontà umana. Entrambi gli autori ci presentano un Dio che non esercita alcuna costrizione sulla Sua creatura, ma le consente, nel rispetto di quella libertà che le ha donato, di compiere ciò che desidera : in questo senso vanno intese le espressioni tradere, dare impiegate da Paolo per descrivere il rapporto fra volontà divina e azione umana. Questa convinzione emerge con evidenza nel commento dell’Ambrosiaster a Rm 11, 8 : sebbene egli non faccia, come Pelagio, esplicita menzione del liberum arbitrium, tuttavia non manca di ricordare che il peccatore che è stato accecato da Dio ha, in realtà, ottenuto ciò che voleva, dal momento che ha rifiutato in totale consapevolezza (sciens prudensque) la possibilità di salvarsi : 1 accomuna i due autori lo sforzo di trovare una chiave di interpretazione che renda vano ogni tentativo di giustificare, sulla base delle parole di Paolo, una visione deterministica, dove nessuno spazio è lasciato all’iniziativa dell’uomo. Degno di nota è anche il fatto che nel commento a Rm 11, 8 Pelagio ricorra all’autorità della Scrittura per difendere il principio di autodeterminazione : il passo in questione (Eccl. 15, 17) 2 era ‘topico’ ed era citato, insieme a Deut. 30, 15 e 19, 3 ogni volta che veniva affrontato il tema del libero arbitrio o della libertà dell’atto di fede. Non a caso, questi passi scritturistici ricorrono frequentemente nei Testimonia : basti ricordare, ad esempio, il florilegio di Cipriano, che li riporta nel capitolo Credendi vel non credendi libertatem in arbitrio esse positam, 4 ma numerosi sono gli autori cristiani, sia greci che latini, 5 che si appellano a questi versetti contro la tentazione di privare l’uomo di ogni capacità di iniziativa. Un riferimento a Eccl. 15, 17 e una citazione precisa di Deut. 30, 15 si incontrano anche nel commento a Rm 1, 24-25 di Origene, che vale la pena riportare :  





   















Non enim vi res agitur, neque necessitate in alteram partem anima declinatur ; alioquin nec culpa ei, nec virtus posset ascribi ; nec boni electio praemium, nec declinatio mali supplicium mereretur : sed servatur ei  





il significato di ‘torpore’, ‘sopore’, ‘insensibilità’ è attestato già nell’Itala : vd. Is 29, 10 : quoniam potionavit vos dominus spiritum compunctionis (pepovtiken uJma`~ .... pneuvmati katanuvxew~). 1  Vd. Ambst., Comm. in Rom 11, 8, csel 81/1, p. 367. 2  Vd. anche Pel., Exp. in 1Cor 3, 22-23, pp. 145-146 Souter. 3  Considerat quod hodie proposuerim in conspectu tuo vitam et bonum et e contrario mortem et malum ; Testes invoco hodie caelum et terram quod proposuerim vobis vitam et mortem, bonum et malum, benedictionem et maledictionem, elige ergo vitam ut et tu vivas et semen tuum. 4  Cypr., Testim. iii, 52. 5  Vd., ad esempio, Iust., 1Apol. 44, 1-2 ; Clem Alex., Protr. x, 95, 1-2 ; Strom. v, 11, 72, 5 ; Tert., Exhort. cast. 2, 3 ; Ambr., De Abr. ii, 6, 35. Per un approfondimento di questa tematica vd. A. Orbe, El dilema entre la vida y la muerte, « Gregorianum », 51, 1970, pp. 305-365.  

















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in omnibus libertas sui arbitrii, ut in quod voluerit, ipsa declinet (vd. Eccl. 15, 17), sicut scriptum est (Deut. 30, 15) : ‘Ecce posui ante faciem tuam vitam et mortem, ignem et aquam’. 1  



È verisimile che Pelagio sia rimasto molto colpito dalle parole di Origene : nel commento del grande esegeta Alessandrino egli poteva trovare una chiara affermazione della neutralità dell’anima umana, capace di inclinare al bene come al male, condizione indispensabile, questa, perché l’agire umano possa essere sottoposto a giudizio. Come Pelagio, anche Origene si interrogava sul valore che poteva avere il verbo tradere, il cui significato condizionava l’interpretazione dell’intero passo paolino ; sfuggiva, infatti, alla sua comprensione come si potesse imputare a quanti erano stati abbandonati da Dio ai desideri dei loro cuori il loro stato : non era forse come incolpare di bruciare chi viene consegnato alle fiamme ? 2 La difficoltà è superata da Origene grazie ad una incrollabile certezza : habet igitur in arbitrio suo anima, si velit, eligere vitam Christum, aut in mortem diabolum declinare. 3 Questo assioma elimina il rischio di interpretare le parole di Paolo come espressione di una visione deterministica : Dio abbandona i peccatori solo in seguito ad una scelta libera e consapevole da essi compiuta, rispettando la loro volontà. L’anima, che si trova in una posizione mediana fra la carne e lo spirito, può inclinare verso l’una o verso l’altro : nel primo caso, tutte le potenze buone che la spingevano ad aderire allo spirito, la abbandonano e la consegnano in balia dei desideri malvagi. Origene si colloca dunque sulla stessa linea interpretativa che sarà accolta successivamente dall’Ambrosiaster e da Pelagio. È probabile, tuttavia, che quest’ultimo abbia trovato le posizioni dell’Alessandrino più affini al proprio modo di sentire e più incisive rispetto a quelle dell’Ambrosiaster ; non dimentichiamo, infatti, che la difesa del libero arbitrio assume un ruolo di primo piano nel commento di Origene all’epistola ai Romani : era stata proprio la necessità di opporsi a quegli eretici che facevano appello all’autorità di San Paolo per eliminare la libertà umana, a spingere l’esegeta Alessandrino a commentare sistematicamente la lettera ai Romani. 4 Non desta stupore, di conseguenza, che l’esaltazione della libera autodeterminazione dell’uomo, presente anche nelle altre fonti di Pelagio, acquisisca un’importanza tutta particolare in Origene, che diviene così, relativamente a questo tema, il principale punto di riferimento del nostro autore. Come ho accennato, tuttavia, la preoccupazione di non imputare a Dio il male, deresponsabilizzando l’uomo, è presente, in maniera più o meno insistita, in tutte le fonti di Pelagio : questi poteva trovare una conferma alla sua interpretazione di Rm 1, 24 non solo nell’Ambrosiaster e in Origene, ma anche nell’Anonimo di Budapest, anch’egli pronto a precisare come Dio non sia causa del peccato, ma sopporti nella sua magnanimità e pazienza che quanti peccano siano liberi di compiere la loro volontà, senza esercitare alcuna costrizione, ma attendendo il loro spontaneo pentimento. 5 Tuttavia, Pelagio, subendo probabilmente l’influsso del pensiero di Origene, sembra insistere su questa tematica con enfasi maggiore rispetto agli altri esegeti.  



























1  Orig., Expl. in Rom i, 21, p. 89 Bammel. 2  Vd. Orig., ibid., p. 87. 3  Ibid., p. 89 Bammel. 4  Vd. Expl. in Rom, Praef., p. 33 Bammel ; vd. F. Cocchini, La « quaestio » sul libero arbitrio e l’interpretazione origeniana di Rm 9 nel Commentario alla Lettera ai Romani, in Il cuore indurito del Faraone. Origene e il problema del libero arbitrio, a cura di L. Perrone, Genova, Marietti, 1992, pp. 105-108. 5  Vd. 020 Frede : In hoc in quo deus ‘tradidisse’ dicitur propriis ‘desideriis’ peccatorem, ostenditur non quod ipse sit causa, sed quod per ‘longanimitatem et patientiam’ non inducendo vindictam patitur eos secundum ‘cordis sui’ agere voluntatem. Hoc autem facit volens eos ‘ad paenitentiam’ converti.  







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Nel commentare Rm 6, 13, un passo che viene ignorato da Agostino nell’Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos ed è preso in considerazione dall’Ambrosiaster solo per una nota breve e poco significativa, Pelagio coglie l’occasione per tornare sull’argomento :  

‘Sed neque exhibeatis membra vestra arma iniquitatis peccato’. Unum quodque membrum, si officium suum in malos usos verterit, arma iniquitatis efficitur ad iustitiam expugnandam. Simul notandum quo homo membra [sua] cui velit parti exhibeat per arbitrii libertatem.

L’ammonimento dell’Apostolo a non offrire le membra al peccato come strumenti di ingiustizia, offre a Pelagio la possibilità di ricordare che l’uomo è dotato della capacità di offrire le sue membra a chi desidera in virtù del libero arbitrio (per arbitrii libertatem). Anche in questo caso il nostro autore sembra ispirarsi all’insegnamento di Origene, di cui richiama da vicino, quasi riassumendola, l’argomentazione :  

In quo, ut dixi, (Apostolus) absque ulla cunctatione in nobis esse ostendit arbitrii libertatem. In nobis namque est exhibere obedientiam nostram vel iustitiae vel peccato … et ideo semper horum meminisse debemus, ne inanes querelas in peccati excusatione proferamus, quod diabolus fecerit ut peccaremus, aut naturae necessitas, aut fatalis conditio, aut cursus astrorum. 1  

Il commento di Pelagio è più conciso, mentre Origene concede uno spazio maggiore alla polemica anti-fatalista ; tuttavia, al di là delle differenze di impostazione e stile, il messaggio che i due esegeti vogliono comunicare è lo stesso : il peccato è inescusabile, in quanto frutto di una libera scelta dell’uomo, che può decidere senza condizionamenti esterni se volgere le proprie membra al male o al bene, se rendersi servo del peccato o della giustizia. 2  





1. 2. Rm 7, 14-21 Come abbiamo già accennato, per quanto riguarda il tema che stiamo ora affrontando, sono soprattutto i capitoli 7 e 9 dell’Epistola ai Romani ad essere stati oggetto di studio e riflessione da parte degli esegeti, visti i non pochi interrogativi che suscitavano sulla loro corretta interpretazione. Prenderemo in primo luogo in considerazione il commento di Pelagio a Rm 7, 14-15 (p. 58 Souter) un passo che converrà riportare per intero, sia perché offre dal punto di vista del contenuto alcuni elementi non banali, sia perché presenta un problema di trasmissione del testo che vale la pena rilevare :  

‘Scimus autem quia lex spiritalis est’. Quae spiritalia mandat. [nunc ex persona eius qui aetatem legitimam habet sermo profertur. Qui enim dicit quia lex spiritalis est, se ipsum condemnat propria voluntate peccantem. Unde adiecit : ‘ego autem carnalis sum venundatus sub peccato’. Ostendit quia cum esset liber, ipse se venundavit peccato. Quid enim iterum dicit ?] ‘Venundatus sub peccato. Quod enim operor non intellego : non enim quod volo, [hoc] ago, sed quod odi, illud facio’. [Venundatus quasi] propositus peccato, ut, si consilium eius accepero, ipsius servus efficiar, sponte memet ipse subiciens ; et iam quasi inebriatus consuetudine peccatorum, ignoro quid facio : ‘quod enim operor, non intellego’.  









Il testo fra parentesi quadre è omesso da A, V e ℜ, e secondo De Bruyn 3 si tratterebbe di un’aggiunta dell’interpolatore pelagiano, le cui correzioni al testo originale di Pelagio sono attestate principalmente dalla tradizione detta dello « Pseudo-Gerolamo » (H). In  





1  Expl. in Rom vi, 3, pp. 463-465 Bammel. 3  Op. cit., p. 103, n. 15.



2  Vd. anche Orig., ibid., p. 463 Bammel.

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effetti il passo ha un forte sapore ‘pelagiano’, volto com’è a sottolineare la responsabilità dell’uomo nel dare il suo assenso al peccato, e, nonostante sia attestato da un testimone autorevole come B, risulta molto sospetto : soprattutto è la concordanza fra A e i Fragmenta Vaticana, considerati da Souter 1 il testimone più attendibile per ricostruire il testo dell’opera di Pelagio, a risultare determinante. Il passo in questione, inoltre, non aggiunge molto al significato complessivo del testo, ma sembra piuttosto ripetere con enfasi maggiore quanto viene detto successivamente. Infatti, nel commentare l’espressione venundatus sub peccato, Pelagio concentra la sua attenzione sull’assenso iniziale che l’uomo dà liberamente al peccato (sponte memet ipse subiciens), divenendo così, da libero qual era, schiavo delle passioni. È da notare anche il riferimento alla consuetudo peccatorum, di cui abbiamo già avuto modo di parlare : una volta dato il proprio consenso al peccato, l’abitudine a compiere il male prende il sopravvento, divenendo talmente inveterata, da impedire all’uomo persino di rendersi conto delle proprie azioni. Che Pelagio avverta in misura maggiore dei suoi predecessori l’esigenza di difendere la libertà dell’uomo e la sua capacità di autodeterminazione, risulta evidente se confrontiamo il suo commento a Rm 7, 14-15 con l’interpretazione che dello stesso passo paolino offrono Agostino e l’Ambrosiaster. Quest’ultimo, ad esempio, fa risalire la schiavitù dell’uomo al peccato non tanto alla scelta individuale fra il bene il male, quanto all’origine collettiva da Adamo, che per primo ha peccato, soggiogando alla propria colpa tutta la sua discendenza : 2 appare evidente quanto una simile interpretazione sia distante dalla sensibilità di Pelagio. Il commento di Agostino mostra a sua volta un dato di particolare interesse :  





   



Quod autem ait : ‘Scimus quia lex spiritualis est, ego autem carnalis sum’, satis ostendit non posse impleri legem nisi a spiritualibus, quales facit gratia dei. 3  



È indicativo che l’autore avverta l’esigenza di precisare come solo la grazia divina sia in grado di rendere l’uomo capace di compiere i precetti della legge : in Agostino l’importanza della grazia non viene mai sottovalutata, nemmeno nelle prime opere. Se, infatti, egli afferma la responsabilità dell’uomo e ne difende la libertà di scelta ed azione, tuttavia ritiene anche che questa sia stata in una certa misura compromessa dalla colpa di Adamo : se Adamo possedeva il libero arbitrio perfecte, a noi, prima dell’intervento della grazia, resta solo la libertà di « non voler peccare », non di « non peccare ». L’intervento della grazia divina, invece, ci consente non solo di volere il bene, ma anche di realizzarlo, non contando sulle nostre forze, ma sull’aiuto del Liberatore. 4 È vero, come ha notato Burns, 5 che nelle opere composte durante il decennio successivo alla sua conversione, Agostino difende l’inviolabilità della volontà umana e la capacità dell’uomo di scegliere il bene : la grazia di cui parla rafforza una volontà che ha già scelto il bene e la rende capace di vincere la concupiscenza e l’abitudine al peccato ; si tratta di una grazia che, per così dire, lavora sulle fondamenta già gettate dalla libera scelta dell’uomo, che persuade e facilita più che esercitare una coercizione. Tuttavia, nonostante nelle prime opere di Agostino venga senza dubbio riconosciuta l’autonomia della volontà umana, l’insistenza sulla necessità della grazia, che sola consente all’uomo di operare il bene, mi sembra riveli già un’impostazione di fondo diversa da quella di  



















1  Vd. Pelagius’s Expositions, cit., p. 228. 2   Vd. Ambst., Comm. in Rom 7, 14, csel 81/1, p. 233. 3  Aug., Exp. prop. 34, 1. 4  Vd. Aug., Exp. prop. 12, 12. 5  Vd. J. P. Burns, The interpretation of Romans in the pelagian controversy, « AugStud », 10, 1979, pp. 43-54.  



il libero arbitrio

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Pelagio : avremo modo di tornare sulla questione quando ci occuperemo del significato e del ruolo della grazia divina nelle Expositiones. In Exp. prop. 35, 1 Agostino interpreta l’espressione venumdatus sub peccato assumendo un punto di vista analogo a quello di Pelagio :  



Quod autem ait : ‘Venumdatus sum sub peccato’, intelligendum est, quod unusquisque peccando animam suam diabolo vendit accepta tamquam pretio dulcedine temporalis voluptatis.  

Anche Agostino ritiene la schiavitù al peccato una conseguenza dei peccati personali, come indica chiaramente l’uso del termine unusquisque : è implicito nel testo che l’assenso al peccato ricada sotto la responsabilità del singolo, dal momento che è l’individuo a scegliere, peccando, di vendere la propria anima al diavolo. Nella nota di Pelagio a questo versetto notiamo tuttavia una maggiore insistenza sulla volontarietà della scelta, evidenziata dall’avverbio sponte : il nostro autore sembra ancora una volta accentuare aspetti già presenti nelle sue fonti, un dato questo che risulta confermato dall’analisi del commento ai versetti successivi. I versetti 16-21 del capitolo 7 dell’Epistola ai Romani ponevano non pochi interrogativi agli interpreti : infatti, affermazioni come perficere autem bonum non invenio ; 1 non enim quod volo facio bonum, sed quod nolo malum hoc ago, 2 sembravano suggerire che l’uomo commette peccato contro la propria volontà, agendo sotto l’effetto di una costrizione esterna. Tutti gli esegeti si oppongono ad una simile interpretazione del testo paolino e negano con forza che l’Apostolo intenda con tali affermazioni eliminare il libero arbitrio. Esplicito in tal senso risulta l’Ambrosiaster :  





   





Numquid quia invitum hominem dicit peccare, inmunis videri debet a crimine, quia hoc agit, quod non vult pressus vi potestatis ? Non utique. Ipsius enim vitio et desidia haec coepta sunt ; quia enim mancipavit se per adsensum peccato, iure illius dominatur. 3  





Il commentatore coglie il rischio che una lettura errata delle parole di Paolo sottende, ovvero l’eliminazione di ogni responsabilità umana : al contrario, la misera condizione in cui l’uomo si trova è proprio da imputare al libero consenso che egli ha dato al peccato. Una preoccupazione analoga muove anche Agostino, che esorta a non imputare all’Apostolo la volontà di togliere ogni spazio all’iniziativa umana :  



Quod autem ait : ‘Non enim quod nolo, hoc ago, sed quod odi, illud facio. Si autem quod nolo, hoc facio, consentio legi, quoniam bona est’. Satis quidem lex ab omni criminatione defenditur, sed cavendum, ne quis arbitretur his verbis auferri nobis liberum voluntatis arbitrium, quod non ita est. 4  



Come giustificano allora gli esegeti le affermazioni di Paolo ? Origene risolve la delicata questione sostenendo che l’Apostolo non parla a titolo personale, come chi è già stato toccato dalla grazia, ma assume il punto di vista di un uomo ancora posto sotto la legge ; 5 egli si pone nelle condizioni di una persona che ha appena intrapreso il proprio cammino di conversione e ricade spesso nelle vecchie abitudini. 6 L’acquisizione della capacità di compiere il bene, infatti, è un percorso lungo e difficoltoso, che richiede impegno ed esercizio : non è facile, per chi si è convertito da poco, operare un radicale cambiamento di vita e vincere l’abitudine ormai inveterata al peccato : la volontà, infatti, è una realtà rapida e si converte senza impaccio, l’azio 

   









1  Rm 7, 18. 2  Rm 7, 19. 3  Comm. in Rom 7, 20, csel 81/1, p. 241. 4  Exp. prop. 37, 1. 5  Vd. Orig., Expl. in Rom vi, 9, p. 509 Bammel. 6  Vd. Orig., ibid. vi, 9, p. 511 Bammel.

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ne invece è lenta, perché richiede anche la pratica, la capacità e la fatica di operare. 1 Sembra che per Origene riuscire a compiere il bene sia soprattutto una questione di esercizio : tramite l’impegno costante e la forza di volontà è possibile riuscire a vincere la consuetudo peccatorum. È evidente come una simile posizione potesse incontrare il favore di Pelagio : abbiamo già visto il ruolo centrale che egli attribuisce alla consuetudo peccatorum per spiegare la misera condizione in cui l’uomo si trova ; non minore importanza assume nel suo pensiero l’idea che è possibile vincere l’assuefazione al peccato e al vizio grazie al solo sforzo di volontà, idea che troverà piena espressione nelle opere del periodo della controversia, e in particolar modo nell’Epistula ad Demetriadem : dall’insegnamento del grande Alessandrino Pelagio trarrà le estreme conseguenze, fino a delineare, nello sviluppo successivo del suo pensiero, la dottrina dell’impeccantia, di cui avremo modo di occuparci in seguito. Nell’interpretazione del capitolo 7, Pelagio segue la proposta esegetica di Origene :  











‘Sed [ego] peccatum non cognovi nisi per legem’. Hinc in persona eius hominis loquitur qui legem accipit, id est, qui primum Dei mandata cognoscit, cum consuetudinem habeat delinquendi. 2  

Egli, dunque, ritiene che l’Apostolo, che è già stato liberato dalla dominazione della carne e vive ormai nello spirito, esprima queste considerazioni come se a parlare fosse un uomo convertito da poco e ancora posto sotto la Legge : così facendo, Pelagio si inserisce in una precisa tradizione, riproponendo l’interpretazione offerta dai suoi predecessori. Del resto, anche Agostino, prima del divampare della polemica contro i Pelagiani, riteneva che i versetti in questione dovessero essere interpretati in tal senso :  



Nunc enim homo describitur sub lege positus ante gratiam, tunc enim peccatis vincitur, dum viribus suis iuste vivere conatur sine adiutorio liberantis gratiae dei. Libero autem arbitrio habet, ut credat liberatori et accipiat gratiam, ut iam illo, qui eam donat, liberante et adiuvante non peccet atque ita desinat esse sub lege, sed cum lege vel in lege implens eam caritate dei, quod timore non poterat. 3  

Non è possibile compiere il bene senza l’aiuto della grazia divina : l’Apostolo, che invece è già stato toccato dalla grazia, parla evidentemente a nome di chi ancora vive sotto la Legge e può al massimo desiderare di non peccare, senza trovare ancora le forze per mettere in atto il suo proposito. Solo successivamente Agostino cambierà opinione, proponendo una lettura innovativa del testo paolino, e sosterrà che in questi passi dell’Epistola ai Romani Paolo parla in realtà a proprio nome, per evidenziare il conflitto fra la grazia di Dio che agisce nello spirito persuadendo al bene, e la concupiscenza che tormenta la carne inclinando l’uomo al male. 4 In questa nuova prospettiva soltanto la grazia finale di Cristo, la resurrezione nella gloria, libererà l’uomo dal conflitto fra carne e spirito. Come ha osservato Burns, 5 Agostino fu probabilmente spinto ad elaborare questa lettura innovativa del testo paolino dalla volontà di salvaguardare il ruolo di Cristo come unico mediatore fra l’uomo e Dio e unica fonte di salvezza per l’umanità : egli insiste nel limitare il mezzo di salvezza alla fede nella morte e resurrezione di Cristo, e alla partecipazione a queste tramite il battesimo e l’eucarestia. Pelagio, invece, nel porre l’accento sulla giustizia divina e sulla libertà dell’uomo di compiere il bene, si richiama  







1  Vd. ibid., p. 513 Bammel ; vd. anche ibid., pp. 515-516 Bammel. 2  Exp. in Rm 7, 7, p. 56 Souter ; vd. anche ibid. 7, 14, p. 58 Souter ; ibid. 7, 25, p. 60 Souter. 3  Aug., Exp. prop. 37, 2-3 ; vd. anche Ad Simpl. i, 11. 4  Agostino sostiene questa nuova interpretazione in Pecc. merit. ii, 4, 4 ; ii, 12, 17 ; De nat. et grat. 50, 58 ; De perf. iust. hom. 6, 12 ; 8, 17-18 ; 11, 28 ; C. duas epp. Pel. i, 8, 13-14. 5  Art. cit., pp. 45-50.  



















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ad una tradizione più antica, ben rappresentata da Origene, che, pur riconoscendo la necessità della grazia di Cristo per vincere la forza dell’abitudine al peccato, assegnava pari importanza all’impegno dell’uomo : questo impegno è reso possibile dalla Legge, che ha consentito di recuperare quella capacità di evitare il peccato andata perduta con il cadere in oblio della legge naturale.  

1. 3. Rm 9, 16-24 Il capitolo 7 dell’Epistola ai Romani non era il solo a porre difficoltà agli interpreti : non minori perplessità suscitava, infatti, il capitolo 9, dove l’Apostolo indagava il complesso rapporto fra libero arbitrio ed elezione divina. Tralasceremo per il momento Rm 9, 11-13, i versetti relativi a Giacobbe ed Esaù : riserveremo ad essi una trattazione a parte, quando affronteremo il problema della chiamata e della prescienza divina, un tema che merita di essere approfondito per il significato assunto nella teologia di Pelagio. Occorre concentrare ora la nostra attenzione sul commento a Rm 9, 16 : l’affermazione dell’Apostolo (Igitur non est volentis neque currentis sed miserantis Dei) risultava sconcertante, delineandosi come chiara espressione dell’onnipotenza di Dio, che usa misericordia con chi vuole, senza tener conto dei meriti personali, della volontà e degli sforzi dell’uomo. Il commento di Pelagio a questo versetto presenta non pochi problemi di trasmissione testuale, che dovremo prendere in considerazione ; a questo fine, sarà opportuno riportare il testo integrale :  









‘Igitur non est volentis neque currentis sed miserantis Dei ?’ [E contrario Iudaei sermo est : “Igitur non volentis neque currentis”, et iterum, “ergo cuius vult miseretur et quem vult indurat”. Non enim Apostolus [tollit] quod in propria volutate habemus, qui superius dicit : “Ignorans quia bonitas Dei ad penitentiam te adducit ?” et iterum Timotheo scribit : “In magna autem domo non solum sunt vasa aurea et argentea, sed et lignea et fictilia, et quaedam in honorem, quaedam in contumeliam. Si quis autem mundaverit se ab his, erit vas in honorem santificatum”]. Si non est volentis neque currentis, ut quidam putant, quare et ipse cucurrit dicens : “Cursum consummavi”, et alios ut currerent adhortatus est dicens : “Sic currite ut omnes conprehendatis ?”. Unde intellegitur quia hic interrogantis voce utitur et redarguentis potius quam negantis. [Sive : Ita non volentis neque currentis tantum, sed et domini adiuvantis]. 1  



















Il commento, sulla base dei testimoni, può essere diviso in tre parti. La prima parte va da e contrario a santificatum : tutto questo passo, posto fra parentesi quadre, è omesso da A e da V. 2 Le parole non est volentis neque currentis sono attribuite ad un oppositore giudeo di Paolo, portavoce di una visione in cui Dio sceglie secondo il proprio arbitrio di chi avere pietà e chi condannare, senza che alcuno spazio venga concesso all’iniziativa umana. Questa interpretazione è sostenuta tramite il ricorso a due passi della Scrittura, Rm 2, 4 e 2Tim 2, 20-21, che attestano come Paolo sia sostenitore di una concezione ben diversa, dove Dio desidera la salvezza di tutti gli uomini e a ciascuno è sempre garantita la possibilità di purificarsi, divenendo un ‘vaso santificato’, destinato ad un nobile uso e pronto ad ogni opera buona. La seconda parte, da si non est volentis a negantis, è attestata in tutti i manoscritti. Pelagio supera l’ostacolo posto da questo versetto, dando all’enunciato valore interrogativo, in modo che la sentenza divenga espressione del punto di vista dell’oppositore e non dell’Apostolo. Anche in questo caso, l’interpretazione è sostenuta tramite il ricorso  



1  Pel., Exp. in Rm 9, 16, p. 76 Souter. 2  L’omissione in V non è segnalata da Souter in apparato, ma è notata da De Bruyn, op. cit., p. 118, n. 15.

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ad altre affermazioni di Paolo stesso, che risulterebbero altrimenti in contrasto con Rm 9, 16 : si tratta di 2Tim 4, 7 e 1Cor 9, 24, dove l’esortazione a « correre », ad impegnarsi per ottenere la salvezza, sembra attribuire grande importanza all’iniziativa dei singoli. La terza parte, infine, da sive ad adiuvantis, è attestata soltanto in A, e propone una spiegazione alternativa rispetto a quella data in precedenza : in questo caso, infatti, l’affermazione non est volentis neque currentis è attribuita all’Apostolo, e non ad un contraddittore. Come abbiamo già osservato, 1 il codex Augiensis presenta spesso aggiunte rispetto agli altri codici, che sembrano attenuare il contenuto ‘pelagiano’ del passo interessato : De Bruyn ritiene che un revisore pelagiano abbia eliminato dal Commento quelle affermazioni che apparivano non in linea con le posizioni pelagiane, divenute più rigide dopo la condanna di Pelagio e Celestio : lo studioso ritiene di conseguenza autentiche le aggiunte attestate da A rispetto agli altri codici. 2 Credo che la posizione di De Bruyn sia condivisibile e che la forma originale del commento di Pelagio a Rm 9, 16, sia quella attestata da A. Per quanto riguarda la prima parte, una sua eliminazione non comporta particolari conseguenze per la ricostruzione del pensiero di Pelagio ; questa sezione del commento, infatti, sembra semplicemente riprendere e affermare con forza maggiore e una argomentazione più estesa l’ipotesi interpretativa contenuta nella seconda parte, attestata da tutta la tradizione manoscritta. Mi sembra abbastanza plausibile pensare che il revisore pelagiano abbia voluto rendere più incisivo il commento di Pelagio, sottolineando in maniera più decisa l’attribuzione delle parole non est volentis neque currentis ad un oppositore dell’Apostolo, e portando altri passi Scritturistici a sostegno di questa lettura del testo. La terza parte risulta senza dubbio più significativa, e proprio per questo impone una maggiore prudenza : accettarla o meno condiziona sensibilmente il nostro lavoro di ricostruzione del pensiero di Pelagio. Tuttavia, pur con le dovute cautele, sarei propensa ad accogliere questa breve osservazione come originale. In primo luogo, se la manteniamo, si ripropone lo schema delle due spiegazioni alternative, la seconda introdotta dalla congiunzione sive, che, come abbiamo visto, è tipico del commento di Pelagio. Per quanto riguarda il contenuto, invece, va osservato come la nota di Pelagio attenui comunque la forza dell’affermazione di Paolo : secondo l’interpretazione offerta, infatti, l’Apostolo non fa dipendere la salvezza o la perdizione dalla sola volontà divina, come una prima lettura del passo sembrerebbe suggerire, ma pone piuttosto in evidenza una sinergia fra l’impegno dell’uomo nell’operare il bene e la grazia del Signore che lo sostiene in questo intento. Se tale visione può sembrare non in linea con le posizioni estremistiche che caratterizzeranno lo sviluppo futuro della dottrina pelagiana, non risulta tuttavia estranea al pensiero di Pelagio in questa prima fase della sua produzione ; si prenda in considerazione, a titolo d’esempio, il commento a Col 1, 10 (pp. 452-453 Souter) :  

























Digne Deo ille ambulat qui ei per omnia placet : hoc est, ut in opere bono cum scientia Dei fructificet. Simul exposuit qu[a]re frequenter obscure dicebat : hoc est quo modo Deus det velle et adiuvet vel confirmet, docendo scilicet sapientiam [et] intellectus gratiam tribuendo, non libertatem arbitrii auferendo, sicut in praesenti orat ut impleantur agnitione voluntatis eius in omni sapientia et intellectu spiritali, quo possint digne Deo per omnia ambulare.  



In questo passo è ammesso esplicitamente l’aiuto di Dio, che rafforza e conferma la volontà dell’uomo, concedendogli la conoscenza e un retto sentire, in modo che possa 1  Vd. supra, p. 12 ; 78-79.  

2  Vd. De Bruyn, op. cit., pp. 32 sg.

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comportarsi in maniera degna di Lui, senza però ledere in alcun modo il suo libero arbitrio. Avremo modo di occuparci in seguito del ruolo e del significato che la grazia divina assume nelle Expositiones : in questa sede è importante osservare come non sia estranea a Pelagio l’idea di una convergenza fra azione umana e aiuto divino. Per comprendere il commento di Pelagio a Rm 9, 16 è opportuno indagare quali spiegazioni del passo in questione egli poteva trovare nelle proprie fonti, e se le due diverse proposte esegetiche da lui avanzate trovino riscontro nella tradizione precedente. Il primo dato da tenere in considerazione è che, nell’attribuire l’espressione non est volentis neque currentis ad un oppositore dell’Apostolo, Pelagio non innova, ma si richiama ad una interpretazione che doveva circolare da tempo e che ritroviamo anche presso l’Anonimo di Budapest :  



Ex hoc loco apostolus Paulus usque ad illum locum : ‘Quid ergo adhuc queritur ? Voluntati enim eius qui resistit ?’ personam e contrario venientis adsumit dicentis non esse in nobis aut recte aut male agere, sed in dei arbitrio constitutum, qui ‘cui vult miseretur et quem vult indurat’. 1  







L’anonimo dunque attribuisce ad un contraddittore i vv. 16-19, rifiutando l’idea che Paolo potesse farsi portavoce di una visione deterministica, dove nessun margine di azione, né in positivo né in negativo, è lasciato all’uomo. La spiegazione alternativa è invece rappresentata dall’Ambrosiaster, il quale interpreta il versetto come espressione del pensiero di Paolo, ma fa salva la giustizia divina tramite la teoria della prescienza : la salvezza non dipende dalla volontà di chi chiede, ma dall’arbitrio di chi dona ; tuttavia, l’azione di Dio non è mai disgiunta dalla giustizia : egli indaga il cuore di chi chiede e le intenzioni con cui la preghiera viene formulata, in modo che chi riceve un dono da Dio, meriti veramente di ottenerlo. 2 In questo modo l’Ambrosiaster può fare di Dio l’unico arbitro del processo salvifico, senza per questo eliminare del tutto la responsabilità dell’uomo : Dio, infatti, indaga i reali sentimenti di chi si rivolge a Lui, e premia soltanto quanti meritano la sua misericordia. Una prospettiva analoga è assunta anche da Agostino in Exp. prop. 54, 1-4, dove troviamo espresso in una trattazione più ampia lo stesso concetto attestato nella terza sezione del commento di Pelagio a Rm 9, 16 :  











Quod autem ait : ‘Igitur non volentis neque currentis, sed miserentis est dei’, non tollit liberum arbitrium, sed non sufficere dicit velle nostrum, nisi adiuvet deus misericordes nos efficiendo ad bene operandum per donum spiritus sancti ad hoc referens, quod superius dixit. ‘Miserebor, cui misertus ero, et misericordiam praestabo, cui misericors fuero’, quia neque velle possumus, nisi vocemur, et cum post vocationem, voluerimus, non sufficit voluntas nostra et cursus noster, nisi deus et vires currentibus praebeat et perducat, quo vocat. Manifestum est ergo non volentis neque currentis, sed miserentis dei esse, quod bene operamur, quamquam ibi sit etiam voluntas nostra, quae sola nihil posset.  

Pelagio sembra riprendere e quasi condensare in una sentenza questa dettagliata argomentazione ; anche Agostino, infatti, postula una convergenza fra azione umana e aiuto divino : l’uomo deve garantire da parte sua la volontà e l’impegno di compiere il bene, ma l’effettiva capacità di mettere in atto questo buon proposito dipende solo da Dio, che offre il suo aiuto, donando all’uomo la forza di concretizzare i suoi intenti. L’intervento di Dio non è però arbitrario : anche Agostino, come l’Ambrosiaster, pone in evidenza la giustizia divina, che tiene in considerazione i meriti di ciascuno. Dio prova misericordia per alcuni, e fa sì che operino il bene, mentre indurisce il cuore di altri, abbandonandoli  





1  Rm 9, 16 (098a Frede).

2  Vd. Ambst., Comm. in Rom 9, 16, csel 81/1, pp. 319-321.

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affinché compiano il male ; la scelta però non è mai disgiunta da una valutazione della condotta dei singoli : così la misericordia è la ricompensa per l’atto di fede, mentre l’indurimento è la giusta punizione dell’empietà. In questo modo Agostino può far salvo il libero arbitrio, garantendo all’uomo la possibilità di credere, ottenendo misericordia, o di volgersi all’empietà, ottenendo la condanna. 1 Nelle opere databili fra il 394 e il 395, e in particolar modo nell’Expositio quarundam propositionum, nell’Inchoata expositio e nel De div. quaest. LXXXIII, Agostino sottolinea l’autonomia della volontà umana, facendo dipendere da essa l’atto di fede : in questa fase della sua produzione l’iniziativa della salvezza è affidata a Dio, dal momento che è il Signore a chiamare tramite la predicazione del Vangelo ; tuttavia, una volta udito l’annuncio del Vangelo, accoglierlo o respingerlo dipende solo dalla libera volontà dell’uomo. Questa posizione verrà mantenuta fino all’Ad Simplicianum : a partire da quest’opera, infatti, anche l’initium fidei, il consenso dato liberamente dall’uomo alla chiamata di Dio, viene considerato dono di Dio. Come ha osservato Cipriani, 2 nel delineare, nelle sue prime opere, una sorta di convergenza fra libera iniziativa dell’uomo e aiuto divino, Agostino si richiama in particolar modo all’Ambrosiaster, e più in generale ad una tradizione esegetica consolidata, attestata anche da Pelagio nella terza parte del suo commento a Rm 9, 16. È interessante osservare come entrambe le spiegazioni offerte in questa sede da Pelagio si ritrovino in Origene. Infatti, la concezione espressa dalle parole Ita non volentis neque currentis tantum, sed et domini adiuvantis è ampiamente sviluppata da Origene e illustrata tramite la metafora della costruzione della casa, tratta da Sal 126, 1 (Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam) : anche Origene, come Agostino, prospetta una sinergia fra l’impegno e la sollecitudine dell’uomo da una parte, e l’intervento divino dall’altra, che rimuove ogni ostacolo, affinché l’opera giunga a compimento. In tal modo il libero arbitrio è salvaguardato : per quanto, infatti, nel successo di un’opera il merito principale spetti a Dio, occorre anche riconoscere all’uomo la parte che gli compete, dal momento che egli è chiamato a svolgere un ruolo attivo e a non rimanere ozioso. 3 Come attesta il Dialogus adversus Pelagianos di Gerolamo, 4 il Salmo 126, 1 verrà impiegato nel corso della polemica per dimostrare la necessità dell’aiuto divino in ogni singola azione dell’uomo, contro la pretesa dei Pelagiani di ridurre la grazia di Dio al dono del libero arbitrio, concesso una volta per tutte, senza successivi interventi di Dio nella vita dell’uomo. 5 L’interpretazione di Origene è tuttavia distante da questa lettura : più che insistere sulla necessità in ogni singolo atto dell’assistenza divina, l’esegeta alessandrino sembra preoccupato di esortare l’uomo a non rimanere ozioso, dal momento che Dio non edifica da solo la dimora, ma sostiene il lavoro dei singoli. Una simile interpretazione, che sottolinea l’importanza di un impegno attivo, poteva risultare accettabile per Pelagio, tanto da presentarla come alternativa possibile nell’esegesi di Rm 9, 16. Ed è forse ad una lettura del genere, ammissibile anche per i Pelagiani, che allude Gerolamo, quando sostiene che alcuni tentano di forzare il senso del testo biblico con interpretazioni ridicole. 6  





























1  Vd. Aug., Exp. prop. 54, 12-16. 3  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 14, pp. 621-622 Bammel. 5  Vd. Dial. adv. Pel. i, 4-5.

2  Art. cit., p. 17. 4  Vd. Hier., Dial. adv. Pel. i, 2. 6  Vd. ibid. i, 2.

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Nel tentare di dimostrare come non sia rintracciabile nelle parole non est volentis neque currentis alcuna traccia di una visione deterministica, Origene sembra attribuire questa affermazione a Paolo : non avvertirebbe, altrimenti, l’esigenza di trovare una giustificazione. Tuttavia in precedenza l’esegeta Alessandrino si era fatto portavoce anche dell’altra ipotesi, che vede in Rm 9, 16-19 una quaestio posta a Paolo, il quale mette a tacere il suo oppositore, prima negando con forza (Rm 9, 14 : Absit !), e successivamente muovendo un aspro rimprovero (Rm 9, 20-21 : O homo tu quis es qui contra respondeas Deo ?) : 1 in questo modo l’Apostolo viene assolto dalla responsabilità delle affermazioni fatalistiche contenute nella pericope. Questa opzione esegetica deve aver avuto un certo seguito, dal momento che si trova attestata non solo, come abbiamo visto, in Pelagio e nell’Anonimo, ma in parte anche nell’Ambrosiaster, il quale pur attribuendo i vv. 16-17 all’Apostolo, considera, come Origene, il v. 18 un’obiezione mossa da un contraddittore. 2 Sulla base di queste osservazioni, non mi sento di condividere l’opinione di R. Penna, 3 secondo cui la proposta interpretativa di Origene sarebbe caduta nel vuoto e se ne coglierebbe una debole eco solo in Giovanni Crisostomo. 4 Nel momento in cui Pelagio affronta l’esegesi del versetto in questione riprende evidentemente entrambe le ipotesi che poteva trovare nelle sue fonti, offrendo due diversi punti di vista, senza mostrare particolare predilezione per l’uno o per l’altro, secondo un metodo di lavoro caratteristico delle Expositiones ; l’indagine delle proposte esegetiche avanzate dai predecessori del nostro autore incoraggia, a mio avviso, ad accogliere la terza parte del commento a Rm 9, 16 : riportare interpretazioni alternative (in genere due, talvolta tre) è un tratto caratteristico del Commento di Pelagio, 5 ed è plausibile che anche in questo caso egli si sia attenuto a tale modo di procedere. Come abbiamo accennato, Origene attribuisce all’oppositore dell’Apostolo non solo il versetto 16, ma anche i versetti successivi, fino al 19, che ponevano lo spinoso problema dell’indurimento del cuore del Faraone. Nel passo in questione, infatti, Paolo riporta le parole di Es 9, 16 (In hoc ipso te excitavi, ut ostendam in te virtutem meam, et ut adnuntietur nomen meum in universa terra), facendo seguire ad esse l’osservazione ergo cui vult miseretur et quem vult indurat. L’episodio narrato nell’Esodo delineava l’immagine di un Dio onnipotente, capace di ‘indurire’ il cuore del Faraone, facendo sì che egli persistesse nella sua empietà e continuasse a vessare il popolo ebraico, in modo da offrire l’occasione a Dio di mostrare la Sua potenza. Nel Commento all’Esodo, Origene testimonia come l’indurimento del cuore del Faraone fosse motivo di imbarazzo per tutti, credenti e non credenti : indurire il cuore di qualcuno poteva apparire un’azione indegna di Dio, soprattutto se, in conseguenza di questo atto, la volontà indurita disobbedisce alla volontà di chi indurisce. 6 Causa del grave peccato del Faraone risultava in ultima analisi Dio, ma questo andava contro il principio irrinunciabile della giustizia divina. 7 Origene fa esprimere al contraddittore  









   



















1  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 14, p. 620 Bammel : Denique cum pro his quae superius dixerat de Isaac et Jacob, quod per electionem et ex proposito Dei, antequam aliquid operis boni malive gessissent, Deus dixerit vel de illo : ‘Ad hoc tempus veniam, et erit Sara filius’, vel de hoc : ‘Jacob dilexi, Esau autem odio habui’, cum in praesenti capitulo introduxisset aliquam personam velut contradicentem sibi et quaestionem moventem, et diceret : ‘Nunquid iniquitas est apud deum ?’ respondissetque ‘Absit’ sed ‘non volentis neque currentis, sed miserentis Dei est’ … 2  Ambst., Comm. in Rom 9, 18, csel 81/1, p. 325 : ‘Igitur cui vult deus miseretur et quem vult, indurat. Dicis itaque mihi’. Ex persona contradicentis loquitur ... 3  Vd. R. Penna, Interpretazione origeniana ed esegesi odierna di Rm 9, 6-29, in Il cuore indurito, cit., p. 125. 4  Vd. Hom. xvi super Epist. ad Rom., pg 60, 558. 5  Vd. De Bruyn, op. cit., p. 35. 6  Vd. Orig., Comm. in Exodum, Philoc. xxvii, pg 12, 111. 7  Vd. ibid. 112.  











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dell’Apostolo le stesse perplessità : se il Faraone fu scelto perché per mezzo suo la potenza di Dio fosse manifestata agli uomini, non poteva in definitiva essere considerato responsabile del fatto di essersi perso. 1 La difficoltà posta dall’episodio biblico è superata da Origene tramite la teoria della prescienza divina, che abbiamo già visto attestata nell’Ambrosiaster : Dio conosce in anticipo il proposito e la volontà di ciascuno, di conseguenza sfrutta, per così dire, le inclinazioni per realizzare le opere che la volontà dei singoli ha scelto. 2 Nel caso del Faraone Dio si è comportato come un padre di famiglia o un re, che, per dare un esempio ai suoi sottomessi e correggere quanti hanno commesso molte infrazioni, sceglie la persona più crudele, che per le sue scelleratezze non sia ormai più meritevole di correzione, e fa in modo che la sua rovina giovi alla correzione degli altri. Così si spiega anche il caso del Faraone : per mezzo della malvagità del suo animo, che egli si è procurato da solo vivendo senza freni e senza timore di Dio, Dio infligge agli altri una correzione utile e fruttuosa e al Faraone una giusta punizione. 3 Se è vero che nessuno può resistere alla volontà di Dio, altrettanto vero è che la Sua volontà è giusta e retta : da noi dipende scegliere il bene o il male, essere buoni o malvagi, a Dio, invece, spetta decidere quale genere di castighi riservare al malvagio, e quale gloria concedere al buono. 4 Origene è mosso in questa sua interpretazione anche dall’esigenza di contrastare la visione deterministica degli Gnostici, 5 i quali ritenevano che gli uomini possedessero una natura destinata alla salvezza o alla rovina : di quest’ultima essi individuavano un esempio perfetto nel Faraone. La lettura che dei versetti in questione offre l’esegeta alessandrino è dunque determinata dalla volontà di opporsi ad una visione che colloca il destino dell’uomo nelle mani di un dio onnipotente : preoccupazione, questa, condivisa da tutti gli esegeti. Agostino, come abbiamo visto, nelle opere del 394-395, pone la fede o l’empietà come presupposti su cui si esercita il giudizio divino. In tale prospettiva si colloca anche l’episodio del Faraone : a causa della sua precedente empietà, egli aveva offerto il suo cuore all’indurimento ; di conseguenza, non subisce immeritatamente la punizione di Dio, essendosi procurato da solo la propria rovina. 6 Affine alla trattazione di Origene è anche il commento dell’Ambrosiaster, il quale, oltre a riprendere il concetto di prescienza divina, sostiene, come l’esegeta Alessandrino, che Dio approfittò del caso del Faraone per dare a tutti un esempio, punendo la sua crudeltà. Per rendere chiaro questo concetto, l’Ambrosiaster ricorre a un paragone con i medici che conducono ricerche sui condannati a morte per dare giovamento ai vivi :  





























Ad hoc ergo servatus est Farao, ut multa signa et plagae ostenderentur in illum quasi iam mortuum ; suscitatus autem dictus est, quia cum apud deum mortuus esset, modicus tempus accepit, ut vivere videretur, ut esset in cuius poenam et varia tormentorum genera usque ad mortem omnes, qui sine deo erant, metu territi hunc solum deum esse cum admiratione maxima faterentur, a quo hae vindictae sunt. Hoc etiam  

1  Vd. Orig., Expl. in Rom, vii, 16, p. 620 Bammel : … et si Pharaonem propterea elegit, ut in ipso potentiam suae virtutis ostenderet, et si ipse cui vult miseretur et quem vult indurat, ut quid de hominibus, inquit, queritur ? Et cur qui peccat culpatur, cum talis de unoquoque ipsius voluntas habeatur ? 2  Vd. Orig., Expl. in Rom, vii, 14, pp. 622-623 Bammel. 3  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 14, pp. 623-624 Bammel. 4  Ibid. vii, 15, p. 625 Bammel. 5  Gli haeretici che tentano di sovvertire il principio del libero arbitrio, cui Origene fa riferimento nel passo della Praefatio citato (vd. supra, p. 176, n. 15) sono da identificare con gli Gnostici. Contro questi Origene polemizza in maniera esplicita in Expl. in Rom viii, 10, p. 692 Bammel ; vd. anche Expl. in Rom ii, 7, p. 139 Bammel ; ibid. iv, 12, p. 354 Bammel. 6  Vd. Exp. prop. 54, 7-9.  









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genere antiqui medici in hominibus morte dignis vel mortis sententiam consecutis requirebant, quomodo prodessent vivis …. 1  

Pelagio dedica al versetto 17 un commento insolitamente lungo, mostrando di recepire a fondo l’insegnamento dei suoi predecessori :  

‘Dicit enim scriptura Pharaoni quia In hoc ipso te excitavi, ut ostendam in te virtutem meam, et ut adnuntietur nomen meum in universa terra’. Et hoc illi male proponunt. Sed hic locus duobus modis a d[i]versis exponitur. Sive : Quod unus quisque modo et fine peccatorum suorum impleto puniatur, sicut Sodomitae et Amorraei, hic ergo iam modo excesserat, [et] idcirco voluit deus, quasi de iam perituro, aliis providere, ut populus eius agnosceret iustitiam ipsius atque virtutem, ut nec peccare [audere]nt nec suos adversarios vererentur. Tale est quod in Pharaone gestum est, quale si medicus de cruciatu iam damnati rei multis inveniat sanitatem, causas inquirendo morborum, vel si iudex, cum possit criminosum statim punire, ad omnium timorem diversis poenis adficiat. Sive : Dei patientia induratus est : cessante enim plaga Dei durior fiebat et, quamvis sciret eum non converti, tamen etiam in ipso suam clementiam voluit demonstrare.  





Il nostro autore nota che anche questo passo, come il precedente, si presta ad un’interpretazione errata da parte di quanti sostengono la teoria dell’assolutismo divino. Alla loro visione, che non lascia spazio all’iniziativa umana, Pelagio si contrappone, forte dell’autorità di quanti lo hanno preceduto, di cui riporta due interpretazioni. La prima segue da vicino il commento dell’Ambrosiaster sopra riportato, riprendendo l’immagine del medico, che, studiando i condannati a morte, trova rimedi per la salute di tutti gli altri : a questa affianca l’immagine del giudice, che infierisce con varie pene sui criminali, invece di condannarli subito, per incutere timore in tutti, una figura analoga a quella del padre o del re descritta da Origene. Tramite queste immagini, Pelagio può offrire una giustificazione del comportamento di Dio, che sembra infierire sul Faraone in maniera gratuita : dal momento che il Faraone era in ogni caso destinato a morire, avendo superato con i propri peccati ogni limite, Dio fa in modo che la sua condanna serva almeno di esempio agli altri, così che non cadano negli stessi errori. La seconda spiegazione offerta è volta ad esaltare la pazienza di Dio : per quanto sapesse che il Faraone non si sarebbe convertito, ma anzi si sarebbe mostrato dopo ogni piaga più crudele, Dio aspettò e lasciò che perseverasse nel suo errore, per mostrare a tutti la Sua clemenza. Se la prima interpretazione si basava sul commento dell’Ambrosiaster, la seconda sembra richiamare e, come spesso avviene, quasi riassumere l’ampia argomentazione che incontriamo in Origene : Dio non ha voluto abbandonarsi ad una rapida vendetta, ma, nonostante il Faraone avesse raggiunto il culmine della malvagità, nella sua pazienza gli ha offerto la possibilità di redimersi. La colpa dell’indurimento ricade di conseguenza sul Faraone, dal momento che non ha colto l’occasione di riscattarsi che Dio gli ha offerto : Dio, infatti, non indurisce chi vuole, ma chi disprezza il Suo aiuto. 2 Nell’interpretazione dell’episodio del Faraone, dunque, Pelagio non innova, ma si richiama ad una precisa tradizione : accomuna il nostro autore e i suoi predecessori la consapevolezza che ogni attentato contro la libertà e responsabilità umana è un attentato contro la giustizia di Dio. Questa convinzione è espressa con chiarezza da Pelagio  















1  Ambst., Comm. in Rom 9, 17, csel 81/1, p. 325. 2  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 14, p. 624 Bammel.

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nel commento a Rm 9, 18-19, dove il principio della giustizia divina assume la forza di un assioma che toglie fondamento a qualsiasi visione deterministica. 1 Aspetti interessanti presenta anche il commento di Pelagio a Rm 9, 20-21 (pp. 77-78 Souter), che è opportuno riportare per intero ai fini di indagarne i rapporti con le fonti :  



‘O homo, tu quis es qui respondeas deo ? Numquit dicit figmentum ei qui se finxit : Ut quid me fecisti sic ?’ Quibusdam videtur et hoc athuc ex ipsorum persona dicere, quia ipsum sit dicere neminem posse contradicere voluntati dei, alterius miserentis, alterum indurantis, et addere neminem deo respondere [debere quodcumque voluerit facienti]. Quidam vero dicunt iam hinc apostolum respondere quod etiam si ita esset ut illi calumniantur, non debere eos suo respondere factori, eo quod tales simus ad conparationem dei, quale ad suum artificem est luti figmentum. ‘Aut non habet potestatem figulus luti ex eadem massa facere aliut quidem vas in honore[m], aliut autem in contumelia[m] ?’ Secundum eos qui haec apostoli verba [esse] dicunt, massa dicit omnes in Aegypto commorantes, quia et Istrahel ibi idolis [de]serviebat[ ; unde Hiezechiel dicit in Aegypto virginitatem eius fuisse corruptam].  









Pelagio prende in considerazione due possibilità. La prima, sulla base dell’affinità di contenuto con quanto precede, attribuisce anche il versetto 20 ad un oppositore di Paolo : infatti, dire, come al versetto 19, che nessuno può contraddire la volontà di Dio, e sostenere che nessuno può disputare con Dio è la medesima cosa. In questo caso, la risposta dell’Apostolo giungerebbe solo al versetto 30, dove Paolo ricapitola la questione e mostra come i Gentili, a differenza dei Giudei, hanno subito risposto alla chiamata di Dio e hanno creduto. 2 Non è possibile identificare i ‘quibusdam’ a cui tale opinione è attribuita, dal momento che nelle fonti di Pelagio giunte fino a noi non se ne trova traccia : si tratta probabilmente di un’interpretazione circolante, che non ha tuttavia goduto del favore degli esegeti. La seconda spiegazione trova, invece, riscontro in tutti gli autori che potevano costituire per Pelagio un punto di riferimento : il versetto in questione è considerato all’unanimità espressione del pensiero dell’Apostolo, anche se il contenuto è valutato secondo prospettive diverse a seconda dell’interesse che muove i singoli esegeti. Così, l’Ambrosiaster e Agostino tendono a sottolineare la presunzione dell’uomo che osa contraddire Dio, suo Creatore. Come abbiamo già avuto modo di vedere, è a questo proposito che l’Ambrosiaster utilizza l’immagine della massa : siamo tutti peccatori, in quanto deriviamo da una sola e medesima massa ; di conseguenza non abbiamo alcun diritto di rivolgerci a Dio per chiedere conto della nostra condizione, proprio come il vaso plasmato non può chiedere a chi lo plasmò perché fu fatto in un certo modo. Questa considerazione, di impronta fortemente deterministica, è tuttavia attenuata dalla consapevolezza che in Dio, a differenza del vasaio, non agisce la sola volontà, ma anche la giustizia : in tal modo l’Ambrosiaster torna ad insistere sul motivo a lui caro della giustizia divina, principio irrinunciabile che impedisce di ritenere arbitrario l’agire di Dio. 3  















1  Vd. Pel., Exp. in Rm 9, 18-19, p. 77 Souter : ‘Ergo cui vult miseretur et quem vult indurat. Dicis itaque mihi : ‘Quid adhuc queritur ? Voluntati enim eius quis resistit ?’ Ergo si et hoc sic intellegitur : ‘Cui vult miseretur et quem vult indurat’, quod satis iniquum est, et ita vestra propositio concludetur, ut dicatis malitiae vestrae non vos esse causam, sed domini voluntatem, cui contradici non possit, sed resistit huic rationi vestrae ipsa natura iustitiae Dei. 2  Vd. Exp. in Rm 9, 30, pp. 79-80 Souter : ‘Quid ergo dicemus ? Quod gentes, [quae] non sectabantur iustitiam, adprehenderunt iustitiam ?’ Si superiora ex persona apostoli dicuntur, hin[c] sibi iterum proponit, quia poterant dicere : ‘si non est ita ut dicimus quia non est volentis neque currentis, quo modo gentes invenerunt iustitiam quam numquam antea quaesierunt, Istrahel vero quaerens semper iustitiam non potuit invenire ?’. Si vero totus superior sensus contradicentibus adplicatur, hinc respondit apostolus et breviter recapitulat quaestionem dicens : ‘Quid ergo dicemus ad ea quae nobis obiecta sunt, nisi quia gentes vocatae statim crediderunt, et illi credere noluerunt ?’. 3  Vd. Ambst., Comm. in Rom 9, 20-21, csel 81/1, pp. 327-329 : Ita et deus, cum omnes ex una atque eadem massa  

























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Anche Agostino, come l’Ambrosiaster, ritiene che l’uomo, facendo parte della massa luti, non abbia alcun diritto di rivolgersi a Dio. Anch’egli doveva avvertire, tuttavia, un certo imbarazzo di fronte all’asprezza delle parole dell’Apostolo, tanto da cercarne una giustificazione tramite una sottile esegesi. Così egli delinea una sorta di progresso spirituale : alla massa luti appartengono gli uomini carnali, che ancora non sono giunti alla comprensione delle cose spirituali ; a uomini del genere, che vivono ancora terreno sensu et carnaliter, non è consentito indagare il mistero della volontà divina. 1 Solo chi avrà la forza di divenire da vaso d’ira, destinato alla perdizione, un vaso di misericordia, predisposto alla gloria, compiendo un percorso di elevazione spirituale, avrà diritto di rivolgere domande a Dio e di sondare le ragioni profonde del Suo agire :  







Si vis ista cognoscere, noli esse lutum, sed efficere filius Dei per illius misericordiam, qui dedit potestatem filios Dei fieri credentibus in nomine eius ; non autem, quod tu cupis, antequam credant, divina nosse cupientibus. Merces enim cognitionis meritis redditur ; credendo autem meritum comparatur. Ipsa autem gratia quae data per fidem nullis nostris meritis praecedentibus data est. 2  





Così le parole di Paolo da aspro rimprovero, che sembrava togliere all’uomo non solo ogni libertà di iniziativa, ma anche la possibilità di chiedere ragione di un destino già determinato dalla volontà divina, divengono nell’interpretazione di Agostino un’esortazione al progresso morale, al raggiungimento di quella condizione di « figli di Dio » che sola può aprire la strada alla vera conoscenza. Un’ipotesi interpretativa analoga si trova già in Origene. Secondo l’esegeta Alessandrino la risposta dura di Paolo è determinata dall’arroganza di chi interroga : infatti, a chi si rivolge a Dio come un servo fedele, desideroso di conoscere la verità, non verrà risposto « Tu chi sei ? », come agli uomini presuntuosi e superbi. 3 Per rendere chiaro questo concetto Origene ricorre ad un confronto con 2Tm 2, 20-21, affine a Rm 9, 20-21 per l’immagine dei vasi, alcuni forgiati per uso nobile, altri per uso servile ; a suo avviso la differenza fra i due testi è dovuta alla diversità degli interlocutori di Paolo : nell’Epistola ai Romani un protervus contradictor, in quella a Timoteo un fidelis servus et prudens. Il primo ottiene, così, una risposta secca in cui si nominano soltanto i fictilia vasa, emblema della misera condizione umana, il secondo, invece, una risposta articolata, dove, accanto ai vasi per uso ignobile, sono ricordati i vasi d’oro e d’argento, destinati ad usi nobili. 4 Quest’ultima immagine si delinea agli occhi di Origene come una chiara metafora della differenza che sussiste fra quanti sono schiavi del peccato e del vizio, e quanti, invece, si sono purificati, lavando tramite la penitenza le macchie del peccato :  





















‘Si enim quis emundaverit semetipsum’, inquit, ‘ab his’, sine dubio peccati sordibus, ‘erit ad honorem vas sanctificatum et utile Domino, ad omne opus bonum paratum’. Restat igitur ut qui se non emundaverit, nec per poenitentiam peccati maculas abluerit, sit vas ad contumeliam ... 5  

Così, come avverrà in seguito in Agostino, l’interpretazione del passo risulta funzionale anche all’esigenza pastorale : vi troviamo, infatti, l’esortazione ad essere desideriorum et non contentionum viri. 6 Tramite l’esempio di Giacobbe ed Esaù, Origene dimostra come  



simus in substantia et cuncti peccatores alii miseretur et alterum despicit non sine iustitia. In figulo enim sola voluntas est, in deo autem voluntas cum iustitia. Scit enim cuius debeat misereri, sicut supra memoravi. 1  Vd. Aug., Exp. prop. 54, 18-23 ; vd. anche Ad Simpl. i, 17. 2  Aug., Div. quaest. 68, 3. 3  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 15, p. 626 Bammel : Non puto autem quod si fidelis servus et prudens interroget, volens intelligere et mirari sapientiam domini, quod dicatur ei : ‘Tu quis es ?’. 4  Vd. ibid., p. 627 Bammel. 5  Ibid., pp. 627-628 Bammel. 6  Vd. ibid., p. 626 Bammel. Vd. Cocchini, art. cit., pp. 117-118.  







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chi si purifica e si converte, da vaso di uso vile può divenire vaso di uso onorevole. Anche in questo caso lo scopo principale dell’esegeta è dimostrare come l’azione di Dio non sia arbitraria ; Dio, infatti, guarda alla purezza e alla semplicità dell’anima, e in base a queste sceglie i vasi per uso onorevole : per questo ha preferito Giacobbe, che aveva un’anima più pura, ad Esaù. 1 In generale si nota in tutti gli esegeti la preoccupazione di giustificare le parole dell’Apostolo, attenuandone il significato, in modo tale che non risultino espressione di una visione deterministica. Un ultimo dato merita di essere preso in considerazione : nella nota a Rm 9, 20-21, Pelagio afferma che quanti sostengono che qui a parlare sia l’Apostolo, ritengono che con il termine massa egli abbia voluto intendere omnes in Aegypto commorantes, dal momento che anche Israele, durante il soggiorno in Egitto, si rese colpevole del culto degli idoli. L’osservazione di Pelagio stupisce, dal momento che nelle sue fonti non si trova una tale interpretazione del termine massa ; tuttavia, niente vieta di pensare che Pelagio abbia letto in qualche commento o anche solo semplicemente sentito riportare una simile spiegazione. La nota di Pelagio è breve, e di significato non immediato, dal momento che egli non si preoccupa di spiegare in maniera più dettagliata la metafora. A mio avviso risulta importante per la comprensione del testo l’osservazione quia et Istrahel ibi idolis [de]serviebat : l’appartenenza alla massa sembra, infatti, determinata dalla scelta di adorare gli idoli, quindi, in definitiva, da peccati personali. Il Signore tuttavia chiama gli uomini alla fede, invitandoli ad abbandonare la massa dei peccatori, senza eccezione di persona, come mostra il fatto che anche alcuni Egiziani abbandonarono l’Egitto insieme agli Israeliti. 2 Così l’episodio dell’Esodo diviene paradigma delle sorti umane : in seguito alle colpe individuali apparteniamo ad una stessa massa di peccatori, ma abbiamo la possibilità di rispondere alla chiamata di Dio e purificarci delle nostre colpe, proprio come fecero quanti abbandonarono l’Egitto. Entrambe le spiegazioni offerte da Pelagio nel commento a Rm 9, 20-21, salvaguardano in definitiva la libera scelta dell’uomo : in questo il nostro autore risulta in linea con gli interpreti che lo hanno preceduto. La stessa preoccupazione condiziona l’esegesi di Rm 9, 22-23 :  



















‘In vasis irae praeparatis in interitum’. Implendo peccata sua vasa irae digna sunt facti et a semet ipsis ad interitum praeparata. ‘Et ut ostenderet divitias gloriae suae in vasis misericordiae quae praeparavit in gloria’. Digni erant misericordia, quia et minora admiserant et graviter fuerat adflicti.

L’immagine dei vasi preparati per la rovina o per la gloria poteva suggerire l’idea che il destino dei singoli sia determinato dalla volontà di Dio : una simile interpretazione è però decisamente esclusa da Pelagio, che, forzando il testo paolino, attribuisce la responsabilità dell’azione non a Dio, ma all’uomo. Così la rovina o la gloria non sono « preparate » da Dio, ma dall’uomo stesso (a semet ipsis), che si costruisce da solo il proprio destino, ottenendo da Dio la condanna o la misericordia a seconda delle azioni compiute. Si può forse cogliere in Pelagio la tendenza ad insistere maggiormente sulla responsabilità personale rispetto alle sue fonti : tuttavia, bisogna ricordare che anche i suoi predecessori non hanno trascurato questo aspetto. Si consideri, ad esempio, l’osservazione dell’Ambrosiaster :  









1  Vd. Orig., Expl. in Rom, vii, 15, p. 628 Bammel. 2  Vd. Pel., Exp. in Rm 9, 26, p. 78 Souter : Quia et tunc aliquanti Aegyptiorum exierant cum filiis Istrahel (quod si deus personas accipere, solus Istrahel debuit salutem habere), ita et nunc non solum Iudaeos, sed etiam gentes, vocavit ad fidem …  

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… Ac per hoc patientia est, quae illos, qui ex malis corriguntur aut in bono perseverantes sunt, praeparat ad gloriam. Divitiae autem gloriae sunt dignitas multiplex praeparata credentibus. Eos autem, qui ex bonis fiunt mali et in coepto malo perdurant, praeparat ad interitum. 1  

Il concetto espresso è simile a quello sintetizzato dalle parole di Pelagio, per quanto queste, assumendo per la loro concisione il carattere di una sentenza, risultino di maggiore impatto : è chiaro tuttavia che anche nelle parole dell’Ambrosiaster il correggersi dalle proprie colpe o il perseverare nel bene sottendono l’iniziativa personale. Se Agostino interpreta questi versetti riferendoli di nuovo all’indurimento del cuore del Faraone, ottenuto ex meritis occultae superioris impietatis, 2 Origene risulta a tal proposito ancora più esplicito :  





… quae vasa non irrationabili aliqua, aut fortuita gratia, sed quoniam ipsa a supradictis sordibus se expurgaverant, praeparavit in gloriam. 3  

L’analisi del commento di Pelagio ai capitoli 7 e 9 dell’Epistola ai Romani mostra come il nostro autore abbia una posizione molto chiara per quanto riguarda la concezione del libero arbitrio : la capacità di autodeterminazione dell’uomo appare ai suoi occhi come un principio irrinunciabile da difendere in ogni caso, anche laddove il testo paolino sembra suggerire una visione deterministica ; nel sostenere questa convinzione, Pelagio non innova, ma al massimo accentua posizioni già ampiamente attestate nelle sue fonti. Dunque, se finora non è stato possibile rintracciare nelle Expositiones quelle posizioni estremistiche nella difesa e nell’esaltazione della libera volontà dell’uomo, che saranno invece proprie dei seguaci di Pelagio, resta da valutare se elementi di rottura con la tradizione precedente siano rintraccabili nella trattazione di altre tematiche strettamente connesse con il libero arbitrio, come il problema della prescienza divina e dell’impeccantia.  



2. Prescienza divina e libero arbitrio Abbiamo già avuto modo di vedere come i commentatori risolvano alcuni dei problemi posti dall’episodio del Faraone ricorrendo al principio della prescienza divina. Si rende necessario ora approfondire questa tematica, vista l’attenzione particolare che Pelagio le dedica. A stimolare la riflessione dei commentatori sul significato e sulla natura della prescienza di Dio erano soprattutto due passi dell’Epistola ai Romani, Rm 8, 28-30 e 9, 10-15 : inizieremo la nostra analisi proprio da questi, valutando e confrontando le interpretazioni proposte dai vari esegeti.  

2. 1. Rm 8, 28-30 In Rm 8, 28-30 Paolo presenta al lettore la catena di operazioni salvifiche messe in atto da Dio : coloro che Dio preconobbe, li predestinò anche ad essere conformi all’imma 

1  Ambst., Comm. in Rom 9, 23, csel 81/1, p. 329. 2  Vd. Aug., Exp. prop. 55, 1 : Quod autem ait : ‘Attulit in multa patientia vasa irae, quae perfecta sunt in perditionem’, hinc satis significavit obdurationem cordis, quae in Pharaone facta est, ex meritis venisse occultae superioris empietatis … 3  Orig., Expl. in Rom vii, 16, p. 630 Bammel.  



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gine del Figlio ; ma coloro che predestinò, li chiamò anche ; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati ; e quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. L’intento di Paolo era consolatorio : mostrando come l’iniziativa salvifica di Dio si articoli in una serie di transizioni strettamente connesse tra loro, l’apostolo invitava i fedeli a restare saldi nella speranza della salvezza ; infatti, una volta ricevuta la chiamata, la vita del credente è inserita nel disegno di Dio, la cui realizzazione niente può impedire : dell’ultimo atto, la glorificazione, Paolo è talmente certo che può addirittura utilizzare le forme verbali al passato, come se si trattasse di un evento già avvenuto. 1 Tuttavia le parole dell’Apostolo potevano dare adito alla convinzione che il destino dell’uomo fosse predeterminato e che Dio scegliesse fin dall’inizio chi sarebbe stato destinato alla salvezza e chi invece escluso. Origene si mostra perfettamente consapevole del pericolo di una simile interpretazione, sostenuta soprattutto dagli gnostici, che trovavano nel passo paolino una conferma della loro dottrina delle diverse nature degli uomini, alcune buone e destinate alla gloria, altre malvagie e destinate alla perdizione. 2 Questa preoccupazione è espressa anche da Pelagio :  

















‘Quid ergo dicemus ? Numquit iniquitas apud deum ?Absit !’ Timuit ne quod ipse propter ea dixerat, ut probaret aput deum praerogativam generis nihil valere, sive iam tunc significatum posteriorem populum meliorem futurum non intelligentes, puterent eum dicere quod alios deus bonus faceret, alios malos, et secundum eorum sententiam quo iniquum erat punire qui non sua sponte peccassent, et proponit sibi ex adverso testimonia quibus illi adfirmare id solebant, quibus exemplis per breves obiectiones respondens ostendit ita intellegi non debere. 3  







Nel tentativo di dimostrare l’infondatezza di una lettura in senso deterministico delle parole di Paolo, gli esegeti concentrano la loro attenzione sul significato dei verbi praescire e praedestinare. Pelagio insiste sulla sostanziale identità dei due termini :  

‘Et praedestinavit conformes fieri imaginis [gloriae] filii sui’. Praedestinare idem est quod praescire … 4  

Attribuire a praedestinare lo stesso significato di praescire consente a Pelagio di salvaguardare il libero arbitrio dell’uomo : Dio, infatti, ha « predestinato » alcuni, nel senso che ha semplicemente previsto la loro condotta futura, senza determinarla in anticipo. La scelta di Dio non è dunque arbitraria, ma si basa sulla fede dei singoli, che Egli, nella sua onniscienza, è in grado di prevedere. 5 Il giudizio di Dio si esercita sulla libera scelta dell’uomo : coloro che sono stati eletti, lo sono stati per la loro fede, così come coloro che sono stati respinti da Dio, hanno subito questa sorte secondo giustizia, dal momento che non hanno voluto credere. Emblematico è, secondo Pelagio, il caso di Israele, che non ha ottenuto la giustificazione, perché aspirava ad essa non sulla base della fede, ma delle sole opere della legge : gli eletti, infatti, sono tali in conseguenza della loro fede, mentre quanti sono stati accecati, subiscono questa condizione a causa della loro mancanza di fede. 6  













1  In tutta la perifrasi Paolo utilizza forme verbali all’aoristo : o{ti ou}~ proevgnw, kai; prowvrisen summovrfou~ th`~ eijkovno~ tou` uiJou` aujtou`, eij~ to; ei|nai aujto;n prwtovtokon ejn polloi`~ ajdelfoi`~: ou}~ de; prowvrisen, touvtou~ kai; ejkavlesen: kai; ou}~ ejkavlesen, touvtou~ kai; ejdikaivwsen: ou}~ de; ejdikaivwsen, touvtou~ kai; ejdovxasen.  

2  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 6, p. 588 Bammel. 3  Pel., Exp. in Rm 9, 14, p. 75 Souter. 4  Exp. in Rm 8, 29, p. 68 Souter ; vd. anche Exp. in Eph 1, 11, p. 347 Souter : ‘Praedestinati’. Ante destinati per fidem. Sive : praecogniti ; Exp. in 1Cor 2, 7, p. 138 Souter : Quam (sc. sapientiam) praedestinavit Deus ante saecula’. Sive in praes[ci]entia, sive in lege, ante tempora … 5  Exp in Rm 8, 29, p. 68 Souter : ‘His qui secundum propositum vocati sunt [sancti]. [Nam] quos praescit’. Secundum quod proposuit sola fide salvare quos praescierat credituros, et quos gratis vocavit ad salutem, multo magis glorificabit [ad salutem] operantes. 6  Vd. Exp. in Rm 11, 7, p. 86 Souter.  











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Senza dubbio, l’iniziativa del processo che porta l’uomo alla salvezza risiede in Dio, perché è lui a chiamare coloro che sa che crederanno. Tuttavia Pelagio è attento a non sottovalutare il ruolo che compete all’uomo :  

‘Quos autem praedestinavit, hos et vocavit, [et quos vocavit,] hos et sanctificavit, [quos autem iustificavit,] hos autem honorificavit’. Quos praesciit credituros, hos vocavit. Vocatio autem volentes colligit, non invitos ; aut certe discretio non in personis sed in tempore est. Hoc ideo dicit propter fidei inimicos, ne fortuitam dei gratiam iudicarent. E[r]go vocantur per praedicationem ut credant, credentes iustificantur per baptismum, glorificantur in virtutibus gratiarum sive in resurrectione futura. 1  



La grazia di Dio non è casuale : l’uomo è un attore importante del processo salvifico, perché è l’uomo che deve assecondare con la sua volontà la chiamata di Dio, divenendo responsabile in prima persona del proprio progresso sulla via della perfezione. Questa convinzione è espressa chiaramente nel commento a 1Cor 1, 1 (p. 128 Souter) :  



‘Per voluntatem Dei’. Voluntate Dei vocatur quisque vocatur ad fidem, [sed] sua sponte, et suo arbitrio credit[ur], sicut ait in Actibus [Apostolorum] : ‘non fuit incredulus caelesti visioni’.  

Pelagio pone enfasi sul fatto che, se la chiamata pertiene a Dio, la fede resta un atto di volontà che dipende dall’arbitrio dell’uomo : gli uomini sono chiamati a credere tramite la predicazione, se rispondono positivamente a questa sollecitazione credendo, sono giustificati tramite il battesimo, e infine glorificati nella resurrezione futura. Un particolare merita di essere approfondito : di difficile comprensione risulta, infatti, ad una prima lettura, l’espressione aut certe discretio non in personis sed in tempore est. Questa nota concisa può essere intesa nel suo significato soltanto tenendo presente il commento dell’Ambrosiaster, che il nostro autore nell’analisi dei presenti passi segue da vicino. In primo luogo, dobbiamo precisare che, come già Smith aveva osservato, 2 nell’identificare la predestinazione con la prescienza, facendo della valutazione della fede futura l’elemento determinante dell’elezione divina, Pelagio non innova, ma si inserisce in una precisa tradizione. Infatti, la concezione che abbiamo illustrato è ben attestata nelle sue fonti. Nell’Ambrosiaster, ad esempio, troviamo la stessa convinzione secondo cui la chiamata è basata sulla fede dei singoli :  







… Hi ergo secundum propositum vocantur, quos credentes praesciit deus futuros sibi idoneos, ut antequam crederent, scirentur. 3  

Anche la valutazione del destino di Israele è analoga a quella espressa da Pelagio : parte di Israele si è salvata, quella che Dio aveva previsto che si sarebbe salvata, parte, invece, è stata destinata alla perdizione per la sua mancanza di fede (propter iugem diffidentiam). 4 È interessante notare come l’Ambrosiaster concentri la propria attenzione su un dato che ai suoi occhi doveva apparire di particolare importanza :  





Istos quos praescivit futuros devotos sibi, ipsos elegit ad promissa praemia capessenda, ut hi qui credere videntur et non permanent in fide coepta, a deo electi negentur, quia quos deus apud se elegit, permanent. Est enim qui ad tempus eligitur, sicut Saul et Iudas, non de praescentia, sed de praesenti iustitia. 5  

1  Exp. in Rm 8, 30, p. 69 Souter. 2  Vd. Smith, art. cit., p. 202. 3  Ambst., Comm. in Rom 8, 28, csel 81/1, pp. 289-290 ; vd. anche Comm. in Rom 11, 2, csel 81/1, p. 363. 4  Vd. ibid. 11, 1, p. 363 : … exemplo suo docet partem Istrahel salvatam, quam praesciit deus salvandam, aut adhuc posse salvari, et partem Istrahel propter iugem diffidentiam perditioni deputatam. 5  Comm. in Rom 8, 29, csel 81/1, p. 291.  



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In questo passo viene introdotto il principio secondo cui l’elezione divina è immutabile, principio più volte ricordato nel corso della trattazione 1 ed espresso in maniera chiara nel commento a Rm 8, 30 (csel 81/1, p. 293) :  



Hoc dicit quod supra, quia quos praescivit Deus aptos sibi, ipsi credentes permanent, quia aliter fieri non potest quam praesciit deus.

Non può avvenire niente che sia diverso da quanto Dio ha previsto ; questo assioma sembra, tuttavia, contraddetto dall’elezione di persone quali Saul, Giuda o quei settantadue discepoli che si allontanarono da Gesù dopo essere stati scelti da Lui, uomini che sembravano aver ricevuto la chiamata ed essere dunque destinati alla gloria, e che invece, in seguito, si allontanarono da Dio. 2 Come ha messo in evidenza A. Pollastri, 3 l’apparente contraddizione è risolta dall’Ambrosiaster tramite la distinzione fra un’elezione duratura basata sulla prescienza di Dio, che conosce in anticipo chi persevererà nella fede, e un’elezione temporanea, che corrisponde ad un giudizio conforme alla giustizia retributiva ed è rivolta a quanti sembrano buoni, ma non rimarranno tali. Di particolare interesse è il commento dell’Ambrosiaster a Rm 9, 11-13 (csel 81/1, p. 313), che, nonostante sia piuttosto ampio, vale la pena riportare per le sue relazioni con l’osservazione di Pelagio :  







… praescientiam dei flagitat in his causis, quia non aliud potest evenire quam novit deus futurum. … unum elegit praescientia et alterum sprevit. 4 Et in illo quem elegit, propositum dei manet, quia aliud non potest evenire quam scit et proposuit in illo, ut salute dignus sit … hoc quasi praescius, non personarum acceptor, nam neminem damnat, antequam peccet, et nullum coronat, antequam vincat … Non est personarum acceptio in praescientia dei. Praescentia enim dei est, qua definitum habet, qualis uniuscuiusque futura voluntas erit, in qua mansurus est, per quam aut damnetur aut coronetur. Denique quos scit malos permansuros, aliquoties prius sunt boni. Unde cessat querela, quia deus personarum acceptor non est.  

Il disegno di Dio rimane saldo e immutabile : quanto Egli ha previsto, non è possibile che non si verifichi. Tuttavia Dio non fa preferenza di persone perché non condanna nessuno prima che pecchi, così come non accoglie nessuno nella gloria, prima che abbia riportato la vittoria contro il peccato. Nella sua prescienza Dio conosce in anticipo la volontà futura di ciascuno, volontà in cui ciascuno permane, meritando la dannazione o la salvezza. Perché allora, si chiede l’Ambrosiaster, 5 il Signore disse a quei settantadue discepoli che in seguito lo tradirono, allontanandosi da Lui : « I vostri nomi sono scritti in cielo » ? Non aveva forse previsto Dio la loro condotta futura ? L’Ambrosiaster risolve l’apparente contraddizione, sostenendo che le parole del Signore sono state pronunciate per la giustizia, perché è giusto che ognuno sia ricambiato in proporzione al merito : poiché erano buoni, furono scelti per una missione e i loro nomi furono scritti in cielo per la giustizia ; secondo la prescienza, invece, erano già nel numero dei malvagi.  

















1  Vd. Comm. in Rom 1, 13, csel 81/1, p. 31 : Unde dicit : ‘vocatis sanctis’. Quid tamen est vocatis sanctis ? Si enim iam sancti sunt, quomodo vocantur, ut sanctificentur ? Sed hoc ad Dei pertinet praescentiam, quia quos scit deus futuros sanctos, iam apud illum sancti sunt et vocati permanent. 2  Vd. Comm. in Rom 8, 30, csel 81/1, p. 293 : De ceteris, quos non praesciit deus, non est illi cura in hac gratia, quia non praesciit illos futuros idoneos. Acsi credentes eligantur ad tempus, quia videntur boni, ne iustitia contempta videatur, non permanent, ut magnificentur, sicut et Iuda Scarioth aut illi septuaginta duo, qui electi post scandalum passi recesserunt a salvatore. 3  Ambrosiaster, cit., Roma 1984, p. 23. 4  L’autore fa qui riferimento all’episodio di Giacobbe ed Esaù. 5  Vd. Ambst., Comm. in Rom 9, 13, csel 81/1, p. 315.  









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Sembra quasi che Pelagio condensi questa ampia e complessa argomentazione dell’Ambrosiaster nella lapidaria sentenza aut certe discretio non in personis sed in tempore est che solo alla luce della spiegazione offerta dal suo predecessore risultano pienamente comprensibili : la vocazione non si basa su una scelta arbitraria, che opera una distinzione fra i singoli con l’elezione di alcuni e l’esclusione di altri (non in personis), ma deve essere valutata in base al tempo (in tempore), ovvero tenendo conto che la prescienza di Dio conosce in anticipo i meriti futuri. Anche se Pelagio tende sempre ad una maggiore concisione rispetto all’Ambrosiaster, il fatto che egli dedichi ad un così complesso problema una semplice allusione suscita un certo stupore. È probabile, a mio avviso, che il nostro autore non dia spazio a questo tema, proprio perché non insiste, a differenza dell’Ambrosiaster, sull’immutabilità della prescienza divina : Pelagio, infatti, non fa accenno al fatto che quanto Dio ha previsto deve necessariamente accadere, e di conseguenza non avverte nemmeno la necessità di ricorrere alla distinzione fra un’elezione duratura e un’elezione che avviene in tempore, per giustificare casi come quello di Giuda o di Saul. Come valuteremo meglio a proposito del commento a Rm 9, 10-15, l’attenzione di Pelagio non si concentra tanto sul fatto che il disegno di Dio è fissato una volta per sempre, ma piuttosto su un altro aspetto della questione : la possibilità dell’uomo di scegliere liberamente se assecondare o meno la chiamata di Dio. L’interpretazione della predestinazione come prescienza è attestata anche in Agostino, nelle opere precedenti l’Ad Simplicianum : a partire da questo trattato la prospettiva, come avremo modo di vedere in seguito, cambia sensibilmente. Sia qui sufficiente riportare, a titolo d’esempio, quanto Agostino afferma in Exp. prop. 47, 4 :  









… Nec praedestinavit aliquem, nisi quem praescivit crediturum et secuturum vocationem suam, quos et electos dicit. Multi enim non veniunt, cum vocati fuerint, nemo autem venit, qui vocatus non fuerit.

Nella medesima opera troviamo il chiaro riconoscimento della fede come atto volontario che pertiene unicamente all’uomo, principio che verrà ripreso e sostenuto con forza da Pelagio :  

Nostrum enim est credere et velle, illius autem dare credentibus et volentibus facultatem bene operandi per spiritum sanctum, per quem caritas dei diffunditur in cordibus nostris, ut nos misericordes efficiat. 1  

Se la capacità di operare il bene è dono di Dio, credere e volere dipendono dall’uomo : lo stesso concetto, formulato con parole diverse, si riscontra, come abbiamo visto, nel commento di Pelagio a 1Cor 1, 1. La dottrina secondo cui la predestinazione si basa sul merito della fede sembra dunque condivisa da tutti i commentatori e verosimilmente è stata prevalente nella Chiesa fino all’epoca di Pelagio : come ha osservato Smith, 2 essa era dovuta con ogni probabilità all’influenza di Origene. Il grande Alessandrino, infatti, affronta il problema della prescienza e della predestinazione avendo sempre ben presente la necessità di salvaguardare, contro gli attacchi degli gnostici, il libero arbitrio dell’uomo e la sua capacità di scelta. Il primo passo della Lettera ai Romani che offre a Origene l’occasione di affrontare questa tematica è proprio l’incipit, dove troviamo l’espressione segregatus in evangelium Dei riferita all’Apostolo : gli eretici consideravano questa affermazione una prova della  







1  Aug., Exp. prop. 53, 7.

2  Art. cit. p. 202.

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validità delle proprie tesi, ritenendo che fin dalla nascita Paolo fosse stato scelto da Dio in base alla bontà della sua natura, così come i peccatori sono esclusi dalla salvezza fin dal ventre della madre per la loro malvagità. 1 A queste tesi Origene si oppone con forza e determinazione : Paolo non fu scelto né per un caso fortuito né per una differenza di natura, ma offrì lui stesso, con le sue azioni e i suoi meriti, il motivo per divenire oggetto di elezione : Dio, che tutto conosce prima che avvenga, vide fin dalla nascita di Paolo quale sarebbe stato il suo comportamento futuro, e per questo assegnò a lui il compito di diffondere il vangelo. 2 Al lettore Origene offre una chiara definizione del rapporto fra prescienza e predestinazione, definizione che sarà tenuta presente dai commentatori successivi ed eserciterà un’influenza importante sullo sviluppo della riflessione teologica :  









Praecedit ergo praescientia de eis per quam noscuntur quid in se laboris et virtuti habituri sint et ita praedestinatio sequitur, nec tamen rursum praedestinationis causa putabitur praescientia. Quod enim apud homines uniuscuiusque meritum pensatur ex praeteritis gestis hoc apud Deum iudicatur ex futuris ; et valde impius est qui in hoc non cedit Deo ut quod nos in praeteritis videmus hoc ille videat in futuris. 3  



Ciò che presso gli uomini viene considerato merito di ciascuno sulla base delle azioni passate, presso Dio viene giudicato sulla base delle azioni future : di conseguenza viene prima la prescienza di Dio, mediante la quale vengono conosciuti quelli che avranno dei meriti, e poi segue la predestinazione, che non risulta, quindi, arbitraria e casuale. Prima di passare all’analisi di Rm 9, 10-15, è interessante soffermarsi su un altro particolare : il significato attribuito dai commentatori all’espressione secundum propositum vocati sunt di Rm 8, 28. Origene offre del passo paolino due spiegazioni : nella prima, che egli sembra prediligere, per propositum si intende non la volontà di Dio, ma la buona volontà di coloro che sono chiamati :  







Nam hi qui secundum propositum bonum et bonam voluntatem quam circa Dei cultum gerunt vocantur ipsi sunt qui secundum propositum vocati dicuntur, et isti sunt qui vocati iustificantur. Bono enim eorum proposito deerat sola vocatio. 4  

Una simile lettura privilegia l’uomo come attore principale del processo di salvezza : la buona volontà del singolo costituisce la conditio sine qua non perché la chiamata di Dio risulti efficace. In questo modo Origene rende vano ogni tentativo di giustificarsi da parte di quanti non hanno un proposito saldo nel culto divino e nelle opere buone. Anch’essi, infatti, sono stati chiamati, ma non sono stati giustificati ; la chiamata nel loro caso è caduta nel vuoto ed è stata inutile, proprio come un seme caduto in un terreno non fertile : 5 di conseguenza, possono imputare solo a se stessi e alla loro mancanza di buona volontà il fatto di non essere stati giustificati. Origene è a conoscenza anche di un’altra interpretazione del passo paolino, in cui per propositum si intende la volontà di Dio. Egli tuttavia si affretta a precisare che anche questa lettura non contrasta con quanto detto in precedenza ; la volontà di Dio, infatti, si accompagna sempre ad una giusta valutazione : Dio chiama coloro nei cui cuori ha colto un atteggiamento devoto e un desiderio di salvezza. 6 Qualunque delle due interpretazioni si scelga di accogliere, la conclusione non può essere per Origene che una sola :  



   











1  Vd. Orig., Expl. in Rom i, 5, pp. 50-51 Bammel. 2  Ibid., p. 51. 3  Expl. in Rom i, 5, pp. 52-53 Bammel. 4  Orig., Expl. in Rom vii, 6, p. 590 Bammel. 5  Vd. ibid. 6  Vd. ibid., p. 591.

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Hoc ergo pacto neque in praescientia Dei vel salutis vel perditionis nostrae causa consistit neque iustificatio ex sola vocatione pendebit neque glorificari de nostra penitus potestate sublatum est. Nam et si communi intellectu de praescientia sentiamus non propterea erit aliquid quia id scit Deus futurum, sed quia futurum est scitur a Deo antequam fiat. 1  

Un evento non si verificherà perché Dio sa che accadrà : al contrario proprio perché accadrà, Dio può conoscerlo prima che avvenga : con questa chiara affermazione, Origene toglie validità a qualsiasi concezione deterministica, esaltando il libero volere e il potere dell’uomo ; la causa della nostra perdizione o della nostra salvezza non può risiedere nella prescienza divina : la giustificazione non dipende dalla sola chiamata di Dio, ma anche dalla volontà dell’uomo, così come in nostro potere è la glorificazione. Questa argomentazione di Origene godrà di ampia fortuna e verrà ripresa successivamente anche da Boezio, che nel De consolatione philosophiae ricorda l’opinione di alcuni i quali sostengono che una cosa è destinata ad avvenire non perché la provvidenza ha previsto che essa accadrà, ma piuttosto, al contrario, proprio perché una cosa dovrà accadere, essa non può sfuggire alla provvidenza di Dio : 2 è evidente il richiamo alle dottrine origeniane, che l’autore utilizza per conciliare provvidenza divina e libero arbitrio. 3 La visione ottimistica di Origene non poteva non suscitare in Pelagio una forte impressione : come avremo modo di vedere, nel commentare Rm 9, 10-15, egli mostrerà di aver appreso la lezione del grande maestro Alessandrino. I commentatori successivi oscilleranno fra le due proposte esegetiche offerte da Origene. L’Ambrosiaster accoglie la prima interpretazione, senza tuttavia approfondirne il significato teologico, ma limitandosi ad una riflessione piuttosto banale sul valore che assume agli occhi di Dio il proposito e la disposizione d’animo con cui si formulano le preghiere. 4 Di ben altro spessore è la riflessione di Agostino :  







   









Quod autem ait : ‘Quos vocavit, ipsos et iustificavit’, potest movere et quaeri, utrum omnes, qui vocati sunt, iustificentur. Sed alibi legimus : ‘Multi vocati, pauci autem electi’. Tamen quia ipsi quoque electi utique vocati sunt, manifestum est non iustificatos nisi vocatos, quamquam non omnes vocatos, sed eos qui ‘secundum propositum vocati sunt’, sicut superius dicit. Propositum autem Dei accipiendum est, non ipsorum. Ipse autem exponit, quis sit secundum propositum cum dicit : ‘Quoniam quos ante praescivit et praedestinavit conformes imaginis filii eius’. Non enim omnes, qui vocati sunt, secundum propositum vocati sunt, hoc enim propositum ad praescentiam et ad praedestinationem dei pertinet. 5  







L’affermazione propositum autem Dei accipiendum est, non ipsorum, sembra diretta proprio contro una lettura del passo paolino come quella proposta da Origene. Non tutti coloro che sono chiamati, sono giustificati, ma soltanto coloro che sono chiamati secundum propositum : questo proposito non è, però, secondo Agostino, da identificare  

1  Expl. in Rom vii, 6, p. 591. 2  Vd. Boeth., De cons. phil. v, 3, 8 : Aiunt enim non ideo quid esse eventurum, quoniam id providentia futurum esse prospexerit, sed e contrario potius, quoniam quid futurum est, id divinam providentiam latere non posse ... 3  Vd. anche Orig. presso Eus., Praep. Evang. vi, 11, 36 sg. : kai; eij crh; levgein, ouj th;n provgnwsin aijtivan tw`n ginomevnwn, ... ajlla; ... to; ejsovmenon ai[tion tou` toiavnde ei\nai th;n peri; aujtou` provgnwsin. ouj ga;r ejpei; e[gnwstai givgnetai, ajll’ ejpei; givnesqai e[mellen e[sesqai, dia; tou`to proei`pen. 4  Vd. Ambst., Comm. in Rom 8, 28, csel 81/1, p. 288 : ‘Scimus autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum iis, qui secundum propositum vocati sunt’. Hoc dicit, quia diligentes Deum acsi inperite precati fuerint, non illis oberit, quia propositum cordis illorum sciens Deus et ignaviam, non illis inputat quae adversa postulant, sed ea adnuit, quae danda sunt Deum amantibus … 5  Aug., Exp. prop. 47, 1-4.  





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con la volontà dell’uomo, ma pertiene alla prescienza di Dio e alla predestinazione ; di conseguenza coloro che sono chiamati secundum propositum sono quanti sono chiamati secondo la volontà di Dio. Come abbiamo visto, in realtà anche Agostino, almeno fino all’Ad Simplicianum, ritiene che questa volontà si eserciti secondo giustizia e accoglie, come gli altri commentatori, l’identificazione fra ‘predestinazione’ e ‘prescienza’, facendo della fede futura l’elemento discriminante per l’elezione divina ; tuttavia, il fatto che egli, a differenza di Origene, preferisca riferire secundum propositum a Dio e non all’uomo, è significativo ed indice del fatto che già nei suoi primi lavori esegetici sulle epistole di Paolo Agostino si muove in una prospettiva diversa rispetto all’Alessandrino : per quanto l’importanza dell’impegno da parte dell’uomo non sia sottovalutata, ad assumere un ruolo di primo piano è la volontà di Dio, che risulta l’attore principale del processo salvifico. Diversamente da quanto ci aspetteremmo, Pelagio non condivide la lettura di Origene e dell’Ambrosiaster, ma, seguendo Agostino, ritiene che per propositum sia da intendere la volontà di Dio, come si deduce dalla nota a Rm 8, 28 (p. 68 Souter) : Secundum quod proposuit sola fide salvare … Ancora più esplicito risulta il commento a Eph 1, 5 (pp. 345-346 Souter), dove l’autore si trova ad analizzare un’espressione analoga a quella di Rm 8, 28 :  









‘[Qui] praedestinavit nos in adoptionem’. Non naturae. ‘Filiorum’. Hoc praedestinavit, ut habere[n]t potestatem filius dei fieri omnis qui credere voluisse[n]t … ‘secundum propositum voluntatis suae’. Non secundum merita nostra.

Questa breve osservazione introduce un complesso problema cui dedicheremo una sezione a parte del presente lavoro : quanto contano i meriti personali per ottenere la salvezza e quale relazione intercorre fra questi e il dono della grazia ? Vedremo a suo luogo come il pensiero di Pelagio a tal proposito sia, in questa prima fase della sua produzione, tutt’altro che chiaro e lineare ; per il momento, ci limitiamo ad osservare come, diversamente da quanto ci aspetteremmo visti i successivi sviluppi del suo pensiero, il nostro autore non dia espressione ad una visione unilaterale, in cui trovano spazio solo l’impegno e i buoni propositi dell’uomo, ma, inserendosi in una precisa tradizione esegetica, faccia propria una posizione in cui la volontà salvifica di Dio, autonoma ed indipendente dalla valutazione dei meriti umani, si armonizza con la libertà del singolo, che, scegliendo di credere, svolge un ruolo attivo nel cammino di redenzione. Trovare un punto di incontro fra questi due principi, gratuità della giustificazione e importanza dell’impegno dell’uomo, era operazione ardua e complessa : avremo modo di vedere come Pelagio, nel tentativo di tenere insieme questi due poli difficili da conciliare, sembri talvolta cadere in contraddizione con se stesso.  







2. 2. Rm 9, 10-15 Oltre ai versetti dell’Epistola ai Romani già analizzati, un altro passo che obbligava i commentatori a confrontarsi con il problema della prescienza e della predestinazione era Rm 9, 10-15. Per dimostrare come Dio non consideri eredi delle sue promesse quanti discendono da Abramo secondo la carne, ma quanti mostrano di aver fede nella Sua parola, Paolo ricorda la linea di discendenza da Abramo a Giacobbe, mettendo in luce come Dio scelga come erede delle sue promesse soltanto un figlio per ciascuna generazione ; Dio ha scelto Giacobbe e ha rifiutato Esaù prima ancora che nascessero e potessero compiere  

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qualsiasi azione morale, sebbene entrambi fossero figli di Abramo : l’episodio biblico serve a Paolo per dimostrare che la scelta di Dio non è basata sull’appartenenza o meno al popolo ebraico, e che di conseguenza i Giudei non possono vantare alcun privilegio di stirpe. Ancora una volta le parole di Paolo erano motivo di turbamento per gli interpreti : come può Dio amare Giacobbe ed odiare Esaù prima ancora che questi abbiano compiuto alcunché di valutabile dal punto di vista morale ? La riflessione sviluppata dai commentatori sulle caratteristiche della prescienza divina torna ora utile per spiegare l’episodio biblico : infatti, è sulla base della fede futura che Dio opera una scelta fra Giacobbe ed Esaù ancor prima della nascita. In proposito Pelagio non mostra dubbi :  









‘Non solum autem [illi], sed et Rebecca[e]’. Non solum Ismahel et Isaac qui, quamvis ex uno patre, [diversa tamen matre] sunt generati, non sunt unum aput deum, sed etiam Iacob et Esau qui ex uno sunt de Rebecca nati concubitu, ante quam nascerentur, apud deum fidei [futurae] sunt merito separati, ut propositum dei de elegendis bonis et refutandis malis etiam in praescientia iam maneret. Ita ergo et nunc quos praesciit de gentibus credituros, elegit, et ex Istrahel reiecit incredulos. 1  

È la fede a segnare il discrimine fra Giacobbe ed Esaù : 2 anche nella prescienza si conserva la giustizia di Dio, che sceglie i buoni e rifiuta i malvagi. Lo stesso principio è mantenuto per quanto riguarda i Giudei e i pagani : Dio sceglie quanti sa che crederanno, indipendentemente dalla stirpe. Allo stesso modo sono interpretate le parole che Dio rivolge a Mosè :    





‘Moses enim dicit : Miserebor cui misertus ero, et misericordiam praestabo cui misericordiam praestitero’. Hoc recto sensu ita intellegitur : illius miserebor quem ita praescivi posse misericordiam promereri, ut iam tunc illius sim misertus. 3  





Nell’offrire questa lettura dell’episodio di Giacobbe ed Esaù, Pelagio si attiene all’interpretazione offerta da quanti lo hanno preceduto, 4 e in particolar modo mostra una convergenza di vedute con Agostino, che non esita ad individuare nella fede il motivo dell’elezione di Giacobbe. 5 Come è noto, 6 Agostino cambierà le sue posizioni a partire dall’Ad Simplicianum : in quest’opera l’autore si chiede cosa impedisce a Dio, come prevede la fede futura, di prevedere anche le opere. 7 Tale dubbio lo porta a concludere che né le fede né le opere possono costituire l’elemento su cui si basa l’elezione da parte di Dio : come, prima di nascere, Giacobbe ed Esaù non potevano aver compiuto niente di bene o di male, così non potevano ancora credere. La fede si delinea non più come atto che pertiene al libero arbitrio dell’uomo, ma diviene anch’essa dono di Dio, così che i meriti della fede non precedono più la vocazione, ma ne divengono una conseguenza. 8 Ma se l’elezione non dipende né dalle opere né dalla fede, su quale base essa si eserciterà ? Di fronte a questa domanda Agostino non trova risposta ed è costretto a riconoscere il mistero insondabile dei piani di Dio. 9  

















1  Exp. in Rm 9, 10, p. 74 Souter. 2  Vd. Pel., Exp. in Rm 9, 11, pp. 74-75 Souter. 3  Exp. in Rm 9, 15, p. 75 Souter. 4  Vd. Ambst., Comm. in Rom 9, 11-13 (vd. supra, p. 171) ; ibid. 9, 15, csel 81/1, p. 319 ; vd. anche Orig., Expl. in Rom vii, 15 (vd. supra, p. 134). 5  Vd. Aug., Exp. prop. 52, 9-11 : Sed quoniam spiritus sanctus non datur nisi credentibus, non quidem deus elegit opera, quae ipse largitur, cum dat spiritum sanctum, ut per caritatem bona operemur, sed tamen elegit fidem. … Non ergo elegit deus opera cuiusquam in praescientia, quae ipse daturus est, sed fidem elegit in praescientia, ut quem sibi crediturum esse praescivit ipsum elegerit, cui spiritum sanctum daret, ut bona operando etiam aeternam vitam consequeretur. 6  Vd. Babcock, art. cit. ; Cipriani, L’autonomia, cit. 7  Vd. Ad Simpl. ii, 5, 8  Vd. Ad Simpl. ii, 7-9. 9  Vd. Ad Simpl. ii, 22.  







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Non è questa la sede per approfondire l’evoluzione del pensiero di Agostino riguardo al problema della predestinazione e della salvezza, argomento quanto mai complesso e ancora oggetto di discussione : ai fini della nostra analisi è stato importante porre in rilievo come Pelagio, affrontando il problema della predestinazione e della prescienza, non innovi, ma si inserisca in una precisa tradizione, rappresentata anche dai primi lavori esegetici di Agostino. Tuttavia il fatto che Pelagio accolga nella sostanza le proposte esegetiche di quanti lo hanno preceduto non significa che nel corso della trattazione non emergano posizioni che gli sono peculiari : come abbiamo avuto modo di valutare, anche il semplice fatto di privilegiare alcuni aspetti della questione, lasciandone in ombra altri, permette di cogliere il punto di vista che l’autore ha preferito assumere per affrontare il problema ; talvolta ci troviamo di fronte a brevi allusioni, che possono ad una prima lettura passare inosservate, ma che sono in grado di fornire, a mio giudizio, informazioni interessanti sui temi che più stavano a cuore a Pelagio. È il caso, ad esempio, del commento a Rm 9, 12 (p. 75 Souter) :  







‘Non ex operibus sed ex vocatione dictum est quia Maior minori serviet’. Praes[ci]entia dei [non] praeiudicat peccatori, si converti voluerit : dicit enim per [Hi]ezechiel : ‘si dixero peccatori : “morte morieris”, et ille conversus iustitiam fecerit, vita vivet et non morietur’.  





Un’affermazione così decisa del fatto che la prescienza di Dio non pregiudica il peccatore, impedendogli di convertirsi, se lo vuole, non si riscontra nelle fonti di Pelagio : è chiaro che egli avvertiva più di altri l’esigenza di sottolineare questo dato, mostrando già nelle Expositiones uno spirito ottimistico, che gli impedisce di considerare perduto per sempre un peccatore, una fiducia incrollabile nelle capacità dell’uomo, che, si converti voluerit, ottiene sempre un’ultima possibilità di salvarsi. La convinzione dell’immutabilità del giudizio divino, porta l’Ambrosiaster ad assumere posizioni più rigide ed una visione più severa : la distanza fra i due autori risulta particolarmente evidente se confrontiamo le parole di Pelagio con la seguente osservazione dell’Ambrosiaster :  





Incredulis tamen praedictis non valde dolendum, quia non sunt praedestinati ad vitam ; praescientia enim Dei olim istos non salvandos decrevit. Quis enim plangat eum, qui olim mortuus habetur ? 1  





Come abbiamo visto, per giustificare il caso di quanti da buoni divengono cattivi, o viceversa, l’Ambrosiaster è costretto ad elaborare la teoria delle due elezioni, una duratura, l’altra temporanea ; la visione di Pelagio è, se si vuole, più semplice : quanti peccano hanno sempre, se lo vogliono, la possibilità di redimersi, dal momento che Dio non esercita alcun condizionamento, ma si limita a prevedere le loro scelte future. Lo spirito ‘positivo’ di Pelagio emerge, a mio avviso, anche dal commento a Rm 11, 1-2 (p. 85 Souter), dove viene valutata la sorte del popolo d’Israele :  





‘Dico igitur : numquit reppulit Deus hereditatem suam ? Absit !’ … Non omnes, ait reppulit, nec semper, nisi [eos qui non credunt, et] quam diu non credunt.  





Si noti l’enfasi delle espressioni non omnes…nec semper : Dio non respinge tutti gli Israeliti, e anche quanti sono rifiutati, non sono allontanati per sempre, ma solo finché non credono. La vicenda del popolo ebraico assume un valore paradigmatico, insegnando come vi sia sempre una speranza per i peccatori.  

1  Comm. in Rom 9, 11-13, csel 81/1, p. 315.

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Per concludere, nel delineare il rapporto fra predestinazione, prescienza e libero arbitrio, Pelagio si attiene alla tradizione esegetica precedente, riconoscendo allo stesso tempo l’importanza dell’iniziativa di Dio, che chiama alla fede, e il libero arbitrio dell’uomo, che non è condizionato nelle sue scelte. Le Expositiones sono scevre, dunque, da quelle posizioni estremistiche che emergeranno nei successivi sviluppi del pelagianesimo, quando la libera volontà dell’uomo verrà celebrata ed esaltata al punto di offuscare il ruolo stesso della grazia divina. In questa sua prima opera, al contrario, Pelagio si fa promotore di una visione che tenta, non senza difficoltà, di salvaguardare il principio dell’autonomia umana, conciliandolo allo stesso tempo con il concetto di prescienza divina : in questo tentativo egli poteva ricorrere alla testimonianza degli esegeti che lo avevano preceduto, i quali avevano già percepito ed affrontato il problema. Rispetto ai suoi predecessori si nota soltanto in Pelagio la tendenza a porre maggiore enfasi sulle capacità dell’uomo e sulla possibilità che mai viene meno di pentirsi e riconciliarsi con Dio : la necessità di difendere la libera volontà dell’uomo è già uno dei problemi maggiormente avvertiti da Pelagio, un segno dei futuri sviluppi della sua riflessione.  



3. Il De induratione cordis Pharaonis A conclusione di questo capitolo, non possiamo non occuparci di un’opera dedicata proprio ai temi che abbiamo affrontato : il De induratione cordis Pharaonis. In un articolo pubblicato nel 1909, 1 Germain Morin rese noto di aver scoperto nel 1903 in un manoscritto conservato a Metz (ms. 26 della collezione Salis) e, successivamente, in altri cinque manoscritti, il testo del Liber de induratione cordis Pharaonis. Almeno cinque dei sei manoscritti recensiti da Morin attribuiscono l’opera a Gerolamo, ma il forte carattere pelagiano del trattato ci consente di escludere con certezza tale paternità. Da alcuni punti di contatto fra il De induratione e le Expositiones, che avremo modo di discutere fra breve, Morin ritenne di poter attribuire l’opera a Pelagio stesso o comunque ad un personaggio della sua cerchia, fissandone la composizione intorno al 408. Con una certa cautela lo studioso tentò anche di identificare i due personaggi menzionati all’inizio del trattato : l’autore, infatti, afferma di aver scritto l’opera sollecitato da un Christi minister e da un altro personaggio che disprezza il mondo e sotto la clamide conduce una vita da monaco (ille qui saeculum ridet et sub chlamyde monachum gerit). Morin ritenne che il primo fosse da identificare con Giuliano d’Eclano, che nel 408 era già diacono ed era divenuto discepolo di Pelagio, il secondo, invece, con Pammachio, di cui Gerolamo ci ha lasciato nell’epistola 66 un ritratto simile. 2 Quanto allo stile del trattato, Morin constatava come non presentasse niente di notevole, ma anzi fosse piuttosto mediocre ; 3 inoltre, lo studioso rilevava la difficoltà di identificare il testo biblico impiegato nell’opera, a causa dell’estrema libertà con cui la maggior parte delle citazioni sono fatte : queste non concordano, infatti, con nessuna delle versioni conosciute, e sono probabilmente fatte a memoria. Le uniche conclusioni che si possono trarre con certezza sono che l’autore non si è servito, per alcun libro del 







   



1  G. Morin, Un traité pélagien inédit du commencement du cinquième siècle, « Rben », 26, 1909, pp. 163-188. 2  Vd. Hier., Epist. 66, 6 : Quis hoc crederet ut consulum pronepos et Furiani germinis decus, inter purpuras senatorum furva tunica pullatus incederet, ut non erubesceret oculos sodalium, ut deridentes se ipse rideret ? 3  Vd. Morin, art. cit., p. 174.  







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la Scrittura, della Vulgata di Gerolamo e che la versione che egli ricorda segue il greco molto da vicino. 1 Come ha ricordato Nuvolone, 2 dopo un primo esame del trattato, de Plinval contestò la datazione ipotizzata da Morin, e in una lettera del 1932 indirizzata a quest’ultimo, suggerì di far risalire la composizione dell’opera al 424-430, anticipando così l’impressione di Fischer, che, oltre a negare l’attribuzione a Pelagio, data il De induratione al 428. 3 Nella lettera sopra citata, de Plinval esprimeva anche la convinzione che il De induratione non fosse un’opera originale di Pelagio : a suscitare la sua perplessità era soprattutto lo stile, piuttosto mediocre e caratterizzato da un periodare ampio e ridondante, lontano dalla coesione e dalla logica delle dimostrazioni pelagiane. A suo avviso, dunque, il trattato andava attribuito non a Pelagio, ma ad un suo discepolo. 4 Successivamente, tuttavia, lo studioso cambiò opinione : quando nel 1947 pubblicò per la prima volta il testo del De induratione in appendice al suo studio sullo stile e sulla lingua di Pelagio, 5 si dimostrò assolutamente convinto della paternità di Pelagio e retrodatò l’opera al 397-398. Alcune considerazioni avevano spinto de Plinval ad optare per questa datazione. In primo luogo egli si trovava a dover giustificare le profonde differenze fra lo stile e la lingua del De induratione e quelli delle opere sicuramente attribuibili a Pelagio. Infatti, le Expositiones e l’Ad Demetriadem presentano una lingua che può essere definita ‘classica’, sicuramente più regolare, più pura di quella di molti scrittori dell’epoca : i volgarismi, gli arcaismi sono accuratamente evitati, il periodare risulta sorvegliato, le espressioni impiegate sembrano scelte con cura. Niente di tutto questo si riscontra nel De induratione, dove lo stile appare impulsivo, trascurato, tanto da dare l’impressione di essere frutto di improvvisazione : de Plinval ipotizza che l’autore abbia dettato l’opera ad un segretario, e, lasciandosi trascinare dalla veemenza del discorso, si sia abbandonato a metafore strane ed incoerenti, a periodi interminabili, ricchi di termini tratti dalla lingua quotidiana, ellissi e anacoluti. 6 In base a questi elementi, lo studioso ipotizza che l’opera risalga ad un periodo anteriore alla fase ‘classica’ di Pelagio, ad un’epoca in cui egli non aveva ancora trovato gli schemi caratteristici e le formule tipiche della sua eloquenza. 7 Questo spiegherebbe, a suo avviso, anche le differenze che si possono constatare nell’esegesi di alcuni passi rispetto al Commentario, differenze che prenderemo in considerazione fra breve. Inoltre, de Plinval è portato a retrodatare l’opera dalla convinzione che l’autore ignori completamente sia il De principiis e il Commento alla lettera ai Romani di Origene, sia il Commento dell’Ambrosiaster. Infine, lo studioso ricorda che verso il 400 Paolino di Nola aveva inviato una lettera a Gerolamo in cui aveva chiesto chiarimenti sull’episodio dell’indurimento del cuore del Faraone e sul significato di Rm 9, 16 : non volentis neque currentis. 8 De Plinval ritiene plausibile che prima di rivolgersi a Gerolamo, Paolino abbia sottoposto all’attenzione di Pelagio le stesse difficoltà : il corrispondente che sollecitò la  



























1  Vd. Morin, art. cit., p. 180. 2  F. G. Nuvolone, Problèmes d’une nouvelle édition du De induratione Cordis Pharaonis attribué à Pélage, « REAug », 26, 1980, pp. 105-117, p. 115. 3  Vd. B. Fischer, Vetus Latina 1/1…Verzeichnis der Sigel für Kirchenschriftsteller, Freiburg, Herder, 1963, p. 397 : « nicht von pel, sondern von einem Pelagianer nach 428 ». 4  Per il testo della lettera, vd. Nuvolone, art. cit., p. 116. 5  Vd. G. de Plinval, Essai sur le style et la langue de Pélage suivi du traité inédit De induratione cordis Pharaonis, Fribourg, Librairie de l’Université, 1947 (« Collectanea Friburgensia », ns 319). 6  Vd. de Plinval, Essai, cit., p. 47 ; 126-131. 7  Vd. de Plinval, Essai, cit., pp. 133-134. 8  Vd. Hieron., Epist. 85, 2-3.  















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composizione del De induratione (ille qui saeculum ridet) sarebbe dunque da identificare con Paolino. La composizione dell’opera sarebbe così da collocare negli ultimi cinque anni del iv secolo, verso il 397-398. Questa data fu accolta da Martinetto, il quale in un articolo pubblicato nel 1971 1 avanzava l’ipotesi che il De induratione fosse stato composto dal giovane Pelagio in polemica con le posizioni espresse da Agostino nel De diversis quaestionibus ad Simplicianum, opera pubblicata nel 396, una polemica che, a suo avviso, sarebbe stata portata avanti anche nel Commentario. Tuttavia, la proposta di datazione avanzata da de Plinval non mi sembra fino in fondo convincente. La considerazione su Paolino di Nola resta una congettura non provata e non può essere, a mio giudizio, assunta come elemento discriminante per stabilire la data dell’opera ; quanto alle riflessioni sullo stile e la lingua, mi sembra che dall’analisi di Plinval emerga soprattutto la profonda distanza che separa il De induratione dalle altre opere di Pelagio ; i tentativi di giustificare questo dato attribuendo l’opera ad un periodo precedente la stesura delle Expositiones mi lasciano piuttosto perplessa, soprattutto perché, come ha osservato Eugene TeSelle, 2 il De induratione non sembra affatto estraneo all’interpretazione origeniana di Rm 9. Partendo da questa considerazione, TeSelle propose di datare l’opera al 405, proposta accolta da Nuvolone, il quale, sulla base di un confronto fra il De induratione e l’Epistula ad Demetriadem sull’uso di alcune espressioni, ritenne improbabile un’attribuzione a Pelagio. 3 La dipendenza del De induratione dal De principiis e dal Commento alla lettera ai Romani di Origene fu posta in evidenza anche da Frede : 4 anch’egli ritenne la paternità pelagiana dell’opera difficile da sostenere, mentre rilevò una forte affinità fra il De induratione e l’Explanatio in Canticum Canticorum di Apponio. Questo suggerimento fu accolto da Bernard de Vregille e Louis Neyrand, i quali, basandosi sulle affinità e le concordanze esistenti fra l’Explanatio e il De induratione, giunsero alla conclusione che le due opere sono attribuibili allo stesso autore, ovvero ad Apponio. 5 Supposero, inoltre, che il De induratione fosse precedente, dal momento, che, a differenza dell’Explanatio, 6 non usa il testo della Vulgata, e lo data 









   





1  Vd. G. Martinetto, Les premieres reactions antiaugustiniennes de Pélage, « REAug », 27, 1971, pp. 83-117. 2  Vd. E. Teselle, Rufinus the Syrian, Caelestius, Pelagius : Explorations in the prehistory of the pelagian controversy, « AugStud », 3, 1972, pp. 61-95. 3  Vd. art. cit., p. 117 ; Nuvolone riconfermò le propre posizioni nell’articolo Pélage et pélagianisme, contenuto in Dictionnaire de Spiritualité 12/2, 1986, col. 2923-2936. 4  Vd. H. J. Frede, Kirchenschriftsteller. Verzeichnis und Sigel, Freiburg, Herder, 1981, p. 478. 5  Vd. Apponius, In Canticum Canticorum Expositionem, ccsl 19, edited by B. de Vregille, L. Neyrand, Thurnolti, Brepols, 1986, pp. xcix-cv. I due autori confermano l’ipotesi anche in Apponius, Commentaire sur le Cantique des Cantiques, SCh 420, i, p. 37. 6  Nel Prologo Apponio dichiara che intende commentare il « Cantico dei Cantici » utentes exemplaria Hebraeorum, designando in questo modo la Vulgata del « Cantico », edita da Gerolamo nel 398 (vd. Apponius, In Canticum Canticorum Expositionem, cit., i, pp. 59 sg.). La datazione dell’Explanatio di Apponio non è sicura. J. Witte, basandosi sul catalogo degli eretici conosciuti da Apponio, faceva risalire l’opera ad un periodo compreso fra il 405 e il 415 (vd. Witte, Der Kommentar des Aponius zum Hohenliede, Junge, Herlangen, 1903, pp. 8-46). L’ipotesi fu ripresa da Vregille e Neyrand nella loro edizione per il ccsl : i due studiosi ritennero tuttavia improbabile che un testo così ricco di lodi per la pace Romana fosse stato scritto dopo il sacco di Roma da parte di Alarico e proposero dunque di datare il commento al 405-410. La data di composizione dell’opera fu successivamente oggetto di numerose ipotesi : la tendenza più comune presso i critici fu quella di attribuire la composizione del Commento alla metà del v, se non addirittura al vi secolo : il solo terminus ante quem è dato dal Commento di Beda In Canticum Canticorum, dell’inizio del vii secolo, che cita due volte l’Expositio di Apponio. Nella nuova  

























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rono agli anni 404-405, dopo la pubblicazione della traduzione di Rufino delle opere di Origene. Questa ipotesi è stata fermamente respinta da Carmine Iannicelli, il quale ritiene che l’autore del De induratione conoscesse la Vulgata, e che le poche somiglianze fra il De induratione e l’Explanatio di Apponio derivino non tanto dalla stessa mano, ma dal fatto che la fonte biblica utilizzata è la stessa. 1 Dopo questa breve introduzione volta a delineare lo status quaestionis, passiamo ad analizzare il contenuto dell’opera : un esame attento delle proposte esegetiche avanzate dall’autore può forse essere d’aiuto per capire quali rapporti intercorrono fra il De induratione, le Expositiones di Pelagio e l’opera esegetica di Origene, e quindi valutare le ipotesi di identificazione e datazione che abbiamo rapidamente passato in rassegna. Dopo un proemio in cui l’autore dichiara con modestia la propria imperitia nell’affrontare così complesse questioni, vengono indicati i cinque argomenti che saranno affrontati nell’opera : l’esegesi di Es 20, 5 (Reddam peccata patrum in filios in tertiam et quartam progeniem his qui oderunt me), il caso dell’indurimento del cuore del Faraone, l’episodio di Giacobbe ed Esaù, il significato dei vasi d’onore e disonore di cui si parla in Rm 9, 21, e infine il problema della prescienza e della predestinazione. 2 L’autore mostra subito la sua vis polemica, attaccando quanti, sotto un colore diverso, ristabiliscono il fatalismo dei pagani :  









Eis autem qui alio colore more gentilium fata inducunt, dicentes duas massas humanae naturae, bonam et malam, a Deo esse factas, et ita creatos nonnullos homines ut penitus emendare non possint, procul dubio displicere et eorum morsibus carpi et ubique lacerandos perquiri. 3  

TeSelle ritiene che in questo passo l’autore colga il legame che intercorre fra il tema della predestinazione e quello del peccato originale : egli accusa i sostenitori della teoria della predestinazione di voler reintrodurre la visione deterministica dei pagani, e mostra come ciò implichi la creazione da parte di Dio di due ‘masse’ di uomini, una buona e una malvagia, senza alcuna possibilità di mutare la propria condizione. TeSelle nota come tale nesso fra peccato originale e predestinazione sia tipico degli scritti più tardi di Agostino e sia anticipato nell’Ad Simplicianum dalla metafora della massa, in cui tutta l’umanità peccatrice è unita e da cui Dio trae a sua discrezione vasi d’onore e disonore. 4 L’autore del De induratione avrebbe dunque dimostrato un notevole acume, intuendo che la posizione espressa da Agostino nell’Ad Simplicianum poteva pericolosamente portare alla conclusione che Dio non vuole la salvezza di tutti gli uomini e Cristo non è morto per tutti. 5 Tuttavia, invece di pensare ad una sorta di ‘intuizione’ da parte dell’autore, non sarebbe forse più semplice ipotizzare che il De induratione appartenga ad un periodo più  





edizione per le Sources Chretiennes, Vregille e Neyrand riesaminarono alcuni argomenti portati nel 1986 e giunsero alla conclusione che non c’erano prove a sostegno di una datazione al 405-410 ; rimasero comunque persuasi che l’Explanatio di Apponio non poteva essere posteriore agli anni 420-430 (vd. Apponius, cit., i, pp. 11-120). 1  Vd. C. Iannicelli, Sull’attribuzione ad Apponio del (pseudo)pelagiano De induratione cordis Pharaonis. Contributo biblico-esegetico, « Vichiana », (4 s.) 2, 2000, pp. 201-224. 2  Per un’analisi del contenuto del De induratione si veda G. Caruso, L’Esegesi di Rm 9 nel Liber De Induratione, Atti del x Simposio Paolino, a cura di L. Padovese, Roma, Pontificia Università Antonianum, 2007, pp. 205-232. 3  De ind. 2. Nelle citazioni abbiamo utilizzato l’edizione di de Plinval, che seguiamo anche per la divisione in paragrafi. 4  Vd. De div. quaest. ad Simpl. ii, 20. 5  Vd. De ind. 35 ; 53.  







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tardo rispetto alla datazione proposta da TeSelle, cioè il 405, ad un periodo in cui Agostino aveva già avuto modo di precisare e sviluppare nel corso della controversia con i pelagiani il proprio pensiero riguardo alla predestinazione e al peccato di Adamo ? Non coglierei nell’immagine delle due ‘masse’ un riferimento diretto all’Ad Simplicianum, dove Agostino parla in realtà di una sola massa di peccatori ; sarei portata a vedervi più genericamente un tentativo di insinuare contro Agostino e i sostenitori della predestinazione l’accusa di manicheismo, accusa da cui il vescovo di Ippona si dovrà più volte difendere e che gli verrà mossa in particolar modo da Giuliano d’Eclano. 1 Mi convince, dunque, l’idea che l’obbiettivo polemico dell’autore del trattato possa essere Agostino, la cui figura sembra delinearsi dietro il riferimento a chi, sub gratiae colore, tenta di reintrodurre il fati dogma ; 2 tuttavia non ritengo che questo dato possa costituire una ragione per far risalire lo scoppio della controversia pelagiana addirittura ad un periodo anteriore al Commentario di Pelagio, come suggerisce Martinetto : 3 tale posizione si fonda sul presupposto che l’attribuzione del De induratione a Pelagio e la sua anteriorità rispetto alle Expositiones siano un dato certo. Dopo la presentazione degli argomenti che intende trattare, l’autore sviluppa una riflessione sulla legge naturale e la legge mosaica perfettamente in linea con le tesi di Pelagio : la legge mosaica è stata data come correctorium animarum, dopo che gli uomini, istigati dal demonio, avevano dimenticato la legge naturale allontanandosi da Dio. 4 Tuttavia, se la concezione di fondo è analoga a quella che Pelagio esprime nelle Expositiones, mi sembra che i termini e le immagini impiegati per illustrarla si discostino notevolmente da quelle che incontriamo nelle opere di Pelagio. Colpisce, in primo luogo, l’uso del termine correctorium, che è attestato per la prima volta nel De induratione e costituisce quasi un hapax. 5 Appare insolito, inoltre, il paragone fra l’uomo e la legge mosaica : come Dio ha creato l’uomo a Sua immagine, così ha caratterizzato la legge mosaica a immagine dell’uomo ; infatti, come l’uomo è costituito da due sostanze, anima e corpo, così la legge è stata scritta su due tavole : 6 si tratta di una riflessione che non si riscontra in alcuna opera di Pelagio. Il paragone viene ulteriormente sviluppato in maniera singolare : come dalla costola di Adamo Dio creò un altro essere umano, in modo che, pur essendo due, formassero una carne sola, così fece sorgere due Testamenti, il Vecchio e il Nuovo, derivando l’uno dall’altro, in modo tale che, pur essendo due, fossero in realtà uno solo per natura. 7 Si tratta di un’immagine inusuale per descrivere i rapporti fra i due Testamenti : abbiamo visto come gli esegeti ricorrano solitamente alla figura della crescita biologica dei vegetali, già attestata in Tertulliano, 8 cui fa riferimento anche lo stesso Pelagio nelle Expositiones. 9 L’idea secondo cui la legge è stata data in specie hominis, ad immagine dell’uomo, è ripresa al cap. 7, dove il paragone con il corpo umano serve a spiegare la presenza nella  





   

   











   











1  Vd. Aug., De nuptiis et conc. v, 15 ; C. duas epp. Pel. i, 5, 10 ; i, 6, 11 ; iii, 9, 25 ; iv, 3, 3 ; Opus Imp. i, 1-2 ; passim. 2  Vd. De ind., c. 53. 3  Vd. art. cit. 4  Vd. De ind., c. 3. 5  Il termine è attestato due volte nel De ind., oltre che nel passo citato, anche al c. 5 ; in seguito compare soltanto in Iust., Novell. 8, 8. 6  Vd. De ind., c. 3 : Et ita ad imaginem hominis singulis intelligentiae membris distinxit, sicut hominem ad suam imaginem fabricavit. Nam sicut e duabus materiis, anima et carne, hominem fecit, ita duabus tabulis porrectis Moysi corpus legis unius fuisse monstratur. 7  Vd. ibid., c. 4 : Et quemadmodum de costa viri alium hominem produxit (quia non sufficiebat unus ad ea quae exigebat voluntas artificis Dei) qui, etiam licet duo sint, caro una est ; ita duo testamenta aliu de alio productum geminavit, id est, novum de veteri, et tamen unum sunt per naturam … 8  Vd. supra, p. 51. 9  Vd. Exp. in 2Cor 3, 7, p. 247 Souter.  



















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legge di sensi reconditi : come nel corpo umano vi sono membra visibili e organi interni non visibili, così nella legge vi sono parti di immediata comprensione, e parti di significato oscuro e nascosto. 1 Questo confronto viene proposto in maniera insistita anche nei capitoli successivi ; l’impressione che ne deriva è che l’autore tenti faticosamente di esprimere un concetto, di sviluppare una riflessione su una materia che non padroneggia pienamente, risultando ripetitivo e pedante : niente di più lontano dalla lucidità e semplicità che caratterizzano le Expositiones. Un altro paragone inconsueto si trova al cap. 5 ; l’autore si chiede perché tutta la natura umana non sia stata corretta grazie alla legge dell’Antico e del Nuovo Testamento, e trova una risposta nel principio del libero arbitrio : come la materia di cui sono fatte le statue non può essere fusa, se non è gettata nel fuoco e posta in una fornace, così la natura umana, che è dotata di libero arbitrio, se non tende la mano alla grazia e non procede « con i piedi della volontà » per giungere alla fede, giace infranta e distrutta. 2 Colpisce in questa argomentazione l’uso di un termine tecnico come conflatorium, uno dei tanti che incontriamo nel De induratione 3 e che sono invece accuratamente evitati nelle opere di Pelagio ; inoltre, piuttosto ardita appare la metafora voluntatis pedibus ambulaverit, un esempio dello stile ridondante dell’opera, caratterizzata da un ricorso continuo ed eccessivo ad immagini ed allegorie : 4 una mancanza di misura ed equilibrio che lo stile di Pelagio non conosce. Al capitolo 10, finalmente, l’autore entra nel vivo della questione, affrontando le difficoltà poste dall’interpretazione di Es 20, 5 : come può Dio, che ogni giorno nella sua clemenza perdona i peccati personali (propria peccata), consentire che peccati commessi da altri (aliena peccata) ricadano su quanti ne sono estranei ? 5 La soluzione è trovata in un’esegesi un po’ semplicistica del passo biblico : il fine dell’affermazione di Es 20, 5 sarebbe solamente quello di incutere timore, affinché gli uomini, temendo di far ricadere i propri peccati sui figli, si tengano lontano dalle tentazioni. 6 Infatti, l’affermazione secondo cui i peccati dei padri ricadono sui figli va intesa secundum mysticam rationem, ovvero in senso figurato : i figli inclinano al vizio ex conversationis et consuetudinis malo, ovvero a causa di una cattiva educazione e dell’esempio negativo dato dai genitori ; perseverando poi nel peccato, ricevono giustamente la punizione divi 





















   















1  Vd. De ind., c. 7 : Haec ergo lex, per quam renovatur homo, qui peccati senectute fuerat et vetustate confractus vel criminum caligine infuscatus, quasi in specie hominis per Moysen data cognoscitur. Qui, cum sit unum corpus, multis ex membris compaginatum subsistere demonstratur ; et in ipsis membris alia sunt visibilia, alia autem invisibilia, hoc est intus posita intra viscera. Ita et lex, cum unum vocabulum sortiatur, secundum hominis similitudinem (ut dictum est) multa habere membra probatur : visibilia et invisibilia, lucidissima et magnis ac obscuris obtecta mysteriis. 2  Vd. c. 5 : Sed, si requiris, cur non omnis corrigatur humana natura ab eodem artefice per legem novi et veteris testamenti, quam uti correctorium animarum posuit artifex Deus, hoc nosse debemus quoniam, sicut supra dicta materia, unde funduntur statuae, nisi portata ad ignem et in conflatorio posita, fundi non potest, ita et humana natura creata probatur per arbitrii libertatem ; quae nisi porrexerit manum gratiae trahenti et voluntatis pedibus ambulaverit ut ad ignem fidei veniat, quo credat per se Christum ad pristinum decorem revocari, semper confracta et dissipata iacebit. 3  Vd. anche autotextrina (c. 39) ; formula (c. 3 ; 6) ; malleus ; rasorium (c. 40). 4  Vd., ad esempio, ad excoquendas sordes peccati igni passionis (c. 40) ; velut de antro ad lucem fidei (c. 21) ; de antro incredulitatis ad lucem notitiae (c. 34) ; ab omni scoria peccatorum excoctus (c. 40) ; iniustitiae sentinam de vasculo cordis exhauriendo (c. 50) ; e ancora : misericordiae poculum ; palatium scientiae ; aeruginem paupertatis ; satisfactionis rasorium ; caecitatis malleus ; ignis fidei ; peccati senectus ; ecc. 5  Vd. c. 10 : Nam quo modo possunt vel Dei clementiae convenire vel ita accipi (ut sonat historia) ut verax et nimis misericors Deus, qui pro peccatoribus et humanis se infirmitatibus inclinare non dedignatus est, aliena peccata in alios funderet, qui propria donat cotidie ? 6  Vd. c. 12 : Non ergo, ut iniustus, peccata patrum se dixit in filios reddere, sed ut vel sic territi desinerent homines a peccatis, ne malam hereditatem filiis derelinquerent…  

















































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na. 1 L’argomentazione sviluppata dall’autore appare perfettamente in linea con la dottrina pelagiana della trasmissione del peccato non tramite la riproduzione sessuale, ma tramite l’esempio negativo che, a partire da Adamo, gli uomini offrono, perpetuando di generazione in generazione la tendenza a trasgredire i precetti divini. Per conciliare tale concezione con le parole di Es 20, 5, l’autore avanza anche una proposta esegetica singolare, dove il passo biblico in questione viene interpretato alla luce di Gv 8, 44 (vos de patre diabolo estis et opera patris vestri perficere vultis) : l’affermazione di Es 20, 5 viene così intesa in senso metaforico, perché il padre, i cui peccati ricadono sui figli, non è che il diavolo, che istiga i suoi « figli », ovvero quanti cedono alle sue lusinghe, a ribellarsi a Dio ; in questo modo è eliminata del tutto l’idea di una colpa ereditaria che si trasmette per generazione. Nessun esegeta, a quanto mi risulta, pone in relazione i due passi biblici : l’autore del De induratione sembra muoversi in maniera autonoma nel difficile lavoro di esegesi della Scrittura, proponendo soluzioni personali, che finiscono tuttavia per ‘forzare’ il senso originale del testo sacro. Colpisce nel capitolo 12 anche la presenza delle espressioni propria peccata/aliena peccata, che, come abbiamo visto, si configurano quasi come ‘termini tecnici’ di uso obbligato quando si affronta il problema del peccato originale e la questione del tradux peccati : l’uso di queste espressioni non costituisce un dato utile per la datazione dell’opera, dal momento che tali termini sono impiegati nel corso di tutto il dibattito sul tradux peccati e si riscontrano già negli scritti di Cipriano. 2 A partire dal capitolo 13 viene affrontato l’episodio di Giacobbe ed Esaù, la cui chiave di interpretazione è subito individuata nel principio della prescienza di Dio, che ama quanti sa che gli rimarranno fedeli, e conosce in anticipio quanti invece si ribelleranno. 3 L’autore si sforza di dimostrare come la scelta di Dio non sia arbitraria : Giacobbe è stato preferito ad Esaù in virtù della sua superiorità morale ; infatti, la responsabilità dell’inganno perpetrato ai danni di Isacco viene fatta ricadere esclusivamente sulla madre Rebecca, che avrebbe convinto Giacobbe riluttante a sottrarre al fratello la benedizione paterna. Inoltre, Giacobbe ha riposto in Dio le sue speranze, mentre Esaù ha confidato con presunzione soltanto nelle proprie forze, ha rinunciato ai beni celesti per soddisfare i bisogni immediati del ventre (il riferimento è all’episodio in cui Esaù cede al fratello la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie), ed ha anche meditato di uccidere il fratello : 4 cogliamo in queste parole la stessa volontà di salvaguardare il principio della giustizia divina e della distinzione dei meriti che, come abbiamo visto, è difeso da tutti gli esegeti, e in particolar modo da Pelagio ; tuttavia, alquanto diversi risultano gli argomenti portati a sostegno di tale principio : nelle Expositiones a determinare il discrimine fra i due fratelli, e quindi l’elezione di uno e il rifiuto dell’altro da parte di Dio, è solo la fede : non si fa alcun riferimento al ruolo svolto da Rebecca o alle colpe di Esaù per mostrare la superiorità morale di Giacobbe ; se Dio accorda a quest’ultimo la Sua preferenza, è solo perché ha previsto che resterà saldo nella fede. Lo stesso argomento viene affrontato nelle due opere in maniera diversa : per quanto la visione di fondo sia la stessa, cambia notevolmente l’impianto argomentativo.  





















   











1  Vd. c. 12 : Nam secundum mysticam rationem recipiunt filii pro peccatis patrum, dum ex conversationis et consuetudinis malo in vitio seducuntur, et permanentes in peccatis vindictam per Dei patientiam aliquando recipiunt. 2  Vd. supra, p. 62. 3  Vd. c. 13 : Quam historiam dum exponit pie quaerentibus Dei praescientiam reddidit manifestam, quomodo Dei praescientia obaedientes se diligat, sustineat vero et praesciat contemptores. 4  Vd. c. 14.  



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Inoltre, risulta molto singolare il modo in cui l’autore del De induratione interpreta l’affermazione non est volentis neque currentis, che, come abbiamo visto, gli esegeti tentano di giustificare o attribuendola ad un oppositore dell’Apostolo, oppure ritenendo che Paolo volesse sottolineare come, perché un’azione vada a buon fine, sia necessaria una sinergia fra volontà dell’uomo e grazia divina. 1 L’autore del De induratione, invece, elabora una soluzione originale, che non trova riscontro in altre fonti : l’espressione non est volentis neque currentis non avrebbe valore generale, ma sarebbe riferita soltanto all’episodio di Giacobbe ed Esaù. Quest’ultimo, infatti, « ha voluto » e « ha corso » andando a caccia, per procurare cibo a suo padre e ottenere così la primogenitura, su cui non poteva avanzare più alcun diritto, dal momento che l’aveva spontaneamente ceduta per un piatto di lenticchie. 2 Anche Isacco, da parte sua, « voleva » dare la sua benedizione ad Esaù, ma solo perché questo, essendo abile nella caccia, gli procurava il cibo : le ragioni dell’uno e dell’altro sono ignobili, per questo il loro sforzo non viene premiato. Giustamente, quindi, l’Apostolo afferma che « non dipende da chi vuole e da chi corre », ma da Dio, cui spetta conferire il privilegio della primogenitura. 3 Così le parole dell’Apostolo sono ridotte ad un semplice ammonimento affinché gli sforzi dell’uomo siano sempre sostenuti da una buona volontà : in caso contrario, affannarsi per ottenere privilegi è assolutamente inutile, perché questi sono concessi da Dio secondo un criterio di giustizia. 4 L’autore offre senza dubbio un’interpretazione originale, ma piuttosto grossolana, dando l’impressione di non aver compreso e approfondito il significato del testo : riferendo l’espressione non est volentis neque currentis all’attività di caccia di Esaù, mostra una certa superficialità e una scarsa attenzione nell’esegesi scritturistica. Alcuni aspetti interessanti presentano anche i capitoli relativi all’indurimento del cuore del Faraone e ai vasi di onore e disonore. L’autore del De induratione ipotizza che a Rm 9, 16-20 l’Apostolo introduca la figura di un contraddittore per prevenire eventuali obiezioni che possono essergli mosse, 5 un’ipotesi avanzata, come abbiamo visto, anche da Origene, Pelagio e dall’Anonimo di Budapest. 6 Anche qui, tuttavia, sussistono delle differenze rispetto a Pelagio : mentre quest’ultimo ritiene che l’affermazione ergo cui vult miseretur Deus et quem vult obdurat sia da riferire all’interlocutore immaginario dell’apostolo, l’autore del De induratione ritiene che sia da attribuire a Paolo, che risponderebbe in maniera dura alle parole blasfeme pronunciate dal suo avversario : Dicis itaque mihi : ‘Quid adhuc queritur ? Voluntati enim eius quis resistit ?’. 7 L’affermazione  















































1  Vd. supra, pp. 125 sg. 2  Vd. c. 15 : Nam superiorem causam prosecutus Apostolus declarat, quicquid in Iacob et Esau contigit, quia voluit et cucurrit Esau per venationem, ut captura ferarum patri pulmentaria praepararet, quo saginatus [primatus] eum benedictionis munere honoraret. Hoc in bonis et malis posse compleri certissime noverimus, de quibus ait : ‘non est volentis neque currentis’. Sed qui periurus iam currebat, et volebat occupare primatus, quos iam cum iuramento sponte pro una esca amiserat, inanis cursus et mala voluntas fuit currentis … 3  Vd. c. 16 : Facit ergo causam duorum populorum, iustorum et impiorum, in Iacob et Esau magister Paulus, ut doceret nos, non hominem sed Deum primatus honoris conferre, et eum potiri, quem Deus, et non homo, elegerit. Nam electus erat a patre pro venationis labore Esau ; volebat pater, quem adeo primatem adspirabat ; currebat filius per venationem omni aviditate festinus, ut primatus, quos iam dudum amiserat, repararet … 4  Vd. c. 16 : Sed quia in suscipiendos primatus, dumtaxat ‘non est volentis’ patris Isaac, ‘neque currentis’ filii Esau ventri et gulae, ‘sed miserentis Dei’ virtus, in primo Iacob completa est, ut ex eo exemplo discamus a Deo et non ab homine sperare primatum. 5  Vd. c. 18 : Plerique igitur non intelligentes sensum Scripturae divinae et non credendo quaerentes offendunt in magistri Pauli sententiis in hoc loco vel maxime ubi de Pharaone seu de vasis honoris et contumeliae tractat, et quasi advocatus generat quaestiones et diversorum personas inducit. 6  Vd. supra, pp. 127 sg. 7  Vd. c. 18 : Quod non intelligentes nonnulli putant eum, ita ut dicitur, finisse sententiam, cum ait : ‘Ergo cui vult miseretur Deus et quem vult obdurat’, dum Paulus alium blasphemantem in hoc loco redarguat et revincat, cum ait : ‘Dicis  



















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di Paolo, così lontana dal sensus catholicus, è giustificata dalla volontà dell’Apostolo di redarguire aspramente un interlocutore interessato soltanto a polemizzare e non a conoscere la verità. Allo stesso modo è interpretato il passo di Rm 9, 20-21 : affermando che l’uomo non ha alcun diritto di replicare a Dio, come il vaso non ha il diritto di chiedere a chi lo ha fatto perché lo ha forgiato in un certo modo, l’Apostolo intende ridurre al silenzio chi, prima ancora di credere e di conoscere Dio, vuole metterne in discussione le opere. 1 Come abbiamo visto, questa opzione esegetica è contemplata da Pelagio, che prende però in considerazione anche l’ipotesi che il v. 20 sia da attribuire non a Paolo, ma ancora ad un oppositore. 2 A mio avviso, più che avere affinità con le Expositiones, i cc. 18 e 19 del De induratione sono stati influenzati soprattutto dal Commento all’epistola ai Romani di Origene : anche l’esegeta alessandrino, infatti, interpreta Rm 9, 20 come una risposta dura dell’Apostolo, provocata dall’arroganza di chi interroga. 3 Infatti, argomenta Origene, se a interrogare l’apostolo fosse stato un fidelis servus et prudens, un uomo veramente desideroso di apprendere, di intelligere et mirari sapientiam domini, di contemplare opera sapientiae Dei, 4 certamente la risposta di Paolo sarebbe stata diversa. Questa descrizione del comportamento del giusto, che non è mosso da spirito polemico, sembra ripresa e rovesciata dall’autore del De induratione per descrivere l’atteggiamento contrario, quello del contraddittore che, priusquam credat et agnoscat discendo qualis sit Deus, huius vult opera discutiendo agnoscere, quem scire non vult credendo, et antea vult eius actus et voluntatem intellegere. Altri punti di contatto fra il De induratione e il Commento di Origene sono stati posti in evidenza da TeSelle : 5 entrambi gli autori ricorrono a 2Tm 2, 20-21 per interpretare Rm 9, 21-24 6 ed entrambi insistono molto sul fatto che divenire vaso d’onore o disonore dipende dalla libera volontà di ciascuno ; 7 inoltre, l’autore del De induratione riprende evidentemente da Origine l’immagine del superbo contraddittore che, sine lumine credulitatis, pretende di entrare in palatium scientiae. 8 I rapporti fra il De induratione e il Com 











   



   



itaque mihi : ‘Quid adhuc queritur ? Voluntati enim eius quis resistit ?’ ; vd. anche c. 19 : Nam si ita, ut haeretici putant, credatur abrupte Paulus firmasse a Deo : ‘Cui vult miseretur et quem vult indurat’ -quod absit a catholico sensu- et non potius increpativus sermo est redarguens blasphemantem, finita est sententia bene currentium. 1  Vd. c. 18 : Ex ips or, ut supra dictum est, hius personam inducere Paulus probatur et cum eo agere videtur quoque legis mysteria, qui, non ad profectum animae, sed ad contentionem vel ad ostendendam verborum iactantiam cupit inquirere ; qui, priusquam credat et agnoscat discendo qualis sit Deus, huius vult opera discutiendo agnoscere, quem scire non vult credendo, et antea vult eius actus et voluntatem intellegere et iudex existere quam suum iudicem et factorem cognoscat. Huic ergo silentium imponit Apostolus dicendo : ‘O homo, tu quis es, qui respondeas Deo ? Numquid dicit figmentum ei qui se finxit : ‘Cur me ita fecisti ? An non habet potestatem figulus luti ex eadem massa facere aliud quidem vas in honorem, aliud vero in contumeliam ? Vd. anche c. 38. 2  Vd. supra, p. 132. 3  Vd. supra, p. 133. 4  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 15, p. 626 Bammel : Non puto autem quod si fidelis servus et prudens interroget, volens intelligere et mirari sapientiam domini, quod dicatur ei : ‘Tu quis es ?’ ; vd. anche ibid., pp. 626-627. 5  Vd. art. cit., pag. 84, n. 86. 6  Cf. Orig., Expl. in Rom vii, 15, pp. 626-627 Bammel e De ind. 46-48. 7  Cf. De ind. c. 40-41 e Orig. Expl. in Rom vii, 15, pp. 627-628 Bammel. 8  Vd. Orig., Expl. in Rom vii, 14, p. 620 Bammel : … haec ergo et his similia commoventi atque in huius se mysterii cubiculum protervius et importunius ingerenti cum increpatione dignissimae exclamationis occurrit et dicit : ‘o homo, tu quis es qui contra respondeas Deo ?’ quasi si diceret : tu quis es qui te in aulam regis immergis et interioris cubiculi ausus es secreta penetrare ? ; De ind. 36 : Poterat enim populo Israel misereri et Pharaonem non indurare, sed, ut dictum est, assumpta Apostolus eius persona redarguit, qui sine lumine credulitatis in palatium scientiae vult ingredi, et superbe discutienti potius quam discere cupienti huic respondet : o homo, tu quis es …  

















































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mento alla lettera ai Romani di Origene meriterebbero uno studio approfondito che in questa sede non è possibile affrontare ; tuttavia, le analogie fra i due testi che abbiamo avuto modo di porre in evidenza costituiscono già, a mio avviso, una prova sufficiente per affermare che l’autore del De induratione deve aver conosciuto l’opera esegetica di Origene : considerando che la traduzione latina del Commento ai Romani realizzata da Rufino è databile al 405-406, ritengo che non sia possibile accettare la proposta di de Plinval di far risalire il De induratione al 397-398. L’autore, dunque, non ignora la tradizione esegetica precedente ; tuttavia, allo stesso tempo, come abbiamo visto, non rinuncia a soluzioni personali, talvolta piuttosto cavillose. Ad esempio, risulta complessa la spiegazione che al c. 37 viene data delle parole voluntati eius quis resistit ? Nel tentativo di eliminare ogni interpretazione in senso deterministico delle parole di Paolo, viene proposta una lettura singolare : nessuno può resistere alla volontà di Dio che, contro la Sua prescienza, la Sua giustizia e la Sua onnipotenza, sola è stata in grado di ottenere che, nell’interesse di pochi giusti, si lasciassero sussistere innumerevoli peccatori. Dio, infatti, nella Sua prescienza, prima che l’uomo fosse creato, sapeva di quali crimini si sarebbe macchiato, tuttavia la Sua volontà è stata più forte, consentendo ugualmente la nascita dell’uomo ; per questo l’Apostolo può dire che nessuno è in grado di opporsi alla volontà di Dio. Un’altra spiegazione molto particolare viene data all’immagine dei vasi di onore e disonore, che è interpretata in chiave sociologica : alcuni si lamentano perché Dio dalla medesima carne ha tratto vasi d’onore, nobili e ricchi, e vasi di disonore, poveri e destinati a lavori umili ; così, uno ha avuto in sorte di essere un generale, un altro, invece, un soldato semplice, uno è un sacerdote del più alto grado, un altro è servitore del sacerdote, uno avanza coperto d’oro, un altro lavora faticosamente la terra. Lamentarsi delle differenze sociali non ha, tuttavia, alcun senso, dal momento che la condizione terrena non ha alcuna relazione con quella celeste : una cosa, infatti, è l’onore di questo mondo, un’altra quello celeste. Il Signore ha il potere di esaltare l’umile ed umiliare il superbo : le differenze terrene sussistono per soddisfare le mundiales necessitates, e sono dunque funzionali al mantenimento dell’ordine del mondo, ma ciò non impedisce che chi nella sua vita terrena è stato un vaso di disonore, raggiunga una condizione di santità in quella celeste. 1 Come ha osservato Giuseppe Caruso, 2 l’autore stabilisce una sorta di equazione fra santità e condizione di nobiltà : si tratta di una prassi tipica dei pelagiani, che nei loro scritti sembrano spesso aspirare alla creazione di una élite aristocratica, rispondendo alle esigenze della nobiltà, desiderosa di vivere secondo canoni distintivi di eccellenza. 3 Tuttavia nelle Expositiones Pelagio non sembra ancora attribuire a tali istanze un ruolo di primo piano : l’interpretazione in chiave sociale dei vasi di onore e disonore non trova nell’opera esegetica di Pelagio alcuno spazio. Non manca comunque anche nel De induratione un’interpretazione dei vasi di onore e disonore in senso morale : tramite le opere buone o cattive, in virtù del libero arbitrio con cui siamo stati creati, ciascuno può fare di se stesso un vaso di onore o disonore. 4  

































1  Vd. c. 39. 2  Vd., art. cit., p. 220. 3  Sull’argomento vd. J. M. Salamito, Les virtuoses et la multitude. Aspect sociaux de la controverse entre Augustin et les pélagiens, Grenoble, Millon, 2005 ; P. Brown, Pelagius and his supporters : aims and enviroment, « JThS », 19, 1968, pp. 93-114. 4  Vd. c. 40 : Nam, secundum rationem qua creati sumus per arbitrii libertatem, efficit se unusquisque vas honoris aut contumeliae, in quo aut actibus bonis Spiritus sanctus portetur aut malis diabolus teneatur inclusus.  









il libero arbitrio

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Dio inabita i vasi di onore, cioè i buoni ; abbandona, invece, quanti agiscono contro il Suo volere : al posto dello Spirito Santo subentra così il demonio, che riempie il cuore di ogni impurità. Dunque ognuno, con la propria solerzia o la propria ignavia, si procura, obbedendo a Dio, la vita eterna, obbedendo al diavolo, l’eterna dannazione. 1 Tale posizione è indubbiamente in linea con il pensiero di Pelagio ; tuttavia, ancora una volta, l’autore difetta di chiarezza e lucidità nell’affrontare l’argomento : l’esposizione è condotta faticosamente, gli stessi concetti sono più volti ripetuti, come se l’autore avesse difficoltà ad esprimerli, e talvolta vengono offerte interpretazioni diverse di uno stesso passo, creando nel lettore un senso di disorientamento. È il caso, ad esempio, del significato dato all’espressione Quod si volens Deus ostendere iram di Rm 9, 22 : mentre al capitolo 42 l’autore osserva che quest’ira non può essere quella di Dio, che è impassibile, ma deve essere quella che provano gli empi, che rinserrano in sé, senza darlo a vedere, la malvagità, al capitolo 44 l’ira che si manifesta è invece attribuita a Dio, che si vendica ponendo fine all’ingiustizia dell’empio. Quanto all’episodio del Faraone, colpisce l’uso insistito da parte dell’autore della metafora della massa luti per spiegare il fenomeno dell’indurimento : quando l’uomo rifiuta Dio, il diavolo si impossessa di lui e, ricorrendo a terrenis et luteis operibus, gli impedisce di pensare al suo Creatore. Così, il diavolo, una volta introdottosi nel cuore dell’uomo, tramuta il bonum naturae in lutum : Dio, provando orrore per questa massa luti che è divenuto il cuore dell’uomo, la scaglia nel fuoco, ovvero nega all’uomo la Sua protezione e lo abbandona al potere del demonio. Il fuoco, che rende splendente il cuore dei giusti, indurisce al contrario la massa fangosa in cui si è tramutato il cuore degli empi. 2 Dio, nella Sua prescienza, ha previsto che il cuore del Faraone, trasformatosi in lutum in conseguenza delle sue azioni malvagie, si sarebbe indurito a contatto con il fuoco della tribolazione, per questo ha detto che avrebbe « indurito » il cuore del Faraone. 3 Del resto il buono e il malvagio hanno origine dalla stessa materia, ma il giusto, credendo in Dio e riponendo in Lui ogni sua speranza, si trasforma in oro, degno di essere conservato fra i tesori del cielo. 4 Sono incline a cogliere in tutta questa argomentazione una risposta che l’autore del De induratione intende offrire alla concezione agostiniana della massa peccatorum : l’autore riconosce che tutti proveniamo da un’unica massa, ma insiste sul fatto che divenire oro o fango dipende esclusivamente da noi e dalle nostre scelte. Come abbiamo visto, 5 Agostino impiega l’immagine della massa gia nell’Expositio quarumdam propositionum ex Epistula ad Romanos, ma la svilupperà soprattutto nelle opere successive, facendone, nel corso della polemica pelagiana, la metafora privilegiata per descrivere la condizione dell’umanità peccatrice : la presenza di un riferimento alle posizioni di Agostino nel De induratione mi sembra un motivo per datare l’opera al periodo in cui la controversia raggiunse il suo acme, e non al contrario per anticipare, come fa Martinetto, alla fine del iv secolo lo scontro fra il vescovo di Ippona e i pelagiani.  































1  Vd. c. 41 : Efficitur nempe sua ignavia aut sua solertia unusquisque vas honoris vel contumeliae, et aptat se aut obaediendo Deo ad vitam aeternam, aut obaediendo diabolo ad aeternum interitum. 2  Vd. c. 29 : Ubi autem dederit dextram diabolo dicendo : ‘Nescio Deum’, accipit eum diabolus possidendum, qui terrenis et luteis operibus deprimendo nunquam suum factorem cogitare permittit, sicut evenit infelicissimo Pharaoni vel eius similibus. Cuius cordi insertus, limosis et cruentis facinoribus insidendo, bonum naturae ut aurum in lutum mutavit ; quod Dominus perhorrescens quasi massam luti de manu in ignem iactavit, id est, de sua protectione in diaboli potestatem verti permisit. 3  Vd. c. 32. 4  Vd. c. 33 : Iusti vero persona, qui auro adsimilatur, licet de materia terrae sumat originem sicut impius, Deum tamen caeli credendo et in eo spem suam ex toto corde ponendo, aurum efficitur, in caelorum thesauris conservandus. 5  Vd. supra, pp. 87-88.  









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capitolo 4

Per concludere vorrei segnalare un’altra differenza nell’esegesi del testo paolino fra l’autore del De induratione e Pelagio, una differenza a mio avviso non trascurabile. Al capitolo 49, trattando della predestinazione, l’autore del De induratione intepreta l’espressione secundum propositum vocati sunt di Rm 8, 28, intendendo per propositum non la volontà di Dio, ma la buona volontà di coloro che sono chiamati e rispondono all’invito di Dio restando saldi nella fede. 1 Come abbiamo visto, 2 tale lettura, che fa dell’uomo l’attore principale nel processo di salvezza, era stata proposta da Origene, ma non viene accolta da Pelagio nelle Expositiones, dove per propositum si intende la volontà salvifica di Dio : diversamente da quelli che saranno gli sviluppi successivi del suo pensiero, nel Commento ai Romani Pelagio non elabora ancora una visione unilaterale, dove trova spazio solo l’iniziativa umana, ma tenta di armonizzare volontà divina e libero arbitrio. Ora, se il De induratione fosse precedente alle Expositiones, bisognerebbe ipotizzare che Pelagio, dopo aver espresso una concezione estremista, che riconosce nella buona volontà dell’uomo l’elemento essenziale alla salvezza, avesse ripiegato su un atteggiamento più cauto, per poi tornare di nuovo ad esprimere le sue idee originali, il che, se non può essere del tutto escluso, mi sembra quanto meno poco probabile. Per quanto sia difficile esprimersi con certezza sull’argomento, sulla base dei dati che abbiamo raccolto e analizzato si può a mio avviso escludere che il De induratione sia precedente alle Expositiones. Quanto all’ipotesi che le due opere siano contemporanee e appartengano allo stesso autore, restano da spiegare le profonde differenze che abbiamo riscontrato non solo nello stile, ma anche nelle proposte esegetiche : non ritengo, infatti, che il diverso genere a cui le due opere appartengono sia sufficiente a giustificare gli elementi di diversità. L’ipotesi più probabile è a mio avviso che il trattato sia da attribuire ad un pelagiano, forse un discepolo che ha recepito gli insegnamenti del maestro, rielaborandoli spesso in maniera confusa ; l’autore conosce la tradizione esegetica precedente, e in particolar modo Origene, ma l’esigenza di conciliare le parole di Paolo con le proprie convinzioni lo spinge talvolta a cercare nuove interpretazioni, spesso bizzarre o quanto meno insolite. Quanto alla datazione, sarei propensa a far risalire l’opera al periodo successivo allo scoppio della controversia nel 411 : con tutte le cautele richieste dal caso, si può forse suggerire una data successiva al 418, quando la maggior parte delle opere composte da Agostino contro i pelagiani aveva già visto la luce e il vescovo di Ippona aveva già pienamente espresso le proprie posizioni sulla grazia e sul libero arbitrio.  











1  Vd. c. 49 : Sed his prodesse tantum modo vocationem, qui secundum propositum suae bonae voluntatis erint advocantem et venientes perstiterint in sua vocatione. Hi sunt utique qui vere diligunt Deum, qui sive in prosperis sive in adversis sint constituti, nunquam ab eo declinando contristant Deum auctorem suum sed idem semper sunt … praesciti vera et non ficta dilectione diligere Deum, quibus omnia adversa cesserunt in bonum, qui secundum propositum suae voluntatis vocati sunt, praedestinati sunt conformes fieri Christo, in praedicando salutis remedia humanae naturae. 2  Vd. supra, pp. 140-141.  

Capitolo 5 GRATIA : IL PROBLEMA DELLA GIUSTIFICAZIONE E DELLA SALVEZZA  

C

ome è noto, uno dei temi più dibattuti durante la controversia pelagiana fu il modo di concepire la grazia divina. Il problema risultava di particolare gravità, in quanto strettamente connesso con alcuni degli elementi fondanti della dottrina cristiana : il rapporto fra l’uomo e Dio, il libero arbitrio, il ruolo di Cristo nella storia della Salvezza, la Redenzione. Non stupisce, dunque, che il concetto di grazia divenisse il principale terreno di scontro fra i seguaci di Pelagio e Agostino, per il quale un’errata interpretazione di tale principio poteva compromettere il valore e il significato stesso della morte e della resurrezione di Cristo. Il vescovo d’Ippona espresse in varie opere forti riserve sulla concezione pelagiana della grazia, che egli riteneva non conforme all’insegnamento della Chiesa. I suoi motivi di perplessità sono riassunti in un passo del De gratia Christi, opera databile al 418 :  



‘Legant’, inquit (sc. Pelagius), ‘illam epistulam, quam ad sanctum virum Paulinum episcopum ante duodecim fere annos scripsimus, quae trecentis forte versibus nihil aliud quam Dei gratiam et auxilium confitetur, nosque nihil omnino boni facere posse sine Deo’. Hanc ergo epistulam legi et inveni eum paene per totam non immorari nisi in facultate ac possibilitate naturae et paene ibi tantum Dei gratiam constituere ; christianam vero gratiam tanta brevitate sola nominis commemoratione perstringit, ut nihil aliud videatur quam eam tacere timuisse. Utrum tamen eam in remissione peccatorum velit intellegi an etiam in doctrina Christi, ubi est et conversationis eius exemplum, quod aliquot locis suorum opusculorum facit, an credat aliquod adiutorium bene agendi adiunctum naturae atque doctrinae per inspirationem flagrantissimae et luminosissimae caritatis non apparet omnino. 1  



Purtroppo, la lettera in questione, scritta da Pelagio a Paolino di Nola, non ci è pervenuta : stando alla testimonianza di Agostino, Pelagio era solito citarla come prova della sua ortodossia riguardo alla questione della grazia ; tuttavia, il vescovo di Ippona riteneva che in tale lettera l’autore riducesse la grazia solo alla remissione dei peccati e all’esempio di Cristo, senza coglierne il vero significato : Pelagio non avrebbe fatto, in questo scritto, alcun riferimento ad un aiuto a fare il bene che si aggiunge alla natura umana e all’esempio offerto da Cristo per l’ispirazione di un’ardente e luminosa carità. Nel De gestis Pelagii, opera databile al 417 in cui Agostino offre un resoconto dettagliato del sinodo di Diospolis del 415, l’autore sostiene che Pelagio ha ingannato i vescovi chiamati a giudicarlo, dando l’impressione di riconoscere la grazia divina ; in realtà, secondo il vescovo di Ippona, Pelagio ha della grazia una concezione errata, come testimonia un passo del suo trattato De natura : 2  







   

… apertissime expressit ‘hanc se dicere Dei gratiam, quod possibilitatem non peccandi natura nostra cum conderetur, accepit, quoniam condita est cum libero arbitrio’. 3  

1  Aug., De gra. Christi 35, 38. 2  L’opera purtroppo è andata perduta, restano soltanto alcuni frammenti conservati grazie alle citazioni di Agostino, che ne era venuto a conoscenza tramite due discepoli di Pelagio, Timasio e Giacomo (vd. Aug., Epist. 179, 2 ; 177, 6). 3  Aug., De gestis 10, 22.  

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capitolo 5

Per Pelagio, dunque, la grazia consisterebbe semplicemente nel potere di non peccare ricevuto dalla nostra natura al momento della sua creazione, quando essa fu dotata di libero arbitrio. Tale concezione è fermamente rifiutata da Agostino, per il quale la grazia è lo spirito che vivifica (spiritus vivificans), e non coincide con la natura, ma, piuttosto, pone rimedio alla debolezza e alla corruzione della natura causate dal peccato originale ; 1 la grazia, dunque, non può essere la nostra natura dotata di libero arbitrio né la scienza della Legge né soltanto la remissione dei peccati, ma è l’aiuto che dobbiamo invocare per compiere ogni nostro singolo atto : 2 l’accusa che Agostino volge a Pelagio è quella di riconoscere la grazia che crea la natura umana, ma non quella che la riabilita, 3 di limitare la misericordia di Dio soltanto al perdono dei peccati passati, senza ritenere necessario il Suo aiuto per evitare quelli futuri. 4 Ma i dubbi di Agostino non si esauriscono qui ; nel De gestis egli esprime un’altra perplessità :    

   









Cum ergo non ait (sc. Pelagius) donare Deum cui voluerit, sed ait ‘donare deum ei, qui fuerit dignum accipere, omnes gratias’, non potui, cum legerem, non esse suspiciosus. Ipsum quippe gratiae nomen et eius nominis intellectus aufertur, si non gratis datur sed eam qui dignus est accipit. 5  

Agostino è convinto che Pelagio non riconosca la completa gratuità della grazia, ma ritenga piuttosto che questa sia concessa in base ai meriti ; il fatto che egli abbia anatematizzato l’affermazione del suo discepolo Celestio, Dei gratiam secundum merita nostra dari, non convince il vescovo di Ippona : Pelagio, a suo avviso, non è stato chiaro su questo punto, ma si è contraddetto nel momento in cui ha sostenuto che l’Apostolo ha ottenuto tutti i carismi perché era degno di riceverli. 6 Le accuse e le perplessità di Agostino riguardo alle posizioni dell’avversario, che abbiamo brevemente ricordato, ci consentono di avere un quadro chiaro di quali fossero i principali motivi di scontro durante la controversia : nel volgerci ad indagare le origini del pensiero di Pelagio sarà importante tenere presenti le idee che egli sostenne successivamente ; questo dato ci consentirà, infatti, di constatare se vi sia stata una evoluzione nella sua concezione della grazia, oppure se già nelle Expositiones fossero presenti e pienamente sviluppati gli aspetti in seguito più contestati della sua teologia.  









1. La presenza del concetto di gratia nelle Expositiones Nella nostra analisi tenteremo di comprendere e ricostruire come sia affrontato il problema della giustificazione nelle Expositiones : in particolar modo ci concentreremo sull’uso del termine gratia e sui significati che questo viene ad assumere nelle brevi riflessioni di Pelagio sul testo paolino. 7 Come vedremo, proprio la tendenza dell’autore  



1  Vd. Aug., ibid. 7, 20. 2  Vd. ibid. 31, 56. 3  Vd. Aug., De natura et gratia 53, 62. 4  Vd. ibid. 34, 39. 5  Aug., De gestis 14, 33. 6  Vd. Aug., De gestis 17, 40. 7  Sul problema della grazia nella controversia pelagiana e, in particolar modo, nel pensiero di Pelagio, la bibliografia è vastissima, ci limitiamo a ricordare le opere più importanti : J. J. Dempsey, Pelagius’s Commentary, cit. ; R. Pirenne, La morale de Pélage. Essai historique sur le role primordial de la grace dans l’einsegnement de la théologie morale, Roma, Pontificia Universitas Lateranensis, 1961 ; J. Rivière, Hétérodoxie des Pélagiens en fait de Rédemption ?, « rhe », 41, 1946, pp. 5-43 ; T. Bohlin, Die Theologie de Pelagius und ihre Genesis, Uppsala, Acta Universitatis Upsaliensis, 1957 ; Valero, Les bases, cit. ; J. P. Burns, The interpretation of Romans in the pelagian controversy, « AugStud », 10, 1979, pp. 43-54 ; Ferguson, Pelagius, cit. ; G. Greshake, Gnade als konkrete Freiheit : eine untersuchung zur Gnadelehre des Pelagius, Mainz, Grunewald, 1972 ; J. Wetzel, Snares of truth. Augustine on  





























gratia : giustificazione e salvezza

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alla concisione e l’incertezza in molti casi della tradizione testuale ci porranno di fronte ad alcuni problemi di interpretazione, che cercheremo di approfondire, avanzando, dove possibile, proposte di soluzione. Abbiamo già avuto modo di osservare l’importanza che Pelagio attribuisce all’exemplum Christi nel processo di giustificazione : vive veramente in Cristo e ottiene la salvezza chi ascolta i Suoi insegnamenti e imita la Sua vita. 1 L’imitazione di Cristo è uno dei temi più insistiti e ricorrenti delle Expositiones, un aspetto che evidentemente sta molto a cuore all’autore ; 2 vista la particolare attenzione di Pelagio alle esigenze di esortazione morale questo dato non ci sorprende : portare Cristo a modello da seguire, significava sollecitare i propri fedeli ad esercitarsi continuamente sulla via della perfezione. La necessità di esaltare il principio dell’imitazione di Cristo spinge l’autore ad affermare nel commento a Col 2, 6 (p. 458) : exemplum Christi vobis sufficit ad vitam. Una simile dichiarazione sembra convalidare le accuse di Agostino : se il solo esempio di Cristo è sufficiente alla salvezza, il ruolo della grazia non è contemplato. Tuttavia, nelle Expositiones il pensiero di Pelagio non appare di così facile lettura : numerosi passi, molti dei quali di incerta tradizione testuale, suggeriscono una visione più complessa. Iniziamo la nostra riflessione proprio con l’analisi di alcuni passi sui cui la tradizione manoscritta non risulta concorde. Commentando Rm 8, 3 (pp. 60-61 Souter), Pelagio offre una brevissima nota sull’impossibilità per la legge mosaica di giustificare gli uomini e di liberarli dai desideri carnali :  



   











‘Nam quod inpossibile erat legis’. Ut homines carnales faceret custodire iustitiam, mortificandae carnis nec exemplo dato [nec gratia].

L’espressione nec gratia è omessa dal Codex Balliolensis (B) e attestata, invece, dall’Augiensis (A). Siamo di nuovo di fronte ad un caso in cui accettare l’una o l’altra lezione condiziona fortemente la nostra analisi del pensiero dell’autore ; se, infatti, accogliamo il testo tradito da B, allora Pelagio individuerebbe soltanto nell’esempio di Cristo il principio tramite cui gli uomini carnali sono resi capaci di conservare la giustizia, ovvero il principio stesso della giustificazione. Certamente, questa versione del testo è quella che appare più consona alla dottrina pelagiana della giustificazione, così come essa viene delineata da Agostino nelle sue opere polemiche : l’autore darebbe risalto soltanto all’exemplum Christi, seguendo il quale gli uomini sono in grado di conservarsi giusti, senza tenere in alcun conto il ruolo svolto dalla grazia divina nel processo di redenzione. Tuttavia, prima di optare per questa soluzione, che sembra la più logica in quanto maggiormente in linea con le posizioni pelagiane, è opportuno prendere in considerazione altri due passi, che risultano particolarmente importanti. Il commento a Rm 4, 6 (p. 36 Souter) presenta un analogo problema di tradizione testuale :  





‘Sicut et David dicit beatitudinem hominis. Magna beatitudo est sine labore legis et paenitentiae domini [gratiam] promereri, sicut si quis [inter homines] aliquam dignitatem gratis accipiat. free will and predestination, in Augustine and his critics, essays in honour of Gerald Bonner, edited by Robert Dodaro and George Lawless, London and New York, Routledge, 1999. 1  Vd. Exp. in Gal 4, 19, p. 327 Souter ; ibid. 2, 20 p. 316 Souter. 2  Vd., ad esempio, Exp. in Rm 3, 21, p. 32 Souter ; ibid. 8, 32, p. 69 Souter ; Exp. in 2Cor 5, 18, p. 261 Souter ; Exp. in Col 2, 6, p. 458 Souter ; Exp. in 2Tim 1, 9-10, pp. 508-509 Souter.  









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capitolo 5

Il termine gratiam è omesso ancora una volta in B, mentre risulta attestato in tutti gli altri codici : in questo caso, tuttavia, ritengo necessario accogliere gratiam nel testo, altrimenti il verbo promereri resterebbe privo di complemento oggetto ; inoltre, in questo modo, si viene a creare una sorta di gioco di parole con il gratis successivo, che rende il paragone stabilito dall’autore ancora più appropriato. La stessa situazione si riscontra nel commento a Rm 7, 24 (p. 60 Souter) :  





‘Infelix ego homo ! Quis me liberabit de corpore mortis huius’. Ego qui sic detineor, quis me liberabit de consuetudine mortifera corporali ? ‘Gratia dei per Iesum Christum dominum nostrum’. [Gratia liberat] quem lex non potuit liberare.  



Anche in questo caso è B ad effettuare l’omissione : il commento a Rm 7, 24 può costituire una riprova della tendenza di B ad eliminare dal testo ogni riferimento alla grazia divina ; i passi riportati confermano, a mio avviso, la posizione di De Bruyn che abbiamo più volte ricordato : 1 le omissioni presenti in B sono forse da attribuire ad un pelagiano che avrebbe effettuato una revisione del Commento con l’intento di eliminare le espressioni non in linea con gli sviluppi successivi del pensiero del maestro. Sulla base delle osservazioni fatte, sarei dunque propensa ad accogliere l’espressione nec gratia anche nel commento a Rm 8, 3 : in questo passo Pelagio non farebbe riferimento soltanto all’esempio di Cristo, ma anche alla grazia come sostegno indispensabile all’uomo nella via della perfezione. Entrambi i concetti, gratia ed exemplum, sono presenti nel commento a Rm 6, 14 (p. 52 Souter), la cui comprensione risulta complicata ancora una volta dall’incertezza del testo a nostra disposizione :  



   





‘Peccatum, inquit, non dominabitur in vobis : non enim estis sub lege’. Non vos vincet peccatum : non enim estis parvuli, sed perfecti… ‘Sed sub gratia’. Gratia[m] vincendi et doctrinam praebuit [et] exemplum [, insuper et virtutem per spiritum sanctum].  



L’accusativo gratiam e l’espressione insuper et virtutem per spiritum sanctum sono attestati da A e da E, mentre il nominativo gratia è presente in B. Nel suo studio sul Commento di Pelagio, Dempsey riteneva necessario accogliere nel testo gratia al nominativo : in tal modo il verbo praebuit non sarebbe risultato privo di soggetto ; tuttavia, tale scelta imponeva allo studioso un’interpretazione poco perspicua delle parole di Pelagio : egli riteneva, infatti, che per gratia si dovesse intendere la Nuova Legge, che offre la dottrina e l’esempio, dai quali il peccato è vinto. 2 Una simile traduzione, oltre a non rendere ragione del testo latino, dove vincendi è chiaramente da riferire al termine che precede, risulta a mio avviso non accettabile dal punto di vista logico e teologico : forse Dempsey si è lasciato fuorviare nell’interpretazione di questo passo dall’intento di dimostrare come in Pelagio non sia possibile trovare alcuna traccia della dottrina della grazia santificante. A mio avviso, il testo risulta più chiaro se accettiamo la lezione di A ; è vero che in tal caso praebuit non presenterebbe un soggetto esplicito, tuttavia questo può essere dedotto dal commento ai versetti precedenti, dove l’autore insiste sulla necessità di se 











1  Vd. supra, pp. 12 ; 78-79 ; 126. 2  Vd. Dempsey, Pelagius’s Commentary, cit., p. 55 : l’opera è datata, ma è l’unica ad oggi che presenti uno studio teologico incentrato unicamente sul Commento di Pelagio.  





gratia : giustificazione e salvezza

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guire l’esempio di Cristo. 1 Dunque, ad offrire la doctrinam e l’exemplum è il Cristo, che, a mio avviso, costituisce il soggetto sottinteso di praebuit. Tale interpretazione sembra confermata da quanto Pelagio stesso afferma poco dopo, nella breve nota a Rm 6, 18 (p. 52 Souter) :  



‘Nunc vero liberati a peccato, servi fac[ti] estis iustitiae. In doctrin[a] e[t] exemplo Christi, qui non solum peccata sed etiam occasiones auferri docuit delictorum.

L’azione del Cristo non si limita soltanto all’insegnamento e al fatto di offrire un modello di comportamento, Egli dona anche la gratiam vincendi, ovvero la grazia di resistere alle tentazioni e vincere il peccato. Che Pelagio riconosca entrambi questi aspetti dell’azione salvifica, risulta evidente da una brevissima glossa a 1Thess 5, 23 (p. 437 Souter) : ‘Deus pacis santificet vos per omnia’. Gratia vel doctrina sua. L’osservazione è troppo concisa per consentire speculazioni sul pensiero di Pelagio a proposito della grazia, ma presenta ugualmente, a mio avviso, una sua importanza nella misura in cui testimonia la presenza di due piani ben distinti : in questa breve nota l’autore non riduce la gratia alla doctrina, all’insegnamento di Cristo, ma tiene separati i due aspetti. Si vengono così a costituire due poli, due elementi che agiscono in concomitanza nel processo di santificazione : l’esempio, o l’insegnamento (exemplum ; doctrina), e la gratia. Nelle Expositiones Pelagio sembra insistere con particolar forza sull’esistenza di questi due piani : espressioni analoghe a quella riscontrata in 1Thess 5, 23 risultano nella sua opera piuttosto frequenti. 2 Particolarmente significativo a tal proposito è il commento a 2Cor 3, 3 (p. 244 Souter) :  













Omnibus manifestum est Christo vos per nostram credidisse doctrinam, confirmante per virtutem Spiritu Sancto.

In questo passo la fede in Cristo è il traguardo di un percorso che gli uomini intraprendono ascoltando l’insegnamento della parola di Dio e ricevendo allo stesso tempo un sostegno tramite l’azione potente dello Spirito Santo. In maniera analoga, nel commento a 1Cor 4, 7 (p. 147 Souter) quanto l’uomo ha in sé di buono è considerato o conseguenza di un processo di apprendimento o dono di Dio :  

‘Quid, ait, habes quod non accepisti ?’ Quid enim boni ex temet ipso habes quod a nullo didiceris vel Dei dono [minime] consecutus sis ?  



La presenza del concetto di gratia in concomitanza con l’idea dell’exemplum Christi è dunque ben attestata nelle Expositiones ; la vera difficoltà consiste, casomai, nel cogliere il significato che il termine veicola : a tal proposito cercheremo di indagare, per quanto consente la brevità dei commenti, quale contenuto l’autore attribuisse al termine gratia e quale relazione intercorresse fra questa e la doctrina o exemplum Christi.  



1  Vd. Exp. in Rm 6, 11-12 p. 51 Souter : ‘Ita et vos existimate mortuos vos quidem [esse] peccato, viventes autem deo in Christo Iesu’. Quasi membra eius, semel vos scitote commortuos, debere iam semper vivere deo in Christo, in quo vita nostra absconsa est aput deum, quem induti eius sequamur exemplum. ‘Igitur non regnet peccatum in vestro mortali corpore, ad oboediendum illi’. In corpore mortali vivite ut immortales : quo modo [autem] regnet in corpore peccatum exposuit, per oboedientiam scilicet et consensum. 2  Vd., ad esempio, Exp. in 2Cor 1, 21, p. 237 Souter : ‘Qui autem confirma[vi]t nos vobiscum Christus dominus’. Gratia et doctrina ; et quia dixerat per nos, modo ostendit deum totum facere, qui in eis ista omnia est operatus ; Exp. in 2Thess 3, 3, p. 448 Souter : ‘Qui confirmavit vos et custodiet a malo’ In fide per doctrinam et gratiam ; Exp. in Eph 6, 10, p. 382 Souter : ‘Confortamini in domino et in potestate virtutis eius’. In exemplo Domini et [in] virtute.  















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capitolo 5 2. I significati di gratia nelle Expositiones : perdono dei peccati, riconciliazione con Dio, adiutorium  

Per indagare i vari aspetti che il concetto di gratia presenta nelle Expositiones, sarà utile soffermarci sul modo in cui l’autore presenta la figura del Cristo. Infatti, anche se ad essere posta al centro dell’attenzione, per i motivi che abbiamo ricordato, è soprattutto la vita del Salvatore, con i Suoi insegnamenti e il modello di comportamento che offre, il significato della Sua morte e resurrezione non è ignorato. Che per Pelagio l’azione redentrice del Cristo si attui non solo tramite l’esempio che Egli dà con la Sua condotta, ma anche mediante il mistero della Sua morte, risulta evidente dal commento a 1Cor 15, 57 (p. 226 Souter) :  

‘Deo autem gratias, qui dedit nobis victoriam per dominum nostrum Iesum Christum !’ Victoriam illius peccati in quo lex per carnem nostra voluntate fuerat infirmata, quam Christus cruce et exemplo destruxit.  

Ancora più significativa è la nota a Rm 5, 10 (pp. 44-45 Souter) :  

‘Multo magis reconciliati salvi erimus in vita ipsius’. Si per mortem Christi salvati sumus, quanto magis in eius glorificabimur vita, si eam fuerimus imitati !  

In questo passo la salvezza dell’uomo è ricondotta chiaramente alla morte di Cristo, che si delinea come presupposto stesso della redenzione : ad essa si aggiunge l’imitazione della vita del Salvatore, che consente all’uomo il raggiungimento della gloria in comunione con il Cristo. Degno di nota è, a questo proposito, anche il commento a 1Cor 1, 25 (p. 135 Souter) :  



Quod stultum putatur Dei, omnem humanam sapientiam antecedit, quia sapientia sua liberari non poterant qui per crucis mysterium sunt salvati.

Con una presa di posizione che da lui non ci aspetteremmo, Pelagio esalta il mistero della croce, che viene a delinearsi come unico mezzo di salvezza : l’uomo, con i suoi soli mezzi, non sarebbe stato in grado di liberarsi dal peccato e dalla morte. Il primo effetto della morte e della resurrezione di Cristo è il perdono dei peccati e la riconciliazione dell’uomo peccatore con Dio, come si evince dal commento a Rm 1, 7 (p. 10 Souter) :  



‘Gratia vobis et pax a Deo patre nostro et domino Iesu Christo’. Talis est ubique salutatio eius, ut et commemoret beneficia Dei, et [ea] optet in nobis integra permanere, quia et gratis nobis peccata remissa sunt et ‘reconciliati sumus Deo per mortem filii eius’. Commonet etiam pacificos esse debere unam eandemque gratiam consecutos.

La grazia è qui concepita come intima potenza che rigenera l’uomo e lo riconcilia con Dio tramite la remissione dei peccati passati. 1 Mediante la morte e la resurrezione del Cristo l’uomo viene ristabilito nell’amore di Dio, recuperando quel rapporto filiale andato perduto con il peccato di Adamo : per questo Pelagio può dire che solo Cristo è figlio di Dio per natura, ma molti sono figli di Dio per ‘grazia’. 2  





1  Vd. anche Exp. in Eph 1, 7, p. 346 Souter : ‘In quo habemus redemptionem per sanguinem ipsius, remissionem peccatorum’. Non solum redemit, sed etiam peccata remittens sine nostro labore iustos nos fecit. 2  Vd. Exp. in Rm 1, 3, pp. 8-9 Souter : ‘De filio suo’. Multi filii gratia, hic natura, cuius etiam in carne nativitas dissimilis ceteris invenitur [eo quod sancta Maria virgo et concepit et peperit].  



gratia : giustificazione e salvezza

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L’azione della grazia di Cristo è illustrata in maniera più approfondita in un passo dell’Epistola a Demetriade, che vale la pena citare :  

Qui instructi per Christi gratiam et in meliorem hominem renati sumus, qui sanguine eius expiati atque mundati illiusque exemplo ad perfectam iustitiam incitati meliores illis esse debemus qui ante legem fuerunt, meliores etiam quam fuerunt sub lege. 1  

Il testo ci aiuta a chiarire la concezione che sembra emergere anche dai brevi accenni delle Expositiones : il primo stadio del processo di redenzione è la rinascita dell’uomo a nuova vita e la sua purificazione tramite il sangue versato da Cristo ; a questo rinnovamento interiore, che consente di ricostituire il corretto rapporto fra l’uomo e Dio andato perduto a causa del peccato, si aggiunge l’esempio che spinge i fedeli a migliorarsi fino al raggiungimento di una perfetta giustizia. Diversamente da quanto Agostino rimprovera a Pelagio, ritengo che sia possibile cogliere, almeno nelle sue prime opere, l’idea di una grazia che riabilita la natura umana tramite il sacrificio di Cristo, l’idea di una potenza che agisce nell’intimo rinnovando profondamente l’uomo e ristabilendolo nell’amicizia con Dio. Come abbiamo detto, il vescovo di Ippona accusava l’avversario di attribuire alla grazia solo un effetto retroattivo, riducendola alla semplice purificazione dei peccati passati, senza riconoscere l’esistenza di un aiuto divino per evitare quelli futuri : effettivamente, nelle Expositiones l’aspetto della grazia divina sui cui maggiormente l’autore insiste è quello legato alla purificazione e alla rigenerazione ; tuttavia non mancano riferimenti, per quanto oscuri e sfuggenti, ad un’altra concezione, ovvero quella della grazia come adiutorium. A tal proposito, risulta degno di attenzione il commento a Rm 8, 26 (p. 67 Souter), ancora una volta un passo di incerta tradizione testuale :  









‘Similiter autem et spiritus adiuvat infirmitati nostrae [orationis]’. Secundum hanc spem adiuvat, ut non terrena sed caelestia postulemus. Infirma est enim nostra possibilitas, nisi inluminatione sancti Spiritus adiuvetur.

Il termine inluminatione è attestato in A, mentre tutti gli altri manoscritti presentano doctrina : nonostante ciò, Souter non pone inluminatione fra parentesi quadre, come è solito fare quando non c’è accordo fra A e B, e sembra dunque optare per il testo di A. Anche in questo caso, non è possibile determinare con certezza quale fosse la lezione originale : nel fare una scelta dobbiamo necessariamente usare una certa cautela, dal momento che le due soluzioni prospettate incidono notevolmente sul senso del testo ; infatti, mentre il manoscritto di Karlsruhe parla di « illuminazione dello Spirito Santo », gli altri codici fanno riferimento all’« insegnamento », all’« istruzione » che viene dallo Spirito. Come ha notato De Bruyn 2 il testo di A trova un parallelo nel commento a Eph 3, 16 (p. 360 Souter) :  





















‘Ut det vobis secundum divitias claritatis suae virtutem confortari per spiritum eius’. Ut vos per inluminationem scientiae divitiarum gloriae suae confirmet.

De Bruyn ritiene dunque probabile che la lezione da accogliere sia inluminatione, termine che negli altri codici è stato sostituito con doctrina, forse in ragione della sua connotazione ‘agostiniana’ : considerando che, come abbiamo visto, B presenta la tendenza ad eliminare dal testo espressioni non perfettamente in linea con il pensiero pelagiano, e considerando che doctrina è termine impiegato insieme ad exemplum in riferimento alla  

1  Ad Dem., pl 30, 23D.

2  Op. cit., p. 111, n. 34.

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capitolo 5

predicazione del Cristo, più che all’azione dello Spirito Santo, ritengo condivisibile la conclusione cui è giunto De Bruyn. Nel commento a Rm 8, 26 Pelagio farebbe dunque riferimento ad un aiuto che giunge dallo Spirito Santo a sostenere le nostre capacità (possibilitas), altrimenti deboli (infirma), consentendoci di aspirare non ai beni terreni, ma ai beni celesti. L’azione dello Spirito è illustrata anche nel commento a Rm 5, 5 (p. 43 Souter) :  

Quo modo nos [deus] diligat ex hoc cognoscimus, quia non solum nobis per Filii sui mortem peccata dimisit sed et spiritum sanctum nobis dedit, qui iam ostendat gloriam futurorum.

Lo Spirito fa intravedere i beni futuri, celesti : questa « illuminazione » crea una speranza e questa speranza diviene un aiuto per l’uomo, che è spinto a desiderare tali beni e ad impegnarsi per ottenerli. Il riferimento alla grazia come aiuto è ancora più esplicito nel commento a 2Thess 1, 11-12 (p. 442 Souter) :  







‘Et impleat omnem bonam voluntatem in benignitate, et opus fide in virtute’. Adiutorio ����������������������������� gratiae et consolatione scientiae et virtutum, quae opus sunt fidei … ‘Secundum gratiam dei et domini nostri Iesu Christi’. Expetit a nobis quod possumus, ut quod [per] nos non possumus largiatur.

Dempsey ritiene che l’espressione adiutorio gratiae non corrisponda a quella che i moderni teologi definiscono « grazia attuale », 1 ovvero un aiuto interiore che illumina la nostra mente e muove la nostra volontà, ma si riferisca piuttosto ai miracoli. 2 Egli ritiene, infatti, che il termine adiutorium ricorra nelle Expositiones anche in riferimento ai miracoli, e cita, a titolo d’esempio, il commento a 2Tim 1, 8 (p. 508 Souter), dove tuttavia, a mio avviso, tale relazione non è così immediata :  









‘Noli itaque erubescere testimonium domini nostri [Iesu Christi], neque me vinctum eius … ‘Sed conlabora [in] evangelio’. Iuvetur tua conversatione doctrina. ‘Secundum virtutem dei’. Qua nos sui causa adiuvat laborantes.

Lo stesso Demspsey riconosce, inoltre, che la sua interpretazione crea una difficoltà : se la grazia di cui si parla nel commento in questione è carismatica, perché l’autore aggiunge ad adiutorio gratiae l’espressione et consolatione scientiae et virtutum, ripetendo un concetto già espresso ? Tale difficoltà è risolta dallo studioso ipotizzando una variatio : lo scrittore ha attentamente evitato una ripetizione, usando due termini diversi, gratia e virtutes, per esprimere lo stesso significato. L’argomentazione mi sembra piuttosto fragile e forse influenzata dal tentativo di dimostrare come nel Commentario non siano rintracciabili nemmeno brevi accenni alla grazia attuale. 3 Non mi sento di condividere questa posizione : con tutte le cautele necessarie, vista la brevità e, spesso, l’oscurità delle osservazioni di Pelagio, ritengo che sia presente nelle Expositiones l’idea di un sostegno interiore che Dio offre all’uomo perché possa ottenere i beni celesti, un aiuto che consente all’uomo di raggiungere ciò che non è in grado di conseguire con le sue sole forze. Certo, questa idea risulta formulata nel Commento in maniera superficiale : l’autore non approfondisce questo concetto, vi fa riferimento solo  











1  Per « grazia attuale » si intende un soccorso, un aiuto sovrannaturale che Dio accorda all’uomo per aiutarlo a compiere il suo dovere ; è distinta dalla « grazia santificante » o « abituale » o « permanente », con cui si intende la partecipazione alla morte e resurrezione di Cristo tramite la fede e il battesimo ; la « grazia attuale » è un soccorso transitorio, la « grazia santificante », invece, è un dono che è infuso nell’anima e rimane inerente ad essa come una qualità permanente (vd. J. Van der Meersch, Grace, in Dictionnaire de Theologie Catholique, Tome Sextieme, Paris, 1920, coll. 1555-1686 ; A. de Bovis, Grace, in Dictionnaire de Spiritualité, t. vi, Paris, 1967, coll. 701-763). 2  Vd. op. cit., pp. 57-58. 3  Vd. Dempsey, op. cit., p. 91.  





























gratia : giustificazione e salvezza

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sporadicamente, e sicuramente non attribuisce ad esso la stessa importanza che invece assegna all’exemplum Christi ; nonostante ciò, è importante notare che Pelagio non ignora l’idea di gratia come adiutorium. Del resto, lo stesso Agostino si vedeva costretto a riconoscere la presenza di tale concetto negli scritti del suo avversario, che, nell’Epistula ad Demetriadem scriveva :  



Ostendit quomodo resistere debeamus diabolo, si utique simus subditi Deo eiusque faciendo voluntatem, divinam etiam mereamur gratiam, et facilius nequam spiritui, auxilio sancti Spiritus resistamus, 1  

e nel De libero arbitrio : 2    

Cum autem tam forte, tam firmum ad non peccandum liberum in nobis habeamus arbitrium, quod generaliter naturae humanae Creator inseruit, rursus pro inaestimabili eius benignitate, quotidiano ipsius munimur auxilio. 3  

In quest’ultimo passo si parla addirittura di quotidiano auxilio, di un aiuto che proviene da Dio e sostiene l’uomo nella vita di tutti i giorni. È noto come il vescovo di Ippona non si lasciasse affatto persuadere da simili dichiarazioni : nel primo passo citato, suscitava in lui molte perplessità l’avverbio facilius, indizio a suo avviso del fatto che Pelagio confidasse nella capacità dell’uomo di resistere al peccato anche senza l’aiuto dello Spirito Santo : l’intervento divino rende solo ‘più facile’ per l’uomo compiere ciò che è in grado di fare da solo. 4 Analoghi dubbi suscitavano in Agostino le affermazioni del De libero arbitrio : l’eccessiva fiducia di Pelagio in un libero arbitrio tam forte, tam firmum, capace di resistere al peccato da solo, pur se con qualche difficoltà in più, faceva sì che l’intervento della grazia divina fosse considerato in realtà superfluo. 5 Le critiche mosse da Agostino non sono prive di fondamento : nelle opere di Pelagio successive allo scoppio della polemica il ruolo del libero arbitrio diviene centrale e la fiducia nelle capacità dell’uomo assume la forza di un assioma, che riduce gli spazi di intervento della grazia divina, senza tuttavia cancellarli mai del tutto. La tendenza a giungere a simili posizioni è probabilmente già in atto nelle Expositiones, dove l’imitazione di Cristo, come conseguenza di un atto di libera volontà, assume un ruolo importante : tuttavia, lungi dal ridursi solo all’exemplum Christi, la gratia presenta in questa prima opera di Pelagio una varietà di accezioni, non sempre di immediata comprensione, che non si risolvono nel semplice binomio grazia interiore-grazia esteriore. Questi due piani sono stati messi in luce da Rivière 6 e Greshake, 7 per i quali Pelagio affianca la remissione dei peccati (grazia interiore) all’imitazione di Cristo (grazia esteriore) : senza giungere al complesso sistema di significati che Bohlin ha attribuito al termine gratia, con una classificazione certo molto utile, ma forse troppo schematica, 8 ritengo che sia possibile rintracciare, accanto alle due consuete accezioni che abbia 





















1  Ad Dem., pl 30, 40A ; vd. anche ibid. 18D. 2  Il De libero arbitrio è un’opera composta da Pelagio intorno al 416 ; questo scritto sarebbe stato di importanza fondamentale per conoscere il pensiero di Pelagio, ma è andato purtroppo perduto, come l’altra fondamentale opera che gli viene attribuita, il De natura : di entrambe rimangono soltanto frammenti nelle opere di Agostino (per il De natura vd. Aug., De nat. et gratia ; per il De lib. arb., vd. Aug., De gra. Christi) ; vd. anche i frammenti del ms. Parisinus 653 pubblicati da Souter (« Proceedings of the British Academy », 2, 1905-1906, pp. 437-438 e « JThS », 12, 1910-1911, pp. 32-35). 3  Aug., De gra. Christi 28, 29. 4  Vd. De gra. Christi 27, 28. 5  Vd. ibid. 28, 29. 6  Vd. Rivière, art. cit., p. 30. 7  Vd. Greshake, op. cit., pp. 112 sg. 8  Nella sua opera sulla genesi della teologia di Pelagio, Bohlin individua ben tre livelli su cui articolare la concezione pelagiana della gratia : al primo livello si collocano la grazia come creazione dell’uomo nella sua natura nobile e libera (quella che l’autore chiama « Grazia IA ») e la grazia come aiuto (« Grazia IB ») ; al secondo  





























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mo indicato, anche la presenza di un concetto di gratia come adiutorium. Non ritengo che questa idea di « grazia che aiuta » coincida semplicemente con l’esempio di Cristo, come suggerisce Greshake ; 1 sarei portata piuttosto a tenere distinti i due aspetti. Infatti, dalle brevi allusioni di Pelagio è, a mio avviso, intuibile che l’espressione adiutorium gratiae assume un significato più profondo, alludendo ad un sostegno soprannaturale alla volontà umana, ad una illuminazione interiore che conferma l’uomo nel cammino verso i beni celesti. L’uso del termine gratia in questa accezione, già non molto frequente nelle Expositiones, tende a ridursi nelle opere successive, senza mai scomparire del tutto : nel Commentario si rileva una situazione ancora di grande fluidità, dove i vari significati del termine si intersecano, e, accanto all’esaltazione delle capacità dell’uomo, incontriamo l’ammissione di una debolezza che necessita l’aiuto divino.  



   



3. Un’apparente contraddizione : dono gratuito della grazia o riconoscimento dei meriti ?  



Uno dei concetti su cui Pelagio insiste maggiormente nelle Expositiones è l’assoluta gratuità della grazia. La purificazione dai peccati passati e la riconciliazione con Dio sono in primo luogo una concessione, un dono che Dio fa all’uomo, indipendentemente dai meriti :  

‘Secundum propositum Dei’. Quo proposuit quidem omnia restaurare, sed primo oves perditas domus Istrahel. ‘Qui omnia operatur’. Omnium horum causa voluntas est Dei, quam rationabilem esse non dubium est. ‘Secundum consilium voluntatis suae’. Non secundum merita nostra. 2  

La volontà di Dio è causa prima del processo di giustificazione, nel quale i meriti individuali non sembrano svolgere alcun ruolo significativo. Allo stesso modo l’autore afferma con chiarezza che chi è santo lo è vocatione Dei, non merito sanctitatis, 3 e che la giustizia è donata gratuitamente da Dio, non acquisita nostro labore. 4 Quest’ultimo concetto è espresso con particolare chiarezza nel commento a Rm 6, 23 (p. 54 Souter) :  





‘Stipendium enim peccati mors [est]. Qui peccato militat, remunerationem accipi[e]t mortem. ‘Gratiam autem Dei vita aeterna’. Non dixit similiter : ‘stipendia iustitiae’, quia non erat ante quam remuneraretur in nobis : non enim nostro labore quaesita est, sed Dei munere condonata.  



In maniera significativa Pelagio specifica come l’Apostolo abbia impiegato l’espressione stipendium peccati, ma non stipendia iustitiae : infatti, mentre la morte è il « compenso » che l’uomo riceve per i peccati compiuti, la giustizia non può essere il premio dei nostri sforzi né il riconoscimento dei nostri meriti, in quanto è dono gratuito di Dio. La giustizia è elargita all’uomo tramite il sacramento del battesimo, 5 che rimette i peccati a tutti, anche a quanti non lo meritano :  









livello, invece, la legge mosaica, che, in quanto rivelazione divina è una grazia (« Grazia IIA ») e la legge del Cristo, di ordine superiore rispetto alla prima (Grazia IIB) ; infine, al terzo livello si pongono la remissione dei peccati (Grazia IIIA) e il battesimo (Grazia IIIB). L’opera di Bohlin resta un punto di riferimento fondamentale per chiunque affronti lo studio della teologia di Pelagio ; tuttavia tale classificazione, per quanto aiuti notevolmente a comprendere il pensiero dell’autore a proposito della grazia, risulta forse troppo schematica e non perfettamente rispondente alla concezione molto più sfumata di Pelagio. 1  Op. cit., p. 114. 2  Exp. in Eph 1, 11, p. 347 Souter ; vd. anche Exp. in Rm 5, 1, p. 41 Souter : nemo suo merito, sed omnes aequaliter Dei gratia sunt salvati. 3  Vd. Exp. in Rm 1, 7, p. 10 Souter : ‘Vocatis sanctis’. Sanctis vocatione Dei, non merito sancti[tatis]. 4  Vd. Exp. in Rm 3, 21, p. 32 Souter. 5  Vd. ibid. 5, 17, p. 47 Souter.  













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‘Iustificati gratis per gratiam ipsius’. Sine legis operibus per baptismum, quo omnibus non merentibus gratis peccata donavit. 1  

L’unica discriminante ai fini della salvezza diviene, così, la sola fede, mentre il bene che l’uomo può aver compiuto prima di ottenere la grazia della giustificazione sembra non possedere alcun valore :  

‘Gratia enim estis salvati per fidem et hoc non ex vobis’. Non meritis prioris vitae, sed sola fide, sed tamen non sine fide. 2  

Per questo l’Apostolo rimprovera aspramente quanti ripongono la loro speranza nella legge mosaica :  

Si in lege spem ponitis et iustificari posse vos creditis, infirmam Christi gratiam iudicatis, et quod iam gratis consecuti estis, tamquam non habentes propriis vultis laboribus adipisci. 3  

Chi ritiene la legge mosaica in grado di giustificare, giudica debole la grazia di Cristo, dal momento che pretende di conseguire con le sue sole forze ciò che già possiede gratuitamente : una riflessione questa, che non ci aspetteremmo in un’opera di Pelagio ; allo stesso modo, risulta sorprendente il commento di ‘sapore’ quasi ‘agostiniano’ a Rm 11, 35 (p. 93 Souter) :  





‘Aut quis prior dedit ei, et reddetur illi ?’ Quis prior fecit aliquit boni, ut non Dei misericordia[m] glorificet, sed suo [se] merito [recepisse] glorietur ?  



Nessuno può vantarsi di aver compiuto qualcosa di buono, al punto da non glorificare la misericordia divina, come se avesse ottenuto qualcosa per suo merito : si tratta di una riflessione che certo sembra in contrasto con le posizioni pelagiane, così come esse si delinearono dopo la condanna di Pelagio e Celestio, e che risulta ancor più singolare se confrontata con altri passi delle Expositiones. Si prenda in considerazione, ad esempio, il commento a Rm 12, 6 (p. 96 Souter) :  



‘Habentes autem donationes [diversas] secundum gratiam quae data est nobis differentiae’. Donum non ex nostro, sed ex donantis pendet arbitrio, et omnibus quidem credentibus gloria promittitur in futuro, sed qui ita mundum cor habuerit ut hoc mereatur, gratiam virtutum accipit etiam in praesenti, [quam Deus ei donare voluerit].

La nota del commentatore presenta una contraddizione : da una parte l’autore sottolinea come i doni dello Spirito siano dispensati in proporzione alla fede e alla purezza di cuore di ciascuno, dall’altra sostiene che il dono dipende dall’arbitrio di chi dona, concetto ribadito nella clausola finale (quam Deus ei donare voluerit), attestata solo dal codice Augiensis e dal Sangallensis e omessa dal Balliolensis ; quest’ultimo fatto ormai non ci sorprende più, ma conferma la tendenza di B ad omettere le espressioni non in linea con il pensiero pelagiano. Nel commento a Rm 8, 14 (p. 64 Souter), l’autore sembra far riferimento al merito di essere guidati dallo Spirito Santo, come se tale dono fosse elargito in base alla considerazione del valore di ciascuno :  





1  Exp. in Rm 3, 24, pp. 32-33 Souter. 2  Exp. in Eph 2, 8, p. 353 Souter ; vd. anche Exp. in Gal 1, 3, p. 307 Souter : ‘Gratia vobis’. Qua sola estis fides salvati. 3  Exp. in Gal 5, 4, p. 332 Souter.  



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capitolo 5

‘Quicumque enim spiritu Dei aguntur, hi filii sunt Dei’. Quicumque mere[n]tur sancto spiritu gubernari, sicut e contrario qui peccant spiritu diaboli aguntur, ab initio peccatoris.

L’uso del verbo mereri è ancor più significativo, visto che non si trova nel testo paolino e quindi non può esser stato suggerito da esso ; un caso analogo ricorre poco dopo, nella glossa di Pelagio a Rm 8, 17 (p. 64 Souter) :  



‘Si autem filii, et heredes, heredes quidem Dei, coheredes autem Christi’. Qui meretur esse filius, meretur effici heres patris et veri filii coheres.

Entrambi i passi sembrano esprimere la volontà, da parte di Pelagio, di stabilire una relazione fra meriti individuali e bontà divina, come se i primi fossero condizione necessaria per l’esercitarsi della seconda : un dato che contrasta con il principio dell’assoluta gratuità della grazia più volte ribadito dall’autore. Un altro passo dove Pelagio sembra riconoscere l’importanza dell’impegno e della fatica dell’uomo è il commento a 1Cor 3, 7-8 (p. 142 Souter) :  



‘Itaque neque qui plantat est aliquit, neque qui [in]rigat, sed qui dat incrementum Deus. Qui autem plantat et qui [in]rigat unum sunt : unus quisque autem suam mercedem accipiet secundum suum laborem’. Nisi enim Deus incrementum dederit, sine causa laboramus. Nos mercenarii sumus in alieno agro, alienis utimur ferramentis : nihil habemus proprium nisi mercedem nostri laboris.  



Impiegando la metafora della coltivazione del campo, suggerita dal testo di Paolo, Pelagio pone in evidenza l’importanza dell’intervento divino, senza il quale vani sono i nostri sforzi, ma non manca di sottolineare anche il valore dell’impegno individuale, della fatica che viene ricompensata da Dio. La peculiarità di questa intepretazione, che presuppone una convergenza fra azione divina e umana, risulta ancora più evidente se confrontata con quella di Gerolamo. Commentando lo stesso passo paolino nel Dialogus adversus Pelagianos, lo Stridonense osserva :  

Paulus plantavit, Apollo rigavit, sed Dominus incrementum dedit : ergo neque qui plantat neque qui rigat, est aliquid, sed qui incrementum dat, Deus. Ipsius enim agricultura, ipsius aedificatio sumus. 1  



Gerolamo affronta l’interpretazione del versetto da una diversa prospettiva rispetto a Pelagio : nell’analizzare le parole dell’Apostolo egli focalizza l’attenzione unicamente sull’intervento di Dio, svalutando completamente il ruolo dell’uomo, il cui impegno, di fronte alla volontà divina, risulta insignificante. Una concezione analoga era già stata espressa in precedenza da Ambrogio : in Exp. in Ps. 36, 50, infatti, il vescovo di Milano faceva riferimento al versetto paolino in questione, sottolineando come chi « pianta » e chi « irriga » non sono nulla ; la vera gloria è riservata soltanto a Dio, perché è Lui che libera da ogni ostacolo la strada che conduce alla virtù e guida l’uomo nel suo cammino verso la perfezione. 2 Del resto, Ambrogio è fermamente convinto che niente può l’uomo senza l’aiuto divino. 3 È a questa interpretazione di Ambrogio che farà appello Agostino 4 per confutare le tesi di Pelagio : le parole del vescovo di Milano, in effetti, pongono ancor più in risalto la peculiarità della visione di Pelagio. Sono numerosi i passi delle Expositiones in cui Pelagio esorta l’uomo ad impegnarsi  





















1  Hier., Dial. adv. Pel. ii, 8. 2  Vd. Ambr., Exp. in Ps. 36, 50. 3  Vd. Ambr., Exp. Evan. ii, 84 : Vides utique quia ubique domini virtus studiis cooperatur humanis, ut nemo possit aedificare sine domino, nemo custodire sine domino, nemo quicquam incipere sine domino. 4  Vd. Aug., De gratia Chr. 44, 48 ; C. duas epp. Pel. iv, 11, 30.  



gratia : giustificazione e salvezza

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concretamente : non è sufficiente, infatti, ascoltare la legge di Dio, ma è necessario anche metterla in pratica ; 1 allo stesso modo la sola fede non può bastare alla salvezza, se ad essa non seguono le opere. 2 L’apparente contraddizione fra il principio della gratuità della grazia e l’importanza dei meriti, fra il principio della salvezza tramite la sola fede e il valore attribuito alle opere, si risolve solo distinguendo due momenti diversi nel processo di giustificazione. Si prenda in considerazione il commento a Rm 4, 5 (p. 36 Souter) :  

   





‘Ei autem qui non operatur, credenti autem in eo qui iustificat impium, [per fidem] deputatur fides eius ad iustitiam’. Convertentem impium per solam fidem iustificat Deus, non per opera bona quae non habuit : alioquin per impietatis opera fuerat puniendus. Simul attendendum quia non peccatorem [dicit] iustificari per fidem sed impium, hoc est nuper credentem, adseruit.  

Pelagio distingue fra due diverse condizioni, il peccatore e l’empio, intendendo per quest’ultimo chi si trova nello stadio immediatamente precedente la conversione : è a questo livello che la giustificazione si verifica sola fide, in base alla sola fede, e non per le opere buone, che l’empio non può ancora aver compiuto. In questa prima fase, la fede è ascritta a giustizia, così che il convertito possa essere assolto dai peccati passati, giustificato per il presente e preparato alle future opere della fede. 3 La sola fede è dunque sufficiente all’inizio, limitatamente a quella prima tappa del processo di salvezza che coincide con la conversione ; successivamente, però, sono necessarie le opere, altrimenti la fede è del tutto inutile. Le due fasi sono chiaramente distinte nel commento a Gal 3, 10 (p. 319 Souter) :  







Quaeritur sane hoc loco si fides sola sufficiat Christiano, et utrum non sit maledictus qui evangelica praecepta contemnit : sed fides ad hoc proficit, ut in primitiis credulitatis accedentem ad Deum iustificet, si deinceps in iustificatione permaneat. Ceterum sine operibus fidei – non legis – mortua est fides…  

Come ha osservato Rivière, 4 nell’economia della salvezza le opere del cristiano costituiscono il prolungamento necessario dell’opera di Cristo : il beneficio della redenzione non diviene effettivo se non vi è una risposta adeguata da parte dell’uomo che, dopo aver creduto, è chiamato a compiere le opere della fede. 5 Con il suo sacrificio Cristo ha purificato la Chiesa dalle antiche colpe e con il suo esempio ha indicato come evitare le nuove tentazioni :  







Ita sibi Christus mundavit Ecclesiam ut antiqua crimina aboleret et novas maculas quomodo non incurreremus et verbo ostenderet et exemplo. 6  

Da questo passo si evince come tramite la morte di Cristo siamo liberati dai peccati commessi precedentemente, mentre, in seguito, per mantenerci lontani dalle tentazioni è necessario seguire l’exemplum Christi. L’autore può dunque dichiarare nel commento a Gal 3, 11 (p. 319 Souter) :  

‘Quia iustus ex fide vivit’. Perfecta fides est non solum Christum credere, sed et Christo credere.

Come ha osservato Valero, 7 in questo passo l’accusativo Christum indica la prima fase del percorso, la prima fides, il mistero del perdono gratuito, mentre il dativo Christo fa  

1  Vd. Pel., Exp. in Rm 2, 12-13, p. 22 Souter. 2  Vd. Exp. in Eph 5, 5, pp. 373-374 Souter. 3  Vd. Exp. in Rm 4, 6, p. 37 Souter. 4  Art. cit., pp. 26 sg. 5  Vd. Exp. in Rm 3, 24, p. 33 Souter ; ibid. 8, 29, p. 68 Souter ; Exp. in 2Tim 2, 11, pp. 512-513 Souter ; Exp. in Tit 2, 14, p. 532 Souter. 6  Exp. in Eph 5, 27, p. 378 Souter. 7  Vd. op cit., p. 305.  





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capitolo 5

riferimento alla nuova condotta che il cristiano deve mantenere seguendo l’esempio e l’insegnamento del Salvatore. Le osservazioni fin qui sviluppate possono aiutarci a comprendere meglio un passo del Commento ai Romani, caratterizzato, come molti altri che abbiamo preso in considerazione, da problemi di tradizione testuale :  

‘Arbitramur enim iustificari hominem per fidem sine operibus legis’. ‘Certi sumus’ vel ‘iudicamus’. Abutuntur quidam hoc loco ad destructionem operum iustitiae, solam fidem [baptizato] posse sufficere affirmantes, cum idem alibi dicat apostolus : ‘et si habuero omnem fidem, ita ut montes transferam, caritatem autem non habeam, nihil mihi prodest’, in qua caritate alio loco legis adserit plenitudinem contineri, dicens : ‘plenitudo legis est caritas’. Quod si haec eorum sensui videntur esse contraria, sine quibus operibus [legis] apostolus iustificari hominem per fidem dixisse credendus est ? Scilicet circumcisionis vel sabbati et ceterorum huius[ce]modi, non absque iustitiae operibus, de quibus beatus Iacobus dicit : ‘fides sine operibus mortua est’. Hic autem de illo dicit, qui ad Christum veniens sola, cum primum credit, fide salvatur. Addendo autem ‘operibus legis’, ostendit esse et[iam] gratiae opera[m] [, quae debent facere baptizati]. 1  









Anche in questo caso si individuano due fasi, una in cui la sola fede è sufficiente per giungere a Cristo, l’altra in cui alla fede è necessario unire le opere di giustizia. Tuttavia il Codex Augiensis aggiunge un elemento in più, specificando per due volte che il discrimine fra questi due momenti va individuato nel battesimo. 2 È molto difficile pronunciarsi con sicurezza per una versione o l’altra del testo ; certo, il riferimento al battesimo presente in A ben si accorda con la concezione emersa dall’analisi dei vari passi presi in considerazione : i frequenti riferimenti alla purificazione dai peccati passati porta naturalmente a pensare al battesimo come rito di passaggio dalla condizione di empietà alla prima fides. Tuttavia, non ritengo possibile, in questo caso, spingersi oltre queste semplici considerazioni ed optare con certezza per una soluzione : il testo di B, di fatto, non compromette il senso generale della riflessione di Pelagio, e mantiene intatta l’articolazione in due momenti del processo di salvezza. Per concludere, l’individuazione di due tappe lungo la strada che porta alla giustificazione consente a Pelagio di conciliare una contraddizione apparentemente insanabile, quella fra gratuità della grazia divina e necessità delle opere. Particolarmente interessante risulta la convinzione secondo cui il cristiano, una volta avvenuta la conversione, ha il dovere di attenersi ad una vita santa e giusta senza ricadere nel peccato : questa convinzione sembra anticipare l’idea dell’impeccantia, che sarà destinata a suscitare grande scalpore nel corso della controversia, un tema questo cui dedicheremo l’ultimo capitolo del presente lavoro.  









4. Pelagio e i suoi predecessori : analogie e differenze nella concezione della grazia  

Non possiamo concludere questa nostra analisi senza valutare il rapporto di Pelagio con le proprie fonti relativamente alla questione della grazia : analizzare i punti di contatto e le divergenze fra Pelagio e i suoi predecessori su un tema così importante consentirà di comprendere quali aspetti del suo pensiero siano davvero innovativi, e quali siano invece derivati da una precedente tradizione. Il primo dato da prendere in considerazione riguarda il concetto di grazia come per 

1  Exp. in Rm 3, 28, p. 34 Souter. 2  Per quanto riguarda l’espressione quae debent facere baptizati, l’Augiensis è supportato anche dal Sangallensis.

gratia : giustificazione e salvezza

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dono dei peccati, purificazione e riconciliazione con Dio, che abbiamo visto essere uno dei significati del termine messi in luce da Pelagio, in particolar modo nel commento a Rm 1, 7. 1 Quest’ultimo presenta forti paralleli con la nota dell’Ambrosiaster allo stesso versetto :  



‘Gratia vobis et pax a Deo patre nostro et domino Iesu Christo’. Gratiam et pacem cum his dicit esse, qui recte credunt. Gratia est, quia a peccatis absoluti sunt, pax vero, quia ex impiis reconciliati sunt Creatori …2  

I concetti espressi dai due autori sono gli stessi : in entrambi è presente il riferimento sia al perdono dei peccati, sia alla riconciliazione con Dio come conseguenze della grazia divina. Un altro passo dell’Ambrosiaster che, a mio avviso, Pelagio può aver tenuto presente è il commento a Rm 4, 5 (csel 81/1 p. 131), che, per quanto esteso, vale la pena citare :  



‘Credenti autem in eum, qui iustificat inpium, reputatur fides eius ad iustitiam’. Hoc dicit, quia sine operibus legis credenti inpio, id est gentili, in Christum reputatur fides eius ad iustitiam sicut et Abrahae. Quomodo ergo Iudaei per opera legis iustificari se putant iustificatione Abrahae, videntes Abraham non opera legis, sed sola fide iustificatum ? Non ergo opus est lege, quando inpius sola fide iustificatur apud deum. ‘Secundum propositum gratiae dei’. Sic decretum dicit a Deo, ut cessante lege solam fidem gratia Dei posceret ad salutem.  

La precisazione : inpio, id est gentili, può aver ispirato l’analoga puntualizzazione di Pelagio : impium, hoc est nuper credentem : per entrambi gli autori, ad essere giustificato tramite la sola fede è l’empio, ovvero colui che per la prima volta giunge alla fede da una condizione di ignoranza e rifiuto di Dio. 3 Abbiamo visto la distinzione che Pelagio fa fra « empio » e « peccatore » : 4 anche in questo caso egli poteva trarre spunto dall’analoga e più precisa classificazione che l’Ambrosiaster sviluppa nel commento a Rm 4, 7 (csel 81/1 p. 133) :  















   



…Tres enim gradus fecit propter delictorum varietatem. Quorum primus gradus iniquitas est vel inpietas, dum non agnoscitur creator, secundus gradus gravium in operibus peccatorum, tertius vero levium. Hos tamen omnes in baptismate obliterari.

Anche l’idea di un progresso da una fase in cui la sola fede è sufficiente alla giustificazione ad una in cui divengono necessarie anche le opere non è peculiare di Pelagio, ma si trova già attestata nelle sue fonti. A tale concezione allude il commento dell’Ambrosiaster a Rm 6, 22 (csel 81/1 p. 209) :  

‘Nunc vero liberati a peccato, servi autem facti Dei, habetis fructum vestrum in sanctificationem, finem vero vitam aeternam’. Hoc est, si accepta remissione peccatorum bonorum actuum aemuli fuerimus, adquirimus sanctitatem, finem vero habebimus, id est exitum, vitam perpetuam ; a morte enim hac, quam finem dixit, transimus ad vitam, quae sine fine est.  

In questo passo alla remissione dei peccati segue l’emulazione delle buone azioni : anche in questo caso vengono delineati due momenti distinti nel processo di giustificazione, di cui il primo è premessa necessaria all’attuarsi del secondo. 5  



1  Vd. supra, pp. 162-163. 2  Ambst., Comm. in Rom 1, 7, csel 81/1, p. 21. 3  Per la giustificazione tramite la sola fede nell’Ambrosiaster, vd. anche Comm. in Rom 1, 17, csel 81/1, p. 37 ; 3, 30, p. 125 ; 3, 24, p. 119. 4  Vd. supra, p. 169. 5  Vd. anche Ambst., Comm. in Titum 2, 14, csel 81/2, p. 330.  



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capitolo 5

Se nell’Ambrosiaster troviamo soltanto un’eco di questo tema, in Agostino esso risulta ben sviluppato. In De div. quaest. lxxxiii, 68, 3, troviamo una descrizione chiara e precisa delle due fasi :  

Christus autem pro impiis et peccatoribus mortuus est, ut ad credendum non merito, sed gratia vocaremur, credendo autem etiam meritum collocaremus. Peccatores igitur credere iubentur, ut a peccatis credendo purgentur. Nesciunt enim quid recte vivendo visuri sint. Quapropter cum videre non possint, nisi recte vivant, nec recte vivere valeant, nisi credant ; manifestum est a fide incipiendum, ut praecepta quibus credentes a saeculo hoc avertuntur, cor mundum faciant, ubi videri Deus possit.  

La concezione espressa è analoga a quella di Pelagio : la grazia non è dispensata sulla base dei meriti, ma solo della fede ; per riuscire a vivere rettamente, è necessario essere purificati dai peccati passati : le opere, infatti, non precedono la grazia, ma la seguono. 1 Come abbiamo visto, la necessità di esortare i fedeli alla perfezione morale spinge Pelagio a sostenere l’importanza delle opere, senza le quali il beneficio della grazia rischia di essere invalidato. La stessa preoccupazione si riscontra in Origene :  









… ex quibus omnibus claret quia recte arbitratur apostolus, iustificari hominem per fidem sine operibus legis. Sed fortassis haec aliquis audiens resolvatur, et bene agendi neclegentiam capiat, si quidem ad iustificandum fides sola sufficiat. Ad quem dicemus quia post iustificationem si iniuste quis agat sine dubio iustificationis gratiam sprevit. Neque enim ob hoc quis accipit veniam peccatorum ut rursum sibi putet peccandi licentiam datam, indulgentia namque non futurorum sed praeteritorum criminum datur. 2  

La fede senza la giustizia è inutile ; su questo principio Origene insiste più volte nel suo Commentario : 3 le sue riflessioni possono aver costituito uno stimolo importante per Pelagio. L’intero processo che porta l’uomo alla perfezione morale è descritto con ampiezza di particolari in Expl. in Rom iv, 1 (pp. 280-281 Bammel) : l’inizio della conversione consiste nell’abbandonare le azioni malvagie, ricevendo il perdono dei peccati passati ; seguono poi le buone azioni che con il tempo superano in quantità le colpe precedenti, fino ad estirpare dall’animo ogni forma di iniquità. La concezione della grazia come perdono dei peccati e l’idea del progresso morale erano dunque ben attestati nella tradizione precedente. È opportuno ora concentrare la nostra attenzione su un altro aspetto : l’importanza dell’exemplum Christi. A differenza delle altre questioni prese in considerazione, questa tematica è scarsamente testimoniata in Agostino e nell’Ambrosiaster. Ancora una volta, il punto di riferimento sembra essere Origene, che invece dedica al principio dell’imitazione di Cristo un’ampia riflessione. L’esempio che Cristo ci ha lasciato si esercita, secondo l’esegeta Alessandrino, su due piani :  

   









Mortum dicit (sc. Apostolus) esse Christum dispensatione sine dubio passionis, vixisse autem per sacramentum resurrectionis. Unde et nobis primo passionis et mortificationis, post autem resurrectionis et vitae novitatis reliquit exemplum. 4  

Con la Sua morte, Cristo ha offerto un esempio di mortificazione, con la Sua resurrezione ci ha lasciato l’esempio di una nuova vita. In che senso vadano intese tali dichiarazioni, Origene lo esplicita poco dopo :  

1  Vd. anche Aug., Ad Simpl. i, 2 ; Ad Simpl. i, 3. 2  Expl. in Rom iii, 6, p. 249 Bammel. 3  Vd. Expl. in Rom iv, 1, p. 272 Bammel ; Ibid. iv, 1, p. 280 Bammel. 4  Orig., Expl. in Rom ix, 39, p. 769 Bammel ; vd. anche ibid., p. 768.  







gratia : giustificazione e salvezza

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Inde denique est quod usque ad mortem dignatur accedere (sc. Christus) ut exemplum oboedientiae et moriendi formam volentibus peccato et vitiis emori derelinquat. Et propter hoc in praesenti loco Apostolus scribit idcirco eum mortuum esse et vixisse ut et vivorum et mortuorum dominetur ; vivorum profecto illorum qui resurrectionis eius exemplo novam et caelestem in terris exigunt vitam ; mortuorum illorum sine dubio qui mortificationem Christi in corpore suo circumferunt et mortificant membra sua quae sunt super terram. 1  





L’esegesi di Origene procede sul piano morale : accettando la morte in croce, Cristo ha insegnato agli uomini a mortificare la carne ; con la Sua resurrezione, invece, ha dato loro l’esempio della nuova vita, della vita celeste, che già in terra essi devono condurre. Pelagio, dunque, trovava nel commento del suo predecessore degli spunti di riflessione importanti per quanto riguarda l’exemplum Christi. Proprio per questo, ritengo, tuttavia, significativo che egli affronti tale argomento su un piano diverso da quello dell’esegeta Alessandrino ; infatti, Pelagio non concentra, a mio avviso, la sua attenzione sulla morte e sulla resurrezione di Cristo : egli non si sofferma, nel suo commento, su una lettura in senso morale del mistero della passione, visto come figura della morte al peccato e della resurrezione a nuova vita di ogni Cristiano ; egli conduce la propria riflessione, piuttosto, sulla vita del Cristo e sul suo insegnamento (doctrina) : i Suoi atti e i Suoi precetti offrono un modello concreto che il fedele è chiamato a seguire per ottenere la Salvezza. Questa lettura dell’azione salvifica del Cristo, più concreta e forse meno profonda rispetto a quella di Origene, porta a valorizzare maggiormente lo sforzo e l’impegno dell’uomo, spostando l’attenzione dal mistero della redenzione e focalizzandola sul concreto tentativo di ogni fedele di imitare la vita del Salvatore, mettendone in pratica gli insegnamenti. Da questa nostra analisi, ritengo possibile trarre alcune conclusioni. Partendo dal presupposto che sarebbe assurdo discutere dell’ortodossia o meno del pensiero di Pelagio riguardo alla redenzione, visto che egli scrive in un periodo in cui alcuni dogmi non sono ancora ben definiti, possiamo almeno riconoscere che le idee ricostruibili dalle brevi osservazioni delle Expositiones risultano ampiamente attestate anche negli autori precedenti. A tal proposito mi sento di condividere le osservazioni di Rivière : nel Commento di Pelagio si trovano testimonianze favorevoli ad una Redenzione oggettiva, una rigenerazione interiore dell’uomo, compiuta da Cristo tramite la propria morte e resurrezione. 2 Come ho avuto modo di dimostrare, ritengo che accanto a questo aspetto non sia ignorata l’idea di un aiuto divino che sostiene l’uomo concedendogli ciò che non è in grado di ottenere con le sue sole forze. Di contro a queste riflessioni, non si può tuttavia non evidenziare la tendenza, già nelle Expositiones, ad insistere su certi temi, come l’exemplum Christi e l’importanza dei meriti individuali, che assumeranno un ruolo sempre maggiore nella successiva riflessione teologica di Pelagio, fino a compromettere il ruolo stesso del Cristo nella storia della salvezza. Dalla lettura delle Expositiones ricaviamo, dunque, l’impressione di un autore caratterizzato ancora da una grande fluidità di pensiero, pronto ad accogliere concezioni che possono apparire antitetiche, ma che, nonostante tutto, riesce per il momento a conciliare : la sua riflessione presenta una varietà di sfumature, che mostrano come il pensiero di Pelagio sia, almento in questa sua prima opera, molto meno ‘monolitico’ di quello che gli scritti polemici di Agostino farebbero supporre.  

















1  Ibid., p. 770.

2  Vd. Rivière, art. cit., p. 42.

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Capitolo 6 IMPECCANTIA : PROGRESSO MORALE E CONQUISTA DELLA PERFEZIONE NEL PENSIERO DI PELAGIO  

1. Gerolamo, Agostino e Pelagio: un ’ analisi delle fonti sul problema dell ’ impeccantia Posse hominem sine peccato esse, et Dei mandata facile custodire, si velit.

Q

uesta concisa affermazione esprime, secondo la testimonianza delle nostre fonti, 1 una delle tesi principali del pensiero di Pelagio : l’uomo, osservando in tutti i suoi aspetti la legge divina e seguendo l’insegnamento di Cristo, è in grado di mantenersi estraneo al peccato, conducendo una vita di santità, immune da ogni colpa. Il principio secondo cui l’uomo può, se vuole, essere senza peccato, è espresso da Gerolamo con il termine impeccantia, che ancora oggi è spesso impiegato per indicare la dottrina dei pelagiani. Come è noto, Gerolamo dedica alla confutazione delle tesi di Pelagio il Dialogus adversus Pelagianos. Tuttavia, questa non è l’unica opera in cui lo Stridonense affronta il problema dell’impeccantia : prima di essere approfondito nel Dialogus, l’argomento era già stato trattato nell’Epistula ad Ctesiphontem (Epist. 133) ; 2 inoltre, riferimenti polemici alla dottrina pelagiana sono individuabili anche nei Commentarii in Hieremiam, contemporanei del Dialogus : 3 in particolare, ciascuna delle prefazioni ai vari libri, ad eccezione di quella del sesto, presenta riferimenti evidenti a Pelagio, il cui insegnamento è più volte posto sotto accusa nel corso della trattazione. 4 La nostra indagine avrà inizio proprio dalle opere di Gerolamo : la testimonianza dello Stridonense, considerata in passato poco attendibile a causa dell’acrimonia e della tendenza all’eccesso che contraddistinguono i suoi scritti, è stata giustamente rivalutata. 5 Le opere che abbiamo ricordato vengono ad assumere un’importanza particolare per lo studio della controversia pelagiana, dal momento che non sembrano risentire  





   

   







1  Vd. Pel., Testimoniorum liber, Tit. 100 (Hier., Dial. adv. Pel. i, 1 ; 33) ; Aug., De gestis 30, 54. 2  L’Epistula 133 ad Ctesiphontem è datata al 414. Del destinatario, Ctesifonte, non si hanno altre notizie se non quelle deducibili dalla lettera stessa : dal momento che Gerolamo si rivolge a lui con particolare deferenza e fa riferimento al suo casato con l’espressione sancta et inlustris domus (Epist. 133, 13), si può ipotizzare che appartenesse ad una famiglia importante, che si era avvicinata al movimento pelagiano, forse beneficandolo con offerte e donazioni (vd. G. Caruso, Gerolamo antipelagiano, « Augustinianum », 49, 2009, pp. 65-118, pag. 70). In due passi dell’epistola Gerolamo sembra annunciare la prossima stesura del Dialogus : Epist. 133, 11 (Fervet animus, non possum verba cohibere. Epistolaris angustia non patitur longi operis magnitudinem) ; ibid. 13 (Quod autem in Scripturis Sanctis iusti appellantur ut Zacharia et Helisabeth, Iob, Iosaphat et Iosias et multi, quorum nominibus Sacra Scriptura contexta est, quanquam in promisso opere plenius – si gratiam Dominus dederit – dicturus sim : tamen in praesenti Epistola hoc breviter perstrinxisse sufficiat…). 3  Secondo Evans (op. cit., p. 7), Gerolamo, dopo aver scritto la prefazione al quarto libro dei Commentarii in Hieremiam, sospese per un po’ di tempo la stesura di quell’opera per scrivere il Dialogus, la cui composizione era in corso nel luglio del 415. 4  Vd. Evans, op. cit., pp. 7-8 ; vd. pag. 126, n. 9 per l’elenco dei passi dei Comm. in Hier. 5  Vd. Evans, op. cit. ; C. Moreschini, Il contributo di Gerolamo alla polemica pelagiana, « CrSt », 3, 1982, pp. 6171 ; Idem, Gerolamo fra Pelagio e Origene, « Augustinianum », 26, 1986, pp. 207-216.  





























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capitolo 6

dell’influenza di Agostino ; infatti, Gerolamo era giunto a conoscenza, probabilmente tramite Orosio, recatosi in Palestina nel 415, 1 di alcune opere del vescovo di Ippona che affrontavano i temi più dibattuti nel corso della polemica con Pelagio e i suoi discepoli : il De peccatorum meritis et remissione, il De spiritu et littera, il De natura et gratia. Tuttavia, non sembra che tali scritti abbiano influenzato la stesura del Dialogus adversus Pelagianos, che presenta un’impostazione indipendente, in cui sono ripresi e sviluppati gli argomenti già impiegati pochi mesi prima nell’Epistula ad Ctesiphontem. 2 Quest’ultima offre alla nostra riflessione, fin dall’esordio, un dato di particolare interesse :  









Non audacter, ut falso putas, sed amanter studioseque fecisti, ut novam mihi ex veteri mitteres quaestionem … 3  

A Ctesifonte, che ha sollecitato un suo parere riguardo alla possibilità per l’uomo di vivere senza peccato, Gerolamo risponde in primo luogo chiarendo che quella che può sembrare una nuova questione, è in realtà una vecchia problematica, da tempo oggetto di dibattito. Infatti, ricorrendo ad un espediente caro ai polemisti cristiani, Gerolamo riconduce le teorie dell’avversario a dottrine pagane :  

Quae enim potest alia maior esse temeritas quam Dei sibi non dicam similitudinem, sed aequalitatem vindicare, et brevi sententia omnium Haereticorum venena complecti, quae de Philosophorum et maxime Pythagorae et Zenonis principis Stoicorum fonte manarunt ? 4  



Pelagio predica l’impeccantia, ovvero ritiene che l’uomo, già in questa vita, sia in grado di raggiungere uno stato di perfezione tale da non commettere peccati ; tuttavia, secondo Gerolamo, per raggiungere questo obbiettivo l’uomo dovrebbe estirpare le passioni connaturate al suo corpo fragile e mortale, il che significa avere la pretesa di hominem ex homine tollere, et in corpore constitutum esse sine corpore. 5 Partendo da queste premesse, lo Stridonense non ha difficoltà a porre in relazione la dottrina dell’impeccantia con l’ajpavqeia stoica, come risulta evidente da un passo dei Commentarii in Hieremiam :  





Multis de toto huc orbe confluentium turbis et sanctorum fratrum monasteriique curis occupatus commentarios in Hieremiam per intervalla dictabam, ut, quod deerat otio, superesset industria, cum subito heresis Pythagorae et Zenonis ajpaqeiva~ et ajnamarthsiva~, id est ‘inpassibilitatis’ et ‘inpeccantiae’, quae olim in Origene et dudum in discipulis eius Grunnio 6 Evagrioque Pontico et Ioviniano iugulata est, coepit reviviscere et non solum in occidente, sed et in orientis partibus sibilare et in quibusdam insulis, praecipueque Siciliae et Rhodi, maculare plerosque et crescere per dies singulos, dum secreto docent et publice negant. 7  



Gerolamo non si limita soltanto a rievocare lo spettro dello Stoicismo : chiama in causa, come ispiratori di Pelagio, Origene, Rufino, Evagrio Pontico e Gioviniano, redigendo una sorta di elenco di autorità eretiche, che ricorre più volte nei suoi scritti in forma più o meno simile. 8 Fra i nomi citati, compare regolarmente quello di Rufino, accusato di aver divulgato le Sententiae di Sesto, 9 un’opera che circolava sotto il nome del vescovo  





1  Vd. J. N. D. Kelly, Jerome. His life, Writings and Controversies, London, Duckworth, 1975, p. 318, n. 51. 2  Vd. Moreschini, Il contributo, cit., p. 61, n. 1 ; Fin dal 415 Gerolamo si trovava in una posizione decentrata rispetto all’Africa, a Roma e alla Sicilia, luoghi nei quali era dibattuta la controversia pelagiana : come dimostra la conclusione del Dialogus adversus Pelagianos (iii, 19), notizie e libri dovevano arrivargli con un certo ritardo : vd. Moreschini, Gerolamo, cit. p. 208, n. 7. 3  Epist. 133, 1, p. 241. 4  Epist. 133, 1. 5  Ibid. 6  L’autore intende qui riferirsi a Rufino. 7  Comm. in Hier. iv, 1, 2 ; vd. anche Dial., prol. 1. 8  Vd. Epist. 133, 3 ; Dial., prol. 1. 9  Le Sententiae di Sesto sono una raccolta di 451 massime, di argomento essenzialmente etico, messa insieme da un autore cristiano di lingua greca, probabilmente attivo alla fine del secondo secolo. L’autore si è forse basato su una precedente collezione di massime pagane in gran parte di ispirazione neo-pitagorica. A partire  









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di Roma Xystus, ma che in realtà, secondo Gerolamo, è da attribuire ad un autore pagano. 1 Come Evans ha dimostrato, questa raccolta di sentenze sembra aver effettivamente esercitato una certa influenza su Pelagio, che, per supportare le proprie tesi, vi aveva fatto ricorso tre volte nel perduto trattato De natura. 2 Il nesso fra Pelagio e le Sententiae di Sesto, postulato da Gerolamo, non sembra, dunque, privo di fondamento, così come non del tutto peregrina risulta l’idea di porre in relazione Pelagio con Origene per quanto riguarda la dottrina dell’ajpavqeia e dell’ajnamarthsiva. 3 Sulla dipendenza di Pelagio dalle teorie di Origene Gerolamo insiste con particolare forza, fino a dichiarare esplicitamente : Doctrina tua Origenis ramusculus est. 4 Ora, che esistano forti affinità fra il pensiero di Pelagio e le idee di Origene per quanto riguarda alcune tematiche è un dato che possiamo ormai considerare certo 5 e che è emerso con evidenza anche dall’analisi finora condotta : tuttavia, per valutare in che misura le accuse volte da Gerolamo a Pelagio riguardo al concetto di impeccantia rispondono alla realtà, sarà utile capire quale significato Origene attribuisca ai concetti di ajpavqeia e ajnamarthsiva, e se la sua riflessione a tal proposito presenti effettivamente dei punti di contatto con il pensiero di Pelagio. Inoltre, sarà importante anche verificare se la testimonianza di Gerolamo collima con le informazioni che possiamo trarre dagli scritti di Agostino : tramite un confronto fra le fonti a nostra disposizione tenteremo di ricostruire, per quanto possibile, il senso autentico che per Pelagio poteva assumere la nozione di impeccantia. Quando Gerolamo impiega il termine ajpavqeia, ha ben chiaro il significato da attribuire ad esso :  

















… peri; ajpaqei;a~ quam nos ‘impassibilitatem’ vel ‘imperturbationem’ possumus dicere ; quando nunquam animus nullo perturbationis vitio commovetur : et ut simpliciter dicam, vel saxum, vel Deus est. 6  





Predicare l’ajpavqeia è estremamente pericoloso, perché affermare che l’uomo possa essere immune da qualsiasi passione significa di fatto sostenere che è uguale a Dio. È questa una delle principali accuse che Gerolamo rivolge a Pelagio :  

Si enim ille (sc. Deus) ajnamavrthto~ et ego ajnamavrthto~, quae inter me et Deum erit distantia ? 7  



Anche in questo caso, la fonte dell’errore va ricercata in Origene e nei suoi discepoli :  

Quorum omnium ista sententia est, posse ad perfectionem, et non dicam similitudinem, sed aequalitatem Dei humanam virtutem et scientiam pervenire, ita ut se asserant ne in cogitatione quidem et ignorantia, cum ad consummationis culmen ascenderit, posse peccare. 8  

L’ajpavqeia e l’ajnamarthsiva, ovvero l’assenza di peccato, sono effettivamente le qualità dalla metà del terzo secolo, secondo quanto testimonia anche Origene (C. Celsum 8, 30 ; Comm. in Matth. 15, 3) le Sententiae incontrarono il favore di un numero sempre maggiore di lettori cristiani. Godettero di particolare considerazione a Roma nel V secolo, soprattutto in seguito alla loro attribuzione a Xystus, vescovo di Roma, il cui martirio, avvenuto nel 258, era ancora impresso nella memoria : il successo dell’opera fu garantito anche dalla traduzione di Rufino, da cui Pelagio attinse per le sue citazioni ; vd. H. Chadwick, The sentences of Sextus, Cambridge, The University Press, 1959 (« Texts and Studies », New Series, 5). 1  Vd. Comm. in Hier. iv, 41, 4. 2  Vd. Aug., De nat. et gratia 64, 77. Vd. Evans, op. cit., pp. 43-65. 3  Vd. Moreschini, Gerolamo, cit. 4  Epist. 133, 3. 5  Soprattutto dopo gli studi di Bohlin, Die Theologie, cit., ed Evans, op. cit. 6  Epist. 133, 3. 7  Dial. adv. Pel. iii, 10. 8  Ibid., prol. i ; vd. anche Epist. 133, 8 : Numquid praecepit mihi Deus, ut essem quod Deus est : ut nihil inter me esset et Dominum Creatorem : ut maior essem angelorum fastigio, ut haberem quod angeli non habent ?  



















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che, negli scritti dei Padri greci, pertengono unicamente a Dio e a Suo figlio, come ben esemplifica il seguente passo di Clemente Alessandrino :  

“Eoiken de; oJ paidagwgo;~ hJmw`n, w\ pai`de~ uJmei`~, tw/` patri; tw/` auJtou` tw/` qew/`, ou|pevr ejstin uiJov~, ajnamavrthto~, ajnepivlhpto~ kai; ajpaqh;~ th;n yuchvn … dia; tou`to ga;r kai; movno~ krithv~ o{ti ajnamavrthto~ movno~. 1  

È interessante osservare che, mentre la maggior parte degli autori nega la possibilità per l’uomo di raggiungere una condizione di impassibilità ed estraneità al peccato, 2 condizione che caratterizza unicamente Dio e che, al massimo, può essere concessa all’uomo alla fine dei tempi, 3 Clemente Alessandrino si fa promotore di una diversa concezione, in cui ajpavqeia e ajnamarthsiva divengono per il fedele il traguardo finale di un cammino di perfezione. L’Apostolo stesso, del resto, ha ordinato di deporre « l’uomo vecchio » e rivestirsi dell’« uomo nuovo », ovvero di deporre le passioni (pavqh), divenendo capaci di non peccare (ajnamavrthtoi) : 4 in questo modo Clemente delinea un percorso di formazione e crescita spirituale che porta il fedele alla santità perfetta, che consiste nell’assenza di peccato. 5 Lo gnostico, infatti, non è semplicemente un temperante, ma ha raggiunto uno stato di impassibilità, nell’attesa di rivestire la forma divina. Clemente riprende così concetti stoici arricchendoli di nuovi significati ; è chiaro, infatti, che la nozione di ajpavqeia subisce uno slittamento semantico nel passaggio dallo stoicismo al cristianesimo : per il cristiano l’ajpavqeia è la liberazione da tutto ciò che è terreno e l’elevazione ad una forma superiore di esistenza. 6 In questo senso il fedele non deve fermarsi alla metriopatia, ma deve mirare all’ajpavqeia, che è connaturata a Dio e a Cristo e allo stesso tempo costituisce per l’uomo un modello da seguire nel suo sforzo di perfezione. 7 Il concetto di ajpavqeia è strettamente connesso in Clemente con il principio dell’oJmoivwsi~ qew/` : dal momento che Dio è per Sua natura completamente ajpaqhv~, ne consegue che per Clemente l’oJmoivwsi~ qew/ significa la totale ajpavqeia. 8 Non solo Dio, ma anche Cristo è ajpaqhv~ e ha insegnato agli uomini a moderare i loro pavqh ; come ha osservato Lilla, 9 il Cristo si configura come maestro e modello della perfetta ajpavqeia 10 e gli uomini devono imitarLo per raggiungere l’oJmoivwsi~ con Dio. 11 L’insegnamento di Clemente Alessandrino costituisce il punto di partenza della riflessione di Origene, che riprende e sviluppa i concetti finora illustrati. Anche per Origene,  











   























  1  Clem. Alex., Paed. i, 2, 4. Vd. anche, ad esempio, Athan. Alex. [Sp.], De incarnatione contra Apollinarem 2, 6 ; Ioh. Chrys., Hom. 39. 2 in 1Cor, pg 61, p. 324 ; Just., Dialog. 102, 7.   2  Vd. Const. Apost. 2, 18, 4 ; Greg. Naz., Orat. 5 Contra Iul. imp. 33 ; Greg. Nyss., De orat. dom. orationes V, gno 1992, p. 67. 3  Vd. Cyr. Hier., Catech. 15, 21. 4  Vd. Strom. vii, 3, 14, 3.   5  Vd. Strom. iv, 22, 142. 6  Vd. Pohlenz, op. cit., ii, pp. 302 sg.   7  Strom. vi, 9, 74, 1 ; per la metriopatia come stadio preparatorio ancora imperfetto, vd. anche Strom. vi, 13, 105, 1 ; vii, 2, 10, 1.   8  Strom. ii, 20, 103, 1 ; vd. anche Strom. iv, 22, 138, 1 ; iv, 23, 147, 1 ; vii, 3, 13, 3 ; vii, 14, 84, 2 ; vii, 14, 86, 5.   9  Vd. S. Lilla, Clement of Alexandria. A Study in Christian Platonism and Gnosticism, Oxford, University Press, 1971, pp. 106-112 ; il merito dello studio di Lilla è quello di aver dimostrato come il sistema etico di Clemente Alessandrino sia influenzato non solo dallo Stoicismo, ma anche dalle dottrine etiche di Filone, del Medio e del Neoplatonismo. Secondo lo studioso, infatti, in Clemente, in Filone, nel Medio Platonismo e nel Neoplatonismo si riscontra lo stesso sincretismo di elementi platonici, stoici e aristotelici : in particolar modo, nell’identificare l’ideale stoico dell’ajpavqeia con la formula platonica oJmoivwsi~ qew/,` Clemente si mostra in perfetto accordo con Filone, Plotino e Porfirio (vd. Lilla, op. cit., pp. 112 sg.). 10  Vd. Strom. v, 14, 94, 5 : eijkw;n me;n ga;r qeou` lovgo~ qei`o~ kai; basilikov~, a{nqrwpo~ ajpaqhv~ ; vd. anche Strom. vi, 9, 71, 2 ; vii, 2, 7, 2 ; vii, 2, 7, 5 ; vii, 12, 72, 1. 11  Strom. vi, 9, 72, 1 ; vd. anche Strom. vi, 17, 150, 3 ; vii, 9, 72, 1 ; Paed. i, 2, 4, 2.  









































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infatti, il fedele, sostenuto dall’intervento divino, può giungere all’ajpavqeia e alla conquista di ogni virtù. 1 Di particolare interesse risulta il seguente passo :  



Pa`~ de; oJ ajgapw`n to;n Qeo;n ajgapa/` to;n novmon aujtou` kai; poiei` ta; tou` novmou: pa`~ de; oJ poiw`n to;n novmon ajpavqeian kta`tai kai; gnw`sin Qeou`. 2  

La conquista dell’immunità dalle passioni è connessa al compimento della legge di Dio ; le parole di Origene risultano in sintonia con l’assunto attribuito a Pelagio con cui si è aperta la nostra trattazione : 3 anche in quel caso la capacità di non peccare e l’osservazione dei mandati della legge sono posti in stretta relazione. Inoltre, come abbiamo già avuto modo di valutare, anche l’idea secondo cui il fedele deve compiere un radicale cambiamento di vita, nel tentativo di uniformare la sua condotta al modello di Cristo, risulta ampiamente attestata in Pelagio : sotto questo aspetto egli riprende e sviluppa una linea di pensiero che aveva trovato espressione già in Clemente Alessandrino e Origene. Dunque, quando Gerolamo accusa Pelagio di richiamarsi all’insegnamento di Origene, e quindi di far rivivere, come l’Alessandrino, concetti propri dello stoicismo, coglie nel segno ? In un certo senso, sì : ovviamente Gerolamo compie un errore nel sovrapporre l’ajpavqeia stoica al concetto di ajpavqeia come viene sviluppato dai Padri greci, senza tener conto del mutamento semantico che il termine subisce una volta acquisito e rielaborato dal pensiero cristiano ; tuttavia, è innegabile che Clemente Alessandrino prima, e Origene poi, abbiano fatto ricorso a idee proprie della filosofia pagana per descrivere il progresso spirituale che il fedele è tenuto a compiere : una simile visione, che stimolava continuamente l’uomo a perfezionarsi e progredire nella fede, non poteva che suscitare l’attenzione di Pelagio, particolarmente sensibile ad esigenze protrettiche. Gerolamo ci suggerisce una chiave di interpretazione che appare corretta, per quanto certe affermazioni vadano senza dubbio ridimensionate. Ad esempio, risulta eccessiva l’accusa rivolta a Pelagio di voler rendere l’uomo uguale a Dio ; lo stesso Agostino prende le distanze da questa insinuazione :  

   















Absit autem ut ei dicamus, quod a quibusdam contra se dici ait, ‘conparari hominem deo, si absque peccato esse asseratur’ ; quasi vero angelus, qui absque peccato est, conparetur deo. Ego quidem hoc sentio, quia etiam cum fuerit in nobis tanta iustitia, ut ei addi omnino nihil possit, non aequabitur creatura creatori. 4  



Proporre l’impassibilità di Dio come modello a cui tendere è cosa diversa dal sostenere che l’uomo può essere pari a Dio : l’impressione è che ciò che preme a Pelagio sia il percorso di perfezionamento che l’uomo deve compiere, più che il raggiungimento del risultato. A tal proposito, suscita qualche perplessità un’altra accusa che Gerolamo rivolge con insistenza a Pelagio e ai suoi seguaci, ovvero quella di predicare una santità perfetta, la capacità dell’uomo di raggiungere una perfezione assoluta che in realtà nessuno, nemmeno i santi, ha mai conseguito in questa vita. 5 Anche in questo caso, la testimonianza di Agostino offre un valido aiuto per far luce sulla questione. Infatti, le opere del vescovo di Ippona confermano l’impressione che  



1  Vd. Comm. in Evang. Matth. 15, 17 ; Exp. in Prov., pg 17, p. 252. 2  Exp. in Prov., pg 17, p. 244. 3  Vd. supra, p. 175. 4  De nat. et gratia 33, 37. 5  Vd. Hier., Dial. adv. Pel. i, 20 : C. Nullus ergo sanctorum, quamdiu in isto corpusculo est, cunctas potest habere virtutes ? – A. Nullus, quia nunc ex parte prophetamus et ex parte cognoscimus. Nec enim possunt omnia esse in hominibus, quia non est immortalis filius hominis.  





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l’appello alla perfezione di Pelagio abbia un valore soprattutto psicologico ed esortativo : il fine è quello di esaltare la forza della natura umana, che il fedele tende a sottovalutare, cogliendo sovente il pretesto per non impegnarsi in un reale cambiamento di vita. Come ha notato Marialuisa Annecchino, 1 dichiarare che l’uomo è capace di virtù aveva per Pelagio e i suoi seguaci un valore fortemente parenetico : l’esortazione a condurre una vita esente dal peccato diveniva quasi una necessità in un momento storico in cui la morale cristiana rischiava di indebolirsi a causa degli stretti contatti con i pagani. 2 Pelagio presenta senza dubbio come realizzabile un ideale di giustizia e virtù ; tuttavia, quando deve dichiarare se esso possa essere effettivamente posto in atto al suo grado supremo di santità, mostra, come è stato notato, 3 qualche perplessità in più, e sembra riferirsi ad una possibilità teorica, ad una virtualità, più che ad un dato reale :  













‘Idem iterum repeto : ego dico posse esse hominem sine peccato. Tu quid dicis ? Non posse esse hominem sine peccato. Neque ego dico, inquit, hominem esse sine peccato neque tu dicis non esse hominem sine peccato ; de posse et non posse, non de esse et non esse contendimus’. 4  







A quanto pare, Pelagio teneva a precisare che il suo discorso verteva sulla possibilità, non sulla realtà : dal suo punto di vista risultava importante che l’uomo scoprisse la capacità, insita nella sua natura, di essere senza peccato, in modo che, forte di questa convinzione, potesse intraprendere un percorso di continuo perfezionamento ; se poi effettivamente fosse esistito qualcuno che avesse raggiunto l’assoluta assenza di peccato non era questione per lui così significativa : importante era la strada da percorrere, non tanto la meta da raggiungere. Sembra, dunque, che l’atteggiamento di Pelagio fosse in realtà molto cauto, tale da non giustificare gli attacchi di Gerolamo, il quale giunge a dire che per Pelagio il continuo esercizio della virtù può portare gli uomini addirittura a nec si velint, posse peccare. 5 È comprensibile allora che Pelagio e i suoi seguaci rifiutassero di usare i termini ajnamavrthton, ajnamarthsiva e il corrispettivo latino impeccantia, 6 che potevano risultare ambigui ed indicare non tanto l’essere senza peccato, ma l’incapacità vera e propria di peccare. Nel predicare la possibilità di evitare il peccato, Pelagio aveva in mente non il raggiungimento di uno stato di perfezione definitivo, che, una volta conseguito, non può più essere perduto, ma una condizione a cui l’uomo deve tendere contando sulle proprie forze e sull’aiuto divino :  











‘Posse quidem hominem esse sine peccato et dei mandata custodire, si velit’. Diximus : hanc enim possibilitatem deus illi dedit. Non autem diximus quod inveniatur aliquis ab infantia usque ad senectam qui  

1  Vd. M. Annecchino, La nozione di impeccantia negli scritti pelagiani, in Giuliano d’Eclano e l’Hirpinia Christiana, Atti del Convegno, 4-6 giugno 2003, Napoli, 2004, pp. 73-86, pp. 83-84. 2  Come ha osservato P. Brown (Pelagius and his Supporters, cit., p. 101) il problema di quale fosse esattamente il comportamento che il cristiano doveva tenere era particolarmente sentito nella Roma della fine del iv secolo, dove troppe famiglie illustri erano passate al cristianesimo tramite matrimoni misti o per conformismo politico, senza quindi che si venisse a creare una vera discontinuità fra il passato pagano e il presente cristiano. 3  Vd. J. De Plinval, J. De La Tullaye, La Crise Pélagianne I, Paris, Desclée De Brouwer, 1966 (« Bibliothèque Augustinienne », 21), pag. 583. 4  Aug., De nat. et gratia 7, 8. 5  Epist. 133, 3. 6  Vd. ibid. : Pudeat ergo eos principium et sociorum suorum, qui aiunt posse hominem sine peccato esse si velit, quod Graeci dicunt ajnamavrthton. Et quia hoc Ecclesiarum per Orientem aures ferre non possunt, simulant se, ‘sine peccato’, quidem dicere, sed ajnamavrthton dicere non audere ; quasi aliud sit ‘sine peccato’, aliud ajnamavrthton, et non Graecum sermonem, qui apud illos compositus est, duobus verbis sermo Latinus expresserit. Si ‘absque peccato’ dicis, et ajnamavrthton dicere te diffiteris, damna eos ergo qui ajnamavrthton praedicant. Sed non facis.  







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numquam peccaverit, sed quoniam a peccatis conversus proprio labore et dei gratia possit esse sine peccato, nec tamen per hoc in posterum inconvertibilis. 1  

Non esistono persone che non abbiano mai commesso peccato nel corso della loro vita, ma esiste la possibilità, una volta convertiti, di cambiare vita e non peccare più. Posta in questi termini, la posizione di Pelagio non appare come una novità assoluta nel pensiero cristiano : una concezione analoga sembra espressa da Ambrogio in un passo dell’Expositio Evangelii Lucae, che, per quanto esteso, vale la pena riportare :  



Quid ad hoc referunt qui peccatis suis solacia requirentes sine peccatis frequentibus hominem putant esse non posse … quibus respondendum est prius ut quid sit hominem sine peccato esse definiant, utrum numquam omnino peccasse an desisse peccare. Si enim hoc putant sine peccato esse, desisse peccare, et ipse consentio … sin autem eum qui veterem errorem correxerit et in eam se vitae transformaverit qualitatem, ut temperet a peccato, negant abstinere delictis, non possum in eorum convenire sententiam … nam cum ecclesia ex gentibus, hoc est ex peccatoribus congregata sit, quomodo ex maculatis immaculata potest esse, nisi primo per dei gratiam, quod abluta a delicto sit, deinde quod per qualitatem non peccandi abstineat a delictis ? Ita nec ab initio immaculata – humanae enim hoc inpossibile naturae – sed per dei gratiam et qualitatem sui, quia iam non peccat, fit ut inmaculata videatur. 2  



Stando alla testimonianza di Agostino, 3 Pelagio era solito richiamarsi a questa riflessione di Ambrogio per sostenere le proprie tesi. Effettivamente, i due autori condividono la preoccupazione per l’uso di giustificare i propri peccati ricorrendo al pretesto della debolezza umana, e, soprattutto, entrambi distinguono in maniera analoga il « non aver mai peccato » (sine peccato esse) dallo « smettere di peccare » (desisse peccare). Tale distinzione risale in realtà ad Origene che, in maniera molto chiara, commentando il Vangelo di Luca, aveva detto :  











To; de; ajnamavrthton dissw`~ noei`tai: to; me;n ejn tw/` mhdevpote hJmarthkevnai, to; de; ejn tw/` mhkevti aJmartavnein. ejk me;n ou\n tou` mhdevpote aJmarth`sai oujdei;~ a[n ei[h ajnamavrthto~: pavnte~ ga;r a[nqrwpoiv pote h{marton, kai; u{steron divkaioi gevnwntai. Dunato;n de; ejktou` mhvketi aJmartavnein crhmativsai ajnamavrthton. 4  

Anche per Origene, dunque, non esistono uomini senza peccato fin dall’inizio, ma solo uomini che sono senza peccato in seguito ad un mutamento. 5 A differenza di Gerolamo, Agostino riconosce che Pelagio non predica il raggiungimento di una perfetta ed immutabile ajpavqeia, che renderebbe l’uomo pari a Dio, ma piuttosto la possibilità di astenersi dal peccato dopo la conversione : fin qui Pelagio si limiterebbe a riprendere una concezione già riscontrabile nei suoi predecessori ; dove invece Pelagio cade in errore è, secondo il vescovo di Ippona, nel non riconoscere il ruolo della grazia divina : infatti, Pelagio avrebbe citato il passo di Ambrogio che abbiamo ricordato omettendo la parte relativa alla grazia. 6 Per Agostino si può pure postulare la possibilità di raggiungere una perfezione assoluta, basta porre come condizione imprescindibile l’intervento divino a sostegno degli sforzi dell’uomo. 7 Per sottolineare la necessità della grazia, Agostino poteva appellarsi a numerosi passi di Ambrogio, la cui autorità Pelagio professava di riconoscere ; infatti, negli scritti del vescovo di Milano si trovavano affermazioni contrastanti, che potevano essere addotte a sostegno delle proprie tesi da entrambi i protagonisti della controversia. Si consideri, ad esempio, il seguente passo :  















1  Aug., De gestis 7, 20.1  Exp. Evang. Luc. i, 17-18. 3  Orig., Homil. in Lc 2. 4  Vd. anche C. Celsum 3, 69. 6  Vd. De nat. et gratia 60, 70.

2  Vd. De nat. et gratia 63, 75. 5  Vd. De nat. et gratia 63, 75.

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Non enim in potestate nostra est cor nostrum et nostrae cogitationes, quae inproviso offusae mentem animumque confundunt atque alio trahunt quam tu proposueris … Qui autem tam beatus qui in corde suo semper ascendat ? Sed hoc sine auxilio divino qui fieri potest ? Nullo profecto modo … Nam quis inter tot passiones huius corporis, inter tot inlecebras huius saeculi tutum atque intemeratum servare vestigium potest ? 1  







In contrasto con il passo del Commento al Vangelo di Luca precedentemente citato, qui Ambrogio sembra negare la possibilità di astenersi dal peccato 2 e pone l’accento sulla necessità dell’auxilium, dell’aiuto divino, senza il quale l’uomo non può niente. Infatti, di fronte a tante occasioni in cui il vescovo di Milano esalta la libera volontà dell’uomo, 3 si collocano numerose testimonianze in cui è invece la grazia ad essere posta al centro della riflessione :  





‘Adtrahe’ inquit ‘nos’. Habemus enim cupiditatem sequendi, quam unguentorum tuorum inspirat gratia : sed quia cursus tuos aequare non possumus, adtrahe nos, ut auxilio tuo fultae vestigiis tuis possimus insistere. 4  



In realtà, nel passo del De gestis precedentemente citato, 5 Pelagio fa riferimento ad una sinergia fra impegno dell’uomo e grazia divina (proprio labore et Dei gratia) : si potrebbe obiettare che egli sia stato costretto a far riferimento alla grazia divina per convincere i vescovi chiamati a giudicarlo al sinodo di Diospolis, ma abbiamo già avuto modo di vedere come l’idea di una gratia adiuvans fosse tutt’altro che estranea al suo pensiero. 6 Dunque, l’impressione che desumiamo dai testi presi in esame è che Pelagio usasse una certa cautela nel trattare il problema dell’impeccantia e che fosse ben distante dal predicare il conseguimento di una perfezione assoluta e addirittura di un’uguaglianza con Dio, come invece gli rimprovera Gerolamo. Del resto anche quest’ultimo è costretto a riconoscere che Pelagio e i suoi seguaci distinguevano in realtà fra due tipi di santità e perfezione, una umana e relativa, l’altra divina e assoluta ; nel Dialogus, infatti, Gerolamo fa dichiarare al pelagiano Critobulo :  









Argute quidem, mi Attice, memoriterque dixisti. Sed labor tuus et multiplex testimoniorum replicatio meae parti proficit. Neque enim ego hominem deo comparo, sed aliis hominibus, quorum collatione, qui studium dederit, potest esse perfectus, ac per hoc, quando dicitur ‘homo potest esse sine peccato, si voluerit’, iuxta mensuram hominis, non iuxta Dei dicitur maiestatem, cuius comparationem nulla creatura potest esse perfecta. 7  

Dunque, quando Pelagio sostiene che l’uomo può essere perfetto, intende dire che può raggiungere una condizione di santità secondo una misura umana, limitatamente a quanto consentono le sue capacità ; a confronto della maestà divina, invece, nessuna creatura può essere perfetta. Anche in questo caso la riflessione di Pelagio trova riscontro nell’insegnamento di Origene. Certamente, negli scritti dell’Alessandrino giunti fino a noi sono numerosi i passi in cui sembra prospettato il raggiungimento di un’assoluta perfezione. Origene, come prima di lui Clemente Alessandrino, delinea un percorso, un cammino graduale in cui a poco a poco le opere di carità superano le azioni dettate  

1  Ambr., De fuga 1, 1-3. 3  Vd., ad esempio, De Cain ii, 7, 25 ; ibid. ii, 9, 28 ; De Iacob ii, 3, 12. 4  Ambr., De Isaac 3, 10 ; vd. Exp. in Ps. 36, 50 ; Exp. Evan. Lc. i, 10 ; ii, 84. 6  Vd. supra, pp. 163-164.  



2  Vd. anche De Iacob i, 1, 1.







5  Vd. supra, pp. 180-181. 7  Dial. adv. Pel. i, 17.

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dalla carne, finché non resta più spazio alcuno per il peccato. 1 Quando l’occhio della mente è intento a contemplare la morte stessa di Cristo, non ci può essere ira, invidia o concupiscenza : il peccato stesso non sussiste più :  





Certum namque est, quia ubi mors Christi circumfertur, non potest regnare peccatum. Est enim tanta vis crucis Christi, ut si ante oculos mentis aspiciat, nulla concupiscentia, nulla libido, nullus furor, nulla superare possit invidia ; sed continuo ad eius praesentiam totus ille quem supra enumeravimus peccati et carnis fugatur exercitus : ipsum vero peccatum nec subsistit, quippe cum nec substantia eius usquam sit nisi in opere et gestis. 2  





La forza di queste affermazioni è temperata però da una osservazione che risponde perfettamente a quanto Gerolamo fa dire a Critobulo nel passo del Dialogus che abbiamo visto :  

Et nunc nihilominus dicemus quod Paulus et si qui sunt tales ad comparationem ceterorum perfecti dicuntur ; ad illam autem summam scientiam vel ad illam perfectionem quae in caelestibus est ordinibus nullus potest inter homines vel dici vel esse perfectus. 3  



Dunque, sembra di poter concludere che Pelagio prospettava sì la possibilità di raggiungere una condizione di purezza, di perfezione, di assenza di peccato, ma tutta umana e relativa ; non solo, l’aspetto che probabilmente gli stava più a cuore era il percorso stesso che il fedele era chiamato a compiere, non tanto l’effettivo raggiungimento del traguardo finale : importante era scuotere le coscienze, stimolare la fede tiepida di molti, imponendo la necessità di un impegno concreto, di un reale cambiamento di costumi rispetto al passato pagano. Nel far questo, Pelagio condivide esigenze che erano state proprie di molti suoi predecessori e si richiama ad una tradizione che era già stata ben rappresentata da Clemente Alessandrino ed Origene : più che introdurre una novità nel pensiero cristiano, egli riscopre e riporta all’attenzione dei suoi contemporanei l’importanza della pratica della virtù e del rinnovamento interiore, che devono necessariamente seguire al battesimo. Le testimonianze di Gerolamo e Agostino ci hanno aiutato a far luce sul modo in cui Pelagio affrontava una tematica delicata come quella dell’impeccantia : le osservazioni fatte risulteranno ora utili per chiarire alcuni aspetti di questo stesso tema nelle Expositiones.  







2. La presenza del concetto di impeccantia nelle Expositiones I passi delle Expositiones che possono essere effettivamente ricondotti al problema dell’impeccantia non sono in realtà numerosi : il genere stesso cui l’opera appartiene non favoriva probabilmente l’approfondimento e la trattazione sistematica ; non è da escludere, inoltre, che, al momento della stesura del Commento alle Epistole paoline, il problema della capacità o meno di evitare il peccato non occupasse ancora una po 



1  Vd. Orig., Expl. in Rom vi, 14, p. 541 Bammel : Sed et illud scire debemus, quod ista mortificatio actuum carnis per patientiam fiat, et non ad subitum, sed paulatim. Primo languescere eos necesse est in his qui incipiunt ; tum deinde cum ardentius proficere coeperint et abundantiore spiritu repleri, actus carnis non solum languescere, sed et tabescere incipient : ubi vero ad perfectum iam venerint, ita ut nulla in eis prorsus vel in facto, vel in dicto, vel in cogitatu peccati oriantur indicia, tunc plane actus carnis mortificasse, et ad integrum morti tradidisse credendi sunt. 2  Expl. in Rom vi, 1, p. 457 Bammel ; su questo tema Origene insiste con particolare forza, vd. anche ibid. iii, 8, p. 257 Bammel ; iv, 1, pp. 281-282 ; iv, 6, pp. 318-319 ; v, 9, p. 431 ; v, 10, pp. 451-454 ; vi, 5, pp. 474-475 ; viii, 4, p. 654. 3  Orig., Expl. in Rom x, 10, p. 813 Bammel.  



















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capitolo 6

sizione centrale nel pensiero di Pelagio : si può ipotizzare che l’importanza di questo problema sia andata progressivamente aumentando nel corso della polemica sotto lo stimolo delle osservazioni e delle obiezioni poste dagli avversari. Ancora una volta ci troviamo, dunque, di fronte ad accenni, a riferimenti brevissimi difficili da interpretare ; il quadro è complicato, inoltre, da una situazione che sembra ripetersi ogni volta che nel Commento vengono toccati temi importanti, come abbiamo visto a proposito della grazia e del libero arbitrio : la tradizione del testo risulta controversa e la scelta delle varianti va ad incidere notevolmente sul piano del contenuto. Anche in questo caso tenteremo di offrire, con la dovuta cautela, delle soluzioni, cercando di motivare ogni volta le nostre scelte. Inizieremo la nostra analisi da alcune osservazioni di Pelagio che sembrano alludere alla capacità dell’uomo di astenersi dal peccato, per poi affrontare la trattazione dei passi problematici dal punto di vista testuale. Ferguson 1 ha individuato nelle Expositiones una serie di luoghi in cui l’autore esprimerebbe la convinzione che una vita di santità, pura da ogni macchia di peccato, non solo è possibile, ma rappresenta un dovere per quanti hanno abbracciato la fede in Cristo. Il commento a 2Cor 5, 9 (p. 258 Souter), risulta, a tal proposito, significativo :  









‘Et ideo conitimur sive absentes sive praesentes placere illi’. Iam modo tales esse [actu] conamur quales futuri sumus in regno, natura incorruptibiles sine dubio et perfecti.

Un’analoga esortazione si incontra anche nel commento a Rm 6, 13 (p. 51 Souter) :  

‘Sed exhibete vos Deo, tamquam ex mortuis viventes’. Tanquam qui iam resurrexeritis, quia tunc nec carnaliter vivitur nec peccatur.

Pelagio invita i fedeli ad essere già in questa vita come saranno al momento della resurrezione : incorruttibili e perfetti. Seguendo l’esempio offerto da Cristo, l’uomo deve mantenersi puro da ogni corruzione e allo stesso tempo compiere le opere di giustizia :  



‘Repleti fructu iustitiae [per Christum Iesum]. Ut non solum sinceres ab omni corruptione sitis, sed et[iam] fructu iustitiae abundetis, exemplo Christi, qui non modo malitiam [non] habet, sed etiam bonitate redundat. 2  

La capacità di essere giusto e santo deriva all’uomo dal fatto stesso di essere stato creato a immagine di Dio :  

‘Qui secundum Deus creatus est in iustitia [et sanctitate et veritate]’. ���������������������������������� Exposuit quid sit hominem ad imaginem Dei esse creatum, ut scilicet iustus [sit] et sanctus [sit] et verax [sit], [sic]ut Deus. 3  

Chi riconosce di essere stato creato da Dio e tiene sempre presente la Sua volontà, non osa commettere peccato :  

‘Et sicut non existimaverunt deum habere in notitia[m]’. Non nescierunt, sed minime probaverunt. Ille enim probat[ur] deum habere in notitia, qui semper illum praesentem habens peccare non audet. 4  

Se vogliamo che Cristo non sia morto invano e che la redenzione porti frutto, dobbiamo smettere di peccare : Tunc sane fructuosa erit redemptio nostra, si peccare cessemus. 5  



1  Vd. Ferguson, op. cit., pp. 142-143. 2  Exp. in Phil 1, 11, p. 390 Souter. 3  Exp. in Eph 4, 24, p. 369 Souter. 4  Exp. in Rm 1, 28, p. 16 Souter ; vd. anche Exp. in Eph 4, 13, p. 365 Souter : ‘Et agnitionem filii Dei’. Ille agnovit gratiam filii dei, qui non peccat, quia ‘omnis qui peccat, non vidit eum nec cognovit eum’. 5  Exp. in Rm 3, 24, p. 33 Souter.  



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Tutte queste osservazioni testimoniano quanto Pelagio ritenesse importante sottolineare il profondo cambiamento che deve realizzarsi nella vita di chi sceglie di seguire Cristo : nessun compromesso con gli usi pagani può essere accettato, ma è necessario condurre una vita pura, non contaminata dal peccato. Non sarei propensa, tuttavia, a cogliere nei passi citati l’espressione consapevole della dottrina dell’impeccantia, così come essa sarà sviluppata e dibattuta nel corso della polemica pelagiana : mi sembra, piuttosto, che essi abbiano un valore principalmente parenetico e non differiscano nell’impostazione dalle esortazioni alla virtù e alla perfezione che possiamo incontrare frequentemente presso gli autori cristiani. Si prendano in considerazione, ad esempio, i seguenti passi dell’Ambrosiaster :  





… Nec enim peccari debere fides suadet, quippe cum dominum iudicaturum praedicet, sed delinquentibus dat medelam, ut recuperata salute sub dei lege viventes iam non peccent. 1 … hoc dicit, ut sciamus baptizatos nos iam non debere peccare, quia cum baptizamur, conmorimur Christo. Hoc est in morte eius baptizari. Illic enim omnia peccata nostra moriuntur, ut innovati deposita morte resurgere videamur ad vitam renati. 2 … quaestum peccati mortem dicit, quia per peccatum mors, ac per hoc, qui de cetero abstinent se a peccatis, stipendium accipient vitam aeternam ; qui enim non peccant, alieni sunt a morte secunda. 3  







Il tenore di queste affermazioni non è molto diverso da quello dei passi di Pelagio presi in considerazione : il concetto più volte ribadito è che, una volta ricevuto il battesimo, il fedele deve astenersi dal peccato, perché solo così potrà evitare la morte seconda, la morte dell’anima. Tuttavia, anche se insiste su questo aspetto, l’Ambrosiaster non può certo essere considerato un assertore della dottrina dell’impeccantia : al contrario, egli è fermamente convinto che per l’uomo è impossibile evitare il peccato. 4 Tale convinzione, tuttavia, non gli impedisce di esortare i fedeli ad una condotta irreprensibile. Certo, rispetto all’Ambrosiaster, Pelagio mostra una maggiore sensibilità alle problematiche di carattere morale : egli avverte con maggior forza l’esigenza di esaltare le capacità della natura umana, di stimolare gli animi ad una fede ardente, alla rinuncia ai piaceri e alla pratica della virtù : il suo atteggiamento fa presagire quali saranno i futuri sviluppi del suo pensiero, ma non credo sia possibile spingersi oltre cogliendo nei brani analizzati la piena espressione della dottrina dell’impeccantia. Più significativi risultano, invece, i seguenti passi :  











‘Finis autem praecepti[s] [est] caritas de corde puro’. Caritas ‘dei’ et ‘proximi, in’ qua ‘tota lex pendet et prophetae’ : haec si [de] corde puro sit, difficile delinquere poterimus. 5 ‘Qui enim mortuus est, iustificatus est a peccato’. Hoc est alienatus est a peccato : mortuus enim omnino non peccat. Ita et ‘qui natus est de Deo, non peccat’ : cruci fixus enim, omnibus membris dolore occupatis, peccare vix poterit. 6  









Questi brevi commenti bene esprimono l’ottimismo e la fiducia nella forza della natura umana che caratterizzano il pensiero di Pelagio : l’autore giunge a sostenere che, se mortifichiamo la carne e manteniamo un cuore puro, sarà difficile per noi commettere peccato. In questo caso Pelagio sembra essersi effettivamente spinto oltre il generico appello ad una condotta irreprensibile, giungendo a prospettare il conseguimento di  

1  Comm. in Rom 3, 8, csel 81/1, p. 105. 2  Ibid. 6, 3, p. 191. 3  Ibid. 6, 23, pp. 209-211. 4  Vd., ad esempio, Comm. in Rom 12, 16, csel 81/1, p. 409 : … ipsa enim elatio peccatum est ; acsi non sit peccator, quod inpossibile est, fit peccator, dum superbit ; vd. anche Quaest. cxxvii, 126, 4, csel 50, p. 394. 5  Exp. in 1Tim 1, 5, p. 475 Souter. 6  Exp. in Rm 6, 7, p. 50 Souter.  





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uno stato di perfezione che rende difficile una ricaduta nel peccato. Ancora una volta egli poteva trovare una conferma delle proprie idee in Origene : il commento a Rm 6, 7 sembra quasi riassumere la seguente riflessione dell’Alessandrino :  



Qui enim cogitat vel existimat apud semetipsum mortuum se esse, non peccat. Verbi gratia : si me concupiscentia mulieris trahat ; si argenti, si auri, si praedii cupiditas pulset, et ponam in corde meo quod mortuus sim cum Christo, et de morte cogitem, exstinguitur continuo concupiscentia et effugatur peccatum. Aut si odio vel ira inflammatus ad necem conciter inimici mei ; si me existimem mortuum esse cum Christo, et cogitationes mortis ponam in animo meo, exstinguitur sine dubio furor, cessat odium, conquiescit ira, peccato non datur locus, et hoc modo peccato quis mori invenitur, et vivere Deo. 1  







Rispetto a Pelagio, Origene appare più esplicito e afferma con sicurezza che, una volta morti con Cristo, non resta in noi alcuno spazio per il peccato. Le affermazioni di Pelagio sembrano improntate a maggior cautela, impressione questa confermata anche dal commento a Rm 2, 20 (p. 24 Souter) :  

‘[H]abentem formam scientiae et veritatis in legem’. Ad quam semper respiciens, errare non possis.

La glossa a questo versetto è di una brevità tale da non consentire di trarre conclusioni sicure ; tuttavia, ritengo non sia privo di importanza l’uso del congiuntivo possis, che delinea un’eventualità, più che un dato considerato certo : torna alla mente quella distinzione fra posse ed esse cui Pelagio ricorreva per spiegare come dovessero essere intese le sue affermazioni sulla capacità dell’uomo di evitare il peccato ; 2 l’impressione è che l’uso del congiuntivo in luogo dell’indicativo attenui la portata dell’affermazione. Le considerazioni finora svolte possono risultare utili per affrontare l’interpretazione dei passi controversi. Si tratta di tre brevi note rispettivamente a Rm 3, 18 ; 6, 2 e 8, 3. A Rm 3, 18 (p. 31 Souter) Pelagio osserva :  



   





‘Non est timor dei ante oculos eorum’. In timore dei conclusit, quia si timorem dei semper ante oculos habuissent, non utique [tam graviter] deliquissent : neque enim audet servus domino praesente peccare.  

L’espressione tam graviter è attestata solo dal manoscritto di Karlsruhe (A), mentre è omessa dal Codex Balliolensis (B). È chiaro che scegliere se accettare o meno il testo così come è trasmesso da A condiziona l’interpretazione dell’intero passo : A, infatti, attenua l’affermazione secondo cui chi vive sempre nel timore di Dio non pecca, aggiungendo l’indicazione « tanto gravemente ». Un situazione analoga si presenta nel commento a Rm 6, 2 (p. 49 Souter) :  







‘Nam qui mortui sumus peccato, quo modo iterum vivemus in illo ?’ Vult tam firmum esse baptizatum tamque perfectum[, quasi qui quodam modo peccare non possit].  

L’espressione quasi qui quodam modo peccare non possit è anche in questo caso attestata soltanto in A, mentre il Sangallensis 73 (G), il Parisiacus Bib. Nat. 653 (V) e uno dei manoscritti dello Psudo-Gerolamo, il Trecensis 486 (C) riportano soltanto quasi qui peccare non possit, omettendo quodam modo ; i restanti manoscritti, fra cui B, omettono l’intera frase. Mi sentirei di escludere quest’ultima possibilità : senza la parte finale, la frase risulta incompleta e di significato poco perspicuo. Resta da valutare se accettare o meno la precisazione quodam modo, che, come ha notato De Bruyn 3 tempera l’asserzione secondo cui chi è stato battezzato deve vivere come uno che non può peccare. La maggiore  







1  Orig., Expl. in Rom v, 10, pp. 453-454 Bammel. 3  T. De Bruyn, op. cit., p. 32 ; 96, n. 1.  

2  Vd. supra, pp. 180-181.

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attendibilità di A rispetto a G, V e C spingerebbe ad accogliere nel testo quodam modo ; a ben vedere, tuttavia, anche se omettessimo questa precisazione, l’uso di quasi e del congiuntivo attesta comunque una certa cautela da parte dell’autore nel suggerire questo paragone : qualunque scelta venga fatta, a mio avviso, il riferimento all’impeccantia resta piuttosto sfumato. Infine, anche la nota di Pelagio a Rm 8, 3 (p. 61 Souter) presenta una tradizione testuale alquanto complessa :  





‘Et de peccato damnavit peccatum in carne’ ... De illius carnis substantia quae ante serviebat peccato, vicit numquam peccando peccatum, et in eadem carne damnavit peccatum, ut ostenderet voluntatem esse in crimine, non naturam, quae talis a deo facta est, ut posset non peccare[, si vellet].

Mentre A e G presentano ut posset non peccare si vellet, i Fragmenta Vaticana attestano ut possit non peccare si velit, mentre B conferma la sua tendenza ad omettere parti di testo riportando solo ut possit non peccare. Utilizzando un congiuntivo imperfetto invece che presente, il manoscritto di Karlsruhe proietta nel passato la possibilità di essere senza peccato : la natura umana fu creata da Dio tale che, se avesse voluto, avrebbe potuto non peccare ; è chiaro che in tal modo la portata dell’affermazione risulta fortemente ridimensionata. Anche nei passi riguardanti l’impeccantia, come in quelli riguardanti la gratia e il libero arbitrio, la tendenza di B è quella di eliminare espressioni che appaiono non in linea con la dottrina pelagiana, mentre A offre spesso una versione ‘moderata’ delle idee che verranno sviluppate da Pelagio nel corso della polemica. È estremamente difficile effettuare una scelta fra le varie lezioni : ci possiamo solo limitare ad avanzare delle ipotesi in base a quanto fin qui rilevato. Il testo di A indicherebbe un atteggiamento cauto da parte di Pelagio nel far riferimento alla capacità dell’uomo di non peccare, un modo di affrontare il problema lontano dalle affermazioni estremiste che saranno proprie del suo discepolo Celestio : il continuo riferirsi ad una possibilità, ad una virtualità, più che ad una realtà concreta e l’importanza attribuita all’elemento parenetico ben si accordano con quanto emerso dalle testimonianze di Gerolamo e Agostino. Inoltre, abbiamo visto che, al di là delle generiche esortazioni a mantenersi estranei al peccato, non sono numerosi i passi che possono essere effettivamente ricondotti alla tematica dell’impeccantia : di questi ultimi almeno due, Rm 2, 20 e Rm 6, 2, presentano espressioni prudenti e controllate. Nel caso di Rm 6, 2, poi, sembra abbastanza plausibile che sia A a riportare il testo corretto, come si è riscontrato anche in altri casi : questo confermerebbe l’alta attendibilità del manoscritto di Karlsruhe. Infine, le varianti di A sembrano delineare uno stadio della riflessione di Pelagio in cui il concetto di impeccantia non ha ancora trovato una sua precisa definizione : si può cogliere una tendenza all’esaltazione delle potenzialità insite nella natura umana che già prelude agli sviluppi futuri del suo pensiero, ma accanto ad affermazioni ricche di ottimismo, si collocano espressioni più sfumate che sembrano rivelare un’insicurezza, un’incertezza di fondo. Ne emerge un quadro che ben si accorda alla fluidità di pensiero dimostrata dall’autore nella trattazione delle altre tematiche importanti, come il peccato, la grazia e il libero arbitrio. Sarei dunque propensa a considerare attendibile il testo come tramandato da A ; anche in questo caso l’ipotesi di De Bruyn più volte ricordata è, a mio avviso, da accogliere : un revisore pelagiano avrebbe eliminato dal Commento espressioni a suo giudizio non più in linea con gli sviluppi successivi della dottrina, attribuendo all’autore un pensiero chiaro, coerente nell’esaltazione delle potenzialità umane e nella svalutazione  

















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capitolo 6

della grazia divina che in realtà egli, al momento della stesura delle Expositiones, ancora non possedeva. Pelagio, infatti, sembra manifestare nella sua opera esegetica incertezza di fronte a temi complessi che probabilmente si trovava ad affrontare per la prima volta, mostrandosi spesso in bilico fra il condizionamento delle auctoritates che lo avevano preceduto, e la propensione verso nuove concezioni, avanzate con cautela o appena accennate, probabilmente nella consapevolezza delle conseguenze radicali che esse potevano comportare.

CONCLUSIONI

L

a nostra ricerca ha assunto come punto di partenza il testo delle Expositiones al fine di indagare contenuti e problematiche della riflessione teologica di Pelagio agli esordi della sua produzione : i commenti di Pelagio ai più significativi passi paolini, infatti, offrono un’importante testimonianza del suo pensiero prima dello scoppio della controversia con Agostino. L’analisi condotta ha tenuto presente il contesto storico-culturale in cui si è svolta l’attività esegetica di Pelagio : i vari elementi che caratterizzano la teologia delle Expositiones sono stati valutati nei loro rapporti con il pensiero cristiano precedente e successivo. Delle varie tematiche prese in analisi, dunque, abbiamo messo in evidenza gli aspetti innovativi, ma anche i legami con la tradizione precedente, con il fine di definire a che punto sia giunta la riflessione di Pelagio al momento della stesura del suo commento a San Paolo, quali concetti abbia già fatto propri rielaborandoli in maniera originale, e su quali aspetti invece il suo giudizio rimanga ancora non chiaramente definito. L’analisi del primo tema preso in considerazione, quello della lex naturae, ha prodotto risultati interessanti : se da una parte ha confermato l’influenza del pensiero stoico su Pelagio, soprattutto nell’idea di una norma comune a tutti gli uomini, nel concetto della conoscenza naturale di Dio e nell’uso insistito di termini come ratio, rationalis, rationabiliter, dall’altra ha consentito di ridimensionare il giudizio di quanti riducono il pensiero di Pelagio ad una semplice riproposizione di concetti filosofici pagani. Si è visto, infatti, come il concetto di lex naturae sia presente in numerosissimi autori cristiani : ad esempio, l’Ambrosiaster, una delle fonti sicure delle Expositiones, dedica particolare attenzione al rapporto fra lex naturae e lex litterae, e la sua riflessione sembra aver esercitato su Pelagio una certa influenza. 1 Nell’ambito di questa tematica gli aspetti più innovativi del pensiero di Pelagio riguardano la concezione tripartita della storia della salvezza, distinta in tre età : quella della natura, quella della legge e quella della fede. L’individuazione di tre epoche nel processo salvifico è ampiamente attestata nel pensiero cristiano precedente, ma Pelagio vi introduce una novità dalle profonde conseguenze : egli attribuisce ad ogni epoca un valore autonomo, ritenendo sia la legge di natura sia la legge mosaica capaci di garantire la salvezza limitatamente al tempo in cui furono in vigore, quindi prima dell’avvento di Cristo. 2 A questa conclusione Pelagio potrebbe essere giunto a partire da alcuni spunti di riflessione offerti da Origene ; il grande esegeta Alessandrino, infatti, presenta una visione diversa da quella dell’Ambrosiaster e di Agostino, sempre attenti a sottolineare il ruolo fondamentale di Cristo nel processo salvifico : come abbiamo visto, Origene, pur riconoscendo che l’osservanza della legge non può dare la salvezza, garantita soltanto dalla fede in Cristo, si rifiuta di considerare perdute le opere buone compiute da pagani e giudei ; 3 Origene non si spinge oltre, non specifica quale sia il destino di quanti, pur non credendo in Cristo, hanno avuto un comportamento retto : tuttavia, il suo interrogarsi su questo tema può aver rappresentato per Pelagio uno stimolo importante alla riflessione. La vera novità apportata da Pelagio rispetto alla tradizione precedente riguarda il peccato di Adamo e le sue conseguenze per l’umanità. Infatti, se le fonti di Pelagio, in  



















   



1  Vd. supra, pp. 39 sg.

2  Vd. supra, pp. 42-43.

3  Vd. supra, p. 47.

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conclusioni

primo luogo l’Ambrosiaster e Origene, si trovano a dover conciliare, non senza difficoltà, l’idea secondo cui tutti, in conseguenza del peccato del progenitore, sono peccatori, con la convinzione che ciascuno sia responsabile in prima persona delle proprie azioni, Pelagio elimina la contraddizione ascrivendo la morte dell’anima alle sole colpe individuali. Anche in questo caso, però, lo studio delle fonti delle Expositiones ha prodotto risultati significativi ; così, ad una analisi approfondita, il pensiero dell’Ambrosiaster è risultato tutt’altro che chiaro e definito : se l’anonimo autore riconosce l’esistenza di una colpa ereditaria che si trasmette di padre in figlio, non dimentica il ruolo della responsabilità individuale, giungendo ad una complessa distinzione fra la morte fisica, conseguenza del peccato di Adamo, e la morte spirituale, che si acquisisce tramite i peccati individuali. 1 Ma già Origene prima di lui si era dovuto confrontare con questo duplice aspetto, riconoscendo che l’inclinazione a peccare viene trasmessa sia per generazione (ex semine) sia tramite il cattivo esempio dei genitori (ex institutione). Abbiamo visto come l’Alessandrino riconosca un peso maggiore all’educazione e all’esempio negativo come veicoli del peccato rispetto alla trasmissione per via ereditaria : questo dato ci è apparso significativo per l’influenza che può aver avuto sul pensiero di Pelagio, che ancora una volta sembra aver portato alle estreme conseguenze elementi già presenti nella riflessione di Origene. 2 In relazione a questa tematica, Pelagio poteva trarre interessanti spunti di riflessione anche dalle opere di Agostino precedenti l’Ad Simplicianum, soprattutto, come abbiamo visto, per quanto riguarda il concetto di consuetudo carnalis, l’abitudine a peccare che diviene per l’uomo una sorta di seconda natura : tuttavia, nonostante sia possibile individuare delle convergenze fra i due autori nella ripresa e nello sviluppo di certe problematiche, non abbiamo condiviso il pensiero di chi ritiene che nelle sue prime opere esegetiche Agostino abbia posto al centro del suo interesse la difesa della libertà dell’uomo, con posizioni vicine a quelle di Pelagio ; infatti, per quanto egli insista in più passi sulla responsabilità personale e individui la fonte del peccato nel libero arbitrio, affianca sempre all’idea della consuetudo carnalis il concetto di mortalitas, l’idea di una labes carnis, di una ‘macchia’, di una debolezza della carne che è conseguenza della colpa del primo uomo ; tale concetto non trova spazio nelle Expositiones, dato che conferma l’impressione di una irriducibile diversità di impostazione fra i due autori. 3 Del resto, la difesa della libertà dell’uomo è tema comune praticamente a tutte le fonti di Pelagio : per quanto concerne quella che diverrà una delle tematiche fondamentali del pelagianesimo nei suoi sviluppi successivi, non si riscontra nelle Expositiones una presa di posizione innovativa o estremista che rompa con la tradizione precedente. Al contrario, Pelagio poteva trovare negli scritti dei suoi predecessori una chiara difesa del principio di autodeterminazione : l’esigenza di salvaguardare l’autonomia della natura umana e la preoccupazione di non imputare a Dio il male sono fortemente avvertite da tutti i commentatori, e in particolar modo da Origene. Così, quando si trova a commentare l’affermazione di Paolo non est volentis neque currentis (Rm 9, 16), ad interpretare l’immagine del vasaio (Rm 9, 21) o a spiegare l’episodio del Faraone o quello di Giacobbe ed Esaù, tutti passi che potevano prestarsi ad una lettura in senso deterministico, Pelagio si attiene alle spiegazioni di quanti lo hanno preceduto : sembra piuttosto Agostino ad aver introdotto, a partire dall’Ad Simplicianum, una diversa prospettiva, laddove, ad esempio, non ritiene possibile individuare nella fede futura il criterio di elezione di Gia 























1  Vd. supra, pp. 90 sg.

2  Vd. supra, pp. 77-78.

3  Vd. supra, pp. 109 sg.

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cobbe, come tutti i commentatori fino ad allora avevano fatto. Si può effettivamente notare la tendenza di Pelagio a privilegiare alcuni aspetti della questione, mettendone in ombra altri : ad esempio, insiste più delle sue fonti sull’idea che un peccatore non deve essere considerato perduto per sempre, dal momento che mantiene sempre la possibilità di pentirsi. 1 Senza dubbio Pelagio avverte più dei suoi predecessori il problema della difesa del libero arbitrio, ma nella sostanza non innova, inserendosi al contrario in una tradizione di pensiero ben consolidata. Di grande interesse sono i risultati ottenuti dallo studio del concetto di gratia nelle Expositiones. Infatti, visti i successivi sviluppi della teologia di Pelagio, ci saremmo aspettati la negazione della necessità della grazia divina, o quantomeno la sua riduzione al solo exemplum Christi. L’analisi condotta, invece, ha dimostrato come il termine gratia assuma nel Commento più significati : anche se a prevalere è il principio dell’exemplum Christi, non mancano riferimenti alla grazia come perdono dei peccati e riconciliazione con Dio, e alla grazia come adiutorium. 2 Così Pelagio mostra di non ignorare quella che i teologi chiamano « grazia santificante », il rinnovamento interiore che segue al battesimo, momento fondamentale che segna la riconciliazione con Dio e l’inizio di una nuova vita sotto la guida dello Spirito Santo ; non mancano, infatti, nelle Expositiones riferimenti chiari al mistero della morte e resurrezione di Cristo : per Pelagio l’azione redentrice del Cristo si attua non solo tramite l’esempio che Egli dà con la Sua condotta, ma anche tramite il mistero della Sua passione. Abbiamo visto, inoltre, che Pelagio fa riferimento talvolta anche alla « grazia attuale », all’aiuto, al sostegno che Dio dà all’uomo affinché possa compiere il bene : particolarmente interessante è risultato a tal proposito il commento a Rm 8, 26, dove Pelagio fa riferimento allo Spirito Santo che aiuta le nostre capacità altrimenti deboli. 3 Certo, su questo aspetto l’autore non insiste, come farà invece Agostino, per il quale fondamentale diverrà il sostegno divino in ogni singola azione : bisogna tuttavia precisare che anche negli autori cristiani precedenti, e soprattutto nei Padri Greci, il principio della « grazia attuale » non è pienamente sviluppato, mentre ampio spazio viene dato all’idea della grazia come principio di purificazione e rinnovamento interiori. 4 Anche l’individuazione di due momenti nel processo di giustificazione (una prima fase in cui la sola fede è sufficiente alla conversione, e una seconda fase in cui si rendono necessarie le opere) trova attestazione nelle fonti di Pelagio, soprattutto nell’Ambrosiaster e in Origene. Quest’ultimo è risultato una fonte privilegiata per Pelagio per quanto concerne il principio dell’exemplum Christi, che nel commento dell’Alessandrino trova ampio spazio : ancora una volta Pelagio sembra mostrare per Origene una certa predilezione. 5 Nell’analisi del concetto di grazia, come in seguito per il tema dell’impeccantia, è risultato importante operare una scelta fra la versione del testo trasmessa da A e quella trasmessa da B. L’Augiensis presenta osservazioni spesso non in linea con quelle che saranno le idee sostenute dai pelagiani nel corso della controversia : abbiamo condiviso l’opinione di De Bruyn, secondo il quale un revisore pelagiano ha eliminato dal commento espressioni considerate non conformi agli sviluppi successivi del pensiero del maestro ; infatti, gli elementi che la nostra analisi ha messo in luce sembrano convergere in questa direzione, delineando, al momento della stesura delle Expositiones, una fase ancora embrionale del pensiero di  







































1  Vd. supra, p. 144. 2  Vd. supra, pp. 162 sg. 3  Vd. supra, p. 163. 4  Per un excursus sul concetto di grazia negli autori cristiani a partire da San Paolo vd. A. de Bovis, Grace, in Dictionnaire de Spiritualitè, t. vi, Paris, 1967, pp. 698-763 ; J. Van der Meersch, Grace, in Dictionnaire de Theologie Catholique, tome sixieme, Paris, 1920, pp. 1555-1686. 5  Vd. supra, pp. 172-173.  

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Pelagio, una fase in cui egli non ha ancora pienamente sviluppato quelli che diverranno gli elementi fondamentali della sua teologia. Questa impressione è stata confermata anche dallo studio del concetto di impeccantia ; abbiamo rilevato, infatti, che i passi delle Expositiones effettivamente riconducibili a tale principio sono ben pochi : nella maggior parte dei casi sono stati riscontrati generici appelli ad una vita santa e pura del tutto simili a quelli che incontriamo in altri autori : l’Ambrosiaster, a esempio, esorta spesso ad una condotta integerrima con toni analoghi a quelli usati da Pelagio, nonostante sia fermamente convinto dell’impossibilità per l’uomo di evitare il peccato. Solo nel commento di Pelagio a 1Tim 1, 5, Rm 6, 7 e Rm 8, 3 si possono ravvisare effettivi riferimenti alla dottrina dell’impeccantia, espressa comunque con estrema cautela. Dunque, ad una valutazione d’insieme, al momento della stesura delle Expositiones Pelagio sembra aver già elaborato una concezione peculiare per quanto riguarda la valutazione delle tre epoche e la trasmissione del peccato di Adamo, mentre nell’affrontare le tematiche della grazia, della prescienza e del libero arbitro si limita a riprendere le posizioni di quanti l’hanno preceduto : si può rilevare l’insistenza su aspetti che fanno presagire sviluppi futuri, ma il suo pensiero resta nel complesso ancora molto duttile, lontano da chiusure dogmatiche, e, talora, non scevro da contraddizioni. Un ultimo dato preme ricordare : dalla nostra analisi è emersa una certa predilezione di Pelagio per le dottrine di Origene che, fra tutte le fonti, sembra quella tenuta dall’autore in maggiore considerazione. Bisogna dunque concordare con Gerolamo quando rivolge a Pelagio l’accusa doctrina tua Origenis ramusculus est ? 1 In parte sì, ma forse non nel senso in cui intendeva lo Stridonense : Pelagio, infatti, non ripropone in maniera passiva le dottrine di Origene, anzi, spesso la sua riflessione giunge a conclusioni non contemplate o taciute dal grande Alessandrino ; piuttosto il ruolo di Origene sembra essere stato quello di offrire a Pelagio continui spunti di riflessione, di insinuare dubbi che, una volta accolti, hanno permesso al monaco bretone di spingere la propria riflessione a risultati inattesi, fino all’elaborazione di una teologia nuova. Tale influsso non si coglie solo nella dottrina dell’impeccantia, ma è forse più ampio di quanto lo stesso Gerolamo sospettava, estendendosi praticamente a tutte le tematiche che abbiamo affrontato, dalla distinzione delle tre epoche, al libero arbitrio, dal destino dei giusti dell’Antico Testamento fino alla concezione della grazia divina.  

















1  Epist. 133, 3.

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«ac » « AnnSE » « asr » « AugStud » « ba » « BiZ » ccsl « CrSt » csel « ee » gcs gno « JThS » mgh « msr » « NRTh » « nts » pg pl pts « Rben » « Rbi » « ReAug » « RecSR » « rhe » « RHPhR » « rhr » « RicR » « rsr » SCh svf « ThQ » « VetChr » « ws »  





























































































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co m p o sto in ca r atte re da n te monotype dalla fa b rizio se rr a e dito re, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i po g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa).

* Aprile 2011 (c z 2 · f g 3 )

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