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Italian Pages 208 Year 2004
Armando Saponaro
VITTIMOLOGIA ORIGINI - CONCETTI - TEMATICHE
Giuffrè Editore - Milano
PRIMA 'CHE IL LIBRO SCIENTIFICO MUOIA U)it$'scientifico è un organismo che si basa su un equilibrio ~àto. Gli elevati costi iniziali (le ore di lavoro necessarie all'autore, ai redattori, ai compositori, agli illustratori) sono recuperati se le vendite raggiungono un certo volume. La fotocopia in un primo tempo riduce le vendite e perciò contribuisce alla crescita del prezzo. In un secondo tempo elimina alla radice la possibilità economica di produrre nuovi libri, soprattutto scientifici. Per la legge italiana la fotocopia di un libro (o parte di esso) coperto da diritto d'autore (Copyright) è illecita. Quindi ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è reato. Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633 ovvero dall'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni ad uso differente da quello personale potranno avvenire, per un numero di pagine non superiore al 15 % del presente volume, solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, via delle Erbe n. 2, 20121 Milano, telefax 02 809506, e-mail: [email protected].
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ISBN 88-14-11635-0
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Presentazione LA RISCOPERTA DELLA VITTIMA
Lo studio delle vittime del delitto è adesso un'attività scientifica ben stabilita ed in fase di crescita. Questo rappresenta un successo considerevole per un campo di interesse, ricerca ed intervento che, in forma sostenuta, non data da più di 40 anni al massimo. Fu appunto in risposta ad una complessa rivoluzione sociale degli anni sessanta nel secolo XX ed in reazione a tassi molto alti di criminalità a quel tempo in certi paesi più avanzati, come gli Stati Uniti, che si crearono le condizioni adatte e favorevoli per lo sviluppo della vittimologia. La rivoluzione sociale di quegli anni fu un mosaico di cambi drammatici, polemici e fortemente contestati che includono la fine del colonialismo europeo e delle sue politiche di sfruttamento ed asservimento di larghe parti del mondo; l'affermazione dei diritti umani e civili di ogni essere umano e del valore incontrovertibile della democrazia, entrambi germinati e riconosciuti a livello internazionale alla fine della seconda guerra mondiale dopo la disfatta del nazismo e del fascismo; l'affermazione in pratica di questi diritti tramite vasti movimenti per la liberazione di esseri umani sfruttati e sottomessi da secoli come gli Afroamericani negli Stati Uniti, le varie popolazioni soggiogate dai poteri coloniali, ed eventualmente le donne in generale come genere considerato inferiore ai maschi e strettamente controllate nel loro ruolo sociale e legale; il rapido sviluppo dello Stato « Provvidenza », particolarmente in Europa, che generò una consapevolezza profonda ed un'esigenza crescente dei diritti del cittadino a ricevere servizi, assistenza, ed interventi sino a quel momento non riconosciuti come un dovere preciso dello Stato e lasciati, per esempio in Italia, alla carità ed alla benevolenza, spesso esercitate da istituzioni ecclesiastiche e religiose; e l'inizio negli Stati Uniti ed in altri paesi anglosassoni del movimento crescente ed eventualmente riuscito per il riconoscimento dei diritti dei menomati fisici o mentali e poi anche degli omosessuali e del loro stile di vita.
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Presentazione
La vittima del crimine e del delitto si inserisce molto bene e da diversi lati in questi discorsi teorici, filosofici e legali ed in questa politica di riconoscimento ed assistenza pubblica, soprattutto perché, spesso, la vittima è anche membro di uno o più di questi gruppi svantaggiati, il crimine rappresentando una forma in più della loro oppressione, sfruttamento, incuria e persino complicità da parte delle classi potenti e dello Stato stesso. Gli alti tassi di criminalità degli anni sessanta e settanta, specialmente negli Stati Uniti, collegati in parte alla crescente immigrazione interna dalla campagna alle città e dal sud al nord ed al rapido sviluppo delle aree urbane, senza sempre la pianificazione e le infrastrutture necessarie, come accadde anche in Italia, diedero impeto allo sviluppo della vittimologia per almeno tre ragioni principali. La prima ovviamente fu il numero crescente di vittime del delitto che toccò più e più famiglie, quartieri, mezzi di trasporto e presenza e rendimento lavorativo. La criminalità, certo, è sempre esistita; però il numero e la visibilità del crimine aumentò molto nel contesto di popolazioni urbane in fase di enorme accrescimento. Il progresso delle scienze sociali e della criminologia nel documentare in maniera sempre più scientifica questo andamento e l'enorme impatto della televisione nel forgiare l'opinione pubblica, rese possibile una crescente consapevolezza tra i cittadini dell'esistenza ed enormità del problema. La criminalità in aumento si trasformò in una scottante problematica politica che dominò da allora in poi tutte le campagne elettorali per la presidenza degli Stati Uniti, con la sola eccezione dell'ultima nel 2004. Dunque la psiche collettiva si rese conto e cominciò a prestare molta attenzione ai tassi di criminalità e, conseguentemente, di vittimizzazione. Il sentimento generale di insicurezza urbana fece poi anche risaltare la situazione precaria della vittima del delitto, particolarmente ed ironicamente, quando era paragonata alle garanzie costituzionali e legali di cui gode l'accusato. L'ingiustizia di questa situazione e la percezione che il criminale aveva un ruolo ben riconosciuto dal diritto costituzionale e penale molto più importante e potente che quello, praticamente ridotto a testimonio dello Stato, della vittima, fu astutamente utilizzata da vari politici e da molte organizzazioni che crebbero rapidamente per riottenere per la vittima il riconoscimento ed i diritti che aveva perduto attraverso i secoli. Però non fu solamente il percepito disequilibrio costituzionale e
Presentazione
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di procedura penale tra delinquente e vittima che alimentò il movimento vittimologico. Si volle anche riscattare la vittima dalla sua posizione di sfruttamento, mancanza di rispetto e di diritti, dimenticanza, incuria e maltrattamento da parte del sistema di giustizia penale. Fu qui che il movimento per la liberazione della donna ed il femminismo sottolinearono particolarmente la situazione molto precaria e marginale della vittima dell'abuso ed aggressione sessuale ed organizzarono una campagna ben sostenuta per cambiare non solo il diritto costituzionale e penale ma anche l'amministrazione stessa della giustizia, l' approccio ed il comportamento maschilista della polizia, del sistema giudiziario e dei legali. Questa lotta per il riconoscimento della dignità della vittima di crimini sessuali si collegò strettamente a quella per il riconoscimento dell'autonomia, indipendenza e facoltà di agire come gli uomini per le donne. Se negli Stati Uniti l'emendamento costituzionale per l'uguaglianza dei diritti tra uomo e donna fallì data la resistenza di stati molto conservatori - una spaccatura culturale, morale, religiosa e politica che si rivelò di nuovo drammaticamente nelle elezioni presidenziali del 2000 e del 2004 - si fece molto progresso nel1'esigere cambi radicali nel sistema di amministrazione della giustizia. Questa riforma legale, amministrativa e pratica si estese eventualmente ad altre aree di vittimizzazione specialmente femminile, come la violenza di coppia, la violenza famigliare, la violenza sessuale nel matrimonio, la violenza sessuale tra fidanzati, « amici » e partners romantici in generale ed altre. La congiunzione dello sviluppo dei diritti umani e della protezione della vittima attuale o potenziale condusse poi anche al riconoscimento crescente della vittimizzazione infantile perpetrata da una vasta gamma di adulti che sono in contatto con bambini e dei diritti del bambino tramite la Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989 patrocinata dalle Nazioni Unite. Il numero in aumento di anziani nelle nostre società sta portando all'attenzione della società i vari temi della loro vittimizzazione, sfruttamento ed incuria da parte delle loro famiglie e di varie istituzioni. La crescente immigrazione clandestina ed illegale verso l'Europa, gli Stati Uniti, ed altri paesi sviluppati che permette o crea molte situazioni favorevoli allo sfruttamento ed agli abusi sessuali, finanziari e fisici, è un'altra area dove la protezione dei diritti umani e la vittimologia confluiscono non solo per portare ali' attenzione della comunità internazionale l'esistenza di questi problemi spesso sotterranei, non visti o ignorati a proposito ma anche per introdurre ed ottenere le
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Presentazione
riforme legali, amministrative e sociali necessarie. Lo stesso vale anche per un'altra piaga del nostro secolo che perpetua la crudele tradizione di schiavitù del passato, la tratta di esseri umani, uno dei fenomeni più sconcertanti ed attivi del nostro tempo. Lo studio della vittimizzazione maschile nell'ambito delle relazioni intime, del mondo di lavoro, della violenza sessuale contro bambini, adolescenti ed adulti, inclusi uomini incarcerati oppure in istituzioni « totali » come l'esercito, ospedali psichiatrici, convitti, è molto sottosviluppata per ragioni soprattutto culturali di machismo ed anche perché il movimento per la liberazione delle donne ed il femminismo hanno sottolineato il genere femminile come quello esclusivamente vittima dei soprusi degli uomini, una visione che bisogna correggere, specialmente con la parificazione progressiva, anche se non completa, di uomini e donne nelle carriere, salario, opportunità di avanzare, facoltà di decidere ed indipendenza. Lo sviluppo della vittimologia dagli anni sessanta del XX secolo in poi non fu e non è limitata all'attivismo politico, alla riforma legale e sociale, o all'intervento in difesa di differenti tipi di vittime. Tutte queste attività si fondano ed allo stesso tempo diedero impeto allo sviluppo di concetti, analisi, teorie, e ricerche al livello internazionale. Eventualmente, la vittimologia in questo modo ha influito e sta influendo su formulazioni teoriche, terminologie, strutture di supporto intellettuale e pratiche di altri campi scientifici, medici, legali, di servizio sociale, psicologici e psichiatrici con modificazioni importanti e profonde e cambi di valori, percezioni ed attitudini che esistono da secoli. È chiaro che la vittimologia ha ottenuto un rapido successo nel collegare teoria, riforma sociale e legale, ricerca ed interventi sul campo. Persino al livello popolare, oggigiorno, la terminologia che si riferisce alla vittima del delitto ed della violazione di diversi diritti è ormai parte del linguaggio quotidiano dei media, dei politici, e della gente. Non è riservato a specialisti o sconosciuto al pubblico. Ha penetrato la cultura stessa aumentando la consapevolezza dei cittadini sulla complessa problematica, sfide ed ostacoli che crimine e vittimizzazione e le loro conseguenze presentano alla società. Di fatto ci sono già quelli che criticano la vasta espansione della percezione di essere vittima a vari livelli economici e sociali, l'apparente facilità con la quale la gente si percepisce come vittima e la presunta esistenza persino di « vittime professionali. » Convulsioni politiche, purificazione etnica, genocidio, disastri na-
Presentazione
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turali come terremoti, eruzioni vulcaniche e tsunami, invasioni e guerra, guerriglia e interventi armati di stati all'interno o esterno, incidenti di traffico terrestre ed aereo ci obbligano a riconsiderare il campo, l'ambito, la definizione e le linee di demarcazione della vittimologia. La prospettiva « vittima del crimine, del delitto » pare troppo limitata e limitante quando il tema di fondo pare essere lo stesso: la perdita di controllo sulla propria vita, ambiente circostante, ed il destino di esseri amati e di altri; patire danni e sofferenze che uno non si merita e non si aspetta; rendersi conto della propria vulnerabilità ed a volte impotenza di fronte a forze superiori; soffrire conseguenze materiali, finanziarie, di salute fisica e mentale, di libertà di movimento e di azione a corto o a lungo termine. La discussione sui limiti ed ambito della vittimologia continua e la risposta dipendono non solamente da concezioni e parametri intellettuali e scientifici ma anche da interessi politici, materiali, accademici e da pregiudizi morali, culturali e legali. Il trattato di Vittimologia del professor Armando Saponaro costituisce un contributo sostanziale e rilevante alla letteratura di sintesi vittimologica di lingua italiana. Senza dubbio influirà positivamente sullo sviluppo della vittimologia in Italia e sul suo ubicarsi e stabilirsi fermamente e solidamente come una delle scienze sociali e prospettive legali più importanti ed innovatrici del nostro tempo. Questo volume, congiuntamente ad altri, renderà possibile una migliore comprensione, consapevolezza e riconoscimento della tematica vittimologica in Italia. È un importante documento di base per provvedere le fondamenta necessarie perché il campo della vittimologia possa svilupparsi nella direzione giusta, con chiarezza concettuale e teorica, con un'ampia comprensione dei maggiori approcci e metodologie nella vittimologia a livello internazionale e nazionale, con una conoscenza aggiornata dei risultati ed applicazioni pratiche dei più importanti progetti di ricerca nel mondo e con una delineazione autorevole delle riforme legali più importanti introdotte in diversi paesi del mondo. Quest'opera colloca la vittimologia generale dentro di una struttura solida, ben definita, e chiara che allo stesso tempo funziona da scudo per la sua protezione e per assicurarne un futuro e da sorgente dinamica ed energetica per il suo sviluppo ulteriore. Rappresenta una linea di base che sintetizza quanto si sa sino ad oggi sulla vittimologia e grazie alla vittimologia a livello internazionale ed allo stesso tempo provvede la struttura, l'impalcatura necessaria e ben solida perché in Italia la vittimologia possa continuare a crescere, a svilupparsi, ad in-
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Presentazione
spirare progetti di ricerca empirica e concettuale, ed a dar impeto ariforme legali, culturali ed amministrative di cui c'è gran bisogno e che saranno di grande beneficio alle vittime. Senza dubbio è ora in Italia di aumentare e potenziare l' apprezzamento delle vittime e di vari interventi a loro favore. Come l'analisi sempre più scientifica del crimine e del suo controllo ci ha permesso di afferrare in un modo più sofisticato le proprietà emergenti della devianza che combinano l'atto e l'attore con le risposte che evocano, come ci siamo resi conto che l'analisi di uno non si può portare avanti separatamente dall'altro, così una fenomenologia vittimologica più audace e coraggiosa non solo può rianimare una figura a volte marginale ma anche introdurre un altro filone dialettico nella criminologia di delitti, delinquenti, controllo e prevenzione. Solo allora saremo capaci a decifrare molto più completamente il crimine come una conversazione di gesti significativi nei quali le vittime e chi offende costruiscono se stessi, l'offesa, e l'un l'altro nelle fasi dell'atto che si sviluppano e si succedono. Questa nuova prospettiva renderà possibile politiche criminali più progressiste come la prevenzione del crimine e l'introduzione della giustizia restorativa. Il lavoro di Armando Saponaro contribuisce sostanzialmente a creare le condizioni concettuali e giuridiche propizie perché queste essenziali innovazioni possano nascere, fiorire e radicarsi in Italia. Per questo è un'opera di cui si aveva bisogno, importante, utile e benvenuta. EMILIO
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VIANO
Ordinario di Criminologia e Vittimologia American University Washington D.C.
INDICE
Presentazione ........ :..................................................................................................
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Prefazione ... ........................ .. ...... .. ....................... .. ...... .............................................
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Parte Prima LE ORIGINI
1. L'INSORGERE DI UNA NUOVA PROSPETTIVA D'INDAGINE IN CRIMINOLOGIA: DALL'« AUTORE » ALLA « VITTIMA » 1.1. 1.2. 1.3. 1.4.
I primi passi dell'approccio vittimologico nella prima metà del secolo .. Frederick Wertham ..................................................................................... Hans von Hentig ......................................................................................... Benjamin Mendelsohn .................................................................................
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2. IL CRIMINE È BIDIMENSIONALE. È POSSIBILE UN APPROCCIO UNITARIO? 2.1. 2.2. 2.3.
La prima vittimologia come criminologia "olistica"? ............................... Le radici positiviste della « prima » vittimologia ...................................... La vittimologia « positivista », « critica » e « radicale » ...........................
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Parte Seconda I CONCETTI
3. SCIENZA, DISCIPLINA O PARADIGMA 3.1. 3.2.
Una dibattuta querelle ................................................................................. Né scienza né disciplina .............................................................................. 3.2.1. La vittimologia «criminale» come branca della criminologia ..
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Indice
3.3.
3.2.2. La vittimologia generale................................................................ 3.2.3. La "vittimagogia" o vittimologia clinica ...................................... Considerazioni conclusive ...........................................................................
35 47 50
4. VlfflMOLOGIA CRIMINALE 4.1. 4.2.
Per una definizione di vittimologia ............................................................ Per una definizione transnazionale di vittima ...........................................
63 68
( 5. TASSONOMIA DELLE VlfflME 5.1. 5.2. 5.3.
5.4.
Introduzione ................................................................................................ La tipologia di vittime di von Hentig ........................................................ Le predisposizioni vittimogene specifiche ................................................. 5.3.1. Esiste una« attitudine» a diventare vittima? ............................. 5.3.2. Osservazioni critiche e sviluppi attuali ........................................ Le classificazioni di vittime basate sulla condivisione della responsabilità (shared responsibility) .................. ... .......... ....... ..... .... .. .... .. ....................... .... 5.4.1. Mendelsohn ovvero la perdita dell'innocenza ............................. 5.4.2. Schafer ovvero la« responsabilità funzionale» della vittima ....
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6. LA VlfflMA CATALIZZATRICE 6.1. 6.2.
I primi studi empirici microsociologici ...................................................... L'evidenza empirica della« precipitazione vittimale » ............................. 6.2.1. La precipitazione omicidiaria (Wolfgang) ................................... 6.2.2. Innocenza e colpevolezza nel crimine di stupro (Amir) ............
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Parte Terza
LE TEMATICHE 7. LA MISURAZIONE DELLA VlfflMIZZAZIONE 7.1. 7 .2. 7 .3.
L'approccio macrosociologico ..................................................................... Il problema della criminalità nascosta e il rischio differenziale di vittimizzazione .................................................................................................... Le inchieste di vittimizzazione ...... .. ...................... ...... .. .......... .... .. .. .. .. .. .. .. . 7.3.1. Le indagini a livello nazionale ...................................................... 7.3.2. Le indagini a livello internazionale ..............................................
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Indice
8. DATI EMPIRICI E MODELLI TEORICI
8.1. 8.2.
Il profilo socio-demografico della vittima ................................................ . Principali modelli teorici ............................................................................ . 8.2.1. Il modello teorico dello « stile di vitf » ..................................... . 8.2.2. Il modello teorico delle attività di ro!ttine ................................. . ·8.2.3. Il modello teorico del « gruppo equivalente» ........................... . 8.2.4. Un tentativo di sintesi .................................................................. . La vittimizzazione secondaria .................................................................... .
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Bibliografia ...............................................................................................................
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8.3.
PREFAZIONE
La vittimologia è tuttora considerata una scienza giovane anche se ormai è passato oltre mezzo secolo dai primi approcci « vittimologici » da parte di coloro che sono considerati i suoi pionieri. L'iniziale affascinante contatto con tale prospettiva da parte mia è awenuto nel1' ormai lontano 1984 con la partecipazione al « Third International Institute on Victimology » tenutosi a Lisbona. All'epoca i fondamenti scientifici, teorici ed empirici della vittimologia in sede internazionale avevano già avuto modo di affermarsi sufficientemente, anche se naturalmente non mancavano voci critiche od apertamente polemiche soprattutto per quanto concerneva la sua autonomia rispetto alla criminologia, oppure la delimitazione del suo ambito di studio od ancora addirittura la sua utilità o funzionalità a livello delle politiche criminali e del controllo sociale. Da quel momento l'interesse per la vittimologia si è sempre mantenuto vivo ed in un paio di occasioni ho cercato di esplorare la possibile applicazione del paradigma vittimologico ai problemi bioetici. Non da meno per alimentare la fiamma di questo interesse è stato certamente fondamentale nel corso di questi anni il rapporto di scambio scientifico e culturale ma anche formativo di guida e consiglio con Emilio Viano dell' American University, che a buon diritto si può qualificare uno dei maggiori esponenti della vittimologia nordamericana. Senza considerare l'onore della sua amicizia. In Italia la vittimologia è apparsa negli anni settanta grazie ai contributi di Autori come Gulotta e Balloni ed oggi è assurta a tale dignità da meritare una voce--nelle correnti enciclopedie del sapere giuridico e sociale. Gli studi sulle vittime del reato, in particolare, sono stati e sono senza ombra di dubbio presenti ed anche abbastanza numerosi, ma ancora caratterizzati da una certa frammentarietà probabilmente dovuta alla multidiscìpliriarietà ed interdisciplinarietà che è prerogativa dell'ambito criminologico. Considerevole attenzione è stata sempre dedicata agli aspetti socio-demografici ed alla prevenzione del crimine/vittimizzazione od ad analisi settoriali con riferimento a cri-
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Prefazione
mini specifici. È anche vero che solo raramente però si sono utilizzati gli strumenti concettuali, teorici e me1odologici propri e peculiari della Vittimologia, così come si sono venuti costruendo ed elaborando nell'intenso e fertile dibattito scientifico e politico dell'arena internazionale. Anche molte tematizzazioni aventi ad oggetto peculiarmente i bisogni, i diritti, i servizi in favore delle vittime, il rapporto della vittima con il sistema della repressione penale e del controllo sociale, paura del crimine e sicurezza, la vittima come attore sociale, la costruzione sociale della vittimizzazione, salvo rare eccezioni, sono state solo sfiorate. Ancora nel 2000 un convegno di studio promosso dall'Accademia dei Lincei e dal CNR poteva avere quale proposta tematica « La vittima del reato, questa dimenticata». Una dei pregevoli interventi di Augusto Balloni, per l'appunto cercava di individuare le cause e gli effetti del ritardato sviluppo della vittimologia in Italia. L'Osservatorio per le vittime del reato, oggi Commissione sui problemi e sul sostegno delle vittime del reato, è stato istituito presso la Direzione Generale degli Affari Penali del Ministero della Giustizia solo nell'aprile del 2001 peraltro in conseguenza della Decisione quadro del Consiglio d'Europa del 15 marzo 2001, e le varie proposte di legge quadro per l'assistenza, il sostegno e la tutela delle vittime dei reati, nel tentativo di adeguarsi ai parametri normativi promossi in Europa sono tuttora pendenti in sede legislativa. Ciò è palpabilmente il segno della mancanza di una cultura vittimologica a livello scientifico, prima, e sociale e politico poi, ma soprattutto, - non solo da parte del grande pubblico-, la percezione della vittimologia come una scienza od area disciplinare o branca criminologica che dir si voglia, "arcana" o misconosciuta, o finanche labile e fumosa nei principi e nei contenuti, come avveniva anche per la criminologia ai suoi albori. In modo ancor più sorprendente si può cogliere lo stesso segno nelle parole anonime ma drastiche, in cui ci si imbatte talvolta navigando in rete. Nel commentare il decreto ministeriale di istituzione della suddetta Commissione sui problemi e sul sostegno delle vittime dei reati, sul noto sito di una associazione di operatori di giustizia, un anonimo estensore confessava infatti candidamente da un lato che non era fin a quel momento a conoscenza dell'esistenza di esperti di vittimologia, e pur avendo ammesso di nulla conoscere della disciplina esprimeva la ferma opinione che degli stessi si potesse continuare a fare a meno. Il presente certamente modesto contributo pertanto, si rivolge innanzitutto agli studenti universitari, ma anche in senso lato a tutti
Prefazione
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coloro che per professione, o ruolo istituzionale, od attività debbano occuparsi delle « vittime », agli studiosi od anche a coloro che per mero interesse personale vogliano accostarsi alla « vittimologia ». Propone un percorso ovviamente sintetico e certamente non esaustivo, di approfondimento del pensiero e del paradigma vittimologico, dei suoi peculiari strumenti concettuali e tematizzazioni principali, senza trascurare l'apertura ad un approccio ed un filtro critico e problematico. Con la speranza di poter stimolare anche solo in modo esiguo a promuovere una base di dibattito e discussione sui temi delle vittime, in particolare della criminalità, del loro rapporto con la società e dei mezzi per assicurare loro una maggior tutela ed attenzione. ARMANDO SAPONARO
Parte Prima
LE ORIGINI
Non si può comprendere la psicologia dell'omicida se non si comprende la sociologia della sua vittima. Ciò di cui abbiamo bisogno è di una scienza della vittimologia FREDERIC WERrnAM,
The Show of Violence
1.
L'INSORGERE DI UNA NUOVA PROSPETIIVA D'INDAGINE IN CRIMINOLOGIA: DALL'« AUTORE » ALLA « VITIIMA »
1.1. I primi passi dell'approccio vittimologico nella prima metà del secolo. 1.2. Frederick Wertham. - 1.3. Hans von Hentig. - 1.4. Benjamin Mendelsohn.
1.1.
I primi passi dell'approccio vittimologico nella prima metà del secolo.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare la data di nascita della vittimologia è sufficientemente precisa. Come è awenuto anche in altri campi del sapere essa coincide con il primo uso del neologismo « vittimologia » creato per rappresentare un nuovo complesso di idee, una nuova prospettiva. Essa si colloca nella prima metà del secolo grazie al contributo di coloro che ne furono pionieri. La vittimologia come approccio nasce con il contributo di tre autori principali, Wertham, von Hentig e Mendelsohn, nel solco ideale tracciato dal positivismo criminologico di cui non si erano ancora spenti gli echi e gli stimoli prodotti a livello teorico. Naturalmente vi furono anche altri e diversi apporti iniziali ad opera di studiosi come Ellenberger (1954; 1955), di maggior orientamento psichiatrico. La vittimologia però, pur essendo indubbiamente interdisciplinare e multidisciplinare, nel suo sviluppo teorico e metodologico ha visto prevalere una preponderante prospettiva sociologica. Si è costruita come una « sociologia della vittima » proprio nel senso auspicato da Wertham e nella letteratura scientifica soprattutto internazionale come pionieri sono maggiormente od esclusivamente ricordati accanto a quest'ultimo von Hentig e Mendelsohn 1 • Il motivo principale
1 Valorizzano il contributo di Ellenberger soprattutto Correra (1999), e Portigliatti Barbos (1999).
Le origini
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deriva anche dalla circostanza che alcuni aspetti delle idee di Ellenberger sulla vittima latente e potenziale erano già stati sviluppati ampiamente da von Hentig stesso (1948) in modo più sistematico con la sua tipologia di vittime. Altri come il concetto di predisposizione furono compiutamente articolati e strutturati successivamente da Fattah (1971). Esaminiamo pertanto il contenuto innovativo dei tre tradizionali pionieri della vittimologia, la cui importanza deriva oltretutto dalla considerazione che per ciascuno ha mantenuto in parte un valore nell'attualità.
1.2.
Frederick Wertham.
Se sin dal finire degli anni trenta la v1ttrma aveva attratto la riflessione di altri studiosi, il vocabolo « vittimologia », usato per designare appunto lo studio della vittima nel considerare l'azione criminale fu coniato da Frederick Wertham, uno psichiatra, nel suo testo The Show o/ Violence (1949). Non si può dire che non abbia avuto successo. Anche coloro (Cressey 1979) che successivamente le hanno negato la dignità di « disciplina » od addirittura negavano che essa potesse avere una effettiva e coerente base teorica o concettuale, riconoscevano al termine « vittimologia » la sua forza memetica 2 per una sorta di tirannia del linguaggio. Forza derivante forse soprattutto per la sua semplicità nella lingua inglese come sostenuto da Cressey, o a maggior ragione per la ideale simmetria delle idee che poneva rispetto alla criminologia. Cerchiamo di comprendere l'esatta portata dell'interessante intuizione di Wertham che cercava di introdurre una prospettiva sociologica della vittima nello studio del crimine. A torto è quasi sempre menzionato unicamente per l'uso del termine « vittimologia » e non quale pioniere della disciplina 3 • Le prime compiute articolazioni della
2 La Vittimologia come termine, e nel significato culturalmente riprodottosi, costituisce un ottimo esempio di meme di grande forza contagiosa, al pari di altri come.la Bioetica. Sebbene oggetto di controversie il meme (Dawkins 1979), - quale unità di informazione che si replica di mente in mente generando una sorta di epidemia culturale, diffondendosi e diffondendo l'idea di cui è portatore causando il progresso delle arti e delle scienze-, è oggi al centro di un interessante e costruttivo dibattito epistemologico (Ianneo 1999). 3 Si qualificherà la vittimologia nel testo quale « disciplina » con l'avvertenza che non si vuole entrare nel merito del conflitto di opinioni se essa costituisca sempli-
Una nuova prospettiva d'indagine in criminologia
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prospettiva vittimologica sono invece di fatto generalmente attribuite a Mendelsohn e von Hentig. Wertham invero auspicava una "sociologia della vittima" del reato di omicidio. Da questo punto di vista il senso attribuito da Wertham alla nuova scienza, di cui promuoveva la ribalta, era spiccatamente sociologico. Egli infatti analizzava il crimine di omicidio ed il problema della violenza umana in generale, da un punto di vista psicologico e psichiatrico. Allora come oggi° l'efferatezza, la crudeltà o la brutalità dei crimini violenti ed in particolare dell'omicidio fanno sorgere il problema di dover discriminare il folle, il quale andrà esente dalla sanzione penale per difetto di imputabilità, da colui che ha la capacità di discernere il bene dal male, di autodeterminarsi, ovvero in termini giuridici moderni, di intendere e volere. Ciò senza farsi trascinare dal senso comune che vede comunque l'atto omicida come oscuro, incomprensibile, in modo simile ai popoli primitivi che spesso si raffigurano l'omicida come posseduto da un demone soprannaturale (Wertham 1949: 249). Nel sistema penale lo psichiatra, allora come oggi, sebbene secondo principi psichiatrici e giuridici aggiornati, ha il compito di determinare scientificamente se al momento di commettere l'omicidio il reo è stato colto da un impulso irresistibile, od anche se era incapace di distinguere il bene dal male, in certi casi dilemma tuttora attuale e non sempre di facile soluzione (Ponti-Fornari 1995: 79 ss.). All'epoca di Wertham indagare le cause profonde dell'atto omicida da un punto di vista psicologico e sociale era un tema ancora non abusato. Wertham (1949: 251) riteneva troppo meccanica la rappresentazione di un conflitto dinamico nella mente dell'omicida tra l'impulso aggressivo, distruttivo, violento, o sadistico e le controspinte dell'inibizione e della coscienza. Attribuiva grande importanza alla di-
cemente una branca della criminologia, owero una scienza separata ed autonoma anche accademicamente. Quel che è certo è che soprattutto a livello internazionale ha ormai sviluppato e consolidato un insieme complesso e coordinato di nozioni, concetti, terminologia, strumenti metodologici, ed approcci, oggetto di studio ed insegnamento sicché la parola « disciplina », nel suo esatto significato etimologico, nel riferirsi alla vittimologia, appare sufficientemente corretta e neutra, e meno compromettente che qualificarla « scienza ». La qualifica di « disciplina scientifica » appare poi oggi correntemente riconosciuta seppur trascurando la problematizzazione in sede nazionale ed internazionale della sua dignità scientifica autonoma: vedi Bertelli (2002: 184).
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Le origini
stinzione tra l'impulso omicida o violento e la razionalizzazione, intesa come autogiustificazione da parte dell'autore del suo atto. L'impulso era « individuale » e la razionalizzazione « sociale », come prodotto dell'interazione della personalità con l'ambiente sociale. Per compiere un omicidio owero un atto violento erano necessarie entrambe. La razionalizzazione in presenza dell'impulso individuale aggressivo o violento consentiva che si potessero sopire i sensi di colpa nel giustificare a se stessi l'azione da compiere. Era sociale nel senso che per Wertham simbolizzava l'ideologia di uno stadio precedente di civilizzazione o di un segmento della società e si costruiva socialmente. La struttura della coscienza dell'omicida e le sue razionalizzazioni pertanto trovavano origine nella storia stessa della società. L'atto omicida in conclusione non poteva essere spiegato solo sulla base di un innato istinto di aggressione e distruzione a livello individuale ma anche dall'interiorizzazione di un universo di valori che davano luogo alla fin fine sempre a generalizzazioni e pregiudizi sociali. Alcuni di questi infatti nell'opinione di Wertham consentivano al reo di « deumanizzare » la vittima, ed indicava ad esempio talune categorie abitualmente oggetto di dis-umanizzazione nella storia della società: i minori, i pazzi incurabili, gli aborigeni, i subumani e così via (1949: 253). La negazione della vittima come essere umano consente di razionalizzare e giustificare agli occhi del reo la sua uccisione o comunque un atto violento. Meccanismo semplificato di autogiustificazione e di razionalizzazione della propria responsabilità che in ambito criminologico è stato poi approfondito e sviluppato da Sykes e Mazta (1957), avendo come premessa l'interazionismo simbolico di Mead (1934), che in quegli anni veniva elaborato in seno alla Scuola di Chicago e di cui Wertham è evidentemente tributario. Ecco perché Wertham, - nell'analisi e nella discussione dell'omicidio, delle sue cause e motivazioni-, giudicava la vittima« l'uÒmo dimenticato». Il ruolo e lo status sociale della vittima erano il riflesso del senso che l'azione omicidiaria assumeva per il reo e da cui era orientata nella selezione della vittima alla luce delle sue credenze, valori, pregiudizi, così come socialmente costruiti ed interiorizzati nell'interazione della personalità dell'agente con l'ambiente sociale. L'azione dell'omicidio e l'atto criminale violento si spiegavano in modo compiuto pertanto soltanto se si studiava questo legame tra il criminale e la sua vittima. Pur presupponendo dei fattori negativi della personalità ed esclusi i casi di follia vera e propria, in breve, l'omicida od il violento poteva comunque agire tendenzialmente solo nei confronti delle vittime ai suoi oc-
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chi in qualche modo negate, disumanizzate, in base ai suoi stereotipi e pregiudizi, socialmente costruiti, trasmessi ed acquisiti. Al momento dell'impulso omicida in tal modo poteva razionalizzare e negare la propria responsabilità ed i sensi di colpa conseguenti. Così si giungeva dalla psicologia dell'omicidio alla sociologia della vittima rispecchiandosi la seconda nella prima. Wertham poneva a conforto del suo convincimento alcuni esempi chiarificatori tra cui alcuni famosi casi, come quello delle donne socialmente frustrate e vedove solitarie vittime di Landru 4 , i giovani disoccupati ed emarginati vittime di Haarmann 5 , le « donne di strada » di Jack lo Squartatore. Ad ogni criminale la sua vittima. L'importanza attribuita a von Hentig, è tale che Wertham spesso nella ricostruzione storica del pensiero vittimologico viene menzionato a causa quasi esclusiva della sua paternità del neologismo che avrebbe dato il fortunato impulso allo sviluppo della disciplina. Ciò nonostante l'analisi di Wertham, pur ancora embrionale e frammentaria, e forse semplicistica, storicamente posteriore quanto meno alle prime riflessioni di von Hentig, è indubbiamente interessante dal punto di vista psico-sociale. Essa evidenzia un legame tra il processo di razionalizzazione dell'agente ed i caratteri individuali e sociali delle sue vittime. I processi di razionalizzazione che farebbero sì che l'impulso omicida o violento non sia controbilanciato od inibito selezionerebbero solo quelle particolari vittime secondo le credenze, le generalizzazioni, gli stereotipi, i pregiudizi del reo, di colui che commette l'azione violenta od omicida. In definitiva Wertham affermava che quanto meno difficilmente l'agente commetterebbe un omicidio ovvero un atto violento
4 Henri Desirè Landru era un famoso omicida seriale dei primi anni del 1900 nel periodo della prima guerra mondiale. Egli agì in Francia tra l'aprile del 1915 ed il gennaio del 1919. Uccise dieci donne seguendo lo stesso schema e cioè le seduceva, le sposava e le sopprimeva impossessandosi dei loro patrimoni mobiliari ed immobiliari. Altrimenti noto come "Barbablù" con il nome del famoso e mitico personaggio del racconto di Charles Perrault (1697) per tale modus operandi e per la tipologia delle sue vittime appunto, donne sole o vedove di mezz'età. Ghigliottinato in data 25 febbraio 1922. 5 Friedrich « Frizt » Haarmaan od anche conosciuto come il "macellaio di Hannover". Altro famoso omicida seriale nel periodo tra le due guerre in Germania. Omosessuale, le sue vittime preferenziali erano costituite appunto da giovani sbandati od emarginati o fuggiti da casa, dopo l'omicidio ne smembrava i corpi e ne vendeva le membra al mercato nero della carne. Fu condannato a morte per ventisei omicidi, ma era sospettato di almeno quaranta vittime.
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nei confronti di una vittima che abbia caratteristiche sociali ed individuali diverse da quelle corrispondenti ai codici culturali dell'agente stesso. Ipotesi che se non generalizzata può essere considerata accettabile ed attuale anche nella moderna vittimologia. Ad esempio per quanto concerne i cosiddetti hate crimes cioè crimini d'odio che riflettono un pregiudizio razziale od ostilità interpersonale determinata da motivi etnici, religiosi, xenofobi, e così via o nei confronti di minoranze o determinate categorie, omosessuali, prostitute ecc.. In questo caso si ritiene che gli stereotipi quali generalizzazioni sull'altrui comportamento e qualità personali agiscano come un "grilletto" (trigger) per l'esplosione della violenza in differenti culture. Lo stereotipo e la conseguente razionalizzazione impedisce che agli appartenenti a quel determinato gruppo sociale si riconosca lo status di eguali, cittadini e finanche di esseri umani, a seconda dei casi. Non è la stereotipizzazione che causa la violenza ma la violenza fisica e più facile da agire nei confronti di una vittima appunto « deumanizzata » (Wallace 1998: 212).
1.3.
Hans von Hentig.
La stessa idea di fondo di Wertham in modo maggiormente articolato e compiuto fu espressa da Hans von Hentig 6 • Non a caso il titolo di quella che a ragione viene considerata l'opera pur pionieristica, ma di maggior ampio respiro e sistematica del ruolo della vittima nel reato, è proprio il suo The Criminal and his Victim (1948). L'opera in realtà affrontava in modo globale quella che l'autore definiva la "sociobiologia" del crimine, tuttavia alla vittima era dedicato autonomamente un intero capitolo. L'autore aveva però prima dello stesso Wertham già affrontato il tema dell'interazione tra il criminale e la vittima. Pur ammettendo che ci sono molti atti criminali in cui si evidenzia un minimo o nessun contributo da parte del vittimizzato, d'altro canto aveva osservato che altrettanto frequentemente vi è una effettiva reciprocità nel legame che si instaura tra il reo e la vittima (von Hentig
6 Criminologo tedesco di fama trasferitosi negli Stati Uniti a seguito di alcuni diversità di vedute con il Nazismo. Si raccontava in quegli anni che avesse personalmente sfidato Hitler rifiutando di prendere parte al governo quando il futuro Fiihrer glielo chiese (Wolfgang 1978).
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1941). Da un punto di vista storico non ebbe il pregio di coniare il termine « vittimologia », pur tuttavia lo si ricorda a pieno merito come "padre" della disciplina assurta con lui a piena dignità scientifica (Portigliatti Barbos 1999). Sicuramente fu il suo contributo a stimolare il dibattito negli Stati Uniti intorno alla figura della vittima, dando l' avvio al nuovo settore di indagine ed allo sviluppo di ricerche tese ad approfondire quali fattori, individuali e sociali, espongano alla vittima alla vittimizzazione e la possibile prevenzione (Bandini 1993 ). L'importanza attribuita a von Hentig è comunque legittima. È stato indubbiamente il primo a studiare la vittima del reato in modo sistematico cercando di tipizzarne le caratteristiche ed il contributo alla causazione del crimine. Non per nulla il titolo del capitolo dedicato alla vittima poteva considerarsi provocatorio (Fattah 2002) per quei tempi: The Contribution o/ the Victim to the Genesis of Crime. Era provocatorio in un testo di criminologia poiché in quel momento lo studio scientifico del crimine era orientato sull'autore del reato, sia nell'indirizzo antropologico criminale, - predominante in Europa per l'influenza della Scuola Positiva-, sia nell'approccio socio-ambientale introdotto nella criminologia nordamericana dalla Scuola di Chicago. Per tali impostazioni la vittima fu trascurata e negletta ed il suo studio scientifico ha faticato a farsi strada (Portigliatti Barbos 1999). Il diritto penale e la criminologia potevano dirsi dominati da « un imperante stereotipo manicheo » che portava ad osservare il crimine come « una contrapposizione tra il reo, emblema del male, e la vittima, innocente soggetto passivo », al punto che la stessa quasi appariva un « sottoprodotto necessario ed imbarazzante del crimine » (Portigliatti Barbos 1999: 319; Viano 1976). Il punto di partenza di von Hentig fu proprio la critica di tale stereotipo manicheo raffigurato meccanicamente dalla legge penale. Seguendo il criterio formale ed esteriore della legge penale nei reati in cui la vittima non è « fittizia » (stato, ordine pubblico, salute e così via) ma reale (omicidio, rapina, stupro ecc.) si distinguerebbero due partners: colui che agisce e colui che subisce l'azione; colui che infligge la sofferenza e colui che la subisce; il soggetto che attivamente infrange la legge penale (perpetrator) e chi passivamente ne subisce delle conseguenze. La relazione tra il criminale e la vittima secondo tale criterio formale ed esteriore della legge penale è soggetto-oggetto. Von Hentig osservò che sul piano sociologico e psicologico tale
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meccanica relazione soggetto-oggetto 7 in numerosi casi non rispecchia la realtà. La vittima non ha sempre un ruolo passivo, non è l' oggetto della relazione, ma spesso interagisce attivamente con il criminale in molti modi. Al punto che i ruoli dell'uno e dell'altro osservando l'interazione con un punto di vista psicologico o sociale possono confondersi o scambiarsi (von Hentig 1948: 383-384). Chi aggredisce inizia l'interazione in veste di criminale, ma può divenire vittima dell'autodifesa altrui (Schafer 1968: 40). Se si guarda al risultato finale colui che appare come vittima avendo subito un danno (vita, incolumità fisica) potrebbe non essere tale se si osserva l'intera interazione avendo egli al suo inizio il diverso ruolo dell'aggressore. La relazione è caratterizzata da una mutua connessione e reciprocità. Altresì il criminale e la sua vittima possono essere fra loro complementari come nel mondo animale la preda con il predatore. L'ingenuo od il debole di mente attraggono il truffatore. Anzi la vittima potrebbe perfino « conformare e plasmare il criminale» (von Hentig 1948; 384). Nel senso che le trasformazioni sociali come la guerra e la depressione economica possono creare delle nuove forme di criminalità perché creano per le mutate condizioni sociali ed economiche vittime potenziali che prima non esistevano. Ad ogni vittima il suo criminale 8 •
7 Talora si espone un'errata interpretazione del suo pensiero. Secondo Portigliatti Barbos ( 1999: 331) la relazione specifica soggetto-oggetto sarebbe un concetto fondamentale della vittimologia elaborato da von Hentig. Al contrario quest'ultimo ne critica l'assunto ritenendolo proprio della legge penale formale, poiché in molti casi non rispecchia la realtà dell'interazione dinamica criminale-vittima, in cui la vittima non è appunto semplice oggetto dell'azione altrui ma ha un ruolo attivo nel determinarla a suo danno. 8 Il titolo « Tbe Criminal and bis Victim » del contributo di von Hentig da questo punto di vista sembrerebbe quasi più calzante per le idee di Wertham che per la stessa prospettiva vittimologic~ di von Hentig. In quest'ultima al contrario è quasi « la vittima ad avere il suo criminale » seppur limitatamente per tale aspetto del suo pensiero, come osservato nel testo. Invero von Hentig propone un'approccio più completo invocando uno studio di entrambi i lati dell'interazione, sia il criminale che la vittima in un rapporto di reciproca implicazione. Che la questione dello « slogan » da adottare non sia futile però è dimostrato dal fatto che Stephen Schafer nel 1968 intitola appositamente un suo testo « Tbe Victim and bis Criminal. A Study in Functional Responsibility » parafrasando in modo inverso l'opera di von Hentig proprio perché accentua maggiormente l'analisi degli elementi che rendono la vittima in una certa accezione « responsabile » della propria vittimizzazione. Questa impostazione della prima vittimologia attirerà molte critiche, anche all'interno della medesima disciplina, come vedremo nel prosieguo, perché condurrebbe a « biasimare » o colpevoliz-
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La domanda che si pose von Hentig fu dunque se e come la vittima contribuisce a determinare l'azione criminale. La sua conclusione: con il suo stesso modo di essere, le sue caratteristiche individuali e sociali, le sue attitudini, il suo comportamento attivo in una ampia gamma fino alla « provocazione » od all'atto criminale (l' aggressore aggredito; il disonesto truffato), con la sua relazione ed interazione con il vittimizzatore (Fattah 1992), essa plasma, influenza e determina, attualizza l'azione criminale. La legge pone una netta distinzione tra il reo e la vittima, ma esaminando la genesi della situazione in un considerevole numero di casi si incontra una vittima che consente tacitamente, coopera, cospira, provoca. La vittima è uno dei fattori causali del crimine (von Hentig 1941). Le sue ipotesi hanno vigorosamente introdotto ed alimentato una prospettiva centrata sulla vittima nella comprensione dei problemi della criminalità. La poderosa forza delle intuizioni di von Hentig rende meno severo il rilievo pur corretto che gli fu mosso da Schafer. Fu obiettato che esse erano prive del supporto della ricerca empirica che comparve rispettivamente in ambito vittimologico con approccio microsociologico negli anni '50 e '60, e con una prospettiva macrosociologica negli anni '70, ed erano corredate solo da una frammentaria documentazione dei delitti dell'epoca ed osservazioni non strutturate (Schafer 1968).
1.4.
Beniamin Mendelsohn.
Mendelsohn, di formazione giuridica, awocato in Romania, a Bucarest, ha sempre rivendicato la paternità della fondazione della vittimologia. Sul piano scientifico non sussistono dubbi che abbia contribuito prepotentemente a porre i primi fondamenti scientifici della disciplina. Sul piano storico le sue rivendicazioni sia rispetto al conio del termine « vittimologia » quantomeno in lingua francese, sia rispetto all'elaborazione delle nozioni basilari del nuovo approccio scientifico appaiono meno fondate. Tranne poche eccezioni (Hoffmann 1992; van Dijk 1997; Wemmers 2003) l'ideazione ed uso del neologismo e la prima sistematica articolazione della prospettiva vitti-
zare la vittima parzialmente deresponsabilizzando o giustificando il reo. Questione alquanto delicata con riferimento ad esempio ai crimini sessuali.
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mologica sono attribuiti rispettivamente a Wertham e von Hentig ora ricordati. Il problema storico sorge dal fatto che anche molto tempo dopo i primi contributi Mendelsohn (1976: 10) rivendicava l'uso del termine « vittimologia » nel corso di una relazione che egli avrebbe tenuto a Bucarest durante una conferenza indetta dalla Società Rumena di Psichiatria, presso l'Ospedale di Stato Coltzea, nel 1947. Relazione rimasta inedita come egli stesso ammetteva. Altresì la sua elaborazione della vittimologia quale studio scientifico bio-psico-sociale della vittima (Mendelsohn 1963), era stata inizialmente affidata ad un manoscritto circolato tra gli specialisti, medici legali e psichiatri, e gli avvocati di Bucarest nel 1946, ma non pubblicato se non solo per talune limitate parti. Sul finire gli anni trenta egli aveva effettivamente pubblicato solo una descrizione dell'originale metodo utilizzato nella sua attività di avvocato, diretto ad una migliore conoscenza del caso affidatogli, con riferimento alla personalità del criminale ed alle circostanze in cui era avvenuto il reato (Mendelsohn 1937). Inizialmente finalizzato a migliorare la difesa dei propri clienti sulla base dell'assunto che una strategia difensiva ben condotta non poteva essere costruita sulla menzogna o sull'ignoranza (Mendelsohn 1937: 883; 1963: 239), tale metodo scientifico di studio ed i suoi risultati lo avevano alla fine condotto ad una teoria sulla vittima del reato. Egli aveva preparato un dettagliato questionario con oltre trecento domande che aveva sottoposto nel corso degli anni non solo ai propri clienti accusati di vari reati, ma anche a persone dell'ambiente familiare e sociale degli stessi. I dati ottenuti erano integrati con i resoconti delle dichiarazioni delle vittime e dei testimoni disponibili nelle fasi preliminari del processo. In questo modo si era proposto di indagare parallelamente sia la personalità dell'accusato che quella della vittima da un punto di vista biologico, psicologico e sociale, nonché la loro interazione sociale (Mendelsohn 1937). Una parte delle osservazioni e delle sistematiche considerazioni sulla struttura bio-psico-sociale della vittima, con riferimento al delitto di stupro, derivate e suscitate dagli esiti dell'applicazione del suo metodo nell'esercizio della professione, furono pubblicate proprio in Italia (Mendelsohn 1940). Il quesito pratico che intendeva risolvere era quello di discernere quando il consenso della donna che rendeva legittimo l'atto sessuale, e che dunque finiva per scriminare i comportamenti leciti da quelli penalmente illeciti, fosse da ritenersi concreto,
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effettivo alla luce della legge. In particolare quando e come una donna molto inferiore ad un uomo come forza fisica poteva effettivamente opporsi ad un atto sessuale imposto con la forza e la coazione. Talune sue premesse potrebbero oggi essere definite quantomeno « discutibili » come ad esempio il fatto che giudicava la donna da un punto di vista biologico dotata di una grande possibilità di resistenza e di reazione allo stupro a causa della quasi inespugnabile posizione topografica degli organi genitali femminili. Elementi probabilmente ancora oggi alla base dello stereotipo « se una donna non vuole un rapporto sessuale ha tanti modi per difendersi », nella nostra stessa società abbastanza diffuso, con cui viene valutato l'atto violento e la vittima 9 • L'attualità dell'analisi di Mendelsohn è dimostrata dal fatto che nella società pur contemporanea nell'immagine collettiva permane, - quale indicatore per determinare i confini dell'atto di violenza e la sua punibilità - , il comportamento e la capacità di resistere e reagire della vittima (Misiti-Palomba 2002; 53). Alla fine però proprio analizzando la personalità della vittima e la sua relazione sociale con l'aggressore concludeva che il consenso in molti casi era fittizio poiché la resistenza della vittima avrebbe potuto essere ridotta, - da un punto di vista biologico - per la rilevante sproporzione fisica fra i due soggetti, - da punto di vista psicologico e sociale - , in proporzione ali' intimidazione, al livello sociale ed intellettuale dell'autore e della vittima, soprattutto nel caso di relazioni familiari, gerarchiche o di autorità tra loro. Nonostante il consenso apparentemente espresso ovvero l'assenza di rifiuto o resistenza l'atto sessuale doveva comunque considerarsi un crimine punito dalla legge (Mendelsohn 1940; 1963: 240). Questo studio fu la base per lo sviluppo della sua vittimologia, di cui però diede conto in modo compiuto ufficialmente solo oltre un decennio dopo (Mendelsohn 1956a; 1956b). Il discusso riconoscimento storico della paternità del vocabolo « vittimologia » e del suo primato rispetto a von Hentig deriva proprio da questa tarda « ufficializzazione » del suo pensier~.
9 Ricerche recenti hanno ad esempio evidenziato che circa metà degli uomini ed un terzo delle donne, dunque in misura ancora rilevante, condividono lo stereotipo secondo cui se il rapporto sessuale vi è stato la donna doveva essere in qualche modo consenziente, avendo molte possibilità di resistere ad un atto sessuale non voluto (Misiti-Palomba 2002).
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Il dato più interessante dal punto di vista storico non è l' attribuzione del titolo di fondatore della disciplina all'uno od all'altro, ma forse un'osservazione dello stesso Mendelsohn (1963). Il nuovo approccio scientifico era emerso quasi simultaneamente subito dopo la seconda guerra mondiale, - ed in forma embrionale come illustrato anche prima - , « ai due differenti lati del globo » in due mondi, gli Stati Uniti e la Romania, certamente da un punto di vista culturale e scientifico fra loro molto lontani, in particolare la seconda completamente tagliata fuori dalla Cortina di Ferro. Ciò a conferma della validità e qualità del nuovo approccio scientifico (Mendelsohn 1963: 241). Mendelsohn come von Hentig focalizzò l'attenzione sul ruolo giocato dalle vittime nel determinare i crimini violenti, anche se egli ne sottolineava maggiormente la valenza quale circostanza attenuante nella decisione della punizione del colpevole (van Dijk 1997). In particolare egli vedeva la totalità dei fattori causali del crimine come "complesso criminogeno" di cui alcuni concernevano il criminale ed altri afferivano alla vittima (Schafer 1968). Pertanto del tutto ingiustificatamente la criminologia aveva obliato la vittima. Un posto d'onore merita fra i pionieri della vittimologia anche per avere per primo reclamato alla disciplina una sua autonomia, come fosse una scienza esattamente inversa rispetto alla criminologia (Wemmers 2003) in un pedetto parallelismo e simmetria di idee, teorie e metodi. A parte il suo contributo allo studio scientifico della vittima ed alla fondazione della vittimologia, non deve essere dimenticato che fu il primo promotore di un'azione politica e sociale in favore dei diritti delle vittime, e questo senza ombra di dubbio gli può essere riconosciuto anche sul piano storico. A buon diritto si può dire che egli diede avvio a quel carattere di advocacy, di supporto, di movimento sociale e politico in favore di una maggior tutela e garanzia dei diritti delle vittime, ed in favore della creazione e del miglioramento di servizi focalizzati sui bisogni delle vittime, che ha sempre costituito un tratto caratteristico della vittimologia, mai riducibile al solo studio scientifico della vittima. Mentre von Hentig aveva posto l'accento solo sulla necessità della prevenzione della vittimizzazione che poteva essere consentita dalla miglior conoscenza della vittima del crimine, Mendelsohn si pose anche delle altre domande che riguardavano il ruolo e lo status della vittima in rapporto al sistema sociale in generale e della repressione penale. Sottolineò l'assenza di considerazione della vittima, il suo ruolo marginale nel
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processo penale e la mancanza di attenzione politica e sociale ai suoi bisogni, invocando appunto, in modo vibrante un sistema penale maggiormente victim-oriented. Solo taluni 10 come la Wemmers (2003: 29) hanno posto nella giusta luce le domande politicamente più incisive di Mendelsohn. Perché la società così umana quando si occupa di colui che infrange la legge al tempo stesso si disinteressa della vittima la quale a parte la sofferenza inflitta dall'aggressore è aggravata dal fardello della prova 1 1? Perché non si preoccupa del destino della vittima che pur avendo ottenuto dalla giustizia il diritto ai danni non può percepire nulla essendo il criminale insolvibile? Perché, si rispondeva Mendelsohn, la vittima è "inoffensiva" (Mendelsohn 1956a). Egli ribadì che non solo la vittima non era sufficientemente studiata dato che la scienza non si occupava della vittima in quanto tale quale problema in sé, ma neppure sufficientemente difesa dal sistema giudiziario, né sufficientemente sostenuta sul piano sociale dall'opinione pubblica. Era assente nel discorso comunicativo dei professionisti quali medici, giuristi, psicologi, sociologi, legislatori, operatori del sistema penale, di fatto annullata da questo. Il sistema del controllo sociale, egli denunciò, era orientato totalmente nei confronti di colui che delinque sin dal momento della prevenzione al giudizio, dall'esecuzione della pena, dai contatti con i familiari alla rieducazione, ad ogni assistenza sino alla liberazione, senza spazi per la vittima (Filizzola-Lopez 1995). Egli in conclusione riteneva fondamentale che l'amministrazione della giustizia si occupasse anche dell'altra parte in gioco e dei suoi diritti e bisogni. In un certo senso si potrebbe affermare che Mendelsohn rappresenta per la vittima in rapporto al sistema sociale e penale in particolare, alla sua ideologia di fondo ed alle sue politiche quello che per il reo, per colui che àelinque, rappresentò Cesare Beccaria quando in modo così dirompente propugnò una giustizia più attenta alla persona umana ed ispirata alla legalità, proporzionalità ed umanità delle pene. Nonostante lo sviluppo degli studi vittimologici e la strada percorsa il cammino sembra ancora lungo, soprattutto in alcune realtà sociali come quella italiana (Balloni 2000), ove il monito di Mendel-
10 Generalmente appartenenti ali' area francofona, francese e canadese di studi vittimologici come Jo-Anne Wemmers, Gina Filizzola e Gérard Lopez. 11 Certamente Mendelsohn aveva presente in modo particolare delle vittime dei reati di violenza sessuale avendo nei suoi studi sullo stupro (1940) evidenziato le difficoltà di prova sul piano processuale di questo delitto che si giocava sostanzialmente sull'attendibilità della vittima e della dinamica dei fatti.
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sohn, risuona ancora vivo e reale sessant'anni dopo, in attesa di una « carta delle vittime » o della legge quadro per l'assistenza, il sostegno e la tutela delle vittime dei reati, tuttora pendente in sede legislativa, nel tentativo di adeguarsi ai parametri normativi di tutela promossi in Europa.
2. IL CRIMINE È BIDIMENSIONALE. È POSSIBILE UN APPROCCIO UNITARIO?
2.1. La prima vittimologia come criminologia "olistica"? - 2.2. Le radici positiviste della « prima » vittimologia. - 2.3. La vittimologia « positivista », « critica » e « radicale ».
2.1.
La prima vittimologia come criminologia 1101istica"?
Grazie a von Hentig indubbiamente si è avuto il passaggio da una criticata prospettiva statica ed unidimensionale nello studio scientifico del crimine che fino allora aveva dominato la criminologia ad un approccio innanzitutto dinamico ed in secondo luogo bilaterale, ma soprattutto interazionista. Il senso profondo del cambiamento di prospettiva ed il segno della differenza rispetto alla criminologia tradizionale dato dalla vittimologia però va ben oltre la semplice bilateralità dell'analisi del crimine e delle sue cause. La trasformazione della criminologia eziologica determinata dall'impulso scientifico della vittimologia non si limita alla mera considerazione del crimine come una semplice« somma», convergenza situazionale e dinamica di due personalità, di due azioni, del criminale e della sua vittima e non più come un'azione o comportamento unilaterale di colui che delinque (Correra 1999). Non è semplicemente stata la scoperta di un « addendo dimenticato » in una operazione algebrica. Il crimine diveniva l'output di un processo dinamico, bidimensionale suggerendo che si dovesse porre eguale attenzione nella sua genesi sia al criminale che alla vittima (Fattah 2000). Sia da un punto di vista metodologico che teorico rappresentava un capovolgimento di fronte. Sino all'analisi dei pionieri della vittimologia e cioè nella prima metà del secolo, i tentativi di spiegare come nasceva e si formava l'uomo delinquente ed il comportamento criminale erano sostanziai-
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mente accentrati sulle caratteristiche sociali ed economiche e culturali del milieu criminogenetico, maggiormente nella scuola di Chicago, ovvero sulle anormalità biogenetiche e sulla personalità del reo, come avvenuto in misura preponderante nella Scuola Positiva. È stato acutamente osservato (Fattah 1992) che anche quando si cercava di porre l'accento sulle cause remote del comportamento criminale, sui fattori etiologici, ricercandoli nella personalità, nella struttura biologica, o nell'ambiente, le spiegazioni erano statiche ed unilaterali poiché si ignoravano i fattori situazionali. Anche nelle spiegazioni di natura sociologica che attribuivano valore di causa all'ambiente ed alla struttura sociale quale attore sociale che interagiva con esso compariva solo il personaggio criminale. La vittima si confondeva ed era parte del generico sfondo sociale su cui si muoveva il personaggio principale: il reo. Si guardava alle forze sociali che interagivano con il criminale e condizionavano ed orientavano il suo comportamento, ma si minimizzava o si ignorava la situazione concreta in cui il crimine si consumava, era attualizzato, gli elementi catalizzatori ed attivatori. Lo studio invece della vittima, delle sue caratteristiche, attitudini, comportamento, la sua relazione, ma soprattutto la sua interazione con il vittimizzatore, portò finalmente ad un approccio dinamico situazionale. Attraverso la vittimologia pertanto diventò possibile sviluppare un nuovo modello esplicativo del crimine che permettesse di superare i motivi del reo e l'attitudine della vittima, l'iniziativa del reo e la risposta della vittima, l'azione di una parte la reazione dell'altra (Fattah 1992: 31). In questo modo è nata la diade « criminale-vittima » di von Hentig, ovvero la « coppia penale » di Mendelsohn come chiave di lettura del crimine. Da questo punto di vista non si può però condividere l'opinione di Fattah (2002) secondo cui la vittimologia avrebbe introdotto un approccio «olistico» allo studio ed all'analisi del crimine. Nella prima vittimologia, invece, il sistema di interazione, la diade o coppia penale criminale-vittima, ha costituito la« molecola logica» delle teorie esplicative. L'approccio introdotto dalla vittimologia nei primi studi è maggiormente assimilabile da questo punto di vista alla prospettiva individualistica ed interazionista e, per alcuni aspetti, dell'individualismo metodologico di Boudon (1980; Cesareo 1993).
2.2.
Le radici positiviste della « prima » vittimologia. La prima vittimologia ha una derivazione ideale dalla Scuola Po-
Il crimine è bidimensionale
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sitiva. In questo si può condividere il pensiero di Fattah (2002), secondo cui in criminologia la Scuola Classica enfatizzò lo studio del1'atto criminale, mentre il passaggio alla Scuola Positiva determinò la focalizzazione della ricerca sull'autore del crimine, e pertanto la vittimologia costituisce l'ulteriore, naturale passo di considerare anche la vittima. Effettivamente, la Scuola Positiva, come noto, infranse il mito del libero arbitrio da un punto di vista filosofico, aprendo la strada ad approcci che avessero al centro l'uomo e la società. Una volta che siammetteva che la volontà potesse essere condizionata da svariati fattori e non più moralmente libera in senso assoluto, doveva iniziare la ricerca dei « determinanti », e cioè delle cause che spingevano l'uomo a volere un atto criminale. In prima battuta ciò fu visto proprio in una relazione di causa-effetto senza più spazi per la libertà morale. La volontà dell'uomo era determinata totalmente da alcuni fattori. Tipico fu il determinismo della Scuola Positiva seguendo questa linea di pensiero. Quel che qui importa sottolineare è che effettivamente la vittimologia sembra nascere spontaneamente e naturalmente dall' approccio positivista quale successivo passo « logico » dell'analisi. Le cause, infatti, del crimine, gli elementi determinanti furono dapprima ricercati nella realtà più « vicina », e cioè l'uomo stesso. Il determinismo biologico di Lombroso vedeva proprio in alcuni elementi patologici dello sviluppo umano la causa determinante del crimine. Il secondo passo era guardare alla società, ed invero Ferri inaugurò il determinismo sociale. L'unico tassello mancante, l'unico soggetto non ancora considerato era la vittima quale elemento dell'ambiente che interagendo con l'uomo poteva determinarlo al crimine. Questo ha anche comportato che i primi vittimologi, ad esempio von Hentig, guardassero alla vittima proprio come un « fattore causale » del crimine analizzando quelle caratteristiche e quei comportamenti che potevano determinare un passaggio ali' atto da parte del criminale. Questa considerazione trova il conforto anche di alcune osservazioni di Schafer (1968). Egli individuò già nell'approccio teorico della Scuola Positiva gli elementi embrionali delle prorompenti idee successive. Ad esempio Cesare Lombroso riconobbe tra i fattori diversi dalla degenerazione biologica atavica, la provocazione della vittima. Alcuni criminali particolarmente passionali potevano agire sotto l'azione di emozioni indotte dalla vittima stessa (Schafer 1968). Lo stesso Garofalo richiamava l'attenzione sui comportamenti della vittima che potevano risultare provocatori. Infine, secondo Schafer seppure in un rife-
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Le origini
rimento indiretto, perfino Enrico Ferri menzionò i cosiddetti « pseudo-criminali », cioè coloro che in un certo senso violano la legge solo perché costretti dall'inevitabile necessità dell'autodifesa (1968, 1). È facile avvedersi che si tratta del « criminale-vittima» descritto anche successivamente da von Hentig (1948).
2.3.
La vittimologia « positivista », « critica » e « radicale».
Al pari della criminologia, anche nella vittimologia si distinguono differenti approcci, anche se meno distintamente e nettamente. L'autoriflessione sulla distinzione tra una vittimologia «positivista», « critica » o « radicale » è promossa proprio da coloro che si vogliono sostanzialmente distinguere dalla prima. Il significato da attribuire a tali suddivisioni è parzialmente diverso da quello che le stesse etichette hanno acquisito in criminologia, quantomeno per quanto riguarda la vittimologia critica e la vittimologia radicale. Tutto ha origine dal fatto che, come sostenuto da uno degli esponenti della vittimologia radicale (Elias 1985; 1986) la vittimologia non può ridursi all'analisi scientifica del crimine e specificamente delle sue vittime. La vittimologia sin dai suoi inizi ha sempre intrecciato all' analisi ed alla costruzione di schemi teorici, alla ricerca di una migliore comprensione del fenomeno della vittimizzazione, una fervente attività di « advocacy », di movimento politico e di riforma sociale in favore ed a tutela delle vittime. In questo senso, Fattah (1992; 1990; 1979), senza ulteriori distinzioni, ha spesso parlato di una trasformazione ideologica della vittimologia dai primi pionieri in cui si aveva una « vittimologia dell'atto» ad una« vittimologia dell'azione», e cioè da un atteggiamento scientifico ad un atteggiamento di « lobbying », di pressione e rivendicazione politica e sociale. La vittimologia dell'atto, infatti, per Fattah, sarebbe una disciplina teoretica e scientifica, correttamente focalizzata sullo studio delle vittime, le loro caratteristiche, attitudini, comportamenti da un lato, relazioni ed interazioni con i criminali dal1' altro. La vittimologia dell'azione, invece, si sarebbe trasformata in un movimento, attività, di natura politico-sociale, nel nome ed in favore delle vittime. Fattah è particolarmente critico nei confronti di questo approccio perché ritiene che lo « zelo missionario » in favore delle vittime, possa portare a politiche di controllo sociale eccessivamente repressive ed ingiustamente punitive nei confronti dei rei (1992).
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Altri, come detto, hanno invece distinto in modo più sistematico ed anche parzialmente autoreferenziale le tre prospettive della vittimologia. La vittimologia positivista, detta anche « conservatrice », è generalmente fatta risalire alla prima vittimologia e specificamente al lavoro di Mendelsohn, von Hentig ed altri (Mawby-Walklate 1994; Davis et al. 2003). La migliore identificazione delle caratteristiche della vittimologia positivista si attribuisce a Miers (1989). Lo studio della vittimologia positivista avrebbe infatti principalmente ad oggetto l'identificazione dei fattori che contribuiscono alla selezione non casuale delle vittime, l'interazione interpersonale soprattutto nei crimini di violenza e l'individuazione delle vittime che possono aver contribuito alla propria vittimizzazione (Miers 1989: 3; Mawby-Walklate 1994: 9). La prospettiva dei positivisti si appunta dunque sulla « predisposizione », sulla « precipitazione » e, nella successiva e più moderna accezione, sullo stile di vita delle vittime in rapporto al crimine quali determinanti (Davis et al. 2003: 3). Ciò avrebbe portato ad un processo di responsabilizzazione e colpevolizzazione della vittima certamente problematico per la stessa vittimologia. La vittimologia positivista rappresenta l'approccio « razionale » alla ricerca delle regolarità delle successioni di fenomeni che possono essere sistematicamente rappresentati a mezzo di leggi scientifiche (Keat-Urry 1975: Mawby-Walklate 1994), inconsapevole ed indifferente all'effettiva sofferenza delle vittime, al lato umanista del lavoro scientifico. Ne sono un esempio, come si vedrà nel prosieguo, gli studi sulla « precipitazione », sulla partecipazione della vittima al crimine subito che sembrano quasi fornire una base scientifica agli stereotipi, ai pregiudizi che legittimano la vittimizzazione, ad esempio nell'ambito della violenza sessuale. La vittimologia radicale nascerebbe proprio per invocare anche una analisi politica, culturale e strutturale della vittimizzazione. Il primo dato, come in Elias (1985; 1986), è che la vittimologia deve osservare, studiare, ma soprattutto cercare di risolvere anche i « problemi sociali», la vittimizzazione «nascosta». Nella vittimologia radicale, però, per vittimizzazione nascosta non si intende la criminalità nascosta, e cioè i crimini non denunciati e non scoperti, tipica dell' approccio positivista, ma la vittimizzazione, - e cioè situazioni di reale lesione dell'integrità psicofisica dell'individuo o di discriminazione ed emarginazione sociale - , strutturalmente, culturalmente, politicamente legittimata o tollerata. La vittimologia radicale propone di prescindere dal sistema criminale che dalla vittimologia positivista viene
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Le origini
dato per presupposto. La vittimologia radicale propone un approccio critico e problematico alle definizioni legali dei crimini, all'operare stesso del sistema giudiziale, alla struttura politica e culturale. Il punto di riferimento per la vittimologia radicale diventano pertanto, come per Elias (1985, 1986), i diritti umani (Mawby-Walklate 1994: 13). In questo senso la vittimologia radicale viene fatta risalire anche a Mendelsohn, che fu il primo ad invocare una vittimologia non criminale, cioè sganciata dalle definizioni legali del crimine ed ad invocare una tutela per tutte le vittime. La vittimologia radicale, infatti, si occupa delle vittime dell'oppressione in tutte le sue forme, le vittime della guerra, del sistema punitivo, della violenza di Stato e della stessa forza di polizia. Cerca di occuparsi anche della costruzione sociale e degli stereotipi della vittima, od inerenti la dinamica della vittimizzazione. Infine, la vittimologia critica è forse quella prospettiva meno netta nei suoi principi, nei suoi confini, nelle sue forme. Tanto è vero che in alcuni casi le due prospettive sono considerate interscambiabili od indistinguibili (Davis et al. 2003 ). Lo stesso Fattah in fondo, rivendica una prospettiva critica in vittimologia (1992). Sostanzialmente, Fattah intende la vittimologia critica come uno studio delle vittime del crimine che ricerchi il giusto equilibrio con i diritti delle controparti, e cioè che non si trasformi in un movimento che cerchi di riformare il sistema penale in senso repressivo e punitivo, prospettando la maggiore retribuzione e la minore rieducazione e risocializzazione dei condannati come una esigenza delle vittime. La Walklate (1994), invece, tende a considerare la vittimologia critica una prospettiva che incorpori gli interessi della vittimologia radicale da un lato, e dall'altro quelli specifici del movimento femminista. Individua cioè le donne come le maggiori vittime della struttura di potere, culturalmente e politicamente legittimata nella società. Lo stesso sistema penale e del controllo sociale sarebbe« sessista», e cioè le donne sarebbero discriminate e penalizzate da una serie di pregiudizi e stereotipi. Un esempio è costituito dalla analisi femminista della vittimizzazione secondaria che, come sarà esaminato nel prosieguo, è quella vittimizzazione che consegue dal contatto della vittima con le agenzie del controllo sociale formale, con il sistema giudiziario penale, soprattutto nel caso dei crimini sessuali.
Parte Seconda
I CONCETII
Sentiamoci liberi di assistere le vittime del crimine e di chiamarlo vittimologia Sentiamoci liberi di reclamare l'indennizzo per le vittime del crimine e di chiamarlo vittimologia Sentiamoci liberi di studiare le interazioni criminale-vittima e di chiamarlo vittimologia Sentiamoci liberi di indagare il numero oscuro della vittimizzazione e di chiamarlo vittimologia Sentiamoci liberi di agire politicamente e socialmente per ridu"e la discriminazione, lo sfruttamento, la disuguaglianza, l'inquinamento ambientale, la sofferenza umana e perfino il genocidio e di chiamarli vittimizzazione (CRESSEY
D.R 1979)
3. SCIENZA, DISCIPLINA O PARADIGMA 3.1. Una dibattuta querelle. - 3.2. Né scienza né disciplina. - 3.2.1. La vittimologia «criminale» come branca della criminologia. - 3.2.2. La vittimologia generale. - 3.2.3. La "vittimagogia" o vittimologia clinica. - 3.3. Considerazioni conclusive.
3.1. Una dibattuta querelle. La vittimologia, nonostante il suo grande sviluppo sia negli Stati Uniti che in ambito europeo, fatica ancor oggi a veder riconosciuto un suo ruolo certo nel panorama delle scienze sociali. Nonostante siano passati ormai quasi sessant'anni dalla prima introduzione dell' approccio vittimologico nello studio del crimine, è ancora vivo il dibattito sui suoi contenuti, sui limiti del suo oggetto di studio, sui suoi metodi e sulla sua autonomia scientifica rispetto ad altre scienze e naturalmente in primo luogo la Criminologia. Può sembrare insolito che si discuta dell'autonomia scientifica della vittimologia nonostante i numerosi studi scientifici che ad essa esplicitamente si ispirano e malgrado nel tempo abbia maturato dei concetti, strumenti di indagine, schemi teorici del tutto a sé peculiari anche con riferimento alla Criminologia in generale. Forse è il percorso ed è l'accidentato cammino che ogni scienza deve percorrere prima di giungere ad un riconoscimento sociale ed accademico. Una scienza da un punto di vista storico e sociale non può prescindere dalla comunità scientifica di riferimento, come gruppo che condivide un sapere specializzato e cioè l'intera costellazione di credenze, valori e tecniche che i suoi membri hanno in comune (Kuhn 1969). Indubbiamente, una scienza si costruisce e si afferma socialmente quando la comunicazione professionale dei membri della comunità determinata presa in considerazione si focalizza su temi ed usa un linguaggio proprio sia in senso descrittivo che a fini esplicativi. Ciò porta alla condi-
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I concetti
visione di quello che Kuhn chiamava gli elementi della matrice disciplinare, come le generalizzazioni simboliche, le credenze ed i valori (1969). Cercare oggi di distinguere le scienze in base al loro oggetto ed al loro metodo o statuto epistemico è indubbiamente difficile poiché un medesimo oggetto, come ad esempio il comportamento umano, è studiato da numerose scienze ma da prospettive diverse e con metodiche multidisciplinari ed interdisciplinari. Ne è un esempio la stessa Criminologia se si osserva la querelle sulla sua autonomia scientifica dal Diritto Penale e rispetto alla Medicina Legale che fiorì anche in Italia. Per la vittimologia è possibile individuare una comunità scientifica dei vittimologi proprio perché i temi affrontati, una costellazione di concetti e strumenti di indagine, si sono differenziati dalla Criminologia e sono oggetto di studi scientifici, convegni, corsi di studio universitari soprattutto a livello internazionale. È attraverso tali tecniche che lo storico ed il sociologo può individuare l'esistenza di una comunità scientifica ed il sapere specializzato condiviso nella comunicazione fra i suoi membri (Kuhn 1962). Ed infatti, tutti coloro che affrontano la storia e lo sviluppo della vittimologia considerano elementi certi della sua autonomia, del suo consolidamento, del suo riconoscimento pubblico ed ufficiale a livello sociale proprio l'inserimento della disciplina nelle materie di insegnamento universitario, la conduzione di ricerche aventi come base i concetti ed i modelli teorici esplicativi elaborati dalla vittimologia e così via. Il paradosso nella discussione sull'autonomia scientifica della vittimologia è dato dal fatto che proprio la Criminologia ha attraversato una crisi di identità analoga in passato, sia rispetto al Diritto Penale che alla Medicina Legale. Per quanto concerne la vittimologia per poter comprendere appieno i suoi contenuti, le sue problematiche ed il tipo di approccio che introduce nello studio del crimine, è utile delineare brevemente gli orientamenti che si contrappongono in questo senso.
3.2.
Né scienza né disciplina.
Sicuramente uno dei maggiori detrattori della vittimologia come scienza è Cressey. Egli ha sempre negato che la vittimologia potesse essere neppure una disciplina, negando appunto quel sapere condiviso che farebbe dei vittimologi una comunità scientifica e della vittimologia una scienza e cioè la riteneva priva di una qualsiasi base teoretica o concettuale (Cressey 1979). Anzi, non solo nega che potesse essere
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una disciplina scientifica ma neppure un ambito accademico come la criminologia cui studiosi e scienziati formati in varie discipline potessero contribuire sul piano teorico e della ricerca. La considera un « programma non accademico » in cui un pout-pourri, un coacervo, una informe aggregazione di idee, interessi, ideologie e metodi di ricerca sono stati arbitrariamente raggruppati. Addirittura sostenendo, come già detto 1 , che il sostantivo e neologismo « vittimologia » fu inventato non perché rappresentasse una disciplina od un orientamento scientifico realmente presente od anticipato, ma semplicemente avrebbe avuto successo perché facile da pronunciare in lingua inglese (Cressey 1992). La critica di Cressey alla vittimologia e la sua posizione è certamente alquanto estrema se non feroce. La polemica di Cressey è stata soprattutto diretta nei confronti di quella che egli chiamava « vittimologia umanistica » appunto ritenuta ascientifica e priva di rigore metodologico e teorico. La vittimologia umanistica nel pensiero di Cressey (1992) può definirsi come quella vittimologia diretta ad alleviare la sofferenza umana, cioè egli deprecava il carattere che nel tempo era andata assumendo la vittimologia di « lobby » in favore ed a tutela delle vittime. Nel suo pensiero la vittimologia umanistica non aveva e non ha carattere scientifico perché movimento di pressione politica e sociale, a tratti demagogico e qualunquista, sostanzialmente a sfondo propagandistico di promozione dei valori della dignità umana e della persona. Egli indica, infatti, quale primo campo di azione dei vittimologi umanisti ad esempio l'individuazione e la denuncia delle vittime del cosiddetto "abuso di potere". Cioè il fatto che in determinati Stati o realtà sociali vi sono violazioni dei diritti umani e che persone che non hanno compiuto alcun reato sono punite od altrimenti private della vita e della libertà o torturate, lese nei loro diritti umani da parte dei funzionari pubblici dello Stato a diversi livelli istituzionali e di potere. Egli chiama i vittimologi umanisti gli « indignati antidistruzionisti », cioè coloro che sono genericamente contro la distruzione e lo sfruttamento dell'uomo anche a prescindere da un reato (Cressey 1992). La questione è che questo tipo di vittime, invero, non sono in connessione con la commissione di un crimine punito dalle leggi dello Stato. È lo stesso diritto, le stesse leggi, la stessa struttura di potere e le istituzioni dello Stato che prevedono o consentono, sanciscono o
1
Vedi infra parte I, cap. 1, par. 1.
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tollerano forme varie di violazione dei diritti di vita e di libertà dei suoi cittadini. Un altro ambito della vittimologia umanistica sarebbe costituito per Cressey dai casi di vittimizzazione così detta culturale o strutturale, cioè quando una minoranza sia vittimizzata da un gruppo perché in base alle proprie credenze, stereotipi e generalizzazioni i membri del gruppo di minoranza sono dis-umanizzati. Lo stesso Wertham aveva già posto l'accento sulle potenzialità vittimogene, - nella generazione della violenza e del fenomeno dell'omicidio - , della razionalizzazione dell'impulso omicida diretto nei confronti di soggetti disumanizzati 2 • La vittimizzazione in un'ottica più ampia, determinata dall'abuso di potere, avverrebbe all'interno delle cinque istituzioni sociali basilari: economia, politica, educazione, religione e famiglia. Cressey si è riferito ai casi, ad esempio, dell'ideologia del modello familiare del padre-padrone che consente di perpetuare la violenza nei confronti delle donne e dei minori, oppure le violenze o le semplici discriminazioni determinate dai pregiudizi nei confronti dei neri, ebrei, omosessuali, ecc.. Gli ultimi due ambiti della vittimologia umanistica sono costituiti dagli stessi criminali quali vittime di pene crudeli od inusuali, contrarie alla dignità umana, e nella loro schiavitù. Egli notava, infatti, che alcuni vittimologi ovviamente, anche ante litteram, e cioè prima ancora dell'avvento della vittimologia nella prima metà del XX secolo, si erano opposti all'applicazione di pene contrarie alla dignità umana 3 od ai lavori forzati come forma di schiavitù legalizzata dei condannati. Il problema è che secondo Cressey nell'ambito di queste quattro aree di interesse, e cioè la «distruzione» umana, la ingiustizia istitu-
Vedi infra parte I, cap. 1, par. 2. Cressey richiama l'esempio famoso di Augustus. Come noto Augustus è praticamente il padre fondatore della probation ovvero quella misura alternativa alla pena detentiva che nel nostro sistema è denominata affidamento in prova al servizio sociale. Augustus, infatti, tra il 1841 ed il 1858 aveva avuto in affidamento sottraendoli a pene molto più severe, tenendo conto dell'epoca, più di duemila criminali condannati cercando anche di aiutarli nel primo tentativo sistematico di rieducazione e risocializzazione poi istituzionalizzato. Cressey notava che, giustamente, vi era una piastra commemorativa nell'edificio che era stato l'abitazione di Augustus ed in cui lo stesso aveva ospitato i condannati a lui affidati, la quale lo qualificava « un amico delle povere vittime della legge». Il significato che le si può attribuire è che appunto nell'offrire una alternativa mite al trattamento penitenziario dell'epoca, Augustus aveva di fatto aiutato quelli che potrebbero qualificarsi come « vittime di un sistema penale repressivo e crudele» (Cressey, 1992). 2
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zionale, le pene crudeli ed insolite, la riduzione in schiavitù dei condannati, si tenterebbe da parte dei vittimologi di denunciare un problema sociale piuttosto che studiare il fenomeno scientificamente. Per Cressey si pone un problema sociale con l'attività di advocacy in favore delle vittime sia a livello individuale che collettivo assumendo ed asserendo innanzitutto l'esistenza di un determinato stato di cose, un certo assetto di condizioni sociali, una certa situazione che necessiti in primo luogo di riconoscimento ed in secondo luogo di eliminazione ed eradicazione od assistenza, intervento sociale. Cosicché affermare che vi sono delle minoranze vittime di pregiudizi, dell'abuso di potere politico ed economico, detenuti sottoposti a trattamenti penitenziari o punitivi crudeli ed inumani e così via, significa porre un problema sociale e non studiare con approccio scientifico un fatto od un fenomeno (Cressey 1992). Ciò comporterebbe studio intellettuale, sforzo intellettuale ma non ricerca empirica. Altresì ha osservato che molti di coloro che pure si occupano del rapporto tra criminalità e paura del crimine, dei servizi in favore delle vittime, sono travolti da questioni ideologiche e di politica sociale piuttosto che indagare con rigoroso metodo scientifico gli effettivi nessi tra fenomeni sociali cui si voleva porre rimedio e gli effetti delle politiche adottate. In definitiva, dunque, la critica di Cressey è stata rivolta agli aspetti politici, ideologici, al carattere di movimento sociale che la vittimologia nel tempo è anche andata assumendo piuttosto che ai principi, ai concetti ed ai metodi elaborati. Al fondo del suo pensiero vi era l'auspicio che la vittimologia si limitasse e si concentrasse esclusivamente sulle vittime dei crimini, e cioè delle condotte vietate e punite dal sistema penale, sicché dovesse affrancarsi dalla prospettiva della tutela politica e propagandistica dei diritti umani in senso lato. Nella prima accezione la riteneva parte integrante della criminologia, anzi nulla più che la criminologia stessa, un suo aspetto (Cressey 1992: 71). Per Cressey, in conclusione, la vittimologia dovrebbe essere un aspetto della criminologia eziologica o tradizionale, cioè dovrebbe studiare nel suo significato più rigoroso la vittima come causa determinante, concausa o cofattore del crimine e con metodo empirico. La sua posizione così estrema è però da considerarsi isolata. Grazie a numerosi contributi, quella che può chiamarsi la vittimologia dei diritti umani ha consentito di studiare con metodi scientifici e da prospettive inusuali i problemi sociali connessi alla violazione dei diritti umani talvolta anche negli interstizi dello Stato di Diritto o di un presunto Stato Sociale, prima di denunciarne la rilevanza e di ricercarne
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le soluzioni. Anche i criminologi possono occuparsi di politica criminale, ad esempio ponendo come problema l'adozione della pena di morte ed adoperandosi per la sua abolizione, anche a livello politico o sociale, nella consapevolezza, accertata con rigoroso metodo scientifico, della sua inefficacia deterrente. Anche in criminologia vi sono delle tematiche, dei problemi o dei fenomeni sociali in cui scindere l'ideologia, la partecipazione intellettuale, dagli aspetti più squisitamente empirici della questione è difficile. Anche studiando la sanzione penale del lavoro forzato imposto ai detenuti nei suoi effetti deterrenti, nella sua eventuale valenza rieducativa, empiricamente confrontando i tassi di recidiva, ancora ad esempio, non è detto che non si debba far rilevare che è una forma di schiavitù legalizzata e non si possa non sottolineare la contraddittorietà del messaggio culturale insito in un sistema che da un lato vieta la riduzione in schiavitù dei propri cittadini e dall'altro la consenta come pena, una specie di schiavitù di Stato. Non si può non osservare che in un sistema come quello italiano in cui è costituzionalizzato il principio della valenza rieducativa delle pene ai sensi dell'art. 27 Cost. sarebbe a dir poco « discutibile » la pena dei lavori forzati, poiché discutibile sarebbe la valenza rieducativa del lavoro coatto. Cressey focalizzava troppo l'attenzione sull'« ideologia della vittima» di diretta derivazione, al pari dell'ideologia del trattamento per il reo, dalla dottrina dello Stato Sociale, solo intrecciata all'analisi scientifica e metodologicamente rigorosa dei problemi sociali sottostanti, ma non assorbente o predominante di ciò che è o può essere la vittimologia.
3.2.1.
La vittimologia « criminale » come branca della criminologia.
Un altro orientamento è quello di considerare la vittimologia come una branca della criminologia. Sebbene von Hentig non si sia posto consapevolmente il problema si può essere d'accordo con chi lo include nel gruppo di coloro che ritengono la vittimologia un ramo specifico della criminologia (Gulotta 1976a: 14). Coloro che vi aderiscono sono generalmente contrari ad eccessive parcellizzazioni della criminologia ed osservano che il contenuto più interessante, innovativo e rivoluzionario della vittimologia, come approccio di ricerca e prospettiva di studio, è stato certamente nell'ambito di quella che potremmo qualificare vittimologia «criminale». Alcuni (van Dijk 1997) la definiscono anche vittimologia « penale ».
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Questi autori tendono al pari di Cressey ad identificare la vittimologia con lo studio, la ricerca e l'analisi delle vittime del reato, senza la sua visione critica che nega finanche la sua validità scientifica come disciplina o settore di ricerca definito e determinato. Ritengono cioè in altre parole l'area tematica della vittimologia limitata esclusivamente all'ambito delle vittime di condotte penalmente rilevanti, cioè represse, vietate, punite dalle norme penali positive, in vigore dunque in un dato momento storico. La vittimologia « penale », secondo la terminologia adottata da alcuni, coincide sostanzialmente con la vittimologia criminale poiché si ritiene che il suo fine e la sua funzione siano definite dalla legge penale e, dunque, studia le cause del crimine ed il ruolo della vittima nel procedimento penale (van Dijk 1997). Dal punto di vista della ricerca dell'eziologia del crimine, e cioè quando la vittimologia penale approfondisce la vittima come causa determinante del crimine, il suo oggetto è costituito dal sistema di interazione dinamica della diade criminale-vittima. Per tale motivo coloro che aderiscono a tale definizione, sia pur sostanzialmente coincidente con la vittimologia criminale, considerano un sinonimo per denominarla anche vittimologia « interazionista ». Come è stato analizzato nella prima parte del presente percorso di approfondimento della vittimologia, in effetti, la vittimologia criminale o penale si può esemplificare quale applicazione del paradigma interazionista in criminologia alle cause del crimine, ed in senso sociologico corrisponde all'approccio dell'individualismo metodologico. In tal senso è difficile ritenere questo approccio non incluso nella criminologia come scienza riducendosi ad uno dei suoi paradigmi. Si distingue da quella che potrebbe qualificarsi come vittimologia «generale» quale studio delle vittime di qualunque fatto, anche non umano, produttore ovvero che sia causa di una lesione all'integrità psicofisica di un essere umano. La differenza fondamentale è che nella vittimologia generale andrebbe incluso anche lo studio delle vittime di eventi o meglio catastrofi naturali come inondazioni, terremoti, e così via. La vittimologia generale è stata sostanzialmente propugnata da Mendelsohn in modo sempre più compiuto dopo i primi scritti (1976). Esponenti dell'orientamento che, senza l'estremizzazione di Cressey, riconosce alla vittimologia validità scientifica ma quale ramo specifico, branca o settore della criminologia, sono Ellenberger, Nagel, e Tranchina in Italia (Gulotta 1976: 14). Nagel (1963; 1974) negava autonomia alla vittimologia poiché essa avrebbe trasformato la tradizionale criminologia delle cause del crimine ovvero cosiddetta criminolo-
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I concetti
gia eziologica, - che vede il crimine come frutto, prodotto, effetto di antecedenti causali interni all'uomo, ad esempio tare biologiche, la sua personalità, od esterni all'uomo stesso, esistenti nel suo ambiente e dunque anche di natura economica e sociale - , in quella che egli definiva la « criminologia delle relazioni ». La criminologia tradizionale anche positivista vedeva l'atto criminale come determinato da predisposizione ereditaria o dall'ambiente ma inteso quale l'insieme delle condizioni sociali, economiche, familiari, di vita del reo preesistenti all'atto criminale. Nagel denominava tale criminologia come« euclidea» e dunque tradizionale, ma la considerava monca perché troppo unilaterale al punto da definirla, perché focalizzata solo sul delinquente e sul rapporto causa-effetto delle sue condizioni personali e sociali con l'atto criminale, una quasi-scienza. L'approccio interazionista era considerato giustamente da Nagel recente, e cioè solo di recente lacriminologia aveva considerato le relazioni che il criminale intratteneva con il gruppo dei pari, comitiva, banda, amici, compagni, complici (1963: · 245). Con lo spostamento dell'interesse alla situazione concreta in cui si attuava l'atto criminale, alla relazione criminale-vittima, si veniva a completare la criminologia che, finalmente, considerava entrambi i lati dell'interazione, ovviamente «conflittuale». Per Nagel, infatti, l'atto criminale non è altro che un conflitto che si viene ad attuare nell'interazione criminale-vittima. Per questo motivo la criminologia moderna, da egli denominata « criminologia delle relazioni », veniva semplicemente a completare la criminologia come le geometrie non euclidee hanno in un certo senso completato lo studio della geometria in senso moderno, tracciando l'orizzonte finale cui si può spingere lo sguardo dello studioso, dell'osservatore scientifico. Per questo motivo la vittimologia non è giustificata come disciplina separata, allargando semplicemente l'oggetto di studio della criminologia in modo completo, alla situazione di conflitto tra il criminale e la vittima, a tutte le possibili cause su entrambi i lati della situazione concreta, ovvero della diade criminale-vittima, per un efficace prevenzione o rimozione del conflitto medesimo (Separovic 1973: 17). Secondo Nagel, dunque, la vittimologia introducendo un approccio interazionista e sociologico nuovo 4 , completava la prospettiva di studi e di ricerca della criminologia
Approccio individualista o che oggi per i suoi caratteri potremmo inquadrare nell'individualismo metodologico, come già osservato. Vedi infra parte I, cap. 1, par. 2.1. 4
Scienza, disciplina o paradigma
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tradizionale accentrando l'analisi sul sistema di interazione tra i due agenti sociali del conflitto 5 , il criminale e la sua vittima. Diade criminale-vittima, nuova unità d'analisi del crimine come fenomeno sociale. In questo senso la sua« criminologia delle relazioni» includeva la vittimologia. Questa posizione di considerare la vittimologia, nonostante fermamente consolidata e certamente affermata nei suoi principi, nei suoi strumenti concettuali e metodi, comunque come una parte della criminologia, come una sia pur importante ed ormai imprescindibile area di ricerca, ma sempre all'interno della scienza criminologica, è oggi condivisa dalla maggioranza e da anche autorevoli suoi artefici e promotori come Fattah (2000). Altri, altrettanto autorevoli, la considerano una disciplina criminologica pur se descritta come relativamente amorfa (Rock 1994: XI). È bene sottolineare, però, che la massima parte degli autori la riconosce come disciplina ben definita e determinata nei suoi scopi, metodi ed elementi paradigmatici, solo che non la ritiene autonoma ed indipendente dalla criminologia. Lo stesso Fattah, la cui posizione sostanzialmente riassume quella maggiormente condivisa, parte dal considerarla una disciplina, sia pur giovane e « figlia » della criminologia. Poi nel considerare le critiche alla sua autonomia e separazione dalla criminologia, ripiega sul concetto di paradigma. Nel senso che il paradigma vittimologico, e cioè lo studio dell'interazione criminale-vittima, ha colmato il bisogno disperato creato dal massiccio fallimento degli altri, - che egli considera tradizionali - , paradigmi della criminologia: ricerca delle cause del crimine, deterrenza, riabilitazione, trattamento, retribuzione, e così via. L'intima convinzione di Fattah (2000) è certamente che oggi la vittimologia sia una disciplina scientifica ben radicata sulla scena accademica. Difatti sottolinea proprio che negli Stati Uniti, ed in generale a livello internazionale, persino in Giappone, in un crescente numero di università, vi sono corsi in vittimologia e materie affini, come pure vi sono ben due riviste internazionali dedicate alla vittimologia, una società mondiale di vittimologia, e dunque a livello globale si fonda su una solida ed alquanto ramificata comunità scientifica che condivide un sapere specializzato, specifico e determinato. Egli anche di recente ribadisce che si tratta di una disciplina che non è affatto stata frutto di entusiasmi passeggeri o di una moda inconsistente, ma è certamente « una realtà scientifica che
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Conflitto ovviamente nel pensiero di Nagel.
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ha imposto ed a/fermato se stessa» (Fattah 2002). Come per Nagel, anche per Fattah la vittimologia ha colmato un enorme vuoto della conoscenza criminologica sul fenomeno del crimine poiché lo studio e la comprensione di questo non sarebbe mai stata compiuta se le vittime non fossero state incluse nei modelli esplicativi. Nessuna teoria valida del comportamento criminale per Fattah (2002) può ignorare la vittima, poiché altrimenti si cercherebbe di spiegare una forma di comportamento umano per sua natura dinamica e interazionista con un modello unilaterale, unidimensionale e statico. Per Fattah in effetti l'importanza assunta dalla vittimologia è tale che anche a non volerla considerare una disciplina autonoma e separata dalla criminologia, quantomeno si deve ammettere e condividere che essa ne costituisca un importante settore di ricerca ovvero un definito paradigma. Intendendo un paradigma nell'ambito della scienza come un insieme di proposizioni che costituiscono una base di accordo a partire dalla quale si sviluppa una tradizione di ricerca 6 , applicabile anche alle scienze sociali (Cesareo 1993: 48). In tale accezione la vittimologia è certamente quantomeno un paradigma della criminologia, che vede la produzione del fenomeno criminale nell'interazione criminale-vittima. Avrebbe dato luogo ad una rivoluzione scientifica per la rottura radicale con la prospettiva unilaterale della criminologia tradizionale. Questo salto di prospettiva è, infatti, per alcuni il carattere maggiormente utile dell'utilizzazione del termine « paradigma » per designare approcci e prospettive sociologiche nonostante la sua controversa applicazione in questo senso (Berzano-Prima 1998: 11). Certamente illustra correttamente la valenza dirompente della vittimologia per le prospettive tradizionali della criminologia focalizzata sul delinquente e sulle cause biologiche, psicologiche e sociali del crimine con solo riferimento al delinquente stesso. Nagel (1963) invero pur negando autonomia scientifica alla disciplina, dava alla vittimologia lo stesso valore del paradigma « non euclideo » per la geometria.
6 Nella seconda accezione accolta da Kuhn nel poscritto del 1969, quale elemento della generale ed intera costellazione di credenze, valori, tecniche e così via, condivise dai membri di una data comunità. Elemento costituito, invece, da un modello o soluzione esemplare di un problema che dà luogo alla condivisione di regole esplicite da applicare, nel tentativo di ricercare la soluzione di rimanenti problemi (Kuhn 1969).
Scienza, disciplina o paradigma
3.2.2.
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La vittimologia generale.
La vittimologia generale è stata concepita da Mendelsohn (1956; 1963; 1973; 1976; 1982) e sviluppata nel tempo a più riprese, sebbene con lievi adeguamenti o modifiche all'impostazione originale. Lo stesso Mendelsohn, già nel 1963, evidenziava che il punto di vista della vittimologia ha certamente costituito una svolta fondamentale ed epocale per la criminologia, introducendo la prospettiva giuridica e biopsico-sociale della vittima nello studio del crimine. Assunto unanime. La vittimologia «generale», come terminologia che enfatizzasse l'idea di una scienza globale della vittima sia pure composta da differenti prospettive, fu poi suggerita ufficialmente dallo stesso Mendelsohn proprio a Bellagio, in Italia, nel 1975 nel corso di un convegno particolarmente importante per la vittimologia della scuola europea (Mendelsohn 1979). Mendelsohn, fin dai primi tentativi di impostare una concezione della vittimologia « generale », riconosceva che la maggioranza degli studiosi era favorevole a ritenerla però confinata nei limiti della criminologia. Ciò sia pur nella diversità delle posizioni fino all'epoca contemporanea, secondo la ricostruzione appena esaminata, e cioè orariconoscendole dignità di disciplina scientifica ed accademica (Fattah 2000) pur considerandola una branca della criminologia, una sua area di ricerca (N agel 1963) o disciplina amorfa (Rock 1994). Solo una minoranza appoggiava una idea di una vittimologia generale e di questo era consapevole lo stesso Mendelsohn (1963 ). Separovic (1973) osservava in favore di una estensione più ampia dell'oggetto della vittimologia, al di là delle sole vittime del crimine, che la stessa criminologia si è evoluta nel tempo. Nel separarsi dal diritto penale, sulla base della considerazione che in quanto disciplina scientifica inerente il comportamento umano, non potesse essere confinata allo studio del crimine secondo le definizioni che di questo erano date in senso formale e giuridico dal sistema penale, la criminologia aveva poi ed ha incluso nei suoi temi di ricerca ogni comportamento antisociale a prescindere che possa definirsi o meno come reato. Tanto è vero che tradizionalmente il concetto di devianza include ma non esaurisce quello di reato. Auspicava così che la vittimologia si estendesse ad un intero corpo di conoscenze riguardanti le vittime, la vittimizzazione e gli sforzi per prevenirla e tutelare i diritti delle vittime sia del crimine che di fattori non umani accidentali (Separovic 1973 ). Poco è cambiato nel frattempo, anche se di recente si è ritenuta l'idea di vittimologia generale di Men-
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delsohn un modo per superare una certa stagnazione della disciplina che avrebbe esaurito il suo potenziale di sviluppo nell'area della vittimologia criminale (Doerner-Lab 2002). Per tale motivo è opportuno delineare gli elementi essenziali di questa prospettiva, così come certamente in modo compiuto e pienamente rigoroso tratteggiata da Mendelsohn. Il primo concetto fondamentale di Mendelsohn era affrancare lo studio della vittima dalle definizioni legali del crimine. La vittimologia criminale, infatti, delimitava il proprio oggetto di studio a coloro che subissero una lesione alla loro integrità psicofisica, una sofferenza fisica o psichica, in conseguenza di un comportamento umano ma necessariamente vietato e punito dalla legge penale. Nella vittimologia criminale ci si occupa solo delle vittime dei reati e pertanto, in un certo senso, la definizione di vittima dipende dalla definizione legale del reato, ossia in termine tecnico dalla fattispecie normativa penale in vigore. Questo sarebbe il nucleo essenziale della concezione della vittimologia come scienza autonoma e cioè mentre la criminologia si occuperebbe e continuerebbe ad occuparsi, dopo la nascita della vittimologia, « esclusivamente del reato in quanto causa di sofferenza per la vittima, la vittimologia prende in considerazione la sofferenza stessa e tutte le cause, criminose e non, che la determinano » (Gulotta 197 6a). I capisaldi della vittimologia generale sono pertanto i seguenti.
a)
Non corrispondenza della nozione di vittimalità-criminalità.
La vittimalità non coincide con il concetto di criminalità né vittimizzazione può coincidere con la nozione di crimine, sia dal punto di vista della sua funzione esplicativa, sia per i contenuti descrittivi (Mendelsohn 1956, 1973, 1976). Vittimalità include tutte le vittime, qualunque sia la causa della sofferenza, della lesione psicofisica. Per Mendelsohn la vittimalità esprime la fenomenologia dell'essere vittima. Da un punto di vista descrittivo vittimalità per Mendelsohn include tutte le forme, in senso lato, di « sofferenza umana», dal disagio psichico alla lesione fisica. La vittimalità comprende e descrive, come concetto, la vasta sfera della fenomenologia socio-bio-psicologica della vulnerabilità e lesività umana (Mendelsohn 197 3). Potremmo dire che esiste una vittima ogni qualvolta viene lesa la salute dell'uomo nelle tre dimensioni, poi effet-
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tivamente accolte anche dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, fisica, psichica e sociale. Già Mendelsohn, nell'approfondire il significato di « sofferenza umana» all'interno della nozione di vittimità, tracciava una similitudine ed una identificazione tra la vittima ed il malato. Intendeva affermare che la sofferenza umana, da un punto di vista fenomenologico, non può essere disgiunta dal concetto di salute. Si domandava retoricamente se fosse possibile differenziare, da un punto di vista umano, la sofferenza del malato dalla sofferenza della vittima. In entrambi i casi si ha una lesione della salute, dunque una perdita dello stato di salute. Se un determinato fattore è nocivo per l'uomo, determina sofferenza, sia esso umano od accidentale, si ha una perdita dello stato di salute. Dunque, si ha una sostanziale identificazione tra sofferenza umana, che infatti è necessariamente intesa in criminologia come in vittimologia quale lesione all'integrità psicofisica della persona, e perdita dello stato di salute. Essere vittima significa essere malati perché è stata lesa la propria salute. L'unica differenza è che per la vittima il primo fattore eziopatogenetico è individuato in uno specifico comportamento umano od evento accidentale. La nozione e la fenomenologia della vittima e della vittimità è inscindibile dal concetto di salute proprio perché essere vittima significa, appunto, anche nella rappresentazione sociale, perdere lo stato di salute a causa di un comportamento umano, come il crimine, od un evento accidentale, come può essere un terremoto od un agente patogeno, ad esempio il virus dell'influenza. La differenza è solo nel fattore causale a monte del processo patologico (Mendelsohn 1973). Per tale motivo vittimità non può che significare quello specifico comune fenomeno della perdita dello stato di salute che caratterizza tutte le categorie di vittime, qualunque sia la causa della loro condizione. La citata moderna definizione di salute come un ideale complesso di completo benessere fisico, psichico e sociale fornisce conferma e supporto alla vittimologia generale che Mendelsohn cerca da tempo di affermare poiché amplia il concetto stesso di vittima. Prima la salute era vista semplicemente come assenza di infermità, di infortuni e di disabilità mentre oggi viene data importanza, anche nell'immagine sociale della salute ed al conseguente riconoscimento dello stato di salute/malattia, alla vita psichica e socio-relazionale. La sofferenza della vittima non sarebbe solo più fisica o psichica in senso stretto ma verrebbe riconosciuto anche il disagio relazionale, cioè quando le condizioni sociali non consentono la piena esplicazione dei bisogni e dello sviluppo della personalità del singolo anche in senso sociale. Un esempio del dibat-
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tito che scaturisce dal nuovo concetto di salute si nota nell'ambito dei pretesi bisogni e diritti riproduttivi con riferimento alla fecondazione artificiale resa possibile dall'innovazione tecnologica. In una coppia, infatti, in cui un partner è sano e l'altro infertile, se si guardasse al concetto di salute/malattia secondo un paradigma fisico e psichico in senso stretto, difficilmente potrebbe riconoscersi ad entrambi lo stato di malattia poiché uno dei due partner, non essendo infertile, non è afflitto da alcuna infermità. Si potrebbe solo se si dà importanza al disagio psichico-relazionale derivante per il partner sano dall'incapacità di dare piena soddisfazione al bisogno di coppia di avere un figlio che renderebbe compiuto il rapporto. Si darebbe così rilievo ad un benessere appunto non nel senso tradizionale ma relazionale. Certamente, per l'evoluzione del concetto stesso di salute e dato che la vittima si configura proprio come individuo che soffre, privato del precedente stato di benessere fisico o psichico, leso nella propria integrità psicofisica, si deve ammettere che oggi di riflesso la nozione sociologica di vittima è comunque più estesa, al di là delle aspettative e degli auspici del padre spirituale della vittimologia generale. Mendelsohn si pose il problema della nozione di salute in rapporto alla nozione di vittima, ma l'estensione all'aspetto psico-sociale della relazionalità nel concepire la sofferenza e nell'immagine sociale della salute, si può cogliere in vittimologia, in tempi recenti, ad esempio proprio con riguardo ai già citati hate crimes. Nei così detti crimini d'odio, e cioè determinati dai pregiudizi e dagli stereotipi che generano discriminazione di genere, di razza, ovvero nei confronti di determinate categorie, prostitute, omosessuali, il crimine compiuto nei confronti di uno colpisce in realtà, come danno secondario, l'intero gruppo (Wallace 1998; Karmen 2004). Un crimine compiuto contro un omosessuale per la sua omosessualità genera, infatti, negli omosessuali della comunità, città, ecc., ove è awenuto, disagio psichico, paura ed addirittura modifica delle abitudini di vita. I crimini motivati da un sentimento di odio basato su una discriminazione di razza, religione, orientamento sessuale, origine etnica o nazionale, hanno un impatto che va oltre la specifica, immediata e diretta vittima dell'atto criminale, ma costituiscono aggressioni simboliche a tutti i membri del gruppo discriminato cui appartiene la vittima (Karmen 2004: 278). Ciò può produrre od enfatizzare gravi difficoltà nella relazionalità sociale e nella soddisfazione dei bisogni relazionali, accentuare i processi di autoisolamento, autoesclusione ed autoemarginazione. Nei casi più gravi il timore di essere vittima dell'odio, di cri-
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mini generati dall'odio, di essere aggrediti o discriminati, così amplificato, può portare anche a sintomi od acquisire i caratteri del disturbo post-traumatico da stress. Non da un punto di vista formale e giuridico, né se si adotta una ristretta concezione di salute fisica e psichica, ma solo se si guarda al necessario benessere dell'individuo in senso psico-relazionale e sociale, gli appartenenti al gruppo discriminato sono vittime secondarie del crimine commesso nei confronti di uno di loro, con un danno sociale secondario. Il concetto di vittimità come inteso da Mendelsohn è pertanto oggi certamente accolto in vittimologia con riferimento alla ampia accezione di sofferenza umana che trae la sua delimitazione dalla stessa concezione di salute ormai intesa nelle tre dimensioni di benessere fisico, psichico e sociale. Essa descrive, attualmente, una realtà fenomenica, in senso psicologico e sociale, non limitata alla vittima del crimine in senso stretto ma corrispondente ad una vittima del crimine con un significato molto più lato ed indipendente e separato dalla definizione legale di persona offesa dal reato che delineava la nozione tradizionale di vittima nella stessa vittimologia criminale o penale (van Dijk 1997) che dir si voglia. Ad uno sguardo complessivo il concetto di vittimità, dal punto di vista dell'oggetto di studio della vittimologia, ha avuto la stessa evoluzione che si può individuare in criminologia nel passaggio dalla nozione di crimine a quella di devianza (Bandini ét al. 1991: 16), per alcuni sostitutiva della prima, per altri affiancata in chiave integrativa. La devianza include comportamenti antisociali che non costituiscono necessariamente un crimine, inteso quale condotta contraria alle prescrizioni della legge penale, ma un'infrazione alle regole sociali ed ai valori di riferimento della società. Analogamente il concetto di vittimità, in una accezione moderna, si è espanso, conformemente alle intuizioni ed alle aspettative dello stesso Mendelsohn, alla sofferenza umana non solo in senso strettamente fisico e psichico ma anche quale, come sottolineato, sofferenza psico-sociale, relazionale, come mancata realizzazione dei bisogni socio-relazionali dell'individuo all'interno della coppia, del gruppo e così via. Da questo punto di vista si può dire che il concetto di vittimità di Mendelsohn, a prescindere dalle suddivisioni o categorizzazioni, - generale, criminale o penale-, è al momento generalmente condiviso in vittimologia con riferimento alla sofferenza umana quale suo contenuto più profondo di lesione alla salute da un punto di vista bio-psico-sociale. Essere vittima significa essere lesi nel proprio benessere fisico, psichico e sociale quale perdita dello stato di salute alla cui concezione si è adesso ag-
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giunta una dimensione sociale. Ciò recupera e conferma il significato più vero che aveva la vittimità, e cioè l'essere vittima, per Mendelsohn come fenomenologia socio-bio-psicologica della sofferenza ovvero lesività umana (Mendelsohn 1973). b)
Eziogenesi della vittimitò, owero il problema delle cause.
La maggior differenza tra la vittimologia generale, concepita da Mendelsohn, e la vittimologia penale o criminale è costituita dalle cause della vittimità, ossia dai tipi di vittimizzazione che egli include nell'oggetto di studio ed analisi della vittimologia. L'estensione alla dimensione sociale della sofferenza umana, come lesione alla salute individuale ma nel suo aspetto psico-sociale, relazionale, nella nozione di vittimità, è divenuto un aspetto secondario come si è appena spiegato. Attualmente non si dubita in vittimologia che i membri del gruppo discriminato negli hate crimes possano essere considerati vittime. Non perché subiscano un danno fisico o psichico in senso stretto, ma per la lesione alla loro salute in senso psico-sociale e relazionale, per la turbativa alla soddisfazione dei bisogni relazionali, di realizzazione della propria personalità, nell'ambito sessuale, di coppia, ed anche di una identità sociale non disvalutata. Si è detto che l'aggressione aperta ad un omossessuale può spingere infatti gli altri, per paura di diventare troppo visibili ed essere a loro volta vittime di aggressioni, a non intrattenere relazioni omosessuali, ad astenersi non solo dal non avere un partner ma anche a limitare i rapporti sociali e così via. Lesione della salute sotto il profilo del benessere sociale. Il carattere innovativo e costitutivo della vittimologia generale, nell' originario pensiero di Mendelsohn, di questo elemento di differenziazione rispetto alla vittimologia criminale o penale ha perso importanza. Anche nella vitthnologia criminale o penale attuale si considerano, sia pure in via secondaria ed in senso sociologico, quali vittime soggetti non rientranti nella nozione legale e formale di vittima del reato, ovvero tecnicamente e più correttamente di « persona offesa dal reato », anche latamente intesa, e propria della criminologia tradizionale. La differenza tra la vittimologia generale propugnata da Mendelsohn, ed oggi riproposta da alcuni (Doerner-Lab 2002) e la vittimologia, anche odierna, che rimane in massima parte « penale o criminale », interazionista o meno, e comunque legata quale punto di par-
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tenza alla vittima del crimine, risiede nella considerazione delle cause. Il segno della differenza, in altre parole, è dato dall'ampiezza della « vittimogenesi ». La massima parte della moderna vittimologia, che si può considerare per questo criminale o penale, limita il fattore causale della sofferenza umana al comportamento umano e specificamente quello vietato dalla legge penale o comunque connesso con esso. Quale causa della vittimizzazione si considerano esclusivamente gli atti criminali. Per la vittimologia dei diritti umani si considerano anche gli atti ed i comportamenti non previsti dalla legge penale formale, o criminalizzati, ma che costituiscano comunque una violazione dei diritti fondamentali dell'uomo. Mendelsohn, invece, individuava diversi fattori vittimogenetici quale causa possibile della vittimità. Essi si potevano distinguere in endogeni ed esogeni (Mendelsohn 1976). Ad un'analisi più approfondita egli propone più che dei singoli fattori, un complesso od insieme di fattori organizzati in cinque categorie corrispondenti ciascuna ad un « ambiente » o milieu. Ogni ambiente costituisce un insieme di fattori con cui l'individuo può entrare in contatto ed interagire conseguendone la possibile vittimizzazione. Gli insiemi di fattori o milieux sono cinque 7 :
Per Doemer e Lab (2002) i fattori o gruppi di fattori sarebbero cinque (p. 14). Occorre considerare che la ricostruzione del pensiero di Mendelsohn sul punto è alquanto difficoltosa, poiché disseminata in modo frammentario in almeno tre momenti diversi (Mendelsohn 1973; 1976; 1979). In due di questi momenti (1973 e 1979) egli sembra individuare sei ambienti vittimogenetici e non cinque come in un altro diverso contributo (1976). La spiegazione è nel fatto che alcuni di questi milieux possono essere suddivisi in due o più sottocategorie. L'ambiente sociale è talvolta suddiviso da Mendelsohn in due milieux separati, quello sociale e quello antisociale, includendo nel primo di fatto la criminalità (1973) ché non viene considerata così come fattore vittimogenetico separato per la sua natura sociale. Il milieu tecnologico viene scisso, ad esempio, in un altro contributo, in due diversi ambienti come insieme di fattori, di variabili indipendenti che causano la vittimizzazione: la natura artificialmente modificata dall'uomo, ovvero l' ambientè-...arJ;ificiale, e l'ambiente tecnologico vero e proprio, cioè quello costituito dai manufatti tecnologici più esattamente, il cui uso può essere pericoloso per l'uomo. Un esempio di quest'ultimo è costituito dall'introduzione dei mezzi di trasporto meccanici come l'automobile la cui guida espone al rischio di incidenti per le difficoltà di controllo in tutte le condizioni. L'articolazione in cinque ambienti o milieux od insiemi di fattori proposta da Doemer e Lab è condivisibile perché più lineare e lucida delle altre differenti versioni, nonché non introduce effettivamente inutili e surrettizie suddivisioni. Le diverse categorizzazioni sono infatti state esposte a critica (Young-Rifai 1979). 7
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Il comportamento criminale. - Si tratta, appunto, del tradizionale campo di studio della vittimologia, cioè la vittimizzazione causata da un atto criminale, sia esso un'azione od una omissione; Se stesso. - Si tratta di quello che Mendelsohn anche definisce l'ambiente endogeno e biopsicologico della stessa vittima. Egli include in questa categoria tutti i casi di risposta comportamentale della vittima che risulti inappropriata rispetto al proprio ambiente da un punto di vista fisico, fisiologico, psicologico e sociale, risultante in una sorta di disfunzione senso-motoria (Mendelsohn 1979). Sono i casi di vittimizzazione causata da negligenza, imprudenza, disattenzione, imperizia, emotività, mancanza di coordinazione, discernimento, esatta interpretazione del contesto e difettosa reazione muscolare (fallace o lenta) (Mendelsohn 1973). In altre parole quella che potremmo definire autovittimizzazione, determinata in talune ipotesi anche da una vera e propria inclinazione od impulso autodistruttivo sino al suicidio per decisione consapevole (Mendelsohn 1976). È l'unico insieme di fattori « endogeno »; Ambiente sociale. - L'organizzazione sociale, come causa e fonte di vittimizzazione « esogena », sarebbe riferita alle ipotesi più varie in cui gli individui od i gruppi sperimentano oppressione, violazione dei diritti civili ed umani nel caso, ad esempio, di regimi dittatoriali, totalitari o razziali 8 (Mendelsohn 1973 ). Egli, infatti, riteneva che le tensioni implicite in determinate organizzazioni e strutture sociali avessero elevate potenzialità vittimogene potendo sfociare, con escalation spesso inarrestabili, in gravi forme di vittimizzazione di massa con l'emarginazione e l'esclusione dalla vita economica, politica e sociale, dei gruppi di oppositori politici o dei membri discriminati, sino ai pogroms ed al genocidio (Mendelsohn 1979). Talvolta (Mendelsohn 1973) ha suddiviso l'ambiente sociale, come insieme di fattori vittimogeni, in milieu sociale ed antisociale, includendo nel primo il comportamento criminale come comportamento contrario alle disposizioni di legge che nella società tutelano l'individuo, le collettività ed il loro patrimonio, nel secondo le politiche autoritarie, oppressive, tiranniche, dittatoriali o comunque discriminatorie nei confronti di individui o gruppi sulla base di motivi ideologici, razziali, ecc .. La distinzione poi
Sebbene Mendelsohn non ne abbia mai parlato esplicitamente, è lecito supporre che, parlando di governo razziale, avesse in mente il governo sudafricano dell'epoca e la politica dell'apartheid. 8
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è stata abbandonata essendo evidente la confusione che avrebbe creato la terminologia adottata poiché includeva nel milieu sociale il
comportamento antisociale individuale contrario alla legge, che altro non è che il comportamento criminale, distinguendo poi un milieu antisociale che voleva invece rappresentare il comportamento antisociale degli Stati, dei governi, delle comunità tribali, di discriminazione, oppressione politica, tortura, istituzionalizzazione degli oppositori politici, sino al genocidio. Questo tipo di vittime, peraltro, rientrano nella nozione di vittima di abuso di potere elaborata poi dalla vittimologia dei diritti umani ed accolta nella Dichiarazione dei principi basilari di' giustizia per le vittime del crimine adottata dall'ONU. Per questo motivo pare più corretta, più organica, la formulazione che viene proposta che distingue solo tra il comportamento criminale, da un lato, e l'ambiente sociale globalmente considerato dall'altro (Mendelsohn 1979). Sempre nell'ambiente sociale fattori vittimogeni sarebbero la sovrappopolazione, la povertà, mancanza di educazione, alcolismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, la prostituzione, la disoccupazione, e così via (Mendelsohn 1979). Le conseguenze di tali tensioni strutturali della società sono esempi per Mendelsohn di « vittimità determinata socialmente »; Ambiente tecnologico. - Mendelsohn punta il dito, quali fattori vittimogeni, sullo sviluppo della tecnica e della tecnologia. Riteneva che il rischio di vittimizzazione determinato dallo sviluppo della tecnica e dalla massiccia introduzione di manufatti tecnologici avesse modificato lo spazio di vita dell'uomo rendendolo in gran parte artificiale. Il problema sarebbe costituito dalla velocità di sviluppo e di modificazione dell'ambiente umano ad opera della tecnica, sempre meno naturale e sempre più artificiale, che non consentirebbe un sufficiente adattamento dell'uomo a livello di percezione, decisione e reazione, ai ritmi dell'ambiente tecnicamente manipolato. Il rischio di vittimizzazione e la vittimità determinata dalla tecnologia erano considerati in due ambiti. Il primo era costituito dall'impatto ecologico della tecnologia con l'industrializzazione che, di per sé, porta ad una alterazione, in taluni casi irreversibile, dell'ambiente naturale. L' esempio più eclatante è costituito dall'inquinamento ambientale. L'altro e secondo ambito è dato dall'ambiente tecnico, dall'interfaccia (YoungRifai 1979) che, come un diaframma, media oggi il rapporto tra l'uomo e la natura, l'ambiente naturale che lo circonda. In particolare per ambiente tecnico Mendelsohn intendeva tutti i macchinari che appunto oggi l'uomo utilizza per interfacciarsi con l'ambiente naturale e
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le sorgenti di energia che gli consentono di funzionare (1976). Delle potenzialità lesive dell'interfaccia tecnica l'esempio più evidente è rappresentato dall'automobile. Per Mendelsohn l'automobile raffigura il massimo grado di integrazione umana nell'ambiente tecnico. Vi è, infatti, come per nessun altro tipo di interfaccia tecnica o manufatto tecnologico, un sistema unico che associa in modo interattivo l'essere umano ed il prodotto artificiale. Ciò dà una falsa impressione di simbiosi tra l'elemento bio-psico-sociale e l'elemento tecnico. I due organismi, meccanico, artificiale, l'automobile, e quello umano si integrano e si compenetrano a vicenda. Le potenzialità vittimogene dell' automobile derivano per Mendelsohn non solo dalla pericolosità intrinseca della macchina in movimento in relazione ed in rapporto alle altre, per le possibilità di urto per difetto meccanico od errore umano, ma anche per un motivo psicologico. Secondo una interpretazione anche psicoanalitica l'apparente simbiosi indurrebbe, a livello inconscio, il conducente ad identificarsi con la forza ed il potere tecnico del mezzo condotto, con una perniciosa accentuazione di un falso senso di dominio e di controllo della situazione che, invece, non sussiste. In alcuni casi indurrebbe una specie di psicopatologia, un alterato stato di mente, che Mendelsohn (1976) chiama intossicazione da velocità. Queste condizioni condurrebbero il conducente a sottostimare il contesto per una frattura· della percezione del mondo esterno, sicché si tenderebbe a divenire imprudenti o negligenti, ad ignorare i rischi della guida e della circolazione stradale. Concludeva in modo certamente originale e singolare che la « coppia eterogenea » veicologuidatore, fosse un fattore che inducesse un comportamento antisociale, potesse facilmente portare, in virtù del descritto falso senso di dominio per intossicazione da velocità e così via, a tendenze antisociali. La forza visionaria di Mendelsohn si può apprezzare considerando che le vittime dell'infortunistica stradale sono oggi un problema sociale in termini di allarme e di istanze di prevenzione particolarmente sentito. Anche in Italia una parte cospicua del movimento in favore delle vittime deriva dall'associazionismo spontaneo proprio nel1' ambito delle vittime della strada. Non a caso alcuni membri della recentemente costituita Commissione di studio dei problemi delle vittime presso il Ministero, sono i presidenti di alcune associazioni dei familiari di vittime di infortuni derivanti dalla circolazione stradale. Peraltro, non si può non osservare che le vittime della strada rientrano di diritto nella vittimologia criminale poiché, anche se a titolo di colpa,
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la maggior parte degli infortuni trova la sua causa nel comportamento umano, penalmente sanzionato; Ambiente naturale. - L'ultimo milieu vittimogenetico esogeno è dato dall'insieme delle forze naturali. L'uomo è certamente in balia delle forze naturali, e quindi questo milieu è quasi auto-evidente poiché, certamente, in considerazione delle condizioni naturali, diverse zone sono caratterizzate da alti rischi potenziali di disastri naturali come terremoti, inondazioni, siccità, uragani e così via. Il rischio di potenziale vittimizzazione deriva dalle scarse capacità di effettivo controllo su larga scala dei fenomeni naturali da parte dell'uomo, la cui comprensione, senza ombra di dubbio, continua a migliorare grazie anche alla stessa innovazione tecnologica ma rimane sempre assolutamente limitata. Un tentativo di sintesi delle aree di ricerca oggetto della vittimologia generale, in una lucida elaborazione delle idee e delle formulazioni originarie di Mendelsohn, nonché tenendo conto di successivi sviluppi, è stato abilmente tracciato da Smith e Weis (1976). Lo schema elaborato da tali due autori costituisce una ottima esemplificazione delle implicazioni concettuali e delle applicazioni delle ricerche vittimologiche (Doerner-Lab 2002) in linea con il pensiero di Mendelsohn (1976: 21) secondo cui la vittimologia doveva riguardare tutte le vittime e tutti gli aspetti della « vittimità » in cui la società abbia interesse. Tale modello generale di Smith e Weis parte dall'universo di situazioni, eventi e processi che hanno la probabilità di essere definiti come vittimizzazione. Ciò significa che la vittimologia generale, appunto come auspicato da Mendelsohn, dovrebbe occuparsi di tutti quegli elementi della realtà sociale, da intendere sia come situazioni, sia come eventi, sia come processi, che sono suscettibili di generare sofferenza umana, e cioè una lesione dell'integrità e del benessere biopsico-sociale dell'uomo. La vittimologia deve analizzare con rigore scientifico tali situazioni, eventi e processi, come effettivamente compiuto in tanti anni dalla sua nascita. La vittimologia ha avuto il pregio di svelare, però, che non è sufficiente identificare una situazione, un evento od un processo vittimizzante poiché il riconoscimento del ruolo e dello status di vittima al soggetto leso dipende dalla struttura culturale, economica, politica, istituzionale della società. Il soggetto leso viene riconosciuto come vittima, in altre parole, solo se rientra nelle definizioni di vittima che sono socialmente costruite per mezzo di processi legislativi e sociali, nelle quotidiane interazioni umane del
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gruppo, comunità o società di riferimento nel suo complesso, di processi scientifici (Smith-Weis 1976). La vittimologia oltre a studiare la creazione di tali definizioni, studia anche l'applicazione che di tali definizioni è effettuata dagli agenti del controllo sociale, dagli « altri significativi », dalla comunità, dagli scienziati sociali e del comportamento, dalla vittima stessa. L'ulteriore passaggio studiato dalla vittimologia nell'analisi del rapporto tra vittima e società è il comportamento della vittima successivo alla vittimizzazione, la reazione alla stessa. Esso si può sostanziare in tre atteggiamenti: la ricerca di aiuto esplicita, sentimenti di insoddisfazione e frustrazione, reazione alla risposta degli altri. Infine la vittimologia generale studia anche la reazione sociale alla vittimizzazione, cioè come il sistema tratta, risolve, processa, la condizione di vittima. La reazione sociale si può studiare in diversi aspetti: l'intervento nell'immediatezza della « crisi» determinata dal1'evento vittimizzante, i servizi sociali predisposti ali' aiuto o alla tutela delle vittime anche sul lungo periodo, l'atteggiamento e le procedure delle forze di polizia quando entrano in contatto con la vittima in qualità di testimone e/o denunciante, gli strumenti adottati in funzione preventiva della vittimizzazione, le cure mediche, i rimedi civilistici diretti alla restituzione alle vittime di quanto loro sottratto ad al risarcimento delle stesse da un punto di vista economico o patrimoniale. Smith e Weis intendevano, in questo modo, fornire uno schema concettuale onnicomprensivo della vittimologia che avesse un valore euristico (1976: 43). La validità del modello, i maggiori vantaggi che presenta, sono l'enfasi data ai processi dinamici sia prima che durante la vittimizzazione, sia con riguardo alla reazione sociale ad essa. Inoltre, deve essere considerato che tra le varie aree di ricerca vi è una mutua interdipendenza e che la reazione sociale alla vittimizzazione, genera un feedback, un effetto di ritorno sulle definizioni legali, sociali e scientifiche della vittima stessa in un processo sostanzialmente circolare (Smith-Weis 1976: 44-45). Un settore di ricerca è un'applicazione delle teorie dell' etichettamento alla vittima, in quanto il ruolo di vittima può essere appreso al pari del comportamento criminale. Il presupposto è che la socializzazione, soprattutto nelle prime fasi di vita di interazione primaria, e l'autoidentificazione sono elementi di un processo che conduce gli individui a reagire in modi predeterminati agli eventi definiti come vittimizzanti. La reazione degli altri significativi e dei membri della comunità è di notevole importanza, come è stato dimostrato negli studi vittimologici, affinché vi sia il migliore recupero dagli effetti
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traumatici dell'evento vittimizzante. Alla vittima potrebbe, infatti, essergli attribuito un certo grado di colpa, o negata la solidarietà od ignorata poiché non ritenuta vittima. In questa interazione, l'individuo leso può sviluppare alcune concezioni di sé come vittima ed agire corrispondentemente o, al contrario, rigettare l'etichetta. La ricerca vittimologica stessa partecipa a tale processo di etichettamento della vittima, di riconoscimento sociale del ruolo e dello status di vittima poiché l'elaborazione di definizioni di determinati tipi di vittime, possono poi essere accettate in sede legislativa o dalla comunità a seguito di movimenti od interventi pedagogico-educativi ed, infine, dalla vittima stessa (Smith e Weis 1976: 47). Lo schema proposto da Smith e Weis, pertanto, fornisce una immagine compiuta e con una certa valenza euristica della vittimologia generale che tenga conto del complesso attuale degli studi e delle ricerche vittimologiche.
3.2.3.
La 11vittimagogia" o vittimologia clinica.
Recentemente ha assunto una sua precisa fisionomia una terza « anima » della vittimologia. Accanto alla tradizionale suddivisione tra
vittimologia generale e criminale ed in margine alla discussione se la vittimologia criminale sia una branca della criminologia o se si debba parlare della vittimologia generale come disciplina scientifica autonoma, è tangibile il consolidamento di un altro settore del pensiero e del movimento vittimologico. Vi è un settore della vittimologia che si occupa proprio della prevenzione, della cura, dell'attenuazione, della minimizzazione degli effetti della vittimizzazione sulla vittima da un punto di vista fisico, psichico e, ovviamente, sociale. Giustamente si può definire come quella vittimologia che si focalizza sull'assistenza, il trattamento delle vittime. Una vittimologia che non cerca di interpretare le vittime ma di aiutarle, ponendo in secondo piano od ignorando del tutto l'analisi della vittimogenesi, cioè delle cause della vittimizzazione. Questa vittimologia viene definita da van Dijk assistance-oriented victimology, od anche "vittimagogia" 9 • Essa si occupa anche dell'approccio clinico alle vittime ed è stata soprattutto sviluppata dagli psichiatri e dagli psicologi
9 Dal vocabolo latino victima e dal verbo greco per assistenza agogein, anche usato nel termine pedagogia (van Dijk 1997). Dunque una vittimologia orientata al1' assistenza, all'aiuto delle vittime.
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clinici, in primo luogo, oltreché dai medici. Gli effetti della vittimizzazione sono riconducibili principalmente e sostanzialmente al disturbo post-traumatico da stress, e la vittimologia si è occupata della sua diagnosi, prevenzione e cura (van Dijk 1997) in misura imponente. Da parte di van Dijk è, comunque, riduttivo assimilare la vittimagogia come vittimologia dell'assistenza alle vittime semplicemente agli studi sul disturbo post-traumatico da stress, con un approccio psichiatrico e psicologico dominante. L'approccio clinico alla vittima ed agli effetti della vittimizzazione, che van Dijk pone al centro della sua "vittimagogia", non esaurisce la ricerca scientifica sulle conseguenze della vittimizzazione né si limita alla cura del PSTD 10 • La vittimologia clinica ha avuto i suoi maggiori contributi di sistemazione teorica e didattica in seno alla scuola francese di cui il maggior esponente è Gérard Lopez. Il suo oggetto di studio concerne (Lopez-Bornstein 1995): 1) le conseguenze medico-psicologiche del processo di vittimizzazione; 2) il trattamento delle complicazioni; 3) la valutazione medico-psicologica del danno arrecato ai fini del risarcimento in sede giudiziaria. Lopez considera la vittimologia clinica concentrata sulle conseguenze e complicazioni fisiche e psicologiche. Si distingue la conseguenza diretta dalla complicazione nel senso che l'eventuale stato di choc prost-traumatico è da considerarsi una conseguenza, mentre la sindrome post-traumatica da stress è una possibile complicazione successiva che può comparire a medio e lungo termine. Il disturbo posttraumatico da stress è solo una delle possibili complicazioni a lungo termine specificamente psico-traumatica. Nel suo manuale di vittimologia clinica, Lopez evidenzia per ciascun tipo di vittima, dalla vittima della violenza domestica alle vittime dei crimini contro l'umanità, delle catastrofi naturali, degli incidenti derivanti dalla circolazione stradale, dei crimini sessuali e così via, le lesioni fisiche e psicologiche e le corrispondenti complicazioni che ne possono derivare. Ad esempio, nel caso di maltrattamento infantile vi possono essere numerose lesioni fisiche traumatiche derivanti da sevizie corporali, che vanno dalle ecchi-
10 Post Traumatic Stress Disorder owero disturbo post-traumatico da stress, che ha avuto il suo riconoscimento e sistematico approfondimento prima con il DSMIII e poi con il DSM-IV (vedi Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali nelle corrispondenti edizioni italiane, III e IV versione, Masson Ed.).
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masi e dagli ematomi sino alle fratture, al distacco della retina, lesioni degli organi interni e così via. Le conseguenze psicologiche possono consistere in disturbi del comportamento, nella condotta alimentare, sino alla depressione ed ai tentativi di suicidio. La stessa terapia è differenziata a seconda del tipo di vittima. Lo stesso Lopez osserva che, accanto però alle conseguenze ed alle complicazioni di natura fisica e psico-traumatica, vi sono delle conseguenze personali, economiche e di rapporto con il sistema giudiziario penale. Vi sono anche diverse conseguenze sociali individuate dalla vittimologia, che possono essere correlate o meno al disturbo post-traumatico da stress, ma non necessariamente, come difficoltà dei rapporti familiari, degradazione dei rapporti intimi di coppia, professionali e lavorativi e così via. Rientrano sempre nell'approccio clinico la sindrome di Stoccolma e le condotte di così detta recidiva vittimale. La prima, come noto, sebbene sia una particolare complicazione legata al disturbo post-traumatico da stress, è costituita da particolari meccanismi di difesa psicologica nel caso degli ostaggi. Si ha così un comportamento paradossale della vittima caratterizzato da sentimenti di simpatia nei confronti dei terroristi o sequestratori, sentimenti negativi da parte degli ostaggi nei confronti delle autorità e delle forze dell'ordine, sino alla reciprocità della simpatia tra gli uni e gli altri. La seconda è il fenomeno della vittimizzazione multipla. Alcune vittime, infatti, sono costantemente rivittimizzate. Sviluppano un disturbo psicologico che le induce a subire nuovamente l'esperienza della vittimizzazione con comportamenti apertamente negligenti, imprudenti o provocatori. La vittimologia clinica non è dunque riducibile al disturbo posttraumatico da stress, e d'altro canto la vittimagogia di van Dijk, volendo egli far riferimento a tutti quegli studi sull'assistenza alle vittime, sulle politiche e programmi di intervento per la predisposizione di servizi di aiuto e di trattamento è più ampia. La ricostruzione di van Dijk di un settore della vittimologia orientato alla formazione degli operatori, alla predisposizione di programmi e politiche sociali e di intervento di aiuto alle vittime, è corretta, e completa, se affiancata alla vittimologia generale ed alla vittimologia criminale, una compiuta cornice sistematica degli studi, dei contributi, degli apporti, delle ricerche condotte in vittimologia. Deve essere però intesa come comprendente non il solo approccio clinico alle conseguenze della vittimizzazione, ma come studio delle possibilità di assistenza, aiuto, cura e trattamento degli effetti della vittimizzazione a livello fisico e psicologico, ma anche sociale. I servizi di as-
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sistenza alle vittime non si limitano all'intervento terapeutico, da un punto di vista medico o psicotraumatico, ma forniscono assistenza legale, informazioni su come ottenere risarcimenti assicurativi, interventi di prevenzione delle conseguenze anche economiche, sociali e familiari. Altresì, tende ad elaborare, anche in senso educativo e pedagogico, programmi di prevenzione della vittimizzazione e della rivittimizzazione, anche in assenza della suddetta condizione psicopatologica di vittima recidiva. La vittimagogia descrive e rappresenta così utilmente un settore organizzato specifico di studio della vittimologia.
3.3.
Considerazioni conclusive.
Sorge spontanea la domanda di quale vittimologia si possa parlare oggi. Il dilemma verte sulla vittimologia scienza autonoma, disciplina scientifica o paradigma. Ci si potrebbe chiedere se sia effettivamente utile, necessario od opportuno, considerando l'attuale sviluppo della vittimologia. Il dibattito, come è stato illustrato, è rimasto vivo sin dall'avvento dei primi studi vittimologici di Mendelsohn, von Hentig, Wertham. Una utilità può essere certamente riscontrata, da un punto di vista pratico ed organizzativo, in senso accademico per la costituzione di insegnamenti o corsi universitari. In questo senso, da un punto di vista sociologico, si ha la soddisfazione di un bisogno sociale di un sapere specializzato, di una conoscenza tecnica resa necessaria da determinate condizioni sociali, da un certo assetto storico della società. Non si può negare che dalla metà del secolo, dagli anni 50 e 60 in poi, vi è stata, infatti, quella che alcuni chiamano una riscoperta della vittima (Karmen 2004). Nel periodo post-bellico la vittima è diventata un tema centrale nella comunicazione a livello politico, legislativo, sorgendo un movimento di pubblica opinione. All'inizio piccoli gruppi di attivisti, scienziati sociali, giornalisti, operatori del controllo sociale e legislatori, hanno sollevato quello che venne ritenuto un problema serio e cruciale: la totale disattenzione ed incuria nei confronti delle vittime (Karmen 2004: 4), ovviamente soprattutto del crimine. Il messaggio e l'idea che poi si diffuse, consolidò e radicò nella comunicazione politica e sociale era che le vittime erano persone dimenticate, i cui bisogni e situazioni erano stati sistematicamente ignorati e cui occorreva riservare attenzione e concreta azione, cosicché diversi gruppi sociali, istituzioni, agenzie, cominciarono a condividere lo scopo di agire in favore delle vittime. La vittimologia è indissolubil-
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mente legata al movimento sociale in favore delle vittime proprio perché ha costituito in prima battuta la risposta al bisogno sociale così sorto di un sapere specializzato, di strumenti tecnici di analisi e di intervento, un know-how teorico e pratico che consentisse di approcciare al problema delle vittime. Il movimento sociale in favore delle vittime è sorto nonostante le vittime non costituiscano un gruppo sociale organizzato, né potrebbero, data l'estrema differenziazione in età, sesso, razza, classe sociale, orientamento politico, e così via. Il movimento in favore delle vittime che emerse intorno alla prima metà del secolo si coagulò intorno ad una vasta coalizione di attivisti, gruppi di supporto, organizzazioni di servizi e tutela, che diedero luogo al bisogno sociale di maggiori diritti e più articolati servizi in favore delle vittime del reato, di promozione educativa del pubblico, di formazione professionale degli operatori delle agenzie del controllo sociale e dei servizi sociali, di istituti di ricerca e punti di informazione aperti al pubblico, ecc. (Karmen 2004). La vittimologia come disciplina e come corpo sistematico, organizzato e strutturato di concetti, informazioni e tecniche inerenti le vittime del crimine, che deve essere insegnato, nel suo più vero e profondo significato etimologico, è la risposta a tale bisogno sociale. La polemica che ancora adesso permane, sia pure attenuata nei toni e nell'importanza, sulla sua autonomia scientifica non ha ragione di esistere se si osserva da un punto di vista storico-sociale l'evoluzione della vittimologia. Essa certamente nasce come paradigma interazionista e situazionale all'interno della scienza criminologica. I primi studi vittimologici degli anni 40 consideravano la vittima una causa del crimine nel momento del passaggio all'atto, inserita nella situazione concreta. Il crimine, come è stato esaminato, era il prodotto dell'interazione criminale-vittima nella situazione concreta in cui aveva luogo. Dal punto di vista scientifico, pertanto, la vittimologia è nata certamente come modello esplicativo, come soluzione ideale al problema del crimine e cioè come paradigma nella seconda accezione chiarita da Kuhn (1969). Da questo punto di vista la vittimologia è solo uno tra i diversi paradigmi che si vogliano individuare in criminologia 11 • Successivamente, sulla
11 Nell'ambito della sociologia della devianza la prospettiva interazionista è vista all'interno del paradigma più ampio della devianza come costruzione sociale e si focalizza sull'interazione tra devianza e contesto, ed in particolare sulla reazione al1' azione deviante e sugli effetti criminogeni del controllo sociale (Berzano-Prina 1999:
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spinta del movimento sociale in favore delle vittime e del bisogno di un insieme sistematico di conoscenze, informazioni, concetti, che potesse essere insegnato, è divenuta una disciplina scientifica come riconosciuto anche da coloro che continuano a ritenerla una branca, un settore, una sottoarticolazione della criminologia e dunque disciplina sì, anche scientifica, ma non scienza autonoma. Tangibilmente la vitti-
111). Il paradigma interazionista della vittimologia in ambito criminologico, pur trovando le comuni radici nell'interazionismo simbolico come approccio sociologico, non è assimilabile alla prospettiva interazionista del paradigma della costruzione sociale della devianza. È vero, infatti, che, nel considerare il contributo della vittima ali' azione criminale, la vittimologia di von Hentig, Mendelsohn, Wertham e studi successivi si fonda sull'assunto che il senso dell'azione sociale, e dunque nella specie criminosa, si produce nel corso dell'azione medesima perché gli individui, interagendo tra loro, danno vita ai significati che dirigono l'azione e derivano dall'azione. Assunto che è il nucleo profondo dell'approccio individualista dell'interazionismo simbolico (Cesareo 1993). È anche vero tuttavia che nel concetto di vittima potenziale, di rischio di vittimizzazione, di vulnerabilità vittimale l'approccio è sempre interazionista ma maggiormente riferibile all'individualismo metodologico di Boudon. Il criminale seleziona le vittime, che dunque sono potenziali, perché gli si attribuisce uno schema dell'agire proprio dell'individualismo metodologico che considera il carattere intenzionale delle azioni individuali nella loro intrinseca razionalità definita dallo schema. Lo schema dell'agire comprende attori, situazioni, fini e risorse. Parlare di vittima potenziale o latente significa inserire la vittima sia come risorsa, sia come elemento situazionale dello schema dell'agire razionale dell'attore criminale. L'attore impegnato in una situazione, è condizionato dalle caratteristiche di questa in certa misura, per cui nel perseguire i propri fini, ad esempio il profitto economico, per raggiungerli ottimizzando i risultati delle proprie decisioni deve manipolare le risorse dando luogo ad azioni significative (Cesario 1993: 41). Il criminale è attratto dalla vulnerabilità della vittima perché è una razionale manipolazione delle risorse. Prima ancora dell'interazione faccia a faccia, nella situazione concreta, lo schema razionale dell'agire attrae il truffatore verso quello che von Hentig chiamava l'ingenuo, il semplice, il sempliciotto, il tonto, il predatore sessuale verso il promiscuo, il ricattatore verso colui che non è in condizioni di denunciarlo per la posizione occupata, e così via. La vittimologia interazionista coniuga nella spiegazione del crimine la prospettiva dell'interazionismo simbolico con la prospettiva dell'individualismo metodologico. Da un lato, anche il criminale, nell'agire, è influenzato dal proprio stereotipo della vittima, dall'altro, nella situazione concreta, agendo razionalmente è attratto dal bersaglio potenzialmente più vulnerabile od individuato come tale. L'idea di fondo, però, è che date determinate condizioni sociali, politiche, economiche, culturali, psicologiche, di personalità e biologiche personali del delinquente, la causa effettiva e diretta dell'azione criminale è l'interazione tra individui che ne determina il senso nella situazione concreta. Non è pertanto assimilabile a nessun altro approccio, modello esplicativo, prospettiva in criminologia, anche da un punto di vista sociologico e, dunque, ne costituisce a buon diritto un paradigma, come modello di soluzione al problema eziologico del fenomeno della criminalità.
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mologia, dal nucleo originario del paradigma interazionista, che sicuramente costituiva solo uno dei modelli esplicativi della criminologia, si è andata arricchendo di prospettive, concetti, metodi, temi, ricerche, difficilmente riconducibili alla criminologia stessa. La vittimologia generale di Mendelsohn costituisce un buon esempio, addirittura di molto precorrendo il suo sviluppo futuro, di una organizzazione sistematica della trasformazione della vittimologia da paradigma interazionista in scienza con una propria costellazione di credenze, valori e tecniche 12 • Come scienza sociale, disciplina scientifica specializzata, avente ad oggetto la vulnerabilità dell'uomo rispetto all'ambiente in cui vive ed agisce, ha ormai contenuti che vanno oltre la criminologia. Il ruolo di Mendelsohn nella vittimologia si può cogliere, pur nel loro eclettismo, talvolta anche nella loro frammentarietà e forse anche nel loro disordine confuso, in queste intuizioni ed idee in gran parte in anticipo sui tempi. Alle soglie, infatti, del XXI secolo, il confronto e la discussione sui temi dell'inquinamento ambientale, del rischio e della pericolosità dell'innovazione tecnologica, i limiti etici della manipolazione tecnica della natura da parte dell'uomo, è divenuto quotidiano nella comunicazione politica e sociale, generando anche imponenti movimenti di opinione e di protesta. Egli paventava già allora, e cioè più di trent'anni fa, i rischi gravi di vittimizzazione, individuale e
12 Che è invece la prima accezione di paradigma di Kuhn (1969: 213). In questo senso, così come circolarmente espresso da Kuhn, è ciò che viene condiviso dai membri di una comunità scientifica e inversamente la comunità scientifica consiste di coloro che condividono tale costellazione. Come lo stesso Kuhn riferisce, una delle fonti di maggiori critiche al suo tentativo di analisi della struttura della rivoluzione scientifica, derivava dalla confusione, di cui egli stesso si ammette colpevole, derivante dall'uso, non sempre chiaro, del termine paradigma nelle due dìfferenti accezioni e cioè una come modello esplicativo, soluzione idealtipica di un problema, l'altro, più ampio, come costellazione di credenze, valori, tecniche, ecc .. Da un punto di .vista storico della conoscenza scientifica, il passaggio dall'una all'altra accezione è la struttura più vera dell'acquisizione del carattere di scienza, quando i modelli derivanti dalla prassi scientifica danno luogo a particolari tradizioni di ricerca scientifica con una loro coerenza (Kuhn 1962: 30). È proprio l'accettazione di un paradigma che definisca un campo del sapere che trasforma un gruppo di studiosi, precedentemente interessato allo studio di un'area più generale in una scienza specializzata o almeno una disciplina (Kuhn 1962: 39). Lo schema istituzionale della specializzazione scientifica si fonda proprio sull'accettazione di un singolo paradigma da parte del gruppo. La vittimologia, pertanto, che si coagulò intorno al paradigma interazionista in criminologia, si trasformò in una disciplina scientifica specializzata.
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collettiva, insiti nello sviluppo della tecnologia e nell'ampliamento dell'ambiente tecnicamente manipolato dell'uomo. Oggi, importanti temi della politica globale di prevenzione dell'inquinamento ambientale sono, ad esempio, l'utilizzo degli idrocarburi nella produzione di energia e l'impatto che l'aumento di anidride carbonica ha sull'acclarato effetto serra, oppure il tentativo di ridurre i clorofluorocarburi per ridurre il così detto « buco » nell'ozono. Mendelsohn già nei primi anni settanta, con la sua vittimologia generale, individuava delle importanti aree di vittimizzazione umana, individuale e collettiva. Il valore della sua impostazione emerge ancor più ove si consideri che, sia in Europa che negli Stati Uniti, quella che Mendelsohn definiva la vittimità determinata dall'ambiente tecnologico, che abbiamo sinteticamente illustrato, è transitata di fatto in molti settori dalla vittimologia generale, ovvero da quella che era la vittimologia generale per Mendelsohn, alla vittimologia penale o criminale. Negli anni settanta, infatti, il problema dell'inquinamento ambientale, dell'industrializzazione selvaggia, dei rischi dei manufatti tecnologici, dei limiti etici alla manipolazione tecnica della natura, dei rischi insiti nell'artificialità dell'ambiente di vita dell'uomo, abbozzavano appena il loro avvento. Attualmente, e nel corso degli anni successivi, data la gravità ed estensione, spesso di massa, della vittimizzazione e, dunque, delle conseguenze nocive e lesive su larga scala di tali fenomeni, per prevenirli e reprimerli si è cominciato a ricorrere in misura sempre maggiore allo strumento della sanzione penale, giudicata unico effettivo deterrente per taluni comportamenti individuali e di intere organizzazioni. Nel1' epoca contemporanea, proprio per l'importanza raggiunta da questi rischi, si parla addirittura della responsabilità penale delle persone giuridiche nel tentativo di arginare, appunto, i comportamenti a livello di gruppi, organizzazioni, aziende, imprese, dove è difficile individuare responsabilità individuali od inefficace la repressione delle stesse essendo gli elementi dell'organizzazione sostituibili. Anche in Italia il diritto penale dell'ambiente ha avuto una notevole espansione e, con riferimento ai limiti etici della manipolazione tecnica dello stato di natura, la recentissima legge sulla fecondazione artificiale utilizza diffusamente lo strumento penale per imporre una regolamentazione. Si potrebbe dire che l'aumentata percezione sociale e la congiunta crescita esponenziale del rischio nell'area nello sviluppo tecnologico, hanno di fatto reso meno rilevante l'opposizione tra fautori della vittimologia generale e fautori della vittimologia criminale o penale in quanto diverse aree dell'una, col tempo, sono transitate nell'altra.
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L'adozione dello strumento penale per la repressione di condotte, sia di singoli che di grandi organizzazioni, nell'area dell'ambiente e della tecnologia, è diretta espressione, anche se talvolta inconsapevole, di politiche « victim-oriented » cioè orientate alla tutela delle vittime, individui o gruppi, di volta in volta individuate. E questa individuazione passa attraverso lo studio scientifico, l'analisi ed anche la denuncia di rischi, vulnerabilità, potenzialità lesive e dunque complessivamente dei pericoli di vittimizzazione, individuale e di massa, o della vittimità già determinata dall'industrializzazione, dallo sviluppo della tecnologia, dall'uso della tecnica, dalla sempre maggiore qualità artificiale dell' ambiente di vita umano. In molti casi la politica criminale e cioè la decisione a livello parlamentare, governativo, statale, politico e sociale, di criminalizzare o meno un comportamento riconosciuto come potenzialmente vittimizzante, è determinata da studi, approcci, metodi, di natura criminologica. Per questo motivo si può certamente condividere l'affermazione di Doerner e Lab (2002) secondo cui non è peregrino riproporre la vittimologia generale come studio ed individuazione di tutte le possibili cause, attuali o semplicemente potenziali, di vittimizzazione, di tutte quelle situazioni suscettibili di generare vittimità, individuale o collettiva. I fatti hanno dimostrato che la prospettiva di Cressey e le critiche rivolte alla vittimologia non sono condivisibili. Sia perché porre un problema sociale non significa non studiare scientificamente le potenzialità vittimizzanti di una situazione. Sia perché porre oggi un problema sociale può significare porre domani un problema di politica criminale. Individuare oggi delle vittime di una data situazione, attuali o potenziali, ove le stesse non siano ancora prese in considerazione dalla legge penale od altrimenti tutelate, significa certamente porre un problema sociale, ma anche porre il problema se per la loro tutela, una volta riconosciuta, per la gravità del rischio o delle conseguenze nocive dell'attività pericolosa, sia giustificato il ricorso allo strumento della repressione penale in termini di politica criminale. La criminologia si occupa della devianza quale situazione prodromica o preparatoria, o talvolta semplicemente favorente il crimine come fenomeno sociale ad essa connesso. La vittimologia non può non occuparsi di situazioni anche non previste dalla legge penale ma che abbiano conseguenze vittimizzanti, che generano vittimità, che abbiano conseguenze nocive e lesive della salute dell'uomo nella sua dimensione bio-psico-sociale. Lo studio della devianza spesso orienta le scelte di politica criminale. Ad esempio, la prostituzione non è criminalizzata perché forma di autolesionismo,
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ovvero qualora coatta è vittimizzazione essa stessa e pertanto ne è criminalizzato lo sfruttamento. La vittimologia generale come scienza sociale, come studio delle situazioni potenzialmente ed attualmente vittimizzanti ma fuori dalla tutela legale, fuori dal campo di azione delle agenzie del controllo sociale formale, in realtà precede la criminologia e difficilmente può esserne considerata una parte. Una volta adottata una certa politica criminale, ovvero in sede di decisione sull'uso dello strumento repressivo penale a fini di garanzia di una individuata vulnerabilità, individuale o sociale, entra in gioco maggiormente la criminologia poiché occorre valutare, in rapporto al comportamento che si vuole criminalizzare, alle qualità ed alla personalità dell'autore, e così via, l'effettiva efficacia e proporzionalità della sanzione penale da irrogare oltre che la sua misura. La vittimologia, infine, analizzando il suo percorso storico e la sua interazione ed interconnessione con il movimento sociale in favore delle vittime, è certamente autonoma scientificamente dalla criminologia. L'impostazione di Mendelsohn, la sua vittimologia generale in un certo senso è stata imposta dai fatti, come sempre avviene nelle effettive rivoluzioni scientifiche, guardando all'aspetto storico e sociale della scienza. Il dibattito è futile perché, ovviamente, non si possono imporre paletti predeterminati alle forze sociali che hanno portato l'evoluzione scientifica della vittimologia per l'importanza assunta dalla prevenzione della vittimizzazione umana nella società e nelle istanze e bisogni conseguenti. Lo stesso è avvenuto per la criminologia nel suo distacco dalla medicina legale e dal diritto penale come sapere specializzato, disciplina scientifica e poi scienza autonoma. Naturalmente vi sono numerose aree di coincidenza tra la criminologia e la vittimologia. Gran parte del campo di ricerca, anche attuale, della vittimologia è sovrapponibile a quello della criminologia. Il punto di vista, però, è completamente diverso. Ad esempio, la vittimizzazione secondaria come danno psicologico od aggravamento degli effetti del crimine che la vittima riceve nell'affrontare il processo penale e le tutele adottabili, sia a livello di diritti che di servizi, non si vede come possa rientrare nella criminologia. L'impatto della vittima con il sistema giudiziario penale può essere devastante, come dimostrato dagli studi condotti nei casi di violenza sessuale nei confronti delle donne o dei minori. Il superamento della vittimizzazione, ovvero l'attenuazione dei suoi effetti, dipende molto dalla reazione sociale nei confronti della vittima. Tutto ciò, però, non ha nulla a che vedere con le cause del crimine, la prevenzione della criminalità, la rieducazione e la ria-
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bilitazione del reo, la devianza e così via. Ancora, la mediazione penale dalla criminologia è vista come strumento di prevenzione della recidiva, misura alternativa alla detenzione, dunque come trattamento penale non carcerario, più umano, e nel suo valore e valenza rieducativa, di recupero del reo. Dalla vittimologia è vista da una prospettiva inversa ed addirittura talvolta confliggente: se ed in quali limiti corrisponda ad un reale bisogno delle vittime che partecipino al processo di mediazione, quali effetti ha rispetto alle vittime la sua funzionalità ed utilità per il recupero della vittima dagli effetti della vittimizzazione. Non si vede come la criminologia possa assumersi il compito di mediare l'una prospettiva con l'altra in quanto i principi scientifici sono diversi, come è autoevidente, e l'armonizzazione delle due prospettive può avvenire solo sul piano politico-sociale nel gioco di forze e movimenti contrapposti. Anche la vittimizzazione secondaria, nei suoi principi scientifici, può confliggere con principi analoghi della criminologia e del diritto penale. L'espansione dei diritti delle vittime nel processo penale, di informazione, di partecipazione, di tutela nel corso della testimonianza con le forme di audizione protetta, incide sui contrapposti diritti dell'imputato al giusto processo, al contraddittorio, ad una pena giusta, intesa come proporzionata al reato commesso, individualizzata in base alla sua personalità, che ne consenta il recupero e la rieducazione. Già in passato altri, consapevoli di queste difficoltà, avevano assunto posizioni eclettiche come Gulotta (1976) che da un lato negava alla vittimologia l'autonomia scientifica dalla criminologia, dall'altro la inquadrava come scienza sociale che dovesse occuparsi non solo della vittima dei crimini ma anche delle vittime di incidenti ed infortuni. In realtà l'equivoco si basava proprio sul fatto che, sino ai primi anni settanta, la vittimologia era assimilata ali' applicazione del paradigma interazionista in criminologia, quale spiegazione delle cause del crimine, visto come rapporto interpersonale (Gulotta 1976a: 14 s.; 19766: 58). Anche Separovic considerava la vittimologia una disciplina scientifica delle scienze sociali ed osservava proprio, richiamando Nagel (1963; 197 4), che se il maggior contributo della vittimologia viene esclusivamente ritenuto nello studio della relazione criminale-vittima e degli elementi di tale relazione, ruoli, reciprocità, partecipazione, in funzione causale o concausale al crimine, effettivamente difficilmente può considerarsi autonoma dalla criminologia. Se però si considera la vittimologia come un approccio globale a quello che egli chiama humanrisk problem, cioè al problema del rischio della sofferenza umana, della
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sicurezza della vita e dell'esistenza dell'uomo, della salvaguardia della salute umana in senso biologico, psicologico e sociale, essa non coincide affatto con la criminologia (Separovic 1973 ). In conclusione, oggi, può riconoscersi alla vittimologia lo statuto di scienza autonoma come studio dell'uomo leso nella integrità della sua salute e del suo benessere inteso nella triplice dimensione, fisica, psichica e sociale, a prescindere dalla causa che determini la lesione allo stato di salute. Causa che può essere il comportamento criminale, cioè contrario ed in violazione della legge penale, od anche il comportamento umano in violazione dei diritti umani ove questi siano ignorati dall'ordinamento giuridico (vittime del crimine e dell'abuso di potere), sia il comportamento stesso della vittima. La causa può essere sia individuale, cioè il comportamento del singolo individuo, che collettiva, e cioè derivare dalla struttura culturale, istituzionale, statale, economica, politica della società o della comunità di riferimento. In questo senso non è necessario adottare l'eccessiva differenziazione di Mendelsohn, che distingue tra ambiente sociale ed ambiente tecnologico. In realtà il pericolo di vittimizzazione non deriva dalla tecnologia in sé ma dalle modalità del suo uso e dai limiti apposti, dal suo controllo così come si afferma, è tollerato, o regolamentato socialmente. Anche per le vittime che sono ricondotte ali' ambiente sociale la causa è comunque il comportamento umano, solo che non viene individualmente considerato. La causa, in questa ipotesi, è semplicemente collettiva perché ricondotta all'interazione fra individui od all'organizzazione strutturale del comportamento umano. Non è il caso di denominarla vittimologia generale, come era stato costretto a proporre Mendelsohn in prima battuta per distinguerla dalla vittimologia inerente le vittime del reato, con cui la vittimologia di quei tempi si tendeva, come è stato sottolineato, ad identificare. Solo a fini didattici e sistematici, potrebbe essere utile distinguere una vittimologia generale da una vittimologia criminale o penale all'interno della vittimologia come scienza per descrivere le sue due anime, i due settori principali in cui si articola. Van Dijk (1997) esprime questa suddivisione, che si può anche condividere, nel descrivere lo stato dell'arte della vittimologia da un punto di vista scientifico. Esattamente egli distingue la vittimologia, come studio della vittimizzazione, semplicemente in due branche o settori. La vittimologia penale o criminale, che si focalizza sulla vittima del crimine, i processi di vittimizzazione, l'interazione criminale-vittima, la posizione e lo status di vittima, il ruolo della vittima nel sistema penale, in altre parole la vittima in rapporto al cri-
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mine, sia come fattore causale, sia come attore del sistema penale e del controllo sociale. Come è stato già illustrato con degli esempi chiarificatori, tale settore della vittimologia è solo parzialmente coincidente, in comune od intersecato con la criminologia. Le inchieste di vittimizzazione, dirette a far emergere il numero oscuro dei crimini effettivamente commessi, sono uno strumento sia della criminologia che della vittimologia. Le inchieste di vittimizzazione altro non sono che ricerche dirette a scoprire, misurare, studiare la criminalità nascosta, invisibile al sistema, i crimini non denunciati né scoperti. Si tratta di una totale coincidenza tra i principi, i metodi e gli scopi della vittimologia e della criminologia, essendovi solo una differenza terminologica perché la vittimologia parla di vittimizzazione nascosta, la criminologia parla di criminalità nascosta, che altro mon sono che la stessa identica cosa. Diverso è il caso, per gli esempi già citati, della vittimizzazione secondaria e della mediazione penale ove l'approccio vittimologico non solo non coincide e non è funzionale alla criminologia ma può condurre ad esiti configgenti sul piano politico-sociale. La seconda branca è ricondotta da van Dijk, appunto, alla vittimologia generale che sarebbe rappresentata dalla vittimologia dei diritti umani e dallo studio della sofferenza umana, della vittimità, come lesione del benessere fisico, psichico e sociale, non determinata da un atto criminale, e cioè vietato dalla legge penale. La causa, però, individuale o collettiva, rimane comunque un fatto umano, sia che si individui nell'interazione degli attori sociali che nella struttura culturale, nella struttura istituzionale e di potere, nell'uso della tecnologia, e così via. È stato notato, nelle precedenti pagine, come il confine tra i due settori della vittimologia sia comunque labile poiché una individuata fattispecie di vittimizzazione, proprio per il movimento socio-politico di tutela in favore delle vittime, può transitare dall'una all'altra area di studio. Ad esempio, l'innovazione tecnologica, e l'introduzione di tecniche dirette a consentire la vita umana nei primi stadi in un ambiente artificiale, può condurre a delle istanze di studio delle possibili situazioni di vittimizzazione, di individuazione di eventuali vittime ed in via preventiva di predisposizione di opportuni strumenti di tutela. L'ipotesi è quella della fecondazione artificiale. Anche se si potevano individuare delle possibili vittimizzazioni nell'utilizzo delle varie tecniche di fecondazione artificiale, la stessa, fino ali' emanazione della legge, era praticata e nessuna modalità o forma era penalmente punita. Un approccio vittimologico a tale problema, e cioè quali vittime e quale tutela per l'abuso delle tecniche di fecondazione artificiale, prima della legge,
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rientrava nella vittimologia generale. Dopo la legge, in relazione alle fattispecie penali ivi previste, è divenuto un problema di vittimologia penale o criminale. Ciò rende chiaro che, appunto, la distinzione può avere solo una finalità sistematica o didattica. Da un punto di vista pratico, in relazione ai singoli problemi, alle singole tematiche, appare relativa e contingente. Un'ultima annotazione riguarda le vittime di eventi o disastri naturali che Mendelsohn, lo ricordiamo, includeva nella "sua" vittimologia generale. È bene dar rilievo al fatto che attualmente è vero che la vittimologfa si occupa anche di queste vittime (van Dijk 1997), così come auspicato da Mendelsohn. È altrettanto vero che occorre operare un distinguo. Per la vittimizzazione determinata da un fatto umano in senso lato, come abbiamo detto, e cioè nella terminologia e nell'opinione di Mendelsohn, sia esso comportamento criminale, società come agente collettivo o tecnologia, la vittimologia si occupa delle cause e dell'intervento sulle stesse in chiave preventiva. Per quanto concerne il comportamento criminale, ha studiato e studia l'interazione criminale-vittima per accertare le caratteristiche della vittima, il suo ruolo, il suo contributo, gli elementi di questa interazione come causa determinante della vittimizzazione per non solo conoscere meglio il fenomeno, ma, trattandosi di un fatto umano, per prevenirlo. In questo senso è una scienza sociale applicata poiché ha cercato di elaborare politiche sociali ed educative, programmi di intervento, servizi, che potessero prevenire ed aiutare le potenziali vittime a prevenire la vittimizzazione. Per la vittimizzazione determinata da cause naturali, per definizione sfuggenti, almeno finora, al controllo dell'uomo, ciò non è possibile. Un terremoto od un uragano possono essere previsti, e peraltro tuttora con larghi margini di errore, ma certamente non impediti. Per questo motivo la vittimologia, ovviamente, non si è mai preoccupata di studiare le cause degli eventi naturali. Ha solo studiato gli effetti e le cautele da adottare per attenuarli, ridurli, minimizzarli, ha ignorato la loro vittimogenesi. Nell'area delle vittime degli eventi naturali la prevenzione opera non sulle cause ma sugli effetti. Sebbene la ricostruzione di van Dijk sia corretta, non è condivisibile l'inclusione della vittimologia clinica nella vittimologia generale, od addirittura la loro identificazione (van Dijk 1997). La vittimologia generale, infatti, non si occupa solo dell'aiuto e dell'assistenza alle vittime trascurando le cause della vittimizzazione, la loro analisi scientifica ed individuazione. Se si traccia una linea di demarcazione tra la vittimologia generale e la vittimologia penale o criminale, come segnata dallo stesso van Dijk, la differenza consiste nel fatto che la vit-
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timologia generale prende in considerazione solo le cause della vittimizzazione che, pur costituendo fatti umani, non integrano un comportamento criminale in senso stretto e cioè vietato dall'ordinamento giuridico-penale. Come è stato abbondantemente spiegato, il suo oggetto è la vittimità determinata da quei fatti umani, individuali o collettivi, non espressamente puniti dalla legge penale.
4. VITIIMOLOGIA CRIMINALE
4.1. Per una definizione di vittimologia. nale di vittima.
4.1.
4.2. Per una definizione transnazio-
Per una definizione di vittimologia.
È stata esaminata l'articolazione della vittimologia generale in vittimologia criminale e vittimagogia. È opportuno delimitare l'oggetto di studio della vittimologia criminale che, appunto, si concentra sulle vittime del reato. Fermo restando lo schema proposto da Smith e Weis, quale descrizione, anche con valore euristico, della vittimologia generale, è opportuno confrontare alcune definizioni di vittimologia nell'area delle vittime del reato come espressione sintetica dell'oggetto di indagine e degli scopi della vittimologia criminale. Come già sottolineato queste definizioni non devono considerarsi, ovviamente, una limitazione od una rigida gabbia in cui chiudere gli approcci teorici e concettuali della vittimologia in ambito criminologico, ma sono utili come traccia euristica. Un punto di riferimento è da considerarsi certamente la definizione di Karmen (1990): la vittimologia è« lo studio scientifico della vittimizzazione incluse le relazioni tra autori e vittime del reato, le interazioni tra le vittime ed il sistema di giustizia penale, cioè le /orze di polizia ed i giudici: gli operatori dell'esecuzione penale, e le connessioni tra le vittime ed altri gruppi ed istituzioni sociali come ad esempio nell'ambito dei media, dell'economia e dei movimenti sociali». Si tratta di una definizione paradigmatica della vittimologia criminale poiché, infatti, Karmen ritiene la vittimologia sostanzialmente coincidente con la vittimologia criminale, come area di specializzazione all'interno della criminologia, sia da un punto di vista accademico che organizzativo, al pari di altri campi di studio focalizzato, come l'abuso di droghe, il terrorismo, ecc. (2004: 21). Rendendo mag-
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giormente esplicito l'approccio di Karmen, di recente riproposto ed approfondito, la vittimologia criminale è da riconoscersi oggi, nel XXI secolo, come lo « studio scientifico della lesione fisica, emotiva e patrimoniale che l'individuo soffra a causa di attività criminali» (2004: 9). Questo in prima battuta poiché, in realtà, la vittimologia non investiga semplicemente la lesione e la perdita patrimoniale inflitta dagli autori di reato, ma anche il rapporto della vittima con il sistema della giustizia penale e, dunque, in altre parole l'interazione della vittima con le agenzie di operatori del controllo sociale in senso lato, dagli ufficiali ed agenti delle forze di polizia sino ai pubblici ministeri, ai giudici, agli operatori penitenziari e delle misure alternative, e così via. Tenendo conto degli sviluppi più moderni degli studi vittimologici, la vittimologia criminale si occupa anche della reazione sociale al problema delle vittime, con riferimento alle relazioni con gli altri gruppi sociali ed istituzioni tra cui, in particolare, i media dell'informazione, gli operatori professionali della medicina e del diritto, e le aziende commerciali che offrono servizi di protezione e prodotti di difesa contro il crimine. Interessante, anche sotto il profilo esplicativo, è l'esemplificazione di Karmen di qual' è lo scopo delle indagini vittimologiche, e cioè si potrebbe dire quale è !"'oggetto del desiderio" di conoscenza dei vittimologi. Essi, infatti, indagano scientificamente « se e come le vittime hanno subito una lesione fisica, una perdita economica, sul piano psicologico un attentato all'autostima, se emotivamente traumatizzate, socialmente stigmatizzate, cooptate, escluse, emarginate, ignorate, biasimate, diffamate, degradate, vilipese ». Altresì, sotto il profilo dei bisogni, delle istanze, delle necessità che le vittime reclamano, essi cercano di analizzare fino a che punto le vittime sono « spaventate, terrorizzate, depresse, infuriate ed amareggiate » da un lato, e dall'altro, in risposta a tali bisogni, fino a che punto sono « tutelate dal diritto, assistite, curate, supportate, placate, riabilitate, educate, celebrate, commemorate, onorate e finanche idolatrate» (Karmen 2004: 9). Tenendo presente le giuste critiche di Cressey (1979) e Fattah (1992; 2000), per una vittimologia che mantenga un rigore scientifico, una metodologia analitica, che agisca in favore delle vittime ma fornendo gli strumenti per prevenire la vittimizzazione, tutelare ed assistere le vittime, pur non direttamente e materialmente operando sulle vittime, Karmen avverte che però i vittimologi si devono considerare dei ricercatori e, dunque, privilegiare un approccio scientifico di individuazione del problema, di sua analisi, e di proposta di un modello
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esplicativo e di una soluzione. La pratica applicazione dei principi e degli strumenti che la vittimologia elabora è lasciata ai dottori, agli infermieri, agli psichiatri, agli psicologi, ai terapisti, agli operatori dei servizi sociali e così via, che operano appunto in modo applicativo nei confronti delle vittime. I vittimologi, infatti, non partecipano direttamente all'intervento nei confronti delle vittime su qualsiasi piano si attui, politico, sociale o legislativo, poiché anzi il loro compito è proprio di valutare l'efficacia della tutela, dell'assistenza nei confronti delle vittime in rapporto ai loro reali bisogni, ruolo e status, così come socialmente emergono (Karmen 2004). Riassumendo il pensiero di Karmen e la sua discussione dello sviluppo della vittimologia e l'estensione del suo oggetto disciplinare, si possono individuare tre aree principali di approfondimento (Wallace 1998): 1) le ragioni di come o perché le vittime si pongono in una situazione potenzialmente nociva, pericolosa. Tale analisi eziologica è condotta con un approccio dinamico al processo che conduce l'interazione umana ad una situazione pericolosa; 2) la valutazione di come il sistema sociale in generale, ed il sistema penale e del controllo sociale in particolare, interagisce con la vittima a tutti i vari livelli in relazione a ciascuna agenzia od operatore, polizia, giudici, ecc .. Questo tipo di analisi tende anche a focalizzare il ruolo specifico della vittima ad ogni stadio del processo penale, anche in riferimento ali' esecuzione della pena. Nel corso, infatti, della stessa, la vittima può essere coinvolta ad esempio nei programmi di mediazione; 3) la valutazione dell'efficacia degli sforzi di rimborsare la vittima per le sue perdite economiche e patrimoniali in conseguenza del reato, e di soddisfare i suoi bisogni personali ed emozionali, derivanti dagli effetti della vittimizzazione, con adeguati interventi legislativi a livello giuridico, adeguati servizi di assistenza a livello sociale e così via. È interessante notare che vi sono delle sostanziali similitudini tra la definizione di Karmen, opportunamente approfondita, e lo schema euristico di Smith e Weis precedentemente esaminato. Vi è una coincidenza sostanziale dei contenuti e degli approcci della vittimologia con la sola differenza che Smith e Weis lo ritengono un quadro di riferimento per la vittimologia generale e dunque a prescindere dalla causa della vittimizzazione, come già spiegato, mentre invece Karmen limita la sua definizione di vittimologia alla vittimologia criminale
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avente specificamente ad oggetto le vittime dell'attività criminale (Karmen 2004: 9). La vittimologia criminale mutua il proprio metodo multidisciplinare ed interdisciplinare dalla criminologia (Wallace 1998; Karmen 2004). È multidisciplinare perché, ovviamente, diverse sono le prospettive disciplinari attraverso cui si può approcciare il problema delle vittime del crimine, sociologica, psicologica, medica, psichiatrica, giuridica e così via. È interdisciplinare perché, ovviamente, integra ed interconnette fra loro i risultati provenienti dalle diverse prospettive disciplinari in un unico modello esplicativo, o progetto, o programma di assistenza e cura delle vittime in rapporto ai loro bisogni ed agli effetti della vittimizzazione. Può essere utile, poi, confrontare una definizione di vittimologia criminale così come delineata dalla World Society of Victimology (van Dijk 1997): « lo studio scienti/i'co dei limitl della natura e delle cause della vittimizzazione criminale, le sue conseguenze per le persone coinvolte e le reazioni da parte della società nei loro confronti, in particolare le /orze di polizia ed il sistema della giustizia penale, gli operatori sociali volontari e professionali di assistenza alle vittime ». Van Dijk riteneva che tale definizione includesse sia la vittimologia criminale sia quella che egli definiva assistance-oriented o vittimagogia di cui si è detto. Dopo un certo dibattito tra i membri della World Society si è concordato, peraltro, di includere non solo le vittime di una attività criminale in base alle definizioni legali dell'ordinamento giuridico positivo vigente, ma di far riferimento anche alle violazioni dei diritti umani secondo l'impostazione di Elias (1985). In altre parole, si deve includere anche la cosiddetta vittima dell'abuso di potere, cioè quando si è vittime di una attività tollerata, permessa, legittima od addirittura prevista dalle leggi dello Stato, ma che conduce ad una violazione dei diritti umani perché lede l'integrità bio-psico-sociale dell'individuo. La differenza con la definizione di Karmen, nella versione aggiornata della formulazione di vittimologia da parte della World Society of Victimology, è l'includere fra le cause della vittimizzazione non solo l'attività criminale in senso stretto, cioè il comportamento che in un determinato Stato sia espressamente ed esplicitamente vietato e punito dalla legge penale, ma anche quei comportamenti, eventualmente addirittura previsti dalla legge ed attuati istituzionalmente, che si risolvano in una violazione dei diritti umani. Un tipico esempio è rappresentato, come già sottolineato, dagli ordinamenti giuridici autoritari od
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oppressivi, le leggi antiebraiche dello Stato nazista, le squadre della morte, i desaparecidos, e così via. Tale definizione è sicuramente più completa di quella di Karmen e non si può affatto ritenere che finisca per confondere la vittimologia criminale con la vittimologia generale, come ritenuto da alcuni (van Dijk 1997), od includere una vittimologia umanitaria che, con la sua ideologia, trasformi la vittimologia da uno studio delle vittime del crimine, delle loro caratteristiche, attitudini, comportamenti, relazioni ed interazioni con i loro vittimizzatori, in un movimento attivista di pressione politica e sociale in favore delle vittime e del loro riconoscimento e tutela, criticato da Fattah (1992). A ben guardare, la vittimologia dei diritti umani considera sempre il comportamento criminale quale causa della vittimizzazione solo che il punto di riferimento per determinare se un comportamento sia criminale o meno non sono più le definizioni legali di crimine poste dall'ordinamento giuridico di un dato Stato. Il punto di riferimento, in altre parole, non sono più le fattispecie poste in un dato ordinamento giuridico nazionale dal diritto penale. Il punto di riferimento diventa sovranazionale. Vi è il passaggio da una dimensione nazionale e legata alla circoscrizione territoriale di un dato Stato, ad una dimensione internazionale prescindente dalla legislazione statale in materia penale: il punto di riferimento diventa la piattaforma dei diritti fondamentali dell'uomo internazionalmente riconosciuti (Elias 1986). Ciò serve, infatti, a porre nella giusta luce quelle che altrimenti sarebbero le dimensioni nascoste della vittimizzazione, l'oppressione e la vittimizzazione sistematica legittimata da un sistema sociale, statale. La tendenza attuale, così come oggi si riscontra nelle sedi internazionali, è proprio verso il tentativo di istituzionalizzare una legge penale internazionale, efficace ed applicabile in una dimensione sopranazionale, così come auspicava Elias oltre vent'anni fa. Il Tribunale penale internazionale è di recente istituzione e, sebbene tuttora non sia pienamente operativo e le norme penali internazionali non siano dotate di effettiva efficacia coercitiva, è il segno che la vittimologia dei diritti umani non si pone fuori ed oltre la vittimologia criminale, ma la completa. Da questo punto di vista non si può neanche concordare con lo stesso Elias che ritiene la vittimologia dei diritti umani oltre la criminologia. Il riferimento nel valutare un comportamento se criminale o meno all'implementazione internazionale dei diritti umani va oltre la visione tradizionale e conservatrice della criminologia, legata alla dimensione positiva e territoriale della legislazione penale dei vari Stati. Un genocidio, però, come ad esempio
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quello tristemente famoso e certamente in alcuni casi abusato e strumentalizzato, degli ebrei nel corso del regime nazista, non cessa di essere un criminale omicidio di massa sol perché la legislazione dello Stato in cui viene attuato lo prevede, attraverso delle leggi, anche se non direttamente o vi è un apparato istituzionale che opera comunque legittimamente e legalmente per il suo compimento. È ovvio che osservando la tragedia del genocidio degli ebrei dalla lente distorta dell' ordinamento giuridico nazista non lo si potrebbe neppure considerare un crimine, né formalmente né sostanzialmente. Solo se si considera la dimensione sovranazionale dei diritti umani lo si può correttamente inquadrare come un omicidio di massa. Naturalmente il riferimento ai diritti umani potrebbe apparire vago, ma così non è poiché i diritti umani ed i crimini conseguenti trovano una adeguata base normativa, che definisce in modo preciso le fattispecie che possono costituire una criminale violazione dei diritti umani, negli accordi, dichiarazioni e statuti internazionali. Da ultimo l'istituzione della Corte Penale Internazionale, che ha iniziato ad operare recentemente dal 1° luglio 2002, ha dato una sistemazione ai crimini di guerra contro l'umanità ed al genocidio, cosiddetti core-crimes, con l'adozione dello Statuto di Roma del 1998. I confini, quindi, della vittimologia dei diritti umani non sono affatto vaghi ed indefiniti essendo ormai il genocidio ed i crimini contro l'umanità e di guerra ben determinati sulla base di tale Statuto convenzionale. In conclusione, la vittimologia criminale può essere oggi definita lo studio scientifico delle cause, della natura e degli effetti della vittimizzazione determinata da un comportamento, da un atto o da una attività criminale, inclusa l'interazione tra la vittima e l'autore e tra le vittime ed il sistema giudiziario penale e la reazione e la risposta sociale, formale ed informale, in termini di supporto, assistenza ed aiuto alle vittime. Con la precisazione che per vittimizzazione si intende la lesione all'integrità ed al benessere fisico, psicologico, economico e sociale dell'individuo, mentre il comportamento, l'atto o l'attività deve valutarsi come criminale non solo in base alle definizioni legali dei reati dell'ordinamento nazionale di riferimento, ma anche in rapporto alla dimensione sovranazionale dei diritti umani, e cioè includendo i suddetti core-crimes, genocidio, crimini di guerra e contro l'umanità. 4.2.
Per una definizione transnazionale di vittima.
L'ambito di studio della vittimologia, come si è potuto notare,
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dipende anche dalla definizione di vittima. Anche considerando la vittimologia criminale, e cioè inerente le sole vittime dei reati, e, dunque, limitando la causa della vittimizzazione al solo comportamento criminale con esclusione di altre cause come i disastri naturali, ecc., l' ambito di studio si può ampliare o restringere in ragione del criterio definitorio adottato. Già Smith e Weis (1976) sottolineavano come la vittimologia studiasse sia le definizioni legali di vittima, così come determinate dai processi di produzione delle norme giuridiche, sia la definizione di vittima così come si costruisce socialmente nel processo quotidiano di interazione fra gli individui - ed infatti si riscontra uno stereotipo di vittima così come è stato evidenziato uno stereotipo di criminale-, sia le definizioni scientifiche così come determinate nel processo di comunicazione di studiosi e ricercatori della materia. In alcuni casi uno o più dei suddetti processi può portare ad un risultato unico o convergente. È il caso della definizione di vittima del crimine e dell'abuso di potere consacrata nella Dichiarazione dei principi fondamentali di giustizia per le vittime del crimine e dell'abuso di potere adottata dall 'Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 40/34 del 29 novembre 1985. Tale definizione rispondeva all'esigenza di elaborare una nozione formale di vittima che prescindesse dalle differenti formulazioni presenti in ciascun ordinamento giuridico nazionale dei diversi Stati. La definizione legale di vittima criminale è, infatti, generalmente frammentaria se si guarda ad un singolo ordinamento giuridico. Esistono le vittime specifiche dei diversi reati. La nozione di vittima è dunque frammentata e polverizzata nelle singole fattispecie di reato previste dalle diverse norme giuridiche penali che le prevedono punendo il corrispondente comportamento commissivo od omissivo. Dalla fattispecie dell'omicidio, dalla definizione legale di omicidio, si può trarre per estrapolazione la nozione e la definizione di vittima del reato di omicidio. Definire l'omicidio come qualunque condotta che cagioni la morte di un uomo significa definire come vittima chiunque perda la vita per mano altrui. Difficilmente un ordinamento giuridico possiede una definizione legale unitaria di vittima del reato. Nel nostro ordinamento giuridico la vittima, che è chiamata persona offesa dal reato da un punto di vista tecnico-giuridico, viene definita come il titolare del bene giuridico protetto dalla norma penale e leso dalla condotta del reo. Di fatto tale definizione rimanda, dunque, come già si diceva, alle singole fattispecie di reato in cui per definire la vittima occorre individuare il bene giuridico protetto. In alcune fat-
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tispecie, come l'omicidio, è facile poiché il bene giuridico protetto è certamente la vita, o meglio, il diritto alla vita. In altre può esserlo meno essendo lo stesso bene giuridico protetto oggetto di discussione tra gli studiosi di diritto penale. Ci si potrebbe chiedere perché sia importante studiare la definizione legale di vittima e perché sia importante che essa sia unitaria o che almeno si possa concordare su di una formulazione unitaria. La definizione legale di vittima è importante perché essa consente l'accesso alla restituzione, all'indennizzo, al risarcimento sul piano economico-patrimoniale, ed ai servizi di aiuto, assistenza e supporto nei confronti delle vittime, predisposti ufficialmente dall'ordinamento statale, dagli enti pubblici oppure garantiti dal volontario e spontaneo processo di solidarietà sociale. Rientrare nella definizione legale di vittima è come una porta di accesso ed attiva, con il riconoscimento del conseguente status, la reazione del sistema sociale, quantomeno formale nei confronti della vittima. Anche a livello delle Nazioni Unite una definizione legale unitaria di vittima del crimine era, ed è, necessaria per l'accesso alla tutela, alle garanzie, ai fondi di assistenza, predisposti in sede internazionale e di cooperazione fra Stati. Dal punto di vista della vittimologia una definizione scientifica unitaria di vittima era, ed è, funzionale ad una migliore delimitazione del1' ambito della disciplina. Si è visto che, essendo una disciplina in grande sviluppo, è stata caratterizzata da dibattiti e contrasti sulla sua natura, sui suoi limiti, sui suoi scopi, sulle sue diverse anime, - la vittimologia generale, la vittimologia criminale, la vittimologia umanitaria o dei diritti umani, la vittimagogia, la vittimologia clinica - , non ancora del tutto sopiti. Gli studiosi di vittimologia hanno contribuito sul piano scientifico alla formulazione della nozione di vittima che è stata poi adottata dalle Nazioni Unite con la risoluzione n. 40/34. È, dunque, un caso in cui il processo comunicativo in seno alla comunità scientifica dei vittimologi sulla nozione unitaria di vittima del reato ha finito per convergere con il processo giuridico in sede internazionale che ha portato alla definizione legale di vittima del crimine e dell'abuso di potere. Con la risoluzione, è stata resa un punto di riferimento comune per tutti gli Stati e gli ordinamenti giuridici penali nazionali. In realtà, la risoluzione è anche qualcosa di più. È una specie di statuto internazionale dei diritti delle vittime. La sua formulazione è debitrice di numerosi contributi ed apporti scientifici della vittimalogia e ne costituisce il riconoscimento ufficiale del suo sviluppo ed importanza ad un livello internazionale (Viano 1990).
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La Dichiarazione finale include due tipi di vittime: le vittime del crimine e le vittime dell'abuso di potere. Quest'ultima conferisce una dimensione transnazionale alla definizione di vittima, prescindendo dai singoli ordinamenti giuridici nazionali. La Dichiarazione finale, incorporante le due categorie di vittime, è l'esito di un lunghissimo processo maturato attraverso discussioni scientifiche di gruppo, azione politica e continui cambiamenti e compromessi (Fattah 1992). Alcune bozze furono discusse in un incontro interregionale di esperti delle Nazioni Unite tenuto ad Ottawa nel luglio 1984, e l'ulteriore bozza dibattuta durante il settimo Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del crimine ed il trattamento degli autori di reato, tenutosi in Milano nel 1985 Q"outsen 1987; Fattah 1992). Fu in tale discussione che la bozza fu suddivisa in due parti, una riguardante le vittime del crimine espressamente, ed una che forniva una definizione di vittima molto più in generale, prescindendo dalle definizioni legali dei reati dei singoli Stati, cioè la vittima dell'abuso di potere. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite l'ha poi adottata sulla base della considerazione che milioni di persone nel mondo soffrono di una lesione come risultato del crimine e dell'abuso di potere, e che i diritti di queste vittime non sono stati adeguatamente riconosciuti CToutsen 1987: 68; Fattah 1992: 402). Successivamente, la definizione adottata è stata sottoposta ad ulteriore confronto per la sua implementazione, sia a livello internazione che dei diversi Stati, dalle quattro maggiori associazioni internazionali, la Società Internazionale di Criminologia, l'Associazione Internazionale dei Penalisti, la Società Internazionale di Difesa Sociale, e la Fondazione Internazionale Penale e Penitenziaria, in un ulteriore incontro a Milano nel 1987 (Fattah 1992). Analizziamo qual è la definizione adottata nella Dichiarazione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite 40/43 del 1985.
A. ½'ttima del crimine: « vittime significa persone che, individualmente o collettivamente, hanno sofferto una lesione, incluso un danno fisico o mentale, sofferenza emotiva, perdita economica od una sostanziale compressione o lesione dei loro diritti fondamentali attraverso atti od omissioni che siano in violazione delle leggi penali operanti alt'interno degli Stati membri, incluse le leggi che proibiscono l'abuso di potere criminale» 1 (Risoluzione Nazioni Unite n. 40/34, 29/11/85).
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Si riporta l'originale del testo della dichiarazione in lingua inglese per un
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Si procederà ad identificare quali elementi della definizione adottata corrispondono ai contributi scientifici della vittimologia.
La vittima collettiva. La definizione, infatti, considera la vittima sia come individuo che come una collettività. La vittimizzazione colpisce un gruppo od una aggregazione di individui il cui legame, il nesso che li unisce e che consente di identificare il gruppo o l'aggregazione, è costituito da interessi condivisi, fattori o circostanze che li possano rendere bersaglio od oggetto di vittimizzazione (Toutsen 1987; Bandini e al. 1991; 2004). È bene sottolineare che la vittima collettiva, nel senso accolto dalla vittimologia, non è una entità astratta, come ad esempio lo Stato, la Nazione, il Popolo e così via. Si tratta di una vittima reale, materialmente colpita da un danno altrettanto reale, solo che la lesione all'integrità fisica, psicologica, patrimoniale, è inflitta e colpisce un gruppo sociale in modo indiscriminato, oppure specifiche persone selezionate in base all'appartenenza ad una categoria (Bandini e al. 1991; 2004). La vittimizzazione collettiva è, dunque, un fenomeno che consiste in un atto criminale o contrario ai diritti fondamentali, in violazione dei diritti umani, che produce una lesione del benessere fisico, psichico e sociale, ad una pluralità di soggetti (Gulotta 1985). Il concetto può essere compreso in base agli esempi del fenomeno che sono proposti dai vari autori. Joutsen (1987) parla della guerra, del genocidio, dei crimini contro l'umanità, della discriminazione razziale, della sperimentazione umana illegale, della tortura e così via (Bandini e al. 1991: 379; 2004: 575). Altri considerano la vittimizzazione collettiva legata ali' economia ed ali' applicazione della scienza ed all'uso della tecnologia (Gulotta 1985). Analizzando sistematicamente gli esempi di vittima collettiva si possono distinguere due forme diverse del fenomeno. Nella prima l'effetto dannoso si produce e deriva dalla somma di più atti individuali di vittimizzazione per la loro organizzata sistematicità. Si tratta confronto, data la difficoltà di rendere esattamente il senso originario in sede di traduzione: « ½'ctims means persons who, individually or collectively, have sul/ered harm, including physical or menta! injury, emotional suf/ering, economie loss or substantial impairment o/ their Jundamental rights, through acts or omissions that are in violation o/ criminal laws operative within Member States, including those laws proscribing criminal abuse o/ power ».
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di una specie di effetto« alone» di una condotta di vittimizzazione ripetuta e reiterata nel tempo. L'esempio paradigmatico è costituito dal genocidio. Gli Ebrei sopravvissuti all'olocausto nazista, anche coloro che possono essere sfuggiti ad una vittimizzazione diretta, e cioè che non sono stati né torturati, né uccisi, ma, per una serie di circostanze, sono riusciti a sfuggire in tempo alla potente macchina di sterminio nazista, hanno subito, ovviamente, l'impatto a livello psicologico ed emotivo della persecuzione rivolta nei loro confronti, dei loro cari e dei loro familiari e del gruppo etnico-religioso di appartenenza. Bisogna considerare anche che, da un punto di vista psico-sociologico, quando una minoranza è costantemente perseguitata e decimata in date circostanze, vi è anche la cristallizzazione e l'interiorizzazione di una immagine negativa di sé a livello individuale e collettivo secondo il meccanismo psicologico in base al quale le vittime, per trovare una giustificazione a quanto accade, essendo altrimenti il sentimento di insicurezza e di vulnerabilità destabilizzante, tendono ad autocolpevolizzarsi. Di fatto le vittime sentono di avere meritato in qualche modo quello che subiscono. Vi è anche in questo processo una specie di adeguamento agli stereotipi dei vittimizziltori. In altre parole, gli Ebrei o, ad esempio, gli Armeni, altro paradigmatico e storico genocidio sempre durante le due guerre mondiali in Turchia, alla fine erano portati ad aderire all'immagine negativa stereotipata dei nazisti o dei turchi, assumendo fino alla fine una identità degradata e squalificata (Dadrian 1973). Si tratta di una applicazione dell'approccio dell'interazionismo simbolico alla base delle stesse teorie dell' etichettamento in criminologia. Così come la criminalità e la devianza possono essere generate dalla reazione sociale ad esse poiché l'individuo finisce per adeguarsi e comportarsi in base all'etichetta che gli viene attribuita, lo stesso avviene nell'interazione tra gruppo di maggioranza, aggressore, e la minoranza, aggredita, da un punto di vista socio-psicologico nel genocidio. L'effetto « alone » determinato da una sistematica, organizzata e reiterata vittimizzazione, indiscriminatamente nei confronti di una ben identificata minoranza razziale, etnica, religiosa e così via, produce una lesione del benessere psicologico e sociale di tutti gli appartenenti al gruppo che può addirittura tendere a comportarsi in modo conforme allo stereotipo alla base dell'aggressione, oltre agli effetti a breve, medio e lungo termine di cui si diceva. Anche sul piano economico il genocidio può produrre effetti « alone » nei confronti di tutti gli appartenenti. Il fatto stesso di dover abbandonare la propria casa, le proprie proprietà, comportamento indotto dal clima di odio o
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dalla ostilità di una data popolazione o regime, conduce ad un danno economico ed emotivo, non prodotto direttamente dall'aggressore, ma generato dall'effetto « alone ». L'effetto « alone » è prodotto da altri tipi di sistematica, organizzata e reiterata vittimizzazione. Già Gulotta (1985) considerava la vittima collettiva collegata al settore economico e specificamente ai cosiddetti crimini dal colletto bianco. Anche qui l'effetto dipende dalla somma nel tempo degli atti criminali compiuti, dal clima sociale che si crea. Nel periodo di tangentopoli, ad esempio, di recente memoria, la giurisprudenza era giunta ad elaborare la discussa e criticata nozione di concussione« ambientale». La concussione è il crimine con cui un pubblico ufficiale, facendo leva sul potere e l'autorità di cui dispone, incute nella vittima un timore di conseguenze negative, vere o presunte, in modo tale da ottenere un indebito vantaggio. La concussione ambientale si verifica quando l'illegalità è diffusa e cioè la prassi da parte di pubblici ufficiali o funzionari dello Stato o di altri enti pubblici o che svolgano un pubblico servizio, di ottenere denaro od altri vantaggi da parte dei cittadini che vengono con loro in contatto per motivi d'ufficio, è così sistematica, reiterata ed organizzata da creare una sorta di milieu di illegalità. I pubblici ufficiali o funzionari, in altre parole, non hanno più la necessità di intimorire la vittima paventando l'uso o l'abuso dei loro poteri. La vittima è intimorita dall'ambiente sociale, caratterizzato dall'illegalità diffusa, per cui aderisce spontaneamente ed automaticamente al sistema delle tangenti. La vittima collettiva, in questo caso, è la categoria di utenti di quel determinato servizio od ufficio pubblico. Ovviamente vi sono anche altri danni. Si può identificare un generico danno sociale consistente nel degrado delle istituzioni politiche, sociali ed economiche (Gulotta 1985). Un danno economico, ad esempio il danno che subisce lo Stato a causa dell'artificiosa amplificazione della spesa pubblica o per realizzazione di opere mai utilizzate, od addirittura mai consegnate o rese inutilizzabili. I casi sono numerosi e non è neppure necessario citarli specificamente: ospedali completi di attrezzature mai aperti per anni, autostrade inutili e deserte, e così via. La vittimizzazione in questo caso non ha un impatto sulla società nel suo complesso come soggetto ideale, virtuale ovvero collettività soggettivata, ma l'effetto è materialmente e concretamente avvertibile da un numero indeterminato di soggetti accomunati da un interesse o dall'appartenenza ad una categoria od ad una comunità. Rientra in tale forma di vittimizzazione collettiva quella legata al campo della scienza e della tecnologia, terza ca-
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tegoria individuata da Gulotta (1985) in base al tipo di relazione tra gli attori del processo di vittimizzazione. Egli farebbe riferimento alla vittimizzazione legata alla sperimentazione umana in ambito medico e farmacologico, all'uso dei computers ed al degrado ambientale. Naturalmente la linea di demarcazione tra la vittimizzazione collettiva riconducibile al settore economico ed ai crimini del colletto bianco da un lato, ed all'applicazione della scienza ed all'uso della tecnologia dall'altro, è labile, come ammette lo stesso Gulotta (1985: 717). La vittimizzazione derivante dall'applicazione della scienza e dall'uso della tecnologia è, infatti, attribuibile alla condotta illecita di corporazioni economiche nella massima parte dei casi, gruppi industriali, società farmaceutiche e così via. La sperimentazione abusiva di un farmaco o la violazione delle norme di antinquinamento da parte di una industria sono certamente comportamenti che si traducono in una vittimizzazione legata all'applicazione della scienza od all'uso della tecnologia, ma al tempo stesso rientrano nella categoria dei crimini dal colletto bianco. Coinvolgono il sistema produttivo e della concorrenza alterandone i meccanismi poiché, generalmente, le condotte illecite, come ad esempio la violazione delle norme antinquinamento, sono dirette all'abbattimento dei costi strutturali di produzione. Non dotarsi di un particolare dispositivo antinquinamento consente sia all'industria di risparmiarne immediatamente la relativa spesa, ma anche di poter vendere ad un prezzo minore i propri prodotti rispetto agli altri concorrenti che, invece, abbiano tenuto un comportamento conforme alla legge. Lo stesso vale, ad esempio, per i dispositivi antinfortunistici, diretti a prevenire gli infortuni sul lavoro. Il mancato acquisto di strumenti diretti a prevenire infortuni sul lavoro - in un cantiere elmetti, cinture di trattenuta quando si lavora sulle impalcature e quant'altro - , da un lato consente il risparmio immediato della spesa lucrato dall'azienda, dall'altro consente di abbattere un costo fisso legato alla manodopera che può influire sul prezzo del bene o servizio che viene commerciato ed offerto. L'intreccio, pertanto, tra economia, scienza e tecnologia nell'ambito della vittimizzazione collettiva è molto stretto, sicché la distinzione di Gulotta (1985) appare artificiosa e priva di utilità euristica sebbene recentemente ripresa (Bandini e alt. 1991: 380). Se proprio si volesse mantenere una suddivisione, per comodità espositiva, della vittimizzazione collettiva nei due settori, economico per una parte, e della scienza e tecnologia per l'altra parte, si dovrebbe far rientrare nel primo esclusivamente i crimini del colletto
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bianco in senso stretto e cioè che non si risolvono in una abusiva applicazione della scienza od in un nocivo uso della tecnologia. La seconda forma di vittimizzazione collettiva è rappresentata dal danno e dall'effetto indiretto di un singolo atto criminale. È l'ipotesi già accennata degli hate-crimes, ovvero i crimini d'odio. Si è detto che quando un crimine, anche isolato e non sistematico, organizzato e reiterato nel tempo come può esserlo un genocidio, ad esempio una aggressione, un omicidio, uno stupro, è determinato da motivi etnici, razziali, religiosi o di discriminazione ed ostilità nei confronti di una specifica categoria individuata in base ad elementi come l'orientamento sessuale, - gli omosessuali-, una condizione sociale o giuridica, - gli immigrati - , un particolare stile di vita, - le prostitute - ecc., genera un effetto secondario nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria. Le vittime indirette sono, dunque, coloro che sebbene non rappresentino il bersaglio primario dell'atto criminale, nondimeno ne soffrono gli effetti (Gulotta 1985). Questo avviene perché il motivo dell'atto criminale, e cioè l'odio e l'ostilità nei confronti di un determinato gruppo o categoria di individui, colpisce il singolo ma simbolicamente il bersaglio è l'intero gruppo o categoria che si incarna, agli occhi dell'aggressore, nella vittima individuale (McDevittBalboni 2003 ). Per tracciare la differenza tra i crimini «comuni» ed i crimini determinati dai motivi d'odio nei confronti di un determinato gruppo o categoria si possono considerare due differenti ipotesi. Sul muro esterno di una scuola degli studenti commettono un atto di vandalismo segnando alcuni cosiddetti graffiti urbani con frasi di protesta od anche inneggianti ai propri idoli, musicali od altro. Un razzista disegna sul muro di una sinagoga una svastica, oppure vengono danneggiate alcune tombe di Ebrei. In entrambi i casi si tratta di vandalismo, ma la svastica simbolicamente trasmette un messaggio di ostilità nei confronti di tutti gli appartenenti al gruppo etnico-religioso presenti in quella comunità e che la violenza fino al genocidio, come è stato organizzato dai nazisti, è il modo per gestire le differenze fra gruppi. Si tratta di un ben evidente danno emotivo che è inflitto a tutta la categoria o al gruppo (McDevitt-Balboni 2003: 191). Ci si potrebbe chiedere da un punto di vista euristico, ma anche dell'analisi scientifica, quale necessità, utilità o funzionalità avrebbe evidenziare la dimensione collettiva di certi crimini. Un primo motivo, che rientra pienamente nello scopo della vittimologia, è l'individuazione, l'osservazione ed anche, se vogliamo, la denuncia sul piano sociale di vittime e di una vittimizzazione spesso nascosta, invisibile od
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impalpabile, di cui è arduo il riconoscimento. È certamente un settore in grande evoluzione non solo nell'ambito della vittimologia, ma, sconfes san do l'assunto di Cressey contrario ad una vittimologia dei problemi sociali, di fecondo interscambio tra ricerca criminologica, diritto civile e penale (Bandini e al. 1991: 383). Se si accerta una condotta che produce un danno al benessere fisico, psicologico e sociale di una pluralità di individui è opportuno studiare il fenomeno e sul piano della politica criminale, ove lo strumento del diritto penale si riveli idoneo, predisporre una tutela o migliorare le garanzie già esistenti. Il secondo motivo è legato all'aggravamento del disvalore di un comportamento, quando si pone in luce la dimensione collettiva della vittimizzazione prodotta. La pena, quale strumento di controllo sociale, si è evoluta senza però perdere, accanto alle altre funzioni che nella criminologia e nel diritto penale contemporanei le sono attribuite e riconosciute, il sinallagma retributivo. La sanzione penale deve, infatti, essere comunque proporzionata al male commesso e cioè al disvalore dell'atto compiuto, naturalmente come esso viene socialmente percepito e sentito in un dato contesto storico. In termini di politica criminale e penale se matura la consapevolezza, sul piano scientifico e sociale, della nocività e lesività di una determinata condotta, si pone il problema se criminalizzare l'atto, e dunque prevederlo come reato, e in che misura punirlo. Se già criminalizzato e cioè già previsto dalla legge penale si pone il problema se aggravare la pena. Si tratta di configurare l'esatta dimensione del rischio, la potenzialità lesiva di un atto o di un comportamento, in altre parole la sua pericolosità sia rispetto all'individuo, sia rispetto all'ordine sociale ed ai valori socialmente riconosciuti. Ovviamente il dibattito può essere aperto scientificamente e politicamente. È opportuno che ci sia nel processo sociale della politica criminale e penale. Ne è un esempio il processo sociale di politica penale attualmente osservabile negli Stati Uniti per quanto riguarda gli hatecrimes, e cioè i crimini d'odio. Avere infatti individuato una dimensione collettiva alla potenzialità lesiva di un atto ne accentua il disvalore proprio perché si aggrava « il male compiuto ». Si accerta che il danno o la pericolosità è maggiore di quelli osservabili sul solo piano individuale. La vittimizzazione è appunto più estesa, soggettivamente ed obiettivamente. Soggettivamente si estende oltre la singola vittima ed ha un impatto sull'intera categoria di persone che condividono la caratteristica personale (razza, etnia, religione, orientamento sessuale della vittima) a causa del significato simbolico aggiuntivo che le motivazioni dell'atto conferiscono a ciò che, pur tuttavia, è già crimine di
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per sé. La minaccia simbolica investe tutti gli appartenenti alla categoria o gruppo di persone che condividono la razza, l'etnia, la religione · o l'orientamento sessuale della: vittima con effetti quantomeno psicologici di ansia, rabbia, ecc .. Tale dimensione collettiva della vittimizzazione non può essere trascurata in sede di politica penale. Il sistema di giustizia penale negli Stati Uniti ha reagito nelle due tipiche modalità di risposta: creare nuove fattispecie di reato, criminalizzando nuovi comportamenti, ovvero aggravando le pene previste per i crimini se motivati da odio razziale, etnico, religioso, ecc .. Molti Stati hanno previsto, quale nuovo reato, nelle loro legislazioni penali il cosiddetto « vandalismo istituzionale» (Garofalo 1997). Si tratta di un crimine che finisce per includere una serie di condotte che vanno dal deturpamento, danneggiamento, alla distruzione, diretta contro chiese, cimiteri, scuole ed altri enti che sono spesso identificati con gruppi particolari (Garofalo 1997: 142). In circa due terzi degli Stati, invece, seguendo la seconda modalità di reazione al fenomeno, la giurisprudenza ha aggravato le pene previste per i crimini ordinari quando motivati da ragioni discriminatorie, oppure si è legislativamente prevista la motivazione d'odio come circostanza aggravante della pena. Il dibattito, però, come detto, è aperto poiché vi sono due orientamenti diametralmente opposti sulle conseguenze aggravate per la vittima e sulla dimensione collettiva e secondaria degli hate-crimes (McDevittBalboni 2003 ). Solitamente tale criticismo deriva da un approccio tecnico-giuridico che postula l'irrilevanza dei motivi dell'azione criminale Q"acobs-Potter 1998). Questo approccio nega il danno addizionale, a livello individuale e collettivo, degli hate-crimes ed è riassunto nella considerazione secondo cui « una vittima di un omicidio motivato dal!' odio è esattamente morta come una vittima di un omicidio comune » (McDevitt-Balboni 2003: 190). Inoltre, viene talora avanzata una questione costituzionale secondo cui punire un crimine solo perché motivato dall'odio etnico, razziale, religioso e così via, ovvero prevedere delle pene più severe per i crimini comuni commessi per ragioni discriminatorie, andrebbe a violare il Primo Emendamento che regola la libertà di pensiero (Wallace 1998). Ciò perché l'azione criminale, per la parte in cui è espressione di convinzioni politiche, religiose ecc., non è punibile 2 •
2 La questione è stata però risolta da una sentenza della Corte Suprema nel 1993 Wisconsin v. Mitchell. La sentenza ha ribadito quello che avrebbe dovuto essere
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L'importanza di studiare, approfondire e verificare la dimensione collettiva della vittimizzazione è poi ribadita dalla vittimizzazione nel settore economico, della scienza e della tecnologia di cui si diceva prima. La globalizzazione, fenomeno certamente indiscusso in ambito economico, che caratterizza il XXI secolo, ha ovviamente portato le potenzialità lesive di condotte come le frodi alimentari, adulterazione di prodotti, attività economiche illecite, inquinamento ambientale, ad una scala planetaria. La dimensione transnazionale della criminalità ha avuto notevole impulso dalla globalizzazione proprio nel settore delle frodi in senso lato che costituiscono una ipotesi di vittimizzazione collettiva attinente al settore economico nelle sue varie tipologie 3 • È stato infatti osservato autorevolmente che « il processo di internalizzazione della criminalità economica risponde generalmente a due orientamenti: la massimizzazione delle opportunità e la minimizzazione del rischio » (Savona 2002: 44). La massimizzazione delle opportunità su scala transnazionale aumenta a dismisura la pericolosità di tali ipotesi di vittimizzazione poiché ne porta la dimensione collettiva ad un livello globale. Fra le altre, la frode internazionale nelle sue varie tipologie è oggi un crimine che colpisce le vittime su scala globale proprio perché la simulazione o falsa rappresentazione della realtà, di cui sono destina-
ovvio, e cioè che il principio della libertà costituzionale di pensiero, previsto anche nel nostro ordinamento dall'art. 21 comma 1 Cost., non prevede quale forma di manifestazione la violenza. In realtà la formulazione del nostro principio costituzionale limita l'espressione del pensiero alla parola, allo scritto, ed ad altre forme di diffusione e cioè gli odierni media televisivi e telematici. Negli Stati Uniti, invece, la Suprema Corte ha dovuto esprimersi confermando il rispetto della Costituzione di una legge sui crimini d'odio dello Stato del Wisconsin. È interessante, da un punto di vista vittimologico, notare che la Corte ha dovuto distinguere tra la punizione delle convinzioni individuali astratte, e dunque manifestazioni del pensiero con la parola e lo scritto od altre forme di diffusione, vietata dal Primo Emendamento, e la punizione di una serie di motivi abietti per la commissione di un crimine, inclusa la selezione della vittima basata sulla sua appartenenza ad una razza, o religione, per il suo colore o disabilità, orientamento sessuale, nazionalità di origine od origini ancestrali. Infatti, la criminalizzazione di comportamenti aggressivi, violenti o comunque lesivi dell'altrui proprietà o benessere fisico, psichico e sociale individuale non punisce i pensieri dell'autore del crimine ma è giustificata, e dunque tenta di prevenire, il maggior danno causato da tali condotte a livello individuale e sociale (Wallace 1998: 213). 3 Tipologie che spaziano dalla contraffazione dei prodotti farmaceutici di lusso, audiovisivi e del software, fino alla frode assicurativa, bancaria e perpetrata con le carte di credito rubate o false, alla bancarotta fraudolenta (si veda l'approfondita analisi di Savona: 2002).
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tari una certa categoria di consumatori o di utenti, è caratterizzata da una particolare complessità organizzativa facendo sì che gli autori, le vittime ed il modus operandi, cioè le modalità di realizzazione della frode, attraversino più di una giurisdizione (Savona 2002). La dimensione collettiva della vittimizzazione è così trasversale a molti Paesi anche simultaneamente. Per tale motivo ci si è soffermati sull' approccio di Mendelsohn della vittimologia generale, al momento presente difficilmente distinguibile dalla vittimologia criminale. Vi è stato di recente chi ha, infatti, parlato di "società del rischio" (Beck 2000) conseguente alla civilizzazione ed al progresso tecnico-scientifico che pone nuove sfide alla politica criminale e penale cori gravi difficoltà di tutela (Stella 2003 ). Dinanzi ai nuovi rischi su scala globale posti dal1' applicazione della scienza e dall'uso della tecnologia in relazione al1' ambiente di vita ed alla salute umana, è recentemente sorto un orientamento nella sociologia europea degli ultimi vent'anni che non ha più considerato il rischio un elemento della vita dell'uomo e motore di progresso, né controllabile in modo agevole e confortante (Stella 2003: 536). Nella nuova forma di società del rischio, che sarebbe subentrata a quella industriale, la minaccia è rappresentata dall'incontrollabile pericolo di autodistruzione, da una sorta di shock antropologico per l'impotenza a garantire la sicurezza degli individui da parte degli assetti tecnico istituzionali. Nella stessa evoluzione del pensiero di Beck, come è stato giustamente sottolineato, alla fine il diritto nazionale è divenuto uno dei principali ostacoli alla soluzione del problema del rischio globalizzato (Stella 2003: ibidem). Il problema è che il diritto penale individuale trascura la dimensione collettiva del rischio ed è impotente a garantire la sicurezza poiché « il diritto penale individuale contraddice la messa in pericolo della collettività» (Beck 2000: 214; Stella 2003: 537). Infatti, considerando i settori della vittimizzazione collettiva dell'applicazione della scienza e dell'uso della tecnologia, individuati e delineati da Gulotta e già considerati da Mendelsohn come aree di massima importanza degli studi vittimologici, anche la vittimologia da tempo rilevava la difficoltà per il sistema di giustizia criminale di predisporre una adeguata tutela. Le difficoltà sorgono dalla necessità innanzitutto di dover individuare un singolo responsabile, secondo il tradizionale diritto penale che ruota attorno all'anacronistico principio dell'attribuzione individuale (Stella 2003). È problematico poter correttamente provare in giudizio che una certa sostanza ha causato un certo danno poiché il nesso tra la sostanza ed il danno è solitamente espresso in termini di probabilità ed epidemiologici.
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L'esposizione ad una certa sostanza può produrre una certa patologia, arrecare un danno alla salute individuale, se protratta nel tempo, o se si superano dei limiti-soglia, e così via. Se si vive nei dintorni di una fabbrica che produceva amianto, non ancora bonificata, vi è naturalmente il rischio di asbestosi e patologie correlate al pari dei lavoratori che vi lavoravano. Tale esposizione, in-realtà, produce un aumento del rischio di ricevere un certo danno alla salute per l'insorgenza di una patologia correlata, generalmente polmonare, espresso sempre in termini di probabilità non essendovi una certa causalità diretta. Vi è poi anche una difficoltà di attribuzione della responsabilità che, nel diritto penale attuale, è sempre individuale. È difficile rispetto alle dimensioni dell'azienda una effettiva identificazione dei responsabili. Nella società globale, poi, la produzione delle sostanze nocive per l'ambiente e la salute umana ha una dimensione ormai talmente internazionale da rendere quasi impossibile addirittura attribuire il comportamento dannoso ad una singola azienda ed ad un singolo reo (Beck 2000: 214; Stella 2003: 537). Le vittime collettive di delitti di questo tipo, è stato infatti osservato anche da altri, sono in posizione di grande debolezza ed in particolare, dal punto di vista del diritto penale, appare molto difficile ricondurre l'evento dannoso alle attività colpose o dolose dei managers (Bandini et al. 1991: 381 nt. 105). Gli esempi sono numerosi e spaziano dalla vendita di farmaci dannosi al trasporto ed allo stoccaggio di scorie nucleari (Stella 2003 ). Peculiare allarme sociale negli anni '90 hanno destato la possibilità di incidenti atomici cui sono esposte le comunità che vivono nei dintorni delle centrali atomiche, poi tristemente resi concreti ed attuali dal tragico evento che ha interessato il reattore di Chernobyl. Il rischio era determinato dal fatto che gli standard di sicurezza erano e sono spesso esigui ed è inefficiente od inidoneo il controllo pubblico ed istituzionale sul loro rispetto (Bandini et al. 1991: 381). La dimensione collettiva della vittimizzazione è data proprio dal fatto che un intero gruppo di persone, coloro che abitano ad esempio in una zona in cui vi può essere la diffusione di particelle di amianto o l'esposizione ad una sostanza nociva come la diossina, o agli effetti inquinanti di scorie ed incidenti nucleari, od una categoria selezionata di utenti di un determinato servizio, gli acquirenti ed utilizzatori di un determinato prodotto, i consumatori, ad esempio, di un determinato farmaco, al di là delle vittime individuali, e cioè coloro che concretamente sviluppano le patologie correlate, sono vittimizzati dalla sola esposizione, contatto, uso della sostanza nociva o dell'ambiente dannoso. Il danno è concreto e consiste nel-
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l'aumento del rischio rispetto alla restante popolazione generale di sviluppare un danno alla salute in termini probabilistici più elevati, correlato con l'esposizione, il contatto o l'uso della sostanza nociva o dell'ambiente dannoso. Non solo coloro che sviluppano le patologie polmonari per aver inalato particelle di amianto sono vittimizzati, ma anche coloro che, pur non avendo sviluppato specificamente una patologia, hanno visto aumentare in misura talora esponenziale il rischio in termini probabilistici di sviluppare le medesime patologie e di subire il danno alla salute correlato, rispetto alla restante popolazione generale a parità di altri fattori concorrenti individuali od ambientali. Ciò vale anche per l'uso di un determinato farmaco e per ogni altra applicazione della scienza ed uso della tecnologia collegato ad un selezionato o determinato gruppo o categoria di individui esposti, da un punto di vista pur meramente spaziale, topologico, alla sostanza nociva latamente intesa od alla tecnologia, in qualità di utenti, o consumatori, ecc .. Quel che è interessante notare è che per la vittimologia la dimensione collettiva della vittimizzazione nell'ambito dell'inquinamento ambientale, degli effetti nocivi delle applicazioni della scienza e dell'uso della tecnologia, della nocività delle sostanze farmacologiche ed alimentari e l'attenzione ai rischi correlati, ha preceduto, anche di molto, l'analisi sociologica successiva. La società del rischio e l'impotenza del diritto penale di fronte a tali rischi che hanno assunto una valenza globale è difatti stata approfondita e denunciata sul piano scientifico solo negli anni '90 da parte della sociologia europea e segnatamente grazie ali' opera di Beck (Stella 2003 ). La sociologia delle vittime auspicata da Wertham e la forza quasi profetica, già varie volte evidenziata, dell'analisi delle cause della vittimizzazione di Mendelsohn, e l'apporto della vittimologia dei diritti umani di Elias (1976), ed il movimento di pensiero sociale e politico così generato, hanno portato alla fine al riconoscimento giuridico transnazionale della vittima collettiva nella suddetta dichiarazione approvata dalle Nazioni Unite sin dal 1985. Riconoscimento che ha precorso la conferma derivante dall'analisi sociologica di Beck e la tensione scientifica, politica e sociale verso un diritto criminale adeguato a tale forma di vittimizzazione collettiva e globale (Stella 2003 ). Con maggior consapevolezza e lucidità scientifica moderna vi è stato chi si è posto in quello che può considerarsi un ideale approfondimento e sviluppo delle idee di Mendelsohn. Considerando gli effetti della globalizzazione da un punto di vista economico e tecnologico, il crimine, e dunque la vittimizzazione soprattutto nella sua dimensione collettiva, può essere visto come una
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« opportunità socio-tecnica» (Olgiati 1999). A causa degli effetti della globalizzazione e della dimensione transnazionale del potere connesso alle attività del settore tecnologico ed economico non vi è più una adeguata azione di meccanismi di controllo interni ed esterni, formali ed informali. Vittimizzare gli utenti od i consumatori diventerebbe esclusivamente una « opportunità » seguendo la logica del profitto e delle possibilità offerte dalla scienza, dalla tecnologia e dalla struttura economica appunto per le segnalate difficoltà non solo di repressione ma anche semplicemente di regolamentazione. Attività che travalicano i confini nazionali, hanno dimensioni organizzative complesse e trasversali a molti Paesi, finiscono appunto col rispondere a logiche loro proprie per le quali la vittimizzazione apparirebbe essere quasi « fisiologica » e non patologica in un intreccio inestricabile di attività legali, ed illegali. Si potrebbe dire, richiamando una terminologia cara alle vecchie scuole di criminologia, che la globalizzazione delle attività tecno-economiche ha fatto perdere agli esperti, ai professionisti che le gestiscono « la capacità di distinguere il bene dal male ». La vittimizzazione collettiva non è più percepita come un disvalore, non si riesce più a cogliere la sofferenza inflitta, ma diviene un atto funzionale a logiche tecniche, scelte razionali organizzative o produttive. Un caso emblematico di questo particolare approccio suggerito da Olgialti (1999) si è sottolineato, in ideale sviluppo in chiave moderna delle idee di Mendelsohn, è costituito dalla vicenda della Ford Pinto 4 sebbene anteriore all'esplosione del fenomeno della globalizzazione.
La multivittimizzazione.
Occorre distinguere la vittimizzazione collettiva dalla multivittimizzazione. La dimensione collettiva della vittimizzazione, consente di svelare il maggior danno che un dato comportamento provoca, al di là della materiale vittima individuale, nei confronti di un intero gruppo
4 La Ford nel modello Pinto aveva posto il serbatoio della benzina dietro al paraurti posteriore ma non aveva protetto adeguatamente la struttura dello stesso in caso di urto da tamponamento. Il 10 agosto 1978 in una cittadina dell'Illinois morirono bruciate dentro una vettura di questo tipo tre ragazze perché era esplosa dopo essere stata urtata, sia pur molto lievemente, da un'altra auto. La Ford era a conoscenza del difetto ma secondo un calcolo dei costi aveva deciso di affrontare il rischio di incidenti poiché la somma dei risarcimenti sarebbe stata inferiore ai costi derivanti dal ritiro di tutte le autovetture (Bandini et al. 2004: 151).
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o categoria di individui, accomunati o selezionati in base all'interesse, all'etnia, alla localizzazione spaziale dell'esposizione del rischio come spiegato. Il concetto di vittima collettiva ha un valore sia come strumento analitico-descrittivo di un fenomeno, peraltro spesso difficilmente individuabile e talora ignorato, sia come modello esplicativo. Le trasformazioni sociali, infatti, dell'era moderna, l'innovazione tecnologica, la globalizzazione economica e commerciale, il progresso inarrestabile e sempre più esponenziale della scienza, hanno accentuato le connessioni, i rapporti, la dipendenza funzionale tra individui, hanno infittito la trama della rete, o meglio delle reti, in cui gli individui sono inseriti nella società. Un comportamento pericoloso, nocivo, criminale, che prima poteva avere incidenza su di una vittima individuale od al massimo su qualche decina di vittime contemporaneamente, oggi può colpire un gruppo di individui su scala globale. La differente struttura della società e della vittimizzazione che la vittima collettiva, come modello esplicativo, permette di evidenziare si può comprendere con un esempio. Se consideriamo un farmaco, in passato lo stesso era confezionato e sostanzialmente personalizzato dal farmacista. La produzione farmacologica oggi è non solo industriale ma, per la struttura multinazionale delle aziende produttive, la sua distribuzione può essere su scala globale. I consumatori sono unificati in una collettività, rilevante sul piano sociale, derivante dall'acquisto e dall'uso comune del farmaco. Se il farmaco è nocivo, inidoneo, superfluo, adulterato, confezionato in dosi inferiori a quelle effettive, l'intero gruppo di consumatori è esposto ad un rischio per la salute ed il benessere individuale di gravità e probabilità variabile. Come detto, a prescindere dal danno individuale che concretamente si produce, a livello collettivo il danno è rappresentato dal maggior rischio che si fronteggia per la propria salute. Naturalmente, in molti casi, le cosiddette vittime collettive non sanno neppure della vittimizzazione perpetrata a loro danno e non ne sono coscienti (Geis 1975; Bandini et al. 1991: 381). Ove ne siano coscienti si aggiunge il danno psicologico per l'impatto ed il maggior stress conseguente alla conoscenza dell'esposizione ad un maggior rischio di lesione alla salute sul piano fisico. La multivittimizzazione è quando invece, semplicemente, un atto colpisce più individui contemporaneamente senza che agli stessi possa riconoscersi una dimensione di gruppo, categoria, comunità o collettività, non essendovi alcun rapporto, elemento di rete, interesse o caratteristica in comune. L'esempio tipico è costituito dalla « strage ». In tale delitto vi è un omicidio multiplo che, talvolta, può commettersi
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con modalità analoghe a quelle proprie della vittimizzazione collettiva. Le trasformazioni sociali, l'innovazione tecnologia e la cosiddetta« società del rischio », hanno di fatto modificato, ampliandole, le modalità di commissione di tale crimine generalmente a sfondo terroristico. La diffusione dell'antrace, l'avvelenamento di prodotti o di acque potabili, lo stesso tragico evento dell'll settembre negli Stati Uniti, sono casi di multivittimizzazione piuttosto che di vittimizzazione collettiva. Si tratta, infatti, di casi in cui si ha una cosiddetta vittima « fungibile » ed indiscriminata (Gulotta 197 6; 1985). La caratteristica della vittima indiscriminata è proprio l'assenza di qualsiasi rapporto tra il colpevole e la vittima, attingendo una indefinita ed indeterminata pluralità di individui. La vittima è fungibile perché « sostituibile » nel senso che non ha rilievo l'identità e l'individuazione precisa di una vittima per l'agente (Gulotta 1985: 711). Si tratta, appunto, della tipica vittima degli atti di terrorismo (Nuvolone 1973). Non si può condividere la classificazione estesa da taluno (Gulotta 1976) alle vittime già descritte delle frodi in commercio, adulterazioni dei prodotti commestibili ed in genere dei crimini dal colletto bianco. Tali vittime di cui si diceva, come ad esempio della adulterazione o sofisticazione di un prodotto alimentare, o dell'inquinamento ambientale o di sostanze nocive, includendo anche i farmaci e così via, non sono affatto « indiscriminate » proprio perché appartengono ad una ben determinata categoria o gruppo di individui colpito selettivamente dal comportamento dannoso in base ad una relazione specifica tra l'agente e la vittima collettiva. La categoria, infatti, dei consumatori di un determinato prodotto nocivo è ben individuata sul piano collettivo dalla relazione economica intercorrente tra il produttore od il distributore del prodotto e l'utente-consumatore. Da un punto di vista collettivo, come è già stato sottolineato, tutti gli appartenenti alla categoria sono vittimizzati dall'uso o dal consumo, o dal contatto con la sostanza o prodotto, o macchinario dannoso o nocivo, poiché aumenta, a parità di altri fattori, il rischio elettivo di contrarre determinate patologie. Questo perché l'effettivo danno, con lo sviluppo di una concreta patologia, può dipendere dalla quantità di sostanza assunta nel tempo, dalle modalità di assunzione, esposizione, contatto, dalle condizioni individuali di salute, da patologie pregresse od in atto nell'individuo, e così via. Prendendo ad esempio le diossine contenute negli alimenti, l'OMS e la Commissione Scientifica Europea per gli alimenti hanno preso in considerazioni tutti gli effetti conosciuti delle diossine, che variano in relazione alla maggiore o minore sensibilità della popolazione di riferi-
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mento. In taluni casi gli effetti, se la popolazione di riferimento è particolarmente sensibile, si manifestano già a basse dosi. Nei neonati, generalmente, a basse e bassissime dosi, si ha immunosoppressione, malformazione dei genitali, alterazione comportamentale ed endometriosi. Per tale ragione le diossine, in realtà, negli alimenti, forse non tutti sanno, sono tollerate fino ad un certo limite-soglia accettabile per la salvaguardia della salute di tutta la popolazione inclusa la quota maggiormente sensibile (Stella 2003 ). È lo stesso anche per l'inquinamento ambientale in cui si ha la determinazione di una dose giornaliera ammissibile e cioè al di sotto della quale non sono stati riscontrati o rilevati effetti nocivi. La diffusione di una determinata sostanza nociva, sulla base di un processo industriale, nell'aria è ammessa pertanto in certi limiti, come pure si pensi all'inquinamento elettromagnetico. Nel caso di superamento dei valori-soglia si ha la probabilità di produzione di effetti nocivi nella popolazione esposta. Anche in tema di inquinamento ambientale, occorre però una precisa relazione topologica e territoriale con l'impianto, il processo produttivo o comunque con l'ambiente contaminato. Da un punto di vista collettivo le vittime non sono mai indiscriminate ma, anzi, sono discriminate in base ad una relazione specifica con l'agente per quanto concerne l'aumento del rischio, in termini di probabilità, di danno alla salute, che è un danno esso stesso. L'avere il venti per cento in più di probabilità, a parità degli altri fattori, di veder sviluppare una patologia polmonare grave per la presenza di particelle di amianto o la diffusione di altro inquinante nell'ambiente in cui si vive, è un danno di per sé. Solo la vittima individuale, che poi concretamente ha la sventura di rientrare nella quota statistica di coloro che sviluppano effettivamente la patologia, è indiscriminata e causale all'interno della categoria o del gruppo collettivo di vittime. Ciò in quanto l'effettiva produzione degli effetti, concorrendo altri fattori, non è perfettamente conosciuta sotto il profilo causale. Generalmente dipende, come detto, dalle condizioni individuali di salute, dallo stile di vita della vittima e da diverse altre circostanze antecedenti o concomitanti. Ecco perché bisogna tenere distinti i due piani. La somma delle vittime individuali che si producono in seguito alla diffusione sul mercato di un farmaco potenzialmente nocivo conduce ad una multivittimizzazione poiché simultaneamente, in conseguenza della condotta illecita, si produce una lesione all'integrità psico-fisica di più individui. Il concetto di vittima collettiva aiuta, invece, a non dimenticare che anche coloro che, pur assumendo il farmaco, non sviluppano la patologia correlata o non subi-
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scono le possibili complicazioni ed effetti secondari nocivi, perché protetti dalle condizioni individuali di salute o da uno stile di vita salutare che alla fine hanno controbilanciato l'effetto dell'assunzione della sostanza nociva, sono stati vittimizzati e lesi nel loro benessere fisico, psichico e sociale. Si potrebbe dire, in una terminologia moderna, che la vittimizzazione è nel peggioramento che l'intera categoria di utenti, consumatori o gruppo subisce alla propria qualità di vita in conseguenza di un aumento, sia pur statisticamente ed epidemiologicamente determinato, del rischio in termini probabilistici di contrarre o sviluppare patologie, di veder minata la propria salute. Per tale motivo bisogna tenere distinti i due piani della multivittimizzazione e della vittimizzazione collettiva in quei casi in cui i due fenomeni sono presenti contemporaneamente. La multivittimizzazione, infatti, attiene sempre alla dimensione individuale della vittima ed esprime semplicemente il fatto che vi è una pluralità di vittime. La vittimizzazione collettiva, invece, esprime il fatto che comunque l'intero gruppo, comunità o categoria di appartenenza delle vittime, definita dalla relazione topologica, economica, sociale, con l'agente, consumatore-produttore, utente-fornitore di servizio, e così via, subisce un danno alla propria salute in termini di aumento del rischio del danno effettivo.
Il danno. La definizione pone l'accento sul fatto che il concetto di vittima è determinato da un'ampia nozione di danno. Il danno che sostanzia la nozione di vittima, la « sofferenza umana » presa in considerazione spazia da quello fisico, mentale, emozionale, economico, sino alla lesione dei diritti umani fondamentali. Già si è detto che la vittimizzazione è un comportamento umano che determina una lesione dello stato di salute individuale, considerato in tre aspetti: fisico, psichico e sociale. Ciò va di pari passo con l'evoluzione della costruzione sociale del valore della salute. Precedentemente è stato chiarito che il benessere è oggi socialmente percepito non solo sotto il profilo fisico e psichico, ma anche sociale. La nozione di danno che viene considerata ai fini della definizione di vittima è importante perché di fatto colui che soffre, cioè la vittima, è identificato da ciò che venga considerato come sofferenza. Espressamente, pertanto, la Dichiarazione 40/34/1985 dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite considera innanzitutto la
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sfera fisica. La lesione all'integrità fisica, quale elemento definitorio della nozione di vittima, è l'aspetto che crea meno problemi. Non vi sono difficoltà ad essere concordi su ciò che significhi una lesione fisica. In secondo luogo viene presa in considerazione la sfera psicologica sotto un duplice aspetto: da un lato il disturbo o la malattia mentale, dall'altro la sofferenza emotiva. Con una certa approssimazione, la lesione alla sfera mentale indica proprio un danno alla salute mentale e cioè il prodursi di una patologia, dalla mera psicopatologia, dal mero disturbo, sino alla malattia mentale vera e propria di cui la vittimizzazione possa essere anche un elemento scatenante. La sofferenza emotiva corrisponde, con una certa approssimazione, al danno morale. Essere diffamati, ad esempio, ricevere degli insulti, delle lesioni al proprio onore ed alla propria dignità, non è suscettibile di introdurre od indurre una patologia mentale nella massima parte dei casi, ma certamente genera nel soggetto una emozione reattiva di rabbia, di dispiacere, frustrazione ecc., e dunque una sofferenza emotiva. Anche in questo caso, comunque, è un aspetto della vittimizzazione che non crea soverchie difficoltà sul piano definitorio. Quel che è importante sottolineare, naturalmente, è che gran parte dei comportamenti vittimizzanti, anche criminali, non devono necessariamente produrre un effetto sulla salute strettamente fisica della vittima, ma deve essere riconosciuta anche la sfera psicologica. Molte condotte criminali talora producono un effetto nocivo e lesivo che proprio perché non fisico, non incidente sulla salute fisica in senso stretto, è spesso più occulto, invisibile, agli occhi della stessa vittima oltre che di coloro che dovrebbero aiutarla. La violenza psicologica e morale tutt'oggi fatica ad essere accertata, riconosciuta e repressa adeguatamente. Infine, vi è la sfera sociale della vittimizzazione che spazia dall'ambito strettamente economico, la perdita patrimoniale o di guadagno, di un utile, di un vantaggio, fino alla vulnerazione dei diritti fondamentali della persona. La dimensione sociale della salute, del benessere individuale, non è da sottovalutare. L'evoluzione e la costruzione sociale del concetto di salute ha, infatti, portato a considerare che l'uomo per un benessere compiuto, per un effettivo stato di salute, ha bisogno di poter esplicare senza ostacoli o difficoltà i proprio diritti fondamentali di libertà, di pensiero, di credo religioso, di aggregazione, ed infine afferenti anche la sessualità e la procreazione. Ogni compressione od esclusione dei diritti fondamentali vittimizza l'individuo. Nonostante l'inserimento dei diritti umani nella definizione di vittima ad opera di contributi scientifici e di ricerca della vittimologia, questo è il settore certa-
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mente più controverso. Nelle precedenti pagine si è delineata la controversia tra una invocata vittimologia generale ed una vittimologia criminale, tra una vittimologia aperta a tutte le vittime, a prescindere dalle definizioni legali del reato, ed una vittimologia focalizzata esclusivamente sulle vittime del crimine. La proposizione di una vittimologia generale è difatti stata nuovamente avanzata dopo che, in un primo tempo, agli albori della vittimologia, quasi isolatamente fu propugnata da Mendelsohn (Elias 1986; Bendavid 1982). Nell'ambito della Società Mondiale di Vittimologia l'orientamento favorevole ad una vittimologia che andasse oltre la criminologia fu, infatti, avanzata dallo stesso Schneider (Elias 1986). Il riferimento ai diritti umani è fortemente sostenuto nell'ambito della vittimologia da parte degli esponenti di quella che può essere definita la vittimologia « critica » o « radicale » (Mawby-Walklate 1994; Elias 1986; Fattah 1992). Il punto di riferimento devono essere necessariamente i diritti umani internazionalmente ed universalmente riconosciuti. Ci si potrebbe domandare la ragione per cui la definizione di vittima debba includere tra le forme di vittimizzazione anche la sostanziale violazione dei diritti fondamentali dell'uomo. La risposta è che, a prescindere dal fatto che ad una lesione dei diritti fondamentali possa conseguire una sofferenza emotiva od un disturbo mentale, una perdita economica od altrimenti, uno svantaggio materiale per la vittima, impedire la realizzazione dell'uomo nelle dimensioni e nei valori che siano fondamentali alla sua « umanità », al suo sviluppo come persona umana, sia da un punto di vista individuale che nelle aggregazioni sociali di cui è partecipe, è un danno, una sofferenza, una lesione per sé. L'uomo viene leso nella sua compiuta realizzazione come uomo. Naturalmente, questo implica più che una critica una chiarificazione alla definizione adottata dalla Dichiarazione. La Dichiarazione, infatti, non conferisce, o costituisce, o concede diritti alle vittime. La Dichiarazione in realtà identifica, riconosce ed afferma diritti che già esistono o dovrebbero esistere, preesistenti ad essa e che avrebbero continuato ad esistere anche nel caso in cui la Dichiarazione non fosse stata adottata (Fattah 1992: 403). Con ciò si vuole significare che l'impegno sociale per le vittime deve trarre le sue radici dal sistema sociale in cui deve trovarsi il fondamento sia dell'obbligo della società, sia della responsabilità dell'autore nei confronti della vittima (Fattah 1992: 403). Il principio che si vuole affermare è che la Dichiarazione esplicita semplicemente quello che dovrebbe essere il fondamento primo della società stessa, e cioè la compiuta realizzazione ed esplica-
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zione dell'uomo, sia come individuo che appunto nella struttura sociale in cui viene a trovarsi, senza turbative, impedimenti od oppressioni o repressioni. Fattah (1992) potremmo dire che ripropone, anche per le vittime, l'invocazione di un diritto « naturale » che preesiste ed è autonomo dalla sua affermazione e dal suo riconoscimento sul piano normativo, giuridico positivo. Questione decisamente filosofica. Quel che è importante è che la definizione accolta dalla Dichiarazioni traccia un profilo unitario e transnazionale di vittima che, grazie agli sforzi di cooperazione internazionale e di implementazione nei diversi ordinamenti giuridici statali, possa guidare le politiche, i processi legislativi, la predisposizione di servizi a tutela, a garanzia o semplicemente in favore delle vittime. Un secondo profilo problematico è segnalato dalla vittimologia « radicale », e specificamente nell'ambito della propugnata vittimologia dei diritti umani di cui il maggior esponente è Elias (1986). L'avvertimento maggiore di Elias è naturalmente che i diritti umani che si assumono a fondamento del riconoscimento dello status di vittima, non devono subire penalizzanti limitazioni culturali. Egli è particolarmente critico nei confronti dell'adozione di riduttive concezioni dei diritti umani culturalmente miopi come quella americana, persino più restrittiva di quella diffusa nelle Nazioni occidentali. Particolarmente individualistica, quella che egli infatti ritiene la concezione americana dei diritti umani è incentrata maggiormente sui diritti civili e politici, come la libertà di religione e di espressione, eguaglianza, giusto processo, ecc. (Elias 1986). Tale concezione sostanzialmente ignora, sia da un punto di vista teoretico che pratico, la protezione dei diritti fondamentali di natura economica e sociale, e cioè la garanzia di dignità umana negli standards di vita, abitazione, assistenza, lavoro, cibo e così via. Nel senso che dovrebbe essere assicurato a tutti almeno un livello minimo, nel rispetto della dignità umana, di benessere socioeconomico. Elias, pertanto, auspica che i diritti umani assunti come punto di riferimento in una definizione di vittima dovrebbero rispondere ad una concezione effettivamente internazionalistica ed universalistica. In questo modo si supererebbe anche un paradosso. Se si adotta, infatti, una concezione dei diritti umani individualistica e conservatrice le vittime del crimine, che possono costituire uno dei gruppi delle vittime i cui diritti umani sono lesi, sarebbero tutelate solo dalla promozione, implementazione e sviluppo di politiche repressive del tipo« law and arder» (legge ed ordine). Sono le politiche che, in virtù di una presunta maggiore efficienza del sistema penale in favore delle
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vittime, porterebbero a pene più severe, minori garanzie processuali per gli imputati e gli indagati, estensione delle possibilità di arresto e carcerizzazione. Il paradosso è che, dunque, tale gruppo di vittime, per tutelare i propri diritti umani, finirebbe per ledere i diritti umani degli altri e cioè gli indagati, gli imputati ed i condannati (Elias 1986: 198). Se si vuole, invece, veramente riconoscere una relazione tra i diritti delle vittime ed i diritti umani occorre naturalmente resistere alle lusinghe dei movimenti law and arder, poiché promuovere i diritti delle vittime dipende in realtà da una prospettiva che promuove i diritti umani in generale (Elias 1986: ibidem). Da questo punto di vista la critica costruttiva, o meglio, le chiarificazioni offerte dalla vittimologia radicale o dei diritti umani rappresentata, fra gli altri, da Elias, da un lato, e dalla vittimologia critica la cui posizione può essere riassunta nell'opinione pur personale di Fattah, dall'altro, finiscono per convergere. Anche Fattah, invero, commentando la definizione della Dichiarazione delle Nazioni Unite, auspica che la stessa porti all' adozione di un nuovo paradigma della giustizia penale, di una nuova filosofia e politica penale che ponga enfasi non sulla vendetta e sulla punizione, ma sul giusto risarcimento, sulla mediazione e sulla conciliazione (1992: 403). Altrimenti si ignorerebbe il conflitto sociale comunque presente alla base del crimine (Fattah 1992: 405; Christie 1977). Le politiche repressive ed autoritarie « legge ed ordine » finiscono per accentuare, enfatizzare e fare esplodere, piuttosto che comporre tale conflitto sociale, sfociando in un muro contro muro tra vittime contro rei, « diritti umani contro diritti umani».
B. ½"ttime dell'abuso di potere: « vittime significa persone che, individualmente o collettivamente, hanno sofferto una lesione, incluso un danno fisico o mentale, sofferenza emotiva, perdita economica od una sostanziale compressione o lesione dei loro diritti fondamentali attraverso atti od omissioni che non ancora costituiscono violazione delle leggi penali nazionali ma delle norme internazionalmente riconosciute relative ai diritti umani» 5 (Risoluzione Nazioni Unite n. 40/34, 29/ 11/85).
5 Si riporta l'originale del testo della dichiarazione in lingua inglese per un confronto, data la difficoltà di rendere esattamente il senso originario in sede di traduzione: « Victims means persons who, individually or collectively, bave suffered harm, including physical or menta! injury, emotional su/fering, economie loss or substantial impairment o/ their Jundamental rights, through acts or omissions that do not yet con-
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Come si è già anticipato in premessa, la definizione di vittima nella Dichiarazione è scissa in due parti. In una prima, appena esaminata, si parla della vittima del crimine. La seconda parla di vittima dell'abuso di potere. Come si può agevolmente rilevare dal confronto tra le due definizioni, vi è solo una diversa formulazione non tanto della vittima ma del comportamento che dà causa alla vittimizzazione. In entrambe le definizioni la vittima rimane colui che subisce una lesione fisica o psichica, anche sotto il profilo della sofferenza emotiva, una perdita economica patrimoniale o comunque una sostanziale violazione o compressione dei diritti fondamentali. In parole semplici, la « sofferenza umana » presa in considerazione come elemento definitorio della nozione di vittima è identica in entrambe. La differenza è nell'atto o nell'omissione che dà causa alla vittimizzazione, cioè nella condotta umana che produce la sofferenza della vittima. Nel primo caso la condotta umana è espressamente prevista e vietata dalle leggi penali nazionali. Si tratta appunto della vittima del « crimine » in senso stretto poiché il paradigma di riferimento è che l'azione sia «criminale», cioè punita penalmente nello Stato in cui avviene. Nella seconda definizione, invece, la prospettiva è esattamente contraria o, per meglio dire, simmetrica poiché l'atto o l'omissione è sufficiente costituisca violazione delle norme internazionalmente riconosciute inerenti i diritti umani. La definizione prende atto di una ben precisa realtà e fenomeno sociale e cioè che in alcuni casi, per determinate categorie di vittime, non solo non esiste una protezione fornita giuridicamente dal diritto oppure la stessa può essere incerta per una specie di tolleranza od indifferenza, ma addirittura potrebbe essere il diritto stesso a sancire la legittimità giuridica della vittimizzazione (Bandini e al. 1991: 379). Tale tipo di vittimizzazione può essere sia individuale, sia collettiva. Vi può essere, infatti, una vittimizzazione collettiva legata all'esercizio del potere politico, legislativo e giudiziario (Gulotta 1985). È necessario adottare una definizione di vittima che sia autonoma dai singoli ordinamenti giuridici statuali perché il diritto di un singolo Stato potrebbe ignorare, tollerare, legittimare od addirittura istituzionalizzare determinate forme di vittimizzazione. Se si dicesse che per esserci una vittima occorre che il comportamento che causa la vittimizzazione deve necessariamente essere « criminale » alla luce di
stitute violations o/ national criminal laws but o/ internationally recognized norms relating to human n'ghts ».
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un determinato ordinamento giuridico, una gran parte della realtà sociale e globale della vittimizzazione sarebbe esclusa dalla nozione di vittima e, dunque, da ogni tipo di tutela, protezione e possibile assistenza. Ad un livello dunque transnazionale ed internazionale un effettivo riconoscimento della centralità dei diritti umani deve necessariamente prescindere dagli ordinamenti giuridici dei singoli Stati. L'unico punto di riferimento certo possono essere le norme, internazionalmente riconosciute, che individuano le varie categorie di diritti umani la cui violazione costituisce una vittimizzazione e dà luogo ad una vittima con il corrispondente status, senza che abbia alcun rilievo il diritto nazionale del luogo in cui la vittimizzazione avvenga. Ad esempio, in un dato Stato potrebbe essere semplicemente tollerato di fatto od addirittura legittimato l'uso della tortura nei confronti dei criminali o degli oppositori politici. Persino un genocidio, come avvenuto nella Germania nazista per gli Ebrei, potrebbe essere ignorato, tollerato e finanche legittimato dal diritto positivo della Nazione in cui avviene. La definizione di vittima dell'abuso di potere vuol dare formale riconoscimento proprio a questo, e cioè che possono esserci vittime derivanti dall'abuso di un potere giuridicamente legittimato, istituzionalmente e socialmente costituito. Altrimenti le vittime sarebbero al di fuori della portata di qualsiasi effettiva tutela. Al di là dei casi emblematici della tortura e del genocidio (Dadrian 1976) vi possono essere ovviamente delle forme di vittimizzazione derivanti dall'abuso di potere meno evidenti. Generalmente, derivando dall'abuso di un potere legittimato ed istituzionalizzato, tali forme di vittimizzazione hanno sempre una dimensione collettiva od integrano quantomeno una multivittimizzazione. Difficilmente vi è un'unica vittima individuale. Gulotta, in modo sistematico, ha analizzato per esempio la vittimizzazione collettiva derivante dal potere giuridicamente fondato. Per potere si deve giustamente identificare un complesso di facoltà o capacità possedute od attribuite ad un individuo od un soggetto collettivo affinché possa raggiungere i suoi fini in una sfera specifica della vita sociale, attraverso la determinazione o l'influenza, e dunque il controllo, del comportamento di altri individui o gruppi (Gulotta 1985: 710). Vi è l'abuso del suddetto potere ogni qualvolta il suo possessore lo esercita esclusivamente per fini personali e non nell'interesse pubblico od il bene comune (Gulotta 1985), o comunque quando l'utilizzo del potere, anche se conforme ai fini istituzionali, costituisce una violazione dei diritti umani secondo la moderna definizione considerata ed adottata dalle Nazioni Unite. I tre tradizionali poteri sono,
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ovviamente, il potere politico, il potere legislativo ed il potere giudiziario. Per quanto riguarda le forme di vittimizzazione collettiva che possono essere individuate esse vanno da quelle riguardanti l' organizzazione amministrativa con un apparato burocratico eccessivamente complesso, che conduca ad una sostanziale paralisi dell'azione amministrativa, dall'area del sistema della salute poiché, ad esempio, potrebbero essere previste determinate forme di sperimentazione medica e farmaceutica nei confronti dei criminali condannati, e così via, al sistema scolastico, ove, ad esempio, permanga la legittimazione o la tolleranza della punizione corporale come metodo educativo, fino alla tollerata o giuridicamente legittimata discriminazione delle minoranze etniche, religiose, ecc. (Gulotta 1985). Ove tale discriminazione non si limiti alla semplice esclusione dei diritti civili e politici, ma possa giungere fino all'eliminazione fisica della minoranza, si avrebbe il crimine del genocidio. Naturalmente, l'esclusione dei diritti civili e politici in uno Stato autoritario, potrebbe essere estesa all'intera popolazione e non ad una sola minoranza, oppure i meccanismi elettorali potrebbero essere opportunamente alterati al fine di favorire esclusivamente una parte politica. Nell'ambito del sistema della salute vi può essere, talora, un dubbio su una possibile violazione dei diritti umani nell'ambito non solo dei trattamenti sanitari obbligatori, ma anche su metodiche terapeutiche che comportino l'uso della coazione o della forza (Balloni 1987). Ricordiamo il dibattito in Italia per quanto concerne la comunità di San Patrignano che nel trattamento dei tossicodipendenti adottava una metodica coercitiva, come emerse nel corso degli atti processuali inerenti la vicenda, potendo comportare l'uso di una specie di letti di contenzione. Il problema, al di là della polemica, è se talora sia ammissibile l'uso della forza per « aiutare» la disintossicazione del tossicodipendente, coinvolgendo il problema dei limiti del corretto uso di un potere, anche se giustificato dal bene sociale, quando si vuole influenzare il comportamento altrui (Balloni 1987: 270). La Dichiarazione tende, appunto, a riconoscere tale limiti nella violazione dei diritti umani. Ciò, ovviamente, anche a voler considerare, secondo un certo orientamento, il criminale od il tossicodipendente come un malato esclude trattamenti che avevano luogo nelle così dette istituzioni totali, manicomi, carceri, per quanto concerne l'Italia fortunatamente ormai nel passato, come l'elettroshock e la lobotomia (Balloni 1987). Le forme di vittimizzazione collettiva derivanti dall'abuso del potere legislativo si concretizzano in tutte le ipotesi di totalitarismo, regimi militari, colpi di Stato e così via. Infine, vi
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è poi il possibile abuso del potere giudiziario (Gulotta 1985), che può spaziare dai tempi processuali o di detenzione preventiva eccessivamente lunghi, dai poteri coercitivi dati alla polizia in caso di arresto e di interrogatorio di un sospetto, fino ali' esecuzione della pena, alle condizioni di vita dei detenuti ed alle caratteristiche dei trattamenti rieducativi o risocializzativi. È sufficiente qui ricordare, ad esempio, il dibattito sulla possibile castrazione chimica o chirurgica degli autori dei reati sessuali nei confronti dei minori, i cosiddetti pedofili. La stessa castrazione chimica è stata addirittura sperimentata in alcuni stati europei. Nonostante la ripugnanza del crimine perpetrato non c'è dubbio, però, che simili trattamenti al pari della chirurgia psichiatrica del passato, come nel caso della lobotomia, costituiscano una violazione dei diritti umani dei condannati per tali reati. Se fossero adottati, paradossalmente, i carnefici diventerebbero essi stessi vittime del sistema, vittime dell'abuso del potere legislativo e giudiziario insieme, ai sensi della Dichiarazione delle Nazioni Unite sinora analizzata. La vittima dell'abuso di potere riassume tutti tali contributi della vittimologia al di là di una concezione tradizionale del crimine e della vittima ancorata alle definizioni di crimine degli ordinamenti giuridici nazionali. Ciò avviene sulla base della considerazione che il potere istituzionale, politico, legislativo e giudiziario, lo stesso ordinamento giuridico può ignorare, tollerare o finanche legittimare situazioni di vittimizzazione generalmente molto estesa perché a dimensione collettiva. La Dichiarazione è del 1985 ma un effettivo strumento di tutela, come già accennato, è stato approntato a livello dell'ordinamento giuridico internazionale solo di recente con l'istituzione della Corte Penale Internazionale il cui Statuto è stato aperto alla firma, proprio a Roma, il 17 luglio 1998. Le ragioni della sua istituzione risiedono proprio nel fatto che prevedere una nozione di vittima che prescinda dagli ordinamenti giuridici dei singoli Stati e parametrare il suo riconoscimento alla violazione dei diritti umani, non è sufficiente ad una effettiva tutela o prevenzione di gravi episodi di vittimizzazione collettiva. Se i poteri istituzionali e l'ordinamento giuridico di uno Stato ignorano, tollerano od addirittura legittimano un genocidio, la tortura sistematica, la schiavitù di una minoranza, ecc., difficilmente i responsabili saranno puniti perché protetti dal Governo o dalle leggi del singolo Stato. La Dichiarazione pertanto adottata sulle vittime del crimine e dell'abuso di potere per quanto concerneva, in particolare, i cosiddetti core-crimes, e cioè genocidio, crimini contro l'umanità e cri-
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mini di guerra, rischiava di rimanere, senza uno strumento repressivo adeguato, una mera petizione di principio di fronte all'impunità che poteva essere assicurata ai responsabili per l'inerzia dei singoli Stati, delle Corti nazionali o della Comunità internazionale di fronte a pur gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario. Nella giurisdizione della Corte Penale Internazionale sono stati, infatti, inclusi oltre al crimine di genocidio anche i crimini contro l'umanità fra i quali è facile identificare diversi casi denunciati, approfonditi e studiati dalla vittimologia, in particolare dall'approccio critico e radicale. Nell'art. 7 dello Statuto sono riportati tutti gli atti che siano commessi come parte di un ampiamente diffuso o sistematico attacco diretto contro qualsiasi popolazione civile, includendo l'omicidio, lo sterminio, la schiavitù, la deportazione o il trasferimento forzato della popolazione, la detenzione o altre severe privazioni della libertà fisica in violazione delle norme internazionali fondamentali, la tortura, lo stupro, la schiavitù sessuale e la prostituzione forzata, la gravidanza forzata, la sterilizzazione forzata, ed ogni altra forma di violenza sessuale. Si aggiunge la persecuzione contro qualsiasi identificabile gruppo o collettività sulla base di motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religiosi e di genere, l'apartheid, e la forzata scomparsa di persone nonché, a chiusura del tutto, qualsiasi altro atto inumano di caratteristiche similari che causi intenzionalmente grande sofferenza o grave lesione corporea od alla salute fisica e mentale. Gli esempi citati ed enumerati dimostrano l'importanza degli sforzi condotti dalla vittimalogia dei diritti umani (Elias 1986) affinché anche in sede internazionale vi fosse in primo luogo il riconoscimento ed in secondo luogo una maggior tutela e prevenzione possibile di eventi di vittimizzazione collettiva di portata veramente notevole. Dal punto di vista degli sforzi della Comunità internazionale la previsione della Corte Penale Internazionale, ed il suo Statuto, costituisce certamente l'atteso passo finale in favore di una effettiva tutela delle vittime del genocidio, dei crimini contro l'umanità, di guerra ed in violazione dei diritti umani. Lo Statuto, come detto, è entrato in vigore il 1° luglio del 2002, e sono in corso le prime investigazioni.
5. TASSONOMIA DELLE VITIIME
5.1. Introduzione. - 5.2. La tipologia di vittime di von Hentig. - 5.3. Lepredisposizioni vittimogene specifiche. - 5.3.1. Esiste una« attitudine» a diventare vittima? - 5.3.2. Osservazioni critiche e sviluppi attuali. - 5.4. Le classificazioni di vittime basate sulla condivisione della responsabilità (shared responsibility). - 5.4.1. Mendelsohn ovvero la perdita dell'innocenza. - 5.4.2. Schafer ovvero la « responsabilità funzionale » della vittima.
5.1.
Introduzione.
La prima vittimologia e quella che potremmo qualificare « positivista» (Mawby-Walklate 1994) ha elaborato diverse classificazioni di vittime in rapporto al crimine. Questo perché, come giustamente sottolineato, lo studio della vittimologia positivista o conservatrice focalizzava le proprie ricerche sull'identificazione dei fattori che potevano contribuire a modelli non casuali di vittimizzazione in primo luogo. In secondo luogo ad identificare le vittime che potevano aver contribuito alla loro propria vittimizzazione (Miers 1989: 3; Mawby-Walklate 1994: 9). In altre parole, i primi vittimç,logi cercavano di comprendere i fattori che portavano l'autore del crimine a scegliere determinate vittime invece di altre, oppure il comportamento, l'atteggiamento od il modo di essere di una vittima che poteva aver contribuito al processo di interazione con il criminale in una data situazione. Si può convenire, infatti, che per l'approccio positivista in natura non vi sono connessioni necessarie ma si ricercano le regolarità, le successioni di fenomeni che possono essere rappresentati in modo sistematico in uno schema, in un modello, in una legge universalmente applicabile della teoria scientifica (Keat-Urry 1975: 3; Mawby-Walklate 1994: 9). La prima vittimologia ricercava proprio schemi, modelli, regolarità nei comportamenti e nelle caratteristiche delle vittime, nell'interazione dinamica con l'autore del crimine. Si cercavano, negli atteggiamenti e
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nei modi di essere della vittima, quei caratteri che potevano condurre sistematicamente a facilitare, innescare, favorire o causare la dinamica della vittimizzazione. Tale approccio scientifico conduceva all'elaborazione di tipologie, classificazioni di vittime e delle loro caratteristiche (Mawby-Walklate 1994). Per questo motivo, le classificazioni di vittime elaborate dai primi vittimologi avevano una duplice valenza: descrittiva ed esplicativa. Da un lato si cercava di descrivere l'interazione criminale-vittima, il fenomeno del crimine, ponendo maggiore attenzione rispetto al passato al lato della vittima. Dall'altro, si cercava anche di spiegare i meccanismi, gli elementi di questa interazione attraverso le caratteristiche della vittima che, appunto, si potevano rilevare sistematicamente nel fenomeno, che potevano dar vita ad un modello, ad uno schema, ad una legge per la loro regolarità. È pertanto interessante ed importante approfondire queste classificazioni perché esse costituirono anche la base dei primi studi empirici sulla vittimizzazione negli anni '60, come quelli di Wolfgang (1958; 1959) ed Amir (1967; 1971), tra i più noti.
5.2.
La tipologia di vittime di von Hentig.
Von Hentig elaborò una classificazione delle vittime che costituisce, come già detto, da un lato un tentativo sistematico di descrivere i diversi tipi di interazione che possono avvenire tra il criminale e la vittima, dall'altro costituisce un modello teorico esplicativo. Per von Hentig il processo dinamico di interazione tra il criminale e la vittima non era fortuito, del tutto casuale, imprevedibile. Secondo un approccio che, giustamente, è stato definito positivista egli riteneva che l'interazione tra il criminale e la vittima fosse determinata e si modellasse in base alle condizioni ed alle caratteristiche individuali della vittima. La regolarità del ripetersi delle situazioni era data dal fatto che ogni criminale era « attratto » da quelle caratteristiche o condizioni fisiche, sociali e psicologiche che rendevano la vittima maggiormente vulnerabile all'attacco. Sostanzialmente il crimine seguiva delle leggi nell'evolu~ione sociale proprio come in natura si crea il rapporto preda-predatore (von Hentig 1948: 385). Ogni preda ha il suo predatore così come ogni vittima ha un criminale che è attratto appunto dalla sua vulnerabilità nell'atto criminale che ha intenzione di compiere. La classificazione delle vittime di von Hentig è dunque una teoria espii-
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cativa nel senso che tenta di dare una spiegazione al crimine, ovvero alla vittimizzazione, ponendo l'accento su quelli che si possono considerare i fattori di rischio (Karmen 2004: 87; Wallace 1998: 10), osservando quali attributi personali della vittima giocano un ruolo nel determinare l'interazione con il criminale e dunque la sua vulnerabilità. Egli, infatti, evidenzia quegli svantaggi fisici, sociali e psicologici della vittima che ne determinano una minor capacità di resistenza ali' aggressore con un maggior rischio di potenziale vittimizzazione (DoernerLab 2002). La sua tipologia di vittime è appunto un tentativo di identificare quali caratteristiche personali, sociali, psicologiche e fisiche siano da considerarsi maggiormente regolari da un punto di vista sistematico e determinanti nel favorire, attivare o causare l'interazione con il criminale che avrà come suo esito finale l'atto criminoso. Partiva dalla considerazione che la diatriba se la causa del crimine sia costituzionale, biologica, ereditaria, ovvero sociale, ambientale, è una prospettiva limitata. Certamente il crimine è la risultante sia della costituzione ereditaria del criminale, sia delle forze ambientali che premono su di lui, sue condizioni di vita personali, familiari, sociali. La vittima è una di queste forze ambientali sinora trascurata e che produce il crimine attraverso un meccanismo di interazione con il criminale di predisposizione-codizionamento (von Hentig 1948: 450). Considerava pertanto la vittima come un « agente provocatore » in senso esteso, cioè come forza che agisce dall'esterno sul criminale dando luogo ad una moltitudine di stimoli che hanno come conseguenza il comportamento criminoso, sempre inteso come processo dinamico interattivo. La vittima per von Hentig, nella dinamica del crimine, era l'attore sociale che ha la funzione di «provocare» il crimine (von Hentig 1948: 450). È importante sottolineare che la vittima per von Hentig « provoca » il crimine in senso lato, cioè il riferimento non è al comportamento provocatorio in senso stretto da parte della vittima, alla "provocazione", come può essere l'individuo che rivolge ad altri un epiteto ingiurioso, od addirittura aggredisce altri rimanendo poi vittima della reazione altrui. Sono «provocatrici» tutte le caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali ed i comportamenti della vittima che hanno le maggiori potenzialità di determinare il criminale a commettere l'atto criminoso nei confronti di quella specifica vittima ed in quella data situazione, agendo come fattore ambientale esterno. Von Hentig distingueva le seguenti categorie.
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Le classi generali di vittime. I minori di età 1 . - Egli considerava la condizione di minore età, e cioè la condizione degli infanti e degli adolescenti, maggiormente esposta alla vittimizzazione per lo stato di debolezza fisica e mentale, e la conseguente minor capacità di resistenza o reazione. La protezione dei giovani, che egli riteneva nel periodo più pericoloso della loro vita, era infatti affidata ai genitori od in loro mancanza ad altri. Egli indicava l'età quale fattore anche psicologico e situazionale. Si riferiva ai casi in cui non si potesse legalmente parlare di una vittima ma di complicità in un crimine, concorso in un reato. Egli notava che in molte attività criminali vi era lo sfruttamento di un complice più giovane da parte del criminale di maggior età ed esperienza (von Hentig 1948: 407). La differenza di età creerebbe una sorta di stato di soggezione e di sottomissione del più giovane rispetto al più adulto. Secondo von Hentig questo avveniva, per esempio, nella relazione tra ricettatore e rapinatore,__protettore e prostituta o il capo di una organizzazione criminosa e la cosiddetta manovalanza che eseguirebbe i compiti più rischiosi e pericolosi. Le donne. - Egli considerava il genere femminile maggiormente vulnerabile, a prescindere dall'età, per la minor prestanza fisica e, dunque, minor capacità di difesa nei confronti di aggressori appartenenti al genere maschile. Da questo punto di vista egli rilevava che, al pari della minore età, questa forma di vulnerabilità e maggiore esposizione al rischio potenziale di vittimizzazione era riconosciuta dalla legge. Il diritto, infatti, legittimava in quegli anni quella che egli considerava la finzione giuridica di un sesso « debole » rispetto al sesso «forte». Gli anziani. - Anche in questo caso l'età influirebbe sul rischio potenziale di vittimizzazione, sia dal punto di vista fisico, per il decadimento delle facoltà fisiche e mentali, sia da un punto di vista sociale per il possesso di maggior ricchezza e potere (Wallace 1998; von Hentig 1948: 410).
1 In realtà von Hentig denominava tale categoria the Young. Questo perché occorre considerare che l'età legale di riconoscimento della piena capacità giuridica oppure, con riferimento alla sfera sessuale, per consentire validamente ad atti sessuali negli Stati Uniti, ora come allora, era variabile a seconda degli Stati da 14 sino a 21 anni (von Hentig 1948: 406). Per tale motivo egli includeva in questa categoria non solamente gli infradiciottenni ma anche i giovani adulti sino ai 21 anni di età.
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Mentalmente deficitari o disturbati. - Nella categoria von Hentig includeva i subnormali, i malati di mente, i tossicodipendenti e gli alcolisti 2 • Immigrati~ minoranze, «ingenui». - Tale categoria illustrava un fattore di vulnerabilità basato su di uno svantaggio di tipo sociale che accomuna i tre tipi di vittime menzionati. Lo stato, infatti, di immigrato, a causa del cambiamento del tipo di società, usi, costumi, relazioni sociali, cultura, e non ultima la lingua con le conseguenti difficoltà di comunicazione, porrebbe chi emigra, da una nazione ad un'altra in particolare, in una condizione di vulnerabilità. L'immigrato può essere facilmente indotto in errore, sfruttato, raggirato, proprio per la sua difficoltà di comprensione nel contesto in cui si muove e di comunicazione e di comportamento nelle relazioni interpersonali e sociali 3 • Anche le minoranze etniche o razziali, a causa della discriminazione di cui sono fatte oggetto, sono poste in una situazione spesso di marginalità, disagio, che le espone ad un maggior rischio di vittimizzazione. Infine, vi è la categoria di quelli che per von Hentig non hanno un'età mentale od un quoziente intellettivo tale da poterli qualificare subnormali ma che possono essere considerati, appunto, i « semplici », gli «ingenui». Essi sono quasi una specie di "vittima nata" (von Hentig 1948: 418).
2 Occorre naturalmente considerare che egli elaborava le sue osservazioni e la sua analisi nel 1940-1950. Egli adottava pertanto categorizzazioni e terminologie certamente oggi anacronistiche. I diversamente abili, ad oltre mezzo secolo dall'analisi di von Hentig, sono persone considerate attive e perfettamente integrate ed integrabili nel tessuto familiare e sociale. Certamente minori capacità mentali od uno stato alterato, disfunzionale o disturbato di mente, comunque, continuano a costituire un fattore di vulnerabilità e di rischio per la vittimizzazione, sempre per le minori capacità di difesa e di comprensione del contesto in cui ci si muove. Purtroppo, ancora nel1' età contemporanea non sono rari i casi di abuso, violenza, sfruttamento dei disabili, in particolare mentali, anche all'interno di enti o di istituzioni predisposti alla loro cura, assistenza o rieducazione ad opera ovviamente di singoli responsabili. 3 Da un certo punto di vista questa parte dell'analisi di von Hentig si può considerare ancora attuale poiché egli sottolineava il fatto che l'immigrato poteva essere vittima degli stereotipi in ragione anche della nazionalità o dell'area regionale di provenienza. Ne è prova il dibattito politico odierno sul fatto se gli immigrati siano causa di aumento della criminalità, con interpretazioni spesso contrastanti dei dati statistici.
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I tipi psicologici di vittime. Il depresso. - Talora talune vittime, in un certo senso, desiderano essere vittimizzate oppure la lesione può essere il prezzo di un maggior vantaggio o la vittimizzazione è stata istigata o provocata dalla vittima in vario modo (von Hentig 1948: 419). La nozione legale di « provocazione » non è però sufficiente a rappresentare l'effettiva realtà dell'interazione crimi.Q_ale-vittima. La vittima ha, infatti, spesso un atteggiamento favorente il crimine da un punto di vista psicologico senza necessariamente giungere fino alla provocazione. L'atteggiamento della vittima può essere sostanzialmente passivo, - apatico o letargico-, o moderatamente favorente, - e cioè sottomesso, connivente-, partecipante, - owero cooperativo, coadiuvante-, ed infine istigatorio, provocatorio, sollecitante. Lo stato depressivo può condurre ad un disturbo dell'istinto di conservazione, di tutela della propria integrità fisica sicché l'individuo diventa indifferente al pericolo, apatico nella difesa, privo di attenzione o di paura per le conseguenze dei propri comportamenti o delle situazioni in cui si trova, ed è pertanto maggiormente esposto al rischio dell'altrui sfruttamento od aggressione. Tale categoria quindi includeva le vittime che, a causa dello stato depressivo, hanno un atteggiamento apatico od addirittura letargico, oppure facilmente si sottomettono, diventano conniventi od accettano in modo sostanzialmente passivo di diventare vittime (von Hentig 1948: 420). !}acquisitivo. - Si tratta di una categoria di quelle che von Hentig (1948: 422) considerava eccellenti vittime. Si tratta di coloro che sono spinti dall'eccessivo desiderio di guadagno, dalla loro cupidigia in situazioni pericolose. Il vantaggio che il criminale adombra alla vittima è generalmente economico e patrimoniale o sociale. Il seducente-promiscuo. - Egli considerava la propensione alla sensualità od ai comportamenti promiscui un fattore di esposizione ad un maggior rischio di vittimizzazione. Questa categoria, quantomeno nel senso ritenuto da von Hentig, era maggiormente connessa al contesto storico-sociale in cui fu elaborata. Egli, infatti, aveva presente sostanzialmente, quale appartenente a tale categoria la donna che avesse comportamenti promiscui e seduttivi con riferimento, in particolare, al reato di violenza sessuale e seduzione con promessa di matrimonio 4 •
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Previsto anche dal nostro codice penale, dall'art. 526 recentemente abrogato
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Sottolineava il ruolo attivo e non passivo della donna in numerosi casi. Spesso riteneva che dovessero concorrere altri fattori di attivazione della disposizione sensuale o promiscua alla vittimizzazione come le condizioni del tempo, la solitudine, l'alcool e certe fasi critiche della fisiologia e biologia della donna 5 • Naturalmente, studi più moderni hanno esaminato in modo maggiormente approfondito la relazione tra vittima e criminale soprattutto nell'ambito dei reati sessuali, ripudiando tali concezioni ormai obsolete ed anacronistiche che porterebbero ad una responsabilizzazione della donna ed ad una deresponsabilizzazione del reo (Wallace 1998: 11; Doerner-Lab 2002: 11; Karmen 2004: 122 ss.). Asocial( afflitti. - L'isolamento sociale e la solitudine causano uno stato psicologico e situazionale di vulnerabilità che rende facilmente preda dei criminali. Il fattore è psicologico perché le facoltà critiche sono indebolite avendo la solitudine un effetto che può portare la vittima ad essere maggiormente imprudente, negligente o partecipante. L'effetto è la sofferenza che consegue alla mancata soddisfazione del desiderio di compagnia, che è un bisogno umano primario. Tale sofferenza porta la vittima ad essere maggiormente prona agli altrui artifici, raggiri, plagi. È sociale perché priva la vittima della protezione del gruppo. Colui che è socialmente isolato può essere facilmente vittimizzato sino all'omicidio senza che si attivino i meccanismi di reazione sociale. La persona può praticamente scomparire senza che vi sia alcun tipo di denuncia o investigazione. La categoria dell' afflitto, invece era sostanzialmente incentrata su coloro che hanno subito un lutto essendo in un particolarmente disarmante e vulnerabile stato mentale (von Hentig 1948: 431). In quel periodo negli Stati
dalla legge n. 66/1996. Von Hentig aveva però presente un tipo di crimine più ampio rispetto al reato così come configurato nel nostro ordinamento. Mentre nel nostro ordinamento era punito solo chi seduceva una donna minore di età inducendola in errore e dunque mentendole sul proprio stato di persona coniugata, con promessa di matrimonio, nel sistema giuridico statunitense, in diversi Stati, il reato di seduzione colpiva chiunque, per mezzo di artifici, raggiri, persuasione, inganno, o promessa di matrimonio seduceva qualsiasi donna non sposata. La legge penale pertanto proibiva una classe di comportamenti più ampia rispetto alla formulazione dell'art. 526 c.p. che innanzitutto si indirizzava alla tutela delle donne minori di età e poi era limitato alla sola promessa di matrimonio. 5 Il riferimento è al ciclo mestruale od alla menopausa (von Hentig 1948: 427).
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Uniti, infatti, erano molto diffuse particolari tipi di truffe perpetrate a danni di vedovi o vedove. Il tormentatore. - È la tipica figura del criminale-vittima, in cui maggiormente intensa è la relazione e l'interazione tra l'agente e la vittima. Rientrava in questa categoria di vittime colui che infligge sofferenza, tortura, perseguita, tormenta, maltratta, abusa altri anche per anni e poi subisce una lesione o viene ucciso dalle sue vittime. Il criminale che diventa vittima esso stesso per mano delle sue vittime. E dall'altro lato la vittima che alla fine, per reazione, commette un atto criminale nei confronti del suo persecutore. Si tratta di un meccanismo tipico delle tragedie familiari in cui, generalmente il padre psicotico od alcolizzato può abusare, maltrattare, e così via, la moglie ed i figli anche per anni fino a che uno dei figli non raggiunge una età adulta e, cambiando i rapporti di forza fisica, a causa di una estrema e finale provocazione lo ferisce od uccide. Sebbene, osservava von Hentig, anche alcune figure di« tormentatori» sono di genere femminile (1948: 432). Le vittime« bloccate». - La vittima bloccata sarebbe quella vittima che è posta in una situazione tale da non consentire resistenza o difesa perché le conseguenze della resistenza o della difesa sarebbero più nocive dell'atto criminale stesso. L'esempio chiarificatore di von Hentig era dato da coloro che sono ricattati. Il ricatto, infatti, si basa sempre sulla conoscenza di informazioni che possono danneggiare socialmente ed economicamente la vittima oppure portare all'apertura di un procedimento penale contro la vittima stessa. Coloro che pertanto commettono atti illeciti od immorali o comunque soggetti al biasimo ed all'ostracismo dei propri amici, parenti, familiari, sono esposti al rischio del ricatto che li pone in una condizione di estrema vulnerabilità. Le vittime esonerate. - Si tratta delle vittime che sono escluse dai criteri di selezione del criminale per qualche motivo inibitorio, di natura culturale, religiosa od altrimenti. Von Hentig suggeriva il caso emblematico dei borseggiatori di professione che secondo alcune ricerche di Sutherland (1947), se cattolici, escludevano dai propri obiettivi generalmente i preti cattolici. Le vittime «resistenti». - Sono le vittime che reagiscono con diversi gradi di forza fisica alle aggressioni. Von Hentig rilevava che in alcuni casi una reazione aggressiva della vittima poteva aggravare il pericolo di vittimizzazione o le sue conseguenze (1948: 438).
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Tipologie
«
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sociali ».
La vittima-criminale. Alcuni aspetti sociali. - Si tratta di una particolare categoria di vittime, individuali o collettive, come gruppo. In questo caso la « sofferenza», il subire una ingiustizia, portano la vittima a diventare criminale. Von Hentig considerava un effetto del crimine la determinazione di talune vittime a commettere successivamente atti criminali. La perdita e la lesione sofferta a causa di un atto criminale è possibile condizione di un conseguente comportamento criminale da parte della vittima se il torto subito non ha ricevuto adeguata riparazione. In realtà, anche l'azione dei meccanismi istituzionali del controllo sociale, se disfunzionali e non adeguatamente misurati ed equilibrati, può portare alla criminalità. L'esempio esplicativo suggerito da von Hentig era quello del famoso gangster John Dillinger che per von Hentig fu il prodotto come Nemico Pubblico n. 1, e cioè uno dei più grandi pericolosi criminali dei suoi tempi, di una colpevole ed incompetente commissione per la concessione del parole 6 •
5.3.
Le predisposizioni vittimogene specifiche. 5.3.1.
Esiste una « attitudine » a diventare vittima?
La classificazione di von Hentig, come è stato esaminato, tenta, sia pur basata su osservazioni non strutturate e non confortate da ricerche empiriche (Schafer 1968), di delineare il profilo di quelle che possono considerarsi le vittime latenti o potenziali. Il suo fine è la prevenzione della vittimizzazione del crimine. La sua tipologia di vittima, in fondo, costituisce una trama di fattori predittivi della potenziale
6 Dillinger infatti commise il suo primo crimine, una rapina, sotto l'influenza di un complice molto più adulto, ali' età di soli 19 anni ma, mentre il suo complice più adulto fu rilasciato sulla parola dopo appena due anni, Dillinger invece dovette scontare ben otto anni di reclusione e cioè quasi il massimo della pena comminatagli. In precedenza, peraltro, non aveva manifestato alcun segno di grande capacità a delinquere o pericolosità. Addirittura fu rilasciato praticamente perché, dopo che era stato in detenzione per otto anni, fu inviata una petizione da parte di molti importanti cittadini della comunità in cui era vissuto Dillinger, firmata finanche dal giudice che lo aveva condannato, dal pubblico ministero che lo aveva accusato, dall'uomo che egli aveva rapinato e dai suoi parenti (von Hentig 1948: 446).
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vittimizzazione. Qualificare una figura tipica di vittima, ad esempio il "tormentatore" di cui sopra, significa affermare che tutti coloro che adottano il medesimo comportamento ripetitivo, abusando, maltrattando, tormentando in modo violento ed aggressivo sul piano fisico e psicologico i propri familiari, si può ragionevolmente prevedere, con un certo margine di probabilità, saranno potenziali vittime degli stessi familiari una volta che la sproporzione fisica o la soggezione psicologica mutino a loro svantaggio. Guardando la tipologia delle vittime di von Hentig da un'altra prospettiva, le caratteristiche personali, fisiche, psicologiche e sociali della vittima potenziale assumono la veste di fattori che « predispongono » al crimine. Per questo motivo, sempre, nell'ambito della prima vittimologia positivista, secondo un diverso approccio si elaborò il concetto di « predisposizione vittimogena specifica », soprattutto ad opera di Fattah (1971) e poi riproposto in Italia da Gulotta (1976; 2003). A von Hentig 7 , infatti, è stata attribuita la nozione di vittima latente, che proprio vuole esprimere il concetto secondo cui« in certe persone esisterebbe una predisposizione a diventare vittima di reati e, in un certo senso, ad attrarre il proprio aggressore» (Bandini 1993: 1009). La vittima latente fu ripresa come nozione da Fattah od anche da egli denominata vittima « predisposta », come appunto espressione della maggiore inclinazione, della maggiore attitudine di taluni individui a divenire vittime del comportamento criminale sulla base di una serie di fattori (1991). Si verrebbe così a distinguere una « predisposizione generale » che sarebbe riscontrabile nelle « vittime nate » ovvero in quelle cosiddette « recidive ». Si tratta di quelle persone che subiscono continuamente episodi di vittimizzazione e che quindi, per motivi psicologici anche patologici, tendono e quasi anelano ad essere vittime. Ciò può dipendere da fattori inconsci, da stati depressivi, come indicato da von Hentig stesso per la categoria tipica della vittima « depressa », che possono portare ad impulsi ed a tendenze autolesionistiche ed autodistruttive, a quella che viene denominata da altri « pulsione di morte » (Strano-Gotti 2003: 99). La vittima« nata» coincide poi con un certo tipo di personalità, quella così detta del « collezionista di ingiustizie»,
7 Sebbene sia una interpretazione del suo pensiero non avendo egli esplicitamente definito e descritto in modo sistematico le nozioni di vittima, a parte la proposta classificazione (i minori, le donne, il tormentatore, ecc. di cui sopra).
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per cui il soggetto tende ad agire in modo da porsi in situazioni di pericolo e di sofferenza, generalmente al fine di ricavarne un piacere masochistico o nell'espiazione di sensi di colpa (Strano-Gotti 2003). Naturalmente, in chiave moderna, il concetto di « vittima nata » non ha più una accezione deterministica nel senso di un individuo fatalisticamente condannato alla nascita ad essere bersaglio della vittimizzazione criminale, accezione universalmente rifiutata (Fattah 1991: 96). Solo in alcuni rari casi, effettivamente, un certo tipo di personalità o stato psicologico transitorio può portare il soggetto ad essere spinto verso situazioni pericolose o apertamente dannose fra le quali può essere annoverata anche una situazione potenzialmente criminogena, quasi una sorta di pulsione ad essere vittima, ma appunto in un senso autolesionistico ed autodistruttivo. Diverse sono le predisposizioni «speciali» (Bandini 1993) ovvero denominate anche « specifiche » (Gulotta 197 6; 2003). La predisposizione in tal caso è dovuta alla presenza di alcuni specifici fattori socio-demografici e psicopatologici (Bandini et al. 2003). La probabilità di divenire vittima di un crimine è distribuita in modo differente fra tutti gli individui poiché l'analisi mostra precise circostanze che facilitano, favoriscono, originano o provocano una condotta criminale nei confronti di una determinata vittima piuttosto che un'altra (Gulotta 1976). Le predisposizioni vittimogene specifiche esprimono quello che, in chiave moderna, viene chiamato « rischio differenziale » (Karmen 2004). Si tratta di una rielabora~ione della classificazione di von Hentig cercando di individuare in modo più sistematico ed organizzato quelle caratteristiche che già sia pure in modo più semplicistico e frammentario, aveva focalizzato come fattori di rischio osservando le diverse correlazioni che poteva assumere la diade criminalevittima (Fattah 1971; 1991: 95). Il concetto di vittimogenesi, invece, è stato proposto da Ellenberger in modo simmetrico alla criminogenesi (1954; 1955: 258). Al pari del criminale, per ogni persona si dovrebbe conoscere esattamente il rischio cui è esposta determinato sulla base di elementi quali l'occupazione, la classe sociale e la costituzione psicologica (Ellenberger 1955). Le predisposizioni vittimogene specifiche si possono schematicamente distinguere in tre gruppi. Predisposizioni bio-/isiologiche. - Sono state annoverate fra le predisposizioni bio-fisiologiche l'età, il sesso, la razza e lo stato fisico (Gulotta 1976; 2003; Fattah 1971). Ricordando le categorie di vittime di von Hentig, la spiegazione di tali predisposizioni diventa abbastanza ovvia. L'età, infatti, influisce sulla capacità di opporre una effi-
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cace difesa sia per quanto concerne le vittime minori di età da un lato, che le persone anziane dall'altro, per le quali all'indebolimento fisico si può accompagnare un indebolimento mentale (Gulotta 1976: 25). Ovviamente, poi, alcuni tipi di reati sono commessi nei confronti di determinate vittime in rapporto all'età, come ad esempio la così detta pedofilia od abuso sessuale sui minori. La minore età è proprio il fattore di attrazione della vittima da parte del soggetto criminale agente, oltre alle sue caratteristiche individuali personali. Anche la differenza di genere, e cioè il sesso della vittima, può essere rilevante nella genesi di particolari crimini come quelli sessuali. La razza, ovviamente, può influire quale condizione selettiva, basti pensare ai già più volte citati hate-crimes, crimini d'odio, che possono appunto essere determinati da motivi d'odio nei confronti di un gruppo di individui appartenenti ad una certa razza. Infine, lo stato fisico può influire, ovviamente, sempre sulle capacità di resistenza all'aggressione a prescindere dalla costituzione fisica dell'individuo. Nella situazione concreta e contingente un individuo di costituzione fisica forte e robusta può trovarsi in difficoltà per uno stato contingente e transitorio di debolezza indotto da una malattia, dall'assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti, se incosciente per trauma, infortunio ecc. (Gulotta 1976). Predisposizioni sociali. - Fra le predispdsizioni sociali sono enumerate, invece, la professione, lo status sociale, le condizioni economiche e lo stile di vita. Anche tali predisposizioni sono abbastanza evidenti. Alcune professioni, infatti, espongono ad un maggior pericolo di vittimizzazione. I taxisti che viaggiano di notte o gli agenti di polizia (Gulotta 2003 ). Invero, ad ogni attività lavorativa è connesso un certo rischio professionale sia essa esercitata anche occasionalmente dal soggetto. Lo status sociale può influenzare la tendenza a divenire vittime di reato come per gli immigrati, le minoranze etniche ecc. (Gulotta 1976). Come si può vedere le predisposizioni vittimogene specifiche corrispondono alle categorie di vittime di van Hentig. Ciò che viene categorizzato, però, non è più il tipo di vittima, l'immigrato ad esempio, ma la caratteristica che la espone ad un maggior rischio di vittimizzazione, la caratteristica che la rende tipica, e cioè lo status, la condizione sociale di immigrato. In un certo senso è come guardare l'altra faccia della medaglia. Le predisposizioni psicologiche. - Fra le predisposizioni psicologiche sono indicate infine le deviazioni sessuali, gli stati psicopatologici ed i tratti del carattere. Per quanto concerne le deviazioni sessuali, l'esempio addotto da Fattah (1971) e ripreso da Gulotta (1976) è
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quello tipicamente dell'omosessualità. La condizione infatti di disagio, emarginazione, discriminazione, pregiudizio, se non addirittura stigma, e conseguentemente di mascheramento del proprio orientamento sessuale, pone l'omosessuale in una situazione di maggior esposizione al rischio di vittimizzazione. Questo perché, naturalmente, soprattutto nel passato, l'omosessuale per trovare un partner era anche costretto a frequentare ambienti ove la criminalità era particolarmente diffusa, dove era comune la prostituzione, l'estorsione, il ricatto (Gulotta 1976: 29). Emblematico, anche per il clamore che suscitò al1' epoca in Italia, è il caso dell'omicidio di Pierpaolo Pasolini avvenuto nel 1975. Sebbene tuttora rimanga controverso se oltre a colui che fu condannato per l'omicidio, il diciassettenne Pino Pelosi, vi siano degli altri colpevoli, la situazione in cui maturò il crimine è proprio indicativa del grave rischio di vittimizzazione cui erano, quantomeno al1'epoca in misura particolarmente rilevante, soggetti gli omosessuali 8 • Attualmente, molto è cambiato, ad esempio dal 1980 il DSM-III-R ha riclassificato il comportamento omosessuale come uno orientamento sessuale alternativo, uno stile di vita sessuale diverso piuttosto che come una deviazione o perversione sessuale (Wallace 1998: 234), mentre nel 1974 l' American Psychiatric Association eliminò l' omosessualità dall'elenco delle psicopatologie (Bayer 1981; Dèttore 2001: 372). L'omosessualità, pertanto, ha perso l'approccio patologico nel senso che non è più considerata un disturbo dell'orientamento sessuale salvo che sia egodistonica, cioè salvo il caso in cui la persona omosessuale è in conflitto con il suo orientamento sessuale, desidera cambiarlo o ne
8 L'autore dell'omicidio, il suddetto Pelosi, quantomeno in base alle sue dichiarazioni, sia pur suffragate da altre testimonianze, sembra fosse stato « avvicinato » da Pasolini in una zona famosa per la frequentazione da parte di quelli che all'epoca erano definiti « ragazzi di vita », titolo peraltro di un'opera letteraria dello stesso Pasolini, provenienti dalle borgate della periferia romana o ragazzi sbandati scappati di casa. Si trattava del punto di incontro presso un chiosco aperto tutta la notte, il Bar Tabacchi Gambrinus nella piazza della Stazione Termini. Ambiente tipicamente di marginalità, disperazione e criminalità da strada. Purtroppo Pasolini, nonostante fosse certamente un grande intellettuale e ben noto regista e nonostante il fatto che non mascherasse affatto il suo orientamento sessuale, anzi, egli era quasi un manifesto vivente della lotta degli omosessuali avendo dichiarato la sua omosessualità in pubblico nel 1968, al Festival del Cinema di Venezia, indossando provocatoriamente, come racconta l'aneddotica, un cartello con la scritta « io sono omosessuale », era costretto, come tanti altri, a ricercare appunto un compagno in ambienti abbastanza emarginati e pericolosi.
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è comunque per essa fonte di grave disagio psicologico e sociale (Dèttore 2001). La stessa visibilità è decisamente cambiata poiché, ovviamente, sia dal punto di vista sociale e ricreativo, che politico-associativo oltre che commerciale, particolarmente in ambito urbano si è avuto un enorme sviluppo della cosiddetta "scena" omosessuale, e cioè gli spazi, i luoghi, i locali del mondo omosessuale (Barbagli-Colombo 2001: 161). Permangono però diverse difficoltà di accettazione sociale anche se, a seguito di numerose trasformazioni sociali, si è avuto un miglioramento progressivo nel tempo. L'atteggiamento di biasimo e di condanna nei confronti dell'omosessualità è andato, infatti, sempre decrescendo dagli anni '30 agli anni '80 (BarbagliColombo 2001: 89). Lo stesso coming-out, e cioè il processo di acquisizione dell'identità sessuale e la sua aperta dichiarazione, sta diventando meno lungo e doloroso. Rimane però una quota della popolazione non indifferente che ancora oggi non accetta, biasima, condanna il comportamento omosessuale (Barbagli-Colombo 2001; Cavalli-de Lillo 1988; 1993; Buzzi et al. 1997). L'influenza di tale fattore di aumento del rischio di vittimizzazione è decisamente cambiata rispetto a quando è stato individuato come elemento di vulnerabilità vittimale, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Da un punto di vista qualitativo l'aumento del rischio della vittimizzazione paradossalmente, oggi, non è dato dalla maggior emarginazione e frequentazione da parte degli omosessuali, a causa dello stigma, di ambienti sociali di disagio, degrado, ad alto tasso di pericolosità, ma, al contrario, dalla loro maggior visibilità ed accettazione sociale a fronte però del permanere di numerosi nuclei di resistenza, biasimo, pregiudizio, disapprovazione. Anche empiricamente, infatti, negli Stati Uniti, per esempio, è stato accertato che le persone omosessuali hanno un maggior tasso di vittimizzazione rispetto alla popolazione generale (Wallace 1998: 235; Herek 1989). In quella realtà sociale si è infatti avuto il maggior sviluppo con il conseguente notevole allarme sociale dei già più volte citati crimini d'odio o hate-crimes. In Italia, da questo punto di vista non vi è un fenomeno di analoga portata essendo in una situazione di maggior equilibrio e sfociando meno raramente in violenza la discriminazione nei confronti dell'orientamento sessuale. Per cui tale fattore, si può dire nella nostra realtà, abbia diminuito la sua importanza e la sua incidenza sul rischio di vittimizzazione avendo gli omosessuali maggiori spazi sicuri, un modo in cui vivere sufficientemente protetto rispetto al passato ed all'emblematico caso di Pasolini prima evidenziato, an-
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che se non è scomparso il fenomeno del sesso impersonale a pagamento, della prostituzione nell'ambiente omosessuale maschile, con dimensioni comunque modeste (Barbagli-Colombo 2001: 150). Si segnala, sempre negli Stati Uniti, la conferma di un aspetto di tale fattore di vulnerabilità e cioè un atteggiamento discriminatorio omofobico da parte del personale e degli operatori delle agenzie del controllo sociale, polizia, procuratori, giudici, soprattutto con riferimento ai casi di violenza intrafamiliare di coppie omosessuali o comunque di aggressione o violenza fra omosessuali (Wallace 1998: 238). La predisposizione relativa agli stati psicopatologici concerne la situazione di coloro che soffrono di disturbi psichici e possiamo qui richiamare le categorie di vittime citate da von Hentig come gli immaturi, i subnormali ed i depressi che sono maggiormente esposti al rischio di essere oggetto di truffe o raggiri (Gulotta 1976: 30; 2003: 190). Per i tratti del carattere sono indicati la possibile negligenza od imprudenza, la credulità od ingenuità, la cupidigia, l'arrivismo, la lussuria (Gulotta 1976: 30). Ha valore la stessa osservazione già fatta e cioè si tratta delle categorie indicate da von Hentig ma osservate da un'altra prospettiva. La predisposizione vittimogena specifica del tratto del carattere consistente nella « sete di appagamento sessuale » (Gulotta 1976) è l'elemento tipizzante la categoria del seducentepromiscuo di von Hentig, precedentemente illustrata.
5.3.2. Osservazioni critiche e sviluppi attuali. È bene rilevare che nella moderna vittimologia si preferisce parlare oggi di « rischio differenziale » e « fattori di vulnerabilità » vittimale piuttosto che di predisposizioni vittimogene specifiche. Il problema nasce dall'applicazione di un termine, di un concetto preso a prestito dalla medicina, come espressamente riconosce lo stesso Fattah (1991: 259), e cioè la« diatesi» ovvero, appunto, la predisposizione 9 • Il concetto è stato utilizzato nella prima vittimologia, come visto, per rappresentare una specifica inclinazione od attitudine di un individuo a divenire vittima del crimine in generale o di un determinato crimine in particolare. La maggior critica che si può rivol-
Fattah parla effettivamente di proneness, ma con espresso riferimento al concetto medico di diatesi che è, appunto la predisposizione, l'inclinazione, l'attitudine. 9
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gere a tale strumento concettuale e di descrizione della relazione che intercorre tra la vittima ed il crimine è il sottinteso deterministico implicito, il collegamento fatalistico che sembra istaurare tra determinate caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali della vittima e la condotta criminale. Giustamente è un approccio, quello deterministico, ormai abbandonato nello studio del comportamento umano (Strano-Gotti 2003: 100) e nella stessa criminologia per essere una variabile dipendente da molti fattori, il cui peso e rilevanza possono variare grandemente a seconda della prospettiva assunta. Lo stesso Fattah fu costretto a riconoscere fra le righe, difendendo il proprio concetto di predisposizione, di vittima latente e di fattori predisponenti 10 , vent'anni dopo la loro prima elaborazione, che di fatto altro non significava che la presentazione di una probabilità statistica (1991: 260). Il concetto di predisposizione finiva per rappresentare, appunto, la diversa distribuzione del rischio fra gli individui in termini probabilistici, sulla base delle loro caratteristiche socio-demografiche o comportamentali (età, sesso, razza oppure professione, abitudini di vita come l'omosessualità o la prostituzione). Fattah si trovava però costretto a chiarire che ciò non implicava in nessun modo alcun tipo di fatalismo o di ineluttabilità (1991: 261). Questo chiarimento si rendeva necessario proprio perché, in realtà, il concetto di predisposizione, così come applicato nelle predisposizioni vittimogene specifiche, assume un sapore fatalistico, porta ad interpretare le caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali della vittima in termini deterministici. Ciò può condurre, pertanto, ad un equivoco. Prendiamo ad esempio l'età. Se si rappresenta l'età come un fattore predisponente a divenire vittima di taluni reati, in particolare quelli sessuali e di violenza, a ben guardare non si esprime invece altro che una semplice vulnerabilità aspecifica. La minore età, infatti, è considerata come una predisposizione a divenire vittima per le minori capacità di difesa, sia sul piano fisico che psicologico, del bambino ed anche, in minor misura, dell'adolescente, ali' attuazione di un atto criminale nei suoi confronti. Questo è certamente vero, ma non significa che tutti i bambini debbano diventare vittime, né tutti i bambini hanno alte probabilità di diventare vittime, né una media probabilità. In realtà, la probabilità per un minore di diventare vittima dipende da altri fattori, ad esempio una mancanza di
10 Le predisposizioni vittimogene specifiche appena esaminate come rielaborazione delle categorie di von Hentig.
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protezione e sorveglianza adeguata ed idonea da parte dei genitori. La semplice minore età, pertanto, non esprime necessariamente un maggior rischio rispetto alla popolazione generale, e cioè alle altre fasce di età, di divenire vittima di un crimine. Anche considerare la minore età come fattore predisponente nei confronti di determinati crimini come la pedofilia, in una relazione specifica vittima-aggressore, in fondo, ancora una volta, non esprime altro che una vulnerabilità. Ovviamente, essendo il minore, per la stessa struttura del crimine, il tipo di comportamento criminale, la vittima elettiva e non semplicemente preferenziale dell'agente a causa della sua personalità sul piano psicologico, vi è una connessione con l'età. Anche in questo caso, il rapporto che lega la vittima al crimine è più complesso rispetto a quanto rappresentato dalla predisposizione. Innanzitutto la vulnerabilità non è costituita dalle minori capacità di difesa della vittima, nella maggior parte dei casi, ma deriva dal fatto che la caratteristica della minore età induce una fantasia od eccitazione sessuale nell'aggressore per motivi correlati al suo tipo di personalità. Si distinguono diversi tipi di childmolester fra i quali vi sono effettivamente i child-molester preferenziali e cioè coloro per i quali si può effettivamente porre un quadro clinico ed una conseguente diagnosi di pedofilia, ruotando tutte le loro fantasie sessuali intorno ai bambini. Per essi le minori capacità di difesa dei bambini sono irrilevanti, salvo parzialmente per la sottocategoria dei child-molester introversi che preferiscono i bambini per la loro incapacità di relazionarsi con gli adulti essendo i primi più facilmente manipolabili e seducibili. Da questo punto di vista, pertanto, l'età come predisposizione esprimerebbe una sorta di relazione specifica con l' aggressore essendo l'oggetto della sua fantasia ed eccitazione sessuale per la minore età in sé e non, salvo parzialmente per gli introversi, per le minori capacità di difesa. Vi sono però anche i child-molester situazionali che corrisponderebbero all'originaria impostazione dell'età come predisposizione. I situazionali, infatti, si rivolgono verso i minori per curiosità e, comunque, a causa della maggiore facilità di dominio della vittima, non avendo necessariamente una reale preferenza sessuale per i minori, ed anzi potendo indirizzare la propria condotta genericamente nei confronti di appartenenti ad altre fasce deboli, quali i disabili, malati di mente, anziani (Lanning 1992; Picozzi-Maggi 2003). In definitiva, dunque, la minore età finisce per rappresentare una relazione assolutamente aspecifica ed affatto predisponente perfino in rapporto a crimini apparentemente ad essa connessi.
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Come spiegato, alcuni abusatoti di minori possono aver agito non provando alcun interesse sessuale nei loro confronti, ma perché sotto l'influsso di sostanze psicoattive o non essendo disponibili partner adulti, o come risultato di un handicap mentale o psicopatologico, o come parte di un modulo cronico di comportamento antisociale, mentre solo alcuni nutrono un interesse sessuale specifico per i bambini, oggetto delle loro fantasia ed eccitazione sessuale, e lo estrinsecano o meno nel comportamento, e cioè gli autentici pedofili (Dettore-Fuligni 1999; Dettore 2000; 2001). Il fattore della minore età, pertanto, non solo non può ovviamente rivestire alcun carattere di determinismo, ma anche, in taluni casi, è indicativo ora di una vulnerabilità in senso stretto, quale minore capacità di difesa e resistenza rilevante ai fini della scelta della vittima da parte del criminale, ora di una vulnerabilità in senso più esteso, essendo la causa della scelta elettiva e preferenziale della vittima in rapporto a specifiche caratteristiche di personalità e dunque elemento peculiare di una specifica relazione criminale-vittima. Occorre pertanto riconoscere, alla luce delle ricerche e delle analisi più recenti, che molti fattori intervengono e che la vulnerabilità, come espressione del rischio di vittimizzazione in termini probabilistici che un dato individuo sia vittimizzato in base alle proprie caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali, è solo uno fra gli altri. Ciò non implica che ogni membro di un gruppo ad alto rischio di vittimizzazione (minori, donne, omosessuali, anziani, disabili, minoranze, ecc.) sarà vittimizzato, come pure non è detto che ogni membro dei gruppi a minor rischio sarà risparmiato (Fattah 1991: 261). Molti fattori, infatti, incluse le opportunità situazionali, agiscono. Come pure non vi è un nesso diretto tra vulnerabilità e vittimizzazione, ossia, in altre parole, contrariamente a quanto apparentemente espresso dalle classificazioni delle predisposizioni vittimogene specifiche prima esaminate, un fattore di vulnerabilità non necessariamente «predispone» effettivamente alla vittimizzazione. Questo è il punto di differenza maggiormente da chiarire, attualmente, del significato espresso dalla tradizionale configurazione delle predisposizioni vittimogene specifiche. Così come erano precedentemente considerate, sembrava vi fosse un nesso positivo, lineare e diretto, tra una condizione di vulnerabilità della vittima in base alle proprie personali caratteristiche, e la probabilità della vittimizzazione. Maggiore la vulnerabilità, maggiore il rischio di vittimizzazione. Sebbene un minore di anni cinque sia effettivamente in una condizione di vulnerabilità, ciò non è detto che lo predisponga ef-
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fettivamente ad essere vittimizzato senza il concorso di altri fattori. Ed infatti, nelle ricerche empiriche vi era un apparente paradosso (Fattah 1991: 263). Le categorie maggiormente vulnerabili, come i minori e gli anziani, per la loro condizione intrinseca di debolezza fisica e mentale e minor capacità di resistenza all'azione criminosa, non risultavano affatto essere i gruppi statisticamente maggiormente vittimizzati poiché i più alti tassi di vittimizzazione erano rilevati nella fascia di età dei giovani adulti o comunque diversamente distribuiti a seconda del tipo di reato. Anche la categoria delle donne, altamente vulnerabile sempre per delle condizioni di minore capacità di difesa sul piano fisico, presentava tassi di vittimizzazione consistentemente inferiori a quelli degli uomini tranne che per i reati sessuali. Ne deriva la conclusione che predisposizione e vulnerabilità non possono essere considerati assimilabili, cioè la predisposizione alla vittimizzazione non è rappresentata · dal semplice fattore di rischio della vulnerabilità. La predisposizione (proneness) deve essere considerata «multidimensionale» e la vulnerabilità è solo una di tali dimensioni (Fattah 1991: 263). Fattah, pertanto, considera il concetto di predisposizione ancora utile come approccio esplicativo, come schema teorico delle variabili indipendenti della vittimizzazione, accogliendo però, di fatto, le critiche rivolte al1' originaria configurazione che vedeva la predisposizione appiattita e coincidente con la semplice vulnerabilità della vittima in base alle sue caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali. Fattah ebbe però il merito sicuramente della prima elaborazione delle predisposizioni vittimogene specifiche. Organizzò in un modello sistematico quella che può essere considerata, come abbiamo visto, la prima ricerca teorica dei fattori di rischio della vittimizzazione, di quegli attributi personali, di quelle caratteristiche della vittima che ne determinassero una vulnerabilità, realizzata da von Hentig con la sua tipologia. Le predisposizioni vittimogene specifiche, coniugando gli studi empirici con le osservazioni di von Hentig e le sue vittime tipiche, hanno infatti permesso di individuare le condizioni biologiche, psicologiche e sociali, che fanno sì che un singolo individuo o gruppo di individui sia da considerarsi particolarmente o maggiormente vulnerabile (Karmen 2004: 88). Il maggior valore del concetto di predisposizione introdotto da Fattah (1971), sulla scorta della pur semplicistica ed ormai anacronistica tipologia di von Hentig, è l'introduzione del modello esplicativo del « rischio differenziale». È spiegare la vittimizzazione anche in base all'idea che il rischio di divenire vittime non è uniformemente distribuito nella popolazione, ma dipende dalla maggiore o minore vul-
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nerabilità della vittima potenziale, in base alle sue personali caratteristiche. Effettivamente in tale prima impostazione la predisposizione (proneness) tendeva impropriamente a coincidere con la vulnerabilità (vulnerability), enfatizzando solo tali fattori di rischio biologici come età, sesso, razza, psicologici come l'orientamento sessuale e gli stati psicopatologici o sociali, l'occupazione, il reddito, lo status (Karmen 2004). Lo stesso Fattah, come abbiamo visto, ha però poi successivamente ammesso, sull'onda dei successivi sviluppi, studi empirici e ricerche oltre che critiche dirette, che la predisposizione non può coincidere con la vulnerabilità. La vulnerabilità è solo uno degli elementi del processo che porta alla vittimizzazione. Il maggior critico dell' originaria impostazione del concetto di predisposizione fu Sparks (1981) che osservò come il concetto di predisposizione si poteva continuare ad usarlo solo se si precisava la sua natura multidimensionale, e che la vulnerabilità è solo una delle sue dimensioni. Per Sparks, infatti, la predisposizione di un individuo ad essere vittimizzato è funzione di sei fattori: la precipitazione, ossia un comportamento della vittima che istighi il criminale; facilitazione, ossia un comportamento negligente od imprudente che favorisca la commissione del crimine; vulnerabilità secondo i fattori di rischio già esaminati, le vecchie predisposizioni vittimogene specifiche; opportunità, se la vittima è un facile bersaglio; attrattività, cioè quando la vittima o ciò che possiede è conforme a quanto desiderato, ambito dal criminale ed in questo senso ne « attira» l'attenzione; la possibilità per il delinquente di rimanere impunito (Sparks 1981; 1982; Bandini et al. 1991; Bandini 1993; Bandini et al. 2004). Altri, ancora recentemente evidenziano che effettivamente il rischio differenziale di vittimizzazione dipende da una serie di variabili, parzialmente simili a quelle di Sparks, e cioè l'attrattività, la prossimità, i luoghi devianti e la vulnerabilità (Karmen 2004). Attraverso la valutazione di questi fattori si può delineare il rischio potenziale di divenire vittime. I fattori di attrattività sono simili a quelli di Sparks, mentre, invece, per Karmen la prossimità è un fattore spaziale che descrive se la vittima può essere nel raggio d'azione del criminale, o geograficamente per contatto diretto, o socialmente interagendo anche senza contatto diretto. Il fattore di prossimità esprime lo svantaggio di coloro che devono essere a contatto od interagiscono con persone pericolose su base regolare (Garofalo 1986; Siegel 1998; Karmen 2004: 89). Il fattore del luogo deviante, invece, richiama l'attenzione su delle specifica aree spaziali piuttosto che sulla prossimità generale tra gli in-
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dividui (Karmen 2004). In effetti, diversi studi hanno posto in luce nelle aree urbane la presenza di hot spots, cioè punti caldi, in cui la commissione di crimini tende a concentrarsi, ad esempio per un rallentamento dei meccanismi del controllo sociale, o perché sono frequentati da persone abitualmente mentalmente alterate o dedite ad attività illecite o devianti. Si tratta dei luoghi pubblici molto affollati, che sono punti di incontro di un vasto numero di persone, come le stazioni ferroviarie ed aree controllate meno frequentemente dalla polizia, oppure locali dove vi è una regolare assunzione di notevoli quantità di alcool o consumo di droghe. In questo caso il rischio deriva direttamente dal luogo e non dalle caratteristiche della vittima. Fattah, tuttavia, ha colto il suggerimento di Sparks secondo cui si potrebbe continuare ad usare il termine « predisposizione » (proneness), non essendovi delle valide alternative per esprimere il concetto di rischio differenziale e cioè le variazioni nella distribuzione della probabilità che una persona sia effettivamente e concretamente vittimizzata, con la precisazione che la vulnerabilità ne è solo un aspetto concorrente con tutti gli altri (Fattah 1991: 262; Sparks 1981). Ha così proposto una nuova versione ampliata, riveduta e corretta delle predisposizioni vittimogene, ovvero dei diversi tipi di predisposizione: - predisposizione spaziale - si tratta di una « predisposizione » di un determinato ambiente cui può essere ricollegato un differente grado di rischio di vittimizzazione. Diversi studi empirici, infatti, come già rilevato, dimostrano una differente distribuzione ambientale del rischio di vittimizzazione da un luogo ad un altro, questo sia tra ambiente urbano e rurale, sia all'interno dello stesso ambiente urbano. Ad esempio, coloro che abitano un ambiente urbano hanno il rischio più elevato di vittimizzazione rispetto a coloro che vivono negli ambienti rurali. Nell'ambiente urbano, poi, possono individuarsi luoghi più pericolosi di altri come i citati hot spots; - predisposizione strutturale - si tratta delle vecchie predisposizioni vittimogene specifiche collegate a certe variabili sociodemografiche come l'età, il genere, la razza, lo status sociale e così via. Il rischio di vittimizzazione, in altre parole, si distribuisce nella popolazione in modo differenziale in base a tali caratteristiche, secondo quanto già descritto ed esaminato. Si segnala che F attah per illustrare il significato di predisposizione strutturale cita tre specifici esempi e cioè la minore età, l'essere donna, e l'appartenere ad una minoranza etnico-religiosa. In particola per le donne, la vulnerabilità non è più espressa semplicemente dalla minor capacità di resistenza fisica al cri-
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mine. La differenza di genere, uomo-donna, come fattore di vulnerabilità deve essere infatti aggiornata alle acquisizioni della vittimologia di orientamento femminista. Il maggior rischio di vittimizzazione delle donne per la loro maggiore vulnerabilità, nell'ottica femminista, ha natura sociale e non biologica. L'esposizione al crimine non dipende dalla minor prestanza o sviluppo fisico, ma dall'asimmetrica struttura di potere della società patriarcale che pone le donne in un ruolo subordinato, sottomesso e servente (Fattah 1991: 268). Occorre osservare che i crimini di stupro e di incesto, fra gli altri, sono reinterpretati non come crimini di natura sessuale, cioè diretti all'appagamento violento del bisogno di piacere sessuale, ma alla soddisfazione del desiderio di soggiogare, umiliare, dominare, deumanizzare la donna vittima. Di fatto, quindi, la violenza sistematica che le donne sperimentano, supportata empiricamente dal fatto che la maggior parte delle vittime di reati violenti sono le donne ed in misura maggiore rispetto agli uomini, è funzionale nella società al mantenimento della struttura patriarcale di potere per perpetuare la posizione di svantaggio e subordinazione della donna (Fattah 1991: 268; Russel 1975; Gates 1978; Stanko 1985; Smith 1989; Marrs 1990); - predisposizione connessa alla devianza - un elevato rischio di vittimizzazione è ricollegato all'appartenenza ad un gruppo deviante, ovvero ad attività devianti. Nel primo caso, a causa dell'etichettamento negativo da parte del sistema, il gruppo deviante tende ad essere meno protetto dalle agenzie del controllo sociale, per cui la reazione della giustizia penale in favore della vittima è del tutto assente o è più lenta, lassista, non incisiva. Per quanto concerne, invece, la partecipazione ad attività devianti aventi ad oggetto consumo di sesso a pagamento, droghe od altri beni o servizi illeciti, essa è caratterizzata da una intrinseca pericolosità. I soggetti interagenti, difatti, tendono ad essere diffidenti, ad ingannare, sopraffare anche violentemente gli altri partecipanti. Gli esempi posti da Fattah sono la dipendenza da sostanze stupefacenti e la già esaminata omosessualità; - predisposizione occupazionale - si tratta della maggiore vulnerabilità e predisposizione alla vittimizzazione derivante dallo svolgimento di una particolare attività professionale, ad esempio nell'ambito delle forze di polizia. Invero, l'altro esempio addotto da Fattah appare maggiormente discutibile, cioè la prostituzione, in particolare da strada. È maggiormente discutibile perché innanzitutto appare difficile tracciare con nettezza un criterio che consenta di distinguere la predisposizione connessa alla devianza, dalla predisposizione occupazio-
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nale. Il prostituirsi può essere, infatti, in una certa ottica, considerato certamente un atto deviante anche se «tollerato» dal sistema giuridico e difficilmente non costituisce una violazione delle norme morali (Barbagli-Colombo-Savona 2003: 16-17), tanto è vero che le ragioni del maggior rischio di vittimizzazione sono individuate nella condizione di marginalità e nell'etichettamento negativo ricondotto alla prostituzione (Fattah 1991: 280). Anche nel caso in cui si adotta, come in Italia, una politica abolizionista e cioè che non punisce né regolamenta la prostituzione, ma tenta di colpire con la sanzione penale molte attività collegate definendole « sfruttamento » (Barbagli-ColomboSavona 2003: 125), la prostituzione non è mai socialmente legittimata. Vi è poi da considerare che Fattah trascura che la prostituzione da strada è costituita anche da un tipo di donne che esercitano la prostituzione per fronteggiare situazioni di grave bisogno economico in mancanza di altre opportunità od in modo coatto, in condizioni di sfruttamento e violenza anche estreme, senza considerare poi la vera e propria tratta e la schiavitù in particolare delle donne immigrate (Ivi: 134). Aspetto difficilmente conciliabile con la qualifica « occupazionale » anche se certamente, essendo la maggior parte degli autori d' accordo nel configurarla come una prestazione sessuale a scopo di lucro, essa diventa l'esito di una transazione di natura decisamente commerciale (Ivi: 107). L'analisi, infatti, della prostituzione anche da strada tende a considerare quegli elementi ritualistici dello stereotipo che fa percepire la prostituzione come una « professione », caratterizzata da codici di comportamento e di relazione con il cliente. Ciò non toglie che quella parte di prostituzione coatta, a mezzo di violenze anche gravi o la vera e propria tratta, è già di per sé fonte di vittimizzazione. In questo caso, più che ad essere una condizione occupazionale od un atto deviante a porre in pericolo l'individuo, è una condizione di vittimizzazione che comporta a sua volta un ulteriore grave rischio di sofferenza e lesione aggiuntiva. Quel che rimane certo è, comunque, la grave potenzialità vittimogena della condizione di prostituta. In Italia, ad esempio, con una forte presenza di straniere tra le prostitute di strada è sufficiente osservare, per descrivere l'elevato fattore di rischio che caratterizza tale condizione, che ad esempio nel 2001 le donne straniere costituivano oltre un quinto del totale delle donne vittime di omicidio, ed un terzo di tale quota è stata uccisa nello svolgimento di attività legate alla prostituzione (Ivi: 124; Danna 2002: 155-160); - vulnerabilità situazionale - Fattah affianca alle precedenti categorie di predisposizione, quale elemento di chiusura dello schema,
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quella che egli definisce come vulnerabilità dipendente da situazioni o condizioni temporanee e transitorie, che rendono la persona vulnerabile alla vittimizzazione per un limitato e breve periodo di tempo. A ben vedere, il mantenimento della predisposizione come concetto esplicativo, pur chiarendo che esso ha più dimensioni di cui la vulnerabilità è solo una fra le altre, tentato da Fattah, ancora non convince. A maggior ragione se si considera che Fattah in questo modo ha spostato il concetto di predisposizione dalla vittima ali' ambiente con qualche incongruenza. Se consideriamo, infatti, la predisposizione spaziale è lo spazio, cioè un luogo determinato, ad essere predisponente ovvero a predisporre la vittima nei confronti della vittimizzazione. La predisposizione, però, era un concetto, lo ricordiamo, che derivava maggiormente dal concetto di vittima latente, cioè di vittima che per le sue caratteristiche era potenzialmente esposta alla condotta criminale. Era un concetto che ineriva alla qualità della vittima. Lo spazio, invece, è un concetto situazionale perché, in realtà, il rischio di una vittimizzazione nasce non dalle qualità intrinseche della vittima ma dalla transitoria relazione che la vittima ha con il luogo pericoloso. Fattah, in altre parole, non è riuscito ad eludere la critica, che egli stesso riporta, di Reiss (1980), sécondo cui le spiegazioni basate sulla predisposizione, come le predisposizioni vittimogene specifiche, selezionano giustamente delle caratteristiche personali, sociali e comportamentali delle persone come vittime potenziali e le loro relazioni con il criminale come variabile di una vulnerabilità soggettiva al comportamento criminale. È il caso delle caratteristiche socio-demografiche che esprimono appunto una maggior vulnerabilità soggettiva attinente alla vittima in sé come sue qualità. Reiss distingue da questa vulnerabilità soggettiva espressa dalle spiegazioni basate sulla predisposizione, giustamente, una vulnerabilità obiettiva che si basa maggiormente su fattori più strettamente situazionali come la relazione, precedente al1' atto criminale, concreta tra criminale e vittima, le opportunità del criminale di commettere l'atto delinquenziale e la organizzazione dei mezzi e dei gruppi criminali. L'una non è conciliabile con l'altra, essendo troppo disomogenee nei presupposti teorici e nell'approccio d'analisi. È sufficiente, infatti, confrontare in Fattah la predisposizione che egli chiama spaziale con quella strutturale. Nel primo caso il concetto di predisposizione è correttamente da riferirsi non alla vittima ma al luogo dotato di maggior vulnerabilità obiettiva, per le maggiori opportunità che consente al criminale. Ad esempio, il luogo è maggiormente vulnerabile per mancanza di un adeguato controllo sociale
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come avviene nelle zone urbane più isolate. In quella che invece è denominata come predisposizione strutturale si ripropongono le caratteristiche socio-demografiche. L'età, in particolare la minore età come minore capacità, sempre, di difesa per la debolezza e fragilità della costituzione fisica e mentale. Nel primo caso, quindi, la predisposizione indica una vulnerabilità obiettiva di un ambiente per le minori capacità di « difesa » dal comportamento criminale, ad esempio per assenza di adeguati meccanismi di controllo sociale, come detto, le aree urbane deprivate (Fattah 1991: 269). Nel secondo la vulnerabilità passa ad essere soggettiva e cioè più specificamente inerente la vittima e la sua vulnerabilità personale rispetto al criminale. La nozione di predisposizione per cui appare discontinua e pertanto sarebbe preferibile abbandonarla essendo sufficienti i concetti di rischio, esposizione, vulnerabilità ad esprimere la probabilità di essere vittimizzati sia che sia riconducibile a proprie caratteristiche personali, al ruolo occupato nella struttura sociale, sia che sia riconducibile alla transitoria o perdurante relazione con un luogo per le maggiori opportunità di commissione del crimine od ancora sia attribuibile alla prossimità a gruppi devianti o criminali, e così via. Peraltro, la funzione esplicativa di un concetto è nella chiarezza, nell'immediatezza della rappresentazione di un fenomeno, di una relazione fra variabili, di un elemento analitico. Un concetto che abbia bisogno di complesse precisazioni diventa disfunzionale, sia da un punto di vista teorico che didattico. Nel caso della predisposizione, poi, qualunque aggiornamento della nozione e miglioramento, od approfondimento, non riesce a fugare il richiamo implicito ad una relazione causa-effetto di tipo deterministico, mentre invece viene utilizzato per esprimere una probabilità di tipo statistico ed in taluni casi neppure quella. Affermare che la minore età predispone ad essere vittima di un crimine, in realtà, abbiamo visto non è neppure confortata dal dato statistico ma esprime solo una generica vulnerabilità e cioè la condizione fisica e mentale di minor capacità di difesa e di neutralizzazione, resistenza, ad una azione criminosa. Ciò esprime solo il concetto che la probabilità di divenire vittima di un crimine per il minore è una variabile dipendente della difesa altrui. La sua vulnerabilità è difatti maggiore nel caso di crimini intrafamiliari essendo l'autore del reato colui che dovrebbe curare, custodire e proteggere il minore stesso. Lo stesso vale per gli anziani in quanto la minore capacità di difesa sul piano fisico e mentale esprime solo la dipendenza, anche per essi, da misure protettive esterne. Invero la probabilità di divenire vittima del crimine in rapporto all'età dipende
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dal concorso di due variabili, l'una è le capacità di difesa fisica e mentale individuali del soggetto in rapporto ali' età, l'altra il controllo e la difesa e la protezione di cui il soggetto è circondato e dipendente dal comportamento altrui. Come già osservata Fattah (1991), per gli anziani il dato indica una apparente contraddizione e paradosso con la loro condizione fisica e mentale in rapporto ali'età. Pur essendo da questo punto di vista altamente vulnerabili alla vittimizzazione, per la debolezza fisica e la ridotta capacità di resistere, statisticamente il grado di vittimizzazione tende a diminuire con l'avanzare dell'età piuttosto che il contrario (Fattah 1991: 263; Fattah-Sacco 1989; DoemerLab 2002: 235). La ragione risiede nel fatto che gli anziani, sebbene più vulnerabili, hanno generalmente, salvo frange emarginate ed in situazioni di disagio, maggiori mezzi economici di difesa per quanto concerne i crimini contro la proprietà, oppure partecipano meno alla vita sociale e quindi si creano meno occasioni di realizzazione dell'atto criminale. Diventando determinanti come lo stesso Fattah riconosceva, altri elementi come l'effettiva esposizione al rischio (Stafford-Galle 1984; Doerner-Lab 2002: 239), l'accessibilità, l'attrattività ed eventuali comportamenti favorenti, facilitanti e così via da parte della vittima (Fattah 1991). Anche trasformare il concetto di predisposizione da unidimensionale a multidimensionale non è molto utile. Il fattore dell'età, infatti, o « predispone » alla vittimizzazione o non « predispone » ad essere vittima di un crimine. L'effetto predisponente dell'età in realtà dipende interamente da altri fattori che non sono meramente scatenanti od attivanti. Il minore è semplicemente, per la sua condizione fisica e mentale, in uno stato di vulnerabilità agli attacchi ed alle aggressioni esterne ma in realtà, appunto, queste ultime dipendono dall'assenza di controllo genitoriale, dunque dall'occasione, dalla prossimità ad un criminale. Ad esempio ciò si ha in massimo grado nella figura del padre-pedofilo, ipotesi in cui l'aggressore coincide con chi dovrebbe curare e proteggere il minore. Dipende anche dalla sua attrattività, e cioè se le caratteristiche della vittima o della situazione possono spingere il criminale ad attivarsi. La minore età è, dunque, solo un fattore di vulnerabilità ma le effettive condizioni predisponenti sono altre. Per cui, infine, non sarebbe neppure realmente superabile la critica di Reiss (1980; Fattah 1991: 260) secondo cui la vulnerabilità e la predisposizione esprimono due concetti diversi, non conciliabili o quantomeno difficilmente integrabili in un unico modello esplicativo.
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5.4.
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Le classificazioni di vittime basate sulla condivisione della responsabilità (shared responsibility).
Un altro approccio classificatorio viene maggiormente fondato piuttosto che su fattori di rischio, decisamente sul contributo della vittima alla propria vittimizzazione. Si tratta di uno sviluppo dell'idea, che fu pure già di von Hentig, che vedeva nella vittima un « agente provocatore» in senso lato del crimine (von Hentig 1948: 450). Nell'analisi dell'interazione dinamica criminale-vittima, lo stesso von Hentig sottolineava che si può osservare frequentemente una mutualità tra l'aggressore e la vittima, l'omicida e l'ucciso, il truffatore ed il truffato, poiché spesso, in un certo senso, la vittima conduce il reo in tentazione, lo spinge a commettere il crimine nei suoi confronti finendo per assumere il ruolo determinante dell'evento criminale (von Hentig 1948; Karmen 2004: 99). Tali classificazioni cercano di descrivere il ruolo della vittima nell'interazione, si potrebbe dire la sua partecipazione «morale» e cioè in che modo la vittima fa sorgere, agevola, conferma, attiva od altrimenti catalizza l'intento criminale del reo. Effettivamente la prima vittimologia e poi i successivi trent'anni di studi hanno visto un grande dibattito, approfondimento teorico, e ricerca sul ruolo della vittima, la sua relazione con il criminale, sul concetto di responsabilità e quei comportamenti che possono essere considerati « provocatori » (Viano 1976: 1) non solo nel senso tradizionale conosciuto dal diritto penale. Il diritto penale considera provocazione solo l'ingiuria verbale, il comportamento apertamente offensivo o denigratorio, sino ali' aggressione fisica da parte di colui che poi rimarrà vittima dello scontro per la reazione di difesa dell'aggredito. Non vengono considerati tutti quegli altri comportamenti, imprudenti o negligenti, anche semplicemente favorenti o facilitanti, latamente istigatori o che comunque aggravano, in relazione alla situazione concreta, il rischio di divenire vittima del crimine e la vulnerabilità e l'esposizione. Le classificazioni che saranno illustrate in realtà ruotano proprio sul riconoscimento, anzi si potrebbe dire sulla scoperta grazie alla vittimologia, del fatto che la vittima non è un oggetto passivo della condotta criminale, non è più l'innocente punto di impatto del crimine sulla società, ma talvolta gioca un ruolo attivo e possibilmente contribuisce in qualche modo ed in certo grado alla sua stessa vittimizzazione (Viano 1976). Come già aveva acutamente per la prima volta suggerito von Hentig, la realtà dei fatti della vittimizzazione, soprattutto da un punto di vista psicologico,
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non corrisponde ai comuni stereot1p1 della vittima e del criminale come agnelli e lupi, non essendo la distinzione così netta, come il bianco ed il nero o il giorno e la notte. I ruoli di vittima e vittimizzatore sono mutabili ed interscambiabili (Fattah 1991: XIV), essendovi in atto un processo interazionale cui la vittima partecipa e che influenza la questione del rischio che non può essere determinata in modo assoluto ma relativo, in rapporto alle concrete modalità dell'interazione, potendo evidenziare anche un rilevante contributo della vittima (Parsonage 1979: 10). 5.4.1.
Mendelsohn ovvero la perdita dell'innocenza.
La classificazione di Mendelsohn è fondata proprio su una sorta
di scala della partecipazione morale della vittima. Non dobbiamo dimenticare che effettivamente Mendelsohn elaborò questa classificazione sulla base dei suoi studi con un approccio giuridico-legale. Egli cercava, infatti, di individuare il grado di provocazione della vittima nell'interazione con il criminale, in quanto, lo ricordiamo, quale avvocato difensore in Romania, aveva elaborato un questionario che sottoponeva ai propri clienti, alle vittime, ai testimoni e così via. Il risultato è lo schema seguente (Mendelsohn 1956a; Doerner-Lab 2002; Wallace 1998). La vittima completamente innocente. - Si tratta di coloro che non hanno alcun comportamento provocatorio o facilitante prima del1' attacco dell'aggressore. Un esempio potrebbe essere un bambino, oppure una persona in uno stato di incoscienza. La vittima in questo caso ha un ruolo, secondo Mendelsohn, totalmente passivo e quasi costituisce il mero oggetto dell'azione criminale. La vittima che ha meno colpa del criminale. - In questo caso la vittima ha sì un ruolo attivo, ma solo perché ha adottato un comportamento imprudente o negligente, finendo per porsi in una situazione di pericolo. La vittima in questo caso ha un ruolo attivo, ma solo di aggravamento del rischio, in cui l'istigazione all'azione criminale è solo indiretta perché aumentano le opportunità di commettere il crimine o l' attrattività della vittima. Mendelsohn denominava questo secondo gruppo anche "vittime dovute all'ignoranza". La vittima colpevole tanto quanto il criminale. - Si tratta di una categoria particolare in cui Mendelsohn riuniva i casi di suicidio e coloro che assistevano o cooperavano con altri nel commettere dei cri-
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mini, cadendone vittime. Gli esempi di Mendelsohn erano riferiti anche ai così detti reati senza vittime e cioè la prostituzione, la tossicodipendenza, il gioco d'azzardo. Occorre considerare, naturalmente, che tale categoria presuppone la criminalizzazione della prostituzione o della tossicodipendenza. Se la prostituzione stessa e non solo lo sfruttamento fosse un reato, in realtà si tratterebbe di un caso di vittima che vittimizza se stessa essendo la prostituzione, comunque, umiliante, degradante, per la donna. Lo stesso potrebbe dirsi per il tossicodipendente ove l'uso stesso di sostanze stupefacenti fosse criminalizzato. Ed infatti tali ipotesi sono affiancate nella categoria a quelle dei suicidi. La categoria era anche da Mendelsohn considerata inclusiva della "vittima volontaria". La vittima più colpevole del criminale. - Tale categoria raggruppa le vittime che istigano e provocano l'atto criminale. Si tratta della categoria che maggiormente corrisponde all'idea di provocazione nel diritto penale, e cioè delle vittime che hanno appunto tenuto un comportamento offensivo dal punto di vista verbale, ad esempio, od addirittura hanno iniziato esse stesse l'interazione aggredendo la persona della cui reazione violenta poi sono rimaste vittime. Possiamo citare anche un caso emblematico, tratto invece dall'odierna attualità, dalle stesse cronache del nostro Paese, di una ragazza che è rimasta vittima di un omicidio a seguito di un violento alterco da essa stessa provocato a causa di una imprudenza da parte di un automobilista antagonista. La ragazza ha seguito e poi fatto fermare l'automobilista e protestato violentemente per il comportamento imprudente. I toni dell'alterco sono così degenerati fino ali' azione omicidiaria per strangolamento della ragazza. Il caso corrisponde esattamente a tale categoria di vittime più colpevoli del criminale. Ci si potrebbe chiedere perché più colpevoli. La ragione è che se si analizza l'interazione, il criminale commette l'azione in uno stato di ira, di forte emozione, che non riesce a controllare e quindi dal punto di vista della responsabilità morale, ovviamente, questa è meno intensa. La vittima, invece, che lo ha provocato, che lo ha istigato inducendo lo stato di ira che ha condotto poi al delitto, si è assunta coscientemente il rischio della reazione incontrollata altrui e generalmente chi provoca parte da una situazione di maggior freddezza emotiva e dunque ha maggior coscienza del pericolo, almeno all'inizio dell'interazione. È facile infatti prevedere che ad una offesa vi possa essere una reazione anche violenta e scomposta dall'altra parte. La vittima più colpevole in assoluto. - In questo gruppo sono in-
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eluse le figure di criminale-vittima, ossia di criminale che nel corso dell'esecuzione dell'azione illecita subisce la vittimizzazione da parte del suo antagonista che agisce in autodifesa. Il rapinatore a mano armata che cade sotto i colpi di arma da fuoco sparati dalla vittima che tentava di rapinare. La vittima immaginaria o simulatrice. - Si tratta delle vittime, ovviamente, che a causa di determinate psicopatologie possono giungere a credere di essere vittime, per quanto concerne le vittime immaginarie. Le vittime simulatrici, invece, sono ovviamente le vittime che, coscientemente o premeditatamente, per i più svariati motivi allegano una falsa vittimizzazione. Ad esempio, una ipotesi è la denuncia di abusi e maltrattamenti in famiglia nei confronti dell'altro coniuge nei casi di separazione o divorzio. È bene notare che la classificazione di Mendelsohn ha due caratteristiche. Innanzitutto è situazionale. Analizza, infatti, l'interazione faccia a faccia del criminale e della vittima nella situazione concreta, determinando un diverso grado di partecipazione, contribuzione, del comportamento della vittima. È una analisi del comportamento della vittima come causa del crimine. Non vengono considerate le caratteristiche della vittima come potenziali elementi «attrattori» nei confronti del criminale, come nelle classificazioni esposte nei paragrafi precedenti di von Hentig, Fattah e Gulotta che approfondiscono, invece, le condizioni di rischio potenziale di vittimizzazione e si basano perciò sul concetto di « vittima latente». In secondo luogo, vi è un giudizio morale della vittima, in modo parallelo e sintetico a quanto avviene per il criminale. L'importanza della classificazione è che si vede nel ruolo attivo della vittima una partecipazione ed una responsabilità sul piano morale con un giudizio di biasimo e cioè di colpevolezza per la sua stessa vittimizzazione, secondo una gradazione dalla completa innocenza alla colpevolezza più assoluta. Il giudizio morale, peraltro, è interazionale e dunque è relativo poiché alcune delle categorie comparano il grado di responsabilità morale della vittima con i gradi di responsabilità morale del criminale nella causazione del crimine.
5.4.2. Schafer ovvero la « responsabilità funziona•le » della vittima. Anche Schafer pose in rilevo che lo studio delle relazioni tra la
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vittima ed il criminale porta a considerare l'importanza del ruolo e della responsabilità della vittima nella ricerca di una soluzione « funzionale» al problema del crimine (Schafer 1968: 5). Il concetto di responsabilità era al centro del suo pensiero. Egli riteneva, infatti, la responsabilità la questione cruciale del problema del crimine non essendo stata perfettamente concettualizzata o compresa nella sua funzione sociale (Schafer 1968: 138-139). Si potrebbe definire il suo approccio, socio-giuridico. La responsabilità per la propria condotta è un concetto mutevole e la sua interpretazione è uno specchio veritiero delle condizioni sociali, culturali e politiche. I meccanismi di riconoscimento ed attribuzione della responsabilità penale indicano la natura delle interrelazioni sociali e l'ideologia della struttura dominante di potere (Schafer 1968). In parole povere « chi è responsabile e per che cosa e come, è definito dalla legge; la legge è fatta dagli uomini» (Schafer 1968: 4). Egli affermò che la responsabilità dunque non è un fattore isolato nella società ma piuttosto uno strumento del controllo sociale, usato in tutte le epoche e da tutte le società per conservare se stesse (Schafer 1968: 139; Wallace 1998: 11). La responsabilità ha la funzione di creare limiti alla libertà del volere dell'uomo, ha cioè la funzione di discriminare i comportamenti legittimi ed approvati da quelli illegittimi. Affermare che qualcuno è responsabile per una certa azione significa affermare che quella azione è illegittima. La responsabilità nella società fa sì che l'uomo abbia un ruolo ed agisca in modo funzionale alla conservazione della medesima società attraverso le limitazioni autoimposte alla libertà del suo volere (Schafer 1968: 143). La responsabilità, in conclusione, attribuisce all'uomo un ruolo funzionale al mantenimento dell'ordine sociale astenendosi da determinati comportamenti e ponendo in essere quelli approvati ed adeguati. In un dato sistema sociale la responsabilità ha dunque una valenza funzionale perché aiuta a conservare e mantenere l'ordine sociale, discriminando i criminali da coloro che hanno comportamenti conformi in una dimensione di tempo, spazio, cultura (Schafer 1968: 139). Anche per la vittima, in conclusione, si può ipotizzare una responsabilità funzionale al mantenimento dell'ordine sociale. Il ruolo funzionale della vittima è « prevenire» la sua stessa vittimizzazione (Schafer 1968: 144), evitando di facilitare, favorire, iJrovocare l'altrui comportamento criminale. La responsabilità funzionale della vittima è la controparte speculare della responsabilità funzionale del criminale, ed entrambe sono fra loro i due correlati spetti del più generale ruolo dell'uomo funzionale al
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mantenimento dell'ordine sociale. Il crimine, infatti, non è solo un atto individuale ma un fenomeno sociale (Schafer 1968: 152; Wallace 1998: 11). Entrambi i partecipanti alla dinamica interazione del crimine devono essere osservati in proiezione al loro ruolo funzionale. In breve, la responsabilità funzionale del criminale lo deve condurre ad astenersi dal comportamento illegittimo e non approvato, disfunzionale all'ordine sociale; la responsabilità funzionale della vittima la deve condurre ad evitare di contribuire con la propria negligenza, provocazione, con il proprio comportamento istigatore a favorire, facilitare o causare l'evento criminale disfunzionale. L'uno deve astenersi dal crimine, l'altra deve prevenire il crimine, la sua stessa vittimizzazione perché solo così entrambi hanno un ruolo funzionale al mantenimento dell'ordine sociale (Schafer 1968: 152; Wallace 1998: 12). Inizialmente, sul finire degli anni sessanta, Schafer ritenne superflua ed addirittura inutile l'elaborazione di una tipologia di vittime ritenendolo un lavoro speculativo, oppure un insieme di osservazioni superficiali e non strutturate (Schafer 1968: 49; 1977: 45). Egli riprendeva la critica di Schneider a tutte le tipologie di vittime innanzi esaminate, di Mendelsohn, von Hentig, Fattah e così via. In esse si sarebbe riscontrata l'assenza di una concreta base empirica ed analitica dei fattori considerati (Schneider 1975). Successivamente Schafer elaborò una propria tipologia pur riconoscendo che, owiamente, il comportamento umano non può essere etichettato e classificato in categorie nette, sicché tutte le tipologie e le classificazioni necessariamente hanno un fondo più o meno arbitrario ed euristico (Schafer 1977: 44). Egli riteneva che quindi una tipologia poteva avere una utilità innanzitutto se era chiaramente riferita ad un modello teorico, ad una ipotesi articolata di spiegazione della relazione criminale-vittima. In secondo luogo, doveva essere almeno descrittiva della riscontrabile realtà delle forme comuni ad un largo numero di crimini, delle caratteristiche degli autori di reato, delle vittime e delle relazioni criminali-vittime. Infine, doveva essere strumentale all'attribuzione di responsabilità ad entrambi i partecipanti della relazione criminale-vittima. Pertanto, basandosi sull'idea di chi è responsabile, per quale comportamento e in quali limiti può essere considerato responsabile, egli propose la sua tipologia che ruota sul concetto di responsabilità della vittima nel senso ope!ativo e funzionale prima descritto, cioè di prevenzione della propria vittimizzazione (Schafer 1977: 45).
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La tipologia della responsabilità condivisa. Si tratta delle vittime che non hanno alcuna responsabilità proprio perché in nessun modo hanno provocato, istigato od altrimenti facilitato il comportamento criminale commesso nei loro confronti. Secondo Schafer, infatti, le statistiche criminali indicavano che un rilevante numero di crimini poteva considerarsi un univoco atto decisionale poiché il criminale aveva agito in violazione delle proibizioni della legge penale, senza che avesse alcun peso la sua relazione con la vittima o le caratteristiche di quest'ultima. Un esempio è dato dal direttore di banca che non ha alcuna relazione con il rapinatore. Questa ed altre vittime sono selezionate esclusivamente su base casuale o su elementi situazionali. Corrispondentemente il criminale è pienamente l'esclusivo responsabile. 2) ½'ttime provocatrici. - Si tratta di coloro che hanno agito in qualche modo contro l'offensore il quale, conseguentemente, è stato istigato od incitato a vittimizzare la vittima stessa. È bene sottolineare che Schafer per comportamento provocatorio non intende necessariamente una azione criminale, e cioè qualcuno che aggredisce e rimane vittima della reazione di difesa altrui, ma anche atti semplicemente immorali o comunque provocatori nel senso più lato come la rottura di una promessa o l'avere un amore clandestino pur essendo coniugati o fidanzati. In questo caso egli ritiene che la responsabilità è pesantemente condivisa tra la vittima ed il criminale, la prima avendo mancato di prevenire diligentemente la propria vittimizzazione. 3) Vittime catalizzatrici (precipitative). - Si tratta delle vittime che non hanno commesso nulla specificamente contro il criminale ma hanno tenuto un comportamento imprudente o negligente che ha istigato o fatto cadere in tentazione o attratto il criminale nei loro confronti. Tipicamente il caso di coloro che camminano da soli di notte in un luogo deserto che, ovviamente, creano una condizione facilitante e favorente una eventuale rapina soprattutto se si tratta di luogo prossimo ad aree ad alto tasso delinquenziale. Vi è una evidente sinergia tra le caratteristiche della personalità del criminale, che manca di inadeguato controìlo dei propri istinti e di una adeguata socializzazione, con i caratteri del comportamento della vittima suscettibili di spingerlo a commettere il crimine. In questo caso la vittima condivide solo parzialmente una piccola parte di responsabilità per non aver ponderato accuratamente il rischio. 1) ½"ttime che non hanno alcuna relazione con il criminale. -
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4) Le vittime biologicamente deboli. - Questa categoria include le vittime che abbiano una costituzione fisica o mentale tale da far nascere nel criminale l'idea di agire per le minori capacità di difesa. Corrisponde alle già abbondantemente esaminate categorie dei minori, degli anziani, delle donne e dei disabili e così via, elaborate da von Hentig e F attah seppure da prospettive diverse. Ci si potrebbe chiedere come mai Schafer configura questa categoria a parte rispetto alle vittime che non hanno alcuna relazione con il criminale. In entrambi i casi si tratta effettivamente di vittime che non hanno alcuna responsabilità poiché le caratteristiche delle vittime biologicamente deboli è vero che catalizzano il comportamento criminale, ma ovviamente si tratta di fattori fuori dal controllo della vittima. In questo caso Schafer riteneva che la responsabilità condivisa con quella del criminale, non sia della vittima individualmente ma della società o dei suoi governanti, per non provvedere alle necessarie cautele e protezioni per tali vittime, parzialmente o totalmente senza difesa per la loro vulnerabilità. Si tratta ovviamente di una categoria che può essere alquanto criticabile. La responsabilità sociale condivisa con il criminale ipotizzata da Schafer effettivamente è uno sviluppo dell'idea di base introdotta dalla scuola positiva e che tutt'ora, in realtà, pervade l'ideologia penale e la criminologia clinica. Si ricorda, infatti, che la scuola positiva assestò un notevole colpo all'idea del libero arbitrio, affermando che l'uomo non è completamente libero nell'autodeterminarsi ma è condizionato da fattori biologici, psicologici e sociali. Ciò porta all'idea di fondo che l'uomo criminale non sarebbe completamente responsabile delle sue azioni poiché responsabile del comportamento criminale sarebbe anche genericamente appunto, come indicato da Schafer, la "società" od il potere politico per non aver rimosso i fattori quantomeno sociali che spingono l'uomo al crimine. Schafer dà una versione vittimologica di questa idea di fondo, per cui la "società" sarebbe responsabile degli atti criminali per non predisporre adeguati mezzi di difesa sociale delle categorie maggiormente vulnerabili per fattori, ad esempio, di debolezza biologica o, come sarà esposto nelle successive fategorie, di natura sociale. 5) Vittime socialmente deboli. - Sono coloro che non rivestono lo status ed il ruolo di membri a pieno titolo della comunità, con parole moderne, si tratta di coloro che vivono situazioni di disagio e marginalità. È una riproposizione delle categorie già note di von Hentig degli immigrati, delle minoranze etniche e religiose e così via. Come preannunciato, anche esse sono da considerarsi quasi sempre
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prive di qualsiasi responsabilità. La responsabilità deve essere invece pesantemente condivisa dal criminale e dalla "società" che è responsabile per il pregiudizio nei loro confronti. 6) Vittime autovittimizzanti. - Si tratta delle vittime che commettono atti autodistruttivi ed autolè.ionistici. In esse si fonde il ruolo di vittima e criminale contemporaneamente. Il riferimento di Schafer è ai cosiddetti « crimini senza vittime » come la tossicodipendenza, l'alcolismo, l'omosessualità, il gioco d'azzardo. In questa ipotesi, la vittima vittimizza se stessa o gli interessi della società e così per Schafer è un « criminale vittimizzato» (1977: 47). Ne consegue che la responsabilità in tal caso non è condivisa poiché l'ipdividuo gioca il doppio ruolo contemporaneamente della vittima e del criminale e quindi da attribuirsi interamente ed in via esclusiva a tale individuo criminale-vittima. 7) Vittime politiche. - In tale categoria sono rappresentate le vittime che sono vittimizzate perché oppositori politici. Si deve chiarire che, ovviamente, per definizione il potere socio-politico che stabilisce appunto le regole sociali e le norme penali non vittimizza ovviamente coloro che violano le sue prescrizioni, anche quando ciò avviene per un motivo di opposizione politica. Il potere dominante, i suoi sostenitori o chiunque nel corso della lotta per una posizione di potere, può cercare di costruire, enfatizzare qualsiasi errore o violazione per il fine di rendere « un criminale » l'oppositore politico il quale, in ultima analisi, deve essere considerato in questo senso una « vittima politica». Sebbene da un punto di vista formalistico e giuridico, tale vittima politica debba essere qualificata come un criminale, da una prospettiva morale dovrebbe essere classificata come una vittima che non ha alcuna responsabilità sociologica (Schafer 1977). Il punto debole della tipologia di Schafer, come è facile rendersi conto, è soprattutto con riguardo alla responsabilità condivisa da parte della "società". Si tratta, infatti, di un soggetto alquanto indistinto e confuso, al punto che il concetto stesso di responsabilità perde una utilità pratica, diventando proprio quella mera speculazione teorica che Sc~fer riteneva censurabile nelle tipologie di vittime. In secondo luogo non si accorge di introdurre una accezione di responsabilità che nei fatti non spiega e non chiarisce. La sua responsabilità funzionale è uno strumento di controllo sociale nei confronti degli individui che compongono la società. All'interno della società vi sono dei meccanismi che attribuendo la responsabilità in relazione ad un determinato comportamento lo rendono illegittimo o legittimo, e dunque disfun-
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zionale o funzionale al mantenimento dell'ordine sociale. Nell'interazione tra il criminale e la vittima, dunque, si può ipotizzare, nell' ambito della generale responsabilità funzionale dell'uomo, una responsabilità funzionale del criminale i cui meccanismi lo dovrebbero portare ad astenersi dal comportamento illegittimo ed una responsabilità funzionale della vittima i cui meccanismi dovrebbero portarla a prevenire la propria vittimizzazione. Il biasimo e conseguente attribuzione di responsabilità che colpisce una vittima per aver attraversato un luogo deserto in piena notte, in un'area ad alto tasso delinquenziale, in altre parole per Schafer, svolge una funzione analoga e simmetrica al biasimo e conseguente attribuzione di responsabilità che colpisce il criminale per l'atto illecito compiuto. Sin qui il modello teorico della responsabilità condivisa è coerente e farebbe parte, appunto, dei meccanismi del controllo sociale. Egli non spiega, però, la responsabilità funzionale della "società", né come essa si inserisce in questo schema. Nella sua tipologia, pertanto, si serve di un elemento in più rispetto al modello teorico di base che resta oscuro e non coerente con l'impostazione di fondo. Comunque la sua tipologia e l'idea della responsabilità condivisa è importante perché è un approccio che è stato poi sviluppato anche sulla base di studi empirici microsociologici e che continua a suscitare un notevole dibattito in vittimologia sino ai giorni nostri, come sarà illustrato nell'immediato prosieguo.
6. LA VITIIMA CATALIZZATRICE
6.1. I primi studi empirici microsociologici. - 6.2. L'evidenza empirica della « precipitazione vittimale ». - 6.2.1. La precipitazione omicidiaria (Wolfgang). - 6.2.2. Innocenza e colpevolezza nel crimine di stupro (Amir).
6.1.
I primi studi empirici microsociologici.
La prima vittimologia, e cioè l'approccio inaugurato da Wertham, von Hentig, Mendelsohn, Schafer, fu caratterizzata soprattutto da uno sforzo teorico. Le tipologie di vittime che furono elaborate cercavano proprio di delineare e comporre uno schema che evidenziasse i caratteri dell'interazione della diade criminale-vittima, ed il ruolo causale nella genesi del crimine giocato dalla vittima. In tale pionieristico periodo, come evidenziato dallo stesso Schafer (1968) sostanzialmente le tipologie di vittime erano tratte dai casi, da fattispecie particolari, sulla base di quelle che egli stesso qualificò « osservazioni non strutturate ». Si trattò comunque di un processo teorico che induttivamente dall'osservazione della realtà quotidiana della vittimizzazione evidenziò due ruoli fondamentali della vittima: uno motivazionale derivante dalle caratteristiche fisiche, psicologiche e sociali della vittima; un secondo, funzionale, che guardava maggiormente al comportamento della vittima nella situazione concreta (Fattah 2000). La vittima svolgi un ruolo motivazionale perché le sue caratteristiche possono attrarre, istigare, incitare, eccitare il criminale, e così portarlo al passaggio all'atto nei confronti di una determinata vittima. La vittima svolge un ruolo funzionale perché il suo comportamento può provocare, facilitare, favorire, agire « da grilletto», attivare od altrimenti essere partecipativo o cooperativo (Fattah 1991; 2000). In questo ultimo caso si può dire che il comportamento della vittima« catalizza » l'atto criminale, poiché contribuisce all'interazione tra i due partecipanti, il reo e la vittima, accelerando, scatenando owero fa-
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cendo precipitare una catena di reciproche azioni e reazioni fino al-
i' evento finale, l'esito criminale. Negli anni tra il finire degli anni cinquanta e la metà degli anni settanta vi fu un notevole impulso a numerosi studi empirici che cercarono conferma all'effetto catalizzatore del comportamento della vittima del crimine, analizzando la dinamica concreta e le modalità di specifici crimini (Fattah 2000), come, in particolare, l'omicidio (Wolfgang 1958; Fattah 1971), lo stupro (Amir 1971), la rapina ed il furto (Normandeau 1968), lesioni aggravate (Pittman-Handy 1964; Curtis 1974b), truffa (Padowetz 1954), estorsione ricattatoria (Hepworth 1975) fra gli altri. Ciò ha fornito una base empirica all'approccio della responsabilità condivisa, riflesso nelle due tipologie di Mendelsohn e di Schafer, approfondendo l'interazione tra il criminale e la vittima da una prospettiva di azione e reazione reciproca. Queste ricerche microsociologiche erano dirette a verificare l'assunto, intuito ma non sviluppato adeguatamente sul piano teorico né provato sul piano empirico da von Hentig stesso, secondo cui il crimine era costituito da una mutuale interazione e reciproca influenza tra il criminale e la vittima. Ciò poiché questa in molte ipotesi è come se lo inducesse in « tentazione » con il suo comportamento (von Hentig 1941: 303; Karmen 2004: 101). Egli però, poi, aveva sviluppato maggiormente il contributo « passivo » della vittima e cioè le caratteristiche, fisiche, psicologiche, sociali che potevano « attrarre » il criminale, ma per le quali la vittima non poteva condividere alcuna responsabilità essendo al di fuori del suo controllo. Solo qualche figura della sua tipologia, come il « torm~tatore », cercava di illustrare la mutua interazione che nella situazione concreta dava luogo al delitto a causa di un comportamento della vittima, e cioè di un suo contributo « attivo ». I ricercatori che poi tentarono di dare conforto empirico a tale intuizione, hanno cercato di precisare la nozione di contributo della vittima alla causazione del crimine, sia dal punto di vista teorico che operativo nella raccolta e classificazione dei dati (Joutsen 1987: 74). La vittima catalizzatrice, e cioè che con il suo comportamento attivo in qualche modo catalizza l'azione del criminale, attivandola ed accelerandola, favorendola e facilitandola sino a provocarla, deve essere correttamente distinta in due differenti tipologie. Secondo quello che era già l'insegnamento di Sparks (1982), le modalità con le quali un soggetto può contribuire alla propria vittimizzazione si differenziano come segue (Bandini et al. 2004: 514): precipitazione (victim precipitation). - Il comportamento della
La vittima catalizzatrice
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vittima incoraggia notevolmente il comportamento del delinquente. Il comportamento della vittima direttamente attiva, istiga od altrimenti induce il criminale ad agire. La provocazione deve considerarsi inclusa nel concetto di precipitazione, ma da essa tenuta distinta per il grado di intensità e per il maggior contributo causale alla propria vittimizzazione. La semplice precipitazione, infatti, può consistere nell'attivare un litigio, uno scontro verbale, nell'accusare altri di infedeltà, nell' attivare una discussione su debiti di denaro, e così via. La provocazione, invece, è più grave e comporta anche una maggiore responsabilità della vittima poiché in questo caso vi è una intensa istigazione attraverso una aperta sfida allo scontro fisico, una esacerbazione di un litigio attraverso offese sempre più sanguinose ali' altrui onore, fino ad iniziare essa stessa l'interazione con un atto violento. In questi casi chi poi risulterà vittima, sarà in un certo senso vittima della sua stessa aggressività e violenza che ha portato ad una reazione, poi risultata vincente, da parte dell'aggredito. Per questo, sebbene precipitazione e provocazione siano usate in modo quasi interscambiabile, è bene tenerle distinte anche per la diversa attribuzione di responsabilità che generalmente viene percepita in conseguenza. È generalmente considerata meno responsabile la vittima che semplicemente « precipita » il reato rispetto alla vittima che, invece, consapevolmente istiga e provoca il reato stesso, sino ai casi in cui risulta vittima della reazione di difesa altrui (Karmen 2004: 104). La precipitazione è applicata come strumento operativo, di raccolta e valutazione dei dati in quei crimini che comportano una interazione faccia a faccia, come l'omicidio, la rapina, l'aggressione e lo stupro (Karmen 2004), ed in cui la violenza è l'elemento caratterizzante. Alcuni (Meadows 2004: 22) distinguono tra una precipitazione attiva, nella quale la vittima provoca uno scontro violento o usa parole che causano un confronto fisico con altri, da una passiva in cui l'istigazione non è voluta. L'esempio di vittima precipitante passiva è dato da colui che ha una relazione con un partner sposato senza saperlo e rimane vittima dell'azione violenta, fino al1' eventuale omicidio da parte del coniuge tradito in una situazione in cui viene scoperto il loro rapporto (Meadows 2004); facilitazione (victim /acilitation). - La vittima si assume il rischio della commissione del crimine nei suoi confronti con un comportamento negligente, imprudente, deliberatamente od inconsciamente. La vittima crea, in altre parole, le migliori opportunità, le condizioni ottimali per la commissione del crimine, generalmente perché diminuisce le probabilità che il crimine sia impedito, che il delinquente sia
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catturato e punito. In questi casi la vittima favorisce il crimine perché il suo comportamento implica una diminuzione del rischio « repressivo » per il criminale. Naturalmente è bene osservare che la vittima che facilita il reato è una vittima che, come abbiamo detto, « catalizza » il reato in senso solo metaforico. Karmen ha infatti osservato che la facilitazione è più che una sostanza catalizzatrice in una reazione chimica, la quale, dati i giusti ingredienti e condizioni, accelera l'interazione (2004: 102). Non solo semplicemente accelera il passaggio all'atto da parte del criminale, ma lo attrae. I comportamenti facilitanti sono riferiti ai crimini di furto, nelle sue varie forme, d'auto, in appartamento, borseggio, ecc .. Il comportamento imprudente o negligente della vittima consiste nel lasciare il bene sostanzialmente indifeso ed a disposizione del criminale, owero nel mancare di adottare tutte le cautele necessarie od idonee in relazione alle circostanze. Il caso classico è l'automobilista che lascia in seconda fila l'auto, con le chiavi nel quadro per comprare delle sigarette nel tabaccaio dinanzi al quale ha lasciato l'auto medesima, nell'erronea convinzione di impiegarci solo pochi minuti e che nel frattempo sia improbabile un'azione criminosa. Un altro esempio emblematico è lasciare la porta del proprio appartamento aperta, come avviene in alcune realtà rurali a basso tasso di criminalità, oppure nell'attraversare una zona buia ed isolata dove notoriamente awengano rapine oppure, ancora, nel lasciare incustoditi i propri bagagli nell'atrio di una stazione affollata anche solo per pochi attimi, e così via. In definitiva, si tratta di persone che non agiscono con il ragionevole comportamento autoprotettiva nei confronti dei propri beni, come denaro, gioielli ed altri valori, mobili od immobili, così creando una sorta di « opportunità tentatrice», una situazione che ha l'effetto di incitare e favorire l'azione criminale (Fooner 1966: 1080; Silverman 1973).
6.2.
L'evidenza empirica della « precipitazione vittimale ».
Si esamineranno i due studi empirici compiuti utilizzando lo strumento operativo di raccolta, analisi e valutazione dei dati costituito dal concetto di « precipitazione vittimale » (victim precipitation) appena illustrato. Owiamente, ad essi seguirono numerosi altri studi che hanno adottato lo stesso tipo di approccio ma l'importanza di Wolfgang ed Arnir, oltre al fatto di essere i primi, è data dal grande dibat-
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tito che ne è sorto e che continua tutt'oggi come uno dei temi centrali della vittimologia. Il problema nasce dal significato che talora è stato attribuito ali' evidenza empirica della precipitazione del reato da parte della vittima. Dall'affermazione secondo cui la vittima contribuisce con il suo comportamento a causare il reato, a colpevolizzare la vittima ritenendo che venga a condividere la responsabilità del crimine, il passo è breve. Già Mendelsohn e Schafer avevano fondato le proprie tipologie di vittime su di un giudizio morale del contributo della vittima alla causazione del crimine con una gradazione da una vittima completamente innocente, fino ad una vittima assolutamente colpevole. Non sorprende, pertanto, che la valenza, la funzionalità del concetto di precipitazione e facilitazione, e del collegato schema di responsabilità condivisa, sia poi stato fino ad oggi un tema fondamentale. La possibile colpevolizzazione della vittima può avere un effetto ed una influenza a livello sociale nell'impostazione delle politiche di controllo sociale, dei processi di definizione legale e formale dei crimini, delle politiche di aiuto, assistenza, indennizzo delle vittime dei reati. 6.2.1.
La precipitazione omicidiaria (Wolfgang).
La prima ricerca empirica sulla precipitazione della vittima fu condotta da Wolfgang in relazione ai reati di omicidio commessi nella città di Philadelphia in un periodo compreso tra il 1° gennaio 1948 e il 31 dicembre 1952 (Wolfgang 1957; 1959; 1974). Egli raccolse i dati inerenti 588 casi di omicidio attraverso i rapporti della squadra omicidi del Dipartimento di Polizia di Philadelphia, analizzando e classificando le informazioni ed i dettagli conosciuti sulla relazione tra il criminale e la vittima, nonché sulle modalità dell'omicidio. Egli divise in due gruppi tutti i casi di omicidi analizzati, quelli caratterizzati dalla precipitazione della vittima, e cioè nei quali la vittima aveva contribuito in modo diretto, immediato e positivo alla sua morte, manifestata dal fatto di aver per prima compiuto un attacco fisico (Wolfgang 1957; 1958; 1974: 90) e tutti gli altri in cui tale contributo era assente. In questo modo egli identificò 150 casi in cui era possibile rilevare la precipitazione, e poi comparò alcune caratteristiche dei due gruppi e cioè la razza, il sesso delle vittime e degli autori, la significatività del consumo di alcool, i precedenti giudiziari della vittima. Per selezionare i casi considerati di precipitazione vittimale egli usò una definizione
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operativa divenuta molto nota: si ha precipitazione quando la vittima « è stata la prima nel dramma dell'omicidio ad usare la forza fisica di-
rettamente contro colui che successivamente ne provocherà la morte... », o « ... mostrando per prima ed usando un'arma mortale, o tirando un colpo durante un alterco » od essendo comunque « la prima ad iniziare l'interazione del ricorso alla violenza fisica» nel corso di una disputa per qualsiasi motivo determinata (Wolfgang 1958: 252; Fattah 1979: 202; Walklate 1989: 3; Doerner-Lab 2002: 10; Karmen 2004: 104; Joutsen 1987: 75). L'elemento discriminante della definizione, che consente di distinguere un omicidio precipitato dalla vittima da uno che non lo è, è sufficientemente obiettivo. Esso è infatti basato sul primo uso della forza ovvero della violenza fisica, a mano armata o meno, da parte della vittima nell'interazione faccia a faccia che si sta svolgendo tra il criminale e la vittima (Joutsen 1987). Una critica che è stata rivolta al concetto operativo di Wolfgang ed al suo studio riguarda solo il fatto che Wolfgang ha utilizzato i rapporti della polizia come fonte dei dati raccolti che naturalmente non sempre rivelano l'esatto e veritiero svolgimento dei fatti. Altresì è stato anche notato che l'omicidio ed altri atti criminali violenti, possono essere istigati dalla vittima e dunque così « precipitati » non solo dal primo uso della violenza fisica, ma anche da comportamenti reiterati nel tempo di « crudeltà mentale», e cioè di violenza psicologica (Joutsen 1987: 75). In altre parole l'obiezione è che Wolfgang non abbia tenuto conto della figura di vittima che grosso modo corrisponde alla categoria del « tormentatore » di von Hentig. Obiezione che non si può condividere perché nel caso della violenza psicologica reiterata nel tempo diviene difficile, da un punto di vista operativo, valutare l'effettivo nesso di causalità tra il comportamento della vittima e l'aggressione finale, ed eventualmente l'omicidio del tormentatore da parte di chi è tormentato. L'analisi di Wolfgang tenta di mettere a fuoco, nella situazione concreta, i comportamenti che possono definirsi di precipitazione perché direttamente correlati alla reazione di colui che poi provocherà la morte della vittima. Considerare « precipitatorio » il comportamento di tirar fuori un coltello durante un litigio da parte di colui che invece poi, nonostante l'arma, sarà sopraffatto ed ucciso dall'altro contendente, non pone problemi di causalità. Il nesso è immediato e diretto nella situazione concreta. Un concetto di precipitazione allargato alla violenza psicologica diventerebbe dai contorni troppo confusi per poter essere valido operativamente da un
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punto di vista empirico. Occorrerebbe, infatti, anche definire ciò che può intendersi per violenza psicologica, e comunque entrerebbero altre variabili in gioco, diverse dalla relazione vittima-aggressore, ad esempio potrebbero aggravare gli effetti della violenza psicologica condizioni di disagio familiare, lavorativo, sociale, sicché l'aggressione finale od anche l'omicidio potrebbero essere ricondotti non solo al comportamento della vittima, ma anche ad altri fattori concorrenti. La precipitazione non sarebbe pertanto isolabile facilmente come fattore causale del crimine da altri. Il fine di Wolfgang è invece, appunto, di isolare la precipitazione come fattore del crimine tentando di verificarne l'evidenza empirica. Wolfgang identificò una serie di differenze statisticamente significanti tra gli omicidi precipitati dalla vittima e quelli in cui la stessa non aveva in alcun modo provocato od istigato il suo aggressore. Al di là delle differenze che possono essere collegate alla razza, al sesso, rivestono maggiore interesse quelle inerenti la relazione tra il criminale e la vittima. Ad esempio, Wolfgang rilevò che l'omicida e la vittima hanno di solito una precedente stretta relazione interpersonale come il coniugio ovvero comunque un legame sentimentale, l'essere membri della stessa famiglia spesso conviventi, od amici intimi o quantomeno conoscenti. In altre parole, negli omicidi precipitati dalla vittima è più probabile morire per le mani di qualcuno che si conosce piuttosto che dell'azione di un completo estraneo (Doerner-Lab 2002: 10). L'altro dato degno di menzione è che l'atto omicida è spesso il prodotto di una piccola e futile disputa che degenera in misura esponenziale attraverso una sequenza di stadi, una serie di transazioni (Karmen 2004: 105) che accentuano la conflittualità sia in breve tempo, sia come risultato di un confronto durato maggiormente nel tempo (Doerner-Lab 2002). Generalmente il limitato iniziale incidente può essere anche semplicemente un affronto personale, anche minore come un gesto od un'ingiuria neppure grave, oppure un disaccordo per futili motivi, ma poi il confronto si accende di toni sempre più violenti in misura esponenziale, conducendo all'azione omicida. Infine, un altro elemento, sebbene non connesso alla relazione tra la vittima ed il criminale, è il fattore maggiormente presente negli omicidi precipitati dalla vittima, individuato nel consumo di alcool da parte di quest'ultima. Naturalmente, l'influenza di tale fattore può avere molteplici spiegazioni come ad esempio che le persone in uno stato di intossicazione media od acuta, tendono a perdere le loro inibizioni ed a vocalizzare i loro sentimenti troppo prontamente (Doerner-Lab 2002: 10). Ancora, in de-
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terminate situazioni lo stato di intossicazione può condurre ad essere particolarmente bellicosi ed a provocare senza necessità gli altri, come pure la vittima in stato di intossicazione potrebbe avere le proprie abilità fisiche diminuite avendo così meno probabilità di risultare vincente nello scontro fisico. Wolfgang, comunque, riscontrò 150 su 588 casi riconducibili alla precipitazione della vittima (1957; 1958), e cioè all'incirca il 26%. Ciò dimostrò anche una scollatura tra la percezione sociale della vittima di omicidio e la realtà empirica. Normalmente, la vittima è vista, infatti, come un individuo debole e passivo che cerca di evitare la situazione di confronto, di sfuggirla, e dall'altro lato l'omicida è percepito secondo lo stereotipo di una persona brutale, forte ed oltremodo aggressiva che cerca lo scontro con la vittima. Ciò non corrisponde alla realtà dei fatti poiché una vittima di omicidio su quattro, secondo lo studio di Wolfgang (1958: 265), è ricorsa per prima alla violenza fisica aggredendo colui che, solo successivamente, diventerà il suo omicida. La conclusione che quindi si è indotti a trarre è la negazione dello stereotipo della vittima innocente, del lupo e dell'agnello presente nella comune percezione sociale dell'omicidio. Entrambi invece partecipano a quella che può chiamarsi una comune « sottocultura della violenza» (Curtis 1974b; Wolfgang-Ferracuti 1967; Karmen 2004: 105). La vittima non è dunque tendenzialmente diversa, da un punto di vista fisico, psicologico e sociale, nella dinamica dell'omicidio, dal suo aggressore. Per tale motivo si può dire che Wolfgang non solo tentò di dare un riscontro empirico al contributo della vittima nella causazione del crimine ma aprì la porta ad una sua possibile « colpevolizzazione », attribuzione appunto di responsabilità condivisa, di biasimo per il comportamento precipitante l'azione criminale nei suoi confronti. 6.2.2.
Innocenza e colpevolezza nel crimine di stupro (Amir).
Il primo e più controverso studio empirico sulla precipitazione della vittima nel reato di stupro è stato svolto da Menachem Amir (1971). Egli utilizzò, sia pure qualche anno più tardi, un metodo simile a quello che Wolfgang aveva adottato per l'omicidio. Da un punto di vista empirico tentò anzi, più esattamente, di riprodurre la ricerca e l'approccio di Wolfgang in relazione al diverso crimine di violenza sessuale. Anch'egli procedette alla raccolta di dati sulla base dei rap-
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porti di polizia sempre in Philadelphia ma nel periodo tra il 1958 ed il 1960 con riferimento ai reati di stupro (Amir 1971). Il suo intento era analogo a quello di Wolfgang e cioè distinguere i crimini registrati in due gruppi, quelli « precipitati » dalla vittima da un lato, e quelli in cui non si poteva riscontrare alcuna « precipitazione ». Per scriminare i crimini in tal modo doveva elaborare, al pari di Wolfgang, un concetto operativo di precipitazione che definisse accuratamente quale comportamento da parte della vittima nel reato di stupro, si potesse ritenere avesse « istigato » o « provocato » il criminale a commetterlo. Da un punto di vista empirico e sociologico, i due crimini hanno infatti una struttura completamente diversa. Il gioco dell'interazione tra le parti assume connotati differenti nello stupro e nell'omicidio, sebbene in entrambi i casi si tratti della manifestazione di un comportamento violento. Egli dovette pertanto adattare il concetto di precipitazione di Wolfgang che nel suo modello è, in certa misura, diverso. Per Amir si ha precipitazione (victim precipitation) nel reato di stupro quando « la vittima effettivamente oppure è stato presunto, abbia acconsentito al rapporto sessuale ma abbia revocato il proprio consenso prima della sua concreta realizzazione o non abbia reagito in modo sufficientemente deciso quando il rapporto sessuale è stato suggerito o proposto dal!' autore del reato. Il termine si applica anche alle situazioni rese rischiose dalla sensualità specialmente quando la vittima usa ciò che potrebbe essere interpretato come linguaggio ed atteggiamenti indecenti~ osceni, o ponga in essere ciò che potrebbe essere considerato un invito ad avere un rapporto sessuale» (Amir 1971: 266; Joutsen 1987: 75; Doerner-Lab 2002: 11). Amir in realtà, come è stato notato (DoernerLab 2002), nelle sue conclusioni andò anche oltre. Commentò i risultati ottenuti sottolineando che il criminale non dovrebbe essere visto come la sola causa e fattore in ragione del crimine commesso, perché la « virtuosa » vittima non è sempre un soggetto del tutto e realmente innocente e passivo. In conseguenza della sua analisi ritenne che il ruolo giocato dalla vittima ed il suo contributo alla commissione del crimine sarebbe diventato uno dei maggiori interessi dell'emergente disciplina della vittimologia (Amir 1971: 275-276; Doerner-Lab 2002: 11). Su questo ebbe certamente ragione poiché il suo studio empirico ha scatenato un dibattito con uno strascico di anche aspre polemiche che si trascina sino ad oggi, nell'ambito della vittimologia. Probabilmente ciò è certamente dovuto al fatto che egli si è occupato di un tema, quello della violenza sessuale, particolarmente sensibile poiché vede il maggior numero di vittime in una categoria, le donne, il cui
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ruolo e peso politico, economico e sociale ha subito notevoli trasformazioni, soprattutto nell'ultimo secolo. La violenza sessuale contro le donne risente, nella sua trattazione, in modo rilevante dell'ideologia di fondo dell'osservatore, del ricercatore. Le donne poi, certamente, ed ancora all'epoca di Amir, erano caratterizzate da un punto di vista sociale, anche a non voler accogliere la prospettiva estremista del movimento femminista, da una posizione e situazione di svantaggio e di disuguaglianza di potere nei diversi settori della vita sociale rispetto al genere maschile. A prescindere, pertanto, dall'approccio femminista ed essendo la maggior parte delle vittime della violenza sessuale di genere femminile, il tema era particolarmente delicato perché la violenza si veniva ad inserire in un sistema già asimmetrico di relazione tra i due sessi e che, di fatto, sembrava diretto dalla categoria dominante nei confronti della categoria dominata. Non è sorprendente che molte delle osservazioni di Amir abbiano generato una serie di critiche, obiezioni e reazioni negative non solo nell'ambito della vittimologia di orientamento femminista. Data la reclamata scientificità del lavoro di Amir ed il suo dichiarato intento, al pari di Wolfgang, di verificare l'evidenza empirica della responsabilità condivisa, il suo studio poteva finire con il sembrare un tentativo di convalida, addirittura accademica e scientifica, di quello che invece è considerato uno stereotipo maschilista della violenza sessuale. Amir quali elementi riscontrati in quelli che egli individuò come crimini precipitati dalla vittima, indicava le azioni seduttive, anche non verbali, poste in essere dalla vittima stessa, come indossare vestiti succinti, oppure verbali, come usare un linguaggio quasi indecente, e finanche lo stile di vita non necessariamente reale ma anche solo supposto dall'autore del reato, come il fatto di avere una« cattiva» reputazione. Secondo Amir questi comportamenti provocavano ed eccitavano l'aggressore al punto che egli semplicemente, poi, fraintendeva ed equivocava gli approcci semplicemente amichevoli o diretti ad un mero «flirt» da parte della vittima. In alcuni caso egli suggerì addirittura che alcune vittime hanno un bisogno inconscio di essere sessualmente controllate e dominate attraverso lo stupro (Amir 1971; Doerner-Lab 2002). Lo stereotipo che stigmatizza e colpevolizza le « provocazioni femminili » secondo un approccio che vede la reazione violenta giustificata da alcuni comportamenti delle donne, proprio come l'uscire da sola di sera, vestire in modo vistoso, ecc., è tuttora riscontrato nella popolazione delle aree urbane, come nell'indagine Urban recentemente svolta (Misiti-Palomba 2002: 44). Il progetto Urban
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e la rete antiviolenza promossa dal Ministero delle Pari Opportunità in collaborazione con il Ministero delle Infrastrutture ed i Trasporti, ha coinvolto diverse città a partire da Venezia quale comune capofila, proprio nel tentativo di individuare, fra gli altri obiettivi, con la ricerca svolta gli stereotipi più radicati e che conducono ad una legittimazione culturale della violenza. Il modello di interpretazione « colpevolista » della violenza contro le donne e che ne individua la causa nella diffusione di alcuni comportamenti provocatori, porta, infatti, ad una deresponsabilizzazione e ad una giustificazione del comportamento violento. Anche lo stereotipo della donna vittima e dell'uomo violento si ritiene incida sulla propensione al comportamento violento od alla sua accettazione. È bene considerare, infatti, che l'immagine dei protagonisti dell'episodio violento è uno stereotipo che influenza profondamente anche gli operatori del controllo sociale istituzionali, polizia, servizi, giudici, ecc .. La violenza non solo viene connessa ad una certa tipologia di donne, quelle più vistose, attraenti o provocanti ma anche il modo in cui la vittima della violenza sessuale reagisce durante l'atto violento, ed addirittura in questo caso il suo comportamento può, se di attiva difesa o meno, portare a definire l'episodio come violenza o no (Misiti-Palomba 2002: 51-52). È facile avvedersi che il concetto di precipitazione di Amir ricalca tutti gli stereotipi più negativi e giustificativi del comportamento violento nei confronti delle donne, in particolare sessuale. Stereotipi che si ritiene contribuiscano appunto a favorire la tolleranza, se non addirittura la legittimazione, di taluni comportamenti violenti nella nostra società nei confronti delle donne, influenzando anche gli operatoti del controllo sociale e la loro azione. Invero, una delle maggiori critiche rivolte ad Amir come ad altre definizioni di precipitazione, fu che il comportamento precipitante era basato più sulla prospettiva « attribuzionale » dell'autore, e cioè sulla sua soggettiva e personale interpretazione e percezione del comportamento della vittima, piuttosto che su quella della vittima stessa Q"outsen 1987: 77). L'attribuzione di significato, la percezione e l'interpretazione del comportamento della vittima da parte dell'autore è però cognitivamente distorta perché già la teoria della neutralizzazione di Sykes e Matza (1957) suggeriva che il criminale cerca di ridefinire il suo comportamento come accettabile. Una delle tecniche di neutralizzazione dei suoi sentimenti negativi verso l'atto compiuto, prima del passaggio all'atto stesso, è proprio la giustificazione dell'atto criminale sulla base del comportamento della vittima. Nel senso che egli dice a se stesso che la vittima « merita » ciò che le sta succedendo. Ciò con-
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sente al criminale di evitare di ammettere che ciò che egli sta compiendo è illecito, illegale e biasimevole CToutsen 1987; F attah 1971; 1979; Schneider 1982: 16-18). La definizione operativa di Amir finirebbe con il convalidare la neutralizzazione e l' autogiustificazione del proprio comportamento da parte del criminale. Un'altra serie di obiezioni che sono state solevate nei confronti del concetto di precipitazione di Amir è che esso è molto più nebuloso e soggettivo di quello dello stesso Wolfgang Q"outsen 1987: 76; Silverman 1973 ). Egli usò, infatti, nel definire la precipitazione dei concetti chiave che però sono soggetti ad un significato controverso sul piano ideologico-culturale, ad esempio che cosa può essere interpretato come indecente, o cosa costituisce un invito ad un rapporto sessuale, oppure fino a che punto una reazione si può considerare non sufficientemente« decisa» Goutsen 1987: 76). In comune con Wolfgang, Amir condivideva la critica alla metodologia di raccolta dei dati che era fondata sui rapporti di polizia che costituivano un insieme di informazioni non uniformi ed in cui alcuni elementi variabili erano soggetto all'interpretazione di chi li compilava (Doerner-Lab 2002). Anche la sua osservazione sul fatto che alcune vittime potessero avere un bisogno inconscio di essere sessualmente controllate attraverso lo stupro incontrò severe censure. Amir suggerì che la vittima poteva desiderare lo stupro come un mezzo di ribellione contro certi standard accettati di comportamento da un punto di vista psicologico. In altre parole, alcune donne non potendo essere promisèue o avere lo stesso stile di vita sessuale degli uomini con un maggior numero di partner ed una maggior libertà di rapporti e di comportamenti, sopirebbero i sensi di colpa derivanti da una condotta promiscua, perché il rapporto sessuale nello stupro sarebbe forzato. Da qui il desiderio inconscio di essere stuprate. Al contrario, però, l'aggressore maschile sta rispondendo non ad una interazione sul piano psicologico, ma a codici e segnali sociali provenienti dalla donna. Nonostante, quindi, queste differenti origini dei rispettivi comportamenti Amir non fornisce alcuna giustificazione del perché il comportamento femminile sarebbe influenzato da fattori psicologici, mentre le azioni maschili deriverebbero da variabili sociali (Doerner-Lab 2002: 12).
Parte Terza
LE TEMATICHE
I problemi su cui si conduce la ricerca il modo in cui la ricerca è condotta e le strategie elaborate per raggiungere una soluzione tendono a conservare e rafforzare lo status quo della società ovvero ad indebolirlo. In questo senso la ricerca sociale è inevitabilmente « politica ». (VIANo E.C. 1983)
7. LA MISURAZIONE DELLA VITIIMIZZAZIONE
7.1. L'approccio macrosociologico. - 7.2. Il problema della criminalità nascosta e il rischio differenziale di vittimizzazione. - 7.3. Le inchieste di vittimizzazione. - 7 .3 .1. Le indagini a livello nazionale. - 7 .3 .2. Le indagini a livello internazionale.
7.1.
L'approccio macrosociologico.
Una delle tematiche attuali della vittimologia è la misurazione quantitativa della vittimizzazione in un dato periodo di tempo ed in relazione ad una determinata area. È una tematica abbastanza centrale del corrente dibattito poiché coinvolge il problema, piuttosto controverso, del profilo socio-demografico della vittima del reato. Le caratteristiche personali della vittima come età, sesso, razza, reddito o condizione socio-economica e così via, sono state alla base delle prime classificazioni delle vittime. Determinare se esse siano realmente correlate ad una maggiore o minore vulnerabilità della vittima è essenziale affinché possano diventare degli efficaci indici di previsione e di prevenzione della vittimizzazione. La verifica empirica del « rischio differenziale », cioè la diversa distribuzione del rischio di vittimizzazione nella popolazione in un dato periodo di tempo e con riferimento ad una data area, comporta necessariamente la misurazione quantitativa su larga scala e su basi statistiche della vittimizzazione. Gli studi empirici nei primi anni di sviluppo della vittimologia, ad esempio le citate ricerche divenute particolarmente note per i motivi illustrati, di Wolfgang ed Amir tra gli altri, avevano adottato un approccio microsociologico. Si erano focalizzate solo su specifici e determinati crimini, l'omicidio, lo stupro, il furto, e con riferimento ad un campione particolare e ristretto, non rappresentativo. Da Wolfgang ed Amir furono presi in considerazione, come visto, solo rispettivamente i reati di omicidio e stupro, commessi nella città di Philadelphia
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e registrati dalla polizia in un dato periodo di tempo. Lo stesso loro assunto di base era limitato alla verifica del modello della responsabilità condivisa, secondo il concetto operativo di « precipitazione » del reato da parte della vittima. Si tratta di ricerche non idonee alla verifica empirica del rischio differenziale in ragione di indicatori quali l'età, il sesso, il reddito all'interno di una data popolazione, proprio perché il campione considerato non vuole essere rappresentativo dell'intera popolazione di riferimento. Ciò che si voleva analizzare era solo l'aspetto particolare di un determinato comportamento della vittima nella concreta dinamica del reato, e quale contributo, e con quali modalità, era dato all'interazione con il criminale. Il passaggio dalla micro alla macro-vittimologia si ebbe solo nel decennio successivo quando gli studi individuali delle vittime di crimini specifici furono eclissati dalle indagini di vittimizzazione su larga scala che trasformarono l'approccio microsociologico in macrosociologico (Fattah 2000). L'interesse a sviluppare tale nuovo approccio non fu precipuo della vittimologia ma trovò riscontro anche nel maturare di alcune esigenze di ricerca della criminologia in senso stretto. Per la vittimologia lo scopo primario, infatti, delle indagini macrosociologiche era di determinare sì il volume della vittimizzazione ma soprattutto di identificare con precisione il gruppo delle vittime del crimine, l'andamento della sua distribuzione sociale e spaziale ed infine stabilire le caratteristiche socio-demografiche delle vittime stesse in rapporto al rischio di vittimizzazione, alla loro vulnerabilità (Fattah 2000). Per la criminologia in senso stretto, invece, lo scopo di tali indagini di vittimizzazione era soprattutto diretto allo studio della cosiddetta criminalità « reale », ali' analisi del suo andamento nel tempo e nello spazio, ed a determinare al suo interno la quota di criminalità nascosta, il « numero oscuro ». Interessi diversi ma convergenti, che hanno portato ad un grande sviluppo di tale tipo di indagini tuttora in corso di evoluzione, revisione e tematizzazione.
7 .2.
li problema della criminalità nascosta e il rischio differenziale di vittimi:z:za:zione.
Le cosiddette « inchieste di vittimizzazione » (crime victim surveys - victimization surveys) cominciarono a fiorire a partire dalla seconda metà degli anni sessanta (Glaser 1970; 1974; Bandini et al. 2003: 56). Lo scopo di queste ricerche empiriche su vasta scala, non
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più limitate a campioni non adeguatamente o per nulla rappresentativi della vittimizzazione come fenomeno a livello macro, e cioè di una certa popolazione di riferimento, non era esclusivo, come detto, del paradigma vittimologico. Lo scopo delle inchieste di vittimizzazione (victim surveys) rispondeva anche ad una esigenza propria della criminologia. Già Cressey suggeriva che la teoria criminologica cerca di rispondere a due distinti quesiti: il primo è spiegare come si sono prodotti alcuni casi individuali di crimini peculiari, particolari, per le caratteristiche della personalità del criminale o della vittima. Il secondo quesito è l'epidemiologia del crimine, e cioè l'andamento, la densità, la distribuzione geografica e demografica di vari tipi di crimine (Cressey 1960). Il primo problema di un approccio empirico macrosociologico nello studio del crimine è misurare l'estensione del crimine stesso nella società. Determinare quanti crimini vengono commessi e da chi, in un dato periodo di tempo ed in un certo luogo, quali caratteristiche hanno questi crimini ed i loro autori, è uno dei compiti più importanti della criminologia ed una delle maggiori esigenze della politica criminale (Doerner-Lab 2002: 25; Wallace 1998: 20; Karmen 2004: 43; Ponti 1999: 52; Savona 1993; Van Dijk 2000a; 20006). Vi è stato chi, molto efficacemente, ha ritenuto « la diffusione dei di/ferenti tipi di reato e la distribuzione nel tempo e nello spazio del fenomeno criminale » uno dei più importanti e preliminari quesiti che la ricerca criminologica si pone e si continua a porre (Bandini et al. 1991: 99; 2004). L'osservazione empirica del fenomeno criminale, la rilevazione, la conoscenza e l'interpretazione dei suoi dati quantitativi, come si distribuisce appunto nel tempo e nello spazio, è fondamentale, non solo innanzitutto per semplicemente« descriverlo», per esaminarne le caratteristiche. È fondamentale anche per la verifica delle ipotesi e dei modelli teorici che tentano di spiegarlo ed infine per una miglior valutazione ed elaborazione delle politiche di controllo e di contrasto della criminalità. Ciò lo ha fatto divenire un problema centrale in tutte le branche della criminologia moderna (Weiner-Wolfgang 1987; Bandini et al. 1991: 100; 2003: 34). Lo strumento di indagine tradizionalmente utilizzato per la rilevazione quantitativa della criminalità è stato il metodo statistico, avente lo scopo di descrivere la condotta criminale attraverso le sue manifestazioni, in linea ideale riferite all'intera popolazione (Cremonini 2002: 7). Tendenzialmente, anche da un punto di vista storico, il punto di riferimento è stato costituito dalle statistiche talora definite
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Le tematiche
« di massa» (Ponti 1999) tentando di raccogliere del fatto sociale che si intende osservare quantomeno un numero molto rilevante di casi, e per il crimine ad esempio cercando indicazioni sull'entità della criminalità, sulla sua diffusione geografica, sull'aumento o sulla diminuzione nel tempo e nei luoghi della criminalità globale e per tipologia di reati, sull'amministrazione della giustizia ecc. (ivi, 59). Particolare importanza hanno pertanto assunto le statistiche cosiddette « ufficiali » della criminalità, owero le statistiche giudiziarie che per molto tempo hanno certamente rappresentato, come è stato notato,« l'unico strumento di valutazione quantitativa della criminalità » e « costituirono la base di ogni considerazione sulla di/fusione dei delitti» (Bandini et al. 2003: 35). Le statistiche giudiziarie, infatti, sono relative a tutti i crimini rilevati dalle agenzie istituzionali del controllo sociale formale e cioè denunciati o scoperti, e giudicati e trattati dagli organi e dalle istituzioni preposte: polizia, magistratura, sistema penitenziario. Esse hanno però un limite. Le statistiche giudiziarie consentono di rilevare solo quei crimini che per così dire « entrano in contatto» con il sistema. Solo la criminalità resa visibile al sistema e dunque i crimini denunciati dai cittadini o scoperti autonomamente dagli organi e dalle istituzioni della repressione penale, viene registrata ed emerge attraverso le statistiche ufficiali. Esse sono elaborate sulla base appunto dei dati che provengono dalle forze di polizia, dalla magistratura e da ogni altra agenzia del sistema penale di controllo sociale. Quando si utilizzano le statistiche ufficiali per cercare di osservare l'andamento della criminalità nel tempo o la sua distribuzione geografica, od altre caratteristiche della sua diffusione sociale nel tempo e nello spazio, il più grave limite è costituito dal cosiddetto« numero oscuro» (Ponti 1999: 54). Il numero oscuro è un concetto universalmente noto in criminologia ed esprime proprio il fatto che i dati delle fonti ufficiali non rappresentano l'intera criminalità, tutti i crimini effettivamente commessi nel periodo di tempo o nella area geografica considerata. Il numero oscuro è rappresentato da tutti quei crimini che pur realmente awenuti non sono stati né denunciati, né scoperti, né altrimenti rilevati dal sistema penale. La problematica del differenziale tra criminalità registrata e criminalità reale in realtà è noto sin dall'ottocento, quando iniziarono ad essere elaborate le prime statistiche giudiziarie. Le statistiche giudiziarie od ufficiali non sono state, per questo motivo, giudicate inattendibili o comunque inutili, visto che non descrivevano o rappresentavano la criminalità reale. Si è ritenuto per lungo tempo che il rapporto per ciascun crimine tra il numero dei crimini effettiva-
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mente commessi, la criminalità reale, ed il numero dei crim1m registrati, la criminalità ufficiale fosse pressoché costante. Ciò rendeva « trascurabile », e dunque irrilevante, ai fini delle valutazioni sulla distribuzione e sull'andamento del crimine, la differenza tra i due numeri e cioè il« numero oscuro» (Bandini et al. 2003: 35). Sebbene la criminalità ufficiale fosse quantitativamente inferiore alla criminalità reale, lo era in modo costante e pertanto si stimavano salve le linee di tendenza appunto, l'andamento, la distribuzione della criminalità nel tempo e nello spazio espressa dalle statistiche giudiziarie. Questo assunto è stato successivamente messo in dubbio nascendo l'esigenza di misurare quantitativamente la criminalità « reale » e non solo quella « apparente » registrata nelle statistiche giudiziarie. In Italia, come noto, i dati relativi alla criminalità ufficiale sono periodicamente raccolti, elaborati e pubblicati dall'Istituto Nazionale di Statistica (Istat). Per quanto concerne le stesse statistiche giudiziarie penali, lo stesso Istat distingue due diverse elaborazioni. La prima è la statistica della criminalità. I dati raccolti sono relativi ai fatti costituenti violazione delle leggi penali, cioè ai crimini in senso formale, ovviamente, e oggi sono desunti direttamente dal sistema informativo per la gestione dei procedimenti in funzione presso gli uffici giudiziari 1 . Si deve sottolineare che i dati raccolti sono limitati non solo ai crimini in senso formale, ma anche ai soli crimini per i quali l'autorità giudiziaria abbia iniziato l'azione penale, sebbene tale criterio non sia assunto in modo tecnicamente rigoroso per motivi statistici 2 • Vi è poi quella
1 Si veda la metodologia di raccolta dei dati accuratamente descritta dall'Istat nelle sue pubblicazioni sia annuali, ad esempio Statistiche Giudiziarie Penali, Anno 2001, Annuario n. 10, 2003, Istituto Nazionale di Statistica, Roma, p. 30, sia le analisi longitudinali di lungo periodo, ad esempio La Criminalità in Italia. Dati territoriali, Anni 1993-1998, Informazioni n. 21, 2000, Istituto Nazionale di Statistica, Roma, p. 11. 2 A fini statistici in modo improprio si considera l'azione penale iniziata nel caso di autori ignoti, ipotesi che conduce in realtà ali' archiviazione e non ali' esercizio dell'azione penale, con l'iscrizione del reato nel « registro ignoti». Ciò è dovuto al fatto che quando è ignoto l'autore del reato, in realtà non si dà corso all'azione penale ma il Pubblico Ministero dovrebbe, al termine delle indagini preliminari che non abbiano consentito l'identificazione dell'autore, richiedere l'archiviazione, atto che tecnicamente, di per sé, non è esercizio dell'azione penale. Vi sono però alcuni crimini, per esempio i reati contro la proprietà, per i quali tipicamente nella massima parte dei casi non solo non è noto l'autore, ma non si riesce neppure ad identificarlo nel corso delle indagini. Da un punto di vista statistico, se si assumesse il criterio dell'esercizio
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che viene denominata la statistica della « delittuosità » che differisce da quella ora detta della « criminalità » perché riguarda i crimini denunciati all'autorità giudiziaria dalla Polizia di Stato, dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza, con esclusione delle denunce provenienti da altri pubblici ufficiali e dai privati cittadini (Bandini et al. 2003: 37 ss.). Questi due tipi di statistiche ufficiali della criminalità e della delittuosità non sono raffrontabili, come avverte il medesimo lstat, dato il diverso momento della rilevazione ed il diverso universo di crimini rappresentati. In entrambi i casi, comunque, queste statistiche ufficiali rappresentano, sia pure con criteri diversi, i crimini « processati » dal sistema penale, posti all'attenzione delle forze di polizia e della magistratura. Le inchieste di vittimizzazione sono state elaborate proprio per ovviare all'inconveniente della mancata rilevazione, da parte delle statistiche ufficiali, della criminalità reale. La dimensione della criminalità reale è invece essenziale per una corretta impostazione dell'azione di prevenzione e di repressione dei reati, soprattutto a livello politico nella distribuzione delle risorse disponibili da dedicare alla sicurezza. La stessa sicurezza dei cittadini è diventato un tema centrale del dibattito politico e, conseguentemente, l'individuazione delle più efficaci misure ed interventi di controllo del crimine. Tendenza generalizzata e non limitata all'Italia, ma condivisa sulla scena internazionale. Le statistiche e le fonti ufficiali in genere sulla criminalità, caduta la certezza ottocentesca della trascurabilità del numero oscuro, hanno finito per essere guardate con estremo sospetto non solo dagli studiosi e dai ricercatori in criminologia, ma perfino dagli stessi politici. Van Dijk ha osservato che il sospetto nei confronti delle statistiche può essere sintetizzato dalla « sarcastica », se non proprio « caustica », considerazione attribuita a Sir Winston Churchill secondo cui i politici, quando devono sostenere un progetto od un intervento od una causa, tendono ad usare « menzogne, assolute menzogne e... statistiche» (van Dijk 2000a). Tale giudizio è, ovviamente, troppo severo ed ingiusto essendo comunque le fonti ufficiali della criminalità un utile strumento di valutazione se si è consapevoli dei loro limiti di rilevazione. Dagli anni sessanta in poi ed attualmente, in criminologia si cerca
dell'azione penale in modo rigido, si verrebbero a perdere, e non sarebbero registrati per alcuna fattispecie di reato, un numero estremamente rilevante e non trascurabile di crimini sol perché è ignoto l'autore a causa del meccanismo processuale.
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di misurare quantitativamente la criminalità in tre accezioni (Bandini et al. 2003: 35): - la criminalità « registrata» od «ufficiale». È l'insieme dei fatti corrispondenti alle definizioni legali del crimine, cioè considerati come reati e « processati » dal sistema penale, dunque registrati dalla polizia e dalla magistratura e dagli organi ed agenzie dell'esecuzione penale. Punto di riferimento è costituito dalle statistiche giudiziarie, in Italia elaborate dall'Istat, ed i dati ufficiali raccolti dallo stesso Istituto nel modo succintamente suddescritto; - la criminalità «nascosta» ovvero i crimini che, pur effettivamente commessi ed avvenuti, non sono entrati in alcun modo in « contatto » con le agenzie del controllo sociale formale, non sono stati né conosciuti né registrati dal sistema penale; - la criminalità « reale» e dunque l'insieme totale dei crimini che sono stati effettivamente commessi in uno specifico periodo di tempo ed in un'area determinata. È stato giustamente osservato che occorre essere consapevoli di un'ulteriore limite della criminalità registrata od ufficiale e cioè che essa ricomprende una quota di criminalità che può essere qualificata come «apparente» (Bandini et al. 2003: 35). Alcune denunce da parte di privati cittadini sono in taluni casi frutto di errore, come ad esempio nel caso di furto di portafogli od altro oggetto, in effetti smarrito, o frutto di dolosa simulazione, come ad esempio l'inesistente furto di oggetti da un'auto o dal proprio appartamento al fine di ottenere un rimborso fraudolento dall'assicurazione. Si tratta, comunque, di una percentuale certamente modesta e anche se può essere opportuna una sottodistinzione della criminalità apparente, in « inesistente » e « simulata ». La criminalità inesistente, e cioè il furto di portafogli in realtà smarrito, infatti, compare nella criminalità registrata ma non nella criminalità reale, come risultato della somma della criminalità nascosta e della criminalità registrata e cioè di tutti i crimini effettivamente commessi, e va esclusa. La criminalità «simulata» non compare nella criminalità reale per quanto concerne il reato simulato, e cioè il furto, ma essendo la simulazione di reato un crimine previsto dal nostro ordinamento penale, la simulazione compare, essendo un crimine, nella criminalità reale. Nell'ambito della criminalità reale essa poi comparirà nella criminalità nascosta, se la simulazione non viene né scoperta né denunciata, oppure nella criminalità registrata se la truffa a mezzo della simulazione del furto viene denunciata o scoperta. Effettivamente la simulazione di reato se scoperta o denunciata, da un
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punto di vista statistico, dà luogo ad una doppia rilevazione da parte delle fonti ufficiali. Dà luogo, infatti, prima alla registrazione di un reato in realtà inesistente, e poi alla registrazione della simulazione e dei crimini concorrenti o conseguenti. Appare ragionevole, però, che tale effetto possa essere trascurabile data la modesta incidenza dei casi. Le inchieste od indagini di vittimizzazione sono, in conclusione, per la criminologia decisamente lo strumento che cerca di misurare quantitativamente la criminalità reale quale somma della criminalità nascosta e della criminalità registrata e la differente proporzione tra queste ultime. Tale proporzione è anche detta « indice di occultamento » che esprime, infatti, il rapporto fra i crimini registrati e quelli effettivamente commessi (Ponti 1999: 55). Per la vittimologia il punto di vista è leggermente diverso poiché, come già detto, l'attenzione si focalizza sulle caratteristiche socio-demografiche della vittima e del suo stile di vita in rapporto al crimine, come variabile dell'esposizione al rischio, ad esempio la frequenza con la quale si esce la sera per motivi di lavoro, di studio, di svago. Da questo punto di vista le statistiche ufficiali della criminalità presentavano per la vittimologia limiti ancor più gravi rispetto ai suoi scopi ed obiettivi. Dalle statistiche giudiziarie in Italia come negli altri Paesi, le informazioni che possono essere raccolte ed elaborate sulla vittima, le circostanze della vittimizzazione, il suo contesto ecc., sono molto poche (Doerner-Lab 2002) e conseguentemente estremamente limitati sono gli indicatori proponibili (Cremonini-Foschi 2002: 121). I dati delle statistiche giudiziarie provengono dalle agenzie del controllo sociale, come forze di polizia, magistratura, istituzioni penitenziarie, i cui specifici compiti di controllo e repressione del crimine li portano ad essere maggiormente orientati ad assumere dati inerenti il criminale piuttosto che le vittime del crimine (Doerner-Lab 2002: 27; Guarino 2002: 60). Per cui era ed è frustrato l'obiettivo desiderato di verificare come si distribuiva il rischio di vittimizzazione in rapporto non solo ali' età, al sesso, al reddito ecc. della vittima, ma anche in relazione al suoi atteggiamenti e comportamenti abituali non essendo in alcun modo rilevabili in base alle statistiche giudiziarie od ufficiali in senso lato. La vittimologia era interessata alle statistiche ed alla dimensione macrosociologica della ricerca proprio per determinare l'effettiva probabilità che avessero ji individui in una data popolazione di essere vittimizzati, e verificare le teorie che cercavano di spiegare perché alcuni gruppi di vittime riscontravano maggiori tassi di vittimizzazione
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rispetto ad altri (Karmen 2004). Indagare su larga scala la vittimizzazione, secondo il maggior numero di indicatori possibile, era un problema centrale anche per la vittimologia, cui le statistiche giudiziarie davano una risposta parziale o non la davano per nulla. In realtà, negli Stati Uniti, dove la vittimologia ha conosciuto il suo maggiore sviluppo, in anni recenti si possono menzionare delle statistiche giudiziarie in un certo senso orientate secondo una prospettiva vittimologica. Negli Stati Uniti, infatti, le statistiche giudiziarie sin dal 1930 sono raccolte e pubblicate dal Federa! Bureau o/ Investigation (FBI) in quelli che vengono chiamati Unzform Crime Reports (UCR) (Bandini et al. 2003: 34; Wallace 1998). Nel 1993 è stato raggiunto l'obiettivo di raccogliere ed elaborare i dati giudiziari disponibili, dalle diverse agenzie del controllo sociale, sul crimine nell'intero territorio degli Stati Uniti arrivando a coprire il 95% della popolazione totale. Nel 1990 si è iniziato a raccogliere ed elaborare statisticamente dati sui crimini motivati da ragioni religiose, etniche, razziali od orientamento sessuale (hate crimes), mentre per le restanti categorie di crimini non vi è stato alcun cambiamento (Wallace 1998: 21). I crimini d'odio, essendo connessi alle caratteristiche della vittima, le rendono, pertanto, l'unico esempio di statistiche giudiziarie orientate secondo una prospettiva decisamente vittimologica. Comunque, gli Unzform Crime Reports, al pari delle statistiche giudiziarie penali riportate dall'Istat, presentavano e presentano la stessa inidoneità al raggiungimento di quegli scopi ed obiettivi di ricerca che cominciarono ad apparire sin dai primi anni settanta. Le inchieste di vittimizzazione sono state invece concepite come specifico strumento di ricerca, diretto a soddisfare sia le esigenze della criminologia innanzi evidenziate di studiare la criminalità nascosta ed i reati non registrati, sia le esigenze della vittimologia dirette a determinare il rischio differenziale di vittimizzazione ed il profilo socio-demografico della vittima e la correlazione con il crimine di indicatori, come l'età, il sesso, il reddito e così via della vittima stessa.
7.3. Le inchieste di vittimizzazione. La linea di ricerca inaugurata dalle inchieste di vittimizzazione si basava su di un'idea abbastanza semplice ed efficace. Se le statistiche giudiziarie, e dunque i dati forniti dalle agenzie del controllo sociale, sono inidonei a servire gli scopi prima evidenziati, la soluzione era ri-
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volgersi direttamente alle vittime. Si è cercato, pertanto, nel corso degli anni di elaborare uno strumento alternativo di raccolta di dati sul crimine, fondato su interviste a mezzo di questionari strutturati, che venivano somministrati direttamente ai cittadini. Le modalità di somministrazione, e quindi di assunzione delle informazioni, sono variabili, spaziando dall'intervista personale, al questionario inviato per posta e dunque auto-somministrato, all'intervista telefonica 3 (Bandini et al. 2003). Si domandava, pertanto, ai cittadini stessi se avessero subito un reato ed in quali circostanze, cercando di assumere maggiori informazioni possibili. Sin dalle prime inchieste di vittimizzazione, la metodologia di base è rimasta inalterata e fedele all'idea originale di chiedere direttamente ad un campione rappresentativo di popolazione se, con riferimento ad un determinato e recente periodo di tempo, si fosse stati vittime di vari tipi di crimini, le circostanze dell'accadimento e se lo stesso fosse stato o meno denunciato (Glaser 1970; 1974). Ancora oggi, nonostante l'evoluzione intercorsa nell'ultimo trentennio, sono definite indagini di vittimizzazione « le ricerche condotte intervistando un campione rappresentativo di una determinata popolazione al fine di individuare quante tra esse siano state vittime di reato, in un determinato periodo di tempo (ad esempio un anno o tre anni), se abbiano sporto denuncia, nonché al fine di raccogliere informazioni sulla dinamica del fatto (come, quando e dove è avvenuto) e sulle conseguenze che esso ha avuto» 4 (Barbagli 1998). Le inchieste di vittimizzazione consentono di soddisfare gli obiettivi convergenti della criminologia in senso stretto e della vittimologia. Da un lato, come è evidente, consentono di misurare quantitati-
3 Come riferiscono Bandini et al. (2003: 60), già Killias (1987) comparava le diverse tecniche di indagine frequentemente utilizzate nelle inchieste di vittimizzazione, desumendo che il miglior sistema era da ritenersi l'intervista telefonica computerizzata. Altresì, per una esauriente e completa indicazione sinottica delle statistiche ufficiali disponibili, anche a livello internazionale, e delle fonti bibliografiche a disposizione anche per via telematica a mezzo internet, si vedano Bandini et al. (2004), tomo Il, cap. I, par. IV, nonché Foschi e Cremonini (2002). Per l'illustrazione, invece, dell'andamento e della distribuzione della criminalità, una buona sintesi e lettura anche longitudinale, sempre con uno sguardo ai dati disponibili a livello internazionale, si vedano sempre Bandini et al. (2004), tomo II, cap. IV, nonché è utile consultare Barbagli (2003), con riferimento al rapporto dell'Istituto Cattaneo sulla criminalità in Italia. 4 Concordano con tale definizione, infatti, anche Bandini et al. (2003) così citandola nel testo.
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vamente la criminalità « reale » grazie al fatto che viene domandato direttamente ad un campione rappresentativo di popolazione di quali e quanti crimini si è rimasti vittime in un dato periodo di tempo (sei mesi, un anno, tre anni), ovviamente anteriore al momento dell'intervista. Si ottiene però, anche, una misura quantitativa della criminalità « nascosta », dunque una misura del cosiddetto « numero oscuro » per differenza. Nell'intervista viene anche chiesto se coloro che hanno subito un crimine lo hanno poi denunciato alla polizia. Ciò consente di dedurre la quota dei crimini registrati rispetto ai crimini rilevati. Le inchieste di vittimizzazione in realtà non sono uno strumento di misurazione semplicemente della criminalità nascosta ma uno strumento che permette di misurare quantitativamente, simultaneamente, la criminalità reale, quella « ufficiale », ovvero denunciata alla polizia, ed il numero oscuro. Le inchieste di vittimizzazione, a ben vedere, non integrano affatto le statistiche ufficiali o giudiziarie, ma si affiancano ad esse come strumento autonomo di misurazione della criminalità. I dati ottenuti con le inchieste di vittimizzazione non sono, infatti, direttamente raffrontabili con i dati delle statistiche giudiziarie, sia per il diverso momento di rilevazione, sia per l'eterogeneità delle diverse definizioni di reati, sia per la diversa metodologia utilizzata (Muratore et al. 2004). Si possono confrontare solo le tendenze sul lungo periodo dell'andamento della criminalità che sono desumibili dai due diversi strumenti di rilevazione per una migliore verifica dell'impatto delle strategie di prevenzione del crimine (Alvazzi del Frate 2003; Karmen 2004: 59 ss.). 7 .3.1.
Le indagini a livello nazionale.
Le inchieste di vittimizzazione sono state inaugurate negli Stati Uniti, che costituiscono l'area geografica di loro maggior sviluppo ed approfondimento. L'esigenza di procedere ad inchieste di vittimizzazione emerse, infatti, già nella seconda metà degli anni sessanta a livello federale ad opera di una commissione, nominata dal Presidente degli Stati Uniti, di studio sull'amministrazione della giustizia (President's Commission on Law En/orcement and the Administration o/ Justice) che rilevò l'inidoneità delle statistiche ufficiali sulla criminalità, elaborate dalle forze di polizia, a descrivere accuratamente ed efficacemente il fenomeno del crimine (Bandini et al. 2003: 57; Guarino 2002: 60; Doerner-Lab 2002: 30; Karmen 2004). Tale Commissione,
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per owiare a questo problema, autorizzò un certo numero di progetti indipendenti per raccogliere informazioni sulle vittime del crimine (Doerner-Lab 2002) in via del tutto sperimentale. Da questo primo nucleo di studi pilota le inchieste di vittimizzazione sono state ulteriormente raffinate, sotto diversi punti di vista, al fine di migliorarne I' efficacia e l'attendibilità cercando di risolvere diversi problemi metodologici che emersero sin dall'inizio. Tale sviluppo è stato alquanto complesso al punto che vi è chi, come Hindelang (1976) suddivide l'evoluzione della metodologia delle inchieste di vittimizzazione in vari stadi ovvero «generazioni» (Doerner-Lab 2002; Guarino 2002). Più di recente, seguendo tale impostazione, Doerner e Lab (2002) distinguono ben quattro « generazioni » di inchieste di vittimizzazione. Si tratta di una utile raffigurazione dello sviluppo delle inchieste di vittimizzazione anche perché permette di focalizzare problemi metodologici, che l'esperienza accumulata negli anni ha consentito di evidenziare. La prima generazione di inchieste di vittimizzazione negli Stati Uniti, è fatta coincidere proprio con gli studi pilota richiesti dalla suddetta Commissione presidenziale. In tale ambito il più famoso di questi studi sperimentali, condotto peraltro su base nazionale per la prima volta, fu il sondaggio progettato dal National Opinion Research Center (NORC) nel 1966 (Doerner-Lab 2002: 31) ed i cui risultati sono stati illustrati da Ennis (1967). Furono intervistate ben diecimila famiglie rappresentative della popolazione degli Stati Uniti, chiedendo agli intervistati di riferire i crimini che avessero subito durante i precedenti 12 mesi (Bandini et al. 2003: 57; Doerner-Lab 2002: 31). Successivamente, l'intervistatore cercava di ottenere informazioni più dettagliate solo sui due più recenti e più gravi reati con una tecnica detta di telescoping (Guarino 2002: 60), cioè, proprio come un telescopio, si tendeva a focalizzare progressivamente gli eventi criminali più recenti e più gravi rispetto ad un periodo più ampio considerato. Il dato più eclatante di tale inchiesta fu certamente che le statistiche ufficiali riuscivano a rilevare nel medesimo periodo solo il 50% del crimine reale, indicato dall'inchiesta di vittimizzazione NORC (Doerner-Lab 2002; Guarino 2002). Circa, dunque, la metà dei crimini commessi non veniva denunciata. Naturalmente questo dato era estremamente variabile a seconda del crimine preso in considerazione perché ad esempio il furto d'auto, invece, era rappresentato in modo sostanzialmente identico sia nelle statistiche ufficiali che in tale prima inchiesta di vittimizzazione. Il fatto che praticamente, quasi tutti i furti di autovetture,
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mezzi di trasporto in genere, fossero denunciati alle forze di polizia era spiegato con la considerazione, come ancor oggi avviene, che l'indennizzo da parte dell'assicurazione, nel caso di polizza che garantisca anche il furto, era subordinato alla denuncia formale del furto subito. Immediatamente per molti criminologi apertamente critici della rappresentatività delle statistiche ufficiali, questa fu la prova della loro definitiva inaffidabilità ed inaccuratezza, perché ignorano il cosiddetto « numero oscuro» (dark figure) (Biderman-Reiss 1967; Doerner-Lab 2002). Da questa prima generazione di inchieste furono tratte delle osservazioni utili per le future che si susseguirono, poiché emersero immediatamente alcuni problemi. Ciò dimostra che le inchieste di vittimizzazione, sebbene certamente ormai strumento indispensabile per conoscere la realtà del crimine, non sono esenti da una continua revisione metodologica che cerchi di migliorarne l'affidabilità. Addirittura, nel caso della descritta prima inchiesta di vittimizzazione su base nazionale del NORC i problemi emersi si ritenne minavano la sua effettiva utilità ed attendibilità a fini strettamente vittimologici (Doerner-Lab 2002: 32). Il dato, infatti, incontestabile, proprio per la sua rilevanza numerica, è che la metà dei crimini non vengono denunciati. Quando però si vuole approfondire nello specifico l'episodio di vittimizzazione cercando di comprendere la distribuzione del rischio di un crimine particolare, ad esempio la rapina, in rapporto all'età della vittima, al genere femminile-maschile, all'uso o meno di un'arma, all'ora del giorno in cui il crimine è avvenuto, e così via, la maggior difficoltà è data dal ridotto numero di casi potenzialmente registrati, che non consentono effettive generalizzazioni (Garofalo 1981; Doerner-Lab 2002). La questione è spiegata in modo chiaro da Garofalo (1981: 99). Se si è interessati a studiare la vittimizzazione derivante dalla rapina in una città, nel periodo di tempo di un anno, e ponendo che, ad esempio, il 3 % dei residenti sono stati vittime di rapina durante l'anno, l'inchiesta individuerà solo 60 casi e dunque 60 vittime, in un campione di 2000 persone. Sessanta casi, ovviamente, è un numero troppo ristretto per trarre delle generalizzazioni sul profilo socio-demografico delle vittime, come detto, in base all'età, al sesso, ecc. Il secondo problema che immediatamente si pose ali' attenzione dei ricercatori fu verificare l'accuratezza delle dichiarazioni delle vittime stesse, e cioè se i crimini riportati durante l'intervista erano realmente tali. Ciò poteva verificarsi anche semplicemente per un fraintendimento fra intervistato ed intervistatore sulla terminologia usata,
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ad esempio, per definire i reati (Doerner-Lab 2002: 32; Guarino 2002: 60). Un esempio era dato dal fatto che se una persona ritorna a casa e trova che gli è stato asportato il mobilio la potrebbe ritenere una rapina (robbery) e non correttamente un « furto in appartamento » (burglary). Un gruppo di esperti che esaminò i risultati della prima inchiesta, riscontrò che dovevano essere esclusi più di 1/3 dei crimini riportati. Un terzo insieme di difficoltà riguarda le capacità del soggetto di richiamare il ricordo e di collocarlo in modo esatto sul piano temporale. Per esempio se si chiede alla vittima se ha subito crimini negli ultimi dodici mesi, il soggetto, poiché non ricorda ovviamente sul momento esattamente la data del crimine subito, se lo stesso è avvenuto 13 o 14 mesi prima tenderà ad includerlo lo stesso nel periodo richiestogli. Una questione collegata è le lacune della memoria che possono fortemente alterare i dati. Il crimine può essere stato effettivamente subito dalla vittima, ma la stessa può non ricordarlo in modo chiaro e lucido e così non risponderà correttamente alle domande. In realtà l'accuratezza è un delicato equilibrio tra queste differenti fonti di errori (Doerner-Lab 2002: 33 ). L'includere un crimine nel periodo di tempo richiesto quando invece è avvenuto prima, incide sul tasso di vittimizzazione esagerandolo poiché vengono computati più crimini di quelli effettivamente avvenuti nel periodo di tempo. Quando invece una vittima dimentica il crimine realmente avvenuto, si ha l'effetto contrario poiché ciò diminuirà il tasso di vittimizzazione in quanto saranno rilevati meno crimini di quelli avvenuti (Schneider et al. 1978). La seconda generazione di inchieste di vittimizzazione cercò appunto di superare i problemi evidenziati. Una serie di indagini furono compiute con delle tecniche aggiuntive che consentissero di controllare l'attendibilità delle dichiarazioni delle vittime intervistate. In tal senso numerosi studi furono condotti nei primi anni '70. Ad esempio, alcuni ricercatori condussero un controllo preventivo (reverse record check) alla propria inchiesta di vittimizzazione, comparando le informazioni che si potevano desumere dai rapporti di polizia con i dati dell'inchiesta di vittimizzazione. Si cercavano, in altre parole, i nominativi delle vittime nei rapporti di polizia e poi si somministrava alle stesse un questionario. Ciò dimostrò che le lacune della memoria e le conseguenti omissioni crescevano al crescere del periodo di tempo su cui era condotta l'inchiesta. Le migliori corrispondenze furono riscontrate, infatti, al massimo entro tre mesi dal crimine subito. La vittima in questo arco di tempo riesce a rievocare il ricordo con sufficiente
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esattezza e precisione. Dopo tale periodo le vittime, invece, cominciano sempre più a veder deteriorato il ricordo. Altresì aumentava anche l'effetto derivante dall'inclusione dei crimini fuori dal periodo di tempo (Hindelang 1976: 46-53; Doerner-Lab 2002: 34). Un'altra metodica era esattamente opposta e fu condotta da Schneider et al. (1978). Essi prima somministrarono il questionario e condussero l'inchiesta di vittimizzazione e solo dopo verificarono i rapporti della polizia per quelle vittime che avevano dichiarato di aver denunciato il crimine subito. La denuncia non fu riscontrata per circa un terzo delle vittime. Naturalmente tale dato non deve essere sopravvalutato. Alcune differenze tra quanto dichiarato dalle vittime e quanto effettivamente riportato dagli organi di polizia poteva essere spiegato anche col fatto che questi ultimi non sempre trascrivono testualmente ciò che gli viene dichiarato ed inoltre negli Stati Uniti vi è una notevole mobilità per cui talvolta risulta alquanto difficile realizzare un effettivo controllo ricontattando le vittime che invece possono essersi anche trasferite in modo irrintracciabile (Skogan 19816; Doerner-Lab 2002). Successivamente, si è avuta la terza generazione di inchieste di vittimizzazione. A partire dal 1972 il Governo federale, infatti, ha cominciato una serie di inchieste di vittimizzazione su larga scala. La prima appunto lanciata nel 1972 intervistò un campione di 72.000 famiglie. In tali inchieste si cercò di evitare i problemi evidenziati. Ad esempio il periodo di tempo scelto fu di 6 mesi, su un periodo però totale di 3 anni, sicché l'inchiesta fu praticamente ripetuta per sette volte ed ogni periodo di 6 mesi cominciava dal precedente, al fine di poter avere un attento controllo dei crimini inclusi correttamente nel periodo prescelto, grazie al confronto fra le interviste ripetute. Si cercavano di escludere, pertanto, i crimini che in base alle precedenti interviste risultavano già riportati e dunque erroneamente inclusi anche nella susseguente. Naturalmente rimaneva il problema della mobilità, ma si ritenne che l'impatto del trasferimento di residenza sulla stima della vittimizzazione fosse minimale (Doerner-Lab 2002: 37). Tale inchiesta fu denominata National Crime Survey ed è ripetuta dal 1972, anno da cui il Bureau o/ the Census, appunto, pubblica annualmente questa indagine su base nazionale. I questionari così elaborati tendono a rilevare le caratteristiche socio-demografiche delle vittime e circostanze dell'evento, come il luogo e l'ora del reato, la relazione autorevittima, l'entità del danno fisico o economico subito, la percezione delle caratteristiche dell'autore, la denuncia ovvero i motivi della mancata denuncia (Bandini et al. 2003 ).
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Infine, attualmente, negli Stati Uniti è stata sviluppata la quarta generazione di inchieste di vittimizzazione dopo una serie di revisioni che ha aggiunto diversi controlli interni ed esterni alla rilevazione, oltre che ad aumentare il numero di informazioni sulle differenti dimensioni del crimine e le circostanze della vittimizzazione (Doerner-Lab 2002: 38; Wallace 1998: 23; Karmen 2004). Dal 1992, appunto a significare una totale rinnovazione della metodologia adottata, l'inchiesta nazionale di vittimizzazione svolta dal Governo federale è stata denominata non più National Crime Survey ma National Crime Victimization Survey (NCVS) (Karmen 2004: 52). Essa fu il risultato di una serie di sforzi di revisione ed adeguamento cominciati addirittura nel 1979 come risposta ad un rapporto critico dell'Accademia Nazionale delle Scienze statunitense (Penick-Owens 1976; Doerner-Lab 2002: 38). Nonostante tutti i miglioramenti apportati, ancora attualmente la tecnica di intervistare i cittadini sui crimini subiti, propria delle inchieste di vittimizzazione, non è considerata un metodo del tutto attendibile ed affidabile come auspicato e sperato anche da parte dei vittimologi (Karmen 2004). Le critiche metodologiche che hanno avuto ad oggetto le inchieste di vittimizzazione negli Stati Uniti dalla seconda metà degli anni '70 agli anni '90 non si sono ancora sopite 5 . Ulteriori profili di dubbio sulla loro effettiva utilità come strumento di rilevazione della criminalità reale sono stati recentemente prospettati o quantomeno i risultati possono essere utilizzati con alcune avvertenze. Da un primo punto di vista occorre sottolineare che tali surveys sono affidabili, ovviamente, nei limiti in cui il campione nazionale di soggetti cui viene somministrato il questionario strutturato sia effettivamente rappresentativo della popolazione dell'intero Paese. Trattan-
5 I maggiori problemi continuano ad essere quelli riscontrati nelle prime generazioni di inchieste di vittimizzazione, e cioè le possibilità di fraintendimento tra intervistatore ed intervistato in particolare sull'esatta definizione del crimine adottata (wording), fissare il periodo di tempo che si intende indagare all'indietro nel passato in base ad un evento concreto, come una precedente intervista (bounding), deterioramento della memoria sui dettagli, circostanze del crimine subito (memory decay), e l'inclusione di crimini non realmente verificatisi nel periodo di tempo indagato (telescoping) (Karmen 2004; Doemer-Lab 2002; Wallace 1998; Fattah 1991; MayhewHough 1988; O'Brien 1985; Schneider 1981; Reiss 1981; 1986; Lehnen-Skogan 1981; Skogan 19816; 1986; Garofalo 1981; Levine 1976 fra gli altri).
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dosi di inchieste di vittimizzazione il problema è più delicato che in altre tipologie di surveys. Se, infatti, il campione prescelto è fatto oggetto di stereotipi e pregiudizi che possono accentuare il rischio di vittimizzazione per fattori come l'età, il sesso, la razza, la classe sociale e la collocazione geografica, le proiezioni statistiche che ne vengono tratte per la restante parte di popolazione che non viene intervistata, possono condurre facilmente ad una sottostima o sovrastima (Karmen 2004). Altresì, a causa dell'elevata mobilità che caratterizza gli Stati Uniti, poiché le inchieste di vittimizzazione sono basate sui nuclei familiari residenti in un dato luogo, non sono registrate le esperienze proprio degli strati più emarginati ed in realtà a maggior rischio, quantomeno presunto, di vittimizzazione, come i senzatetto o coloro che conducono una vita sociale e lavorativa« sommersa» come gli immigrati clandestini. Quest'ultima categoria, ad esempio, raggruppa delle persone che possono considerarsi quasi vittime « per definizione », poiché la loro condizione di immigrati illegali non solo li esclude dalla tutela ed assistenza cui avrebbero altrimenti diritto, ma li espone allo sfruttamento, ali' estorsione, alla violenza ed alla minaccia anche di gruppi criminali organizzati, sin dal viaggio compiuto per l'ingresso nel Paese. Le inchieste di vittimizzazione dovendosi, in altre parole, rivolgere, per esigenze metodologiche, solo a coloro cui è riconosciuto formalmente ed in modo ufficiale lo status di cittadino o che comunque risiedono in una casa e, dunque, potenzialmente hanno anche un lavoro, finisce per escludere proprio alcune categorie di persone che vivono in condizioni di disagio ai margini della vita sociale. Categorie, che proprio gli studi vittimologici evidenziano come maggiormente vulnerabili, per tali fattori sociali di esclusione, al rischio di vittimizzaz10ne. Un altro limite connesso a questo aspetto è il fatto che l'età degli intervistati non scende al di sotto dei dodici anni, quantomeno negli Stati Uniti. Ed anche in questo caso, sempre per evidenti difficoltà metodologiche connesse all'intervista di un minore ed ai problemi della sua conduzione, si esclude una categoria che, sin dai primi studi, si è indicata come potenzialmente maggiormente esposta al rischio di vittimizzazione. Ciò comporta che tale aspetto non possa essere effettivamente verificato, e cioè se l'età minore sia realmente un fattore di maggior rischio di vittimizzazione. Le inchieste di vittimizzazione altresì non consentirebbero di misurare il « numero oscuro » dei reati commessi contro i minori, abitualmente ritenuto, invece, particolarmente elevato, già per gli ostacoli sul piano della maturità fisica e psi-
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chica del minore a che tali reati vengano denunciati da parte della vittima. Infine, solo i reati diretti contro la persona od i suoi beni sono inclusi, come il furto, la rapina, la violenza sessuale, con esclusione dell'omicidio peraltro, per ovvi motivi. Non si ha, pertanto, una rappresentazione completa della criminalità. In secondo luogo, un tema che non perde mai la sua attualità nel dibattito scientifico che riguarda le inchieste di vittimizzazione è la credibilità delle risposte date da parte delle vittime. Con tutti gli accorgimenti possibili le inchieste di vittimizzazione forniranno sempre, infatti, un dato sottostimato rispetto all'effettiva criminalità reale che si vorrebbe misurare (Karmen 2004: 53 ). Le inchieste di vittimizzazione difficilmente avranno risposta dalle vittime « bloccate ». Qui l'intuizione e la lezione di van Hentig è certamente ancora valida. Alcuni motivi che consigliano la vittima a non denunciare il reato alle autorità non perdono di forza nel caso in cui la vittima sia intervistata, anche quando, come avviene con l'intervista telefonica, si cerca di assicurare una effettiva garanzia di anonimato rispetto all'intervista diretta. È evidente che coloro che non denunciano casi di reiterati maltrattamenti ed abusi in famiglia, le donne che non denunciano uno stupro a maggior ragione se da parte di coniuge, fidanzato o conoscente, coloro che sono stati rapinati nel corso di attività illecite o soggette a biasimo sociale, come l'uso di stupefacenti o nel corso di rapporti con una prostituta (Karmen 2004: 53 ), oppure che in qualsiasi altro modo possono vedere il loro onore, reputazione, immagine sociale deteriorata dalla denuncia del crimine, od in ogni caso riceverne un danno, continueranno a non riferire il crimine subito. Infine, vi è il problema dell'equilibrio tra la ricerca della maggior affidabilità ed attendibilità ed i costi dell'inchiesta che su base nazionale, in realtà, può essere svolta esclusivamente dagli enti governativi in qualunque Paese del mondo, poiché la rappresentatività del campione, ovviamente, aumenta con il numero di persone intervistate rispetto alla popolazione di riferimento. Le difficoltà connesse alla rievocazione del ricordo da parte delle vittime consigliano, come già osservato, di adottare un periodo di tempo ritenuto ottimale di 6 mesi, peraltro ripetendo le interviste ogni 6 mesi in modo da collegare ogni periodo all'altro. Sei mesi, però, d'altro canto, è un periodo certamente breve poiché la probabilità che si sia verificato un crimine per ciascuna vittima intervistata nei sei mesi precedenti è bassa, un evento relativamente raro, cosicché rispetto ad una popolazione nazionale, il campione da intervistare deve essere particolarmente ampio, pari a
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decine di migliaia di persone, affinché il numero di crimini rilevati possa avere una qualche rilevanza statistica. Negli Stati Uniti, proprio per una questione di costi, il campione è stato ridotto in diverse occasioni dalle 60.000 famiglie contenenti circa 130.000 intervistati nei primi anni '70, alle 47 .700 famiglie con circa 80.000 intervistati del 2001 (Karmen 2004: 54). Sempre per motivi di costi ha preso piede e si è definitivamente affermato il metodo CATI (Computer Assisted Telephone Interview), cioè l'intervista telefonica computerizzata invece dell'intervista diretta personale « faccia a faccia» molto più costosa (Killias 1987; Bandini et al. 2003: 60). Oltre che negli Stati Uniti, inchieste di vittimizzazione di ampio respiro sono state poi condotte anche nel Regno Unito (British Crime Surveys) ed in altri Paesi europei ed extraeuropei (Bandini et al. 2003). Nel Regno Unito le inchieste di vittimizzazione sono state realizzate dal 1981 a vari intervalli, mentre dal 1999 sono divenute annuali con un campione di 37.000 adulti (Barclay-Barclay 2003), con tecniche sostanzialmente analoghe a quelle esaminate negli Stati Uniti. In Italia sono state realizzate due inchieste di vittimizzazione grazie all'impegno ed agli sforzi dell'Istat solo sul finire degli anni '90. Le ragioni possono essere diverse. Alcuni lo hanno attribuito ad una specie di ritardo cronico nello studio, nella ricerca scientifica in ambito criminologico che caratterizzerebbe l'approccio sociologico in tale settore nel nostro Paese. Una resistenza all'adozione di tali strumenti di rilevazione, poi, può essere anche riconducibile ad un ipotizzabile stereotipo secondo cui gli italiani sarebbero particolarmente « riservati » e dunque meno disponibili a riferire ad estranei episodi e dettagli della propria vita privata (Bandini et al. 2003: 61). Prima delle due indagini su larga scala condotte dall'Istat, anche per gli evidenziati motivi relativi ai costi economici legati alla scelta di un campione maggiormente rappresentativo della popolazione nazionale, erano stati possibili solo alcuni studi pilota in alcune aree urbane 6 • Già nel 1993 l'Istat aveva iniziato a rilevare, nell'ambito dell'indagine annualmente svolta avente
6 Ad esempio nella città di Genova (Gatti et al. 1991; Bandini et al. 2003: 61). Queste indagini hanno permesso di testare la disponibilità dei cittadini a questo tipo di inchiesta e, dunque, il livello di risposta che non ha mostrato significativi spostamenti dai risultati conseguiti negli altri Paesi. Altre indagini sono state condotte a Bologna nel 1994 con il metodo dell'intervista diretta da parte dell'Istituto Cattaneo e su campioni limitati di popolazione (Bandini et al. 2003: 62; Barbagli 1995; Barbagli e Pisati 1995).
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ad oggetto gli « aspetti della vita quotidiana » degli italiani, informazioni sulla cosiddetta criminalità predatoria, con particolare attenzione a quella che può essere considerata la microcriminalità, cioè il borseggio, lo scippo ed il furto in abitazione (Muratore 2003). Ciò ha inaugurato il nuovo corso delle indagini sociali multiscopo dell'Istat, prevedendo a cadenza quinquennale inchieste di approfondimento di tematiche particolari come la « sicurezza dei cittadini » (Muratore et al. 2004). Si è così addivenuti alle prime due inchieste di vittimizzazione ad ampio respiro, ampliando il numero dei reati indagati, estendendolo, ad esempio, ad una serie di reati sessuali come le molestie e le violenze sessuali, nonché i ricatti sessuali sul posto di lavoro. Vi è poi un maggior approfondimento delle modalità di accadimento dei reati ed un tentativo di maggior dettagliata ricostruzione del profilo delle vittime. La prima è stata condotta nel 1997-1998, quale indagine multiscopo sulle famiglie avente quale oggetto specifico la « sicurezza dei cittadini», come detto, mentre la seconda ha avuto luogo nel 2002. Quest'ultima ha tenuto ancora in maggior considerazione i problemi metodologici che sono stati evidenziati nel corso della trentennale esperienza, in particolare statunitense e di cui si è già prima discusso. Per quanto riguarda il periodo di riferimento è stata scelta una soluzione mediata e cioè un periodo di 12 e non di 6 mesi pur tenendo presente il rischio del cosiddetto « telescoping e/fect » e cioè il fatto che l'intervistato può tendere o meno ad inserire all'interno del periodo richiesto eventi invece avvenuti precedentemente, a seconda della loro importanza e dinamica che influisce sulla rievocazione del ricordo. Sforzi sono stati compiuti anche per la risoluzione dei problemi di deterioramento della memoria, per il fatto che alcuni crimini possono essere stati dimenticati od addirittura rimossi e, naturalmente, senza dimenticare le difficoltà di comprensione terminologica di alcuni reati. In particolare, a questo proposito si è cercato di formulare in modo attento i singoli quesiti con una produzione di esempi concreti per permettere alla vittima di riconoscersi nella situazione vittimizzante data l'astrattezza delle definizioni legali dei reati, non direttamente utilizzabili. Il campione è stato anche maggiore della prima inchiesta e cioè pari a 60.000 individui. L'ulteriore risoluzione dei problemi metodologici è in fase di studio e sperimentazione come negli altri Paesi.
7.3.2.
Le indagini a livello internazionale.
Le stesse esigenze della ricerca criminologica e dell'analisi vitti-
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mologica espresse a livello nazionale dagli anni '90 in poi si sono riflesse anche in ambito internazionale. Chiaramente riuscire a misurare quantitativamente il crimine, il « numero oscuro », delineare un profilo socio-demografico delle vittime, studiare la relazione criminalevittima e gli stili di vita delle vittime in rapporto al reato, in modo da poter comparare i dati tra diversi Paesi anche appartenenti a regioni geografiche del mondo lontane fra loro, è potenzialmente uno strumento molto potente. A maggior ragione ove si consideri che la comparazione dei dati delle statistiche ufficiali è estremamente difficile sia per i diversi metodi di rilevazione adottati, ma soprattutto anche per la diversità dei sistemi giudiziari. Le stesse definizioni legali del crimine variano in modo a volte anche contrapposto da Stato a Stato. Poter comparare le statistiche ufficiali della criminalità su base internazionale è ancora un obiettivo molto lontano (Alvazzi del Frate 2003; van Dijk 2000b; Me 2003 ), poiché occorrerebbe armonizzare elementi difficilmente controllabili e che presuppongono una cooperazione internazionale, al momento certamente inattuabile salvo limitate aree geografiche. La stessa Europa, benché abbia avviato da tempo un notevole processo di aggregazione, cooperazione ed integrazione delle strutture economiche, innanzitutto, e poi politiche, nel settore penalistico e segnatamente giudiziario, presenta ancora forti disarmonie e difformità di sistema. Nell'immediato futuro, nonostante certamente i numerosi sforzi per cercare di avere anche una politica criminale comune, un « diritto penale europeo », le differenti culture giuridiche di base, impediscono il necessario raccordo fra le diverse definizioni legali di crimine ed un effettivo avvicinamento dei sistemi giudiziari nazionali in materia penale. Ciò ha come conseguenza che le statistiche ufficiali della criminalità non sono in alcun modo comparabili. Le inchieste di vittimizzazione, invece, offrono uno strumento la cui standardizzazione è quantomeno attuabile, come infatti è poi avvenuto. In linea di massima è infatti possibile predisporre un questionario strutturato analogo, usare metodi similari di selezione del campione ed impiegare gli stessi metodi di elaborazione dei dati (van Dijk-Mayhew 1993: 2). Naturalmente permangono dei problemi di coordinamento soprattutto per il superamento di problemi inerenti le differenze socio-culturali nell'adattamento del questionario, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo rispetto ali' area geografica delle Nazioni occidentali industrializzate. Il progetto delle inchieste di vittimizzazione ha origine, infatti, dalla cooperazione soprattutto fra le nazioni occidentali, per cui vi possono essere degli stereotipi e pregiudizi culturali non com-
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patibili con la realtà sociale dei Paesi in via di sviluppo in cui il questionario ed altri strumenti di rilevazione deve essere utilizzato. Per minimizzare l'effetto delle differenze culturali i ricercatori appartenenti ai diversi Paesi hanno generalmente preso parte alla valutazione degli strumenti usati. Da un punto di vista complessivo, però, gli intervistati in nessun Paese hanno incontrato difficoltà talmente gravi da impedire la comprensione delle ipotesi fondamentali di vittimizzazione. Ciò si potrebbe ritenere dia un certo sostegno all'idea che alcuni concetti basilari concernenti i cosiddetti crimini comuni siano condivisi nel mondo, quantomeno nelle aree urbane. Seppur con una certa cautela si potrebbe sostenere che emerga una specie di « concetto universale del crimine » al di là delle differenze cross-culturali (van Dijk 2000b: 113 ). Sono state realizzate delle inchieste di vittimizzazione a livello internazionale sin dal 1989, anno in cui ebbe luogo la prima International Crime Victim Survey (ICVS). Questa prima esperienza era stata coordinata da un gruppo di esperti internazionali. Successivamente, l'UNICRI, ossia l'United Nations Interregional Crime and ]ustice Research Institute, creato apposta nel 1968 per condurre ricerche comparate a livello internazionale, per una migliore azione politica delle Nazioni Unite nell'area della prevenzione del crimine e dei sistemi giudiziari penali, ha assunto il coordinamento delle inchieste di vittimizzazione (Griffin-Valente 2000), soprattutto con riferimento ai Paesi in via di sviluppo. Ad oggi sono state portate avanti altre tre inchieste di vittimizzazione su base internazionale, nel 1992, nel 1996 e nel 2000, con una diversa partecipazione di vari Paesi. Sebbene non tutte le Nazioni industrializzate abbiano sempre partecipato a tali inchieste ed anche in Europa si abbia una situazione alquanto differenziata, certamente si può condividere lo sforzo internazionale per cercare di standardizzare le inchieste di vittimizzazione. L'importanza di questo lavoro, infatti, dal punto di vista vittimologico è notevole. È possibile in questo modo cogliere differenze eventuali tra il crimine a livello locale e nazionale ed i profili socio-demografici delle vittime per età, sesso, condizione socioeconomica e così via. Si può verificare in altre parole se la distribuzione differenziale del rischio nella popolazione è realmente collegata ai fattori di vulnerabilità, come appunto l'età, il sesso, ecc., oppure deve essere collegata anche ad elementi socio-economici ed al contesto culturale (Zvekic-Alvazzi del Frate 1993). Si segnala poi per l'Italia la partecipazione in particolare al progetto del 1992. Infatti, il questionario internazionale fu adattato e tradotto in
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italiano nell'ambito di una ricerca svolta in Italia dall'UNICRI in cooperazione con la Direzione generale della Polizia di Stato del Ministero degli Interni e somministrato col metodo CATI, l'intervista telefonica computerizzata ad un campione di 2.024 famiglie sotto l'autorevole direzione di Savona (1993). Si tratta di uno studio particolarmente importante proprio per la comparatività dei dati a livello internazionale che consente. Si affianca alle due inchieste di vittimizzazione, le indagini multiscopo sulla sicurezza dei cittadini, condotte dall'Istat di cui si è detto supra, quale strumento di analisi dell'andamento della criminalità e del profilo socio-demografico delle vittime e dei fattori di rischio della vittimizzazione. L'utilità delle inchieste di vittimizzazione è indubbia anche per l'indagine vittimologica in senso stretto. Permane, secondo gli studiosi più severi (Fattah 1993; 1997), qualche margine di dubbio su ciò che tali inchieste misurino esattamente ed i loro obiettivi a lungo termine. Fattah ha osservato che la vittimizzazione è una esperienza individuale soggettiva e soprattutto, quel che più importante, culturalmente relativa (1993; 2000). Il sentimento, la percezione della sofferenza della vittimizzazione non sempre coincide con una definizione legale, per quanto formulata in modo concreto. La domanda che pone Fattah è dunque se le inchieste di vittimizzazione cerchino di misurare la vittimizzazione criminale, ed in questo caso dovrebbero avere maggiormente come punto di riferimento le fattispecie previste dai codici penali, o invece misurare le soggettive esperienze di vittimizzazione degli intervistati. Si tratterebbe di due differenti realtà non effettivamente interscambiabili, come al contrario sembrerebbe suggerire la logica dei ricercatori e la denominazione stessa delle inchieste, chiamate indifferentemente ora crime survey ora victimization survey (Fattah 1997; 2000). Sebbene le osservazioni di Fattah, soprattutto sulla relatività culturale dell'esperienza della vittimizzazione così come percepita soggettivamente dalle vittime, siano esatte, non è appieno condivisibile nella sua severità la critica rivolta ai metodi ed agli obiettivi delle inchieste di vittimizzazione. Si è infatti sottolineato come il maggior sforzo dei ricercatori, da un punto di vista metodologico, nella formulazione del questionario, sia stato appunto a livello locale, nazionale ed internazionale, proprio la formulazione dei quesiti. L'impegno è quello di raggiungere un giusto equilibrio tra la definizione legale del reato, da cui non si può prescindere a pena di effettiva inutilità dell'indagine se il fine è la rilevazione del crimine, e la concreta domanda da porre all'intervistato necessariamente in termini semplici ed immediati e che
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faccia riferimento a situazioni con cui l'intervistato stesso possa confrontare la propria esperienza. La critica di Fattah sembra dimenticare che tra norma, così come astrattamente e giuridicamente delineata dai codici, e realtà concreta in senso sociologico, c'è ovviamente una soluzione di continuità. Le stesse norme penali che definiscono i crimini sono spesso formulate in modo del tutto« aperto» e cioè possono includere un numero elevato di comportamenti anche diversi fra loro. Ad esempio, il furto è semplicemente definito come l'impossessamento della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene. Ciò include numerose modalità di impossessamento e sottrazione. Se la domanda posta all'intervistato fosse costruita sulla base della definizione legale del crimine, allora sì si lascerebbe spazio alla soggettiva interpretazione del soggetto dell'idea di furto. In quel caso si finirebbe col chiedere ciò che egli percepisce soggettivamente come sottrazione. I quesiti delle inchieste di vittimizzazione, invece, sono costruiti in modo da prospettare all'intervistato una situazione concreta che i ricercatori hanno elaborato perché rientra nella definizione legale di riferimento. Proseguendo nell'esempio, per il furto di oggetti personali si chiede se qualcuno, nel periodo prescelto, ha rubato o ha tentato di rubare all'intervistato denaro od oggetti che non portava direttamente con sé, ad esempio soldi o gioielli lasciati in uno spogliatoio, borse o valigie su un treno, libri a scuola o al lavoro, soldi, bancomat o assegni al lavoro, non considerando gli oggetti rubati dall'automobile e dall'abitazione 7 • Ovviamente un margine di soggettività permane soprattutto per quanto concerne la rievocazione del ricordo, perché l'episodio può essere stato vissuto e percepito dalla vittima, nella sua esperienza, come irrilevante o comunque in modo non intenso e quindi potrebbe non essersi fissato adeguatamente nella memoria. Da questo punto di vista F attah ha certamente ragione, tanto è vero che i maggiori problemi metodologici delle inchieste di vittimizzazione derivano proprio dall' « effetto telescopio » e dal possibile deterioramento della memoria. Chiaramente tendono ad essere riferiti solo i crimini che sono stati vissuti nell'esperienza della vittima in modo intenso, che hanno avuto un impatto emotivo che può soggettivamente variare di molto. Dinanzi alla stessa esperienza di vittimizzazione rientrante nella definizione legale di crimine, alcune vittime potranno rife-
7 Si vedano i questionari allegati alle inchieste di vittimizzazione dell'Istat, le indagini multiscopo 1997-1998 e 2002 sulla sicurezza dei cittadini.
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rirla, altre riferirla molto accuratamente, altre non riferirla affatto, e questo a prescindere da eventuali resistenze alla comunicazione del crimine subito perché ad esempio avvenuto in famiglia ad opera di un familiare. Le inchieste di vittimizzazione hanno, come si è avuto modo di ricordare più volte, sicuramente dei limiti, ma essi non sono tali da decretarne l'inutilità. Uno strumento di misurazione assoluta della criminalità reale, e cioè che consenta di rilevare tutti i crimini avvenuti senza il filtro soggettivo della percezione delle vittime, attualmente non è disponibile né forse lo sarà mai in futuro. Con le dovute cautele ed avvertenze, i dati offerti dalle inchieste di vittimizzazione sono perciò certamente utili sia all'analisi criminologica che vittimologica.
8. DATI EMPIRICI E MODELLI TEORICI
8.1. Il profilo socio-demografico della vittima. - 8.2. Principali modelli teorici. - 8.2.1. Il modello teorico dello « stile di vita». - 8.2.2. Il modello teorico delle attività di routine. - 8.2.3. Il modello teorico del« gruppo equivalente». - 8.2.4. Un tentativo di sintesi. - 8.3. La vittimizzazione secondaria.
8.1.
Il profilo socio-demografico della vittima.
Le inchieste di vittimizzazione hanno consentito di delineare il profilo socio-demografico delle vittime, cioè di rispondere alla domanda« chi sono le vittime e quali caratteristiche condividono». Ciò ha consentito di identificare degli indicatori di rischio di vittimizzazione. Si è già illustrato che il rischio di vittimizzazione non si distribuisce uniformemente in una data popolazione, in un determinato periodo di tempo ed in relazione ad una certa area geografica. Il crimine e la vittimizzazione si concentrano, in altre parole, maggiormente all'interno di specifici gruppi o categorie di individui, delineati in base a diversi criteri come l'età, il genere, e così via, ovvero in determinate aree. Questa diversa distribuzione del rischio di vittimizzazione in base alle caratteristiche socio-demografiche delle vittime è una verifica che è stata permessa dall'introduzione delle inchieste di vittimizzazione, pur con i loro limiti, come ammette lo stesso Fattah (1991: 116; 2000). Oggi, è un dato acquisito che il rischio di vittimizzazione si distribuisce secondo criteri determinati e non casualmente nel tempo e nello spazio e con riferimento a specifici gruppi di individui (Geis 2002).
Le caratteristiche socio-demografiche delle vittime che tradizionalmente, sin dalle prime inchieste di vittimizzazione, sono considerate quali indicatori di rischio sono l'età, il genere maschile o femminile, la razza e l'etnicità, la classe socio-economica. Il rischio quindi di divenire una vittima del crimine è descritto come una funzione di
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queste variabili demografiche, sia considerate singolarmente che correlate fra loro 1 (Fattah 1991: 119 ss.). Per quanto concerne la classe socio-economica, vi possono essere poi dei sotto-indicatori e cioè il reddito, l'occupazione, lo stato civile e il titolo di studio. Un altro criterio di analisi è identificare la distribuzione territoriale del rischio di vittimizzazione sia in relazione alla residenza per area geografica (ad esempio per l'Italia: nord-est, nord-ovest, centro, sud ed isole), sia distinguendo le aree urbane da quelle rurali o comunque a minor tasso di urbanizzazione desunto generalmente dal numero di abitanti del comune di residenza. Sin dalle prime inchieste di vittimizzazione il profilo che era suggerito dall'analisi dei dati ottenuti, salve alcune differenze in relazione a tipologie di crimini specifiche, disegnava la vittima in modo statisticamente significativo come giovane, di genere maschile, residente in area urbana, di basso livello socio-economico, limitata scolarizzazione e non coniugata, e, per gli Stati Uniti, afroamericana ovvero di colore (Gottfredson 1984; Fattah 1991: 117 ss.; 2000; Geis 2002; Laub 1997: 24). Sempre salve le differenze in relazione a qualche crimine specifico, è un profilo della vittima a maggior rischio di vittimizzazione che può ritenersi valido sia per i crimini personali come il furto, la rapina e le aggressioni individuali, sia per i crimini « contro la famiglia » come il furto in abitazione (Geis 2002: 24). Sempre salve alcune differenze geografiche per tipologia di crimine specifico in correlazione con l'area geografica od il diverso contesto culturale, il profilo può 1 Gli studi in questo senso sono numerosi e soprattutto negli anni '90, quando si è incominciato ad avere a disposizione una gran mole di dati anche sul lungo periodo, quantomeno negli Stati Uniti ove le inchieste di vittimizzazione hanno fatto la loro apparizione sin dagli anni '60. Si vedano fra gli altri le analisi di Laub (1997), Bachman (1994), Adler et al. (1994), Sampson e Lauritsen (1994), Zawitz et al. (1993), Reiss e Roth (1993), Norris (1992), Kilpatrik et al. (1991), Breslau et al. (1991), Rosemberg e Mercy (1991), Gelles e Straus (1988). Il profilo socio-demografico delle vittime nelle sue implicazioni in termini di rischio per la vittimizzazione e la comparazione con le caratteristiche socio-demografiche dei criminali era già stato oggetto di attenzione di diversi studiosi, anche in aree geografiche diverse dagli Stati Uniti come il Regno Unito, l'Australia ed il Canada, fra cui è importante ricordare Sacco e Johnson (1990), Gottfredson (1984; 1986), Brantingham e Brantingham (1984), Hough e Mayhew (1983), van Dijk e Steinmetz (1983), Cohen et al. (1981), Singer (1981), Skogan (1981a), Braithwaite e Biles (1980; 1984), Sparks et al. (1977), e naturalmente Cohen e Felson (1979), Hindelang et al. (1978) i quali proposero anche i primi modelli teorici in cui si potesse inserire una coerente interpretazione dei dati ottenuti dalle inchieste di vittimizzazione.
Dati empirici e modelli teorici
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considerarsi anche sufficientemente trasversale per l'Europa, gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia (Fattah 1991; 2000). Ciò portò una prima osservazione, e cioè che le due popolazioni, i due gruppi quello delle vittime da un lato, e dei « carnefici » dall'altro, tendono in modo singolare a condividere le medesime caratteristiche socio-demografiche. Il profilo appena delineato per la vittima si adatta anche a quello del criminale, particolarmente nel caso dei crimini violenti (Hindelang et al. 1978; Singer 1981; Gottfredson 1984; Fattah 1991). Questa singolarità, almeno apparentemente, fu rafforzata da alcune ricerche in cui si inserirono nell'inchiesta di vittimizzazione alcune domande di cosiddetta « autoconfessione » 2 • Si chiedeva cioè all'intervistato di rivelare l'eventuale partecipazione ad attività criminali congiuntamente alle domande concernenti la circostanza se avesse subito crimini 3 (Fattah 1991: 123 ss.; Chambers-Tombs 1984; Gottfredson 1984; Singer 1981; Sparks et al. 1977 e numerosi altri). La doppia rilevazione simultanea della criminalità « agita » e della criminalità « subita » dal medesimo individuo intervistato dimostrava, infatti, una forte interrelazione tra l'agire criminale e la vittimizzazione, nel senso che coloro che commettevano crimini sembravano avere maggiori tassi di vittimizzazione, e dunque una maggiore probabilità di divenire a loro volta vittime di crimini. Ciò essendo particolarmente vero per i crimini violenti sembrava portare alla conclusione che, comprensibilmente, la frequenza con cui alcuni individui possono essere coinvolti in situazioni violente o che comportino un pericolo di violenza per motivi connessi alla condizione sociale, allo stile di vita, alla residenza e così via, influenza le loro probabilità di usare violenza e di essere oggetto di violenza, e attaccare ed essere attaccati, di ferire o essere feriti, di uccidere od essere uccisi (Fattah 2000). Proprio Fattah, ancora recentemente, per tali motivi, riteneva che la natura non antagonistica ma frequentemente complementare ed interscambiabile del ruolo vittima-criminale (2000), avendo avuto in un certo senso la primitiva intuizione di von Hentig (1948) una evidenza empirica. Nell'ipotesi dei crimini violenti, gli stessi dati potrebbero fornire supporto empirico alla tesi secondo
Per le ricerche basate sulle autoconfessioni anche indipendentemente dalle inchieste di vittimizzazione e dunque al solo scopo di rilevare la criminalità nascosta si veda l'ampia disamina condotta da Bandini (2003: 47 ss.). 3 I quesiti relativi alla delinquenza autorilevata sono stati inseriti anche in inchieste di vittimizzazione su larga scala a livello nazionale come nella British Crime Survey negli anni 1982 e 1984 (Fattah 1991). 2
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Le tematiche
cui la vittima e l'offensore condividono una specie di comune « sottocultura della violenza» (Curtis 19746; Wolfgang-Ferracuti 1967; Karmen 2004: 105). Per quanto concerne l'età si è già segnalato il singolare paradosso che emerge dalle inchieste di vittimizzazione. Il tasso di vittimizzazione tende a decrescere con il diminuire dell'età. Questo dato è comune sia alle prime inchieste di vittimizzazione (Fattah 1991) che nelle successive anche a livello internazionale. Negli Stati Uniti gli anziani tendono ad avere il più basso tasso di vittimizzazione per i reati violenti e parzialmente anche per i reati contro la proprietà (Geis 2002: 21). Anche per l'Italia in entrambe le indagini multiscopo dell'lstat si riscontra un similare risultato. Nella prima, per esempio, nel 19971998, se si considerano complessivamente i reati predatori risulta in modo evidente la diminuzione del rischio di essere vittima con l' aumentare dell'età (Bandini et al. 2003: 63), e questo viene confermato anche nell'indagine del 2002 (Muratore et al. 2004; Barbagli 2003). Il profilo generale che emerge da quest'ultima inchiesta di vittimizzazione mostrerebbe che i più esposti al rischio in Italia sono i giovani non coniugati, o comunque separati/divorziati, coloro che hanno un titolo di studio medio-alto, gli studenti e per quanto concerne l' occupazione, i dirigenti, gli imprenditori o i liberi professionisti (Muratore et al. 2004). L'Italia sarebbe in controtendenza rispetto ad altre aree geografiche come gli Stati Uniti per quanto riguarda in particolare i crimini contro la proprietà, ovvero la cosiddetta microcriminalità in cui gli indicatori di un maggior rischio di vittimizzazione sono un alto reddito, e vivere in una area residenziale di status elevato (Savona 1993: 106). Negli Stati Uniti invece i tassi di vittimizzazione tendono a crescere con il diminuire del reddito (Doerner-Lab 2002: 45). Tranne alcuni crimini specifici contro la proprietà come lo scippo ed il borseggio, all'aumentare del reddito diminuisce il tasso di vittimizzazione, e ciò è particolarmente vero per la rapina, l'aggressione e comunque come tendenza generale (Laub 1997: 15). Emergeva ed emerge dalle inchieste di vittimizzazione una apparente mancata corrispondenza empirica rispetto a quelli che possono anche intuitivamente riconoscersi come fattori di vulnerabilità 4 • Tali furono indicati sin dalla prima vittimologia la minore età od al contra-
4 Ricordiamo il controverso dibattito sulle predisposizioni vittimogene specifiche, esaminato infra.
Dati empirici e modelli teorici
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rio l'essere avanti con gli anni, una elevata condizione economico-sociale e così via, essendo caratteristiche della vittima che potenzialmente erano in grado di « attrarre » per diminuite capacità di difesa, o per l'appetibilità dei beni di valore posseduti, l'azione criminale. Il modello basato sulla vulnerabilità si è così definitivamente rivelato essere troppo semplicistico e basato su osservazioni appunto intuitive, non strutturate secondo la critica che già Schafer (1968) aveva rivolto a von Hentig. Un individuo non solo deve essere vulnerabile ma deve essere anche « esposto » al rischio di vittimizzazione. Il rischio, infatti, derivante dalla vulnerabilità, per esempio nel caso dell'elevata condizione socio-economica, può essere ridotto d'altro canto dalla variabile preventiva (Savona 1993). La vittima può adottare sistemi di protezione dei propri beni di valore che riducono !"'esposizione". I dati delle inchieste di vittimizzazione portavano cioè a considerare anche le « opportunità » (Savona 1993) e, con riferimento al luogo di vita della vittima, la «prossimità» ad individui che potessero essere potenzialmente motivati ad azioni criminali. Queste condizioni erano dipendenti anche dallo stile di vita e dalle attività svolte dalla vittima proprio perché potevano esporre una vittima potenzialmente vulnerabile ad un criminale motivato. Per interpretare i dati sembrava occorresse un modello teorico che spiegasse la vittimizzazione ad esempio innanzitutto integrando la considerazione di due gruppi di fattori: quelli che incrementano la motivazione ad agire in modo criminale e quelli che creano opportunità per il criminale stesso (van Dijk 20006). Le diverse variabili, poi, possono essere variamente collegate fra loro anche considerando la sola vulnerabilità, ad esempio i minori di età sono maggiormente vulnerabili se consideriamo le diminuite capacità di difesa ma nello stesso tempo hanno certamente una condizione socio-economica non appetibile, generalmente non possedendo beni di valore. Al contrario, gli anziani hanno minori capacità di difendersi dal punto di vista fisico ed anche, generalmente, una maggiormente elevata condizione socio-economica. Apparentemente i due fattori di vulnerabilità, correlati fra loro, dovrebbero condurre ad elevatissimi tassi di vittimizzazione ma l'esposizione può essere molto ridotta sia per l'adozione di sistemi di protezione dei propri beni, sia per lo stile di vita e lo svolgimento di minore attività esterna a luoghi non difesi come l'abitazione. Le inchieste di vittimizzazione hanno pertanto stimolato lo sforzo teorico teso ad elaborare modelli esplicativi che fornissero un quadro coerente delle variabili in gioco e dei dati empiricamente rilevati.
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8.2.
Le tematiche
Principali modelli teorici.
A seguito delle inchieste di vittimizzazione i modelli teorici più semplici, che enfatizzavano il singolo fattore di vulnerabilità od un'azione concorrente fra gli stessi, siano essi biologici come l'età, il genere, la razza, psicologici come l'avidità o la solitudine, o sociali come il reddito o l'occupazione, o più esattamente situazionali (essere un emigrato od un turista), peculiari della prima vittimologia si dimostrarono, come detto, definitivamente insoddisfacenti (Karmen 2004: 88). Ciò portò all'elaborazione di frame teorici più complessi che tenevano maggiormente in conto oltre alla vulnerabilità del bersaglio, la sua esposizione al pericolo. Si teneva in questo modo adeguatamente e giustamente in conto anche delle spinte motivazionali effettive e delle opportunità che si offrivano ali' agire criminale. La vulnerabilità, infatti, è semplicemente una dimensione che esprime la maggiore o minore abilità e capacità di un « bersaglio » a resistere ali' attacco, alla vittimizzazione (Karmen 2004), in base alle caratteristiche dell'individuo. Già alcuni di quelli che erano indicati come fattori di vulnerabilità in realtà erano fattori di « attrattività ». L'essere benestanti attrae il crimine predatorio per i beni di valore che si possiedono i quali poi, a loro volta, possono essere vulnerabili se maggiormente o meno protetti. Dunque i fattori socio-demografici tradizionalmente considerati, età, sesso, razza, occupazione, reddito, contribuivano a determinare il rischio della vittimizzazione in rapporto non già ad una dimensione, la vulnerabilità, ma quantomeno a due: la "vulnerabilità" e l"'attrattività". Invero il rischio di vittimizzazione, ad una analisi più approfondita sulla base dei dati empirici, è tridimensionale, quantomeno. La terza dimensione è la« prossimità» (Karmen 2004). Non è infatti sufficiente che un individuo possa potenzialmente essere vulnerabile o possieda le caratteristiche per attrarre il criminale e spingerlo ad agire, ma occorre anche che il bersaglio (target) possa entrare nel raggio di azione del criminale da un punto di vista e « territoriale » 5 , e « sociale ». Nel primo caso di prossimità territoriale, occorre che possa entrare in potenziale contatto fisico con l'eventuale aggressore, nel secondo, in senso sociale, che possa interagire non necessariamente appunto« faccia a faccia», ma anche attraverso altri mezzi di comunica-
5 Più che «geografico» secondo la terminologia di Karmen (2004: 89), forse meno preferibile.
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zione ed interazione. La prossimità opera in due aspetti, sia come prossimità agli individui (Garofalo 1986; Siegel 1998), che ad un luogo in cui si svolgano abitualmente attività criminali (Sherman et al. 1989) ossia i così detti hot spots. I principali tentativi di dare una cornice teorica coerente a tali variabili ed alle loro correlazioni sono particolarmente noti e discussi. 8.2.1.
Il modello teorico dello « stile di vita ».
Il primo modello proposto e che poi, sia pur sottoposto a critica, revisione ed adattamento, ha avuto notevole successo, fu elaborato da Hindelang, Gottfredson e Garofalo (1978). Spiega la differente distribuzione del rischio di vittimizzazione tra gli individui in base alla nozione sociologica di « stile di vita» (lifestyle) che si riferisce ai modi in cui le persone impiegano il loro tempo e denaro sia con riferimento alla sfera lavorativa che a quella del tempo libero. Gli autori del modello, infatti, riferivano il concetto di stile di vita a tutte le attività quotidiane sia «vocazionali» (lavoro, scuola ecc.), sia appunto del tempo libero (Hindelang et al. 1978: 241). Le attività svolte, come sottolinea Karmen (2004: 89), sono connesse anche al ruolo sociale rivestito dalla vittima. Ed infatti sono influenzate e modellate anche dalle aspettative di ruolo. Ad esempio come impiegano i giovani studenti il tempo il sabato sera dipende anche da ciò che gli altri si aspettano che essi facciano (Karmen 2004). Lo stile di vita può essere anche determinato da elementi strutturali, ad esempio l'incapacità economica ad acquistare un'automobile costringe all'utilizzo dei mezzi pubblici. Gli elementi strutturali, in altre parole, influenzano le attività quotidiane in connessione alle variabili demografiche di età, sesso, razza, reddito. Così come la diversa capacità economica può costringere all'uso dei mezzi pubblici invece che di un mezzo privato di trasporto, l'incapacità fisica ad esempio derivante dall'essere molto in avanti con gli anni, può limitare anche drasticamente le suddette attività, costringendo ad una maggiore permanenza in casa. Un forse anche maggiore effetto sui rischi di vittimizzazione hanno però le attività di impiego del tempo libero poiché certe forme di divertimento ed eccitazione aumentano di molto il rischio. Riunirsi in un parco in migliaia di persone per un concerto, partecipare ad una festa di completi sconosciuti, frequentare bar e discoteche nelle ore notturne, od addirittura cercare forme di eccitazione, piacere in attività rischiose od apertamente illecite, fre-
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quentare prostitute, fare uso di stupefacenti, aumenta esponenzialmente il rischio di vittimizzazione esponendo al pericolo di essere aggrediti, rapinati, e così via. In conclusione, gli stili di vita determinano la quantità e la qualità dei contatti tra le vittime potenziali e gli individui « predisposti », ovvero « inclini » al crimine (Karmen 2004: 89). Influenzano, in sintesi (Bandini et al. 2004: 516), da un lato !'"esposizione al rischio", cioè il grado di esposizione delle persone in relazione ai luoghi od ai tempi nell'arco della giornata, caratterizzati da un rischio differenziale di vittimizzazione, dall'altro le "associazioni" e cioè la frequenza con cui gli individui si associano con altri individui inclini, in modo maggiore o minore, a commettere un crimine. Il modello spiega esclusivamente il rischio differenziale di vittimizzazione dei crimini « personali », furto di oggetti personali, scippo, borseggio, rapina, aggressione, violenza sessuale, in contrapposizione ai crimini cosiddetti « contro la famiglia » 6 • Applicazioni successive del modello ai dati empirici offerti dalle inchieste di vittimizzazione su base nazionale negli Stati Uniti, cioè le national crime surveys ora national crime victimization surveys di cui si è detto, sembrano indicare nell'"esposizione" il primario fattore determinante della probabilità di divenire vittima del crimine di un gruppo di individui, soprattutto sul lungo periodo (Karmen 2004: 90; Hindelang et al. 1978; Garofalo 1986; Jensen-Brownfield 1986; Mustaine-Tewksbury 1998). Una critica che fu rivolta al modello proveniva dalla vittimologia critica, soprattutto di approccio femminista. Alcune rilievi sono effettivamente condivisibili. La Walklate (1989) rilevò che il modello non teneva in conto del mondo del privato, dei rapporti familiari e casalinghi che invece possono essere un'"arena" per la vittimizzazione, soprattutto personale. Il modello non è in grado di spiegare né include i casi di maltrattamento ed abusi in famiglia, che pur costituiscono una parte non irrilevante della vittimizzazione per quanto concerne i cri-
Bandini et al. (2004) spiegano efficacemente e correttamente che negli studi di tipo vittimologico i crimini personali o persona! crimes non corrispondono a quei reati che nel nostro ordinamento giuridico vengono definiti« contro la persona». Essi infatti si riferiscono a tutti quei crimini che, invece, comunque investano la sfera personale individuale, e dunque ad esempio includono il furto di oggetti personali che, nel nostro sistema, sarebbe un reato contro la proprietà e non contro la persona. Con crimini contro la famiglia si indicano i cosiddetti household crim,es che aggrediscono il nucleo familiare inteso nella sua unitarietà per la condivisione, ad esempio, dello spazio comune, come il furto in appartamento. 6
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mini di aggressione, violenza sessuale e delle volte anche furto. Il drogato che, ad esempio, sottrae beni di valore per acquistarsi la droga ai propri familiari. Il secondo rilievo deriva dalla critica ai legami strutturali ed aspettative di ruolo che influenzerebbero lo stile di vita in base alle caratteristiche e variabili demografiche. L'età, il sesso, la razza sono assunte nel modello in una prospettiva acritica nel senso che non sono rapportate ad una particolare struttura di potere della società. La differenziazione delle aspettative di ruolo in base al genere viene vista solo in chiave funzionalista, ad esempio la funzione svolta nella famiglia, piuttosto che problematizzata come « sessismo » (sexism) e cioè cercando di rilevare come strutturano differenti rapporti di potere in modo asimmetrico tra l'uomo e la donna (Walklate 1989: 13). Quest'ultima è una critica ovviamente di natura ideologica legata ai fondamenti femministi di tale parte della vittimologia critica.
8.2.2.
Il modello teorico delle attività di routine.
Il secondo modello può considerarsi una diversa versione del precedente. Cohen e Felson (1979) ritenevano infatti che le attività routinarie dell'individuo, e cioè quelle poste in essere in modo ricorrente e prevalente e dirette a soddisfare i bisogni fondamentali della popolazione e dei singoli, influenzassero le opportunità dei criminali motivati ad agire, esponendo il bersaglio ad un maggior rischio di vittimizzazione. Delle attività routinarie farebbero parte sia quelle legate alle esigenze lavorative, sia quelle dirette a soddisfare desideri e bisogni legati al cibo, al sesso, all'abitazione, al contatto sociale, alla procreazione, all'istruzione e all'educazione dei figli (Bandini et al. 2004: 517). In realtà lo schema teorico si basa sulla correlazione ed interazione di tre variabili: la presenza di un individuo motivato al crimine, come ad esempio un tossicodipendente in cerca di denaro per la dose, la disponibilità di bersagli idonei, le persone od i loro beni le cui caratteristiche sono in grado di « attivare » il criminale, e l'assenza di efficaci sistemi di protezione, spaziando dalla presenza della polizia fino agli impianti di allarme (Karmen 2004: 93). I fattori centrali focalizzati dall'approccio delle attività routinarie sono le opportunità, la prossimità/esposizione, i comportamenti facilitanti (Fattah 2000). Tali fattori devono convergere nel tempo e nello spazio affinché si produca un contatto fisico diretto tra almeno un criminale ed almeno una persona od oggetto che il reo cerchi di prendere o danneggiare, determinando
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così un crimine predatorio in senso lato (Cohen-Felson 1979: 589). Le attività routinarie, regolando ogni aspetto della vita individuale secondo schemi che tendono a divenire stabili in ragione della soddisfazione dei desideri e dei bisogni quotidiani, governano una sorta di ecologia sociale della vittimizzazione, chi sarà vittimizzato, in che modo, a che ora, in che luogo (Karmen 2004: 93 ).
8.2.3.
Il modello teorico del « gruppo equivalente ».
Tale modello parte dalla considerazione che le vittime ed i criminali condividono in modo assai convergente talune caratteristiche socio-demografiche. Se si integra tale punto di partenza con il modello degli stili di vita si può concludere che gran parte della vittimizzazione, particolarmente in relazione a crimini specifici, può essere spiegata dalla condivisione tra vittime e criminali dei medesimi stili di vita, stessi interessi, attività similari. Vi sarebbe in altre parole una omogeneità o quantomeno uno stretto intreccio tra gli stili di vita dei due gruppi, « equivalenti » sotto tale punto di vista. I criminali, ovvero più esattamente coloro che sono inclini al crimine, selezionerebbero le proprie vittime all'interno dei medesimi circoli di conoscenze, amicizie ed anche avversari (Karmen 2004: 90). Si è già notato come i gruppi che, in sede di autoconfessione, rivelano di aver commesso atti criminali sono anche soggetti a più alti tassi di vittimizzazione e dunque ad un maggior rischio di essere vittime di crimini. L'adesione e la partecipazione a certe sottoculture devianti comporta, dunque, un maggior rischio di vittimizzazione anche, a maggior ragione, poiché tali individui, se vittimizzati, difficilmente potranno rivolgersi alle autorità (Fattah 1991; Siegel 1998; Karmen 2004). Si tratterebbe della situazione descritta da von Hentig (1948) ed evocata dalla categoria della vittima « bloccata » ma riveduta e corretta secondo uno schema teorico più articolato e peraltro rapportato ai dati empirici delle inchieste di vittimizzazione.
8.2.4. Un tentativo di sintesi. Il modello dello stile di vita e delle attività routinarie, come pure l'ultimo descritto, certamente condividono un limite che fu evidenziato dallo stesso Garofalo (1986) pur essendo coautore della prima versione originale del modello teorico fondato sullo stile di vita. La
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spiegazione del processo di selezione delle vittime e della struttura di opportunità illegali e della loro correlazione offerta da tali modelli segue un approccio collettivista e sociale, trascurando gli elementi individuali e segnatamente psicologici. Il carattere della vittima, le sue caratteristiche psicologiche individuali, possono infatti giocare un ruolo importante. Ad esempio, se vi è una certa inclinazione all'aggressività, ciò espone al rischio di essere aggrediti per la facilità con cui si addiviene al confronto se non allo scontro verbale e fisico. Come pure certi tratti psicologici possono agevolare comportamenti negligenti od imprudenti (Karmen 2004; Garofalo 1986). Un secondo ordine di limiti è dato dal fatto che vi è un elemento dato per presupposto. Tale elemento è la presenza di un individuo incline o motivato a commettere un crimine (Garofalo 1986; Karmen 2004; Bandini et al. 2004: 517). In realtà vi sarebbe anche un'altra osservazione e cioè che tali modelli teorici presuppongono che il criminale agisca secondo il modello della scelta razionale poiché si suppone che valuti costi e benefici delle diverse linee di azione, legale ed illegale, scegliendo quella alla fine giudicata più conveniente. Valuti in particolare il rapporto tra i vantaggi del crimine e la probabilità di essere scoperto con riferimento ad un crimine specifico ed in relazione alle circostanze immediate e situazionali (Berzano-Prina 1998). Nella scelta di commettere un crimine specifico come ad esempio un furto, la decisione di passare ali' atto, nella teoria della scelta razionale, dipende da una situazione contingente favorevole che è strettamente legata alle caratteristiche della vittima, del luogo e dei beni da colpire. Ad esempio, la presenza o l'assenza di sistemi di protezione o di pattuglie di polizia (Berzano-Prina 1998: 2829). Elementi secondo cui si distribuisce il rischio di vittimizzazione, come detto, in base alle teorie evidenziate, in particolare quella delle attività routinarie. Considerando i diversi modelli, nel tentativo di elaborare uno schema sintetico più ampio, Fattah (1991; 2000) ha raggruppato tutti i fattori rilevanti in dieci differenti categorie, integrando le varie prospettive o cercando di darne conto in modo comprensivo: 1) opportunità. - Esse sono legate strettamente alle caratteristiche dei bersagli potenziali, alle loro attività e comportamenti; 2) /attori di rischio. - Essi comprendono le caratteristiche sociodemografiche come età, genere, ecc.; 3) criminali motivati. - Gli individui inclini al crimine, persino i non professionali, Fattah ritiene non scelgano le loro vittime in modo assolutamente causale ma adottino specifici criteri di selezione;
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4) esposizione. - L'esposizione a potenziali offensori ed a situazioni o ambienti ad alto rischio incidono sul rischio di vittimizzazione; 5) associazioni. - La rilevata omogeneità tra i gruppi di vittime e criminali, da un punto di vista socio-demografico, suggerisce che I'« associazione differenziale» è importante per la vittimizzazione anche dal punto di vista della vittima. Gli individui che sono in un intenso e stretto rapporto personale, sociale o professionale, con potenziali criminali non hanno, dunque, solo la maggior probabilità di apprendere ed adottare modelli di comportamento devianti e criminali, ma anche di divenire essi stessi vittime del reato rispetto a coloro che non si associano o frequentano ambienti criminali e devianti; 6) luoghi ed ore pericolosi. - Il rischio di vittimizzazione non si distribuisce in modo uguale neppure nel tempo e nello spazio poiché i crimini si concentrano nelle ore serali, notturne e nei week-end oltreché in determinati luoghi, particolarmente nelle aree urbane; 7) comportamenti pericolosi. - Certi comportamenti come la provocazione incrementano il rischio di subire un crimine violento, mentre altri comportamenti negligenti od imprudenti aumentano le probabilità di subire un crimine contro la proprietà; 8) attività ad alto rischio. - Si tratta del coinvolgimento in attività devianti od illegali come il consumo di stupefacenti o la prostituzione; 9) comportamenti difensivi o di evitamento. - L'adozione di comportamenti preventivi da parte delle vittime influenza le probabilità di essere vittimizzati poiché si cerca di ridurre l'esposizione e la vulnerabilità alla vittimizzazione adottando cautele e protezioni; 10) vittimizzazione strutturale/culturale. - Il biasimo e la stigmatizzazione culturale, i pregiudizi e gli stereotipi, possono enfatizzare il rischio di vittimizzazione poiché designano certe vittime come« giuste » o culturalmente legittimate. Tale tentativo di Fattah, comunque, non riesce ad offrire una cornice teorica integrata. Difetta un idoneo criterio che consenta di correlare tra loro le diverse categorie di fattori in rapporto al rischio di vittimizzazione, di spiegarne la reciproca influenza, e di identificare il peso di ciascun fattore secondo uno schema effettivamente unitario. È però utile poiché fornisce un quadro sintetico dei vari gruppi di variabili in gioco da cui dipende il rischio di vittimizzazione secondo gli attuali risultati e più recenti acquisizioni della ricerca vittimologica.
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La vittimizzazione secondaria.
Le inchieste di vittimizzazione hanno dato supporto empmco anche ad un altro approccio teorico che riguarda l'impatto della reazione delle agenzie di controllo sociale formale sulla vittima. Il contatto della vittima con il sistema giudiziario può essere negativo dal punto di vista emotivo od addirittura avere ripercussioni da un punto di vista sociale. Le inchieste di vittimizzazione hanno indicato che vi è un alto tasso medio di criminalità nascosta. Addirittura nelle prime inchieste di vittimizzazione, considerando globalmente tutti i reati, si rilevò che oltre la metà di essi non erano denunciati. Naturalmente questo è riconducibile ad una serie di motivi disparati, dalla tenuità del danno subito alla sfiducia nella condanna del colpevole per mancanza di prove, fino ali' effettiva insoddisfazione sulla base di precedenti esperienze negative. Nelle inchieste di vittimizzazione a livello internazionale, fra le ragioni della mancata denuncia si è cercato di rilevare anche eventuali motivi connessi alla paura od a rappresentazioni negative che la vittima sembrava possedere dell'autorità (van Dijk 2000b: 132), tali da sconsigliare o da far sì che la vittima non «osasse» neppure prendere in considerazione l'ipotesi della denuncia. La situazione è molto variabile per area geografica, per esempio è significativo il dato dell'America Latina, nei risultati della inchiesta di vittimizzazione internazionale del 1996, che mostra un'alta percentuale di vittime che si dichiarano spaventate e che non osano neppure denunciare i reati. Naturalmente ciò può dipendere da una immagine negativa delle forze di polizia radicata a livello sociale per fattori diversi dalla concreta esperienza negativa delle vittime in relazione ad un crimine subito. Negli Stati autoritari, ovviamente, la paura della popolazione nei confronti delle autorità di polizia ed in genere delle agenzie del controllo formale dipende maggiormente dagli abusi perpetrati in nome del regime piuttosto che dal loro operare nel modo consueto negli Stati democratici. Anche in Italia, nell'indagine del 2002 è stata inserita una domanda tesa a registrare eventuali esperienze di denuncia precedentemente negative con delle percentuali non elevate ma statisticamente significative (Muratore et al. 2004: 45). Il movimento teorico che ipotizza una vittimizzazione secondaria 7 da parte dei meccanismi di
7 Si preferisce utilizzare la terminologia « vittimizzazione secondaria » invece che « danno secondario» come proposto da alcuni (Bandini et al. 2004: 532 ss.) non
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azione delle agenzie del controllo sociale formale ha radici lontane e non è stato direttamente sollecitato dalle inchieste di vittimizzazione. Già Mendelsohn, dobbiamo ricordarlo addirittura negli anni '40, aveva invocato una maggior attenzione, una maggior assistenza, una maggior tutela per le vittime del reato prese negli ingranaggi del sistema giudiziario. Quando si è esaminato il contributo pionieristico di Mendelsohn alla vittimologia, si è proprio posto in luce questa sua denuncia della vittimizzazione secondaria che precorreva di molto i tempi. La cornice teorica e di ricerca della vittimizzazione secondaria e la forte posizione del suo impatto sulla vittima come problema sociale, si è consolidata, infatti, solo sul finire degli anni '80. Lo stesso Schafer (1968) aveva previsto che la« riscoperta» della vittima grazie alla vittimologia, avrebbe portato nuovamente sul tappeto il suo ruolo e la sua partecipazione nel sistema giudiziario. Indubbiamente la cooperazione della vittima è fondamentale per le agenzie del controllo sociale innanzitutto per la denuncia dei crimini che non rientrino nel loro raggio di visibilità e di azione, sia per fornire i mezzi di prova del reato nel processo, identificare l'autore e testimoniare dinanzi al giudice. Senza tale stretta collaborazione molti crimini rimarrebbero certamente sconosciuti ed impuniti (Zedner 1994: 1230). La vittimizzazione secondaria opera di fatto secondo due diverse dimensioni, entrambe connesse al pregiudizio ed alla stereotipizzazione. Il primo profilo deriva dalla costellazione di stereotipi che ineriscono la cosiddetta « responsabilità condivisa ». È stato osservato come le impostazioni e le prospettive della vittimologia basate sul concetto di precipitazione, provocazione, attivazione se non dichiaratamente sulla base di giudizi morali come le categorie di Mendelsohn o di Schafer, sono state poi criticate. La principale ragione delle obiezioni critiche mosse è che la prospettiva della responsabilità condivisa giunge a rafforzare proprio quegli stereotipi di « colpevòlizzazione »
solo per una maggiore fedeltà di traduzione dell'espressione « secondary victimization » o « second victimization » utilizzata per designare il fenomeno nella letteratura scientifica internazionale. Si tratta, infatti, di una vera e propria seconda vittimizzazione e non di un danno secondario al crimine subito, proprio perché si basa su di una interazione del tutto autonoma e distinta dal primo evento e con caratteristiche ed elementi peculiari. Spesso i meccanismi della vittimizzazione secondaria non sono in alcun modo connessi in termini causali al crimine subito che costituisce solo !'"occasione" dell'incontro, dell'interazione della vittima con il sistema penale secondo dinamiche del tutto proprie.
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della vittima od a rinforzare alcune razionalizzazioni del criminale stesso (la vittima se lo meritava, ecc.), per cui le caratteristiche generali della vittima od il comportamento tenuto al momento in cui si è subito il crimine, sono oggetto di biasimo da parte degli operatori delle agenzie del controllo formale. Da parte di tali operatori, polizia, magistratura, corti giudicanti e servizi, la responsabilità è operazionalizzata in termini di mancata prevenzione da parte della vittima della propria vittimizzazione (Viano 2002). Tali stereotipi e pregiudizi colpiscono dunque la vittima proprio perché possiede delle caratteristiche, avvenenza o benessere economico, ed ha tenuto un comportamento negligente, imprudente, o facilitante, favorente sino alla provocazione, il crimine subito. Il secondo profilo attiene invece gli stereotipi e pregiudizi che possono colpire una certa categoria in quanto tale, a prescindere dal crimine subito in base ad alcune caratteristiche come il genere, la razza, l'orientamento sessuale. Naturalmente un gran numero di ricerche sono state condotte proprio sull'atteggiamento « sessista » delle agenzie del controllo sociale formale nel trattare crimini particolarmente delicati come la violenza sessuale con riferimento alle vittime, che siano donne o minori. In realtà la vittimizzazione secondaria in questo caso può dipendere semplicemente anche dalla freddezza, dalla disattenzione, dalla noncuranza dei meccanismi di funzionamento istituzionale del sistema giudiziario (Bandini et al. 2004: 534). Holmstrom e Burgess sono stati tra i primi ad analizzare le dinamiche negative e le conseguenti esperienze spiacevoli per le vittime di violenza carnale nel corso dell'iter giudiziario (1975; Bandini et al. 2004). In questo senso può essere particolarmente stressante già l'interrogatorio della vittima come testimone sia nelle indagini preliminari che, a maggior ragione, nell'udienza pubblica. Il problema è però maggiore quando coloro che dovrebbero far rispettare la legge condividono gli stessi stereotipi e pregiudizi sulla violenza sessuale che si riscontrano a livello sociale. Gli operatori delle agenzie del controllo formale potrebbero così «convalidare» e «legittimare» la vittimizzazione (Brownmiller 1975; Viano 2002: 334), perché ad esempio la donna era una prostituta od aveva un comportamento sessuale promiscuo. Viano traccia una differenza tra la letteratura « aneddotica » e quella supportata dalla ricerca empirica, in cui l'atteggiamento degli operatori delle agenzie del controllo sociale appare in una luce più positiva anche se vi sono dati che indicano che almeno alcuni sono influenzati dalle caratteristiche della vittima, dalle circostanze del cri-
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mine, particolarmente nei confronti di quei comportamenti della vittima che ai loro occhi sembrano aver « provocato » la violenza sessuale (Viano 2002). Indubbio, e comunque rilevante, è l'impatto negativo derivante alla vittima dal grado di insoddisfazione in relazione al suo ruolo e partecipazione nel procedimento giudiziario, per una serie di fattori quali la mancanza di informazioni, l'indifferenza del sistema, la mancanza di un reale coinvolgimento come partecipe attivo piuttosto che « oggetto » degli atti giudiziari che la riguardano (Zedner 1994; Bandini et al. 2004). Rimane comunque un tema particolarmente al centro del dibattito attuale in vittimologia e suscettibile di futuri ulteriori importanti approfondimenti (Viano 2002).
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