Winterreise. Viaggio invernale fra le rovine del moderno
 8822038061, 9788822038067

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AUGUSTO ILLUMINATI

WINTERREISE VIAGGIO INVERNALE FRA LE ROVINE DEL MODERNO

EDIZIONI DEDALO

Piccola Biblioteca Dedalo diretta da Gianfranco La Grassa e Mario Quaranta

Augusto Illuminati insegna Storia della filosofia politica nell'università di Urbino. Ha scritto Sociologia e classi sociali (Torino 1967), J.-J. Rousseau e la fondazione dei valori borghesi (Milano 1977), Gli inganni di Serastro (Torino 1980). È membro de! Centro studi di materialismo storico e collabora alle riviste «Alfabeta» e «Paradigmi».

Winterreise, « viaggio invernale », è il titolo di una fa­ mosa composizione di Franz Schubert, in cui si fondono nostalgia romantica e fredda « vertigine » del moderno. A quel titolo si richiama il lavoro di Illuminati, un « viag­ gio » tra le « rovine » dei grandi sistemi politico-filosofici ereditati dall’ottocento, in primo luogo il sistema teorico marxista, ormai inadeguati a sorreggere l’indagine della realtà contemporanea. È necessario, sostiene l’autore, rinunciare all’unitarietà e alla staticità di quelle grandi sintesi, e misurarsi invece con le loro contraddizioni, problematizzandone e dialettizzandone le nozioni (il lavoro e la società, ad esempio) che la tradizione continua a presentare come « concluse » e definitive. L’« inverno » attraverso il quale si muove la ricerca è in pratica quello della sconfitta della sinistra negli anni Sessanta e Settanta. Ma il bilancio del « viaggio » non è negativo: i periodi di difficoltà sono quelli in cui si impara, si correggono gli errori, ci si prepara al nuovo.

AUGUSTO ILLUMINATI

WINTERREISE VIAGGIO INVERNALE FRA LE ROVINE DEL MODERNO

EDIZIONI DEDALO

In copertina: Scena davanti al paese, di Paul Klee (1929).

© 1984 Edizioni Dedalo spa, Bari Stampato in Bari dalla Dedalo litostampa spa

A Veronica

Il « viaggio invernale » 1 è gestione della per­ dita, percorre la zona di confine tra nostalgia ro­ mantica e fredda vertigine del moderno2. I som­ messi congedi liederistici3 gravitano irresistibil­ mente sotto il segno nichilistico-messianico di Sa­ turno, signore dei viaggi e di produttivo inappaga­ mento 4. La dissoluzione del nesso fondamento-sog­ gettività è però passibile di differenti interpretazio­ ni e comporta alternative filosofiche piuttosto aguzze. Quella che intendiamo mostrare è ben differente, per esempio, dalla contemporanea edi­ zione ermeneutica della « pappa del cuore » di hegeliana memoria, pur nel comune presupposto della crisi irreversibile della compattezza sinteticonarrativa delle grandi ideologie ottocentesche. La forma del passaggio è costitutiva dell’espe­ rienza del moderno, mentre l’ideologia del passaggio, con il suo accento sui legami « deboli », non fa che riproporre una sistemazione narrativa del sapere, conciliando le contraddizioni, le asperità del tra­ passare, in una canzone da organetto. La forma del passaggio è quella di un processo senza finalità e senza soggetto : su questo scarto dalle rappre­ sentazioni « classiche » del reale si affacciano va­

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rianti ontologiche alternative, si confrontano solu­ zioni idealistiche e materialistiche. Il testo dei classici è così sottoponibile a mol­ teplici e contrastanti riscritture, in ottemperanza a una pressione della realtà che rende parimenti inefficaci la pietà antiquaria e la compiacenza ermeneutica.

Emergenze marxiane

1. Non serve lamentare che — nella cultura della sinistra in cui scrivente e presumibili lettori sono cresciuti — il testo di Marx sia stato propo­ sto come « sacro ». Vale piuttosto la pena di trattarlo effettivamente come tale, cioè secondo quella « tradizione » che ha sempre prediletto — fra i due significati del latino tradere — più il versante del « tradimento » che quello del « tramandamento ». Molte letture e interpola­ zioni, dunque, senza dimenticare che a ciò auto­ rizza, innanzi tutto, il fatto che ogni grande testo, ma « soprattutto quello sacro », contiene fra le righe la propria traduzione virtuale, che insom­ ma, per dirla con la conclusione del saggio benjami­ niano sul compito del traduttore, « la versione in­ terlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione », cioè del sommovimento del­ la propria lingua per effetto dell’intrusione di un modello altro. L’intersezione fra Marx e contesti post-marxiani non produce integrazioni ma effet­ ti di dislocazione, scaturigine di nuova ricerca che forzi i limiti dei linguaggi rispettivi. 2. 8

Una prima emergenza del discorso mar­

xiano è il termine « lavoro ». Possiamo prenderlo all’estremo della sua produzione, nella Critica del programma di Gotha, che apre proprio con la de­ nuncia di un abuso:

« Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natu­ ra è altrettanto la fonte dei valori d’uso (e di tali va­ lori consta appunto la ricchezza reale!) quando il la­ voro, che di per sé è soltanto l’estrinsecazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. Quella frase si trova in tutti gli abbecedari ed è giusta solo se si presuppone che il lavoro si esplica con gli og­ getti e con i mezzi che gli convengono. Ma un pro­ gramma socialista non deve indulgere a siffatte lo­ cuzioni borghesi tacendo le condizioni che sole gli conferiscono un significato. Solo in quanto l’uomo si rapporta, sin da principio, da proprietario alla na­ tura, fonte prima di tutti i mezzi e oggetti di lavoro e li tratta come cose di appartenenza, il suo lavoro diventa fonte di valori d’uso, dunque anche di ric­ chezza. I borghesi hanno ottime ragioni per attribui­ re al lavoro una soprannaturale forza creativa, poiché proprio dalla determinatezza naturale del lavoro ri­ sulta che l’uomo, possessore della forza-lavoro come sua unica proprietà, deve essere, in tutte le condizioni so­ ciali e culturali, schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali di lavoro. Egli può lavorare soltanto con il loro permesso, quin­ di vivere soltanto con il loro permesso ». Ovviamente questo concetto di lavoro utile si fa valere soltanto « nella società e attraverso la società » e quindi il reddito del lavoro appartiene interamente con eguale diritto a tutti i membri della società. Banalità, osserva pertinentemente Marx, ma non ininfluenti. Infatti il prodotto so­ ciale viene così ad appartenere alla « società »

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e « al singolo lavoratore ne spetta tanto quanto non è necessario per mantenere la ‘ condizione ’ del lavoro, la società ». Questo tipo di frasi non è soltanto inutile tautologia, ma viene fatto vale­ re sistematicamente « dai campioni del regime so­ ciale di ogni tempo » per legittimare le pretese del governo, dei suoi parassiti e dei diversi tipi di proprietari privati, insomma di tutte le « fon­ damenta della società ». Abbiamo qui una messa in evidenza spettaco­ lare quanto enigmatica dello scarto fra il pensato di Marx e ciò che a lui è attribuibile. Se per cer­ ti aspetti si tratta di una precisazione contro evi­ denti deformazioni lassalliane, per altri è piut­ tosto uno strappo interno a Marx stesso, un far luce su se stesso e perfino contro se stesso. Proposizioni come quelle citate mal si conver­ rebbero alla nozione di lavoro presente neU’lJeologia tedesca, all’interno della categoria storico-ge­ nerale di « produzione della vita materiale », per cui la natura è un fondo, che opera nel suo pro­ prio modo (cioè vincolando gli uomini a rappor­ ti limitati fra di loro nella stessa misura in cui l’identità fra uomo e natura è stretta). La stessa divisione del lavoro ha così uno svolgimento na­ turalistico (divisione sessuale poi spontanea del lavoro, ecc.) e il potere della cooperazione socia­ le, nella misura in cui è « naturale » e non volon­ taria, si pone come potenza estranea. La storia uni­ versale (e dunque la « vera » società) risulta dal superamento dell’estraniazione e insieme dallo svi­ luppo delle forze produttive. Si tratta di elementi durevolmente acquisiti in Marx, ma che qui si pre­ sentano nella loro estrema unilateralità: la massi­ ma accentuazione delle forze produttive si coniuga

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a una riduzione naturalistica del lavoro, dotata di potenziale ubernaturliche Schopfungskraft5. Nella tarda Critica, invece, Marx denuncia l’ambiguità delle categorie generiche di lavoro » e « società », ne marca la complementarità a una « produzione in generale » e a una « storia in gene­ rale » che nel Capitale sono state decisamente ab­ bandonate. Non si tratta soltanto della critica al­ l’astrazione indeterminata e all’interpolazione in essa di contenuti borghesi, ma di un meccanismo alternativo — appena abbozzato — per rappre­ sentare il tempo storico nella pluralità delle storie e dei livelli della realtà. La produttività « soprannaturale » del lavoro ha senso soltanto come elemento dinamico di una storia universale e di una produzione generale, il cui soggetto è Vuomo e il cui fine l’estinguersi del­ le contraddizioni nella società senza classi, al ter­ mine di un progresso identificabile con lo svilup­ po delle forze produttive che fa saltare i limiti del modo di produzione capitalistico. Quésta è una lettura possibile del corpo testuale marxia­ no ed è stata infatti quella corrente nella Seconda e Terza Internazionale — una lettura ben fondabile in citazioni e connessioni (così da rendere im­ praticabile qualsiasi ingenuo « ritorno a Marx). L’attacco che si muove nella Critica (e nelle suc­ cessive Glosse a Wagner) contro le generalizzazio­ ni e 1’inevitabilità constatata della loro utilizzazio­ ne da parte di tutti i Vorfechtern des jedesmaligen Gesellschaftszustand parla in tutt’altro senso, ma a prenderlo sul serio bisogna rassegnarsi a perdere le bella unità del corpus marxiano, ad ascoltarlo nella sua contraddittorietà e apertura. In questo consiste la profonda « inattualità » e « non con­

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temporaneità di Marx nel suo tempo e rispetto a se stesso6. Ma qual è, in fondo, il senso della limitazione della categoria « lavoro »? Andiamo a vedere le Randglossen del 1879-80 al manuale di Wagner7. Difendendosi dalla « fantasia » di aver costruito un « sistema socialista », Marx nega di aver mai par­ lato della « sostanza sociale comune del valore di scambio » e di averla fatta consistere nel « la­ voro ». Questa operazione cancellerebbe tutta la trattazione della forma di valore o la ridurrebbe al substrato-lavoro, facendone una « teoria del co­ sto » post-ricardiana. La differenza invece fra Marx e Ricardo sta proprio nell’essersi quest’ultimo oc­ cupato del lavoro come misura della grandezza del valore, senza coglier^ (in assenza di elaborazione della for ma-valore) lo scarto fra valore e prezzo di produzione. Marx non ha mai voluto prendere a soggetto il « valore » o il « valore di scambio » (che ne è manifestazione fenomenica), bensì la merce\ non un concetto ma un concreto (« la forma più sem­ plice in cui si presenta il prodotto del lavoro nel­ l’attuale società, il prodotto in quanto merce »). La merce è insieme valore d’uso prodotto dal la­ voro utile (concreto) e portatrice del valore di scambio, che rinvia ovviamente al valore e al la­ voro astratto, al lavoro come dispendio di forzalavoro. Nel mondo plurale delle merci il valore d’uso è soltanto materializzazione (Vergegens tàndlichung) di lavoro umano, Verausgabung gleicher menschlicher Arbeitskraft; dal momento che que­ sta oggettività non si manifesta naturalmente, oc­ corre una specifica forma di valore che esprima il carattere sociale del lavoro nel suo modo differen­

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ziale, adeguato a una particolare società. L’acces­ so diretto, naturalistico, alle categorie di « società » e « lavoro sociale » non fa allora che legittimare la perpetuità dello sfruttamento. La riprova è nel passo in cui Marx bolla l’u­ so sconsiderato della categoria « uomo »: il suo metodo analitico non parte dall’uomo, ma da un periodo economicamente dato della società, l’uomo in quanto tale non ha bisogni (le categorie non mangiano), l’uomo di una data società è determi­ nato da un processo sociale specifico, mediante rapporti pratici e successivamente linguistici e teoretici8. Siamo qui ben lontani dall’apologià del­ l’individuo tracciata nell’ideologia tedesca9, che da un lato definiva esattamente l’individuo moder­ no nel contesto dell’indifferenza sociale dei rap­ porti mercificati, dall’altro faceva coincidere 1’ emancipazione e la riappropriazione delle relazio­ ni universali con lo sviluppo delle forze produtti­ ve. Il proletario — nella definizione ancora incer­ ta del rapporto di produzione — tende qui a figurare come Uomo, anche se l’essenza è già risol­ ta in relazioni. Nelle Glosse invece lo spostamento d’accento sulla coppia merce/forma dei rapporti di produzione rispetto a quella lavoro/società (ov­ vero: valore/sostanza sociale comune) è ben av­ vertibile. Il carattere « sociale » del prodotto del lavoro non risiede più in uno sfondo genericamen­ te cooperativo della produzione, bensì possiede una forma specifica: immediatamente comunita­ ria nella comunità primitiva, fondata sulla produ­ zione di valore d’uso per altri nella produzione di merci. Il carattere oggettivo della socialità del lavoro si presenta sempre mediato da forme stori­ che diverse di società e sulla categoria « uomo » non 13

può poggiare né un metodo analitico nè — tanto meno — un’ideologia emancipatoria. Diventano nel contempo problematiche le categorie stesse che coprono vari modi di produzione (coopera­ zione, lavoro, società, uomo ecc.), la cui funzione va ridefinita proprio nello snodo diacronico del processo storico, « interfaccia » di ruoli specifici in strutture diverse10, mentre risulta ormai palese­ mente inapplicabile (e già in quei testi marxiani, nella discussione fra soggetto-merce e soggetto-va­ lore c’è un inizio di autocritica) uno svolgimento dialettico tradizionale, hegeliano, di auto-contrad­ dizione di concetti generali. Tornando al « lavoro » nell’apertura della Cri­ tica è facile osservare come l’affermazione « socia­ lista » della sua centralità si converta rapidamente in una conclusione « borghese », solo che si omet­ ta il riferimento alla distribuzione dei mezzi di produzione e lavoro. E fin qui vale il solito discri­ mine dell’astrazione determinata. Un secondo pas­ so, più « delicato », presuppone lo sviluppo della distinzione di avvio: il lavoro, che non è la fon­ te di ogni ricchezza ma condivide con la natura tale carattere, è evidentemente il lavoro concreto, primo termine della serie Arbeit — Gebrauchswert — Reich turn. Alla naturalità del lavoro così conce­ pito (Ausserung einer Naturkraft), quindi parte esso stesso della natura, corrisponde la naturalità della « ricchezza reale » {sachlichy, nelle società, però, in cui domina il modo di produzione capitali­ stico, la ricchezza si presenta come « un’immane raccolta di merci » — secondo l’espressione mar­ xiana di Zur Kritik der politischen Oekonomie (1859) ripresa ad apertura della prima sezione del Capitale. Qui abbiamo una seconda serie: alla « ric14

chezza » formata dall’insieme delle merci (dei valori di scambio) corrisponde l’aspetto astratto del lavo­ ro: abstrakte Arbeit-Tauschwert. Dunque, se il lavoro è preso nel senso « cor­ rente » (cioè in contesto capitalistico) e viene do­ tato di quella naturalità che inserisce invece al so­ lo lavoro concreto, abbiamo semplicemente una le­ gittimazione dei rapporti capitalistici: il lavoro salariato, produttivo di valore, assume una natura­ lità ipertrofica {ùbernaturlich) non solo scioglien­ dosi dal suo nesso con la natura (destituita dal suo ruolo di co-produttrice della ricchezza « reale ») ma imponendosi prometeicamente ad essa, ri­ ducendola a fondo di saccheggio senza limiti. Sia­ mo davanti a quella « gratuità » della natura che Benjamin riproverà sarcasticamente a Dietzgen11 proprio richiamandosi alla marxiana Critica della socialdemocrazia. Lo scambio fra aspetto concreto e astratto del lavoro produce la sua « soprannaturalizzazione » e la conseguente ipostasi del suo specifico contesto sociale a « società »; non si tratta però di uno scambio « per errore ». Invero i due aspetti sono, nel lavoro capitalistico, strettamente embricati e l’astrazione del lavoro è condizione per la sua pro­ duttività crescente, potenzialmente per la sua fun­ gibilità emancipatoria. Dunque l’illusione lavoristica e prometica, così come l’ideologia giuridico-religiosa del soggetto, sono per un verso apparenze « rea­ li », per l’altro si connettono ad ambivalenze ma­ teriali del processo di sviluppo delle forze produt­ tive, quali si riscontrano assai mondanamente, per esempio, nell’emergenza di nuove tecnologie in­ formatiche. Che sia in gioco un individualismo giuridico 15

— sullo sfondo religioso dell’uomo « signore del­ la natura » — è fuori di dubbio: Tuomo, conside­ randosi « proprietario » della natura, si rappresen­ ta anche come proprietario della sua personale for­ za-lavoro e quindi assoggettabile a chi detiene le condizioni materiali del lavoro: se inizialmente la frase marxiana può sembrare ambigua, meramente fattuale, « Nur soweit der Mensch sich von vornberein als Eigentiimer zur Natur. verhàlt », succes­ sivamente è del tutto esplicito il collegamento fra il carattere di proprietario di forza-lavoro e la ca­ duta in schiavitù presso i proprietari dei mezzi di produzione — tale è appunto la Naturbedin gtheit der Arbeit, così come l’essere lavoratore produtti­ vo (portatore &d&'ubernatiirliche Schòpfungskraft) è notoriamente = « una disgrazia » ! L’oggettivazione dell’uomo contro la natura (e la sua immediata soggettivizzazione giuridica a luogo di imputazio­ ne della proprietà) produce simultaneamente il do­ minio dell’uomo sulla natura e il dominio dell’uo­ mo sull’uomo. Questo punto è stato colto con molta acutez­ za in una formulazione benjaminiana del PassagenWerk: 12 « Se l’uomo non fosse sfruttato in senso proprio, ci si potrebbe risparmiare un discorso improprio sul­ lo sfruttamento della natura. Esso produce l’apparen­ za del ‘ valore ’, che le materie prime ricevono sol­ tanto mediante l’ordinamento produttivo poggiato sullo sfruttamento del lavoro umano. Se questo ve­ nisse a cessare, dal canto suo il lavoro perderebbe il carattere di sfruttamento della natura da parte degli uomini ».

3. 16

D’altra parte non è certamente un’evoca

zione generica della socialità, contrapposta al ca­ rattere privato dell’appropriazione, che può elimi­ nare la strumentalizzazione dei « proprietari » di forza-lavoro da parte dei proprietari delle condizio­ ni di lavoro. Il trasferimento alla società delle at­ tribuzioni che attualmente spettano ai singoli di­ visi in classi non riuscirebbe ad abolire lo sfrut­ tamento, ma ne modificherebbe soltanto la forma. Sarebbero collettivizzate le pretese delle varie for­ me di proprietà privata e resterebbero le pretese fiscali dello stato. Il socialismo « reale » sta a mo­ strare che non di ipotesi teoriche si tratta. La rottura, storicamente consumata, fra lavora­ tore e mezzo di produzione — che ha reso sem­ pre più complessa la « socialità » della forma di equivalente (o scambiabilità) dei prodotti del lavoro — rende profondamente ambiguo lo statuto della cooperazione nell’ambito di un processo « creativo » di appropriazione della natura. L’ambiguità vale tanto per il tipo di rapporti di produzione che si instaura con la soppressione della proprietà giuri­ dica privata dei mezzi di produzione e lo svilup­ po delle forze produttive quanto per la relazio­ ne che si pone fra soggetto, progettualità e sfrut­ tamento della natura. L'ideologia del lavoro — che ha nella società e nell’appropriazione cooperati­ va illimitata della natura i suoi cardini — svolge un ruolo in entrambi i contesti e copre processi di modernizzazione e approfondimento capitali­ stico 13. La rappresentazione « soprannaturale » del lavoro, congiunta per un verso alla « società », per l’altro allo sfruttamento « gratuito » della natura — vale a dire al suo saccheggio sconsiderato —, è figura di uno sviluppo delle forze produttive completamente subordinato ai rapporti capitalisti­

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ci di produzione. L’emancipazione della tecnica dai « vincoli » naturali è esattamente l’opposto del­ l’emancipazione del lavoro. La « società » — nei termini criticati da Marx per ragioni inerenti alla distribuzione in classi — si configura, sotto altro aspetto, come portatrice ideale della progettualità sconfinatamente dominan­ te sulla natura, mediata dal lavoro « creativo » di valore, nella duplice forma di legittimazione scam­ bievole e di immaginario collettivo. La società è invocata a contesto della progettualità manipolan­ te — solo in essa è possibile il lavoro e giustifi­ cato ogni prelievo sulla natura — e insieme la sua stessa esistenza costituisce il centro di pianificazio­ ne per lo sfruttamento delle risorse. Pertanto posi­ zione teleologica cjlel lavoro, illimitata manipolabilità della natura, utopia della « trasparenza » di una società dedita esclusivamente allo sfruttamento del­ le risorse naturali formano un circolo che garanti­ sce la ed è garantito dalla « pienezza » di soggetti illusori — siano essi i « produttori » saint-simoniani o i tecnici delle mitologie industriali e post­ industriali o la « classe operaia al potere » nei paesi del socialismo realizzato. Proprio in quest’ultimo caso l’appropriazione cooperativa della natura si è fatta maschera di un’ oppressione di classe in cui si unificano forme di prelievo del plusvalore ancora separate all’epoca di Marx e cambiano addirittura le modalità della sua produzione (pianificazione in luogo del mer­ cato, blend di coercizione amministrativa e con­ cessioni politico-sindacali ecc.). Nell’ideologia « so­ cialista » del lavoro il proletariato si presenta nel­ la sua piena identità di « produttore », nella for­ ma finalmente dispiegata di un processo che lo 18

ha visto da secoli costruttore della ricchezza so­ ciale in molteplici varianti di asservimento ai dif­ ferenti proprietari dei mezzi di lavoro. La pienezza e indipendenza dalle concrete pra­ tiche sociali e produttive, che caratterizza il pro­ letario-soggetto tradizionalmente inteso, lo condan­ na inesorabilmente a restare « soggetto » ad altri: il socialismo « reale » è l’ultima cerchia della sua dolorosa metempsicosi. In questo approdo la « missione » del proletariato — effetto di sog­ getto di un meccanismo di cui sono capisaldi il « patrimonio storico-culturale » e lo « sviluppo del­ le forze produttive » — consiste nel portare, per conto altrui, il solito fardello della « produzione in generale», stavolta con la propria etichetta. Esistono in Marx — certo, contraddittoriamen­ te ad altri passaggi di segno produttivistico e lavoristico — elementi che contrastano tali usi le­ gittimanti del materialismo storico14, come più in generale non mancano smentite a interpretazio­ ni umanistiche ed esplicite ripulse ad accezioni organicistico-consolatorie della società. Il loro uso presuppone però uno strappo dal contesto del corpus e l’inserimento in altro contesto. La bru­ talità filologica dell’operazione, che sconta e va­ lorizza le inevitabili « reazioni di rigetto » piutto­ sto che mirare a un pacifico adattamento, rende produttiva per il presente la « non contemporanei­ tà » di Marx a se stesso, l’eccesso di senso ri­ spetto al detto e allo strutturato nell’opera. 4. La difficoltà maggiore concerne però lo statuto dell’individuo. Come è possibile trovar­ gli un luogo, dopo aver distrutto la nozione tradi­ 19

zionale di soggetto riversando, nei varchi aperti dallo stesso Marx, i veleni corrosivi di Freud, Niet­ zsche, Heidegger (secondo il contributo tortuoso ma efficace di Althusser)? Il problema della costituzione del soggetto ri­ chiede — come del resto si vedrà nel successivo ca­ pitolo a proposito della dialettica — la chiamata in causa di un territorio parzialmente nuovo per ta­ le tipo di discussioni, quello della strategia, della ragione astuta e congetturale che i Greci, prima del logos platonico e accanto ad esso, chiamavano metis 15, distinguendola da procedimenti rigorosa­ mente induttivi e deduttivi e accostandola piutto­ sto a pratiche di caccia, gara, guerra, politica, con­ nesse con l’abilità, l’agguato, il colpo d’occhio, la previsione rischiósa e l’ambiguità oracolare. Si al­ lude nella metis a una circolarità preda/predatore che accomuna l’uomo agli altri animali — al­ meno ai livelli più semplice di pratica — e poi via via a tematiche che dal legare e dall’avvolgere slittano fino al gioco delle apparenze e della loro connessione inestricabile. Con questa ambigua polivalenza — che assur­ ge a teorizzazione nella presentazione sofistica del filosofo e del politico — Platone avvia una radica­ le resa dei conti, non solo contrapponendo doxa a episteme ma anche collocando l’universo della metis in una situazione ontologica precisa, quella del caos pre-demiurgico (Timeo, 48 a-e; 69 b-c) e quella dell’8a ipotesi del Parmenide-, fra le varie combinazioni di predicabilità fra l’Uno e l’Essere si tratta qui di un caso specifico del secondo grup­ po di varianti, per cui l’Uno non è (cfr. Parmenide, 164 c - 165 e). Se allora l’Uno non è, quale sarà la condizio­

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ne degli altri? Visti nella loro relazione reciproca gli altri devono pur esistere, dato che sono ogget­ to di discorso, ma sono « altri » non in rapporto alTUno, che non esiste, bensì fra di loro. Ogni pluralità, ogni massa lo è in riferimento a un’altra pluralità, a un’altra massa, e per di più in modo indefinito, così che anche la più piccola, all’improv­ viso e come in sogno, appare immensa nelle sue innumeri suddivisioni. Vi saranno dunque molte masse che appariranno unità, senza esserlo poiché l’Uno non è, e sembrerà che ve ne sia un numero, dato che sono molte di parvenza unitaria, e quin­ di anche vi saranno le categorie di pari e dispari — ma solo fantasmaticamente, in assenza dell’Uno. E così si manifesteranno sembianze di piccolezza e grandezza e anche di eguaglianza, per il passaggio — nella reciproca trasmutazione — attraverso il pun­ to intermedio; e ogni massa sembrerà avere un li­ mite, anche se in realtà non vi può essere inizio, centro e fine in senso proprio. Quando infatti l’intelletto (diànoia) afferra una parte di esse come se fosse tale, prima dell’inizio appare un altro ini­ zio e dopo la fine rimane sempre un’altra fine e accanto al centro vi sono a maggior ragione altri centri: se l’Uno non esiste, domina la cattiva in­ finità hegeliana. Nella sequenza delle masse separate dall’Uno l’intelletto si smarrisce. Che se la si guarda poco distintamente e da lontano, tal cosa sembra una, ma da distanza ravvicinata e con occhio fermo ri­ sulta indeterminata per pluralità {plèthei àpeiron\ per mancanza dell’Uno. Ogni cosa, in tali condi­ zioni, apparirà limitata e senza limite, unica e mol­ teplice, eguale e diseguale, omogenea ed eteroge­ nea in sé e nel rapporto reciproco:

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« E quindi tali masse apparirono necessariamen­ te identiche e reciprocamente differenti, connesse e sconnesse, agitate e immobili, nasceranno, si dissol­ veranno e non si troveranno affatto in una di queste condizioni e saranno affette da ogni facilmente pre­ vedibile contraddizione, se la pluralità è data in as­ senza dell’Uno ».

Siamo qui nel Tartaro dell’essere — nel mito il Tartaro è àpeiron, in traversarle per confusione dei percorsi — e l’intelletto dianoetico vi si perde nell’inafferrabilità del limite (peras), nel rimando circolare di differenze senza fondamento. Alla ma­ lignità di questa trionfante metis risponde alterna­ tivamente la nuova ragione, il logos, che per un ver­ so privilegia l’aver visto (eidénai) e l’esatto reso­ conto (orthótès)j per l’altro instaura la netta se­ parazione fra spirituale e corporeo all’interno di un orientamento « metafisico » 16 che oblia la dif­ ferenza ontologica. Con lo stesso gesto di incisio­ ne sull’intreccio di limitato e illimitato mediante la numerazione (l’Uno) e la partecipazione del di­ venire all’essere articolato in idee viene potenzial­ mente costituita anche la soggettività moderna, almeno nel suo appartarsi dalla promiscuità del mon­ do. Con l’inghiottimento di Metis, prima sposa, Zeus aveva interrotto17 la dialettica in cui ogni predatore può divenire preda di un avversario più astuto e grazie al successivo matrimonio con Themis, dea dell’ordine e dei confini, aveva inaugurato la stabilità del proprio potere; nel ricalco filosofico Platone relega, in nome della ragione analitica, le altre forme di sapere in un caos inquietante ma esorcizzato. L’efficacia storica e la relativa irreversibilità di questa censura platonica18 rendono spiazzato

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ogni risentimento che ingenuamente riproponga un sapere « basso » alternativo 19. Nei due luoghi de­ cisivi individuo e della dialettica la nuova soglia ontologica definita a partire da Platone è piuttosto divenuta insufficiente per racchiudere e dar conto dell’esperienza moderna.

5. Marx rappresenta uno dei due punti di crisi della soggettività piena inaugurata da Platone, teologicamente ancorata nel pensiero cristiano e metodologicamente saldata con Cartesio allo svi­ luppo della grande scienza moderna (l’altro è Nietzsche). Il percorso marxiano va dalla con­ traddittoria riflessione su Hegel degli scrit­ ti di giovinezza — in cui l’oscillazione hege­ liana fra il riconoscimento epocale della soggetti­ vità cristiano-germanica e il congedo da essa nel­ l’implicita desoggettivizzazione del processo dello Spirito è vissuta prima con la ricezione (feurbachianamente semplificata) dell’individuo concreto poi con l’accettazione « capovolta » (materialisti­ camente) di una dialetticità sovra-individuale — fino all’iscrizione dell’individuo come portatore (Trager) dei rapporti di produzione e alla denuncia delle componenti giuridico-religiose dell’umanesi­ mo borghese. Marx lascia il problema irrisolto e non ha senso volerne ricavare più che un segno di lacerazione dell’armonioso tessuto del soggetto pieno (neanche Nietzsche, del resto, ha svolto una funzione diversa, dichiarando egli una crisi più che articolando una soluzione). Anche il soggetto è con­ federazione plurale in assenza dell’Uno: cosa lo stringe o lo rende attivo? Nel regno della metis, ovviamente la metis stessa. Il soggetto, una volta che si sia rinunciato alla 23

sua « pienezza » tesa fra un’origine e una finalità ben individuabili che insieme garantiscono la « storia universale », è ipotizzabile ancora come unità che si costruisce attraverso pratiche, in modo strategico. Le strategie (trattasi infatti di una nozione costitutivamente « plurale ») agiscono sul terreno della decifrazione di segni incerti (cioè mediante le peirciane abduzioni — inferenze da un fatto particolare noto a uno ignoto), sul terreno della ragione come logos e insieme metis, nell’ambito di quello che Lacan chiama registro simbolico, cui si oppone la resistenza del reale (fonte di tutte le « sorprese », di ciò che non si la­ scia immaginare). Rispetto alle strategie la sfera ùeWimmaginario è infine il luogo dei rispecchia­ menti e dell’alienazione dell’identità, ma anche della fissazione del desiderio in delirio di onnipo­ tenza — per esempio della produzione immagi­ naria dell’individuo nella finzione giuridica, che svolge un ruolo centrale in tutta l’ideologia bor­ ghese dell’economia e dello stato. Il rapporto dei tre registri attraverso i quali si manifesta una soggettività irriducibilmente plurale (la cui forma « piena » è stata soltanto una centralizzazione immaginaria funzionale all’ atomismo capitalistico) ha natura di conflitto, non soltanto di meccanismo linguistico-strutturale: per questo si parla di « strategie » e non di campo enunciativo distribuito, come nella foucaultiana « morte dell’uomo ». L’io dominato dall’immagi­ nario (della tradizione o del desiderio) e l’io schiacciato eticamente sul reale dànno vita alla polarizzazione, nel pensiero della sinistra in senso lato, fra dispersione del soggetto nel desiderio e nell’assenza di memoria, da un 24

lato, consolidamento ripetitivo del soggetto, dal­ l’altro, in pratiche etico-umanistiche, viziate da eccesso di memoria, imprigionamento in una sto­ ricità in trascendibile. Per un verso si nega ogni pur limitata finalità e si respinge il simbolico come regolazione autoritaria del desiderio, per l’altro si punta sulla riappropriazione di un mix di reale piatto e di immaginario confusivo. Non è sufficiente espungere il soggetto (im­ maginario) dalla struttura dei rapporti di produ­ zione e dalla teleologia connessa alla progettualità illimitata e al progresso tout court} occorre rico struirne il ruolo strategico-simbolico e perimetrarne i margini sistemici. Altrimenti nel vuoto delle macchine desideranti riemergerà sempre 1’ antico spettro dell’essenza umana nel suo vortice di alienazioni e riappropriazioni. Lo stesso telos sorpassa il reale con un compromesso di sim­ bolico e di immaginario e il volgersi ad esso del soggetto partecipa dell’ambiguità con cui si adden­ tra nella memoria. Idealmente, che il non-compreso nel passato sia condannato alla ripetizione parodistica nel futuro, proprio questo suggella l’ambivalenza di memoria e progetto intorno alla costituzione dell’individualità moderna.

Forma dialettica della connessione

1. L’ottava ipotesi del Parmenide definisce una situazione ontologica in cui si dà una combina­ zione relativa di differenze, senza un ordine fon­ dato, con una pluralità indefinita di contraddi­ zioni. Non assoluta impredicabilità dell’essere, piut­ tosto coesistenza di elementi che aggirano il prin­ 25

cipio di non-contraddizione. Vuol essere una de­ scrizione del caos, ma potremmo anche assumerla come insieme di relazioni fra sottosistemi, uno dei possibili paradigmi di interazione fra le parti costitutive, il prototipo di una costellazione di situazioni parziali, dotate ciascuna di una propria coerenza, ma difficilmente ordinabili secondo un fondamento. Perciò, dal punto di vista dell’idealismo platonico (o newtoniano), le masse appaiono pseudo-masse, i limiti pseudo-limiti, e così via. La possibilità che questo schema assuma con­ notati storico-morali è ampiamente utilizzata nel fall-out gnostico del platonismo, traducendosi in decadenza materica della luce, in dispersione di una pienezza originaria. Il viaggio nell’impercor­ ribile Tartaro si configura allora come esilio del­ l’anima e destino di deiezione cui corrisponde un’ideologia di redenzione20. La moderna suggestione di tali assunti si di­ spiega nello spazio lasciato libero dal crollo dei grandi assetti sistematici dell’essere, anzi ancora ingombro delle loro macerie. Esilio e separazione dall’Uno allegorizzano lo smarrimento di una per­ cezione organica del vivere sociale e in termini strettamente filosofici l’ineffettualità tanto di un programma analitico universale quanto di una dia­ lettica totalizzante di tipo hegeliano. Tuttavia ostacoli oggettivi interrompono qui l’analogia, sbar­ rando la strada a ogni redenzione immaginaria. In primo luogo l’irreversibilità del processo per cui l’essere non può rappresentarsi più nell’unità di una dialettica necessaria e finalizzata o nel­ l’onniscienza del demone laplaciano che calcola lo stato futuro del mondo dalla conoscenza istanta­ nea dello stato presente. Questa impossibilità

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di necessitazione analitica o dialettica del futuro è essa stessa un prodotto dell’irreversibilità e un dato irreversibile, un momento cioè di crisi dei progetti « progressisti » di ispirazione scientista o dialettica che rende improbabile una reintegra­ zione mistica. L’introduzione nel mondo della se­ parazione, della mescolanza, della differenza non ritraducibile a una distinzione originaria fondante è irrevocabile. In secondo luogo la sedimentazione del lavoro sistematico del logos intralcia la risalita pura e semplice al mondo aperto e caotico delle potenze naturali, il « riaggiustamento dei vasi ». La perdita dell’Uno si presenta quindi positivamente nella forma di crescita della complessità e il problema dell’alienazione/esilio si risolve in quelli — meno mistici ma altrettanto ardui — del controllo non riduttivo sulla complessità sociale e della com­ binazione dialettica dei saperi analitici locali pro­ dotti dalla razionalità moderna. Il luriano « ri­ trarsi di Dio » ha creato lo spazio della storia: qui l’essere sociale si rivela incomprimibile all’ unità e lascia giocare liberamente contraddizioni e differenze. L’aspetto fantasmatico della plura­ lità — che si tramanda sin dal Parmenide è tale soprattutto se lo si riferisce al soggetto21, mentre una ridefinizione strategica di quest’ultimo consente di leggere la complessità in modo assai più neu­ trale.

2. In che modo crisi del soggetto, aumento della complessità e dissoluzione dei grandi racconti unificanti/edificanti si sono modernamente intrec­ ciati? In primo luogo con gli effetti materiali del­ la specificazione e intensificazione delle tecniche. 27

Non stiamo qui a ricordare, con Heidegger, che Tesserci delle tecniche non è tecnico, perché prefe­ riamo insistere sul dato della loro pluralità e del loro generare linguaggi univoci, difficilmente con­ frontabili fra di loro in base a una grammatica comune22. Il linguaggio che ogni singola tecnica parla costruisce una mappa « locale » del reale che le si para davanti. Con il che si danno anche i limiti di questo linguaggio e delle sue pretese di estensibilità. La località della mappa corri­ sponde al ritaglio di una porzione limitata del reale oppure al fatto che la mappa è sincronica, fissa i propri oggetti a un tempo dato oppure ancora sotto uno soltanto dei suoi possibili modi di rappresentazione 23. Dentro la località di una mappa e di una tec­ nica (cioè di un insieme circostanziato di decisioni) il principio di non-contraddizione è essenziale; non è pensabile (non serve) che un simbolo non rappresenti comunque lo stesso oggetto (o Toggetto allo stesso tempo o quel suo particolare aspetto). La polisemia distruggerebbe la possibilità stessa di avere una tecnica, perché annullerebbe la possibilità di riconoscere per certo un oggetto e di costruire previsioni sicure. La polisemia, pur non distruggendo completamente la possibilità di condurre inferenze (esistono infatti logiche non scodane o « paraconsistenti »), indebolisce tut­ tavia sensibilmente la consistenza dei messi sin­ tattici, con ovvi effetti sull’efficacia delle tecniche. Il contesto investito, mediante una mappa, da una tecnica locale è dunque « bloccato » fra i tanti possibili: bloccato su quel tempo o quel­ l’aspetto di cui si vuole trattare. La sperimenta­ lità e la calcolabilità esigono questa riduzione,

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pur non entrando astrattamente in contraddizione con la polisemia. L’esperienza non può che com­ piersi qui e ora — localmente. L’essere vi è ob­ bligato alla presenzialità degli enti e in questo senso la calcolabilità implicita esattezza del logos corre verso la scomposizione del sapere e la « tecnicizzazione » del mondo, secondo il mo­ dulo heideggeriano del Ge-stell. I termini dei quali le tecniche parlano risulta­ no sovrapponibili soltanto per estensione, per deformazione dei nessi localmente definiti, at­ traversando spinosi problemi di traduzioni e com­ patibilità. Il linguaggio della totalità delle tecni­ che è invero il linguaggio naturale, caratterizzato dalla plurivocità e indecidibilità dei significati, dal­ l’allentamento del principio di non-contraddizio­ ne. Un linguaggio non può essere insieme rigoroso e inter-locale. Ma già la definizione assiomatica de­ gli enti di base di cui la singola tecnica parla — stante il carattere tautologico del principio di identità — costringe alla fuoriuscita dal campo di quella tecnica, alla ricerca di una fondazione pre­ analitica che giustifichi gli assiomi sui quali il pen­ siero analitico lavora. Il carattere autoriflessivo degli enti di una te­ cnica (implicito nel principio di identità e nella de­ finizione assiomatica) non implica la circolarità del­ la tecnica nel suo complesso: la tecnica non può dire la verità su se stessa senza cadere in aporie irrisolubili — quali sono state dimostrate, prima ancora del secondo teorema di Godei, dalle kan­ tiane antinomie della ragion pura. Le premesse assiologiehe non sono giustificate nell’ambito del­ la tecnica stessa che, da questo punto di vista, è un « aperto ». Dire tecnicamente la totalità del­ 29

le tecniche sarebbe discorso infinito o contraddit­ torio, falso dunque proprio dal punto di vista « tecnico ». Il pensiero analitico, in cui si articola e divie­ ne pienamente efficace il logos platonico, aderisce benissimo alle esigenze di manipolazione locale del mondo, rendendo possibile la codificazione e co­ municazione delle regole e dei risultati, ma imbri­ glia e proietta i suoi oggetti in uno spazio fittizio, costruendo una realtà che non è direttamente del reale, ma di uno spazio tangente convenzionale24. E’ in relazione a queste difficoltà di autoge­ stione della coerenza sistematica di ogni singola tecnica che si è sviluppata, polemica verso le scien­ ze, la dialettica hegeliana, facendo risiedere nel mo­ mento speculativo l’unità complessiva delle deter­ minazioni finite, astratte, separate. La garanzia del sistema viene posta nell’aderenza del mondo alle modalità dialettiche del discorso speculativo. Questa circolarità autoriflessiva si è però ri­ velata inservibile, sia perché non anticipa sufficien­ temente l’esperienza per consentire la manipolazio­ ne del mondo, sia perché pone il soggetto fuori dal medesimo: da « dentro » si può operare tecni­ camente su una sua porzione locale, da « fuo­ ri » si può soltanto contemplare un mondo che cammina da solo secondo necessità e finalità dia­ lettiche, assorbendo da ultimo la stessa filosofia come « sistema ». Proprio il nesso fra realtà e ra­ zionalità — che inizialmente aveva costituito il punto di forza di Hegel contro il moralismo kan­ tiano — viene a offuscarsi nella circolarità spe­ culativa di una dialettica « espressiva » (per usa­ re il termine althusseriano), in cui la parte espri­ me direttamente il tutto e non sussistono più né

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differenza ontologica fra essere ed ente né ade­ guata separazione di livelli fra essere e pensiero. A quali condizioni è possibile salvare dal nau­ fragio della dialettica speculativa la legittima esi­ genza che l’aveva mossa a travalicare la separatez­ za astratta dei saperi analitici locali e l’aporia del­ le loro pretese di autoconvalidazione assiomatica? E’ possibile, in altri termini, una dialettica che non abbia caratteri di globalità e tuttavia infranga i limiti del linguaggio locale, non-contraddittorio? Qui è in gioco non solo Hegel, ma anche una moda­ lità conciliante e legittimante del materialismo dia­ lettico profondamente inerente al carattere « espres­ sivo » del suo antecedente.

3. Il carattere locale di un linguaggio lo es­ pone all’approssimazione e all’errore, ma la contin­ genza è anche la sua forza: la possibilità di sba­ gliare è strettamente connessa a quella di agire strumentalmente. La falsificabilità garantisce anche l’incidenza operativa. Non solo la tecnica, ma an­ che la strategia ha così un ineliminabile radi­ camento locale, insiste su aspetti particolari e temporalmente determinati a partire dai punti di tangenza fra mappa e realtà. A differenza pe­ rò della tecnica, che mantiene coerenza di linguag­ gio e univocità di risultati nella misura in cui re­ sta locale, l’agire strategico tende a valicare tali confini, costituendosi a istanza inter-locale. Per­ fino le strategie di ricerca in campo scientifico uti­ lizzano tecniche diverse da quelle proprie del lo­ ro campo (per esempio: tattiche politiche e po­ lemiche, vesti filosofiche, appelli propagandisti­ ci, pressioni amministrative, ecc.). Il lato « conget­ turale » del sapere strategico apre inevitabilmen31

te alla polisemia e fa del linguaggio naturale il suo campo peculiare di battaglia. Il linguaggio na­ turale stesso è intessuto dei tropi della retorica, che cercano appunto di costruire un contenuto non costruibile nell’ambito di un solo linguaggio (per usare una definizione di Ju. M. Lotman). D’altra parte il soggetto che si riconosce nel mondo (e quindi diventa oggetto esso stesso) accet­ ta con ciò l’impossibilità di cogliere il vero in mo­ do definitivo: l’oggetto si presenta sempre sotto condizioni determinate, che non possono essere sciolte del tutto, pena la perdita del nesso con il soggetto che giace nel mondo. La circolarità specu­ lativa si infrange sullo status dell’osservatore, che inibisce parimenti un’analitica globale. Una dialettica inter-locale è una dialettica fi­ nita, ipotesi di ricerca sulla struttura reale (locale) del mondo; riconosce i limiti della tecnica nella misura in cui cerca di infrangerne localmente i confini, ma non può distaccarsene completamente, se intende esercitare un’azione. Pur nella difficoltà di definirne un « contorno »25, una dialettica in­ ter-locale, nella sua apertura alla plurivocità dei significati, è più potente di qualsiasi tecnica isola­ ta; ma è una potenza pagata con maggiori livelli di imprecisione e di rischio. La negazione dialetti­ ca, per esempio, non sceglie immediatamente fra i vari elementi che contraddicono quello local­ mente assunto per positivo: sceglie il più funzio­ nale alla critica. L’opposizione dialettica è dunque molto più indeterminata della controparte logi­ co-ontologica della negazione formale classica. L’opposizione reale, la differenza che esiste fra gli enti di cui parla una tecnica o tra gli enti omologhi di due tecniche distinte che parlano del­ 32

lo stesso oggetto reale, viene presentata dalla dia­ lettica come contraddizione, attraverso l’unione nello stesso linguaggio di più sensi diversi {con operazione analoga alla combinazione inter-registrica della retorica), o attraverso la condensazione lo­ gico-sincronica dello svolgersi del mutamento. La condensazione (per esempio lo slittamento da oppo­ sizione diacronica a sincronica: capitalismo/comuni ­ Smo) è fenomeno linguistico in senso lato, presente sia nei meccanismi coscienti sia nel lavoro onirico; essa implica anche fenomeni di spostamento median­ te surdeterminazione, che escludono la determinazio­ ne finalistico-casuale di ogni elemento da parte del tutto e definiscono — sulla linea che va da Freud a Lacan ad Althusser — processi che non siano analitici ma neppure dialettico-espressivi. La moltiplicazione e la specializzazione delle tecniche è l’aspetto tangibile della dissoluzione del­ l’unità sociale secondo l’immaginario del pensie­ ro razionale classico; il logos sta tuttavia sulla por­ ta, con il suo gesto irreversibile di riduzione del­ l’essere alla presenza che vieta ogni affacciarsi a ritroso dalla tecnica dispiegata alVEr-eignis26, e richiede, semmai, una diversa nozione di ordi­ ne 27, nuovi organi per controllare la complessità. La descrizione formale dei sistemi complessi incontra un limite di principio quando i proble­ mi affrontati richiedono un numero immenso di passi. Per mappare questi problemi sarebbe neces­ sario un atlante derivante da[V incollamento di un numero immenso di fogli o, per aggiornare il paradosso, un nastro infinito di alimentazio­ ne degli inputs destinati a un automa addetto alla risoluzione di un problema « immenso », na­ stro che naturalmente non troverebbe posto in un 33

universo finito; è il solito problema che una rap­ presentazione senza scorci non può rappresentare se stessa nella propria classe. C’è dunque un limite teorico — non solo una difficoltà pratica — che spinge la rappresentazione dei sistemi complessi verso il linguaggio naturale, con tutto il bagaglio « retorico » di tropi, metafore, metonimie, sposta­ menti e condensazioni. E’ la tecnica stessa che apre al pensare dialettico. La Teoria Generale dei Sistemi costituisce un rilevante tentativo interno di attraversamento dei domini delle singole tecniche e di controllo (teo­ rico) sulla complessità sociale positivamente as­ sunta. E’ interessante notare che nel suo sviluppo, dalla prefigurazione umanistico-tecnocratica nella Tektològija di Bogdanov (degli anni Venti) alle formulazioni cibernetiche degli anni Quaranta28 sino alle più recenti analisi dei sistemi lontani dal­ l’equilibrio, la teoria dei sistemi ha risposto in mo­ do sempre più flessibile alle domande poste sul lato storico, riducendo progressivamente la legit­ timazione « scientifica » dell’armonicismo sociale e rendendo desueto un modello di « trasparenza » strutturale che lo stesso marxismo aveva acritica­ mente desunto, con pretese di « inveramento », dall’utopia liberale. Congettura e dimensione strategica — i mo­ derni costituenti della metis — tornano quindi a giocare un ruolo decisivo nella circolazione fra sa­ peri locali, se 1) il predicato di verità di ogni sa­ pere fondato su una dimensione locale dell’espe­ rienza teorico-pratica non può essere interno a quello stesso sapere (e in esso falsificabile), 2) se il « successo » della congettura si compie nei punti di svolta e di accrescimento repentino della 34

complessità, più che non in termini di chiarifica­ zione e semplificazione (come è invece buona regola nella soluzione dei normali « rompicapi »). La riorganizzazione del metodo dialettico sulla ba­ se delle acquisizioni della teoria dei sistemi potreb­ be costituire un programma di lavoro che di quel­ lo marxiano — con cui è filologicamente non com­ parabile — sarebbe un fruttuoso svolgimento.

4. Ritornando sul lavoro e sul soggetto si può osservare l’omologia fra una dialettica così ricostruita e una costituzione non sostanzialistica ma strategica della soggettività. Il lavoro, a que­ sto punto, si presenta non come relazione radical­ mente generica fra individuo e finalità — il modo « umano » di dominare la natura, con uno schema teleologico riproducibile a tutti i livelli della pras­ si —, ma come caso particolare di relazione siste­ ma/ambiente, sottoposto ai vincoli che caratteriz­ zano le soglie di complessità crescente del sistema. Il limite del modello marxiano è il riferimen­ to retrostante a uno schema tecnico energetico (grazie al quale, peraltro, era stato in grado di motivare suggestivamente la critica dell’imposta­ zione ricardiana, distinguendo lavoro e forza-lavo­ ro); ogni possibile superamento non può eludere il problema di riferimenti alternativi, di un’inter­ faccia fra la storicità specifica e la validità diacro­ nica della categoria. Se la scienza classica, nella sua affinità precorritrice con la moderna finaliz­ zazione della natura alla manipolazione tecnica, aveva spiegato prevalentemente il mondo in termi­ ni di forze e di urti, la riflessione su tali limiti — che si intreccia non innocentemente a più so­ fisticate esigenze di efficienza e di dominio — ha 35

spostato l’attenzione verso una configurazione in­ terpretativa più formale che dinamico-energetica. La spiegazione in termini di forma e per differen­ ze percepite e organizzate tramite processi di co­ municazione chiama in causa la struttura del sog­ getto e la relazione sistema/ambiente, separando­ si — per così dire — e dalla scienza delle traiet­ torie e dalla tradizione etico-teleologica. Sono al proposito del massimo interesse le considerazioni di G. Bateson29, che estende ten­ denzialmente il soggetto (contro il dualismo car­ tesiano pensiero/estensione) verso tutta la rete dell’informazione esterna alla « pelle » dell’indivi­ duo, nella materialità e culturalità dell’ambiente intersoggettivo e = naturale, fissando nella struttu­ ra ad anello un modello sistemico alternativo al­ la finalizzazione unilaterale. Con la prima mossa si rovescia verso l’esterno (secondo un’implicazione potenziale già nella « con­ federali » nietzschiana del soggetto) la scoperta psicoanalitica dell’inconscio, per cui l’io non sta più a casa sua, rendendo instabile il confine fra or­ ganismo individuale e ambiente sotto l’aspetto cor­ poreo e nel rapporto fra singola idea e sfondo cul­ turale: il centro di controllo del soggetto viene spostato nel flusso dell’informazione. Le caratte­ ristiche mentali di un sistema non sono infatti lo­ calizzabili in una parte ma ineriscono a tutto il si­ stema; in tal modo l’ambiente culturale è forte­ mente osmotico rispetto a ogni sua componente personale e la « proprietà privata » delle idee sfu­ ma nella loro generazione e circolazione colletti­ va. Il sistema pensante, insomma, non è Vio e nep­ pure lo spirito separato dal corpo; non lo è più nei 36

confronti del suo nucleo inconscio e neppure ver­ so l’ambiente circostante. L’immagine che Bateson dà di questa effusione dell’individuo richiama per molti riguardi quello che Bachtìn chiama, a pro­ posito di Rabelais, il « corpo grottesco », incompiu­ to, privo di una netta demarcazione con il mondo circostante e portato tanto a trasfondersi in esso quanto ad assimilarlo; soltanto con il pieno Ri­ nascimento e poi con Cartesio assistiamo all’iso­ lamento del corpo dal mondo, della res extensa dal­ la res cogitans. Il processo senza oggetto coinvolge natural­ mente anche la posizione dei fini — e qui ci muo­ viamo sul terreno della classica alternativa spinoziana al cartesianesimo. Bateson ricostruisce così, in uno dei suoi « metaloghi », la genealogia della oggettivazione/finalizzazione :

« Beh, il primo taglio è tra la cosa oggettiva e il resto. E poi dentro la creatura che è costruita sul modello di intelletto, linguaggio e strumenti, è na­ turale che si sviluppi la finalità. Gli strumenti ser­ vono a certi fini, e tutto ciò che blocca la finalità è un impaccio. Il mondo della creatura oggettiva si divide in cose ‘ utili ’ e in cose ‘ nocive ’ ... Poi la creatura applica questa divisione al mondo delFintera persona e Futile e il nocivo diventano il Bene e il Male, e con ciò il mondo è diviso fra Dio e il serpente... ». Nei sistemi biologici esiste normalmente una molteplicità di fini, il cui perseguimento avviene mediante meccanismi di circolarità cibernetica, me­ diante cioè un anello di azione ] retroazione! azione corretta, mentre nell’universo della tecnica si af­ ferma sempre più la tendenza a massimizzare uni­

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lateralmente una sola variante30. La coscienza fi­ nalizzata estrae dalla mente totale sequenze di tipo rettilineo, archi del cerchio cibernetico, con una frattura tanto conoscitiva quanto operativa. L’attenzione selettiva depaupera, rescinde fram­ menti e impone strutture spesso incompatibili con l’equilibrio sistema/ambiente. L’effetto sociale che ne deriva è del tutto « indesiderato » riguardo al­ le aspettative: un piano che non calcoli preventiva­ mente vincoli di compatibilità e possibili retroazio­ ni rischia di sconvolgere le assunzioni iniziali, o piuttosto dimostra che la logica della progettualità comporta inesorabilmente conseguenze spiacevoli31. La questione della tecnica si sposta allora dalla categoria della « calcolabilità » alla concreta imper­ fezione di un calcolo unilaterale, che astrae dai vin­ coli e li « sfida » ciecamente per massimizzare lo sviluppo delle forze produttive; la strada di una critica romantico-regressiva viene sbarrata e Vimposizione di una progettualità lineare perde la fi­ gura heideggeriana di « destino » per ricollegarsi piuttosto a un insieme di pratiche produttive e organizzative imputabili a interessi di classe o a riduzioni economicistiche di programmi rivoluzio­ nari. La furia nichilistica della tecnica viene espe­ rita in un contesto storico e si fa suscettibile di analisi e intervento politico. Se volessimo trovare una soluzione alternativa alla risalita heideggeriana dal Gè)steli oXPEr-eignis/Ent-eignis (l’evento adpropriante/dis-propriante), non vi è forse una trat­ tazione più illuminante del Planetario che chiude VEinbahnstrasse di Benjamin32. La povertà dell’uomo moderno è qui ricondot­ ta alla mediocrità della sua esperienza cosmica, che gli antichi compivano nel segno dell’ebbrezza. L’ 38

esperienza rimossa torna però perversamente — con la I guerra mondiale — nel connubio fra potenze cosmiche e distruttività della tecnica bellica: « Questo grande corteggiamento del cosmo s’è compiuto, per la prima volta, su scala planetaria cioè nello spirito della tecnica. Ma poiché l’avidità di profitti della classe dominante contava di sod­ disfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’uma­ nità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue. Dominio della natura, insegnano gli imperia­ listi, è il senso di ogni tecnica. Ma chi vorrebbe prestar fede a un precettore armato di sferza che in­ dicasse il senso dell’educazione nel dominio dei bam­ bini da parte degli adulti? L’educazione non è forse in primo luogo il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuole par­ lare, il dominio non dei bambini ma di quel rappor­ to? Così anche la tecnica: non dominio della natu­ ra, dominio del rapporto tra natura e umanità ». La forma circolare che assume una corretta pro­ gettazione (e che presuppone un cambiamento informazionale dello schema sottostante di lavoro) e la concomitante risoluzione dell’identità meta­ fisica del soggetto in combinazione strategica fra livelli sono due punti forti di ricerca che trovano in Marx un terreno di crescita ma sono essenzialmente post-marxiani, emergono cioè nella fase di complessi­ tà sociale risultante dalla realizzazione pratica del­ le tendenze individuate dall’autore del Capitale e dell’adempimento parziale e contro-finalistico del suo programma politico. Le antinomie della cooperazione sociale si producono a partire da quelle classiche, cioè di­

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versamenti Non stupisce che anche le forme di emancipazione siano irriproponibili nella loro clas­ sicità.

Riti di passaggio 1. 17 illuminazione profana che apriva il var­ co apokatàstasis surrealista scende con il Passagen-Werk di Benjamin nel fondo della storia bor­ ghese e si misura direttamente con il tempo e la redenzione. Diciamo subito che i due termini stan­ no in tensione: l’immagine dialettica è « memoria involontaria dell’umanità redenta » proprio in quan­ to la redenzione blocca il tempo nel suo scorrimen­ to eguale e vuoto3, impone la propria autenticità con un arresto che eternizza il caduco34. La storia non si dispone più su asse tempora­ le di scorrimento omogeneo, ma piuttosto intorno a punti focali, a presenti che la riassumono e defi­ niscono rispetto a sé una pre-storia e uno post-sto­ ria35. Questi momenti sono soglie, cui l’arresto e condensazione del caduco conferisce una straor­ dinaria possibilità di interpretazione e riscatto. Il prototipo di tutte queste è la soglia che separa il sonno dalla veglia. Il Praumbild, l’immagine dia­ lettica come immagine di sogno, è preparato per l’interpretazione, appunto (con metafora freudiana) per una Praumdeutung collettiva che non solo ne illumina la tessitura storica, ma pone il proletaria­ to, nel presente, quale soggetto capace di ridestare la coscienza sognante del passato borghese. L’immagine dialettica non riproduce il sogno (scrive Benjamin a Gretel Adorno), si tratta piut­ tosto di un rovesciamento, di una decifrazione. La

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camera oscura offrirebbe una metafora altrettan­ to benjaminiana. Il richiamo alla tecnica psicoana­ litica è però molto più pregnante. In primo luo­ go segna una demarcazione netta rispetto all’irrazionalismo dell’immagine arcaico-archetipica di Jung e Klages e alla sua virtuale utilizzabilità per il fascismo. In secondo luogo la forza di decifrazio­ ne deirimmagine dialettica rispetto al sogno bor­ ghese si articola per meccanismi di scomposizio­ ne e di sintesi, per spostamenti e rimozioni surdeterminate. Il continuum del sogno viene rior­ ganizzato dal punto di vista del presente: la surdeterminazione della T^raumdeutung, attraverso il « ritorno a Freud » di Lacan, diventerà non a ca­ so una caratteristica della ridefinizione althusseriana della dialettica. Le analogie che si sviluppano a partire dal co­ mune interesse alla surdeterminazione freudiana so­ no invero di sorprendente rilievo e contribuiscono parallelamente a un uso parziale ma « liberato » del materialismo storico per l’oggi36. Comune è, per esempio, la critica del tempo hegeliano come tempo vuoto-omogeneo, il cui « presente » taglia il flusso lineare con un piano bidimensionale, sezione sincronica di una « totali­ tà espressiva » in cui tutti i livelli sono espressio­ ne immediata di un’unità essenziale, « cerchi di cerchi »; il « progresso » e lo « sviluppo delle forze produttive » costituiscono scorrimento evo­ lutivo dei presenti verso finalità racchiuse ab origine nella totalità. L’evoluzionismo positi­ vistico per Althusser è « dialettica dei poveri », così come in Benjamin l’accumulazione degli even­ ti non è visione alternativa, ma rovescio piccolo­ borghese dell’aristocratico privilegiamento del­ 41

l’immedesimazione storiografica e del mito ciclico, intima solidarietà fra eterno ritorno e « come ve­ ramente è andata ». Alla coupe d’essence althusseriana, che rivela gli scarti fra le « istanze » del reale, e alla « costruibilità » di tempi storici che ne esprimano Farticolazione specifica (escludendone però sia un mo­ vimento simultaneo « progressivo » sia una sem­ plicistica definizione per scarti differenziali con un tempo-base oggettivo di riferimento — al modo descrittivistico delle « Annales ») corrisponde la strutturazione complessa, monadicamente concen­ trata della Jetzt-Zeit benjaminiana, in cui la gerar­ chia dipende dai nessi della memoria involontaria piuttosto che dalla reciproca determinazione delle istanze (economica, giuridica, politica ecc.). In en­ trambi i casi, però e decisivamente, la nuova strut­ tura del tempo rigetta un « destino » di progresso lineare in un contesto storicistico privilegiante in­ dividualità e psicologia e induce al rifiuto esplici­ to di una « storia in generale » (corrispettivo della « produzione in generale ») a favore dell’individua­ zione di strutture specifiche di storicità fondate, in ultima istanza, sulle possibilità di combinazio­ ni diverse, di tipo pseudo-combinatorio (per dirla con Balibar), fra elementi che restano virtuali fuo­ ri della loro connessione determinata. Troviamo qui una singolare analogia (per la sola parte negativa) con la critica benjaminiana della « storia universa­ le », accusata di essere Yesperanto di una reale plu­ ralità linguistica, con la pretesa di sostituirsi alla riunificazione messianico/nientificante delle lingue e delle storie. Nel volgersi poi a un modello freudiano (e prima ancora genealogico) di interpretazione, tale 42

da aggirare la casualità deterministica passante al­ ternativamente per la conciliazione dialettico-espres ­ siva del termine medio o per la concatenazione em­ pirica, sia l’immagine dialettica che la surdeterminazione della contraddizione convergono essen­ zialmente nelTobbiettivo di decifrare la combinazio­ ne specifica dei livelli, a partire dallo « stato di veglia » di un soggetto costituito per effetto della lotta di classe. Ne risulta così spezzato, sia pure con diversa argomentazione, il nesso « antropolo­ gico » fra soggetto, lavoro, emancipazione e na­ tura 37. La forza della determinazione delle istanze nella variazione delle combinazioni, la struttura a do­ minante della contraddizione, scongiura la possi­ bilità di resurrezione, nell’appiattimento funzionalistico, del « mondo vitale » del soggetto entro nessi formalmente sistemici. Questa pericolosa rifunzionalizzazione a un più scaltrito antropologismo, attrezzato di teoria dell’informazione per disegnare una nuova « natura » (immodificabile) del sociale, è del tutto evidente nelle implicazioni etiche dell’illuminismo sociologico di Luhmann: la riduzione della complessità mira esattamente a conservare l’invarianza « naturale » degli elemen­ ti costitutivi delle combinazioni, facendone delle semplici combinatorie, destituite di spessore e sigil­ late dall’immediatezza del vero. Come nella solidale polarizzazione di inizio secolo fra Seele e Mechanisierung\ oggi le ragioni del mondo vitale del­ l’individuo si sposano benissimo alla digitalizzazio­ ne (e lo stesso vale per i flussi desideranti e ogni gioco « debole » delle differenze). L’individuazione di dominanti strutturali e di nessi strategici del soggetto è un momento essenziale per non smar­ 43

rire, con la forma insostenibile della tradizione metafisica classica, la possibilità stessa di un di­ scorso filosofico, il livello minimale di un’ontolo­ gia del complesso cui offrono suggestioni gli auto­ ri considerati. 2. Ogni epoca sogna la seguente « sposandola » a elementi della preistoria, cioè al ricordo di una società senza classi: nell’utopia che si sprigiona nei luoghi storici di frattura redeunt Saturnia re­ gna. La decifrazione del sogno, che è opera — nel­ l’epoca successiva — della classe rivoluzionaria e del materialista storico, si fonda sul dato oggetti­ vo che l’indice storico delle immagini non solo rimanda a un tempo determinato, ma perviene a leggibilità soltanto in esso. Ogni presente è de­ terminato attraverso quelle immagini che gli sono sincrone: « ogni ora (Jetzt) è Vora di una speci­ fica conoscibilità », in cui la verità « si carica di tempo fino a scoppiare ». Benjamin contrappone puntualmente questa dissezione e ricostruzione di­ screta del processo storico al vano tentativo hei­ deggeriano di salvare astrattamente la storia attra­ verso la « storicità ». Heidegger e i surrealisti si sono trovati al medesimo bivio, ma hanno preso strade opposte. Per quel tanto, tuttavia, che hanno percorso in comune39, essi hanno collabo­ rato a liquidare l’orizzonte del progresso per ogni soluzione del problema dello ]etztsein der Jetztzeit. Nella « svolta copernicana » della storiografia il passato trascorre da punto fisso di riferimento attorno al quale ruota la conoscenza a fissazione dialettica operata sinteticamente dall’irrompere della coscienza ridesta. Il rovesciamento del rap­ porto presente/passato (in questo caso la barra 44

indica la soglia sottile ma decisiva dell’immagine dialettica) significa « primato della politica sul­ la storia ». I « fatti » storici si raccolgono nel ri­ cordo, ma il risveglio è il prototipo di questo tipo di ricordo, che sa far emergere dal passato un « sapere ancora non conscio »40. Questo risveglio è anche un’operazione strategica, che Benjamin descrive in termini di metis-. « con l’astuzia, non senza di essa ci strappiamo dalla sfera del sogno ». Si tratta di un rovesciamento eminentemente com­ plesso (ein eminent durchkomponierter JJmschlag) del mondo del sognatore in quello del ridesto, che ha il suo luogo nella soglia del risveglio, nel trat­ tenersi fugace dell’immagine che di colpo rivela il suo ordine altrimenti e sistematicamente dispo­ sto:

« il nuovo metodo dialettico dello storico impara a percorrere in spirito il passato con la velocità e l’intensità dei sogni, per sperimentare il presente co­ me mondo del risveglio, a cui infine ogni sogno si ricollega »41. Il presente e lo stato di veglia (con esplicita equiparazione : Jetztsein = Wachsein! ) irrompono con l’astuzia dentro le mura della cittadella del passato e del sogno: « l’arrivo del risveglio sta come il cavallo di legno dei Greci nella Troia del sogno ». L’astuzia spezza il contorno finito del passato, per un verso proprio perché è un finito, per l’altro riaprendolo all’indeterminazione strategico-congetturale dell’attualizzazione, di ciò che per definizione non può avere un contorno: il materialista e il rivoluzionario fanno sì che ciò che è concluso non lo sia più (le vittorie degli oppressori) e che ciò che è inconcluso (l’esperienza

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degli oppressi, il loro desiderio di liberazione) ven­ ga a conclusione. Questo è propriamente il mes­ sianico, che in quanto tale ha anche le stimmate della caducità, deireffimero fulgore angelico ovve­ ro della « debole forza messianica che ci è data » 42. La soglia del presente è appunto un luogo strutturato, non un attimo decisionistico-intuitivo, un Erlebnis43 ; in essa il tempo costruito si op­ pone come pieno al tempo naturale dello storici­ smo; in essa la distesa del tempo si trattiene e fa trasparire la molteplicità del passato nella pro­ spettiva dell’adesso. È esattamente l’opposto della temporalità ek-statica di Heidegger, in cui — non a caso — il termine ]etztzeit è contrapposto, come tempo intramondano del si {Man) livellatore, al­ l’autenticità della decisione anticipatrice. Contrap­ posto ma anche lasciato sostanzialmente inaltera­ to (donde prima la « storicità » recuperata, poi il nesso « destinale » tecnica-evento). Al contrario l’ideologia del progresso si sdi­ luisce nella tensione fra un cominciamento leggen­ dario e una fine altrettanto leggendaria della sto­ ria44, appone la sua firma al corso della storia in blocco e sfocia così in una ipostatizzazione acri­ tica. È questo il « moderno », nel senso del nuovosempre-eguale che Benjamin annette al « cattivo infinito » hegeliano ed esemplifica stupendamente con quella scena del Processo kafkiano, in cui il mediocre pittore Titorelli estrae da sotto un diva­ no vari quadretti rappresentanti un identico pae­ saggio di brughiera e ne sostiene la profonda di­ versità. Qui il moderno è « il tempo dell’inferno », l’ancora-sempre-identico di uno spettrale eterno ritorno45, in nulla differente dalle rappresen­ tazioni continuistiche dello storicismo. 46

L’operazione che si compie con l’uso teorico del dialektisches Bild e con la prassi della rivolu­ zione è dunque un infinito chiamare a leggibilità la finitezza del passato senza mai darsi come asso­ luta leggibilità, un far luce che sconta l’impossi­ bilità della propria stessa trasparenza. Il testo del finito è sottoponile, nel suo tramandamen­ to, a sempre nuove possibilità di commento, a un interminabile processo di individuazione di nessi fattuali a campi di tensione fra Vor-und Nacbgeschichte, aree di cesura e discrimine. Questa po­ larizzazione si compie, sempre diversamente, nel­ l’attualità. La trasparenza del cristallo monadico — per usare l’immagine leibniziana e alchemica prediletta da Benjamin — è in realtà la succes­ siva contemplazione delle varie facce sotto il raggio di luce dell’attualità, nel bagliore del pericolo. È però del tutto inattendibile analoga trasparenza nei riguardi del futuro, che resta insondabile, affet­ to da divieto di investigazione. La condanna biblica della superstizione e dell’arrogante veggenza coinci­ de qui con l’imprevedibilità dell’attore e l’invisibilità del contorno dall’interno dell’esperienza in cor­ so, di cui ci parlava Bateson. La prevedibilità del corso del mondo sta dunque — e cade — con la sua trasparenza; la totalizzazione equivale a un chiamarsi fuori spa­ ziale o temporale46. Si dà trasparenza ed esausti­ vità solo di ciò che è compiuto, quando il possi­ bile si è ridotto all’accaduto conservandone la fi­ nitezza. È una trasparenza senza fondamento e senza forza necessitante nei confronti dello svilup­ po successivo — del resto privo anche di qual­ siasi telos attrattore. Le forme del passato sono dotate di un « contorno », possono ancora sprigio­ 47

nate domanda di redenzione, ma in nessun modo vincolano il presente a un destino o comunque lo giustificano e appagano.

3. « Ciò che è più proprio dell’esperienza dia­ lettica è il distruggere la parvenza del sempre-eguale, anche soltanto della ripetizione nella storia. L’auten­ tica esperienza politica è assolutamente libera da questa parvenza » (P-W, 1, p. 591).

La lotta contro l’eterno ritorno, « forma fon­ damentale di tutta la coscienza mitica » (ib.. 1, p. 177), è una lotta politica che ha il suo luogo cen­ trale nella società produttrice delle merci. Nel ca­ pitalismo sviluppato, infatti, la dialettica della produzione di rn^rci fa sì che « la novità del pro­ dotto riceva una significazione fino allora scono­ sciuta come stimolo della domanda. Allo stesso tempo compare con evidenza l’ancora-sempre-identico {Immerwiedergleiche) nella produzione di mas­ sa » (ib., 1, p. 417). L’incorporazione del lavoro aguale nella merce produce una singolare diver­ genza, a cui da ultimo si riconduce, nella sto­ riografia, l’oscillazione solidale fra accumulazione positivistica dei fatti e senso mitico della storia (eterno ritorno, Einfuhlung diltheyana): « La cosa esercita il suo effetto di estraniazione degli uomini fra di loro in primo luogo come merce. Essa lo esercita mediante il proprio prezzo. L’immedesimazione (Einfuhlung) nel valore di scambio del­ la merce, nel suo sostrato eguale, è il fatto decisivo (L’assoluta eguaglianza qualitativa del tempo, in cui trascorre il lavoro che produce valore di scambio, è il fondo grigio, dal quale emergono i vistosi colo­ ri della sensazione) » 1, p. 488).

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La brughiera squallida e sempre eguale della storia — immagine che si produce organicamente in seno alla produzione di merci — si ravviva illusoriamente con la fioritura delle sensazioni e il loro raggrupparsi in esperienze eccezionali (Erleb­ nisse). È per questo che il mediocre pittore può vantare la varietà del paesaggio contro ogni evi­ denza. SJErlebnis celebra il suo trionfo nel gioco con il destino, nel vincolo del tutto casuale (che appare perciò un « privilegio ») fra individuo e destino; in tale contesto entrambi si producono a vicenda e dipendono l’uno dall’altro. « L’ideale dell’esperienza scioccante è la catastrofe. Questo si palesa benissimo nel gioco: attraverso pun­ tate sempre più grandi, che dovrebbero salvare il perdente, il giocatore corre verso la rovina assoluta » (ib„ 1, p. 642).

L’esperienza quotidiana che si collega al la­ voro concreto (Erfahrung), subisce, nelle condizioni capitalistiche di produzione, un impoverimento e una sconnessione crescente, nella stessa misura in cui se ne stacca la possibilità di esperienze pri­ vilegiate, affidate, sul fondo grigio del lavoro astratto e del tempo eguale, alla figura del­ l’ozioso, del flaneur in tutte le sue incarnazioni, depositario degli chocs e destinatario delle fanta­ smagorie (cfr. ib., 1, pp. 961-970, ma anche i frammenti su Baudelaire e Parco centrale, tradotti in Angelus novus cit., pp. 89-144). Questa è la fonte moderna della mitologia47 e la radice dei recuperi arcaico-archetipici nell’ideologia e nella demago­ gia della destra. Al fondo la modernità congiunge fulminea­ mente, con effetto di choc tanto nel « vissuto » 49

individuale-privilegiato quanto nella manipolazione delle masse, la regressiva coazione a ripetere, l’istinto di morte, con le esigenze della produzio­ ne di merci. Il risultato è ambiguo — come, del resto, vale per la tecnica, per la reclame, per la riproducibilità dell’opera artistica. Il moderno/arcaico e l’esperienza urbana sviluppano contraddit­ toriamente liberazione ludica e assoggettamento al­ le potenze infere: già l’eterno ritorno « è un tentativo di saldare insieme i due princìpi antinomici della felicità: quello dell’eternità e quello dell’^cora una volta » (Parco centrale, A.N. p. 140). Ma ancora più intensa è l’altra considera­ zione benjaminiana sulla ripetizione, come legge che regola l’intero mondo del gioco48:

« Sappiamo che essa costituisce l’anima del gio­ co infantile; che nulla rende più felice il bambino dell'ancora una volta. Qui, nel gioco, l’oscuro im­ pulso alla ripetizione agisce con una violenza che è appena minore di quella con cui opera l’istinto ses­ suale nell’amore. E non per nulla Freud ha creduto di scoprirvi un Al di là del principio di piacere. In effetti: ogni esperienza più profonda vuole in­ saziabilmente, fino alla fine di tutte le cose, la ripeti­ zione e il ritorno, il ripristino di una situazione origina­ ria da cui ha preso le mosse... Questa è forse la più profonda radice del doppio significato del tedesco Spielen\ la ripetizione della stessa cosa è forse l’elemento comune ai due sensi della parola (ic. « giocare » e « re­ citare »). Non è già un 4 fare come se ’, ma un c fare sempre di nuovo ’, la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ciò che costitui­ sce l’essenza del gioco ». Il capitalismo e la grande città moderna fanno riemergere le potenze mitiche, quasi rievocate dal­

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la razionalizzazione dell’economia e della società. In realtà, anzi, razionalizzazione e mito sono com­ plementari: « Il capitalismo fu un fenomeno na­ turale, con cui un nuovo sonno abitato da sogni cadde sull’Europa e con esso una riattivazione delle forze mitiche » (P-W, 1, p. 494). Nel com­ pito di risvegliarsi da questo Praumschlaf continua ad essere presente l’antinomia; sulla soglia della veglia premono tutte le potenze della vertiginosa potenza urbana, alita il soffio mitico del moder­ no. È la profonda esperienza del sogno — l’attra­ versamento della sua selva48 — che rende possi­ bile, beninteso al risvegliato, l’opera di decifra­ zione, ri-determinazione del surdeterminato. Quel­ lo che si vuole distruggere — aveva altrove os­ servato Benjamin49 — non basta conoscerlo, oc­ corre anche averlo sentito, « per poter fare un la­ voro completo ». In questo spirito anche il pro­ gramma di far esplodere dall’interno il mito si com­ pie —- secondo una pregnante osservazione di Menninghaus (cfr. n. 47) — con i mezzi stessi del mito, in primo luogo nella forma di immagine, il dialektisches Bild, che rompe un precedente in­ terdetto, evidente, per esempio, nel rigorismo ebraicamente anti-rappresentativo degli scritti sul­ la lingua. Questa ambiguità benjaminiana va però letta sul piano giusto: non lo porta a deflettere da una battaglia contro il mito che, già negli scritti gio­ vanili di taglio anarco-sindacalista50, era associato al diritto, cioè alla forma ideologica della razio­ nalizzazione borghese, ma piuttosto a valorizzare nell’esperienza metropolitana il terreno della lot­ ta, senza tentazioni adorniane di regresso nel «buon antico». È — brechtianamente51 — il

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« cattivo nuovo » il luogo dell’avanzamento dialet­ tico. Certo, il risveglio — se si è avuta un’esperien­ za profonda del sogno — non si libera facilmente dai dèmoni della notte.

4. Se la forma è nell’immagine dialettica, nel suo « arresto » (Stillstand), il lato rivolto al mito per estrarne un antidoto allegorico, non meraviglia l’attenzione benjaminiana per l’architettura, per « l’ordine significante dello spazio » (Menninghaus); Aragon è così definito il Pausania del moderno, nell’aver fissato la parentela di mito e topografia (P-W, 2, p. 1031). Il figurale inerisce al passage spazialmente e temporalmente. « Rites de passage — così si chiamano nel folklo­ re le cerimonie connesse alla morte, alla nascita, alle nozze, alla pubertà ecc. Nella vita moderna que­ sti passaggi sono divenuti sempre meno conoscibili e sperimentabili. Siamo divenuti assai poveri di espe­ rienze della soglia. L’addormentarsi è forse l’unica che ci è rimasta. (Ma con questa anche il risveglio). E, in definitiva, attraversa delle soglie, come il mu­ tamento di figura del sogno, anche il su e giù della conversazione e dello scambio sessuale proprio del­ l’amore. « Qu’il plait à l’homme » — dice Aragon — « de se tenir sur le pas des portes de 1’imagination »!Non soltanto le soglie di queste porte fantastiche, so­ no le soglie in genere quelle da cui amanti e amici amano succhiarsi le forze. Le prostitute invece ama­ no le soglie di queste porte di sogno. — La soglia de­ ve essere drasticamente distinta dal confine. La so­ glia è una zona. Proprio una zona del transito » (P-W, 1, pp. 617-8 e 2, p. 1025). Il passage è il lato infantile di un’epoca, quel­ lo rivolto ai sogni (ib., 2, p. 1006), ma insieme è

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esperienza del passaggio e perfino della sua neces­ sità, il luogo dove non si può fare letteralmente altro che passare, dove non ci si deve arrestare 52. Anche gli utenti dei passages, i flaneurs, non possono arrestarsi, sono soglie mobili, che nel lo­ ro disadattamento al nuovo quadro sociale lo evi­ denziano in controluce53. Questa « mitologia latente » del passage (P-W, 2, p. 1002) apre due direzioni (ib., p. 1032): quel­ la che va dal passato al presente e rappresenta i passages come prodromi, quella che dal presente va verso il passato per far esplodere nel presente il compimento rivoluzionario di questi « prodromi », Quest’ultima direzione « comprende anche la trat­ tazione elegiaca, affascinata del più recente pas­ sato come della sua esplosione rivoluzionaria ». Ecco una violenta torsione dell’uso dei passages, la cui merce tipica sono gli oggetti-ricordo {Andenkeri} {ih., p. 1034), ecco il miracolo (possibile) di quelle « reliquie secolarizzate ». Proprio la demolizione dei passages permette la risalita allegorica dall’emozione al significato storico e alle promesse inadempiute. Il passo prima citato (n. 52) di Aragon concludeva osser­ vando che « solo oggi che il piccone li minaccia (essi) sono davvero divenuti il santuario di un culto dell’effime­ ro, e costituiscono il paesaggio fantomatico di piaceri e professioni maledette, incomprensibili ieri e che do­ mani nessuno conoscerà più ». Il passage, dunque, non è condannato sol­ tanto all’infinita ripetizione, al transito immobile nel satanico gioco degli specchi54, ma è dimora della Vergangenheit, del non-essere-più delle cose.

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L’esistenza desta è il territorio da cui, in punti segreti, si discende nel mondo infero dei sogni. Il labirinto di case della città somiglia in pieno giorno alla coscienza; di notte i passages, prima inosservati, aprono il loro buio vuoto fra le masse compatte degli edifici, sono le vie d’ac­ cesso al sogno e all’inconscio. Ma tali cunicoli non conducono veramente da qualche parte, indicano l’elemento onirico solo accennandovi, occultan­ dolo. Essi, come i sogni, « non hanno esterno », sono un puro interno, vitreo, ambiguamente sot­ tomarino (l’unione del ferro e del vetro li carat­ terizza in modo essenziale, offrendo l’illusione di un non-interno). Il transito congelato del tempo e l’anonimia deh passante che lo abita senza scopo alludono al destino del moderno, transito che non sa giungere alla propria fine55, cattivo in­ finito del progresso emblematizzato nel passage e rivelato nel punto in cui diventa rovina, cade vit­ tima della stessa speculazione edilizia e commercia­ le per cui era sorto. Togliere questo congelamento, far agire la dia­ lettica nello Stillstand del transito infinito/destinale è il compito del risveglio. Lavoro del nega­ tivo, innanzi tutto, perché è nel momento della loro rovina, facendo leva sul lato inespressivo, che la verità prende dimora nei passages, attraverso il nome. « (Lo sguardo dello storico) riconosce le cose nel­ l’attimo del loro non-essere-più. Monumenti siffatti sono i passages. E la forza che in loro lavora è la dialettica. La dialettica li fruga, li rivoluziona, li gira da cima a fondo, ne cambia il ruolo... E nul­ la dura di loro se non il nome: passages e Passage du Panorama» {ib., 2, p. 1001).

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L’accesso alla dimensione onirica per sfonda­ mento della superficie urbano-coscienziale si rea­ lizza ancora più significativamente nell’attenzione portata allo strato sotterraneo della città — gallerie, fognature, catacombe e mètro. Quest’ultimo caso, nella sua visibile fruibilità di massa, è il più rappresentativo. Le luci rosse che, agli ingressi guimardiani del mètro (ahimè, oggi ben meno numerosi che ne­ gli anni Trenta), introducono all’Ade dei nomi spezzano la « piacevole catena » che li legava a strada o piazza e annunciano nuove divinità infere e cloacali (P-W> 1, pp. 135-6). Non solo vi è qui, per dirla con Bodei, un’attenzione specifica per il profondo, per il sottosuolo della metropoli, co­ me « opposto speculare della superficie », un nesso fra il facilis descensus Averno e la precoce rovina delle architetture della borghesia, non solo l’esten­ sione della topografia mitica di Parigi alla rete sotterranea e alla natura anfibia dei passages ac­ centua il carattere di soglia, sfera intermedia (Zwischen) fra due mondi, che consente un trapasso rituale nei due sensi, ma nel mètro culmina, potenziata, quella Magie der Ecke, magia del­ l’angolo, che associa misteriosamente al crocicchio i nomi di due vie, separando drasticamente significante e significato {ih., 2, p. 1008 e 1016). Il nome — nella fortuita combinazione ango­ lare, poi nella sua proiezione sotterranea di sta­ zione del mètro, infine nella suggestione insi­ nuante . che promana dall’incontro infero di due strade di superficie (Sèvres-Babylone...) — si sgan­ cia compiutamente da ogni riferimento concreto, vive ormai di vita propria, raggiungendo la digni­ tà del nome segreto ebraico (ricordiamo le due 55

versioni di Agesilaus SantanderV) o l’interrogazione già wittgensteiniana di P-W, 2, p. 1038: « sono colui che si chiama Walter Benjamin o mi chiamo semplicemente Walter Benjamin? », che conclu­ de dichiarando la riconoscibilità del nome soltan­ to nei nessi di esperienza, nel campo della somi­ glianza. Se la città è la pietrificazione del destino in forma di labirinto superficiale e sotterraneamente duplicato56, la nomenclatura urbana è traccia di una forza segreta di fuoriuscita.

5. Il nome si oppone misticamente al destino: esso è un che di « sacro, sobrio, in sé senza de­ stino » e « non conosce maggior avversario del de­ stino », signore del gioco e della prostituzione. Qui il piacere, strappato dalla sua connessione con la vita, si degrada a superstizione peccaminosa. Il destino non è solo associato al diritto, ma ora, più intimamente, alla radice stessa del diritto: alla mer­ ce. Sua figura emblematica diviene così il denaro-.

« Non c’è una certa struttura del denaro, che si lascia riconoscere soltanto nel destino, e una certa struttura del destino che si lascia riconoscere soltan­ to nel denaro »? 57 Il passage, « tempio del capitale commerciale », vera « navata di chiesa con cappelle laterali », è « casa del sogno », fantasmagoria del destino (P-W, 1, p. 86). Il destino del moderno ha a che vedere con il carattere feticistico che la produzione delle merci conferisce a tutta la società e con la sua base, il lavoro astratto, come il « risveglio » che penetra la Praumhaus ha a che fare con l’aspetto con-

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ere to del lavoro, con il suo dispiegamento multiverso anticipato ludicamente nel travail passionné di Fourier58. Le figure del destino nascono tutte dalla messa fra parentesi delle basi reali di una società produttri­ ce di merci: il loro scompaginamento dialettico è propriamente uno smascheramento. Benjamin ten­ de ad accostare la sua nozione di « fantasmagoria » a quella classicamente marxiana di « ideologia », per il tramite delle sedimentazioni tangibili dell’in­ conscio collettivo. La sua immagine di società è quindi strutturata piuttosto fortemente e il carattere di merce non spinge verso una disseminazione differenzialistica, bensì rinvia costantemente al lavoro espropriato che ne è tecnicamente la base e al proletariato op­ presso che porrà fine a sfruttamento e fantasmago­ ria. Nel saggio su Doblin59 il processo di emanci­ pazione psicologica di F. Biberkopf è descritto in termini di passaggio da una situazione di cui « è divorato dalla fame di destino » a uno stadio con­ clusivo in cui egli « non ha più destino, e cioè ha imparato a vivere », si è sbarazzato come il ka­ fkiano Bucefalo dal peso illustre del suo cavaliere, dal « fardello » del patrimonio storico-culturale. Tutto quel gigantesco lavoro micrologico di attra­ versamento dell’essere sociale (con il metodo del « montaggio degli scarti ») si muove nello spazio aperto fra la pluralità del mondo delle merci e del­ le fantasmagorie e il sogno dell’interruzione del tempo, della ricomposizione luriana dell’infranto. In questo l’ostinazione sull’angelo, sul suo vo­ lere la felicità come unità di ancora non vissuto e di ripetizione, sull’immagine di un ritorno, di uno scambio fra origine e metà che sospenda il corso 57

maligno del tempo60, per quanto possa sembra­ re patetica intimizzazione di uno stile di pen­ siero da sinistra anni ’30, ha ancora enorme forza preclusiva verso la banalizzazione dell’effimero e del frammentario. Benjamin ci ricorda che ef­ fimero è l’angelo, che il frammento è teologicamente connesso alla figura della Shekhinà. Non si tratta di un’ennesima fantasmagoria di simulacri o del fulgore narcotico del destino nella maschera del­ la prostituzione universale delle differenze. La dialettica dei passaggi è seria, non giocosa; tagliente, non debole. Oggi è paradossalmente il processo di transizione dalla società delle merci al comuniSmo a presentarsi come transito immobi­ le, a prendere figura di passage (senza la sua aerea leggerezza). Questo blocco produce una nuova fan­ tasmagoria ideologica, la fissazione destinale del caduco a valore, a legittimazione metafisica del riformismo, rischia la caduta di ogni tensione fra oggettiva frantumazione del reale, complessità crescente dei sistemi da una parte, istanza di ricom­ posizione dall’altra. La valorizzazione allegorica del risveglio offre una rete per afferrare il plurale, senza adagiarsi sul frammentario e sull’immediatamente disperso: essa indica la coessenzialità di molteplicità e strategia di cattura, la positività del disordine per raggiungere ordini più complessi. « Imparare a vivere » significa adeguarsi alla com­ plessità, controllarla senza mai essere divorati dal compiacimento per essa.

6. Sogni e fatti storici non hanno titoli. Il senso della scena va restituito a partire dallo stato di veglia, dal presente del politico, che in relazione al suo punto di valutazione — da quella soglia in

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cui è ancora coinvolto nel sogno o attento per il balenante pericolo storico — riorganizza gli ele­ menti della metafora, decifra gli enigmi, rovescia la lettera, intuisce se si tratta di un sogno premo­ nitore o di un invito a congedarsi dal passato. Qui sta il vero nuovo, la liberazione dal peso delle ere­ dità destinali, l’interruzione della ripetizione. La discontinuità così introdotta nel passato ci è d’al­ tronde ampiamente restituita dal futuro: è il di­ sordine, il « rumore » ai confini del sistema, l’uma­ na felice incapacità di conoscere anticipatamente il nuovo, il contorno della nostra esperienza. Il collasso delle grandi narrazioni ha questo di buono: che sulle pagine bianche si possono scri­ vere ancora molte cose.

Elogio del disordine La cultura del riformismo è in apparenza la risposta alla crisi dei grandi sistemi, delle speranze radicali, delle ontologie totalizzanti. Ma è appa­ renza. Il basso profilo della pratica politica resti­ tuisce invero l’omogeneità del tempo e riduce solamente il respiro della progettualità tradiziona­ le, senza rimetterla in questione. I « piccoli passi » sono i soliti passi — soltanto più « piccoli » — sulla strada ben nota del progresso. La locomotiva della storia rallenta e fischia a ogni passaggio a livello, ma continua a procedere alla cieca. Le legittimazioni ideologiche del riformismo — alternativamente storicistica o neo-positivisti­ ca — non sono tali da correggere significativa­ mente le distorsioni provocate dalla finalizzazio­ ne unilaterale del sistema sociale, di cui le grandi 59

teorizzazioni ottecentesche avevano costituito l’a­ pologià ancora ingenua. Questa aporia interna si manifesta nella fragilità dimostrata dall’ideologia ri­ formista nei confronti dei programmi più aggressi­ vi scaturiti dalla crisi dello stato sociale assisten­ ziale. Se il terreno resta quello economicistico del dominio tecnico sulla natura, le soluzioni che si presentano con la pretesa di massima efficienza, il neo-monetarismo per esempio, ma in generale ogni riabilitazione delle diseguaglianze e dalla strug­ ge for life, hanno buon gioco. All’umanesimo in­ sieme prometeico e sentimentale delle grandi visio­ ni del mondo, a quello empirico-plurale del rifor­ mismo si sovrappone pacificamente una rinata re­ torica dell’individualismo e della competizione esistenziale. Le variazioni ideologiche dipendono essenzial­ mente dalla variazione strutturale della formazio­ ne economico-sociale : il successo e la crisi del ri­ formismo sono scanditi dalle fortune e dalla de­ cadenza del modello di governo keynesiano dei rap­ porti di produzione capitalistici. Soltanto dove resi­ steva un’egemonia della tradizione marxista a li­ vello etico-culturale — in Francia e in Italia — la diffusione di uno stile di pensiero riformista ha coinciso con il declino internazionale dello stes­ so e si è intrecciata con le prime manifestazioni del ritorno in auge dell’individualismo competitivo, così da offrire l’orrido miscuglio di un residuale terzinternazionalismo sclerotizzato, di una bolsa retorica pluralista e di ostentazioni spettacolari del « particolare ». Nell’era dei Reagan e delle Tha­ tcher, Italia e Francia diventavano così le patrie del post-modern politico. Se la liquidazione della progettualità illimitata­

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mente espansiva deve essere portata sino in fondo, riusando tutti gli elementi positivi contenuti nei si­ stemi « classici » di pensiero, non ci si può accon­ tentare del semplice « indebolimento » delle cate­ gorie metafisiche; anche una battaglia contro le ideologie « lavoristiche » assomiglia abbastanta a quella contro i mulini a vento, se si pensa che il ruolo oggettivo del lavoro diretto è già di per sé at­ tenuato nella riorganizzazione informatica della produzione. Ulteriori lodi del consumo, del men­ tale, dell’immateriale, del piccolo eccedono ciò che già avviene quotidianamente nel mondo della pro­ duzione, risultano superflue. L’insistenza con la quale abbiamo continuato ad aggirarci intorno ad alcune categorie marxiane pre­ se nella loro « apertura » al presente (quindi nel­ la loro « inattualità » rispetto alla compattezza del contesto originario) muove da questa preoccupa­ zione. La categoria « lavoro » ha una duplice funzione 1) in riferimento al modo di produzione capitali­ stico possiede centralità pratica e ideologica, 2) co­ me « interfaccia » presente in tutti i modi di pro­ duzione e che permette il passaggio dall’uno all’al­ tro (senza configurarsi peraltro come il « fondo » comune ad essi) è la modalità ricorrente del ricam­ bio uomo-natura, ma è passibile di diversa colloca­ zione ideologica. La « necessità » del lavoro ha infatti effetti molto differenziati nella sua presen­ tazione immaginaria nelle varie epoche. Nella forma più pura del modo di produzione capitali­ stico (che a sua volta è soltanto dominante nella concreta combinazione delle formazioni economico-sociali) il lavoro è per un vero sacrificio, per l’altro incessante snaturalizzazione della natura, ri­

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conduzione « gratuita » delle sue risorse alla mani­ polazione tecnica. Questo duplice passar sopra ai vincoli interni del lavoro — l’estrarlo « penosamen­ te » a qualsiasi prezzo dal lavoratore e l’imporlo senza limiti nella trasformazione delle risorse di materia ed energia, il doppio saccheggio della for­ za-lavoro e del mondo — è una legittimazione fon­ damentale per lo sviluppo delle forze produttive, un immaginario senza il quale sarebbe difficile con­ cepire l’immensa mobilitazione di uomini e mez­ zi dell’ascesa capitalistica {e lo spreco altrettanto immenso). Il nesso fra « sacrificio » e « dominio » è assai stretto, anche se questa combinazione agisce po­ tentemente solo nel capitalista, nella figura del ri­ sparmio-accumulazione, mentre dalla parte dell’o­ peraio è piuttosto una necessità imposta dalla so­ cietà (forse perché egli non ha saputo « sacrifi­ carsi » in tempo per diventare imprenditore) Già qui vediamo il riuso di un’accezione ideologica di lavoro che è anteriore, riferita a precedenti modi di produzione: il lavoro-sudore, maledizione per il pec­ cato di Adamo, che ora diventa attributo seconda­ rio per consolare il moderno proletario. Nella mi­ sura in cui il lavoro diretto è meno importante per la produzione, assistiamo però all’allentarsi dell’e­ tica protestante del lavoro, all’affacciarsi di ideo­ logie collegate piuttosto al consumo o alla cittadi­ nanza sociale. Lo spostamento dell’accento apolo­ getico dal lavoro alla tecnica è sintomatico: difficilmente una centrale nucleare, con tutti i pro­ blemi che pone nel rapporto con i vincoli naturali, potrebbe offrire materia di affreschi prometeici. La spersonalizzazione della produzione produce esalta­ zioni impersonali e generici problemi di responsa­ 62

bilità sociale e di sviluppo tecnico. Il bue tayloriano diventa desueto quanto l'eroe del lavoro. Se ci volgiamo ora all’aspetto « generale » del lavoro — ma in quel senso di interfaccia che non fa dei vari tipi di lavoro la variazione specifica di uno stesso sostrato universale/generico — lo ve­ diamo piuttosto come una forza che agisce inces­ santemente sul confine che separa sistema (umano) e ambiente (naturale), adeguato (anche nei suoi ornamenti immaginari) ai differenti precari equi­ libri che di volta in volta vi si stabiliscono. La società, a sua volta, non è organo di produ­ zione se non nel modo di produzione capitalistico, dove la cooperazione è unidirezionalmente funzionalizzata all’appropriazione delle risorse natu­ rali e alla monopolizzazione capitalistica dell’uso della forza-lavoro. Sotto questo profilo essa è evo­ cata immaginariamente ogni qual volta si tratti di legittimare l’asservimento o un prelievo sulla ricchezza prodotta. Considerata invece in altri mo­ di di produzione la società ha una pluralità di fi­ ni: è per questo, osserva Marx, che ideali di un mo­ do di produzione più « limitato » possono a volta apparire più « elevati », è per questo che il moder­ no è irrimediabilmente più « volgare » dell’arretra­ tezza antica. Anche questo peculiare immaginario ha le sue oscillazioni: l’enfasi sulla cooperazione sociale può variare ed è effettivamente variata dalla fase li­ bero-concorrenziale a quella keynesiana e all’attua­ le neo-concorrenzialismo. Mentre il concetto di lavoro materiale si smaterializza, l’individuo — con le sue doti di « creatività » — riguadagna terre­ no nei confronti del generico « sociale ». Ma il fine è lo stesso: portare avanti, in modo più o me-

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no illusoriamente « privato », la grande « sfida » del dominio sulla natura, ivi compreso il dominio della natura umana più forte su quella più debole. Questa apologia della diseguaglianza presuppone a maggior ragione la cooperazione sociale, la variegazione delle scelte e dei consumi, la generale pri­ vatizzazione dei comportamenti e della stessa poli­ ticità. Le categorie di « lavoro » e « società » han­ no sempre avuto, nella formazione capitalistica, un ruolo di stabilizzazione dei rapporti intra-sistemici e di spostamento dell’instabilità verso l’am­ biente circostante, hanno cioè aggredito la natu­ ra per mantenere al proprio interno un ordine fon­ dato sulla diseguaglianza e sul disciplinamento cre­ scente. Numerose soluzioni sono state sperimen­ tate per far accogliere nell’immaginario sociale l’ingiunzione paradossale a produrre per produrre. E naturalmente sono state raggiunte delle soglie tecniche dalle quali è difficile pensare di recedere. Ma su questa strada l’avanzata è doppiamente pre­ clusa: da pericoli di perdita di controllo sull’uso del­ le tecniche e dal blocco della transizione da que­ sto modo di produzione a un altro. Le perplessità dell’ultimo Marx acquistano senso alla luce di co­ me sono poi andate le cose. L’aspetto astratto del lavoro e la cooperazione esclusivamente produtti­ vistica che gli fa da cornice spingono avanti una sola finalità del sistema e lo costringono, se vuole mantenere un equilibrio interno, a squilibrare sem­ pre di più l’ambiente circostante. Certo non è faci­ le dire — a questo punto della sussunzione reale del lavoro nei rapporti di produzione capitalistici — quanto l’aspetto concreto del lavoro possa costi­ tuire il cardine di una reimpostazione più equili64

brata del rapporto fra umanità e natura. Più che altro è una speranza. Il rovescio del discorso è rappresentato dal di­ sordine, rispetto a quell’ordine interno del sistema che l’espansione incontrollata nell’ambiente vuol garantire, a prezzo del disordine esterno. Elogio, dunque, del disordine interno, intra-sistemico, della più ampia ricezione del « rumore » esterno. Più disordine nei rapporti fra gli uomini, meno disordine nell’ambiente naturale. Ciò significa ac­ cettare la complessificazione sociale senza sognare il regresso a un confine anteriore fra una società più semplice e meno produttiva e una natura in­ tatta. La complessificazione è elemento di contrad­ dizione dentro la concreta formazione economico-sociale capitalistica, per quanto astrattamente risulti proprio dal modo di operare dei suoi mec­ canismi puri di riproduzione, sia cioè in ultima ana­ lisi la proiezione « spaziale » della differenziazione delle funzioni emergenti nella divisione tecnica del lavoro. Già nello spazio-mercato61 la spazializzazione dell’attività lavorativa ha effetto di occul­ tare la memoria storica della realtà capitalistica, riconducendola al tempo in quanto vuoto scorrere degli istanti, contenitore estrinseco degli eventi pos­ sibili. Il tempo storico (che implica mutamento) diventa tempo analitico (vettoriale); il futuro è reincollato al presente soltanto aprendo il si­ stema al caso, così che la diacronia appare sempli­ cemente una sincronia sconnessa. Il dominio dello spazio sul tempo (e la riduzione di quest’ultimo alla misurabilità con l’orologio) è la forma visibile del dominio del lavoro morto sul lavoro vivo, dell’e­ spropriazione del tempo di lavoro alla forza-lavoro, della sua annessione al capitale.

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Tale complessificazione spaziale rende difficile pensare gli eventi futuri fuori da questa struttura, rende inimmaginabile la transizione ad altro. E tut­ tavia questo stesso eccesso di complessificazione ri­ schia di intasare i canali comunicativi del sistema e spinge i più avveduti studiosi delle strategie di con­ servazione a fronteggiare gli effetti derivati dalPiper-articolazione. Quando Luhmann si pone il problema di far corrispondere il grado di comples­ sità del sistema all’ampiezza della sua rete di co­ municazione interna, è costretto a introdurre il fattore temporale per dilazionare la domanda non immediatamente evadibile senza sopprimerla, per « mettere in latenza » l’eccesso di complessità. La politica assistenziale dello stato sociale, per esem­ pio, non respinge richieste in linea di principio, ma ne rinvia l’accoglimento, fa promesse, fissa « tempi ». Tale reintroduzione del fattore tem­ porale è però evidentemente del tutto omogenea a quella ripetizione senza sorprese che viene costrui­ ta sia nel concetto benj aminiano di « storia univer­ sale » sia nell’analisi di La Grassa sull’autonomizzazione spaziale delle funzioni e segmenti del la­ voro capitalistico. Il limite imposto al disordine interno ha così due condizioni: l’accantonamento degli effetti del­ la complessificazione mediante selezione (che sca­ rica le contraddizioni nell’ambiente circostante), la proiezione nel tempo omogeneo delle condizioni presenti. Il nuovo è così represso nell’immediato ed escluso nel futuro. Questa è la forma più sobria e realistica del riformismo, l’unica possibile dopo la crisi del modello keynesiano. L’impossibilità di un reale mutamento, il blocco della transizione non è « destino », ma è presentato esattamente come 66

tale, in una logica in cui anche il tempo è speso in quanto bene scarso ma suscettibile di ampli­ ficare l’impegno delle altre risorse. Qui veramente la struttura del destino è analoga a quella del dena­ ro e lo scorrimento omogeneo del tempo ne è il veicolo. Proprio adesso vorremmo applicare alla materia l’ammonimento di Kraus: « sullo spazio e sul tempo si scrive come fossero cose che non hanno ancora trovato applicazione nella vita pra­ tica ». L’hanno trovata e come! La liberazione dal limite d’ordine si fa inevita­ bile se nasce un problema di limiti del disordine ambientale, se cioè i contraccolpi di un saccheggio incontrollato delle risorse naturali62 diventano visibilmente più pericolosi del cambiamento socia­ le, del « grande disordine sotto il cielo » — che continuiamo a ritenere una cosa buona. Disordine è il nuovo, l’imprevisto, l’autentico accadere non­ teleologico, il processo « normale » di produzione dell’ordine. L’elemento che della dialettica resta vivo è dunque la contraddizione; il movimento strategico-congetturale è quello che scaturisce dal­ le contraddizioni e le risolve parzialmente pro­ ducendone di nuove. Perciò la complessità è ineludibile anche dal punto di vista della transizione. La contrazione del tempo e dei livelli che si sperimenta in ogni « soglia » storica — e la transizione può solo essere anticipazione immaginaria dei « passaggi » futu­ ri — sconsiglia il mantenimento di quell’ideale di « trasparenza » che Marx ereditava dalla polemi­ ca antireligiosa della sinistra hegeliana e dal libe­ ralismo politico. Non c’è più un « fondo » da far trasparire — nei meccanismi sociali come in quel­ li interpersonali — ma una rete di mobili con-

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tr addizioni, di schiarite e di riaddensamenti, di ri­ svegli e nuova formazione di immaginario. Se ne potrebbero trarre varie conseguenze poli­ tiche, che però oltrepasserebbero l’ambito di que­ sto lavoro. Il proposito era infatti soltanto di ri­ pristinare Fuso di tematiche apparentemente concluse, di suggerire un paradigma del lavoro63 differente da quello classico e diversamente cor­ relato alla soggettività e alla dialettica. L’inverno è dunque quello della sconfitta delle ipotesi della sinistra negli anni ’60 e 70, ma il bilancio del viag­ gio non è negativo: i periodi di difficoltà sono quelli in cui si impara, si correggono gli errori, ci si prepara al nuovo.

NOTE

1 La Winterreise fu stesa da F. Schubert nel 1827 su testo di W. Miiller. 2 II Frederic Moreau Educazione sentimentale flaubertiana ha conosciuto distrattamente «la malinconia delle navi, i freddi risvegli sotto la tenda, la vertigine dei paesaggi e delle rovine, l’amarezza delle amicizie tron­ cate», ha cioè esaurito la materia del compianto romantico, mostrando la preminenza dell’inquieto movimento sul­ l’oggetto, del nostos sulla patria. Il Viandante nietzschiano può ormai vantare nel suo cuore, non più legato a cose particolari, un «qualcosa di errante, che trovi la sua gioia nel mutamento e nella transitorietà», può dunque distaccarsi senza motivazione dalle passate credenze e ri­ divenire « buon amico delle cose prossime » (Umano trop­ po umano, tr. it. Milano 1965 e 1985, I, p. 305; II, p. 144 e 173-4). Il nomade non è più diretto a una mèta tinaie, l’esperienza che nel viaggio si compie è « passaggio », « accesso », non più approdo, compimento, come nella consunta metafora del viaggio-iniziazione o del viaggioBildung. 3 E pensiamo naturalmente, oltre a Schubert, all’A&scbied del mahleriano Canto della terra e alle liriche trakliane di Occidente, musicate da Webern, la cui lettura hei­ deggeriana è ormai spontanea quanto forse limitativa. 4 « In un amore i più cercano una patria eterna. Al­ tri invece, molto pochi, l’eterno viaggiare. Questi ultimi sono tipi melanconici che hanno motivo di temere il con­ tatto con la madre terra. Chi gli sappia tenere lontana la tristezza della patria, ecco chi cercano. A lui rimangono fedeli. I libri medievali sui temperamenti conoscono bene il desiderio di lunghi viaggi di questa specie d’uomini ». Il

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passo benjaminiano (Strada a senso unico, tr. it. Torino 1983, p. 37) riepiloga il tema nichilistico-saturnino dell'an­ tecedente Trauerspielbuch aprendo la nuova valenza mes­ sianica di un ( individualmente) penoso accesso all’età del­ l’oro. 5 Per i testi citati cfr. Mew 19, Berlin 1969, pp. 15-8 e l’introduzione deWIdeologia tedesca (tr. it. Roma 1958, pp. 17-33). Vedi anche il 2° paragrafo del capitolo ini­ ziale del Capitale. 6 E qui sta anche la legittimità di principio dei « marxismi », contro ogni illusione di fare tabula rasa del­ la tradizione riscoprendo sotto le incrostazioni deturpanti il « vero » originale: un siffatto oggetto non c’è, Marx è stato il primo interprete di se stesso. Non c’è dunque de­ creto metodologico contro i marxismi, bensì concreta valu­ tazione ed eventuale seppellimento di quelle che felicemen­ te C. Preve (La filosofia imperfetta, Milano 1984, II parte) chiama « avventure filosofiche del marxismo », of­ frendone una convincente schematizzazione. 7 Le Randglossen zu Adolph Wagners ( Lehrbuch der politischen Oekonomie ’ (Mew 19, p. 335 sgg.; tr. it. nell’appendice al I libro del Capitale, Torino 1978, p. 1339 sgg.) sono state valorizzate in senso antisoggettivistico per la prima volta da L. Althusser, al quale il presente testo è evidentemente debitore. 8 Glosse cit., pp. 1410-12; rispetto alle note formula­ zioni dell’ideologia tedesca sul nesso fra produzione della vita materiale e produzione delle rappresentazioni — che scandiscono, non senza ricordi feuerbachiani, la contrapposizionie fra materialismo storico e idealismo — abbiamo qui una genealogia della rappresentazione dalla soddisfazio­ ne del bisogno che costituisce una radicale innovazione di campo, in cui traspare una tematica che per altri versi ca­ ratterizzerà tanto Nietzsche quando il secondo Wittgenstein. 9 Ideol. Ted. cit., pp. 65-7. 10 Secondo una prima formulazione di S. Tagliagambe, anticipata nella sua relazione al convegno « Attualità di Marx » (Urbino, 22-25 novembre 1983). 11 « Al concetto corrotto del lavoro appartiene come suo complemento la natura che, per dirla con Dietzgen, ‘ esiste gratuitamente ’ » (XI delle Tesi di filosofia della storia, tr. it. in Angelus novus, Torino 1981, p. 82).

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12 Gesammelte Schriften, V, Frankurt a/M 1982, 1, pp. 455-6. 13 Ricordiamo qui, oltre i testi ben noti di Althusser, É. Balibar e D. Lecourt, il libro di G. La Grassa e M. Turchetto, Dal capitalismo alla società di transizione, Milano 1978. Sulla tradizione lavoristica del movimento operaio sono interessanti varie pagine di A. Negri, La forma stato, Milano 1977. 14 II problema della coesistenza in Marx di paradig­ mi contraddittori del lavoro e della produzione e di no­ zioni diversificate di lavoro (mai comunque innocuamente passibili di riduzioni ludiche) è finemente discusso, con re­ lative bibliografia, nella V parte del citato volume di C. Preve. 15 Per il dettaglio dell’argomentazione si rinvia ad A. Illuminati, Congettura e progetto, in « Metamorfosi » 6, Milano 1982, p. 53 sgg., e soprattutto a G. Bottiroli, Il problema della lettura e il modello della psicanalisi. Tra Lenin e Lacan, in « Metamorfosi » 4, Milano 1981, p. 140 sgg. La descrizione classica della metis sta in M. DetienneJ. P. Vernant, Les ruses de Vintelligence, Paris 1974 (tr. it. Bari 1978). 16 Nel senso delle classiche pagine heideggeriane del­ la Dottrina platonica della verità (tr. it. Torino 1975). 17 « Plus d’adventures ni de surprises », commenta­ no Detienne e Vernant (Les ruses cit., p. 290), in singolare analogia a due proposizioni di Wittgenstein: « perciò nella logica non possono esservi mai sorprese » (Tractatus, 6. 1251); «processo e risultato sono equivalenti - perciò nessuna sorpresa » (ib., 6. 1261). 18 Che naturalmente non elimina le pratiche conget­ turali da campi quali la diagnostica medica e la storiogra­ fia; la phrónèsis aristotelica eredita copiosamente dalla tra­ dizione della metis. 19 La potenza della censura platonica sta proprio nel­ le capacità esplicative del sottostante modello ontologico rispetto sia alle cosmologie antecedenti- sia alla prassi in­ fondata (ma debolmente giustificata) dei sofisti; in partico­ lare le implicazioni matematizzanti dell’assunto l’avrebbero reso estremamente fecondo anche in seguito. Una contesta­ zione in termini di « sapere basso » (quale traspare dalle ideologie indiziario} rischia di ritagliare una zona libera subalterna più che di configurare un nuovo orientamento

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conoscitivo (cfr. la polemica VegettbGinzburg). Lo sposta­ mento di parametri, cui 1’evocazione dell’arcaica metis allu­ de, ha senso solo se è funzionale a un accesso più appropria­ to al problema ontologico — se serve, cioè, a ricostruire un’ontologia sociale del complesso o a superare limiti strut­ turali del sapere analitico. Non servirebbe una metis che fosse controparte ndive della Ragione autoritaria; serve un sapere più flessibile che lavori sui prodotti della storia mil­ lenaria del logos. La teoria delle catastrofi o la termodina­ mica degli stati lontani dall’equilibrio è fonte più suggesti­ va per (sempre rischiose) analogie che non il sapere dei cac­ ciatori. 20 La più originale tematizzazione di questa destinalizzazione ontologica è la dottrina luriana dello Lsimtsùm trat­ tata da G. Sholem (L# Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it. Torino 1980, p. 138 sgg., e più ampiamente Le grandi correnti della mistica ebraica, tr. it. Milano 1965, cap. VII e p. 284 sgg.). Per Yitzchàq Luria, che riprende materiali di una gnosi ebraica fiorita in terra occitanica contemporanea­ mente all’eresia catara (di cui sono documenti il Bahìr e lo Zòhar), la dottrina cabalistica delle dieci potenze e forme del Dio vivente (le Sefiròth) è riletta in funzione della con­ nessione fra Dio e il male, dell’inerenza del nulla a Dio e della creazione verso l’esterno come lato essoterico di un processo interno a Dio; in particolare l’ultima delle Sefiròth, la Shekhinà, vale insieme da « presenza » divina nel mondo (autonomizzazione del suo elemento femminile) e da imma­ gine dell’esilio — di Israele nella storia, dell’anima nel mon­ do. Il dramma teologico — cosmico si apre con la Lsimtsùm o autolimitazione di Dio, che anziché emanare da se stesso (secondo lo schema gnostico classico) si complica e raccoglie in sé, contrae la propria essenza occultandosi più in pro­ fondità e liberando in tal modo uno spazio originario pneu­ matico in cui possono svolgersi i processi cosmici, qual­ cosa di diverso dall’essenza di Dio. Questa contrazione è un’autoproscrizione, in cui si separano da Dio le potenze giu­ diziarie contenenti il male: l’organismo diviso, secernendole, si purifica dagli elementi del male mediante una crisi ori­ ginaria. Tale processo si riproduce in tutti i successivamente svolgentisi stadi dell’essere attraverso separazioni e preci­ pitazioni (la cosiddetta « rottura dei vasi »), al cui termine nulla si trova più al suo posto, tutto sta da qualche altra

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parte, ha macchie e risulta incompiuto. La crisi originaria si riflette anche nell’esperienza dell’esilio, che ripete stori­ camente l’auto-esilio iniziale di Dio; la redenzione, la ricom­ posizione dell’infranto (Tiqqùn), riguarda tanto Dio quanto l’uomo e comporta la separazione dell’essenza spirituale dal­ la grossolana materia demoniaca che vi si è mescolata. Dopo la caduta di Adamo — primo tentativo di « rimettere le cose al loro posto » — ogni peccato continua a testimoniare quel disastroso fallimento, così come ogni buona azione è un contributo per la liberazione dell’esilio e il ritorno in patria. L’esilio di Israele allegorizza la condizione dell’uo­ mo e dello stesso Dio, è una missione che percorre tutto il mondo per raccogliere ogni scintilla della Shekhinà che deve essere liberata, lavorando così alla reintegrazione di tutte le cose, secondo un progresso costante, nonostante le ricadute, verso il compimento messianico. Questo convalida il lavoro svolto, piuttosto che intervenire in senso catastro­ fico. Anzi, in un celebre detto di altra scuola (chassidica), il Messia darà appena un piccolo ritocco all’opera umana. Per il coinvolgimento in tali tematiche di W. Benja­ min, cfr. G. Schiavoni, IF. Benjamin. Sopravvivere alla cultura, Palermo 1980, cap. 2° e 4°. 21 Secondo un’osservazione di R. Thom (Parabole e catastrofi, tr. it. Milano 1980, p. 108), la nozione di crisi è strettamente legata a quella di soggetto, mentre quella di catastrofe si riferisce a discontinuità oggettivamente os­ servabili. 22 Per una trattazione più esauriente si rinvia a G. I. Giannoli-A. Illuminati, Dialettica e tecnica, in AA. VV., Marxismo in mare aperto, Milano 1983, pp. 87-106. 23 La distinzione fra mappa e territorio si riferisce normalmente, in una descrizione dell’esperienza, a due aree separate da un divisore; a ogni passo, per dirla con Bateson, quando una differenza è trasformata e si propaga lungo il suo canale, la materializzazione della differenza prima del passo è un territorio, mentre la materializzazione risultante dopo il passo è una mappa. Quest’ultima non è una rap­ presentazione « realistica » bensì « sintetica » e la sua utilità non è direttamente proporzionale all’abbondanza dei dettagli (come dimostra il paradossale racconto borghesiano dedicato ai cartografi dell’impero). Un sistema molto com­ plesso deve ricorrere, nello stendere mappe dell’ambiente in cui è immerso, a griglie interpretative differenziate, ognu­

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na secondo un numero ristretto di parametri, così da rac­ cogliere ed elaborare differenze in funzione di decisioni. Il logos è sottoposto nel sapere analitico moderno a una du­ plice trasformazione/riduzione: diventa modello locale e di simulazione. 24 La nazione di « tangenza » tiene fermi due elementi che contrastano tanto l’ingenua credenza nel perfetto isomor­ fismo fra enti teorici e realtà quanto il relativismo che met­ te la realtà fra parentesi. Il primo sottolinea il carattere locale del rapporto fra ogni singola tecnica e ogni porzione del reale. Il secondo dice che esistono dei « punti » nei quali la tecnica diventa essa stessa componente della real­ tà, sicché lì teoria e pratica, soggettività e oggettività coin­ cidono. La nozione di tangenza implica dunque l’irriduci­ bilità e oggettività del reale, unitamente al riconoscimento dell’artificiosità dei modelli interpretativi. Cfr. anche la voce « locale/globale » di J. Petitot sull’Enciclopedia Einaudi. 25 In senso strettamente batesoniano, così come il ter­ mine è alluso in uno dei « metaloghi » che aprono la rac­ colta dei suoi saggi: FIGLIA: Che cosa vuol dire per te che una conversaha avuto un contorno? Questa conversa­ zione ha avuto un contorno? PADRE: Oh, certamente sì. Ma ancora non possia­ mo vederlo, perché la conversazione non è ancora finita. Non si può vederlo mai, quando ci si è in mezzo. Perché se tu potessi vederlo, saresti prevedibile - come una macchina. E io sarei prevedibile, e noi due insieme saremmo prevedibili... (G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, tr. it., Milano 1976, p. 68). Nello stesso senso Prigogine e Stengers, nella Nuova alleanza (tr. it. Torino 1981) parlano del ruolo dell’osser­ vatore in un « universo di partecipazione », caratterizzato dalla non manipolabilità delle condizioni iniziali e dalla non determinabilità del futuro, ma lo stesso problema sta, a ben vedere, al fondo del nesso hegeliano fra realtà e razio­ nalità, come ha ben chiarito F. Rosenzweig, Hegel e lo Stato (tr. it. Bologna 1976, spec. pp. 404-5), dove si dà tra­ sparenza e compiutezza soltanto a posteriori, quando la finitezza è suggellata dallo scorrimento irreversibile del

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tempo: « solo perché la storia è il giudizio universale e pronuncia le sue sentenze irrevocabili secondo la legge della ragione, solo per questo il reale è razionale ». 26 La forza del pensiero heideggeriano — così come traspare soprattutto nel gruppo di scritti raccolti sotto il titolo Zur Sache des Denkens (tr. it. Tempo ed essere Napoli 1980) e in Identitàt und Differenz (tr. it. in « Aut Aut » n. 187-88, con un importante commento di G. Agamben, dalla cui conclusione « trasparentistica dis­ sentiamo) — sta nelTaver afferrato che il Ge-stell, la pro-vocazione dell’essere nella tecnica rende inevitabile pensare l’essere senza l’essente, che insomma proprio lo sviluppo estremo delle scienze pone fine alla sto­ ria della filosofia come metafisica e rende possibile esperire — nGYEreignis — l’oblìo dell’essere come tale, il destinante al fine privato delle sue « impronte » epocali. Prendere dimora nell’evento destinante pone termine alla storia del ritrarsi. Questa soppressione del primato dell’ente e del sog­ getto è idealistica nella sua positività; più interessante è la parte negativa che la precede, in cui si rileva come la filosofia sia divenuta scienza empirica dell’uomo « sul­ la base e secondo le norme dell’esplorazione e dello sfrut­ tamento scientifico dei singoli settori dell’essente », se­ condo un modello organizzativo in cui si manifesta l’ine­ luttabile preponderanza della cibernetica, che « trasforma il linguaggio in uno scambio di informazioni ». In questa acutissima percezione delle tendenze scientifiche (altro che critica romantica della scienza!) Heidegger ovviamente fa del « furore sradicatore » della cibernetica un negativo-pre­ paratorio sXTEreignis, laddove nel nostro discorso si trat­ ta piuttosto di uno sfondamento non-speculativo dei limiti stessi della specializzazione analitica, di un rovesciamento dialettico del processo del logos. 27 Cui molto si avvicina la nozione di « ordine meta­ stabile » invalsa nella termodinamica di non-equilibrio di Prigogine, dove esso non è più associato all’equilibrio e alla stabilità di lungo periodo, ma appare un prodotto transitorio del « disordine ». Analogamente in teoria del­ l’informazione, Vinformazione è di un ordine logico infe­ riore a quello del rumore^ è la sua quota di volta in volta decifrata (cfr. le voci « informazione » e « comunicazione » di A. Wilden sxtìTEncìclopedia Einaudi, molto caratteri­

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stiche anche per la reinterpretazione di alcune categorie marxiste). 28 Per quanto sia diffuso il vezzo di presentare l’ul­ tima variante della teoria dei sistemi come un decisivo su­ peramento delle precedenti, è giusto riconoscere che già nei saggi di von Bertalanffy (cfr. Teoria generale dei siste­ mi, ultima tr. it. Milano 1983) sono dati, anche mediante una rettifica tecnica di certi teoremi di Ashby e Shannon, elementi che dimostrano l’irrilevanza delle preoccupazioni sottostanti all’essenziale teorema di Luhmann della « ridu­ zione di complessità ». La paura del « rumore » superiore alla capacità di assorbimento dei circuiti informazionali è semplice paura di dover ristrutturare il sistema adeguan­ dolo a un ambiente più complesso e turbolento. Ben poco la tradizione dell’equilibrio sociale, anche nelle più sofi­ sticate e smaterializzate versioni contemporanee, può at­ tingere sia dalla classica teoria dei sistemi sia da singole teorie scientifiche. 29 Verso un'ecologia cit., specialmente pp. 89, 294, 348 sgg., 370, 448-9, 461 e 480. 30 Un esempio preciso può essere offerto dalla mo­ nocultura agricola o ancora più efficacemente dalla ridu­ zione delle varietà delle piante alimentari a poche semen­ ti selezionate artificialmente e pericolosamente esposte alle aggressioni ambientali. Negli anni ’80 la ricerca di va­ rietà « selvagge » di mais ha assunto importanza pari agli esperimenti di ingegneria genetica ma con logica opposta. 31 II problema è stato formulato, nei citati contri­ buti di A. Wilden, in riferimento alla concorrenza di logi­ che digitali e analogiche, del discreto e del continuo. Il digitale, sfera della distinzione, sarebbe privilegiato — nell’èra del dominio borghese — sull’analogo, sfera della differenza, come rappresentante del valore di scambio ri­ spetto al rappresentante del valore d’uso. In tale contesto il campo del digitale si manifesterebbe essenzialmente nel­ la logica dell’identità/opposizione, il campo dell’analo­ gico, sintatticamente più debole, verrebbe in qualche modo a corrispondere alla sfera della dialettica. Il « libero » in­ dividuo borghese, in cui il soggetto del lavoro si separa da quello della creatività e il corpo si aliena nel duplice senso di divenire « proprietà della mente » e contenitore di forza-lavoro liberamente vendibile, è l’esito esemplare di un processo di digitalizzazione dell’identità umana,

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altamente pericoloso per l’equilibrio fra specie e ambiente. Nell’universo capitalistico, infatti, regolato digitalmente dall’equivalente generale, cooperazione e competizione ven­ gono proposte in vincolo contestuale, secondo un tipico meccanismo di double bind o ingiunzione paradossale: la sfida a produrre per produrre stabilizza la società con oscil­ lazioni cicliche diacroniche del sistema, esportando l’in­ stabilità nell’ambiente, sfruttato oltre ogni misura. Attra­ verso tale meccanismo di lacerazione competitiva e com­ pensazione squilibrante la finalizzazione unilaterale allo sviluppo economico porta, alla lunga, all’alternativa fra rischi intollerabili per la sopravvivenza e radicali cam­ biamenti di struttura del sistema. In altri termini: il cri­ terio dell’efficienza limita la ridondanza del sistema, e ne diminuisce tendenzialmente la stabilità, mentre la ra­ zionalizzazione troppo spinta dei processi aumenta il ri­ schio di errori letali. Nelle contraddizioni di un certo tipo di progettualità si osserva nuovamente che il capitale è limite a se stesso. 32 Strada a senso unico cit., pp. 67-9. Per altre con­ siderazioni sulla tecnica e la sua « cattiva ricezione » bor­ ghese (dunque non sulla sua intrinseca negatività) cfr. il saggio su Fuchs (tradotto in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino 1966, pp. 87-90) e le Tesi 7, 8, 11 e 13 di filosofia della storia. 33 G. S. I, 3, p. 1233; cfr. l’altra importante varia­ zione dell’ultima delle Thesen, in cui la famosa « piccola porta » dalla quale a ogni momento può entrare il Messia gira sul cardine della memoria (« Die Angel, in welcher sie sich bewegt, ist das Eingedenken », ib.> p. 1252). Il tempo messianico fa irruzione nella storia, mediante la sospensione dialettico/redentrice della memoria involon­ taria, interrompendola piuttosto che portandola a compi­ mento. Con il che naturalmente — e Benjamin ne tenne ben conto nella scelta tra le varianti per l’edizione delle Thesen — non soltanto si spezzava ancor più radicalmente il determinismo dello sviluppo delle forze produttive e della preparazione materiale a tappe delle condizioni rivo­ luzionarie, ma si apriva una voragine irrazionalistica nel materialismo storico. 34 L’autenticità dell’immagine è dovuta alla sua fu­ gacità, « in essa consiste la sua unica chance », che que­ sta verità sia appunto caduca e perciò « intrattenga ot­

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timi rapporti con l’eternità » (ib., p. 1246); cfr. per un commento dettagliato F. Desideri, Ad vocem ( Jetztzeit ’, in «Nuova Corrente» XXVIII (1981), pp. 581-96. 35 Per questo gruppo di citazioni dal Passegen-Werk (i cuì tratti generali sono esposti in Parigi, la capitale del XIX secolo, tr. it. in Angelus Novus cit, spec. p. 146 e 156) cfr. G. S. N, 1 pp. 490-2, 495, 577-8, 587, 591-2; 2, pp. 852, 1006, 1026, 1057-8. Per un puntuale commento cfr. F. Desideri, W. Be­ njamin — il tempo e le forme, Roma 1980, cap. VI e VII. 36 Cfr. i testi di L. Althusser ed É. Balibar conte­ nuti in Lire le Capital (Paris 1965; tr. it. Milano 1968, pp. 348-9, 113, 97 sgg., 126 sgg., 165 sgg. per Althusser; 242 sgg., 262 sgg., 298-305 per Balibar); importanti sono anche i saggi successivi di Althusser compresi nella rac­ colta (italiana) Freud e Lacan (Roma 1981), specialmen­ te il c. d. « colloquio di Amiens »; (giugno 1975), ib., p. 125 sgg. Per le classiche definizioni della surdeterminazione cfr. L. Althusser, Pour Marx, Paris 1966 (p. 85 sgg. e 206 sgg.). Altrettanto decisivi per la relazione indiretta di que­ sto indirizzo con Benjamin sono il comune sfondo nietz­ schiano — mediato in Francia da Foucault e dallo strut­ turalismo — e il riferimento a Bachelard (almeno ai suoi primi scritti). La decisiva influenza della heideggeriana Lettera sull'umanesimo sull’anti-umanesimo althusseriano riassume un complesso culturale con cui Benjamin (pre­ morto alla Lettera in questione) si era costantemente mi­ surato, su questo punto probabilmente in forma non an­ tagonistica. Cfr. anche quello che G. Shiavoni (W. Be­ njamin cit., p. 41 sgg.) chiama « il ripudio dell’Ich ». 37 E’ degno di nota che proprio l’ispirazione baaderschellinghiana, che è a fondamento della concezione benjaminiana della natura, marca una preziosa distanza dalla tradizione feuerbachiana e consente paradossalmente un avvicinamento, per così dire tangenziale, alla separazione bachelardiano-althusseriana fra oggetto della scienza e og­ getto empirico. 38 Sul nesso fra manipolazione del mondo e nuova spiritualità, cfr. le considerazioni di M. Cacciar! nel sag­ gio introduttivo a W. Rathenau e il suo ambiente, Bari 1979, pp. 28-40. Ma già in Pascal la figura della devozione sa unire coeur e machine.

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39 La diversità del percorso di Heidegger — tutta nel segno della « destinalità » — va da quella accezione di storicità a un concetto spiritualistico di lavoro molto affine alla « mobilitazione totale » di Junger e da ultimo alla tecnica che si affaccia s\iWAb-grund dell’essere. « Fe­ ticci del tramonto » — per usare un sarcasmo molto se­ rio di Benjamin recensore di Junger. 40 La memoria involontaria riprende, come è noto, un concetto-guida della Recherche proustiana, da cui — almeno quanto da Freud — sono desunti motivi di inte­ resse per il sogno; tuttavia sarebbe limitativo leggere nel programma benjaminiano una mera « democratizzazione » ed estensione collettiva dell’esperienza proustiana, stante il ruolo tutt’altro che accessorio che vi acquisisce l’espe­ rienza urbana e in generale del « moderno », in Proust solo fuggevolmente (anche se intensamente) balenante nelle pagine dedicate alla Parigi degli anni di guerra. Sul­ l’importanza di Proust per Benjamin ha scritto molto fi­ nemente F. Rella, Il silenzio e le parole, Milano 1981. 41 Siamo dunque all’opposto di Jung, il quale « vuol tenere lontano il sogno dal risveglio » e lo affida, nella sua astoricità, al più volgare sfruttamento occasionale della demagogia fascista. 42 Sul tema dell’angelo in Benjamin vedi i non col­ limanti saggi di G. Agamben, R. Bodei e M. Cacciati sul n. 189-90 (maggio-agosto 1982) di « Aut Aut ». In uno dei suoi momenti di maggior vicinanza (postuma) a Benjamin, Adorno (sulla cui posizione in merito cfr. le pagine di M. Vacateli©, Adorno: il rinvio della prassi, Firenze 1972, p. 102 sgg.) ha scritto: « non è più pos­ sibile riferirsi alla trascendenza se non mediante la ca­ ducità; l’eternità non appare come tale ma spezzata attra­ verso l’elemento più caduco. Quando la metafisica he­ geliana equipara la vita dell’assoluto con la totalità del passato di ogni finito, trasfigurandolo, guarda anche sia pur di poco oltre il sortilegio mitico, che essa coglie e raf­ forza » (Dialettica negativa, tr. it. Torino 1980, p. 325). 43 Cfr. F. Desideri, Ad vocem cit.; la contrapposizio­ ne fra Erlebnis (l’esperienza unica, privilegiata) ed Erfahrung (l’esperire quotidiano, con le sue contraddizioni ma­ teriali e collettive) è uno dei fili più risaltanti nell’ordito del Eassagen-Werk (cfr. G. S. V, 2, p. 962-9, ma anche 1, 488 e 638-40).

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44 La critica benjaminiana del progresso risente tanto della filosofia schellinghiana (per cui cfr. F. Desideri, W.B. cit., p. 345 sgg.) quanto della mistica di F. von Baader (sul quale vedi l’introduzione di L. Procesi Xella all’antologia Filosofia erotica, Milano 1982). Di partico­ lare importanza i riferimenti ai baaderiani Fermenta cognitionis {ib., 168 sgg., cfr. 456-7) per il tema della « reden­ zione della natura », Sul concetto di tempo {ib., p. 99 sgg.), per la contestazione del tempo lineare kantiano e il motivo della « ruota d’Issione » come mimesi diabolica dell’eternità, infine alla XVIII Vorlesung del 1° qua­ derno {ib., pp. 405-6), per la sospensione del tempo e il regresso alle origini (« movimento nella quiete e quiete nel movimento ») quasi ad anticipare la Dialektik im Stillstand. 45 Benjamin aveva letto con molta attenzione gli studi di Lowith {Nietzsche e l’eterno ritorno del 1934; tr. it. Bari 1982) e soprattutto aveva scoperto L’éternité par les astres di Blanqui (ora disponibile in versione italiana, Roma 1983, a cura di F. Desideri), che anticipava il mito nietzschiano con una specifica tonalità pessimistica, di instancabile ripetizione annientante ogni vero nuovo. 46 Un’impostazione analoga si ritrova nella moderna tematica scientifica osservatore, non più parte di una sorta di « contratto sociale » fra sperimentatore e natura, come nella tradizione ottocentesca, ma collocato ontologi­ camente in una parzialità di analisi e intervento, che è insieme garanzia dell’efficacia della ricerca. 47 II carattere « moderno » della mitologia è sco­ perta di Aragon, nel suo Baysan de Paris (1924-26; tr. it. Milano 1982-2° ed., con introduzione assai documentata di F. Rella). Sul rapporto di critica fascinazione fra Ara­ gon e Benjamin vi sono stati due notevoli interventi (ciclostilati) di J. Leenhardht {Le passage comme forme d’experience) e di W. Menninghaus {Zwischen Mythos und Sprengung des Mythos’. Walter Benjamins ( Schwellenkunde ’) al convegno su Benjamin e Parigi (Paris, 2729 giugno 1983). Assai precisa è anche la messa a punto di R. Bodei {L’esperienza e le forme) sulla critica del programma dello storicismo, la fantasmagoria e il risveglio. 48 Nello scritto Giocattolo e gioco (tr. it. in Critiche e recensioni, Torino 1979, pp. 78-9). 48 L’Urwald di cui si parla nel programma di P-W, 1, pp. 570-1: «Rendere coltivabili i campi sui quali

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finora ha allignato la follia. Procedere con Fascia affilata della ragione e senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che seduce dal profondo della selva primigenia. Tutto il terreno dovrebbe final­ mente essere reso coltivabile dalla ragione, ripulito dal rigoglio della follia e del mito ». 49 Nella recensione del 1930 a Das steinerne Berlin di W. Hegemann (Critiche cit., pp. 175-7), che conclude « dialetticamente »: « mostrare la tesi e l’antitesi è bene, ma intervenire può soltanto colui che individua il punto in cui un momento si rovescia nell’altro, poiché il positivo nel negativo e il negativo nel positivo coincidono ». 50 Per la critica della violenza (tr. it. in A.N. cit., p. 5 sgg.). Le evidenti influenze di Sorel e di Bloch non devono far dimenticare che la nozione di destino ivi con­ tenuta è spiegabile soltanto considerandone lo sviluppo alla luce dell’influenza di Rosenzweig. Sul rapporto fra i due autori cfr. le considerazioni (riferite però soprat­ tutto al tempo) di F. Desideri, Catastrofe e redenzione negli atti del convegno modenese del 22-24 aprile 1982 (W. Benjamin, tempo storia linguaggio, Roma 1983, p. 189 sgg.). 51 Nella seconda intervista di Svendborg, Brecht (che pensa a Lukàcs) dichiara a Benjamin (che pensa ad Adorno) che bisogna ricollegarsi al « cattivo nuovo » e non al « buon antico ». Sul rapporto Brecht- Benjamin, oltre ai cap. V e VII del libro di Desideri cit., cfr. il dettagliato Benjamin nel giardino di Brecht. Svendborg e dintorni di G. Schiavoni (W. B., tempo storia linguaggio cit., p. 149 sgg.). Del resto questa tematica — volutamente anti-« destinale » — parte proprio dall’accettazione deB*inumano e del distruttivo, versione anti-heideggeriana della durftige Zeit, nel saggio Esperienza e povertà e in quello su Kraus, che significativamente conclude: « l’eu­ ropeo medio non ha saputo unire la sua vita con la tec­ nica, perché è rimasto fedele al feticcio della vita crea­ trice ». Ancora più significativo è l’inverso: l’affiorare subi­ taneo in Brecht di temi benjaminiani, come quando nel M.e-ti (tr, it. Torino 1970, p. 16) presenta a modello ideale « poter sognare e non essere governati dai sogni... vedere infrante le cose cui si era votata la propria vita e curvarsi a raccoglierle e ripararle con strumenti consu­

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mati dall’uso... perdere e ricominciare da capo e non dir mai parola della propria perdita ». 52 « La luce moderna dell’insolito... regna bizzarra­ mente in quella specie di gallerie coperte, frequenti a Pa­ rigi nei dintorni dei grandi boulevard, che si chiamano in modo inquietante passages, come se in questi corri­ doi sottratti al giorno non fosse permesso a nessuno so­ stare più di un istante » (Aragon, Il paesano di Parigi cit., p. 12). 53 (Bambini e flaneurs) « sono poi paragonabili in quanto segnano delle soglie. Essi si trovano ancora sulla soglia storica dove si costituisce la contrapposizione fra borghesia e proletariato. Ed essi conoscono questa soglia nella misura in cui dispongono del potenziale antropologico della Mimesi e della Memoria. In ciò si pongono trasver­ salmente rispetto alla razionalità finalizzata del progresso capitalistico », B. Lindner, Infanzia ed esperienza della metropoli, in W.B., tempo cit., p. 128. 54 Ampiamente su questo il saggio di F. Desideri, Das Wahre hat keine Fenster, negli atti ciclostilati del citato convegno parigino. Il sottotitolo della comunicazio­ ne (La fondamentale Zweideutigkeit dei passages; note su ottica e dialettica nel P-W di Benjamin) riassume l’arco dell’argomentazione, che lega strettamente il destino ef­ fimero dei passages al nome che ne residua, agendo da filtro: « il tempo storico che vi passa attraverso vi de­ pone gli aurei caratteri che lo compongono — gli ele­ menti che disegnano la sua Idea ». Come Schicksallose an sich, il nome appare trascrizione dell’enigma dell’Er che si attesta nell’Ereignis; pensare quest’ultimo (per Hei­ degger) equivale all’interrogare il nome (per Benjamin). Per i riferimenti testuali, cfr. P-W, 1, p. 491, 513, 600, 105; 2, p. 1001, 1037-8. Per un parallelo riferimento cfr. lo stupendo Addio alla Lindenpassage di S. Kracauer (tr. it. in L'ornamento delle masse, Napoli 1982, p. 153 sgg.), dove il passage attraversa la vita borghese, è raccolta dei suoi scarti e denuncia del suo kitsch ideologico, ma è ormai inservibile « in una società che è essa stessa pas­ saggio ». 55 L’oscillazione fra il congedo e il non voler più finire si dà, in immagine puramente temporale, anche nella musica: pensiamo, per esempio, all’adagio conclusivo della 9° sinfonia di Mahler.

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56 Sull’immagine del labirinto cfr. P-W, 1, p. 541, 559 e 647, ma anche Parco centrale (in A.N. cit., p. 135 e 136), dove il labirinto è « patria dell’esitazione », ma anche « la via giusta per chi arriverà, in ogni caso, sem­ pre troppo presto alla mèta. E questa mèta è il mercato ». Il filo allegorico è teso fra il nome e la merce. 57 P-W, 1, p. 620; per i precedenti riferimenti cfr. ib., 1, pp. 612-3 e 620. 58 Fondamentale, per una lettura equilibrata di Benjamin, è rifarsi alle sezioni W (Pourier, 2, p. 764 sgg.) e X (Marx, p. 800 sgg.) del Passagen-Werk; in particola­ re i riferimenti al Capitale, alla Critica del programma di Gotha e alla Questione ebraica sono di stupefacente per­ tinenza, un polo ineliminabile del circuito mistico-materia­ listico dell’autore. Significativamente marcata è inoltre, sul lavoro e denaro, l’opposizione a Simmel. 59 In Avanguardia e rivoluzione, tr. it. Torino 1955, rist. 1973, p. 98. 60 II riferimento è ai due frammenti di Ibiza, com­ presi in G. Scholem, IF. Benjamin e il suo angelo, tr. it. Milano 1981, pp. 20-5. 61 Cfr. il saggio di G. La Grassa, La forma lavorotempo e spazio del capitale in AA.VV., Marxismo in mare aperto cit., p. 147 sgg. (spec. par. 22 e 27). Per un esame più ravvicinato di Luhmann cfr., di chi scrive, Ri­ duzione di complessità e ordini metastabili, in « La cri­ tica sociologica » 65, primavera 1983, p. 80 sgg. 62 Si parla qui non in senso energetico e quantita­ tivo ma formale. Risorse nuove possono probabilmente essere ancora reperite, ma spaventa la violazione dei vin­ coli di compatibilità. Non l’esaurimento del petrolio è un problema, ma il deposito delle scorie radioattive. 63 Lo stesso sviluppo tecnologico attraverso il qua­ le ha proceduto la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale ha gradualmente distrutto le basi del vecchio pa­ radigma e la figura di lavoratore che lo supportava. Già con Taylor l’unità del soggetto è disintegrata e la proget­ tualità del lavoro è tanto drasticamente trasferita a una funzione direttiva impersonale che non si può parlare più di una posizione teleologica coerente, neppure subordina­ ta, nel processo lavorativo. Le successive modificazioni nell’organizzazione del lavoro, pur non segnando un appro­ fondimento lineare di questa tendenza, non hanno certo

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ricostruito né la figura dell’operaio professionale nè l’unità fra progettazione ed esecuzione. L’intero modello lavoristico è diventato desueto, come la figura del cittadi­ no detentore di una quota della sovranità popolare, « par­ te » di un « tutto ». Anche la riappropriazione a un sog­ getto pieno, multilaterale, dei segmenti lavorativi frantu­ mati appare alquanto problematica; la stessa formazione del general intellect (a parte la monopolizzazione capitali­ stica della scienza e dell’ambito tecnico-direttivo) la rende assai difficilmente immaginabile. Se poi si vuole interpre­ tare l’uomo ©unilaterale di Marx — e appare plausibile — come componente di un sistema « ricco », il nesso diretto soggetto/lavoro è indubbiamente indebolito: il lavoro tor­ nato ad essere « primo bisogno » della vita è un lavoro for­ temente ridotto, affiancato ad altre forme di prassi. Per questo è molto interessante il volgersi di uno stu­ dioso marxista quale C. Luporini alla contrapposizione Marx-Luhmann nell’ambito di una valutazione positiva della teoria sistemica, assunta come il terreno più avan­ zato di verifica e confronto (cfr. il numero speciale di « Rinascita-Contemporaneo » per il centenario marxiano, XV-9, 4 marzo 1983). Per entrambi, infatti, la società non è un aggregato di individui, ma un insieme di relazioni (o di insiemi di relazioni), ma per Luhmann (a differenza di Marx) la società non può essere concepita relazionalmente bensì funzionalisticamente. Porre la necessità di una concet­ tualizzazione delle relazioni sociali come tali (che è il momento marxiano sostenuto da Luporini versus Luhmann) implica un lato ontologico: il discorso sull’aere socia­ le segna, allo stesso tempo, la demarcazione storico-speci­ fica dal naturalismo, dal semplice materialismo. « Attra­ verso un’operazione ontologica si salda e nello stesso tem­ po si sgancia dal fisicismo. Proprio per fondare il livello della società... (Marx) ci dà una combinazione di prassismo e di sistemica... con un elemento ontologico che ci pone di fronte alla questione dell’essere ». La riproposi­ zione del problema dell’essenza indicherebbe allegoricamen­ te « quello che l’uomo tende ad essere o può essere o aspi­ ra ad essere in determinate condizioni: insomma, l’ele­ mento della liberazione che non posso risolvere con il già essente ».

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INDICE

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Emergenze marxiane

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Forma dialettica della connessione

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Riti di passaggio

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Elogio del disordine

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Note

finito di stampare nell’aprile 1984 dalla Dedalo litostampa spa in Bari

Piccola Biblioteca Dedalo diretta da Gianfranco La Grassa e Mario Quaranta

1

Ludovico Geymonat, Riflessioni critiche su Kuhn e Popper, 1983, pp. 80, lire 6.000.

2

Gianfranco La Grassa, Dinamiche struttu­ rali del capitalismo, 1983, pp. 88, lire 6.000.

3

Gianluca Bocchi - Mauro Ceruti, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo, 1984, pp. 120, lire 7.000.

4

Maria Rosaria Manieri, La fondazione etica del socialismo. F.S. Merlino, 1984, pp. 88, lire 6.000.

5

Costanzo Pre ve, La teoria in pezzi. La dis­ soluzione del paradigma teorico operaista in Italia (1976-1983), 1984, pp. 96, lire 6.000.