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Italian Pages 230 Year 2024
Bachisio Meloni Paolo Vodret a cura di
Variate risonanze
Echi del politico nel contemporaneo europeo
G u l l i ve r
Collana diretta da Francesco Valagussa
Gulliver | 15
Alberto Contu, Simone Furlani, Sebastiano Ghisu, Vincenzo Maimone, Bachisio Meloni, Vanni Piras, Fabrizio Sciacca, Paolo Vodret
Variate risonanze Echi del politico nel contemporaneo europeo a cura di Bachisio Meloni e Paolo Vodret
Volume pubblicato con il contributo della Fondazione di Sardegna.
© 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Gulliver ISSN: 2499-7676 n. 15 - dicembre 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-468-3 ISBN – Ebook: 978-88-5529-472-0 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Contemporary wall art piece addresses pressing social and political issues, such as inequality, injustice, and human rights, using powerful imagery and thought - provoking messages to inspire change © Arun – stock.adobe.com
I Sacrificio, vendetta, guerra A 50 anni da La violenza e il sacro di René Girard
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Etica del singolo ed esorcismi sociali A proposito di vendetta e sanzione Fabrizio Sciacca
Il tema della violenza è collegato in René Girard a quello dell’impurità. Parola difficile e filosoficamente assurda. L’impurità rituale è presente ovunque ci sia da temere la violenza. Il sangue imbratta tutto quel che la violenza colora, e ciò che la morte dipinge. Perciò questo chiama vendetta. Vendetta di cosa? L’impurità si riduce a un unico pericolo, quello della politica: dell’insediamento della violenza dentro la società. Il rimedio è la violenza contro la violenza. Per liberarsi del sangue, occorre versarne dell’altro. Girard sostiene che deve esservi una apparenza di continuità tra la vittima realmente immolata e gli altri esseri umani cui viene sostituita tale vittima. Se vi è una frattura tra la vittima e la comunità, la vittima non potrà attrarre, chiamare su di sé la violenza, così come una eccessiva continuità farà passare la violenza con troppa facilità. Parlare di vendetta significa parlare dell’uomo. Se consideriamo l’uomo come homo sapiens, un mammifero evoluto con capacità relazionali, esso ha un suo nascere, un suo evolversi, un suo estinguersi. L’altro è il presupposto di un gioco morale.
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Il carattere principale della vendetta è l’idea della doverosità1, ovvero l’intrinseco elemento di cogenza morale. Tale carattere è speculare a quello della sanzione. La differenza con la sanzione sarebbe questa: la sanzione è un fenomeno pubblico, la vendetta un fenomeno privato. La doverosità fa sì che la vendetta sia qualcosa di diverso da un meccanismo di difesa, che è dettato, in genere, da uno stato di necessità. La vendetta è doverosa perché il suo intento obbedisce a un principio di giustizia. La vendetta è nelle cose. Si potrebbe dire di quanto essa risieda del vuoto di una mancanza, nel non dicibile, e di quanto essa si scontri con la debolezza giuridica. I giuristi non la amano, ma se ne impossessano attraverso il diritto. Essa deve essere superata nella sanzione: per restituire alla giustizia la sua natura impersonale e istituzionale. È un dato, questo, meramente formale, che nulla toglie alla natura morale-retributiva della vendetta. Girard non assume una posizione differente sulla doverosità, anzi la ribadisce. La doverosità vendicatoria è però secondo Girard il fattore causale del disordine. La vendetta è un fenomeno privato che dal punto di vista giuridico diventa oggetto di trascendenza, trasformandosi in sanzione. Eliminando il conflitto della sua riproducibilità mimetica, che è anche un conflitto di doppi, la trascendenza giudiziaria – come la definisce Luigi Alfieri2 – assume la veste istituzionale come effetto di una metamorfosi, quella della forma giuridica che rende 1. F. D’Agostino, La sanzione nell’esperienza giuridica, Giappichelli, Torino 1999, pp. 25-29. Il libro, arricchitosi nel corso delle varie edizioni, venne originariamente pubblicato nel 1987, dal medesimo editore, col titolo Sanzione e pena nell’esperienza giuridica. 2. L. Alfieri, Dal conflitto dei doppi alla trascendenza giudiziaria. Il problema politico e giuridico di René Girard, in D. Corradini Broussard (a cura di), Miti e archetipi. Linguaggi e simboli della storia e della politica, Ets, Pisa 1993, p. 438.
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la violenza un fatto civile, costringendola ad addomesticarsi, a «trasformarsi, a perpetuarsi in forme meno selvagge, più adatte alle circostanze storiche, in un universo rinnovato da forme giudiziarie più efficaci»3. A livello simbolico, la vendetta è un anche un fenomeno rituale, come la festa e il sacrificio. Girard ne parla assiduamente, affermando che nelle feste si conserva, in tutte le società, un carattere rituale. La trasgressione dei divieti viene ad essere inquadrata in una cornice più ampia, quella dell’eliminazione delle differenze che spesso è associata al conflitto4. La funzione della festa è perciò analoga a quella dei riti sacrificali. In contrasto con parte della psico-sociologia contemporanea, Girard sostiene che la festa sia basata su una interpretazione del gioco della violenza che presuppone la continuità tra la crisi sacrificale e la sua rivoluzione: è la crisi che diventa materia di festeggiamenti5. E tuttavia, non manca d’avvertire del fenomeno dell’anti-fête, che impedisce di parlare, con sufficiente sicurezza, di continuità tra crisi e violenza fondatrice6. L’antifesta ha a che fare con riti di espulsione sacrificale e si basa su un rafforzamento dei divieti culturali, in sostanza su obblighi di fare o di non fare, e su astensioni forzate in generale. Eppure, nella visione simbolica della letteratura e in tutte le forme dell’arte post-illuministica, dal romanticismo al gotico, dal decadentismo al positivismo stesso, troviamo l’idea della festa come celebrazione di un κλῖμαξ negativo, una tensione crescente che necessariamente conduce alla rovina, all’ago-
3. R. Girard, L’antica via degli empi (1985), tr. it. di C. Giardino, Adelphi, Milano 1994, p. 183. 4. R. Girard, La violenza e il sacro (1972), tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980, p. 161. 5. Ivi, p. 163. 6. Ivi, p. 164.
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nia e allo sfacelo. Innumerevoli esempi di eroi negativi sono presenti in autori come Edgar Allan Poe, Lord Byron, Johann Heinrich Füssli, William Blake, così come nel tentativo dei preraffaelliti di fermare l’immagine della malinconia e dello struggimento nel momento del suo culmine. Io credo che tutti questi fenomeni, presenti in culture lontanissime temporalmente e culturalmente, abbiano in comune l’archetipo di una lotta contro il male invincibile, ineffabile e necessario della natura umana. Per Girard invece l’antifesta, così come altre forme estreme di violenza rituale, appartiene a una visione deviante della società. Il caos violento sarebbe proprio di una dimensione esaltata, non normale, che non a caso si ritrova nelle tragedie classiche. Lo σπαραγμός viene ripreso: le Baccanti offrirebbero un esempio di questa perdita dell’unanimità fondatrice e dello scivolamento nella violenza reciproca7. La crisi sacrificale indicherebbe infatti la perdita della differenza – perché in Girard esiste – tra violenza impura e violenza purificatrice8. Nella tragedia greca, secondo Girard, la macchina della violenza è così implacabile da non poter considerare il punto di vista parziale tra personaggi buoni e personaggi cattivi: ciò che caratterizza l’azione tragica sarebbe la ripresa dell’imitazione violenta tramite il desiderio mimetico, fondamento della rivalità. Tutti i personaggi sono dei doppi, e tutti i doppi sono dei mostri. Edipo è un mostro, Tiresia è un mostro (anche fisicamente, essendo ermafrodita). Il re sacro è egli stesso un mostro: dio, uomo e bestia feroce9. Di certo, Girard assume una prospettiva universalista in tema di riti. Il fatto che persista, nella sua ricerca del 1972, una linea costante che condensa in
7. Ivi, p. 190. 8. Ivi, p. 72. 9. Ivi, p. 329.
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sostanza argomentativa nella parte finale – nella quale si afferma con forza il paradigma dell’unità di tutti i riti – dà concretezza all’idea, oggi piuttosto diffusa nelle scienze sociali, secondo cui il grande errore degli evoluzionisti è ritenere che le culture siano autosignificanti. Tornando al problema del sacrificio, Girard affresca la sua panoramica sulla questione con la figura della vittima espiatoria. Essa appare quale il fondamento di ogni forma religiosa, ed è secondo Girard all’origine del fenomeno dell’unità di tutti i riti10, essendo di giovamento persino ai c.d. riti di passaggio11 o iniziatici che sono legati all’acquisizione di abilità funzionali al ruolo (spesso egemonico) in una società primitiva e sono espressione di riconoscimento di appartenenza comunitaria. Non sono sicuro del fatto che il sacrificio interrompa la spirale della reciprocità. Il sacrificio è una forma di dono, è l’esibizione di un’offerta, persino spontanea, da parte della stessa vittima. Heinrich Zimmer ne propone un tratto esemplare: Il sacrificio miracoloso è compiuto su una vittima volontaria che lo ha preteso, e che vi si sottopone come a un servigio supremo. E l’opera è compiuta con profondo rimpianto e sgomento: questo è il dettaglio importante. Per quanto apparentemente crudele, egoista e ingrato, l’atto è controbilanciato da una disposizione d’animo e da un comportamento diametralmente opposti, che lo compensano: contrizione e compassione.12
10. Ivi, p. 368. 11. Sul punto, imprescindibile è il riferimento, tenuto presente anche da Girard, allo studio di A. Van Gennep, I riti di passaggio (1909), tr. it. di M.L. Remotti, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 12. H. Zimmer, Il re e il cadavere. Storia della vittoria dell’anima sul male (1957), tr. it. di F. Baldissera, Milano, Adelphi 1983, p. 61.
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Chi non vuole vederlo esclusivamente come una mostra di violenza, potrà scorgere nel sacrificio l’anticipazione di una reciprocità, basato sull’esemplarità e sulla sua forza normativa. In tal senso «il sacrificio opera il passaggio dalla reciprocità negativa della vendetta alla reciprocità positiva del dono»13. La posizione di Girard intorno a vendetta e sacrificio è chiara. Entrambi sono fenomeni violenti, ma con un effetto sociale opposto. Il sacrificio pone in essere un tipo di violenza rituale, unanime, purificatrice e ordinatrice. La vendetta pone in essere un tipo di violenza spontanea, reciproca, impura e distruttrice: «una società primitiva, una società che non possiede sistema giudiziario, è esposta […] alla escalation della vendetta, all’annullamento puro e semplice cui d’ora in poi daremo il nome di violenza essenziale»14. Raymond Verdier inizia il suo celebre studio introduttivo all’ampia edizione sul sistema vendicatorio da lui curata citando Girard, rivolgendogli una critica sulla funzione della vendetta15. E si domanda quale sia il senso di questa concezione della vendetta, senza fine e distruttiva, lontana dall’essere rapportata alla fondazione del mondo. Verdier obietta a Girard di riportarci un secolo indietro, similmente a come aveva fatto la scienza penalistica di fine Ottocento. La vendetta in tal senso avrebbe avuto luogo quale sistema repressivo durante l’età presociale e pregiuridica che avrebbe costituito l’infanzia dell’umanità. In buona sostanza, Verdier intende spostare la funzione della vendetta sul piano della comunicazione sociale, come un rapporto di scambio bilaterale risultante dalla restituzione dell’offesa e 13. In tal senso la bella riflessione di M. Anspach, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato (2002), tr. it. di C. Fontanile, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 22. 14. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 48. 15. R. Verdier, La vengeance, vol. I, La vengeance dans les sociétés extraoccidentales, Cujas, Paris 1980, pp. 11-42.
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dell’inversione dei ruoli di offensore e di offeso. Eclissando la vendetta, il sistema penale moderno ne fa una pratica occulta e proibita. In buona sostanza, Verdier propone – contrariamente a quanto fa Girard – un modello rituale di vendetta, poiché alla base della relazione vendicatoria siede un sistema di scambio e di controllo sociale che garantisce, a differenza di quanto sostiene Girard, l’ordine, l’equilibrio e il riconoscimento dei ruoli. Verdier colloca le sue ricerche nell’ambito delle società extraoccidentali (soprattutto africane), ma il problema affrontato non può indurre a un confinamento culturale di tali riflessioni. È pacifico quanto gli studi di Antonio Pigliaru, ad esempio, abbiano ben provato la validità di una concezione di scambio, controllo sociale e ordine normativo nella comunità barbaricina. La vendetta barbaricina è infatti un riferimento preciso di un sistema vendicatorio occidentale che si presenta come comunità del noi. Questo spiega, secondo Pigliaru, perché la figura del vendicatore rispecchi pienamente quella di un organo di giustizia, e perché il singolo vendicatore ha coscienza di compiere un atto di partecipazione spontaneo che è funzionale a un comunitarismo pienamente organizzato. Inoltre, come struttura della civiltà e della cultura, la comunità barbaricina non è caratterizzata da esoclastia. Non è inospitale, a condizione che lo straniero non violi quelle condizioni sociali e normative sulle quali si regge l’equilibrio comunitario. L’ospite è sempre di qualcuno, come sottolinea Pigliaru: di tutta la comunità cui l’ospitante appartiene16. Guardo ora a un aspetto più specifico del problema della relazione tra la vendetta e sanzione. Il mondo del diritto sanci16. A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, a cura di L.M. Lombardi Satriani, Giuffrè, Milano 1975, pp. 283-284. Il volume è diviso in due parti. La prima è la rielaborazione de La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959; la seconda è costituita da un gruppo di saggi sul banditismo in Sardegna, scritti tra il 1955 e il 1969.
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sce generalmente l’antigiuridicità strutturale della vendetta. Questa è una posizione da guardare con perplessità. Il fatto della deduzione della priorità della sanzione dalla sua validità istituzionale non basta a qualificare come antigiuridica la vendetta, perché la validità istituzionale è un fatto (giuridico), non un valore morale superiore. Occorre quindi andare alla ricerca di una giustificazione di questa priorità. Il problema è che se ammettiamo che la teoria della validità formale non implichi una deduzione di valori prioritari, si dovrebbero ricercare tali valori su un altro piano argomentativo. Si dovrebbe, cioè, ammettere l’esistenza di un piano etico assoluto nel quale il diritto sia concepito come preferenza fondamentale, cioè un piano di valori sul quale convergono tutti gli esseri umani. Occorrerebbe in altre parole offrire un modello argomentativo in cui inequivocabilmente la sanzione risulti essere un valore superiore a quello della vendetta. Il modo più forte di sostenere ciò è giustificare la sanzione sul piano del diritto naturale, interpretando l’idea di una natura come κόσμος più che come χάος, e ritenendo che la presa teoretica del logos sia di per sé in grado di avere l’ultima parola nei confronti del mito. Si dovrebbe, cioè, sostenere che la filosofia abbia una funzione veritativa ultima, in grado di porsi, come metafisica, al di là dello storicismo culturale che, preso nella sua dimensione meramente relativistica, finisce per essere inteso come ideologia. Detto così, qualunque diritto come ordinamento giuridico rischierebbe di diventare ideologia. In realtà non è così. Hans Kelsen obietta proprio che dal punto di vista della scienza del diritto, il dover essere non può essere inteso come ideologia, ma come uno schema funzionale di connessioni: Tale mistificazione esiste effettivamente, se per dovere giuridico (Sollen) si intende un valore moralmente assoluto. Non si può tuttavia parlare di una mistificazione ideologica se al dover essere (Sollen), contenuto in una proposizione giuridi-
19 ca che descrive il diritto, si attribuisce il semplice significato di specifico nesso funzionale.17
E quindi, Kelsen – come del resto Pigliaru, ma anche lo stesso Girard – sostiene che la vendetta sia un fenomeno giuridico, sia pure arcaico, ma pienamente dotato di giuridicità. Kelsen non ha difficoltà nemmeno a chiamare la vendetta “sanzione”: La più antica sanzione di questo tipo è la vendetta di sangue praticata nelle società primitive. Con questa sanzione, l’ordinamento sociale primitivo reagisce all’omicidio commesso, in modo naturale o per magia, dal membro di un gruppo fondato sul vincolo di sangue (cioè i parenti stretti e quelli lontani) contro l’appartenente ad un altro gruppo: essa viene applicata agli appartenenti al gruppo dell’uccisore dagli appartenenti al gruppo dell’ucciso.18
Resta dunque una domanda ultima: quale è l’effetto simbolico della sanzione pubblica sulla vendetta privata? Rispondo così: l’esorcismo giuridico del male radicale e individuale. In altre parole, la sanzione istituzionale sta alla vendetta privata come la ragione sta alla follia. Ma non di rado, come è accaduto proprio in ossequio al principio di legalità, si tratta della ragione della follia rispetto alla follia della ragione. Talora il diritto, ancorché valido e legale, è ingiusto per quanto normale – e la regola conforme all’etica è giusta per quanto anormale, folle. Non abbiamo necessariamente bisogno di pensare ad Antigone e al contrasto tra diritto positivo ed etica, sebbene l’esempio sia imprescindibile perché riguarda la tragedia greca. E la tragedia greca viene vista da Girard come un testo di persecuzione, in cui la mimesi antagonistica ha come referente l’altro. In una situazione di totale indifferenziazione, ciascuno è il doppio
17. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), tr. it., a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 20213, pp. 146-147. 18. Ivi, p. 48.
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dell’altro. Questo conflitto ha una sola fine: l’uccisione dell’altro-modello, che in fondo è una auto-uccisione. La disputa tragica ha il suo equilibrio, che può esser raffigurato come una bilancia in cui i pesi non sono fatti di giustizia, ma di violenza. Solo chi è parte in causa conosce i fatti. Per questo, in molte società primitive la doverosità della vendetta deriva dalla scoperta del torto. Elias Canetti lo coglie chiaramente: «Mentre […] il malefizio mortale del nemico agisce a grande distanza, la obbligatoria vendetta del sangue è possibile solo se si raggiunge il colpevole»19. La vendetta ha certo un’etica, ed è quella dell’individuo che si muove nella sua solitudine di giustizia, prendendo il diritto nelle proprie mani. Il diritto però non ama essere preso nelle mani di chi vuole sostenere una ragione in proprio. Chi pensa di avere ragione deve abbandonare la privatissima etica, e consegnare la sua pretesa a un terzo che non deve essere parte in causa, non deve essere contagiato da quella ragione, non deve essere coinvolto nei sensi di quella pretesa. La funzione penale che conduce alla sanzione è così, dalla civiltà giuridica moderna in poi, quella di un esorcismo sociale del male. Questo fatto ha una ragione: il male non è un concetto scientifico ma un prodotto culturale, che la modernità consegna alle istituzioni politiche e giuridiche. Il male è dipinto come ambiguo, sfugge alla certezza e al controllo, e nella retorica del male «è difficile confutare le prove che associano male e ambiguità»20. Se il male esiste, la modernità giuridica deve pronunciarlo, pur solo dopo averlo passato attraverso il filtro freddo della
19. E. Canetti, Massa e potere (1960), tr. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1980, p. 161. 20. E.M. Lemert, Sociologia del male (1997), in Id., Sociologia del male e altri scritti, tr. it., a cura di E. Petrilli e C. Rinaldi, PM, Varazze 2021, pp. 303-342: p. 324.
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trascendenza giudiziaria. Solo così la prova, provata o meno, esatta o meno, può essere eviscerata dal viluppo mostruoso posato sul banco della sua invenzione. Eppure oggi qualcosa sta nuovamente cambiando. Non dire il male, non entrare nel male21, è l’ultima paura istituzionale della post-modernità. Suona distante e incompreso Machiavelli: «non partirsi dal bene, ma sapere intrare nel male», giacché «a uno principe è necessario sapere usare la bestia e l’uomo»22. Esorcizzato il male come individuato nella sua tipicità, i nuovi demoni del bene23 hanno rinunciato a occuparsene, vivendo di stereotipi confezionati dal potere dominante. Lasciandosi alle spalle la modernità, la dimensione sociale attuale, proiettata in un universo oscuro e necrofobo sperimenta le stesse paure e rigidità sociali dei primitivi, senza averne ereditato i collaudati meccanismi di sopravvivenza. Senza essere ritualmente attrezzata di fronte alla necessità della morte, essa dimentica che «la cultura della vita interiore è, in ogni epoca, in stretto rapporto di interazione con il significato che essa attribuisce alla morte»24. Viviamo nella sospensione della pronuncia, ignorando che il non detto favorisca l’oblio e le tenebre, e forse anche chi riprenderà il diritto nelle proprie mani.
21. Sul punto rinvio a F. Sciacca, Il potere della vendetta. Quattro lezioni, AlboVersorio, Milano 2018, p. 57. 22. N. Machiavelli, Il Principe (1513), a cura di G. Sasso, La Nuova Italia, Firenze 1963, XVIII, p. 155. 23. Utilizzo l’espressione, sia pure in un senso più ampio, mutuata da A. de Benoist, I demoni del bene. Dal nuovo ordine mondiale all’ideologia del genere (2013), tr. it. di G. Giaccio, Controcorrente, Napoli 2015. 24. G. Simmel, Metafisica della morte (1910-1911), in Id., Metafisica della morte e altri scritti, tr. it., a cura di L. Perucchi, SE, Milano 2012, pp. 9-18: p. 9.
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Girard e la violenza necessaria Considerazioni sul capro espiatorio Vincenzo Maimone
1. L’eroe tragico e la vittima espiatoria Nella definizione delle caratteristiche del profilo dell’eroe tragico, Girard pone l’accento sulla relazione che connette i protagonisti (tutti i protagonisti) con la violenza e, soprattutto con la capacità di padroneggiarla. Anzitutto, ciascuno si crede capace di padroneggiare la violenza ma è la violenza che padroneggia successivamente tutti i protagonisti, inserendoli a loro insaputa in un giuoco, quello della reciprocità violenta, al quale credono sempre di sfuggire per il fatto che considerano permanente ed essenziale un’esteriorità accidentale e temporanea.1
La violenza, dunque, occupa nella lettura della tragedia presentata da Girard una posizione apicale. Essa costituisce il fulcro attorno al quale ruotano sia le scelte individuali sia, del tutto conseguentemente, le decisioni collettive e, in termini prettamente filosofico-politici, la stessa stabilità delle istituzioni e la loro permanenza e conservazione nel tempo. Aspetto
1. R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1972, p. 104.
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questo che emergerà ancor più nettamente allorché affronteremo nel dettaglio l’analisi del capro espiatorio e delle sue plurime rappresentazioni. Sotto questo profilo, Edipo è quindi paradigma e testimone della centralità della violenza e per così dire, della sua necessità. Bisogna ritornare ancora una volta ai delitti del figlio di Laio. Essere regicidi nell’ordine della polis ed essere parricidi nel l’ordine della famiglia è esattamente la stessa cosa. Nell’uno come nell’altro caso, il colpevole trasgredisce la differenza più fondamentale, più elementare e più imprescrittibile. Diventa, letteralmente, l’assassino della differenza.2
Girard specifica ulteriormente questo passaggio. L’atto violento restituisce simmetria lì dove in origine vige un dominio gerarchicamente consolidato. Il tema della differenza o, ancor più specificamente, dell’annullamento di questa quale causa scatenante della perdita di stabilità istituzionale, familiare e più estensivamente, quale elemento di contagio che, al pari della peste mina alla radice la tenuta sociale, costituisce un nodo speculativo fondamentale nell’economia della tesi sostenuta da Girard. Un aspetto che attraversa e sorregge l’intero intreccio della tragedia edipica. Il parricidio è l’instaurazione della reciprocità violenta tra padre e figlio, la riduzione del rapporto paterno alla ‘fraternità’ conflittuale. La reciprocità è nettamente indicata nella tragedia. Laio, si è già detto, esercita pur sempre una violenza contro Edipo, prima ancora che Edipo gliela restituisca.3
L’accento posto sulla reciprocità che governa l’interazione violenta tra i protagonisti della vicenda tragica è un passaggio nodale per comprendere la pervasività della violenza e i suoi meccanismi di radicamento. 2. Ivi, p. 111. 3. Ibidem.
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Scrive Girard: Quando riesce ad assorbire anche il rapporto tra padre e figlio, la reciprocità violenta non lascia più nulla fuori del suo raggio. E assorbe quel rapporto quanto più completamente possibile, facendone una rivalità non per un oggetto qualunque ma per la madre, vale a dire per l’oggetto più formalmente riservato al padre, più rigorosamente vietato al figlio. L’incesto è anch’esso violenza, violenza estrema, e perciò distruzione estrema della differenza, distruzione dell’altra differenza principale in seno alla famiglia, la differenza con la madre. Fra tutti e due, il parricidio e l’incesto completano il processo d’indifferenziazione violenta. Il pensiero che assimila la violenza alla perdita delle differenze deve sfociare nel parricidio e nell’incesto come termine ultimo della sua traiettoria. Non rimane nessuna possibilità di differenza; nessun settore della vita può più sfuggire alla violenza.4
È a partire da questa cruenta indifferenziazione che si fa largo, che emerge l’urgenza di una sorta di riparazione sacrificale. È da queste premesse che prende forma il modello del capro espiatorio. Per ripristinare l’ordine perduto e il rigore dogmatico delle regole e dei divieti pubblici è necessario stigmatizzare, altrettanto pubblicamente, l’oscenità dell’atto, la mostruosità della violenza commessa e le sue nefaste conseguenze per l’ordine costituito. I delitti di Edipo – scrive a tal riguardo Girard – stanno a significare la fine di ogni differenza, ma diventano, per il fatto stesso di esser attribuiti a un individuo particolare, una nuova differenza, la mostruosità del solo Edipo. Proprio quando dovrebbero riguardare tutti o nessuno, essi diventano l’affare di uno solo.5
4. Ibidem. 5. Ivi, p. 113.
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Sotto questo profilo, in relazione al riferimento alla mostruosità come elemento di stigmatizzazione e isolamento dalla normalità (soggetta a regole) dell’agire quotidiano, è possibile richiamare in questa sede quanto sostenuto da Michel Foucault circa il “ruolo”, per dir così “sociale” del mostro, inteso in tutte le sue accezioni: umano, morale, sessuale. Anche entro la prospettiva biopolitica delineata da Foucault, infatti, la stigmatizzazione della mostruosità, della sua eccezionalità, costituisce una strategia, una chiave interpretativa attraverso la quale sia possibile ribadire la forza giuridica, e il vincolo sociale, dettato dalla norma. Anche in quel caso, seppure con elementi di differenza rispetto alla lettura datane da Girard, la violenza emerge come fattore risolutivo dello scandalo, dello sconcerto, del timore parossistico, generati dalla manifestazione in pubblico della mostruosità. Il timore del contagio pervade e influenza le reazioni e i rapporti con l’anomalia quando questa appare sulla scena pubblica. Sotto questo profilo, il linguaggio non verbale, l’atto di ritrarsi inorriditi è un valido esempio della paura di essere in qualche misura, in modo irreparabile, contaminati da quella anomalia. La mostruosità è dunque un fattore perturbante nell’equilibrio delle interazioni tra soggetti. Secondo Foucault, a tal riguardo: La nozione di mostro è infatti essenzialmente una nozione giuridica. Dico “giuridica” nel senso più ampio del termine, poiché ciò che definisce il mostro è il fatto che, nella sua esistenza stessa e nella sua forma, egli è non solo una violazione delle leggi della società, ma una violazione delle leggi della natura. Egli è, per l’uno e l’altro registro, un’infrazione alle leggi nella sua stessa realtà.6
6. M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), tr. it., a cura di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2000, p. 57.
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E ancor più incisivamente, poco più avanti nel testo, Foucault fornisce una definizione che inquadra l’anormalità del mostro e evidenzia l’anomalia intrinseca sia sotto il profilo esistenziale che su quello giuridico. […] Diciamo che il mostro è ciò che combina l’impossibile e il proibito.7
Foucault ribadisce l’unicità, seppure anormale del mostro, soffermandosi anche su un’altra corrispondente anomalia, ovvero, quella della risposta pubblica. Scrive a tal proposito: Il mostro contraddice la legge. È l’infrazione portata al suo punto estremo. Ciò nonostante [ed è l’aspetto che qui maggiormente ci interessa e che differenzia l’approccio à la Girard], pur essendo “l’infrazione” (l’infrazione in qualche modo allo stato bruto), non scatena da parte della legge una risposta di tipo legale. Si può dire che ciò che fa la forza del mostro e gli consente di generare una minacciosa inquietudine è che, pur violandola, il mostro lascia la legge senza voce. Egli intrappola la legge che è in procinto di infrangere. In fondo, ciò che il mostro suscita, nel momento stesso in cui con la sua esistenza viola la legge, non è la risposta della legge, ma la violenza, la volontà di soppressione pura e semplice; oppure cure mediche e pietà.8
Il mostro, quindi, costituisce un elemento perturbante che, nella prospettiva foucaultiana, imprigiona la legge, giustificando nel timore di una dilagante infestazione un’unica possibile risposta, quella della violenza. Sotto questo profilo, sia in Girard che in Foucault il tema del contagio permea l’approccio teorico. In Foucault tale timore
7. Ivi, p. 58. 8. Ibidem.
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si manifesta allorché l’anomalia, il diverso, appare sulla scena pubblica rivendicando, più o meno esplicitamente, un qualche riconoscimento che incrini o indebolisca la quieta normalità (intesa anche in senso giuridico) della società. Girard affronta questo tema usando come modello l’intreccio tragico. Nella lettura ermeneutica della tragedia che Girard presenta, infatti, nel focalizzare l’attenzione sulla natura perniciosa, virale, dell’annullamento di ogni differenza, per il tramite della violenza, il contagio costituisce il catalizzatore del timor panico collettivo. Entro questa prospettiva interpretativa, la peste rappresenta una efficace metafora di come la decadenza, in tutte le sue manifestazioni, minacci la sfera pubblica e privata allorché lo spazio collettivo venga turbato dalla perdita delle differenze. Anche se, nel caso della pestilenza, la differenza non viene azzerata in termini assoluti. Il contagio è equanime, non opera distinzioni, si abbatte su ciascuno nel medesimo modo: anche se non necessariamente con i medesimi effetti. E tale ulteriore precisazione è forse essa stessa parte del problema e meriterebbe un supplemento di analisi. Scrive Girard: L’epidemia che interrompe tutte le funzioni vitali della città non potrebbe essere estranea alla violenza e alla perdita delle differenze.9
Fuor di metafora lo scenario qui appena abbozzato corrisponde a immagini che la nostra memoria del recente passato ha ben chiare e distinte. La stasi mefitica dei paesaggi desolati di città silenti ci è ben nota e probabilmente ha tracciato solchi profondi nella nostra percezione della realtà.
9. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 113.
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Girard prosegue focalizzando l’attenzione sulla causa di tale interruzione. Si tratta del punto nodale che denuncia la persistenza della crisi e ne individua il responsabile. Sostiene Girard continuando la sua navigazione metaforica entro la trama tragica: È l’oracolo stesso a rendere evidente la cosa. Alla presenza contagiosa di un ‘assassino’ egli attribuisce il disastro.10
Il colpevole è adesso noto. Ciò che resta da fare è emendare l’errore che ha scatenato il collasso, che ha reso evidente, e non più occultabile, la crisi e che ha permesso alla violenza di fare breccia nelle consuetudini e nello spazio quieto e uniforme, ma non uguale, della quotidianità. La tragedia ci mostra come il contagio fa tutt’uno con la violenza reciproca.11
E ancor più incisivamente: Nella tragedia e fuori di essa la peste simboleggia la crisi sacrificale, cioè esattamente la stessa cosa del parricidio e dell’incesto.12
Detto altrimenti, la peste, da un lato e il parricidio e l’incesto dall’altro, pur nella specificità che li distingue reciprocamente (e sulla quale ci soffermeremo brevemente) costituiscono fattori di instabilità e di indebolimento della fitta trama del tessuto sociale. Girard, tuttavia, come si accennava, introduce un elemento distintivo tra queste due rappresentazioni della virulenza del tragico.
10. Ibidem. 11. Ibidem. 12. Ivi, p. 114.
30 È opportuno accostare i due temi per vedere in che cosa differiscano l’uno dall’altro e quale ruolo possa avere tale differenza. Diversi aspetti perfettamente reali della crisi sacrificale sono presenti nei due temi, ma distribuiti differentemente.13
Si tratta di una distinzione che, sotto diversi aspetti, rende complementare queste due manifestazioni del tragico e che rende conto della pluralità di prospettive attraverso cui è possibile riflettere su come, paradossalmente ma neanche tanto a ben pensare, la violenza possa essere considerata un fattore fondante, costitutivo, originario. Dopo tutto, se scaviamo a fondo in molti dei racconti sui miti della fondazione sovente ci troviamo al cospetto di un delitto: spesso determinato dal superamento o dal mancato rispetto di limiti e confini. Un delitto che non può restare impunito e che necessita di un atto, seppur crudele ed estremo di riparazione. Nel delineare i tratti che distinguono il contagio pestilenziale dal turbamento del parricidio e dell’incesto, Girard scrive: Nella peste emerge un solo aspetto ed è il carattere collettivo del disastro, il contagio universale; sono eliminate la violenza e la non-differenza. Nel parricidio e nell’incesto, invece, sono presenti la violenza e la non differenza, esaltate e concentrate al massimo, ma in un solo individuo; è la dimensione collettiva, stavolta ad essere eliminata.14
Tale specificazione dei tratti distintivi che separano queste due rappresentazioni del tragico sono accomunate, tuttavia, da un medesimo fine, ovvero, il tentativo di operare un mascheramento della crisi sacrificale. Si tratta di due differenti raffigurazioni della crisi. Due raffigurazioni che pretendono un atto riparatorio, un ritorno alla “normalità”, intesa, anche in questo caso, sia come assenza di contagio, sia come ripristino 13. Ibidem. 14. Ibidem.
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delle differenze. E tale atto riparatorio, nella lettura mitologica e simbolica della tragedia, attorno alla quale ruota l’analisi girardiana, richiede, o ancor più perentoriamente, pretende che si individui il responsabile, vero o presunto; che si “sacrifichi” l’uno per i molti. Se la società mostra i segni della malattia, allora, è necessario somministrare una cura, individuare un antidoto in grado di bloccare la diffusione del morbo: una medicina, un farmaco. La natura di un simile rimedio non è necessariamente chimica, poiché dipende sotto certi aspetti, dalle caratteristiche del contagio. Il farmaco è quindi il rimedio alla crisi sacrificale che incombe e minaccia, sempre, la stabilità delle istituzioni, la tenuta dei legami sociali e familiari e consente di mantenere la naturale tensione e distanza che assicura equilibrio all’intera società. E pertanto, esso, il farmaco (o pharmakos) deve essere sempre disponibile. La città di Atene, previdente, manteneva a sue spese un certo numero di infelici per i sacrifici di questo tipo. In caso di bisogno, quando cioè una calamità si abbatteva o minacciava di abbattersi sulla città, epidemia, carestia, invasione straniera, dissensi interni, c’era sempre un pharmakos a disposizione della collettività.15
Sotto questo profilo, il ricorso al sacrificio del pharmakos, la ritualità sacrificale ripristina l’ordine perduto attraverso una ripetizione, una replica, uguale e contraria, della violenza originaria. Tutti i pericoli, reali e immaginari, che minacciano la comunità vengono assimilati al pericolo più terribile che possa affrontare una società: la crisi sacrificale. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo che ha riportato l’ordine
15. Ivi, p. 137.
32 nella comunità perché ha ricreato contro la vittima espiatoria, e attorno a essa, l’unità perduta nella violenza reciproca.16
Vi è un dettaglio ermeneutico che merita di essere rilevato nell’analisi della valenza e del ruolo del farmaco. Si tratta di una specificazione di ordine filologico che, tuttavia, rivela una profondità analitica centrale nell’ambito delle considerazioni svolte sino ad ora. Se, infatti, come abbiamo sottolineato più volte, esiste un’ambiguità di fondo che orbita intorno alla nozione di “violenza”, ecco che allora tale doppiezza interpretativa, questo labile confine tra l’atto riparatorio e il crimine efferato si ripercuote e manifesta anche entro l’orizzonte linguistico. Come opportunamente ci ricorda Girard: Non bisogna neppure stupirsi se la parola pharmakon, in greco classico, significa al tempo stesso il veleno e il suo antidoto, il male e il rimedio, e, infine, qualsiasi sostanza capace di esercitare un’azione estremamente favorevole o sfavorevole, a seconda dei casi, delle circostanze, delle dosi impiegate; il pharmakon è la droga magica o farmaceutica ambigua, di cui gli uomini comuni devono lasciare la manipolazione a coloro che godono di conoscenze eccezionali e non del tutto naturali, preti, maghi, sciamani, medici, ecc.17
Alla base della crisi sacrificale e della sua risoluzione vi è quindi un sottile, e tragico, gioco di equilibrio. Un passaggio dalle colpe dei molti, alla responsabilità, vera o presunta di uno, il prescelto: colui che deve, o che è obbligato, a farsi carico di questo pesante fardello allontanandolo dai confini della polis e assolvendo questo compito fino alle sue estreme conseguenze. Nella metafora tragica, la colpa di Edipo è, al tempo stesso, la sua unica possibilità di riscatto agli occhi dei Tebani scandalizzati e impauriti di fronte alle incombenti calamità.
16. Ibidem. 17. Ivi, p. 138.
33 Se la crisi scompare, se la reciprocità universale è eliminata, ciò avviene grazie alla distribuzione ineguale di aspetti molto reali di tale crisi. Niente viene realmente sottratto e niente viene aggiunto; tutta l’elaborazione mitica si riduce a uno spostamento dell’indifferenziazione violenta che abbandona i Tebani per accumularsi tutta quanta sulla persona di Edipo. Su di lui si condensano le forze malefiche che assediavano i Tebani. Alla violenza reciproca ovunque diffusa [ed è un passaggio cruciale nel contesto teorico girardiano], il mito sostituisce la tremenda trasgressione di un individuo unico.18
E ancor più incisivamente, Girard precisa in cosa consista, il ruolo, la responsabilità individuale e collettiva, in breve la colpa di Edipo. Edipo non è colpevole in senso moderno ma è responsabile delle sventure della città. Il suo ruolo è quello di un vero e proprio capro espiatorio umano.19
La precisazione introdotta da Girard tra responsabilità e colpa non è solo qualcosa da interpretare come una sorta di erudita finezza semantica. Al contrario, essa specifica la natura originale e il ruolo ambiguamente salvifico interpretato dal capro espiatorio. La responsabilità da collettiva deve tramutarsi in responsabilità di un singolo sul quale convergono i timori, la diffidenza, il sospetto, ma anche le speranze di guarigione dell’intera collettività. In questo processo di condensazione la violenza si concentra su un solo soggetto che si fa carico, più o meno consapevolmente, di questo fardello.
18. Ivi, p. 115. 19. Ibidem.
34 Per liberare la città intera dalla responsabilità che grava su di essa, per fare della crisi sacrificale la peste, svuotandola della sua violenza, bisogna riuscire a trasferire tale violenza su Edipo, o più generalmente su un individuo unico.20
La determinazione, l’individuazione della vittima sacrificale, la vittima espiatoria è l’approdo ultimo al culmine della crisi, ovvero, nel momento in cui la violenza non sembra essere più contenibile e il processo di annullamento di ogni distinzione sembra essere ormai inarrestabile. È proprio da questa interscambiabilità informe, generalizzata, che emerge la soluzione salvifica. La sovrapponibilità dell’uno e dei molti è la chiave di volta alla base della selezione. Scrive Girard, a riguardo: Se la violenza rende realmente uniformi gli uomini, se ciascuno diviene il doppio o il ‘gemello’ del suo antagonista, se tutti i doppi sono gli stessi, chiunque tra loro può divenire, in qualunque momento, il doppio di tutti gli altri, vale a dire l’oggetto di una fascinazione e di un odio universale. Una sola vittima può sostituirsi a tutte le vittime potenziali, a tutti i fratelli nemici che ciascuno si sforza di espellere, vale a dire a tutti gli uomini senza eccezione, all’interno della comunità. Perché il sospetto di ognuno contro ogni altro divenga la convinzione di tutti contro uno solo, non è necessario niente o quasi niente. L’indizio, più irrisorio, la supposizione più insignificante si comunicherà dagli uni agli altri a velocità vertiginosa e si trasformerà quasi istantaneamente in prova irrefutabile. La convinzione cresce a vista d’occhio, poiché ciascuno deduce la propria da quella degli altri, sotto l’effetto di una mimesis [ed ecco la dimensione mimetica tanto cara a Girard] quasi istantanea. La ferma credenza di tutti non esige altra verifica al di là dell’unanimità irresistibile della propria insensatezza.21
20. Ibidem. 21. Ivi, p. 117.
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Girard puntualizza ulteriormente la questione, specificando quale sia il risultato derivante dall’annullamento delle differenze. L’universalizzazione dei doppi, la scomparsa totale delle differenze che esaspera gli odii ma li rende perfettamente interscambiabili costituisce la condizione necessaria e sufficiente dell’unanimità violenta. Perché l’ordine possa rinascere bisogna anzitutto che il disordine arrivi al culmine, perché i miti possano ricomporsi bisogna anzitutto che siano interamente decomposti. Là dove qualche momento prima c’erano mille conflitti particolari, mille coppie di fratelli nemici isolati gli uni dagli altri, c’è nuovamente una comunità, interamente una nell’odio che le ispira uno soltanto dei suoi membri.22
L’epilogo, a questo punto, è noto e non dovrebbe sorprenderci. Tutti i rancori sparsi su mille individui differenti, tutti gli odii divergenti, ormai convergeranno su un unico individuo, la vittima espiatoria.23
E ancor più incisivamente: Qualsiasi comunità in preda alla violenza o oppressa da qualche disastro al quale è incapace di porre rimedio si getta volentieri in una caccia cieca al capro espiatorio.24
La violenza espressa nel rito sacrificale e indirizzata sul capro espiatorio compensa e annulla la violenza che ha generato il parossismo della comunità, sgretolandone le sue fondamenta (o semplicemente riemergendo da essa). Questo sottile equilibrio, questo necessario, quanto tragico, bilanciamento tra minaccia, timore, e compensazione sacrificale è un elemento decisivo nella soluzione della crisi sacrificale.
22. Ivi, pp. 117-118. 23. Ibidem. 24. Ibidem.
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Come afferma Girard, infatti: Non c’è eliminazione della violenza; si moltiplicano i conflitti, aumenta il pericolo delle reazioni a catena.25
Ciò che il rito e la spasmodica ricerca di uno stabile equilibrio tra l’individuazione della vittima e la violenza da disinnescare devono evitare è che la «violenza sacrificale prenda una brutta piega»26. In un sottile e delicato gioco di rimando tra riconoscimento e misconoscimento, il rito sacrificale definisce, determina, il suo valore e la sua piena, parziale o nulla capacità purificatrice. Secondo Girard: Se vi è eccessiva rottura tra la vittima e la comunità, la vittima non potrà più attirare su di sé la violenza; il sacrificio cesserà di essere buon conduttore nel senso in cui un metallo è detto buon conduttore dell’elettricità. Se invece c’è troppa continuità, la violenza non farà che passare con fin troppa facilità, sia in un senso sia nell’altro. Il sacrificio perde il suo carattere di violenza santa per mescolarsi alla violenza impura, per divenirne il complice scandaloso, il riflesso o persino una specie di detonatore.27
Ciò che bisogna quindi evitare è che tale mancanza di equilibrio, un’errata distanza, per eccesso o difetto, tra continuità e discontinuità tramuti la violenza sacrificale in violenza indistinta, impura. La crisi sacrificale, ossia la perdita del sacrificio, vuol dire perdita della differenza tra violenza impura e violenza purificatrice. Una volta perduta tale differenza, non c’è più pu-
25. Ivi, pp. 63-64. 26. Ibidem. 27. Ibidem.
37 rificazione possibile, e la violenza impura, contagiosa, cioè reciproca, si diffonde nella comunità.28
Da queste considerazioni girardiane emerge un aspetto sul quale è necessario soffermarsi. Se accogliamo la tesi qui esposta, se cioè identifichiamo la crisi sacrificale con la perdita di distinzione, o per così dire di asimmetria, tra la violenza e il suo oggetto. Se lasciamo che la violenza impura, reciproca, prevalga sulla necessità delle differenze, ecco che allora l’intera comunità verrà trascinata in un gorgo dal quale non potrà più riemergere. La differenza sacrificale, la differenza tra il puro e l’impuro non può cancellarsi senza trascinarsi dietro tutte le altre differenze. C’è qui un’unica e medesima azione della reciprocità violenta dilagante. La crisi sacrificale è da definirsi come crisi delle differenze, cioè dell’ordine culturale nel suo insieme.29
La poliedricità delle sfumature di senso contenuta nel tema della differenza quale elemento pacificatore, quale fattore di stabilità sociale richiede, a mio parere, un supplemento di analisi allo scopo di ridurre l’ambiguità del termine e della sua funzione, per dir così, politica. Ora, se consideriamo come rilevante, seppure non decisivo, entro una dimensione prettamente ermeneutica, il dato storico – La violenza e il sacro è un saggio del 1972 – è evidente che, sotto questo profilo, il dibattito sviluppatosi intorno al concetto di differenza e al suo ruolo politico-sociale ha modificato decisamente la prospettiva e l’approccio analitico sul tema e, conseguentemente, va da sé che alcuni passaggi girardiani non sono più applicabili alla, o comunque coerenti con
28. Ivi, p. 76. 29. Ibidem.
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l’interpretazione datane nel contesto attuale, preso in tutte le sue forme (morali, politico, sociale, economico, ecc.). Tuttavia, il senso della riflessione rimane e merita di essere, per quanto possibile, ampliato. Scrive Girard: L’ordine, la pace e la fecondità riposano sulle differenze culturali. Non sono le differenze ma la loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta a oltranza tra gli uomini di una stessa famiglia o di una stessa società. Il mondo moderno aspira all’uguaglianza tra gli uomini e tende istintivamente a vedere nelle differenze, anche se queste non hanno nulla a che vedere con la condizione economica o sociale degli individui, altrettanti ostacoli all’armonia tra gli uomini.30
Girard, ricorrendo a Shakespeare, ribadisce come la gerarchia, il grado, più in generale la presenza legittimata (e legittimante) di differenze costituisce un fattore di stabilità31. Quindi, come nella tragedia greca, come nella religione primitiva, non è la differenza, bensì la sua perdita a causare la confusione violenta.32 30. Ivi, p. 77. 31. «…Oh, quando è scossa la gerarchia, che è la scala a tutti gli eccelsi disegni, l’impresa languisce! Come potrebbero le comunità, i gradi nelle scuole, e le fratellanze nelle città, il pacifico commercio tra separanti sponde, la primogenitura e il diritto di nascita, la prerogativa dell’età, corone, scettri, allori, conservare il loro legittimo posto se non per mezzo della gerarchia? Sol togliete la gerarchia, mettete fuori tono quella corda, e udite che discorso segue, ogni cosa si scontra in puro antagonismo: le circoscritte acque non mancherebbero di gonfiare il loro seno al di sopra delle rive e di ridurre in poltiglia tutto questo solido globo: la forza la farebbe da padrona sulla debolezza, e il figlio brutale colpirebbe il proprio padre a morte: la possa sarebbe il diritto, o piuttosto diritto e torto, tra la cui infinita tenzone risiede la giustizia, perderebbero i loro nomi, e la giustizia il suo» (W. Shakespeare, Troilo e Cressida, in Id., Tutte le opere, tr. it., a cura di M. Praz, Sansoni, Firenze 1964, p. 766). 32. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 79.
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In un universo indistinto anche il linguaggio è destinato a perdere forza e efficacia. Le parole, infatti, tracciano solchi, distinguono e definiscono lo spazio e i confini tra gli oggetti fornendone e veicolandone il senso. E, in un senso più specificamente giuridico, le parole, determinano e distinguono le nozioni di giusto e ingiusto. Nella lunga prolusione dell’Ulisse shakespeariano, infatti, la dissoluzione della gerarchia determina, in un inarrestabile contagio, la perdita di riferimenti certi. La giustizia è, in tal senso, destinata a soccombere in un melting pot privo di coordinate certe e, quindi, privato di qualsivoglia legittimazione. Sotto questo profilo, non dovrebbe sorprendere il fatto che queste parole siano fatte pronunciare a Ulisse il quale, nella simbologia mitologica greca, certamente non estranea al drammaturgo inglese, si identifica con la ragione e con la logica che dovrebbe prevalere sulla cieca furia guerriera e sulla violenza impura. Scrive Girard: La giustizia umana ha le sue radici nell’ordine differenziale e soccombe con esso. Dovunque s’impianta l’interminabile e terribile equilibrio del conflitto tragico viene a mancare il linguaggio del giusto e dell’ingiusto. Che dire, infatti, agli uomini quando arrivano a questo punto, se non riconciliatevi o punitevi reciprocamente?33
Un simile dilemma può condurre solo a due epiloghi possibili. La reciproca punizione condanna la società alla decadenza consegnandola alla violenza priva di controllo. La riconciliazione ristabilisce l’ordine perduto. Ma per perseguire questo esito è necessario un tributo, un sacrificio unanimemente riconosciuto come adeguato alla natura del male collettivamente commesso. La vittima sacrificale, il capro
33. Ivi, p. 80.
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espiatorio assolve questa funzione liberando i molti dalla presa mortale dell’angoscia e dalla colpa. La rilevanza del sacrificio della vittima espiatoria, nella lettura che ne dà Girard, va ben al di là della mera risoluzione di una situazione di crisi. Il tributo versato dalla vittima, infatti, funge anche da criterio di interpretazione simbolica del reale e delle sue plurime manifestazioni. Come sottolinea Girard: Gli uomini devono alla vittima espiatoria ancor più di quanto non avessimo sinora supposto; le devono sia l’impulso che li trascina alla conquista del reale sia lo strumento di tutte le loro vittorie intellettuali, dopo aver loro fornito la protezione indispensabile sul piano della violenza. I miti del pensiero simbolico fanno pensare al bozzolo filato dalla larva; senza tale riparo essa non potrebbe effettuare la sua crescita.34
Il pensiero simbolico, quindi, costituisce una sorta di riparo mimetico che protegge, custodisce, valori e principi in attesa che questi possano acquisire il giusto grado di maturazione e assolvere pienamente il loro compito. Ciò che Girard pone in luce è, inoltre, il fatto che il pensiero religioso determini, sotto certi aspetti, il suo fallimento nel momento in cui disconosce il ruolo e la funzione centrale svolta dalla vittima espiatoria quale meccanismo risolutivo, e simbolico; quale strumento sociale di eliminazione (o forse sarebbe meglio dire di occultamento temporaneo) della violenza. Si tratta di un tema nodale, del fulcro teorico della tesi girardiana circa il rapporto tra violenza e sacro.
34. Ivi, p. 325.
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2. Il capro espiatorio come paradigma Se accettiamo questa duplice chiave di lettura circa il ruolo e la funzione della vittima espiatoria, ecco che allora dovremmo considerare la prospettiva del capro espiatorio delineata da Girard come il tentativo di individuare e promuovere un paradigma simbolico ed ermeneutico attraverso il quale osservare la realtà socio-istituzionale e le sue dinamiche interne. Girard ritorna sul tema del capro espiatorio in un saggio del 1982, interamente dedicato all’argomento. In quest’ultima parte del mio intervento, mi soffermerò su alcuni passaggi del testo cercando di mettere in luce, come annunciato nella premessa, quelli che ritengo essere dei possibili limiti metodologici della prospettiva girardiana. In via preliminare credo sia necessario focalizzare l’attenzione su un aspetto stilistico, ma non solo stilistico, che sembra prevalere tra le pagine de Il capro espiatorio. L’impressione che emerge nel confrontarsi con il testo, infatti, è quella secondo cui lo scopo insito dell’opera sia di accreditare il modello interpretativo proposto quale unico paradigma possibile nella decriptazione dei significati simbolici connessi alla centralità della violenza e al ruolo della vittima espiatoria. Sotto questo profilo, tale scopo finisce con l’appesantire lo sviluppo argomentativo rendendolo ridondante e poco efficace, ma soprattutto, presenta la tesi girardiana come se fosse al centro di una sorta di congiura accademica, di un accerchiamento il cui obiettivo è di misconoscerne, svalutarne il valore e la credibilità. Un esempio in tal senso può essere ricavato dalle seguenti considerazioni girardiane: In La violence et le sacre ho avanzato per la prima volta l’ipotesi di una vittima reale e di una violenza collettiva reale
42 alla radice del mito. La maggior parte dei critici non ha riconosciuto la legittimità di tale ipotesi. Persino coloro che, in apparenza, dovrebbero essere i più disposti ad accoglierla, l’hanno stranamente considerata soltanto una «favola delle origini alla Rousseau», una ripetizione dei miti fondatori. Non hanno riconosciuto il tipo d’interpretazione che io sposto in direzione del mito. Affermano che mi faccio delle illusioni sulle possibilità della ricerca storica in mitologia. Come potrei dare per certa la realtà della vittima se non dilatando i poteri dell’interpretazione?35
E in effetti, l’impressione di una dilatazione dei criteri interpretativi è molto più di una semplice impressione. Si consideri, in tal senso, l’obiezione rivolta ai suoi critici in merito alla relazione tra gli scritti di Guillame de Machaut e il modello del capro espiatorio. Girard porta, in alcuni casi, all’estremo l’interpretazione simbolica accreditandola come l’unica interpretazione plausibile. Ne è un’ulteriore prova, ad esempio, il modello interpretativo inerente alla tragedia edipica e il suo rapporto con la lettura freudiana. Nei confronti di Freud, sia in La violenza e il sacro che ne Il capro espiatorio, Girard adotta una posizione ambivalente, ne riconosce la capacità intuitiva e l’originalità dell’approccio, ma contesta l’autenticità dell’identikit di Edipo che traspare nella lettura psicoanalitica. Così come, sotto molti aspetti, Girard rivela una dualità di giudizio nel discutere in merito alle tesi freudiane di Totem e Tabù. In quest’ultimo caso, la difesa del piano dell’opera, ma non necessariamente delle sue conclusioni è funzionale ad avvalorare la personale focale interpretativa. Freud, sembra sottolineare Girard, ha intuito il valore di
35. R. Girard, Il capro espiatorio, tr. it. di C. Leverd e F. Bovolt, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 1987, p. 53.
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alcuni aspetti della ritualità primitiva ma, a causa di una errata scelta delle fonti o di una non corretta interpretazione non ha tratto tutte le conclusioni conseguenti. È evidente che la volontà di riprodurre il meccanismo della vittima espiatoria è ancora più apparente nella credenza totemica che nel sacrificio ‘classico’. Emerge la verità. Anche se Freud non arriva alla totalità di questa verità, non ha torto qui, nel prospettare il totemico. La sua intuizione non lo inganna quando gli suggerisce di riferire tutti gli enigmi a un omicidio reale, ma, siccome manca il meccanismo essenziale, il pensatore non arriva a elaborare la sua scoperta in modo soddisfacente.36
Anche nella disamina dei testi sacri e nell’utilizzo delle fonti evangeliche relativamente ai temi del male, del rinnegamento di Pietro o dell’interpretazione simbolica della figura di Salomè, la selezione e soprattutto l’uso delle fonti sembra, in alcuni passaggi, forzare l’autenticità filologica del testo. La figlia di Erodiade «danzò e piacque a Erode e ai suoi commensali». Bisogna intendere questo piacere in un senso più forte rispetto all’accezione di Freud e del suo principio del piacere: si tratta di una malìa vera e propria. Quando il posseduto si lascia andare all’immedesimazione mimetica, il demone di quest’ultima si impadronisce di lui e lo «cavalca», come si usa dire in simili casi, lo costringe a danzare con lui.37
Nell’avviarmi alla conclusione, credo sia necessario puntualizzare come al di là della forza metodologica dell’approccio girardiano, ciò che senza alcun dubbio traspare chiaramente, senza forzarne la lettura o legittimarne la rilevanza, è l’accento posto sulla presenza latente o espressa della violenza quale elemento di catalizzazione del legame sociale.
36. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 273. 37. R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 247.
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Resta, tuttavia, da vedere se ci si possa, o ci si debba, accontentare di una simile giustificazione o, piuttosto, superando i limiti dei nostri retaggi naturali provare a concepire le fondamenta dei nostri legami senza dover necessariamente ricorrere alla ricerca di una vittima sulla quale far ricadere le nostre colpe e responsabilità. Una scorciatoia morale che banalizza la riflessione sull’andamento del mondo e che, nel corso della storia passata e recente, ha prodotto, troppo spesso, conseguenze tragiche. Una conclusione, questa, non estranea neppure a Girard che nel congedarsi dal lettore ne Il capro espiatorio, scrive: Ogni violenza rivela ormai quello che rivela la passione di Cristo, la genesi ottusa degli idoli cruenti, di tutti i falsi dèi delle religioni, delle politiche, delle ideologie. Non per questo gli assassini hanno smesso di credere che i loro sacrifici siano meritori. Neppure loro sanno quello che fanno, e dobbiamo perdonarli. È venuta l’ora di perdonarci l’un l’altro. Se aspettiamo ancora, non ne avremo più il tempo.38
38. Ivi, p. 357.
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Precomprensione attualistica e filosofia idealistica del diritto Variazioni sulla retorica della vendetta nel pensiero di Antonio Pigliaru Alberto Contu
Premessa I Il tema della vendetta attraversa la storia della cultura isolana da secoli e ha conosciuto, a partire dalla seconda metà del Novecento, una notevole notorietà a causa (o nonostante) il pensiero di Antonio Pigliaru. Tuttavia, anche se non sono mancati studi sul tema, il problema della vendetta è di difficile determinazione soprattutto a causa dell’attualità entro cui è stata codificata, e in particolare la difficoltà è da ritrovare, tra l’altro, in alcuni ordini di considerazioni. Anzitutto, va rilevato che gli ambiti disciplinari entro i quali si sono concentrate le analisi sulla vendetta non hanno giovato alla necessità di proporre del fenomeno uno studio davvero interdisciplinare scollegabile da pretensioni politiche dettate dall’attualità. In una sintesi appositamente rigida e schematica, si possono tra l’altro individuare alcuni approcci che, come si vedrà, pur nella validità di alcune posizioni, non sono in grado di scendere alle scaturigini del problema, e di fatto si arrestano alle soglie della Modernità e del suo impatto devastante nei confronti delle aree scarsamente (o diversamente) sviluppate. Gli storici puntano il mirino sulle criticità sintetizzabili nella definizione storica di «questione sarda», e di conseguenza le
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cause sono sempre riconducibili alla sovrapposizione fra ordinamenti politici che tuttavia viene letta in chiave progressista, secondo una linea di pensiero che privilegia la retorica della Sardegna arretrata ma idealisticamente orientata a ricongiungersi, tramite l’adozione delle superiori istituzioni politiche ottriate, al fiume della grande storia1. Gli antropologi si rifanno spesso inconsapevolmente alla tradizione demartiniana della crisi della presenza2, e più in generale all’etnocentrismo critico3, e sulla base di poco meditate attualizzazioni, innestano il tema gramsciano del folklore4 per determinare come una delle cause efficienti del malessere è dato dalla persistenza di codici tradizionali, e perciò la conseguenza immediata è l’idea che la palingenesi passi idealistica1. Si tratta della famosa interpretazione idealistico-sociale di Gioele Solari: cfr. A. Contu, Introduzione, in G.B. Tuveri, La politica della ragione. Antologia degli scritti (1848-1884), a cura di A. Contu, Giuffrè, Milano 1989, pp. 1-58; A. Contu, Questione sarda e filosofia del diritto in Gioele Solari. Con un saggio di Norberto Bobbio, Giappichelli, Torino 1993; Id., Gioele Solari. Alle origini dell’idealismo giuridico-sociale, Giappichelli, Torino 2023. 2. Per ragioni interne alla precomprensione attualistica (che sarà sviluppata e documentata nel corso del presente saggio), Pigliaru ha eluso il confronto con le coeve ricerche di E. De Martino: Naturalismo e storicismo nell’etnologia, Laterza, Bari 1948; Il mondo magico. Prolegomeni a una teoria del magismo, Einaudi, Torino 1948; Sud e Magia, Feltrinelli, Milano 1959, proprio perché, nonostante la vulgata, gli scritti pigliariani sulla vendetta non appartengono al dominio dell’etnologia o dell’antropologia, come si evince dai problemi metodologici della ricerca, e dai fondamenti teoretici attualistici che la dirigono. 3. Sul tema dell’etnocentrismo critico cfr., per tutti, P. Cherchi, Il peso dell’ombra. L’etnocentrismo critico di Ernesto De Martino, Liguori, Napoli 1996. 4. L. Lombardi Satriani, L’orizzonte giuridico-folklorico e l’isolamento teoretico di Antonio Pigliaru, in «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», n. 4-5-6, 1979, pp. 70-71, dove curiosamente, tramite un l’uso delle categorie gramsciane, la Vendetta rientra nel «folklore giuridico» e quindi, gramscianamente, la società barbaricina è portatrice di una «subcultura organica» (su cui infra, § 3).
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mente per il superamento (rectius sradicamento)5 dell’identità tradizionale e dei suoi codici «primitivi», mentre sul versante antropologico-giuridico restano esemplari le più generali autorevoli riflessioni dell’Antropologia giuridica di Sacco6. I giuristi ratione materiae riducono la questione alla violazione dei codici giuridici statali e alle misure repressive conseguenti, senza tuttavia trascurare, a latere, le cause del sottosviluppo7. I filosofi (analitici) del diritto si sono occupati di estrapolare dal testo di Pigliaru alcuni lemmi sulla vendetta come ontologia sociale, senza tuttavia problematizzare i più generali aspetti filosofico-giuridici impliciti in un testo scritto da un filosofo della morale8.
5. Il concetto di sradicamento, che nella metafora naturalistica di Pigliaru si rifà all’idea di una mala pianta che contamina un territorio altrimenti fiorente, viene attualizzato con l’endiadi estirpare e sostituire la mala pianta «con concezioni ritenute superiori», quali ad esempio la restaurazione dello Stato etico rispetto allo Stato che, all’epoca della narrazione intorno alla vendetta barbaricina, non ha adempiuto al compito storico di porsi come atto puro (o dello Spirito), e quindi ha di fatto creato una dualità ordinamentale da superare appunto con l’estirpazione: cfr. sul punto A. Pigliaru, L’eredità di Gramsci e la cultura sarda, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, Atti del Convegno internazionale di Cagliari, 1967, Editori Riuniti-Istituto Gramsci, Roma 1969, vol. II, p. 497 (ora in A. Pigliaru, L’eredità di Gramsci e la cultura sarda, Il maestrale, Nuoro 2008). 6. R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo a una macrostoria del diritto, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 313-328. 7. Il riferimento è a tutta la letteratura fiorita per decenni intorno al dibattito sulle leggi speciali per combattere e sradicare con gli strumenti del diritto penale il fenomeno deviante della vendetta. Un classico sul tema è il famoso volume di G. Pinna, Il pastore sardo e la giustizia. Taccuino d’un penalista sardo, Giuffrè, Milano 1967. 8. Cfr., ex pluris, P. Di Lucia, Le due vendette, in G. Piga - P. Pulina (a cura di), La ricerca di Antonio Pigliaru (1922-1969) sulla vendetta barbaricina, Atti del Convegno di Pavia, 2009, Nuova Tipografia Popolare, Pavia 2011, pp. 67-74; G. Lorini, Antonio Pigliaru filosofo della giuridicità, ivi, pp. 75-82;
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I sociologi del diritto, a parte le citazioni occasionali nei manuali di sociologia del diritto9, considerano la Vendetta come una ricerca di sociologia empirica del diritto, senza tuttavia mettere in evidenza le criticità metodologiche del testo pigliariano10. I pedagogisti concentrano capitinianamente l’attenzione sul l’esigenza di alfabetizzare «dal basso» le popolazioni al cui interno si producono gli effetti della vendetta11. Gli economisti hanno buon gioco nel considerare che alla base dei fenomeni della vendetta si gioca anche la grande partita dell’«equilibrio di povertà»12. A.G. Conte, Onomassiologia della vendetta, in G. Lorini - M. Masia (a cura di), Antropologia della vendetta, Esi, Napoli 2015, pp. 291-296; G. Lorini, Il linguaggio muto della vendetta, ivi, pp. 155-168; Id., La vendetta come atto semantico, in P. Di Lucia - M. Letizia (a cura di), La giustizia vendicatoria, Ets, Pisa 2015, pp. 168-178. 9. Una delle notazioni meno generiche su Pigliaru si trova ancora in R. Treves, Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, Einaudi, Torino 2002, pp. 127 e 279, che considera rispettivamente Pigliaru un assertore della pluralità degli ordinamenti giuridici e un originale interprete della sociologia empirica del diritto. 10. R. Treves, Antonio Pigliaru e la sociologia empirica del diritto, in «Sociologia del diritto», n. 1, 1982, pp. 21-24; ora in Id., Sociologia e socialismo. Ricordi e incontri, Angeli, Milano 1990, pp. 165-169. 11. Cfr., in particolare, alcuni scritti di Elisa Nivola su Pigliaru: Antonio Pigliaru. L’educazione come impegno, ricerca e cooperazione (2005), e Note a “Un primo giorno di scuola” di Antonio Pigliaru (2005), in E. Nivola, Pedagogia e nonviolenza. Con due scritti di Aldo Capitini, a cura di A. Contu, Condaghes, Cagliari 2014, risp. pp. 172-180 e 180-183, a cui va aggiunto, per completezza, l’intervento La dimensione etico-politica della formazione umana in Antonio Pigliaru, in P.A. Bianco - A. Ruzzu - S. Sechi - L. Tavera (a cura di), Unità dello Stato e pluralità degli ordinamenti. Organizzazione del potere, autonomie e comunità locali nella riflessione giuridica e filosofica di Antonio Pigliaru, Atti del Convegno di Torino, dicembre 1993, Iniziative Culturali, Sassari 1994, pp. 105-108. 12. G. Sabattini, Capitale sociale, crescita e sviluppo della Sardegna, Angeli, Milano 2006.
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Gli psicologi sociali vedono nella vendetta e nei fenomeni devianti correlati un «fatto sociale» irriducibile alla questione penalistica della responsabilità individuale13. Al netto di altri indirizzi che di fatto costituirebbero la sommatoria di vari approcci correlati, nessuna di queste cosiddette spiegazioni coglie la radice archetipica del problema. Sotto questo punto di vista la psicoarchetipologia di Hillman14 o il pensiero antropologico-religioso di Girard15 colgono il nucleo profondo della vendetta, e ne forniscono una spiegazione distante sia dal giudizio moralistico intorno al disvalore della pratica, sia dal pregiudizio scientistico-idealistico della superiorità storica del progressismo comunque denominato, ritenuto in grado di estirpare la pratica stessa della vendetta, sia dalle questioni di opportunità politica (e cioè le cause stesse del «malessere» da cui germinerebbe la vendetta, da ricondurre alla crisi dell’ordinamento statale e regionale), senza contare che in un solo colpo sono completamente eliminati i pregiudizi etnicistici come pure la stessa summa divisio tra la visione tradizionale e ancestrale del mito della vendetta, e la civilizzata
13. G. Bolacchi, Il sequestro come fatto sociale, Dattena, Cagliari 1998. Si tratta di uno studio rilevante perché, oltre a trattare il fenomeno sociale del sequestro, propone riflessioni sulla vendetta esplicitamente esemplate sulla teoria del contrappasso elaborata da H. Kelsen, Society and Natural. A Sociological Inquire, Chicago University Press, Chicago 1943; tr. it., Società e natura. Una ricerca sociologica, Einaudi, Torino 1953; nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino 1992. 14. G. Hillman, Mithic Figures, Spring Publications, Washington 2007; tr. it. di A. Bottini, Figure del mito, Adelphi, Milano 2014. 15. R. Girard, La violence et le sacrée, Grasset, Paris 1972; tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 2000; Id., Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978; tr. it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1996; Id., Le bouche émissaire, Grasset, Paris 1982; tr. it. di C. Leverd e F. Bovolt, Il capro espiatorio, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 1987.
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visione modernista che s’illude di aver eliminato il codice primitivo della vendetta con il ricorso al paradigma giudiziario. In questa sede non intendo procedere nella riconduzione dei vari elementi emergenti dalla pratica isolana della vendetta alle categorie della diade Hillman/Girard16, ma nell’analisi interna al pensiero di Pigliaru ai fini di una rilettura critica della Vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (e di tutti i più importanti testi correlati)17. Si tratta di una operazione necessaria per verificare le aporie presenti in tanta letteratura sul tema (sia in quella scopertamente agiografica, sia in quella che si è ben misurata sugli aspetti problematici del pensiero pigliariano).
Premessa II L’operazione preliminare alla base di qualsiasi analisi delle figure rappresentative della cultura è stabilire che si tratti di classici. Ciò determina a cascata diverse considerazioni: anzitutto, i classici aborrono le Patristiche e devono perciò essere letti tramite una ermeneutica del testo particolarmente incisiva che prescinda, se vi siano, dalle interpretazioni autentiche dell’autore; inoltre, e di conseguenza, occorre partire in parallelo dalla ricerca delle strategie testuali di fondo, e in particolare dalla precomprensione che dirige, consapevolmente o 16. Mi baserò perciò sulla interessante analisi di A. Nasone, Ricomporre l’infranto. Dissoluzione della comunità e codice della vendetta, in «Heliopolis», XIX, n. 1, 2021, pp. 67-83. 17. A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959; nuova ed., 1975; poi ed. accresciuta, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1993, da cui si cita. Su quest’opera cfr. la breve nota di R. Orecchia, A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1959, p. 635.
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meno, il pensiero dell’autore; infine, è importante confrontare pensiero teoretico e pensiero politico-militante, in conformità all’idea che ogni sistema di pensiero si misuri a partire dalla concezione del diritto di famiglia, dall’idea di diritto penale e dalla determinazione delle forme politico-istituzionali poste a presidio della più generale filosofia teoretica. A corredo del metodo proposto, e di conseguenza, appare evidente che nell’analisi di un testo, e tanto più se quel testo abbia influenzato la cultura e il principio del contesto, debba procedersi senza il problema di dover celare le criticità interne, le possibili contraddizioni, le strategie di dissimulazione dei referenti, anche se così facendo si scoprissero implicazioni politicamente scorrette che si discostino sensibilmente dallo stereotipo maggioritario circolante e dalla vulgatae ideologicopolitico correlate. Il valore di un testo non si misura dalle soluzioni proposte o dal metodo utilizzato, ma dai problemi che apre e che offre alla riflessione successiva. Perciò non possono trovare posto stereotipie, luoghi comuni, giustificazioni o canonizzazioni comunque determinate, e al contrario occorre sezionare a fondo il testo classico per coglierne le aporie e tuttavia, dal lato opposto, per storicizzarlo e contestualizzarlo.
1. Strategie testuali Questa lunga doppia premessa si rende necessaria e indifferibile, e prima di procedere ad una analisi dei testi pigliariani si rende necessario provare a fare chiarezza su aspetti che nella letteratura critica degli ultimi decenni sono stati posti come indiscutibili o auto-evidenti, e che invece presentano, come vedremo, non poche aporie. Anticipando quanto si intende dimostrare, Pigliaru resta un mistero se non si ammetta, testi alla mano, che tutta la sua
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purtroppo breve carriera è sorretta da una inequivoca precomprensione attualistica imperniata sulla filosofia di Gentile. I tentativi di depotenziare, occultare o addirittura di fatto negare che tutto il pensiero pigliariano sia una traduzione personale ma fedele di Gentile, non rendono giustizia al valore intellettuale dell’intellettuale orunese, e costringano troppi interpreti a forzare i testi, a sovrastimare altri apporti formali, e a fornire una interpretazione dei testi gentiliani stessi assai poco congruenti con una lettura filologica o in ogni caso a occultarne la reale presenza soprattutto in mancanza di formali citazioni dirette. In senso gadameriano, precomprensione non equivale a pregiudizio (almeno nei termini squalificativi purtroppo circolanti nella nostra cultura), ma a comprensione già orientata che si inscrive in un circolo (o meglio in una spirale) ermeneutica che nella fusione degli orizzonti produce un nuovo pensiero distante da qualsivoglia grado zero18. Nella precomprensione non sono compresi solo gli ovvi condizionamenti sociali, culturali e persino disciplinari, ma anche le preferenze personali, i debiti affettivi e persino alcuni pre-giudizi correlati alla necessità di schierarsi in un dato orizzonte di pensiero, tutti indispensabili per interpretare il principio del contesto entro cui un pensiero si sviluppa. In Pigliaru agisce sempre non tanto e non solo un vago spirito gentiliano, ma un sistema di pensiero che travalica le singole discipline applicative e costituisce una forma ordinante che, a sua volta, condiziona la stessa pensabilità di approcci che determinano la intelaiatura delle sue opere. Se non si comprende che esiste la forma ordinante attualistica, a fronte
18. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode. Grundzuge einer Philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tübingen 1960; tr. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000.
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della quale ogni altro approccio è servente, si continua nello sforzo disperante di stabilire se la Vendetta (e gran parte degli scritti pigliariani degli anni Cinquanta) sia un’opera di filosofia del diritto, antropologia (o etnologia) giuridica, o sociologia del diritto. Oltre al fatto che si tratta di un approccio condizionato dalla preoccupazione accademica di classificare le discipline, nel caso di specie la soluzione è assai semplice quanto evidente: Pigliaru è un filosofo gentiliano della morale che si è occupato di temi tradizionalmente propri dei domini della Filosofia del diritto (il problema del pluralismo degli ordinamenti giuridici), della Dottrina dello Stato (il fondamento filosofico-politico dello Stato), e di oggetti disciplinari propri dell’Antropologia culturale, della Etnologia giuridica (il problema della vendetta), e della stessa Sociologia del diritto (i rapporti inter-comunitari nella percezione della giuridicità)19.
19. Nonostante la vulgata sul tema, appare assai complicato definire Pigliaru come filosofo del diritto (a meno che non si offra della disciplina una definizione così lata da annacquarne gli aspetti distintivi). Lo dimostra, tra l’altro, la stessa produzione pigliariana apparsa sulla «Rivista internazionale di filosofia del diritto» tra il 1948 e il 1962, la quale, a parte alcune eccezioni, si compone soprattutto di brevi recensioni: cfr. [L’idea di giustizia] (IIIIV, 1948, p. 460); [Concetto e missione della filosofia del diritto] (I, 1949, pp. 128-129); Flaminio Marcaleoni (1867-1951) (III, 1951, pp. 623-624); [Bibliografia gentiliana] (III, 1952, pp. 350-353); [Épilogue du bien de la vérité] (II, 1954, pp. 320-321); [Il problema morale dell’insegnamento] (III, 1954, p. 320); [Razionalità e storicità del diritto] (ivi, pp. 321-323); [Aspetti politici del diritto penale contemporaneo] (ivi, pp. 323-325); Kierkegaard e Nietzsche (ivi, pp. 325-329); [Sciopero e diritto di resistenza] (ivi, pp. 329331); L’esistenzialismo positivo di Giovanni Gentile (V, 1956, pp. 666-681); Il concetto di legge secondo San Tommaso (III-IV, 1957, pp. 442-463); Scienza e filosofia del diritto nel pensiero di Giuseppe Capograssi (I-II, 1958, pp. 207-242); Struttura, soprastruttura e lotta per il diritto (I-III, 1962, pp. 279-291); [I principi della democrazia] (ivi, pp. 460-461). I titoli tra parentesi quadre sono attribuiti dallo scrivente ratione materiae e indicano sempre che trattasi di recensioni.
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Un rapido esame dei testi pigliariani rivela la fallacia dell’approccio disciplinaristico: oltre alla straordinaria povertà di riferimenti alle letterature di riferimento, in Pigliaru è assorbente una lettura genuinamente attualistico-gentiliana, intorno al primato dello Stato etico. E poco importa dissertare se in Pigliaru lo Stato sia etico in quanto Stato, se poi la visione teo retica sia portatrice senza tentennamenti di una visione organicistica che assegna allo Stato una vocazione pedagogica, che a sua volta produce una coerente visione sostanzialistica del diritto penale e della pena. D’altronde, la profondissima influenza di Gentile su Pigliaru non si manifesta solo sul piano dei contenuti teoretici, ma anche nella sistematica svalutazione delle scienze sociali (e di quelle demologico-antropologiche in particolare, che condiziona i riferimenti pigliariani e li indirizza verso le aporetiche indagini etnologiche di Cagnetta20 e la filmografia vetero- etnicista di De Seta21), oltre che nella persistenza di uno stile ampolloso, barocco, arzigogolato, infarcito di troppe coordinate alle principale, oscuro e di difficile lettura, talmente mimetica da essere immediatamente riconducibile proprio alle opere maggiori di Gentile, dai Fondamenti della filosofia del diritto22 sino al postumo Genesi e struttura della società23. Ciò tra l’altro spiega la assoluta estraneità di Pigliaru alle coeve correnti della filosofia analitica del diritto, che aveva indotto ad esempio un gentiliano come Scarpelli a introdurre anche nella prosa una severa disciplina di chiarezza concettuale tra20. F. Cagnetta, La disamistade a Orgosolo, in «Società», n. 3, 1953, pp. 361398; Id., Inchiesta a Orgosolo, in «Nuovi Argomenti», n. 10, 1954, pp. 212-239. 21. Cfr. V. De Seta, Banditi a Orgosolo (1961). 22. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto (1917), Sansoni, Firenze 1937 e 1955. 23. G. Gentile, Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia politica (1943), Sansoni, Firenze 1946.
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mite l’uso rigoroso del linguaggio e il ricorso alla distinzione tra gli argomenti e alla loro causalità24. Se non si ha il coraggio di stabilire con le categorie appropriate che Pigliaru è assertore di una teoretica ordinamentale monistica, etico-statualistica e organicistica, si continua ad assistere a improbabili ricostruzioni delle fonti assenti, come ad esempio nel caso davvero emblematico dei mancati riferimenti pigliariani alla letteratura antropologica internazionale (e sia pure anche in sola traduzione italiana). Anziché dissertare sulla presenza implicita di una improbabile antropologia del dono, o inventare improbabili parallelismi tra la Sardegna delle zone interne pervase dalla vendetta e realtà antropologiche primitive, è sufficiente ammettere che Pigliaru non aveva bisogno di riferimenti esogeni, dato che il suo attualismo gli ha fornito tutte le categorie indispensabili per interpretare la questione della vendetta barbaricina. In luogo di una certificazione di ignoranza implicita in tali ricostruzioni, Pigliaru non ha condotto una ricerca sul campo secondo le indicazioni metodologiche del più avanzato pensiero antropologico coevo, né ha avuto bisogno di ispirarsi all’etnocentrismo critico demartiniano per la semplice ragione che le pur molte convergenze documentabili erano già tutte contenute nella precomprensio-
24. A. Contu, Attualismo giuridico e idealismo sociale nel pensiero di Uberto Scarpelli, in P. Borsellino - S. Salardi - M. Saporito (a cura di), L’eredità di Uberto Scarpelli, Giappichelli, Milano 2016, pp. 205-235 (ora in Id., Filosofia idealistica del diritto, Giappichelli, Torino, i.c.s.). Nelle presenti note sono in particolare analizzati i saggi di U. Scarpelli, La filosofia del diritto di Giovanni Gentile e le critiche di Gioele Solari, in Aa. Vv., Studi in memoria di Gioele Solari, Ramella, Torino 1954, pp. 393-447, e di G. Solari, Diritto astratto e diritto concreto, in «Giornale critico della filosofia italiana», I-II, 1948, pp. 42-81 (ora in Id., Scritti minori di filosofia del diritto e storie delle idee, a cura di A. Contu, Ediuni, Cagliari, i.c.s.), i quali rappresentano a vario titolo un prezioso documento della critica filosofico-giuridica all’attualismo gentiliano.
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ne attualistica (a iniziare dalla vocazione idealistico-progressiva orientata a superare “dialetticamente” le culture ancorate alla tradizione)25. Se la Vendetta è un’opera non già di filosofia del diritto ma intorno ad argomenti oggetto della riflessione filosofico-giuridica, ciò permette all’interprete di non costringersi a forzare e sovrastimare le pochissime citazioni pigliariane di filosofi del diritto, e semmai a comprendere che Pigliaru adotta la strategia testuale di citare ex post (tranne pochi casi particolari) autori e testi rientranti nell’ambito della filosofia del diritto in funzione di legge di copertura per rafforzare con il principio di autorità tesi attualistiche assorbenti. Vedremo in particolare infra che tale orientamento da un lato rende giustizia a Pigliaru dall’accusa di ignorare il dibattito contemporaneo, e semmai costringe l’interprete a decostruire la reale portata e funzione delle citazioni pigliariane (in un disordinato florilegio che va da Bobbio a Kelsen, e da Gurvitch alla triade Santi Romano/Levi/Capograssi, su cui infra).
2. Pigliaru-Giano bifronte: la presenza dell’attualismo nell’era progressista Ma prima di entrare nel merito delle questioni sollevate, e in primis della reale portata e funzione della vexata quaestio della pluralità degli ordinamenti giuridici, occorre comprendere come il problema ermeneutico non verta mai intorno alla valenza delle scelte pigliariane, ma sia condizionato a monte da
25. Elemento che tuttavia non viene apertis verbis ammesso nella letteratura antropologica: cfr., ex pluris, L.M. Lombardi Satriani, La diversità come criminalità e il rifiuto dell’antropologia, in Id., Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Sellerio, Palermo 1985, pp. 204-239.
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un imbarazzo fondamentale: come recuperare alla causa progressista un autore dichiaratamente organico alla cultura fascista dei GUF26, seguace del pensiero attualistico gentiliano ben dopo la caduta del regime, arrestato per reati di propaganda fascista (e salvato dall’amnistia di Togliatti), e in pieno clima repubblicano assertore di temi scomodi (quali ad esempio la visione etico-statualistica) non tanto per il contenuto (dato che sotto questi profili Gentile e Gramsci parlano la stessa lingua), quanto per la loro diretta riconducibilità al massimo teorico della dottrina statualistica fascista27. Sotto questo profilo, tra l’altro, la strategica infedeltà testuale pigliariana, che afferma addirittura come l’attualismo gentiliano sia da ricomprendere nel filone del pensiero democratico28, non fa che peggiora26. La collaborazione di Pigliaru al GUF è documentata da M. Addis Saba, Gioventù italiana del littorio. La stampa dei giovani nella guerra fascista, Feltrinelli, Milano 1973, e per aspetti correlati da A. Grandi, I giovani di Mussolini. Fascisti convinti, fascisti pentiti, anti-fascisti, Baldini & Castoldi, Milano 2001, pp. 112-113 e passim. Per alcune interessanti notazioni sul tema cfr. G. Melis, Storia di un’amicizia nella “generazione degli anni difficili”: Antonio Pigliaru e Giuseppe Melis Bassu nell’ultimo tempo del fascismo, in A. Delogu - A.M. Morace (a cura di), Cultura e società nel pensiero di Antonio Pigliaru, Atti del Convegno di Sassari-Nuoro-Orune, 2019, ISREAipsa, Nuoro-Cagliari 2021, pp. 321-342. 27. A. Pigliaru, Scritti sul fascismo, a cura di M. Addis Saba e M. Puliga, EtsIniziative Culturali, Pisa-Sassari 1983. 28. A. Pigliaru, Invito alla filosofia di Gentile, in «Rinascita sarda», n. 50, 1948, pp. 1-3; Id., … e suscitatore di interessi ancora vivissimi, ivi, 17, 1949; Id., Saggio su Giovanni Gentile, Edizioni del Corriere dell’Isola, Sassari 1949, pp. 1-32; Id., Commosso omaggio a Gentile, in «Rinascita sarda», n. 17, 1949, pp. 1-3; ora in Id., Scritti sul fascismo, cit., pp. 45-50; Id., Bibliografia gentiliana (recensione a A.V. Bellezza), in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», III, 1952, pp. 350-353; Id., Persona umana e ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1953, pp. 114-117; nuova ed., Il maestrale, Nuoro 2008, pp. 126-128; Id., In tema di lavoro e cultura in Giovanni Gentile, Iniziative Culturali, Sassari 1953, pp. 44-48; Id., Studi sul pensiero di G. Gentile: a) fondazione morale della democrazia; b) il lavoro e il nuovo umanesimo, in «Studi sassaresi», XXV, n. 2-3-4, 1954, pp. 89-145; ora con
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re la situazione di chi, al di là della comprensione filologica, è orientato a cercare inutilmente di depurare Pigliaru delle incrostazioni riconducibili al fascismo. L’impasse è ancora più evidente se si consideri come, al di là della miniera di Intellettuali sotto due bandiere29, che documenta in modo inequivocabile come i maggiori campioni ex post del progressismo siano in massima parte confluiti nel PCI subito dopo la caduta del regime, Pigliaru non abbia compiuto il medesimo passo e abbia giustamente preteso, in ciò manifestando una grande onestà intellettuale, di fare i conti con le ragioni di tanti giovani organici al fascismo (di cui avevano intravisto una grande prospettiva rivoluzionaria), e formati alla scuola eletta di Gentile.
il titolo Fondazione morale della democrazia nel pensiero di G. Gentile, in Id., Scritti di scienza politica, Dattena, Cagliari 1975 pp. 287-312; Id., Esercizio primo sulle varianti di “I fondamenti della filosofia del diritto”, in A. Vettore (a cura di), Giovanni Gentile, La Fenice, Firenze 1954, pp. 115143; A. Pigliaru, Gentile e la politica, in «abc», 16 aprile 1954, pp. 14-16; Id., Gentile e l’umanesimo del lavoro, ivi, pp. 18-20; Id., L’esistenzialismo positivo di G. Gentile, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V, 1956, pp. 666-681. Tutti questi scritti, direttamente dedicati all’esegesi del pensiero gentiliano, e come tali indispensabili per far luce su tutti gli aspetti della produzione pigliariana, meriterebbero di essere raccolti in un autonomo volume. Su tale posizione di Pigliaru cfr., ex pluris, le critiche di V. Frosini, L’idealismo giuridico italiano, Giuffrè, Milano 1978, p. 26, e R. Treves, Giovanni Gentile, il fascismo e l’ideologia fascista, in «Rivista storica italiana», 1961, pp. 826-831; ora in Id., Libertà politica e verità. Saggi, Comunità, Milano 1962, pp. 199-207. 29. N. Tripodi, Intellettuali tra due bandiere, Ciarrapico, Roma 1978. Rispetto al quadro emblematico dei laudatores del regime fascista immediatamente auto-arruolati nell’alveo antifascista, e puntualmente documentati da Tripodi, Pigliaru costituisce invece una felice eccezione di coraggio e coerenza, che tuttavia, proprio per questo, ancora oggi costituisce, per una ben nota parte politico-militante, un imbarazzo da depotenziare spesso con argomentazioni agiografiche, non di rado sofistiche, irrispettose della statura morale di Pigliaru.
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Nell’impossibilità di oscurare o negare le numerosissime dichiarazioni pigliariane in tema di fascismo e cultura, la maggior parte degli interpreti ha scelto una strada diversa e collaterale, consistente nella probatio diabolica di mostrare come in Pigliaru si assisterebbe ad un improbabile progressivo abbandono dell’attualismo gentiliano compiuto in parallelo con la scoperta di Gramsci, a cui poi si aggiungono scoperte dell’acqua calda quali l’interesse di Pigliaru per l’esistenzialismo di Abbagnano e l’ampio contenitore del personalismo (che mette assieme Bergson, Marcel30, Maritain e Mounier), senza tuttavia mai precisare in particolare che tutti i riferimenti pigliariani manifestano sostanziale convergenza con i capisaldi dell’attualismo, come dimostra plasticamente un’opera densa di criticità come Persona umana e ordinamento giuridico31. Non a caso, alcuni saggi critici si trovano costretti ad ammettere in più luoghi che Pigliaru di fatto è un abile manipolatore di fonti, e che di norma le citazioni bibliografiche a corredo delle posizioni assunte nel testo sono poste in funzione confermativa, al punto che, a volte, si ha quasi l’impressione che si tratti di riferimenti ex post, in funzione di copertura del suo attualismo. L’esigenza militante di armonizzare ex post anche il pensiero di Pigliaru e renderlo del tutto organico alla causa del progressismo riposa su due assunti irricevibili: a) che sui temi di fondo 30. Su cui cfr. A. Pigliaru, Esercizi di lettura su Gabriel Marcel, Gallizzi, Sassari 1949 (che raccoglie i quattro scritti pigliariani in precedenza apparsi su «Rinascita sarda», nn. 40, 41, 42 e 43 del 1949). 31. A. Pigliaru, Persona umana e ordinamento giuridico, cit., su cui cfr. la stroncatura di G. Quadri, A. Pigliaru, Persona umana e ordinamento giuridico, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», V-VI, 1954, pp. 823825, il quale, oltre a criticare le stesse categorie di persona e personalismo utilizzate da Pigliaru, stronca pure lo stile ampolloso (di diretta derivazione gentiliana), al punto da sostenere che lo scritto pigliariano, sfrondato adeguatamente, si sarebbe potuto ridurre a «poche decine di pagine» (ivi, p. 825).
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(dalla vocazione monistica ed etico-statualistica, sino alla visione etnocentrico-critica) esista una radicale cesura tra Gentile e la cultura progressista post-repubblicana anziché una scomoda ma reale convergenza; e b) il piano delle citazioni formali pigliariane sia per ciò stesso una prova del suo progressivo abbandono dell’attualismo. A monte, circola un orientamento di pensiero costretto a inventare una cesura irriducibile tra un prima (il fascismo come male assoluto) e un dopo (il progressismo repubblicano come bene assoluto), mentre al contrario Pigliaru rappresenta la plastica sconfessione di uno schema rigido che finora ha impedito di accedere direttamente al testo pigliariano senza pregiudizi o riserve mentali. All’autore orunese semmai dovrà contestarsi di aver tentato di spacciare una lettura di Gentile come pensatore democratico, senza che tuttavia l’applicazione attualistica ai temi isolani abbia mai subìto ripensamenti teoretici. Tuttavia, nonostante le evidenze testuali e le ammissioni degli stessi critici che sono costretti a rilevare una profonda continuità teoretica e metodologica nel pensiero pigliariano, si fa strada una più sottile strategia di erosione dall’interno del peso che Gentile occupa in Pigliaru. Il caso più emblematico è stato anche di recente offerto in un saggio che condensa in poche righe l’imbarazzo di dover far convivere il gentiliano Pigliaru con il progressista Pigliaru, e a tal fine propone un decalogo delle eccezioni che peggiora, se possibile, la tesi che intende difendere32: a) il filosofo orune-
32. A. Delogu, La filosofia dell’integrale esperienza di Antonio Pigliaru, in Id. - A.M. Morace (a cura di), Cultura e società nel pensiero di Antonio Pigliaru, cit., pp. 150-153. Fa specie rilevare come nell’interpretare la precomprensione attualistica in Pigliaru, si conceda spazio ad alcune notazioni sparse del filosofo di Orune che, tramite una interpretazione autentica ex post, cerca senza mai riuscirci, di far coesistere il sempre coerente paradigma attualistico-gentiliano con notazioni orientate a confermare un approdo-
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se sarebbe sempre stato esponente dell’attualismo di sinistra e avrebbe frequentato circoli culturali fascisti di sinistra (sic); b) avrebbe difeso un suo Gentile e un suo attualismo (verità parziale se non si aggiunga che sui temi teoretici di fondo mai Pigliaru ha potuto né voluto discostarsi dal Maestro); c) Gentile fu critico nei confronti delle leggi razziali – e tuttavia, si può chiosare, mai si dimise dai prestigiosi incarichi e proseguì senza colpo ferire a legittimare anche sul piano filosofico il regime fascista, culminante nella voce Fascismo co-firmata da Mussolini)33; d) per la redazione dell’Enciclopedia Italiana si avvalse anche di intellettuali non riconducibili al fascismo34 (il quale argomento, tra l’altro, porta acqua al mulino di chi altrettanto correttamente documenta come alla redazione dei
altro alla cultura progressista. Un esame appena attento dei testi e della loro valenza applicativa dimostra, come si vedrà nel corso del presente saggio, come la sola pretesa di trasformare ab intra Gentile in pensatore democratico rappresenti, già di per sé, la prova di una strategia testuale fin troppo scopertamente manipolatoria e dissimulatoria. 33. La famosa (o famigerata) voce di G. Gentile - B. Mussolini, Fascismo, in Enciclopedia italiana, vol. XIV, Istituto G. Treccani, Roma 1932, pp. 847851, è la summa di una serie di elementi che sono poi variamente confluiti anche nel pensiero di Pigliaru: si va dalla concezione anti-individualistica alla definizione di pensiero fascista «totalitario» (id est totalizzante); dallo Stato creatore della Nazione e realtà etica; allo Stato come riassunto di ogni forma della vita morale e intellettuale, e come educatore e promotore di vita spirituale. In sostanza, l’individuo non ha diritti indipendenti dalla sua appartenenza allo Stato. Ciò è sufficiente per disconfermare la tesi strumentale che vuole arruolare ex post, e contro ogni evidenza filologica, Gentile nel fascismo-movimento, mentre invece la voce Fascismo, assieme a moltissimi altri luoghi gentiliani, dimostra come il filosofo attualista fosse il vero artefice filosofico del regime fascista e della sua concezione autoritaria dello Stato. 34. Ma intellettuali del calibro di Croce, Einaudi e Lombardo Radice rifiutarono di collaborare. Sul tema esiste una imponente bibliografia: ai nostri fini cfr., ex pluris, G. Turi, Ideologia e cultura del fascismo nello specchio dell’Enciclopedia italiana, in Studi storici, 20 (1979), nr. 1, pp. 157-211 (poi in Id., Il Fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna 1980, pp. 13-150).
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codici vigenti penali e civili, vergati da Mussolini, abbiano collaborato giuristi anch’essi non riconducibili al fascismo); e) Pigliaru trovò la via dell’attualismo democratico (senza tuttavia completare la frase con cui si sarebbe dovuto dire che Pigliaru, pur senza mai forzare i testi gentiliani, e anzi mostrando almeno con questi una notevole competenza filologica, si è trovato nella necessità sociale e accademica di postulare Gentile come pensatore democratico)35; f) la stessa strategia culturale del comunismo era più gentiliana che crociana (il che porterebbe a radicalizzare il giudizio intorno ai fondamenti ideologici del comunismo italiano); g) Pigliaru fu molto vicino a Bottai che – si afferma – fosse addirittura un filosofo attualista affine all’esistenzialismo (anche se casualmente continuò a fare il Ministro anche negli anni famigerati delle leggi razziali); h) la (pretesa) vicinanza di Bottai all’esistenzialismo di Abbagnano farebbe quindi dell’attualismo bottaiano un sistema di pensiero compatibile con l’esistenzialismo (a parte, s’intenda, la ripulsa abbagnaniana delle pretensioni etico-statualistiche derivate dalla Filosofia del diritto hegeliana); i) Pigliaru fu anche molto vicino a Ugo Spirito, noto per i suoi giudizi politici intorno all’affievolimento dello spirito rivoluzionario dell’attualismo alla fine del regime fascista (senza tuttavia riconoscere che il giudizio politico contingente mai ha disconfermato l’assoluta fedeltà di Spirito ai fondamenti filosofici del regime fascista così come codificati da Gentile)36; l) e, in cauda dulcem,
35. A tal proposito è sufficiente leggere A. Pigliaru, Fondazione morale della democrazia, cit., per rendersi conto di quanto l’intellettuale orunese abbia ben scandagliato il pensiero gentiliano, soprattutto nel combinato disposto dei Fondamenti e della Genesi (su cui infra). 36. L’enfasi sul problematicismo di Spirito (tratto, ex pluris, da U. Spirito, Il problematicismo, Sansoni, Firenze 1948, ma riferito a scritti precedenti), utilizzato come argomento per smussare la sostanziale aderenza di Pigliaru alla filosofia di Gentile, si sviluppa intorno a una ambigua idea di democrazia di fatto avversata in favore del corporativismo. Pur riconoscendo che la nozio-
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si scopre che persino Gramsci sia stato influenzato su aspetti determinanti da Gentile (ma non si dice che parecchi spunti della Filosofia del diritto gentiliana non contrastano con la sostanza delle posizioni leniniste di Stato e rivoluzione, citate con spregiudicatezza dal Gramsci delle Note sul Machiavelli su cui si è cimentato Pigliaru)37. Non vale la pena di approfondire le tesi del decalogo, ma ciò che preme sottolineare, al di là degli aspetti macroscopici, è il fatto inconfutabile che «di sinistra» o meno che si possa qualificare l’attualismo ossimorico di Pigliaru, resta impregiudicato e invariato l’impianto di fondo, e che la qualifica di democratico affibbiata da Pigliaru a Gentile è solo una formula retorica obbligata e indimostrata per non dover ammettere che l’iter pigliariano è sempre stato coerente, e che l’attualismo gentiliano comunque denominato o aggettivato sul piano teoretico di fondo, e in particolare sul versante della teoria istituzionale, non ha mai mutato condizione e anzi, a ben vedere, ha sempre trovato, con la copertura del lessico gramsciano, perfette convergenze proprio con gli aspetti più controversi di Gramsci38 ne attualistico-gentiliana, in cui è celebrata l’assolutezza dell’atto e del logo astratto, è da Spirito superata in favore dell’infinità degli atti (sic) e del centro contro l’onnicentrismo gentiliano (su cui cfr. M. Mustè, La filosofia dell’idealismo italiano, Carocci, Roma 2008, pp. 126-135), le posizioni spiritiane in materia di referente giuspubblicistico sono perfettamente omologhe a quelle che accomunano le posizioni anti-kelseniane, tutte convergenti, al di là delle differenze teoretiche postulate, nella comune visione etico-statualistica. 37. A. Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1949. 38. Al contrario dei molti che, per legittimare la terza svolta gramsciana di Pigliaru, continuano a non vedere come le citazioni pigliariane di Gramsci, il principio del contesto, e la interpretazione del pensiero gramsciano in senso attualistico, depongono a favore della tesi della manipolazione: contra, per tutti, P. Carta, Pensiero giuridico e riflessione giuridica in Antonio Pigliaru dalla lezione di Capograssi all’eredità di Gramsci, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico», n. 37, 2008, pp. 349-380.
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(a partire dalla teoria monistica del Moderno Principe39, sino alla vocazione organicistica e alla correlata dottrina sostanzialistica del diritto penale fondata sulla mancata distinzione tra diritto e morale)40. Il fatto poi che il Gramsci di Pigliaru (e poi, tramite gli epigoni, il Gramsci federalista e autonomista)41 sia ben servito a legittimare filosofie politiche non dichiaratamente assolutistiche, e addirittura a porsi come il punto di riferi39. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1975, vol. III, q. 13 (XXX, 1932-1934), pp. 1561 e 1565-1566. 40. L’unico studioso che ha avuto il coraggio di sottolineare come la natura totalitaria del pensiero gramsciano si riveli a partire dal diritto penale è stato L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 236-237 e 274-275. Richiamando proprio il testo di A. Gramsci, Note sul Machiavelli, cit., pp. 128, 132, 135, 83, 88-89, 136, Ferrajoli collega strettamente la visione etico-pedagogico-statalistica di Gramsci, in cui il diritto penale sostanzialistico assume la funzione di strumento regolatore dello Stato educatore che commina sanzioni di carattere morale in vista del disciplinamento sociale, orientato a «elaborare anche fisicamente dei nuovi tipi di umanità»: tale visione è a sua volta calata entro la realtà dell’«organicismo statalistico», che Gramsci definisce «organismo sociale unitario tecnico-morale». In una formula sintetica: la visione etico-statalistica gramsciana assume contorni scopertamente totalitari non solo in virtù di una adesione perfetta a Stato e rivoluzione di Lenin, ma soprattutto perché sul piano della teoria generale è presente la fatale «confusione olisitica tra diritto e morale» che in Gramsci assume addirittura la «esplicita riduzione del diritto alla morale». Mutatis mutandis, sul piano teoretico la visione etico-statualistica gentiliana così come mutuata da Pigliaru si pone, implicitamente, come un disegno dai contorni autoritari. Ferrajoli, inoltre, segnala (ivi, p. 296, nota 126) come un riflesso di tale confusione epistemologica tra diritto e morale si ritrovi anche nella visione pedagogico-giuridica pigliariana che concepisce la pena come emenda: cfr. A. Pigliaru, Saggio sul valore morale della pena, Gallizzi, Sassari 1959, che non a caso riprende quasi testualmente le posizioni di U. Spirito, Storia del diritto penale italiano da Cesare Beccaria ai giorni nostri, Bocca, Torino 1932, pp. 18-19 e 215-216. 41. Per una critica radicale della presunta tradizione federalista nella cultura politica marxista-leninista (con particolari riferimenti a Gramsci) cfr. A. Contu, La negazione teoretica. Il federalismo e la critica marxista-leninista, in Id., Federalismo, autonomie, nazionalità, Alfa, Quartu S. E. 1992, pp. 75-92.
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mento per le politiche regionali a difesa della questione sarda, è solo un capitolo poco interessante di come si possano piegare i testi alle più disparate filosofie politiche. D’altronde, la medesima manipolazione strategica ha subìto anche il presunto marxismo di Pigliaru e nei termini della verticalizzazione politica delle tesi teoretiche, si rivela, alla fine dei conti, un’abile (e forse necessitata) strategia testuale intrisa di sincretismo e necessaria infedeltà ai testi, dal momento che nel pensiero pigliariano sono mescolati alla rinfusa la diade Gentile/Gramsci con l’altra diade Labriola/Mondolfo42. Tutte queste osservazioni acquisiscono senso soprattutto alla luce dell’analisi pigliariana sulla presunta democraticità del pensiero di Gentile. Tutto parte dalla formale ripulsa pigliariana della visione democratica di Kelsen e Bobbio, qualificata come «meramente formalistica», cui oppone la visione gentiliana della «morale politica» basata su una concezione della natura umana «d’ordine morale»43, e come tale da intendere
42. Va peraltro riconosciuto che all’epoca, ancor più di oggi, un intellettuale arruolato nel cerchio magico del progressismo era costretto a infiorettare i propri ragionamenti con pseudo-categorie marxiste e gramsciane grossolanamente pescate dalle edizioni spesso carenti sotto il profilo della fedeltà filologica (le Opere complete di Marx ed Engels e i Quaderni del carcere di Gramsci vedono la luce ben dopo la prematura morte di Pigliaru), ma sufficienti per dimostrare coram populo i segni della nuova richiesta prova di fedeltà al nuovo regime anti-fascista. 43. A. Pigliaru, Fondazione morale della democrazia, cit., pp. 290-291. Qui, in luogo di un confronto con il nuovo paradigma costituzionale del 1948, Pigliaru preferisce citare a supporto delle tesi gentiliane U. Spirito, La vita come amore. Il tramonto della civiltà cristiana, Sansoni, Firenze 1953 (sic: ivi, p. 291, nt. 3). Si tratta di un testo già delineato da Spirito a partire dal 1937. Si noti che lo scrivente ha deliberatamente scelto di non distinguere le citazioni gentiliane dalle chiose pigliariane, dato che si tratta di un’unica coerente e stringente strategia testuale. La citazione pigliariana di Spirito sarebbe potuta essere sostituita dalla citazione delle omologhe affermazioni di J. Maritain, Christianisme et démocratie, Hartmann, Paris 1953, p. 65, a
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quale «volere in atto»: nelle analisi pigliariane emerge perciò una teoria attualistica dello Stato ontologicamente estranea al principio moderno della separazione diritto/morale. Di conseguenza, occorre saper vedere «lo Stato nell’individuo singolo, come originario ed essenziale», e ciò implica la scomparsa della moderna distinzione pubblico/privato (coerente con tutti i regimi autoritari e totalitari): «niente limiti all’azione statale» significa semplicemente negare i limiti costituzionalistici al potere statale pesanti come limiti esterni e fondativi, mentre al contrario Pigliaru via Gentile difende la visione dei limiti dello Stato «intrinseci e interni […] in quanto costitutivi della sua eticità stessa» (sic); e anzi, fa propria la metafora organicistica gentiliana dell’inghiottimento dell’individuo da parte dello Stato, e della libertà da parte dell’autorità, che in perfetto stile sofistico Gentile stesso aveva in apparenza rovesciato nella retorica dell’individuo che inghiotte lo Stato, e dell’autorità risolta nella libertà (sic)44. «Ed ecco che la vera assoluta democrazia non è quella che vuole limitato lo Stato, ma quella che non pone limiti allo Stato che si svolge nell’intimità dell’individuo [in interiore homine] e gli conferisce la forza del diritto nella sua assoluta universalità» (sic)45. È così fondata e legittimata la dottrina dello Stato etico, attuata tramite la «riduzione della politica alla morale» che prefigura lo Stato in quanto morale: «Ond’è che democratica (in senso autentico) è la politica gentiliana perché autenticata nella sua risoluzione intedimostrazione che la presenza di fonti apparentemente eterodosse rispetto alla precomprensione attualistica è resa da Pigliaru isomorfica rispetto alla valenza assorbente degli indirizzi gentiliani. In questo limitato caso, tuttavia, Pigliaru non cita Maritain: per alcune riflessioni sulle critiche kelseniane al testo citato di Maritain cfr. A. Contu, Idealismo giuridico e dottrina pura del diritto. Antonio Pigliaru e il confronto con Hans Kelsen (1953.1963), in Id., Filosofia idealistica del diritto, Giappichelli, Torino, i.c.s. 44. A. Pigliaru, Fondazione morale della democrazia, cit., pp. 302-303. 45. Ivi, p. 303 (corsivo mio).
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grale e senza residui in quella eticità dello spirito che pone la politica moralità (volere in atto conforme al proprio dovere) nel pubblico e nel privato; e per la politica dello Stato (che si realizza come tale, politicamente: volere comune e universale) e per la politica del singolo (ut socius) in cui ancora lo Stato è realizzato in quanto tale, cioè in quanto ancora volere che è attualmente universale e comune»46 (sic). A confermare che sugli aspetti teoretici di fondo Pigliaru si rivela allievo fedele di Gentile è sufficiente pensare alla concordanza di vedute sul tema essenziale della concezione attualistica della storia, intesa in termini rigorosamente gentiliani come il farsi perenne dell’atto puro (o Spirito)47, nel quale si inserisce la dialettica Io/persona compiutasi nell’immanenza
46. Ivi, p. 310 (corsivo mio). Appare insomma provato oltre ogni ragionevole dubbio che Pigliaru sia assertore fedele della dottrina gentiliana, e che la sua definizione di democrazia in realtà, non prefigurando alcuna dottrina dei limiti costituzionalistici del potere, e quindi alcuna teoria delle istituzioni a garanzia della democraticità dell’ordinamento, non rientra in realtà tra le dottrine democratiche. Soprattutto, le precise e circostanziate citazioni di cui sopra dimostrano come Pigliaru, in controtendenza con tutte le sue citazioni riferite ad altri autori, abbia particolare dimestichezza filologica con i testi di Gentile. Perciò, la qualifica spuria ed ex post della filosofia etico-statualistica gentiliana come “democratica” non deriva da una cattiva scorretta lettura dei testi (circostanza che legittimerebbe una interpretazione di Pigliaru difforme da Gentile), quanto dall’esigenza sociale e accademica di mostrarsi “isomorfico” al nuovo clima progressista, senza tuttavia mai derogare dalla sostanza della sua perenne adesione all’attualismo. Questa circostanza, tra l’altro, rafforza la tesi del presente saggio, secondo cui Pigliaru rilegge testi e autori appartenenti a diverse correnti di pensiero secondo tecniche e strategie manipolatorie tali da renderli isomorfici a Gentile: sul punto, e in particolare riferimento alla continuità del referente giuspubblicistico quale elemento di sintesi delle più diverse e tra loro contrastanti correnti anti-giusnaturalistiche, cfr. A. Contu, Idealismo giuridico e dottrina pura del diritto, cit. 47. G. Gentile, Teoria generale dello Spirito come atto puro, Mariotti, Pisa 1916; Sansoni, Firenze 19386.
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dell’atto puro48. Non si comprende altrimenti il senso e la forma della concezione pigliariana dell’ordinamento attualisticamente concepito: «l’ordinamento anche in quanto ordinato all’ordine è ordinante»49 (sic). Si tratta infatti della traduzione teoretico-attualistica della nozione di Stato etico variamente mutuato dall’Hegel di Gentile, interpretato in senso assolutista e perciò assai diverso e distante dalle coeve prospettive di Giuseppe Capograssi, e soprattutto di Gioele Solari50 (che, in opposizione, “scopre” il concetto di società civile)51. Ciò costi-
48. G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina 1913; nuova ed., Sansoni, Firenze 1954 (utilizzata da Pigliaru). 49. A. Pigliaru, Persona umana e ordinamento giuridico (1953), cit., p. 76. Nonostante i successivi lievi mutamenti in un linguaggio e in uno stile sempre coerentemente gentiliani, la nozione citata di ordinamento appare sotteso a tutti gli scritti pigliariani sul tema. 50. Su questi aspetti cfr. E. Matassi, Giuseppe Capograssi e Gioele Solari: antesignani di una nuova immagine della filosofia hegeliana, in P. Di Giovanni (a cura di), Le avanguardie della filosofia italiana nel XX secolo, Angeli, Milano 2002, pp. 295-305. 51. G. Solari, Il concetto di società civile in Hegel, in «Rivista di Filosofia», n. 4, ottobre-dicembre 1931, pp. 299-347; poi in Id., Studi storici di filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1949, pp. 343-381, e in Id., La filosofia politica, a cura di L. Firpo, Laterza, Bari 1974, vol. II, Da Kant a Comte, pp. 209-265 (su cui il fondamentale saggio di N. Bobbio, Lo studio di Hegel, in Gioele Solari 1872-1952. Testimonianze e bibliografia, op. cit., pp. 37-47; ora in Id., Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981, pp. 147-158). L’importanza del saggio solariano risiede anche nel fatto che segna una cesura nei confronti dell’interpretazione in senso statualistico e assolutistico di Hegel datane da G. Gentile, Il concetto dello Stato in Hegel, in «Nuovi studi di diritto, economia e politica», IV, n. 6, 1931, pp. 311-322 (poi, con il titolo Lo Stato, in Id., I fondamenti della filosofia del diritto, cit., pp. 109-120). I due saggi di Solari e Gentile furono presentati al congresso hegeliano di Berlino del 21 ottobre 1931. Va sottolineato che Pigliaru aderisce totalmente alla interpretazione hegeliana codificata da Gentile. Si noti che il notissimo saggio di N. Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, in P. Rossi (a cura di), Gramsci e la cultura contemporanea, cit., vol. I, pp. 75-100; poi in omonimo volume autonomo, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 17-48; e infine in
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tuisce un ulteriore indizio di quanto la filosofia capograssiana non abbia inciso in misura determinante nel mutamento della visione pigliariana ancorata ai testi di Gentile e perciò di fatto aderente alla sostanza dell’attualismo.
3. Teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici e strategie moniste Una prova esemplare a conferma della lettura proposta è offerta dalla questione del pluralismo degli ordinamenti giuridici. A seguire una lettura formalistica, si è tentati di spacciare come moneta in corso il mito del Pigliaru monistico-ordinamentale della Persona umana e ordinamento giuridico che, illuminato sulla via di Capograssi, nell’arco di soli cinque anni ribalterebbe completamente la propria visione gentiliana e accederebbe appunto alla scoperta della pluralità degli ordinamenti giuridici. Se così fosse, si aprirebbe una falla nella continuità teoretica e metodologica di fondo di Pigliaru, e si sarebbe costretti a proporre un prima (gentiliano) e un dopo (capograssiano), che a sua volta sfocerebbe nell’ancora più progressivo terzo passaggio a Gramsci (e poco importa se il Gramsci delle Note su Machiavelli sia letto da Pigliaru in senso gentiliano e “democratico”). Si tratta di una forzatura che
Id., Saggi su Gramsci, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 38-65, è esemplato, almeno sul piano metodologico, sul citato saggio solariano su Hegel. Il saggio di Bobbio su Gramsci fu presentato in occasione del medesimo convegno internazionale a cui partecipò Pigliaru con la relazione su Gramsci (di cui infra). Tuttavia, va chiarito che né per Solari né soprattutto per Bobbio, la scoperta della società civile, rispettivamente in Hegel e in Gramsci, equivale a negare la natura totalitaria dell’assorbente visione etico-statualistica dei due classici, ma solo estendere l’interpretazione ad altri aspetti rimasti in ombra e mai adeguatamente considerati nella loro complessità.
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non regge ad un’analisi appena approfondita delle strategie testuali pigliariane, e che avrebbe un senso compiuto solo se si potesse dimostrare che nella Vendetta si consumi il sostanziale allontanamento di Pigliaru da Gentile. La tesi che qui si intende documentare è che, nonostante l’apparente diversità di forma, non esista alcuna cesura teoretica tra Persona e Vendetta, e che in particolare tutta l’opera di Pigliaru risulti strategicamente orientata a superare l’ordinamento barbaricino che, in quanto portatore di un codice primitivo, è sotto ogni profilo incompatibile con la sua visione personalistica e monistico-ordinamentale dello Stato. Nella mistica gentiliana, che tanto ha condizionato la sostanza monistica della teoria etico-statualistica gramsciana del «Moderno Principe», non c’è posto per la pluralità degli ordinamenti giuridici. E il fatto che Pigliaru ne documenti l’effettività attuale o, come pare più probabile, documenti tramite rappresentanti delle popolazioni native un codice del passato (di cui restano ancora riverberi nell’attualità degli anni Cinquanta), implica solo che la ipostatizzazione della Sardegna come isola del malessere, che in una curiosa sineddoche rifletterebbe in forma complessiva l’analisi del contesto orunese, costituisca il riflesso di una eccezione sistemica al monismo attualisticogramsciano. Per “logica” conseguenza, l’eccezione sistemica, in irrimediabile contrasto con le logiche della Modernità repubblicana e progressista, è destinata a essere superata, sradicata e radicalmente assorbita nell’unico ordinamento (statale) legittimo, e sotto questo profilo la retorica del Piano di Rinascita, che con interventi ottriati paternalisticamente sradicherà le cause del malessere e della primitività, assume una rilevanza ermeneutica centrale e decisiva52. 52. A. Contu, Retoriche dell’identità. Un approccio metodologico al dibattito in Sardegna, in «Quaderni bolotanesi», n. 22, 1996, pp. 13-58; ora in Id., Ermeneutica e identità, Condaghes, Cagliari 2010, pp. 41-91.
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Se non si colleghi la Vendetta al precedente e coevo dibattito di «Ichnusa»53, e più in generale alla cultura del Piano di Rinascita caricato di aspettative taumaturgiche, non si comprende il ruolo determinante della precomprensione attualistica nel pensiero strategico di Pigliaru. Perciò occorre evitare di reiterare la infondata posizione di chi vorrebbe separare il Pigliaru attualista dal Pigliaru militante54, a condizione che non si tenti poi di depotenziare con argomenti formalistici la reale assorbente presenza gentiliana in tutte le fasi del breve itinerario pigliariano. Anzi, sotto questo profilo, la Vendetta (nel combinato disposto con tutti gli scritti coevi e correlati) rappresenta la vera opera di legittimazione del mito della Rinascita: in un colpo solo, e con un intervento legislativo finanziato dallo Stato, tutte le contraddizioni storiche della questione sarda, e in particolare l’intera vicenda perturbante dell’ordinamento barbaricino, potevano essere redente dalla superiore visione modernizzatrice del nuovo progressismo. Alla base di una visione così scopertamente lineare resta un dato di fatto, una sorta di pre-giudizio di marca progressista, secondo cui esisterebbe uno scarto incolmabile tra ordinamento primitivo fondato sulla vendetta (o che produce il meccanismo omeostatico della vendetta privata, o meglio comunitaria), e ordinamento fondato sul monopolio “legittimo” e impersonale dell’ordinamento giudiziario statale (che si presuppone alieno dalla vendetta, pur configurandosi di fatto come vendetta pubblica regolamentata)55.
53. S. Tola, Gli anni di ‘Ichnusa’. La rivista di Antonio Pigliaru nella Sardegna della rinascita, Etiesse-Iniziative Culturali, Pisa-Sassari 1994. 54. Cfr. A. Delogu, L’insegnamento di Capograssi nel pensiero di Pigliaru, in A. Pigliaru, La lezione di Capograssi, Spes, Roma 2000, p. 42. 55. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 32: «È il sistema giudiziario che allontana la minaccia della vendetta. Non sopprime la vendetta: la limita effettivamente a una rappresaglia unica il cui esercizio è affidato a un’autorità
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Tra l’altro, a una posizione che appare radicalmente diversa e alternativa a Pigliaru contribuisce proprio il Kelsen di Società e Natura, non a caso ampiamente diffuso nella cultura italiana56 già a partire dal 1953, anno della sua prima traduzione57. Le tesi kelseniane, doppiamente importanti per via del tema omologo a quello di Pigliaru, depongono per una originale visione della sostanziale omologia sul piano del rapporto causalità/imputazione tra società primitive e società moderne58. Né specializzata nel suo campo. Le decisioni dell’autorità giudiziaria s’impongono sempre come l’ultima parola della vendetta. […] Una volta esclusa la vendetta interminabile, capita di designarla come vendetta privata. L’espressione presuppone una vendetta pubblica […]. Nelle società primitive non esiste, per definizione, altro che la vendetta privata» (c.vi dell’Autore). Sotto questi profili, le Meditazioni di Pigliaru, di poco precedenti la Vendetta, anticipano l’utopia pigliariana di una pena che non si configuri come vendetta (A. Pigliaru, Meditazioni sul regime penitenziario italiano, in «Jus», n. 4, 1954, pp. 518-538; ora in volume: Meditazioni sul regime penitenziario italiano. In appendice Saggio sul valore morale della pena, Il maestrale, Nuoro 2009, pp. 11-50). Su questo scritto cfr. la nota di R. Orecchia, A. Pigliaru. Meditazioni sul regime penitenziario italiano, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VI, 1959, pp. 768-769. 56. Rileva, in particolare, come il saggio kelseniano sia ben tenuto presente in E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977; nuova ed., a cura di C. Gallini, Einaudi, Torino 2002, p. 152. 57. In particolare, nell’ambito della cultura filosofico-giuridica sono da ricordare le riserve di U. Scarpelli, Società e natura nel pensiero di Hans Kelsen, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», XXXI, 1954, pp. 767-780; ora in Id., L’etica senza verità, il Mulino, Bologna 1982, pp. 299-314. In senso più generale cfr. F. Sciacca, Il mito della causalità normativa. Saggio su Kelsen, Giappichelli, Torino 1993. 58. H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Deuticke, Wien 1934; tr. it. di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1952, pp. 207-227; Id., Die Entstehung des Kausalgesetz vom dem Vergeltungsprinzip, in «Erknenntis», n. 8, 1939, pp. 69-130; tr. it., L’origine della legge causale dal principio del contrappasso, a cura di L. Albertazzi, Centro studi per la filosofia mitteleuropea, Trento 1990; Id., Causality and Retribution, in «Erknenntis», n. 9, 1939, pp. 69-
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poteva passare inosservata la tesi kelseniana secondo cui le società primitive (in un senso assimilabile alla società barbaricina codificata da Pigliaru) sono caratterizzate dal principio del contrappasso anche senza il ricorso alla variabile pigliariana del conflitto inter-ordinamentale. E tuttavia, Pigliaru trae da Società e natura alcune conseguenze rilevanti nella logica della Vendetta, e in particolare ricava conferme autorevoli circa la primitività dell’ordinamento barbaricino e la giuridicità della vendetta59, a sua volta confermata da alcuni passi fondamentali tratti dalla coeva General Theory of Law and State, anch’essa tradotta in italiano già nel 195460, mentre in contemporanea, e in base soprattutto alla Teoria generale kelseniana, il filosofo sardo elude il confronto con Kelsen soprattutto in relazione alla più generale questione dei fondamenti della democrazia, di stampo parlamentarista a anti-organicista, in aperto contrasto con le tesi etico-statualistiche gentiliane61. 130; Id., Vergeltung und Kausalität. Eine Soziologische Untersuchung, van Stockum, den Haag 1939; Id., Causality and Imputation, in «Ethics», n. 61, 1950, pp. 1-11; Id., Kausalität und Zurechnung, in «Österreicher Zeitschrift für öffentliches Rechts», n. 6, 1954, pp. 125-151; Id., What is Justice? Justice, Law, and Politics in the Mirror of Science. Collected Essays, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1957, pp. 303-323, 393-394; 324-349, 394-397; Id., Reine Rechtslehre, Deuticke, Wien 1960; tr. it. di R. Treves, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino 1966, pp. 93-109; Hans Kelsen Lectures, datt., The Bancroft Library, University of California, Berkeley 1910-1960 ca.; tr. it., Elementi di teoria pura del diritto, in Id., Che cos’è la giustizia?, a cura di P. Di Lucia e L. Passerini Glazel, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 19-30. 59. Su questi aspetti mai posti in evidenza in dottrina cfr. A. Contu, Idealismo giuridico e dottrina pura del diritto, cit. 60. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1945; tr. it. di S. Cotta e G. Treves, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, Milano 1952. 61. L’elusione pigliariana di Kelsen, in relazione particolare alla dottrina dello Stato, ha radici e motivazioni teoretiche autenticamente gentiliane. Tra l’altro, non si spiega altrimenti come Pigliaru, nonostante sia stato coop-
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Il problema, ancora una volta, non va semplicisticamente ricercato nella ignoranza pigliariana del dibattito filosofico-giuridico coevo, ma in un dato inoppugnabile basato su una precisa precomprensione attualistica incompatibile con le posizioni del pensiero democratico kelseniano. Del resto, a medesime conclusioni si giunge proprio quando Pigliaru via Bergson si trova a considerare il concetto di «società chiusa» (quale di fatto è rappresentativa della società barbaricina così come emerge dalla Vendetta). In realtà, il tema della Vendetta, con particolare riferimento al concetto bergsoniano/popperiano di società chiusa si trova espresso già quattro anni prima: per l’intellettuale orunese, infatti, quella barbaricina è «società chiusa», orientata «ad esasperare quell’attitudine di combattimento che è propria di ogni società chiusa», e il problema del banditismo sardo «è anche un problema essenzialmente morale», e quindi è «problema d’educazione»62. Basterebbe questa eloquente citazione di matrice autenticamente gentiliana per disconfermare il luogo comune della svolta capograssiana che segnerebbe una frattura tra Persona umana e tato, a partire dal 1949, come assistente alla cattedra di Filosofia del diritto da Tommaso Castiglia, il primo autore italiano a pubblicare una monografia su Kelsen (cfr. T.A. Castiglia, Indagine sulla concezione del diritto e dello Stato in H. Kelsen, Gallizzi, Sassari 1932, e soprattutto Id., Stato e diritto in Hans Kelsen, Gallizzi, Sassari 1932; nuova ed. Giappichelli, Torino 1936), non abbia mai inteso occuparsi del filosofo austriaco del diritto se non per sporadiche prese di distanza. Inoltre, occorre sottolineare come la ripulsa capograssiana di Kelsen (cfr. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», n. 4, 1952, pp. 767-810; poi in Id., Opere, cit., vol. V, pp. 313-356, appena citato in una scarna nota da A. Pigliaru, Persona umana e ordinamento giuridico [1953], cit., p. 98) giunga un ventennio dopo gli studi di Castiglia, e non possa essere considerata determinante, dato che Pigliaru fu anti-kelseniano della prima ora, ma non per ciò che riguarda l’analisi kelseniana della vendetta. 62. A. Pigliaru, Scuola e banditismo in Sardegna, in «I problemi della pedagogia», n. 4, 1955, p. 101 (corsivo mio); ora in Id., Il banditismo in Sardegna, cit., p. 326.
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ordinamento giuridico e la Vendetta: le chiare osservazioni pigliariane appena citate, scritte due anni dopo Persona umana, rappresentano un perfetto programma di totale superamento dell’anomalia barbaricina che poi troverà sviluppi non solo in Vendetta, ma anche in tutto gli altri scritti correlati (che costituiscono la seconda parte di Il banditismo in Sardegna). Anche qui Pigliaru non si avvale delle pregnanti critiche popperiane (veicolate per primo in Italia, nel 1946, proprio dalla recensione di Bobbio a The Open Society and its Enemies)63, in quanto i bersagli elettivi di Popper sono Platone e Hegel, e di conseguenza lo storicismo di Marx: ciò contrasta con la filosofia attualistica pigliariana, che infatti preferisce virare sulla visione bergsoniana della comunità naturalisticamente considerata (e perciò intrisa di primitivismo)64, in confronto alla quale Pigliaru intende misurare la distanza della comunità barbaricina (che tuttavia lo stesso filosofo sardo aveva in altri luoghi definito come primitiva, portatrice di un codice di guerra, e in cui l’individuo è schiacciato dal peso preminente del controllo sociale totalizzante). In particolare, Pigliaru tenta di scavare un fossato tra la pratica dello ius talionis e la vendetta come rituale, occultando il fatto che anche lo ius ta-
63. N. Bobbio, Società chiusa e società aperta, in «Il Ponte», n. 12, dicembre 1946, pp. 1039-1046; ora in Cinquant’anni e non bastano. Scritti di Norberto Bobbio sulla rivista “Il Ponte” 1946-1997, Il Ponte Editore, Firenze 2005, pp. 43-49, e Id., K.R. Popper, The Open Society and its Enemies, in «Rivista di Filosofia», n. 3-4, 1946, pp. 204-206. Il riferimento è all’opus magnum di K.R. Popper, The Open Society and its Enemies, 2 voll., Routledge, London 1945. La prima traduzione italiana dell’opera di Popper ha dovuto attendere un trentennio: cfr. Id., La società aperta e i suoi nemici, 2 voll., Armando, Roma 1973-1974. 64. H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932; tr. it. di M. Vinciguerra, Le due fonti della morale e della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1947. Si noti che Pigliaru legge Bergson nell’edizione originale del 1932, come risulta ad es. da A. Pigliaru, Persona umana e ordinamento giuridico (2008), cit., p. 54, nota 19.
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lionis, in luogo di una reazione individuale istintiva, era una pratica ad alto tasso di ritualità e di riconoscimento sociale: in sostanza, derogando persino da Kelsen, Pigliaru non coglie le implicazioni del principio del contrappasso. La differenza, sotto questi profili del tutto non decisiva, è che lo ius talionis rappresenta un tentativo in parte retributivistico di correlare l’offesa ad una analoga reazione offensiva (occhio per occhio), mentre la vendetta si rivela istituto ancestrale che invece prevede tramite il capro espiatorio persino la casualità e la non riconducibilità della reazione nei confronti del reo. Ambedue appartengono alla definizione della crisi sacrificale e rappresentano altrettanti dispositivi per circoscrivere l’esondazione altrimenti devastante della violenza. E tuttavia, nonostante la presa di distanza, Pigliaru inanella una serie integrata di valutazioni nette e inequivocabili intorno alla società (altrove chiamata comunità) barbaricina, tali da non consentire di considerare come preminenti gli incoerenti e frammentari tentativi isolati pigliariani di attenuare la gravità e definitività delle seguenti notazioni: quella barbaricina è assimilabile alle «società primitive di tipo arcaico», «rigorosamente chiuse», produttrici di uno spiccato «conformismo», che implicano «il non-esserci dell’individuo in quanto tale», tipico di una «comunità ancora a livello d’una cultura di tipo primitivo», che infatti è «retta da una morale affatto dogmatica» produttrice di un vero e proprio «codice di guerra» che richiede all’individuo «un’obbedienza fortissima ed una fermissima fedeltà» manifestata tramite un «rapporto assoluto di integrazione»: questa comunità chiusa, non a caso, si basa sul primato del «dialetto» e della fedeltà a «su connottu»65. Questi passi rappresentano la traduzione teorica di affermazioni che lo stesso Pigliaru aveva proposto all’attenzione in uno dei 65. Tutti i passi citati nel testo si intendono tratti da A. Pigliaru, La vendetta, cit., risp. pp. 56, 55, not 26, 85, 91, 159, 147, 161 e 204.
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suoi scritti militanti più noti sul tema: la critica dell’autonomia «pensata in dialetto»66. Del resto, a medesime conclusioni si giunge quando si affronti il vero nodo del contendere, vale a dire il presunto radicale passaggio dall’attualismo gentiliano di Persona umana e ordinamento giuridico all’aderenza alla filosofia capograssiana nella Vendetta. La stragrande maggioranza dei saggi su Pigliaru cerca nell’argomento-Capograssi un appiglio in grado di controbilanciare la preponderanza di Gentile, soprattutto quando il filosofo attualista non sia formalmente citato. E si accontenta di rilevare aderenze spesso estrinseche in ordine al problema filosofico-giuridico e teorico-generale della pluralità 66. A. Pigliaru, Editoriale. Motivi di una ripresa, in «Ichnusa», n. 10, 1956, p. 4. Ciò dimostra che la Vendetta non è pienamente intelligibile se non la si confronti con gli scritti pigliariani correlati, senza alcuna distinzione tra produzione teorica e produzione militante. Il tema meriterebbe una trattazione a parte. Ma è del tutto evidente che Pigliaru faccia sua, in quanto compatibile con la teoretica gentiliana, la visione gramsciana del folklore, intesa come «”concezione del mondo” di determinati strati della società che non sono toccati dalle correnti moderne del pensiero» (sic: A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. I, q. I, 89, p. 89). La distinzione tra folklore «fossilizzato» e folklore «progressivo» in contrasto con le ideologie sociali dominanti, nulla toglie al fatto che per Gramsci il folklore deve sempre essere studiato «non per conservarlo ma per superarlo» (ivi, q. 4, 50, p. 485; vol. III, q. 27, 1, p. 2314), assieme a tutte le nozioni scientifiche decontestualizzate (folklo riche) in quanto negativamente «inserite nel mosaico della tradizione» (ivi, vol. I, q. 22, p. 2312). In sostanza, nella visione gramsciana il folklore è «concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente» (ivi, vol. II, q. 8, 173, p. 1045), e in quanto meccanico, degradato e occasionale, dal folklore si possono trarre elementi positivi solo laddove il popolo esprima i propri intellettuali organici portatori di una nuova e alternativa concezione del mondo capace di elevare la cultura del mondo subalterno (portatore di una «preistoria contemporanea»: ivi, q. 9, 15, p. 1105) con un pensiero sistematico (ivi, q. 11, 13, p. 1396). Inutile sottolineare come l’autonomia pigliariana pensata in dialetto sia tributaria della concezione gramsciana del folklore, e tuttavia converga nei risultati teorici con gli orientamenti assorbenti dell’attualismo, ostile nei confronti di qualsiasi elemento riconducibile all’etnicità.
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degli ordinamenti giuridici, argomento che permette, almeno in parte, di dimostrare la svolta pigliariana e il suo commiato dalle posizioni monistiche gentiliane di Persona umana e ordinamento giuridico. Per costruire questo passaggio si utilizzano di solito due ordini di argomentazioni: a) una testimonianza di Pigliaru circa i suggerimenti ricevuti da Capograssi intorno alla necessità di utilizzare la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici nell’analisi della società barbaricina; b) scarni riferimenti nella Vendetta ad alcune voci bibliografiche sul tema (in particolare, oltre alla classica citazione di Capograssi67, rilevano Santi Romano68 e la Teoria generale del diritto di Levi)69, e un
67. G. Capograssi, Note sopra la molteplicità degli ordinamenti giuridici, in «Studi sassaresi», XIV, 1936, pp. 77-90; poi con modifiche in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», I-II, 1939, pp. 77-90; e infine in Id., Opere, cit., vol. I, pp. 181-221. Cfr., sul punto, A. Pigliaru, La lezione di Capograssi, Gallizzi, Sassari 1962 (su cui la recensione assai lusinghiera di G. Campanini, A. Pigliaru, La lezione di Capograssi, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», VI, 1964, pp. 813-814). 68. Il generico accento sulla teoria relazionale del diritto viene accostato poi alla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, e così la “svolta” capograssiana si colorerebbe di nuovi apporti. Tuttavia, le teorie di Santi Romano, L’ordinamento giuridico. Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto, Mariotti, Pisa 1917; nuova ed., cit. da Pigliaru, Sansoni, Firenze 1945 di fatto sono eluse, sia perché Pigliaru mira teoreticamente a estirpare le cause del malessere barbaricino produttive di una pluralità ordinamentale per opposizione e in funzione di eccezione sistemica. Pertanto Pigliaru non approfondisce realmente i termini della complessità dei rapporti interordinamentali (come invece fanno Santi Romano, Levi e Capograssi), dato che l’attenzione è tutta orientata verso le cause patologiche e ostative che la vendetta barbaricina pone rispetto al primato assiologico e teoretico del monismo attualistico. 69. La critica alla ricerca di agganci che consentano di spostare il focus della elaborazione pigliariana da Gentile ad autori non eterodossi inventa improbabili approdi organici alla teoria leviana del diritto come rapporto (o teoria relazionale) tramite una citazione occasionale (A. Levi, Teoria generale del
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approccio assai approssimativo alla Sociologia del diritto di Gurvitch70, oltre che all’ampia monografia di Bobbio, La consuetudine come fatto normativo71. In tema di citazioni e riferimenti di auctoritates affini a Capograssi e perciò non compromessi con il solito Gentile, può essere utile sottolineare come l’adesione di Pigliaru alle tesi pluralistiche di Santi Romano celino, al fondo, una sostanziale divergenza su due aspetti dirimenti: il giurista siciliano, a differenza di Pigliaru, è assertore non solo della separazione diritto/morale, ma è anche critico della reductio del diritto a manifestazione di volontà72. Ma sotto un profilo più sostanziale, le dottrine di Santi Romano finiscono per convergere con quelle di Gentile, e quindi con quelle di Pigliaru, in quanto il monismo gentiliano riduce il diritto al potere dominante, mentre il neoidealismo di Santi Romano implica una visione del diritto frantumato nel policentrismo degli interessi sociali (gruppi eversivi compresi), destinati tuttavia a essere superati e unificati nel monismo statale, dal quale sono normati. Per ciò che riguarda in particolare la sociologia giuridica di Gurvitch, occorre sottolineare che devono essere distinti due «Noi»: quello della socialità spontanea, in cui l’individuo non è fuso con il corpo sociale, e quello della integrazione talmente incisiva, totalizzante, organicistica, da potersi qualificare non diritto, Cedam, Padova 1953, ult. ed. 1967, p. 11) il cui esito teorico è già tutto presente nella gentiliana Genesi e struttura della società, cit. 70. Nella più nota che conosciuta teoria del «Noi» (il «noi pastori»), si ritiene scorrettamente che Pigliaru la derivi da G. Gurvitch, Sociology of Law, Philosophical Library, New York 1942; tr. it. di S. Cotta, Sociologia del diritto, Edizioni di Comunità, Milano 1957, pp. 177-179). 71. N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Cedam, Padova 1942; nuova ed., a cura di T. Greco, Giappichelli, Torino 2002, da cui si cita. 72. Santi Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Giuffrè, Milano 1947, pp. 64-75; nuova ed., 1983.
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più come società ma come «Comunità»: appare evidente che la società barbaricina di Pigliaru si configura come Comunità organica nella seconda accezione di Gurvitch, ma ciò confligge con quella parte contraddittoria del pensiero di Pigliaru che oscilla tra l’evidenza della comunità chiusa, primitiva, antistorica, e la visione del tutto ideologica di una comunità barbaricina in cui l’individuo gode dell’autodeterminazione (sic). E tuttavia, a dimostrazione ulteriore della funzione sussidiaria delle citazioni di Pigliaru, e in assoluta discordanza con i luoghi comuni sul tema, le date parlano chiaro: ben prima del 1957, Pigliaru riprende testualmente il «Noi», attribuito alla influenza di Gurvitch, da Gentile73. Ciò significa che la concezione pigliariana del «Noi» è semplicemente una ricapitolazione della visione organicistica gentiliana, e la citazione ex post di Gurvitch assume solo la funzione di fornire un riferimento formale alternativo a Gentile. In questo senso, ancora una volta Pigliaru si rivela un manipolatore dei testi altrui in funzione armonizzante. D’altra parte, il «noi pastori» rivela in filigrana come la nozione di Gurvitch (così come riletta da Pigliaru) sia perfettamente trasponibile alla nozione gentiliana della società e dello Stato in interiore homine74. Non minori problemi implica poi l’apparente confronto di Pigliaru con Bobbio75. Rispetto agli altri autori, Bobbio rappre73. G. Gentile, Genesi e struttura della società, cit., p. 19. 74. Cfr. G. Gentile, Diritto e politica, in «Archivio di studi corporativi», n. 1, 1930, pp. 1-14; poi in Id., I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 129, ripreso infine nella postuma Genesi e struttura della società, cit., pp. 33-43. 75. È un dato di fatto la distanza di Bobbio dal pensiero di Pigliaru, il quale, subito dopo la Vendetta, non dimostra di conoscere il coevo studio di N. Bobbio, Teoria dell’ordinamento giuridico, Giappichelli, Torino 1960; ora in Id., Teoria generale del diritto, Giappichelli, Torino 1993, di impronta schiettamente kelseniana, a cui poi è seguita la voce di W. Cesarini Sforza, Ordinamenti (pluralità degli), in Novissimo Digesto Italiano, vol. XII, Utet, Torino 1965, pp. 1-3 (passim).
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senta per Pigliaru l’unico vero e strutturale banco di prova critico per saggiare la propria visione personalistico-ordinamentale. Il confronto di fatto segna una sostanziale divergenza, dissimulata tramite una accorta manipolazione delle fonti. Nonostante le apparenze, Pigliaru non può accettare le implicazioni di Bobbio, secondo cui il diritto come volontà (di chiara ascendenza gentiliana) sarebbe disconfermato dalla consuetudine che si forma indipendentemente dalle volontà individuali76 (ivi, p. 23) e quindi al di là della volontà statale. Non a caso, nella sua Introduzione alla Vendetta, Pigliaru è costretto a utilizzare una formula elusiva e arzigogolata («tra involontarietà del diritto e diritto come voluto non c’è, tutto sommato, necessaria contraddizione»: sic)77. Qui, dissimulata dalla formale citazione di Capograssi, si scorge «l’ombra lunga di Gentile»78, dato che Capograssi e Gentile sono teoreticamente avversi all’idea del diritto come «fatto», come invece Bobbio aveva in pratica sostenuto con la scoperta gurvitchiana del diritto come «fatto normativo». Si tratta di una ulteriore conferma del fatto che la filosofia capograssiana è letta da Pigliaru in funzione armonizzante rispetto all’assorbente presenza di Gentile79.
76. N. Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, cit., p. 23. 77. A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, in Id., Il banditismo in Sardegna, cit., p. 30, nota 16. 78. G. Riccardo, Conflitto di ordinamenti e conflitto di paradigmi in Antonio Pigliaru, in «Lares», n. 1, 2013, p. 19. 79. Si tratta di una ben nota tecnica di manipolazione delle fonti ad usum delphini, che con ogni probabilità è riferibile a quanto Piovani scrive in privato a Pigliaru circa la opportunità di evitare, nel nuovo corso politico, ogni «eccesso di enfasi» riferita a Gentile: cfr. Pietro Piovani a Antonio Pigliaru, Napoli 1° febbraio 1950, in Carte Antonio Pigliaru (e da più autori richiamata). Ma non si tratta solo di un problema di opportunità politica: come ho dimostrato in A. Contu, Idealismo giuridico e dottrina pura del diritto, cit., sul piano del referente giuspubblicistico le posizioni di Capograssi e Gentile giungono a esiti conformi in tema di fondazione dello Stato etico.
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L’analisi anche sommaria delle citazioni pigliariane dimostra subito che si tratta di riferimenti infedeli al testo, ritagliati ad usum delphini per evitare di disconfermare la tesi attualistica della Vendetta (e le interne contraddizioni, frutto di un compromesso teoretico tra i dettami attualistici ostili alla pluralità degli ordinamenti e le preoccupazioni etico-politiche di Pigliaru in relazione al giudizio intorno al codice di guerra barbaricino e alla primitività acclarata delle relative pratiche devianti): il relitto primitivo del codice della vendetta barbaricina costituisce per Pigliaru una violazione patente della sua concezione personalistica e monistico-statualistica oltre che la premessa per un grande impegno etico-politico e pedagogico orientato a strappare l’ipostasi delle zone interne dal degrado e dal conflitto inter-ordinamentale con lo Stato80. La stessa leggenda della c.d. “svolta” capograssiana del 195981 non regge sul piano teoretico, dato che la formale ricezione 80. L. Caimi, Motivi pedagogici e impegno educativo in Antonio Pigliaru, Vita e Pensiero, Milano 2000, passim. 81. In tema di presunta «svolta», va pure notato che né Capograssi, né Piovani (del quale ultimo Pigliaru recensì Normatività e società, Jovene, Napoli 1949, in «Rassegna di diritto pubblico», n. 3-4, 1949, pp. 345-347, e Momenti e problemi della filosofia giuridico-politica italiana, Giuffrè, Milano 1951, in «Studi sassaresi», XXIV, n. 1-3, 1952, pp. 66-76, evitando tuttavia ratione materiae lo scomodo confronto con Giusnaturalismo ed etica moderna, Laterza, Bari 1962; nuova ed., a cura di F. Tessitore, Liguori, Napoli 2000, e Linee di una filosofia del diritto, Cedam, Padova 1964), il cui apporto decisivo in Pigliaru è stato largamente sopravvalutato, mai hanno scritto una sola riga sull’opera del filosofo sardo (né Capograssi nelle Opere, né Piovani negli Scandagli critici scritti per il «Giornale critico della filosofia italiana», ora in edizione postuma: P. Piovani, Scandagli critici, Morano, Napoli 1986, dove tra il 1963 e il 1969, alle voci Personalismo, Capograssi e Gentile, non è mai citato il nome di Pigliaru), in quanto non hanno mai ritenuto che gli scritti pigliariani fossero da considerare lavori scientificamente adeguati al principio accademico del contesto: sui non lusinghieri giudizi accademici nei confronti di Pigliaru, a proposito delle relative vicende concorsuali, cfr. A. Mattone, Storia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sas-
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del linguaggio di Capograssi ha funzione di autorevole copertura non eterodossa di un pensiero integralmente esemplato sulla filosofia eterodossa di Gentile: poiché il pensiero di Pigliaru «non avrà modo di formarsi compiutamente», il filosofo sardo «sentirà sempre il bisogno di appoggiarsi ad altre autorevoli elaborazioni»82. Anche in questo caso, non deve stupire se Pigliaru forzi e manipoli oltre ogni limite i testi dei classici del diritto penale83,
sari (secoli XVI-XX), il Mulino, Bologna 2016, ad vocem. È anche doveroso sottolineare come Pigliaru non sia mai citato nella pure informatissima biografia capograssiana di M. D’Addio, Giuseppe Capograssi (1889-1956). Lineamenti di una biografia, Giuffrè, Milano 2011. 82. P.G. Puggioni, Uomo, azione e relazione nel pensiero giuridico di Antonio Pigliaru, in «Diacronìa», n. 1, 2020, p. 187. La mancata formazione del pensiero pigliariano spiega le osservazioni critiche di D. Corradini, Pigliaru filosofo della società e della politica, in «Quaderni sardi di filosofia e scienze umane», n. 4-5-6, 1979, pp. 39-44 (che denuncia il sincretismo pigliariano, produttivo di «attitudini varie e inconciliabili», e di «interpretazioni inammissibili», aggravati dall’uso di un linguaggio oscuro non all’altezza della necessità di chiarezza scientifica e comunicativa). Sul mito della svolta capograssiana in Pigliaru cfr. A. Contu, Idealismo giuridico e dottrina pura del diritto, cit. 83. M.A. Cattaneo, Nota introduttiva al “Saggio sul valore morale della pena”, in A. Pigliaru, Il rispetto dell’uomo, Iniziative Culturali, Sassari 1980, pp. 163-165. Al tema del garantismo penale e dell’Illuminismo giuridico Cattaneo ha offerto studi molto puntuali (Illuminismo e legislazione, Edizioni di Comunità, Milano 1966; Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Giuffrè, Milano 1981; Metafisica del diritto e ragione pura. Studi sul “platonismo giuridico” in Kant, Giuffrè, Milano 1984; Francesco Carrara e la filosofia del diritto penale, Giappichelli, Torino 1986; Pena, diritto e dignità umana: saggio sulla filosofia del diritto penale, Giappichelli, Torino 1990; Giusnaturalismo e dignità umana, Esi, Napoli 2006). Nonostante l’inequivoca ricostruzione dei fondamenti filosofico-giuridici propri dell’Illuminismo giuridico, Cattaneo tenta, alla fine della sua Nota cit., di smussare la critica radicale della lettura pigliariana dei classici del diritto penale, forzando a sua volta la mano nel sostenere che tuttavia il rispetto dell’uomo in Pigliaru si avvicina alla difesa della dignità umana in Kant (sic). Purtroppo, la dimen-
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oltretutto appartenenti all’Illuminismo giuridico e come tali radicalmente distanti dalla visione attualistica pigliariana. A sostegno dell’emenda Pigliaru utilizza in forma strumentale un Beccaria malamente letto, in quanto l’autore di Dei delitti e delle pene non è mai stato assertore della proporzionalità tra delitto e pena rivolta alla individualità del reo, in quanto piuttosto ha considerato la natura e la funzione della pena in termini generali e astratti. Non minore manipolazione subisce poi addirittura Francesco Carrara, del cui limpido pensiero Pigliaru offre una interpretazione ad usum delphini: l’emenda occupa infatti nel pensiero carrariano una funzione meramente sussidiaria e mai contempla l’emenda in funzione soggettiva, vale a dire in termini morali e redentivi, dato che nel pensiero illuministico-giuridico, fondato sulla distinzione diritto/morale, non vi è posto per lo Stato-educatore. Quanto a Kant, il rispetto per la dignità umana si fonda sul principio assorbente della difesa dei diritti individuali e sulla separazione diritto/morale, mentre «il rispetto dell’uomo» in Pigliaru è compito assegnato allo Stato etico84. In definitiva, la visione sostanzialistica del diritto penale, che Pigliaru coerentemente mutua da Gentile (e poi ritrova in Gramsci) dimostra, ancora una volta, quanto la influenza gentiliana abbia agìto a fondo su ogni aspetto del pensiero pigliariano. Del resto, anche il Capograssi di Pigliaru si sovrappone sostanzialmente al pensiero di Gentile negli aspetti determinanti della visione pigliariana, dato che il sovrastimato
sione teoretica non si misura sulla base della buona fede di chi la professa, ma sugli strumenti istituzionali che la rendano coerente con il principio. E la mancata separazione pigliariana del diritto dalla morale costituisce uno scoglio invalicabile non solo rispetto a Kant, ma a tutta la filosofia del garantismo penale. Si tratta di una ennesima prova della indulgenza di cui Pigliaru, a differenza di molti pensatori isolani, ha potuto beneficiare nonostante le sue macroscopiche violazioni della regola aurea del rispetto della filologia. 84. M.A. Cattaneo, Nota introduttiva al “Saggio sul valore morale della pena”, cit., pp. 163-165 ( ivi la citazione dei passi carrariani manipolati da Pigliaru).
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apporto capograssiano all’azione umana nel testo di Pigliaru non si discosta dalla lezione gentiliana, come dimostra un passo eloquente della Vendetta, in cui si può leggere uno dei tanti loci pigliariani la cui genericità svela di fatto il vero referente dissimulato, vale a dire il Gentile della Genesi: accettare «la cosiddetta teoria della socialità del diritto» implica infatti una definizione dell’ordinamento giuridico «come il momento, il prodotto culminante in tutto il complesso processo onde l’azione, prendendo se stessa per oggetto, pone e realizza attivamente quella serie di comandi e quindi di obbedienze che creano i rapporti per cui la vita associata è effettivamente tale»85. È del tutto evidente che questo passo riprende sia nel lessico oscuro, sia nella valenza teoretica, molti passaggi di Genesi e struttura della società, nelle cui ancor più oscure determinazioni si pone una visione che, a questo livello di generalizzazione, non consente di distinguere Gentile dal Capograssi di Pigliaru.86 Il marasma inorganico di citazioni tra loro incompatibili, la dispersività della produzione saggistica, la confusione metodologica, l’oscurità del linguaggio, la preparazione tecnica inadeguata rispetto alla complessità dei temi prescelti, e i troppo scarni riferimenti bibliografici, derivano non tanto (o non solo) da una insufficiente formazione filosofica, ma dal fatto che Pi-
85. A. Pigliaru, La vendetta barbaricina, cit., p. 22. 86. Gli esempi di tali sovrapposizioni abbondano nel testo pigliariano, e non vale la pena di fornire un lungo inutile elenco dei passi da cui troppi critici pretendono di derivare la svolta capograssiana. Ciò che conta sottolineare e rimarcare è un dato essenziale: Pigliaru non scopre la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico tramite Capograssi, ma la interpreta sulla base di una sostanziale fedeltà a Gentile, e poi utilizza i filosofi del diritto assertori della pluralità degli ordinamenti giuridici sino a piegarne le posizioni, in funzione di autorevole copertura, verso le assorbenti posizioni monistiche gentiliane. Cfr. più in generale A. Pigliaru, Saggi capograssiani, Spes, Roma 2009, che raccoglie i contributi pigliariani dedicati al pensiero di Capograssi acriticamente considerati segni della svolta pigliariana.
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gliaru deve continuamente diversificare i riferimenti per dissimulare la sua profonda e organica dipendenza dalla filosofia attualistica del suo Gentile. In questo senso non esiste alcun Pigliaru capograssiano, gramsciano, marxista ecc., ma solo un Pigliaru coerentemente gentiliano che intrattiene dialoghi con altre filosofie tutte ricondotte al codice attualistico in virtù di una specifica strategia ermeneutica in funzione armonizzante, a sua volta incardinata nella sostanziale continuità del referente giuspubblicistico. «Lo Stato come principio d’autotrascendenza» fondato «sulla nozione stessa di persona»87 è posizione integralmente gentiliana, e il fatto che nei testi pigliariani si possano trovare riferimenti a vari esponenti delle filosofie personalistiche, dimostra solo che Maritain (oltre a Marcel, Mounier e Bergson), tramite una «interpretazione “manipolatrice”»88, sono ricondotti alla lezione di Gentile, e il trait d’union sarebbe la generica nozione del culto dell’uomo e dello Stato etico come volere co-
87. A. Pigliaru, Considerazioni critiche su alcune posizioni del personalismo comunitario, in «Studi sassaresi», n. 3-4, 1951, pp. 87-178 (e in volume, Gallizzi, Sassari 1950, pp. 76, 95 e 56, cit. da P.G. Puggioni, Uomo, azione e relazione, cit., p. 178). 88. P.G. Puggioni, Uomo, azione e relazione, cit., p. 178. L’Autore ammette, senza tuttavia trarne tutte le conseguenze, che Pigliaru offre una «lettura sui generis che, lungi dal rispecchiare alla lettera il pensiero delle sue auctoritates, fa trasparire la peculiare opposizione assunta dal filosofo sardo in rapporto al tema della natura e dell’azione umana» (ivi, p. 167). Una formulazione più stringente avrebbe dovuto sostituire al generico riferimento alla «peculiare posizione» pigliariana la più precisa e filologicamente dimostrabile visione attualistica gentiliana che permea l’intero pensiero di Pigliaru dai primordi fascisti sino al suo arruolamento tra le fila progressiste. Il nucleo essenziale che consente di non vagheggiare di improbabili svolte risiede nella ormai acclarata e ammessa interpretazione manipolatrice pigliariana, che lungi dal porsi come il segno di una profonda ignoranza dei testi, si rivela strategia testuale dissimulatrice per far passare tramite auctoritates la filosofia eterodossa di Gentile in epoca repubblicana.
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mune (stante poi il fatto che nella Filosofia del diritto Gentile rappresenta il diritto come «volere voluto»)89.
4. L’eredità di Pigliaru: la vendetta sullo sfondo e il superamento del dualismo governanti/governati Persino i più indulgenti difensori di Pigliaru riconoscono che l’opera maggiore del filosofo sardo è intimamente contraddittoria anche a causa della fatale confusione tra piano teoretico e piano politico-militante. Non c’è bisogno di complesse analisi filologiche per rendersi conto che nel medesimo testo convivono due logiche contrapposte nella forma di due incomponibili contraddizioni: da una parte (teoretica) esiste la documentazio-
89. N. Bobbio, Nature et fonction de la philosophie du droit, in «Archive de Philosophie du droit», VII, 1962; tr. it., Natura e funzione della filosofia del diritto, in Id., Giusnaturalismo e positivismo giuridico (1965), Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 44: la Filosofia del diritto di «Gentile, che definisce il diritto con un bisticcio di parole “volere voluto”, merita di essere ricordata soltanto più come esempio-limite di radicalizzazione e ipostatizzazione filosofica di un’idea non peregrina del senso comune». È poi importante sottolineare come la visione etico-statualistica gentiliana è solo in apparenza traslata da Hegel, nel quale lo Stato si colloca nel versante oggettivo dello Spirito, al contrario di Gentile che in uno slittamento a lessico invariato diventa un atto dell’unico Soggetto che crea tutta la realtà: con la teoria dello Stato in interiore homine (e non inter homines), Gentile ha ridotto «a fatto interiore anche la realtà corposissima dello Stato» (Id., Profilo ideologico del Novecento, Einaudi, Torino 1986, p. 134). In ragione di tale visione etico-statualistica, Bobbio ha qualificato Gentile «retore» e «corruttore» (Id., Cultura vecchia e politica nuova, in «Il Mulino», n. 15, 1955, pp. 575-587; ora in Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 198; poi ripreso e ampliato in Id., Intorno a un giudizio su Giovanni Gentile, in Aa. Vv., Studi in onore di Gustavo Bontadini, Vita e Pensiero, Milano 1975, vol. II, pp. 213-233; ora in N. Bobbio, Dal fascismo alla democrazia. I regimi, le ideologie, le figure e le culture politiche, a cura di M. Bovero, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 187-236).
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ne coerente di una pressione comunitaria sull’individuo ridotto a mero organo (e ciò depone per il principio di irresponsabilità); dall’altra (etico-politica) c’è il soggetto che sceglie in libertà le logiche della vendetta (e ciò depone per il principio di responsabilità)90. Lo statuto scientifico della vendetta è perciò vulnerato da una contraddizione di fondo che Pigliaru crede di superare con l’opzione, genuinamente gentiliana, del primato della scuola statale in funzione critica nei confronti dei codici del sottosuolo barbaricino91. Pigliaru non vede, e forse non poteva scandagliare sino in fondo, l’abisso teoretico che il tema della vendetta scava nelle pieghe della filosofia teoretica di marca progressista. Non riesce a dar davvero conto, al di là di superficiali motivazioni basate su scorrette motivazioni inter-ordinamentali, della funzione contenitiva della vendetta (e di altri istituti premoderni che svolgono in ambito privato la funzione giudiziaria codificabile sempre come sostitutivo impersonale e monistico della vendetta pubblica). La Vendetta non ha mai avuto alcun valore esplicativo sul tema in oggetto, e tanto più se si consideri come la sua fortuna nel punto di vista interno ed esterno sia inversamente proporzionale alla qualità della comunicazione e alla povertà di soluzioni sia nella pars destruens che nella pars construens, tutte imputabili a una oscillazione epistemologicamente fallimentare tra ideologia politica e ragioni dell’analisi. Sul piano interno
90. A. Delogu, Cultura barbaricina e banditismo in Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira, in M. Pinna (a cura di), L’Europa delle diversità. Identità e culture alle soglie del terzo millennio, Angeli, Milano 1993, pp. 196 e 199-200. 91. Sulla produttiva nozione di «sottosuolo» cfr. A. Satta, Cronache dal sottosuolo. La Barbagia, Jaca Book, Milano 1991; ora in Id., Opere, a cura di A. Contu. Condaghes, Cagliari 2009, vol. II, e in volume autonomo, a cura di A. Contu, Condaghes, Cagliari 2014.
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ed esterno, per una volta convergenti, la Vendetta di fatto costituisce la parabola finale di una lunga storia multi-secolare basata sulla costruzione ad hoc di stereotipie di marca storicistico-idealistica le quali, ipostatizzando una Sardegna immaginaria barbara, primitiva, arretrata nel cuore della Modernità civilizzata92, di fatto poteva decretarne la morte per reato di ellitticità. Una realtà così radicalmente diversa, portatrice di istanze incompatibili con la modernizzazione e con le visioni etnocentriche basate sulla superiorità occidentale post-rivoluzionaria e illuministica, finiva per legittimare l’intervento del monismo statale ottriato che paternalisticamente non solo poteva imporre la scuola di Stato per alfabetizzare le comunità renitenti o tradite, ma addirittura poteva predisporre interventi politico-economici calati dall’alto e intrisi di una ideologia progressista che si auto-rappresenta immune dalla barbarie della vendetta, e che invece è solo sublimata e dissimulata nelle pieghe del sistema giudiziario in funzione di monopolio della gestione della crisi sacrificale. Ma ci sono ragioni ancora più profonde che portano la Vendetta a porsi suo malgrado come la legge di morte della società tradizionale barbaricina delineata da Pigliaru. E queste ragioni affondano le radici nel mai abbandonato monismo attualistico di cui Pigliaru si fa zelante e fedele interprete. La mancanza di alcuna seria riflessione sulle funzioni della Costituzione rigida repubblicana fondata su basi parlamentariste; la visione gentiliana della sovranità; lo Stato etico come sinonimo di democrazia integrale93; la vocazione organicistica ed
92. F. Casula, I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna, Alfa, Quartu S.E. 2015. 93. V. Mura, La critica democratica alla democrazia. Sulla filosofia politica di Pigliaru e su alcune tendenze della scienza politica contemporanea, Ets, Pisa 1979, p. 22. La nozione attualistica di democrazia integrale richiama la nozione gramsciana, ma come questa non è sostenuta da una concezio-
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etico-pedagogica assegnata allo Stato; e la visione di una democrazia priva dei referenti istituzionali, sono tutti tasselli di una fallacia teorica che si riverbera sulle implicazioni ultime della teoria pigliariana dello Stato: «Lo Stato o è Stato, cioè ne delle istituzioni democratiche, la quale sola oltretutto qualificherebbe come democratica un sistema di pensiero: Bobbio sostiene infatti che, anche in virtù dell’assenza di una teoria delle istituzioni, che porta a teorizzare in negativo solo la estinzione dello Stato, Lenin è assertore della «quintessenza della teoria assolutistica del potere», e che Gramsci non poteva non riconoscersi in quella tradizione, e arriva correttamente a sostenere: «Non si può rimproverare a Gramsci di non aver affrontato un problema, come quello della relativa validità delle istituzioni liberaldemocratiche, né più in particolare il problema delle istituzioni attraverso cui si sarebbe dovuta esercitare l’egemonia della nuova classe: erano problemi estranei alla tradizione del pensiero politico marxistico in cui egli si riconosceva, se pure senza alcun irrigidimento dommatico. […] Considero un criterio infallibile per distinguere un buon democratico da coloro che si riempiono la bocca ad ogni momento della parola democrazia senza mai far sapere (o magari senza sapere) che cosa intendono, l’insistenza sulle istituzioni, voglio dire la consapevolezza e la convinzione che se non vi sono certe istituzioni non c’è democrazia. Da questo punto di vista aveva perfettamente ragione Salvemini nel dire che le sinistre in Italia parlavano lo stesso linguaggio delle destre reazionarie, e finirono infatti per portare acqua al loro mulino» (N. Bobbio, Gramsci e la cultura politica italiana, in «Belfagor», n. 5, 1978; ora, con il titolo Gramsci e la teoria politica, in Id., Saggi su Gramsci, cit., pp. 77-78; corsivo mio). Ma c’è di più: la traduzione del pensiero gramsciano in atto politico converge nella sostanza proprio con quel Gentile che resta dissimulato sullo sfondo, come riconosce sul punto A. Negri, Antonio Pigliaru: le ragioni della Piazza e le ragioni dello Stato, in Unità dello Stato e pluralità degli ordinamenti, cit., p. 47, quando si riferisce al testo pigliariano «gravido di istanze comunitarie [id est: organicistiche] ed anzi comuniste», anche se poi, come sempre, anche Negri è costretto a riconoscere che tutto l’impianto pigliariano è aderente alla Genesi gentiliana: così come Pigliaru declina l’idea dello Stato che ancora non è, così Gentile asserisce che «lo Stato nella sua essenza spirituale è sempre e non è mai» (sic: G. Gentile, Genesi, cit., p. 103). Naturalmente, anche in questo caso Negri tenta di depotenziare il pensiero gentiliano ripreso integralmente da Pigliaru, arruolando Gentile nel «fascismo-movimento», o almeno in un teorico dello Stato fascista ancora da realizzare affinché si trasformi in Stato democratico (sic: ibidem).
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unità eticità, in senso proprio; o è strumento di pura egemonia: o è Stato, insomma, o è classe egemone»94. L’unica possibilità è la scelta tra lo Stato gentiliano non fondato né limitato dalla Costituzione, oppure la estinzione dello Stato, che nei precisi termini pigliariani significa solo processo di superamento della forma storica di Stato parlamentare in favore di un ordinamento in cui sia definitivamente superato il dualismo governanti/ governati (che prefigura quella vaga democrazia diretta, vagheggiata negli anni Cinquanta dal PCI di Togliatti, e oggetto delle decisive critiche di Bobbio in Politica e cultura, basate sul fatto evidente che nella cultura politica della sinistra era assente una qualsiasi riflessione sugli istituti e le forme entro cui la democrazia diretta garantisce i diritti fondamentali). Ma qui non si tratta di rilevare una qualche aporia sincrestistica, dato che Pigliaru, fedele al paradigma hegelo-marxiano, difende una visione etico-statualistica dell’attualismo che sfocia necessariamente nell’assorbimento della società nello Stato, e ciò vale a prescindere dal fatto che su alcuni aspetti, peraltro non decisivi, Pigliaru possa essersi differenziato dal Maestro. La coerente visione anti-dualistica pigliariana rappresenta la chiave di volta per escludere la Vendetta dal novero delle teorie della pluralità degli ordinamenti giuridici. L’ordinamento giuridico barbaricino, eccezione sistemica in via di superamento, è l’ultimo ostacolo da estirpare perché rappresenta il riverbero perturbante di una visione dualistica dell’ordinamento e implica, al contrario, la restaurazione teoretica e poi politica del monismo. Sotto questo profilo, appare non rilevante dissertare sull’uomo come attività etica (che implica una visione dello Stato che deve rispondere a queste sollecitazioni), e distinguerlo dalla 94. A. Pigliaru, La Piazza e lo Stato, Edizioni di Ichnusa, Sassari 1961, p. 43, poi in Id., Scritti di scienza politica, cit., infine in volume, Il maestrale, Nuoro 2012, p. 31.
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visione gentiliana dello Stato come sostanza etica: lo Stato pigliariano come attività etica converge e addirittura si confonde con la visione gentiliana per il semplice fatto che, al di là delle formule oscure, ciò che conta è ridurre il dualismo all’unità. E la Vendetta rappresenta nell’economia teoretica della fedeltà all’attualismo uno strumento che, nello scandagliare in apparenza la teoria empirica della pluralità degli ordinamenti giuridici, di fatto è orientato a fissare per sempre quegli elementi del dualismo barbaricino, e infine a dissolverli nel principio assorbente del monismo etico-statualistico95. In definitiva, l’opera di Pigliaru oggi rappresenta ancora oggi un interessante relitto per non dimenticare quanto incida il pregiudizio della scientificità nella determinazione di visioni antropologiche dissonanti e perciò da estirpare con la medesima scienza. D’altronde, il paradigma dello scientismo penale, che fissa in uno stereotipo una realtà del tutto arbitraria nella sua ricostruzione parziale e settaria, ma ad alto tasso di perfor95. Qui occorre riconoscere che Pigliaru è sprovvisto di una compiuta teoria delle istituzioni, e la circostanza accomuna il pensiero attualistico e le cosiddette teorie marxiste dello Stato. Sul punto Bobbio ha scritto pagine decisive e illuminanti che, riferite ai pensatori marxisti, sono tutte direttamente riconducibili anche all’attualismo gentiliano e, di conseguenza, a Pigliaru: nel denunciare la «ristrettezza degli orizzonti culturali» entro cui storicamente si sono sempre mossi i marxisti quando hanno trattato il problema dello Stato, e l’autoreferenzialità dei riferimenti teorici (Lenin, Gramsci, Lukács in testa), con la formula «anglicum est, non legitur» ha deplorato l’ignoranza della grande tradizione dei classici della filosofico-politica in lingua inglese (Hobbes, Locke, The Federalist, Stuart Mill) e di altri classici (Aristotele, Machiavelli, Tocqueville), e ha svelato come i marxisti non si occupino di teoria dello Stato se non nell’accezione negativa della sua estinzione, ma in realtà solo della presa del potere (e quindi, gramscianamente, del ruolo del Partito-Stato), e perciò come tali posizioni non facciano parte della teoria dello Stato (N. Bobbio, Teoria dello Stato o teoria del partito?, in Aa.Vv., Discutere lo Stato. Posizioni a confronto su una tesi di Luis Althusser, De Donato, Bari 1978, pp. 98-101; ora in Id., Né con Marx né contro Marx, a cura di C. Violi, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 216-219).
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matività, ha sempre, da due secoli a questa parte, svolto una funzione decisiva nella circolazione della nuova legittimità ottriata la quale, paradossalmente, svolge proprio quella funzione pedagogico-moralistica statale che Pigliaru, in concordanza con Gramsci e con Gentile, riteneva in assoluta buona fede la sola vera chiave progressiva per estirpare benevolmente i fondamenti produttivi di quella società primitiva perturbante e in fondo, forse, mai esistita in quelle forme esasperate ma esemplari che emergono dalla Vendetta (e che ci parlano ancora tramite il fantasma dell’istituto ancestrale chiamato «codice della vendetta»). Tuttavia, la vendetta non scompare. Si decentra, dissimulata nelle pieghe di pratiche e di istituzioni moderne (in primis il monopolio statale della sfera giudiziaria), e si perde la visione delle radici occulte. Nell’assoluta inconsapevolezza attualistica e progressista è postulato che lo Stato educatore possa ristabilire l’ordine violato ed estirpare per sempre l’istituto della vendetta. Ma qui non di «istituto» si tratta, dato che la vendetta girardiana non è creazione consapevole (come le consuetudini e le tradizioni), e affonda le radici nel Sacro. Del resto, lo Stato etico vagheggiato da Pigliaru prefigura la scuola di Stato come strumento moralizzatore idoneo a superare i retaggi ancestrali (o primitivi). In realtà, la vendetta mantiene il perturbante della sua capacità di dissimularsi nelle pieghe del tempo storico, ma in quanto costitutiva del Sacro, non appare intelligibile una volta che la sua fenomenologia appaia correlata a istituzioni storiche e a princìpi del contesto ben determinati sul piano antropologico e territoriale, come Pigliaru riteneva di avere a che fare. La morale laica dello Stato educatore non poteva estirpare la pratica ancestrale della vendetta, ma solo spostarne il focus e alimentare l’illusione che il restaurando monismo eticostatualistico (ontologicamente ostile alla compresenza di più ordinamenti, e peggio che mai di un ordinamento primitivo a
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contatto con un postulato organismo etico progressivo) avrebbe per sempre estirpato la pratica primitiva della vendetta. Tuttavia, neppure Pigliaru avrebbe potuto sospettare che il Moloch dello Stato etico avrebbe assunto, sotto mentite spoglie, proprio le funzioni dell’eterna inafferrabile e perturbante vendetta che credeva di poter definitivamente estirpare.
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La vendetta nella comparazione tra due modelli storici di giustizia Vanni Piras
1. Sull’origine della vendetta barbaricina La dottrina della vendetta barbaricina come ordinamento giuridico ha particolarmente influenzato la comprensione e la auto-comprensione della storia e, quindi, la prefigurazione e la costruzione del futuro dei Sardi1. Detta dottrina merita una lettura non passiva. A tale proposito, abbiamo già avuto occasione di notare che la «vendetta barbaricina»2, quale troviamo in epoca moderna, non è la continuazione di un istituto giuridico giudicale, sancito alla fine del secolo XIV nella Carta de Logu di Arborea, ove (nel capitolo VI) è posto in capo all’intera Comunità di villaggio l’obbligo di catturare e consegnare agli organi giudi-
1. Si veda A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1959; ora in Id. Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1970; nuova ed., 1993, con una intr. di L.M. Lombardi Satriani, da cui si cita. 2. V. Piras, Vendetta barbaricina. Ordinamento giuridico di origine giudicale o pratica anti-giuridica di origine feudale?, in V. Piras - G.C. Seazzu (a cura di), Istanze comunitarie e Diritto romano. Esempi storici sardi e proposte de iure condendo, Edes, Sassari 2023, pp. 53-73.
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cali l’omicida che ha commesso il delitto nel territorio della Villa3. La vendetta barbaricina è, piuttosto, la degenerazione antigiuridica, nel sopraggiunto contesto centralista, di un istituto giuridico invece essenzialmente qualificato dalla partecipazione (dei membri) di ogni piccola Comunità alla difesa e alla affermazione del diritto. Una organizzazione sociale totalmente differente che poggia sulla esperienza istituzionale giudicale. Pigliaru formula la tesi della «continuità del processo storico» attraverso la quale la pratica della “vendetta barbaricina” prende corpo in Sardegna, collocandone le origini nella epoca giudicale (ovverosia tra la fine del secolo IX e l’inizio del secolo XV)4. La interpretazione, operata da Antonio Pigliaru, della pratica della “vendetta” come “ordinamento giuridico”, appartenente allo “Stato” giudicale e con sanzione scritta nella Carta de Logu, è stata giudicata «davvero suggestiva» ma anche «del tutto inusuale»5. Inoltre, è stato, rilevato come «lacuna» il fatto che «non viene approfondito da Pigliaru» il ruolo della “Corona”, il cardine
3. A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna, cit., p. 173: «Possiamo per altro cominciare a domandarci […] se la comunità barbaricina non sia pervenuta al concetto che la vendetta è un dovere «proprio» attraverso, o anche «anche» attraverso la esperienza di questa perentoria disposizione che fa obbligo all’universalità dei soggetti («tutti gli uomini») di collaborare attivamente (e non solo passivamente) al regime della propria sicurezza […] con tutta probabilità molte cose di una più progredita organizzazione giuridica, le comunità sarde debbono averle apprese ab antiquo già attraverso l’esperienza di questa Carta». 4. A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna, cit., p. 84. 5. F. Sini, Comente comandat sa lege. Diritto romano nella Carta de Logu d’Arborea, Giappichelli, Torino 1997, pp. 14-15.
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dell’ordinamento giudiziario sardo, che troviamo “codificato” nella Carta de Logu6. In effetti, la considerazione della profonda alterità tra la “forma di governo” giudicale (democratica-partecipativa, caratterizzata appunto dall’istituto delle “Coronas” nelle e delle “Ville”) e la subentrata “forma di governo” feudale (elitaria- rappresentativa, caratterizzata dall’istituto parlamentare) rende lecito e perfino doveroso precisare che la “vendetta barbaricina”, quale noi conosciamo, è il risultato non encomiabile della degenerazione di un istituto giuridico di ambiente democratico a pratica anti-giuridica in ambiente anti-democratico. L’accoglienza della dottrina pigliariana in materia di vendetta sarda è ammissibile con la “chiosa” della sua continuità non integrale ma degenerata della procedura penale giudicale, degenerazione causata dalla forzata transizione alla opposta organizzazione feudale. L’accoglimento e l’apprezzamento delle formulazioni pigliariane è andato oltre gli steccati accademici propiziando la formazione di modelli interpretativi fortemente radicati ed esportati, che mettono a fuoco aspetti concernenti l’identità storica, culturale e giuridica del popolo sardo. Nella ricostruzione della storia sarda, e di conseguenza nelle relative teorizzazioni, ha pesato notevolmente l’interpretazione del dato geografico dell’insularità inteso come duplice isolamento, uno marino-esterno e l’altro montano-interno la cui combinazione ha propiziato una resistenza e una impermeabilità a influenze esterne. La prospettiva geografica e le considerazioni sull’insularità sono in linea e seguono quelle
6. F. Francioni, Questione sarda e questione meridionale. Gli strumenti Analitici di Antonio Gramsci e Antonio Pigliaru, in Comitato Archivio Antonio Pigliaru (a cura di), Il soldino dell’Anima. Antonio Pigliaru interroga Antonio Gramsci, Cuec, Cagliari 2010, pp. 115-117.
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formulate della scuola francese che ha proiettato l’immagine della Sardegna come isola-prigione riserva di «vecchie razze eliminate, di antichi costumi, di antiche forme sociali bandite dai continenti»7. Prende avvio, anche attraverso la narrazione d’Oltralpe, l’affermazione dell’arcaicità e dell’isolamento della Sardegna8. L’isolamento montano oltre ad alimentare l’opposizione tra pastori e contadini più in generale spinge i Sardi a rimanere soggetti passivi della storia relegandoli a una condizione di «disperata fedeltà alla propria legge» e di «tenace rifiuto della legge degli invasori»9. Teorie ritenute vere che hanno fornito un chiave ritenuta quasi imprescindibile per la comprensione del passato dell’Isola e che a loro volta hanno condizionato e orientato fortemente la ricerca propiziando un “equivoco nella storia giuridica sarda”. Per correggere una narrazione retorica e ideologica che ha ingenerato nei confronti dei Sardi una connotazione culturale poco nobilitante e alquanto negativa occorre esaminare il fondamento e il grado di aderenza alla storia di queste teorizzazioni. Pertanto nel
7. L. Febvre, La Terre et l’évolution humaine. Introduction géographique à l’histoire, La Renaissance du Livre, Paris 1922; tr. it. di C. Vivanti e A.M. Damiani, La terra e l’evoluzione umana. Introduzione geografica alla storia, Einaudi, Torino 1980, p. 257: «isole-prigione che sembrano tante riserve di vecchie razze eliminate, di antichi costumi, di antiche forme sociali bandite dai continenti». 8. M. Le Lannou, Pâtres et paysans de la Sardaigne, Arrault & Cie, Tours 1941; tr. it. di M. Brigaglia, Pastori e contadini di Sardegna, Edizioni della Torre, Sassari 1979, p. 25: «Caduto l’Impero, isolamento geografico e le difficoltà degli approdi ridiventano fattori decisivi […]. Non toccata dagli stanziamenti di tanti popoli barbari che rigenerarono il mondo occidentale […] le popolazioni indigene furono sempre abbastanza forti per vietare l’accesso ai loro altipiani dalle ripide pareti ed altre invasioni barbariche […] l’isolamento naturale fu rafforzato da un prodigioso isolamento storico». 9. M. Tangheroni, Lunghi secoli di isolamento? Note sulla storiografia sarda degli ultimi trent’anni. I: dal neolitico alla conquista aragonese del 1324, in «Nuova Rivista storica», LXI, 1977, p. 154.
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presente scritto si individuano e si mettono a confronto due modelli storici di giustizia operanti nell’Isola in due contesti differenti: giudicale prima e feudale poi. Modelli storici antitetici, uno autoctono e l’altro imposto, che sono il portato di due tradizioni giuridiche opposte e contrastanti: romana (partecipativa) e germanica (esclusiva)10.
2. Un modello storico autoctono: la giustizia giudicale Lo studio della storia dei Sardi, non ci consente di accettare la dottrina scientifica che vede la vendetta e il banditismo avere la loro patria d’elezione in Barbagia a partire dalla dominazione romana. Pertanto occorre riaprire il dibattito sulla storicità di dette asserzioni11. La vendetta non può essere considerata un retaggio appartenente ai Giudicati. Nella Sardegna giudicale la vendetta non è contemplata come una procedura per “fare giustizia”. L’Isola ha una propria e matura dimensione giuridica, un proprio modello processuale come motore della giustizia pubblica. Esistono procedure giuridiche “codificate” ed è dunque percorribile la via giudiziaria per ottenere giustizia. Secondo l’impostazione dell’ordinamento giudiziario giudicale la commissione di un reato non è un affare privato e ogni forma di giustizia privata è classificabile come deviazione alla via ufficiale. L’Isola offre l’esempio singolare di un modello di giustizia in cui la “partecipazione” è l’elemento qualificante.
10. Per una comparazione tra i due modelli si veda V. Piras, Alcune note e una ipotesi sul “potere” di giudicare, in «Diritto@Storia», n. 13, 2015. 11. Si vedano le precise considerazioni di A. Nasone, Ricomporre l’infranto. Dissoluzione della comunità e codice della vendetta, in «Heliopolis», XIX, n. 1, 2021, pp. 67-83, in part. il § 3, Vendetta e giustizia.
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I Sardi dei Giudicati praticano una organizzazione collettiva di natura democratica, nella quale il fondamento della titolarità e dell’esercizio del potere è posto nella rete delle piccole Comunità locali (le “biddas” ovverosia le “villae” del latino colto) riunite in tre livelli di assemblee, deliberanti in sequenza di dimensione territoriale crescente: le “Coronas de biddas” (cioè le assemblee interne a ciascuna delle “biddas” e composte dai rispettivi abitanti, i quali possiamo propriamente chiamare “cittadini” cives), le “Coronas de curatorias” (cioè le assemblee dei distretti territoriali, nei quali era diviso ogni Giudicato e alle quali partecipavano i mandatari delle “biddas”) e la “Corona de Logu” (cioè la assemblea dell’intero Giudicato, alla quale partecipavano i mandatari delle “curatorias”). Ora, questo genus di organizzazione collettiva è non peculiare sardo ma comune alla intera, tricontinentale Repubblica imperiale romana, della quale ci è, infatti, noto l’istituto dei Concili provinciali delle Città12. La adesione dei Sardi – non riducibile alla loro coazione manu militari – alla organizzazione repubblicana romana, è dimostrata dai “fatti”: i Sardi appaiono addirittura potenziare il sistema civico-partecipativo romano e lo conservano in piena autonomia per cinque secoli dopo che l’ultima nave inviata dall’Imperatore residente in Costantinopoli ha potuto attraversare il Mediterraneo e giungere in Sardegna13. Peraltro, 12. G. Lobrano, Per ri-pensare giuridicamente le «città» e, quindi, l’«im pero»: I «concili provinciali», in «Ius romanum», n. 2, 2017, pp. 77-108, ripubblicato con integrazioni con il titolo Le assemblee provinciali delle Città dell’Impero romano, in A.F. Uricchio - M. Casola (a cura di), Liber Amicorum per Sebastiano Tafaro. L’uomo, la persona e il diritto, vol. I, Cacucci, Bari 2019, pp. 421-456; cfr. R. Martini, Sulla partecipazione popolare ai concilia provinciali nel tardo Impero, in G. Crifò (a cura di), Atti dell’Accademia Romanistica Constantiniana. XIII Convegno internazionale in memoria di André Chastagnol, Perugia, 1-4 ottobre 1997, Esi, Napoli 2001, pp. 709 ss. 13. V. Piras, La pentasecolare esperienza democratica della Sardegna giudicale: non Feudi e loro Parlamento ma (piccole) Città e loro Assesemblee, in «Diritto@Storia», n. 17, 2019.
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durante questi stessi cinque secoli, i Sardi sono riconosciuti come la eccezione alla omologazione feudale, che, nel medesimo periodo, come una “marea”, sommerge la intera Europa e non soltanto. Le strutture giuridiche giudicali sono dunque, rimaste estranee alle forme istituzionali germaniche feudali, permettendo così il mantenimento delle originarie forme giuridiche romane. Secondo le leggi e le consuetudini sarde, il sistema della giustizia non indulge in immunità e privilegi e contempla un “unico” esercizio di giurisdizione, valido sia per i laici che per gli ecclesiastici14. È stata esclusa l’esistenza del «privilegium fori» per il clero, nessun foro speciale fino all’infeudazione (1297) dell’Isola al Re Giacomo II da parte del Papa Bonifacio VIII, come risulta dalle clausole della Bolla di investitura15. Pertanto il sistema delle Corone si può inquadrare tra le forme di “giustizia partecipata”16 in cui la giustizia è «largamente amministrata dalle assemblee popolari» e ciò costituisce un 14. A. Era, Tribunali ecclesiastici in Sardegna, Gallizzi, Sassari 1929, p. 24: «in quel periodo, che appunto fu quello intitolato del governo nazionale dei giudici […] i regoli affermarono la loro autorità di fronte al clero e si mostrarono fermi nel sostenere le prerogative del foro laicale sopra le chiese e i diversi giudizi». 15. Ivi, p. 45: «Il definitivo e completo riconoscimento del privilegio del foro ecclesiastico in materia civile e penale e quindi la costituzione di organismi giudiziari ecclesiastici da considerare come tribunali veri e propri avvenne dunque in Sardegna nell’epoca in cui si andava consolidando la conquista aragonese […] termine a quo la data della Bolla di investitura di Bonifazio VIII per le clausole in esse comprese». 16. G. Pittiu, Il procedimento giudiziario nei Condaghi e nella Carta de Logu, in «Studi Sardi», IV, n. 1, 1940, pp. 39-40: «La giustizia […] aveva, specialmente nell’epoca di autonomia dell’isola, uno spiccato carattere popolare, per la partecipazione del popolo ai giudizi». Per un confronto con il concetto di giustizia partecipata si veda A. Castagnetti, Giustizia partecipata. ‘Lociservatores’, scabini e astanti nei placiti lucchesi (785-822), in «Studi medievali», LVI, n. 1, 2015, pp. 1-25.
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ulteriore tratto distintivo di un territorio non feudalizzato e non caratterizzato dalle «corti di giustizia feudali»17. La dottrina in modo concorde ha sapientemente messo in evidenza, lo spiccato “carattere popolare” del reggimento del governo, “la partecipazione del popolo” ai giudizi, ma anche alle assemblee politiche e amministrative18. I magistrati sardi agiscono normalmente «circondati da una pluralità di persone che prende il nome di corona»19. Punto di partenza del funzionamento di detto sistema organizzativo è la riunione dell’«assemblea locale (collectu, golletorgiu, corona), per le pubbliche decisioni che richiedevano il concorso dei liberi»20.
17. H.J. Berman, Law and Revolution. The Formation of the Western Legal Tradition, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1983; tr. it. di E. Vianello, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, il Mulino, Bologna 2006, pp. 296-299, al contrario nei territori feudalizzati le «corti di giustizia feudali» sono la tipica espressione delle «caratteristiche della giustizia dei signori feudali in tutta l’Europa occidentale». 18. Si veda A. Solmi, Prefazione a i Condaghi di S. Nicola di Trullas e di S. Maria di Bonarcado, Giuffrè, Milano 1937, p. 15: «l’organizzazione della corona, nella triplice forma della corona de rennu, della corona de curatore e della corona de villa, si rivela in tutta la sua varia membratura, per i diversi fini politici, amministrativi, giudiziari di queste riunioni e di questi tribunali»; cfr. R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, in «Archivio storico sardo», XV, 1924, p. 95; G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del libero Comune di Sassari, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1969, p. 19; cfr. A. Marongiu, Storia del diritto italiano. Ordinamenti e istituti di governo, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Modena 1991, p. 169. 19. L. Loschiavo, Ordinamento giudiziario e sistemi di giustizia nella Sardegna medievale, in I. Birocchi - A. Mattone (a cura di), La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 119: «proprio nella corona va individuato l’organo giudiziario per eccellenza». 20. A. Solmi, Studi storici sulle istituzioni della Sardegna nel Medioevo, presso la Società storica sarda, Cagliari 1917, p. 75.
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Durante il secolo XIV i Sardi difendono duramente, armi in pugno, la “loro” organizzazione civica democratica-partecipativa dalla imposizione feudale, che giunge dalla Spagna. È stato scritto che, in epoca giudicale, la mancata penetrazione del Medioevo barbarico e delle «sue idee di giustizia feudale» ha consentito la conservazione di un ordinamento giudiziario che presenta tratti di assoluta originalità21. Nell’età del diritto intermedio, in un contesto europeo ampiamente feudale, si rileva infatti il «permanere di un consistente fondo romano nei costumi giudiziari» nella Sardegna giudicale22. I cives dei Giudicati partecipano ai processi attraverso il sistema delle “Corone”: tribunali/collegi giudicanti composti dai cittadini delle “piccole città” Ville-biddas (le Comunità locali). L’istituto della “Corona” attiene all’organizzazione giudiziaria (oltre a quella politica e amministrativa) della Sardegna giudicale, secondo i tre livelli progressivi che abbiamo ricor-
21. F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Colin, Paris 1949; tr. it. di C. Pischedda, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, vol. I, Einaudi, Torino 1976, p. 23, secondo l’autore «il regime feudale, sistema politico, sociale, economico e, in pari tempo, strumento di giustizia, ha lasciato fuori dalle sue maglie» le isole di Sardegna e di Corsica; cfr. M. Da Passano, Delitto e delinquenza nella Sardegna Sabauda (1823 1844), Giuffrè, Milano 1984, p. 11, scrive di «una ancor viva tradizione romanistica, che perdurava, certo più che nelle leggi, in consuetudini a sfondo romanistico». 22. Si veda L. Loschiavo, Ordinamento giudiziario, cit., p. 117, il quale ritiene «un punto di partenza pressoché obbligato – il permanere di un consistente fondo romano nei costumi giudiziari della Sardegna bizantina e di quella giudicale […]. La ripartizione delle competenze giudiziarie nella Sardegna giudicale trova piena corrispondenza con l’ordinamento provinciale tardo-romano»; cfr. G. Pittiu, Il procedimento giudiziario, cit., p. 43: «la corona sarda nel nome, nella composizione e nel funzionamento, riproduce perfettamente gli elementi e i caratteri del conventus giudiziario romano».
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dato23. A presiedere le assemblee giudicanti sono: il maiore per la Villa, il curatore per la Curatoria e infine il reggitore del Giudicato, Giudice per antonomasia24. La ripartizione delle competenze giudiziarie è effettuata in base alla «distinzione tra cause maggiori e cause minori» le maggiori spettano al Giudice, le minori ai curatori e ai maiores25. La partecipazione del popolo nel giudizio sardo è attestata dalle fonti documentarie ed è espressa nelle formule «parsit iustitia ad iudice et a tottu logu»26, «parsit iustitia assu iudike de factu et a tottu sa corona»27 e «non paruerun bonas sas cartas nen a iudike, nen a llocu»28. Queste formule indicano
23. A. Checchini, Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, Officine grafiche Vecchioni, L’Aquila 1927; ora in Id., Scritti giuridici e storico-giuridici, vol. II, Storia del processo – Storia del diritto privato, Cedam, Padova 1958, pp. 23-24: «l’assemblea del giudicato sardo corrisponde, nella sua costituzione e nel suo ordinamento, e quelle provinciali romane, così alle minori assemblee locali romane, corrispondono le corone locali sarde». Cfr. M. Viora, Recensione a Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, in «Studi sassaresi», VI, 1928, pp. 182-184; il Viora concorda con le posizioni e conclusioni Checchini: «Siamo, dunque, davanti a due tribunali di identica composizione: è logico perciò inferirne la derivazione del secondo, cioè del tribunale sardo, dal primo, il tribunale romano». 24. F.C. Casula, Corona, in Id., Dizionario storico sardo, Delfino, Roma 2003, pp. 469-471. 25. E. Besta, La Sardegna medioevale, vol. II, Le istituzioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, Reber, Palermo 1909; rist. an. Forni, Bologna 1966, p. 95. 26. M. Virdis (a cura di), Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, Ilisso, Nuoro 2003, p. 144, scheda n. 92. 27. Ivi, p. 228, scheda n. 173. 28. I. Delogu, Scheda 205. Il Kertu de S. Elias de Montesantu, in Aa. Vv., La civiltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII. Fonti e documenti scritti, Atti del Convegno nazionale di Sassari, 16-18 marzo 2001, Dessì, Sassari 2002, p. 371, analizza la scheda n. 205 del Condaghe di S. Pietro di Silki che riguarda la corona presieduta da Gonario II Giudice di Torres (1127 al 1153).
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uno stato di inclusione e mostrano una relazione attiva tra tutto (Giudicato) e parte (Ville con i loro abitanti). La dottrina ha messo in evidenza, in modo concorde29, il ruolo del popolo30 nei giudizi «circumstantium corona» e «circumfusa multitudo», che si attua in una presenza capace di «una efficace influenza sulla condotta e sulla decisione dei processi»31. È sulla scorta di queste considerazioni che deve essere letto e interpretato il passo «sos Jurados ed issos hominis de sa ditta villa» del capitolo 6 della Carta de Logu richiamato da Pigliaru32. I sopravvenienti dominatori catalano-aragonesi sono colpiti dall’istituto delle Corone, che essi considerano una specialità della Sardegna: «mos sardiscus» per eccellenza33. Tuttavia, nonostante la tenace “resistenza”34, la legislazione “importata” 29. V. Piras, Istituzioni giudicali. Specificità sarda e continuità romana, Ledizioni, Milano 2021, pp. 23-45. 30. R. Di Tucci, Un organismo giudiziario sardo: la Corona, in «Archivio storico sardo», XII, 1916, p. 99, sottolinea nella corona giudiziaria la partecipazione del popolo, il quale «non assisteva soltanto all’emissione della sentenza o alla rivendicazione dei diritti davanti ai tribunali, e non era cioè un muto spettatore delle contese, ma entrava come costituto integrativo di tutto l’organismo giudiziario, perché concorreva a vagliare le ragioni dei litiganti e influiva nelle decisioni». 31. G. Pittiu, Il procedimento giudiziario, cit., p. 41; cfr. G. Sarrino Satta, L’ordinamento giudiziario sardo (1050-1421), Lobetti-Bodoni, Saluzzo 1908, pp. 5-32. 32. Si veda, supra, § 1. 33. E. Besta, La Sardegna medioevale, vol. II, cit., p. 97. La stessa osservazione è fatta da A. Checchini, Note sull’origine delle istituzioni processuali della Sardegna medioevale, cit., p. 13, il quale però scrive «mos sardicus». Entrambi gli Autori ricavano la informazione da P. Tola, Codex Diplomaticus Sardiniae, vol. I, parte II, E Regio typographeo, Torino 1861 (in Historiae Patriae Monumenta, vol. X), sec. XIV, doc. LXXVI, p. 740: «in corona more Sardico». 34. D. Filia, «Corone» inedite del Podestà in carte sassaresi del sec. XV, in «Studi sassaresi», VI, 1927, pp. 39-56; cfr. A. Castellaccio, Il diritto nella Sardegna medioevale: dalle consuetudini alla forma scritta, in Aa. Vv., La
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e “imposta” dagli occupanti catalano-aragonesi elimina e sostituisce la prassi giudiziaria assembleare35. Ciò che colpisce è la lunga durata del sistema delle Corone, le cui ragioni sono di natura pratica e di diritto. Sul piano pratico le ragioni sono da ricercare nelle sue qualità intrinseche, per la funzione svolta nella storia giuridica sarda, in quanto atte a soddisfare e risolvere le istanze dei Giudicati in generale, e quelle delle comunità di villaggio e urbane in particolare. Sul piano del diritto le ragioni sono da ricercare nell’elevato spessore giuridico e nell’essenza di specchio fedele e genuino dell’organizzazione giudicale.
3. L’amministrazione della giustizia giudicale nelle fonti legislative sarde Le Corone hanno una “codificazione” con relativa disciplina nelle fonti legislative giudicali e comunali. L’amministrazione della giustizia, così come risulta dalla interpretazione della Carta de Logu di Arborea, ha una articolata e precisa trattazione, come si apprende già dal Proemio in cui è dichiarata la ratio della promulgazione: «pro conservari sa Justicia, e pacificu, tranquillu e bonu istadu dessu pobulu dessu renciviltà giudicale in Sardegna nei secoli XI-XIII, cit., p. 132: «tribunale in corona destinato a sopravvivere alla fine dei regni giudicali ed a mantenersi in vigore, proprio per la sua “naturale” aderenza alle caratteristiche della cultura giuridica isolana, anche in ambito catalano-aragonese». 35. A. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, in A. Mattone - M. Tangheroni (a cura di), Gli Statuti sassaresi. Economia, società, istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’Età Moderna, Atti del Convegno di Sassari 12-14 maggio 1983, Edes, Cagliari 1986, p. 428; cfr. A. Era, Il “Juhi de prohomens” in Sardegna, in «Rivista di storia del diritto italiano», II, 1929, pp. 513-520.
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nu nostru»36. Nella Carta de Logu di Arborea vengono menzionate espressamente cinque corone con diverse funzioni in grado crescente: la Corona de maiore de villa (cap. VI); la Corona de curadore (cap. LIV); la Corona de portu (cap. LIII); la Corona de Kita de berruda (cap. LII); la Corona de Logu (cap. LII) 37. In realtà il numero delle corone parrebbe superiore a cinque, in quanto stando alla dicitura del capitolo LIII si desume l’esistenza di altre Corone: «si alcuna persona, a chi at a esser mandada nunza dae Corona de Logu, o dae Corona de Chida de berruda, o dae Corona de Portu, o dae alcun’attera Corona»38. La Corona de villa è il tribunale presieduto dal maiore de villa con una competenza territoriale limitata al villaggio. La delimitazione della competenza territoriale si ricava dal testo del capitolo VI, che si riferisce precisamente al villaggio in sé, ai suoi confini e ai suoi terreni: «villa […] o in confinis e habitacionis dessa villa»39. Ricordiamo che la composizione del tribunale sia per la Corona della villa sia per la Corona della curatoria, secondo il dettato del capitolo LXXI, non deve essere inferiore ai cinque membri «Curadoris, e Mayoris, ciascunu in sa curadorìa, maiorìa, ed officiu suo, non deppiant reer Corona cun minus de chimbi hominis»40. La Corona de curadoria è il tribuna-
36. Si è qui utilizzata l’edizione curata da F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborea. Traduzione libera e commento storico, Delfino, RomaSassari 1995, p. 30. 37. E. Besta, La Carta de Logu quale monumento storico-giuridico, in E. Besta - P.E. Guarnerio, Carta de Logu de Arborea. Testo con prefazioni illustrative, in estratto dagli «Studi sassaresi», III, 1905, p. 30, l’autore nella sua trattazione menziona solo tre corone «la corona de Logu, la corona de chida de berruda e la corona de podestade». 38. F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborea, cit., p. 86. 39. Ivi, p. 40. 40. Ivi, p. 102.
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le presieduto dal maiore de curadoria, composto, come già specificato, da non meno di cinque membri. Detto tribunale viene espressamente indicato al capitolo LIV intitolato De chi hat a mandari nunza dae Corona de Curadori pro larga, over pro alcun atteru maleficiu, riguardante la validità della citazione41. La Corona de Kita de berruda è il tribunale presieduto da un curadori, è indicata espressamente al capitolo LII riguardo la modalità della notificazione della citazione42. La sua composizione oltre al presidente è composta da almeno cinque membri, secondo il capitolo LXV «reer sa ditta Corona assu minus cun chimbi hominis»43. La Corona de portu, è il tribunale presieduto dal maiori de portu è menzionata nel già citato capitolo LIII44. Il principale compito è quello di vigilare sulla commercializzazione, sulla misura e prezzo del vino secondo il capitolo CV45. Nei capitoli LXXI e LXXVII si fa espressa menzione dei componenti della corona, quelli scelti fra il popolo, denominati lieros de Corona, che insieme al giudice compongono il collegio giudicante46. La partecipazione alla Corona da parte dei lieros, ossia l’intervento diretto del popolo all’amministrazione della giustizia, costituisce un serbizu de rennu, considerato un munus publicum, ossia dovere obbligatorio nei confronti del Giudicato, il cui rifiuto è sanzionato con una multa secondo quanto stabilisce il capitolo XVI47. Una considerazione a parte meri-
41. Ivi, p. 88. 42. Ivi, p. 84. 43. Ivi, p. 96. 44. Ivi, p. 86. 45. Ivi, p. 130. 46. Ivi, pp. 102 e p. 108, confrontare col capitolo LX: «lieros chi hant a esser in sa Corona». 47. Ivi, pp. 50-52.
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ta la Corona de Logu, in sardo medievale, significa assemblea plenaria, riunione e adunanza generale, è la massima assise del Giudicato. Riguardo le sue attribuzioni i pareri degli studiosi del diritto non sono concordi, se siano solo politiche o solo giudiziarie, oppure entrambe. Da sottolineare la posizione di Casula, che sostiene l’esistenza di due Corone de Logu distinte «con due funzioni distinte», una con «carattere parlamentare […] la grande Corona de Logu o Parlamento statale» e l’altra con «carattere giudiziario […] la Corona de Logu o Tribunale giudicale»48. Al capitolo LII la si menziona per quanto attiene alla notificazione della citazione «cussa persona chi hat a esser mandada cun nunza dae Corona de Logu»49. La sua composizione era data da «auditori»50 con la qualifica di «probiuomini» capitolo CII con l’ufficio di investigare e raccogliere prove riguardo i furti, così nel capitolo XX «Item ordinamus chi sos Officialis nostros totu de Arbarèe siant tenudos, ciascunu in sa Curadorìa sua, de provari ed investigari sas furas e largas ed issas machicias»51. Anche nella principale esperienza comunale sarda, l’amministrazione della giustizia, così come risulta dalla interpretazione degli Statuti della città di Sassari, ha una precisa “codificazione”. Il principio generale espresso nel giuramento del Podestà, stabilisce che la giustizia deve essere amministrata secondo la legge nei confronti di tutti senza alcuna eccezione: «Justitia açes facher ad tottu, mannos et piçinnos, segundu sos capitulos dessa dicta terra, et usanças longamente abservatas»52. 48. F.C. Casula, Corona de Logu (caratteri generali), in Id., Dizionario storico sardo, cit., pp. 470-471. 49. F.C. Casula, La “Carta de Logu” del regno di Arborea, cit., p. 84. 50. Ivi, p. 264, nt. LXXIII. 51. Ivi, p. 56. 52. G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del libero Comune di Sassari, cit., p. 363.
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L’ordinamento giudiziario rimane imperniato sulle Corone, che hanno competenza su tutte le cause intentate dalle parti53. Negli statuti, le Corone sono menzionate già al libro I, capitolo XXXVI intitolato Dell’acquisto della cittadinanza da parte degli uomini della Romangia si riferisce alla circolazione delle persone nei territori indicati, e per agevolarne immigrazione, e favorirne il nuovo insediamento si contempla la concessione di alcune immunità di carattere reale e personale per i prossimi sei anni54. Il testo recita «et qualunqua persone dave attera parte ad Romangna, o a Flumennargiu aet venne ad habitare, siat liveru et exemptu da ogna servithiu reale et personale sex annos proximos qui aen benne, asteris de oste et de corona»55. Notare che dal novero delle immunità sono esclusi il servizio de oste (militare) e quello de corona. Ben si capisce che il servizio di partecipare alla “corona” è obbligatorio, si tratta di un «serbizio de rennu», e data la tipologia del servizio personale si può anche inquadrare come un diritto personale indisponibile e irrinunciabile56.
53. Si veda V. Piras, Autonomia in Sardegna e in Europa-Italia. L’esempio di Sassari: “Bidda” giudicale prima che “libero comune”, in Aa. Vv., Controversies of the Contemporary Law, Atti della Conferenza internazionale di Sarajevo, 30 ottobre 2021, Facoltà di Giurisprudenza-Università di Sarajevo Est, Sarajevo 2022, pp. 212-265. 54. Anche gli Statuti di Castelgenovese richiamano e mantengono in vigore le corone. Secondo quanto stabilito al cap. CCXL, il podestà detiene i poteri amministrativi, e giudiziari, egli è il giudice e pertanto presiede le corone. Si veda E. Besta, Intorno ad alcuni frammenti di un antico Statuto di Castelsardo, estratto da «Archivio giuridico Filippo Serafini», III, 1899, p. 53. 55. G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del libero Comune di Sassari, cit., pp. 384-385; ivi la traduzione in italiano, p. 172: «qualunque persona venisse ad abitare da qualsiasi parte in Romangia o in Flumenargia sia libera da ogni servizio reale e personale per i sei anni susseguenti al suo arrivo, ad eccezione del servizio di cavalcata e di corona». 56. G. Pittiu, Il procedimento giudiziario, cit., p. 49: «Il partecipare all’amministrazione della giustizia costituiva un serbizio de rennu».
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Una disciplina più puntuale e dettagliata è contemplata al libro II, in cui un intero capitolo, il XVII, è dedicato e intitolato Dessa corona clompita, et dessu numeru de cussa et quantas coronas se fachen sa chita57. Dal contenuto di detto capitolo è chiaro che le corone si tengono secondo una cadenza settimanale, esattamente quattro ogni settimana, e la più importante, in quanto in essa si definiscono le cause in appello, è indicata come clompita. Il Podestà ha l’obbligo di rendere giustizia; a lui o al suo sostituto spetta il dovere di convocare e presiedere le corone58. Le tre ordinarie devono essere composte da un numero non inferiore a quattordici membri. Si precisa, però, che contro la sentenza pronunciata da una corona costituita da un numero inferiore ai diciassette si può ricorrere alla corona clompita ossia «appellare ad corona clompita». La “Corona” completa si tiene minus una volta sa chita, almeno una volta a settimana, con una composizione di diciassette membri, si pone come tribunale sia di primo appello sia di seconda istanza. Infine è espresso il divieto di celebrare le corone nei giorni delle festività solenni, e durante i periodi di grande lavoro nei campi. Nel libro II, capitolo VII, si fa obbligo al notaio del comune di leggere sas sententias dessas coronas immediatamente alla fine della stessa “corona”59. 57. G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del libero Comune di Sassari, cit., pp. 456-457; ivi la traduzione in italiano, pp. 290-291: «Delle “Corone” al completo, del numero dei componenti le “Corone” e di quante “Corone” devono aver luogo ogni settimana». 58. La convenzione del 1294 fornisce il fondamento legalitario al merum et mixtum imperium podestarile, si veda E. Pallavicino (a cura di), I Libri Iurium della Repubblica di Genova, vol. I/7, Ministero per i Beni e le Attività culturali, Roma 2001, n. 1.219 (1294, marzo 24, Genova), p. 277: «omnem iurisdicionem, merum et mixtum imperium ac quamlibet potestatem in dicta terra Sassari et districtu habeat et exerceat et regat secundum capitula et statuta et consuetudines loci predicti». 59. G. Madau Diaz, Il Codice degli Statuti del libero Comune di Sassari, cit., p. 452: «Siat tentu su notaiu dessu Cumone leier incuntanente in sos
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Infine nel libro II, capitolo XXXVII Dessas appellationes fissa i criteri della formazione della “corona” di ultima istanza, la cui composizione deve essere di ventiquattro giurati, i quali devono giudicare gli appelli ed emettere regolare sentenza secondo il criterio di maggioranza60. È compito del Podestà, o del suo sostituto, indire la “corona” dei ventiquattro, una volta al mese, e ogni volta che ne ravvisi la necessità61.
4. Un modello storico imposto: la giustizia feudale Dopo la caduta del giudicato d’Arborea (1420) tutto il territorio dell’Isola soggiace al nuovo sistema di governo e si completa la feudalizzazione della società con l’esclusione dalla partecipazione alla vita pubblica dei cives62. Con il definitivo consolidamento del potere feudale, i baroni estendono la loro cosinços, et in sas coronas sas summas dessos cosinços, et issas sententias dessa coronas, si comente per issos juratos, et per issos cosinçeris, over per issa maiore parte de cussos saen dare, inanti qui atteru cosinçu, over qui atteru piaitu si incominçet, over se finiat. Et si non se aen leier»; ivi la traduzione in italiano, p. 285. Si badi che sia le deliberazioni dei consigli che le sentenze debbono essere prese a maggioranza «issa maiore parte» e si noti che detto capitolo fissa l’obbligo di lettura alla fine di ogni assemblea, riferendosi contestualmente a «sos cosinços» e a «sas coronas». 60. Ivi, pp. 466-467; ivi la traduzione in italiano, pp. 304-305. 61. Riguardo la corona de potestade si veda E. Besta, La Sardegna medioevale, vol. II, cit., p. 100; cfr. R. Di Tucci, Il diritto pubblico della Sardegna nel Medio Evo, cit., p. 98. 62. A tale riguardo vedere in R. Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe, tr. it. di M.D. Grendi, Laterza, Bari 1969, pp. 50-51, il passaggio che rimarca gli effetti della feudalizzazione: «Un sistema di giurisdizioni, e immunità separate e che si sovrappongono reciprocamente. Ogni giurisdizione concede diritti pubblici positivi che permettono a persone particolarmente privilegiate e a gruppi corporativi di esercitare una specifica autorità ed imporre tasse e gabelle per tali funzioni».
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giurisdizione in ogni ambito della vita pubblica, sottraendo competenze e prerogative al popolo63. Con la feudalizzazione dell’Isola, nei territori assegnati, l’amministrazione della giustizia spetta ai feudatari che la esercitano in forza della concessione del Re sotto forma di privilegio. Con l’attribuzione del “mixto imperio” e del “mero imperio” i feudatari, nell’ambito di rispettivi feudi, godono della «più ampia autonomia» e possono chiedere «ai vassalli donativi e prestazioni di servizio militare «tamquam reges»» divenendo così «simili a tanti piccoli sovrani»64. La “giustizia feudale” e la sua amministrazione diventano un ulteriore strumento di controllo e di oppressione, attraverso un reticolato di giurisdizioni speciali e di immunità, ad appannaggio dei feudatari, del clero e delle città regie. Seppure nei diplomi di concessione dei feudi sia espresso il divieto, mediante apposita clausola, di non angariare gli abitanti delle ville «homines villarum male tractare», gli arbitrii e i soprusi, soprattutto nell’amministrazione della giustizia diventa-
63. F. Floris, I Carroz di Mandas nel XIV e nel XV secolo, in U. Oppus (a cura di), Dalla curatoria di Seurgus al Ducato di Mandas: mille anni di storia, Arkadia, Cagliari 2016, p. 11: «Il nuovo sistema finì per radicare i feudi alla realtà sarda in modo definitivo, a ciò concorsero tre elementi: la acquisizione della pienezza dei poteri giurisdizionali da parte dei feudatari, la trasformazione dei feudi in allodio, il processo di evoluzione delle oligarchie urbane». 64. A. Boscolo, La feudalità in Sicilia, in Sardegna e nel napoletano nel basso medioevo, in «Medioevo», I, 1975; ora in Id., Saggi di storia mediterranea tra il XIV e il XVI, Il Centro di ricerca, Roma 1981, pp. 121-122: «Ai feudatari spettava anche l’amministrazione della giustizia e in questa materia, col passar del tempo, le prerogative e i poteri dei signori andarono aumentando. Agli inizi del feudalesimo, infatti, il sovrano concedeva il “mixto imperio” corrispondente alla giurisdizione completa, alta e bassa, nelle cause civili e a quella bassa nelle cause penali, così che i vassalli potevano ricorrere in appello in appello ai tribunali regi; ma in seguito, nel corso del Trecento e del Quattrocento, i feudatari riuscirono ad ottenere anche il «mero imperio», cioè l’alta giurisdizione nelle cause penali».
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no la prassi comune65. L’introduzione del nuovo ordinamento giuridico non solo priva i Sardi del vecchio modello partecipativo ma li condanna a una continua e ineludibile soccombenza nei processi66. Una giustizia che non può perseguire e garantire l’equità e che paragonata al «periodo precedente» fa riscontare «una degradazione […] della legge, da cui viene spesso meno il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte ad essa»67. Ben si intuisce che gli squilibri sociali determinano un clima di violenza e di recrudescenza della criminalità. La titolarità del feudo è in capo ai baroni, che di solito dimorano in città, soprattutto in quelle principali di Cagliari e Sassari, mentre l’effettiva amministrazione del feudo è affidata ai Reggidori e Podatari68. Alla figura del Reggidore è delegata l’amministrazione della giustizia e alla figura del Podatario l’amministrazione economica. Il Reggidore ha competenza in primo grado e amministra la giustizia «nel capoluogo del feudo, mentre nei piccoli villaggi veniva amministrata, per subdelega del Reggidore, dai Maggiori di giustizia, scelti su lista
65. A. Boscolo, Premessa, in Id. (a cura di), Il feudalesimo in Sardegna. Testi e documenti per la storia della questione sarda, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1967, p. 3: «gli arbitrii del signore furono la caratteristica dominante del feudo sardo sin dalle sue origini, e uno dei motivi della ribellione isolana contro i re d’Aragona […] va ricercato proprio nel brusco passaggio degli abitanti dei villaggi da liberi in vassalli e negli arbitrii ai quali erano sottoposti». 66. Ivi, p. 4: «il vassallo poteva ricorrere in appello ai tribunali regi, detti curie, ma le difficoltà burocratiche, la lontananza delle curie stesse dal feudo, i legami dei feudatari con i funzionari preposti alla giustizia glielo impedivano». 67. A. Castellaccio, Note sull’amministrazione della giustizia in Sassari (1341-1343), in Id., L’amministrazione della giustizia nella Sardegna aragonese, Gallizzi, Sassari 1983, p. 36. 68. F. Carboni, Alcune osservazioni sui diritti feudali, in «Archivio sardo per il movimento operaio, contadino e autonomistico», n. 11-13, 1980, p. 321: «esperto di diritto feudale e minuzioso conoscitore della macchina giudiziaria feudale».
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di tre nomi o terna presentata dai capi-famiglia delle ville»69. Nell’ambito del regime feudale si ha una concezione patrimoniale dell’amministrazione della giustizia si considera come un «cespite di entrate patrimoniali fino ad arrivare talvolta al mercato della giustizia, cioè all’arrendamento […] vendita degli uffici, cui era annessa giurisdizione e amministrazione della giustizia, benché proibiti dalla legge»70. La giustizia, non si pone solo come applicazione del diritto ma si pone soprattutto come fonte di guadagno71. Riguardo il funzionamento dell’apparato giudiziario si parla di «criminalità istituzionale» considerate le irregolarità nei procedimenti, i soprusi, i peculati, le esosità fiscali dei funzionari feudali e dato l’elevato numero dei casi di «abuso commessi impunemente dai giudici»72. L’accesso alla giustizia risulta proibitivo per gli strati più poveri della popolazione dato l’elevato costo del processo a carico delle parti. I meno abbienti erano costretti a desistere considerata la tassa da pagare per la sentenza. Ulteriori spese e quindi problemi si configurano per appellare la sentenza. Le spese abnormi della “giustizia” gravano pesantemente sugli abitanti 69. L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy (1700-1799), in M. Brigaglia (a cura di), La Sardegna. Tutta la storia in mille domande, La Nuova Sardegna, Sassari 2011, p. 33. 70. F. Loddo Canepa, Ricerche e osservazioni sul feudalesimo sardo dalla dominazione aragonese, in «Archivio storico sardo», XI, 1915, pp. 1-32, in particolare il § III, Gli abusi baronali, i proventi della giustizia, gli arrendamenti; cfr. G. Spanedda, Giustizia e comunità nella baronia di Ploaghe (1420-1839), Delfino, Sassari 1995, in particolare il cap. III, La giurisdizione baronale. 71. G. Murgia, Banditismo e amministrazione della giustizia nel Regno di Sardegna nella prima metà del Seicento, in F. Manconi (a cura di), Banditismi mediterranei. Secoli XVI-XVII, Carocci, Roma 2003, p. 353: «Scopo della giustizia penale, infatti, non era quello di infliggere la giusta pena, anche restrittiva della libertà personale dell’imputato di reato, quanto quella di ottenere denaro». 72. Ivi, p. 352.
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delle ville, e non tutti possono esperire un’azione giudiziaria per difendere i propri interessi. Ma ciò che più conta ai fini della presente trattazione è che la villa, cellula fondamentale della società sarda ma anche primo ingranaggio del meccanismo di giustizia è colpita a morte dai feudatari assurti a «domini villarum» su cui esercitano un controllo assoluto73. Negli anni tra il 1564 e i 1573 Filippo II istituisce la Reale Udienza, soprattutto per agevolare l’iter delle cause criminali. Il novello tribunale, inviso ai baroni che temono una limitazione alle loro prerogative giurisdizionali, in concreto non apporta alcun correttivo apprezzabile al cattivo funzionamento giustizia feudale74. I mali e le storture del sistema giudiziario sardo continuano nonostante l’Isola sia passata sotto il dominio sabaudo75. Non è un caso che Gian Lorenzo Bogino, Ministro degli Affari di Sardegna dal 1759 al 1773, inaugura la stagione delle riforme con l’Editto del 13 marzo 1759 per il riordinamento della giustizia. L’Editto non sortisce alcun effetto positivo in quanto «troppo timido nei confronti della giurisdizione baronale e per di più male applicato»76. In un progetto proposto 73. A. Solmi, Ademprivia, in A. Boscolo (a cura di), Il feudalesimo in Sardegna, cit., p. 101: «E tutto ciò scendeva dal concetto medesimo di feudo, poiché per esso, mentre al sovrano era riservato il dominio diretto del suolo, ai feudatari era concesso il dominio utile […] I signori, fatti “domini villarum”, tendevano ad arrogarsi anche il regolamento del patrimonio spettante alle ville, e quindi a costituire anche su questo un dominio diretto». 74. U. Oppus, Sa giustizia ti cruxat. L’amministrazione della giustizia in Sardegna tra il XVI e il XIX secolo. Il caso del Ducato di Mandas, Arkadia, Cagliari 2016, p. 252. 75. E. Mura, Intorno ad un pregone del viceré de Moncada sull’amministrazione della giustizia, in «Archivio storico sardo di Sassari», VIII, 1982, p. 223, si sofferma sulla «lentezza dei procedimenti […] e sull’incapacità dei giudici, con particolare riferimento ai reggitori delle giurisdizioni baronali». 76. I. Birocchi, Il Regnum Sardiniae dalla cessione dell’isola ai Savoia alla «fusione perfetta», in M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sar-
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da un giudice della Reale Udienza, datato 1773, in maniera esplicita si ascrive la causa della cattiva amministrazione della giustizia ai feudatari che nella nomina dei giudici ordinari dei villaggi baronali optano per persone a «loro accette», ossia a loro fedeli, seppur «ignoranti e di poca probità» e comunque a scapito della «giustizia popolare»77. Ma ancora nel 1795 gli “strumenti di concordia e unione”, che connotano la “Sarda Rivoluzione”, rivendicano «l’abolizione della giurisdizione feudale e il riscatto dei feudi»78. Ma soltanto il Re Carlo Alberto, con la Carta Reale del 21 maggio 1836, decreta l’abolizione del feudalesimo e avoca a sé il diritto di giurisdizione sino ad allora di spettanza dei baroni79. Una data che fissa la fine dell’«ingerenza baronale nell’amministrazione della giustizia punitiva» e al contempo del «disordine giudiziario»80. I secoli
degna, vol. IV, L’età contemporanea. Dal governo piemontese agli anni Sessanta del nostro secolo, Jaca Book-Banca Popolare di Sassari, Milano 1990, p. 185: «Per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia certo bruciavano gli atteggiamenti presenti nella monarchia piemontese […] era stato emanato solo l’editto del 13 marzo 1759». 77. G. Pillito, Dizionario del linguaggio archivistico in Sardegna, Timon, Cagliari 1886, pp. 37-38: «Nel villaggio d’Orgosolo eravi un Giudice che appena sapeva leggere e scrivere. Il Giudice di Maracalogonis era un droghiere […] il Giudice di Marrubiu era un carpentiere». 78. M. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità, in L. Berlinguer - A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998, p. 127: «le rivendicazioni dei villaggi logudoresi mostrano una diversa consapevolezza: che puntava non più alla sospensione dei pagamenti dei contributi controversi, quanto piuttosto alla soppressione dei diritti e della giustizia baronali». 79. Si vedano i Documenti sull’abolizione del feudalesimo, in A. Boscolo (a cura di), Il feudalesimo in Sardegna, cit., pp. 27-46, in particolare l’Editto prescrivente la soppressione della giurisdizione feudale. 80. E. Besta, Sardegna feudale, in «Annuario della Regia Università degli Studi di Sassari», 1900; ora in A. Boscolo (a cura di), Il feudalesimo in Sar-
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che vanno dal XVI sino alla “Sarda rivoluzione” del 1793-96, sono segnati dalla giustizia baronale con il peso dei feudatari nell’apparato giudiziario. Non può essere diversamente data l’immedesimazione organica tra feudo e giustizia espressa in maniera eloquente, alla fine del XIII secolo, dal giureconsulto francese Philippe de Beaumanoir: «feudo e giustizia sono la stessa cosa»81, e peraltro si è autorevolmente sostenuto che «il Medioevo, e l’era feudale in particolar modo, vissero sotto il segno della vendetta privata»82. Così in Sardegna, dopo i Giudicati, «nasce dal feudo la pedagogia della ribellione» e dalla relativa «ingiustizia del sistema feudale», e sono le faide nobiliari le prime a lacerare la vita delle Comunità83.
degna, cit., pp. 196-197: «le Sardegna, emancipata dalle influenze medioevali, s’incamminò veramente verso un assetto moderno». 81. P. de Beaumanoir, Coutumes de Beauvaisis, a cura di A. Salmon, vol. I, Picard, Paris 1899, pp. 294-301, cit. da H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, cit., p. 304. 82. M. Bloch, La société féodale, Albin Michel, Paris 1949; tr. it. di B.M. Cremonesi, La società feudale, Einaudi, Torino 1976, pp. 149-150: «Entrava allora in azione il gruppo familiare e nasceva la «faida» secondo l’antico termine germanico che si diffuse a poco a poco in tutta l’Europa»; M. Caravale, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, il Mulino, Bologna 1994, p. 20. Cfr. F. Sciacca, Il potere della vendetta. Quattro lezioni, AlboVersorio, Milano 2018, p. 66; T. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, il Mulino, Bologna 2007, p. 36. 83. M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Carte segrete, Milano 1971, pp. 58-66: «Dall’ingiustizia del sistema feudale nasce la ribellione dei sudditi […]. Non c’è banda, nel Settecento, che non faccia capo ai nobili […] diventano alleati dei nobili nella lotta contro lo Stato […]. I baroni non hanno soltanto i loro “bravi” che eseguono ordini singoli all’interno del feudo, né soltanto i loro giudici che amministrano la giustizia nell’interesse politico ed economico del signore: hanno anche quadrillas, bande che stanno alla campagna e che ricevono da loro ordini, ricompense, protezione».
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Sulla scorta di quanto esposto si deduce che è l’amministrazione della giustizia con le storture e gli abusi della giurisdizione baronale a costituire «la causa primaria del banditismo»84. Devono essere ricercate nel contesto medievale-feudale le cause originarie di malessere e di crisi dell’ordine pubblico, con il relativo attecchire dei germi della violenza e della vendetta85.
5. L’amministrazione della giustizia feudale nelle fonti legislative spagnole In un contesto europeo ampiamente feudale vige il «principio di giustizia che ogni signore avesse il diritto di presiedere una corte di giustizia, ovvero di essere a capo, al di sopra dei vassalli – o dei suoi fittavoli […] dei processi»86. Anche in Sardegna la
84. L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy, cit., p. 67: «Il banditismo fu sicuramente, nella prima metà del Settecento, il fenomeno più destabilizzante della società sarda […]. Il fenomeno è in primo luogo conseguenza della cattiva amministrazione della giustizia, soprattutto nelle campagne dove, nel primo grado di giudizio, essa era amministrata dalle Curie baronali, gestite da funzionari corrotti e interamente succubi al potere dei feudatari e dei loro amministratori». 85. M. Da Passano, Il diritto penale sardo nel XVIII secolo, in «Archivio sardo del movimento operaio contadino e autonomistico», n. 29-31, 1990, p. 205: «Il primo e maggiore problema è determinato dalla sopravvivenza del sistema feudale, che, da un punto di vista, comporta l’esistenza di una divisione fra le zone sottoposte alla giurisdizione baronale (di prima e, di seconda istanza) e quelle sottoposte alla giurisdizione regia [si determina una] disparità di trattamento fra i sudditi (sono numerosissime per tutto il corso del Settecento le lamentele per il modo in cui viene amministrata la giustizia nelle curie baronali e per come vengono scelti i ministri di giustizia». 86. H.J. Berman, Diritto e rivoluzione, cit., pp. 296 e 297: «Il concetto dominante del processo era il «processo in corte»: il signore presiedeva, sia in persona sia tramite i suoi amministratori».
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sopraggiunta esperienza medievale feudale è portatrice di un differente contenuto sociale e giuridico che progressivamente porta a cambiamenti radicali e a uno stravolgimento degli assetti precedenti. Un “altro” sistema di giustizia impiantato dagli Spagnoli e caratterizzato da una profonda discontinuità storica, che avrà ripercussioni su tutto il diritto pubblico che si svilupperà di lì in poi fino all’età moderna. Con il subentrare della istituzione feudale-parlamentare nella organizzazione giudicale, cioè nel sistema delle Ville-biddas strutturate dinamicamente nelle Corone, viene meno la giustizia partecipata. Il diritto feudale diventa uno strumento egemonico di penetrazione sempre più intensa nella cultura giuridica sarda, producendo stravolgimenti, tra cui anzitutto, il mutamento della tradizionale concezione di giustizia. I feudatari esercitano il diritto di giurisdizione nella piena consapevolezza che fosse il cardine dei loro privilegi. Informazioni e dati essenziali sull’amministrazione della giustizia al tempo degli Spagnoli in Sardegna, si ricavano dall’opera Capitula sive Acta curiarum Regni Sardiniae di Giovanni Dexart, giudice civile della Reale Udienza. L’opera pubblicata nel 1645, dedicata al Re Filippo IV, è divisa in otto libri suddivisi a loro volta in titoli e in capitoli87. Ciascun libro disciplina una determinata materia e raccoglie i capitoli di corte sull’argomento88. Il Dexart, nel Proemio, mette in evidenza la natura contrattualistica, «naturam contractus», dei capitoli di corte89. Essi sono il risultato di un 87. Per un profilo biografico di Giovanni Dexart si vedano F.C. Casula, Dexart, Giovanni, in Id., Dizionario storico sardo, cit., p. 524; cfr. F. Floris, Dexart, Giovanni, in Id. (a cura di), La grande Enciclopedia della Sardegna, Edizioni Della Torre-Newton & Compton, Cagliari-Roma 2002, p. 295. 88. I. Dexart, Capitula sive Acta curiarum Regni Sardiniae sub invictissimo Coronae Aragonum imperio concordi trium brachiorum aut solius militari voto exarata, 2 voll., apud Bartholomaeum Gobettum, Calari 1645; cito dall’edizione del 1720. 89. Ivi, vol. I, pp. 14-19.
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accordo fra le parti, concessi in vim contractus, dai quali scaturiscono determinati obblighi. I vincoli derivanti da questi accordi possono essere modificati soltanto con il consenso di chi ha votato i capitoli stessi. L’impianto contrattualistico mostra chiaramente la struttura del Parlamento sardo, che è la riproduzione – più o meno precisa – di quello catalano-aragonese, organizzato come le Corts in tre Estaments: ecclesiastico, militare, reale o cittadino e operante secondo la formula per la quale «Parlaments se celebren conforme a la pratica cathalunya»90. Ricalcando la strutturazione e il funzionamento del cosiddetto pattismo iberico il Parlamento sardo comprende gli elementi formali che caratterizzano l’istituto parlamentare e che connotano il rapporto contrattuale tra Re e Stamenti91. Da quanto si apprende dalla raccolta dei Capitula sive Acta curiarum i feudatari, che compongono il braccio militare hanno ottenuto, da parte del Re, particolari concessioni nell’amministrazione della giustizia. Si può affermare che questa è completamente 90. G. Zirolia, Sugli Stamenti di Sardegna, in estratto dal «Filangeri», XII, 1892, p. 15: «Questa formola dei re spagnuoli […] palesa di per sé stessa come i nostri Stamenti fossero l’attuazione dei sistemi di governo vigenti nella Spagna»; cfr. R. Conde y Delgado de Molina, La Sardegna aragonese, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. II, Il Medioevo. Dai Giudicati agli Aragonesi, Jaca Book-Banca Popolare di Sassari, Milano 1988, p. 274: «Il Parlamento sardo è un’importazione dai territori iberici, non un’evoluzione di possibili strutture autonome. Quando il parlamento raggiunge la sua pienezza formale, riflette un modello chiaramente catalano». 91. A. Marongiu, I Parlamenti sardi. Studio storico istituzionale e comparativo, Giuffrè, Milano 1979, p. 65: «concezione contrattualistica di governo legittima, in certo modo, la persistenza del sistema feudale»; cfr. A.M. Oliva, I parlamenti del Regno di Sardegna, in A.M. Oliva - O. Schena (a cura di), Sardegna Catalana, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona 2014, p. 138: «L’integrazione del regno di Sardegna nella struttura istituzionale della Corona d’Aragona ebbe un ulteriore punto di forza nell’introduzione del parlamentarismo di tipo catalano che si fondava sul principio del pactismo, su una concezione contrattualistica del rapporto con la Corona».
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assorbita nel sistema feudale e nel fitto reticolato di privilegi92. La giurisdizione stessa è un’attribuzione fondamentale della investitura feudale93. La disciplina è indicata nel libro VII, titolo II, capitolo I, rubricato De Iurisdictione Baronum, suorumque Privilegiorum confirmatione94. Solo il barone ha il diritto di processare l’ufficiale o il procuratore, da lui nominati e che pertanto hanno lo status di suoi vassalli95. In ordine alla giurisdizione, confermata dal Re in forma di privilegio, ogni barone e feudatario hanno giurisdizione civile e criminale: «placia à vostra Magestat fer gracia, è confirmar los privilegis, è concessions ab la jurisdictions Civil, è Criminal mer, è mixt Imperi, lo hus, y exercici iuxta tenor de llurs privilegis, è concessions» secondo i diritti di investitura96. I baroni non dovevano essere ostacolati da nessuno nell’esercizio della loro giurisdizione97.
92. P. Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, Tip. A. Timon, Cagliari 1852, p. 9, riferito agli interessi degli Stamenti afferma: «intendevano a salvare decime, feudi, esenzioni, preminenze, giurisdizioni, monopolj, e, ciò che è peggio, a ricuperare i perduti brani di potere e privilegio. Domandarono perciò la riconferma anche dei privilegj andati in desuetudine». 93. F.C. Casula, Investitura feudale, in Id., Dizionario storico sardo, cit., p. 781. 94. I. Dexart, Capitula sive Acta curiarum Regni Sardiniae, cit., vol. I, pp. 497-508. 95. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. I, p. 497: «Item que cascun Baro, Cavaller ò feudatari havent jurisdictio Civil, ò Criminal, ò tant solament Civil puga inquirir, ò procedi juridicament contra los officials, ò procurador qui ell mateix haurà posat, y ordenat en la Baronia, ò feu del qual Baro, Cavaller, ò Feudatari lo dit Procurador, ò Official nos puga appellar, ni haver recors al Señor Rey, ni a sos Officials». 96. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. VIII, p. 501, si confronti con il lib. VII, tit. II, cap. II, p. 498: «Item com la jurisdicion Civils è Criminals sien dades als Barons è Heretats del Regne de Sardeña per lo Señor Rey, è per los Capitols de las Corts per lo Señor Rey confirmades». 97. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. IX, p. 501: «no sian perturbats en sas juirdtictions, ansque las puga defensar, y administrar».
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Anche le grida del Re98 o del Viceré99 non producono effetto alcuno che possa pregiudicare la giurisdizione baronale. Si sancisce il diritto a favore dei baroni, che qualora lo ritengano opportuno, possano perdonare o commutare la pena a qualsiasi reo100. Gli stessi vassalli reali che hanno contrattato nelle ville siano soggetti alla giurisdizione baronale101. Inoltre hanno facoltà i militari di appellarsi al Re da ogni sentenza del Viceré102. Tra gli altri privilegi è prevista l’esenzione dalla giurisdizione del Veghiere103. Hanno il privilegio di essere giudicati da un tribunale di probi uomini e non possono essere tradotti fuori dal regno104. È espresso il divieto di istruire un processo segreto contro i Baroni105. A loro favore è sancita la quasi esclusione dal potere di comminare la pena della tortura se non in alcuni casi106. In definitiva l’uso strumentale della giu98. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. XXVI, pp. 507-508: «Crides Reals no causan perjudi à la jurisdictio dels Barons». 99. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. XVII, p. 504: «Crides del Virrey no perjudiquen als Barons». 100. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. XXIII, pp. 506-507: «los Señors de vaffals pugan commutar, perdonar, ò compofar qualfevol que fia condennat en la fua jurisdictio apres de la dita condennacio». 101. Ivi, vol. I, lib. VII, tit. II, cap. XXVII, p. 508: «Vassals Reals contractant en les viles sian subjectes à la jurisdictio dels Barons». 102. Ivi, vol. I, lib. V, tit. VII, cap. I, p. 449: «Item, que cascun Bara, Cavaller, Heretat y qualsevol altra persona axi Ecclesiastica, com secular se puga appellar al Señor Rey». 103. Ivi, vol. II, lib. II, tit. III, cap. XX, p. 384: «tots los Cavallers, Nobles, y que gozan privilegi Militar, son estats sempre, y son exemptes de la Juridictio dels Vigueurs». 104. Ivi, vol. II, lib. II, tit. III, cap. VI, p. 352: «Militars sian judicats ab consell de probomens, y no sia extrets del Regne». 105. Ivi, vol. II, lib. II, tit. III, cap. III, p. 350: «ningun proces de Cambra, no puga esser fet contra algun Baro, ò cavaller». 106. Ivi, vol. II, lib. II, tit. III, cap. V, p. 351: «Torturats no poden ser los Militars sino en certis casos».
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stizia feudale propizia le «parcialidades» interne ai villaggi e causa la cosiddetta «falta de justicia» così da costituire uno dei più gravi problemi dell’Isola107.
6. La genesi di un equivoco nella storia giuridica sarda C’è una narrazione che ha contributo alla diffusione di una certa idea di vendetta e di banditismo, nonché di Sardegna108. Si tratta delle teorie che hanno proiettato una visione che, anche se non integralmente accettata dalla coscienza della cultura occidentale, ha gravato sulla storia dei Sardi e sulla loro immagine nel mondo109. Già dal Settecento, ma soprattutto nell’Ottocento la storiografia francese inizia a occuparsi delle condizioni economiche e sociali della Sardegna. Si riscontra
107. A. Nieddu, Violenza, criminalità, banditismo nelle campagne. Dalla giustizia baronale all’istituzione della sala criminale nella Reale Udienza del Regno di Sardegna fra XVI e XVII secolo, in «Acta Histriae», X, 2002, n. 1, pp. 82-83. 108. S. Berni - G. Cosi, Fare giustizia. Due scritti sulla vendetta, Giuffrè, Milano 2014, p. 9: «gli antropologi riconoscono certe caratteristiche tipicamente violente nelle culture cosiddette pastorali. In esse i maschi si considerano “valenti”, hanno un senso dell’onore molto marcato, difendono il proprio territorio, i propri armenti, le proprie donne, e ogni sopruso è destinato ad essere ricompensato con una reazione violenta che spesso alimenta faide. Solo per rimanere vicino a noi, nel bacino mediterraneo, conosciamo l’uso della vendetta in Sardegna». 109. C. Cantini Eggemberger, Appunti per una storia del banditismo sardo, in «Ichnusa», n. 37, 1960, p. 20: «Sulla fine del medioevo si delinea sempre più nettamente la frattura psicologica che si concretizza in un profondo dissidio tra il mondo contadino e quello dei pastori. Le cause risalgono, come si è visto, all’occupazione romana […] da una parte si trovarono i ribelli, divenuti pastori nomadi, e dall’altra gli agricoltori»; p. 23: «la vendetta sostituisce, in un certo senso, nel secolo 19.mo, la reazione alle vicende storico-politiche del passato».
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un interesse scientifico concreto verso i suoi sviluppi storici e giuridici già nel 1825 con Jean François Mimaut. Nell’opera Histoire de Sardaigne dedica un paragrafo intitolato Le Sardes montagnards résistent à la puissance des Romains delineando presunti tratti peculiari dei barbaricini110. Egli parla degli Ilienses, fuggiaschi dell’antica Troia, poi rifugiati nelle Barbagie che vivono “di rapine e di piraterie”, terrorizzando i vicini e difendendo strenuamente la loro indipendenza contro i Cartaginesi e i Romani111. L’autore francese rimarca che i barbaricini conservano, nonostante la mescolanza delle razze, i loro costumi e la loro «physionomie primitives»112. Mimaut riguardo la civilizzazione della Sardegna afferma: «elle pénètre plus difficilement dans les montagnes, et celle de cette île sont, plus que celles d’aucun autre pays, séparées de tout le reste d’Europe» in cui rimane radicato «l’esprit de vengeance», uno spirito di vendetta che costituisce la causa dei numerosi assassini113. Nella trattazione dello storico d’Oltralpe s’intravede il nesso tra il mondo pastorale e il banditismo, si riscontrano i temi dell’inclinazione alla violenza «animosité individuelle» e la localizzazione nelle zone della Barbagia pastorale: «dans les villages de l’intérieur et dans les montagnes»114.
110. J.F. Mimaut, Histoire de Sardaigne, ou La Sardaigne ancienne et moderne considérée dans ses lois, sa topographie, ses productions et ses mœurs, vol. I, Blaise, Paris 1825, p. 37. 111. Ivi, vol. I, p. 16: «de rapines et de pirateries, se rendit la terreur de ses voisins […] défendre avec énergie sa fière indépendance contre la puissance des Carthaginois et même contre celle des Romains». 112. Ivi, vol. I, p. 17: «conservent, malgré le mélange des races et le cours des âges, beaucoup de traits de leurs mœurs et de leur physionomie primitives». 113. Ivi, vol. II, p. 671: «elle pénètre plus difficilement dans les montagnes, et celle de cette île sont, plus que celles d’aucun autre pays, séparées de tout le reste d’Europe». 114. Ibidem.
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L’attenzione per la Sardegna poi cresce con «l’affermarsi del l’antropologia criminale»115. Un ulteriore e deciso punto di avvio di queste elucubrazioni pare essere il dibattito tenuto presso la Société d’Anthropologie di Parigi il 20 aprile 1882116. In detta seduta di studio l’oggetto di indagine scientifica è l’antropologia e l’etnologia del popolo sardo. Da qui parte una specifica narrazione, e tra le teorizzazioni degli scienziati della Société d’Anthropologie spiccano e si affermano le tesi di Charles Letourneau. Gli scienziati francesi guardano alla Sardegna e alla sua posizione geografica e misurano la situazione geopolitica in base alle sue vicende storiche. L’Isola è identificata come laboratorio in cui proiettare e sperimentare le proprie teorie considerata la natura come il fattore determinante delle sorti della sua popolazione. Tracciano una linea di ricerca in cui si inseriscono successivamente gli studi di Cesare Lombroso e Alfredo Niceforo117. Essi in maniera non episodica ma continuata, si pongono come vettori di un’interpretazione, applicano i principi del positivismo evoluzionistico, trovando una legittimazione e una «sistemazione scientifica» alla supposta inferiorità fisica del popolo sardo118. Le enunciazioni di alcune teorie hanno assunto un significato dogmatico incontournables che ha trovato largo accoglimen-
115. M. Da Passano, La criminalità e il banditismo dal Settecento alla prima guerra mondiale, in L. Berlinguer - A. Mattone (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Sardegna, Einaudi, Torino 1998, p. 483. 116. A. Mattone, «I Sardi sono intelligenti?». Un dibattito del 1882 alla Société d’Anthropologie di Parigi, in «Archivio storico sardo», XXXV, 1986 (Studi storici in onore in di Giovanni Todde), pp. 323-340. 117. A Mulas, Il regionalismo nell’opera di Cesare Lombroso e della sua scuola, in «Archivio storico sardo», XXXII, 1981, pp. 311-347. 118. A. Mattone, «I Sardi sono intelligenti?», cit., p. 336: «si può dire che gli antropologi e i criminologi della scuola positiva portano alle estreme conseguenze le affermazioni della Société d’Anthropologie».
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to sia nella cultura accademica sia nell’opinione pubblica119. Per saggiare il fondamento e la validità della positio studii in esame è necessario indagare la realtà storica e giuridica delle zone interne dell’Isola. L’opposizione da parte dei barbaricini nei confronti alle spedizioni militari, dei romani in particolare, diventa una resistenza eroica una predisposizione al sacrificio estremo per evitare ogni sorta di sottomissione. Il carattere indomito e l’eroismo dei barbaricini è dunque un dato incontestabile, così come la Barbagia che rimane la parte più autentica dell’Isola. La stessa memoria collettiva locale in primis rivendica con orgoglio questi passaggi storici. Ma ogni azione bellica posta in essere dai barbaricini, giustificata peraltro dallo stato di guerra, è stata successivamente oggetto di interpretazione di un inequivocabile sintomo e indicatore di crudeltà e di inclinazione al fenomeno criminale. Col trascorrere del tempo, l’atteggiamento assunto dalla popolazione locale, il cosiddetto elemento di resistenzialità, dall’originaria connotazione di indicatore di un valore positivo, inizia ad assumere una connotazione che esula dal significato originario, divenendo indicatore di disvalore, la manifestazione di riferimento di un fenomeno negativo moderno120. Da ciò deriva l’assunto che nonostante le stratificazioni storiche che si sono sovrapposte, la Sardegna 119. G. Chirra, Kent’annos dae sa gherra europea. Il centenario della guerra dei sardi, Sassari 2018, p. 5: «Molto tempo è passato da quando la Sardegna ed il suo popolo “eravamo” la vergogna nazionale dell’Italia di fronte all’Europa ed al mondo cosiddetto “civile”. Portavamo il fardello di quella “vergogna”, come di una ingiusta condanna inappellabile, comminataci dal “Tribunale Ideale” delle teorie positiviste e dall’ignoranza di una storia millenaria misconosciuta». 120. M. Brigaglia, La geografia nella storia della Sardegna, in M. Guidetti (a cura di), Storia dei Sardi e della Sardegna, vol. I, Dalle origini alla fine dell’età bizantina, Jaca Book-Banca Popolare di Sassari, Milano 1988, p. 8: «Sarà Alfredo Niceforo, paradossalmente, a segnare un punto di svolta in questa costruzione del «carattere nazionale dei Sardi» […] l’individuazione di una «zona delinquente»».
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non ha compiuto un percorso di sviluppo completo, a causa di un blocco che le ha impedito la possibilità di un progresso ulteriore. Si tratta di una linea interpretativa diventata il presupposto di grande malinteso di una non ben determinata e compresa “specificità” della storia sarda, foriera di gravi pregiudizi121. Oggetto del grande malinteso è la comunità barbaricina e l’area geografica in cui risiede. La Barbagia, intesa come “zona pastorale” montana della Sardegna centrale, già nei secoli della conquista militare dei Romani si connota come la “zona resistenziale” l’area geografica mai completamente controllata dagli eserciti e più ingovernabile per antonomasia. La strenua opposizione alla dominazione romana reca la classificazione del territorio interno come: la zona dei Sardi ribelli, con l’ulteriore specificazione che la resistenza alle dominazioni esterne, che si erano succedute nel corso del tempo, l’avevano resa refrattaria a qualsiasi cambiamento122.
121. A. Satta, Cronache dal sottosuolo. La Barbagia, Condaghes, Milano 1991, p. 5: i confini in cui risiede «esaltare l’identità culturale ed etnica, oppure la si voglia collocare in un significativa zona delinquente», «Barbaria era il luogo dei barbari, degli estranei cioè, dei Pelliti resistenti alla dominazione, appartenenti soprattutto alle tribù degli Iliesi o Iolaesi, che avevano scelto come rifugio il massiccio del Gennargentu e le sue boscose propaggini […] la Barbagia non fu mai pienamente dominata dai Romani […] non mostravano una precipua vocazione a vivere pacificamente». Cfr. G. Musio, La cultura solitaria. Tradizione e acculturazione nella Sardegna antica, il Mulino, Bologna 1969, p. 29: «considerata uno dei settori più arcaici dello scacchiere europeo occidentale» p. 34: «Gli invasori avevano del resto scarso interesse ad un territorio aspro ed economicamente sterile, onde l’isolamento delle Civitates Barbariae fu garantito con un’integrità che oggi ne fa una delle aree socialmente più arcaicistiche dell’Europa». 122. A. Mastino, Analfabetismo e resistenza alla romanizzazione nella ‘Barbaria’ sarda (I-IV secolo d.C.), in Aa. Vv., Inaugurazione del 430° Anno Accademico, Chiarella, Sassari 1992, p. 30: «È noto che la toponomastica sarda ha conservato il ricordo della Barbaria romana, dato che il toponimo Barbagia – nelle sue articolazioni territoriali – è ancora utilizzato per indicare l’area del malessere della Sardegna interna».
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L’impatto di questa categoria interpretativa è stato fuorviante e devastante, poiché da esso ha tratto alimento una letteratura scientifica altamente pregiudizievole123. Da qui una serie di successive e stratificate formule decontestualizzate che hanno propiziato l’identificazione della “zona resistenziale” in “zona delinquenziale” alla quale è facile ricollegare la tesi della “razza delinquente”124. La Barbagia eretta a simbolo della “diversità” sarda, in cui il bandito diviene un elemento del territorio immediatamente riconoscibile al pari di un nuraghe: identificativo della sua civiltà. Ogni sardo reca le stimmate del delinquente, il principale sostenitore di queste tesi è Alfredo Niceforo che, partendo dai presupposti dell’antropologia criminale lombrosiana, afferma una presunta predisposizione al crimine del popolo sardo125. Argomento a sostegno di detta ipotesi è che l’intero territorio della Sardegna ha una vocazione a delinquere ma in particolare egli ravvisa nella Zona delinquente quello maggiormente interessato dal fenomeno della criminalità126. Per Zona delinquente intende «un vecchio strato sociale che galleggia nella attuale società con tutti i sentimenti primitivi del tempo arcaico, è lo stato sociale dei popoli pastori, 123. A. Senes, Curiosità del vocabolario sardo. (Contributo alla conoscenza della lingua e di altre cose sarde), Editrice Sarda Fossataro, Cagliari 1971, p. 598: «si è radicata in molti l’equazione: del tutto erronea anch’essa: pastori uguale banditi». 124. L. Carta, Il Settecento e gli anni di Angioy, cit., p. 60: «Riferendosi alla piaga del banditismo arrivò alla teorizzazione ante litteram della tesi della “razza delinquente”». 125. F. Tiragallo, Antropologia e ideologia in «La Delinquenza in Sardegna» di Alfredo Niceforo, in «Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Cagliari», 1980, pp. 411-453. 126. A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna. Note di sociologia criminale, pref. di E. Ferri, Sandron, Palermo 1897, p. 31: «Zona delinquente e che comprende il territorio di Nuoro, quello dell’alta Ogliastra e quello di Villacidro, partono numerosi bacteri patogeni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage».
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agitati da istinto belligero e aggressivo, stato sociale che la rimanente società ha già da lunga pezza oltrepassato»127. L’Isola in base a questo assunto non ha sperimentato nessun processo di acculturazione e non ha saputo trarre nessun beneficio dalle diverse «stratificazione storiche»128. I barbaricini sono incapaci di avere un contatto fecondo dagli incroci con altri popoli, pertanto i loro comportamenti rimangono immutati e fermi a uno stadio elementare di civiltà impossibilitati a progredire. Questo deficit è dimostrato dalla sopravvivenza della «stratificazione storica del popolo pastore» che è rappresentata dalla Zona delinquente129. La constatazione dello stato di cose deriva principalmente dalla considerazione storica che «i pastori d’oggi, abitanti la Zona delinquente, sono figli degli antichi ribelli e dei fieri abitatori della montagna»130. Niceforo ascrive il mancato sviluppo a due cause principali al fattore fisico dell’«isolamento»131 e al fattore antropico della «popolazione ribelle a ogni idea di mutamenti, una popolazione che aveva del selvaggio nelle vene»132. Riferendosi alla criminalità sarda afferma che è la tipica «caratteristica dello strato sociale arcaico» e del «clima morale» che permane nella Zona delinquente133. Secondo Niceforo la delinquenza è la
127. Ivi, p. 64. 128. Ivi, p. 63. 129. Ivi, p. 64. 130. Ivi, p. 61; e si veda p. 102: «lo sfrenato amore alla vita della montagna e del bosco» «la montagna e la foresta». 131. Ivi, p. 55. 132. Ivi, p. 58: «una popolazione ribelle ad ogni idea di mutamenti, una popolazione che aveva del selvaggio nelle vene […] noi chiamiamo ciò non adattabilità della razza, impossibilità di progredire, di evolversi. È una popolazione cristallizzata, immersa in un passato che non ha più ragione di esistere». 133. Ivi, p. 65.
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risultante della condizione di inferiorità e di ritardo del Nuorese che non ha maturato l’idea di giustizia così come è intesa nel XIX secolo134. Per i barbaricini il concetto di jus è «lo jus delle altre passate stratificazioni sociali dei popoli pastori», il diritto è quello «dei secoli passati»135. In base a ciò spiega che l’insorgere della criminalità in Sardegna deriva dall’impostazione caratteriale a non riconoscere l’autorità e la legge. Niceforo parla di «vendetta sarda» come fosse «la prima caratteristica del temperamento regionale sardo, che serve come spinta all’omicidio e che combacia con caratteristiche del tipo criminale è la vendetta»136. Lo studio della storia dei Sardi, non ci consente di accettare le tesi descritte, pertanto occorre riaprire il dibattito sulla loro storicità. Non sono condivisibili le tesi e le posizioni da Mimaut, Niceforo a Braudel che indicano nelle zone interne il focolaio dell’attività criminale e «soprattutto nelle Barbagie a larga valenza pastorale, un centro di secolare resistenza agli invasori e nel banditismo un senso alto della forma, sia pure degradata, di tale resistenza»137. In base ad accurati studi su una certa documentazione «le ben note consuetudini delle zone interne» non derivano da una «antichissima tradizione di resistenza passiva a tutti i domini
134. Ivi, p. 44: «La giustizia, l’idea retta, come la intendiamo oggi, noi del secolo decimonono, è concetto che la Zona delinquente della Sardegna non ha; essa ritiene per giustizia la giustizia dei tempi remoti» e p. 81: «primitiva concezione del retto e del giusto che quei pastori posseggono». 135. Ivi, p. 66: «C’è dunque nella Zona delinquente, oltre a un atavismo del senso morale, anche un atavismo nell’evoluzione sociale […] al posto dei padri sorsero i figli, ma quei figli non furono migliori dei padri». 136. Ivi, p. 100. 137. M. Da Passano, La criminalità e il banditismo, cit., pp. 464-465: «Sembrano quindi prive di fondamento reale le tesi che – sulla scorta anche delle osservazioni di Le Lannou sulla contrapposizione tra nomadismo pastorale e agricoltura stanziale e di Braudel su quelle tra le società bellicose della montagna e società pacifiche della pianura e dei litorali».
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ed alle loro leggi» ma piuttosto da una «reazione contro l’inosservanza delle norme più elementari di giustizia»138. È fuorviante insistere sulla dimensione pastorale del banditismo e sull’interpretazione che sostiene la stretta correlazione tra la zona montagnosa pastorale e la vendetta. Detta correlazione, fondata sui concetti di «zona delinquente» e «banditismo «resistenziale»», è da soppiantare con il nesso causale tra amministrazione della giustizia feudale e criminalità139.
138. J. Day, Per lo studio del banditismo sardo nei secoli XIV-XVII, in Id., Uomini e terre della Sardegna coloniale (XII-XVIII secolo), Celid, Torino 1987, p. 250. 139. J. Day, Banditismo sociale e società pastorale, in Id., Uomini e terre della Sardegna coloniale, cit., pp. 289-290.
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René Girard ed Emmanuel Levinas: dal sacro al santo “Espiazione” del Sacro e testimonianza della “non-indifferenza” Bachisio Meloni
La prospettiva in cui si compie il passaggio dal sacro al santo1 è senz’altro la chiave di volta, o il fondamento tematico a cui far riferimento nelle diverse questioni che conducono al parallelo fra la riflessione di René Girard e di Emmanuel Levinas. Nel presente lavoro, seppur in maniera affatto esaustiva, 1. Mi riferisco in particolare all’importante Colloque international ARM/ BnF/SIREL, René Girard, Emmanuel Levinas: du sacré au saint (Parigi, 12-13 novembre 2012), tenutosi in occasione dei 40 anni dalla pubblicazione di R. Girard, La violence et le sacré (Grasset, Paris 1972; tr. it. di O. Fatica e E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 199213) e di E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (Nijhoff, La Haye, 1974, 19782; poi Le livre de poche, Paris 1990; tr. it. di S. Petrosino e M. T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983). Cfr., inoltre, proprio a riguardo del convegno succitato, l’omonimo intervento di J.-L. Marion, René Girard-Emmanuel Levinas: du sacré au saint, tenutosi il 4 novembre 2013 dall’ARM in partenariato con l’ENS/CIEPFC. Ma per un più esplicito riscontro su tale decisiva traiettoria, inauguratasi nel periodo di riflessione che porterà Levinas alla pubblicazione del suo lavoro, per così dire riassuntivo e più articolatamente sistematico, Totalité et infini, Nijhoff, La Haye 1961; tr. it. di A. Dell’Asta, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1980, cfr. inoltre la sua raccolta di saggi Du sacré au saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977; tr. it. di O.M. Nobile Ventura, Dal sacro al santo. Cinque letture talmudiche, Città Nuova, Roma 1985.
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tenteremo di illustrare tale particolare e decisiva modalità di tensione o di “risalita” destinata a segnare nei nostri autori la loro intera meditazione, e ciò a partire dalla messa in risalto dello specifico del discorso sull’arte. Proprio su questo piano delle analisi sull’evento estetico, e in specie sul linguaggio poetico-letterario, Levinas e Girard, seppur da prospettive diverse, hanno qualcosa che accomuna sensibilmente il loro percorso2: nello studio del sacro, nel tentativo di gettare una luce sulla funzione del sacrificio e sul fenomeno della violenza nella cultura umana, la letteratura – o almeno, la tradizione letteraria occidentale, dai Greci in avanti – è in grado di svolgere un ruolo decisivo riportando, per il critico e antropologo Girard, all’attenzione di uno sfondo mitico e fondativo dell’umano o, nei termini della personale fenomenologia levinasiana, suscitando tramite un vero e proprio «commercio ambiguo con la realtà»3 il suo lato più umbratile e notturno, impenetrabile ed enigmatico. La riflessione sul Sacro in Levinas – stando allo stesso contesto problematico della nozione dell’il y a4, del c’è, ossia la forma
2. Ciò accade più nello specifico nel dibattito sorto all’indomani della pubblicazione di J.-P. Sartre su Qu’est-ce que la littérature?, in «Les temps modernes», nn. 17-22, 1947; poi in Id., Situations, II. Qu’est-ce que la littérature?, Gallimard, Paris 1948; tr. it., Che cos’è la letteratura?, il Saggiatore, Milano 1960; nuova ed. accresciuta, a cura di F. Brioschi, il Saggiatore, Milano 1966. 3. Cfr. E. Levinas, La réalité et son ombre, secondo e più importante documento delle riflessioni filosofiche levinasiane sull’arte, pubblicato in «Les temps modernes», n. 38, 1948, pp. 771-789; ora in Id., Les imprévus de l’histoire, pref. di P. Hayat, Fata Morgana, Saint-Clément-de-Rivière 1994, pp. 123-148; tr. it., La realtà e la sua ombra, in Id., Gli imprevisti della storia, a cura di di G. Pintus, Inschibboleth, Roma 2014, pp. 99-120: p. 108. 4. E. Levinas, De l’existence à l’existant, Fontaine, Paris 1947; tr. it. di F. Sossi, Dall’esistenza all’esistente, prem. di P.A. Rovatti, Marietti, Casale Monferrato 1986.
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del verbo impersonale alla terza persona singolare, a significare il carattere anonimo dell’Essere in quanto tale – non può fare a meno del discorso sull’arte, e viceversa; e ciò avviene in quanto l’evento estetico – al pari del contesto primitivo di insorgenza delle prime manifestazioni del religioso – fin dalle sue prime opere della seconda metà degli anni ’40, segna un «ritorno all’impersonalità dell’elemento» o, per usare i termini dello stesso Lévy-Bruhl e di Rudolf Otto, al pari delle ricerche sociologiche sul sacro da parte di É. Durkheim, al “pre-logico”. Come non scorgere in questo disegno il determinarsi di una definitiva provvisorietà del senso? Precarietà del valore più intimo di ogni esperienza, l’abbandono estatico, come dell’agire, ma non in termini di negazione, bensì a partire da una fondamentale nozione, quella dell’innominabile presenza di un che di profondamente indeterminato, quello dell’esistenza senza mondo e senza io, ovvero attraverso la stessa inammissibilità e contemporaneità del senso e del non senso, di un non-essere che non può dirsi “nulla”. A partire da questa “situazione” in cui il mondo “non è più dato” e “non è più mondo”, da questa “in-condizione” di scomparsa di ogni orizzonte e di ogni luce, dove l’io è del tutto spersonalizzato, ma in cui l’essere permane come un invariato campo di forze, per il filosofo, il destino non è se non il precipitare «in una vigilanza impersonale, in una partecipazione»5, come teorizzato dall’etnologo Lévy-Bruhl, un’adesione, ma di tipo «mistico», laddove cioè «l’esistenza privata di ciascun termine, dominata dal soggetto che è, perde il suo carattere privato, e ritorna a un fondo indistinto»6. Nella veglia impersonale, nella dimensione d’“orrore” che tale “in-condizione” suscita, l’uomo si spoglia della propria soggettività e «l’esi5. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 53. 6. Ibidem.
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stenza dell’uno sommerge l’altro», indistintamente da sé l’io è altro7. L’impersonalità, quella della “comunione” con l’esistenza, dell’unità come impossibilità della socialità, del “faccia a faccia”, contraddistingue la stessa mentalità dei primitivi; essa coincide infatti non con la dimensione della morale, della giustizia, dell’etica, ma con quella dimensione in cui l’orrore è l’emozione predominante e dove l’anomia diventa il segno della disposizione all’accoglimento della rivelazione del “sacro”8. La letteratura attesterebbe, dunque, ancor prima che una mediazione fenomenologica interpretativa e conoscitiva che ci lega al mondo, la presenza di un’inquietudine di fondo a partire dall’evento dell’“ipostasi”, dal fatto di «essere tenuti all’essere»9, o alla privazione di esso, come vuoto, come oscurità e orrore («esso è la partecipazione all’il y a»), come negazione metafisica. Di fatto: «più che condurci a Dio, afferma Levinas, la nozione di il y a ci conduce all’assenza di Dio, all’assenza di ogni essente». Ma è altresì attraverso le “essenze
7. Cfr. ibidem. Cfr. anche E. Levinas, Le Temps et l’Autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; tr. it. di F.P. Ciglia, Il Tempo e l’Altro, Il melangolo, Genova 1997. 8. Nelle riflessioni levinasiane di Dall’esistenza all’esistente, cit., l’arte, come introduzione della dimensione più oscura e tragica rispetto alla luminosità della comprensione – «la cura heideggeriana, tutta illuminata dalla comprensione (nonostante la comprensione stessa si dia come cura), è già determinata dalla struttura “dentro-fuori” che caratterizza la luce)» (ivi, p. 74) –, come coinvolgimento, con il suo fascino destabilizzante, ma anche con il suo “mistero” porta a una sua precisa relazione non solo con l’essere, ma anche con il sacro. Il tema (già esaurientemente affrontato da F.P. Ciglia, L’essere, il sacro e l’arte negli esordi filosofici di Emmanuel Lévinas, in «Archivio di filosofia», n. 1-2, 1982, pp. 249-280; ora in Id., Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Cedam, Padova 1988, pp. 71-91) riguarda da vicino quella stessa relazione indagata da Heidegger nella sua riflessione filosofica più recente sul linguaggio della poesia come risposta al richiamo di salvezza indicato dal Sacro. 9. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., cit., p. 59.
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ontologiche” della “fatica”, della “stanchezza”, della “pigrizia” che, per il filosofo, si giunge all’«apparire dell’esistenza come un peso da assumere»10: coscienza dell’esistenza che Heidegger interpreta nel punto di più intensa tonalità come «un’estasi verso la fine», sentimento d’angoscia come “comprensione del nulla”, come «comprensione dell’essere solo nella misura in cui l’essere stesso si determina attraverso il nulla». Questo peso e questa trepidazione, per il Levinas che si propone il compito di uscire dal clima di tale filosofia, testimoniano invece l’“impossibilità” o l’estraneamento; da qui l’importanza del ruolo giocato dall’arte, la quale denuncia o è espressione di «quel positivo “venir meno” che caratterizza l’il y a» quale “presenza inevitabile”. Ma l’originale nozione dell’il y a, quale epifania della dimensione del tragico e dell’ineluttabile, non dice heideggerianamente il rapporto che lega l’io verso la fine, afferma semmai l’impossibilità dell’esperienza intenzionale e l’insostenibilità del nulla per sé stesso, un «ritorno dell’essere in seno a tutti i movimenti negativi»11. Piuttosto, il fatto artistico – se non separato dall’aspetto rituale e dalla “manifestazione mimetica12 troppo intensa”, fino all’“alienazione” o alla “possessione” (Girard), sembra impedire o deprimere ogni possibile apertura alla libertà e all’autenticità umana, del dasein. È il primo emergere di riferimenti che porteranno all’idea dell’essere dell’ontologia in termini 10. Ivi, p. 13. 11. Cfr. ivi, p. 56. 12. Per la fondamentale nozione di “desiderio mimetico” riguardante il piano più specificamente letterario, cfr. R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Paris 1961; tr. it. di L. Verdi Vighetti, Struttura e personaggi nel romanzo moderno, Bompiani, Milano 1965; poi, con il titolo Menzogna romantica e verità romanzesca, intr. di M. Dotti, postfaz. di L. Doninelli, Bompiani, Milano 2021.
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di “immagine”; oltre poi alla precisa contestazione dell’idea di tempo quale immutabilità di irreparabile “destino”; o allo svuotamento dell’idea di soggetto quale entità che subisce “passivamente” ed “estaticamente” il suo particolare essere nel mondo. È la considerazione dell’arte quale espressione di una modalità del poter-essere in cui paradossalmente ogni possibilità svanisce, o quale espressione di una dimensione “oscura”, “notturna”, di natura “elementale”: tutte considerazioni queste che verranno puntualmente riprese in La réalité et son ombre, e che caratterizzeranno vieppiù l’intera meditazione filosofica levinasiana13. Come abbiamo visto fin da De l’existence à l’existant, essa si caratterizzerà proseguendo lo studio sul carattere ambiguo e neutrale della creazione artistica quale sfondo esotico ed assoluto rispetto all’universo ontologico, fino a giungere al passaggio dalla dimensione estetica ravvisata nella sua costitutiva impossibilità di “significare” il senso dell’umano oltre la “differenza ontologica” alla sua definitiva installazione nell’en deçà dell’essere sotto forma di “immagine”, di somigliante ombra sinistra e idolatrica. Ma il vero problema ontologico fondamentale, su cui si appunta l’interesse di Levinas, non è tanto il problema del senso dell’essere in generale, che pure è indispensabile affrontare, quanto il problema del «sorgere, nell’esistenza impersonale, di un esistente»; il passaggio cioè, se non una vera e propria “eva13. Cfr. in particolare la citazione del Thomas l’obscur di M. Blanchot (Gallimard, Paris 1941, 19502; nuova ed. 1992), in E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 56; ma si vedano anche i riferimenti al mito di Orfeo in M. Blanchot, L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955; tr. it. di G. Zanobetti, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, pp. 139 ss, in part. pp. 147 ss. Cfr. inoltre N. Borsellino, Orfeo e Pan. Sul simbolismo della pastorale, Zara, Parma 1986, p. 49: «Euridice è uccisa due volte, e Orfeo è responsabile della sua seconda morte, per un lapsus rivelatore. Sacrificio e violenza ancora una volta si uniscono prima che la cultura fondi i principi della sua razionalità confrontandosi con l’ambiguità fecondatrice delle favole antiche».
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sione” 14, «dall’esistenza all’esistente». In tale uscita, o presa di distanza, consiste infatti, per Levinas, la vera e propria “avventura ontologica” che deve essere studiata15. Ma ciò, come afferma il filosofo, «non significa limitarsi ad invertire i termini della famosa differenza heideggeriana privilegiando l’ente a discapito dell’essere»16, come ha sostenuto J.-L. Marion17; il principio di questo capovolgimento è piuttosto «il primo passo di un movimento che aprendosi ad un’etica più antica dell’ontologia lascerà emergere dei significati al di là della differenza ontologica»18, il significato dell’Altro, il significato del “Trascendente”, dell’Infinito. E solo una consapevole e decisa tensione alla dimensione trascendente dell’“alterità”, ma come «alterità d’altri»19, può determinare, per Levinas, l’uscita dalla soggettività come riduzione all’incatenamento dell’identità dell’io alla propria coscienza. Tale idea di trascendenza, per il filosofo, è da intendersi come quella fuoriuscita dallo schiacciamento nell’ammorbante, “brutale” viluppo dell’essere impersonale o, in altri termini, come l’imporsi di quella «distinzione tra ciò che esiste e questa stessa esistenza, tra l’individuo, il genere, la collettività, Dio, che sono esseri designati da sostantivi e l’evento o l’atto della loro esistenza»20. 14. E. Levinas, De l’évasion, in «Recherches philosophiques» V, 1935-1936, pp. 373-392; poi, con un ampio saggio introduttivo di J. Rolland (Sortir de l’être par une novelle voie), Fata Morgana, Montpellier 1982; tr. it., Dell’evasione, a cura di D. Ceccon e G. Franck, Elitropia, Reggio Emilia 1984. 15. Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino 1996, pp. 71-72. 16. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., pp. 6-7. 17. Cfr. J.-L. Marion, L’idole et la distance, Grasset, Paris 1977; tr. it. di A. Dell’Asta, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979. 18. M. Heidegger, Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a.M. 1976; tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 19876, p. 192. 19. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 85. 20. Ivi, cit., p. 11.
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Dobbiamo senz’altro aggiungere una dovuta precisazione: la critica heideggeriana alla metafisica tradizionale trova riscontro e piena adesione in Levinas, il quale vede anch’egli nella spinta, nel viaggio inautentico compiuto dal pensiero metafisico un paradossale, inconsapevole, ritorno alla più degradante e irriguardosa, violenta e spregiudicata immanenza; eppure, la netta contrapposizione di Heidegger alla dimensione metafisica come oblio dell’Essere non conduce – per Levinas – se non a qualcosa di ancora più primitivo e pagano, materialistico e fors’anche ancor più violento e “totalitario”. Il disconoscimento dell’alterità d’altri si protrae in funzione dell’accoglimento di una “esteriorità totale” sempre più contigua o fondata, come si evince dalle tesi dell’«ultima filosofia di Heidegger» alla «visione dei maestosi paesaggi della Natura, fecondità impersonale, matrice degli esseri particolari, materia inesauribile delle cose»21. La critica levinasiana dell’arte, la sua connotazione “logica”, il suo “allargamento” in chiave decisamente “etica”, si esprime in funzione espressamente anti-heideggeriana. Heidegger
21. «Heidegger – scrive Levinas – non riassume soltanto un’intera evoluzione della filosofia occidentale, l’esalta anche, mostrandone nel modo più patetico, l’essenza antireligiosa, che è diventata una religione alla rovescia. La lucida sobrietà di coloro che si definiscono amici della verità e nemici dell’opinione avrebbe dunque un misterioso prolungamento. Con Heidegger, l’ateismo diventa paganesimo e i testi dei presocratici diventano delle antiscritture. Heidegger mostra in quale ebbrezza sia immersa la lucida sobrietà dei filosofi. In breve, le note tesi della filosofia heideggeriana […] portano a compimento il consolidarsi di una tradizione in cui lo Stesso domina l’Altro, in cui la libertà, sebbene sia identificata con la ragione, precede la giustizia. Quest’ultima non consiste forse nell’anteporre gli obblighi verso l’Altro agli obblighi verso se stessi, nell’anteporre l’Altro allo Stesso?» (E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1988; tr. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 196).
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tende con decisione a spostare e a dirigere l’ordine del discorso poetico nella prospettiva pre-logica o nei sentieri boschivi del Sacro, anche se a costo, o chissà quanto inconsapevolmente, della “indifferenza” e della inevitabile “violenza” che lo caratterizza. Per Levinas: Il numinoso o il sacro avvolge e trasporta l’uomo al di là dei suoi poteri e dei suoi voleri. Ma una vera libertà si offende di questi surplus incontrollabili. Il numinoso o il sacro annulla i rapporti tra le persone facendo partecipare gli esseri, magari nell’estasi, a un dramma che questi esseri non hanno voluto, a un ordine in cui naufragano. Tale potenza in certo modo sacramentale del divino appare al giudaismo come qualcosa che ferisce la libertà umana e come contraria all’educazione dell’uomo, che rimane azione su un essere libero. Non che la libertà sia un fine in sé stesso. Ma essa rimane la condizione di qualunque valore l’uomo possa raggiungere. Il Sacro che mi avvolge e mi trasporta è violenza.22
Proprio come nei fenomeni delle comunità medievali di fronte ai cataclismi o alle pestilenze: la loro impotenza – come sostiene Girard, svelandola e stigmatizzandola, ne Il capro espiatorio – era tale che riconoscere la verità non significava far fronte alla situazione, quanto piuttosto abbandonarsi ai suoi effetti disgregativi, rinunciare a ogni parvenza di vita normale. L’intera popolazione si
22. E. Levinas, Difficile liberté, Albin Michel, Paris 1963; tr. it., Difficile libertà, a cura di di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, p. 31. Si tratta di una decisiva serie di scritti dedicati al tema dell’ebraismo. A partire da questa raccolta, Levinas pubblica una serie di conferenze e lezioni talmudiche, scritti e commenti, da lui definiti di tipo “confessionale”, da tener presenti più che per le loro molteplici implicazioni teoretiche e religiose, per ciò che riguarda gli importanti elementi fornitici sul personale e originale metodo di orientamento da parte del filosofo dinanzi al tema della scrittura.
142 lasciava andare con estrema facilità a false rappresentazioni di questo tipo, in una disperata volontà di negare l’evidenza che favoriva la caccia ai ‘capri espiatorii’.23
Ed è proprio su tale modello di religiosità arcaica o di esistenza estetica che Levinas e Girard intendono soffermarsi e a più riprese insistere; proprio su questa modalità, clima o scompiglio della “possessione”, del “desiderio mimetico”, attitudine a una vera e propria “emulazione” o “ispirazione” (il prestarsi al volere di una musa o la polarizzazione verso un’esteriorità o modello che suscita l’invidia per l’Altro24). Si tratta in entrambe le prospettive di quanto ha a che vedere con la caotica deposizione dell’io, preda di un’alterità assoluta all’ombra della quale si giuoca l’imposizione del tutto esteriore del rythme ai danni della soggettività, delle sue categorie, del suo conatus essendi. Ma da qui il passo è breve perché il filosofo si convinca di quanto ciò che in termini strategici potrebbe risultare come apprezzabile tentativo di messa in questione dell’idea tradizionale di soggetto avvenga, in realtà, all’insegna di una debolezza o passività del tutto fine a sé stessa, come ciò che emerge riportandoci a quella stessa “condizione” di participation, la quale testimonia in modo esemplare la dimensione sognante dell’“in teresse”, o meglio dell’“inter-esse”, nel senso etimologico del termine: non presenza dell’io “di fronte alle cose”, ma il suo situarsi parmi les choses, “in mezzo alle cose”, l’io come cosa tra le cose, “in-differente” rispetto ad esse, «come facente parte dello spettacolo, esteriore a se stesso»25. Il coinvolgimento nel ritmo, la partecipazione, dichiarerà ancora una volta Levinas a proposito delle analisi di Lévy-Bruhl, segna infatti la dimensio23. R. Girard, Le bouche émissaire, Grasset, Paris 1982; tr. it. di C. Leverd e F. Bovolt, Il capro espiatorio, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 1987, p. 14. 24. Cfr. R. Girard, Struttura e personaggi nel romanzo moderno, cit. 25. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., p. 104.
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ne di un vero e proprio «anti-universo»26: «Gli esseri appaiono in un “mondo” che non è una totalità di esseri singolari, esprimibili in forma sostantiva, ma campo o atmosfera […]. Niente impone più la scelta e l’immaginazione si scopre in tal modo indipendente dalla percezione di cui essa rompe le categorie»27. La nozione di ritmo rappresenta dunque, secondo Levinas, una delle componenti diremmo fondative della caratterizzazione dell’arte, legata quanto più a un’idea lontana dal vero legame con il senso dell’umano; essa è infatti nozione che porta alla caduta nel più sconvolgente anonimato, determinando di fatto un’assenza e dell’uomo e di Dio28. È a partire da questa “esperienza” o “in-condizione”, da questo vero e proprio rovesciamento delle categorie che, per il filosofo, sulla scia dei risultati della psicologia religiosa di Rudolf Otto, si presenta il «rapporto con il numinoso o il sacro», il quale instaura quella che l’autore definirà, nell’omonimo paragrafo del suo saggio del ’57, «la metafisica dell’anonimo»29. Ciò che più colpisce nello sviluppo di tali analisi è che non si tratta tanto di una partecipazione attiva, ma di un «rovesciamento del potere in partecipazione» intesa come defezione della soggettività entro i nodi di una potenza anonima; ancora sulla scia delle analisi di De l’existence, l’evento del ritmo, quale “immagine musicale”, o “non-oggetto”, irrompe su di noi. 26. E. Levinas, Lévy-Bruhl et la philosophie contemporaine, in «Revue philosophique de la France et de l’Etranger», CXLVII, n. 10-12, 1957, pp. 556569; ora in Id., Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, Paris 1991, pp. 53-67; tr. it. di E. Baccarini, Lévy-Bruhl e la filosofia contemporanea, in E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, pp. 69-83: p. 77. 27. Ivi, p. 76. 28. Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 53. 29. E. Levinas, Lévy-Bruhl e la filosofia contemporanea, cit., p. 76. Cfr. F.P. Ciglia, L’essere, il sacro e l’arte, cit., e Id., Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Cedam, Padova 1988.
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Sia chiaro, questo sviluppo interno alla dimensione dell’essere non è da considerare come passaggio da un “prima” a un “poi”: «il sensibile è l’essere nella misura in cui somiglia a se stesso», manifesta sé stesso. E l’essere dice sé stesso anche come “altro da sé”; di questa alterità, per Levinas, si deve tener conto fino in fondo. Non c’è in questo senso, afferma il filosofo, «innanzitutto immagine – visione neutralizzata dell’oggetto – che, in seguito, differisce dal segno e dal simbolo attraverso la sua somiglianza con l’originale: la neutralizzazione della posizione nell’immagine è esattamente questa somiglianza»30 tra “la realtà e la sua ombra”. Ombra come fenomeno di alterità, abbiamo detto; ma altresì come “alterazione” mitizzante, come processo di “erosione” o di svilimento che riguarda o che si determina a partire dalla dimensione ambigua dell’assoluto. Parimenti, separata dal significato umano, etico, la realtà estetica, concepita in un senso “rigorosamente ontologico”, quale pretesa “rivelazione” o “esposizione” di un mondo, non può che scadere inevitabilmente nella sua dimensione più impersonale e negativa in cui la materialità dell’oggetto è mero ritorno all’elementale31. Ma «dire che l’immagine è un’ombra dell’essere – osserva Levinas – non sarebbe, a sua volta, che una metafora, se non si mostrasse dove si situa l’al di qua del
30. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., p. 110. 31. Un’ampia definizione del termine e della dimensione «elementale» (éleméntal) la troviamo in (E. Levins, Totalità e infinito, cit., in part. nei paragrafi dal titolo L’elemento e le cose, gli utilizzabili; La sensibilità e Il formato mitico dell’elemento, sez. II/B, Godimento e rappresentazione. «L’ambiente – afferma Levinas – ha uno spessore proprio. Le cose si riferiscono al possesso, possono essere portate via, sono mobili; l’ambiente a partire dal quale vengono a me è senza eredi, fondo o terreno comune, non-possedibile, essenzialmente, di “nessuno”: la terra, il mare, la luce, la città. Ogni relazione o possesso si situa in seno al non possedibile che avvolge o contiene senza essere contenuto o avvolto. Lo definiamo elementale» (ivi, p. 132).
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quale parliamo»32. Egli infatti, nel sottolineare il prolungamento mitico, precisa di non voler tanto fondare la sua «concezione su una incrinatura nell’essere tra esso e la sua essenza, che non si attacca ad esso, che lo maschera e lo tradisce»; quanto puntare dritto sull’immagine come espressione o “plasticità” dell’idolo. «L’immagine intesa come idolo – afferma Levinas – ci conduce al significato ontologico della sua irrealtà. In questo caso l’opera d’essere in quanto tale, l’esistere stesso dell’essere si raddoppia accompagnandosi a una parvenza di esistenza»33. Un discorso sull’arte non può dunque non tener conto di uno scadimento idolatrico quale più eminente significato ontologico dell’immagine. Cogliere il senso di questa irrealtà, per di più quale pretesa prospettiva di verità, porta a svelare non una nuova significazione, ma un raddoppio, una “caricatura” d’essere che non afferma se non sé stessa nella sua particolare “durata” di tempo. Solo in questo ultimo caso l’immagine può essere detta “imitazione” di qualcosa. Ma qui, per Levinas, non ci troviamo in una dimensione “ontica”, nella realtà concreta dell’esistente che porge il suo sguardo di appartenenza o dominio sul mondo e sugli altri; si direbbe di essere immersi piuttosto nella dimensione opposta, quella che in termini heideggeriani potremmo definire della “differenza ontologica”, o in termini levinasiani dell’“in-differenza”, della “partecipazione” sognante. Si tratta a ben vedere di una «visione dall’esterno – di una esteriorità totale […] in cui persino il soggetto è esteriore a sé»34. Da una parte dunque l’arte suggerisce nel mondo l’introduzione dell’oscurità del fato, dall’altra insinua l’irresponsabilità
32. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., p. 110. 33. Ivi, p. 111 (tr. mod.). 34. Ivi, p. 114 (tr. mod.).
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che affascina come la leggerezza e la grazia35. L’arte insomma non è solo lo stupore che nega i limiti della concezione, i vuoti schematismi della dialettica, la prevedibilità dell’azione; essa rappresenta una spinta alla rinuncia imperturbabile giustificata da questa stessa negazione, un conforto «al di là degli inviti a comprendere e ad agire»36. Il disconoscimento, in sé positivo, della dialettica si converte nella precarietà della soddisfazione mistica la quale è, come abbiamo visto, possibilità “metafisica” generica, dettata dalla passività e dalla rinuncia. Più che di uno slancio propositivo al di fuori dei limiti della chiarezza ontologica, scrive Levinas, si tratta di uno sprofondamento entro la «diffusa presenza di un’influenza occulta»37, entro il regno o il “formato mitico” dell’elementale38. Scrive Levinas: «La realtà intera porta sulla sua faccia la sua allegoria al di fuori della sua rivelazione e della sua verità. L’arte, utilizzando l’immagine, non riflette solamente, ma compie questa allegoria»39. 35. Cfr. R. Ronchi, L’interpretazione come salvezza. Nota “sul” Blanchot di Levinas, in «aut aut», n. 209-210, 1985, pp. 193-205. Dice Ronchi: «Se la salvezza del “chi” dalla tentazione dell’essere è il compito del pensiero, la filosofia deve sospettare dell’opera. In essa sonnecchia infatti una potenza di seduzione che occorre in anticipo esorcizzare. Per certi versi tutto ciò che c’è di unheimlich nello statuto ontologico dell’opera rimanda all’ambiguità paradossale del sacro: ora puro-santo-buono (numinosum), ora impuroabbietto-cattivo (tremendum)» (ivi, p. 202). Per il duplice significato nelle meditazioni levinasiane sull’arte quale dimensione del fascinans e del tremendum, cfr. anche F.P. Ciglia, L’essere, il sacro e l’arte, cit. 36. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., p. 117. 37. E. Levinas, Lévy-Bruhl e la filosofia contemporanea, cit., p. 76. 38. In Autrement que’être, questo confronto tra ontologia ed etica si ripeterà. Se per il Levinas di Totalité et infini l’etica, per essere tale, doveva fare a meno dei vincoli e della violenza dell’ontologia e di tutte le filosofie del neutro, in Autrement que’être, invece, per affermare l’etica si deve tener conto delle strutture e delle ragioni fondamentali dell’essere e dell’ontologia. 39. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., p. 109.
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Ecco che attraverso la nozione di allegoria o di ombra, come oscuro residuo dell’essere, ossia il chiarore dell’essere considerato nella sua duplice possibilità, porta la riflessione a spunti determinanti nella considerazione del Sacro e della sua violenza; per Levinas, «nella misura in cui si assomiglia, in cui, al di fuori della sua opera trionfante di essere, getta un’ombra, mette in rilievo questa essenza oscura ed incoglibile, questa essenza fantomatica che niente permette di identificare con l’assenza rivelata nella verità»40. Stando alle prime riflessioni sul tema dell’arte, per Levinas, come per Girard, come sopra accennato, predomina il principio del “desiderio mimetico” (l’estetica, «oscuramento dell’essere in immagine», accostandosi di fatto al neutro scenario dell’ontologia, in fondo non è che la silente riproposizione del/di un mondo); di più, nel procedimento artistico, a partire dalla nozione di somiglianza, si determina e si percepisce un che di “diabolico” e di “malvagio”41. Attraverso il discorso sull’arte si pongono alcune fondamentali ragioni sul tema del desiderio/negazione dell’altro e della violenza. Ed è proprio a partire da questo sfondo mitico-sacrale che trova origine il problema del male: per Girard la violenza e il sacro non solo «sono inseparabili»42: «Il sacro è la violenza»43; essa ne «costituisce il vero cuore e l’anima segreta»44.
40. Ivi, p. 110. 41. Cfr. ivi, p. 109. «Vi è qualcosa di malvagio, di egoista e di vile nel godimento artistico. Ci sono delle epoche – prosegue Levinas – in cui si può averne vergogna, come festeggiare in piena peste» (ivi, p. 118). 42. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 37. 43. R. Girard, Des choses cachées depuis la fondation du monde, ricerche con J.-M. Oughourlian e G. Lefort, Grasset, Paris 1978; tr. it. di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 50. 44. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 53.
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Da Omero a Esiodo, da Sofocle a Eschilo e a Euripide, da Shakespeare a Dostoevskij, da Schiller a Hölderlin sono costanti e frequenti i riferimenti di Girard ai classici dell’universo letterario: in essi intravede senz’altro il più ricco laboratorio in cui poter mettere alla prova le categorie da lui elaborate. Attraverso di esse la tragedia greca altro non è che «una rappresentazione della crisi sacrificale e della violenza fondatrice»45. La letteratura, elevandosi a sostituzione del rito, per Girard, pone in rilievo, o addirittura raffigura, quello sfondo oscuro e primigenio da cui palpita la violenza umana: essa inscena un accurato e magniloquente ruolo sacrificale. E ciò al pari della stessa poesia lirica, dato il suo nesso con le forme della ritualità, della liturgia, della preghiera46. Di fronte a ciò occorre senz’altro recuperare un senso tenuto fin troppo celato, già dal fatto stesso che si senta l’urgenza di parlarne, a partire dall’agire pratico dell’analisi filosofica e letteraria. Come se, in assenza di critica, si possa assumere il ruolo inconsapevole, ma non meno che incolpevole, di vittime, proprio in quanto inadempienti, se non complici spettatori. Proprio per questo la critica occupa un ruolo decisivo, dacché tende a ristabilire un ordine, inevitabilmente “razionale”, ma fondato in termini levinasiani sull’allargamento di una prospettiva “logica” di ispirazione morale, ossia di un’etica fondata sui principi di un umanesimo dell’altro uomo. Del resto, rispetto al “mistero dell’altro”, «che non nasce da una partecipazione ad un terzo termine»47, il mito, sostituen-
45. Ivi, p. 234. 46. Ma per questa così intensa e decisiva correlazione tra poesia e preghiera, di cui possiamo fare qui solo breve cenno, cfr. F. Camera, Paul Celan. Poesia e religione, Il melangolo, Genova 2003. 47. Cfr. E. Levinas, Noms propres, Fata Morgana, Montpellier 1976, pp. 177182; tr. it. di C. Armeni, Nomi propri, Castelvecchi, Roma 2014, p. 135.
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dosi al mistero, si palesa come una o la degenerazione per eccellenza dovuta alla nefasta considerazione di quell’«oscuro e caotico fondo ontologico che soggiace al cosmos fenomenologico accessibile all’esperienza quotidiana ed alla riflessione filosofica»48. Degenerazione di senso, dunque, in cui viene a sostituirsi la vacua indeterminatezza dell’apeiron anassimandreo quale fondo vischioso della terra madre, così allo stesso modo all’influsso dell’immagine sulla percezione sensibile si avvicenda la sufficienza finita del bello, la grazia sbiadita o l’oscurità dell’idolo. La faccia dell’elemento che è rivolta verso di me – scriverà Levinas – non nasconde un “qualcosa” che è in grado di rivelarsi, ma una profondità sempre nuova dell’assenza, esistenza senza esistente, l’impersonale per eccellenza. Questo modo di esistere senza rivelarsi, al di fuori dell’essere e del mondo, deve essere definito mitico. Il prolungamento notturno dell’elemento è il regno degli dei mitici.49
Occorre in altri termini uscire dall’orizzonte o dal destino immutabile e minaccioso del mito, è necessaria una serrata «critica filosofica» in grado di intraprendere invece il cammino della «trascendenza temporale di un presente verso il mistero 48. F.P. Ciglia, “Mythos”, “logos” ed “ethos” nel pensiero di E. Levinas, in G.A. Lucchetta - M. De Innocentiis (a cura di), Mito e polarità. Ermeneutica della sopravvivenza religiosa, letteraria e scientifica della mitologia, Università “G. D’Annunzio”, Chieti 1994, pp. 103-144; ora in Id., Fenomenologie dell’umano. Sondaggi eccentrici sul pensiero di Levinas, Bulzoni, Roma 1996, p. 56. «La distinzione fra mito e mistero – prosegue Ciglia –, di lontana provenienza romantica, disegna, con singolare precisione, le due linee di fuga – rispettivamente, di trans-discendenza e, si potrebbe dire, di trans-ascendenza – che si dipartono, in direzione opposta, dal mondo del fenomeno e dalla soggettività umana che vi sta a fondamento. Esse individuano, rispettivamente, l’archeologia e la teleologia di questo stesso mondo e di questa stessa soggettività, cioè il loro donde ed il loro verso dove, la loro provenienza originaria e la loro vocazione ultima» (ivi, p. 60). 49. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 143.
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dell’avvenire»50. Solo l’intervento o l’inserimento di una prospettiva in grado di inserire la dimensione più autentica del tempo, ma quello del libero divenire, potrebbe scuotere il ritardo dell’immagine, offrire cioè una dialettica che permetta di andare oltre la stessa limitata fissità del concetto. «Così il mito è insieme la non verità e la fonte della verità filosofica»51; l’esegesi filosofica porta a distinguere il mito disinnescando la sua carica neutralizzante; la verità filosofica sarebbe tutta in questo processo di “de-neutralizzazione” dell’idolo, nell’atto stesso in cui è permesso alla materia o alla sostanza dell’opera di proferire parola, di farsi “verità”. In che modo è possibile scongiurare l’insufficienza idolatrica del mito senza dover per forza ricorrere all’intervento sostitutivo dell’intellettualismo? «Il compito della critica resta essenziale», premette Levinas, «anche se Dio non fosse morto, ma solamente esiliato»52. L’esigenza dell’interpretazione, “sostituzione” del concetto di fronte all’inconsistenza dei modelli, rispetto alla scomparsa di Dio non deve racchiudersi nelle maglie dell’intellettualismo. Un’altra prospettiva, si richiede un’altra “logica”: occorre semmai ispirarsi alla concretezza che «lega gli esseri tra di loro», che porta a riconoscere la “verità filosofica”, più che nell’«essere in quanto tale», nel rapporto fra gli essenti. Eppure, è bene precisare, come sulla base di questo discorso, per Levinas, come per Girard, la dimensione sacrale non vada anzitutto svalutata, né elusa, tanto meno “cancellata” (la sua “traccia” – per usare ancora un termine, una nozione, in lui assai presente – sarebbe comunque del tutto inestinguibile; vo-
50. E. Levinas, Il tempo e l’altro, cit., p. 62. 51. E. Levinas, La realtà e la sua ombra, cit., pp. 118-119. 52. Ivi, p. 119.
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lerla dominare o estinguere sarebbe un che di illusorio, come il ritorno dell’assassino sul luogo del delitto con l’intento di cancellare le sue tracce, non porta se non a lasciarne di nuove), del resto la violenza che la contraddistingue sarebbe proprio per questa particolare tendenza o tentativo, implacabile: non è di certo l’agire con la folle, immane pretesa di dominarla; il Sacro andrebbe semmai accolto (riconosciuto nella “neutralità” dei suoi esiti), ossia affrontato, razionalmente, proprio come avviene nell’esperienza critica e filosofica dell’arte, attraverso una “logica”, un allargamento di prospettiva – che si articola lungo il percorso meditativo che porterà alle pagine di Totalità e infinito (1961), sulla base e all’insegna della costitutiva nozione di “Visage”, di “Volto”. Come operare questa fondamentale distinzione, come uscire dalla condizione della pura existence, facendo in modo di non compromettere il discorso religioso sulla base dell’essere? Come è possibile staccarci dalla condizione “oggettuale” e determinata del mondo senza ricorrere, o rinchiudersi, come meglio vedremo, nel circolo vizioso fra sacro e violenza? La critica filosofica dell’arte, o del discorso poetico più nello specifico, rompe e rischiara l’atmosfera mitica e violenta del sacro, ricomponendo il suo statuto – ma non in termini di una razionalità mondana, pratica e immanente – bensì esaltando quella modalità che porterà il filosofo all’apertura della “santità”, quella che in termini levinasiani si fonda sulla “relazione con altri”. «È criminale uccidere la vittima perché essa è sacra – scriverà Girard – ma la vittima non sarebbe sacra se non la si uc cidesse»53. Ci troviamo dinanzi a un’ambivalenza troppo spesso paventata e non mai tenuta in debito conto, è la realtà del
53. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 13.
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sacrificio. Considerata nei termini del segreto, quello non già di una pratica estinta, ma di un fenomeno che ossessiona il nostro mondo: la violenza – e il suo oscuro, inscindibile legame con il sacro. Nesso tanto più stretto proprio là dove, come nella società attuale, si pretende di conoscere il sacro soltanto attraverso un contatto troppo diretto con le Scritture o sulla base della testimonianza, mai indagata fino in fondo, dei libri di etnologia: ben più che legato alle metafore o alla trasfigurazione di fenomeni naturali il sacro, osserva Girard, è innanzitutto «quel che domina l’uomo con tanto maggior sicurezza quanto più l’uomo si crede capace di dominarlo»54. Sulla scia degli studi antropologici ed etnologici, e con quanto andava affermando Levinas su un piano più esplicitamente filosofico, con acutezza non comune, Girard è sfuggito alle più diverse «incomprensioni del religioso» a cui l’antropologia, da decenni, ci aveva abituato – anzi ha individuato in questo talvolta esplicito artificio scientista «una espulsione e consumazione rituale del religioso stesso, trattato come capro espiatorio di ogni pensiero umano». «La tendenza a cancellare il sacro, a eliminarlo interamente – rileva Girard – prepara il ritorno surrettizio del sacro, in forma non più trascendente bensì immanente, nella forma della violenza e del sapere della violenza»55. La neutralizzazione del religioso sarebbe un modo, un “misconoscimento comune”, per non tener conto, di un sempre imprevisto ritorno: come già presagito nell’esperienza di tipo critico-letterario o ancora più sottilmente filosofica di M. Blanchot, l’esito dell’insorgenza di un Neutro, che non significa la dimensione del nulla (Girard fa riferimento alla «senescenza mentale che si cela dietro le pretese “radicali” dell’odierno 54. Ivi, p. 52. 55. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., pp. 445-446.
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nichilismo»56), non porta al collasso di un mondo e dei suoi infiniti orizzonti di senso ma, come sottolinea Levinas, «al mormorio incessante della sua sparizione»57. L’invasione e il predominio del Neutro è lo sfondo anonimo in grado di generare l’oblio del soggetto della tradizione filosofica occidentale, la permanenza estatica della “passività radicale”, il dominio violento e la cancellazione dell’io e del suo potenziale (trascendente) “esser-per-altri”. L’espulsione del sacro, del religioso, come afferma Girard (fors’anche in riferimento esplicito alla nozione di Gelassenheit nel pensiero di Heidegger, ossia l’abbandono dell’uomo all’esistenza, ma anche il rilascio dell’esistenza a sé stessa), porta al fenomeno dell’accettazione impersonale o, in altri termini, a una forma di adesione attraverso la quale il sopravvissuto, come chi è consacrato a una malattia «partecipa della potenza del dio, immunizzandosi contro gli effetti della sua violenza»58. Si intuisce da questo disconoscimento dell’alterità dell’altro (sempre accessibile, integrabile, sacrificabile), da questo smarrimento che è misto di recupero e di annientamento della soggettività poetica immersa in una «nudità esotica di realtà senza mondo»59, da questo primato dell’intenzionalità ontologica della vita affettiva ed effettiva (il “prendersi cura” che caratterizza l’esistenza concreta intesa nella sua finitudine), quella condizione che qualche anno più tardi Levinas valuterà come ra-
56. R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 216. 57. E. Levinas, Sur Maurice Blanchot, Fata Morgana, Saint-Clement-laRiviere 1975; tr. it. di A. Ponzio e F. Fistetti, Su Blanchot, Palomar, Bari 1994, p. 50. 58. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 50. 59. Il poeta è qui, in termini blanchotiani, Narciso, nome di un io e di un Dio raddoppiato. Cfr. M. Blanchot, L’écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980; tr. it., La scrittura del disastro, a cura di F. Sossi, SE, Milano 1990.
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gione del più profondo legame tra mondo letterario e filosofia heideggeriana60. L’evento estetico, così come infrange e ristabilisce a suo modo il movimento e la relazione verso l’oggetto e il mondo, riportando orgogliosamente (tradizione poetica romantica), o mestamente (tradizione poetica contemporanea) il soggetto all’acquisizione del proprio sé, ostacola o disorienta per Levinas il fondamentale cammino etico-filosofico verso l’esistente, l’altro, l’umanità del Bene. Si tratta di un pensiero critico che tenta di ricollocarsi dalla magmatica incondizione di esistenza anonima, da un vero e proprio clima di derealizzazione «del processo sacralizzante che dissimula all’uomo l’umanità della sua violenza»61, come dichiara Girard, alla prospettiva della trascendenza sulle basi di un’etica della relazione con Altri. In una conferenza del 1957 (dal titolo marcatamente kantiano, Una religione da adulti), ora presente in Difficile libertà, «al pari degli ebrei, i cristiani e i musulmani», ravvisava Levinas, «sanno che se gli esseri di questo mondo vivono la condizione di risultati, l’uomo abbandona la condizione di semplice risultato e riceve, secondo la parola di Tommaso D’Aquino, “una dignità di causa”, nella misura in cui subisce l’azione della causa – esteriore per eccellenza – vale a dire la causa divina»62.
60. Cfr. E. Levinas, L’ontologie est-elle fondamentale?, in «Revue de métaphysique et de morale», LVI, n. 1, 1951, pp. 88-98; ora in Id., Entre nous, cit., pp. 15-24; tr. it., L’ontologia è fondamentale?, in Id., Tra noi, cit., pp. 2940, in part. p. 32. 61. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 224. 62. E. Levinas, Difficile libertà, cit., p. 27. È attraverso il porre in luce le concezioni universali presenti nel particolarismo e nella storicità dei significati il modo autentico per accostarsi alla possibilità di “rivelare l’altro tramite la scrittura malgrado il fatto stesso di rivelarsi” e di identificarsi sotto forma di segno. Il compito dell’esegesi di fronte al verso e al versetto resta dunque essenziale: portare alla luce l’attualità del significato più remoto presente
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Ed è proprio tenendo conto di questo particolare influsso, di adesione o di sottomissione a una causa “divina” esteriore per eccellenza che per Levinas e Girard, il Santo diventa – stando all’etimologia della “sancita” sacralità, all’interpretazione più ricorrente e in termini opposti – lo sviluppo del processo di de-sacralizzazione del Sacro religioso, del Sacro elementare, della “condizione di risultati”, del primitivo, violento e vittimario; è l’uscita in sintonia e in degna coerenza con una causa esteriore, ma per eccellenza. Precisa infatti Levinas: Una desacralizzazione del Sacro. La giustizia resa all’altro, mio prossimo, mi dona di Dio una prossimità inoltrepassabile. Il religioso è il giusto. Giustizia è il termine che il giudaismo preferisce ad altri termini maggiormente evocatori di sentimenti. Perché l’amore stesso domanda giustizia e la mia relazione con il prossimo non potrebbe rimanere esteriore ai rapporti che questo prossimo intrattiene con terzi: il terzo è dunque mio prossimo.63
Ben inteso, qui non si tratta della cancellazione del Sacro, ma la sua riformulazione, il suo filtraggio, la sua “purgazione” in termini autenticamente metafisici o trascendenti in chiave critica e più dichiaratamente ed eminentemente etica. Santità della Religione nei termini dell’amore e del giusto e non della vittima espiatoria da esecrare. Religione del Figlio del Dio padre, per Girard. Etica del Volto che obbliga all’imperativo del comandamento etico dell’altro, al suo logos che è: “tu non mi ucciderai!”64, per Levinas.
nella testimonianza; il suo sforzo per Levinas risiede infatti nel riuscire a scorgere l’“anacronismo” («vale a dire l’eternità») dell’ispirazione fondamentale quale anima più profonda del testo biblico e talmudico. 63. Ivi, p. 35. 64. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1949; tr. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 198.
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Da una parte, la proposta speculativa di Levinas, inscritta nell’alveo della migliore tradizione del pensiero ebraico inteso come decisa rottura con il paganesimo, ossia, in termini più espressamente filosofici e laici, come filtro o rimedio (e ciò a partire dalla tradizione del Midrash, del Talmud, seguendo il principio dell’“amare la Torah più di Dio”) contro la violenza della metafisica (o violenza metafisica) tradizionale e del Sacro religioso. Il monoteismo ebraico – rammenta Levinas – non esalta una potenza sacra, un numen trionfante su altre potenze numinose che però partecipi ancora alla loro vita clandestina e misteriosa. Il Dio degli ebrei non è il sopravvissuto di dèi mitici. […] Il monoteismo segna una rottura con una certa concezione del sacro. Non unifica né gerarchizza tali dei numinosi e numerosi: li nega. Rispetto al Divino che essi incarnano, è ateismo.65
Dall’altra, la riflessione critica di Girard, legata alla tradizione del pensiero cristiano, vissuto come rottura con quanto vi è di residuo del paganesimo nella comunità e nel rapporto con la dimensione del Sacro: il distacco in funzione del Santo nella sua interpretazione dei Vangeli si distingue infatti per portarsi «nella direzione contraria a quella del sacrificio, ossia nella direzione della rivelazione»66, più precisamente, in quella precisa consapevolezza secondo la quale la vittima sacrificale non si riconosce più nella colpa che le viene attribuita, ma nell’innocenza di «colui che soffre per tutti gli altri» che, più di tutti, come tale si rivendica: così il capro espiatorio «si designa come l’agnello di Dio»67. In questi termini si esprime Marie Girard, nipote del famoso antropologo, presidente della Société des amis de René Girard:
65. E. Levinas, Difficile libertà, cit., p. 31. 66. R. Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 337. 67. Cfr. ivi, pp. 202-203 e 204.
157 Forse l’occidente è debole nel dover essere costantemente perdonato per essere il depositario di una verità rivelata, quella verità che consiste nel proclamare l’innocenza delle vittime, quella verità che dà al cristianesimo una posizione così speciale: ‘l’unico vero religioso è quello che demistifica le religioni arcaiche’.68
Per Girard, è come se il Sacro, la sua presenza indistinta, prevalesse sempre in assenza di relazione, al pari di ogni riproposizione della violenza nei termini del desiderio mimetico, della vendetta attuata col precipuo scopo di ristabilire all’interno di una comunità il senso della giustizia. Proprio perciò lo studioso crede che il cristianesimo cambia tutto, perché inaugura un nuovo paradigma sociale non più contraddistinto dai «connotati sgradevoli e ripugnanti del capro» ma da quelli interamente positivi dell’“agnello” (Agnus Dei), pronunciando con «efficacia maggiore l’innocenza di questa vittima, l’ingiustizia della sua condanna, il “senza causa” dell’odio di cui è oggetto»69. Il cristianesimo per Girard scongiura il meccanismo sacrificale che ha segnato nei secoli l’ordine primitivo, arcaico e religioso dell’umanità, sostituendo in chiave senz’altro “moderna”, ossia nel segno della bontà e della giustizia per altri, «il punto di vista della vendetta, che è sempre la riproduzione rovesciata della prima rappresentazione persecutoria, la sua ripetizione mimetica»70. Per il giudaismo – ricorda Levinas – il fine dell’educazione consiste nell’istituire un rapporto tra l’uomo e la santità di Dio e nel mantenere l’uomo in tale rapporto. Ma tutto il suo sforzo […] consiste nel comprendere tale santità di Dio in un senso che rompe con il significato numinoso del termine, così come
68. G. Meotti, Non possiamo non dirci cristiani. È l’eredità di René Girard, in «Il Foglio», 9 gennaio 2021. 69. R. Girard, Il capro espiatorio, cit., pp. 202-203. 70. Ivi, p. 219.
158 appare nelle religioni primitive in cui i moderni hanno spesso voluto vedere la fonte di ogni religione. Per tali pensatori il possesso dell’uomo da parte di Dio, l’entusiasmo, sarebbe la conseguenza della santità o del carattere sacro di Dio, l’alfa e l’omega della vita spirituale. Il giudaismo ha de-magizzato il mondo, ha rotto con la pretesa evoluzione delle religioni a partire dall’entusiasmo e dal sacro. Il giudaismo rimane estraneo a ogni ritorno offensivo di tali forme di elevazione umana, la denuncia come l’essenza dell’idolatria.71
Non è la rinuncia a sé in virtù dell’estasi, priva della considerazione dell’altro da sé, ma traduce l’adeguamento “incon sapevole” in piena aggregazione o adesione mimetica al movimento e allo stordimento di altri accanto a sé. Si tratta di rompere, come in Girard, con una visione impregnata da una millenaria cultura in cui l’ordine sociale e culturale è retto dall’idea di “persecuzione”. Quasi all’unisono, il temperamento anticonformista di Girard, pur se declinato in senso dichiaratamente religioso, si adatta molto bene al carattere laico di questa stessa visione. «Per sfuggire all’arcaica sacralità – è questa la sua ingiunzione –, dobbiamo scegliere la santità, che è la via verso la quale ci sta conducendo, con la grazia di Dio»72. Stessa identica predisposizione e tensione etica, dunque, quella di Girard, le cui intuizioni, fondate sui principi di una spiritualità religiosa, oltre che sull’insistita e insonne ricerca sul senso meno retrivo e più autentico delle parabole e degli episodi presenti nelle Scritture73, come suggerisce P. Antonello, «non esauriscono il mito […] ma sono destinate a diventare la pietra angolare di una nuova scienza dell’uomo capace di con-
71. E. Levinas, Difficile libertà, cit., pp. 30-31. 72. G. Meotti, Non possiamo non dirci cristiani, cit. 73. Cfr. R. Girard, Delle cose nascoste, cit.
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siderarlo in modo più realistico ed efficace», dove «la persecuzione è riconosciuta per quello che è, senza più trasfigurazioni mitopoietiche: i Racconti evangelici della passione di Cristo si pongono in modo sistematico dalla parte della vittima innocente e contro i suoi carnefici, uomini storicamente esistenti al pari di noi, ma che vengono qui messi a nudo nella loro dipendenza dalla violenza sacrificale e linciatoria»74. Dietro ogni disconoscimento del volto, dietro ogni soppressione dell’umanità dell’altro – questa è peraltro la tesi più ricorrente da Totalité et infini in poi – si cela soltanto la brutalità della tirannide e della violenza; ed è tramite questa stessa violenza che la filosofia dell’essere attua la negazione dell’etica, proclamando l’inammissibilità di Dio se non a partire dalla dimensione dell’essere medesimo e dal suo prolungamento mitico e sacrale. Ben altre considerazioni emergono da questo esempio di testimonianza in cui verità e giustizia, fede e senso morale, tracciano il solco per un’umanità davvero tale in quanto aperta a tutti, e forse, nel suo carattere profetico, nella sua utopia, per sempre a venire: Una verità è universale – rimarca Levinas – quando vale per ogni essere ragionevole. Una religione è universale quando è aperta a tutti. E, in questo senso, il giudaismo che lega il divino con il morale si è sempre voluto universale. Ma la rivelazione della moralità, che scopre una società umana, scopre anche il posto d’elezione che, in questa società umana universale, spetta a chi riceve tale rivelazione. Elezione che non è fatta di privilegi ma di responsabilità.75
74. P. Antonello, La sfida del mito e della storicità, intr. a R. Girard, Miti d’origine. Persecuzioni e ordine culturale, tr. it. di E. Crestani, a cura di P. Antonello e G. Fornari, Feltrinelli, Milano 2005, pp. XXVIII-XXIX. 75. E. Levinas, Difficile libertà, cit., p. 39.
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In cosa consiste allora, più nello specifico, una tale pretesa di “santità”? Anteporre l’Altro alla coscienza di sé, significa questo: «Io mi vedo obbligato dallo sguardo d’altri e di conseguenza – replica Levinas sulla scorta della tradizione ebraica – sono infinitamente più esigente verso me stesso che verso gli altri»76. Insomma, potremmo dire che in Levinas, l’opera di significazione può elevarsi al di sopra tanto al di là di ogni proiezione ontologica quanto al di là di ogni possibile caduta nichilistica (nel vuoto o nella privazione di senso) solo nei termini della disimmetria istituita in virtù di un concetto limite, quello della soggezione fino all’espiazione (nozioni talmente estreme, come sottolinea Ferretti77 sulla scorta di P. Ricoeur, «da rischiare la compromissione con l’etica sacrificale» denunciata da Girard). Qui, come lo stesso Ferretti tende a precisare, ben al di là dalla pericolosa deriva di scorgere l’altro come il mio carnefice, si parla di soggezione, ma nei termini di un’unicità, di un io responsabile quale costante rinvio o spontanea riduzione alla significazione primaria della trascendenza, ove ciò che prevale è l’idea di una soggettività affrancata mediante un atto di vera e propria «espiazione» dal proprio se ipsum: «la soggettività», come il filosofo ha tenuto a esplicitare in Humanisme de l’autre homme, «non è l’Io, ma me»78. Ben inteso, qui a preva-
76. Ibidem. 77. G. Ferretti, Dal sacro al santo. La trascendenza teologica non violenta in Emmanuel Levinas, in I. Kajon - E. Baccarini - J. Hansel - F. Brezzi (a cura di), Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, Atti del Convegno internazionale per il Centenario della nascita, Roma, 24-27 maggio 2006, Giuntina, Roma 2008, pp. 47-66, in part. p. 59. 78. E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; tr. it. di A. Moscato, Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova 1985, p. 135. «Ciò che io chiamo responsabilità per altri, amore senza concupiscenza, l’io può trovarne l’esigenza soltanto in sé stesso; essa sta nel suo “Eccomi” di io, nella sua unicità non intercambiabile di eletto. Essa è
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lere non è tanto la rinuncia, il vuoto o la morte di un soggetto, bensì il senso, o la santità, di un’elezione; in questa accezione dell’affrancamento dal sé, per Levinas, è il Bene che mi elegge prima che io lo accolga79. Per Levinas, la nitidezza del volto, presentandomi l’assoluta alterità d’Altri «non nega il Medesimo, non gli fa violenza come l’opinione o l’autorità o il sovrannaturale taumaturgico»80. Così, allo stesso modo, rispetto alla forma che fissa l’indefinibile estensione della significazione del “Libro” in un concetto, l’espressività e la profondità del visage invitano al contrario alla considerazione di un allargamento di prospettiva, invitano al rispetto di questa plurivocità dei significati in essa contenuti. Il volto d’autrui, per il filosofo, più dell’immagine artistica, fascinosa e violenta, più enigmatico e sorprendente di ogni versetto, determina il mio non potere, il non poter agire o il non poter com-prendere della mia soggettività; ma questa “passività radicale” che il volto mi trasmette, non porta alla mia esclusione, al mio disinteresse, al mio godimento; obbliga me, semmai, alla piena “responsabilità”, al rispetto dell’imperati-
originariamente senza reciprocità che rischierebbe di compromettere la sua gratuità o grazia, o carità incondizionata. Ma l’ordine della giustizia degli individui responsabili gli uni verso gli altri non sorge per ristabilire tra l’io e il suo altro questa reciprocità, sorge dal fatto del terzo che, accanto a colui che è per me ancora un altro. […] Ecco l’ora della Giustizia, della comparazione degli incomparabili che si riuniscono in specie e generi umani. E l’ora delle istituzioni abilitate a giudicare e l’ora degli Stati in cui le istituzioni si consolidano è l’ora della Legge universale che è sempre la dura lex e l’ora dei cittadini uguali dinanzi alla legge» (E. Levinas, L’Autre, Utopie et Justice. Entretien avec Emmanuel Lévinas, in «Autrement», n. 102, novembre 1988, pp. 53-60, ora in Id., Entre nous, cit, pp. 253-264; tr. it., L’altro, utopia e giustizia, in Id., Tra noi, cit., pp. 267-278: pp. 272-273). 79. Cfr. E. Levinas, Altrimenti che essere, cit., p. 171. 80. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 208.
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vo etico della “giustizia”, il cui logos significante afferma il «tu non mi ucciderai»81. Il «potere» (ma si potrebbe meglio dire, “l’ordine” trascendente) di cui il volto è richiamo, la sua epifania, scardina ogni possibile supremazia retorica e ogni possibile logica teoretica; esso, dicevamo, infrange nell’opera il movimento centripeto che riconduce o porta a raccontare il suo autore (il suo doppio82). Al fondo della parola sussiste dunque, per Levinas, l’originalità dell’espressione; ciò significa rottura definitiva con qualsiasi influenza esteriore, o straniante, rispetto alla stessa relazione; ciò presuppone l’estraneità a ogni compromesso e a ogni contaminazione che sia il riflesso di un’esteriorità anonima. La relazione etica fra gli essenti, al contrario, si regge ispirandosi alla «rettitudine del faccia a faccia», per cui il linguaggio – più che rinviare al primato della “ripresentazione” dell’essere – ha senso solo se “ritorna” alla sua essenza di pura espressione, all’«auto-garanzia» del volto come «parola d’onore» e come desiderio di «giustizia» o, in senso cristiano per Girard, di comandamento d’amore, di “carità”. L’autenticità sta nell’opera del commento infinito che spinge il testo a elevarsi al di là di sé stesso, cioè al magistero della verità come prescrizione. Verità dunque non come frutto del disve-
81. Ivi, p. 204. 82. Per questo processo degenerativo che dal “desiderio mimetico” porta alla “mostruosità del doppio”, cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 224: «Per quanto mi consta, Dostoevskij è il solo ad aver veramente individuato gli elementi di reciprocità concreta dietro al brulicare dei mostri, nel Il sosia dapprima, e poi nelle grandi opere della maturità. Nell’esperienza del doppio mostruoso, le differenze non sono abolite ma confuse e mescolate. I doppi sono tutti intercambiabili senza che la loro identità sia formalmente riconosciuta. Forniscono quindi, tra la differenza e l’identità, il termine medio equivoco indispensabile alla sostituzione sacrificale, alla polarizzazione della violenza su una vittima unica che rappresenta tutti gli altri».
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lamento, come parola poetica legata all’idea della visione, che fonda il luogo e che riafferma o riassicura l’io nella sua coscienza; ma, ancora una volta, come l’imperativo della rivelazione, «traccia dell’altro», la quale fa riecheggiare un appello, un comandamento etico, dove la luce non è tanto chiarezza dell’essere, ma una voce che confonde e sconcerta, la luce dei giusti. Ed è in questo senso che la lettura midrashica levinasiana del Talmud promuove nel testo sacro la sua più severa «desacralizzazione» o «demitizzazione»83: ciò che l’esegesi intende valorizzare nel testo è proprio il modello della santità, dell’invito all’agire incondizionatamente per Autrui. Così, al pari dell’epifania del volto, la scrittura – in presenza di chi è all’ascolto – significa un «ordine irrecusabile», un comando, che fa venir meno la disponibilità della coscienza. Infatti, al pari dello stesso primato, della stessa radicale «hétéronomie» del visage, la scrittura denuda e mette in discussione la coscienza. Ma, sottolinea il filosofo, «la messa in questione non è nuovamente presa di coscienza di tale messa in questione. L’assolutamente altro non si riflette nella coscienza. Vi resiste a tal punto che la sua resistenza non si trasforma in contenuto di coscienza»84. L’impresa ermeneutica levinasiana, intesa quale frapposizione indispensabile dinanzi alla scrittura, per dare atto alla «rottura dell’incantesimo» cui soggiacciono la parola e il versetto, trasforma così il concetto pratico della sollecitazione nel concetto etico della sollecitudine verso autrui. Essa – affidandosi alla sovranità della nozione di Visage, principio dai risvolti profondamente metafisici in grado di fornire in virtù del dialogo e della relazione con autrui quegli elementi ideali in grado di 83. Cfr. J. Derrida, L’écriture et la différence, Seuil 1967; tr. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971. Cfr. inoltre A. Ponzio, Scrittura dialogo alterità. Tra Bachtin e Levinas, La Nuova Italia, Firenze 1994, in part. il cap. L’ebraismo desacralizzato e la filosofia di Levinas, pp. 69-72. 84. E. Levinas, Scoprire l’esistenza, cit., pp. 224-225.
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sciogliere nella parola il suo significato umano – è, come nelle interpretazioni girardiane dei Vangeli, responsabilità di una parola che esige la sua applicazione in un ordine o nel più ampio “contesto” della giustizia morale. Si dischiude così, per entrambe le proposte, un orizzonte etico e di giustizia che esige una responsabilità o un’obbedienza per altri il cui senso ultimo è, come verrà esplicitato nelle meditazioni che confluiranno in Autrement qu’être, la substitution dell’io quale radicale disposizione in favore del prossimo. Il compito della filosofia levinasiana, e del pensiero critico girardiano, pur con le varie modulazioni del loro procedere, giungono così al pieno della loro maturità distinguendosi fondamentalmente per aver inteso rompere la suggestione idolatrica dell’ispirazione poetica (estetica); per aver smosso la rigidità deturpante e cadaverica della tematizzazione del concetto (ontologia) e per aver voluto scuotere la passiva e deformata coscienza dell’uomo di fronte al Sacro (religione): una fissità o pietrificazione, come abbiamo potuto appurare, non priva di una mal celata “violenza” nei confronti e dell’ente e dell’uomo e di Dio. A questo proposito, Levinas tende a ribadire piuttosto l’anteriorità della struttura etica del discorso, da qui la sua attenta e profonda meditazione sulle ragioni della parola e della tradizione “orale” come intima trasparenza del senso più autentico e dell’umano, da qui la sua originale riproposizione della lettura della vita rituale giudaica. Solo l’interrogazione dei testi talmudici consentirà a lui, nella fase immediatamente seguente a Totalité et infini, di indagare più nel profondo attraverso alcuni temi decisivi85 l’intenzionalità trascendente della scrittura – qua-
85. I temi, discussi nelle quattro conferenze raccolte in Quatres lectures talmudiques, sono: «il perdono del peccato irremissibile; il valore della disponibilità illimitata, senza impegno riguardo a chichessia; la violenza della
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le segreta testimonianza di un cammino, o il farsi stesso di una direzione sicura (di “perdono” e di “sacrificio”), «verso altri»86. Se nella dimensione dell’intenzionalità fenomenologica e del l’ontologia fondamentale il rapporto dell’io-tu viene sconquassato dall’ammorbante presenza di un non-vrai, dall’il y a delle riflessioni di fine anni ’40, nella pratica della “differenza etica” si inserisce e scompiglia – rispetto alla sottomissione, allo sconvolgimento dell’io-per-l’altro – l’“assenza-presenza” dell’Egli quale traccia di un tempo che è per sempre già passato, ovvero di una temporalità che non può mai più ritornare sui suoi passi, su di sé, sull’Identico, poiché è traccia dell’assolutamente
creazione politica; il rapporto tra la giustizia e la morale privata» (E. Levinas, Quatre lectures talmudiques, Minuit, Paris 1968; tr. it. di A. Moscato, Quattro letture talmudiche, Il melangolo, Genova 2008, p. 25). 86. Ivi, p. 41. Scrive Levinas in conclusione alla sua prima lettura: «E ciò che resta ancora dopo questa cupa visione della condizione umana e della Giustizia stessa, ciò che s’innalza sopra la crudeltà inerente all’ordine razionale (e forse all’Ordine semplicemente), è l’immagine di questa donna, di questa madre, di questa Ritzpa Bath Ajà che, durante sei mesi, monta la guardia accanto ai cadaveri dei suoi figli, mischiati ai cadaveri di quelli che non sono suoi figli, per preservare dagli uccelli del cielo e dalle fiere dei campi le vittime dell’implacabile giustizia degli uomini e di Dio. Ciò che resta dopo tanto sangue e tante lacrime versate in nome d’immortali principi è l’abnegazione individuale, la quale, in mezzo ai rimbalzamenti dialettici della giustizia e a tutti i suoi capovolgimenti contraddittori, trova, senza esitare, una via dritta e sicura» (ivi, p. 63). O ancora, nel secondo commento: «Il fatto che qualsiasi altro, mio prossimo, sia anche “terzo” in rapporto al prossimo, m’invita alla giustizia, a pesare e a pensare. E la responsabilità illimitata, che giustifica la cura della giustizia e di se stessi e della filosofia, può cadere in oblio. Nell’oblio, nasce l’egoismo. Ma l’egoismo, non è né primo né ultimo. L’impossibilità di sfuggire a Dio – che almeno in questo non è un valore come gli altri – è il “mistero degli angeli”, il “Faremo e udremo”. Esso sta nel profondo dell’io in quanto io, che non è solo nell’esser la possibilità della morte, la “possibilità dell’impossibilità”, ma già la possibilità del sacrificio, nascita d’un senso nell’ottusità dell’essere, d’un “poter morire” subordinato al “sapersi sacrificare”» (ivi, p. 96).
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altro, del suo ritrarsi. All’imporsi in qualità di traccia, infatti, il linguaggio cui si ispira la trascendenza non evoca, non domanda, non si imprime come il luogo dell’essere – «in quanto Egli e terza persona, è, in certo senso, al di fuori della distinzione dell’essere e dell’ente»87; – la parola umana che la poesia ricerca non evoca più, come nelle letture hölderliniane di Heidegger, gli dei che sono passati o che sono ancora da venire; o in altri termini, essa non indica l’“arrischiante” percorso che conduce i poeti nei sentieri del sacro, verso la divinità, poiché, se essere “a immagine di Dio” significa, «trovarsi nella sua traccia»88, andare verso di lui non vuol dire seguire questa traccia «che non è un segno», ma «andare verso gli Altri che sono nella traccia della trascendenza»89, ovvero nell’apertura dell’umano e del sensato. Il parallelo tra Levinas e Girard ci invita a constatare quanto le due prospettive di pensiero si ritrovino nel comune ripristino dell’universo religioso; per il primo si tratta di recuperare tramite la tradizione biblica e la cultura ebraica un’idea di Dio non condizionata dalla centralità dell’Essere, per quanto rimessa in questione, verso una prospettiva di trascendenza, non teologica, tutta in chiave etico-filosofica; per Girard si tratta invece di recuperare una spiritualità non contaminata dalla dimensione violenta del Sacro e dai residui pagani presenti ancora all’interno della modernità. De-sacralizzazione del religioso significa allora recuperare un procedimento critico, una funzione logica nei termini di una filosofia pratica e razionale (in riferimento anche a Kant e ai limiti della sola ragione): per Girard si tratta di ripulire, purgandolo, il sentimento di fede da quella norma sacrale e primitiva, anche nella
87. E. Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 89. 88. Ivi, p. 91. 89. Ivi, pp. 91-92.
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sua particolare esperienza tramite una profonda analisi delle Scritture e un’inedita rilettura critica dei Vangeli; esaltando in primo luogo un sentimento di innocenza, di giustizia e di umanità, quella di chi si sacrifica, ma non in virtù di una colpa da emendare nel nome di una comunità, bensì proprio in quanto innocente, ossia in grado di testimoniare il senso della giustizia e della responsabilità e santità verso l’altro. Recupero del religioso, dunque, con la netta consapevolezza di quanto in esso vi si custodiscano le radici più salde e inesauribili dell’umanità più autentica; ma a patto però di tener in debito conto quanta abissale e disumana violenza accompagni l’ineluttabilità del tragico e l’ingiustificabile orrore che permane nell’ingenua ritualità e nell’indifferenza di quanti si ostinano a sminuire il virulento richiamo del sacro.
II Il politico e la decadenza d’Europa
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La decadenza europea vista da lontano: la crisi della rappresentanza secondo H.D. Thoreau Simone Furlani
1. Il trascendentalismo americano e H.D. Thoreau: due premesse Oggi, ogni discorso sulla figura e sul pensiero di Thoreau richiede – a nostro avviso necessariamente – due premesse, una relativa, in generale, a che cosa si debba intendere per “trascendentalismo americano” e una relativa, più nello specifico, a questo autore. Per quanto riguarda la prima questione, quello che chiamiamo “trascendentalismo americano” sembra aver perso qualunque contatto con la filosofia trascendentale di matrice kantiana e con la sua attenzione epistemologica a escludere ogni sapere che non sia giustificato scientificamente da una ragione che riflette sulle proprie condizioni di possibilità e, quindi, sui suoi limiti. Temi (Dio, anima, carattere, ecc.), metodi (intuizione intellettuale, intensità del sentimento, ecc.), modalità espositive (discorso pubblico, coinvolgimento del linguaggio quotidiano) sono talmente lontani dall’approccio trascendentale originario che non sorprendono alcuni giudizi molto negativi che ne denunciano una sorta di deriva romantica, metafisica o teologica, così come non sorprende che sia stato addirittura avanzato il
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sospetto di un fraintendimento: i trascendentalisti americani si sarebbero chiamati così sovrapponendo il concetto di “trascendentale” a quello di “trascendente”. Tanto più che le fonti principali, che avrebbero veicolato la filosofia trascendentale kantiana nel nuovo continente, offrirebbero un’immagine del pensiero di Kant lontana dal suo spirito critico originario o, nel migliore dei casi, una sua interpretazione in chiave teologicometafisica. In ogni caso, il pensiero di Emerson o quello di Thoreau, per non parlare di molte posizioni espresse sulle pagine di «The Dial», spesso ci sembrano dare corpo a modalità di un pensiero pre-critico che, nonostante il nome, non hanno ancora attraversato la rivoluzione copernicana in filosofia compiuta da Kant1. In verità, accanto al sospetto di una ricaduta all’indietro nel dogmatismo pre-kantiano, si dovrebbe anche sospettare e verificare se il movimento trascendentalista non rappresenti invece un passo in avanti nella direzione di un approfondimento, più o meno consapevole, degli elementi irrisolti del criticismo e nella direzione, dunque, di un suo superamento. È il sospetto e la
1. Sul trascendentalismo americano, cfr. innanzitutto l’antologia di documenti J. Myerson (a cura di), Transcendentalism. A Reader, Oxford University Press, Oxford-New York 2000, e J. Myerson - S.H. Petrulionis - L. Dassow Walls (a cura di), The Oxford Handbook of Transcendentalism, Oxford University Press, New York 2010. I numeri della rivista «The Dial» sono disponibili in rete: cfr. http://onlinebooks.library.upenn.edu/webbin/serial?id=thedial. Per quanto riguarda le letture critiche del trascendentalismo americano e, in particolare, del pensiero di Emerson, cfr., ad esempio, H.W. Schneider, Storia della filosofia americana, tr. it. di V. Ferratini e P. Valesio, il Mulino, Bologna 1963, in cui si parla di «simpatia acritica» dei trascendentalisti «verso ogni cosa che non fosse scientifica» (p. 309), e C. Sini, Il Pragmatismo americano, Laterza, Bari 1972, pp. 48-49, laddove Sini parla di «spirito profetico-mistico» che inclina verso un «romanticismo panteistico». Il sospetto che la scelta di chiamarsi trascendentalisti si fondi su un fraintendimento di “trascendentale” con “trascendente” è avanzato in J. Murdock, Modern Philosophy, Hartford, New York 1844, pp. 167 ss.
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verifica messi in campo da Stanley Cavell. Mostrando, ad esempio, come in Emerson il discorso sulle «condizioni» del sapere, sia pur inscindibile da quello sulla «condizione» esistenziale o materiale del soggetto, non si allontani affatto dal problema filosofico delle «condizioni di possibilità» genuinamente kantiano, Cavell conclude che la filosofia di Emerson incarna una «radicalizzazione» della prospettiva trascendentale originaria2. È una radicalizzazione che conduce soprattutto a una revisione radicale del linguaggio filosofico, che certamente recupera molte nozioni della teologia e della metafisica pre-kantiane, ma che si apre anche e soprattutto al linguaggio quotidiano, ordinario, coinvolgendo addirittura «ogni parola» nell’interrogativo trascendentale sulla legittimità del sapere e dei suoi strumenti3. E questo obbligo s’impone perché vengono meno le possibilità di mediazione garantite – in Kant e, nei modi più diversi, nella filosofia trascendentale post-kantiana – da una sensibilità articolata secondo le forme pure di tempo e spazio, da categorie che illuminano razionalmente i materiali percepiti, da schemi che consentono di superare l’«eterogeneità» di intuizioni e concetti, di dati e categorie e, quindi, in generale, di vita e sapere4. È proprio questo il punto decisivo: il trascendentalismo americano, soprattutto laddove si prenda le mosse da Emerson, va letto come una forma di filosofia trascendentale diventata consapevole di un’immediatezza insuperabile tra realtà (o natura) e conoscenza. È una filosofia trascendentale che ha inteso che ogni forma di schematismo non è più sufficiente. È una filosofia trascendentale che ha compreso come ogni possibile schema di matrice kantiana sia sovrastrutturale rispetto a una 2. Cfr. S. Cavell, Emerson’s Transcendental Etudes, a cura di D.J. Hodge, Stanford University Press, Stanford 2003, in part. pp. 112 ss. 3. Cfr. ivi, pp. 4 e 70. 4. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G. Colli, Adelphi, Milano 19992, p. 218.
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realtà e a una «vita» che eccedono le possibilità del soggetto che conosce. La conoscenza ruota attorno a una frattura incomponibile tra oggetto e soggetto che deve tornare a essere presupposto e consaputo esito della filosofia. E, allora, è pienamente conseguente il rientrare in gioco di contenuti (Dio, l’anima, addirittura l’«over-soul», ma anche la natura, il «carattere», ecc.) e di metodi (l’evidenza del sentimento, l’intuizione intellettuale, ecc.) che agli occhi di Kant e di gran parte della tradizione trascendentale europea apparirebbero come evidentemente dogmatici. Rileggere il pensiero di Emerson a partire da un interrogativo trascendentale rilanciato al di là del terreno circoscritto dagli schemi trascendentali e collocato attorno a un’insanabile differenza tra sensi e realtà, intelletto e mondo, sapere e vita, lo emancipa da un giudizio – a questo punto possiamo dire troppo affrettato – di dogmatismo prekantiano, romantico o metafisico. Se spesso il trascendentalismo americano ha subito interpretazioni e giudizi frettolosi, questo vale ancora di più per la figura di Thoreau e per il suo pensiero. Solitario e mistico, naturalista e precursore dell’ecologia contemporanea, stoico e irreprensibile, anarchico e disubbidiente, esploratore e amico degli indiani d’America, agrimensore e, nel migliore dei casi, poeta, Thoreau è stato presentato e continua a essere presentato come un pensatore eccentrico e caratterizzato dall’«assenza di metodo»5, piuttosto che come un filosofo, come un uomo coraggioso, di grande volontà e di una coerenza nei comportamenti al limite della rigidità più gratuita, piuttosto che come un profondo ragionatore. E di certo non aiuta a svincolarlo da queste maschere ricordare – lo si fa pressoché sempre – che, in tempi e in modi diversi, a Thoreau si sono ispirati Tolstoj e
5. H.S. Salt, Henry David Thoreau, tr. it. di G. Testani, Castelvecchi, Roma 2015, p. 114.
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Luther King, Gandhi e Malcom X, ovvero grandi personalità all’interno della storia mondiale della letteratura e delle idee, ma non autori che individuiamo immediatamente come filosofi, come pensatori sistematici, rigorosi. Eppure, Thoreau stesso afferma che «essere filosofi» significa «risolvere i problemi della vita non solo teoreticamente, ma anche praticamente»6. Per quanto ci interessa, dobbiamo invertire l’ordine dei termini finali di questa citazione: il rinvio al pratico non elimina il riferimento al teoretico. Tuttavia, è proprio questo che cercheremo di fare rileggendo Disobbedienza civile: cercheremo di far emergere, rispetto al problema che ci siamo posti, il rigore filosofico, logico, teoretico che sottende questo testo di Thoreau, un rigore che oggi dovrebbe indurci a restituirgli la dignità di un filosofo che ha innanzitutto
6. H.D. Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi, BUR, Milano 19902, p. 72. Anche nello scritto che qui prendiamo in considerazione, Civil Disobedience, Thoreau richiama la necessità del lavoro filosofico e dell’approccio trascendentale all’interno (e prima) di ogni valutazione politica: si tratta di «estrarre un dato reale dalle relazioni meramente politiche, e osservarlo così come si presenta, in modo che l’intelletto possa valutarlo da solo» (H.D. Thoreau, Disobbedienza civile, seguita da La schiavitù nel Massachusetts, tr. it. di A. Mattacheo, intr. di L. Caffo, Einaudi, Torino 2018, p. 47; d’ora in avanti abbr. in CD). Sull’approccio del filosofo trascendentale alla politica, tuttavia, va considerata l’intera ultima parte dello scritto, laddove si parla dell’essere «condizionati», di «leggi» e «limiti» che il semplice uomo politico non vede, di «riflessione» e di «libero pensiero»; cfr. CD, in part. pp. 41-47. Sulla propria concezione di filosofia e sul lavoro del filosofo, cfr. anche Id., Io cammino da solo. Journal 1837-1861, tr. it. di M. Maraschi, Piano B, Prato 2020, le osservazioni del 1° settembre 1853, p. 238. Riguardo allo scritto sulla disobbedienza civile teniamo qui in considerazione due traduzioni: oltre a quella appena citata, anche La disobbedienza civile, seguita da Apologia per John Brown, tr. it. di P. Sanavio, intr. di G. Fofi, Bur, Milano 20133. Per alcune nozioni e alcuni passaggi testuali abbiamo consultato l’originale in Id., Walden, The Maine Woods, and Collected Essays & Poems, a cura di R.F. Sayre e E. Hall Whiterell, Library of America College Editions, New York 2007.
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elaborato un pensiero all’altezza della contemporaneità, una contemporaneità che, per molti aspetti, è ancora la nostra7. Anche rispetto a Thoreau seguiremo l’approccio di Cavell, facendo attenzione a non fraintenderne l’insistenza sul suo essere lo «scrittore di Walden»8. Con tale insistenza, e contrapponendosi alle interpretazioni, nel migliore dei casi, diaristiche di Walden, Cavell ritiene di dover ricondurre al linguaggio e al pensiero ogni «impresa» raccontata dall’autore9. In fondo, è all’altezza del linguaggio che in Walden la natura, la società, il lavoro, lo stesso suo protagonista acquistano significato. Sulla scia di questo approccio di Cavell, anche noi qui cercheremo di prescindere dall’episodio, ormai molto noto, che ha ispirato lo scritto sulla disobbedienza. Lo faremo concentrandoci innanzitutto e soprattutto sull’incidenza che il concetto di disobbedienza elaborato da Thoreau presenta nei confronti della scienza giuridica moderna10.
7. La bibliografia su Thoreau è vasta e variegata. Per un’introduzione generale al suo pensiero rimandiamo a J. Meyerson (a cura di), The Cambridge Companion to Henry David Thoreau, Cambridge University Press, New York 19994. Tra le diverse biografie abbiamo consultato W. Harding, The Days of Henry Thoreau. A Biography, Princeton University Press, Princeton 19824; S.H. Petrulionis (a cura di), Thoreau in His Own Time, University of Iowa Press, Iowa City 2012, biografia arricchita da molte testimonianze dirette sulla figura di Thoreau; e M. Sims, Il sentiero per Walden. Vita improbabile di Henry David Thoreau, tr. it. di A. Salzano, con un saggio di A. Moresco, Luiss University Press, Roma 2019. 8. Cfr. S. Cavell, The Sense of Walden. An Extended Edition, University of Chicago Press, Chicago 1992, p. 5. 9. Ivi, pp. 5-6. 10. L’approccio di Cavell al trascendentalismo americano è stato ripreso e rilanciato in vari modi. Per quanto riguarda Thoreau, cfr. in part. R.A. Furtak - J. Ellsworth - J.D. Reid (a cura di), Thoreau’s Importance for Philosophy, Fordham University Press, New York 2012. Naturalmente, seguiamo l’approccio di questi studi prescindendo, qui come in Cavell, dagli esiti poi
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2. L’impossibilità della delega La lucida consequenzialità della riflessione svolta in Civil Disobedience emerge soprattutto se manteniamo sullo sfondo della nostra lettura le logiche della rappresentanza così come elaborate dal giusnaturalismo11. Riassumiamo e ricordiamo come queste si articolino in Hobbes, a partire dallo stato di natura che, come noto, è caratterizzato dalla guerra di tutti contro tutti e da un utilizzo indiscriminato della forza, da parte di ogni individuo, che rende impossibili le più elementari condizioni di vita. Proprio per questo, gli individui, i soggetti individuali depositari di ragione e di una volontà libera, contraggono un patto che prevede il trasferimento della propria volontà al sovrano, una delega che è soprattutto rinuncia a utilizzare in prima persona la forza. Nasce così lo Stato (un sovrano o un’assemblea) che rappresenta la volontà generale, la volontà del popolo. Gli individui, che scegliendo di uscire dallo stato di natura diventano cittadini, si impegnano a permanere in questa decisione, ricevendo in cambio la protezione da parte di un sovrano (dello Stato) che costitutivamente detiene il monopolio della forza. In questo impianto, la disobbedienza è impensabile, tanto che il diritto alla contestazione e alla rivoluzione diventa uno dei problemi più urgenti all’interno di questa prospettiva12. L’“assolutismo” di Hobbes rinvia, tra l’altro, all’impossibilità di disobbedire: disobbedire al sovrano significherebbe disobbedire a sé stessi, contravvenire alla libera e razionale decisione di delegare la propria volontà e, di conseguenza, significhereb-
ottenuti (parallelismi o avvicinamenti a Kierkegaard piuttosto che a Heidegger, a Cartesio piuttosto che a Wittgenstein, ecc.). 11. Va ricordato che, anche sul piano del diritto e della politica, è Locke il punto di riferimento di questa fase iniziale della filosofia americana, come apparirà evidente alla fine della nostra analisi del testo di Thoreau. 12. Lo ricorda lo stesso Thoreau; cfr. CD, p. 10.
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be ricadere nello stato di natura. Si tratta una necessità logica, prima che pratica, empirica, fattuale. L’inammissibilità della disobbedienza all’interno dei meccanismi della rappresentanza e in particolare della delega della propria volontà – ma, come detto, in Hobbes più che di meccanismi si tratta di un innesto, di un passaggio che non prevede e non può prevedere alcuna dialettica – confina, affianca e anzi coincide con la possibilità che si istituisca lo Stato. È una corrispondenza o, ancora, un nesso logico, ed è proprio questo nesso logico che viene letteralmente smentito, smascherato, decostruito da Thoreau. È questo il momento di ricordare il presupposto di fondo del trascendentalismo americano che Thoreau, sulla scia di Emerson, riconosce e colloca alla base della propria prospettiva. Tra vita e sapere, tra natura e concetto, esiste una differenza insuperabile. Le nostre categorie, i nostri schemi, i nostri ragionamenti sono esteriori, sovrastrutturali, obliqui rispetto realtà. Sono costruzioni. In ambito giuridico, questo scarto si ritrova tra «verità» e «opportunità [expediency]»13, tra individui e stato, tra «uomini» (o «coscienze») e cittadini14, tra «giustizia» e «leggi»15, costituzione compresa16. Tuttavia, questo è soltanto l’esito di un’analisi rigorosa del funzionamento dei meccanismi rappresentativi che, innanzitutto, individua questo scarto all’interno del processo di formazione dello Stato17. Thoreau vede un salto, un cortocircuito o un’incongruenza esattamen13. Preferiamo, in questo caso, la traduzione di expediency con «opportunità», scelta compiuta nella traduzione di P. Sanavio (cfr. H.D. Thoreau, La disobbedienza civile, cit., pp. 24 ss.) e non con «convenienza», scelta effettuata invece in CD, pp. 12 ss. 14. Cfr. ad esempio e soprattutto, CD, p. 6. 15. Cfr. ad esempio, CD, pp. 6-7. 16. CD, p. 22. 17. Va ricordato che nell’intero discorso di Thoreau l’esercizio della forza da parte dello Stato si esprime soprattutto mediante l’imposizione fiscale e che
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te al centro del dispiegarsi del sistema della rappresentanza, ovvero all’altezza delle dinamiche della delega della propria volontà e della conseguente formazione della volontà generale incarnata dal sovrano. Secondo Thoreau, infatti, la delega al rappresentante di agire in propria vece è, in verità, impossibile. Com’è anche solo pensabile che, votando ed eleggendo un rappresentante, ci si possa separare dalla propria volontà? La volontà individuale è radicata «nel profondo» ed è inalienabile, è costitutiva della nostra persona, della nostra «coscienza»18. In linea con la scienza giuridica moderna, il punto di partenza è certamente la volontà e la libertà degli individui, la loro coscienza, il loro essere «uomini»19, scrive Thoreau. Tuttavia, la coscienza eccede ogni forma di delega e nessun voto può trasferirla a chicchessia. Pertanto, i meccanismi della delega non conducono a quel salto qualitativo che, perlomeno a partire da Hobbes, trasforma le molteplici volontà individuali in un’unica volontà generale. Permane un margine incolmabile tra l’essere uomini e l’essere cittadini, «sudditi»20. Anzi, il voto è innanzitutto un passaggio che inevitabilmente allontana l’individuo dalle istituzioni che
la disobbedienza civile si esercita, di conseguenza, rifiutando il pagamento di imposte relative ad azioni ritenute ingiuste. 18. Scrive Thoreau: «La tempra di chi vota non è mai in gioco. Può darsi che io decida di accordare la mia preferenza in base a quanto ritengo giusto. Ma non sono coinvolto nel profondo affinché quanto è giusto abbia la meglio; lascio che ad occuparsene sia la maggioranza. L’obbligo del voto, perciò, non va mai oltre la convenienza. Anche votare per il giusto vuol dire non fare nulla perché si affermi. Significa solo esprimere debolmente di fronte agli altri il desiderio che il giusto vinca. Una persona saggia non lo lascerebbe in balìa del caso, né lo vorrebbe veder prevalere attraverso il potere della maggioranza» (CD, pp. 14-15). 19. Cfr. CD, pp. 6, 9, 16, 25 e 46. Cfr. anche H.D. Thoreau, La schiavitù nel Massachussets, ivi, pp. 72 ss. 20. CD, p. 6.
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ne sono il risultato. D’altra parte, come detto, è insuperabile la differenza tra la naturalità dell’individuo (Emerson direbbe il «carattere»21) e l’artificialità dello Stato: la rappresentanza non può trasformare, preservare e tradurre la volontà naturale, la libertà e la giustizia che associamo all’uomo, nelle procedure e nei meccanismi del diritto e della politica che, pertanto e in verità, riguardano solo la dimensione dell’opportunità e della convenienza22.
3. Contro il meccanicismo Se il processo di formazione dello Stato attraversa uno scarto che questo stesso processo non è in grado di rendere lineare, allora, necessariamente, anche l’esito è tutt’altro che semplice, strutturato, organico. Questo scarto si ripercuote sullo Stato (sul «governo», scrive Thoreau), in primo luogo nella scissione tra maggioranza e minoranza. Lo Stato, il risultato delle dinamiche rappresentative, non è l’esito di un salto qualitativo, abbiamo detto, e quindi si rimane su un piano, per così dire, quantitativo che riproduce la frammentarietà del punto di partenza. La maggioranza che, attraverso il voto, dà corpo allo Stato non rappresenta affatto la volontà generale e va intesa in termini strettamente quantitativi e materialisti-
21. Cfr. R.W. Emerson, Character, in Id., Saggi, tr. it., con testo a fronte, a cura di P. Bertolucci, La vita felice, Milano 2018, vol. II, pp. 127-164. 22. Scrive Thoreau: «Dopotutto, la ragione pratica per cui, quando il potere si trova nelle mani del popolo, si permette alla maggioranza di governare, e di farlo per lunghi periodi, non è perché la maggioranza abbia più probabilità di essere nel giusto. E certo non è neanche perché sembri legittimo alla minoranza. Glielo si concede perché quelli in maggioranza sono materialmente i più forti. Eppure un governo in cui la maggioranza comanda a prescindere non può dirsi fondato sulla giustizia […]» (CD, p. 6).
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ci23: la maggioranza è una sommatoria di volontà particolari e, pertanto, è un soggetto politico che agisce sullo stesso piano, in fondo, dei soggetti individuali che pretende di riassumere in sé. Il patto che sta alla base della formazione dello Stato non porta a maturazione il passaggio dall’individuale all’universale. L’universalità dello Stato, anche quella più democratica, ovvero quella realizzata per via rappresentativa, è illusoria: lo Stato è uno «strumento», un «espediente», un «accorgimento»24. Lo Stato prodotto e incarnato dalla maggioranza rappresenta e resta un’entità parziale. A questo punto, la disobbedienza risulta completamente svincolata dal classico diritto alla rivoluzione. Poiché il sovrano non riassume, non incarna, non “rappresenta” la volontà dei singoli individui, non gli si deve un’obbedienza assoluta. Il tradizionale diritto alla rivoluzione è a posteriori, cioè presuppone una volontà generale che non si costituisce e un’obbedienza che, in verità, non è dovuta. L’errore è quasi di ordine logico. Si confondono causa ed effetto, presupposto e conseguenza: il diritto alla rivoluzione è pensato come effetto di una causa che, a ben vedere, è indotta, preordinata, predeterminata. L’assolutezza del sovrano è una proiezione ideologica o, nel migliore dei casi, un fraintendimento. La disobbedienza civile, invece, è connaturata, emerge immediatamente e contestualmente alla presa di coscienza della parzialità e dell’esteriorità del sistema rappresentativo. Mutano allora radicalmente l’orizzonte e la prospettiva del diritto alla rivoluzione: la disobbedienza civile non allude al momento repentino di rottura di un ordine costituito che si è andato corrompendo, ma, «senza eccessi», un elemento costitutivo della dialettica (pacifica, ragionata, distribuita e rin23. Cfr. supra, nota precedente. 24. CD, pp. 3 e 5.
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novata nel tempo, «civile», appunto) tra individuo e istituzioni statali, il cui equilibrio va costantemente trovato25. Non sono esclusi momenti di forte frizione, ma la disobbedienza deve essere esercitata anche nel caso di un governo virtuoso e di una vita politica regolare. «Deve», abbiamo appena detto. Infatti, potremmo riassumere questo essere costitutivo della disobbedienza civile affermando che essa non è un diritto, ma un «obbligo», un «dovere [duty]»26. La distanza raggiunta da Thoreau rispetto alle moderne teorie della rappresentanza può essere compendiata in una sorta di slogan: si passa dal diritto alla rivoluzione, al «dovere» della disobbedienza. Per quanto possa sembrare assurdo, sono la disobbedienza e la resistenza allo Stato che garantiscono agli individui una loro effettiva partecipazione alla vita pubblica, ed è questo il significato più riposto dell’espressione «disobbedienza civile»: non si dà dimensione pubblica, politica, civile se non contestando. In questo senso, il «governo» che ancora pretende di incarnare la volontà generale è caratterizzato da Thoreau con termini molto critici. In Civil Disobedience, lo Stato appare come una macchina che garantisce un ordine costruito, esteriore, tanto che coloro che rappresentano lo Stato in prima battuta («l’esercito permanente, la milizia volontaria, i carcerieri, i
25. Scrive Thoreau: «[…] voglio solo arrivare a comprendere quanto sono condizionato dalla sottomissione. […] dichiaro guerra allo stato senza eccessi» (CD, p. 40). 26. Ci riferiamo qui a uno dei titoli assunti dallo scritto di Thoreau sulla disobbedienza. Se Resistance to Civil Government è il titolo dello scritto alla sua prima apparizione sulla rivista «Aesthetic Papers», dopo Civil Disobedience lo scritto ha assunto anche il titolo di On the Duty of Civil Disobedience, in funzione del suo contrapporsi a quanto sostenuto da William Paley in The Duty of Submission to Civil Government, un capitolo dell’opera The Principles of Moral and Political Philosophy (1785) esplicitamente citato e discusso nel testo da Thoreau; cfr. CD, pp. 11-12.
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poliziotti, i comitati civici»27) agiscono esclusivamente con il corpo e sul corpo dei cittadini. Questi stessi servitori dello Stato assicurano l’ordine tra i cittadini in modo meccanico, come «manichini di legno»: per svolgere questi «ruoli», «non è richiesto il libero esercizio della facoltà di giudizio né del senso morale»28. Ecco la prima, decisiva nozione, quella di libertà: già quanti operano per conto dello Stato, non agiscono liberamente. Tuttavia, ancora più esteriore è il nesso dello Stato con la seconda nozione fondamentale coinvolta dal sistema di rappresentanza, quella della volontà. Infatti, secondo Thoreau, anche coloro che «servono lo stato soprattutto con la loro testa» («i legislatori, gli uomini politici, gli avvocati, i ministri e i funzionari»), anche quando, «di rado», fanno «distinzioni morali», compiono il bene o il male «senza volerlo»29. Lo Stato può essere virtuoso quasi per caso, poiché di per sé è separato, diviso, distante dalla ragione e dalla giustizia. Come si vede, siamo lontani dall’esercizio consapevole di una volontà razionale e giusta.
4. Un’ultima implicazione: l’individuo diviso Come stiamo vedendo, Thoreau procede in modo rigoroso e sistematico a decostruire le logiche giusnaturalistiche della formazione dello Stato. Il suo modo di procedere è estremamente conseguente innanzitutto nel ritrovare sul versante
27. CD, p. 8. 28. Ibidem. Scrive, inoltre, Thoreau: «Parliamo di governo rappresentativo; ma che mostro di governo è quello nel quale le più nobili facoltà della mente e l’intero cuore non sono rappresentati?» (H.D. Thoreau, Apologia per John Brown, cit., p. 90). 29. CD, p. 9.
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pratico la differenza, la frattura e, quindi, l’irrimediabile immediatezza che contraddistinguono, sul versante teoretico, il rapporto tra soggetto e oggetto. Nel caso del diritto si tratta della discontinuità (e pertanto dell’impossibilità) del trasferimento della volontà dall’individuo a colui che dovrebbe rappresentarlo. Altrettanto conseguente è l’analisi delle ricadute che questa frattura produce sui termini della relazione. Come abbiamo visto, lo Stato non si costituisce come un’entità determinata, organica, perfettamente in grado di incarnare la volontà popolare e di agire a garanzia di tutti gli individui. La discontinuità attraversata si ritrova non solo nell’orizzonte entro cui agisce lo Stato (discontinuità tra giustizia e opportunità, tra natura e meccanicismo) ma anche all’interno dello Stato stesso (nella differenza tra maggioranza e minoranza, ma soprattutto tra cittadini e Stato). E l’altro termine delle relazioni, dei processi e delle dinamiche di formazione dello Stato? E l’individuo? Ci sono molti passaggi, in Civil Disobedience, in cui Thoreau riconosce all’individuo un’indiscutibile precedenza. D’altra parte, come visto, la volontà e la «coscienza», elementi senza dubbio costitutivi dell’individuo, sono inalienabili. In funzione di questi passaggi, è quasi scontato enfatizzare una sorta di individualismo liberale30, da un lato, o anarchico31, dall’altro. L’individualismo e il primato della coscienza sono un elemento trasversale al trascendentalismo americano, perlomeno accanto a tendenze, al contrario, comunitaristiche che appa-
30. Cfr., ad esempio, le analisi svolte in P. Abbott, Henry David Thoreau, the State of Nature, and the Redemption of Liberalism, in «The Journal of Politics», vol. 47, n. 1, 1985, pp. 182-208, e in J. Duban, Conscience and Consciousness: The Liberal Christian Context of Thoreau’s Political Ethics, in «The New England Quarterly», vol. 60, n. 2, 1987, pp. 208-222. 31. Cfr. l’analisi svolta in M. Simon, Thoreau and Anarchism, in «Michigan Quarterly Review», vol. 23, n. 3, 1984, pp. 360-384.
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iono decisamente minoritarie. Tuttavia, in Thoreau nemmeno l’individuo sfugge alla decostruzione degli schemi filosofici e pratico-filosofici tradizionali e, quindi, alle fratture, alle scissioni, agli scarti che egli individua, in questo caso, nell’impostazione delle relazioni giuridiche e politiche. Scrive Thoreau: L’azione scaturita da un principio – comprendere ciò che è giusto e metterlo in atto – cambia lo stato delle cose e dei rapporti con gli altri; è un evento essenzialmente rivoluzionario, che rompe in modo radicale con l’esistente. Non divide solo Stati e chiese, divide le famiglie; e divide addirittura l’individuo, separando in lui il diabolico dal divino.32
Ecco l’ultimo passaggio, ecco l’ultimo elemento che compie e dà compattezza teoretica all’analisi, alla riflessione e al discorso di Thoreau. Anche il margine, l’estremo, l’elemento che le logiche giusnaturalistiche oppongono allo Stato, ovvero l’individuo, è in sé scisso, diviso, problematico, tutt’altro che definito, unitario, positivo. Si trascuri pure la sfumatura teologica o moralistica del linguaggio di Thoreau in questo punto («diabolico» o «divino»). Essenziale è comprendere come, a dispetto dello stesso significato della nozione di “individuo”, anche l’io o la coscienza è attraversata da fratture e divisioni che gli conferiscono una motilità, una fluidità e, se si vuole, un’irrisolutezza che impegnano l’io innanzitutto nei confronti di sé stesso33. Tuttavia, nel passo che abbiamo citato Thoreau riassume e mette in luce con estrema chiarezza la logica che lo ha guida-
32. CD, pp. 19-20. 33. È a partire da questa intima scissione dell’io che l’individuo di Thoreau innesta e alimenta un processo di miglioramento di sé, come sostenuto Stevenson, un processo che, certo, prevede anche momenti «mancanza di rapporti sociali», ma che si ritrova, sempre grazie all’individuazione di fratture e scissioni, come stiamo vedendo, anche a livello sociale; cfr. R.L. Stevenson, Il re barbaro. Ritratto di Henry David Thoreau, tr. it. di S. Antonelli, Edizioni dell’Asino, Roma 2012, in part. pp. 40 ss.
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to e che egli ha rigorosamente osservato a ogni passo in avanti del suo discorso, di implicazione in implicazione. Agire secondo giustizia, e non secondo opportunità, significa comprendere e applicare un approccio che divide, che divide tutto: Stati, chiese, famiglie e addirittura l’individuo. Significa assumere uno sguardo che intravede e un comportamento che non appiattisce le fratture, le «dissimmetrie»34 della realtà, sia quella oggettiva che quella sociale (lo «stato delle cose» e i «rapporti con gli altri»), una realtà che per lo più è invece assunta e presentata come positiva, data, definita.
5. Tra utopia e realtà: oltre la disobbedienza Le conclusioni alle quali giunge Thoreau non si fermano alla giustificazione della disobbedienza – ma, ricordiamolo ancora, questa giustificazione non si inserisce, a posteriori, in un’articolazione lineare e auto-fondativa, quanto piuttosto emerge come un aspetto costitutivo della parzialità dei meccanismi rappresentativi. Thoreau descrive anche in positivo come dovrebbe essere e comportarsi lo Stato. Naturalmente, come visto, lo Stato deve innanzitutto essere consapevole dell’insostenibilità della propria pretesa di incarnare la volontà generale e di essere pertanto mero «espediente» e «strumento» utile a governare una frattura tra vita e politica, tra natura e diritto, tra singoli e istituzioni, che è insanabile. La sua azione si svolge e si dovrebbe sempre di più e in modo sempre più coerente limitare alla dimensione dell’opportunità. Pertanto, il primo accorgimento che lo Stato dovrebbe seguire e applicare è quello della tendenzia34. Cfr. G. Nocera, Il Journal di Thoreau. Un modello di scrittura dell’universo, Editpress, Firenze 2012, p. 29.
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le sottrazione di sé, della sua azione, della sua invadenza. È quanto proclamato dall’affermazione che apre Disobbedienza civile («È migliore il governo che meno governa»35) che, dopo la nostra analisi, assume un significato che non è meramente retorico: in quanto strumento, espediente o accorgimento sovrastrutturale, meccanico, che di per sé crea attrito, l’ideale dello Stato è quello di dileguare, sciogliersi e quindi, più realisticamente, limitare il campo e alleggerire la propria azione per il maggior numero di aspetti possibile. Naturalmente, lo Stato che si sottrae quanto più possibile è lo Stato che maggiormente rispetta e che lascia il maggior spazio di libertà agli individui. È uno Stato che si presenta e si comporta con loro come un «vicino di casa»36. Questa è un’immagine funzionale a ricordare la non assolutezza dello Stato, la sua parzialità, il suo essere e restare soggetto tra soggetti e, pertanto, la necessità di superare il carattere meramente coattivo con i cittadini e di aprire, al contrario, una dialettica, anche complessa, con gli individui che gli danno corpo. Thoreau pensa a uno Stato che consenta agli individui di distinguere e di scegliere, quasi in modo opportunistico, in quali occasioni e per quali servizi intervenire. La libertà dell’individuo è talmente piena da potersi anche sottrarre a ogni relazione con lo Stato e, in ogni caso, da permettergli di decidere le questioni e le occasioni rispetto alle quali rapportarsi allo Stato. Nella direzione opposta e in modo complementare, lo Stato deve essere talmente liberale da prevedere e offrire determinati interventi o servizi senza costringere i cittadini ad accettarli37. 35. CD, p. 3, cit. dallo stesso Thoreau tra virgolette, perché ripreso da Emerson (cfr. R.W. Emerson, Politics, in Id., Saggi, cit., vol. II, p. 301). 36. CD, p. 50. 37. Scrive Thoreau: «[…] dichiaro guerra allo stato senza eccessi, a modo mio, pur continuando in parte a servirmene e a trarne qualche vantaggio, com’è normale in casi del genere» (CD, p. 40).
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È l’individuo che, di volta in volta e per l’uno o l’altro aspetto, accetta o rifiuta l’intervento dello Stato. Decide l’individuo quando riconoscersi parte dello Stato e quando contribuire, sul piano fiscale, a sostenerne azioni e interventi oppure quando astenersi disapprovandoli38. A ben vedere, questo esito eccede non solo i significati più immediati della nozione di “disobbedienza”. In uno Stato così delineato, obbedienza e disobbedienza rimandano al di là di sé stesse, rinviando alla possibilità di accettare o meno quanto lo Stato progetta e propone. Obbedire e disobbedire sono destinate a coniugarsi nei termini della libera accettazione o del libero rifiuto da parte degli individui degli interventi dello Stato, alternativa che alleggerisce e persino esclude la sottomissione dei cittadini e l’esercizio della forza da parte dello Stato. Thoreau non è ingenuo ed è consapevole del tratto utopico di questa posizione («quando gli uomini saranno pronti»39): è lontanissima la possibilità che lo Stato possa togliersi, dileguare, scomparire completamente. Tuttavia – e questo è un altro tratto caratteristico di molte forme di filosofia trascendentale – l’ideale mantiene sempre uno scarto rispetto al reale, non deve essere considerato in sé, ma in funzione dei pensieri che avvia e dei comportamenti (reali, concreti) che suggerisce e
38. Scrive Thoreau: «Il governo non può esercitare diritti “puri” sulla mia persona e le mie proprietà se non quelli che gli concedo. Il progresso da una monarchia assoluta a una costituzionale e da una monarchia costituzionale a una democrazia, è il progresso verso un reale rispetto per l’individuo. […] Non ci sarà mai uno stato davvero libero e illuminato fino a quando non si riconoscerà l’individuo come una forza più alta e indipendente, da cui derivano tutto il potere e l’autorità statali, e fino a quando non si tratteranno i singoli secondo questo principio. Mi piace immaginare uno stato che si possa finalmente permettere di essere giusto verso tutti gli uomini, e tratti gli individui con il rispetto che si deve a un vicino di casa» (CD, pp. 49-50). 39. CD, p. 3.
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detta. L’ideale è presupposto di una riflessione il cui valore non si misura in rapporto alla sua effettiva realizzabilità, ma in rapporto alla capacità di svincolarsi dal reale, di non subirlo, di osservarlo nella sua «nudità»40 e di trasformarlo. L’ideale crea e tiene viva una tensione che consente di incidere, con idee e conseguenti azioni, sull’esistente governato dall’opportunità e dalla convenienza41. Ed è proprio all’interno di questa tensione che assume significato la disobbedienza civile: come abbiamo visto, essa diventa un dovere da espletare all’interno di una continua, rinnovata e ragionata dialettica tra individuo e istituzioni, una dialettica che, questa sì, può essere immediatamente avviata ed esercitata da ogni singolo individuo.
40. CD, p. 44. 41. CD, pp. 44-45.
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Europa e critica all’Eurocentrismo negli studi post- e decoloniali Sebastiano Ghisu
1. Lo sguardo dell’altro Una delle tendenze più rilevanti della storiografia filosofica degli ultimi decenni – direi più in generale della storia delle idee (e della storia della filosofia intesa come storia delle idee) – è senza dubbio l’immissione nel suo sguardo dell’altro, di ciò che è altro o assunto come altro. Di ciò che, per l’appunto, era stato finora escluso, silenziato, reso invisibile. Di ciò che, emergendo dal silenzio e dall’esclusione, cessa alla fin fine di essere altro, dato che è tale solo agli occhi dell’identico. L’altro viene lentamente ad occupare non solo lo sguardo, ma, in un’inevitabile interazione, anche l’oggetto, lo spazio a cui lo sguardo mira. Ciò ha certamente a che fare con dei processi reali: storico-sociali, culturali, materiali. Di tali processi costituisce, per così dire, l’effetto. Ora, di quale altro si tratta? O meglio di quali altri? L’altro può essere il folle, la donna, i generi che si sottraggono alla divisione binaria, le popolazioni che abitano i territori colonizzati. Più in generale, le collettività sottoposte ad un qualche rapporto di dominio: di classe, di genere, coloniale, territoriale, ma anche quelle soggettività che si sottraggono
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all’efficienza e disponibilità richieste di volta in volta da quegli stessi rapporti di dominio. A meccanismi di esclusione reale, ovvero di subalternità, corrispondevano (e corrispondono tuttora, in verità) dispositivi teorici di esclusione che assumevano la parte (dominante) per il tutto: il maschio bianco borghese europeo (o occidentale, nell’epoca più recente) veniva e viene ad essere l’essere umano in quanto tale. Misura di riferimento e metro di paragone universale. Ciò coinvolgeva porzioni di umanità, ma anche gli spazi e i territori che queste abitavano e che venivano associati – attraverso dei processi reali, pratico-teorici, epistemici, di etnicizzazione e razzializzazione – a quelle umanità escluse. Se tuttavia l’altro emerge, è perché evidentemente il rapporto di dominio che lo genera è sottoposto ad una qualche tensione o messo in questione. Più in generale, quando emerge lo sguardo dell’altro, allora l’identico, che totalizzava finora lo sguardo assumendosi come l’unico possibile e dunque necessario, comincia a non esser più assunto come scontato e acquisisce il suo reale carattere storico, differenziale. Emergono delle soggettività che non assumono più la loro subalternità come un dato naturale, legato alla loro stessa identità originaria: percepiscono in altri termini le loro condizioni di esistenza come loro estranee e cominciano a guardare il mondo con occhi nuovi e a parlarne con un’altra lingua (con esiti, si badi bene, non sempre scontati). Si tratta di meccanismi complessi, variamente articolati, nient’affatto automatici e, talvolta, contraddittori. È accaduto ripetutamente nella storia, nelle lotte e nei conflitti che l’hanno drammaticamente – e, aggiungerei, costitutivamente – attraversata. È quel che è accaduto (e accade) con il movimento operaio e le classi subalterne (comunque ora le si intenda). È quel che è accaduto e accade con il movimento femminista.
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È quel che è accaduto e accade con le lotte di liberazione dai rapporti coloniali. È quel che è accaduto e accade nelle intersezioni tra questi campi conflittuali. Ciò su cui intendiamo qui concentrarci è il rapporto di potere coloniale; più esattamente l’ideologia che lo ha sostenuto e nutrito (sostenuta e nutrita a sua volta da quel rapporto di potere reale); più esattamente ancora l’idea di Europa (o una certa idea di Europa) che, dal punto di vista di chi quel rapporto lo ha subito, ha costituito un asse concettuale portante di quell’ideologia, non potendo quindi non divenire oggetto di critica radicale. In realtà, a divenire oggetto di critica radicale è la rappresentazione dell’Europa che il pensiero emerso in Europa nell’ambito filosofico e delle scienze umane in generale ha prodotto, coltivato e utilizzato – espressamente, certo, ma, assai più spesso, tacitamente e implicitamente. In tal senso, si è preso di mira lo stesso pensiero “europeo” o per lo meno si è inaugurato un processo critico-analitico e genealogico attraverso cui si intende verificare la diretta o indiretta dipendenza del complesso teorico-concettuale delle tradizioni di pensiero europee (in particolare nella sua modernità) da quel rapporto di dominio coloniale. D’altra parte, la critica all’ideologia coloniale ha saputo utilizzare anche quel complesso teorico-concettuale per rivoltarlo contro il contesto in cui è emerso. Ciò cui ci riferiamo è insomma la critica all’eurocentrismo che ritroviamo in quelle correnti di pensiero, quelle linee di ricerca e riflessione attraverso le quali o nelle quali l’altro colonizzato alza la propria voce ed esercita la propria intelligenza del mondo (sul mondo). Si tratta in particolare dei cosiddetti studi postcoloniali, da una parte, e del pensiero decoloniale, dall’altra, di come essi si sono sviluppati – su radici ben solide e profonde, in verità (tra le quali non possiamo non ricordare Antonio Gramsci e José Carlos Mariátegui) – a par-
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tire dall’opera di Frantz Fanon per arrivare a Chakrabarty, Dabashi, Mignolo, passando per Said, Chakravorty Spivak, Bhabha, Guha, Quijano, Dussel. Al di là dei loro intrecci, delle loro interazioni e convergenze (o divergenze), tali correnti di pensiero si sono sviluppate in maniera relativamente autonoma l’una dall’altra e, peraltro, significativamente, in spazi differenti: se infatti gli studi postcoloniali hanno avuto origine – prescindendo ora delle singole biografie di chi li ha promossi – nel subcontinente indiano, il pensiero decoloniale è emerso prevalentemente nell’America latina. Discorso a parte meriterebbe, invece, senza dubbio, l’emergente filosofia africana, con la sua marcata crescente originalità e forte lucidità (proprio in relazione al suo sguardo sull’Europa e il suo pensiero)1. Tuttavia, la sintesi qui richiesta ci induce a concentrarci, senza voler essere ovviamente esaustivi, ai momenti principali delle due correnti sopra citate.
2. Gli Studi postcoloniali È senz’altro bene cominciare dall’opera di Frantz Fanon che, collocandosi quasi al di qua degli studi postcoloniali e del pensiero decoloniale (finanche cronologicamente), contiene, per così dire, il gesto teorico che sta alla base delle successive critiche all’eurocentrismo, rendendone peraltro possibile l’in-
1. Tengo qui a ricordare solamente P. Hountondji, Sur la «philosophie africaine», Maspero, Paris 1976. Per una visione d’insieme dell’opera di Hountondji si veda F. Dübgen - S. Skupien, Paulin Hountondji African Philosophy as Critical Universalism, Palgrave Macmillan, New York 2019. Per una visione complessiva della filosofia africana, cfr. A. Afolayan - T. Falola (a cura di), The Palgrave Handbook of African Philosophy, Palgrave Macmillan, New York 2017.
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dividuazione: l’assunzione dell’idea di Europa non come un fatto naturale, originario, scontato, ma come una costruzione storica relativamente recente, legata proprio al processo di colonizzazione di quella porzione di mondo che proprio negli anni in cui Fanon produce le sue opere principali, a seguito anche della Conferenza di Bandung del 1955, cominciava a venir chiamato Terzo mondo. «L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo»2, scrive Fanon in I dannati della terra, riferendosi in primo luogo alle enormi ricchezze sottratte ai paesi colonizzati, ma richiamando anche, indirettamente, la dimensione ideologica, l’idea (tanto fittizia quanto reale) di un’Europa autonoma, originaria, che si è data e si dà a prescindere dai rapporti di dominio coloniali – quei rapporti che l’hanno invece istituita per quello che essa è (o immagina essere). Del resto, l’idea di Europa – e questa è in verità una riflessione che ritroviamo alla base sia degli studi postcoloniali che del pensiero decoloniale – non è data dal suo essere un continente (neppure peraltro la parola “Europa” è nata per designarne uno). Infatti, la divisione geografica in continenti è comunque convenzionale e solamente una delle tante possibili (il pianeta Terra avrebbe potuto essere suddiviso altrimenti). Non si può dunque dedurre il significato di Europa da una sua solo presunta identità geografica. Il simbolico, più in generale, non è deducibile dal naturale e la natura è interamente sovradeterminata dal simbolico. È semmai uno dei meccanismi ideologici fondamentali di disconoscimento quello di ricondurre un’identità (storica), giustificandola così come un dato di natura, ad una sua (presunta, immaginata) identità originaria naturale.
2. F. Fanon, I dannati della terra (1961), tr. it. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 2000, p. 57.
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In effetti, secondo questo quadro critico, l’idea di Europa si è istituita per opposizione – vale a dire in opposizione ai territori e spazi, comunque antropizzati, oggetto delle sue conquiste coloniali, assunti come inevitabilmente e naturalmente destinati ad essere sottoposti al suo controllo. È quel che, oltre un decennio più tardi, scriverà Edward Said nel suo ormai classico Orientalismo del 1978: «l’Oriente ha contribuito, per contrapposizione, a definire l’immagine, l’idea, la personalità e l’esperienza dell’Europa (o dell’Occidente)»3. Tuttavia, le prime grandi opere degli studi postcoloniali, a partire proprio da Orientalismo di Said4, più che operare un confronto diretto con l’idea di Europa nella sua totalità, hanno cominciato a scavare nel suo interno, individuando alcuni momenti esemplari del modo in cui il pensiero europeo (o per estensione “occidentale”) ha escluso e per altri aspetti “inferiorizzato” i popoli colonizzati. Il loro possibile punto di vista (o il possibile sguardo) viene di contro ri-costruito e assunto come centrale, iniziando così a dar voce a soggettività finora silenziate ed escluse5, senza immaginare una loro presunta identità originaria, che mai si dà nella storia, ma individuando
3. E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, tr. it. di S. Galli, Feltrinelli, Milano 2001, p. 10. 4. Il riferimento è, oltre che a Edward Said, a Chakravorty Spivak, Homi Bhabha, Ranajit Guha, opere collocabili tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo. 5. Richiamo qui in particolare l’opera di G. Chakravorty Spivak, innanzitutto, quasi il manifesto fondatore degli studi postcoloniali: Can the Subaltern Speak?, in C. Nelson - L. Grossberg (a cura di), Marxism and the Interpretation of Culture, University of Illinois Press, Urban-Chicago 1988, pp. 271313. E poi G. Chakravorty Spivak, Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1999; tr. it. di A. D’Ottavio, Critica della ragione postcoloniale, a cura di P. Calefato, Meltemi, Roma 2004.
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le loro condizioni di possibilità, ovvero i meccanismi della loro costituzione e trasformazione6. Per certi versi, queste prime produzioni teoriche – assai complesse e articolate, di grande spessore e ricchissime di riferimenti – preparano il terreno ad alcune opere successive che trattano invece l’idea di Europa più direttamente ed espressamente, nel quadro di una critica che assume contorni senz’altro più radicali. Si potrebbe inoltre dire che, proprio su tale tematica, ha luogo una convergenza tra l’ambito degli studi postcoloniali e il pensiero decoloniale. Mi riferisco innanzitutto all’opera di Dipesh Chakrabarty dal titolo programmatico: Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference (2000)7, e a quella, per così dire, altrettanto esplicita, di Hamid Dabashi, Europe and Its Shadows. Coloniality After Empire del 20198. Quest’ultima precisa, ma va anche espressamente oltre la prima (relativamente al trattamento da riservare all’Europa). In ogni caso, non viene tanto esposto l’eurocentrismo esplicito nell’ideologia coloniale, quanto soprattutto rintracciato quello implicito presente nella cultura filosofica europea, nelle stesse scienze umane prodottesi in Europa e finanche nel suo quotidiano senso comune, che poi, peraltro, contorna, se non proprio nutre, quella cultura filosofica e quelle scienze umane.
6. Si veda a tal proposito in particolare il lavoro di H.K. Bhabha, The Location of Culture, Routledge, London-New York 1994; tr. it. di A. Perri, I luoghi della cultura, Meltemi, Roma 2001. 7. D. Chakrabarty, Provincializing Europe. Postcolonial Thought and Historical Difference, Princeton University Press, Princeton 2000; tr. it. di M. Bortolini, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004. 8. H. Dabashi, Europe and Its Shadows. Coloniality After Empire, Pluto Press, London 2019, consultato in ed. digitale.
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Chakrabarty mette ad esempio in evidenza con grande lucidità il legame tra eurocentrismo e un certo paradigma storicista, assai diffuso ben oltre la cerchia degli storici di professione, secondo il quale, storicamente, ciò che accade in Europa accadrà poi nel resto del mondo (ovvero, nel resto del mondo non può che accadere ciò che in Europa è già accaduto). La lettura eurocentrica della storia, identificando ad esempio modernizzazione ed europeizzazione, assume l’Europa come esito del processo storico universale e come metro per misurare la modernità (o il cosiddetto grado di sviluppo) delle società e civiltà umane. Come scrive Chakrabarty, lo storicismo ha assegnato e assegna tuttora agli abitanti delle colonie «un posto nel “resto del mondo” all’interno della struttura temporale del tipo: “prima in Europa e poi nel resto del mondo»9. In tal senso si tratta per Chakrabarty di provincializzare l’Europa, ovvero di de-centrarla, rimuoverla da una centralità solo presunta10. Questo non è tanto, in prima istanza, un atto politico, ma innanzitutto un atto cognitivo. Si tratta naturalmente di capirne la portata e l’incisività. In effetti, esso non intende mettere in discussione il solo porsi dell’Europa al centro della storia globale (la storia reale lo sta già facendo), ma coinvolge soprattutto i vari saperi, le concrezioni concettuali, le categorie cognitive e le articolazioni teoriche che, dietro la loro apparente universalità, neutralità o magari astrattezza, esprimono invece quella presunta centralità ed hanno eventualmente, malgrado le loro pretese, carat-
9. D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, cit., p. 22. 10. In effetti, la centralità ideologica è generata dalla centralità economicopolitica e amministrativa. L’atto ideologico di disconoscimento consiste nel naturalizzare (e giustificare come naturale) questa centralità, che è invece storica, data da un rapporto storico di dominio.
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tere locale, limitato. E se hanno un carattere locale, limitato e nient’affatto neutrale, fino a che punto possono servire a capire – o a non fraintendere – realtà altre e differenti? Fino a che punto non si è impedito a tali realtà – che sono state per l’appunto sottoposte ad un rapporto (talvolta feroce e comunque quasi sempre totalizzante) di dominio – di costruirsi dei propri saperi di sé, delle proprie concettualità? Scrive Chakrabarty, riferendosi in particolare al territorio da cui egli proviene e su cui prevalentemente si concentrano le sue ricerche (ma quanto sostiene potrebbe ben esser sostenuto per altre zone del mondo sottoposte ad un rapporto di dominio coloniale): l’Europa che intendo provincializzare, o decentrare, è una figura immaginaria che rimane profondamente intessuta nelle forme schematiche e streotipiche costitutive di alcuni dei modi di pensare abituali che sottendono invariabilmente ai tentativi delle scienze sociali di affrontare le questioni relative alla modernità politica nell’Asia meridionale.11
In tal senso, il compito di provincializzare l’Europa (che qui non possiamo naturalmente esporre per esteso) consiste nella «esplorazione – sul piano teorico così come su quello empirico – della simultanea indispensabilità e inadeguatezza del pensiero delle scienze sociali»12, di quelle scienze sociali sviluppatesi nell’area dei paesi colonizzatori. È quel che rileva anche Dabashi nel suo già citato Europe and Its Shadows del 2019: l’ascesa delle scienze umane nel XVI secolo coincide con l’ascesa coloniale degli imperi europei in tutto il mondo, in particolare in Asia, Africa e America Latina. A noi coloniali è
11. Ivi, p. 16. 12. Ivi, p. 20.
200 stata negato qualsiasi agire perché eravamo oggetto di quelle scienze.13
Si tratta di prenderne atto, ma non nel senso di un semplice capovolgimento del rapporto, immaginandosi una nuova centralità, quanto per l’appunto escludere che una ve ne sia e, come scrive lo stesso Dabashi, «superare l’Europa riconducendola nel campo di gioco appianato della storia»14. Si tratta di storicizzare e demitologizzare l’Europa (normalizzarla, per certi versi). Assumerla come un effetto della storia e reinserirla nel mondo in senso ampio come “solo” una parte di esso. Questa operazione, aggiunge Dabashi: è anche epistemologicamente emancipatoria. Impedisce una falsa demonizzazione degli europei come popolo, li riporta all’interno dell’umanità in generale e permette di porre i pensatori europei più critici accanto ad asiatici, africani e latinoamericani per ripensare il mondo in modo nuovo. L’invenzione dell’Europa come categoria di civiltà equivale all’invenzione del “popolo bianco” come misura normativa della nostra umanità – e questa invenzione deve essere invertita.15
Infatti, «se vogliamo trascendere l’eurocentrismo e l’eurofobia e portare l’idea stessa di Europa e l’assunto stesso di “europei” nel mondo in generale, dobbiamo iniziare superando il condizionamento coloniale di questa metafora»16. Del resto, «l’idea di Europa in sé e per sé non è mai stata così frammentata e volatile come oggi – eppure abbiamo bisogno di cogliere cri-
13. H. Dabashi, Europe and Its Shadows, cit., In the Colonial Shadows of Europe. 14. Ivi, From Al-e Ahmad to Fanon to Said and After. 15. Ivi, The Historical Is Epistemological. 16. Ivi, Europe: A Fragmented Allegory.
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ticamente l’attuale condizione del mondo nel quale l’Europa vede dissolversi»17. In tal senso, la storicizzazione dell’Europa, o il suo dissolverla nel tutto cui comunque appartiene, è un processo reale già in atto: la fine dell’Europa, scrive Dabashi, «non è una proposta ideologica», ma «è un processo storico che finalmente si conclude, come la coniugazione di un verbo o l’esaurimento di un paradigma che non ha più spazio per dispiegarsi»18. E allora, di conseguenza, «il compito non è “provincializzare” l’Europa. Il compito è smantellare la sua illusione»19. L’Europa, infatti, «è stata un’illusione che le ha fatto subito dimenticare ciò che era…»20, il fatto, cioè, di essersi «costruita derubando il mondo e costruendo una sua morale ed una sua immaginaria fiducia in sé stessa»21. Ora, tuttavia, «il mondo sta ritornando per derubarla delle sue illusioni di potere e autorità, rifiutandosi di stuzzicare ancora le sue fantasie»22. Il riferimento è, innanzitutto (ma non solo), ai rifugiati, che stanno facendo riemergere «le sue memorie represse»23, il suo passato (e presente?) coloniale. Il fatto, in breve, che «non vi è niente nella scienza e tecnologia, nella cultura e nella letteratura “occidentale” senza una lunga e brutta ombra coloniale»24. Più in generale, e riemerge qui il punto centrale da cui siamo partiti,
17. Ibidem. 18. Ivi, Piercing Gaze, Longest Shadows. 19. Ibidem. 20. Ivi, Truths Are Illusions. 21. Ivi, “The West and the Rest”: A Confounded Delusion. 22. Ibidem. 23. Ivi, Truths Are Illusions. 24. Ivi, “The West and the Rest”: A Confounded Delusion.
202 “l’Occidente” e “il resto” non sono più mondi separati – non lo sono mai stati. “L’Occidente” ha dovuto affrontare il fatto che era nel “Resto” e che il “Resto” è già in “Occidente” – non solo come rifugiati, ma come altri interni – gli ebrei e i rom, i poveri, i diseredati, i gay, le lesbiche, i transgender, tutto ciò che minaccia la potenza maschilista dell’Occidente” come metafora di conquista e dominio.25
È contro questa metafora – e contro la realtà cui questa metafora rimanda – che si abbatte la voce dell’Altro.
3. Il pensiero decoloniale Questa voce risuona anche, con forza, nel pensiero decoloniale. Per molti aspetti i suoi esponenti ricostruiscono con più precisione la genesi storica e la portata dell’eurocentrismo. In un certo senso, esso – come oggetto di critica radicale – viene posto in primo piano: assunto come effetto della modernità, mentre la modernità – così come lo stesso eurocentrismo la concepisce, ma soprattutto così come essa ha concepito se stessa e come essa si è, in realtà, storicamente dispiegata – viene intesa come effetto della colonizzazione, innanzitutto delle Americhe e successivamente dell’Asia e dell’Africa. Questo processo storico reale ha generato e nutrito una sua ideologia (coloniale), che ritroviamo, ad esempio, anche in quegli anfratti del pensiero filosofico europeo che paiono distanti – o quasi protetti – da esso. E così Dussel sottolinea come dietro l’ego cogito cartesiano della seconda modernità si possa leggere l’ego conquiro della prima26. Più in generale, 25. Ivi, Gauguin’s Colonial Harem. 26. E. Dussel, Anti-Cartesian Meditations. On the Origin of The Philosophical Anti-Discourse of Modernity, in «Journal for Cultural and Reli-
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sostiene altrove Dussel, «il XVII secolo (come esemplificato dall’opera di Cartesio e Bacone) deve […] essere visto come il risultato di un secolo e mezzo di modernità: è una conseguenza piuttosto che un punto di partenza. L’Olanda (che si emancipò dalla Spagna nel 1610), l’Inghilterra e la Francia hanno ampliato il percorso aperto dalla Spagna»27. In tal senso, precisa Santiago Castro-Gómez, «la seconda modernità, che si presenta come l’unica modernità, comincia a emergere solo alla fine del XVII secolo con il crollo geopolitico della Spagna e l’emergere di nuove potenze egemoniche (Olanda, Inghilterra e Francia). L’amministrazione della centralità del sistema-mondo si svolge ora altrove e risponde agli imperativi dell’efficacia, della biopolitica e della razionalizzazione, come mirabilmente descritto da Max Weber e Foucault»28. La distinzione tra una prima e seconda modernità, com’essa viene rappresentata dal pensiero decoloniale, è rilevante perché segnala come l’origine dell’Europa moderna vada innanzitutto individuata, di contro al mito di una sua autogenesi o di una sua presenza nella sola Europa del Nord, nella conquista gious Theory», vol. 13, n. 1, 2014, pp. 11-53 e, sempre di Dussel, 1492. El encubrimiento del otro. El origen del mito de la modernidad, Conferencias de Frankfurt 1992, Antropos, Bogotá 1992, in part. p. 67. 27. E. Dussel, Europe, Modernity, and Eurocentrism, in «Nepantla. Views from South», vol. 1, n. 3, 2000, p. 470. In tal senso: «la Spagna, come prima nazione “moderna”, possedeva le seguenti caratteristiche: uno stato che ha unificato la penisola, un consenso nazionale dall’alto verso il basso creato dall’Inquisizione, un potere militare nazionale (dalla conquista di Granada), una delle prime grammatiche di una lingua volgare (la Gramática castigliana di Antonio de Nebrija del 1492), e la subordinazione della Chiesa allo stato, grazie al cardinale Francisco Jiménez de Cisneros» (ibidem). 28. S. Castro-Gómez, (Post)Coloniality For Dummies. Latin American Perspectives on Modernity, Coloniality, and the Geopolitics of Knowledge, in M. Moraña - E. Dussel - C.A. Jáuregui (a cura di), Coloniality at Large. Latin America and the Postcolonial Debate, Duke University Press, Durham- London 2008, p. 273.
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dell’America da parte della Spagna e nei suoi effetti. In tal senso è proprio in questa prima fase del colonialismo che possiamo rintracciare i miti fondatori della modernità, dell’Europa moderna, della sua attribuzione a sé stessa di un ruolo guida nel mondo – insomma, l’origine dell’eurocentrismo. Scrive Aníbal Quijano: la versione eurocentrica si basa su due principali miti fondatori: in primo luogo, l’idea della storia della civiltà umana come una traiettoria che parte da uno stato di natura e culmina in Europa; in secondo luogo, la visione delle differenze tra Europa e non Europa come differenze naturali (razziali) e non come conseguenze di una storia di potere. Entrambi i miti possono essere inequivocabilmente riconosciuti nelle basi dell’evoluzionismo e del dualismo, due degli elementi nucleari dell’eurocentrismo.29
Ovvero la convinzione che l’Europa, la cultura europea, il suo pensiero, la sua razionalità (come unica razionalità possibile), costituisca l’inevitabile esito finale della storia universale, ponendo quindi una differenziazione, assunta come originaria, tra un’umanità superiore, moderna, civilizzata, ed una inferiore, primitiva, irrazionale. Gli europei, scrive Quijano, «hanno generato una nuova prospettiva temporale della storia e hanno ricollocato le popolazioni colonizzate, insieme alle loro rispettive storie e culture, nel passato di una traiettoria storica il cui culmine era l’Europa»30. Questa prospettiva, prosegue Quijano, immaginava la modernità e la razionalità come prodotti ed esperienze esclusivamente europee. Da questo punto di vista, le relazioni intersoggettive e culturali tra l’Europa occidentale
29. A. Quijano, Coloniality of Power, Eurocentrism, and Latin America, in «Nepantla. Views from South», vol. 1, n. 3, 2000, p. 542. 30. Ivi, p. 541.
205 e il resto del mondo erano codificate in un forte gioco di nuove categorie: Est-Ovest, primitivo-civile, magico/mitico-scientifico, irrazionale-razionale, tradizionale-moderno – Europa e non Europa. Tuttavia, l’unica categoria che aveva l’onore di essere riconosciuta come l’altra dell’Europa e dell’Occidente era “Oriente” – non gli indiani d’America e non i neri d’Africa, che erano semplicemente “primitivi”. In questa codificazione delle relazioni tra europei e non europei, la razza è senza dubbio la categoria di base. Questa prospettiva binaria e dualista sulla conoscenza, propria dell’eurocentrismo, si è imposta come globalmente egemonica nello stesso corso dell’espansione del dominio coloniale europeo sul mondo.31
Per definire con chiarezza il carattere costitutivo del colonialismo rispetto alla modernità ed alla sua ideologia, lo stesso Quijano formula il concetto di colonialità: la presenza capillare e strutturale del rapporto coloniale nel pensiero moderno europeo – o, se si vuole, la sua presenza costitutiva nella lettura che il pensiero europeo ha operato del suo passato precoloniale. Di contro, l’ideologia coloniale (e l’eurocentrismo inteso come ideologia coloniale), non negando evidentemente il colonialismo europeo (e magari anche criticandolo o criticandone gli aspetti più cruenti), tende a capovolgere il rapporto tra modernità e colonizzazione assumendo quest’ultima come accessoria, accidentale (rispetto ad una identità originaria, essenziale dell’Europa). Come precisa Walter D. Mignolo (che di Quijano è stato a suo tempo allievo), la modernità pone l’accento sull’Europa. L’analisi del sistemamondo moderno fa entrare in scena il colonialismo, anche se come componente derivata e non costitutiva della modernità, poiché non rende ancora visibile la colonialità, l’altro lato (più oscuro?) della modernità. È indicativo del merito di Quijano
31. Ivi, p. 542.
206 l’aver mostrato che la colonizzazione è la dimensione complessiva della modernità, distinguendo così la colonizzazione dal colonialismo.32
Se, invece, la modernità è cronologicamente collocata nel XVIII secolo, la colonizzazione ne diventa un derivato. Così il periodo iberico fondativo dell’espansione capitalistica e della colonizzazione viene cancellato o relegato al Medioevo come la Leggenda Nera, di cui la costruzione illuministica del “Sud” dell’Europa è testimonianza. In questo scenario, se la modernità viene prima, il colonialismo e la colonizzazione diventano invisibili. Quijano e Dussel permettono non solo di concepire il sistema-mondo moderno/coloniale come una struttura socio-storica coincidente con l’espansione del capitalismo, ma anche di concepire la colonialità e la differenza coloniale come luoghi di enunciazione. È proprio questo che intendo con geopolitica della conoscenza e differenza coloniale.33
In tal senso, «la differenza coloniale è un connettore che, in breve, si riferisce agli aspetti mutevoli delle differenze coloniali nel corso della storia del sistema-mondo moderno/coloniale e porta in primo piano la dimensione planetaria della storia umana messa a tacere dai discorsi incentrati sulla modernità, la postmodernità e la civiltà occidentale»34. E dunque non è più possibile, o perlomeno non è privo di problemi, “pensare” a partire dal canone della filosofia occidentale, anche quando una parte di questo canone è critica nei confronti della modernità. Fare ciò significa riprodurre il cieco etnocentrismo epistemico che rende difficile, se non impossibile,
32. W.D. Mignolo, The Geopolitics of Knowledge and the Colonial Difference, in M. Moraña - E. Dussel - C.A. Jáuregui (a cura di), Coloniality at Large, cit., p. 228. 33. Ivi, p. 229. 34. Ivi, pp. 229 s.
207 qualsiasi filosofia politica dell’inclusione […]. Il limite della filosofia occidentale è il confine in cui emerge la differenza coloniale, rendendo visibile la varietà di storie locali che il pensiero occidentale, da destra e da sinistra, ha nascosto e soppresso.35
La prospettiva che si apre – coerentemente a quella proposta nel quadro degli studi postcoloniali (laddove, come già si è detto, assistiamo in effetti a una significativa convergenza tra le due correnti di quello che potremmo chiamare il pensiero critico per il XXI secolo) – è appunto quella di una decolonizzazione rigorosa delle scienze umane e della filosofia, a partire proprio dalla differenza coloniale, vale a dire «produrre, trasformare e diffondere un sapere che non dipende dall’epistemologia della modernità nordatlantica – le norme delle discipline e i problemi del Nord atlantico – ma che, al contrario, risponde alle esigenze delle differenze coloniali»36. Si tratta innanzitutto di non universalizzare il locale (come è accaduto con il colonialismo costitutivo dell’eurocentrismo), ma di localizzare criticamente l’universale per aprire poi una prospettiva – certo scientificamente feconda – che Mignolo definisce, correttamente a mio avviso, di «pluriversalità»37 o «diversalità»38, mentre Dussel la inserisce in ciò che chiama, in opposizione alla modernità eurocentrica, «transmodernità»39. Solo la cecità ideologica di un insistito eurocentrismo, che si concede magari ad una benevola e paternalistica relativizza-
35. Ivi, p. 234. 36. Ivi, p. 247. 37. W.D. Mignolo, Foreword. Yes, We Can, in H. Dabashi, Can Non-Europeans Think?, Zed Books, London 2015, pp. VIII-XLII. 38. W.D. Mignolo, The Geopolitics of Knowledge, cit., p. 256. 39. Si veda, in particolare, E. Dussel, The Invention of the Americas. Eclipse of “the Other” and the Myth of Modernity, Continuum, New York 1995.
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zione, senza tuttavia aprire un processo di rigorosa revisione dei concetti, complessi teorici, schemi concettuali che lo istituiscono e che si son eventualmente istituiti all’interno del rapporto coloniale, può negare la prospettiva “transmoderna”. Ha ben ragione Mignolo quando afferma che «è urgentemente necessario pensare e produrre conoscenza a partire dalla differenza coloniale», oltre che, naturalmente, dalle differenze trasversali (di classe e di genere) che strutturano la nostra storia, il nostro passato e il nostro presente. In ogni caso, «è cruciale per l’etica, la politica e l’epistemologia del futuro riconoscere che la totalità dell’epistemologia occidentale, sia di destra che di sinistra, non è più valida per l’intero pianeta. La differenza coloniale sta diventando inevitabile»40. E conclude: non ho più voglia di iscrivermi (o di chiedere l’adesione) a un nuovo progetto universale astratto che rivendica un’eredità europea fondamentale. Ritengo che ci siano diverse alternative valide alla crescente minaccia della globalizzazione, e ovviamente l’eredità europea fondamentale è una di queste. Non sto parlando di relativismo, ovviamente. Sto parlando di diversalità, un progetto alternativo all’universalità che offre la possibilità di una rete di confronti planetari con la globalizzazione in nome della giustizia, dell’equità, dei diritti umani e della diversità epistemica. La geopolitica della conoscenza ci mostra i limiti di qualsiasi universale astratto, anche da sinistra, che si tratti della planetarizzazione delle scienze sociali o di una nuova planetarizzazione di un’eredità fondamentale europea in nome della democrazia e della ripoliticizzazione.41
Possiamo dargli torto?
40. W.D. Mignolo, The Geopolitics of Knowledge, cit., p. 252. 41. Ivi, p. 256.
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Arte del sapere, formazione e decadenza Alcune “considerazioni inattuali” sul pensiero politico di Fichte e Voegelin Paolo Vodret
Introduzione La crisi della cultura e della politica europea, è un argomento che da più di un secolo è oggetto di numerosi studi, convegni, dibattiti. Sembrerebbe singolare che da più di cento anni abbiamo raggiunto la consapevolezza di questa crisi che rappresenta la famosa decadenza, ma ancora non abbiamo formulato delle proposte filosofiche e politiche tali da permetterci di risollevarci da questa situazione. Dove si possono individuare le cause della sterilità di queste proposte? Sicuramente una delle principali è l’eccessiva tecnicizzazione e specializzazione della politica, che ha portato alla fine delle ideologie e all’impoverimento della funzione regolatrice che la morale e la metafisica svolgevano su di questa. Per tale motivo, non è causale la scelta di due autori come Fichte e Voegelin per formulare delle “considerazioni inattuali” su come la metafisica, la morale e la trascendenza possano svolgere ancora un ruolo centrale per recuperare lo spirito più intimo della tradizione politica occidentale, ovvero il legame con quei valori assoluti che sono espressione dell’essere razionale e che devono fungere da guida nella fondazione di un organismo politico.
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Per quanto riguarda Fichte, saranno tre i testi1 che prenderò in considerazione per sottolineare l’importanza che il sapere prima, e la formazione poi, svolgono nella costituzione di uno “Stato secondo ragione”. Per l’analisi sulla decadenza e sulla proposta di un nuovo ordine politico di Voegelin, si farà riferimento al testo La nuova scienza politica2. Lo sfondo su cui il presente contributo si svilupperà, anche se in maniera molto marginale, sarà quello delle Considerazioni inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita di Nietzsche3. Lo scopo del presente scritto vuole essere una riflessione su quei pensieri che nell’epoca post-moderna o della “modernità liquida” per dirla con Bauman, potrebbero sembrare “inattuali” perché con forza insistono sulla centralità che la cultura e il sapere devono avere nella formazione dell’essere umano, e su come l’agire pratico debba essere l’espressione attiva di un sentimento razionale, piuttosto che la risposta a uno stimolo. La libertà, l’eguaglianza, la giustizia e l’amore devono ancora essere i valori a cui deve (soll) fare riferimento qualsiasi corpo politico che si voglia fregiare dell’autorità del potere e quindi del comando, e non la necessità, la paura e la speranza, falsi valori che hanno portato alla disgregazione di un organismo politico, oramai assoggettato al potere del mercato, della tecnica e della scienza.
1. J.G. Fichte, I tratti fondamentali dell’epoca presente, tr. it. di F. Carrano, Guerini e Associati, Napoli 1999 (d’ora in avanti, GR); Id., La missione del dotto, tr. it., a cura di V.E. Alfieri, Mursia, Bergamo 1987; Id., I discorsi alla nazione tedesca, tr. it., a cura di E. Burich, Sandron, Firenze 1915 (d’ora in avanti, Discorsi). 2. E. Voegelin, La nuova scienza politica, tr. it. di R. Pavetto, saggio intr. di A. Del Noce, Borla, Torino 1968. 3. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di F. Masini, Newton Compton, Roma 1988.
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1. Il passaggio all’arte del sapere e il ruolo della formazione in Fichte Prima di addentrarci nel nucleo del presente paragrafo, è necessario descrivere brevemente l’analisi critica della storia europea che Fichte ci fornisce ne i Tratti fondamentali, perché questo testo è propedeutico e funzionale alla comprensione del passaggio da una “scienza del sapere” a un’“arte del sapere”, che ovviamente, come vedremo, deve essere letto sempre alla luce della proposta filosofica formulata nella Wissenschaftslehre4. Il filosofo sassone, nel testo in questione, divide la storia in cinque epoche essenziali, nate da una lotta originaria tra un popolo “normale” che incarna il principio della cultura, e un popolo “selvaggio” contrario all’incivilimento. La prima epoca, in cui regnava il popolo “normale” e la ragione come istinto e forza organizzatrice spontanea, è segnata dall’incontro e il conflitto con il popolo “selvaggio”, con la conseguente prima ripartizione tra la storia europea e quella asiatica. Gli esponenti del popolo “normale”, cacciati dai propri territori d’origine, grazie alla loro superiore intelligenza, sono riusciti a dominare sulle popolazioni autoctone inferiori e primitive rispetto a loro, dando origine alla prima forma di Stato dispotico, in cui il popolo che comanda istituisce una casta di signori, riducendo i dominati in servitù. Lo Stato dispotico ci conduce alla seconda epoca, in cui una minoranza più colta e forte domina su una maggioranza più povera. In questa fase però, alcuni gruppi discendenti del popolo “normale” allontanati dai regimi dispotici orientali, si rifugiano in un Europa ancora selvaggia, e la mescolanza tra una minoranza di persone colte e una maggioranza di incolti,
4. Cfr. J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, tr. it., a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2003.
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porta alla nascita della storia della Grecia e dell’Europa in generale. La seconda epoca dunque mostra la formazione dello Stato e la disuguaglianza evidente tra governanti e governati, rendendo visibili le due tendenze che la caratterizzano, ovvero la dinamica pluralista che dalle poleis greche giunge sino ai liberi comuni medievali e rinascimentali da un lato, la tendenza ad assimilare le unità politiche di piccole dimensioni e potere, per formare legami di dominio più vasti e più potenti, dall’altro lato. Una volta dissolta la Respublica christiana del medioevo, tale relazione prosegue nei rapporti politici tra Stati nazionali, che si può riassumere nell’azione di bilanciamento che il “principio dell’equilibrio”, ovvero la stipula di alleanze tra Stati più deboli, attua sulla politica della potenza e del dominio, rappresentata invece dai vari Stati che nei secoli si sono alternati nell’egemonia politica e culturale dell’Europa. Tale epoca è contrassegnata da un contrasto tra la raggiunta eguaglianza giuridica, e l’esigenza di una libertà politica che permetta ai cittadini di partecipare in prima persona alle decisioni pubbliche, problema che secondo Fichte, non viene risolto neanche nella terza epoca, che equivale all’età moderna a partire dalla Riforma, epoca ricca di «peccaminosità» ma priva di progresso, in quanto la sua natura principale è quella di respingere tutto ciò che non sia stato esaminato dal «concetto», sfociando così da una parte, in una sorta di intellettualismo espresso dall’assolutismo dogmatico di Schelling, dall’altra, in uno scientismo che dipende dalla volontà di un empirismo senza principi. Questa è l’epoca che ci interessa principalmente per l’economia del nostro discorso, infatti è qui che grazie alla «dottrina della scienza» il concetto giunge al «sapere di sé», che permette di promuovere una visione originale in cui la «libertà» è intesa come rifiuto di qualsiasi forma di dominio e autorità, e in cui l’agire diventa espressione di creazione positiva.
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Questa rinnovata visione ci conduce alla quarta epoca, dove l’esasperato rifiuto dell’autorità si trasforma in «distruzione della ragione» tradizionale in favore della celebrazione della «ragione come scienza» (Vernunftwissesnchaft), che però mantiene ancora viva la separazione tra vita e sapere, non riesce a cogliere le forme concrete dell’esistenza umana e non è in grado di organizzare la vita in maniera organica. Siamo giunti finalmente al primo nucleo teorico del presente contributo, infatti Fichte qui sostiene che la «ragione come scienza», non sarà in grado di cogliere l’unità fra scienza e vita, fra ragione come sapere ed esistenza come esperienza (obiettivo principale questo della dottrina della scienza), sino a quando non sarà associata a una «arte di ragione» (Vernunftkunst), grazie a cui l’umanità potrà finalmente realizzare il suo scopo di «istituire liberamente tutti i suoi rapporti secondo ragione»5. Come abbiamo già anticipato, questo è l’esito della proiezione del senso principale della dottrina della scienza, ovvero l’unità del sapere con la vita sotto la forma della “saggezza”. Questo permette di intendere il concetto di “arte” non semplicemente come realizzazione o creazione artistica, ma come capacità di intervento e di produzione nella sfera dell’agire pratico6. A parer mio, è questa la prima proposta interessante da attuare se si vuole realmente contrastare la decadenza politica europea, benché potrebbe sembrare la ripetizione di temi già sentiti da Platone in poi. Ma se pensiamo alla storia politica occidentale dal 1900 a oggi, risulta evidente a tutti che questa simbiosi tra vita e sapere, la quale, a detta di Fichte, avrebbe dovuto rappresentare la realizzazione della ragione e dunque il passaggio a una quinta epoca in cui «l’umanità edificherà sé stessa con
5. GR, p. 149. 6. Cfr. G. Rametta, Fichte, Carocci, Roma 2012, p. 274.
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mano sicura e infallibile a copia fedele della ragione»7 sino a compiere «la sua completa giustificazione e santificazione»8, non si sia mai realizzata. O meglio, il tema della giustificazione e santificazione è stato modificato nel suo significato originario, e plasmato sino a diventare prettamente oggetto di memoria e celebrazioni. Nell’età post-moderna, sembra che le atrocità della storia sempre di più si sforzino a trovare giustificazioni contingenti e adattabili alle esigenze del gruppo egemone di turno, e non a caso uso il termine “gruppo” perché meglio esprime la nuova forma di dominio e di autorità che metaforicamente potrebbe essere espressa come una sorta di Leviatano di memoria hobbesiana, ma completamente sradicato dai vincoli classici della sovranità tradizionale come la cultura, la lingua, il territorio, ovvero tutto ciò che ha formato l’idea di Stato nazione. Nell’epoca che stiamo vivendo, le esigenze dei mercati, aiutate da uno sviluppo sempre crescente di una tecnologia anche questa asservita alle logiche del consumo, sono diventate la principale fonte di ispirazione di qualsiasi scelta di politica nazionale e internazionale. È proprio in questo scenario in cui la «morte di Dio» e la secolarizzazione hanno probabilmente oltrepassato anche le più fosche previsioni fatte da autori come Nietzsche, Marx, Weber, Schmitt, Sartre solo per citare i più noti, che ritorna attuale l’esortazione fichtiana che troviamo sia nella Missione del dotto che nei Discorsi, ovvero il ruolo della formazione (Bildung) nella costruzione di un sapere pratico capace di ricostruire il legame tra filosofia e vita. Nell’idea fichtiana, il “Dotto” avrà il ruolo di educare il popolo per la realizzazione della società perfetta, ovvero quella in grado di provvedere all’eguale sviluppo e soddisfacimen7. GR, p. 19. 8. Ibidem.
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to di tutti i bisogni umani9; egli quindi deve(soll) sorvegliare dall’alto il progresso effettivo del genere umano e promuovere in maniera costante questo progresso10. Ovviamente non ci possiamo soffermare sulla dettagliata descrizione che l’autore ci fornisce di tutte le capacità e abilità che rendono il dotto il vero vate o sacerdote della verità, ma ci interessa sottolineare solo alcune considerazioni che a mio parere dovrebbero rappresentare la genesi della formazione prima morale e poi politica. Il primo punto essenziale è che l’educatore non può usare la violenza e la coercizione per convincere gli uomini della giustizia e della bontà delle proprie azioni, addirittura sostiene Fichte: «all’epoca nostra, non ci dovrebbe più essere bisogno di perdere neanche una parola per combattere tale pazzia»11. Alla luce di quanto abbiamo detto prima, e di fronte alla narrazione storica dell’ultimo secolo, sembra paradossale che purtroppo l’ammonimento di Fichte sia ancora valido, ed è proprio in questo senso che a mio parere torna attuale la figura del “dotto” come colui che attraverso il sapere permeato della conoscenza filosofica e storica, giunge alla consapevolezza di comprendere che la sua unica missione è di illustrare la verità anche a rischio di essere perseguitato, odiato o addirittura morire in suo servizio12, perché questo, altro non è che il compimento del dovere assoluto di chi ha compreso l’unita di vita e sapere espressa dalla dottrina della scienza. Altrettanto importante, è il richiamo fichtiano alla promozione di una «morale virile» contro la «morale degli spiriti pigri e angusti», la quale ha generato un’età «smascolinizzata» e «snervata» in cui:
9. Cfr. J.G. Fichte, La missione del dotto, cit., p. 115. 10. Ivi, p. 124. 11. Ivi, p. 133. 12. Ivi, p. 137.
216 […] essa con timida voce che tradisce la sua intima vergogna, chiama «fantasticheria» tutto ciò a cui essa non si sente capace di elevarsi; essa ritrae con orrore lo sguardo da un quadro in cui non sa vedere null’altro che la sua fiacchezza e la sua vergogna; essa riceve da tutto ciò che è nobile un’impressione tale quale sentirebbe al più tenue contatto colui che ha tutte le membra rattrappite dal gelo.13
Se queste parole, scritte nel 1798, fossero parte di un editoriale di una qualsiasi testata giornalistica europea o americana, che tratta il tema della crisi e della decadenza morale-politica dell’occidente ai giorni nostri, troverebbero, a mio parere, più di un consenso, in quanto lo scenario descritto sopra da Fichte, pare l’esatto quadro di come per svariati motivi di cui tutti siamo a conoscenza, il pensiero filosofico, morale e politico, specialmente negli ultimi 50 anni, abbia perso completamente quel legame con la realtà e con la vita, che negli anni precedenti era stato il nucleo originario per la fondazione di qualsiasi corpo politico e per l’espressione di una certa idea di sovranità. Certamente è innegabile che la distorsione di alcuni pensieri illuminati, nel ’900, ha portato all’origine di nefasti totalitarismi, ma questo rientra sempre nel tradire quello che deve essere lo spirito essenziale di chiunque voglia porsi alla guida di un movimento, di un popolo o di una nazione, ovvero la trasmissione della verità a tutti i costi, ma non di una verità soggettiva o parziale, ma la verità assoluta che coincide con l’acquisizione del sapere assoluto. Per concludere questo paragrafo, vediamo rapidamente in che maniera i Discorsi ci aiutano a sviluppare quel punto che, specialmente nei Tratti, ci mostra l’agire spirituale come legato all’attuazione logica e dialettica della ragione, rischiando di cadere in una considerazione della storia panlogistica, in cui ogni nuova realizzazione è condizionata dal fatto che sia stato 13. Ibidem.
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prima raggiunto il grado della determinazione dialettica che la rende possibile14. Nel settimo discorso, oltre le importanti considerazioni sul ruolo del linguaggio nella formazione della coscienza di un popolo, e sull’importazione all’interno della filosofia tedesca, di un carattere “morto” della cultura e della lingua straniera (illuminismo e materialismo francese), indicato da Fichte nell’assoluto schellinghiano come essere morto, fisso, persistente frutto di un pensiero che è solo in grado di fantasticare perché ha paura di perdere le sue amate illusioni15, ci interessa maggiormente comprendere il ruolo della filosofia, e in particolare della dottrina della scienza, che si fonda, dice giustamente Rametta, «sull’inesauribile eccedenza della vita divina rispetto ad ogni sua concreta apparizione»16. Una filosofia che è quindi in grado di elevarsi sino all’immutabile, al più (Mehr), al di là di ogni infinito, dove incontra il vero io17, e di comprendere come: […] il tempo, l’eternità, l’infinito sorgano dall’apparire e dal divenir visibile di quell’uno che in sé è invisibile e non può essere concepito giustamente che nella sua invisibilità.18
Concludiamo sul ruolo che tale filosofia ha il compito da svolgere, nella formazione di un’arte politica che rinnega l’idea meccanicistica della società, in favore dell’idea di un corpo politico animato dalla vita dello spirito. La cosa che qui principalmente mi interessa sottolineare è il richiamo fichtiano al ruolo “attivo” che gli uomini di cultura, o la cultura in generale deve avere, per la fondazione di un modello educativo che
14. Cfr. R. Lauth, Il pensiero trascendentale della libertà, tr. it., a cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Napoli 1996, pp. 258-259. 15. Cfr. Discorsi, cit., pp. 145-147. 16. G. Rametta, Fichte, cit., p. 266. 17. Cfr. Discorsi, cit., p. 145. 18. Ibidem.
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debba coinvolgere nella formazione la totalità del popolo, senza alcun genere di distinzioni. Dunque un modello educativo che prescinda da patriottismi e nazionalismi, in favore di una sorta di cosmopolitismo come si evince dai discorsi nono, decimo e undicesimo. A tale proposito, è giusto ricordare ancora una volta con Rametta, come nei Discorsi la posizione fichtiana potrebbe sembrare contraddittoria, in quanto in sostanza parrebbe che il popolo tedesco sia l’unico a comprendere e coltivare l’amor di patria e contemporaneamente il rispetto per le culture differenti, dunque questo lo erigerebbe ad avere una destinazione privilegiata rispetto a tutti gli altri popoli, ovvero tenere accesa la fiaccola della libertà, a rischio però di assumere la dottrina della scienza come unica filosofia legittima nella genesi della formazione prima e trasmissione poi del sapere come saggezza, frutto di atto della libertà19. Ma se consideriamo gli eventi storici che precedono e che sono contemporanei alle lezioni fichtiane sui Discorsi (1708-9), si può accettare lo slancio nazionalistico dell’autore, che a parer mio non deve essere inteso come un’anticipazione del pangermanesimo che solo diversi anni dopo prenderà piede, ma come un’esortazione a ribellarsi a qualsiasi forma culturale o politica che mini la nostra più intima natura legata all’autonomia e alla libertà in tutte le sue espressioni. Questo deve secondo me essere il nucleo originario di ogni forma di educazione culturale, morale e politica, e questo rappresenta il punto più attuale lasciatoci in eredità da Fichte per affrontare una discussione critica sulla crisi/decadenza della modernità, e sulle concrete possibilità di revisione di tale ormai radicata visione pessimista e catastrofista specchio della società contemporanea.
19. Cfr. G. Rametta, Fichte, cit., pp. 168-169.
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2. Gnosi e decadenza politica secondo Voegelin Prima di addentrarci in una breve analisi di alcuni punti del già citato testo di Voegelin da me scelto per la consonanza con il tema generale del convegno, ovvero la decadenza politica europea, rapidamente spiegherò perché il tema di fondo delle Considerazioni inattuali di Nietzsche svolge da trait d’union tra due filosofi (Fichte e Voegelin) all’apparenza distanti da un punto di vista teoretico, e sicuramente distanti cronologicamente. Il primo punto è la concezione nietzscheana della cultura come eroica, vitale e pragmatica, tale da rispondere alle esigenze più alte della vita ed alimentare le energie dell’esistenza. Tale esigenza deve rappresentare il dover essere della vera cultura, che nei tempi moderni è stata fuorviata rispetto ai suoi fini autentici, col risultato di aver ucciso la natura tradizionale dell’uomo europeo instaurando dentro il suo animo una malsana seconda natura, generando così una cultura ricondotta a mera interiorità e contemplazione, totalmente estranea rispetto all’esistenza concreta. Tale distacco dai bisogni reali trasforma il sapere da «vera cultura» a «sapere di una certa specie intorno alla cultura», una sorta di degrado a meta-cultura20. L’intellettualizzazione della cultura e la storicizzazione hanno fiaccato l’uomo moderno indebolendone la personalità, l’individuo diventa così titubante e insicuro, affonda e vaga nel caotico ammasso delle nozioni acquisite che non agiscono all’esterno, e dell’istruzione che non diventa vita21. In questa sede non abbiamo tempo di soffermarci sugli echi fichtiani presenti in questa critica e in questo evidente desiderio di rinnovare l’unione tra sapere/cultura e vita reale, che potrebbero ovviamente essere oggetto di ulteriori analisi e discussioni, pertanto passiamo senza indugi all’analisi di quei 20. Cfr. F. Nietzsche, Considerazioni inattuali II, cit., p. 352. 21. Cfr. ivi, p. 355.
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passaggi del testo di Voegelin in cui le istanze della filosofia classica tedesca e la critica di Nietzsche, in riferimento al pensiero politico, trovano una sorta di sintesi originale, che proverò a mettere in luce. Il punto di partenza, è la convinzione dell’autore che lo gnosticismo abbia avviato un lento processo di corrosione della civiltà occidentale che attraverso diverse rivoluzioni nazionali è giunto sino alla rivoluzione tedesca, la quale però per la prima volta ha generato il materialismo economico, la biologia razzista, la psicologia corrotta, lo scientismo e la spietatezza tecnologica, insomma la modernità nella sua pienezza, senza freno alcuno.22
La flebile speranza per uscire da questa decadenza, caratterizzata da un profondo vuoto morale e spirituale, consiste nel rimuovere la corruzione gnostica e reintegrare le forze della civiltà23. Bisogna subito precisare che con gnosticismo l’autore intende l’immanentizzazione dell’eschaton cristiano, che a sua volta rappresenta lo spirito della modernità. Tutto ciò è frutto di una nuova gnosi, o gnosi post-cristiana che afferma il disprezzo della ragione o la sua origine terrena e la sua funzione strumentale. La ragione perde quindi la sua universalità e il suo fondamento nella teoria del Logos, originando i regimi totalitari attraverso cui si opera la sostituzione della politica alla religione nel ruolo della liberazione dell’uomo, condizione necessaria causata dall’errore teorico dell’immanentizzazione dell’eschaton24. Sono diverse le suggestioni e le considerazioni, che queste tesi, e il pensiero politico in generale di Voegelin, fanno scaturire, ma in questa sede mi voglio principalmente concentrare sulla proposta “inattuale” di Voegelin, per mostrare l’assonanza 22. E. Voegelin, La nuova scienza politica, cit., pp. 270-271. 23. Ivi, p. 271. 24. Cfr. l’introduzione di A. Del Noce, ivi, pp. 28-29.
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di questa, con le idee fichtiane esposte nel primo paragrafo del presente contributo. Il tema del nuovo gnosticismo postcristiano, parrebbe la realizzazione definitiva della “morte di Dio” e di quella decadenza che in un certo senso prima Fichte aveva avvertito, e poi Nietzsche aveva magistralmente delineato. Per Voegelin la venuta di Cristo, rappresenta il culmine delle civiltà precristiane, in cui l’anima individuale era ancora testimone della trascendenza e questo rappresenta un progresso spirituale se paragonato alla dinamica della civiltà gnostica che invece procede nell’oblio della trascendenza, regredendo dunque dal punto di vista spirituale, pur avendo inventato l’idea del progresso25. Questa “missione” di recupero della spiritualità e della trascendenza, sebbene meno velata di romanticismo, ricorda le continue esortazioni presenti negli scritti fichtiani della così detta “filosofia applicata”, che oltre a quelli già citati, per lo specifico tema della realizzazione in terra di un regno dei fini in cui sapere, amore e vita siano perfettamente unificati, comprendono anche L’avviamento alla vita beata e La destinazione dell’uomo, benché sia necessario ammettere che in Fichte, le dinamiche di accesso al sapere assoluto, non possono prescindere da un approccio trascendentale, pertanto il trascendente, il “regno dei fini”, rappresentano in lui il punto di arrivo del sapere filosofico, la cui origine invece risiede sempre nell’assoluta posizione dell’io. Alla luce di quanto esposto sino ad ora, inizia a diventare più chiaro, il perché abbia voluto definire le mie considerazioni sul tema della decadenza politica dal punto di vista dei due filosofi tedeschi protagonisti del presente contributo, “inattuali”. Basta soffermarci appena sugli sviluppi tragici che il pensiero politico occidentale è riuscito a causare, proprio per il suo al25. Ibidem.
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lontanarsi sempre di più dall’idea della possibilità di un fondamento che abbia come modello un ipotetico regno ideale, in cui i valori universalmente accettati da tutti, non diventino gli spettri a cui appellarsi in giustificazione di azioni di dubbia origine morale, per comprendere quanto sia difficile e tortuoso il percorso indicato da Fichte prima e da Voegelin poi. Nell’epoca della secolarizzazione compiuta e della definitiva uccisione di Dio, come può una proposta praticamente “messianica” salvarci dalla deriva a cui parrebbe sempre più rapidamente ci stiamo avvicinando? Io penso che con un operazione di autocritica, dobbiamo cercare di limare il nostro atteggiamento a priori refrattario nei confronti di qualsiasi discorso che comprenda la trascendenza, o ancora più semplicemente la metafisica o l’ontologia, non certo per promuovere un’ipotetica “rivoluzione” che porti alla formazione di un governo teocratico, in quanto questo rappresenterebbe la negazione della tanto agognata libertà, ma più che altro per cambiare la nostra disposizione nei confronti dell’accesso alla verità come sapere di quel più (Mehr) che non si mostra, ma che rimane l’orizzonte verso cui il nostro sguardo annebbiato e accecato dal progresso/regresso deve inevitabilmente volgersi, se ancora abbiamo a cuore le sorti di una civiltà che ha perduto il suo senso più profondo, e se ancora crediamo che il dono più grande da salvaguardare sia l’umanità stessa, nonostante i suoi errori e le sue presunzioni. Solo credendo ancora che il sapere razionale possa servire da guida nella formazione di un credo politico, saremo in grado di elaborare tesi e costituzioni in cui l’interesse della comunità sia sempre anteposto a quello di gruppi che sono espressione di dinamiche tecnocratiche e plutocratiche; solo pensando all’altro come un fine e non come un mezzo, saremo in grado di emancipare il nostro livello di cultura e di civiltà; ma per ottenere questo, ecco che ritorna fondamentale il ruolo della formazione (Bildung) sempre caro sia a Fichte che a Voegelin, la quale deve essere alla base di qualsiasi comunità in cui la giustizia e
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l’equità, risultino i valori più alti da esprimere come governanti, e da assicurare per tutti i membri della comunità. La sfida che ci dobbiamo porre per i secoli a venire dunque, sarà quella di rendere universale il concetto di formazione come autoperfezionamento, perché è solo divenendo consapevoli della necessità di attuare uno sforzo sulla nostra volontà che saremo in grado di accantonare egoismi e personalismi in favore di una superiore idea di comunità, in cui ognuno sia perfettamente consapevole del proprio ruolo da svolgere in funzione della comunità stessa, la quale, solo in questa maniera, si trasforma in un corpo politico organico in cui tutti diventano indispensabili per la realizzazione di un “regno dei fini” terrestre. Pensare che alla luce degli avvenimenti degli ultimi 30 anni, questo discorso risulti utopico e anacronistico, equivale a continuare a gettare benzina sul fuoco innescato dal pensiero debole e dal pensiero decadente i quali, annunciando la morte di qualsiasi approccio metafisico al discorso politico, hanno aperto la strada a una politica del compromesso basata esclusivamente su rapporti economici e di produzione, che ha perso completamente di vista l’idea di comunità intesa come unione di persone con le proprie peculiarità, in favore di una massa disordinata di individui totalmente spersonalizzati e soggiogati alle logiche del mercato sempre più liquido e globalizzato. Per cercare quindi di discostarsi da questo scenario per niente esaltante, che tra l’altro rappresenta l’esatto esito di politiche economiche internazionali scellerate, a mio parere non risulta quindi così assurdo, riproporre quelle considerazioni politiche che provocatoriamente ho voluto definire “inattuali”, in quanto in esse ancora è presente la speranza e la fiducia nelle capacità del genere umano che, se opportunamente guidato, è ancora in grado di realizzare ciò che storicamente ha permesso alla stesso di ottenere l’appellativo di “animale razionale”, acquisendo quindi un ruolo centrale nella formazione del sapere e della cultura dell’umanità stessa.
Indice
I Sacrificio, vendetta, guerra A 50 anni da La violenza e il sacro di René Girard Fabrizio Sciacca, Etica del singolo ed esorcismi sociali. A proposito di vendetta e sanzione
p. 11
Vincenzo Maimone, Girard e la violenza necessaria. Considerazioni sul capro espiatorio
p. 23
Alberto Contu, Precomprensione attualistica e filosofia idealistica del diritto. Variazioni sulla retorica della vendetta nel pensiero di Antonio Pigliaru
p. 45
Vanni Piras, La vendetta nella comparazione tra due modelli storici di giustizia
p. 95
Bachisio Meloni, René Girard ed Emmanuel Levinas: dal sacro al santo. “Espiazione” del Sacro e testimonianza della “non-indifferenza”
p. 133
II Il politico e la decadenza d’Europa
Simone Furlani, La decadenza europea vista da lontano: la crisi della rappresentanza secondo H.D. Thoreau
p. 171
Sebastiano Ghisu, Europa e critica all’Eurocentrismo negli studi post- e decoloniali
p. 191
Paolo Vodret, Arte del sapere, formazione e decadenza. Alcune “considerazioni inattuali” sul pensiero politico di Fichte e Voegelin
p. 209
Gulliver
Collana di Filosofia Contemporanea Diretta da Francesco Valagussa
1. Luca Basile, Morte della sovranità. 2. Daniel Innerarity, Un mondo di tutti e di nessuno. Pirati, rischi e reti nel nuovo disordine globale. 3. Federico Croci (a cura di), La logica non è tutto. Rileggendo Giovanni Gentile. 4. Leonel Ribeiro dos Santos, Melanconia e apocalisse. Studi sul pensiero portoghese e brasiliano. 5. Federica Buongiorno - Vincenzo Costa - Roberta Lanfredini (a cura di), La fenomenologia in Italia. Autori, scuole, tradizioni. 6. Charles-François Tiphaigne de la Roche, Giphantie. 7. Félix Duque, Gastrosofia divina. Il cibo dello Spirito nel l’èra tecnologica. 8. Gaetano Basileo - Giannino Di Tommaso (a cura di), Principio, metodo e sistema nella Filosofia Classica Tedesca. 9. Giulio Goria - Giacomo Petrarca (a cura di), Figure della crisi.
10. Carlo Grassi, La facoltà di giudicare. Sociologia dell’agire normativo. 11. Johann Michel - Carla Canullo (a cura di), Renewing Hermeneutics – thinking with Paul Ricœur / Renouveler l’herméneutique – penser avec Paul Ricoeur. 12. Bachisio Meloni, Etica del fondamento e fondamenti del l’etica. Dialoghi per «InSchibboleth». 13. Alice Giordano (a cura di), Che cosa cambia con Nietzsche? 14. Fabrizio Desideri, L’ascolto della coscienza. Una ricerca filosofica. 15. Bachisio Meloni - Paolo Vodret (a cura di), Variate risonanze. Echi del politico nel contemporaneo europeo.
Gulliver - 15
Collana diretta da Francesco Valagussa Comitato Scientifico Danielle Cohen-Levinas Georg Bertram Adriano Fabris Elio Franzini Thomas Harrison Luca Illetterati Valerio Rocco Lozano Giampiero Moretti Federico Vercellone Emanuele Vimercati
ISBN ebook 9788855294720
Sacrificio e vendetta in René Girard, il politico e la decadenza d’Europa vista da differenti prospettive teoretiche (Fichte, Voegelin, Thoreau e il pensiero post-coloniale) sono i temi centrali analizzati nel presente volume, concepito come un invito a ripensare le categorie essenziali del filosofico nel suo intreccio con il politico. Si tratta di comprendere se sia ancora possibile realizzare un’analisi critica in grado di restituire alla politica la sua funzione di guida nella formazione e nell’emancipazione della comunità, fuori dai vincoli del dominio tecnocratico o della “ecotechnia” imperante, per riconsegnare all’umanità il senso più profondo del politico, inteso nei termini della condivisione, dell’unione, o meglio, della “comunione”. Bachisio Meloni, è dottore di ricerca in Teorie e pratiche della comunicazione e dell’interculturalità. Docente in materie letterarie, è autore di alcuni studi sul pensiero di Emmanuel Levinas ed è stato Redattore della Rivista digitale InSchibboleth. È autore e curatore del libro Etica del fondamento e fondamenti dell’etica, InSchibboleth, Roma 2011 e 2022. Sempre per le edizioni InSchibboleth ha curato per la Collana Passages i libri di E. Matassi, Appunti sul presente, Roma 2011 e di J. Lèbre, Velocità, Roma 2023. Paolo Vodret, dottore di ricerca in filosofia, docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo, autore di diversi saggi sulla filosofia classica tedesca con particolare riferimento a J. G. Fichte. Dal 2006 è membro della “Rete italiana per la ricerca su Fichte” e della “Internationale J. G. Fichte Gesellschafts”. Dal 2021 è Presidente della Società Filosofica Italiana – Sezione Universitaria di Sassari.
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