Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro 8876980512, 9788876980510

In queste conversazioni prende forma un singolare "monologo" a due voci irriverente e fuori dai denti. Due coe

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Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro
 8876980512, 9788876980510

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In queste conversazioni mai prima pubblicate prende forma un singolare “monologo” a due voci irriverente e fuori dai denti. Due coetanei, diversi per ihdole e per carattere, ma legati dalla comune passione per il teatro, s’incontrano, una sera d’inverno nel 1988, prima di una “prima” (quella della Cena delle beffe di Sem Benelli).e discutono a ruota libera davanti a un registratore. Il più irrequieto personaggio del teatro italiano, Carmelo Bene, si abbandona a una riflessione fluente e aperta che tocca temi come il divino, la follia, la filosofia, Nietzsche, Derrida e Klossowski, la Biennale di Venezia e i profeti della cultura francese, santa Teresa e Lévinas, Artaud e i destini del teatro, fino a un illuminante discorso sui santi analfabeti e sulla cultura popolare. È un Carmelo Bene che sorprende, per acume c rigore, quello che esce da queste conversazioni inedite, riemerse dall’archivio di Umberto Artioli dopo la sua morte; parole

che hanno, per il tono profetico tipico delle illuminazioni, un sapore quasi testamentario. Un libro, a suo modo, commovente per come dimostra con quanta e quale passione Bene intendesse affermare un’idea se non nuova, certamente diversa, di teatro. Scrive il filosofo Carlo Sini nella Postfazione: «Questo si deve vedere, dice Bene, nellji scena del teatro: l’osceno, il pomografico, ciò che non si può “ricoprire” con la finzione... Ma proprio nella oscenità del linguaggio, nel suo “tutto fuori”, si deve intendere la nostalgia c la risonanza di un’eco della voce, perché la voce, essenzialmente, è “ascolto”. L’ascolto, si potrebbe dire, nomina la “disavventura” del reale, la sua costitutiva “risonanza”, cioè la sua strutturale mancanza. “Noi possiamo avere solo l’eco di qualcosa”, dice Bene, ed è così che “l’eco precede la voce”. La voce chiama nella nostalgia dell’eco dell’assenza».

Umberto Artigli (1939-2004). Teorico e storico del teatro, docente all’università di-Padova, ha coordinato la Fondazione Mantova Capitale Europea Spettacolo. Tra i suoi libri: Teatro e corpo glorioso in Antonin Artaud (Feltrinelli 1978), Pirandello allegorico (Laterza 2001) e II ritmo e la voce (Laterza 2005).

Carmelo Bene (1937-2002). Enfant terrible del cinema e del teatro italiani, raffinato cultore delle estetiche del Novecento, si è raccontato nell’autobiografia Sono apparso alla Madonna. Fra i suoi ultimi lavori si ricordano: 7 mal de 'fiori e il video testamento 4 momenti su tutto il nulla.

Si ringrazia per la collaborazione la Fondazione Mantova Capitale Europea Spettacolo

© 2006 by Edizioni Medusa Viale Abruzzi, 82-20131 Milano ediziehfrnè[email protected]

ISBN 88-7698-051-2

Umberto Artioli - Carmelo Bene

Un dio assente Monologo a-due voci sul teatro A cura di Antonio Attisani e Marco Dotti

Con scritti di Edoardo Fadini e Giuseppe Zuccarino Postfazione di Carlo Sini

Svestire il vuoto Antonio Attisani

1. Si propone qui una fedele trascrizione di alcune lunghe conversazioni tra Umberto Artioli c Carmelo Bene, avvenute tra la fine del 1988 e l’inizjo del 1989. Il confronto tra queste due straordinarie personalità trascende i limiti di una normale per quanto brillante intervista e diventa, anche alla luce della prematura morte di entrambi, avvenuta nel giro di pochi anni, una sceneggiatura vivacissima, copione e indice delle ricerche che i due stavano conducendo. Definirli uno storico del teatro e un attore sarebbe riduttivo, come converrà chiunque li abbia conosciuti, perché per entrambi il teatro era soltanto un mezzo, per quanto straordinariamente efficace e assai diffìcile da usa­ re, per giocarsi il senso dell’esistenza puntando tutto sullo ze­ ro. Gli studi del primo su esoterismo, gnosi e forme eterodosse della religiosità nel teatro otto-novecentesco, e la straordinaria riflessione beniana di rigorosa matrice nichilista (stimeriana) sembrano qui convergere nell’ipotesi di una ricerca comune, finale, che si concretizzerà intanto nella collaborazione per una Biennale Teatro contestatissima, da cui Bene dovrà dimettersi dopo alcuni scandali artatamente montati dai suoi oppositori esterni e interni. Tra i due non mancano le differenze e i contra­ sti, che vivacizzano il testo ora riproposto, e le rispettive idee, dato il contesto, non sempre risultano compiutamente sviluppa­ te, ma questo copione involontario offre tutti i vantaggi di un pensiero in divenire che sgorga da fonti diverse e mette il letto­ re (o dovremmo dire lo spettatore?) in contatto con concezioni più radicali e chiare di quelle che le contingenze, c la necessità di argomentare, imponevano agli scritti di entrambi.

2. «Buongiorno, cerco il professor Artioli». «Chi parla?». «Sono Carmelo Bene». «E io sono Eleonora Duse!».

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Questo il primo contatto, verso la fine del 1986. Nella ca­ sa di San Silvestro di Cullatone ha risposto Giuliana Maglia, moglie del professore ma anche fine poetessa e ammiratrice di Bene. Ha pensato a uno scherzo e al ritomo del marito gliene parla. Umberto Artidi si ricorda di qualcosa che gli aveva det­ to Maurizio Grande qualche mese prima, quando era passato a trovarlo nella sua villetta alle porte di Mantova, in cui si era da poco trasferito, a meno di cento metri dalla casa di Francesco Bartoli, spesso suo coautore e il suo più caro amico. Grande aveva segnalato l’ultimo libro di Artioli, Il ritmo e la voce (del 1984), a Bene e questi, dopo averlo letto molto attentamente (tutti coloro che lo hanno conosciuto confermano che dopo una lettura era in grado di analizzare a fondo qualunque volume avesse letto), aveva deciso di instaurare un dialogo con quello studioso appartato, forse per reclutarlo tra i suoi esegeti e ammi­ ratori di rango. Tra questi vi erano già figure del calibro di Gilles Deleuze, Jacques Lacan e Pierre Klossowski, i primi due tra gli autori più citati in quegli anni da Artioli, il quale dunque non po­ teva che essere lusingato dell’interesse di Bene nei suoi con­ fronti. 11 giorno dopo, quando Bene richiama, entrambi ridono dell’equivoco telefonico e finalmente si stabilisce un rapporto diretto tra questi uomini di cultura fuori dell’ordinario, entrambi dal carattere spigoloso e divorati dall’intensità di una interroga­ zione esistenziale condotta attraverso il teatro. Com’è noto, Artioli era uno studioso di testi più che di eventi scenici, specie dopo la metà degli anni Ottanta, quando si era smorzata la spinta che aveva motivato molti esponenti del­ la sua generazione anche alla militanza. Artioli era stato, assie­ me a Gino Baratta e Francesco Bartoli, e con il Circolo Otto­ bre, responsabile di molte importanti iniziative culturali a Man­ tova. Lui, socialista libertario, collaborava volentieri con gli estremisti non settari. Aveva visto alcuni degli spettacoli di Be­ ne, ma soprattutto conosceva benissimo quanto aveva pubbli­ cato fino a quel momento. Ciò gli bastava per considerarlo in primo piano nel proprio orizzonte critico. Lo stesso avveniva per Jerzy Grotowski. I due, Grotowski e Bene, erano conside­ rati allora gli esponenti di due scuole di pensiero e relative pra­ tiche teatrali antitetiche e ancora oggi è rarissimo che qualcuno

Introduzione / 7

ne evidenzi i profondi punti di contatto al di là delle figure ideo­ logiche e lessicali. Eppure ne 11 ritmo e la voce, volume dedica­ to a teoresi e pratiche sceniche poco note dei primi decenni del Novecento in Germania, sono incastonati proprio i nomi di Grotowski e Bene, a significare due realizzazioni poetiche dif­ ferenti tra loro eppure derivanti da un medesimo modo di senti­ re il mondo e quindi da considerare come esiti del “teatro della crudeltà”, come se fosse, il primo, con i suoi Misteri teatrali l'esponente più significativo dell’istanza del ritmo, e il secon­ do, con la sua phonè, di quella della voce. Artioli collocava Grotowski (che dal 1968 aveva abbandonato il “teatro degli spettacoli”) in una linea che procede da Fuchs e Artaud nel concepire il sacrificio come culmine e centro dell’azione dan­ zante e che si inoltra «al di là delle frontiere del teatro alla ri­ cerca di interstizi dove ancora siano attive “forze vitali non convenzionalizzate”»1, e fa apparire Bene nel capitolo dedica­

to a Lingua paradisiaca e phonè in ambito Sturm: «[...] Viene in mente per lui, quel che diceva Jhering [...] quando sosteneva che si era costretti “a vedere con l’udito, a dedurre il corporeo della suggestione verbale”. O più ancora, forse, quel che ai giorni nostri afferma Carmelo Bene, in una splendida dichiara­ zione di poetica [...]».“ Nel 1983 Bene aveva debuttato con il Macbeth, uno spet­ tacolo di svolta, dove all’insegna dellaphonè si iniziava il per­ corso sempre più solistico di una teatrica che cancellava pro­ gressivamente ogni idea di spettacolo, autore, senso e tutto ciò che fa dell’arte un lenitivo del dolore di essere al mondo. Altro passaggio decisivo in questo senso sarà il discusso Lorenzaccio, al di là di de Musset e Benedetto Varchi ( 1986), cui segui­ ranno, prima della Cena delle beffe, i Canti di Leopardi (1987) e Hommelette for Hamlet ( 1987). Il disamoramento per il sog­ getto e l’abbandono inappellabile di qualsiasi prospettiva dio­ nisiaca o euforizzante («Lasciamo che l’Eros finisca nella fe­ sta di Bataille» dice in un passaggio) lo inducevano, sul piano dei riferimenti teorici, a prendere le distanze da tutti i suoi ava­ tar, e sempre più l’attore-autore-regi sta si rendeva conto che non poteva ottenere dai suoi partner di scena più o meno occa­ sionali quella smarginatura del linguaggio che solo lui era in

grado di (cominciare a) realizzare. È questo il motivo primario

di un solismo sempre più netto: «Cominciai con Macbeth a chiudere, con Lorenzaccio a togliere di mezzo l’io e tutte quel­ le cose, ma mi rimaneva troppo soggetto dentro. Stavolta è smarginato il soggetto. E allora qual è il programma? Arrivare prima attraverso una Pentesilea, una Achilleide, ma arrivare, arrivare completamente». E così concludeva: «Sarà molto più chiaro se vi sarà un fatto attoriale totalizzante, da solo. Perché scompare ancora prima». Negli stessi anni Umberto Artioli era una macchina pen­ sante di incredibile vigore. I suoi appunti dimostrano uno stu­ dio dall’estensione e dalla profondità difficili a credersi. La sollecitazione fornitagli da Artaud e Pirandello lo aveva porta­ to a esplorare la letteratura gnostica e mistica che sta sullo sfondo della teatrologia contemporanea, e si era impegnato a mettere in risalto i tratti comuni di una vertenza teatrale anti-rappresentativa nella vicenda otto-novecentesca, a promuo­ vere l’idea di un teatro inteso come “esercizio spirituale”. Tut­ to ciò sulla base di un materialismo aperto, senza concessioni a un fideismo cieco ma con una naturale disposizione all’inda­ gine metafisica, trovando per primo - e in un contesto di studi intemazionali - numerosi riscontri alla sua prediletta prospet­ tiva gnostica, basata sempre sull’ermeneutica testuale (in que­ sto senso c un derridiano e qui Bene si confronta, in effetti, con Artioli-Derrida, vale a dire con una nozione allargata di testo che comprende il visivo c l’orale).

3. Oggi non si conoscono molti dettagli della loro relazio­ ne al di fuori degli appuntamenti pubblici e di scrittura perché oltre a loro sono morti alcuni testimoni diretti come Francesco Bartoli (1933-1997) e soprattutto Maurizio Grande (1944-1996). L’archivio di Artioli conferma un impegno sistematico nell’in­ dagine sui motivi beniani, senz'altro facilitato dalla larga coin­ cidenza con i propri, anche quando, come in quegli anni, lo stu­ dioso era concentrato essenzialmente su Pirandello e anticipa­ va i propri rinvenimenti ermeneutici con relazioni e articoli su riviste specialistiche. Anche sullo sfondo delle tematiche pi­ randelliane Artioli approfondiva temi e autori da mettere in

relazione con Bene e ciò semplicemente perché erano quelli che lo interessavano nella prospettiva della propria quète persona­ le. Si deve pensare in questo senso non solo alla letteratura mi­ stica “classica” (più o meno gli autori antologizzati da Zolla3, ma letti da Artioli in edizioni integrali), ma all’enorme revival novecentesco, declinato nelle teosofie e negli esoterismi più disparati, che tanta influenza ha avuto sugli sviluppi dell’arte teatrale.4 Gli scritti pubblicati di Artioli su Bene si limitano in

effetti al 1990 e nascono nel periodo della loro frequentazione più intensa, dalla Cena delle beffe all’esperienza esaltante e di­ sastrosa insieme della Biennale Teatro.5 Se oltre ai testi editi si pubblicassero tutte le note attinenti e inedite del suo archivio per esempio su Schopenhauer, Holderlin, Kleist e poi su Artaud, Klossowski, Lacan e altri - ne verrebbe fuori un volume impo­ nente; ma si tratta di un’impresa impossibile nelle condizioni dell’attuale editoria italiana e sicuramente troppo laboriosa per gli eventuali curatori e lettori.

4. Com’è noto, Artioli è morto improvvisamente nel lu­ glio 2004, senza lasciare istruzioni circa i propri scritti editi e inediti. Da ciò l’iniziativa presa da un piccolo gruppo di perso­ ne che gli erano particolarmente vicine di valorizzare per quanto possibile il suo lascito teorico. Con le sue allieve dell’università di Padova e l’appoggio della Fondazione Mantova Capitale Europea Spettacolo è in corso la riedizione presso l’editore Laterza di alcuni volumi che ripropongano, tra le sue opere, quelle introvabili e ancora indiscutibilmente attuali. Il presente volu­ me nasce da considerazioni diverse, seppure condivise dalla vedova di Artioli, Giuliana Maglia, che qui si ringrazia di cuo­ re, e da alcuni suoi amici (agli altri si spera di procurare una piacevole sorpresa). Avendo trovato tra le sue carte le vecchie cassette di oltre quattro ore di conversazione con Carmelo Be­ ne e avendone constatato lo straordinario interesse intrinseco al di là dei testi che a suo tempo ne erano scaturiti, si è deciso di pubblicarne la trascrizione integrale, rispettando il più fedel­ mente possibile la forma originale. Lo stile del loro dialogo può ricordare a ciascun lettore uno o più autori, ma è certo che i due prevedevano di utilizzare i regi­

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stratori solo come dei bloc-notes estesi, mentre annotavano su carta il percorso logico e i punti salienti. A noi che forziamo il loro segreto risulta una saggistica orale fatta di battute brevi, di punti di vista diversi e talvolta di contrasti più o meno latenti, che si so­ stanzia in un “testo” unico nel suo genere, poiché un testo a quat­ tro mani lo si scrive sulla base di un accordo, mentre qui assistia­ mo a un pensiero che si manifesta contemporaneamente in due individui, come in una sessione di free jazz. Quella che si propo­ ne non è la trascrizione di un’intervista ma una traccia dell’in­ contro di due menti geniali, la cui rispettiva erudizione, invece di fungere da sovraccarico accademico, è benzina gettata sul fuoco. La trascrizione è corredata di poche note esplicative e ac­ compagnata da alcuni altri testi: il presente, per inquadrare le circostanze dell’incontro; poi l’intervista a Bene (in versione integrale inedita) che Artioli aveva ricavato dalla registrazione e l’intervento che, assieme a un altro di Maurizio Grande, ave­ va scritto per il foglio di sala della Cena delle beffe. A questi, è sembrato utile aggiungere le preziose testimonianze di Edoar­ do Fadini e Carlo Sini. Un altro indispensabile complemento al testo è il cd (distribuito separatamente), che consente di ritro­ vare io studioso e l’attore nel vivo del confronto, nell’orale, laddove il senso nasce e muore, ma può anche rinascere. Si potrebbe pensare a questo libro come a un omaggio fuori genere a due dei maggiori pensatori della vicenda teatrale e artistica alla fine del secolo scorso, ma forse sarebbe più giu­ sto considerare se questi documenti non siano un loro ennesimo dono a noi sopravvissuti e posteri. 5. È un rapporto preso da entrambi molto sul serio, un dia­ logo alla pari, anche se CB tende a rispondere e UA (così li chia­ meremo in quanto personaggi) a domandare, un dialogo che ol­ tre tutto si svolge in un momento cruciale per entrambi e nel quale si manifestano tutti i temi sui quali avrebbero lavorato fino alla morte. Ciò che attira UA, o che costituisce il principale motivo della sua relazione con CB, è la pregnanza della riflessione che sta dietro la produzione poetica e scenica dell’attore. Il loro è un dialogo di altissimo livello filosofico, da entrambi ricondot-

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to al proprio orizzonte operativo, di uomo di scena e di storico. UA sente all’opera anche in CB un paradigma gnostico e misti­ co, anche se CB, come si vedrà, sarà molto deciso nello smar­ carsi da ogni possibile intonazione metafisica. Straordinaria è anche l’occasione che ha portato all’in­ contro. CB: «Siamo qui anche per non esser d’accordo, perciò prepariamo questo volume: che nasce insieme, finalmente!». Entrambi prendono forsennatamente appunti e i rispettivi archivi conservano tracce di centinaia di ore di lavoro per le letture necessarie e per abbozzare questo libro che mai vedrà la luce a causa delle diverse modalità assunte dalla loro collaborazione fino alla conclusione mortificante della Biennale Tea­ tro. Dopo quell’episodio qualcosa si è interrotto. Pur restando in contatto sino alla fine e pensandosi reciprocamente con stima, come dimostra l’episodio del convegno su Artaud del 1996, al quale Artioli decise di non partecipare ma inviò a Bene la bel­ lissima lettera che qui si pubblica, tra loro non si sviluppò mai una vera amicizia e s’interruppe ogni collaborazione. Chi scri­ ve conosce una parte della verità, ossia un motivo che Artioli arrivava a confessare malvolentieri: in quel periodo Bene era gentilissimo e cordiale finché non assumeva delle sostanze che lo facevano diventare violento e dispotico, incapace di ascolto, intrattabile; Artioli non riusciva a sopportare l’intensificarsi di questi episodi e le contestuali frequentazioni beniane di amici che evidentemente avevano un diverso atteggiamento nei con­ fronti di questa sua deriva; inoltre Artioli stimava profonda­ mente Maurizio Grande e questi era stato allontanato da Bene per una futile questione di gelosia professionale.

6. Nei loro dialoghi, i due riprendono quel filo che non si è mai interrotto e che, almeno dai tempi del Simbolismo, ha ca­ ratterizzato i contrasti più accesi e gli esiti più alti della teatrologia del Novecento. Parlano cioè del rifiuto di un teatro che affida il proprio senso alla narrazione, ma meglio sarebbe dire ai concetti, del teatro che costituisce il sistema della prosa e in­ tende lo spettacolo come impresa ideologica, a prescindere dalle intenzioni più o meno nobili dei suoi autori. Ciò non si­ gnifica essere contrari ai testi o alla drammaturgia, come di­

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mostrano gli studi di UA e le realizzazioni di CB, ma all’uso che se ne fa nel sistema mistificatorio della prosa (CB: «Si in­ voca una drammaturgia a monte, autori che scrivano copioni. Ma son pazzi? O sono scemi o ci fanno, siamo nella stupidità totale. Perché? Perché vogliono lo spettacolo, questa garanzia che il testo a monte gli dà di essere poi riferito»). E soprattutto parlano del teatro come occasione del trasumanare, superamen­ to di una condizione umana che è considerata, euroricamente o disforicamente che sia, come un imprescindibile punto di par­ tenza e luogo di lavoro per giungere a un altrove. Privato della sua essenza consolatoria o mistificatoria, liberato dalla meschi­ nità della prosa, il teatro può (ri)trovare la propria essenza di poesia, di luogo nel quale si frangono le apparenze del reale e si rivolge lo sguardo sul vuoto (di senso) che presiede all’e­ sistenza umana. C’è dunque un aspetto critico, o meglio deco­ struttivo, un lavoro a togliere per il quale occorre mobilitare le migliori risorse della tecnica, tanto in senso tecnologico che personale. In proposito, UA cita Heidegger - «l’essenza della tecnica non è tecnica» -, autore nei confronti del quale CB è anche molto polemico, e l’attore propone dei riferimenti al de­ cisivo artigianato teatrale, per esempio ricordando che proprio per utilizzare i microfoni non come banale mezzo di amplifica­ zione si deve usare il diaframma «in un modo quasi indù». CB insiste sulla coerenza tra etica ed estetica e tra fine e mezzi, coerenza che implica non un culto della tecnica fino al vir­ tuosismo, bensì la necessità di oltrepassare i culmini di una padro­ nanza che significherebbe la condivisione tra artista e spettatore una illusione del pieno, e di impegnarsi invece nella elaborazione di una contro-tecnica. Qui siamo a un concetto chiave dell’ul­ timo Bene. CB vi accenna in diversi passaggi: «[...] si tratta di fi­ nirla col virtuosismo e quindi con la volontà. Bisogna avercelo avuto, magari, sì, d’accordo. E con la tecnica, inoltre, finirla. E allora che cosa introduco, io, in tutto questo? Ciò che chiamo contro-tecnica». La contro-tecnica è dunque un al di là raggiun­ gibile solo dopo avere attraversato tutto l’al di qua, è il transito ineludibile e rischioso dal regno delle buone intenzioni - o di un “misticismo integralistico” che, come si vedrà, secondo i due è incompatibile con l’arte - al concreto atto scenico.

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Quando CB punge UA dicendogli «Ecco, io sto tentando proprio quello che il tuo Blumner non è riuscito a fare, perché se Than fatto, l’avran fatto in trance, non in contro-tecnica...», ciò che colpisce, e virtualmente affonda, non è solo l’efficacia relativa di uno studio condotto esclusivamente sui testi, sulle intenzioni (CB: «Le intenzioni son molto belle, ma...» - UA: «Parlo delle intenzioni» - CB: «Infatti [Il ritmo e la voce] è un libro sulle intenzioni!»). L’accenno alla trance riguarda un con­ sistente filone del teatro contemporaneo, che fa seguire a uno stucchevole idealismo mistico o pseudo-tale una tecnica sem­ pre più elaborata, addirittura una scuola con relativa dottrina e biblioteca, che promette l’ottenimento di quel tipo di attorialità. Qui invece la differenza tra atto scenico e mistica è rimarca­ ta in modo definitivo da CB: «Ecco il termine: contro-tecnica! Perché altrimenti avremmo allora un mistico, un asceta che con­ voca una platea di duemila persone a sera, o centomila che sia­ no, per dire “Aspettate, che forse ora arriva la Grazia”. Questo che vuol dire? Questo è patetico. Patetico, cretino soprattutto! No. Devi sconcentrarti al punto tale, devi scomparire al punto tale, che nell’ascolto tu t’abbia a perdere. E allora non c’è me­ diazione!». Ecco la fine della mediazione-lettura di un testo ma anche quella dell’illusione di un pieno (di grazia) di cui l’attore-in-trance dovrebbe essere il portatore. Siamo a un passaggio cruciale perché nel Novecento l’i­ stanza del trasumanare si presenta sotto due aspetti, uno meta­ fisico e uno materialistico, a volte appartenenti nettamente ad autori diversi, a volte presenti negli stessi autori, e a volte ca­ ratterizzanti alcune loro fasi. CB chiarisce a sé stesso, a UA e a chi legge non solo che si tratta di una scelta netta e non sono am­ messe esitazioni, ma che l’atto teatrico, in quanto oscenità, cioè fuori scena portato in scena, ha una natura pubblica e per questo scandalosa. CB rischia di sembrare cinico laddove è semplicemente onesto. Si leggerà: - CB: «Bisogna vedere co­ me si può poi fare di questo una contro-tecnica, come io la chiamo, che garantisca...» - UA: «La Grazia» - CB: «No, che garantisca le serate, a teatro! Senza il concetto di replica, atten­ zione! Scapolando anche il concetto di replica. È lì che ci av­

venturiamo».

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7. Artioli ha dedicato tutta la propria vita di studioso all’idea di un trasumanare per teatro, inseguendolo nelle più varie declinazioni che ha avuto nel XX secolo e anche, ovvia­ mente, fuori dell’ambito strettamente teatrale e occupandosi perciò di teosofia e antroposofia, esoterismo, alchimia e so­ prattutto neognosi. Sempre, però, impegnandosi in uno stu­ dio dei e sui testi, progetti, intenzioni, e tuttavia cercando an­ che un riscontro nelle concrete realizzazioni sceniche del passato e del presente. Il cammino di Bene è diverso. Benché fosse un personaggio di altissima caratura intellettuale e mai superbamente appagato di sé stesso, il sapere per lui origina dal l’esperienza attoriale e di scena. In questo senso - e ciò va­ le per diversi altri innovatori della scena novecentesca, come il lettore potrà appurare - Carmelo Bene si apparenta a un’altra figura capitale nella cultura teatrale come Jerzy Grotowski, e le sue tensioni, al di là di un gergo in parte diverso, sono simili a quelle del maestro polacco e dei suoi attuali di­ scendenti, Thomas Richards e Mario Biagini. Se il punto d’appoggio della pronuncia beniana è condiviso con Grotowski, i suoi riferimenti teorici sono in larghissima misura gli stessi di Artioli, con qualche significativa differenza. Se non andiamo errati, nessuno fino a oggi ha mostrato come l’autonomia di Bene anche rispetto agli uomini di pensiero con i quali dichiarava una profonda convergenza - da Deleu­ ze a Foucault, da Lacan a Klossowski -, era sì un segno della sua unicità, ma originava anzitutto da un autore, anzi da un solo libro, L’unico e la sua proprietà di Max Stimer, il cui motto era «Ho fondato la mia causa sul nulla»: un’opera tal­ mente metabolizzata da non essere più citata, un “testo” al quale Bene non si curava di essere fedele ma che gli aveva fornito a suo tempo (ne parlava già a metà degli anni Settanta) i fondamenti di una visione, conferendogli un portamento fe­ nomenologico che lo aveva messo in condizione di leggere Nietzsche, Schopenhauer, gli autori citati e chiunque altro, per esempio Marx, con un senso di disperata libertà. Non è questa la sede per dimostrare tale affermazione, ma la verifi­ ca è alla portata di qualsiasi lettore.

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8. Dunque tra i due modi del trasumanare teatrale delinea­ ti e i due autori presi in considerazione ci sono molti aspetti in comune, per esempio l’interesse nei confronti delle tradizioni mistiche, che rappresentano (“storicamente”, per quanto la ten­ sione, lì, consista nell’uscire dalla storia) il filone più con­ sistente del trasumanare, e altrettante divergenze. Tale comu­ nanza non crea un fronte o un partito, forse una dinamica che ve­ de persone con intenzioni e pratiche molto diverse percorrere una medesima strada. Le divergenze più significative tra le due opzioni - e nel caso di LIA e CB risolte solo in parte dal dialogo - riguardano, ovviamente, la definizione del fine e dei mezzi. In una prospet­ tiva integralmente metafisica il fine è la Grazia, l’identifi­ cazione con Dio, la conquista di un “pieno”, mentre l’impegno è quello di purificarsi, di predisporsi ad accogliere questa pie­ nezza che viene da altrove. Nella prospettiva che potremmo definire come integralmente materialista, invece, quella di CB, il fine è una espansione della coscienza tale da pervenire a un vuoto o un nulla (senza neanche più le maiuscole) che costitui­ sce l’approdo estremo: «Per me, quello che li si chiama man­ que o questo che si chiama qa, per me quello è il vuoto. Ed è la fine di ogni pienezza, perché è la fine di ogni mondo. Ma è la fine di ogni arte, anche, è la fine di ogni storia!». A prima vista si potrebbe pensare a una contrapposizione Occidente-Oriente e si sarebbe confortati dalle reiterate dichia­ razioni di odio nei confronti dell’occidente da parte di CB, il quale denuncia con salutare e didattica irriverenza il platonismo, la «rappresentazione di Stato» nel teatro ellenico, Agostino, Tommaso d’Aquino e altre icone fondamentali della nostra ci­ viltà; e accentua, non senza forzature, ogni possibile contrasto, come a proposito di Klossowski: «Bafometto, questo schiaffo del teatro orientale all’occidente. Altro che apologia dell’eterno ritorno! Come dice il mio amico Jean-Paul Manganare: è il ri­ torno dell’eterno, semmai!». Non si deve dimenticare, però, che entrambi i dialoganti sono arrivati alle Upanisad, all’induismo e al buddhismo tramite Schopenhauer e non hanno approfondito le loro conoscenze su fonti primarie. Sono, come noi che li leg-

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giamo, assolutamente integrati nella cultura occidentale, anche se insistono su alcuni pensatori e critici della modernità i quali, pur rifiutandone il modello, si ricollegano a filoni di pensiero che le sono organici, per quanto minoritari. Oppure si pensi a quando, nel corso del primo dialogo, dopo aver elencato alcuni grandi mistici, i due s’incartano suH’«altro tedesco [...] il più grande di tutti». Alludono senza dubbio a Meister Eckhart e questo loro vuoto di memoria, cui fa riscontro il fatto che né oral­ mente né negli scritti torneranno sull ’argomento, sembra indica­ re due cose: da una parte quanto sia profonda l’assonanza che sentono entrambi con il mistico tedesco (si pensi soprattutto appunto! - al suo concetto di “vuoto” o “nulla”) e dall’altra che non si tratta di una influenza diretta bensì di un’afTinità che le letture tendono a confermare. Sia come sia, Artioli studia ed è interessato a entrambi i modi del trasumanare e di andare oltre il soggetto sociologica­ mente inteso e li vede entrambi all’opera nelle poetiche teatrali e negli autori che ama e che studia; mentre Bene è sempre sta­ to, anche se attraversando fasi diverse, in cammino verso il nulla. Un buon esempio in proposito è costituito dalla questio­ ne del dionisismo, che UA gli ripropone citando lo stesso CB, il quale a sua volta risponde che ora lo trova “pericoloso”, e al­ la domanda se si tratti di una “svolta” ribatte (sinceramente, perché lo attestano le sue dichiarazioni fino dai secondi anni Settanta) di essere contrario «anche per l’uso che se ne fa». A tutta prima, questo sembra a UA il segno di una conversione dal trasumanare alla critica. UA: «[...] emarginando il dionisia­ co tu emargini anche tutte quelle cadenze sulla grecità, sul sa­ cro, sulla verità, a favore di una decostruzione in senso france­ se». A questo punto CB offre un chiarimento decisivo, di ordi­ ne personale e filologico insieme: «[...] ho nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento, un ricordo del prenata­ le, quindi. Nella tragedia [...] il dionisiaco non c’è più. Quei sessanta-settanta anni, che poi si chiamano Eliade, Grecia, i greci, i greci, i greci, poi non furono che pochi anni. Ma che cos’è, è già decadence, perché lì siamo già nella rappresenta­ zione di Stato, attenzione! Con Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane, siamo già a quello. Nietzsche quando parla di dio­

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nisiaco rimpiange qualcosa di barbarico, di assolutamente a monte da tutto quanto ciò...». Il cambiamento di CB manifesta in effetti una forma di fedeltà a un principio applicato a conte­ sti diversi, è il riconoscimento che nel fraintendimento del Nietzsche giovanile si gioca la partita della “festività” che ca­ ratterizza l’odiata società dello spettacolo, all’interno della qua­ le il vero teatro è ridotto in condizione di semi-clandestinità.

9. CB: «L’interesse tuo lo capisco. Ma attenzione alla sto­ ria, perché poi rischia di restare solamente una storia mistica. O se vuoi un misticismo storico». O si consideri questo scam­ bio di battute. CB: «E allora c’è anche una storia del mistici­ smo!?» - UA: «Sì» - CB: «E no! Non la merita, cioè non se lo merita, perché abbiamo dei fatti mistici che sono sospensioni: sospensioni di qualunque storia». Come dire che quando i due si incontrano non possono fare a meno di esprimere alcune ri­ serve e sospetti reciproci: UA, sempre in base ai testi, vede in alcune prove dell’attore-autore un pericolo di “rappresentare l’intenzione” e la nota dominante gli sembra essere una certa euforia decostruttiva che rischia di vanificare la ricerca della sacralità. CB d’altra parte nota che il privilegio dei testi e delle intenzioni (o delle poetiche) porta a non distinguere le sostan­ ziali differenze tra i fini - dato che essere pieni di grazia è una cosa e essere vuoti nel vuoto un’altra - e tra i mezzi (ricordan­ do che il soggetto e il linguaggio sono questioni diverse nei due casi). Infatti accoglie UA con un commento non proprio bene­ volo sul libro che li ha fatti conoscere: «Sai, l’ho guardato bene Il ritmo e la voce. Peccato! Perché a mio avviso merita un am­ pliamento notevole. Parleremo dopo di questo. Ora parliamo di Biennale». Inoltre, secondo CB, nella pratica artistica (non solo teatrale) il percorso del mistico, introverso o estatico che sia, si rivela impraticabile; e questo fatto svelerebbe l’illusione metafisica di cui il discorso mistico è portatore, illusione tal­ volta non riscontrabile nella pratica mistica individuale, dove non importa come sia denominata la meta e quali si credono siano i mezzi, ma il punto d’arrivo, che è sempre una vacuità in cui svaniscono volontà, linguaggio e soggetto. Infine, se ci si affida al misticismo per dare forma alla realizzazione teatrale.

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si cade di nuovo nell’inganno ideologico e nella manipolazio­ ne. A questo proposito si può fare riferimento a quanto i due vengono dicendo su Artaud, con UA che insiste su ciò che con­ tengono i testi e CB sul fallimento di Artaud in scena, con ar­ mistizio finale sulla realizzazione del teatro della crudeltà nel­ la lingua francese e nella scrittura, principalmente neH’E//ogabalo. Ma molto gustoso è il flash di CB su Bliimner e i suoi confratelli dello Sturm scomposti nella tranceì Come si vedrà, i due si confrontano davvero e a fondo, cercano entrambi di spiegarsi c sembrano maturare qualche idca nuova: UA, per esempio recepisce la nozione di “smargi­ natura”, mentre CB da quel momento cita Bliimner in positivo e introduce nel proprio linguaggio alcuni concetti nuovi, come Engelsprache. Ma la radicalità di CB, che in quanto artista può volere una cosa sola, è diversa dallo sguardo dello storico, che abbraccia diverse esperienze, sottovalutando i livelli di espe­ rienza (o testuali, secondo Derrida) che può prendere in consi­ derazione. Il suo odio per l’arte, la storia, il soggetto e i fonda­ menti dell’occidente è non solo etico e sincero, ma si rivela un valido fertilizzante per la sua strategia poetica. A questa para­ dossalità, risponde l'orizzontalità pacata, erudita e sempre alla ricerca di riscontri autorevoli dello studioso, che mai censura i propri dubbi: «[...] se tu fai solo un lavoro di decostruzione, senza che compaia questo momento epifanico - perché quello che mi hai descritto è un momento epifanico - tu arrivi nella proliferazione infinita dei doppi...». Forse - è solo un’ipotesi UA non ha il coraggio di manifestare a CB la sua vera obiezio­ ne alla Cena delle beffe e si limita a dirgli che «nel testo, nello spettacolo di ieri sera non mi pareva che fosse questo il motivo, che cioè fosse destrutturata anche l’oralità, mi pareva che fosse più parodistico e decostruttivo», mentre avrebbe potuto usare le stesse parole con le quali l’attore stigmatizzava la musica contemporanea: «È storia dell’arte, come la maggior parte del­ la musica è pensata. E poi se guardi quella contemporanea è pensosissima». Perché in effetti il limite della Cena e di altri esiti beniani era proprio questo: tutto il sacrosanto sprogettare era una operazione cerebro-teatrale e non atto teatrale che pro­ duce pensiero. Sono passaggi inevitabili in un percorso di ri­

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cerca, ma sono anche cose che normalmente si riconoscono so­ lo molto tempo dopo, quando non si rischia più di ferire l’amor proprio dell’artista. Più rude era CB: «[...] la tua proposta d’a­ scolto - ecco l’esteriorità - è altra cosa, è spettacolo, voglio di­ re, è orale, ecco. In tutti i sensi. E orale! Ahimè. L’originarietà (invece) è uguale ad abbandono e oblio»; e più oltre: «[...] di­ cendo questo recupereresti se vuoi una “pienezza musicale”, un “pieno”...». UA però non si scomponeva e anzi talvolta am­ metteva di avere cambiato idea. Questa differenza di atteggia­ mento potrebbe essere imputabile al diverso statuto professio­ nale dei due, dato che mentre uno studioso del valore di Artioli si mette in gioco nel confronto verbale, l’uomo di teatro, l’attore dell’osceno, si sottopone a verifica e si legittima in un altro modo, vale a dire esponendosi, ed è il pubblico a decreta­ re la sua “esistenza”, anche quando lui si diffama e si cancella come faceva CB. 10. Per molti l’icona di Bene è ancora connessa all’idea dellaphonè. Lo stesso Artioli, pur dopo questi dialoghi, ha con­ tinuato a considerarla un tratto distintivo dell’attore. In queste pagine, invece, sono contenuti alcuni passaggi chiarificatori, si capisce cioè che la phonè - una scenicità affidata essenzial­ mente alla voce dell’attore, al Canto che sostituisce il Discorso - conosce il suo apogeo in un momento preciso, nei primi anni Ottanta, quando Bene è passato dagli spettacoli di complesso a un solismo sempre più accentuato. Eppure sarebbe dovuto es­ sere chiaro a tutti che laphonè era solo un transito concettuale, perché la direttrice rigorosamente scelta del vuoto non poteva sopportare che un pieno di senso si trasferisse dal testo e dalla parola al puro significante. Per intendere bene CB bisogna contestualizzare l’uso del­ le parole, accertarne la funzionalità in precisi contesti e am­ mettere che tra i motivi del loro periodico abbandono c’era sempre, e non in posizione secondaria, una rifiuto per la vulga­ ta di cui erano diventate oggetto. La phonè era stata intesa su­ bito, anche da taluni esegeti di Bene, come una sorta di recitarcantando, di melismo recitativo destinato a illustrare il senso con maggiore efficacia. Niente di tutto ciò per CB: «Zenone a

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suo tempo definiva già essere la phonè “la dialettica del pen­ siero”, ma è laphonè con cui io non ho niente a che fare! Qui c’è un equivoco di base! Io ho smarginato tutto ciò! E cerco il vuoto». Di fronte a un UA che insiste: «Comunque, questa grande direttrice tedesca del primato della musica, dell’udito, della phonè, in sintonia con il miglior Holderlin, resiste ancora nella tua visione di oggi, è ancora centrale per il tuo pensiero?», CB risponde con una ennesima, quasi disperata, smentita. Un equivoco simile, ma di minore durata e però maggior­ mente avallato dalla critica beniana, è quello riguardante la “macchina attoriale”. CB aveva fatto ricorso al termine “mac­ china” e aveva sostituito il proprio nome con la sigla C.B. per segnalare lo svanire della prima persona, l’attore come luogo del fa parie / fa manque. Ma era fatale che “macchina” fosse associata al termine “desiderante” cosi come appariva in Deleu­ ze e il povero CB - che pubblicamente usava figure come quella di Deleuze per difendersi - poteva dissociarsene soltanto in un testa a testa come quello con UA, argomentante l’incompa­ tibilità tra il proprio cammino verso il vuoto e l’originarietà con l’idea di un attore che funzionasse come un bacino collet­ tore del desiderio. Questioni terminologiche a parte, uno spunto molto inte­ ressante di queste pagine è l’idea del lavoro da fare: «A mio av­ viso, poi, la cosa più importante per la ricerca futura dovrebbe essere la dannata ossessiva ricerca sulla contro-tecnica della voce, che non è la vocalità, che non è la phonè, il suono orga­ nizzato... No, no, no. Chissà... Se sei per i significanti, è chiara­ mente originario, ma è originario in un tutto, non so se mi spie­ go». All’equivoco di fronte al quale, come si è visto, CB si tro­ vava solo e distante dai suoi stessi autori di riferimento, si po­ teva rispondere soltanto con la concretezza del lavoro attoria­ le: «Ma questa perdita della memoria in nome dell’oblio sulla scena, guadagnata attraverso handicap eccetera, questa extra­ vocalità, diciamo, queste voci d’altrove, senza andare in meta­ fìsica - fisiche solamente perché qui, ma non-fisiche per quan­ to riguarda il resto - questi echi, queste cose non fanno più par­ te dell’orale e dellaphonè. Ecco perché è smarginato il sogget­ to». E il lavoro non distingue tra teoria, o manifesto delle inten­

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zioni, e applicazione, bensì è prassi in tutte le sue fasi, persino in una scrittura che precede una ricerca in scena. UA era invita­ to a questo, in effetti, più che a scrivere un libro a quattro mani.

11. Quello di Carlo Sini è il nome dell’unico uomo di pen­ siero italiano citato da Bene in 4 momenti su tutto il nulla, la sua ultima opera dal sapore di testamento spirituale.6 Sull’in­ tensità di questo non-incontro ecco la testimonianza di Sergio Fava, suo collaboratore degli ultimi tempi: «Una sera [Bene] mi telefonò folgorato dall’introduzione di Sini alla Voce e ilfe­ nomeno di Derrida7: non “nulla da scrivere”, ma perché invece

non “scrivere il nulla”? Da ormai dieci anni inviavo estratti e testi di Sini a Carmelo e ora finalmente si era aperto un varco: pretese immediatamente l’invio di libri, selezioni di testi, in­ terventi e soprattutto contatti con il docente dell’università mi­ lanese. Seguirono reciproci attestati di stima e amicizia, idee di future collaborazioni, identità di progetti di ricerca. Un parlarsi in absentia, da cima a cima, e un progetto di libro a quattro ma­ ni a sigillo di una comune prossimità e verticalità di pensiero, nonché di un’amicizia che si annunciava “stellare”. Intercetta­ re, mediare e “tradurre” tutto questo mi occupò per mesi in un costante stato di ebbrezza ma anche di crampi mentali. “L’ana­ lisi del linguaggio con il linguaggio porta sempre a una sensa­ zione di disagio e disgusto: è come sollevare la pelle di un uo­ mo” (Sini). Contemporaneamente si lavorava al terzo momen­ to deìVAchilleide. La Voce/Ascolto: partendo da Gorgia ancora una volta dire, nel modo più in-espressivo e radicale, l’indici­ bilità dell’Evento, compreso quello del linguaggio dicente-ilmondo o sé-dicente. Anche qui fondamentali, in senso forte e autentico, gli scritti di Sini».R Il perché di questa evocazione nel presente contesto è pre­ sto detto. Riguarda un solo punto. Come si sa, è ricorrente (e fondamentale) in Bene la di­ stinzione tra significato e significante nell’accezione propria di Jacques Lacan, del quale l’attore citava sempre il detto «11 significante è un sasso in bocca al significato». Credo che Be­ ne avvertisse l’insufficienza di una distinzione che appartiene a un autore secondo il quale il linguaggio, con la sua consisten-

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za-inconsistente, è l’ultimo orizzonte del senso, e comunque rimproverava a Lacan di essersi fermato lì e di non considerare la possibilità, da lui invece concretamente sperimentata, di smarginare o addirittura uscire dal linguaggio. In effetti, anche nei dialoghi qui riproposti, CB mostra di prendere le distanze da tutti gli autori che ha studiato e che ammira, accusandoli di una certa moderazione o timidezza, di non saper procedere stimerianamente e cioè fino in fondo, con una coerenza a tutto campo, a «fondare la loro causa sul nulla». Ebbene, nei commenti puntuali e affettuosi che Sini rivol­ ge a Derrida in quelle pagine, forse Bene cominciava a ricono­ scere un filosofo da sempre impegnato su temi analoghi a quel­ li da lui affrontati nella teatrica, in particolare il rapporto mon­ do-linguaggio (dice bene Fava: «Cosmologia e semiologia»), ovvero la presa dell’uno sull’altro. Quando Sini ricorda che se­ condo Derrida «La voce è la coscienza»9, si rifa ai precedenti

di G.H. Mead {Mind, Self, and Society, 1934, postumo) e di C.S. Peirce, per sostenere che se «non c’è parola prima della voce, senso prima del senso»10 e se il saggio di Derrida «pre­ senta lo smascheramento radicale dell’intera strategia metafì­ sica da Platone a Husserl, di cui pone a nudo le radici»11 c pone la decisiva «questione “impura” del segno»12, allora riferirsi a

De Saussure per mutuarne un concetto di segno «fondamental­ mente metafisico e binario, cioè ridotto all’opposizione sempli­ ce tra significante e significato»11 costituisce un approdo ridut­ tivo, da cui infatti consegue il privilegio della phonè come il fatale marchio psicologico della cultura occidentale. A fronte di tali osservazioni, lì ben altrimenti argomentate e persuasive, Bene potrebbe avere riconosciuto l’essenza del proprio disagio nell’adottare la giustapposizione tra signifi­ cante e significato, nello stesso tempo non sentendosi mai in totale accordo con Derrida, Lacan, Deleuze ecc., e per questo, forse, senza pensare di sostituire meccanicamente la diade saussuriana con la triade di Peirce14, visto che oltretutto era troppo tardi, avrebbe voluto dialogare strettamente con Sini per af­ frontare «il problema della morte, chiave di tutte le rimozioni messe in opera dal pensiero “razionale”».15 Ciò non tanto per andare oltre questo o quell’autore, ma per praticare con un

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linguaggio più preciso (o per smarginare il linguaggio con più precisione) un sentimento del mondo al cui centro stava il nul­ la. Come s’è visto, anziché capitolare, come Derrida, all’idea di «non-voler-dir-nulla», l’ultimo Bene accetta la proposta di Sini di «voler-dire nulla»16 e manifesta l’intenzione di «scrive­ re il nulla»' operazione che per Sini equivale al «“fare” filoso­

fia». Bene faceva da tempo, in effetti. Laddove Derrida soste­ neva che «l’essere è presenza o modificazione di presenza»18,

Bene era cosciente che se l’essere non è, e l’azione non è, al­ l’arte (ma solo all’arte?) resta la possibilità dell’atto come ripe­ tizione-variazione dello stato di assenza. 12. Questi dialoghi tra UA e CB consentono di mettere a fuoco alcuni temi tanto essenziali quanto, purtroppo, ancora poco presenti nella cultura teatrale. Lo svuotamento non è un punto d’arrivo ma una condi­ zione tale da consentire di uscire dal sistema della rappresenta­ zione, dei riferire e del mediare, nonché il verificarsi di ciò che CB chiama atto, ovvero qualcosa di originario e non - come nel sistema dello spettacolo - di originale. La creazione del vuo­ to è dunque un fatto artistico e tecnico, anche se di segno con­ trario a quelli correnti, tant’è che CB schifa l’arte e si applica alla contro-tecnica, ma è anche il presupposto di ciò che Grotowski definisce verticalità. Se il lessico dei due maestri appa­ re per molti versi antitetico, e in una certa misura rimanda a differenze tangibili, entrambi concepiscono il teatro come un mezzo, come luogo nel quale si è cantati dal canto e non autori di un discorso. I modi per realizzare tutto ciò non potrebbero essere più diversi (e verosimilmente a ognuno dei due il pro­ prio sembrava l’unico possibile): l’approdo del regista polacco consiste nell’articolare un’antichissima forma di canto su una trama di azioni fisiche, mentre CB insiste sulla lettura e l’uso della strumentazione fonica elettronica. Eppure sembra arriva­ to il momento favorevole per riconoscere la convergenza e trame le dovute conseguenze, non solo in ordine alla storia dei due, che potrebbe essere completamente riconsiderata in que­ sto senso, ma anche per rendersi conto della varietà e della complessità delle opzioni possibili quando si abbandoni il

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campo del teatro d’illustrazione. L’impegno che dovranno dispiegare gli studiosi e i pro­ fessionisti dell’arte scenica in questo senso è notevole, poiché si devono sempre prendere in considerazione le sortite dei due sul piano del linguaggio assieme alla consistenza filosofica che emerge soprattutto dalle rispettive pratiche. In queste pagi­ ne si vede, per esempio, come reagisca bruscamente CB a ogni attribuzione “metafisica” da parte di UA, il quale usa volentie­ ri termini come “sacrale”, “grazia” e “rituale”. In questo senso CB reagisce in modo (necessariamente) contraddittorio, a vol­ te liquidando certe espressioni come appartenenti ad altri mo­ menti della propria biografia, a volte aggiungendo alla nega­ zione un risolutivo «a meno che...», proprio come fa un certo Artaud a proposito della metafisica. Queste negazioni sono da intendere attentamente: quanto Grotowski parla di “rituale” è per fare appello a una certa “esattezza” e quando, a malincuore, usa il termine “spiritualità”, lo intende come sincrono alla “verticalità”. Sintomatico è comunque il riferimento di entram­ bi, anche se diversamente esplicitato, a Meister Eckhart, ovvero a un pensiero che accetta e al tempo stesso capovolge il linguag­ gio dell’ortodossia metafisica. 13. Quando si dice che questi dialoghi tra UA e CB e in generale i rispettivi contributi sono di fondamentale importan­ za, non si intende affermare che consentiranno di mettere fine alla guerra tra teatro di prosa e teatro di poesia, facendo preva­ lere la parte giusta. Quella è una guerra che mai avrà fine, forse giustamente, dato che entrambe le cause si legittimano nel loro riscontro sociale ed è perfettamente comprensibile, organico, che la società in cui ci è dato vivere preferisca di gran lunga la rappresentazione-spettacolo alla onesta crudeltà del teatro, che tuttavia troverà sempre degli estimatori. La loro importanza consiste nel dare dignità e consistenza storica e filosofica a pras­ si della scena finora considerate eccentriche, esperienze che, se non modelli, sono da considerare almeno esempi e vanno ad alimentare una tradizione moderna e anti moderna al tempo stesso, cioè profondamente conservatrice dell’essenza delle tradizioni e rivoluzionaria, di cui si avverte sempre di più il bi­

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sogno. Infatti, mentre nel teatro di rappresentazione le autenti­ che qualità artistiche prendono un andamento centrifugo e ten­ dono appunto a emendare o cancellare la rappresentazione stes­ sa, cioè a trasferire le energie sceniche daH’ambito del Discor­ so a quello del Canto, su quest’altro versante il movimento è centripeto, cioè tende al centro-vuoto, che è anche il vuoto che tutto circonda. Non è chi non veda le implicazioni di ogni tipo che ciò comporta, anche di tipo politico, poiché la coscienza del vuoto, lungi dall’essere il blasone di un banale nichilismo o un passaporto per depravati, e pur mettendo in discussione i fonda­ menti di ogni legge, è matrice di una sincerità crudele e delicata insieme, impone di prendere seriamente in considerazione le co­ se e il linguaggio, non per fame dei nuovi idoli ma proprio per comprendere che non costituiscono l’estremo orizzonte del sen­ so. Nella propria opera Kafka ha già dimostrato tutto ciò. Carmelo Bene, dunque, è un caso a sé, come ogni artista e persino come ogni filosofo, dato che esistono tanti universi quante sono le menti in funzione, e al tempo stesso, come crea­ tore e pensatore del XX secolo, si colloca nell’àmbito che si è cercato di delineare, fa parte di un lavoro che è cominciato pri­ ma e che continua, un lavoro meno isolato di quanto possano fa­ re supporre pronunce estreme come quelle di Artaud o di Bene, perché se la loro eccezionalità è indiscutibile, altrettanto indi­ scutibile è il fascino che hanno esercitato e continueranno a esercitare per molte generazioni ancora, e ciò significa che chi si mette al loro ascolto riscontra nella propria vita quanto sia vero ciò che a prima vista si presenta come estremo o paradossale. Un lavoro aperto, dunque, che prosegue anche in modi di­ versi e che, proprio in virtù del fatto di trovarsi ai margini della cronaca, irradia il senso della propria presenza in tutto il mon­ do. Così è per il Théàtre du Radeau, cosi è per il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, realtà per le quali l’ar­ te scenica non è un minus o una esemplificazione, poniamo, della filosofia, ma un laboratorio di conoscenza, un luogo di ri­ cerche pratiche nel quale trovano cittadinanza alcune delle do­ mande oggi più diffuse e inquietanti. Sono territori strappati all’appiattimento globale, nei quali il senso del divenire e il di­ venire del senso trovano la loro consistenza di corpo e di voce

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e s’incarnano in soggetti i quali, diversamente dai questuanti in coda per un’apparizione in televisione, vorrebbero svestire il vuoto dalle immagini e non nasconderlo.

1

U. ARTIGLI, Il ritmo e la voce. Alle sorgenti del teatro della crudeltà, Laterza, Ro-

ma-Bari 2005, p. 35. 2 Ivi, p. 133. 3 E. Zolla, / mistici dell’occidente, (prima ed. 1963), 2 voli. Adelphi, Milano

1997. 4 Cfr. U. ARTIGLI, Teatro e esoterismo tra simbolismo e avanguardia, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R. Alonge e G. Davico Bonino. Ili, Eina­ udi, Torino 2001. pp. 1301 -1334. 5 Cfr. in questo stesso volume E. FADINI, Una Biennale Teatro come metafora poe­ tica del teatro. * 4 momenti su tutto il nulla, quattro puntate realizzate da Carmelo Bene per Rai2

Palcoscenico nel 2001. 7 J. DERRIDA, La voce e il fenomeno, prefazione di C. Sini, Jaca Book, Milano 2001’. 11S. Fava, Carmelo Bene e Carlo Sini: la resa dei conti con il linguaggio. Cosmo­ logia e semiologia, relazione al convegno «Le arti del ’900 e Carmelo Bene». Orsa, Torino, GAM 24-26 ottobre 2002. ’ J. Derrida, op. cit., p. 118. 10C. S1N1, Prefazione, in J. Derrida, op. cit., p. 12. " Ivi.p. 13. 12 Ivi, p. 17. ”/w,p. 18. 14 Peirce concepisce i segni come relazioni triadiche, in quanto possiedono una “qua­

lità materiale", una "connessione di fatto" con l'oggetto che significano c un “signifi­ calo”. Il significato emerge nelT“inlerpretante", vale a dire nel comportamento che mette in relazione i primi due caratteri del segno, e dice che il primo "significa” appun­ to il secondo. Così si sviluppa la logica, attraverso una interpretazione illimitata, e l’essere umano è a sua volta un segno in un universo di segni. 15 Ivi, pp. 21-22. I‘ Ivi. p. 23. 1 ’ C. SlNI, Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano 1996, p. 91. J. Derrida, op. cit., p. 87.

Un dio assente

NASTRO I Parte prima

Firenze, 15 dicembre 1988. Pomeriggio. Suite di un gran­ de albergo. Carmelo Bene è impegnato in una serie di antepri­ me della Cena delle beffe al Teatro Metastasio di Prato.1 Um­ berto Artioli è venuto da Mantova per accordarsi a proposito di una sua nota sullo spettacolo da pubblicare nel programma di sala e per registrare alcune conversazioni. Ma CB lo ha convocato anche per discutere del progetto che sta elaboran­ do come nuovo direttore della Biennale Teatro. Ognuno dei due ha il proprio registratore, che viene ac­ ceso e provato. Quando si sono accertati che tutto funziona, si accendono entrambi una sigaretta, UA si siede mentre CB passeggia per la stanza. Hanno appena cominciato a parlare, che suona il campanello ed entra una cameriera con un vasso­ io. CB fa una battuta sul disturbo: «Ci vorrebbero i gorilla, non solo gli angeli custodi...». Ridono. Uscita la cameriera, UA: «Adesso sta registrando, puoi andare tranquillo».

Umberto Artigli: Notavo una curiosità, mentre mi dicevi certe cose: io mi sto occupando della tradizione delle psicomachie che risale a Stazio e a Prudenzio e tu mi fai il no­ me di Stazio.'

Carmelo Bene: Vedi? Non a caso. UA: Mi ero chiesto come mai non facevi Kleist, sempre tenuto conto della tradizione cui ti riferisci, Holderlin eccete­ ra. Poi nomini la Pentesilea e altro. Poi, per quanto riguarda l’altro nome che fai, che è quello di Schopenhauer: mi pare che alla base delle letture che sono state fatte di te questo no­ me non sia stato fatto, o sia stato fatto pochissimo, mentre se­ condo me è fondamentale per capire la tua poetica.

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CB: A parte che Schopenhauer non credo sia un mio pri­ vilegio... Io lo leggevo, prima, ogni lustro. C’è un modo di leggere Schopenhauer nell’età giovanile. Poi, veramente ho saltato tre lustri, ormai. È così che, l’estate scorsa, anche nel­ le ore notturne, quelle antelucane, l’ho riguardato di nuovo tutto. Ogni volta che lo si legge...

UA: La critica al concetto di rappresentazione... CB: Ma non è solo questo!

UA: Faccio per dire un nodo...

CB: Ma dice cose che han cambiato il mondo: la cancel­ lazione del concetto di mondo, la cancellazione della volon­ tà, senza oggettità, quella che poi lui chiama nolontà. Come dice: niente rappresentazione, niente volontà, niente mondo! E allora questo cosa crea? Autorizza Al di là del principio di piacere di Freud. Freud lo ringrazia c dice: non l’avevo capi­ to. Se ricordi... UA: Sì sì, quando parla del nirvana e lo scopre “al di là del principio di piacere”.

CB: In una chiosa... UA: .. .nell’/l/di là del principio di piacere... «C’èqualcosa di non scientifico, forse...».

CB: Freud dice: devo tutto a Schopenhauer. UA: «Forse puzza di mistica», dice Freud, ma c’è!

CB: Gli devo tutto, benissimo. E senza questo non sare­ sti nemmeno al qa parie / fa manque e a questo fa lacaniano. UA: A questo neutro, insomma.

CB: Oltre alla grande conciliazione, questa cosa abba­ stanza folle che Schopenhauer ha operato sui due monumen­ ti: uno, quello artistico dei simulacri, Platone; e l’altro La cri­ tica della ragion pura, il trascendentale. UA: Kant!

CB: Ha preso il noumeno e l’ha spostato, ha preso le idee dall’altra parte e li ha messi d’accordo, semmai. Sembra un traslato, un ossimòro o un ossìmoro, chiamalo come vuoi.

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E mi sembra che non si possa prescindere da lui. È davvero, come l’ha chiamato Nietzsche, “un educatore”. È fondamen­

tale Schopenhauer. UA: Mi ero chiesto se, per caso, tu avessi letto - ma è una domanda che ti faccio così, in camera charitatis - Ange­ lo Conti, lo schopenhaueriano che lavora con D’Annunzio e che introduce questa tematica in Italia.3 Me l’ero chiesto mentre leggevo le tue dichiarazioni di poetica che sono così...

CB: Su Schopenhauer è importante dire che tutti gli deb­ bono tutto. UA: Io sono d’accordo.

CB: Siccome io non sono un metafisico, e Dio me ne guardi... Qualcuno m’ha scambiato per quasi metafisico, ma bisogna essere monoteisti per essere metafisici... A me inte­ ressa la lettura klossowskiana di Nietzsche, non quella hei­ deggeriana (senza nulla togliere a certi meriti del primo Hei­ degger, è chiaro). Ma la lettura politeista klossowskiana è il massimo. E quella che sposa il consumismo, è quella che poi dà dei sottoprodotti, dai Baudrillard a questi altri, sulla sedu­ zione... Ma è fondamentale, insomma, come tutta la rivisita­ zione del teatro romano di Pierre Klossowski. UA: Io non sono riuscito a trovare questo testo, ho visto solo il frammento che tu...

CB: Il teatro romano è contenuto già ne Le dame roma­ ne, edito da Adelphi, e concerne le riflessioni sull’età cloni­ ca, l’età amazzonica, l’età matriarcale, la visibilità dei corpi di queste matrone che ormai... Non più le amazzoni che sola­ mente con gli schiavi potevano... Ormai siamo nella Roma decadente, cioè nel periodo più interessante, tutto sommato... «Dieci denti», diceva Cardarelli! Decadente, dieci denti! UA: Dieci denti!

CB: Era divertente Cardarelli... E poi sfocia, appunto, in queste matrone, anche patrizie, che si prostituivano agli spet­ tatori, chiaramente! Ma perché? Perché nelle vesti di dee e dèi recuperavano questi “miti”, si lasciavano “oltraggiare”.

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davano pubblico scandalo di sé. E da qui, tutte le invettive dei Padri della Chiesa. Da qui nasce sant’Agostino come fonda­ tore, ahimè!, dell’occidente. Checché se ne pensi, a me le Confessioni di sant’Agostino fanno ridere, trovo che sia ve­ ramente di un comico... Mi diverte più Tertulliano, in certe cose, perché almeno si sbilancia, eh! Mi diverte Tommaso, ma mi ripugna tutto quanto in noi c’è d’occidentale. Ma noi parlavamo del teatro. Lui ha fatto, a dispetto anche di certi studiosi, ma noi non abbiamo studiosi del linguaggio, mi ri­ sulta... UA: Certo... Ma adesso parli di Klossowski?

CB: Ha fatto un saggio che apparve in francese, molto bello, su di me, pubblicato in Otello, o la deficienza della donna, sull’attore romano, dove dice: «dotato di un corpo sottile».

UA: Ecco, ho la citazione: «Dell’anima separata dal cor­ po...».

CB: Bravo, sì. E poi insiste molto su questo, perché di­ ce: queste signore, questi patrizi, a costo di perdere i diritti ci­ vili si prostituivano in pubblico. Venivano presi dal pubblico, presi nel senso proprio fisico, sodomizzati. Cosa garantiva­ no? Prostituivano il corpo garantendo «l’invisibilità del ruo­ lo», il non-ruolo. Gli dei che davano scandalo di sé. E quindi questa lettura klossowskiana straordianaria la si ritrova oggi nella spettacolarità del sociale. In questa miseria che è il so­ ciale, dove tutto è spettacolo. Nella società dello spettacolo non si può parlare più, non si può, non si può non dico non es­ ser d’accordo... Io insisto, poi capti chi vuole... E noi siamo qui anche per non essere d’accordo, perciò prepariamo que­ sto volume, che nasce insieme, finalmente! Non è il critico che arriva - “occhialuto” come lo chiama Nietzsche - e sop­ pianta lo spettatore estetico, guastando anche il pubblico, che da li diventa un pubblico di giudizio (non certo kantiano!), proprio di giudizio di valore, no?, di censura, di garanzia po­ liziesca del testo a monte eccetera, eccetera. Benissimo... Non è pronto all’evento, non è pronto alla sorpresa... Quindi,

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in un sociale dello spettacolo, in una spettacolarizzazione del politico, dell’intrattenimento televisivo, della committenza, dell’offerta-domanda («Facci sapere quello che già sappia­ mo. Per carità non andiamo oltre, veniamo qui per stare tran­ quilli, paghiamo, salutiamo eccetera...») cos’è fondamenta­ le? Non dico l’incompatibilità ma addirittura l’idiosincrasia dei due termini teatro e spettacolo. Dove c’è spettacolo non c’è teatro. Il teatro può dare osceno, proprio nell’etimo, por­ no nel senso proprio greco, ecco. E Klossowski ci tiene. Sai, c’è una specie di grande amore tra me e Klossowski, contrac­ cambiato. Mi fa molto bene, perché c’è bisogno di trovare de­ gli altri pianeti sulla terra e li puoi trovare...

UA: Ho letto quel frammento che hai pubblicato e l’ho trovato stupendo. CB: Però, guarda, quelle sull’attore romano sono una decina di cartelle, francesi... UA: E vabbè, allora è una parte consistente quella che ho letto.

CB: Però, a parte che si occupi di me, è splendido l’e­ same del testo dall’età moderna, quindi diciamo da Shake­ speare in poi. Perché l’età moderna è lì che devi andare a prendertela, non nel contemporaneo o nel post-modemo. È lì.

Poi la committenza del testo eccetera, fino all’attore romano, fmo ai corpi separati dalle anime e alle anime separate dai corpi: Bafometto, cui dedicherò questa cosa, spero, monu­ mentale per lui e per la Biennale ’91, a cui sto già lavorando. UA: A me piacerebbe lavorare per quella! Perché, ti an­ ticipo, è un testo che... CB: Stai tranquillo.

UA: È un testo che... CB: Ma non è solo un testo, quello è un tempio! UA: È un tempio, un testo... poi l’androgino... l’eterno

ritorno!... Capisci?

CB: Sto erigendo un tempio stabile, a Venezia.

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UA: Io... terrei a quello.

CB: Sì, si... Montedison, Cardini, Ferruzzi... UA: Ah sì? CB: Eh, scherzi?! Sarà la Biennale... UA: Ah, Cardini l’appoggia?.

CB: Qui ci son delle cose che réstano tra noi e altre da cui si estrapola. È tutto chiaro? UA: Certo, certo, certo.

CB: Come?! Ma scherzi?! Puntano tutti sulla Biennale Teatro. Ma quando la chiamo “teatro” la chiamo “teatrica”, non spettacolare. Ecco perché in questa prima fase - perché quest’anno noi abbiamo il primo impatto - io ho preferito scegliere due Biennali su tema, come ai bei tempi di De Chi­ rico, ecco, di Chagall, se ricordi, di Stravinsky! Adesso gli eventi si fanno su tema: è inutile fare il festivalino, cioè chia­ mare il signor Wilson, chiamare il signor Stein. Su tema per­ ché diventa un workshop, veramente una forma laboratoriale, una fucina del linguaggio... Poi di questo parleremo dopo: della mia ripugnanza, anche, al linguaggio. È li che mi inte­ ressa incontrarti. E anche fare i conti.

UA: Si. Va bene, eccome!

CB: Si, perché mi son segnato due o tre cose!

UA: Io ho portato i materiali... CB: Sì, sì, ma è importante... Sai, l’ho guardato bene 11 ritmo e la voce. Peccato! Perché a mio avviso merita un am­ pliamento notevole. Parleremo dopo di questo. Ora parliamo di Biennale. Dedicata al barbarico1 . Al barbarico come sottra­ zione di senso. Come gioco! Sempre puntando - non è un ca­ lembour - non sullo scherzo, adulto, che è ignobile, ma sul gio­ co, che invece è bambino, è infantile. Questo ha da essere il tea­ tro. E quando si parla di irrappresentabilità, io ho sempre parlato di non rappresentabilità di un evento, di un teatro irrapresentabi­ le... Artaud, tu mi insegni, è riuscito a mettere in croce con que­ sto suo martirio, con questa sofferenza, questo smembramento

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straordinario, la lingua francese. Son belli i suoi venti, venti­ cinque, trenta volumi; ora esce l’ultimo su Rodez...

UA: Io ho fino al ventidue, poi non so se ne sono usciti altri.

CB: Sì, mi pare che ne manchino due o tre sui Cahiers de Rodez. Lì sì, ma in teatro Artaud fu un fallimento clamoroso, perché scambiò il testo con qualcos’altro. Poi si portò davvero dei morceaux di testo, ma non erano dei lacerti, erano pro­ prio... Gli appunti che gli facevano erano giusti; anche Gide si vergognava. Poi c’è della coreografia! Stando a Cenci, se guardi pure la bozza, è una cosa proprio minore. Per fortuna Artaud risiede già in teatro, come in Klossowski è in Baphomet. Guarda caso, in quella perversione teofanica che è il Bafometto, in questo schiaffo del teatro orientale all’occidente. Altro che apologia dell’eterno ritorno! Come dice il mio amico Jean-Paul Manganare: è il ritorno dell’eterno, semmai!

UA: Il ritomo dell’eterno! CB: Certo! Certo, Klossowski ci tiene molto a dire: «Carmelo, la raison c’est porno. C'est porno...». Ecco, quando s’usa questo termine, “pomo”, “osceno”, si usa a sproposito perché la spettacolarizzazione del fumetto... li porta a questo. Teatro e spettacolo sono incompatibili, nel modo più assoluto. UA: Questa è una tua tesi da sempre.

CB: Sì, però io non ho mai il tempo di svilupparla. Per­ ché, vedi, scrivere per la scena... Io uso una sintesi lirica, se parliamo così, anche se mi vergogno d’essere un poeta. Ma davvero, non alla Gozzano. Mi ripugna anche la poesia. Mi ripugna l’arte, ecco perché torneremo a Schopenhauer.

UA: Guarda che le tue dichiarazioni di poetica, per esempio ne La voce di Narciso, sono splendide. CB: Ma sono giovanili. L’arte davvero mi fa schifo. Mi interessa più il patologico, cioè non il quotidiano ma quello che, diciamo, in psicanalisi si chiama, chiamavano, “imma­ ginario”.

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UA: Sì, nel senso lacaniano. CB: Nel senso lacaniano, chiaramente, perché tanto è incurabile. Freud, ma poi Lacan soprattutto: «L’inconscio si articola come un linguaggio». Io l’ho rovesciato e ho detto: bene, e allora il linguaggio si articola come l’inconscio. Ma questo sfidando che cosa? Sfidando la stupidità del signifi­ cante, il sorriso dell’angelo. Qui, forse in un’intervistina che gentilmente tu mi avevi accluso, una volta...

UA: Sì, l’avevo fatta per “Spirali”. CB: A proposito di Bliimner, di questo Sturm, particola­ rissimo però, di cui non so dove tu abbia attinto a dei docu­ menti sonori...

UA: No! Non ne ho! CB: Questo io dico! Ma allora, come si fa, senza ele­ menti sonori, ma a questo arriviamo dopo... UA: Io ricostruivo una poetica.

CB: E il tuo appunto lo trovo assai intelligente e corret­ to. Sul misticismo. Ma il pericolo è in una certa mistica, at­ tenzione! Che non è la mistica...

UA: Negativa. CB: No, in un altro senso. Bisogna vedere cosa poi fa­ cessero.

UA: Questa era una mistica “piena”. CB: Questa è la diffidenza per laparùsia4, da parte mia. Che nel Tamerlano entrerà signora, sovrana.

UA: Posso chiederti una cosa?

CB: Scusa, ma finisco subito... Deleuze, se fai caso, pro­ prio a mio proposito dice: «Bisogna essere stranieri nella pro­ pria lingua». Così come non bisogna essere contemporanei. E l’unico modo d’essere è quello di non essere. Non ci piove.

UA: Certo. CB: E allora dico: siccome, qui, la mia polemica non è polemica con i giornalisti, con i critici. Che scrivano quel che

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vogliono, facciano quel che vogliono! Rifiuto la recensione. Un teatro che non è teatro, che è spettacolo - quello che si ve­ de in giro - non si occupa del linguaggio'. Ma questo lo nota­ vano già Baudelaire, Wilde, William Morris, Rossetti... Ma come si fa? E invidiavano, loro, la posizione del teatrante... «Noi abbiamo questi mezzi: dobbiamo dipingerli e lasciarli». «Io ho solo la plastica, la scultura». «Io ho solo...». E il tea­ tro? Non come summa di codici lingustici, parodia che io ho fatto ne\V Hommelette for Hamlet (ma non hanno capito che era una parodia sulla impossibiltà di connivenza di questi co­ dici). L’avevo fatto in Macbeth, soprattutto, e in Lorenzaccio. E in questa Cena finalmente... Io credo, ancora, in un sal­ to sadiano. Come si fa a occuparsi di teatro non occupandosi di linguaggio? È una domanda che ti rivolgo e qui voglio la

prima risposta tua. UA: Certo! Dunque io ti posso rispondere innanzitutto...

CB: Come fanno? Non come fai tu. Tu so che non lo fai. Come fa un critico, o chiamiamolo studioso (ammettiamo sia­ no degli studiosi, degli addetti ai lavori, cosa che non sono)... E niente di peggio di addetti ai lavori che si paraocchiano e non vedono più niente. Vero? Bene... Come fanno a trascura­ re il linguaggio scenico o oscenico? UA: Per quanto riguarda storicamente la posizione dello Sturm, due considerazioni.

CB: Ma parlo di oggi! UA: Si, dopo arrivo all’oggi. Allora, tu lo sai, non c’era­ no mezzi di registrazione fonetica. Quindi della dizione di Blumner non abbiamo nulla.

CB: Sua, ma i mezzi c’erano! UA: C’erano, ma lui non ha inciso. Di conseguenza...

CB: Si, lui non ha inciso. Perché sudavano freddo, come dici tu, giustamente. UA: È possibile.

CB: Quindi non so la padronanza tecnica.

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UA: Quella non la conosco assolutamente. Io abbozzo il tentativo di costruzione di una poetica che sembra strana­ mente anticipare, per certe linee, o preludere a talune cose che poi invece verranno fatte in maniera sacrosanta da te.

CB: Sì, con un oblio di settantanni. UA: Un oblio di settantanni, un buco nero, una voragine.

CB: Da Karl Kraus in poi... Anche la rivisitazione del Lied, per esempio, che poi era un attacco all’espressionismo. In altro senso... Il Lied era l’attacco al belcantismo idiota, ec­

cetera. UA: Esatto. CB: Strauss usava le macchine del vento. Skijabin che crea l’organo luminoso, a impulso, a tastiera. UA: Sì, certo.

CB: Perché poi, allora, si fa sipario, si fa silenzio, e pas­ sano settantanni di imbecillità? UA: Perché sonò anni in cui...

CB: Come se non si venisse già dalla “rovina di Kasch”, per dirla... UA: Con Calasse!

CB: Con Roberto Calasso. Come se non si venisse già saturi di vaudeville... UA: Ma, sai, Carmelo, c’era un’attenzione in quegli an­ ni alla formalizzazione linguistica, cioè al linguaggio, gran­ dissima...

CB: Ma non pubblica. È l’Italia, è l’Italia.

UA: Sto parlando della Germania. CB: È l’Italia, è l’Italia.

UA: Certo, certo. CB: Prego, perché ti ho tolto la parola. UA: Comunque, il secondo punto era questo: la poetica degli Sturmer era una poetica che badava grosso modo al pie­ no. Con pieno intendo dire all’attesa di un evento, mistica at-

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tesa di un evento, di compimento della storia. In cui si realiz­ zava davvero la seconda parusìa. CB: Tu dici “il pieno”...

UA: Nello Sturm, ma anche negli artisti che non sono Sturmer. CB: Il pieno, diciamo, come storia. UA: Come compimento della storia, come avvento della seconda parusìa. Loro parlavano davvero della storia come realizzazione della metastoria. Intendimi: di realizzazione del­ la metastoria\

CB: Sì, sì, meta... UA: Quindi è chiaro, a questo punto il dislivello con te è massimo!5 CB: Però guarda che anche Artaud parlava di una meta­ fisica non certamente monoteista.

UA: Ma senza dubbio! CB: Ebraica, o heideggeriana, oppure col padronato del­ l’ente... Però, un momento: in teatro non ce l’ha mai fatta. UA: No. In teatro non ce l’hanno fatta perché...

CB: Questo...

UA: Secondo me, quando... CB: Le intenzioni son molto belle, ma... UA: Io parlo delle intenzioni. CB: Infatti è un libro sulle intenzioni!

UA: Sulle intenzioni, ma anche per dirti gli scarti e per arrivare poi, grosso modo, alle differenze con la tua imposta­ zione. Mi sembrano curiosi, almeno sul piano della messa in gioco adesso.

CB: No, voglio dire... Sullaparùsia. Laparusìa è la lin­ gua degli angeli.

UA: La lingua degli angeli. La lingua angelica, la Engelsprache, come la chiamavano loro.

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CB: Esatto! UA: Diciamo che non solo gli Sturmer ma anche gli arti­ sti che gravitavano in orbita fine, come il Blaue Reiter di Kandinskij e di Marc (adesso passo alle arti figurative, ma arrivo velocemente sul punto)... Quando Kandinskij per esempio scrive // suono giallo, presuppone sei stadi, cioè una grada­ no, un'ascesa. 11 settimo stadio è vuoto perché dovrà essere realizzato nella storia, perché la storia sarà la realizzazione della metastoria. Diciamo che in quegli ambienti si vive un’attesa - io suppongo gioachimita, dalle fonti, da Bòhme, Gioacchino da Fiore... motivi mistici di questo tipo - per cui si credeva davvero nella liberazione dello spirituale, di cui il Novecento doveva essere l’erede rispetto al materialismo dell’ottocento. E quindi qualcosa di mistico, un’irruzione del Messia. CB: Però equivoci del genere li creò anche lo spirituali­ smo ricercato dai surrealisti, da Breton, abbastanza comico, grottesco, con quella sua “spiritualità antiborghese”. Tant’è che sacrosantamente Dall ne uscì fuori.

UA: Qualche anno dopo lo trovi anche li, no!? Volevo dirti questo: rispetto a questa direttrice che può per certi aspetti anticipare il discorso, la tua posizione è assolutamente opposta, proprio perché si immette nella linea del manque e dell’assenza radicale. Mentre questi parlano del pieno e sono nell’attesa di un compimento di cui la voce, se vuoi, è l’ultimo stadio, la prefigurazione sonora, in qualche modo, di questo stadio di completezza che dovrebbe coincidere con la seconda parusia. CB: È questo concetto del pieno che io vorrei tu mi illu­

strassi, allora. Perché io ho un’idea, o non-idea, per esempio, del vuoto. Ma attenzione: il vuoto non è il manque, tra l’altro. UA: Ecco, qui è un punto su cui... CB: E poi chiariremo il fatto dell’Altro. UA: Ecco, ecco... Lo chiariamo perché questo è un pun­ to fondamentale.

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CB: Perché il vuoto è una cosa e Cioran, a mio avviso, è un precursore di tantissimi... Ma il pieno, in quanto storia o in quanto metastoria mi preoccupa, perché presuppone un ente, un tutto, un infinito che da Einstein, che già da Schopenhauer è dato per finito. Poi ci vorrà la poetica di Einstein, perché la fisica ha superato... UA: Ma tu devi pensare che questi sono dei mistici cri­ stiani eterodossi, se vuoi, ma cristiani, seguaci di Bóhme. CB: Va bene, ma allora siamo in una storicizzazione. 11 pieno...

UA: Per pieno intendo la seconda parusìa.

CB: Ma oralmente come si verifica? Come sottrazione di senso, d’accordissimo, ma come si dà? UA: Perché il senso sarebbe la chiacchiera...

CB: Io capisco la metastoria: tutte le storie estromesse, la storia non è altro che il risultato, la redazione delle infinite eventualità storiche. UA: Certo. Esatto! CB: D’accordissimo. UA: In cui le macerie risorgono, per dirla con Benjamin.

CB: Se vuoi, scapolando un po’ di tanto Nietzsche, pri­ ma di arrivare proprio a Schopenhauer, con Stimer poi, nella sua spettralità divertente, nell’t/mco... D’accordissimo, ma come si può parlare di pieno, appunto? Parlando di pieno si parla di storia. UA: Eh, sì. Che coincide con la metastoria! Cioè il mo­ mento in cui la storia viene in qualche modo abolita per cede­ re il posto alla metastoria. CB: Sì, ma è la metastoria della storia. È quando Cioran

distrugge, in Storia e utopia, anche l’utopia, attenzione!, per­ ché siamo in un’altra storia.

UA: D’accordo! Ma qui sono degli utopisti. Bloch, l’u­ topista di quegli anni... CB: Il grande?

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UA: Il grande... CB: Non Alexander.

UA: No, non il tuo! CB: Quello è grande!

UA: Sto parlando del tedesco. CB: Parli di Ernst?

UA: Quello che ha scritto Lo spirito della musica, ecc. CB: Ernst? UA: Certo.

CB: Sì. UA: ...Sono tutti impregnati di questa visione, chiamia­ mola “apocalittica” se vuoi, ma in positivo. Un’apocalissi ra­ diosa. Di cui attenderebbero, da questa postazione di sesto stadio (c’è il tema del sette come compimento). E loro sareb­ bero al sesto stadio, e lo realizzano a teatro.

CB: Perdonami, a me interessa il tuo discorso a patto che si parta dalla conclusione del terzo libro schopenhaueriano sull’arte, quando liquida l’arte, dove della Santa Cecilia di Raffaello dice: «Che se ne fa delle armonie degli angeli, quando ci sono gli angeli in persona?». Che la portano via. UA: Sì, certo.

CB: Per me, quello che lì si chiama manque o questo che si chiama fa, per me quello è il vuoto. Ed è la fine di ogni pie­ nezza, perché è la fine di ogni mondo. Ma è la fine di ogni ar­ te, anche, la fine di ogni storia! UA: Detto così potrebbe essere la stessa cosa.

CB: Se invece, nella storia...

UA: Detto così potrebbe essere la stessa cosa. CB: E allora c’è anche una storia del misticismo!?

UA: Sì. CB: E no! Non la merita, cioè non se lo merita, perché abbiamo dei fatti mistici che sono sospensioni: sospensioni

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di qualunque storia. Allora torniamo al discorso che Mauri­ zio Grande ha affrontato in Lorenzaccio, tra l’atto e l’azione. L’azione presuppone un’idea, l’azione è storica. O l’azione può essere anche metastorica. Uccidere il tiranno è azione: questo lo sviluppa Nietzsche, se ricordi, in Utilità e danno della storia. UA: Certo.

CB: Monumentale cosa. Benissimo. UA: Nelle Inattuali tu dici, la seconda Inattuale...

CB: Certo! Ma allora, come lo sviluppa? È semplicissi­

mo! Nel momento che io ho bisogno di memoria per poter agire, ma quando io progetto, ecco la sprogettazione del pro­ getto in Lorenzaccio - e io uso il termine “lorenzaccio” come un aggettivo! E uso il termine “io” (attenzione!), non solo l’io di rappresentanza, ma il soggetto come subjectum, come sud­ dito anche, come sudditanza. E allora: Lorenzaccio sprogetta il suo progetto. Si entra in scena per decostruire, Eduardo di­ ceva «per complicarsi la vita». Va bene, ma lui lo diceva e poi in fondo faceva anche lui delle gag. No, non è questo il di­ scorso. Ecco, ma allora qualunque progettazione di metastoria, e pure di estasi... Il mistico non può progettare l’estasi! UA: Che è uno stato passivo, tu dici.

CB: Non passivo! Il “signore” o la “signora” (ha ragione Lacan: è femminile la maggior parte del misticismo, questo è vero)... 11 resto è molto... c’è molta... Quando teorizzano, i mistici fanno proprio... Bisogna andare a san Juan de la Cruz, allora sì! Se vai per certa Teresa d’Avila... UA: Bòhme.

CB: Ma no... San Giovanni della Croce, un certo...

UA: San Giovanni della Croce.

CB: Ruysbroeck. UA: Ruysbroeck. CB: Ruysbroeck di certo. E poi l’altro, grandissimo... UA: E sì, l’altro tedesco!

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CB: Eh! Accidenti a me!,.. UA: Eh!

CB: E va bè! UA: Un grandissimo!

CB: Sappiamo chi è! UA: Questo è un lapsus.

CB: Il più grande. UA: II più grande.6

CB: Ecco. Ma in un’estasi del Bemini, se tu guardi La beata Ludovica Albertoni... L’hai vista in San Francesco a Ripa? UA: No, io ho una riproduzione. CB: Perché devi vederla lì, dove è sita. Io ti prego di an­ dare a vederla, perché credo che sia una cosa... L’unica cosa da altro pianeta. UA: Perché dai importanza allo spazio?

CB: Perché lui l’ha messa in una nicchia. E poi, non ha luce. C’è un abbaino, nello spazio di due metri. Ha fatto il porfido in basso. Queste pieghe che proprio, rileggendo con Raffaella una pagina del Bafometto - ritradotto, perché non sta in piedi: c’ha un gran francese, ma pazienza... - dove par­ la dell’interno portato davvero all’esteriorità. Tu t’accorgi che questa luce ghiaccia che penetra dall’abbaino è fonda­ mentale. L’ha voluta lui. E senza di quello non esisterebbe la statua.

UA: Ho capito. CB: Questo simulacro platonico, non esisterebbe. Nel modo più assoluto. E tutto l’interno - dice - portato in este­ riorità. E tutto quanto è nelle pieghe. Ma, esaminandola con Gino Marotta, perché io l’avevo citata ne\\’Hommelette for Hamlet se ti ricordi, vedi e t’accorgi che le mani... E smem­ brata. Errori plateali anatomici: ginocchio che si muove in un certo modo, è staccato dalla gamba, lo stinco dal ginocchio, la mano sinistra...

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UA: Cioè voluti?

CB: Si vede chiaramente! La mano sinistra sembra am­ putata. È uno smembramento quasi artaudiano, se vogliamo. È una cosa da stare in ginocchio, ma non devotamente: “am­

mirazione”, la chiamerebbe Cioran. Ecco. Credo non esista nient’altro sul pianeta, non sia mai stato fatto altro. E allora, nel momento dell’estasi... Non si può programmare l’estasi. Questo è assurdo. È come un santo che si programma di levi­

tare. Io ho approfondito Giuseppe Desa da Copertine. UA: Certo!

CB: Il santo del Sud del Sud dei santi.

UA: Mi piace moltissimo quando lo citi! CB: C’ho anche scritto...

UA: Ho visto, ho visto, in Sono apparso alla Madonna'. CB: A questo punto non si può programmare. E allora si è sprogrammati, non si è in casa in quel momento. Perché non si è in casa. E Lacan direbbe che è l’altro che gode e buo­ nasera. Sì, ma veramente il “signore” e la “signora” in estasi, come la Teresa d’Avila lacaniana, o anche, se vuoi... Perché parla della Santa Teresa e non della Ludovica Albertoni, Klossowski nel Baphomet, con l’angelo che sta accanto. È

quello che Lacan chiama «il sorriso dell’angelo nella stupidi­ tà del significante». Dire «stupidità del significante», biso­ gna andarci piano... Ora, se tu mi escludi nel misticismo... UA: Sì? CB: Fenomeno che Schopenhauer attraversa bocciando la stupidità del nirvana, giustamente, ma venendo veramente dai Veda, dalle Upanisad.

UA: Le Upanisad, sì... CB: E allora siamo veramente... è un po’ come un signo­ re che comincia a prendere a schiaffi sé stesso e l’Occidente, poi si rifugia in una stanzetta col flauto e suona Rossini. Per­ ché se ricordi nella storia della musica, che lui vorrebbe to­ gliere, dice «volontà senza oggettità»! Uno solo s’è sottratto

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all’oggettità: Rossini. Ecco io vorrei che tu riguardassi, Umberto, quella pagina su Rossini: togli la parola musica, metti la parola teatro e avrai quello che io intendo per teatro. Né più né meno. La fine dell’oggettità. UA: Guarda...

CB: E quindi non si può “fare una cosa”. Ora io mi metto qui e comincio a sudar freddo. Cioè, non si può fame un “fat­ to Loyola”, oppure un fatto da Esercizi spirituali. Oppure la Grazia. Pascal dice, appunto, che è ancora sufficiente. Sì. Ma l’altra poi no, l’altra non dipende da noi! L’unica cosa che di Pascal trovo... Le lezioni inutili, cioè quelle... UA: Sì...

CB: Ecco, cioè: «Mettiti lì! Non ci credi? Mettiti in gi­ nocchio e fingi di pregare perché questo mortificherà il tuo spirito!». Ecco, queste son le cose “grandi” che mi interessano.

UA: Per dirti l’interesse della questione che tu mi poni... CB: Ma non puoi, noi non possiamo fame né una tecnica, né una contro-tecnica, di cui parleremo dopo, contro il virtuo­ sismo. Perché iniziamo ad attendere la Grazia, se no finiamo come nel divertentissimo Atti degli apostoli di Ernest Renan. Dove dice: «Eh sai, ignoranti com’erano, poco da mangiare... Si radunavano intorno al tavolo e ciascuno aveva le sue visio­ ni!». Ecco, questi signori Sturm rischiano un po’ questo. UA: Renan li prendeva per i fondelli. Beh! Pare che la parte più difficile della...

CB: L’interesse tuo lo capisco. Ma attenzione alla sto­ ria, perché poi rischia di restare solamente una storia mistica. O se vuoi un misticismo storico. Ma di tutti gli attimi in cui questi signori “non sono” - parlo dei mistici, non solo degli artisti per carità! - non sono in casa, se ne sa un bel niente! Vallo a chiedere agli intrecci di significanti, o alla stupidità appunto dei significanti intesi... Perché stupidi? Perché poi si sono collettivizzati. UA: Ma quando tu, Carmelo, parli del “sacro”, a volte (adesso uso la tua aggettivazione, le tue dichiarazioni), oppu­

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re quando dici che la voce non si porge, ma si è posseduti dal­ la voce, usi il neutro, usi il fa, questa voce che parla. Ecco, quando...

CB: Ma è tautologico: la voce è l’ascolto! UA: Sì, ma finisco la domanda, così mi rispondi. Quan­ do mi dici queste cose, non talloni una certa mistica? Io ag­ giungo di carattere negativo? Una sorta di teologia negati­ va. .. La mia impressione leggendoti, e leggendoti insistente­ mente, è questa: che ci sia - adesso magari tu mi dici di no ma che ci sia, dietro questo richiamo per esempio alla sacrali­ tà greca...

CB: No! Sacrale come rituale mi offende. Sono per l’attore romano... UA: Sono parole tue, sai?!

CB: Ci sono delle contraddizioni nella mia teoria che data ormai diversi anni.

UA: Si! Certo.

CB: Oggi non direi più così, mi esprimerei diversamen­ te. Ho molto verificato in scena, sull’osceno del palco patibo­ lare, queste cose. Sebbene le teorie, a mio avviso, precedano, la prassi viene prima della... Perché noi, qui, scriviamo prima un libro? Perché la prassi vien prima della prassi stessa! Do­ po bisogna sprogettarla, questa prassi. Tradurla in teoria, io penso ci voglia più calma, forse è da terzo momento. Per me la prassi anticipa la sprogettazione. E a volte ci sono degli er­ rori, se vuoi, dei traslati non voluti. O se vogliamo disvoluti. O involuti. Ma è importante, quando si esaminano i mistici, a parte la perversione di certe cose... UA: Guarda che io ti do pieno appoggio! Perché ho fre­ quentato sempre la mistica. Io ti trovo...

CB: Cos’è allora? Cos’è? Certamente non c’è il man­ que, in uno stato estatico, perché exstasis vuol dire proprio “fuori”. UA: No, guarda che c’è la “notte petrosa” dei mistici, quella dell’aridità. Quella del manque è la tua!

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CB: Ma no, perché non c’è il parie. UA: Ma certo!

CB: E chi ha detto che io abbia mai cercato la parola?

UA: Cosa intendi per “parola” adesso? CB: ...fa parie / fa manque. UA: ...fa parie / fa manque.

CB: Chi ha mai cercato la parola? Se guarderai il breve programma di sala che ha fatto Maurizio per la Cena delle beffe vedrai che proprio lui parla di smarginatura dell’orale, smarginatura che io avevo cercato nel recitarcantando o an­ cora più sadianamente... Ma vedi, ti ripeto: l’arte mi ripugna. A meno che, veramente, non ci siano delle cose che... Non l’estetica, mi ripugna... UA: L’arte la fai rientrare nello spettacolo, a questo pun­

to?

CB: L’arte purtroppo è spettacolo e l’arte purtroppo è storia! Ahimè sì! È storia dell’arte, come la maggior parte della musica è pensata. E poi se guardi quella contemporanea è pensosissima. È strapiena di pensieri, di cavilli, di spaccar

le misure, il capello in quattro, in cinque, in sei... e basta! Scho­ penhauer ammette solo Rossini, infatti, perché è solfeggio assoluto, perché davvero è volontà non oggettivata, non c’è oggettità. Ma è questo che intendo. Da dove prendo queste cose? Dove è anche importantissima tanta patristica greca, più che latina? Ma anche Gaunilone, quando parla dell’inau­ dito, parla dell’inaudito. Lutero, quando parla della parola di Dio: «La parola di Dio - dice - no!, in quanto ascolto possia­ mo darla, ma se vogliamo convertire qualcuno, per atto di fe­ de, scendiamo in parola». UA: Nella comunicazione. CB: ...Siamo nella volgarità dell’azione. Questo è Lutero! UA: Chiaro! Pragmatica.

CB: Quindi dalla patristica migliore, che... Zenone a suo tempo definiva già essere la phonè «la dialettica del pensie­

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ro», ma è laphonè con cui io non ho niente a che fare! Qui c’è un equivoco di base! Io ho smarginato tutto ciò! E cerco il vuo­ to. Nessuno, per esempio, s’è mai occupato della tecnica, del­ la strumentazione fonica, dell’amplificazione. Ho lavorato con Ferrero, da anni, sulla rielaborazione dei suoni. Di queste cose, dello spossessamento, non è che c’è bisogno se uno non lo contiene e se uno non se ne espropria proprio, ecco. E inu­ tile poi amplificare. Bisogna che la dinamica sia quella e che ci sia questo. Ora, che cosa dire? Perché? Si dice solamente l’ascolto. È facile per Heiddeger dire...

UA: [ride] Eh eh eh! CB: «Solo l’indicibile si può dire». È vero! Perché solo l’impossibile si può fare, allora. A teatro, non nello spettaco­ lo. Quindi: attenzione al concetto di manque\ 11 manque è le­ gato al parie. Ma Lacan chiarisce molto bene un’altra cosa: primo, il discorso che facciamo non è mai il discorso che vo­ gliamo fare; seconda cosa - fondamentalissima a mio avviso, sempre in Lacan - il linguaggio non è mai nell’essere parlan­ te. L’arte, io sospetto, a parte l’arabesque, a parte il decorati­ vismo dell’arte, e qui son d’accordo con Platone, non mi tor­ na, non mi toma: bisogna uscire dall’arte! Allora cosa hanno tirato fuori? La differenza. Sì, però visto che è inconcettualizzabile, e visto che Deleuze le ha dedicato Differenza e ripeti­ zione che, almeno, è un libro che picchia, seriamente, è la ri­ petizione senza concetto: la ripetizione è la differenza senza concetto. Che poi Derrida scriva différance, io trovo sian davvero dei calembours, questi, andiamoci piano!

UA: Oppure col trattino tra le due f. CB: ...Tra il calembour e il cabotinage. Visto che è inconcettualizzabile, c’è dell’arte che eccede. Ti faccio un esempio: se io parlo di Eros e dico: l’Eros per me è uguale de­ siderio... [fine del Nastro 1, Parte prima]

NASTRO I Parte seconda

Firenze, 16 dicembre 1988. Pomeriggio. Camerino di CB. UA assisterà la sera a una esecuzione della Cena delle beffe. / due dialoganti accendono i rispettivi registratori a dialogo già iniziato.

CB: Sul manque, appunto. Se non siamo, se il linguag­ gio non appartiene aH’esserc parlante - e a me interessano esclusivamente i significanti... - articolare l’inconscio, che non vuol dire la psiche, nel modo più assoluto, l’inconscio è quanto non sa, basta... Quindi, l’Eros per me è il desiderio co­ me fine del desiderante, del desiderio. Tende a questo, e ten­ de veramente - dopo Schopenhauer e Aldi là del principio di piacere - a differir l’orgasmo (il bambino che piange perché butta via il giocattolo), però percorre molto più tragitto nel piangere e ride felice molto di meno. La felicità non è felice, questo è tautologico... Questo è il desiderio. Una volta, con Pierre Klossowski, a Parigi, lui registrava il Baphomet, leg­ geva, beato lui... UA: Tu ascoltavi o leggevi a tua volta?

CB: No, no, lui leggeva. Gli dico: «Saint Pierre - cosi lo chiamo io - écoutez, ma allora: bisogna che l’Eros muoia», fi­ nisca nella festa (ecco, la sacralità di Bataille, è questo che mi fastidia). Finita la festa è solamente un post mortem, dove fini­ to il desiderare del desiderio, è il desiderio che vuole disfarsi di sé, è l’orgasmo differito, è ciò che non vogliamo avere. È il «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» che Montale pren­ de pari pari da un passo della Gaia scienza di Nietzsche. «Co­ desto solo oggi noi possiamo dirti», ossia «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...». È Nietzsche, che il buon Eusebio ha

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messo poi in un distico. Ma il pomo, dopo questa morte, «après le sacrifice» direbbe Klossowski, che è d’accordo con me, è / ’eccesso del desiderio, quanto è di là. Stranamente lui si è fissato e mi ha detto: «Chiamiamolo au-delà du désir». Beh, au-delà mi preoccupa un po’: eccedere vuol dire già au-delà. Comunque, sostanzialmente, profondamente d’ac­ cordo. Quindi sull’eccesso del desiderio, sulla voce fatta ascolto, sulla parola che non appartiene all’essere parlante perché il linguaggio non ci appartiene - che cosa ho fatto? Tut­ to il mio sprogettare che cos’era? Tutto il mio smarginare come lo chiama, nella Cena, finalmente, Maurizio Grande - è un disfarsi del linguaggio, mentre l’arte entra nel simbolico, non c’è nulla da fare. Da qui i miei sospetti. Ci sono delle ope­ re, ti ripeto: qualcosa di De Chirico, dove tu vedi una cosa che è là e non è là, ci mostra quanto non si mostra, che demanda a un altrove. E allora ecco la differenza, ma non tutta l’arte è nel­ la differenza. Ma nemmen per idea. Ci può essere qualcosa, forse, di Raffaello, forse, ma dico forse (altro citato da Scho­ penhauer, che lo cita più per il contenuto della Santa Cecilia). Ecco, in tal senso il manque non è il manque di qualcosa che manca, ma è quello che Maurizio chiama, nella Cena, la «ca­ mera da letto mancata» sulla scena, non è una scena mancante della camera da letto. Qui poi quando leggerai quell’opuscoletto... È molto importante, perché di tutte le masturbazioni dei vari Lévinas, o del secondo o terzo Heidegger, c’è sempre la Voce di Dio, o la barba di Dio. Lévinas lo porta addirittura nel volto dell’Altro. No, no, finiamola! C’è il capitolo di Lacan sull’Èthique de lapsychanalyse'. la haine duprochain è molto più importante di qualunque amore! C’è, alla base del linguag­ gio, tutto quanto sulla donna: nel suo studio sull’amor cortese la donna si vende giustamente per essere stata mai fottuta, ma sempre fottuta nel senso di essere presa a parole, circuita a pa­ role, pur di non essere fottuta. Non è Lacan qui, è Freud! Scho­ penhauer lo spiega molto, molto bene. Bisogna leggerci un po’ di dentro, forse, non so. Il manque in questo caso non si pone. Sicuramente in quando non siamo. Quindi io non posso for­ mulare una parola. Se io dico Dante, non posso riferire Dante,

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come non posso ripetere i Canti orfici di Dino Campana, o non posso fare Giannetto nella Cena delle beffe. Perché: via l’io, via il soggetto a un certo punto, via il significato, a un certo punto si smargina anche il soggetto... Dove sei? Sei, come di­ ceva Maurizio, a un festino con dei significanti a banchetto, in balia dei significanti. In questo senso, l’altro, o quanto è altro­ ve, e quanto è questo che non è nel fa, ma non in una chiave pericolosamente metafisica né tantomeno mistica, in tal senso, nonostante i miei interessi mistici... Ecco perché si può dire l’ascolto. Ecco perché lo stesso Holderlin... UA: Questo separa, divide...

CB: Ecco. Questo fa il poeta. C’è però una operazione, ancora non più profonda ma a mio avviso più leggera, più spensierata, più depensata: si tratta di finirla col virtuosismo e quindi con la volontà. Bisogna avercelo avuto, magari, si, d’accordo. Si è nati... E con la tecnica, inoltre, finirla. E allora che cosa introduco, io, in tutto questo? Ciò che chiamo con­ tro-tecnica.

UA: Posso interromperti un attimo, per chiederti una cosa? CB: Prego.

UA: Tu hai dequalificato, adesso, il secondo e il terzo Heidegger. Io volevo, o pensavo nel momento in cui ho rac­ colto questi appunti sulle cose che stai facendo, che l’uti­ lizzazione che tu fai della tecnica - strumenti di amplificazio­ ne eccetera, tutte cose che, dal mio punto di vista mio, per ve­ dere come fai, vanno studiate tecnicamente...

CB: Linguisticamente. UA: Linguisticamente... Ma ci fosse dietro, quasi, un tentativo di negare la tecnica attraverso l’utilizzazione della tecnica stessa? Un passo di Heidegger in Cosa significa pen­ sare recita «l’essenza della tecnica non è tecnica». Heideg­ ger, dal suo punto di vista - che magari, per un attimo, discu­ tiamo qui - voleva sostenere che in fondo la tecnica è la pro­ tesi di un progetto che nasce nella grecità, quello per cui dal leghein, come dire...

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CB: Per i greci è così: la protesi. UA: ...diventa protesi. Leghein come porre, porre di fronte, presentare, e la tecnica sarebbe questo prolungamen­ to. Lui dice che, invece, occorre ritornare, come dicevi tu, all’ascolto, al dire originario, eccetera. Mi chiedevo se, per caso, questa polemica di Heidegger contro la rappresentazio­ ne e di conseguenza contro la tecnica, non fosse anche da te attuata, in un altro modo, con coordinate nettamente tue, e portata avanti nei tuoi spettacoli tra virgolette che non sono spettacoli, e nell’uso della tecnica che in realtà è una negazio­ ne della tecnica.

CB: Lo è assolutamente. Io parlo di contro-tecnica. UA: Esatto. Mi chiedevo se ciò potesse essere vero. CB: Se io amplifico, intanto, mi do in quanto ascolto, ecco. Ma che cosa ascolto? Ascolto qualcosa che già sto li­ quidando: sto sprogettando lo scritto. E la sprogettazione di ogni testo scritto, il primo passo fondamentale. Poi, attenzio­ ne!, si potrebbe cascare nello scritto del detto. Perché il detto è morto, a monte. Sennò il cadavere che esce dalla porta rien­ tra poi galleggiante dalia finestra. No! E li bisogna, con la contro-tecnica, mortificare il virtuosismo: non essere in casa, non esserci. Ma non è l’uscir di senno dei mistici o il tentativo dello Sturm, a mio avviso, cosi come non vi riuscì Artaud, è un’altra cosa. Quello da cui bisogna uscire, non è soltanto la frastica, perché allora ha ragione Deleuze, quando parlando di CB dice «è straniero nella propria lingua»: intanto bisogna esserlo, già quello. Con Maurizio, rivedendo certe cose, si di­ ceva: no, nella scrittura di scena no, è anche il dépassement dell’attorialità, in quanto l'atto non è l’azione, l'atto è l’oblio (il discorso che avevamo lasciato in sospeso su Nietzsche...). Ecco, per agire devi dimenticare, se no non puoi agire; ma al­ lora, dimenticando, nessuno è autore dell’atto, nessuno è re­ sponsabile nemmeno dell’azione', non si dovrebbe dare un delinquente, non si dovrebbe dare una legge. La legge castiga perché, kafkianamente, si autoprostituisce. Così come lo Sta­ to romano di Pierre Klossowski che cosa faceva? Da una par­

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te esigeva questa moralità pubblica del costume, dall’altra tollerava questo meretricio, questa prostituzione degli dèi operata da signore, da cosiddette dame, e da patrizi che per­ devano i diritti civili pur di farsi stuprare, vilipendere dagli spettatori. Questa antitesi della legge, Kafka l’ha portata fino in fondo. Kafka ha uno smisurato senso dell’ipercomico, che pochi gli riconoscono, ma quello che nessuno ha visto in Kaf­ ka - perché se tu mi riconfini Kafka nell’Eros è finita - è che Kafka è il più grande pomomane di cui il pianeta abbia mai disposto, è lì la sua importanza: c’è sempre lo sperma, le len­ zuola sporche, le... E non è Vyiddish soltanto, come qualcu­ no... non si può fare un universo-Kafka solo perché c’è di mezzo Vyiddish, smettiamola con queste tare, sono una for­ ma letteraria di razzismo. Dopo Schopenhauer, chi è che vie­ ne a rivisitare Kleist, a capire e a cambiare? Masoch, fenome­ no straordinario! (non il masochismo di Kraft-Ebing, ovvia­ mente). Ora, si credeva, si pensava che non si potesse smargi­ nare, uscire dal linguaggio, ma nel Filosofo scellerato di Klossowski, se lo vai a riguardare - non Sade mon prochain, quello teologico, l’altro, quello che lui scrisse dopo, rav­ vedendosi - dimostra chiaramente che sovrapponendosi un pensiero, un linguaggio, un gesto, un fatto (coupé l’inter­ vallo!)... Perché per far male dovrai trasgredire e sopprimere la virtù, frammentarla, e per non più far male bisogna che la ripetizione cominci perché non ci sia più un ripensamento nel pensiero, perché non sia questo pensabile, perché è come da­ re, scrivere una cosa su una velina, poi scriverne una seconda eccetera, poi c’è l’atto che la ricopre, poi il racconto dell’atto, poi lo scritto, e alla fine è illeggibile. Klossowski ti dimostra che tutto ciò è fuori completamente dal linguaggio, perché è un linguaggio talmente negativo che non è più nell’ordine del simbolico. Quando Dolmancé finisce il partouze, diciamo, e dopo aver letto il manifesto Francois, encore un effort.., fini­ to di consumare anche un atto fisico, dice: tout est dit, «tutto è detto». Combinazione, perché poi a Lacan interessava sol­ tanto il linguaggio, non per risolvere i casi della psicoanalisi, quelli li lasciava alla psichiatria o alla psicologia d’accatto, e

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definisce Sade l’unica persona, la più etica della storia uma­ na. Anche se lui si ferma, poi, nel linguaggio: «Tutto è mera nominazione», e chiude l’École freudienne, chiude tutti i se­ minari. Klossowski va avanti, è andato avanti. Klossowski ha dimostrato che si può superare, che Sade è superato. E in al­ cuni momenti della Cena delle beffe, lo vedrai, c’è una smar­ ginatura...

UA: Tu dici che Klossowski avrebbe fatto una specie di retromarcia, rispetto ad alcuni testi, avrebbe cambiato dire­ zione? CB: Certo, ha fatto dei salti. Quello che supera Sade mon prochain è (a riparare) Il filosofo scellerato. UA: Quello che noto, in questa impostazione, è quasi un movimento pendolare. Nel momento in cui si approccia que­ sta soglia della negazione, che diventa così eccessiva, debor­ da il linguaggio, lo si smargina. Ed c un esercizio che hai fat­ to in tutti i modi, tu...

CB: Ma no, ci sono arrivato adesso, ho appena comin­ ciato... UA: E quando facevi il metateatro, la tripla scena?

CB: Erano tentativi. Ne sentivo l’esigenza....

UA: D’accordo, ma ogni autore di genio ha una sola idea, ossessiva. Io credo che tu l’abbia fatto sempre. CB: No, ma adesso bisogna smetterla anche di essere autori. Questo è l’artefice: è la fine deU’artefice.

UA: La fine dell’artifexl Qualis artifexpereo... CB: La fine, vedrai già nella Cena.

UA: È molto rivisitata rispetto all’altra Cena, musica di Gelmetti? È cambiata totalmente? Quella che hai fatto a Bo­

logna, credo. CB: Quella era veramente uno spettacolo. Qui sono mezz’ora il prim’atto, e dodici il secondo. UA: Quindi c’è uno spostamento di poetica, almeno a quel che capisco oggi, che per me rientra in un pendolarismo,

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cioè all’interno dello stesso tipo di discorso...

CB: Ma è la poesia che mi ripugna. Mi ripugna il poeta, proprio. UA: Quando tu parlavi di autore e lo opponevi all’attore, tanto per dire, parlavi anche di verità. In talune tue dichiara­ zioni associavi, contro l’istrione, l’attore persona...

CB: Parlavo della sincerità. UA: Sì, la sincerità.

CB: Lì continuo ancora, per carità. Sul fatto che il teatro debba essere finzione, no... Lo spettacolo può essere finzione.

UA: Esautoravi la fabula, la peripezia... Hypokrites, in­ somma.

CB: Finzione un corno! Io non sono, mi cancello, non so più che cosa fare per sprogettarmi, mi ci vuole una bella me­ ditazione. UA: Questa parola mi piace.

CB: Meditazione, come sai, gli ignoranti credono anco­ ra che sia il pensiero elevato al cubo, invece è la sospensione del pensiero. Lì ci vuole questo. Allora cominciando si instau­ ra il vuoto.

UA: E qui comincia il dibattito. CB: Ecco, ma non puoi non partire dal qa manque / qa parie, che nella Cena delle beffe io gestisco anche attraverso dei nudi sottocutanei. Non ci sono dei ruoli, ma, per intender­ ci, tra Giannetto e Ginevra sotto gli abiti c’è il nudo, e sotto il nudo lo smoking.

UA: Un’altra pelle!

CB: È lei che sbaglia, perché «Lafemme, elle est pas...», come dice Lacan. L’attrice deve sbagliare fino in fondo. E poi non la smette mai con questi nudi e vestiti. Lì c’è la que­ stione del nudo sottocutaneo, ecco, «Svestire il nudo» dice Maurizio. Io l’ho gestito, questo fatto lacaniano, ma dal lin­ guaggio ho sempre inteso sortire. Cominciai con Macbeth a chiudere, con Lorenzaccio a togliere di mezzo l’io e tutte

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quelle cose, ma mi rimaneva troppo soggetto dentro. Stavolta è smarginato il soggetto. E allora qual è il programma? Arri­ vare prima attraverso una Pentesilea, una Achilleide, fino a questo..., ma arrivare, arrivare completamente. Ecco, se si può parlare di lingua degli angeli... Con Maurizio si notava che nella scrittura di scena, per giocare al controsenso, per sottrarre senso, non è necessario amputare il testo, anzi il te­ sto entra, proprio perché c’entra anche se è di Benelli con la musica di Ferrero sotto, ma tu lo smargini nel recitarcantando, gli altri lo smarginano neH’automatismo, ma tutto quanto diventa automatismo. C’è un’apatia sadiana che lui vivendo in una piccola proba Roma, definì un «ghiaccio atroce». Ecco, è questa atrocità del ghiaccio, il ghiaccio brucia, questo rovente del ghiaccio. Ma attenzione al manque, e attenzione anche all’Altro, quello di Lévinas o l’Ente di Heidegger, no, no, no, no, no: l’Altro lacaniano che è quello che gode tra i due litiganti a letto, questo sì, lì è Freud, è come la volontà pura per Schopenhauer, benissimo: toglile qualsiasi oggettità e si rimane senza il mondo.

UA: E dopo? Quando tu mi parli del vuoto... Passiamo dal manque al vuoto... CB: Ma il manque è il qaparie.

UA: Benissimo, tiriamo via persino il soggetto, non un dio che abbiamo già smarginato. Ci troviamo davanti a un vuo­ to. Tu mi hai citato con Schopenhauer le Upanisad, i Veda. CB: È fondamentale che non sia il nirvana, nel nome di dio, spero.

UA: Questo problema del vuoto: eliminiamo il pensiero, eliminiamo il concetto. Hai detto bene prima, meditare non significa pensare oltre, ma togliere pensiero.

CB: L’indicazione del Porta. Per esempio i decibel, bi­ sogna disporre di dinamica. È come avvicinarsi talmente per

vedere un olio, un Delacroix, ti avvicini talmente che non ve­ di più niente. Ecco, io sto tentando proprio quello che il tuo Bliimner non è riuscito a fare, perché se Than fatto, l’avran fatto in trance, non in contro-tecnica...

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UA: Di questo sono convintissimo. CB: ...senza uscire dal manque. Il manque merita di es­ sere dibattuto e discusso finché si è nel linguaggio, ma trovo che proprio a teatro ci si disoccupi completamente proprio del linguaggio. A me interessa - dicevo - più il patologico: il mostro di Firenze mi interessa molto di più nelle sue incisioni chirurgiche, nella sua decostruzione dei corpi anatomici non vorrei... non è apologia di reato, la mia, in nome di dio mi interessa questo smemorare l’atto. Ma se non c’è azione, vuol dire che non c’è parola. Allora io non sto parlando, ma sto... anche quella è smarginatura. Ecco, non vorrei riportare questo a una mistica perche sarebbe pericoloso, a una metafi­ sica, sai, con l’Altrove maiuscolo e la voce del padre in poche parole. Lasciamo stare il padre, lasciamo stare il complesso di Edipo. Viene prima il complesso, e poi Edipo. La contro­ tecnica meriterebbe un discorso forse più articolato. Forse vedrai qualcosa stasera, qua e là, perché sono ahimè afono... Vedere dove può condurre tutto ciò, ma non si può liquidare il manque, visto che si è nel parie, lo penso che il teatro non si sta occupando di niente, questo è il discorso. Di cosa si occu­ pano, o di cosa si preoccupano? Si invoca una drammaturgia a monte, autori che scrivano copioni. Ma son pazzi? O sono scemi o ci fanno, siamo nella stupidità totale. Perché? Perché vogliono lo spettacolo, questa garanzia che il testo a monte gli dà di essere poi riferito eccetera eccetera eccetera. Per rias­ sumere: fine dell’io, morte di dio, morte dell’io. Poi, smargi­ natura anche del soggetto. E la rappresentazione? La rappre­ sentazione è rappresentazione di Stato. Per questo i greci rap­ presentavano. Più interessante è lo Stato disegnato da Klos­ sowski, quello romano, che sentiva il bisogno di autovilipendersi, anticipando Kafka nella legge... La prostituzione della legge, dài!

UA: Ho la sensazione che tu, in questo momento della tua progettazione estetica, stia compiendo un passo verso la romanità - questa è la mia sensazione, ovviamente - lascian­ do da parte quella grecità, quel dionisiaco greco a cui ti rifai

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continuamente, nel corso di tantissime altre dichiarazioni.

CB: Però quel dionisiaco è pericoloso. UA: Allora siamo di fronte a una svolta.

CB: Sì, ma non da ora, da anni. Anche per l’uso che se ne fa, per lo strapazzo. La parùsia a me interessa, beninteso. Il pubblico se ne accorge, si accorge di qualcosa che è chiaro, ma che essendo smarginatura di quel che non è, ne avverte il disagio. Sennò sarebbe contento, appagato e gratificato. UA: Mi incuriosiva questa faccenda della svolta. Abi­ tuato a una serie di dichiarazioni in cui il dionisiaco, l’asse Schopenhauer-Nietzsche in sostanza, che ti è sempre stato caro...

CB: Più Nietzsche che Schopenhauer. Il dionisiaco è Nietzsche. UA: Sì, ma il Nietzsche schopenhaueriano, quello gio­ vane della Nascita della tragedia.

CB: Certamente. Il Nietzsche giovane.

UA: Ero partito considerando, in fondo, la fortissima in­ fluenza sul tuo lavoro di Schopenhauer e del Nietzsche della Nascita, mentre c’è un antiwagnerismo costante, perché c’è la polemica contro l’opera totale, la sintesi, la rappresenta­ zione e così via. Quello che, in qualche modo, cambia le re­ gole del gioco che mi ero costruito, dopo la conversazione di oggi, è il fatto che il dionisiaco sembra emarginato, e sembra - ma forse è un momento provvisorio - che emarginando il dionisiaco tu emargini anche tutte quelle cadenze sulla grecità, sul sacro, sulla verità, a favore di una decostruzione in senso francese. CB: Non è solo questo... È in senso schopenhaueriano, o

freudiano o lacaniano. Non sono d’accordo: il dionisiaco per­ ché no? Certamente.

UA: Perché lo hai definito pericoloso?

CB: L’ho scribacchiato pure da qualche parte: ho nostal­ gia delle cose che non ebbero mai un cominciamento, un ri­

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cordo del prenatale, quindi. Nella tragedia, e qui solamente in senso relativo da Nietzsche, nella tragedia il dionisiaco non c’è più. Quei sessanta-settant ’anni, che poi si chiamano Elia­ de, Grecia, i greci, i greci, i greci, poi non furono che pochi anni. Ma che cos’è? È già décadence, perché lì siamo già nel­ la rappresentazione di Stato, attenzione! Con Eschilo, Sofo­ cle, Euripide e Aristofane, siamo già a quello. Nietzsche quando parla di dionisiaco rimpiange qualcosa di barbarico, di assolutamente a monte da tutto quanto ciò... UA: Che distingue però da quello frigio, che è stato un «cattivo dionisiaco»...

CB: Sì, certamente. Ma questo non si può ricordare, per­ ché non esiste se non come forma nostalgica di quanto non fu mai, per quanto ci riguarda. Perciò Wilamowitz gli risponde per le rime e ha ragione in quanto grecista. Però la rovina, la fine della Grecia è il tragico, è il tragico di Stato, è la struttura della tragedia, quello che fa dire ad Aristotele quelle cose sul­ l’unità di tempo, luogo e azione. Oh! La nomenclatura.... UA: Una volta tu avresti risposto che è Euripide, che ha come interlocutore Socrate...

CB: Certamente. E invece adesso lo estendo a Sofocle, lo estendo anche a Eschilo...

UA: Infatti. Vedi che c’è questo processo.

CB: Non è così l’Iliade. Quella è affrancata... UA: Perché totalmente epica, e quindi apollinea...

CB: Non perché Vepos sia poi questa cosa... Quando Klossowski, sai che lui ha fatto la versione considerata uni­ versalmente come la più bella dell’Eneide, da leggere davve­ ro in ginocchio! Molti dicono che è superiore all’originale, e lo è, lo è. Lui mette un breve corsivo di premessa: sono le pa­ role che sanguinano, sono le parole che lacrimano, non i sen­ timenti, non i fatti. Quello che conta, nell’epos, «c'est la résonnance». Perfetto, perfetto. Se noi dall’epos lo spostassi­ mo a teatro (non nello spettacolo, ma nell’evento, o nella di­ savventura, chiamala come vuoi), ci intenderemmo su che

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cosa è la résonnance. Ma noi possiamo avere solo l’eco di qualcosa. L’eco precede la voce, come nel nastro, quando si destampa sulle frequenze alte. Questo è importante. Il dioni­ siaco può essere condivisibile con Nietzsche in quanto no­ stalgia di qualcosa che non fu, ma non di qualcosa che fu. La tragedia greca è tradimento, è alto tradimento, è la festa ad­ domesticata di Bataille, questo voglio dire, è la ricorrenza, quando le feste diventano ricorrenti, è Natale, suvvia. Un po’ Natale in casa Cupiello. Quando la rappresentazione diventa di Stato, è fatta da assessori che scrivevano, come Sofocle. Non è questo. Chissà che cosa sarà stato prima! Ma sono cu­ riosità che non posso permettermi, richiedono altre specializ­ zazioni o altri interessi. Potrebbero interessarmi, ma si an­ drebbe chissà dove, si andrebbe a delirare. UA: Quello che mi interessava era anche, proprio per il tema schopenhaueriano di cui abbiamo parlato sin qui... Mi pareva si potesse fare questa scaletta: in fondo, Schopenhau­ er distingue tra le arti plastiche da un lato e la musica dal­ l’altro, poiché la musica è rivelazione diretta della volontà, dell’essenza, del noumeno, è rivelazione immediata, le altre sono tutte mediate. Comunque, mi pareva di vedere in questa impronta la derivazione di una tua valutazione della phonè, quindi della musica, della musicalità come la chiamavi.

CB: Però solo Rossini, lui estrae... UA: Oggi mi precisi questo elemento, che lui citava, nella musica, solo Rossini...

CB: Lui non ha oggettità... UA: ...e citava anche Petrarca per il ritmo poetico.

CB: Ma nella musica, Rossini...

UA: Comunque, questa direttrice, questa grande diret­ trice tedesca del primato della musica, dell’udito, della pho­ nè, in sintonia con il miglior Holderlin, resiste ancora nella tua visione di oggi, è ancora centrale per il tuo pensiero? Oppure, quando poco fa mi hai parlato di questo tuo sposta­ mento sulla romanità...

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CB: No, no, ma è da sempre che è così, perché Klossow­ ski già nel 1977 aveva fatto questo pezzo... UA: Parlava di politeismo, eccetera.

CB: Parlava dell’attore romano, vide subito... UA: Può darsi che tu l’abbia rimeditato ora.

CB: No, no. Ma c’era. Era più in nuce. Io ho anticipato in due spettacoli sottovalutati (chiamiamoli spettacoli perché è il teatro che dà spettacolo osceno di sé, pur conservando l’antinomia teatro-spettacolo)... Uno di questi si chiamava S.A.D.E... UA: Questo non l’ho visto.

CB: ...che poi portai a Parigi, e lo portai in francese, as­ sieme a Romeo e Giulietta. Vide i due, Klossowski. Lo vide anche Lacan, il primo. Però, quando avevo ventitré anni, ho fatto uno spettacolo, al Teatro delle Muse, che c’era anche Paul Ketov ai sintetizzatori, e Bussotti, Il rosa e il nero si chiamava, tratto dal Monaco di Lewis. Io lo considero ancora - escluso il Lorenzaccio, il Macbeth e La cena delle beffe na­ turalmente - lo spettacolo mio più maturo. UA: Quello di cui c’è il testo pubblicato da Quadri?

CB: Sì, ma il testo... Pubblicare il testo, non si può!

UA: Hai ragione.

CB: Li eravamo veramente di fuori, nell'afasia totale. Dopo ci sono dei percorsi: ho abbandonato il teatro, sono passato al cinema, poi sono passato allo spettacolo televisivo, poi mi ha affascinato la radiofonia. Dopo sono tornato al tea­ tro, ecco perché dal ’75-’76, proprio da lì comincio veramen­ te un arci... Per cui, prima degli anni Ottanta, a eccezione del S.A.D.E e de 11 rosa e il nero non riconosco niente, assolutamente niente. UA: Neanche Giulietta...

CB: No. Ma Giulietta, sì... Perché interessava Klossow­ ski? Perché sentiva una bocca di qua, rispondere un’altra bocca di là, tra i pompieri... La presa per il culo pazzesca del­

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la scenotecnica gigantesca, dove noi eravamo dei lilliput... Lui si accorse del corpo sottile. UA: Quando ti dà quella definizione, «l’anima separata dal corpo», Klossowski però... CB: Lui la usa già nel Bafometto'. «Le anime separate dai corpi, i corpi separati dalle anime». Ma non è invece che i corpi esistano, i corpi esistono senza l’anima e sono separati dalle anime. Ma non che nei soffi... che le anime abbiano un’anima, o alcunché di spirituale, ma nemmen per idea. E qui è immane. E qui è il Demiurgo cattivo di Cioran.

UA: Quello gnostico.

CB: È quando un dio, citando Nietzsche, si mise in testa di essere unico e tutti gli altri dèi morirono, dal ridere. Quindi i tronconi sono due: non credo sia il troncone metafisico che possa portare... nonostante certe intuizioni di Heidegger, se mi spiego... ecco. E una metafisica in senso artaudiano è di­ versa, perché vuol dire smembramento dell’unità, del corpo spezzato, infranto, ma che lui rende in questo tormentone, in questo martyre sulla pagina della lingua francese, ma che in scena a mio avviso fa cilecca, è questo il discorso. Mi riguar­ derò la tua cosa artaudiana, ce l’ho. Perché in lui c’è molto martyre, c’è molto... ma sulla lingua. Ma allora la grande operazione teatrica l’ha fatta in Héliogabale, in Eliogabalo, lì c’è una operazione teatrica sterminata, l’anarchico inculato e autoinculato, o incoronato, è quello il colpo grosso, non Cenci, non le sue progettazioni, dove si contentava di poco, poi l’autodistruttore si eliminò in altro, soprattutto nel mette­ re in croce questa lingua... Quindi il campo è aperto, il campo era stato sì tentato, da... E con amore che lessi questo tuo li­ bro, diciamo sull’antiespressionismo dello Sturm, su questa eccentricità... Però come hai fatto, senza l’orale, a vedere quanto smarginassero? UA: Bisogna ricostruire con grande pazienza questi ar­ chivi... CB: Tu l’hai fatto, ma dici anche che però non si esibì-

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vano, queste persone. L’importante è invece... Le idee che danno scandalo di sé, si prostituiscono. Perché? Grazie alla loro invisibilità. In questo senso le anime separate dai corpi e i corpi separati dalle anime. Klossowski ha il pregio di scri­ vere anche in maniera molto semplice...

UA: Sì, molto chiara...

CB: E grande anche in questo... UA: Volevo chiederti un’altra cosa. Riguarda il libro che hai scritto assieme a Deleuze, Sovrapposizioni.

CB: Pensa, nel ’77, dopo aver conosciuto Deleuze, al tempo di Romeo e Giulietta e S.A.D.E. nel caffè di un hotel... «Qu 'est ce que vousferaites en Italie, Carmelo?» Gli raccon­ tai di questo progetto su Riccardo III... E lui lo scrisse! Lo vi­ de dopo, lo spettacolo, quando il libro apparve dalle Editions du Minuit e poi tradotto da Feltrinelli, al Teatro Quirino. Lui se la rideva, tutto qui. Su un racconto di dieci minuti. Stranie­ ro nella propria lingua, estranei nella propria lingua. Bisogna stare attenti: tu puoi usare laparùsia e non uscire, attenzione, non uscirne, restare in un nonsense, oppure in un controsen­ so, ma non ti garantisce il senso mancato solo perché formuli o affabuli cose inintelliggibili. No, non è questo perché sennò torneremmo a Saussure, e non a Lacan, che si occupa di ora­ le, infatti. Perché la semiologia o la semiotica ha continuato sempre sulle radici delle lingue sul semantema, sul fonema, ma sempre saussuriane...

UA: Poi Saussure ha lavorato sugli anagrammi, e tu sai bene che mette lì quello che... [fine del Nastro I, Parte seconda]

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1 La cena delle beffe, da S. Benelli. secondo C.B. (II edizione), regista e protagoni­

sta C.B., musiche di L. Ferrero, altri interpreti: D. Zed, R. Baracchi, A. Brugnini, S. De Santis, D. Riboli, prima ufficiale: Milano. Teatro Carcano, 12 gennaio 1989. Per questa occasione Artioli scrive “Il fascinans e il tremendum dell'inorganico", testo apparso sul foglio di sala della compagnia. * Stazio é il primo a trattare di psicomachia, lotta delle virtù contro i vizi. In effetti il riferimento all'autore latino è esplicitato da Bene soltanto nella locandina dello spet­ tacolo successivo alla Cena: Pentesilea la macchina attoriale-attorialità della mac­ china, momento numero I del progetto-ricerca Achilleide. da Stazio, Kleist. Omero e post-omerica, voce solista C.B., Milano, Castello Sforzesco, 26 luglio 1989. Quest'affermazione dimostra che Artioli, il quale ha appena consegnato il suo li­ bro su Pirandello (L'officina segreta di Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1989). è già al lavoro su d'Annunzio, anche se il suo libro uscirà cinque anni più tardi (// combat­ timento invisibile. D'Annunzio tra romanzo e teatro, Laterza, Roma-Bari 1995). 4 CB pronuncia parùsia c UA parusia. La grafia conserva questa differenza.

A proposito di questo passaggio un appunto di Artioli recita: «Rileggendo, mi sembra di non aver colto la sua ossessione: Ero io a depistare, con la distinzione tra un pieno (la metastoria) e un vuoto. PerCarmelo la mistica è sempre straniera in casa propria, un'esperienza di estasi, fuori dal linguaggio. E qui ha ragione, come ben sap­ piamo». 6 «Il più grande» dovrebbe essere Meister Eckhart, poi citato esplicitamente nel III nastro. Questo significativo vuoto di memoria è uno dei molti aspetti che si perdono nella trascrizione del dialogo sotto forma di intervista pubblicata da Artioli.

NASTRO II Parte prima

Firenze, 16 dicembre 1988. Siamo di nuovo nella suite di CB. La sera prima UA ha assistito alla Cena delle beffe al Teatro Metastasio di Prato, ma l’incontro inizia riprendendo ilfilo interrotto il giorno precedente.

UA: Allora è chiaro, anche se non lo esplicitiamo, che non aderivi, non aderisci a questo tipo di impostazione. Parlo delle macchine desideranti come elementi positivi del desi­ derio.

CB: Che rimanga tra noi... UA: In effetti è contraddetto da tutte le tue dichiarazioni, salvo... CB: Ma non è possibile! È una cantonata che ha scritto con Gatt..., Guattàri, Guattari... UA: Come è possibile? Schopenhauer... Se avevo iden­ tificato le fonti e la linea, questa è tutta in un altro senso... L’affermazione del desiderio, quando tutto punta nella nega­ zione della volontà e nel desiderio, non stanno insieme.

CB: Da un lato la ricerca del dispiacere, al di là del prin­ cipio di piacere. Quello è il monumento che si deve a Scho­ penhauer. Però lo ha scritto il signor Freud, un Freud anzia­ no, però smentendo, lasciando Ginevra a questi barbuti com­ pletamente attoniti... D’altra parte Lacan chiude la psicoana­ lisi come taumaturgia, come... davanti aH’incomprensibile eccetera. Da qui il mio interesse più che per il simbolico, tor­ no a dire, per il patologico, per l’immaginario se vuoi, e allo­ ra mi interessano anche gli scritti di Lacan sulla paranoia e tante altre cose. Non si può prescindere dalla cosiddetta see-

68 Umberto Artioli - Carmelo Bene

na del dispiacere, o dispiacere della scena, ma l’importante è dove mette i puntini Grande è... La mancanza non è la camera da letto mancata, in senso mancato proprio, non la mancanza di senso. Questo è molto, molto, molto importante. Intanto si azzeri, si cominci da zero, si cominci dalla fine. Dove quei si­ gnori, a cui tu hai dedicato un libro, forse stavano cercando. A mio avviso, ti ripeto, non so con quale contro-tecnica. Fin dove non fosse una masturbazione personale (ogni masturba­ zione è impersonale, invece). Ciò non toglie, ciò non giustifi­ ca la disattenzione di gente come i nostri critici del cazzo, che si credono addetti ai lavori, questa loro disattenzione al lin­ guaggio. Il linguaggio è orale. Omero cantava le sue storie, da cantastorie: è scritta così l’Iliade. E impensabile da leg­ gersi, impensabile e stupido. Ed è impossibile tradurla, a par­ te che è un greco abbastanza semplice. Ma erano cose che ve­ nivano poi superate. Già con Omero comincia la fine dell’im­ possibile e quindi la possibilità.

UA: Ricapitolando tu mi dici che sconfessi, in questo

momento... CB: Non in questo momento, da sempre.

UA: Parlo dei tuoi spettacoli... CB: Ma noi possiamo fare, come sempre, secondo l’età. Penso ci siano dei fenomeni-spettacoli come master, dicia­

mo...

UA: Tu ci metti II rosa e il nero... CB: Assolutamente... S.A.D.E., delle cose del Macbeth che danno l’addio un po’ a tutto.

UA: Curiosamente scegli quelli più freddi, tra virgolet­ te, usando questo tema... CB: Io uso il freddo rovente. UA: Non a caso mi citi S.A.D.E, che è gelido. Leggere Sade... anche se può essere rovente. Ma in questo momento la tua predilezione va a questi.

CB: Contro, non addosso, di contro, di fronte, all’ironia sadiana, I’umorismo in Masoch che è contratto addirittura...

Un dio assente i 69

UA: C’è una predilezione in questo momento per il co­ mico...

CB: La predilezione è per... L’irruzione del comico: che se soltanto un critico... ma non è per loro, solo qualche spetta­ tore può arrivarci... Il comico gela, V ipercomico, come lo chiamo io, è qualcosa che quando fa irruzione... UA: Pensi al comico assoluto di Baudelaire, per esem­ pio?

CB: Certo, e il comico in Schopenhauer. Il comico e il buffo. Non è il buffo, il comico. Il comico è quando fa irru­ zione il riso, ma il riso che irride.

UA: «Le rirejaune», diceva Jarry. Giallo di bile, atrabile. CB: Giallo e gela. Ma la contro-tecnica che cos’è? È là dentro. Allora ci vuole una revisione del comico. UA: E tu ti stai muovendo in questa direzione.

CB: Oggi abbiamo impostato tutta questa premessa sull’ascolto, sul dir l’ascolto, però è bene che tu la veda, pri­ ma, stasera.

UA: Immagino sarà una parodia feroce. CB: Uno ci lavora degli anni, per fare poi un minuto.

[Qui c ’è un breve intermezzo su Francesco Bartoli, atte­ so per la sera e per il quale si riserva un biglietto. CB lo vor­ rebbe anche ospite a cena]

CB: ...Freud, ma da medico, e da lì per arrivare all’in­ conscio che si articola come linguaggio, ecco che rispunta l’orale. È su quell’orale che avevamo discusso, e contro l’at­

tore romano, e ci eravamo detti che i metafisici vedono sem­ pre Dio, il volto di Dio, la parola di Dio. Poi è stata colletti­ vizzata, questa roba, diventa predicazione. Il merito di Lacan è sterminato, bisogna essere, averlo già in nuce. Sì, non anda­ va oltre il linguaggio, perché a lui non interessava chiudere la psicoanalisi, trovarsi di fronte aU’incomprensibile, ma non per risolvere il caso... Beh, mi sembra un bel forfait, no? UA: Certamente.

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CB: Diceva: questo lo lasciamo alla psichiatria, giocate­ ci voi. E c’è gente, in Italia, che gioca ancora al divano. Ma questo non deve riguardarci. Io dico, con Klossowski, che nel pomo, attraverso l’osceno si può eccedere, appunto, il desi­ derio. Solamente dopo la morte dell’Eros, che è il desiderio che vuole disfarsi del desiderio.

UA: Ci sono due vie: o l’ascesi oppure il superamento dall’altra parte.

CB: Ma io sospetto anche dell’ascesi. Sono d’accordo anche con Cioran, il vizietto dei santi... UA: Eppure una volta hai detto che sulla scena bisogna dire l’impossibilità di essere santi. CB: «La tristezza di non essere santi» è di Léon Bloy. Ma santo è per me chi non è in casa, come San Giuseppe da Copertino. UA: E legata a Schopenhauer anche questa, siccome Schopenhauer parla della santità e dell’ascesi...

CB: Ma che cosa vuol dire essere santi? Essere santi co­ me Giuseppe da Copertino quando volava, lievitava? Tri­ stezza di non esserci, di non essere in casa, si dice. Quindi so­ no davvero nostalgie per cose che mai furono... UA: Siamo nell’impossibile...

CB: «Non esisto dunque sono» lo puoi prendere in quell’altra cosa nicciana che dice «Cogito ergo est». Però lui invi­ diava molto a Stendhal quell’altra definizione di Dio: «Dio ha una sola scusa: non esiste». Ma bisogna guardarsi anche da Nietzsche. Nietzsche nello Zarathustra aveva già detto tutto. Quello che mi interessa in Nietzsche, e che Klossowski recupera in Un sifuneste désir, è il concetto di soggetto. Col­ li, che mi amava e andava pazzo per S.A.D.E., Colli diceva: «Sono d’accordo, è il concetto di soggetto che va a puttane. E questo che conta: morte di Dio, morte dell’io». Ecco Scho­ penhauer educatore che rispunta dall’altra parte! Non finga­ no di seppellire Schopenhauer come hanno finto - anche Nietzsche lo cita poco, mai anzi - di seppellire Stimer. Per­

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che la grande apprensione di quattrocento e passa pagine di Engels e Marx per stroncare Stimer la dice lunga sui pericoli dell’Unico. E Calasso lo ha detto bene ne La rovina di Kasch, nei passaggi su Stimer e su Marx. Nessun pensatore è stato così brillante, così acuto e divertente soprattutto... Perché lo­ ro non sanno divertirsi, tranne Klossowski perché è un arti­ sta, un grande artista.

UA: Le nozze di Cadmo e Armonia hanno degli angoli molto belli. Degli angoli. CB: Sì. Ma il mio interesse per questa Achilleide, al di là di Kleist, è su questa vunerabilità dell’invulnerabilità, che lui carezza appena. Sono appunti presi in fretta... È fondamenta­

le. Altrimenti si finisce a Strindberg e rimane sempre tra i due sessi, la faccenda. Non può restare tra due sessi, il maschio e la femmina. Ma Dio mio, è così limitata la storia? La femmi­ nilità, che abbandono, non appartiene né al maschio, né alla femmina. Sono due maschi, tutti e due. Soprattutto nei moli sociali, non ne parliamo. Quindi non è la mancanza del fallo, il complesso di Edipo o di castrazione, c’è nel maschio e c’è nella femmina. C’è in Don Giovanni, soprattutto. Forse l’u­ nica creatura femminile è Don Giovanni. Come dice Lacan, le donne le supera una a una. Certa meticolosità di quelli che paiono calembours in Lacan e sono invece portali di scoper­ te. E ci sono, invece, delle altre nuances. Tra queste ci metto anche, ma che rimanga tra noi, Derrida. È inutile che Derrida se la prenda tanto con l’esame straordinario [di Lacan] della Lettre volée, nel Fattore della verità, dicendo ha preso questo e questo e ha trascurato lo stile. Ma no! A lui serviva quello per fare un altro discorso, come ha fatto Kant con Sade. Tutti e due senza la legge non possono far niente. La Filosofìa del boudoir messa accanto alla Critica della ragion pratica non è male. Va benissimo, ma Kafka l’aveva capito fino in fondo. UA: Rispetto a Maurizio che è, o era, un adoratore di Derrida... Tu sei più lacaniano, nei senso che lo ammiri.

CB: Lacaniano no, ma lo ammiro perché si è ricordato dell’orale. Dell’orale!

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UA: Inscritto dentro l’inconscio. CB: Quello che ci fraintende, ogni giorno: dal quotidia­ no, all’immaginario al simbolico. Il bluff! Il bluff che siamo. Non dice Montale, copiando Nietzsche: «codesto solo pos­ siamo scriverti». No! Dirti, solo possiamo dirti «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Dirti è importante. «Tout est dir», tutto è detto, anche l’azion fatta, la parola. Detto! E sul detto che si batte, da sempre. Quando finisce Omero e ha ini­ zio la tragedia, lì sì siamo nel rituale, quello che mi disgusta del religioso. Contro lo sporco laidismo, poiché sai che il Tom­ maseo “laico” lo mutua da “laido”. Una religiosità come anti­ mondanità, come disprezzo del mondano e del mondo, è altra cosa dal rituale di cui si ammantano tutte le chiese di questo mondo. La sacralità è un’altra cosa, ma bisognerebbe andare in chissà quali arcaismi, quindi in nostalgie di cose che non furono mai. La tragedia greca è già décadence. Questo io contesto a Nietzsche, che non è il socratismo. Già prima c’era da tagliar corto. Mi vale più Zarathustra, dove tutto è detto. In Zarathustra c’è anche la volontà di potenza. Foucault mi invitò a cena, dopo aver visto S.A.D.E., cucinò lui e mi disse: «Di Nietzsche basta leggere due libri importanti». UA: Lo Zarathustra, e l’altro?

CB: No, no, due qualsiasi. Tra gli “Inattuali” ce ne sono di molto importanti.

UA: I francesi sono molto sciovinisti, nel senso che si sono appropriati di Nietzsche. CB: Un momento, quando se ne appropria Klossowski diciamo che l’ha espropriato ma ne ha fatto una cosa sua: è la cosa più alta su Nietzsche, è più alto di Nietzsche, tanto per cominciare. Ora, con tutte le riserve sui francesi, non è che può venire Guido Davico Bonino a dire che sono «le scimmie d’Europa», citando Montaigne. No, no, no, no, no, no, no! Piano, le bonnes restino al loro posto, le femmes de chambre stiano al loro posto. Le riserve sui francesi sono altre. Fatto sta che da Baudelaire, ai Salons, ai Valéry...

UA: Lautréamont, Mallarmé...

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CB: Non parliamone! Quando prendi il canto terzo di Maldoror, dove c’è Stimer dentro... Dimmi quale pensatore può, in senso così bruciante...

UA: Aveva ventun anni... CB: Nemmeno, mi pare ne avesse diciotto. Il canto terzo di Maldoror me lo scriva un pensatore! Ce n’è, dentro, Stimer, uno, ma non bruciante in quel modo lirico assurdo. È un falò

strepitoso. Le riserve sui francesi, sono una cosa. Ma che l’in­ telligenza sia francese, a dispetto poi della media francese... UA: Non c’è dubbio, gli anni Sessanta e Settanta ci han­ no dato lezioni da vendere. Solo che poi dimenticano la cul­ tura tedesca, che è alla base... CB: Dimenticano? L’hanno dimenticata per primi i te­ deschi, questo è il bello. UA: Infatti, una ricerca come quella che ho fatto, in Ger­ mania non c’è! È assurdo che non vadano a leggersi Fuchs,

che non vadano a leggersi...

CB: Ma scherziamo! Io per avere, dalla Columner, i tre­ dici volumi di Holderlin ho dovuto mandare una persona, non volevano darglieli. Ho dovuto chiamare l’editrice, per vedere se potevano darglieli. Volevo Masoch, nell’originale, come ho Rilke, come ho Kleist. Anche con lingue che non frequento, i suoni li vado a pescare, mi interessa. Voglio veri­ ficare delle cose. Sai che non è edito Masoch, non c’è Ma­ soch! Un turpiloquio, un pomomane insomma! Il work in re­ gress della Germania...

[stacco - quando riprende la registrazione si capisce che avevano iniziato a parlare di D’Annunzio - si percepisce qualcosa sulla bellezza del Notturno] UA: 11 suo teatro è illeggibile, salvo forse La città morta, ma alcuni romanzi sono belli.

CB: Ci sono delle cose ne Lafiglia di Jorio che non sono male, guarda. UA: I romanzi sono belli e in più sono schopenhaueriani. Insistono tutti sul tema della frantumazione, della scom­

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posizione, eccetera. Non tutti, ovviamente...

CB: Sai, non ha la grandezza dei fallimenti di Fitzgerald. UA: I tre romanzi del ciclo della rosa che sono basati, ho scoperto, sull’allegoria d’amore, cioè sul Sogno di Polito...

CB: Lo so, lo so. Non è purtroppo II grande Gatsby, non è Tenera è la notte, e non è, soprattutto, i racconti brevi di Fitz­ gerald, Il prezzo era alto, dove ci sono delle cose sofferte, mostruose. Ha tanto cercato, questo sì. Flaubert ha scritto Salambó. Anche se diceva «Madame Bovary c 'est moi», aveva scritto Salambó. Ha scritto quell’Hérodiade bellissima... UA: E Les Tentations.

CB: Hérodiade è il più grande francese mai scritto. Quin­ di con i pensatori andiamoci piano. [stacco - passano a parlare della Cena delle beffe]

UA: Faccio una carrellata degli argomenti possibili per il mio intervento... CB: No, a me interessa il tuo diretto, quello che hai visto.

UA: ieri sera ti ho detto, appena finito lo spettacolo, che ho rintracciato lampi di dadaismo. Perché ti ho detto questo? Ripensando oggi a mente fredda la mia prima im­ pressione... Il dadaismo, proprio nell’epoca in cui Gramsci scriveva quelle cose che sai, sulle marionette, metteva in scena l’elemento della Kunstfìgur, della figura artificiale. Tu hai aperto la scena in qualche modo così. Con una ludicità che era nei dadaisti, ma che era una ludicità basata sulla negazione di tutto, sulla negazione del senso, sulla indiffe­ renza ai valori e, scrive Tzara, su uno sfondo buddhista, quindi negativo, schopenhaueriano.

CB: Buddhista e Schopenhauer fanno a pugni. UA: Comunque lui richiamava quel tipo di visione. Quindi la prima cosa che mi ha colpito è questo carattere lu­ dico e di questo riso che ieri dicevamo “giallo”, rire jaune alla francese...

CB: Alla Corbière, via.

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UA: ...o “riso verde”, all’italiana, dove in fondo si deco­ struiva, che è uno dei prototipi del dadaismo. Contemporanea­ mente, mentre pensavo a questo, e pensavo alla importanza che avevano a livello di figuratività scenica gli androidi, i ro­ bot, le macchine, tutte queste figure di doppi, mi veniva in mente che questo meccanismo automatico, questo automati­ smo, diventava - magari inconsciamente, o consciamente, io non lo so - quasi una parodia della scrittura automatica surrea­ lista che ha a che fare con l’oralità, basti pensare all’uso del­ l’omofonia, e che quindi non è solo “scrittura” ma è anche vocale, ha ben presente l’elemento orale, mentre la scrittura automatica surrealista spalanca una bocca d’ombra verso un tutto o un pieno. L’innocente...

CB: L’innocente sente i suoni, non sente... UA: D’accordo, è il discorso che Breton propone.

CB: Lo spirito di Breton...

UA: Esatto. Mentre queste Kunstfiguren che tu usi, que­ sto automatismo tendeva al contrario a spalancare voragini, abissi di vuoto, impossibilità di unificazione, decentramento, decostruzione continua. Quindi mi era parso, per certi aspet­ ti, che, ripeto volontariamente o involontariamente, accanto a questi motivi di carattere dadaista che ti ho detto, ci fosse una parodia del surrealismo che era curiosa, e mi interessava.

CB: Questo risponde a ciò che Grande chiama la smar­ ginatura del tutto, dei codici. Quindi la decostruzione ha un altro senso e io uso il termine sovrumano...

UA: Ci arrivo... A questo punto proprio l’uso del termine sovrumano, come l’ha utilizzato Maurizio in quel contesto, veniva a coincidere con l’inorganico, cioè con quel passo freu­ diano di cui abbiamo parlato ieri, a proposito di quel passo fre­ udiano dell’/4Z di là del principio di piacere. Di conseguenza avveniva che l’elemento meccanico, o l’elemento artificiale, l’elemento della macchina e dell’androide, veniva a designare la soppressione del mondo dell’io e della soggettività e l’aper­ tura di qualcosa che resta abbastanza indecidibile (nelle enun­ ciazioni) che è questo anorganico di cui Grande, o per cui

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Grande parla di «nostalgia dell’inorganico», a un certo mo­ mento. Questa nostalgia dell’inorganico, in fondo, ti pone la macchina come colei che demistifica, che decostruisce, fa in modo che tutte le figure siano segmentate sulla scena e siano, soprattutto, il doppio l’una dell’altra, le figure che dovrebbero essere forti (l’attore, l’io, il ruolo) vengono decostruite...

CB: Il soggetto.

UA: Il soggetto in particolare. Quindi è attiva, nel senso della decostruzione, e nello stesso tempo apre, introduce una possibile nostalgia verso un qualcosa che...

CB: Io lo chiamo patetico... UA ...che in altri momenti tu hai definito in altri termini, ma che resta al centro del dibattito di ieri sera. CB: Se vuoi, lo sgambetto del comico, l’irruzione del co­ mico. In fondo Giannetto, questo scemo, invidia la paralitica, invidia l’automatismo, la dinamica, il movimento, e niente è più cretino in un essere di legno. Il quale a sua volta poi si sca­ rica ai piedi di una bambola. Anche l’androide, alla fine, è l’i­ norganico. UA: Lo è già, in fondo.

CB: Sì, ma c’è l’ambizione di averlo organizzato, da orologiaio. UA: Qui apro una parentesi: in Maurizio c’è un passo in cui situa questo tuo lavoro nella civiltà della tecnica e delle macchine. In qualche modo Io storicizzerebbe. Sei d’accordo su questo punto?

CB: Mah, non so. La macchina è l’utilizzo della tecnolo­ gia più avanzata... Influenza i modi. Modifica. Una specie di Bafometto. I modi, che fino al Quattrocento si chiamavano “affetti”. Ed è questo... Quindi da un lato non è protesi, e dall’altro l’utilizzo stesso del playback tradito, disatteso nel­ la seconda parte... UA: Scollega, scombina, reseca completamente lo psi­ cologico. Quindi, in tal caso, il fantoccio viene utilizzato per cancellare quell’umano troppo umano che è presente nello

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psicologico.

CB: Via il troppo umano, direi. E qui il discorso sul so­ vrumano! UA: Rispetto a Maurizio, io insisterei maggiormente sull’elemento ludico, perché mi sembra forte, anche se è una comicità amara.

CB: Sono d’accordo. Io sono d’accordo pienamente con te, se togli l’attore romano, l’attorialità degli dèi che danno scandalo di sé, non quello greco, dellapo/fs, che era celebra­ tivo, se togli questo togli tutto..

UA: Questo testo mi pare non sia sacrale, ma dissacran­ te, appunto, in qualche modo, e giochi molto sul pedale del comico...

CB: Come degradazione, beninteso... UA: Come degradazione, come rire jaune, ma con una formula ludica estremamente forte. Dentro questa compo­ nente di carattere ludico, mi pareva di poter sostenere, magari non in accordo con te... CB: Non bisogna essere d’accordo, altrimenti... UA: ...la presenza di elementi visivi pronunciati e sempre concordi nello smontaggio o nella decostruzione. Ho notato che, in fondo, sia gli elementi mimici, sia la scena per esempio di Raffaella, sia l’elemento accecante del faro, sia la mimica...

CB: Altrimenti coi corpi come fai? Il maggior automati­ smo non è negli esseri lignei o tecnologici, è in questa superattorialità, chiamiamola meta-attorialità. Non quello che Agostino Lombardo attribuisce già a Shakespeare, alì'Amleto: il teatro nel teatro. L’attore che esce dal ruolo per guardarselo da fuori: no, lì siamo ai primordi. UA: Si parla di Kunstfìguren, di figure artificiali. Colui che doveva essere immedesimato in realtà è una figura po­ sticcia, una larva.

CB: L’automatico, l’automa è soprattutto questa attorialità, a mio avviso inedita, dal punto di vista... Il gesto per

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esempio, il gesto, il gesto-luce, lo chiamo... Scusa, devo prendere appunti, altrimenti non scriverò mai delle chiose. UA: Ieri sera, quella correzione all’attore che hai fatto, quando hai detto che ha sbagliato i tempi, che non obbediva alla partitura, e così non viene il gesto, eccetera. Vedi che esi­ ste un protocollo molto preciso, che è lo stesso, parlo del ri­ gore dello spettacolo è chiaro, c’è un protocollo molto preci­ so che presiede sia all’elemento vocale, sia all’elemento visi­ vo; è tutto finalizzato a questo lavoro di decostruzione, di de­ moltiplicazione o di artificializzazione...

CB: È tutto raccontato come una favola, da Mille e una

notte ricostruita da un libertino del Settecento. La macchina del Neri la chiamavo “macchina dello spavento”, quando la progettavo. Sopprimendo l’attore. Sarebbe stato ridicolo, dav­ vero. Errore di Benelli. Che cosa diventa? Diventa un godemichet clamoroso, per sollecitare attraverso lo spavento, co­ me in Des Esseintes, sollecitare il discorso amoroso tra Gian­ netto e Ginevra (andiamo un po’ nei ruoli per intenderci). Smania lei, smangia addirittura... Mentre noi mangiamo pa­ role, perciò si scappa dalla tavola quando è apparecchiata... Quello è un gesto importante, dove la lettura sadiana è fonda­ mentale... Non lasciare mai quei fogli! UA: Ecco l’altro elemento visivo: non lasciare i fogli. CB: Ecco, come fai? L’elemento visivo, ma perché lo devi contrapporre alla smarginatura dell’orale...

UA: Lo capisco perfettamente, ma è funzionale, è una funzione importante...

CB: Come un gesto-luce, come un robot... UA: Con gesto-luce cosa intendi adesso? Quello del­ l’accecamento del pubblico da parte della macchina? CB: Quello è un sintomo. Hai visto che ci sono delle “scariche” - si chiamano così, non sono dei regolari sagomatori -, ma consente di eludere dei... UA: Di tagliarli, di localizzarli...

CB: E poi le facce si sbiancano in fazzoletti. E questo

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svestire il nudo nel discorso cos’è? Ci si veste da concerto, un modo per saltar la donna, come dice Lacan. Il gesto-luce fa parte della smarginatura musicale, questo è l’importante...

UA: Io considero la luce al pari della musica, una vibra­ zione.

CB: La violenza degli archi che hai visto di taglio, quan­ do entrano, sopra la pelle indosso lo smoking, è lei che è con­ fusa, non si sa... Abito da sera, poi nudo, abito da sera, nudo... si confonde, lì «la femme n ’est pas tout». UA: Queste lame luminose...

CB: Ci sono molte cose messe insieme come un arabe­ sco, diceva Marotta, che lo ha visto a Perugia. Spettacolo che non mi aspettavo - dice - incredibile perché c’ha incastri di codici, decostruito con una tensione, dice lui... UA: Direi che tout se tient nella decostruzione.

CB: Con però una tensione che è un risvolto del tragico se tu vuoi, ma chiaramente sgambettato dal comico. Il cabotinage non è come dice Mejerchol’d - l’attore che girava per la Francia e poi aveva il cabotin per contraddirlo. No, fa parte della medesima attorialità. Smargini l’orale, smargini il gesto. Io seggo sulla seggiola di Neri, nel finale, quello fuo­ ri playback e rido, rido. È allucinante, inghiottito da questa luce. Tocca a lui... La follia di aver affidato l’utilizzo del ro­ bot, ossia la regolamentazione del robot, a un androide che poi gli viene il torcicollo perché si innamora di chissà chi. E bacia, la cameriera: le scatta il prurito di andare a baciare l’androide, ché tanto non lo racconta a nessuno. Se vuoi, ci sono infinite cose dentro che vanno tutte quante incastrate... UA: La parte cosiddetta visiva, o mimica, o virtuale si incastra dentro alla decostruzione.

CB: Dove io contesto, dove io contesto nel teatro, o co­ me anche nel melodramma, nell’opera, come nella sinfonica, è che si accende la luce solo per vederci in scena, negli am­ bienti. No! Qui è disabitare l’ambiente, ecco le quinte nere c quelle cose. Ma del resto ho fatto anche un cinema così. Se tu

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esamini Salomè, ha circa seimila inquadrature montate in meno che un’ora, col rischio di far strappare tutto in giunta. UA: Quindi sono tanti flash.

CB: Girato in super 16 e poi gonflé. E anche lì il gesto, il fatto, l’intervento è musicale. Non è visivo. Siamo in una ce­ cità, buio, buio proprio, che porta al vuoto. E questo che porta al vuoto. Ma il vuoto è sempre quello chiamato... Una volta, ricordo, avevo ventidue anni, uno scandalo. Nella sede de “Il Messaggero”, io dico «sfondare una porta aperta», e loro ri­ devano. Una porta aperta... Ridevano perché è diventato un luogo comune: «Lei sfonda una porta aperta!». Allora ho aperto una porta e gli ho detto «Provateci!». Loro si sono ge­ lati. Ora, il discorso interessante sullo Sturm, ossia su questi tentativi di uscire dalla parola, dalla volgarità della parola, sia chiaro, quindi dall’azione... Io già nei concerti di poesia, o nei concerti con orchestra, né Beethoven, né Schumann né Madema... UA: Tra l’altro tu l’azione l’hai tagliata completamen­ te... Hai preso spezzoni di un dialogo, soprattutto sul primo e sul secondo, l’azione l’hai saltata totalmente. E hai ripreso, quando dici «Sono buono, sono buono», dei frammenti. L’azione scompare completamente...

CB: Scompare... UA: Anzi direi che c’è una progressione in sottraendo...

CB: È un teatro anti-wagneriano, anti-mejecholdiano di­ rei, che va illusoriamente per accumuli e appena va lì, spro­ gramma, inizia a sprogrammare. Deleuze aveva detto giusto, è un processo chirurgico per sottrazione...

UA: Sono coupures, tagli. CB: Le sottrazioni sono fatte prima. Un po’ come additi­ vo. Ma che cosa diventa, poi, sgambettando, il progetto? Nell’atto che disattende l’azione, nell’oblio, proprio, della scena, e quindi osceno in questo. Direi sottrattivo, come me­ todo. È lì che non arrivò Schonberg, nemmeno: «Parola, pa­ rola che mi manchi»; arrivò a constatare solamente che gli

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mancava. E quindi sull’oralità siamo lontani da Pentesilea, ma siamo lontani anche dal Tamerlano, quello che andremo poi ad affrontare il prossimo meeting..., siamo lontani fino a un certo punto perché sul recitarcantando pare non ci sia nes­ suno, né tra i cantanti, né... Muti con le mani nei capelli che dice «O me lo fai tu ’sto Monteverdi o non me lo fa nessuno». Se mi stai accanto come regista, ma come musicista soprat­ tutto, intonando con i cantanti, recitandomi VOrfeo, alme­ no... se no, io lo cancello. Non c’è un cantante che sappia fare un recitarcantando, il recitarcantando non è lo Sprechgesang soltanto, o Lully, è uno smarginarlo, perché il melologo sai benissimo che è... puoi andare in sincrono con la musica, op­ pure in asincrono completamente. E lì cascano i cantanti. Non ce ne sono più, al mondo pare. Tanto è vero che quando si devono far concerti all’estero, per esempio il Manfred, gli inglesi erano venuti a cercare me alla Fenice, volevano lo fa­ cessi io Byron, in italiano. Come vedi salta la lingua: stranie­ ro nella propria lingua, prima di avventurarsi nella parùsia. UA: Arrivo velocemente su questo punto. Vorrei il tuo parere. Cito ancora Maurizio: prima dice della rinuncia all’o­ rale, e la rinuncia a ogni illusione di senso, a ogni esprimere, a ogni dire. Sta dicendo che l’orale in fondo è un accordo tra

natura e senso... [il dialogo riprende nel nastro seguente]

NASTRO II Parte seconda

[Si cambia cassetta e il dialogo riprende]

CB: Ma se io aggiungo a questo il discorso freudiano... UA: Scusa, finisco la domanda. Quindi lui dice, utiliz­ zando il termine che ieri è venuto fuori, quello di “barbarie”... cioè: questo orale è una rivolta nei confronti dello scritto, che rappresenterebbe un pieno, a detta di Maurizio... CB: Un sovraumano. Siamo nell’automatico, eh!

UA: No, lui dice «CB travolge la stessa oralità», la supe­ ra, vale a dire 1’«attestazione sonora della soggettività». È presenza questa. «L’accordo tra natura e senso nel cavo orale è armonia», dice. La supera, giusto. CB: La supera...

UA: La supera, certo. Rifiuta la stessa barbarie dell’o­ rale in rivolta contro il linguaggio dei significanti. E poi dice: «Se si fa canto, o pressione lirica del soggetto, è perché cerca l’appoggio in una espressività antecedente il linguaggio, in una primordialità pulsionale e musicale nella quale si mostra quella speciale sutura tra corpo e parola che è l’orale». CB: E questo è Bliimner. UA: Eh, questo io volevo dire! Ci siamo?

CB: Solo che da me lo senti, da li non l’hai potuto senti­ re, da quel signore... Questo è il discorso! UA: Questo è Bliimner!

CB: Perciò dico che è rivolta a te questa parte! Quando si parla di primordialità, a me interessa sapere cosa c’è pri­ ma!

84 I Umberto Artioli - Carmelo Bene

UA: Perché dicendo questo recupereresti se vuoi una pienezza musicale, un pieno... CB: Ma è quella che Schopenhauer chiama volontà pura!

UA: Eh, sì! Però...

CB: Oppure l’a-priori kantiano! UA: Però nel testo, nello spettacolo di ieri sera non mi pareva che fosse questo il motivo, che cioè fosse de-strutturata anche l’oralità, mi pareva che fosse più parodistico e deco­ struttivo.

CB: Ma l’oralità non cessa, perché l’oralità è parola. E allora ecco che andremo nel manque. E allora, in questo sen­ so, che cos’è se non differire il desiderio? Io prendo sempre note da bambino, no? UA: Sì...

CB: Fino all’inorganico. Differire è il concetto di dispia­ cere'. proprio in Freud. Buttar via il giocattolo. Questo differi­ re il desiderio fa scattare il godimento dell’Altro. Se non sba­ glio... UA: Sì, lacanianamente.

CB: E freudianamente, Al di là del principio di piacere che Lacan poi riprende. L’Altro lo scrive maiuscolo... Qui si innesta per me un’altra cosa: che proprio disponendosi a un ascolto, a dir quell’ascolto, originario e non originale, ma (io metto ma) se l’ascolto, che vuol dire “dire” (o metto disdire) è dis-dire, dis-dire il detto, ma anche il dire originale... Cioè la tua proposta d’ascolto - ecco l’esteriorità - è altra cosa, è spettacolo, voglio dire, è orale, ecco. In tutti i sensi. È orale, ahimè. L’originarietà è uguale ad abbandono e oblio.

UA: E anche passività. CB: Anche del soggetto, anche del soggetto. UA: Ma la mia domanda è: dallo spettacolo di ieri sera...

CB: Perché... questo accade anche quando dico i Canti orfici. La gente ritorna a casa stravolta. «Sembra che sia Campana!».

Un dio assente / 85

UA: Giusto! Ti do perfettamente ragione! Ma stai a sen­ tire, per me la domanda è importante perché mi chiarisce questo: secondo me tu, ieri sera, ti sei mosso nel filone deco­ struttivo, cioè nella negazione di questo punto. Hai contem­ poraneamente anche affrontato questo?

CB: Qua e là, sì, certamente. UA: Ah! Ecco! Questa è la domanda! Perché quando fai Campana sono sicurissimo che fai questo, fai il due, cioè quello che ho segnato per secondo, V originario. Questo sì. Ma ieri sera mi pareva più che i tuoi mezzi fossero rivolti a negare la rappresentazione, l’io, l’attore tradizionale: cioè, un lavoro decostruttivo. Mentre altrove, in altri casi...

CB: Sì, ma il recitarcantando se tu lo innesti, togliendo un nudo e sotto c’hai uno smoking e questi elementi fanno parte dell’orale, perché lì eravamo in forma ludica... UA: Per me si! Ieri sera era la forma ludica. Per me l’altra è sacra! Ecco, per chiarirlo e dirlo in soldoni, quello che tu metti come “due” appartiene alla sfera del sacrale, dell’estasi, del dionisiaco; quello che metti sull’uno nel senso di decostruzione è, appunto, parodia, epoché, frantumazione, resecazione, eccetera.

CB: Comunque non c’è mai tentazione al dialogo, non c’è mai... UA: Mai, questo mai!

CB: Anche laddove ci s’incazza col Tomaquinci, che sarebbe l’Edison mancato di questo robot... dell’Altro che si muove e poi si scarica, l’androide Zed. Quello io l’ho diviso in tre piani sonori: uno quasi dal vivo, la lettura iniziale, con un leggero... UA: Playback leggerissimo. CB: No, no, è leggero, è amplificato.

UA: Aaah! CB: Poi, dopo, si va... I piani sonori sono importanti: la luce li segue, fino agli archi accecanti...

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UA: Si, si! CB: Dopo va in un secondo...

UA: [prende appunti} Il primo così, sì! CB: Campo lungo, in cinema. UA: Il secondo...

CB: Il secondo è un campo medio: e quello è il più parla­ to, e quindi è parlato con equivoco di dialogo, ma vedi che ognuno parla per conto proprio. Gli altri non hanno orale. UA: Cioè una simulazione di colloquialità...

CB: Me l’assumo solo io, ma non è mai colloquiale. E non è mai dialettica! UA: Certo.

CB: Non è mai dialogica! Mai! La terza, quando viene in primissimo piano e i decibel proprio aumentano. Allora va via il nudo e sotto il nudo c’è il “far la corte”, c’è questa cosa qui, che Ginevra sbaglia come attrice, giustamente. È convo­ cata per quello, da madre natura. E sotto questo c’hai dei de­ cibel in aggiunta: c’hai il primissimo piano. La luce segue questo: e a questo punto entrano gli archi, quelli che diffon­ dono il bianco, che cancellano ogni soma. E ci siamo, perché stiamo parlando di un’occasione truccata da operino da ca­ mera. Non so se rendo l’idea... UA: Si, sì. Questo lo capisco perfettamente!

CB: Ma qua e là, che possa ricascare... e soprattutto nel­ la seconda parte, quando comincia a smarginare il playback, dove dis-attende, dove si sente il parlato da un lato e che si in­ serisce solamente nei vuoti, come a diventar memoria: qual­ cosa che è oblio al tempo stesso, come in una medaglia, il ro­ vescio borgesiano... Memoria e oblio coincidono a questo punto. Fino all’agghiacciante sedersi sulla seggiola del Neri. Già dalla luce... Quello è un fatto originario, non è assolutamente un fatto detto, è non detto...

UA: Ecco, ecco, ecco... Mi hai chiarito. CB: In quanto non detto, non in quanto detto! Perché è

Un dio assente ! 87

detto soltanto nel registrato, della memoria. La lettura cosa fa d’altra parte? Per ottenere l’oblio...

UA: Quindi, ricapitolando... Perché intenda chiaramen­ te: c’è... CB: È proprio per esser nell’oblio, che bisogna leggere! Perché se questo occupa anche un dieci per cento della me­ moria, della memoria d’attore, il gioco è finito. Perché allora o devi completamente abbandonare ogni non dico “senso”, ma chiamiamolo “senso”, che poi sia mancato, è un altro fat­ to, e quindi nella de-cantazione, nella sovrumanità attoriale cercare di smarcarlo, di dribblarlo, di smarginarlo, ma tro­ vandoti davanti... Solo leggendo lo puoi fare! Ma non perché tu stia leggendo quello scritto: proprio perché tu non vuoi leggere quello scritto. E devi meditare, devi sconcentrarti nel modo più assoluto. Questa è la vera concentrazione: scon­ centrandosi nel modo più assoluto. Ecco che - io dico - ri­ nunci alla volontà, volontà di ricordare, volontà che ti porta a riferire fatalmente, quindi a “porgere”, a fare queste cose stronze del teatro di tutto il mondo, o del canto lirico (non ne parliamo) o del belcantismo. Non così il Lied, che è fermo, me lo insegni. Fine della volontà, a questo punto (o almeno volontà pura o nolontà, come la chiama Schopenhauer) di qualunque cosa. Cosa sei? Sei completamente, talmente svuo­ tato, talmente vuoto che diventi non una macchina... Ti recu­ pera - e non la recuperi tu - un'originarietà, ti visita, sei visi­ tato. Questo senza amplificazione non lo potrei mai fare, co­ munque. Questo è fondamentale e nessun d’un cazzo l’ha ca­ pito. Maurizio stesso, ancora, sì, ha fatto qualche citazione qua e là, qualche saggio-assaggio, ma è fondamentale! Allora tu sei visitato. Ed è allora che scatta l’adeguamento di questa originarietà. E quand’è che il pubblico ha i brividi, anche nel­ la sua ignoranza? Quando scattano a teatro i momenti origi­ nari. Cosa proprio rara, eh! UA: Perfetto. Questa mi piace moltissimo come risposta.

CB: Tant’è vero che Bliimner reclamava la totalità atto­ riale, quello che io reclamo!

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UA: Certo, certo.

CB: Ma dobbiamo stare attenti: per reclamare una totali­ tà attoriale, bisogna vedere che scuola abbiamo. E poi non ci sono scuole che tengano. Perché quando mi si chiede, o mi chiedono dei consigli, i cantanti i soprano i tenori gli attori, quelli alle prime armi e no: «Cosa devo fare?». Non devi vo­ lere, devi cessare di volere! UA: Quindi lo stato di grazia... CB: E poi: «Tutta questa tecnica dove la metto?», mi di­ cono. Nel culo te la metti! Devi cercare una contro-tecnica, di dis-volerla... UA: Scusa Carmelo, ma quando raggiungi l’originario...

CB: Ecco il termine: contro-tecnica! Perché se no avrem­ mo allora un mistico, un asceta che convoca una platea di due­ mila persone a sera, o centomila che siano, per dire «Aspettate, che forse ora arriva la grazia». Questo che vuol dire? Questo è patetico. Patetico, cretino soprattutto! No. Devi sconcentrarti al punto tale, devi scomparire al punto tale, che nell’ascolto tu t’abbia a perdere. E allora non c’è mediazione! UA: Son d’accordo con te su questo punto! CB: Non sei un mediatore.

UA: Ma mi pareva che ieri me lo contestassi questo pun­ to e oggi...

CB: Nooo! Quando agisci con più presenze sulla scena devi stare attento, perché non puoi trovare tante e tante di quelle presenze assenti, disposte a sgambettarsi, ad assentar­ si. Bisogna andarci piano. Ma non rischi la confezione. Que­ sto sì. UA: Allora, ascoltami: la domanda che ti faccio è que­ sta: in questi rari istanti di - chiamiamoli così di grazia - cioè nei momenti dell’oblio, della perdita di sé assoluta...

CB: Ma intanto, scusa, all’inizio, quando entri, sgam­ bettarsi, assicurarsi la disgrazia. UA: Perché la disgrazia è la condizione della grazia.

Un dio assente / 89

CB: L’handicap, l’handicap continuo, fare di te un han­ dicap e così tu diventi l’handicap. UA: È giusto che la disgrazia è condizione della grazia, se viene? CB: Ma anche se non viene, c’è già il disagio della di­ sgrazia.

UA: Sì, sì, sì... Questo mi piace molto. CB: E allora il disagio della disgrazia è una cosa, ecco, che non è la scena del dispiacere, soltanto, no. UA: Eh sì. In qualche modo viene a essere scavalcata! Se la disgrazia è condizione della grazia, in qualche modo la scena del dispiacere diventa una tappa, non so, qualcosa dei

genere, un...

CB: Il disagio della disgrazia, lo chiamo io. UA: Perché irrompa lo stato di grazia. Ieri ti parlavo del­ la notte dei mistici, dell’arsura, quella petrosa, quella della negatività.

CB: Sì, ma noi, oltre a interessarci alla mistica, cosa che Lacan consiglia sempre... UA: Lo so bene! Dicono che era un iniziato!

CB: Bisogna vedere come si può poi fare di questo una contro-tecnica, come io la chiamo, che garantisca... UA: La grazia.

CB: No, che garantisca le serate, a teatro! Senza il con­ cetto di replica, attenzione! Scapolando anche il concetto di replica. È lì che ci avventuriamo. Ora trovo che la Cena...

UA: Ma capisci che ora noi abbiamo toccato un altro ta­ sto rispetto a ieri, più, diciamo, vicino a quelle che erano le mie attese... CB: Però, vedi, è tutto quanto in nuce. 11 lavoro fatto con Ferrero è talmente... è durato un anno e mezzo, in studio, in elaborazioni, e siamo lontani da quello che si andrà a fare e a disfare, alla Biennale, diciamo, e spero anche in Pentesilea, in questo Achilleide prossimo, ma ci sono dei momenti, se fai

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caso, già esitati. Ecco. Esitati è un brutto termine... sproget­ tati già sufficientemente, alla grande. UA: Sì. E questo lo capisco.

CB: Il finale dello spettacolo è agghiacciante. Superando l’apatia sadiana soltanto a teatro, come sai, si smarginerebbe fino a quanto si vuole, ma poi cosa fai? Fai Bob Wilson: cin­ que minuti e poi comincia a ripetere. Ma è ripetizione.

UA: Rispetto a ieri mi pare che abbiamo messo a fuoco un punto che a me interessa in maniera particolare: ed è quel­ lo che tutto lo stato di decostruzione, di disgrazia, di handi­ cap, di, diciamo, messa tra parentesi della “fantasmagoria” come in Schopenhauer: questo mondo dello spettacolo, della storia, della peripezia - tutto questo momento è prelusivo (può esserlo o non esserlo) a un istante che, invece, tu chiami di grazia, cioè in cui si crea l’Ascolto con l’a maiuscola. CB: Ma non vorrei creare l’asceta, però, eh!

UA: Lo so! Però dico: non voglio forzarlo, però mi pare di capire che dentro di te c’è questo meccanismo. Ieri me lo rifiutavi, oggi invece me lo sostieni. Perché c’è sempre stato nei tuoi testi, quando mi parli del sacrale, del dionisiaco...

CB: No, guarda, veramente, non son d’accordo. Il dioni­ siaco è una cosa che non sappiamo cosa sia stato, è la festa che coincide con la morte.

UA: Ma quando mi parli dell’oblio, che differenza c’è tra l’oblio e l’estasi? Nel momento in cui produci ascolto, quell’ascolto per cui cogli... C’è un passaggio da una interio­ rità a un’altra... CB: Lì si diventa, come diceva Deleuze proprio su me, «straniero nella propria lingua». UA: Lo so.

CB: E sei già...

UA: Ma capisci che questa è ancora una condizione ne­ gativa?

CB: Non è una condizione negativa!

Un dio assente ! 91

UA: No, nel senso che essere straniero alla lingua non

consente ancora... CB: Alla propria... UA: Alla tua, alla lingua materna... CB: Però ti lasci intendere dai cinesi. Hai detto niente! UA: Eh! Ma la chiamavano Engelsprache o lingua degli angeli...

CB: Ma non è l’esperanto, attenzione! Non è che mi la­ sci intendere per concetti...

UA: No, no, per carità! È un fatto musicale, ci manche­ rebbe! L’esperanto è un fatto concettuale.

CB: Sì, ma il fatto musicale se non lo smargini, anche quello, rimane un fatto di compiacimento. E allora torniamo al virtuosismo, alla tecnica. Non alla contro-tecnica. UA: Ecco, questa è una precisazione che merita di esse­ re puntualizzata. CB: Vale anche per la musica. Quindi se il fa, manque del parie soltanto, è proprio il parie e questo è il fallimento del fa parie / fa manque, un còte di questo spettacolo... Della scena. Sì. E allora si pone il differimento del godimento co­ me godimento dell’Altro. È esemplificativo. Ma non è quel­

lo, quello che... Se salti questa fase, se riesci qua e là... Sai, sono dei momenti a smarrirti neH’originario (e non nell’ori­ ginale!), cioè avere a che fare con i significanti.

UA: Puri.

CB: Si, ma i significanti mica li puoi conoscere. I signi­ ficanti sono stupidi, come direbbe Lacan. Come fai? È il sor­

riso dell’angelo! Che c’entra? Son belle parole. Fautfaire di­ cono in Francia, nelle Gallie. Su questo han ragione, no? UA: Faut faire cosa vuol dire? CB: Ilfautfaire. UA: Ah! Occorre fare!

CB: Il discorso diventa... E allora: siccome

un’altra

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cosa dall’asse Freud-Lacan - l’essere parlante non è mai nel discorso, il discorso che facciamo non è mai il discorso che facciamo, ma la rimozione, il trauma la rimozione di un altro trauma eccetera. Tutte cose che l’attorialità dovrebbe sapere prima, e poi interdirsi qualunque cosa. Questa interdizione dell’attore - handicap, chiamalo - gioca un ruolo fondamen­ tale. Cosa succede? Succede una cosa interessante: che se tu smargini il parie, smargini anche il manque. UA: Chiaro. CB: E allora per me l’essere, l’ente, heiddeggeriano, co­ me vuoi tu, o in forma di metafisica l’Altro con la a maiusco­ la, mi diventa sai che cosa?, una flatulenza. E per me io la chiamo flatulenza dell’essere. Oh! Rise un sacco, mentre preparavo Lorenzaccio, Maurizio. E su questo appena ho tempo vorrei scribacchiare due chiose. Impossibile, però, io non ho tempo come voi, fortunati, di potere... I mestieri ci portano altrove. UA: [ride] Eh, eh!

CB: Ecco dov’è il manque, lo spiega Maurizio: non è una scena mancante, è la camera da letto mancata. È un altro fatto. È tutto il discorso. Perché, se tu resti nel linguaggio, sei nel fa parie ! qa manque e quindi sei nell’Altro che gode ec­ cetera, ma se tu differisci il godimento non te ne frega assolu­ tamente nulla, perché per dirla con la santa Teresa d’Avila klossowskiana: «noi godiamo prima di desiderare». Questo è l’originario. Questo è in Bafometto. E l’Altro, con la a maiu­ scola, si cassa e rimane soltanto nei metafisici. Si salta. Per­ ché se tu smargini l’oralità nella mancanza, nel manque, ché il manque è uguale al qa parie / qa manque, ma se non smetti di parlare, se non parli più, e se recuperi una nota originaria, assolutamente non sei più in casa. Ma allora l’Altro sei tu so­ lamente con i suoni che emetti, al di là degli orifizi con cui li emetti, sarebbero i souffles, i soffi klossowskiani. Può essere anche l’ano, ma la bocca è una cavità...

UA: Una grotta, tu dici.

CB: Questo è il discorso! E cos’è che emetti? Cos’è che

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rutti? Cos’è che sputi fuori? L’Altro, la flatulenza dell’Altro. Senti puzza di Dio. E ti vien male. E lo sputi fuori. Qui io de­ vo arrivare. E qui che il misticismo artaudiano si è incastrato nei doppi, nel doppio soltanto. Allora aveva ragione Klos­ sowski nel saggio su me, sull’attore romano: «Ditemi allora quanti doppi ci sono!», di quanti doppi si abbisogna, in que­ sto caso. Ecco dove si ferma il misticismo di Artaud, a parte 1’Artaud scrittore, che è grande.

UA: Certo. È quello che volevo sostenere ieri: se tu fai

solo un lavoro di decostruzione, senza che compaia questo momento epifanico - perché quello che mi hai descritto è un momento epifanico - tu arrivi nella proliferazione infinita dei doppi... CB: Non c’è nella scena questo, però, la proliferazione dei doppi sulla scena non c’è... perché è uno spettacolo ba­ rocco: cucito talmente... con quattro-cinque codici... è come coprire con veline... e il linguaggio è già saltato li: salta nel suo insieme, il linguaggio. Non salta su una zona. UA: Ecco, vedi, questo, Carmelo, è il dubbio più forte che io ho...

CB: Ma non salta su una zona dei palcoscenico! Non salta su questa o quella zona! Salta sul totale del palcoscenico, del­ l’inquadratura, diciamo, del quadro, è sul totale che salta. UA: Ecco, l’elemento di riserva più forte mio era que­ sto... Maurizio insiste, da un capo all’altro lo dice chiarissi­ mamente, che qui salta il linguaggio.

CB: E qui son d’accordo. Si è arreso anche lui: non ci credeva.

UA: Salta il linguaggio completamente. Però Maurizio prende delle cautele filosofiche, perché quando dice che (sic­ come lui è un derridiano, conosce Derrida) in un certo mo­ mento Carmelo propone la differenza pura, la scena di Car­ melo è la scena della differenza, in cui compare la differen­ za... Ma in un certo momento la formula derridiana dice «la differenza non si può dire».

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CB: Chi lo dice?

UA: La differenza non è esprimibile o attestabile. CB: Evidente. Appunto. UA: Certo. Non è...

CB: E chi la esprime? Chi la dice?

UA: Deve soltanto trapelare, non lo so, manifestarsi tra­ mite i doppi che si scontrano.

CB: Ma non è un gioco di doppi, la differenza. La diffe­ renza è la ripetizione senza concetto. È definita così bene da Deleuze. Perché...?

UA: Perché quando tu usi un termine come per esempio “smarginare”... CB: Lui lo usa! UA: ...devi fare riferimento a margine. Voglio dire, tutte queste messe tra parentesi richiedono la presenza del lin­ guaggio, che tu smargini: hai di fronte il margine e giochi sul filo, sul bordo.

CB: No, no, no, no! Se tu vai fuori, vai fuori, se ti metto quattro veline (esempio che fa Klossowski su Sade, nel Filo­ sofo scellerato} tu non vedi più niente.

UA: Un termine come smarginare, che tu usi spesso... CB: Lo usa lui! UA: Lo so! Ma deriva da Margini di Derrida e Derrida ti dice che puoi solo giocare sul bordo.

CB: Ma è dal pentagramma! Che c’entra? Dal penta­ gramma. Smarginare è andar fuori dai margini, dalle cinque righe del pentagramma. UA: Questo lo capisco perfettamente.

CB: Sì, ma se vai fuori dal foglio! Completamente... UA: Ma il gioco non avviene qui? Sul bordo? O fuori?

CB: Fuori, fuori! Tutto fuori! Questa è la differenza: quello che vedi sulla scena è questo, ma il gioco è tutto quan­ to fuori. È osceno. Per cui la Cena delle beffe è il primo spet­

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tacolo “pomo” che io faccio. È il complementare di Loren­

zaccio. Questa è la differenza. Che è indicibile e inconcettualizzabile. UA: Appunto! Indicibile si, ma anche inconcettualizza-

bile.

CB: Ma indicibile sì! Il dicibile si dice, lo dice Heideg­ ger, anche un metafisico, è l’indicibile. È impensabile!

UA: Se mi dici Heidegger son perfettamente d’accordo con te, ma non Derrida!

CB: Ma non mi importa cosa pensi il signor Derrida in merito. Non può essere un pensatore a farmi cambiare. Biso­ gna farlo'. UA: Ma io sono d’accordo con te! È da ieri che conti­ nuavo a insistere: secondo me tu ti muovi fuori quando hai lo stato di grazia. Io dico questo, per intenderci. Non quando decostruisci.

CB: Io so che tutto quanto è in quest’accumulo di mate­ riali, che poi son pochi, che metto in scena, è tutto da dribbla­ re! E nascono già dribblati, già in parte. UA: Sì.

CB: Ecco. Ma questa de-scrittura di scena non ci sareb­ be se non vi fosse, preparato... UA: ...in funzione dell’originario.

CB: Un allenamento alla rovescia, un riscaldamento per andare in campo...

UA: Una corsa ad handicap... CB: Un’attorialità alla rovescia, per poi dentro giocarti, professionalmente intanto, questa disgrazia.

UA: Sì. CB: Quindi tu vedi una bella “smarginatura”, è come ve­ dere un quadro bianco! Pam! Questo io lo chiamo vuoto. Non tutta l’arte ha questo.

UA: Certo.

96 ! Umberto Artioli - Carmelo Bene

CB: Perché l’arte ti fa vedere quello che si vede. Né più né meno.

UA: Certo, certo. Quindi noi, quando insistiamo sull’ap­ parato descrittivo, nel dire come vai in disgrazia, come crei tutta questa serie di destrutturazioni del testo, sono elementi preparatori a questo vuoto. Intendo questo, o sbaglio?

CB: Ma certo! È normale. Ma poi ha ragione Cioran: va al di là dell’arte, va al di là della poesia, va la di là dei misti­ ci, va al di là dei santi, va al di là di tutto. Non c’è più niente: il vuoto è il vuoto! È il minerale di Freud. UA: Sì, però tu mi dici che da questo vuoto viene fuori una flatulenza, negli stati di grazia.

CB: Noooooo! Non mi son spiegato. Se sei nell’orale...

UA: Sì... CB: Come dice un discorso sul tentativo orale di stare a letto insieme tra Giannetto e Ginevra... «Tu dormivi...» - Ne­ ri la rimprovera, «cazzo fai?», è il rimprovero del regista al­ l’attrice, poi piange, è disperato - «...agitata e quieta / tu sen­ tivi / nel sonno forse la mia bramosia, / come una proda del maggio che s’approssima / e, invece di scacciarmi, il tuo re­ spiro / mi diceva un invito...». Verso bellissimo, tra l’altro. Grande verso. Il traslato «agitata e quieta» è bellissimo. Poi: «Non sapevi; / tu non sapevi. Questo era il furtivo mio godi­ mento». E Ginevra: «Ed io non ne godevo». Non è che il testo sia scelto casualmente...

UA: Certo... CB: Ooh! La macchina gli si rompe, il robot del Neri, il godemichet è finito... L’attrice non è all’altezza, come sba­ gliavano con Masoch perché invece di tradirlo gli erano fede­ li... Io dicevo che quando sei nell’orale, e nel manque, ci sei finché sei nel parie, nel