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Italian Pages 408 [405] Year 1998
Traduzione dall’americano di Manlio Benigni
L’editore si dichiara disposto a ottemperare ai suoi obblighi per la riproduzione delle immagini nei confronti degli eventuali aventi diritto.
Copertina di Jesse Marino# Reyes
Titolo originale: «The Monster Show» © 1993 David J. Skal © 1998 Baldini&Castoldi s.r.l. Milano TCD\T OO OAOQ 4 04 O
A Hilary, Malaga e Scott
Indice
Il baraccone di Camelot
il
L’America di Tod Browning
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«Tu diventerai Caligari.» Mostri, millantatori e modernismo
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B circo del terrore
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I mostri e Mister Liveright
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1931: l’abisso americano
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Campagnoli infuriati
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«Tu mi ricordi tuo padre.» Gli orrori della guerra, parte seconda
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I drive-in sono i migliori amici dei mostri. L’horror negli anni Cinquanta
196
Il rintocco del camposanto
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Mi dispiace, ma è nato vivo
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Scar Wars
269
Sangue infetto
292
Cannibali reaganiani
313
Mostri di fine millennio
340
Postfazione all’edizione italiana
349
Ringraziamenti
359
,
Note
363
Indice analitico
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Vi mostrerò cosa significhi l’orrore.
Fredric March in 11 dottor Jekyll (1932)
Il baraccone di Camelot
È difficile ridere all’esigenza di bellezza e amore, per quanto i risultati siano pacchiani, persino orribili. Ma sospirare è facile. Poche cose sono più tristi del genuino orrore. Nathanael West, Il giorno della locusta (1939)
Nell’ottobre del 1961, in un’America generalmente d’umore ottimista, briosa come le inconfondibili maniche a sbuffo di Jackie Kennedy, Diane Arbus meditava qualcosa. Si era imbucata nel New Yorker Theatre di Manhattan all’angolo fra Broadway e 1’88" Ovest, ad ammirare per la terza volta in altrettante sere le imponenti immagini di donne che non avevano alcun bisogno di parrucchiere. In fin dei conti, le pinheads dalle teste a punta non avevano capelli da accon ciare. E pure un cappello a cilindro era un articolo di moda improponibile con un cranio grande quanto una palla da softball. La Arbus diede un tiro di marijuana. La dolce nuvoletta di fumo appena esalata si librò davanti alle ombre nitide. In fatto di moda la sapeva lunga; era una fotografa, dopotutto, e si era fatta un certo nome: il lavoro svolto insieme al marito Alan compariva regolarmente su «Harper’s Bazaar», «Gla mour» e «Vogue». Ma in lei c’era un’altra parte cui non basta va il mondo della fotografia commerciale; avvertiva un cre scente bisogno di trovare e creare immagini in assoluta antitesi al glamour. Le pinheads erano grandiose. E oltre a loro c’erano nani coi testoni, gemelli siamesi, un uomo privo di braccia e gambe che strisciava per terra come un verme, un «mezzo ragazzo» che correva sulle mani, uno scheletro umano e molto altro ancora.1 Il film le fu fatto conoscere da un amico, il gallerista Emile de Antonio, noto ai più come «De». Talvolta, scherzando, si definiva «un vampiro di mezz’età»,2 riferendosi probabilmen
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te all’immagine attentamente calibrata di ragazzaccio e al pro prio leggendario alcolismo. «Bere», disse una volta De, «è la mia primaria fonte di alimentazione.»3 Pure cineasta, stava per iniziare un documentario tratto dai cinegiornali sulle audizioni maccartiste. Anni più tardi, a motivo dr'un altro documentario politico, Millhouse (t. lett.: La prigione) avrebbe sbandierato con orgoglio l’inclusione nella «lista nera» alla Casa Bianca di Nixon. Il lato documentaristico di quel film proiettato al New Yorker lo interessava, e sapeva che sarebbe piaciuto anche a Diane Arbus. Freaks (id.) era stato girato dalla Metro-Goldwyn-Mayer nel 1931 e distribuito l’anno successivo per benefi ciare dell’enorme successo di Dracula (id., 1931) e Franken stein (id., 1931, di James Whale), prodotti dalla Universal. Il regista di Freaks, Tod Browning, aveva diretto oltre a Dracula diversi altri film di successo su ossessioni morbose, deformità e mutilazioni. Ciononostante Freaks fu considerato tanto orri bile da venir rinnegato dalla MGM e bandito dai censori euro pei per quasi trent’anni. Secondo una leggenda, il negativo ori ginale era stato lanciato senza troppe cerimonie nella baia di San Francisco. La vicenda del film era ambientata in un circo, ed era di una semplicità fiabesca, oscura e insieme sconvolgente. Una bellissima trapezista (Olga Baclanova) sposa un nano per de naro. Durante il banchetto in pompa magna, viene festeggiata dai fenomeni del circo e accettata ritualmente come «una di noi». Ma la sposa alticcia reagisce con repulsione, e non viene perdonata. I freaks la spiano, pazienti, mentre tenta di uccidere il marito con piccole dosi di veleno. Una notte, al culmine di una furiosa tempesta, ecco la vendetta. Nel folto di una foresta deva stata dalla pioggia, la assalgono. Nell’impressionante epilogo, vediamo il risultato della loro rudimentale chirurgia combinato con un abbigliamento pagliaccesco: un miscuglio inarticolato e gracchiarne di donna e gallina, un patetico fenomeno confinato in uno squallido pozzo. In Diane Arbus, la sua biografia del 1984, Patricia Bo sworth dipinge la scoperta di Freaks da parte della fotografa come una rivelazione. «Era sconvolta perché i freaks del film
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non ciano mostri di fantasia, bensì reali.» Le anomalie umane «Tacevano sempre eccitata, sfidata e terrorizzata perché sfida vano tante convenzioni. Talvolta pensava che il proprio terrore fosse legato a qualcosa di radicato nel subconscio. Osservare lo scheletro umano o la donna barbuta le richiamava un sé oscuro, innaturale, nascosto».4 La Arbus aveva già scattato qualche foto di gemelli e nani, ma la scoperta del film di Browning significò una spinta ulte riore. Cominciò a frequentare uno degli ultimi freak show ame ricani, l’Hubert’s Museum sulla 42". Visti dal vero, i fenomeni erano ancora più sconvolgenti e affascinanti che nel film. Se condo la Bosworth, la reazione della Arbus alla donna canno ne, al ragazzo foca, e all’uomo con tre gambe fu un’ansiosa eccitazione viscerale, accompagnata da sudorazione e palpita zioni.5 Inizialmente i freaks erano restii, ma gradualmente fini rono per accettare la presenza costante della volitiva donna dai capelli scuri, e acconsentirono a essere esaminati dalla sua macchina fotografica. Forse non le era sfuggita un’eco della famosa battuta di Freaks, e senza dubbio ci provava gusto: «Noi la accettiamo come una di noi! » La Arbus riprese i pro pri soggetti con una Rollei a formato quadrato e una pellicola in bianco e nero a grana fine, guadagnandosi un convincente e spietato catalogo di immagini proibite o deliberatamente ignorate prima di lei dalla fotografìa moderna. I deformi. I ritardati. Gli ambigui. I moribondi e i morti. Tutto ciò che,/ probito dalle buone maniere, la gente voleva comunque vede re. Aveva detto alla sua mentore Lisette Model di voler foto grafare «ciò che è male»,6 per lei evidentemente sinonimo di tabù. E poiché risulta difficile dubitare del male autentico e distruttivo alla base delle sue fotografie, Diane Arbus si costruì senz’ombra di dubbio una nicchia di ragazzaccia senza rivali fino all’avvento negli anni Ottanta del bad boy Robert Mapple thorpe. Anche le sue sarebbero state fotografie di formato qua drato in bianco e nero, per racchiudere un immaginario proi bito nell’artifìcio della classica natura morta. La Arbus evitava composizioni studiate ma possedeva manierismi riconoscibili che evocavano i volti morti-vivi dei dagherrotipi e il formali smo imbalsamato del museo delle cere.
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Se avesse letto i necrologi, la Arbus avrebbe saputo della morte nel 1962 di Tod Browning, da lungo tempo ritiratosi in California. Ma questo non avrebbe aggiunto nulla alle sue conoscenze e intuizioni. Aveva compreso l’America di Tod Browning meglio di chiunque altro. I «mostri» erano dovun que; l’intera vita moderna poteva essere considerata come uno spettacolino pacchiano, guidato da sogni e-paure di alienazio ne, mutilazione e morte nelle sue quotidiane declinazioni. Le famiglie operaie emergevano attraverso l’implacabile obiettivo della Arbus come esiliati in un baraccone suburbano. Le anzia ne distinte della bella società erano strette cugine dei travestiti di Times Square. Sorpreso al momento giusto, praticamente chiunque poteva sembrare menomato. L’America appariva co me una fiera di fenomeni da circo. Fu una rivelazione, uno scopo e una dottrina. L’anno successivo alla scoperta di freaks, la fotografa si imbattè nel Dracula di Tod Browning, non in un cinema, ma tatuato sul tronco di un uomo che si faceva chiamare Jack Dracula.7 La parola DRACULA compariva anche all’interno del labbro inferiore. Il mostro di Frankenstein occupava lo spazio proprio sopra l’ombelico, vicino al minaccioso Fanta sma dell’Opera e attorniato da una congerie di pipistrelli, ser penti, licantropi, diavoli, spiriti malvagi, draghi alati e uccelli predatori. Complessivamente, Jack aveva più di trecento ta tuaggi, il primo dei quali, riferiva la Arbus, era l’immagine di un perno d’acciaio impiantato nell’incavo del braccio. Sulla pelle erano incisi a vita i nomi BORIS KARLOFF, BELA LUGO SI e LON CHANEY. L’uomo aveva cominciato a tatuarsi all’incirca nello stesso periodo in cui i classici horror hollywoodiani erano stati riproposti in televisione nei tardi anni Cinquanta. Ormai era diventato un festival dell’orrore semovente, un aral do della crescente «mostromania» che stava conquistando l’immaginario dei bambini d’America, fra i quali si contavano a decine di migliaia i devoti lettori di riviste con titoli come «Famous Monsters of Filmland» e «Castle of Frankenstein». A differenza di Jack Dracula, la maggior parte dei mostrofili decorava i muri della camera da letto invece della pelle; i loro esperimenti fìsici non andavano oltre passeggeri effetti di truc
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co nel corso di riti di passaggio e iniziazione adolescenziale alquanto annacquati benché inconfondibili. Ma Jack aveva fat to un passo più avanti dei fan da tavolino, usando i mostri come veicolo di una vera e propria trasformazione fisica. Come il suo vampiro d’elezione, Jack doveva evitare prolungate espo sizioni ai raggi solari; i disegni sensibili alla luce contenevano una tintura a effetto permanente che poteva rivelarsi velenosa. Jack Dracula fu un catalizzatore per le energie delle oscure divinità di cui tratta questo libro: entità mutevoli che si agitano nell’immaginario contemporaneo come sculture di sogno in una giostra tenebrosa. A ogni rivoluzione si evolvono, attiran do con successo la nostra spasmodica attenzione. Questo caro sello, mutante nenia di Calliope, è dominato da quattro icone: Dracula, il vampiro in vesti di uomo; la complessa creatura morto-vivente di Frankenstein; il dualismo licantropico del dottor Jekyll e Mister Hyde; e il freak di un baraccone da incubo - forse il più disturbante, senza braccia né gambe, con torto o mutilato, ora minuscolo ora immenso - che cambia ogni volta che lo si guarda, una violazione del nostro senso più radicato della forma umana nei suoi confini naturali. La giostra gira lenta, ma inesorabile; se uno la fissa abbastanza a lungo, alla fine un mostro sfuma in un altro. Il servizio fotografico di Diane Arbus su Jack Dracula ap parve nel numero di novembre 1961 di «Harper’s Bazaar», la stessa pubblicazione che aveva in precedenza ospitato i suoi servizi di moda. In una valutazione retrospettiva, il critico d’ar te Hilton Kramer sottolineò questa esplosione di grottesco ci tando il pensiero di Baudelaire secondo il quale, là dove la moda rappresenta «una sublime deformità della natura», il campo artistico della Arbus non presentava paradossi. Il mon do della moda, scriveva Kramer, «è un mondo di artificio con sapevole, di invenzione cosmetica e sartoriale, un mondo... in cui i criteri di normalità sono sotto costante revisione e abbelli mento. [...] Non riesco a pensare a una migliore “scuola” per lo studio delle deformità umane di questo mondo».8 Inevitabilmente, la Arbus andò a caccia di prede maggiori di quelle offerte dai baracconi di Times Square. Dan Talbot, allora alla guida della New Yorker Film Society, si accorse
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appena della presenza della fotografa nel proprio cinema du rante la settimana di proiezione di Freaks. «Era talmente at tratta dal grottesco, che non mi sorprendeva»,9 ricordava. Egli in seguito funse da intermediario quando la Arbus manifestò l’intenzione di fotografare l’anziana Mae West per la rivista «Show». «Lo feci con una certa dose di trepidazione», ricor dava Talbot. Si era guadagnato la fiducia di una star notoria mente ultrariservata con una corrispondenza infittitasi quando aveva riproposto certi film dell’attrice. Nonostante la fama del la Arbus come rispettabile fotografa di moda - le sue immagini più perturbanti non erano ancora di pubblico dominio -, Tal bot provava disagio per le sue finalità. Quando il sevizio uscì, i suoi peggiori timori trovarono conferma: le crude immagini della fotografa (in una la star si accoccolava nel letto con una scimmia le cui feci, apprendeva il lettore dal freddo testo della Arbus, giacevano tranquillamente sparse sulla moquette bian ca del salottino) avevano mutato la ormai in declino regina del sesso in un fenomeno spettrale. Talbot ricevette una furibonda cartolina dalla West, i cui avvocati minacciarono l’editore della rivista. Ma la Arbus continuò a perseguire la sua nuova estetica del macabro con una passione da zelota. Nel 1967 sia Diane Arbus sia Freaks erano entrati nel Mu seum of Modern Art: per vie diverse, ma non v’è dubbio che si siano reciprocamente aiutati. Il film di Browning era stato riscoperto e canonizzato dalle influenti riviste cinematografi che europee degli anni Sessanta, il decennio, secondo Susan Sontag, nel quale «i freaks divennero pubblici, un soggetto artistico sicuro e approvato».10 Per la Sontag, la Arbus rap presentava la «sovversione estetica», un fenomeno peculiare degli anni Sessanta che promuoveva «la vita come spettacolo orrorifìco come antidoto alla vita come noia».11 Gli anni Sessanta di Andy Warhol segnaron© l’inizio di una tendenza verso estremi senza precedenza nelle immagini dei media. Freaks, con la sua resurrezione, fu un traino fonda mentale in questo processo, che comprendeva i film di Warhol (un’opera che sarebbe culminata in bizzarre versioni di Dracu la e Frankenstein), Fellini Satyricon (di Federico Fellini, 1969), le riviste di mostri, e Diane Arbus. Come riassume la Sontag:
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L’opera della Arbus è un buon esempio di una tendenza do minante nella grande arte dei Paesi capitalisti: sopprimere, o almeno ridurre, la schizzinosità morale o sensoria. Gran parte dell’arte moderna è devota all’abbassamento della soglia di ciò che è terribile... La nostra capacità di digerire il grottesco crescente nelle immagini (in movimento o immobili) e nella stampa ha un prezzo ambiguo... Una pseudofamiliarità con l’orribile rinforza l’alienazione, rendendoci meno capaci di reagire nella vita reale.12
La posizione della Sontag è spesso citata nelle discussioni sulle forme estreme di comunicazione, siano queste film hor ror, pornografìa, o le fotografìe di Diane Arbus. In queste di scussioni passa sotto silenzio un paradosso: mentre certe perso ne sono desensibilizzate, altre - gli stessi critici - diventano acutamente, solipsisticamente sensibilizzate, arbitri definitivi sulla terra precisamente di ciò che è o non è «orribile». Que ste critiche non tengono in conto che nelle immagini mostruo se ci può essere più di una degenerazione culturale, o che pos sano contenere una ricca, pur se nascosta, cultura originale. Gli ultimi anni della Arbus furono rattristati da instabilità e depressione, e certamente forniscono la facile impressione di una donna prostrata e distrutta dalle immagini che maneggia va. Ma la vicenda personale della fotografa non spiega perché le sue immagini trovassero eco nella cultura, o per quale moti vo gran parte dell’immaginario nel XX secolo sia stato devoto a rimuovere le maschere e le croste della civilizzazione, per trovare, coltivare e proiettare immagini da incubo dell’io se
greto. U 26 luglio 1972 Diane Arbus creò l’immagine estrema. Dopo avere scarabocchiato nel diario le parole «L’ultima ce na», si somministrò un letale banchetto di barbiturici. Non cerano nani a festeggiarla. Fu trovata diversi giorni dopo, quando cominciava a decomporsi sul fondo di una vasca pro sciugata, come Olga Baclanova nel pozzo, sua estrema destina zione. (Si disse - benché non sia mai stato accertato - che avesse approntato una macchina fotografica per registrare la propria morte.)15 Verso la fine della sua vita, nel periodo della
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guerra in Vietnam, Diane Arbus aveva lasciato un segno dure vole nel mondo del fotogiornalismo, ormai meno reticente nei confronti di immagini di franchezza e brutalità senza prece denti: bambini colpiti dal napalm, esecuzioni per strada, il massacro di My Lai. Molte storie del genere onorifico cominciano con antefatti mitologici e letterari: gli orrori e i mostri dell’antichità trovano espressione nella novellistica popolare del XIX secolo presa in prestito e «migliorata» dai mass media del ’900, che portano a mostri più grandi e migliori, film più costosi, urla più forti, spettacolari tecnologie del terrore. In breve, la storia viene pre sentata semplicisticamente come un’autoindulgente cronaca del «progresso». L’importante non è il progresso. Nella struttura sommersa delle immagini onorifiche cambia veramente pochissimo, ben ché l’uso culturale che ne facciamo cambi forma come Dracu la. Più di trent’anni orsono, Leslie Fiedler, in Amore e morte nel romanzo americano^ identificava certi modelli archetipici del sogno americano. «La nostra letteratura», ha scritto, «non è una mera fuga dai dati fìsici del mondo reale... È, in misura
che sconcerta e imbarazza, una narrativa gotica, non realistica e negativa, sadica e melodrammatica, una letteratura oscura e grottesca... una letteratura onorifica per ragazzi.»14 Lo studio di Fiedler fu pubblicato nel 1960, al vertice del Camelot kennediano. Le preoccupazioni che egli allora identi ficava come implicite nella narrativa del XIX secolo sono dive nute le ossessioni esplicite della cultura popolare odierna. Nel 1960 Diane Arbus cominciava appena a interessarsi ai freaks (argomento di un altro libro di Fiedler15), e il resto della sua carriera può essere considerato, in parte, come un’immersione mozzafiato nei temi e nelle immagini guida delle forme estre me di espressione mediatica etichettate ed emarginate come «horror». Come Tod Browning prima di lei, le ossessioni per sonali della Arbus hanno avuto, e continuano ad avere, un significato pubblico più ampio. Ma pèr poter comprendere Diane Arbus, prima dobbiamo accettarla. «Come una di noi»: un cittadino con pieni diritti nell’America di Tod Browning.
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L’America di 1 od Browning
«È solo il solito vecchio baraccone», disse Will. «Sicuro come il diavolo», fece Jim. Ray Bradbury, Il popolo dell’autunno (1962)
Tod Browning, steso nella sua tomba, mangiava caramelle al malto. Appena ventunenne, era già morto in diverse occasioni, anche se di solito restava stecchito solo un giorno per volta. Ma quella era un’occasione speciale: sarebbe rimasto sottoter ra quarantott’ore, per stupire ancora di più i creduloni là
sopra. Da quando era scappato di casa, cinque anni prima, Browning aveva svolto nelle fiere ogni genere di lavoro, dal l’imbonitore al contorsionista. Il suo attuale ruolo di «Ipnotico Cadavere Vivente», però, costituiva senza ombra di dubbio il punto più basso della sua carriera vagabonda. Aveva recitato questa parte fra le attrazioni principali di uno «spettacolo fluviale» itinerante, dalle fonti dell’Ohio alla foce del Mississippi. Tale tipo di baraccone forniva un costante ricambio di spettacoli di varietà per i parchi di divertimento lungo le sponde delle grandi vie d’acqua nel cuore dell’Ameri ca. E il genere di divertimento che attirava maggiormente le folle negli anni che aprirono il XX secolo era il sensazionale, il bizzarro, l’oltremondano, quasi ad anticipare prodigi e terro ri di una nuova era. Famiglie di nani itineranti. «Il Selvaggio del Borneo.» Rimedi manifestamente di fantasia. Cadaveri vi venti, riesumati di fronte ai tuoi occhi. Per i venticinque cente simi del biglietto d’ingresso si poteva assistere al seppellimento del signor Tod Browning (inaspettatamente «morto» il giorno precedente) e ricevere una contromarca per la sua esumazione e resurrezione la sera seguente. Una prova di un giorno era la norma; il seppellimento per due era più complicato, pur se
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uavia /. veai
maggiormente spettacolare: un camuffamento da freak show di fine settimana pasquale, e una garanzia di successo di massa? La prima volta era stata la peggiore. «Quando sentii la terra precipitare sulla bara, cominciai seriamente a tremare», raccontò Browning a un giornalista diversi anni dopo. Col tempo, arrivò quasi ad apprezzare quella reclusione. Le lunghe ore sottoterra, disse, erano particolarmente favorevoli alla ri flessione, ed egli ne ricavò il massimo. Nella considerazione del suo intervistatore, «quel periodo di pensiero intensivo con tribuì enormemente a delineare il destino di Tod e fu l’occasio ne per destare la scintilla di genio che riposava dentro di lui».1 A cosa mai si può pensare negli angusti confini di una bara di legno, a due metri sotto il suolo, sovrastati da una tonnellata di terra? Browning non era un maestro di respirazione yoga (la cassa conteneva un sistema di ventilazione nascosto, oltre a un pannello scorrevole che celava la provvista salvavita di caramelle al malto), così si può presumere che durante la pro va restasse in uno stato di coscienza più o meno inalterato. Ma nel corso di cinque anni trascorsi sulla strada vi erano stati indubbiamente grossi cambiamenti nella sua vita. Non era più Charles Browning, il ragazzo del coro di Louisville la cui voce angelica aveva ammaliato i fedeli. Adesso era Tod Browning, una persona senza fissa dimora che si ingegnava a vivere da solo, spinto dall’eccitazione di facili guadagni. U mondo era pieno di bifolchi da abbindolare. Era la maggiore risorsa ame ricana, questa fame di spettacolo e miracolo, non importa quanto pacchiani o palesemente falsi. Sempre meglio che lavo
rare. Charles Albert Browning era nato a Louisville, nel Kentuc ky, il 12 luglio 1880,2 secondogenito di Charles Lester Brown ing e Lydia Jane Fitzgerald Browning. Non era l’unico mem bro della sua famiglia in sintonia con la febbre per le ossessioni e i passatempi popolari: in passato suo zio, Pete Browning «il Gladiatore» (1861-1905), era stato un celebre giocatore di baseball, leggendario battitore per il quale fu originariamente progettata la mazza chiamata «Louisville Slugger» (il picchia tore di Louisville).3 Pete Browning era un chiacchierato sporti-
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vo, esplosivo c superstizioso che si godeva la celebrità. Era anche un alcolizzato che celiava: «Non riesco ad addomestica re la palla finche non ho addomesticato la bottiglia». La sua squadra, il Louisville Baseball Club, una volta lo aveva lasciato a piedi dopo una partita perché troppo ubriaco per trovare il treno. Nulla si sa dei rapporti di Charles con lo zio, ma le fortune del nipote si sarebbero colorate di un’analoga mesco lanza di spettacolarità e alcolismo. Browning aveva un fratello maggiore, Avery, che finì col diventare un fortunato mercante di carbone. Il ragazzo dimostrò una precoce attitudine alla recitazione, e durante le vacanze scolastiche cominciò a calcare le scene dei dilettanti in una baracca, a volte cambiandone anche cin que durante la «stagione» estiva. «Un ragazzo vivace», lo avrebbe in seguito definito un giornalista di Louisville, «bril lante come una moneta nuova di zecca e sempre pronto alla grande occasione.»4 Da ragazzo cantava nel coro della storica Christ Church Cathedral di Louisville, dove il pubblico poteva ascoltare la sua notevole voce (ci fu chi si spinse a dichiararlo un «fenomeno infantile» in senso vittoriano) gratis. Nel suo cortile, invece, raccoglieva un prezzo d’ingresso, dapprima in spilli e poi in penny. Dieci centesimi significavano un buon guadagno. Scrisse, diresse e recitò in produzioni che spaziava no dai musical ai melodrammi, e i suoi spettacoli attiravano un pubblico considerevolmente maggiore delle recite a pagamen to dei ragazzini rivali. «Conosceva il proprio pubblico e ne studiava i desideri», scriveva nel 1928 il «Louisville HeraldPost ». «Scoprì che se si dà al pubblico un prodotto in cambio di denaro, il pubblico è tuo, anima, corpo e deretano. E questo comprende entrambi i sessi di suddetto pubblico, perché en trambi i sessi sono portatori di deretano.»5 Browning si iscrisse alla High School tra 1’8* e Chestnut, senza mai conseguire il diploma. Il richiamo seducente del grande spettacolo era troppo prepotente per un ragazzo con un forte desiderio di mettere in piedi qualcosa, e Louisville abbondava di tentazioni. Era un porto di evidente richiamo per le imbarcazioni di grosso tonnellaggio, ma anche per i cir chi e le compagnie di repertorio che viaggiavano col treno di
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J.
città in città. Crescere nella zona del Kentucky Derby incorag giava inoltre un amore imperituro per un passatempo quale l’ippica. Il Derby attirava schiere di zingari,6 per i quali il ra gazzo provava forte attrazione e affinità. Nonostante gli ammo nimenti dei genitori, visitò i loro accampamenti e si guadagnò il più possibile la loro fiducia: in quanto gente di spettacolo, gli zingari facevano clan e sprezzavano gli intrusi. La cultura intorno a loro esisteva solo per essere truffata, imbrogliata, sfruttata e derisa. A sedici anni Charles si prese una cotta per una ballerina, una «regina del baraccone» nella Manhattan Fair & Carnival Company allora di passaggio a Louisville. L’attrazione sessuale gli fornì la spinta decisiva a intraprendere ciò che covava da anni. Nell’estate del 1896, soddisfo un’archetipica fantasia americana: scappare col circo. La fuga dalla vita e dalle responsabilità convenzionali è una delle grandi molle per la trasformazione nell’arte e nella cultura americane; Browning marchiò la propria trasformazio ne cambiandosi il nome in Tod per poi partire per un viaggio battesimale su e giù per i fiumi Ohio e Mississippi. Quelle acque dovevano contenere una proporzione insolitamente alta di sedimenti, perche il ragazzo gravitò in fretta e con gusto verso gli strati più bassi della vita circense: «latrava» come contrappunto a un finto «Selvaggio del Borneo». I finti selvag gi erano separati solo da un’inezia dal nadir assoluto nelle at trazioni da baraccone: il geek. Di frequente un alcolizzato col cervello fuori uso, il geek staccava a morsi le teste di topi e galline spesso solo in cambio della sua prossima bottiglia. Il «Selvaggio» di Browning era in realtà un nero del Mississippi con un trucco esotico; Browning inoltre abbelliva i propri im bonimenti con modificazioni polisillabiche del tipo reso popo lare da R.F. «Tody» Hamilton, leggendario addetto stampa per i circhi Bamum e Bailey negli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo. («Il tetro e torreggiarne Tody!» ricostruiva un collega di Hamilton, sforzandosi di imitare l’inimitabile. «E la sua trasmutazione trasmessa e traslata in tonnellate di lingue da trainanti torride tremende storie in terre traboccanti di tizi e trasformano triti e tristi trastulli in truismi terribilmente tosti
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The Monger Show
c trinitari.»1 Sempre secondo Hamilton, «definire un fatto in termini ordinari significa consentire un dubbio riguardante la sua veridicità».8) Browning adottò gli elenchi di pomposi ag gettivi di Hamilton, e li usò, appropriati o meno che fossero. Per i bifolchi, un parolone valeva un altro. Per certi ragazzi, il richiamo del mondo dello spettacolo, compendiato nel romanzo per bambini eternamente popolare Toby Tyler, or Ten Weeks with the Circus di James Otis (1881), è romantico e idealizzato. Ma per ciascun Toby Tyler dagli occhi sgranati pieni di sogni di splendente successo, esiste pure un Tod Browning, subito a proprio agio fra le ombre del poz zo dei mostri. Il grande scrittore di fantascienza Ray Bradbury, cresciuto con l’amore per i film creati da Tod Browning e Lon Chaney negli anni Venti, in seguito avrebbe posto al centro della propria opera immagini dell’«oscura giostra»: nere ruote di barconi che si stagliano nette contro cieli opprimenti; entità prive di nome e di forma esibite in barattoli di formalina; e l’intuizione dei bambini che i luccicanti divertimenti dell’in fanzia a volte arrivano talvolta in piena notte su treni funerei drappeggiati di nastri neri. Leslie Fiedler, discutendo le cor renti sotterranee ugualmente oscure di Huckleberry Tinn e altri classici americani, osserva che «la nostra letteratura nel suo insieme a volte pare una camera degli orrori travestita da parco dei divertimenti, dove paghiamo per giocare col terrore e nella camera più remota siamo posti di fronte a una serie di specchi incrociati che ci restituiscono un migliaio di versioni del nostro volto».9 Le fiere e i circhi hanno previsto incontri ravvicinati con il macabro sin dagli esordi. Il sergente maggiore Philip Astley (nato nel 1742), l’inglese inventore della moderna pista da cir co presto adottata anche nei baracconi, presentava fenomeni sia animali sia umani e altre bizzarre attrazioni. Secondo lo storico circense Peter Verney, « Astley, e gli impresari che lo seguirono, erano sempre pronti a sfruttare l’ultima attrazione. La ghigliottina, “secondo l’uso francese”, portò sciami di cu riosi nel suo anfiteatro, mentre le teste di cera riportate dalle trasferte parigine si rivelarono un’attrazione ancora maggio re».10 Il P.T. Barnum’s American Museum, fondato a New
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LOIVIU J. JKOI
York nel 1841, era un luogo di divertimento per tutti i gusti, incentrato sugli scherzi di natura. Secondo lo storico di freak show Robert Bogdan, il gabinetto di stranezze di Barnum «non era una volgare operazione ai margini dell’America vitto riana; era, invece, decisamente alla moda e legittimata».11 L’interesse maggiore per Bamum fu l’American Museum an cora più del circo. «L’idea fu più di un successo», scrive Bog dan, «fu una forza nazionale.»12 Nani, pinheads, gemelli sia mesi, albini, giganti per altezza e stazza diventarono tutti mate ria prima del tempo libero americano. La ricerca di attrazioni bizzarre era quasi senza fondo, ma raggiunse un ragguardevole nadir con il tentativo da parte del Sells-Floto Circus, negli anni Settanta del XIX secolo, di assumere Al Packer, il celebre can nibale sopravvissuto alla giungla, come attrazione. Packer ri tenne giusto declinare la lucrosa offerta: fu la prima pugnalata all’industria del divertimento animata dagli impresari circensi Frederick G. Bonfils e Harry H. Tammen (altresì cofondatori del «Denver Post»). I «passatempi» popolari hanno un rovescio spesso assai poco solare, e proprio la parola «ricreazione» possiede qual che connotazione di norma trascurata. Qualsiasi processo di ricreazione o rinascita comporta necessariamente una morte di qualche genere. Ciò può spiegare la prevalenza di intimazioni di mortalità all’acqua di rose nei baracconi e nei parchi di divertimento: esibizioni di fantasmi, corse folli con immersioni da infarto e collisioni evitate per un soffio, e le onnipresenti ruote e giostre turbinose di caso, fato e destino, in moto perpe tuo. Analogamente, i fenomeni da baraccone ci offrono uno spaccato in cui riconoscerci, ricreati seguendo bizzarre linee fisiche o comportamentali. Nulla è fìsso, e tutto è possibile. La prima fase della carriera di Tod Browning fu un coa cervo di possibilità; l’insieme dei suoi numeri da professionista fa venire il mal di testa, ed è arduo ricordare un’altra persona lità le cui attività informassero a tal punto l’intrattenimento popolare americano a cavallo dei due secoli. Il suo curriculum era un bizzarro pasticcio. Dopo l’iniziale, misero imbonimento del presunto Selvaggio in Kentucky, Virginia e West Virginia, imparò a liberarsi dalle manette, alla Houdini, senza l’aiuto di
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The Montier Show
chiavi. Trascorse una stagione come pagliaccio con il Ringling Brothers Circus, seguita da un lavoro come fantino e stalliere per Virginia Carroll, una rinomata cavallerizza del Sud. Andò a Chicago per fare l’imbonitore in uno spettacolo itinerante conosciuto col nome di The Deep Sea Divers (Gli avventurieri delle profondità marine). Unitosi al già menzionato spettacolo galleggiante, impersonò il macabro «Cadavere Vivente» per due anni, finché le autorità di Madison, nell’indiana, non in terruppero lo spettacolo per violazione del Sabbath e perpe tuazione di frode. Lo spettacolo fu multato per 14,7 dollari: l’insieme dei proventi dell’intera compagnia. Browning si rivolse al varietà, dove resuscitò il suo talento di cantante e aggiunse al proprio repertorio lo slapstick e il burlesque, numeri in assolo di velocissimi tip tap e un numero di menestrello dal muso nero in uno spettacolo chiamato The Whirl of Mirth (Il vortice della gioia). Sosteneva di aver recita to a San Francisco il giorno del terremoto del 1906. In qualità di membro della Willard & King Company, imparò un nume ro di contorsionista, gradito alle platee europei, africane e orientali. Altri accrediti della stampa comprendono referenze lavorative in qualità di acrobata, trapezista e illusionista. Ben ché non sia possibile verificare ciascuna credenziale - è presu mibile che Browning sapesse dare ai giornalisti, così come al pubblico, esattamente ciò che desideravano -, lo spettro della sua esperienza è ragguardevole sotto qualunque metro di valu tazione. E se il suo confuso curriculum ha un senso, è che non aveva ancora trovato il mezzo migliore per utilizzare il proprio multiforme talento. Anche il cinema, come Browning, aveva iniziato la propria carriera come attrazione da fiera, una curiosità ai margini dello spettacolo tradizionale. Nel giro di pochi frenetici anni, la tec nologia cinematografica era progredita dai nickelodeon alle pellicole narrative a due rulli. H cinema si evolveva con rapidi tà maggiore del vocabolario per definirlo. Maksim Gor’kij, che scriveva circa nello stesso periodo in cui Tod Browning era fuggito con il circo, trovava il cinema non tanto uno svago quanto un incubo tecnologico, un’invenzione che minacciava di alterare i sensi e di conferire una specie di morte-vivente
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allo spettatore, «una vita priva di colore e di suoni... la vita dei fantasmi».13 Incubo o meno, non era mai stato possibile in precedenza agli esseri umani creare, riprodurre e condivide re un simulacro tanto evocativo della condizione onirica. A Parigi Georges Méliès acchiappò al volo le possibilità sostan zialmente infinite dell’immagine in movimento, e il suo studio fu soprattutto un laboratorio dell’effetto speciale come raison d’etre cinematica. In America si incoraggiarono mezzi più di retti e viscerali per padroneggiare e sconvolgere un pubblico: locomotive precipitate a tutta velocità contro lo schermo, per esempio, o un bandito che sparava con la sua pistola direttamente nell’occhio della cinepresa (questi effetti furono impie gati nel 1903 da Edwin S. Porter in The Great Train Robbery [t. lett.: La grande rapina al treno]). Per quanto deboli possa no sembrare ai giorni nostri tali tecniche, un tempo avevano il potere di far svenire gli spettatori. Nel 1913, non ancora trentatreenne, Tod Browning fu presentato a un compaesano del Kentucky emigrato a New York, David Wark Griffith, che gli offrì una parte in una com media a due bobine, Scenting a Terrible Crime (t. lett.: Un tanfo di crimini terribili), che stava producendo nello studio Biograph di stanza nel Bronx. Benché si trattasse di un piccolo ruolo, aveva una discreta rilevanza, sia per la sua carriera in quel momento sia per il successo futuro: gli toccò la parte del becchino. Griffith si portò Browning a I lollywood una volta a capo della produzione per le compagnie Reliance e Majestic, dove Tod recitò in commedie di un rullo sputate fuori a ritmo setti manale. Nella primavera del 1915 si era già avventurato nella regia. Nella colonia del cinema le sue fortune parevano garan tite, anche se il mondo stava scivolando nella guerra. Ma il lato solare di Tod Browning era sul punto di tramontare per sem pre. Era attaccato alla bottiglia e al rischio; chi cresce secondo le regole del circo non sviluppa sempre il rispetto per la pro prietà, o le leggi. Gli piaceva divertirsi. «Aveva un debole per le macchine vistose», ricordava il regista Raoul Walsh. «Sup pongo che andasse di pari passo con il whiskey.»14 Le auto divenivano ogni giorno più veloci, a dispetto degli insignifican
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ti nuovi «limiti di velocità» spuntati un po’ dappertutto. Le patenti di guida erano una novità delTultim’ora. La rivista cinematografica della Mutual, «Reel Life», nel 1914 tracciò un profilo di Browning insinuando scherzosa mente che la sua conoscenza dei trucchi sulle manette avrebbe potuto rivelarsi utile nel caso la «mania per la velocità» dell’at tore lo mettesse nei pasticci.15 L’ironia si rivelò sgradevolmen te profetica. Qualche settimana prima del suo trentacinquesi mo compleanno si verificò il primo punto cruciale nel rullo citila vita di Tod Browning. Era il 16 giugno 1915.
Un ' altra tragedia al Vernon
L'INCHIESTA SULLA CORSA MORTALE DUE DONNE NELL'AUTOMOBILE DELL ' ATTORE UCCISO?
Finché gli altri due artisti feriti non potranno parlare, sul mistero graverà un'ombra. «Fino a quando Todd (szc) A. Browning e George A. Seigmann non miglioreranno abbastanza per essere interrogati», riferiva il «Los Angeles Times» il 17 giugno, «rimarrà in so speso l’inchiesta sulla tragica corsa automobilistica che nelle prime ore del mattino ha portato alla morte di Elmer Booth, celebre attore cinematografico, e al ferimento tanto grave dei suoi due compagni, le cui vite appunto sono ancora incerte. » Il trentaduenne Booth * era un comico promettente sia sul pal * La morte prematura di Booth originò un’eminente carriera hollywoodiana. D.W. Griffith assunse la sorella minore di Booth, Margaret, come taglianegarivi al fine di assicurare un reddito alla famiglia Booth. Margaret Booth finì col diventare uno dei più rispettati montatori dell’industria cinematografica, e fu a capo del settore montaggio della MGM dal 1937 al 1968. Nel 1990 ebbe l’onore di ricevere un premio alla carriera dall'American Cinema Edi tors. Pare che non abbia mai perdonato Browning per l’incidente. Lo scritto re Elias Savada, che cercò di intervistarla sull’argomento negli anni Settanta,
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coscenico sia al cinema, ed era apparso recentemente nel succes so di Broadway Stop Thief. Anche Seigmann era un attore^di chiara fama che aveva appena raggiunto la notorietà con il ruolo del mulatto nel film di Griffith The Clansman, in seguito noto come Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, 1914). L’incidente, secondo il «Times», «si inserisce nella lunga lista di tragedie occorse ai frequentatori del Vernon Country Club, un locale lungo la strada. La reticenza dei sopravvissuti a rivelare il numero di passeggeri nell’auto ha prodotto un’in chiesta della polizia per determinare se fra l’allegra brigata di ritorno dai bagordi vi fossero anche due donne». Booth morì all’istante quando la vettura, guidata da Browning, si scontrò con un pianale ferroviario carico di rotaie d’acciaio. Il condu cente del treno aveva agitato inutilmente una lanterna in segno di pericolo. L’auto colpì il pianale a tutta velocità, ed Elmer Booth fu proiettato a testa in avanti contro le rotaie sporgenti. «I fori sul cranio», riportava il «Times», «erano dritti e rego lari come il disegno di una cialda appena sfornata. » Seigmann riportò la frattura di quattro costole, una profonda lacerazione alla coscia e ferite interne. Le condizioni di Browning erano decisamente peggiori; il «San Francisco Chronicle» predisse seccamente che «sarebbe probabilmente morto».16 Aveva la gamba destra spezzata, il corpo «atrocemente ferito e ammac cato» con lacerazioni al braccio e in viso, oltre alle gravi, non meglio precisate ferite interne che «[rendevano] dubbia una ripresa».17 Browning venne trasferito al California Hospital, si presu me per morirvi. Si era costruito una carriera a base di azzardi e truffe alla Houdini, ma il contenitore che ora lo bloccava era il suo corpo ferito e debilitato. Una parte di lui era già morta; il buffone estroverso dei due rulli, a differenza del «Cadavere Vivente», non si sarebbe più fatto vedere. Nel frattempo in Europa infuriava una grossa guerra, che distruggeva e ricreava l’ordine umano. Il cinema e il circo na turalmente sarebbero sopravvissuti al massacro, ma avrebbero ricorda la sua glaciale risposta: «Si aspetta che io parli dell’uomo che ha ucciso mio fratello?» (N.d.A.)
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The Monster Show
sviluppato nuove psicotiche forme di reazione a un paesaggio di morte in massa. Anche per Tod Browning cominciava a delinearsi la visione di un oscuro nuovo spettacolo che lo avrebbe attirato con la potenza dei circhi viaggianti: un circo cinematografico di paura e ombre, provenienti dai recessi del sarcofago dell’io.
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«Tu diventerai Caligari.» Mostri, millantatori e modernismo
In tempo di guerra il diavolo fa più spazio all’inferno. Vecchio proverbio tedesco
Tod Browning non fu l’unico imbonitore ambulante con un numero da «Cadavere Vivente» a farsi strada nel cinema. Le fiere e i circhi furono il laboratorio originale di attrazioni spa ventose e terrificanti, dai fenomeni da baraccone alle monta gne russe fino al trenino fantasma, e persino ai nickelodeon, prototipi del cinema stesso. I raggiri galleggianti di Browning a cavallo dei due secoli a volte si attiravano la tiepida ira delle autorità locali, ma nel 1921 circolava una truffa di gran lunga più nociva. D 15 maggio 1921 qualcosa come duemila persone marcia rono sul Miller’s Theatre di Los Angeles in una dimostrazione che si estese da mezzogiorno fino alle otto e mezzo di sera. Il cuore della protesta era rappresentato dai membri della posta zione hollywoodiana dell’American Legion; diversi tra loro esi bivano segni di sfìgurazione permanente del recente servizio militare. Gli ex soldati mutilati brandivano furiosi cartelli: «Perché pagare una tassa bellica per vedere film tedeschi?» La «tassa» era l’impressionante flusso (per svago) di sudati soldi americani nei forzieri tedeschi; nei cinema americani spuntava come funghi un numero limitato ma visibilmente in crescita di film tedeschi e di altri Paesi, spesso con valori pro duttivi più elaborati dei prodotti nazionali. E benché il conflit to fra i due Paesi fosse terminato, la pace non era ancora stata formalmente definita. Sussisteva ancora tecnicamente uno sta to di guerra. Oltre ai veterani mutilati, la folla davanti al Miller’s Thea tre comprendeva centinaia di marinai della flotta sul Pacifico, i membri locali della Motion Pictures Directors Association, e
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The Momfer Show
una ressa di normali c oltraggiati civili. Col trascorrere delle ore, l’energia della folla guadagnò importanza; quella che in un primo momento era stata descritta come una «spettacolare dimostrazione»1 al calar delle tenebre era degenerata in una «selvaggia rivolta».2 La folla raggiunse proporzioni tali che vennero chiamati i membri di riserva per supportare la polizia locale, e la guardia militare della Marina tentò invano di calma re i militari in rivolta. Nella migliore tradizione del cinema, gli scontri furono punteggiati da una mitragliata infinita di uova marce. L’oggetto della furia della folla era la prima di II gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari) \ prodotto a Berlino dùe anni prima e presentato a New York il mese pre cedente con notevole consenso critico. Il riscontro viaggiava comunque in una doppia direzione: la freschezza di Caligari era inversamente proporzionale alla stagnazione tipica nei film americani. Il critico newyorkese Kenneth MacGowan lo definì «la più straordinaria produzione mai vista... la vicenda è di gran lunga più stimolante ed emozionante di quasi tutti i nostri prodotti nazionali». Caligari quindi era un «segnale di perico lo» per l’industria cinematografica americana, che denunciava sintomi di inerzia artistica. «I produttori americani devono scuotersi dal tran-tran della produzione seriale e dal mero sperpero di denaro, e sforzarsi di prendere in considerazione le piene possibilità della loro arte.»4 Lo scrittore e critico d’arte Willard Huntington Wright offriva un’argomentazione analoga. «Ilgabinetto del dottor Ca ligari rappresenta la linea inevitabile lungo la quale deve evol versi il cinema», dichiarò a «Variety», «e il primo produttore americano con l’intuito e il coraggio per intraprendere una direzione analoga... non solo otterrà un successo finanziario, ma sarà ricordato nella storia dell’industria cinematografica americana come un grande uomo.» I film, inoltre, «sono giun ti a un impasse; ogni produttore onesto con se stesso dovrà riconoscerlo. E necessario un cambiamento, e l’unico possibile sta nelle idee del film su Caligari».5 L’impatto e la sorpresa di Caligari risiedevano nella sua rottura con le convenzioni cinematografiche stabilite. Il film
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era una fantastica storia di mistero, narrata in una maniera visuale altrettanto fantastica. Le scenografie erano oblique e distorte, le ombre create con vernice invece che luce. Tutto era artificiale e stilizzato. Il mondo esterno esisteva per illumi nare un paesaggio interiore; svaniva qualsiasi pretesa di «reali smo». Una cesura analoga con le convenzioni visuali stabilite era circolata per decenni sotto la superficie del mondo della pittura e della scultura, quando il mezzo popolare del film era
appena nato. È diffìcile sopravvalutare il genere di rivelazione che rap presentò Caligari per moltissimi spettatori, i quali avvertirono di stare assistendo a un balzo evolutivo nel cinema comparabi le all’avvento del sonoro, o, decenni più tardi, con l’esperienza totalizzante di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odys sey) di Stanley Kubrick, che nel 1968 ridefìnì in modo analogo le possibilità cinematografiche dello spazio e della forma per il largo pubblico. «Lo spazio ha ricevuto voce», scrisse uno dei primi spettatori di Caligari, George Scheffauer, i cui com menti sul periodico newyorkese «The Freeman» furono consi derati tanto significativi da essere ripubblicati sul «New York Times» con mesi di anticipo sulla prima americana del film. Scheffauer vedeva il mondo cinematografico degli anni Venti come una landa desolata colma di «bambole smorfiose coi denti sempre ben in vista e occhi da gufo, cavalieri spiegazzati, marionette imbellettate». Con Caligari, scriveva, «l’artista si è insinuato in una cruda fantasmagoria e ha cominciato a creare».6 Al contrario, i fogli agitatori come il «Los Angeles Exami ner», di proprietà di Hearst, che sfoggiava nella sua testata il motto PRIMA L’AMERICA, avevano poca confidenza con le conquiste artistiche. (Con uno sguardo retrospettivo è interes sante osservare come l’impero hearstiano abbia tentato di sop primere non uno, ma due dei film più importanti di ogni tem po: Caligari nel 1921 e Quarto potere [Citizen Kane] di Orson Welles nel 1941.) Lo sciovinismo vendeva meglio di una valu tazione critica, e l’«Examiner» e il suo inchiostro davano l’im pressione dell’esistenza di una netta e tangibile sfida alla pre minenza dell’industria cinematografica americana, propugnan-
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do il bando immediato elei Him tedeschi. L. Auerbach, vicepre sidente della Export & Import Film Company Ine., chiarì laco nicamente la questione: «Forse gli agitatori non sono a cono scenza del fatto che il 95 per cento dei film distribuiti in tutto il mondo sono americani»,7 dichiarò, e aggiunse che per ogni film straniero distribuito negli Stati Uniti (due soli prima di Caligari) ne circolavano in Germania venti americani. In quali tà di maggior esportatrice di film, l’America sarebbe stata la nazione a rimetterci di più nel caso di restrizioni alle importa zioni che avrebbero comportato una violenta reazione interna zionale. L’impresario cinematografico newyorkese S.L. «Roxy» Rothafel intuì il tremendo potenziale di Caligari quando gli venne offerto dal distributore americano Goldwyn, e non ri sparmiò alcuno sforzo promozionale e spettacolare. La prima si tenne il 3 aprile 1921 al Rothafel’s Capitol Theatre tra la 51“ e Broadway. Il cinema era il prototipo del leggendario Roxy, e offriva alle proprie pellicole una presentazione sontuosa; Ca ligari ricevette pieno accompagnamento orchestrale con un ta bleau vivant che apriva e chiudeva le proiezioni. Fu dato gran de risalto a manifesti artistici dai colori brillanti, eseguiti nel cosiddetto stile «cubista» dal grafico Lionel Reiss. («Pare che gridino dalle loro bacheche»,8 commentava «Moving Picture World».) Benché per descrivere Caligari si usasse quasi dappertutto sulla stampa popolare la parola «cubista», lo stile del film ave va pochissimo da spartire con il movimento artistico d’avan guardia promosso da Georges Braque e Pablo Picasso, e forse sintetizzato per il largo pubblico dal Nudo che scende una scala di Marcel Duchamp (1912), una tela descritta mirabilmente da un critico ostile comek« un’esplosione in una fabbrica di inse gne». Il vero cubismo prevedeva una stilizzazione angolare, ma di norma verteva intorno a prospettive simultanee e so vrapposte. Caligari era più ispirato dall’espressionismo, in par ticolare teatrale, che forzava la prospettiva visiva convenziona le in configurazioni emotivamente connotate. Il cubismo, inve ce, era più analitico e scientifico. Caligari tuttavia presentava angolazioni molteplici, e per gran parte della stampa e del
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David J.
pubblico era inutile un’analisi ulteriore. Il film aveva «qualco sa a che fare con l’arte moderna», e tanto bastava. A causa del suo immaginario indelebile, non è possibile confondere un fotogramma del Gabinetto del dottor Caligari con uno di un altro film. Poiché il film è noto a diverse perso ne che però non l’hanno mai visto, ci pare utile esporne la trama. Nella città di Holstenwall si svolge una fiera, ed è subito evidente che non si tratta di una città, né di un film, ordinari. Se gli attori hanno corpi e volti convenzionali, il mondo in cui si muovono è composto di ombre soffocanti e angoli di origine onirica. L’immagine dominante è l’ambiente della fiera, con la sua folle e scalcinata giostra. In questo mondo arranca una strana e occhialuta figura, un ipnotizzatore chiamato dottor Caligari (Werner Krauss), che cerca di ottenere dal segretario comunale un permesso per esibire alla fiera un sonnambulo. Il funzionario accorda il permesso, ma solo dopo aver insultato il ciarlatano. Quella notte stessa, il segretario viene ucciso nella
propria stanza. La notte seguente due studenti, Francis (Friedrich Feher) e Alan (Hans Heinz von Twardowski), entrambi innamorati della stessa ragazza, Jane (Lil Dagover), l’accompagnano alla fiera. Entrano nella tenda di Caligari e rimangono affascinati quando l’ipnotizzatore presenta il sonnambulo Cesare (Conrad Veidt), un uomo dall’aria cadaverica che dorme in piedi in una cassa di legno. Caligari proclama che Cesare ha dormito per vent’anni, ma che in stato di veglia sarà in grado di rispondere alle domande del pubblico riguardo al futuro. Alan sbotta in una richiesta ansiosa: «Quanto vivrò?» E la secca risposta è: «Fino all’alba di domani». Il mattino seguente Francis apprende che il suo amico è stato pugnalato a morte. Sospetta di Caligari e Cesare, e ottie ne l’aiuto del padre di Jane per le indagini. Una notte, mentre Francis spia Caligari e quello che crede Cesare nella sua cassa, il vero sonnambulo entra nella stanza di Jane agli ordini dell’il lusionista e brandisce un coltello per pugnalarla. Lei si sveglia, resiste, sviene. Cesare, preso da panico o pietà, non uccide Jane ma la rapisce e la trasporta nel celebre labirinto scenogra-
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fico, espressionista e zigzagante. La abbandona ai piedi di un ponte quando una folla guidata dal padre di Jane minaccia di linciarlo, e muore di consunzione. Francis scopre che Caligari, in realtà direttore di un manicomio del luogo, è un uomo tanto ossessionato da un’antica leggenda su un ipnotizzatore e il suo sonnambulo omicida da non poter fare a meno di interpretare lui stesso la storia. Messo a confronto con il cadavere di Cesa re, Caligari diviene pazzo furioso e gli viene messa la camicia di forza. Questa la storia concepita originariamente dagli sceneggia tori Carl Mayer e Hans Janowitz come parabola politica sullo sfrenato autoritarismo seguito al cataclisma bellico. Caligari simboleggiava lo Stato, mentre Cesare rappresentava le masse di sonnambuli spedite a uccidere ed essere uccise. La vicenda inoltre ricopriva per i due uomini più di un significato metafo rico. Janowitz era stato perseguitato da uno psichiatra militare, e costretto a sottoporsi a diversi test mentali contro la propria volontà; l’esperienza lo aveva segnato. E insieme a Janowitz, Mayer aveva assistito a uno spettacolo da fiera chiamato «Uo mo o macchina», con «un forzuto che riportava miracoli di potenza in uno stato di stupore apparente. Si comportava co me sotto ipnosi. La cosa più strana era che accompagnava i suoi movimenti con affermazioni che colpivano gli spettatori incantati come presagi densi di significato».9 I due sceneggiatori acconsentirono a incaricare il pittore cecoslovacco Alfred Kubin dell’allestimento scenografico. Kubin, un protosurrealista che riusciva senza sforzo a estrarre il lato angoscioso dagli oggetti quotidiani (fra i suoi dipinti ricordiamo una tela nello stile di Bosch intitolata Le fauci, dove un’anonima massa d’umanità marcia verso un’enorme bocca triturante), fu licenziato dai produttori, che affidarono l’incari co al grafico Hermann Warm, e gli commissionarono le scene definitive. Gli autori possono aver provato delusione per la perdita di Kubin, ma furono orripilati di fronte al cambiamen to imposto dal produttore Erich Pommer e dal regista Robert Wiene alla loro sceneggiatura originale. L’intera vicenda ora veniva incorniciata da un prologo e un epilogo, per cui il rac conto non risultava altro che il delirio di un folle (in una prece
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dente versione del copione, Francis, ora medico affermato, raccontava la storia agli amici). Lo stesso Caligari veniva pre sentato come una figura tragica, vittima di una malattia menta le. In un colpo solo, lo sfondo politico del film veniva cancella to, almeno nel pensiero dei suoi autori.10 Come avrebbe in seguito commentato lo storico del cinema Siegfried Kracauer: «Un film rivoluzionario, seguendo il logoro schema di dichia rare folle un individuo normale ma turbato e di spedirlo in un manicomio, diventava conformista».11 Inoltre, come sempre, i produttori temevano di sfidare il gusto convenzionale con contraccolpi economici. L’uomo della strada avrebbe conside rato folli i temi e le immagini di Caligari, e dunque aveva biso gno di rassicurazioni sulla correttezza delle proprie opinioni. Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, ultimato alla fine del 1919, fu distribuito dalla Decla-Bioscop nel feb braio 1920.1 manifesti dichiaravano: «Du musst Caligari Werden» - «Tu diventerai Caligari», un comando e insieme una profezia. Il pubblico berlinese apprezzò il film - un istantaneo trionfo commerciale, non solo un succès d’estime^2- - anche se fraintese le intenzioni espressionistiche dell’opera. Molti riten nero che le scene fossero rappresentazioni letterali della visuale soggettiva di un folle. Le interpretazioni belliche sarebbero se guite molto più tardi, nonostante l’evocazione quasi trasparen te della guerra come forza divisoria di controllo soprannaturale nella prima didascalia del film: «Gli spiriti sono ovunque... Tutt’intomo a noi... Mi hanno allontanato dal focolare dome stico, da mia moglie e dai miei figli». Attentamente promosso dalla Goldwyn in occasione della sua distribuzione americana l’anno successivo, Caligari montò un furore pretenzioso, che sfruttava la xenofobia postbellica e la tradizionale insicurezza degli americani in materia artistica. Caligari fu una sorta di razzo culturale lanciato dall’Europa nel vuoto, un guanto di sfida non lanciato, ma proiettato sullo schermo tremante delle insicurezze americane. E non arrivò da solo: fu attorniato da tutti quegli enigmatici nuovi compositori europei che il pubblico si sforzava di assimilare. H ben conge gnato accompagnamento orchestrale dal vivo fornito da Roxy Rothafel fu accolto favorevolmente. «L’allestimento musicale
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per la produzione è superbo», scrisse un critico, «perché an che in quest’arte è stata accolta la lezione dei moderni. Ricchi, bizzarri c bellissimi temi da Strauss, Debussy, Schonberg-e Stravinsky contribuiscono complessivamente a un’atmosfera di meravigliosa vitalità... A tratti... si avverte l’approdo alla lunga mente sognata trilogia wagneriana di musica, azione e colo re. »15 Curiosamente, non esiste testimonianza neppure di una ricostruzione di tale ambizioso accompagnamento musicale; diverse riproposizioni di Caligari non vanno oltre a un melo drammatico accompagnamento di piano o organo nel generico stile «da film muto». Il riferimento al «colore» del film è una probabile allusione alla pratica allora diffusa di dipingere le pellicole. Caligari viene spesso considerato un archetipo di ri presa in bianco e nero; tuttavia l’intenzione dell’effetto origina le comprendeva i colori verde, marrone e blu acciaio.14 «The National Board of Review Magazine» osservava: Per la prima volta in America ecco una prova cinematografica di almeno qualcosa paragonabile al punto di vista del «dadai smo», secondo il quale ogni cosa è ugualmente importante: una sorta di riflessione nel mondo della rappresentazione pla stica dei concetti sulla relatività che stanno mettendo in sub buglio matematici e astronomi.. Di conseguenza questa pelli cola si inserisce nella corrente del pensiero vivo... fa apparire la salute mentale relativa quanto la follia e costituisce un con trappeso considerevole alla tendenza americana alla presun zione intellettuale.15
«Variety», pur se scettico, si mostrò incuriosito. «Può cat turare il favore popolare», concedeva il giornale, paragonando il film a un ben congegnato racconto di Poe. «Ma è morboso. Come di norma le creazioni continentali.»16 «Moving Picture World», tradendo un pregiudizio culturale, ne lodò tiepida mente gli elementi tecnici definendolo al contempo «un’inven zione degenerata della Germania», aggiungendo che gli anni postbellici richiedevano «narrazioni sane e profìcue, non dosi allopatiche di morboso e grottesco».17 In coda all’articolo, la pubblicazione offriva «consigli per l’uso», dei quali il più po-
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labile era: «Giocate sulla novità del film e passate sotto silen zio la sua origine tedesca». I giornali di Hearst, diretti al grosso pubblico più che al l’industria, ignorarono completamente il suggerimento, con il risultato dei disordini al Miller’s Theatre di Los Angeles il 15 maggio. Upton Sinclair usò l’incidente come cornice per il ro manzo They Call Me Carpenter (1922). Il narratore, Billy, viene persuaso a comprendere Caligari («Uno strano, bizzarro feno meno dell’arte cinematografica»18), da un critico letterario te desco in visita, il dottor Henner, che ha già visto il film diverse volte. «Non si riesce mai a conoscere abbastanza questi stra nieri acculturati», riferisce Billy al lettore. «I loro modi sono simili al velluto più morbido, così a parlarci ci si sente come un gatto persiano quando viene accarezzato. Hanno letto tutto lo scibile umano; parlano con silenziosa sicurezza; e sono così vecchi, vecchi nei ricordi di dolori razziali stipati nell’ani ma.»19 Henner, celiando, gli dice: «Questo film non sarebbe mai stato possibile in America. Per un unico motivo, che quasi tutti i personaggi sono magri... Non si trovano attori americani in queste condizioni. Forse vi preoccupate tanto della vita arti stica da assumervi il rischio di soffrire la fame per questo?»20 La folla in subbuglio dissuade il dottore tedesco dall’entra re nel cinema, ma Billy riesce a procurarsi un biglietto; preve dibilmente impressionato dalla bizzarra pellicola, «mi diressi verso l’uscita del teatro, e si aprì una porta girevole; sulle mie orecchie si rovesciò un frastuono che sarebbe potuto provenire direttamente dall’interno del manicomio del dottor Caligari. “Ehi, tu. Buu, buu! Vergogna! Lasci il tuo popolo a morire di fame, e mandi i tuoi soldi al nemico”.
Per tutto il tempo - un’ora o più - trascorso rapito dalle ali dell’immaginazione, quei poveri sempliciotti avevano ululato e schiamazzato all’esterno del cinema, tenendone lontani i passanti, e finendo per caricarsi fino alla furia! Per un istante pensai di uscire a ragionarci; credevano erroneamente che nel film ci fossero riferimenti alla guerra, e che fosse antiamerica no. Ma mi resi conto che avevano perduto la ragione.21 La teppa attacca Billy, che si rifugia in una chiesa. Segue
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un bizzarro racconto del Secondo Avvento, che infine si rivela solo un sogno, proprio come la storia di Caligari. In realtà, le botte ispira-deliri subite da Billy furono proba bilmente le peggiori ferite riportate nei tumulti del Miller’s Theater. L’«Examiner» riferì: «Una calca fremente di quasi duemila persone si è mutata in ordinato raduno in un batter d’occhio quando Roy H. Marshall, diplomatico dell’Hollywood Post of the American Legion, salì su una scala e annun ciò da parte di Fred Miller, il proprietario, .che il film sarebbe stato immediatamente ritirato».22 Per dimostrare la propria buona fede, insieme alla disponibilità a «comprare america no», la folla sciamò nel cinema per vedere il film di rimpiazzo. Piuttosto curiosamente, quella pellicola era The Money Chan gers (t. lett.: I cambiavaluta) di Benjamin Hampton, basato sul romanzo di Upton Sinclair. La discordia dei critici su Caligari, tuttavia, non si placò, e non tutti i commentatori furono d’accordo con la posizione della rivista cinematografica «Shadowland» - generalmente condivisa -, per la quale Caligari «possiede le emozioni e i turbamenti dell’arte».23 Due anni dopo, Ezra Pound si lamen tava ancora di Caligari. Obiettava che il film avrebbe dovuto essere «essenzialmente cinematografico, e non un mero trave stimento e degradaziqme di un’arte diversa», e considerava il film come un’ulteriore prova «del progressivo indebolimento della mentalità popolare». Pound scrisse che Caligari «rubac chiava effetti visivi con codarda impertinenza, e poi veniva fuo ri con un avviso: “Questo film non è cubismo; rappresenta i deliri eccetera”. Per essere precisi, deliri che i suoi ideatori non avrebbero potuto concepire senza l’opera anticipatrice dei nuovi artisti».24 Non c’è dubbio che Caligari fosse derivativo, ma condivi deva con i nuovi movimenti artistici una genuina fonte di ispi razione, per essere più precisi la grande guerra appena finita. Il conflitto ebbe una tremenda influenza sugli artisti espressio nisti, dadaisti e del surrealismo emergente nel corso degli anni Venti. Nel suo Anxious Visions, la storica dell’arte Sidra Stich lega la preoccupazione surrealista per corpi deformi e sfigurati all’improvvisa presenza, dopo la guerra, di una percentuale
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tangibile di feriti e mutilati. La tecnologia bellica moderna ave va introdotto approcci nuovi e precedentemente inconcepibili alla distruzione o brutale ridefinizione del corpo umano. I con temporanei progressi della medicina moderna resero possibile la sopravvivenza di soldati per ferite prima fatali. «L’invasione della morte nel mondo dei vivi e la rappresentazione del corpo umano così violentemente sfigurato dominano le configurazio ni surrealiste», scrive la studiosa. «Con quelle membra man canti, dislocate e sproporzionate, le figure surrealiste richiama no l’attenzione sul corpo come entità disunita nella quale pre valgono assenza e deficienza. » Le immagini surrealiste, osserva la Stich, alterano pure le distinzioni evoluzionistiche e zoologi che. «Queste figure degradate e questa carne disfatta minano profondamente i confini consueti che separano gli umani dalle altre specie.»25 Nel 1921 comparve in Germania una nuova spaventosa icona onorifica che, per la prima volta al cinema, sovrappose recisamente l’umano e l’animale creando un’immagine di op primente terrore. F.W. Mumau presentò in Nosferatu il vampi ro (Nosferatu. Eine Symphonie des Grauens) un vampiro dal volto di ratto, il conte Orloc, il cui costume ovattato e le prote si al trucco avrebbero in seguito influenzato innumerevoli altri film con mostri, benché, piuttosto curiosamente, pochissimi vampiri. Albin Grau, pittore e architetto tedesco (e, secondo la sto rica del cinema Lotte H. Eisner, fervente occultista26), pare sia stato coinvolto nell’ideazione complessiva di Nosferatu il vampiro molto più dello stesso Murnau, sebbene nella pellicola fosse accreditato solo della scenografia. Grau pubblicò un sag gio intitolato Vampiri sul periodico tedesco «Biihne und Film» nello stesso periodo della distribuzione del film; più che discuterne la lavorazione, vi presentò i propri ricordi - molto probabilmente romanzati - di un incidente bellico occorso in Serbia. Grau e altri quattro commilitoni, bisognosi di spidoc chiarsi, intraprendono una guerra contro il potenziale bacillo del tifo, usando le forcine al posto delle armi convenzionali. Uno del gruppo, rumeno, narra una storia di vampirismo real mente accaduta. Suo padre, morto di infarto mentre tagliava
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alberi nei Balcani, era stato seppellito privo della benedizione di un prete. In seguito, di notte, la sua tomba fu trovata vuota, col suo occupante divenuto un «non-morto», un vampiro. Il narratore esibisce un documento ufficiale ingiallito che attesta l’incidente e descrive la distruzione del padre-mostro con pa letto e incenerimento. «Quella notte», scriveva Grau, «non chiudemmo occhio! Dalla fine della guerra sono passati anni. Negli occhi degli uomini non si vede più il terrore della batta glia... La sofferenza e il dolore hanno sconvolto il cuore uma no, e sospeso il desiderio di comprendere la causa dei mo struosi eventi che hanno svuotato il mondo, come un vampiro su scala cosmica che abbia succhiato il sangue di milioni di persone. »27 Nosferatu era un adattamento non autorizzato - e forse non il primo - del romanzo di vampiri Dracula di Bram Stoker
(1897). Un oscuro film intitolato Drakula era stato prodotto in Ungheria l’anno precedente, con la regia di Karoly Lajthay e la fotografìa di Lajos Gasser,28 e può benissimo aver ispirato la Prana-Film, produttrice di Nosferatu, a perseguire un atto di pirateria. In ogni caso Nosferatu fu un affare ad alto livello, un ardito film «artistico» che attirò ben presto l’attenzione della combattiva vedova di Stoker, Florence, la quale trascorse quasi dieci anni nel tentativo di sopprimerlo e distruggerlo. * L’anno precedente, Murnau si era fatto le ossa su temi orrorifici con un’altra versione non autorizzata, quella di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Intitolato Der Januskopf (t. lett.: La testa di Giano), questo film perduto vedeva fra gli interpreti Conrad Veidt e, in una parte di contorno, un attore ungherese chiamato Bela Lugosi. Benché almeno una recensione di Der Januskopf suggerisca che il film fosse stato soppresso dagli eredi di Robert Louis Stevenson, un’indagine dell’autore negli archivi della British Society of Authors sui diritti di drammatizzazione per Jekyll non ha riportato alcuna
* Per un resoconto dettagliato dell’ossessiva battaglia di Florence Stoker con tro Nosferatu cfr. David J. Skal, Hollywood Gothic: The Tangled Web of Dracula from Novel to Stage to Screen, New York, W.W. Norton & Compa ny 1990. (N.d.A.)
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menzione di una controversia tedesca. Tuttavia la Società degli Autori sostenne vigorosamente la causa di Florence Stoker contro Nosferatu. Come Caligari, anche Nosferatu ricevette una sofisticata prima a Berlino con musica orchestrale originale di Hans Erd mann. Colorato ad arte di sfumature di giallo, azzurro, rosa e seppia - e per un attimo, prima dell’attacco cruciale del vampi ro, di rosso sangue - Nosferatu cercava imperturbabile l’appro vazione dell’intellighenzia postbellica, e le sue immagini pesti lenziali furono generalmente considerate un riflesso della guer ra e del suo straziante lascito. Lotte Eisner commentava nello Schermo demoniaco la predisposizione tedesca a un espressio nismo morboso: «Misticismo e magia, forze oscure a cui i tede schi sono sempre stati inclini ad abbandonarsi, erano fioriti di fronte alla morte sui campi di battaglia. L’ecatombe di giovani precocemente falciati dalla guerra sembrava nutrire la truce nostalgia dei sopravvissuti. E i fantasmi che avevano ossessio nato il romanticismo tedesco riprendevano vita come le ombre dell’Ade quando hanno bevuto sangue».29 Altri film significativi del periodo sul tema dei doppi (Dop pelganger) e del fantastico comprendevano II Golem (Der Go lem) di Paul Wegener, basato sulla creatura simil-Frankenstein della leggenda ebraica. Wegener girò II Golem due volte, ap pena prima e dopo la guerra, nel 1914 e nel 1920. Nel 1924 il regista di Caligari, Robert Wiene, si riunì con l’attore Conrad Veidt per Le mani dell’altro (Orlacs Hàndes), in cui le mani di un assassino vengono trapiantate sulla vittima di un incidente e continuano a perseguire il vecchio interesse. H memorabile racconto di Edgar Allan Poe sul doppio, William Wilson, fu l’ispirazione dello Studente di Praga (Der Student von Prag, 1926). Lo Studente era stato prodotto originariamente nel 1913 con la regia di Stellan Rye; la versione del 1926 fu diretta da Henryk Galeen, sceneggiatore di Nosferatu. Benché questi film siano oggi considerati dei classici, sa rebbe erroneo ritenere che gli europei degli anni Venti fossero uniformemente ipnotizzati dalle lusinghe di Nosferatu. In Francia, André Gide definì il film di Mumau «un film tedesco piuttosto anonimo, ma di una qualità anonima che costringe a
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riflettere e immaginare qualcosa di meglio». Poi continuava anticipando profeticamente la direzione in cui i vampiri teatra li c cinematografici si sarebbero evoluti con il tempo: Se dovessi rifarlo io il film, dipingerei Nosferatu... non terribi le e fantastico ma al contrario alla stregua di un giovane inof fensivo, di bell’aspetto e molto educato. Mi piacerebbe che ogni motivo d’ansia venisse provocato solo in base a indica zioni molto vaghe, all’inizio, e prima nella mente dello spetta tore che in quella dell’eroe. Analogamente, non sarebbe mol to più spaventoso presentare il protagonista alla donna sotto un aspetto piuttosto attraente? E un bacio che finirà per tra sformarsi in un morso... inoltre potrebbe essere decisamente sorprendente per il vampiro cedere al fascino femminile, non importa a che punto... Riesco facilmente a immaginarmelo come un orribile mostro per tutti, e attraente solo agli occhi della ragazza, vittima consapevole e affascinata... Dovrebbe diventare sempre meno orribile fino a diventare la persona deliziosa - della quale inizialmente aveva solo assunto l’aspet to - fatalmente uccisa dal canto del gallo.
Secondo l’opinione di Gide, Nosferatu era «un’occasione completamente mancata».50 Considerate le intuizioni dello scrittore francese sulle complesse dinamiche alla Dorian Gray dell’immagine del vampiro, è un peccato che non abbia elabo rato direttamente qualcosa sul tema. Una sera del 1922, un giovane compositore americano di stanza a Parigi andò al cinema insieme a un amico aspirante scrittore. La serata offriva Nosferatu. Il ventiduenne Aaron Copland stava cercando una struttura narrativa per un balletto che stava componendo sotto la tutela e l’incoraggiamento della rinomata maestra Nadia Boulanger. Il suo amico, Harold Clurman, ricordava che «nei primi giorni della nostra amicizia, Aa ron mi chiese se avessi letto Freud. “No”, risposi, ma sapevo qualcosa delle sue teorie; nell’ambiente letterario stava giusto diventando di moda. “Hai mai provato un’autoanalisi?” mi chiese. “No”, risposi, “sarebbe indiscreto.” Aaron si conosceva già; io non mi conoscevo per niente. Lui sapeva di essere un compositore. Io non avevo idea di chi fossi».51
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Clurman stava per scoprire di essere il primo ad adattare Nosferatu per un altro mezzo artistico. «Quella sera, al ritorno a casa», ricordava Copland, «decisi che quel bizzarro racconto sarebbe stato la base per il mio balletto. Harold non aveva mai scritto un copione, ma era ansioso di provarci. Inizialmente lo chiamammo Le Nécromancien.» * 2 Nonostante l’assenza di una compagnia di danza per cui allestire il lavoro, Copland si tuffò nella creazione di un’opera elaborata e ambiziosa, un balletto di un atto della durata di trentacinque minuti. Si trattava di un adattamento piuttosto libero, con Orloc/Nosferatu trasformato in un mago di nome Grogh - titolo definitivo del balletto - con il potere di riporta re in vita i cadaveri. Ognuno di loro - un adolescente, un oppiomane e una prostituta - forniva il pretesto per una co reografia di danses macabres mentre a uno a uno si levavano dalle casse-bare. «C’era allora un certo gusto per il bizzarro», scriveva Copland, «e se Grogh appare malato ed eccessivo, la musica era concepita in maniera fantastica più che spettrale. Inoltre, l’esigenza di effetti truculenti mi fornì una scusa per l’utilizzazione di ritmi e dissonanze “moderni”.»33 Le tecniche poliritmiche derivate dal jazz anticipavano i lavori successivi di Copland, che riarrangiò la sezione introduttiva, Cortege Ma cabre, come un’opera a se stante per orchestra, due arpe e piano. Era fra i sette pezzi scelti per il primo degli American Composers Concerts, e fu eseguito per la prima volta nel 1925 dalla Eastman Philarmonia a Rochester, riscuotendo un note vole successo. Altre porzioni di Grogh furono inserite nella Dance Symphony di Copland. Il balletto originale non è mai stato allestito. Pur se l’ispirazione immediata di Copland può essere ve nuta da Nosferatu, la sua descrizione dell’azione del balletto, in particolare l’illusionista che resuscita i ballerini da casse a forma di bara, evoca un’immagine centrale del Gabinetto del dottor Caligari, un film che avrebbe ispirato o influenzato un numero stupefacente di lavori su pellicola e in altri settori. Sorprende un po’ che Caligari non abbia mai prodotto un’o pera. I film del terrore erano molto amati dai surrealisti, che ne
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adoravano l’effetto spiazzante al di là delle possibili intenzioni surrealiste dei loro autori. A gruppi organizzati seminavano lo scompiglio durante la proiezione di film come Nosferatu con litanie urlate simili a quelle del pubblico di The Rocky Horror Picture Show (id., 1975, di Jim Sharman) diversi decenni più tardi.34 Naturalmente i surrealisti erano per principio ostili agli effetti intenzionali dei film espressionisti; la loro ammira zione era impassibilmente fuori contesto. E proprio come Cali gari aveva cannibalizzato il «cubismo», così una quantità infi nita di effetti surrealisti avrebbero trovato spazio, inevitabil mente, nell’emergente cinema fantastico e del terrore. L’horror ha sempre avuto una certa affinità coi moderni movimenti arti stici e ha spesso citato i loro manierismi, forse perché, a un livello elementare, sono ispirati da ansietà culturali analoghe. Non erano solo le arti visuali ad alimentare la nascente industria dell’orrore. Il modernismo in letteratura eznel teatro, in particolare la tendenza al naturalismo, hanno avuto un’in fluenza soverchiarne sull’industria orrorifica così come la co nosciamo oggi. Il naturalismo, particolarmente nella versione di Emile Zola, vedeva l’uomo come vittima di forze sociali ed economiche che l’individuo riusciva a stento a comprendere e ancor meno a controllare. Il ruolo dell’artista in questo mondo nuovo, darwiniano, era di clinico o patologo, gelido e riduzio nista. H «distacco clinico», naturalmente, è sempre stato una buona copertura per la morbosità e il sadismo, e gli aspetti più nauseabondi del naturalismo furono trascinati alla loro espres sione più estrema e importante in un locale ingannevolmente dimesso. Alla metà degli anni Venti, il Theatre du Grand Guignol di Parigi aveva conseguito fama intemazionale per il repertorio di brevi pièce orrorifìche che infliggevano ai personaggi lo stesso genere di violenza esagerata in precedenza dominio del piccolo guignol, o spettacolo di marionette. La differenza era che i «grossi burattini», sanguinavano, e in modo piuttosto convincente. Il Grand Guignol era stato fondato nel 1897 (un anno fondamentale per l’horror, con la pubblicazione di Dra cula, l’esposizione del dipinto di Philip Bume-Jones II vampiro e - guarda caso - la coniazione del termine «psicoanalisi»)
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da parte di Oscar Méténier, commediografo ed ex ufficiale di polizia. Méténier era stato cofondatore di un locale d’avan guardia, il Théàtre-Libre, che aveva prodotto alcune sue ope rette sensazionalistiche e sordide. Le brevi scenette presenta vano la vita nel suo aspetto più squallido, utilizzando il lin guaggio della strada e i personaggi e le situazioni più disgustosi possibili. (Queste histoires des apaches, naturalmente, trovano un parallelo in un’altra forma artistica derivata dal sottobosco parigino, la danza apache.) Poiché il naturalismo era devoto alla «scientificità», le incursioni di Méténier nelle classi più basse e criminali erano accessibili al pubblico di borghesi, che potevano contemplare indirettamente la bassa umanità - e i propri stessi bassi istinti - da una distanza di gran moda. Il Grand Guignol intensificava l’impatto emotivo dei propri pro grammi per mezzo di una strategia voluta di douche écossaise, una doccia scozzese che alternava le temperie emotive, per esempio con repentini avvicendamenti di umorismo e orrore. Appropriatamente, il teatro si situava in un cul-de-sac, una posizione senza via d’uscita. Il Grand Guignol era ospitato nella cappella di un convento preesistente che risaliva al 1786, quando Montmartre era ancora un quartiere suburbano. In seguito il convento aveva funzionato da laboratorio per mani scalchi e da studio per un pittore accademico, e per la fine del XIX secolo era attorniato dalle anguste strade di ciottoli, a soli pochi isolati da place Pigalle, dove passeggiavano e cantavano le prostitute. Le uniche tracce superstiti delle suore gianseniste, le prime abitanti dell’edificio, erano gli angeli intagliati nei travetti, e la voce insistente che di tanto in tanto, nei silenzi fra un grido e l’altro durante gli spettacoli, si potessero ancora udire le preghiere sussurrate dalle monache.35 L’antica cappel la formava un teatro confortevole ed estremamente raccolto36 con un palcoscenico di sei metri per sei. * * Contrariamente a un resoconto pubblicato di recente, il Grand Guignol non fu demolito dopo la sua chiusura nel 1964, ma esiste ancora, con la funzione di scuola di teatro. Nell’ottobre del 1989 all’autore di questo libro fu permes sa una visita dell’edificio e fu consentito di calcare il palcoscenico per esami nare i dettagli architettonici originali e le cupe figure dipinte che penzolava no ancora dall’antico soffitto. (N.d.A.)
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Mcicnier aveva propositi artistici più seri del suo successo re, Max Maurcy, subentrato l’anno seguente, che commercia lizzò aggressivamente la formula di Méténier, intensificandone l’aspetto di orrore fisico. Durante la gestione Maurey, emerse un commediografo il cui nome assurse quasi a simbolo del teatro. André de Lorde, di giorno bibliotecario dai modi educati alla Bibliothèque de FArsenal, godeva di una reputazione not turna di «Principe del Terrore» parigino, grazie a oltre un centinaio di commedie orrorifichc c sensazionalistichc scritte fra il 1901 e il 1906. Benché i drammi di de Lorde venissero rappresentati in numerosi teatri parigini, compresi l’Odeon e il Sarah Bernhardt, il Grand Guignol divenne la dimora privi legiata dei suoi lavori. De Lorde era un consumato architetto del terrore, che apprezzava gli stravaganti paragoni con Poe sulla stampa popolare, prefigurando sotto diversi aspetti le strategie di Alfred Hitchcock. Lavorava spesso con collabora tori, in particolare il dottor Alfred Binet, direttore del Labora torio psico-fisiologico della Sorbona. (Pare che tra de Lorde e Binet ci fosse un rapporto terapeutico quanto letterario.) Poi ché la loro collaborazione tradisce un continuo, ossessivo ti more della follia, viene alla mente il triste atteggiamento origi nario nei confronti della malattia mentale, persino nell’ambito professionale medico. Ma le grottesche scene di pazzia e pas sione ambientate in manicomi e cliniche rendevano questi spettacoli memorabili. Una delle loro pièce più infami, ripresa regolarmente nella storia del Grand Guignol, fu Crimine al manicomio (1925), dove una giovane, alla vigilia della dimissio ne da un ospedale per malattie mentali, viene assalita da tre vecchie gargouilles. 11 terzetto decide che dietro i suoi occhi c’è un uccello che deve essere liberato, così usano un ferro da calza per aiutarlo a fuggire. In seguito a questa atrocità in stile Re Lear, anche la più violenta delle pazienti viene mutilata: il suo viso, premuto contro una luccicante piastra bollente, si riduce a una melma gorgogliante. La violenza realistica sulla scena era il marchio di fabbrica del Grand Guignol, e poche erano le serate in rue Chaptal che trascorrevano senza pugnalate, garrota o soffocamenti. Il tea-
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tro aveva una formula per il sangue artificiale: veniva appli cato caldo e coagulava raffreddandosi. La scarsa illuminazio ne contribuiva all’orrore, con il pubblico lasciato a immagi nare dettagli ancora più truculenti di quelli effettivamente mostrati. Sotto la gestione di Camille Choisy dalla prima guerra mondiale e poi negli anni Venti, il Grand Guignol ebbe la sua età dell’oro, attirando spettatori alla moda e persino reali in visita. Lo storico del teatro Mei Gordon scrive che Choisy - un impresario minuscolo dai modi dandy - trasse ispirazione di rettamente dagli spropositati orrori della grande guerra: «Per Choisy la tecnologia bellica contribuì ad allargare lo spavento so vocabolario di tortura e morte: gas velenoso, ordigni esplo sivi, cavi elettrici, strumenti chirurgici e trapani rimpiazzarono gli obsoleti pugnali, pistole e la primitiva spada».37 L’impresa rio inoltre cominciò a ispirarsi al cinema, e uno dei pezzi di repertorio più popolari del teatro fu un libero adattamento del Gabinetto del dottor Caligari, rappresentato per la prima volta nel 1925. Camillo Antona-Traversi, che scrisse nel 1933 la prima sto ria del Grand Guignol, descrisse l’atmosfera teatrale unica di una serata in rue Chaptal:
Entrando per la prima volta nel piccolo teatro a fondo cieco di rue Chaptal, lo spettatore è colto da un disagio indefinibile. Perché questo teatro, una lunga e stretta stanza, è strano: dai muri penzola materiale oscuro, con rivestimenti austeri, due porte misteriose, sempre chiuse, dalle due parti del palcosce nico, e due angeli inattesi che, dall’alto del soffitto, ci si rivol gono coi loro enigmatici sorrisi. Al suono di tre colpi, si spengono bruscamente tutte le luci; e in questi brevi attimi prima che si sollevi il sipario non possiamo fare a meno di tremare. I nervi sono tesi allo spasimo, prossimi al punto di rottura. Si aspetta ansiosi il primo brivido, il dardo emotivo diretto al cervello. In questa atmosfera di improvvisa oscurità, i volti diventano spettrali macchie bianche, e il silenzio opprimente viene di tanto in tanto spezzato dal riso nervoso di una donna che cerca di mascherare il proprio disagio. L’aria è carica di
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(elisione ehe pesa in maniera soffocante sulle fronti sudate. Tutte le grida di dolore, le urla di terrore, i rantoli di agonia tanto spesso ospitati su queste scene paiono uscire diretta mente dai muri... Si alza il sipario. Lo spettatore è pronto.58 Nell’ottobre del 1923 la compagnia attraversò l’Atlantico, ospitata nell’improbabile sede del Frolic Theatre di New York, una sala dotata di un’amena illuminazione dal tetto. Per alcune settimane fu rappresentato in francese un repertorio che consisteva dei loro maggiori successi, fra i quali Un'orribile esperienza e II laboratorio delle allucinazioni. Il mistico, eviden temente, non funzionò a sufficienza, e i critici trovarono l’of ferta assai poco allettante. «Non spetta a noi decidere se certe scene possano appartenere all’arte teatrale», scriveva «The New York Times», «ma in questa sede si può suggerire che è passata molta acqua sotto i ponti fra i signori de Lorde e Binet, ovvero gli autori, c i Greci, che non permettevano alcuna scena di violenza in palcoscenico e facevano raccontare a fidati mes saggeri avvenimenti troppo orribili per la vista.»59 «Variety» fu particolarmente duro: «De Lorde è il curioso tipo che Pari gi definisce “il Principe degli Orrori” e si avvicina al nostro Poe. Del resto, i francesi ritenevano anche che Carpentier po tesse battere Dempsey».40 I soli aspetti dello spettacolo che il periodico trovava efficaci furono quelli «grossolanamente sporchi, ottusi, dozzinali, volgari, osceni e sudici», e il suo unico successo consisteva «nell’aver almeno conservato il puz zo di stalla francese e averlo propagato nelle scuderie ameri cane». Che agli americani piacesse o meno, a occidente stava prendendo piede un’enorme espansione degli orrori, destino palese del macabro. Le entità oscure che avevano usato l’avan guardia europea per trovare un’espressione moderna ben pre sto avrebbero attraversato l’Atlantico, in pizze di pellicola in vece che bare, in attesa di essere animate in camere oscure per mezzo dell’applicazione di luce artificiale. I loro segreti stava no tutti nelle luci e nelle ombre, nelle proiezioni, nei riflessi e nei doppi. Gli dèi tenebrosi sapevano che la repubblica fonda-
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ta su principi di illuminazione razionale nascondeva una parte in ombra più che ampia, dove potevano prosperare liberamen te i mostri. Sbattuti fuori da antiche cripte e castelli dai moder ni scossoni bellici, cominciarono a cercare nuovi posti dove riposare, arrancando inesorabili verso Hollywood in cerca di una rinascita.
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Guardate! Voi volete guardare! Guardate! Beatevi gli occhi, alimentate la vostra anima della mia orribile deformità! Gaston Leroux, Il fantasma dell’opera (1911)
Il «Cadavere Vivente», naturalmente, non sarebbe rimasto morto. L’attrazione dello spettacolo fluviale non perì nello scon tro spaccaossa seguito alle baldorie del Vernon Road House. Era un vecchio trucco, il cui segreto sarebbe risultato ben ac cetto alle anonime migliaia di combattenti che morivano nelle trincee e negli ospedali da campo europei. Browning subì le ferite di guerra in patria, ma la sua produzione creativa sareb be andata tematicamente di pari passo con quella di scrittori e artisti sopravvissuti ai veri combattimenti, le cui opere co minciarono a essere apprezzate nei tardi anni Venti. Il fuoco artistico di Browning si acuì gradualmente. L’an no dopo il suo incidente ritornò all’attività cinematografica (gli accrediti del periodo intermedio sono assai poco credibili), in terpretando la piccola parte di un proprietario di auto nell’epi sodio «moderno» di Intolerance (id., 1916) di D.W. Griffith^
e nel 1917 diresse il suo primo lungometraggio, Jim Bludso, un melodramma fluviale basato sul popolare lavoro teatrale eponimo. La sua enfasi si spostò in modo crescente verso il melodramma e il giallo; il debole iniziale per il farsesco faceva ormai parte del passato come il canto corale. Nel giugno del 1917 sposò l’attrice Alice Wilson, sua compagna di lavoro nel varietà e al cinema. Il primo successo commerciale di Browning fu The Virgin of Stamboul (t. lett.: La vergine di Istanbul, 1920), un’avventu ra nel deserto dalla produzione sfarzosa con Priscilla Dean, un'ingenua famosa sia nel melodramma sia nella commedia.
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The Virgin of Stamboul anticipava l’interesse del pubblico per località esotiche, che esplose l’anno seguente con Rodolfo Va lentino nei panni dello Sceicco (The Sheik, 1920, di George Melford). Il film consacrò Browning come specialista del brivi do e dell’azione, ed egli diresse diverse pellicole con la Dean per la Universal, fra cui il gangster movie Così parlò Confucio (Outside the Law, 1921), dove in un doppio ruolo apparivaom giovane caratterista di nome Lon Chaney. D regista aveva già diretto Chaney una volta in The Wicked Darling (t. lett.: Il caro farabutto, 1919). Carriera e matrimonio furono seriamente minacciati da un alcolismo crescente che lo privò del lavoro nel 1923 e 1924. Ricordando i primi tempi a Hollywood e il lavoro insieme a Browning, il regista Raoul Walsh disse una volta: «Sapevo che era del Kentucky perché parlava sempre del whiskey che vi si produce, e Io ricordo sempre con una bottiglia di acqua mira colosa al seguito. «Tuttavia non era mai ubriaco», aggiungeva Walsh, inten dendo probabilmente che Browning non perdeva mai il con trollo. «Stava alzato quasi tutta la notte a bere e giocare a carte, poi al mattino arrivava in studio fresco come una rosa.»1 Dopo un po’ la facciata non resse più; perso il contratto con la Universal, sua moglie si separò da lui per diversi mesi.2 La giornalista Joan Dickey riferiva cinque anni dopo che «la sto ria dei due anni sbagliati e inattivi di Tod Browning lontano dallo schermo è troppo conosciuta per ripeterne i dettagli. Egli non è affatto reticente al riguardo, e riconosce che non riusciva a ottenere lavoro perché troppo occupato a cercare di bersi “tutto il pessimo liquore esistente al mondo”».3 La moglie di Browning si rappacificò con lui durante la disintossicazione, e fu fondamentale per la negoziazione del contratto con Irving Thalberg alla MGM che segnò il suo rientro. Il film era 1 tre (The Unholy Three, 1925), basato su un thriller di successo di Clarence Aaron «Tod» Robbins. Un crimine veniva perpetra to da tre artisti da circo: un ventriloquo (Chaney), un nano (Harry Earles) e un forzuto (Victor McLaglen); con il ventrilo quo che si traveste da vecchia, e il nano da bambino. Fu un successo strabiliante. «The New York Times» lo definì uno
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dei dicci migliori film del 1925, assieme a successi del calibro di Ben Ilur (ùL, di Fred Niblo).4 Il critico del «New York Times» Mordaunt Hall lo definì «un risultato sorprendente mente originale, degno di figurare accanto alle migliori produ zioni».5 Con I tre Tod Browning elaborò due elementi decisivi che avrebbero caratterizzato il resto della sua carriera. Il primo era lo spettacolino da circo, l’ambiente in cui era cresciuto, ma di un tipo che non aveva mai sperimentato precedentemente in un film. Il secondo era proprio Lon Chaney, ormai divenuto «l’Uomo dai Mille Volti» celebre in tutto il mondo, un attore così proteifórme da riuscire a rendere in maniera appropriata le oscure visioni di limitazione e deformazione fisiche proprie di Browning. I genitori di Chaney erano sordomuti, qbindi Lpn fu. co
stretto fin da piccolo a esercitarsi nella pantomima. Dopo anni nel varietà come comico, ballerino, produttore, si stabilì a Hol lywood appena prima della guerra. Il suo talepto per il contor sionismo fu evidenziato per la prima volta in The Miracle Man (t. lett.: L’uomo miracoloso, 1919, di George Loane Tucker), dove interpretava «The Frog» (la Rana), un fìnto sciancato. L’anno successivo perfezionò la formula di base dei melo drammi futuri imperniati su mutilazione e vendetta con The Penalty (t. lett.: La pena, di Wallace Worsley). Era la storia di un bambino a cui per sbaglio vengono amputate le gambe e che finisce per diventare un vendicativo re del mondo sotterra neo. Nei panni di Blizzard, il capo criminale, Chaney architetta una macabra vendetta sulla figlia del medico che l’ha mutilato: progetta di amputare le gambe del suo fidanzato per poi inne starle sui propri monconi. L’attore portava una dolorosa bar datura che gli consentiva di camminare sulle ginocchia con l’aiuto di due corte stampelle. Insistette contro il parere dei medici a indossare l’armatura torturatrice tanto da inibirgli pe ricolosamente la circolazione, e si dice che più di una volta sia collassato sul set.6 The Penalty consacrò finalmente Chaney a stella di prima grandezza; la sua fama era enormemente accresciuta dallo spettacolo dei suoi strumenti di martirio. Le sue prove fìsiche
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venivano senza dubbio parzialmente esagerate per incuriosire la stampa, ma sarebbe errato ritenere che Chaney non si sotto ponesse spontaneamente a un perverso disagio nella ricerca dell’arte. Benché il tema fosse velato, The Penalty suggeriva pure la rabbia impotente di veterani di guerra mutilati riassimilati nel la società in numero senza precedenti. In A Blind Bargain' (t. lett.: Affare alla cieca, 1922) Chaney propose una variazione alla formula della mutilazione trasformandosi in un gobbo scimmiesco, assistente di uno scieziato folle, anch’esso da lui interpretato. Il trucco per le due più celebri interpretazioni di Chaney, Il gobbo di Notre-Dame (The Hunchback ofNotre-Dame, 1923, di Wallace Worsley) e II fantasma dell’Opera (The Phantom of the Opera, 1925, di Rupert Julian), recava più di un’analogia coi volti dei mutilati di guerra che infestavano Eu ropa e America: lineamenti distrutti, nasi mancanti e bocche piene di denti spezzati. Per II gobbo l’attore indossò una ma schera di gomma di oltre venti chili, un’altra prova di soppor tazione masochistica. Nei panni di Quasimodo, la fìnta deformità di Chaney era presumibilmente congenita; come Erik, il fantasma dell’Opera, la causa del suo volto sfigurato non veniva mai chiarita, e il fantasma di Parigi avrebbe potuto benissimo trovar posto nell’Union des Gueules Cassées, la fratellanza francese di volti devastati (o, per stare più alla lettera, «grugni spezzati»), un gruppo di oltre cinquemila veterani sfigurati, alcuni dei quali guidavano tradizionalmente le parate dell’Armistizio.7 Il gobbo di Notre-Dame e II fantasma dell’Opera, due fra i più sofisticati spettacoli della metà degli anni Venti (ed en trambi prodotti alla Universa! da Cari Laemmle Sr.), sovrap ponevano entrambi storie di deformità fisiche a ricostruzioni ossessivamente dettagliate di monumenti europei, come la cat tedrale di Notre-Dame e l’Opéra di Parigi. (Come scrisse «Li fe»: «Se solo Cari Laemmle avesse speso i suoi ampi mezzi nelle zone devastate della stessa Francia invece che nella Cali fornia meridionale, della grande guerra non sarebbe rimasta più traccia».8) In Europa, gli spettacoli di mutilazione e rico struzione venivano affrontati meno metaforicamente: il dottor
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Jacques W. Maliniak, chirurgo plastico dell’esercito, ricordava nel 1934 che « Val-de-Grasse, il celebre ospedale militare pari gino, possiede una collezione straordinariamente vasta di ma schere modellate sui feriti in guerra. Anche l’Ospedale della Charité di Berlino ha un museo simile. A Londra ce n’è una collezione in cera, che illustra le diverse fasi di ricostruzione... Migliaia di persone vengono in visita, durante le vacanze, per osservare con soggezione e orrore la riproduzione autentica delle sofferenze e mutilazioni belliche».9 Nel Fantasma dell’opera la guerra non veniva citata espli citamente, ma poiché non si spiegava in alcun modo il pauroso aspetto del protagonista, il viso scheletrico di Chaney poteva rivolgersi alle forze più istintive della cultura, sbrigliate dalla razionalità. Gli adattamenti successivi, e meno efficaci, del ro manzo di Gaston Leroux avrebbero fornito una spiegazione per la deformità del fantasma - di solito acido gettato in fac cia -, ma lo spettro di Chaney era orribile in una maniera pri maria, innata; la stessa nascita era una mostruosità. Chaney usava un’applicazione di filo arrotolato per appiattire e far rientrare il naso (i fili guida erano nascosti da gesso). «Soffriva sul serio», disse l’operatore Charles Van Enger, ricordando la contrazione del naso che a volte faceva «maledettamente sanguinare»10 Chaney. La celebre sequenza in cui l’attrice Ma ry Philbin strappa la maschera dal volto di Erik mentre questi suona l’organo nei sotterranei è un invito nei confronti del pubblico che inclina pericolosamente verso uno stupro visuale. La gonfia testa calva di Erik e il portamento cadaverico gli conferivano l’aspetto di un pene male in arnese incapace di sedurre e repellente per la persona amata. (Il Nosferatu di Murnau aveva la stessa qualità «fallambolica»,11 esaminata nei dettagli dal critico francese Roger Dadoun.) In ogni caso nella leggenda intorno all’attore v’era più che ansia morbosa per la mutilazione. In un’America ancora deci samente asservita a Horatio Alger, con aspirazioni accresciute dal boom speculativo degli anni Venti, Chaney era una conse guenza inevitabile. Lo storico cinematografico David Thomson riassume così il fascino del divo: « Non esiste un attore cinema tografico che illustri a tal punto la fascinazione del pubblico
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per l’idea, la promessa e la minaccia di metamorfosi... L’appa renza inafferrabile di Chaney scaturiva dalla brama di identifi cazione del pubblico».12 Il suo spirito proteiforme permeava a tal punto la coscienza americana che un detto popolare del l’epoca, riferito a ragni, lucertole, o simili esseri striscianti, av vertiva: «Non calpestatelo, potrebbe essere Lon Chaney.». Un’altra leggenda diffusa voleva che l’attore amasse usare il proprio aspetto naturale come ulteriore mascheramento per mescolarsi inosservato fra il pubblico. Spalla a spalla con lui, e magari non accorgersene; l’idea di Lon Chaney era dovunque. Oltre a provocare identificazione e appagamento dei desi deri, Chaney legava la cultura popolare ai contemporanei svi luppi nell’arte e nelle scienze. Privo di consistenza o natura stabili, egli rappresentava l’uomo qualunque frammentato e re lativistico creato dalla guerra, dall’esistenzialismo e dalla medi cina moderna. Gli esperimenti plastici di Chaney sul proprio corpo adombravano i tentativi contemporanei dei pittori cubi sti, dadaisti e degli emergenti surrealisti di modellare la forma umana in configurazioni sempre più ardite. In un certo senso, era il prototipo dell’immagine che abbiamo della star holly woodiana contemporanea - fu il primo attore nella colonia cinematografica a esibire in pubblico occhiali da sole, e il pri mo a coltivare una personalità inaccessibile. «Non esiste un Lon Chaney », lui o il suo agente amavano dire. «Io sono il personaggio che creo. È tutto. »13 E se a una star come questa era consentito mancare d’identità, quale sollievo e riconosci mento per l’anonima massa di ammiratori, molti dei quali già sospettavano di non essere nessuno. Uno sguardo alle vecchie pagine delle fanzine che pubblicavano foto di studio sull’Uomo dai Mille Volti è rivelatore; in copertina si scopriva l’ulti missimo travestimento punitivo di Chaney e l’agonia cristologi ca che sopportava al posto degli altri; e una volta terminata la lettura sull’ultima diavoleria dell’attore per simulare la gobba, in retrocopertina si potevano esaminare con cura innumerevoli pubblicità di prodotti per rafforzare la spina dorsale, o dotarsi di un viso «bello tondo» al posto degli «sgradevoli vuoti». In particolare, ci si attendeva dalle donne che divenissero sempre più maghe del trucco per soddisfare i minacciosi rigori sessuali
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del XX secolo. Senza dubbio Lon ( Chancy fece la propria parte per rendere un segmento del pubblico acutamente consapevo le degli «sgradevoli vuoti» in precedenza ignorati. AI tre Browning e Chaney fecero seguire nel 1926 11 corvo (The Blackbird) e 11 capitano di Singapore (The Road to Manda lay), con Chaney ancora una volta mutilato e orrendamente sfigurato. «Quando ci prepariamo a discutere una nuova sto ria», disse Browning in un’intervista del 1928, « Chaney entra con calma nel mio ufficio e chiede: “Allora, capo, cosa ci aspetta?” E io rispondo: “Questa volta si amputa una gamba, o un braccio, o un naso”, una cosa qualsiasi.»14 Le loro reciproche ossessioni raggiunsero l’acme nel 1927 con Lo sconosciuto (The Unknown), uno spudorato melodram ma circense e freudiano che sarebbe rimasto come un marchio di riconoscimento per entrambi. Una recensione del «New York Herald Tribune» evidenziò il tenore delle fissazioni di
Browning: Il caso del signor Browning sta rapidamente sfiorando il pato logico. Dopo una serie di piccoli horror che presentavano creazioni rispettabili nel loro genere come nani assassini, ladri mutilati e rettili velenosi, tutti sinistri e mortali in una cupa atmosfera di oscurità e fato sacrilego, il regista ci ammannisce ora un melodramma agevolmente ricavabile da una sceneggia tura scritta dai signori Leopold e Loeb.15
Lo sconosciuto era una specie di versione da «tronco supe riore» di The Penalty, con Chaney nei panni di Alonzo «thè Armless » (Senzabraccia), un uomo che si maschera da feno meno da baraccone per evitare la prigione, un falso freak che si lega le braccia dopodiché mangia, fuma e persino lancia coltelli coi piedi. E innamorato di Estrellita (Joan Crawford), bellissima artista da circo con una peculiare forma di fobia sessuale: la repulsione all’idea di essere abbracciata da un uo mo. Ironia della sorte, Alonzo è costretto a mantenere il pro prio amore a distanza: non solo lei scoprirebbe le sue «ripu gnanti» appendici, ma potrebbe anche riconoscere il doppio pollice della sua mano destra, la cui impronta inconfondibile
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è rimasta sulla gola del padre di Estrcllita quando Alonzo, in libertà, lo ha ucciso a causa della sua crudeltà nei confronti della figlia. L’involuta vicenda (che tuttavia funziona tuttora sorprendentemente bene come fiaba a forti tinte) raggiunge un oscuro crescendo quando il protagonista ricatta un dottore fi no a farsi amputare le braccia. Ritorna per Estrellita, solo per scoprire che ha superato la fobia grazie alle pazienti cure del l’uomo forzuto. Alonzo sabota il numero di quest’ultimo e rie sce quasi a vendicarsi facendo strappare le braccia all’artista da cavalli imbizzarriti, ma il suo piano fallisce quando viene intrappolato dai cavalli in un fatale attimo di rimorso. Joan Crawford non nominò mai Browning sulla stampa, ma in un’intervista retrospettiva definì ih lavoro con Chaney «traumatico e insieme delizioso».16 Benché le sue impressioni su Browning fossero meno distinte - in una lettera inedita ri cordava il regista come «tranquillo», «sensibile» e «cordia le», 17 ma non aggiungeva particolari -, la diva trovava l’attore «la persona più sensibile ed eccitante che avessi mai conosciu to, un uomo trasfigurato nel proprio ruolo. Fra una ripresa e l’altra si poteva incontrare un uomo serio, dai modi gentili, con allegri occhi neri che raramente ridevano, ma se accadeva era irresistibile».18 Quando Chaney recitava, ricordava ancora la Crawford, «era come se stesse operando una divinità tanto profonda era la sua concentrazione. Fu allora che compresi per la prima volta la differenza fra lo stare di fronte a una cinepresa e recitare». L’attrice descriveva le dolorose lentezze a cui si sottopone va l’attore per conseguire quegli effetti: «H signor Chaney avrebbe potuto liberarsi le braccia tra una scena e l’altra. Non lo faceva. Le tenne legate per cinque ore, un giorno, soppor tando tanto indolenzimento e tanta tortura che quando fu il momento di girare riuscì a trasmettere non solo realismo ma anche una sofferenza interiore da risultare sconvolgente... e affascinante».”
* Il biografo di Joan Crawford, Alexander Walker, osservò che anche la futura celebrità dell’attrice sarebbe stata «consacrata da un analogo genere di Cal vario autoinflitto. Lavorare su un set con la Crawford di rado non si accom-
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Il cinema non era l’unico luogo dove il pubblico soffriva per le allegorie di mutilazione nei tardi anni Venti. Nel 1926 Ernest Hemingway aveva pubblicato il romanzo II sole sorge (incora, e aveva messo in subbuglio il mondo letterario con la lormentata storia di Jake Barnes e della sua ferita di guerra castratrice. I critici accettarono la spiegazione da parte dello scrittore della sua primaria fonte di ispirazione: durante la con valescenza milanese dalle proprie ferite di guerra, ebbe l’occa sione di visitare una divisione di genitourologia in un altro ospedale. Come riferisce il suo biografo Kenneth S. Lynn, «lì aveva avuto modo di parlare con diversi soldati che avevano subito ferite ai genitali, e come risultato della frequentazione di questa piaga egli immaginò quella di Jake Barnes... [Ma] ciò che manca in questa storia peraltro plausibile era una spie gazione convincente del perché Hemingway fosse tanto coin volto dai feriti di quel particolare reparto».20 La narrativa di Hemingway è, naturalmente, ricca di sfide all’umanità, certo più letterali di altre. In un racconto molto breve e sinistro, Dio vi conservi allegri, miei signori, Heming way narra di un sedicenne, impazzito per il desiderio sessuale e il senso di colpa religioso, che si presenta a un pronto soccor so, il giorno di Natale, e prega i medici in servizio di castrarlo. Poiché questi si rifiutano, ritorna a casa e si recide il pene con un rasoio affilato. («Il giorno di Natale, per di più»,21 borbot ta uno dei medici mentre racconta la storia.) Non è certo se Hemingway fosse perseguitato o meno da paure o fantasie consce di perdita della virilità; in ogni caso questo tema ricorre indiscutibilmente nella sua opera. Lavo rando contemporaneamente in un’altra forma espressiva, con Chaney o senza, Browning trasformava il simbolismo castrato rio in un’industria a domicilio. L’immagine di esseri umani paralizzati, mutilati, o comunque «amputati» sotto il bacino ricorre spesso nei suoi film; è un leitmotif praticamente della sua intera opera. Il corvo, The Show (t. lett.: Lo spettacolo, pagnava al dolore. Persino la sua insistenza a mantenere una temperatura di zero gradi era un modo di “concentrare la mente della gente sul lavoro”». (N.d.A.)
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1927), Lo sconosciuto (dove le «gambe» diventavano «brac cia»), La serpe di Zanzibar (West of Zanzibar, 1928), e, succes sivamente, Freaks e Miracles for Sale (t. lett.: Miracoli in vendi ta, 1939) presentavano tutti immagini di mutilazioni sotto la vita letterali o figurate. Una variazione sul tema consiste nell’u so ricorrente di tintinnanti «gioielli» rubati, come elemento dell’intreccio in alcuni film, o, come in The Show, un’interà storia imperniata sul tentativo di decapitazione del protagoni sta Cock (interpretato da John Gilbert), ambientata in un ba raccone da fiera pieno di uomini-torso, teste separate dal cor po e affini. In The Mystic (t. lett.: Il mistico, 1925) c’era una sequenza impressionante in cui un lanciatore di coltelli trancia l’estremità di un panino con salsiccia che un personaggio si è appena infilato in bocca. Nel suo saggio II perturbante, pubblicato alla fine della prima guerra mondiale, Sigmund Freud discusse per primo il rapporto fra il complesso di castrazione e i racconti di fantasie macabre. Nella visione freudiana il doppio (base di tutte le immagini di morte) è un meccanismo difensivo; l’inconscio, sentendo un pericolo mortale per l’io, occhio, membra o geni tale, crea un sostituto immaginario per la parte minacciata. (Il motivo del doppio pollice in Lo sconosciuto è una dimostrazio ne così quintessenziale della tesi freudiana che ci si chiede se lo stesso Browning sia stato influenzato direttamente dalla let tura del Perturbante). «Arti smembrati, una testa mozzata, una mano tagliata all’altezza del polso... tutte queste cose hanno in sé qualcosa di perturbante», scriveva Freud, aggiungendo che «questo genere di perturbante origina dalla prossimità al com plesso di castrazione.»22 Nella stessa discussione, Freud af frontava involontariamente le associazioni più profonde del motivo ricorrente browninghiano del «Cadavere Vivente»: «Per certe persone l’idea di venire sepolti vivi è la cosa più perturbante che esista. E tuttavia la psicanalisi ci ha insegnato che questa fantasia terrorizzante è solo una trasformazione di un’altra fantasia che originariamente non possiede nulla di ter rificante... voglio dire la fantasia di un’esistenza intrauterina». Vi è la tentazione di cercare una «ferita bruciante» nella vita di Browning per spiegare la straordinaria attenzione di
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tinta la sua carriera per le immagini di castrazione. I documen ti ufficiali concernenti la portata delle sue ferite nell’incidente autóìnobilistico del 1915 non contengono dettagli sufficienti ad accertare se avesse sofferto o meno un trauma pelvico. A un certo punto, comunque, subì una ferita di una certa gravità alla bocca, e si dice che abbia portato una dentiera superiore e inferiore a un’età relativamente giovane. Prima di essere mes so al bando per alcolismo, si dicè che abbia risposto alla richie sta del direttore di un albergo di San Francisco di festeggiare un po' meno rumorosamente allungandogli i propri denti finti e dicendogli di «andare a mordersi da solo! » * 25 Non è ancora chiaro se avesse o meno perso i denti nell’incidente del 1915; ma pare che in tarda età abbia confidato ad amici di essere stato «scalciato da un cavallo»24 nei suoi giorni trascorsi al circo e alle corse. Qualunque ne sia la causa, ferite o sfìguramenti odonto facciali possono avere profondi effetti psicologici. Frances Cooke Macgregor, un’autorità riconosciuta nella ricostruzione dei traumi facciali, osserva che «l’area interna ed esterna alla bocca è caricata emotivamente e strettamente connessa con l’immagine di sé. Come strumento di eloquio, nutrizione e ba ci, e insieme come specchio di emozioni, possiede inoltre im plicazioni sociali e psicologiche uniche e un significato simbo lico».25 Browning e Chaney crearono un’immagine di bocca umana particolarmente straziante nel Fantasma del castello (London After Midnight, 1927), dove Chaney interpretava un finto vampiro che esibiva una dentatura da pescecane. La boc ca-rasoio primitiva, sovrapposta a un volto umano, è una netta evocazione di un concetto freudiano: la vagina dentata divora trice e castrante. Il fantasma del castello segnava la prima incur sione di Browning nel mondo del vampirismo, un regno scon finato di camuffamenti sessuali e oralità che avrebbe continua to ad affascinarlo. L’universo browninghiano di ansie castratorie e ripetuta frustrazione sessuale parrebbe in contrasto con il pubblico del l’era del jazz, incitato di continuo a spassarsela e scopare. Fre* Gioco di parole tra bit (un po’), e bite (morso). (N.d.T.)
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derick Lewis Allan ricordava così il periodo in Only Yesterday : «Il requisito fondamentale per la sanità mentale era avere una vita sessuale disinibita. Se si voleva stare bene in salute ed essere felici, bisognava obbedire alla libido. Tale era il vangelo freudiano innestato sulla mentalità americana... Ai preti che predicavano la virtù dell’autocontrollo i critici schietti replica vano che ciò era fuori moda e pericoloso».26 In ogni caso una parte dell’America - una grossa parte, a giudicare dai biglietti venduti al botteghino - voleva sentire cosa ne pensava Browning. Né lui né il pubblico di Chaney erano annoverabili fra gli snob di Manhattan o la cricca cine matografica. I due uomini, in realtà, erano dei solitari che rara mente socializzavano con l’ambiente hollywoodiano. Il richia mo di Chaney e Browning era rivolto alle masse lavoratrici, anche se lo stipendio di quest’ultimo alla Metro-GoldwynMayer non era certo «proletario»; alla fine degli anni Venti si dice che ammontasse a 150.000 dollari,27 il doppio di quanto guadagnava il presidente degli Stati Uniti. Si trattava probabil mente di una stima gonfiata - un promemoria interno di un altro studio sugli stipendi dei registi nel 1926 fissava il com penso annuale di Browning a 78.000 dollari28 -, ma anche la cifra più bassa lo vede prossimo alla cima nella scala dei registi a contratto. Il paragone del cineasta con una figura politica non è comunque fuori luogo, perché il cinema costituiva una sorta di retorica populista, con Tod Browning che si rivolgeva alle paure più viscerali dell’America, senza tuttavia lenirle. Sia Lon Chaney sia Tod Browning restano degli enigmi: il regista sarebbe morto privo di eredi e in solitudine; la famiglia sopravvissuta all’attore non ha mai collaborato con un biogra fo. Curt Siodmak, lo sceneggiatore-regista che lavorò in diver se occasioni con il figlio di Chaney, Creighton (noto professio nalmente come Lon Jr.), ricordava il padre come «un sadico, dal modo in cui aveva trattato Lon da bambino e da ragaz zo».29 Nella ricostruzione di Siodmak, Lon Jr. emergeva dal dominio paterno come «una persona torturata». L’Uomo dai Mille Volti forse aveva buoni motivi per mantenere privato il suo vero volto. Anche l’ossessione di Browning nel dipingere malcelati traumi genitali è un enigma impenetrabile. Per i freu
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diani stretti, il timore castrarono è sufficiente a far girare il mondo; raramente è richiesta una castrazione effettiva. Brown ing rivela una psicologia puramente personale, o solo la dispo nibilità ad accedere a un terrore primario di pubblico do minio? E in una certa misura fatale che questi due uomini morbo si, entrambi trascinati dai rispettivi demoni interiori a proietta re indelebili immagini di autoframmentazione, si siano in qual che modo completati a vicenda. E, come qualche scomponibile mostruosità da fiera, era qualcosa che il pubblico voleva vede re, o in cui riconoscersi. Proprio come il burlesque stava diven tando sempre più salace, Tod Browning e Lon Chaney pareva no intenzionati a scoprirsi e insieme nascondersi con un nuovo tipo di spogliarello, che non si fermava alla pelle, né all’osso, né, infine, al cervello. O, come Diane Arbus avrebbe spiegato l’«identità» a una classe di studenti trent’anni dopo, è quello che rimane quando si elimina tutto il resto.50
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Dramma - ciò che la letteratura fa di notte. George Jean Nathan (1931)
Simili a un sinistro sistema divistico binario, fissate nel crepu scolo dei nostri orizzonti culturali, le immagini gemelle di Dra cula e del mostro di Frankenstein offrono ai tempi moderni una mitologia dinamica e demoniaca. Ciascuna figura racchiu de l’altra per contrasto: Dracula è soave, sinistro, soprannatu rale e maestoso, uno spettro aristocratico che scivola attraverso una serratura sotto forma di nebbia, trasformandosi da uomo in pipistrello e in lupo e viceversa, mai con un capello fuori posto. All’opposto, la creatura di Frankenstein è irredimibil mente infima, un proletario sgraziato. Come una parodia del metodo scientifico, si muove lento, a tentativi, un passo pesan te alla volta. Dracula svolazza senza sforzo, mutando forma come vuole; l’agire del vampiro è continuato. Il mostro di Frankenstein mostra letteralmente tutte le proprie cuciture. Considerati insieme, i due mostri formano una configurazione devastante: la parte destra del cervello, quella istintiva, e la sinistra, quella logica, ombra e sostanza, superstizione e scienza; la più bizzarra delle coppie bizzarre. Praticamente non esiste un ambito della cultura moderna in cui non abbiano fatto sentire la propria presenza: nella letteratura e in teatro, al cinema e in televisione; nel commercio e nella pubblicità; nella metafora so ciale, scientifica e psicologica. In soldoni, sono dovunque. Pochi esseri frutto della fantasia possiedono un fattore di riconosci mento più elevato; competono con Babbo Natale e Topolino co me costruzioni mentali di massa. Gli usi che se ne fanno sono infiniti. Nella forma cereale di Count Chocula e Frankenberry, vengono somministrati ai bambini come «panico quotidiano». * * Gioco di parole tra daily bread (pane quotidiano) e daily dread (paura quoti diana). (N.d.T.)
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Le storie di Dracula e Frankenstein ebbero la loro origine letteraria nello stesso ambito: la famigerata festa tenutasi nel 1816 a Villa Diodati vicino Ginevra. Fra i partecipanti, Percy Bysshe Shelley con la seconda moglie Mary; George Gordon, Lord Byron; e l’amico e medico di Byron, il dottor John Polidori. Fu suggerito che tutti si cimentassero nella composizione di una storia di fantasmi. Byron finì per presentare un fram mento di romanzo su un romantico revenant che Polidori ela borò nella forma di romanzo popolare, Il vampiro (1819), dif fusamente considerato opera di Byron. Mary Shelley, dopo aver ascoltato il marito e Byron discutere teorie speculative sulla base elettrica della vita e la rianimazione galvanica dei cadaveri, ebbe una potente, fulminante visione che «si levava nella mia mente con una vivacità molto al di là degli usuali limiti delle fantasticherie. Io vidi - con gli occhi chiusi ma con un’acuta immagine mentale - io vidi il pallido studente di arti proibite inginocchiato di fronte alla cosa che aveva messo in sieme. Vidi la forma orribile di un uomo disteso, e poi grazie all’opera di un qualche potente strumento, lo vidi dar segni di vita e agitarsi con un penoso moto semi-vitale».1 La sua immaginazione culminò in Frankenstein o II Prometeo moder no, pubblicato per la prima volta in tre volumi nel 1818. Cadaveri rianimati erano anche il soggetto del Dracula di Bram Stoker (1897), la storia di un principe guerriero transil vano morto-vivente che si trasferisce dal suo castello nei Car pazi alla Londra moderna in cerca di sangue fresco. Stoker, la cui vocazione primaria era quella di amministratore del famoso attore-impresario Henry Irving, scriveva nel tempo libero ton nellate di romanzetti. Uno degli enigmi centrali su Dracula è la molla che innalzò il libro tanto al di sopra del resto della sua opera. Certi commentatori hanno suggerito una febbrile quanto freudiana fonte di ispirazione che confinava con la pos sessione; un’eventualità più terra terra è che il manoscritto sia stato rielaborato da qualcun altro. H.P. Lovecraft, celebrato poeta delle fantasie americane più oscure, suggeriva nel 1932 uno scenario analogo: «Conosco una vecchia signora», scrive va, «che avrebbe dovuto revisionare Dracula all’inizio degli an ni Novanta: vide il manoscritto originale, un pasticcio senza
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Ddt>lnia, un tocco atmosferico seppellito nell’accumulo di rumore hI I Skal
tendo quindi tratti sovrumani impossibili da raggiungere per un attore o una controfigura. Il film non andò mai oltre i pro getti iniziali. Tre anni dopo. Cari Laemmle Jr., forte del successo di Dracula al botteghino, portava avanti i suoi progetti di realizza re su pellicola il Frankenstein di Mary Shelley. La Universal aveva acquistato i diritti per l’adattamento di John L. Balder ston e Peggy Webling 1’8 aprile 1931, appena sette settimane dopo l’uscita di Dracula. L’agente di Balderston, Harold Freedman, non era riuscito a ottenere niente di simile ai 40.000 dollari che aveva concluso per Dracula-, la Universal versava in pessime condizioni finanziarie. Astutamente, Freed man suggerì un compromesso: Balderston e la Webling avreb bero accettato una somma inferiore - 20.000 dollari, per la precisione - in cambio dell’uno per cento dell’incasso lordo della pellicola ricavata da Frankenstein. Comprando in antici po i diritti teatrali, la Universal avrebbe potuto produrre Fran kenstein senza competizione né ritardi. E avendo speso parec chi soldi per il diritto a una solida e provocatoria drammatizza zione di un classico della letteratura, lo studio di conseguenza seguì una tradizionale procedura hollywoodiana: buttarono via il tutto. La prima scelta annunciata per la creazione di Franken stein fu il regista francese Robert Florey, che concepì una sce neggiatura in cui il mostro emergeva come un semplice bruto, svuotato persino degli accenni di pathos conferitigli da Balder ston e dalla Webling. Nelle intenzioni di Florey c’era un film stilizzato ed espressionista alla maniera di Caligari, per cui girò un paio di bobine sui set rimasti da Dracula, come dimostra zione di stile. Il mostro riluttante era Bela Lugosi, pesantemen te truccato e inceronato, probabilmente con un’enorme par rucca o protesi cranica nello stile del Golem. Esistono diversi resoconti di questo provino per il trucco andato perduto, e quasi tutti si contraddicono. La parrucca, comunque, è un det taglio convincente, poiché in quasi ciascun disegno, descrizio ne o fotografia di scena per adattamenti teatrali e cinematogra fici di Frankenstein dal 1823 fino al 1930 è presente il mostro con una quantità di capelli fluenti, sparati o arruffati.23 Lugosi
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recalcitrava a interpretare una parte muta, e Florey fu rimpiaz zato da James Whale, un regista teatrale inglese segnalatosi a Hollywood in tre film di guerra: Gli angeli dell’inferno {Hell's Angels, 1930) di Howard Hughes, in cui Whale diresse senza essere accreditato le sequenze coi dialoghi quando Hughes, sorpreso dal passaggio al sonoro, fu costretto a rigirare il film; Journey’s End (t. lett.: La fine del viaggio, 1930), basato sul successo teatrale londinese di Robert C. Sherriff (già diretto sulle scene da Whale); e Waterloo Bridge (t. lett.: Il ponte di Waterloo, 1931), il suo primo film per la Universal, anch’esso basato su un dramma (di Robert Emmet Sherwood), l’incontro a Londra fra un soldato ferito e una ballerina (che finirà per prostituirsi) alla fine della guerra. Il film fece una tale impres sione su Cari Laemmle Jr. che questi offrì a Whale il diritto di scelta su qualsiasi progetto di cui lo studio detenesse i diritti. Fra una trentina di lavori, Whale scelse Frankenstein, ma solo perché nient’altro riusciva a interessarlo. Almeno, fu il suo ra gionamento, non era un altro film di guerra.24 Frankenstein, tuttavia, avrebbe avuto un debito nei con fronti del tempo passato da Whale nelle trincee cinematografi che (così come in quelle reali; i suoi primi tentativi sulla scena si ebbero in un campo di prigionia vicino ad Hannover nell’ul timo anno di guerra).25 Dopo che la Universa! ebbe preso in considerazione Leslie Howard per il ruolo eponimo, Whale scelse Colin Clive, un attore dall’aria maledetta e nervosa che aveva interpretato il tormentato capitano Stanhope nelle ver sioni teatrali e cinematografiche di Journey’s End: l’intensità nevrotica di Clive era una caratteristica perfetta anche per Henry Frankenstein, un uomo sempre al limite. E Mae Clark, la prostituta di Waterloo Bridge, sarebbe stata la sua fidanzata Elizabeth. Per trovare il mostro ci volle un po’ di più. La nuo va concezione della creatura richiedeva un attore di un certo eclettismo e una certa sensibilità. La sceneggiatura definitiva, opera di Garrett Fort e Francis Ford Faragoh, usò la versione di Florey come intelaiatura, ma vi sparse dappertutto una pro fonda nota di pathos. «Non cammina come un robot», si dava la briga di spiega re la sceneggiatura. Il suo primo verso sullo schermo doveva
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essere «straziante, pietoso... come quello di un animale sper duto».26 «Avevo trascorso dieci anni a Hollywood senza suscitare la minima reazione», ricordò Karloff diversi anni dopo. «Poi un bel giorno me ne stavo seduto a pranzo alla mensa della Universal con un’aria piuttosto depressa, credo, quando un uomo mi mandò un biglietto dove mi chiedeva se mi andava di fare un provino per la parte di un mostro. »27 Il collega di Whale, David Lewis, gli aveva suggerito di dare un’occhiata a Karloff, che aveva appena impersonato in maniera convincente un gangster in The Criminal Code. Kar loff, il cui vero nome era William Henry Pratt, a volte guidava un camion per un deposito di legname in attesa di una nuova parte. Non si faceva illusioni sul fatto che l’industria cinemato grafica potesse garantirgli da vivere, e non si aspettava minima mente che il suo nome sarebbe divenuto un marchio di fabbri ca per l’orrore. Whale riteneva che il suo volto avesse delle possibilità interessanti; da pittore dilettante, il regista eseguì uno schizzo dell’attore, esagerando in via sperimentale le spor genze delle ossa nella sua testa. Mostrò le proprie idee a Jack P. Pierce, capo del reparto trucco alla Universa! fin dal 1926. Pierce era stato responsabile dello spaventoso ghigno di Con rad Veidt in The Man Who Laughs (t. lett.: L’uomo che ride, 1929, di Paul Leni), basato sul romanzo di Victor Hugo, e aveva creato il trucco di Lugosi per il provino cinematografico di Florey per Frankenstein. Pierce era considerato da quanti lavoravano con lui un genio, pur se egoista; non riconobbe mai pubblicamente il ruo lo di Whale nell’ideazione del trucco per Frankenstein. Forse la concessione più stretta al riconoscimento di un debito fu in un suo commento del 1939 al «New York Times»: «Non dipendevo solo dalla mia immaginazione».28 Disse che aveva trascorso tre mesi di ricerche preliminari in campi come l’ana tomia, la chirurgia, la criminologia e l’elettrodinamica. La crea zione definitiva di Frankenstein, concludeva, era un risultato più o meno logico di questi sforzi. A uno sguardo retrospettivo, appare chiaro che Pierce e Whale trassero ulteriore ispirazione non tanto da idee perso-
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nuli quanto dall’estetica stilizzata da età delle macchine che, nei 1931, era diventata una forza dominante nelle arti applica te. Ispirato ecletticamente da cubismo, espressionismo e dalle teorie architettoniche del Bauhaus, questo stile zigzagante si fece ben presto una strada spigolosa e angolare nel mondo della pubblicità, della decorazione, e del design industriale. Il movimento aveva avuto inizio a Parigi nel 1925, all’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes, e questa denominazione originò i due nomi più comunemente usati per descrivere il movimento: Art Déco e Art Moderne. I designer americani ne affinarono ulteriormente l’estetica, e «Fortune» anni dopo ricordava che le vetrine dei negozi sulla 5* Strada si riempirono ben presto dei «grotteschi manichini, attrezzi cubisti, disegni strampalati»29 che avrebbero definito lo stile. «Grottesco manichino» ben definisce il mostro di Frankestein, amalgama di corpi convenzionali fatti a pezzi e riassem blati seguendo i nuovi principi logico-angolari ed elettromec canici. La testa squadrata - un motivo comune nella grafica pubblicitaria del periodo - evoca potentemente il tormento di un’antica coscienza costretta a occupare un paradigma nuovo, un cervello tondeggiante legato malamente in un cranio a con figurazione meccanica. La sceneggiatura così descriveva la sua struttura: «La sommità del capo presenta una curiosa sporgen za piatta simile al coperchio di una scatola. I capelli sono mol to corti e piuttosto prevedibilmente disposti sopra la sporgen za per nascondere il difetto di giuntura dove è stato inserito il cervello».30 Il mostro è un incubo da grafico modernista: le cuciture sono esibite, le viti e le giunture sporgono. La forma segue la funzione, ma appena appena. Oltre a Whale e Pierce, diversi altri disegnatori della Uni versa! e persino del reparto promozionale contribuirono alle idee visuali per il mostro in cantiere. Due elementi spiccavano: la fronte sporgente, che suggeriva una regressione nella scala evolutiva, e la concezione paradossalmente futuristica di un uomo completamente meccanico secondo la linea indicata da «Televox»,31 un automa congegnato dai laboratori Westin ghouse alla fine degli anni Venti. L’ideazione più «meccani
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ca», opera dell’illustratore di poster Universal Karoly Grosz, introdusse per la prima volta la nozione di un bullone d’acciaio che trapassava il collo, un particolare che avrebbe simbolizzato da solo la totalità del mito di Frankenstein. Come ha osservato la storica dell’arte Sidra Stich, questo tipo di stilizzazione, già nell’opera di Max Ernst, «dislocava, sopprimeva, e ridefiniva gli umani per conformarli al mondo delle macchine»,52 una tendenza che seguiva la prima guerra al mondo completamente industrializzata. Infine, il mostro di Pierce-Karloff è ovviamen te debitore al netto profilo postebellico di Conrad Veidt nel Gabinetto del dottor Caligari (Whale aveva studiato il film per preparare Frankenstein), e risale ancora più indietro al prototi po da baraccone dell’«Uomo o Macchina» che aveva origina riamente ispirato gli sceneggiatori di Caligari negli anni di guerra. Il mostro di Karloff, naturalmente, mina i principi dell’e stetica delle macchine mentre ne trae ispirazione; benché la creatura sia eminentemente moderna, non è assolutamente déco\ qualcosa in più, a dire il vero, come un malconcio cappuc cio decorativo per un’economia allo sfascio. Come un mo struoso doccione sul grattacielo Chrysler (ultimato nel 1930), il mostro di Frankenstein è tuttavia una ulteriore, inevitabile stimma dell’estetica meccanica: un minaccioso e indimentica bile pezzo di architettura popolare. «Eravamo tutti affascinati dall’evoluzione del volto e della testa di Karloff », ricordava l’attrice Mae Clarke, che aveva un posto sul set. «Il cerone bianco sulla faccia veniva sfumato in grigio cadaverico. Poi un’improvvisa ispirazione per dare al volto una tinta verde. Ci incuteva timore ed ecco che riconsi deravamo l’intera idea.»33 (Si dice che fu lo stesso Karloff ad aver suggerito le palpebre pesantemente biaccate, che aggiun gevano una dimensione di pathos e incomprensione.) Quando il trucco fu pronto per un provino su pellicola -in banco e nero - Karloff non aveva idea di quanto fosse efficace il prodotto finito. Avrebbe ispirato orrore... o ilarità? «Ci stavo proprio pensando, mentre provavo la camminata, quando svoltai nel corridoio e mi ritrovai faccia a faccia con un attrezzista. Era il primo a vedere il mostro: lo osservai per
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studiarne la reazione, che fu immediata. Diventò bianco, de glutì, e sparì dalla vista lungo il corridoio. Non l’ho più visto. Poveruomo, avrei tanto voluto ringraziarlo: fu lo spettatore che per primo mi fece sentire un mostro.»34 La storia, nella sua versione filmata, attingeva liberamente a fonti diverse: il romanzo di Mary Shelley, i film 11 Golem e Caligari, e precedenti adattamenti drammatici di Frankenstein. L’assistente di Frankenstein, Fritz (interpretato da Dwight Frye, il Renfield di Dracula, descritto mirabilmente dallo scrit tore Stefan Kanfer come «un attore ipertiroideo con un sus surro scenico delle dimensioni di Pasadena»35), era stato por tato sulle scene londinesi per la prima volta nel 1823. Il perso naggio era stato ripreso da Horace Liveright e Louis Cline nella loro riscrittura inedita del copione di Balderston, poi venduta alla Universal. Il contributo di Liveright al moderno genere horror, di conseguenza, comprendeva non solo la resurrezione/sfruttamento delle sue due icone maggiori, ma an che la diffusione del motivo del «gobbo da laboratorio». I titoli di testa di Frankenstein si sovrappongono a un vol to indistinto e demoniaco rivolto allo spettatore attraverso un campo di occhi ruotanti, forse ispirati da disegni analoghi a quelli usati sui dischi stroboscopici, i giocattoli girevoli vitto riani che anticiparono l’immagine in movimento. L’effetto im merge lo spettatore in un’esperienza di tipo primordiale, insie me infantile e terrorizzante. La sequenza di apertura in un ci mitero conteneva una sorta di shock viscerale per il pubblico del 1931: il suono della terra che si infrangeva sul coperchio di una bara. Il microfono era stato sistemato proprio all’inter no della cassa, il modo migliore per amplificare i riverberi. Ricordava David Lewis: «Quel film è stato imitato tante di quelle volte che al giorno d’oggi queste scene non turbano più la gente. Ma nel 1931, era roba tremendamente pesante». A un’anteprima a Santa Monica, alcuni spettatori espressero il proprio giudizio coi piedi. «Più si andava avanti», diceva Le wis, «e più la gente si alzava, usciva, ritornava, usciva di nuo vo: una reazione allarmante.»36 Messo insieme a partire da resti di tombe, esecuzioni e scuole di anatomia, il mostro viene alla vita in un orgasmo di
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macchinari scricchiolanti da età tecnologica. Nel 1818, Mary Shelley aveva fatto un fugace riferimento a «un potente mac chinario»; nel 1931 quell’immagine onirica faceva presa sulla realtà contemporanea. I luccicanti generatori ad arco incande scente di "Frankenstein, creati dall’ingegnere elettrico Kenneth Strickfaden, costituivano un fantasioso commento ad alto po tenziale sull’era delle macchine. «Lo stile dipendeva dal tipo di rottami che avevo a disposizione», ricordò cinquant’anni più tardi, benché il suo interesse per l’elettricità, i suoi utilizzi e metafore, non fosse per nulla derisorio. «L’elettricità è vita», dichiarò Strickfaden all’intervistatore George E. Turner. «Sia mo solo un insieme di scintille con proporzioni variabili di aria.»57 I suoi sentimenti riflettevano le tendenze nettamente riduzionistiche e orientate alla meccanica di gran parte della cultura postbellica. A milioni di ignoti era stata insinuata l’im pressione che la vita - e la morte - moderna non fossero altro che un’anonima catena di montaggio verso il massacro. Il film di Whale dipingeva un mostro saldamente aggrap pato a questa confusione, una figura patetica ferrata, come nel la realtà, sullo spinoso confine tra umanità e congegno mecca nico. La precisa collocazione temporale è vaga: pare il presen te; le donne, per esempio, indossano abiti alla moda del 1931, ma benché il film «riguardi» la scienza, tutte le diavolerie tec nologiche e industriali - automobili, radio, telefoni - sono to talmente assenti, quasi che la loro energia sia stata integral mente trasportata nelle apparecchiature del laboratorio di Frankenstein. H film è ambientato in un villaggio tedesco, tut tora popolato (come durante la guerra) di personaggi che par lano con accenti inglesi e americani. Poiché le sequenze del vilaggio furono girate negli stessi esterni usati per All’ovest niente di nuovo, senza dubbio diversi spettatori provarono una certa dose di déjà vu, paragonassero o meno Frankenstein con l’acclamato film bellico. Una delle più celebri sequenze di Frankenstein non fu vi sta nella sua integrità per quasi cinquant’anni. Il mostro incon tra una bambina sulla sponda di un lago. Senza paura, lei lo porta a giocare coi fiori, lanciandoli sull’acqua per vederli gal leggiare con grazia. Il mostro, rapito dall’estasi, lancia sulla
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scia dei fiori anche la bambina, che a differenza delle marghe rite annega e muore. La scena finì per essere radicalmente ta gliata. Anni dopo, Karloff sosteneva che la sequenza non fun zionava: James Whale aveva insistito perché lui lanciasse la bambina con un movimento brutale dall’alto invece di deporla dolcemente sull’acqua. L’attore, che aveva problemi alla schie na, non riuscì a gettare la bambina molto lontano, e la pastic ciata azione che ne seguì appariva buffonesca. Fortunatamen te, la semplice idea della morte della bambina era tanto scon volgente (pare che Cari Laemmle Sr. abbia fulminato la segre taria con un: «Nessuna bimba affogherà mai in un mio film!»58) che la scena venne quasi integralmente soppressa, finendo con,-il mostro che tentava di afferrare la piccola (e lasciava ironicamente ad alcuni spettatori l’impressione di aver perso lo spettacolo di un’inaudita molestia). Diversi fraintendimenti hanno preso piede sulla portata della censura a Frankenstein negli Stati Uniti. Diversi impor tanti tagli - l’annegamento della bambina, la battuta di Colin Clive «Ora so come si deve sentire Dio» ecc. - furono richiesti dalla Mppda solo dopo la proposta di ridistribuzione del film nel 1937.1 sei Stati con commissioni di censura, naturalmente, avendo la facoltà di tagliuzzare a loro piacimento, la sfruttaro no in pieno - in particolare, pessimo fu il trattamento inflitto dal Kansas. Ma nella California dai censori illuminati pare che il film sia stato proiettato integro -: la battuta su Dio di Clive, per esempio, era citata in una recensione a San Francisco. E la scena di annegamento sembrava essere ancora al suo posto quando la Universal sottopose il film alla Mppda per una ripu litura nella riedizione; i censori dell’industria avanzarono obie zione formale il 9 giugno 1937. (La sequenza, che si trova in gran parte intatta al British Film Institute, fu restaurata infine per la versione in laserdisc di Frankenstein distribuita dalla MCA negli anni Ottanta, ma manca tuttora dei primi piani della bambina che annega, particolari tagliati per volontà dei censori inglesi.) Frankenstein sollevò un vespaio di polemiche tra i censori del Québec,59 cattolici che sollevarono obiezioni religiose al tema della tracotanza nei confronti della divinità. T.B. Fithian
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della Universal combinò una proiezione per due preti cattolici di Los Angeles, e la loro opinione fu che Frankenstein non offendeva in alcun modo le dottrine cattoliche. Ma approvaro no il suggerimento da parte di Fithian per cui il modo migliore di vincere la censura canadese poteva essere «con l’aiuto di una didascalia adeguata o di un preavviso che indicasse la na tura onirica del film. Forse potremmo iniziare a partire dal libro, con le voci fuoricampo di Shelley e Byron e della signora Shelley che discutono di un racconto fantastico e poi una dis solvenza sul film. Ci piacerebbe fare qualcosa del genere». Es senzialmente, la Universal proponeva di fare la stessa cosa fatta dai tedeschi con II gabinetto del dottor Caligari dieci anni pri ma. Ma la diplomazia finì per prevalere e i canadesi approva rono Frankenstein in pratica nella sua forma originale. In ogni caso a tutte le copie del film fu appiccicato un breve prologo parlato di Edward Van Sloan, l’attore che aveva interpretato il mentore di Henry Frankenstein, il dottor Waldman. (La Universal aveva usato Val Sloan in un’analoga circostanza per l’epilogo di Dracula.) Diversi scrittori a contratto della Univer sal, compreso l’esordiente John Huston, collaborarono al pro logo:
Il signor Cari Laemmle ritiene che sarebbe forse ineducato presentare il film che segue senza una parola di amichevole avvertimento. Stiamo per svelarvi la storia di Frankenstein, un uomo di scienza, che cercò di creare un uomo partendo dalla propria immagine, oltrepassando Dio. E uno fra i più strani racconti mai narrati. Affronta i due grandi misteri della creazione: la Vita e la Morte. Ritengo che possa elettrizzarvi. Che possa sconvolgervi. O persino disgustarvi. Così, se qual cuno tra di voi ritiene innocuo sottoporre i propri nervi a una tale tensione, questa è la vostra opportunità di... be’, vi abbia mo avvertito! Questa premessa non contribuì granché ad ammorbidire i censori, e il film fu bandito a Belfast, nell’Australia del Sud, in Cecoslovacchia, e, per un certo periodo, in Svezia. In Ame rica, uno degli Stati maggiormente persecutori fu il Massachu setts, che richiedeva tagli tanto numerosi da rendere il film
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The Mon\t in rovina. Nel bel mezzo della colazione, mentre divide va i resti della cioccolata natalizia con un commilitone, una bomba esplose sul tetto della struttura. «C’è una scena in L’Aiglon», scriveva l’attore, «in cui si sentono gridare i fantasmi di Wagram: “La mia gamba!” “Il mio braccio!” “La mia testa!” e
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fu questa la scena che ritrovai quando ripresi i sensi. Tutt’intorno a me i miei amici si lamentavano straziati e dicevano a tutti quali ferite avevano ricevuto”.» Thesiger comprese di es sere ancora vivo, ma non era sicuro di potersi muovere.
Poi gli occhi mi ricaddero sulle mani. Erano coperte di san gue e ridotte alla consistenza di un budino. Le dita spenzola vano nelle fogge più bizzarre, e capii che alcune si erano spez zate. Tentai di rialzarmi in piedi, chiedendomi intanto se il mio compagno di colazione fosse risucito a fuggire prima del peggio. Non riuscivo a vederlo, ma si era lasciato dietro gli scarponi, e conscio che per un soldato dopo il fucile vengono loro, decisi di portarglieli. Ma come? Non potevo usare le mani. Forse, pensai, potrei sollevarli coi denti. Sempre piutto sto incerto sulle gambe, indietreggiai con cautela e fu allora che vidi che in ciascuno scarpone restava ancora qualche cen timetro di gamba. Ecco tutto ciò che rimaneva della persona con cui avevo diviso la cioccolata solo pochi istanti prima.44
Immagini di questo tipo facevano parte dell’esperienza co mune a innumerevoli e anonimi giovani europei e americani. Molti non riuscirono a tornare per farsi coinvolgere nell’indu stria dell’orrore. Ma molti altri sì. Le scene di Frankenstein continuarono a rimanere un terreno di incubazione culturale per immagini di uomini fatti a pezzi e per l’ossessione fantasti ca - da shock per le bombe - di rimetterli di nuovo insieme. La vigilanza crescente dell’amministrazione del Codice po teva ormai comportare una complicata lotta coi censori anche sulle minime sfumature di un copione, e la sceneggiatura pre sentata da Whale per La moglie di Frankenstein fu un assoluto sfacelo. Come ad anticipare le consuete obiezioni, il film co minciava con un prologo dove appariva Mary Shelley (Elsa Lanchester; tutte le parti principali erano scritte con un attore in mente) che ricordava al marito e all’ospite Lord Byron che con Frankenstein era stata sua intenzione proporre una «lezio ne morale». Dissolvenza sul momento culminante del primo film, dove apprendiamo che il mostro di Frankenstein (Kar loff) non è morto nel mulino in fiamme, ma è sopravvissuto al rogo in una cisterna sotterranea. Sfigurato e d’aspetto ancora
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più orribile, ritorna a terrorizzare le campagne, di volta in vol ta banalizzando o subendo brutalità dagli indigeni ottusamen te sgradevoli. Fatta amicizia con un eremita cieco e imparato a parlare (un idillio rovinato, naturalmente, dall’intrusione degli irascibili campagnoli), il mostro s’incontra in un cimitero con l’intrigante dottor Pretorius, che gli promette una compagna e lo usa per ricattare Henry Frankenstein (Colin Clive) e coin volgerlo nelle blasfeme nozze. Anche Pretorius ha creato la vita - esseri giocattolo in miniatura conservati in barattoli (un re, un demone, una sirena) - e vuole mescolare le proprie tec niche con quelle del vecchio discepolo. Elizabeth, moglie di Henry (Valerie Hobson, più tardi la signora John Profumo) viene rapita dalla creatura, uccisa, e il suo cuore trapiantato in quello del mostro femmina. Quando la sposa viene alla vita, rifiuta i progetti fatti su di lei, il che scatena nel laboratorio una cataclismica esplosione che riduce ad atomi tutti i pre
senti. Whale camminava sul ghiaccio sottile dell’ufficio Hays, ma parve gradire la sfida. «Quando Joe Breen scriveva a un produttore che un film... non poteva sperare di ricevere un sigillo d’approvazione, era come se sbattesse ben chiusa la por ta di una segreta»,45 ha scritto Gerald Gardner nel suo The Censorship Papers. Breen, che prima di questo incarico era sta to un giornalista di ispirazione cattolica, notò subito il tono irriverente della vicenda. «In tutto il copione», scrisse, «vi sono diversi riferimenti a Frankenstein che paragonano lui a Dio e la sua creazione del mostro a quella delTUomo da parte di Dio. Queste allusioni dovranno essere assolutamente sop presse.»46 Diversi mesi più tardi, quando gli fu sottoposta una versione ritoccata del copione, Breen richiese comunque nu merosi cambiamenti, diversi dei quali per allusioni c immagini religiose. Whale si rivelò un corrispondente affascinante, an che se l’Ufficio Breen cercava di tarpargli le ali. Sempre cortese e ansioso di non essere percepito come «piantagrane», si spin se fino a ricordare a Breen sue precedenti obiezioni che forse gli erano sfuggite.
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IO dicembre 1954
Caro signor Breen, di seguito i cambiamenti proposti, concernenti la sua let tera del 5 dicembre, e anche la sua lettera del 7 dicembre. Poiché, comunque, la precedente lettera è già abbastanza complessa, ritengo che sia meglio accludere quella da me scritta subito dopo la riunione, giacché nella sua del 5 dicem bre vi sono alcune osservazioni riguardanti divinità, visceri, immortalità e sirene che lei non ha riproposto, e sono real mente ansioso che il copione incontri la sua approvazione sotto ogni dettaglio prima di iniziare le riprese.
Con i migliori saluti, sinceramente suo, James Whale.47
Whale era intenzionato a ridere ultimo, e ci sarebbe riusci to coi controfiocchi. Sotto l’apparenza di una «moralizzazio ne» del film, l’onnipresente immaginario cruciforme avrebbe suggerito asserzioni più «blasfeme» di qualunque taglio impo sto da Breen, per esempio il paragone diretto del mostro di Frankenstein con Cristo. Il regista fece diversi aggiustamenti e compromessi (a Elizabeth fu concesso di sopravvivere, fuggen do col marito nel finale) ma, con la sua capacità diplomatica, riuscì a ottenere l’approvazione del Codice mentre manteneva intatto il materiale più sovversivo. Breen non capì mai l’equa zione mostro/Cristo (neppure nella versione definitiva del film, dove Karloff è legato a un palo e levato alto di fronte a una folla impazzita), e analogamente ignorato fu il problema della sessualità del dottor Pretorius (persino quando irrompe nella stanza matrimoniale di Henry Frankenstein scacciandone arro gantemente la consorte e tentandolo con un sistema alternativo di creazione della vita). * Come un personaggio di Poe in La * In una novcllizzazione elaboratamente edulcorata della sceneggiatura da par te di Michael Egremont - in realtà lo scrittore Michael Harrison - pubblicata in Inghilterra nel 1936, Pretorius è più candido riguardo alle proprie motiva zioni in laboratorio. «Vieni», dice a Henry, «“andate c moltiplicatevi". Ob bediamo al precetto biblico: tu, naturalmente, puoi scegliere i sistemi natura li; ma per quanto mi riguarda, temo di non poter percorrere altra strada se non quella scientifica.» (N.d.A.)
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lettera rubala, Whale pareva consapevole che certe cose resta no meglio nascoste in piena vista. L’unico passo falso fu un vistoso abito scollato indossato da Elsa Lanchester mentre bla terava la sua «lezione morale». Qualunque lezione ivi implica ta sfuggì a Joseph Breen, che informò la Universal che «le inquadrature all’inizio del film, in cui vengono esibiti e accen tuati i seni del personaggio della signora Shelley, costituiscono una violazione del codice».48 Lo studio acconsentì a eliminare i primi piani. Fortunata mente, la seconda apparizione della Lanchester nei panni della Sposa non comportò altri tagli; era coperta da capo a piedi di bende, e più avanti da una sorta di sudario matrimoniale. Il reparto pubblicità preparò immagini della Lanchester e degli altri membri inglesi del cast che sorseggiavano tè in abiti di scena, ma, come ricordò più tardi l’attrice, era tutta una par venza. «Bevetti meno liquidi possibile. Sarebbe stato troppo dover andare al bagno - con tutte quelle bende - e dovermici far accompagnare dalla costumista. »49 Elsa Lanchester ricordava subdolamente la persona del truccatore Jack Pierce, che aveva elaborato col regista Whale l’idea del mostro femminile. Da celebrato artefice del trucco di Karloff, Pierce si «elevò ancora più in alto nel suo paradiso personale quando stava per nascere la Sposa. Aveva il proprio sancta sanctorum, e quando ci si entrava (non ci si andava den tro; si entrava), era lui a dire buongiorno per primo. Se parlavo io per prima, lui mi fissava e mostrava i denti superiori. Si vestiva in tenuta completa da chirurgo prima di un’operazione. Alle cinque del mattino questo me lo rendeva estremamente sgradevole».50 Pierce prendeva il suo lavoro di ideatore supre mo di maschere culturali con seriosità mortale, scriveva l’attri ce, «garantendosi a piene mani odio e intolleranza». Quando La moglie di Frankenstein fu distribuito nel mag gio 1935 non era certo l’intolleranza a difettare ai vari censori. Dal tono dei suoi commenti, Breen aveva garantito l’approva zione a denti stretti. Si era «gravemente preoccupato»51 del primo taglio nel film, e anche dopo ulteriori esclusioni effet tuate dietro sua richiesta prevedeva «considerevoli difficoltà... ovunque la pellicola venisse proiettata».52 Aveva ragione; i
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santi fai-da-te delle province cercavano seriamente di spassar sela con il corpo della Moglie. Paul Krieger, direttore della filiale di scambio Universal a Cincinnati, scrisse a Sydney Singerman della casa madre il 7 maggio 1935: «In accordo col mio telegramma, accludo una serie di soppressioni ordinate dall’ufficio censura dell’Ohio... Le ritengo decisamente drasti che ed estremamente perniciose per il successo del film».53 Lo zar della censura nell’Ohio, il dottor B.O. Skinner, era stato sollecitato a esprimere un verdetto sul film, e aveva risposto, irritato, con un elenco insolitamente fitto di richieste di tagli. La Universal si rivolse a Breen: avrebbe potuto far intercedere direttamente Will Hays? Breen acconsentì, non senza mostrare esasperazione. Scrisse ad Hays 1’8 maggio: «Quale responsabi lità abbiamo noi,- se ne abbiamo una, di difendere un film di fronte agli uffici della censura, quando lo studio rifiuta delibe ratamente di accettare il nostro consiglio in materia e decide di rischiare la mutilazione?»54 Hays evidentemente decise di prendere le parti dell’industria, e rimise al suo posto Skinner; l’Ohio optò per l’eliminazione di un’unica scena e di due spez zoni di dialogo. La moglie di Frankenstein fu bandito da Trinidad, Palesti na e Ungheria. «Le soppressioni dei censori svedesi», scrisse Gerald Gardner, «erano tanto numerose che il film pareva destinato a venire distribuito come cortometraggio.»55 E ii Giappone avanzò una delle obiezioni più memorabili: la scena in cui il dottor Pretorius usa delle pinzette per catturare il suo fuggiasco Enrico Vili in miniatura e lo ripone in un barattolo. Motivazione dei giapponesi: «In questo modo si rende ridicolo un re».56 La MGM evitò la censura ufficiale operando tagli unilate rali a The Vampires of Prague (I vampiri di Praga), distribuito nel 1935 come Mark of the Vampire. Il film essenzialmente era un rifacimento di II fantasma del castello, diretto dall’uomo al timone dell’originale, Tod Browning. Il «vampiro» (natural mente finto, e parte di un’inchiesta poliziesca) conseguiva ap parentemente la non-morte in seguito a una relazione ince stuosa con la figlia, che lo portava a un omicidio-suicidio. Browning e lo sceneggiatore Guy Endore presero parzialmente
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ispirazione, con ogni probabilità, dal pionieristico saggio psi coanalitico di Ernest Jones Sull’incubo (1931), che collegava esplicitamente fantasie di vampirismo col senso di colpa da incesto, e inoltre riportava anche la leggenda del Mora, o vam piro, boemo. (Questo studio conferisce credito alla teoria per cui i riferimenti freudiani dei melodrammi browninghiani pos sano essere stati intenzionali, e non rozze rivelazioni di conflitti personali.) L’ultimo succhiasangue del regista era il conte Mo ra (Bela Lugosi), che esibiva sulla tempia destra un foro di pallottola da tentato suicidio. La ferita sanguinolenta non ave va alcun senso nella versione definitiva del film, poiché ogni riferimento all’incesto fu espunto dallo studio prima che 1’Uffìcio Breen potesse anche solo prendere la mira. L’unico sugge rimento di Breen a Louis B. Mayer: « Non ci dovrà essere alcu na allusione al tentativo del Barone di non lasciare impronte digitali».57 Del resto, nonostante la pesante atmosfera gotica, I vampiri di Praga era privo di strilli. Il film fu inoltre sotto diversi aspetti un rifacimento del Dracula della Universal, c Browning si diede la briga di ricrea re, o sottolineare, per lo studio rivale momenti del film del quale era stato ufficialmente regista. C’era un casting parallelo di Bela Lugosi come conte Mora, Elizabeth Allan - che ricor dava Helen Chandler - nei panni dell’eroina, e persino del caratterista Michael Visaroff come locandiere, un ruolo quasi identico a quello interpretato in Dracula. Lionel Barrymore eb be gran risalto per il suo dottor Zelen, un clone di Van Helsing (Barrymore era stato un’opzione probabile per il Dracula pro gettato da Browning per la Metro prima che l’Universal vin cesse l’asta). Praticamente quasi tutto in I vampiri di Praga sembra un commento a Dracula, fino all’assenza di colonna sonora e alla bizzarra, intenzionale duplicazione di uno degli effetti più deboli di Dracula: un improbabile ragno di gomma lanciato sul muro con un filo. Forse Browning voleva ficcare il naso nella Universa! in cerca di un brutto quarto d’ora? Dal momento che il regista non rilasciò mai un’intervista retrospet tiva sulla propria carriera, non lo sapremo mai. (Per decenni è circolata la storia non confermata della minaccia da parte della
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Universal di un’azione legale nei confronti della Metro per un’infrazione alla legge sul copyright.) La vera stella di I vampiri di Praga è l’operatore James Wong Howe, le cui composizioni e illuminazioni d’atmosfera crearono alcune sequenze che definiscono a tutti gli effetti lo stile «Hollywood Gothic» anni Trenta. Howe definì Browning «proprio un bel personaggio... uno della vecchia scuola che non sapeva un granché della cinepresa. Faceva recitare gli atto ri “verso” la macchina da presa invece di girarla intorno, così il film era estremamente statico, e usava il montaggio per supe rare questo limite».58 Howe girò dei provini con Rita Hay worth nei panni di Luna, figlia del conte Mora, ma la parte andò alla giovane protetta di Lugosi, Carroll Borland. Secondo quest’ultima, le responsabilità di Howe vennero ridotte a pro duzione avanzata dietro l’insistenza dell’attrice Elizabeth Al lan, preoccupata che i grandiosi effetti ottenuti con i vampiri potessero oscurare il suo fascino.59 Mentre la censura ufficiale trovò poco da ridire su I vampi ri di Praga, altri eserciti tramavano qualcosa. Il 28 luglio 1935 sul «New York Times» apparve la seguente lettera di un me dico di Manhattan: Al redattore capo Si fa un gran parlare di film osceni e volgari. Diversi di questi sono decisamente nocivi. Ma anche a mettere insieme una dozzina dei peggiori film non si eguaglierebbe il danno infetto da pellicole come I vampiri di Praga. Non mi riferisco alla totale insensatezza del film. Né al suo effetto di rafforzare le superstizioni più deleterie. Mi riferisco alle conseguenze terribili che ha sui sistemi mentale e nervoso non solo di uomini, donne e bambini instabili, ma anche di persone normali. Non parlo in astratto; baso la mia opinione sui fatti. Mi è stato riferito di diverse persone che, una volta visto quell’orribile film, hanno sofferto di collassi nervosi, attacchi d’inson nia, e quelli che sono riusciti ad addormentarsi sono stati torturati dagli incubi più orribili.
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Secondo la mia opinione, produrre c presentare film del gene re è un crimine.
William J. Robinson, Dottore in medicina. Qualche anno prima, Island of Lost Souls aveva offeso la sensibilità dei fondamentalisti con le sue immagini che mesco lavano uomini e animali, così non sorprese che, quando la Uni versa! Pictures decise di filmare una storia di licantropi, si riz zasse qualche orecchio. Dopo un esame del copione di 11 segre to del Tibet {Werewolf of London, 1935, di Stuart Walker), Joseph Brcen avvisò ufficialmente lo studio. «Siamo certi che non sarà vostra intenzione mostrare particolari realistici della trasformazione da uomo in lupo, e che non sarà sfruttata la repulsività di dettagli fisici orripilanti. »60 Naturalmente tale richiesta era ridicola: l’attrazione princi pale del primo film al mondo sui licantropi sarebbe stata pro prio vedere un uomo trasformarsi in un animale, e più orripi lanti erano i dettagli fisici, meglio era. In seguito Robert Harris della Universa! difese elementi del copione del film di fronte alla Mppda, buttandosi nell’ipocrisia particolarmente involuta dettata dalla diplomazia censoria; in questo genere di discorso, uno scrittore o dirigente dello studio contorceva la lingua e la logica al punto di convincere la Mppda a credere che ciò che riteneva di aver letto in una sceneggiatura non esistesse assolu tamente. Per esempio, Il segreto del Tibet non conteneva tra sformazioni ferine - Dio ce ne scampi! Nelle parole di Harris, «le nostre mutazioni si limitano a fare dei normali attori perso ne con tendenze all’irsutismo», un processo che ovviamente comportava «un appuntici di orecchie e nasi e un allunga mento delle dita, non dissimili da quanto mostrato nel film II dottor Jekyll». Riguardo all’incontro della raffinata bestia con una donna di strada dalla gonna corta, «la ragazza, che appar tiene alle classi inferiori, indossa una gonna non troppo lunga, probabilmente ristrettasi quando l’ha lavata da sola, in quanto priva dei soldi necessari per mandarla in una regolare tin toria».61 I Paesi Bassi decisero di bandire II segreto del Tibet a moti vo del suo complessivo «effetto degradante».62
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Per i censori dell’orrore, il trucco del mostro evidentemen te prevaleva sui problemi di scollature. Un appunto del 16 marzo 1935 indica che la Mppda prese l’insolita iniziativa di sottoporre ad approvazione il trucco sfigurante di Boris Kar loff in The Raven (t. lett.: Il corvo, 1935, di Lew Landers).63 Il film segnava il secondo duetto di Karloff e Lugosi sotto l’ala di un titolo di Poe; questa volta Lugosi era il demente chirurgo plastico dottor Vollin, ossessionato dall’opera dello scrittore. Vollin esegue un intervento su un evaso, Bateman (Karloff), che chiede di cambiargli i connotati, senza curarsi della mutila zione finale. Vollin pensa che più brutto apparirà Bateman, più sarà malvagio. Al medico la malvagità sarà di grande aiuto, come scopriamo nella successiva ora di giocoso sadismo a col pi di sfiguramenti, ossessioni sessuali e una camera degli orrori nei sotterranei completa di letale mannaia pendente rubacchia ta a il pozzo e il pendolo. Il «Times» di Londra pareva avere in testa precisamente film come The Raven e Amore folle quando ospitò un lungo editoriale sugli intenti dell’orrore su grande schermo. Gli elisa bettiani, concedeva il «Times», sapevano come riempire il loro teatro di orrore, ma persino gli intrecci più folli venivano nobi litati dalla poesia. E dov’era, chiedeva il «Times», la poesia a Hollywood? E perché la scienza e la medicina venivano per vertite?
Molto raramente l’intento [di un medico cinematografico] è di salvare una vita o praticare una cura... Lo scopo preferito di un’operazione sullo schermo è o lo sfiguramento o la crea zione di un mostro... forse l’aspetto più terrificante di questa pseudoscienza sadica è la sua apparenza immacolata... Più oscuro è il cuore del chirurgo, più è probabile che risulti fastidioso nei suoi metodi professionali... Fantasmi e demoni che un tempo si nascondevano negli angoli oscuri per spaven tare l’incauto impallidiscono come ombre innocue di fronte alla cupa figura del demoniaco chirurgo che brandisce il bi sturi.64 Il «Times» non capiva (come la maggior parte del mondo) che la medicina si stava demonizzando seguendo vie assai simi
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li a quelle illustrate nei film dell’orrore, proprio nel Paese che per primo aveva presentato fantasmi e demoni sullo schermo. Nelle scuole di medicina operava allora proprio il dottor Josef Mengele, intento coi suoi compagni di studi a preparare le purghe mediche che avrebbero inesorabilmente portato all’Olocausto. Il 23 agosto 1935, l’Associated Press finì per esibire un titolo già temuto dagli studi: FILM DELL’ORRORE TABÙ IN IN GHILTERRA - L’ULTIMO THE RAVEN. Edward Shortt, presiden te del British Board of Film Censors, aveva già avvertito l’indu stria che quei film erano «disgraziati e indesiderabili» e dove vano essere tenuti sotto controllo. The Raven creò un vespaio di polemiche sulla stampa inglese, con un eminente critico a definire la pellicola «probabilmente il film più sgradevole che io abbia mai visto per il suo sfruttamento della crudeltà per puro sadismo». L’Inghilterra decise di non prendere in considerazione film dell’orrore americani, insieme a un altro orrore, molto più
prossimo. Nonostante il veto, la Universal ritenne il mercato interno sufficientemente forte per assorbire un seguito all’originario horror sonoro. Nel settembre 1933, due anni e mezzo dopo la distribuzione di Dracula da parte della Universal, Florence Stoker aveva venduto un’opzione cinematografica sul racconto tardo del marito Dracula’s Guest al produttore David O. Selz nick. Dracula’s Guest era in effetti un episodio tagliato dal ro manzo maggiore a causa della lunghezza del libro, un fram mento d’atmosfera che narrava il fulmineo incontro di Jona than Harker con una vampira sulla strada per il castello di Dracula. Non presentava assolutamente questa creatura come la figlia di Dracula o una sua parente, ma Selznick parve intui re il valore commerciale di una succhiasangue con il nome di Dracula, se non per il proprio studio, la Metro-GoldwynMayer, almeno per la Universal, che deteneva i diritti cinema tografici in esclusiva sul romanzo originale. Le motivazioni di Selznick furono probabilmente piutto sto ciniche; erano state richieste diverse opinioni legali riguar do l’opportunità da parte della Metro di usare la parola «Dra-
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cula» in qualunque maniera, e nessuna era positiva. AH'inizio del 1933 imperversò una bufera di lettere e telegrammi nottur ni ultraconfidenziali tra Selznick, Louis B. Mayer e avvocati newyorkesi, e i legali concordavano: la Universal poteva benis simo intraprendere un’azione contro la Metro, diffidando lo studio da qualsiasi uso della parola iniziarne per «D». La base legale di tale azione era tutto sommato vaga; la Universal aveva comprato i diritti cinematografici di una e un’unica opera di Bram Stoker, e Dracula's Guest non rientrava nell’accordo. Ma le aree indefinite sono proprio i luoghi dove possono verificar si i generi di litigio più lunghi e sgradevoli. I legali ammoniro no la Metro a evitare la parola che iniziava per «D» persino nella corrispondenza; fu scelta Tarantula come parola in codi ce. E si temeva che persino Tarantula potesse suonare troppo come Dracula per l’assoluta certezza legale. Tuttavia, fu stipu lato un accordo con Florence Stoker offrendole un anticipo di 500 dollari sul prezzo d’acquisto di 5000 dollari per i diritti cinematografici su Dracula's Guest. Il contratto conteneva una clausola fondamentale che approvava il titolo alternativo Dra cula's Daughter (t. lett.: La figlia di Dracula, 1936, di Lambert Hillyer), e un altro riguardante la facoltà da parte di Selznick' di rivendere i diritti. A posteriori, viene da chiedersi se era questo il problema fondamentale. Selznick aveva correttamen te anticipato l’unica base logica per un seguito cinematografico al Dracula della Universal, e ora si era piazzato come costoso ostacolo a un’eventuale produzione da parte della Universal. Questa interpretazione acquista ancor maggior credito in se guito all’assunzione da parte di Selznick di John L. Balderston per scrivere un trattamento della sceneggiatura che poteva es sere prodotto solo dalla Universal, poiché non utilizzava in al cun modo Dracula's Guest e traeva ispirazione, ambienti, e di versi personaggi direttamente dal film di cui deteneva i diritti la Universal. «In ciascuno dei tre film dell’orrore ai quali ho collaborato come sceneggiatore e scrittore originale, Dracula, Frankenstein e La mummia, l’ultimo terzo crollava miseramente»,65 scriveva Balderston all’inizio del 1933. In Dracula’s Daughter, per una volta, era intenzionato a invertire il processo, aumentando i
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brividi col procedere del film, come un ottovolante in cui i tuffi diventano sempre più ripidi per assenza di gravità. Poiché nel Dracula originale Bela Lugosi era stato comple tamente distrutto da un paletto di legno, Balderston prese in considerazione altri aspetti più malleabili del film in cerca di ispirazione. Scelse le vampire che Lugosi lasciava strisciare tra le rocce del suo maniero transilvano, e immaginò per loro una nuova sistemazione. Mentre Lugosi le teneva in riga con statici movimenti delle mani simili a un balletto, la figlia di Dracula avrebbe impiegato un altro sistema, più diretto. Facendo schioccare una frusta contro le rocce, sottomette le malvage matrigne come una domatrice, e, in una scena ricalcata dal romanzo di Stoker, offre loro per sfamarle un neonato urlante in un sacco. Ma quel cibo infantile non è abbastanza. «Voglia mo amore oltre a bere... dacci quell’amore che ti tieni per te, uomini, uomini giovani.»66 La figlia di Dracula risponde che è lei la loro padrona mentre il Maestro è in Inghilterra per affari; loro sono solo le sue amanti. Prenderanno quello che lei dà loro e ne saranno riconoscenti. Scene di questo tipo erano materiale piuttosto scottante nel 1933, persino per una fase preparatoria, ma Balderston si dimostrò candido riguardo alle proprie motivazioni. «L’uso di una vampira invece di un vampiro ci dà la possibilità di gio strare con SESSO e CRUDELTÀ in piena legittimità», scriveva. «In Dracula si sono dovute sopprimere quasi integralmente queste componenti... Approfittiamone rendendo la figlia di Dracula amante delle sue vittime... La seduzione di giovani uomini sarà tollerata, mentre siamo stati costretti a eliminare la seduzione di ragazze nell’originale come immediatamente censurabile. » La giustificazione da parte di Balderston degli elementi sensazionalistici nell’intreccio guadagnava importanza, suo nando come una crociata. «Perché Cecil de Mille dovrebbe avere il monopolio di grandi guadagni al botteghino delle tor ture e crudeltà in film sull’antica Roma[?]»67 Aggiungeva di voler evidenziare la passione dispiegata dalla figlia di Dracula nelle torture infette alle vittime-amanti, e che gli uomini, pur sotto il suo giogo, ci si divertivano parecchio. «I censori lo
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tollereranno, a condizione di suggerirlo appena... Questo ci dà un valore al botteghino in precedenza sconosciuto.»68 La fi glia di Dracula, a differenza del padre, poteva trovare nuovi sistemi per ottenere sangue, obiettava Balderston, che capiva che i morsi sul collo erano solo un tipo di eufemismo molto caricato. Propose scene in cui i «disgustosi servi sordomuti» della vampira riempivano il suo boudoir con fruste, cinghie e catene di forza industriale. Non si mostrava nulla esplicitamen te; sarebbe stato il pubblico a decidere. U trattamento di Balderston evidenziava la struttura fon damentale dell’intreccio nel romanzo stokeriano tanto sconcia ta dalla Universal nel 1931. La conseguente proposta prevede va che il dottor Van Helsing ritornasse in Transilvania per distruggere le spose del vampiro, che sorvegliano la tomba di una quarta vampira, la figlia di Dracula, la quale segue Van Helsing e i suoi amici di ritorno a Londra dove assume l’iden tità di «Contessa Szekeley» e vittimizza un giovane e bello aristocratico, Lord Edward «Ned» Wadhurst. L’immacolata fidanzata di Ned, Helen Swaythling, si unisce a Van Helsing per un’eccitante caccia in Transilvania, dove la figlia di Dracu la viene infine distrutta. Il trattamento commissionato da Selznick a Balderston violava sotto ogni profilo un termine del suo accordo con Flo rence Stoker, e precisamente che il nuovo film non avrebbe utilizzato personaggi o vicende da altre opere di Stoker oltre a Dracula’s Guest. All’inizio del 1934 Selznick stava semplicemente giocando a Metro contro Universal, da una parte insi stendo che la Metro facesse valere il primo rifiuto sulla pro prietà, pur sapendo che non potevano far altro che rifiutare. Il contratto con cui Selznick rivendeva i diritti alla Universal fu concluso nel settembre 1934. La Universal inviò «in via non ufficiale» un nuovo tratta mento di Dracula’s Daughter di R.C. Sherriff all’Uffìcio Breen il 5 settembre 1935.1 rappresentanti di quest’ultimo si incon trarono con Carl Laemmle Jr. la settimana successiva. Il 13 settembre, Breen stese un memorandum: «Questa storia, sot topostaci “in via ufficiosa” da Laemmle Jr., contiene materiale indicibilmente oltraggioso, che rende il film assolutamente pri-
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vo di speranze per l’approvazione da parte del Codice».69 Laemmle acconsentì a far riscrivere integralmente il copione a Sherriff, con riguardo al materiale «pericoloso». Particolar mente pericolosa, apparentemente, era la riapparizione dello stesso Dracula, probabilmente in sequenze flashback (al mo mento della stesura di questo libro non è affiorata copia di questa sceneggiatura). Il 21 ottobre, Harry H. Zehner della Universal inviò a Breen la seconda stesura di Sherriff per Dracula's Daughter. Due giorni dopo ricevette in risposta un commento di sei pagi na a interlinea uno. La storia, lamentava Breen, conteneva an cora «materiale pericoloso dal punto di vista della politica cen soria». L’obiezione principale era che «resta tuttora nel copio ne un debole per una combinazione di sesso e orrore». Segui va una serie dettagliata di suggerimenti particolarmente stolidi: «Nella prima parte del copione, dove le truppe di Dracula rastrellano la campagna e portano al castello un gruppo di ragazze con una spruzzatina di uomini, è meglio indicare ine quivocabilmente che lo scopo del rapimento delle donne è di fornire compagne di ballo per gli ospiti del conte riuniti al banchetto». Oppure: «Vi chiediamo di eliminare l’inquadra tura di Dracula nella sua camera “mentre stringe tra le braccia la figura abbandonata di una ragazza”; questo per evitare una connotazione sessuale precisa. Magari la scena potrebbe mo strare la ragazza che balla». In un’altra sequenza, la Universal fu avvertita che alle vittime femminili di Dracula non sarebbe stato consentito allungarsi su divani, ma avrebbero dovuto es sere morse mentre sedevano composte su solide sedie. Occor reva emendare pure tocchi d’atmosfera minori: «Vi preghiamo di eliminare i numerosi topi di cui si fa cenno all’inizio della pagina. L’esibizione prolungata di ratti sullo schermo è gene ralmente da considerarsi pessimo teatro».70 Divenne evidente che era proprio Dracula il problema: co sa rimaneva del vampiro oltre al sesso e all’orrore? Lo studio cominciò a ripensare a come sbarazzarsi del personaggio con servando nel titolo il valore pubblicitario del nome. Il 14 gen naio 1936, il produttore associato alla Universal E.M. Asher informò Breen che la sceneggiatura di Sherriff era stata intera
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mente scartata c che avrebbero ricominciato tutto da zero. Breen replicò: «Saremo lieti di lavorare insieme a voi al copio ne quando sarà pronto; ma siamo costretti a mettervi in guar dia, perché di questi tempi la realizzazione di un film dell’orro re è un’iniziativa decisamente azzardata da un punto di vista della politica censoria in generale».71 Dracula’s Daughter doveva essere originariamente diretto da James Whale, con Bela Lugosi e Jane Wyatt. Dopo diversi rinvìi e ripensamenti, il film fu infine messo in cantiere in fretta e furia con una sceneggiatura incompleta per anticipare un clausola limitativa a tempo inserita nell’opzione di David O. Selznick. Garrett Fort, che aveva lavorato al film originale, for nì la sceneggiatura finale, completamente diversa dai lavori di R.C. Sherriff e John L. Balderston. Il personaggio di Dracula fu completamente eliminato, a eccezione di un manichino cre mato all’inizio del film. La pellicola si incentrava invece pro prio sulla figlia di Dracula, la contessa Maria Zaleska (Gloria Holden), che, dopo aver seguito il padre a Londra, cerca la consulenza professionale di uno psichiatra (Otto Kruger). Per la prima volta il vampirismo veniva presentato sullo schermo tanto come una pulsione psicologica quanto come una maledi zione soprannaturale. C’erano anche forti allusioni al lesbismo; una delle vittime (Nan Gray) è una ragazza di strada invitata a posare nello studio di Chelsea della contessa per un dipinto. La sceneggiatura di Fort prevedeva originariamente che posas se nuda, con il conseguente attacco a portare un inconfondibi le sapore di stupro lesbico. L’Ufficio Breen disse no, e l’attrice si tenne i vestiti addosso. Tuttavia la scena è spesso citata come classica sequenza «lesbica», benché di impronta marcatamen te negativa. Gli aspetti omosessuali della psicologia vampiresca (impliciti fin dall’importante racconto di J. Sheridan Le Fanu Carmilla, del 1871) avrebbero continuato a guadagnare impor tanza nei decenni a seguire. Curiosamente, Dracula’s Daughter fu un’ispirazione diretta per la scrittrice Anne Rice,72 le cui fantasie vampiresche omoerotiche avrebbero trovato un enor me pubblico di massa negli anni Ottanta e Novanta. Tod Browning, la cui carriera era in declino dopo il disa stro di Freaks, trovò difficoltà ancora maggiori a lanciare pro
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getti alla MGM. Il massimo del rischio che la compagnia era disposta ad assumersi fu I vampiri di Praga, rifacimento di due precedenti film di successo. Il regista trascorse molto tempo al campo di baseball e alle corse all’inizio degli anni Trenta, e il veterano della sceneggiatura hollywoodiana Budd Schulberg - autore di The Disenchanted (t. lett.: I disincantati) e What Makes Sammy Run? (t. lett.: Cos’è che fa correre Sammy?) ricordava un altro passatempo di Browning. «Allora erano in voga le maratone di ballo e qualche volta andavamo al Santa Monica Pier a osservare giovani zombi disoccupati trascinarsi per la pista in una danse macabre al rallentatore», scriveva Schulberg nella propria autobiografia del 1981 Moving Pictu res. «Ancora più sconvolgenti delle vittime sulla pista di ballo erano gli habitué e numerosi sadici nei posti in prima fila tutte le notti, a sostenere i propri beniamini che continuavano a svenire e a volte a vomitare per la stanchezza. Uno fra i più assidui era Tod Browning, che non mancava mai a una serata, con negli occhi lo stesso luccichio di quando dirigeva Freaks.»™ Si è detto che il regista tentò invano di ottenere l’appoggio dello studio per una versione cinematografica del romanzo torvamente esistenzialista di Horace McCoy Non si uccidono così anche i cavalli? (1935); la storia sensazionalista di una maratona di danza avrebbe potuto benissimo diventare un classico browninghiano, benché sia difficile immaginare uno studio che produce la storia nella sua stesura originale. (Charles Chaplin era un altro regista eccitato dalle possibilità della storia che però non fece mai decollare il progetto.)74 Browning progettò un film sul voodoo intitolato The Witch ofTimbuctoo (t. lett.: La strega di Timbuctù), che però venne severamente alterato dalle preoccupazioni per la censu ra estera. «The Hollywod Reporter» riferiva il 10 dicembre 1935 che «ancora una volta un governo straniero si è intro messo a censurare un copione hollywoodiano per ragioni poli tiche». L’Inghilterra aveva richiesto l’eliminazione di tutti i personaggi neri per paura che le scene di stregoneria «solle vassero problemi» tra i neri sotto la dominazione coloniale britannica. Il film fu infine rabberciato come La bambola del diavolo {The Devii Doli, 1936), bizzarra storia di un evaso dal
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l’isola del Diavolo che utilizza esseri umani in miniatura per portare avanti un piano vendicativo. Il film riciclava diversi
temi familiari a Browning - il criminale che si traveste da vec chia signora (da I tre), l’ossessiva, accecante sete di vendetta -, ma era chiaro che i suoi giorni di autore in grado di controllare i propri progetti erano finiti. Tuttavia rimase un enigma elusi vo alla maggior parte delle persone che lavoravano con lui. Maureen O’Sullivan, che appariva in La bambola del diavolo e visse per qualche tempo accanto a Browning nella colonia di Malibu, ricordava di non averlo mai visto sulla spiaggia.75 Ed gar Ulmer lo definì «reticente e introverso. Di notte, dopo il lavoro, Browning saliva sulla sua macchina e spariva».76
Quel che non sparì per tutti gli anni Trenta fu l’enfasi sui film come capro espiatorio sociale. Il 16 novembre 1938 Katherine K. Vandervoort, responsa bile della frequenza per le scuole pubbliche di White Plains a New York, lasciò l’ufficio alle 17.15 circa e si vide di fronte
sulla Main Street un bambino «che fissava sconvolto le facce dei passanti» e che la pregò di indicargli la direzione di casa. «Capii che era isterico», scrisse la Vandervoort, e insistette per accompagnarlo di persona. «Dopo essere saliti sulla mac china per percorrere il chilometro e mezzo che ci separava dalla sua abitazione, continuò a borbottare frasi praticamente incomprensibili. Fino ad allora avevo ritenuto che si trattasse di un bambino fuggito di casa spaventato di trovarsi da solo al buio. Alla fine, comunque, cominciai ad ascoltare ciò che diceva, soprattutto una cosa che continuava a ripetere senza sosta: “Lo so che l’ammazzava! Lo so che lo faceva!”» «Ammazzare chi?» chiese la Vandervoort, sinceramente preoccupata. Alla fine riuscì a cavargli di bocca che «Frank
qualcosa» stava per far fuori una bella ragazzina.
Fu allora che comprese l’accaduto: il ragazzino doveva aver assistito allo spettacolo pomeridiano al cinema Keith. Aveva già osservato «con stupore» il cartellone, e lo aveva impresso nella memoria:
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VI SFIDIAMO A VEDERE INSIEME
DRACULA CON BELA LUGOSI FRANKENSTEIN CON BORIS KARLOFF
H bambino, nove anni, secondo la Vandervoort era stato «immischiato» ad assistere alla proiezione da un bambino più grande della zona. H giorno seguente, accompagnata dal «si gnor Duff, investigatore incaricato al mio ufficio», la funzionarìa fece visita al cinema, dov’era ancora in programma il dop pio spettacolo blasfemo. «Appena finita la scuola, i bambini arrivavano in branco. Sfilavano tutte le età, dai bimbi dal passo malcerto che riusci vano a stento ad arrampicarsi sulle scale per la balconata men tre noi guardavamo in basso dalla platea.» Annusando un serpente che aveva urgente bisogno di esse re reso inoffensivo, «tralasciai ogni occupazione e passai diver so tempo andando avanti e indietro per le classi della nostra scuola elementare». Con suo sconforto, se non sorpresa, una grossa percentuale dei bambini aveva assistito a Dracula e Frankenstein. «Certi avevano ancora gli occhi sgranati dall’ec citazione e volevano raccontare tutta la storia nei dettagli. Altri apparivano più ansiosi di ignorarla e una bambina bionda se duta di fronte a un ragazzo più grosso mi disse: “Deve piantar la: non ha fatto che parlarne tutto il giorno”.»77 Forse la cosa più orripilante per la sensibilità in loco paren tis della Vandervoort fu il racconto di un bambino che aveva visto da solo lo spettacolo pomeridiano, ed era tornato la sera coi genitori perché non avevano nessuno a cui lasciarlo. White Plains non era un fenomeno isolato, quell’autunno; in seguito all’accoppiata di sfrenato successo di Dracula e Fran kenstein, i gemelli oscuri della Villa Diodati erano dovunque per l’iniziativa di un disperato distributore di Los Angeles in cerca di una nuova attrazione. H doppio spettacolo infranse ogni record e cominciò a far discutere gli esercenti. «I profitti delle città chiave indicano che le riprese degli horror stanno spazzando tutto», riferiva «Variety» il 19 ottobre. A Cincinna ti, il demoniaco duo batté il record di una sala, che durava da sei anni; a Indianapolis, la medesima combinazione raddoppia
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va il normale incasso del cinema. A Manhattan, il Rialto pro grammava Dracula e Frankenstein tutto il giorno, riempiendo completamente la sala dieci volte al giorno. «Altre riedizioni, fatta eccezione per i vecchi Valentino», osservava «Variety», «a New York sono state un fiasco.» L’organo dell’industria osservava che i due film avevano registrato incassi modesti quando erano stati proiettati singolarmente a Philadelphia po chi mesi prima, ma non indagò sulla natura precisa dell’alchi mia raggiunta quando le bestie venivano presentate insieme. Altrove, anche le riedizioni in coppia di King Kong e The Ghoul (t. lett.: Il demone, 1933, di T. Hayes Hunter) con Boris Karloff riscuotevano incassi prodigiosi. Il successo della riedizione in coppia di Dracula e Franken stein diede alla Universal lo stimolo a resuscitare la serie. La resistenza all’estero era ancora forte, comunque. J. Brooke Wilkinson, segretario dell’ufficio censura inglese, scrisse a Jo seph Breen nel novembre 1938 in merito all’intenzione da par te della Universal di produrre un secondo seguito di Franken stein. «In passato abbiamo avuto tali problemi con film... clas sificati “dell’orrore” che l’industria è arrivata alla conclusione che sono più un fastidio che altro... Ci sono state fatte pressio ni per eliminare il più possibile questo genere.»78 Nel 1933, raccontava Wilkinson, i censori britannici avevano approvato cinque film dell’orrore, nel 1934 cinque, due nel 1936 e uno solo nel 1937. Per tornare in America, sul «New York Times», e non solo, era già affiorato un certo rigetto riguardo l’enorme quan tità di horror vomitato da Hollywood prima dell’embargo in glese. Il 1935 era stato un anno particolarmente sanguinoso, vista l’uscita di La moglie di Frankenstein, Il segreto del Tibet, The Raven, I vampiri di Praga, La nave di Satana {Dante’s Infer no, di Harry Lachman), Amore folle, e altre spiacevolezze as sortite. B critico del «Times» André Sennwald rilevò con mo derato allarmismo questa tendenza in un fondo domenicale intitolato Gory, Gory Hallelujah. * L’enfasi crescente posta sul • Gioco di parole con il noto ritornello «Glory Glory Hallelujah» del canto popolare John Brown, dove gory sta per «sanguinoso». (N.d.T.)
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dolore e la morbosità, scriveva Sennwald, era «lungi dall’esse re un fenomeno casuale e insignificante» e poteva «essere so stanzialmente correlata con le condizioni mentali della nazio ne. Lo schermo fornisce un’acuta esperienza emotiva e, ciò che è più importante, piace a vaste moltitudini persino quando vengono sconvolte o disgustate». Sennwald ricordava i «folli e confusi giorni che precedettero la nostra entrata nella guerra mondiale, [quando] il cinema placava la sete di sangue degli americani rimasti a casa proprio con i medesimi stimolanti in diretti. Hollywood, sempre pronta a riflettere o stuzzicare un appetito di massa, pare rifare daccapo la stessa mossa».78 Le nubi di tempesta si stavano davvero radunando di nuo vo sul fronte occidentale. In Europa, il grande cineasta france se Abel Gancc, più noto per il suo monumentale Napoléon {id., 1927) produsse nel 1937 un film antibellico che rende retrospettivamente esplicito il legame tra il primo grande ciclo di film dell’orrore e la Grande Guerra. Questo film si intitola va J’accuse (t. lett.: Io accuso) e raccontava la storia di un vete rano di guerra diventato inventore che crea un tipo di «vetro d’acciaio» infrangibile, sicuro così di rendere obsoleti i conflit ti. Quando i suoi superiori decidono di volgere l’invenzione a uso militare, richiama i caduti in guerra dalle loro tombe per marciare contro i vivi. Per l’intollerabile sequenza finale - una dichiarazione di morale completamente irrazionale, ma co munque devastante -, Gance reclutò veri membri dell’Union des Gueules Cassées, e creò un montaggio da incubo di tutti i volti sfigurati che avevano perseguitato i cinema di tutto il mondo negli ultimi quindici anni sotto forma di «passatempo onorifico». Queste persone restavano anonime, ma potevano agevolmente costituire i modelli viventi delle maschere indos sate da Lon Chaney, Boris Karloff, Lionel Atwill e compagnia. Come consapevole presa di posizione antibellica, J’accuse è di classe superiore; come rivelazione inconsapevole del principale sottotesto onorifico negli anni Venti e Trenta, mozza il fiato. Proprio nel momento in cui il ciclo onorifico completava il cerchio, riscoprendo il genere che Tod Browning aveva con tribuito a far nascere in America, lo stesso Browning non pote va attendersi alcun rilancio della propria carriera. Samuel
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da ultima trincea per la Suprema Corte che minava il diritto all’aborto appena prima della distribuzione del film. Il film Profezìa {Prophecy, 1979) di John Frankenheimer mostrava Talia Shire nei panni di una donna la cui ansia ri guardo alla gravidanza (il marito ambientalista, che ritiene il mondo un luogo non più adatto alla riproduzione, viene a sa pere di aver inconsapevolmente ingerito un composto di mer curio che può alterare i geni) si esterna selvaggiamente sotto forma di un orso mutante e divoratore di uomini nei boschi del Maine. Come Alien, Profezia utilizzava nella grafica pubbli citaria un’immagine che richiamava un uovo, all’esterno del quale un’entità dotata di zanne fissava il potenziale spettatore. A differenza di Alien, il film di Frankenheimer non riuscì a trovare un largo seguito, probabilmente perché perdeva più tempo a predicare che a schiacciare bottoni. La demonizzazio ne di immagini fetali non si presta in sé a un’interpretazione meramente ideologica. I bimbi mostri non sono precisamente pro-vita o pro-scelta, ma, proprio come Tumorismo nero, vei colano aspetti taciuti da entrambe le parti. Gli avvocati aborti sti discutono raramente le emozioni negative che circondano la gestazione o la gravidanza; il problema viene presentato co me una scelta propria del consumatore, la selezione di uno stile di vita che accresce il prestigio. Le immagini della cultura popolare suggeriscono che il problema è un po’ più contorto; perché mai il pubblico affolla ripetutamente storie ansiogene di esseri fetali che uccidono o devono essere uccisi? Quelli per il diritto alla vita, nella loro disponibilità a rafforzare la gestazione come un tipo di punizione ideologica (e nella lam pante mancanza di interesse per il benessere del bambino do po la nascita), rivelano una personale e nascosta ostilità verso i bambini, che sembrano non essere altro che armi politiche usa e getta. Da una prospettiva estremamente puritana, i bam bini sono lo scotto da pagare per il sesso, un flagello non molto distante dal «castigo» dell’Aids. Da una prospettiva liberal, i bambini sono un peso socioeconomico che può trascinare in basso. Entrambe le parti considerano in maniera ostile i non nati, e una buona immagine orrorifica può comunicare più
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David J. Sitai
sulla moderna ambivalenza riproduttiva di una dozzina di ver bosi dibattiti sul diritto all’aborto. Bambini mostruosi, orrorifici prebimbi, e bambini violen tati (cioè abortiti) divennero comodi luoghi comuni negli anni Settanta e Ottanta. I romanzi gotici sugli abusi su minori di V.C. Andrews, a iniziare da Fiori nell'attico (1979) e la sua famiglia leziosamente chiamata «Dollanganger», divennero enormi successi. La presenza di bambini sulla copertina dei tascabili horror è un cliché del genere; ora minacciati, ora mi nacciosi, non importa: ciò che conta è l’implacabile senso di minaccia imperniato sull’immagine infantile. Alla fine degli an ni Ottanta, la nozione di un «bambino interiore» ferito era diventata un caposaldo della psicologia popolare; contempora neamente, bambini interiori che procuravano ferite si esterna vano ovunque, in film come Grano rosso sangue (Children of the Corny 1984, di Fritz Kiersch) e, piuttosto curiosamente, La bambola assassina (Child's Play, 1988, di Tom Holland), dove un giocattolo omicida di nome Chucky sapeva come catturarti. La bambola assassina generò due seguiti ravvicinati (1990 e 1991, rispettivamente di John Lafia e Jack Bender), il secondo dei quali causò quasi uno scandalo a New York nel 1991, quando si apprese che una scuola elementare di Brooklyn usa va violenti spezzoni video di Chucky per tenere tranquille le classi. Un’insegnante giustificò la scelta spiegando che i cartoni animati di cani e gatti non servivano più allo scopo. «Hanno superato lo stadio della tenerezza», spiegò al «New York Post». È probabile che alcuni degli stessi bambini abbiano passato del tempo a scambiarsi una serie di figurine chiamate «Garbage Pail Kids», una mania intensa ma di breve durata negli anni Ottanta per immagini di bambocci mostruosi in si tuazioni repellenti. L’idea che i bambini americani provassero un senso di identificazione con i degradati ed effìmeri Garbage Pail Kids - il riferimento all’immondizia (garbage) veicola una connotazione forte di aborto/infanticidio - è degna di conside razione, insieme alla precedente mania degli anni Ottanta per le bambole Cabbage (cavolo) Patch, un fenomeno che basava il proprio richiamo su una fantasia di riproduzione asessuata. Come Frankenstein, che tentava anch’egli di sovvertire il tradi-
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zinnale paradigma riproduttivo, i genitori americani (più dei loro figli) furono ossessionati dalla bambola Cabbage Patch e dalle sue irrisolte metafore prossime all’horror. Rispecchiando il lacerante dibattito sull’aborto negli anni Ottanta e Novanta, la narrativa orrorifica cominciò a impiega re un immaginario fetale che andava molto oltre qualunque tecnica di shock visuale impiegata dalla fazione del diritto alla vita. Nel racconto Foet (1991) di F. Paul Wilson, il lettore entra in una Manhattan di un futuro prossimo popolata di importanti personalità per le quali le borsette fatte di pelle di feto sono l’ultimo grido in fatto di status symbol. «Avete qualche pezzo senza tutte quelle cuciture? Qualcosa dall’aspetto più liscio?» «Purtroppo no. Mi spiego, lei deve capire che siamo costretti proprio dalla natura del materiale con cui lavoriamo a utiliz zare pezzi piccoli.» Fece un ampio gesto. «Osservi, inoltre, che non ci sono guanti. Nessuno dei fabbricanti vuole essere accusato di fare preferenze.» Rolf sorrise. Denise riuscì solo a fissarlo. Si schiarì la voce. «L’ho capita.»20
Il fardello di tante immagini orrorifiche significa una guer ra non dichiarata fra vivi e mai nati. Nella questione può entra re più di una metafora; l’inconscio probabilmente non fa di stinzioni fra invasioni geografiche e violazioni fisiche. IL TUO CORPO È UN CAMPO DI BATTAGLIA, uno slogan femmini sta largamente popolarizzato in un poster postmoderno di Bar bara Kruger, è l’essenza dichiarata di innumerevoli poster ci nematografici e copertine di libri horror. L’immaginario embrionico, negli anni Ottanta e Novanta, era saldamente pari al morto-vivente come metodo di sugge stione orrorifica. La generazione, a quanto pareva, era repel lente come il disfacimento fisico. Per la mente moderna a iden tificazione tecnologica, non era più la morte a terrorizzare, ma
* In originale making kid gloves, letteralmente «fabbricare guanti da (o a base di) bambino», ma anche «trattare coi guanti bianchi». (N.d.T.)
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l’intero spettro dei fenomeni biologici. I mai nati si erano me scolati ai non-morti, e i contadini si riunivano in un sogno di terrore per offrire i propri figli in sacche da abbandonare alle pendici del castello di Dracula.
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Scar Wars *
Modellarsi i lineamenti con mastice nasale o cera cadaverica è una delle più eccitanti e importanti tecniche di trucco perché consen te realmente di cambiare la forma del viso. U mastice nasale è un materiale per modellare appiccicoso e color carne, venduto in forma di piccoli stick o lattine. La cera cadaverica è una pasta più morbida color carne, venduta in lattine. Benché sia stata concepita per re staurare facce da parte dei becchini, viene anche usata da artisti del trucco. Dick Smith, Do-ìt-Yourself Monster Make-up Handbook (1965)
Tom Savini non voleva andare in Vietnam. Voleva fare film invece, e un suo amico di Pittsburgh di nome George Romero stava per girare il lungometraggio d’esordio, un film a basso costo intitolato La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968). Savini era cresciuto imbottendosi di film horror, e amava creare effetti speciali. U suo idolo era Lon Chaney. «Mi ero già iscritto alla leva, nel programma “Hold”, per evitare il Vietnam», raccontava. «Lì si poteva scegliere l’adde stramento, e io avevo optato per la scuola di fotografia di Forth Monmouth. L’esercito mi aveva richiamato prima che George iniziasse le riprese della Notte, e appena ultimata la scuola mi spedirono diritto in Vietnam come fotografo di guerra. Ecco perché non ho partecipato a La notte dei morti viventi. »1 In Vietnam non trovò l’horror, ma un mucchio di orrori. «Ho visto fiumi di sangue laggiù», ricordava Savini in un’in-
Gioco di parole con Guerre stellari (Star Wars); scar significa «cicatrice». (N.d.T.)
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tervista del 1982. «E il mio lavoro era fotografarli. Continuai a esercitarmi nel trucco lavorando sui soldati, tanto per ride re.»2 Savini si era portato dall’addestramento una scatola per il trucco. «Feci impazzire il mio sergente istruttore per il collo dio rigido, una plastica liquida che si seccava e rapprendeva sulla pelle, formando cicatrici. Voleva provarlo in faccia per spaventare il branco successivo di reclute.»3 Nella zona di guerra il collodio non era necessario. Gli effetti scioccanti abbondavano: «Stavo camminando e per po co non inciampai in un braccio umano, con un’estremità strap pata e mozzata, il pugno serrato che stringeva il terreno».4 E visitò ospedali, vedendo amici con «certe parti intime dei loro corpi completamente fatte a pezzi... Forse la mia mente li con siderava effetti speciali per proteggermi. «Era buffo. In condizioni estreme la mente umana si preoccupa solo di se stessa. Si richiude completamente. Realiz zai il tutto molto dopo. Come tutti i reduci dal Vietnam, quan do tornai a casa mi ritrovai fottuto. Il mio matrimonio andò immediatamente giù per il cesso».5 Savini vide nelle fantasie orrorifiche un diversivo. «A un certo punto, mi ricordo che interpretavo la parte del folle Renfìeld in un’edizione teatrale di Dracula, e continuavo pure fuori dal palco... L’attore che faceva l’infermiere del manicomio mi vide tra le quinte e gridò: “Che ci fai fuori dalla tua cella?” Credo che capisse cosa stessi passando. Il Vietnam cambiò la mia vita; mi fece desiderare di fuggire per sempre dalla realtà.»6 Il primo incarico cinematografico venne con uno spin-off canadese della serie «The Monkey’s Paw», (La zampa di scim mia) intitolato L'assedio dei morti viventi {Deathdream, 1972, di Bob Clark), in cui un veterano del Vietnam, Andy (Richard Backus) ritorna «vivo» alla porta di casa ma come zombi-vam piro in inesorabile decomposizione. Il film (noto anche come Dead of Night e The Veteran) mostra i segni del basso costo, ed è difficile capire se il parallelo fra il vampiro morente e la stessa guerra del Vietnam, entrambi succhiasangue senza via d’uscita, fosse una presa di posizione consapevole. Il film rie cheggia e inverte bizzarramente lo sfrenato melodramma sul
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ritorno a casa Slicks and Bones (t. lett.: Stecchetti e ossa, 1972, di David Rabe), in cui un soldato torna dal Vietnam privo della vista e «vede» per la prima volta la sostanziale mostruo sità della propria famiglia. George Romero chiese a Savini di partecipare alla sua nuo va produzione, Wampyr {Martin, 1978), altra storia di vampiri contemporanea che comportava palettate nel cuore ed effetti sanguinolenti. Un lavoro più importante per Romero fu Zombi {Dawn of the Dead, 1979), complesso seguito di La notte dei morti viventi. L’originale, una claustrofobica storia di assedio ripresa in un bianco e nero da cinema vérité, si fondava sull’at mosfera e sulle ombre, con qualche strizzatina d’occhio a inte riora da macelleria. Il seguito, come con il maiale, non avrebbe buttato via nulla. La notte dei morti viventi fu l’ultimo torcibu della americano prodotto prima delle sollevazioni contro la guerra nel Vietnam del 1968 e, in un certo senso, segnò la fine di un’era. Il suo seguito post Vietnam fu un film radicalmente diverso per sensibilità e realizzazione, più complesso, sardoni co e cinico. Zombi, una satira sociale al vetriolo, riempiva un centro commerciale di zombi antropofagi: un’immagine inde lebile del consumismo impazzito. Gli effetti speciali erano grottescamente sopra le righe: una testa saltava in aria con un colpo di fucile, un morto-vivente mordeva in primo piano la spalla della moglie, un altro cadavere ambulante subiva una specie di taglio di capelli a zero da una vorticosa lama di elicot tero. Il film venne distribuito senza passare la censura preven tiva dell’Mpaa. Savini riferì in un’intervista che «gran parte del mio lavoro per Zombie consisteva in una serie di ritratti di quanto avevo visto dal vivo in Vietnam. Forse è stato un modo di venirci a patti».7 Gli horror degli anni Settanta e Ottanta cominciarono a esibire sintomi notevolmente simili a quelli sofferti dalle vittime di una sindrome da stress postraumatica: reazioni sconvolte, paranoia, innumerevoli sequenze di caccia genere guerriglia e, come traumatici salti nel tempo, immagini ripetute all’infinito di assalti da incubo al corpo umano, in particolar modo la sua distruzione improvvisa ed esplosiva. In confronto alle visioni di George Romero e Tom Savini, le escursioni precedenti nell’horror violento erano state assolu-
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tamente innocue. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock è general mente considerato l’inizio della violenza esplicita sui media, benché la sua scena più celebre, l’omicidio sotto la doccia del l’attrice Janet Leigh, fosse il prodotto di virtuosismi al montag gio e una spruzzatina di cioccolata liquida. A Hitchcock piace va raccontare che per la sequenza era stato allestito un com plesso manichino in gomma di una donna nuda, completa di vene, che però non spruzzava abbastanza sangue quando veni va pugnalata. Ma nessun altro della produzione riusciva a ri cordare il pupazzo. Il progettista grafico Saul Bass, assunto da Hitchcock co me consulente visuale per lo storyboard e l’allestimento della sequenza, concepì inizialmente una scena freddamente stilizza ta e del tutto priva di sangue. Suggerì di terminarla con un unico rivolo di sangue da sotto il viso della donna verso la cinepresa che si allontanava dal morto occhio spalancato della vittima. Bass ricordava: «Costruimmo un pavimento con pia strelle speciali, increspate, in modo da creare un’impercettibile depressione attraverso la quale poter dirigere la scia di sangue e altro. Non funzionò».8 Hitchcock optò invece per cioccolato liquido giù per lo scarico. Benché Psycho sia stato un film dalla straordinaria influen za, l’esplicita truculenza su celluloide deve probabilmente più all’opera in Eastmancolor zuppo di sangue della Hammer Films inglese, cominciata con un netto colpo di falce rosso sulla retina del pubblico in La maschera di Frankenstein (The Curse of Frankenstein, 1957) e Dracula il vampiro (Horror of Dracula, 1958), per la regia di Terence Fisher e l’interpretazio ne di Chistopher Lee, che nella parte di entrambi i mostri ave va lanciato la propria carriera e forgiato un altro legame di comunanza tra le icone gemelle. Il primo momento grangui gnolesco in un film americano di studio fu fornito dal regista Robert Aldrich in Piano... piano, dolce Carlotta (Hush... Hush, Sweet Charlotte, 1964), che si apriva con un primo piano della mano di Bruce Dern amputata da una mannaia. Dietro seguiva la sua testa, azione indicata piuttosto poeticamente da uno spruzzo di cioccolata (anche Piano... piano, dolce Carlotta era in bianco e nero come Psycho) su un amorino scolpito, testi
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mone appropriato di un omicidio passionale. La pubblicità di Strait-Jacket (t. lett.: Camicia di forza, 1963) di William Castle prometteva al pubblico un film che DIPINGE VIVIDAMENTE OMICIDI ALL’ACCETTA (anche se le decapitazioni erano cla morosamente false: le teste cadevano come se fossero state te nute su con nastro adesivo). Questi film, e molti altri del gene re, ospitavano solitamente un «ritorno» (leggi resurrezione) sullo schermo di veterane attrici di Hollywood (leggi Bette Da vis o Joan Crawford). Simili a versioni cinematografiche di Erzsébet Bàthory (la sanguinaria contessa ungherese che cre deva che il sangue di vittime di omicidi potesse restituirle la giovinezza), le regine del nuovo horror di Hollywood sperava no di ringiovanire le proprie carriere con analoghi bagni di sangue. Alla luce di tali ondate di truculenza ufficiale, e con la fine di diversi uffici di censura che tradizionalmente l’avevano fatta passare dura all’horror, si fece strada il primo vero «film splat ter» nei drive-in e nei circuiti exploitation. Blood Feast (t. lett.: Banchetto di sangue, 1963) fu il frutto del produttore David F. Friedman e del regista Herschell Gordon Lewis. Che la simulazione continua di omicidi e mutilazioni nel film (il tenta tivo perverso di un folle caterer di ricreare un «genuino» ban chetto cannibalesco egiziano) sia più o meno realistica si può discutere, ma nessuno potrà accusare i due cineasti di aver lesinato secchielli ricolmi di sbobba rosso brillante. Effetti cosmetici elaborati e stupefacenti erano stati noti al cinema fin dai giorni di Lon Chaney, ma raggiunsero un ulte riore livello di realismo grazie al perfezionamento di un mate riale che sarebbe quasi diventato la sostanza alchemica di fine secolo. L’uso di tale sostanza, la schiuma di lattice, non solo espanse le capacità tecniche dell’artista di effetti speciali, ma il conseguente pubblico spettacolo di corpi umani modellabili all’infinito rifletteva in parallelo la crescita esponenziale della chirurgia cosmetica come attività culturale e ossessione duran te lo stesso periodo. La schiuma di lattice, nella sua conformazione definitiva, è un materiale solido e spugnoso di densità variabile, e può essere utilizzato per fabbricare calchi, maschere e protesi spa-
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ziando da quelli tanto resistenti da tollerare la violenta solleci tazione di un cascatore, fino ad applicazioni facciali sottili co me pelle in grado di registrare le più impercettibili espressioni dell’attore che c’è sotto. I processi necessari sembrano improv visati, quasi casalinghi (e infatti furono perfezionati nel corso degli anni da rabberciatoti entusiasti che lavoravano instanca bili in cucine e garage, scambiandosi tranquillamente osserva zioni); miscelatori di cibo casalinghi vengono usati per frullare il lattice in polvere, gli agenti schiumosi e lenitivi e l’acqua in una spuma simile a pastella. Questa schiuma liquida, con l’aggiunta di un agente gelifìcatore e colorante, viene versata in calchi ricavati da persone reali o modellati su sculture di fantasia, e poi vulcanizzata in un normale forno da cucina. Un passo falso in uno stadio qualunque della lavorazione può provocare lo straziante equivalente di un soufflé afflosciato. La schiuma di lattice e le tecnologie a essa collegate hanno reso possibili fantastiche distorsioni del corpo umano di una plasticità quasi paragonabile a quella raggiunta in precedenza solo da pittori e scultori. Diversi film fantascientifici e dell’or rore cominciarono negli anni Settanta e Ottanta a mostrare segnali di affinità immaginaria alle prime visioni di Francis Ba con e Salvador Dall. H remake di La «cosa» da un altro mondo {The Thing from Another World, 1951, di Christian Nyby) da parte di John Carpenter {La cosa [The Thing, 1982]), con gli effetti speciali di Rob Bottin, sottopose il corpo alle contorsio ni e agli stiramenti più surrealisti mai visti fuori da una galleria d’arte. Almeno una delle stravaganze di Bottin assomiglia da vicino a un pannello del seminale trittico di Francis Bacon Tre studi per figure alla base di una crocifissione. In un certo senso, l’intera storia del XX secolo di forme umane sempre più astrat te nelle belle arti è stata compendiata nel mezzo popolare dei film dell’orrore, fantascientifici e fantasy. Dopo l’ispirata in cursione nel mondo lovecraftiano con Re-animator {Re-Animator, 1985, di Stuart Gordon, ispirato al racconto Herbert West, rianimatore), Gordon e Brian Yuzna radicalizzarono ancora di più il loro approccio con Terrore dall’ignoto {From Beyond, 1986), anch’esso ispirato a H.P. Lovecraft, con immagini di gente ridotta a urlanti masse zannute di protoplasma, memori
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di un incubo baconiano su tela. L’esplorazione del rapporto fra orrore cinematografico e surrealismo è consapevole e calco lata; insieme al talentuoso consulente per gli effetti speciali Screaming Mad George, Yuzna ha preso a prestito direttamen te l’immaginario di Salvador Dall per la sua satira orrorifìca Society - The Horror (Society, 1989), dove ricche amebe umane inglobano letteralmente le classi lavoratrici. Negli anni Ottanta gli effetti speciali nei media popolari erano l’incontro più ravvicinato con il miracoloso che potesse combinare una cultura secolare; l’appetito diffuso per l’illusio ne di una trasformazione tradiva un appetito profondo e senza precedenti per immagini di trascendenza e trasfigurazione. (I mostri si rivelavano come al solito pratici sostituti del Cristo.) Non tutti gli effetti mostravano carne informe; parte del lavoro più ambizioso comportava dettagliate e magistrali trasformazioni/incroci di specie. Quando Lon Chaney Jr. si sottoponeva alle sue metamorfosi licantropiche belliche, la tecnologia di ripresa era piuttosto rigida: salti e dissolvenze in stop-motion mentre venivano dolorosamente applicati strati di peli di yak. Quarant’anni dopo, due film prodotti quasi simultaneamente, L'ululato (1980) e Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981), esibirono la nuova for ma della licantropia, ora più meccanica che ottica. L’ululato, diretto dal ragazzo prodigio dell’horror Joe Dante, presentava un uomo-lupo modernissimo: la carne (pelle in lattice con val vole gonfiabili, opera di Rob Bottin) poteva tendersi e flettersi a piacimento, il naso ruggiva sporgendo come un treno merci, e i talloni emergevano dalle dita come coltelli a serramanico motorizzati. La grande scena di trasformazione di L’ululato (aggiunta al film a mo’ di costoso ripensamento) si rivelò un potente richiamo per il passaparola. Il regista gradì la scena, ma in seguito comprese che non aveva senso: la spettacolare metamorfosi richiedeva tanto tempo che la vittima avrebbe avuto ampie possibilità di svignarsela.9 Distratti dallo spreco di trucchi, comunque, gli spettatori non si lamentarono. Il film era stracolmo di affettuosi riferimenti ai film del genere, com presa un’apparizione-cammeo di Forrest J. Ackerman, venera
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bile direttore di «Famous Monsters of Filmland»; e John Say les elaborò una sceneggiatura particolarmente acuta. Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, con gli effetti speciali di Rick Baker, superò il precedente con la prima illustrazione di ogni epoca della trasformazione di un licantropo nudo. Dalla pelle umana spuntavano singoli peli di lupo in microscopici primi piani, mentre la struttura scheletri ca dell’attore David Naughton si allungava e animalizzava sot to la carne esposta e vulnerabile. Un lupo mannaro americano a Londra fu visto e apprezzato da Michael Jackson, il cantante il cui primo successo solista era stato il motivo del film dell’orrore Ben (id., 1972, di Phil Karlson), un intrigante racconto di ratti assassini controllati psichicamente. Jackson decise di chiedere a John Landis e Rick Baker di creare il video musicale per la canzone eponima del suo album Thriller, un successo del 1982. A dir la verità, l’album fu più che un successo, un megafenomeno spazzatutto destinato a diventare l’album più venduto di tutti i tempi: mez zo milione di copie alla settimana al vertice della popolarità. La CBS finì per smerciarne 38,5 milioni di copie in tutto il mondo; restò al primo posto nelle classifiche di «Billboard» per 37 settimane e sette dei suoi pezzi entrarono nelle top ten.10 La canzone Thriller comprendeva una sezione recitata da Vincent Price che ricordava le effimere canzoncine protorap di John Zacherle e Bobby «Boris» Pickett; lo spirito di The Monster Mash e Dinner with Drac aveva raggiunto una stupefacente apoteosi commerciale. Il video di quattordici minuti Thriller, prodotto a un costo oscillante fra 800.000 e un milione di dollari, si apre con una scena di Jackson nei panni di un adolescente anni Cinquanta a un appuntamento, dove confessa timidamente alla ragazza di essere «diverso» e «non come gli altri». La battuta suscita una risatina omofobica nel pubblico, seguita da un grido della ragazza quando lui dimostra esattamente quel che vuol dire, mutandosi in una ringhiarne creatura felina dagli occhi gialli. Prima che possa ucciderla, la scena si rivela un fìlm-nel-film, con Jackson e la sua ragazza che si osservano tranquillamente passare sullo schermo di un cinema. Tornando a casa, passano
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per un cimitero che erutta qualunque revenant in decomposi zione da J’accuse a George Romero, e Jackson si trasforma di nuovo, questa volta in un Franken-zombi ballerino. Con la sua carnosa esibizione di spaventosi ballerini, Thriller fu una danse macabre quasi letterale per i frenetici anni Ottanta, una svendi ta plurima di Hans Holbein il Giovane da parte dell’industria dello spettacolo. (Il video fu pesantemente finanziato da MTV e dalla rete via cavo Showtime.11) Rick Baker ricordava un Jackson sorprendentemente poco familiare col genere orrorifico: l’estrema stravaganza del pro getto suggeriva un hommage sentito da parte di un genuino ammiratore. Ma quando Baker e Landis appresero che l’entertainer non aveva mai visto La sposa di Frankenstein, comincia rono «a tirar fuori tutti i titoli di quei film e risultò che ne aveva visti pochissimi», aggiungeva Baker.12 Le sue conoscen ze del genere si limitavano a Un lupo mannaro americano a Londra, Notre-Dame (The Hunchback of Notre-Dame, 1939, di William Dieterle) con Charles Laughton (uno dei suoi preferi ti) e The Elephant Man (1980). Mancò poco che il mondo si perdesse Thriller, già ultima to. Secondo il biografo di Jackson J. Randi Taraborelli, il can tante, Testimone di Geova praticante, si turbò quando gli an ziani della Chiesa obiettarono al demoniaco video.1? Preso dal panico, domandò che l’opera non ancora distribuita venisse distrutta. Pare che il suo manager, John Branca, abbia raccon tato a Michael una storia su Bela Lugosi - mai sentito nomina re dal divo - in cui dipingeva l’attore come un uomo profonda mente religioso che tuttavia poteva interpretare Dracula senza per questo compromettere la propria anima. Benché non esista una documentazione biografica sulla particolare religiosità di Lugosi (piuttosto prove evidenti di problemi personali e pro fessionali provocati dalla sua immagine vampiresca), lo strata gemma di Branca funzionò. Jackson permise la distribuzione del video, purché accompagnato dalla seguente didascalia: «In base a forti convinzioni personali, è mia intenzione sottolineare che questo film non promuove in alcun modo una fede nell’oc culto». (Taraborelli riferisce anche la presunta reazione del
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regista John Landis alla crisi di nervi: «Gesù Cristo. Questo ragazzo non è poi così in forma, non vi pare?») Evidentemente Michael Jackson trovava che nella propria forma esteriore qualcosa non funzionasse; aveva già iniziato un’ossessiva odissea con la chirurgia plastica, e la prima consa pevolezza da parte del pubblico della sua reale riconfigurazio ne facciale si sovrappose alle metamorfosi con mostri di fanta sia di Thriller. La corrispondenza piuttosto ovvia - forse troppo, nascosta com’era in piena vista - non suscitò particolari commenti, ben ché si facesse un gran parlare dell’opera di chirurgia a cui si era sottoposto il cantante. La chirurgia plastica e l’iconografìa mostruosa che spinsero Michael Jackson alla sua maggiore fa ma avevano le loro origini nella prima guerra mondiale; la chi rurgia come risposta medica agli orrori del campo di battaglia, i mostri come le metafore cinematografiche belliche di Caligari e Nosferatu. «People», verso la fine del 1983, fu la prima rivista a ri portare che Jackson si era sottoposto a una plastica nasale; la storia e le fotografie del prima e dopo fecero da tam tam e crearono attesa per il video di Thriller, che debutto su MTV nel gennaio 1984. La fascinazione per il trucco mostruoso an dava di pari passo con quella per l’alterazione chirurgica, per Jackson come per il suo pubblico, a quanto pareva. All’appari zione del suo album successivo, Bad (1987), la chirurgia da sola sarebbe stata sufficiente. Il cantante ora aveva un aspetto scheletrico da modello (diversi osservatori pensarono che stes se tentando di trasformarsi fisicamente in Diana Ross, sua mentore e idolo), e si era rimpicciolito ancor più il naso. «Ave va aggiunto una piccola e bizzarra fossetta al mento e le sue labbra si erano assottigliate», riferiva per la cronaca il «New York Times», «desensualizzando i lineamenti e sfu mando il proprio patrimonio razziale.»14 La pelle aveva un pallore che poteva solo essere il risultato di una pesante truc catura o, come sostenevano in molti, di un peeling facciale concepito per minimizzare la pigmentazione naturale. Diversi lo trovarono mostruoso, benché quasi tutti lo ritenessero inte ressante.
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Forse non era sorprendente che il divo di Thriller fosse intento a trasformarsi il volto in una specie di teschio ambulan te. Da certi punti di vista, la pelle bianco-osso, il naso quasi scomparso e i capelli increspati lo apparentavano al Fantasma dell’Opera di Lon Chaney. Il paragone è pertinente, perché sottolinea la funzione culturale parallela di Jackson e Chaney: l’incamazione di una massiccia trasformazione funziona da metafora per un pubblico fondamentalmente insicuro e timo roso sulle reali prospettive di cambiamento in una società teo ricamente mobile e priva di classi. Un vasto golfo socioecono mico separa la superstar e il pubblico, all’epoca di Chaney co me in quella di Jackson, e tradisce la fantasia. Non sorprende che i divari fra aspettative e realtà siano gonfiati enormemente dall’horror; il cantante ha coscientemente usato l’enorme ric chezza per attirare una spettrale attenzione da parte dei media. Con una trovata pubblicitaria, nel 1987 offrì un milione di dollari al London Hospital Medicai College per i resti schele trici di John Merrick, il vittoriano grottescamente deforme la cui vita costituì la base di The Elephant Man. Il numero di dicembre 1987 di «Playboy» rispose con la notizia scherzosa che i discendenti di John Merrick avevano fatto un’offerta de cisamente più rpodesta per i resti del naso del cantante. Michael Jackson è spesso paragonato a Peter Pan, ma Pe ter Pan viene raramente riconosciuto come la variante di Dra cula che in realtà è: un essere di fantasia tardovittoriana che vola nelle camerette dei ragazzi con una discutibile offerta di vita perenne. (Quest’idea fu rielaborata dal regista Joel Schu macher nella sua commedia orrorifica Ragazzi perduti [The Lost Boys, 1987], dove una gang di giovani alienati evita di crescere diventando vampiri.) La fantasia vola ancora. Il rin giovanimento e l’eterna giovinezza sono le illusioni portanti dell’industria chirurgico-estetica, alla quale l’immagine di Mi chael Jackson è per sempre sposata. «Standard and Poor’s In dustry Surveys» riferiva nel 1988 che l’industria di alterazione chirurgica volontaria era un affare da 300 milioni di dollari, con un incremento annuo del 10 per cento. La crescita esplosi va dell’industria cosmetica pareggiava la plasticità senza prece denti del corpo umano dipinta negli effetti speciali cinemato
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grafici degli anni Settanta e Ottanta. Le convenzioni della fan tascienza contemporanea avevano avuto un impatto altrettanto devastante sul modo in cui la gente considerava il funziona mento della propria mente. Un tempo i computer erano stru menti del cervello, che copiavano efficacemente certe sue fun zioni; oggi, un enorme numero di persone altrimenti intelligen ti crede che il cervello «non è altro» che un computer, e la coscienza «null’altro» che un effetto collaterale di un discreto livello di complessità meccanica. In breve, una metafora viene accettata come un fatto compiuto. Se ricaviamo l’ispirazione per l’immagine che abbiamo di noi stessi dalle immagini di fantasia della cultura popolare, non sorprende che l’aspetto somatico sia influente quanto le sue controparti meccanici stiche. Visioni di uomini che giocano alla divinità con corpi di donna imperversavano nella cultura popolare americana negli horror anni Trenta come II dottor Miracolo e, al massimo della spettacolarizzazione, in La sposa di Frankenstein di James Whale (1935). Creare donne o rifarle, e ostacolare o modifica re gli usuali metodi di riproduzione è un impulso fantastico che risale almeno al mito di Pigmalione; il critico femminista Constance Penley collega questa tendenza all’idea di Marcel Duchamp della «macchina celibe», che descrive come «un sistema chiuso e autosuffìciente... I suoi temi comuni com prendono un movimento senza ostacoli, talvolta perpetuo... elettrificazione, voyeurismo ed erotismo masturbatorio, il so gno della riproduzione meccanica di arte, e nascita o rianima zione artificiale».15 Il linguaggio onirico del cinema consentì, per la prima volta nella storia dell’uomo, una stratificata elabo razione di massa di questi sogni a occhi aperti, divenuti domi nio praticamente incontrastato di scienziati folli. Emerse un’i conografia cruciale: il dottore impazzito, ossessionato da teorie e/o standard estetici impossibili e irraggiungibili, incombe sul la donna che ha legato al tavolo operatorio. «E ora, mia ca ra...» è il consueto esordio della sua litania. Chiunque superi i dodici anni è in grado di elaborare un copione credibile: la accoppierà con una scimmia, sostituirà il suo sangue, ne tra pianterà la testa, la ridurrà a una bambola, la trasformerà in
Thr Monxfrr Show
una statua di cera ccc. È praticamente impossibile catalogare
la frequenza con cui la nostra cultura ha contemplato questa immagine, in un misto di repulsione e attrazione, con quest’ultima a trionfare, considerato il perenne richiamo del motivo. È una visione che, oltrepassata la pura costruzione fantastica, diviene accessibile nel corso della vita quotidiana. Secondo Naomi Wolf, autrice di The Beauty Myth, noi tolleriamo da parte dei chirurghi estetici comportamenti che non sarebbero stati permessi a Josef Mengele. Le tecniche di chirurgia estetica, scrive, «paiono essere diventate esperimenti medici irresponsabili, con donne disperate come cavie: innan zitutto pugnalate nella liposuzione, con l’asportazione di vasi funzionanti insieme a imponenti masse di tessuto vivente, inte re reti neuronali, dendriti e gangli. Gli sperimentatori hanno continuato imperterriti. In Francia sono morte nove donne».16 La Wolf critica la mancanza di consenso informato, l’elemento di coercizione psicologica, e, soprattutto, la falsa definizione di corpi in salute come difettosi, alla ricerca di profitti clinici: «Considerando le loro azioni in modo strettamente letterale, e non retorico, appare chiaro che i moderni chirurghi estetici violano quotidianamente la convenzione medica di Norim berga».17 Psicoterapia e chirurgia estetica alterano i confini di corpi e menti meritevoli di «cura» e «correzione». Troppo spesso, l’importante pare sia alimentare la dipendenza del paziente. Quasi sempre, lo scopo è fargli accettare - o conformarlo a convenzioni e fantasie socialmente accettate. La fantasia di li berazione chirurgica dall’ansia sociale è piuttosto potente. Il rapporto fra paziente (di norma) femminile e chirurgo estetico (di norma) maschile viene spesso perversamente eroticizzato lungo direttive da film dell’orrore. Le esagerazioni erano evi denti in un programma televisivo via cavo a cui ha assistito l’autore, un «le aziende informano» settimanale prodotto co me autopromozione da un chirurgo estetico. Due giovanissime donne nervose discutono l’infelice stato dei loro corpi con il medico, che annuisce paterno, rafforzandone le paure. Lo spettatore non vede nulla di repulsivo o sproporzionato nei loro volti, ma le donne si sentono evidentemente devianti e
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Dtiritl J Skal
sfortunate. Il dottore spiega come può iniettare nelle loro lab bra una sostanza per farle apparire più sensuali. Si discute la loro paura di «essere tagliate», e il medico spiega che per il momento probabilmente non hanno bisogno di alcun «ta glio», solo di un piccolo ritocco col collagene, il che lenisce i timori per il presente mentre le rende ancora più incerte del futuro. Il rituale è seducente e manipolarono; lo spettatore sospetta che il collagene sia solo del petting spinto, con l’inter vento come inevitabile approdo. Ai consumatori più avventurosi è rivolta una videocassetta di un’operazione per accrescere il seno, volta a desensibilizzare i più schizzinosi. Sorprendentemente, si vede poco sangue. Il capezzolo viene tagliato intorno alla circonferenza per permet tere l’inserzione della sacca di gel al silicone. Nessuna obiezio ne su quel che esattamente accade alla risposta erotica di un capezzolo le cui terminazioni nervose sono state amputate di netto davanti agli occhi della videocamera. (Benché non sia questa la tecnica preferita - il taglio viene di solito praticato nella piega sotto il seno - è interessante il fatto che a scopo promozionale vengano scelte le immagini della mutilazione di un capezzolo.) Come nella prostituzione, il piacere sessuale della donna non conta. Le spose della scienza sono lì per com piacere lo scienziato e stendersi sul tavolo. I loro corpi, in tutta evidenza, non lo soddisferanno mai; li tagliuzzerà in continua zione, come in uno slasher movie in miniatura, al rallentatore e con l’approvazione sociale. L’effetto è ridotto di alcune spanne rispetto a quello di un film splatter, ma le immagini rituali essenziali restano le stesse: il balenio di un seno, seguito da un lucchichio di coltello. Nel linguaggio tipico della chirurgia estetica, si ritiene che i corpi femminili abbisognino di «corre zione» (una trasparente parola in codice per «punizione»). Ovviamente, lo scopo principale e l’esito finale dello spettaco lo, sia esso una pubblicità televisiva per la chirurgia plastica o una fiera di devianza browninghiana, è «farsi tagliare». Forse la versione più estrema di vivisezione socialmente sanzionata si verifica nel campo della chirurgia transessuale. Si considerano transessuali le persone letteralmente intrappolate da un accidente alla nascita nel corpo del sesso opposto. Solo
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raramente vi è vero ermafroditismo, o la prova genetica di una diagnosi simile; ma la radicata ansia per il genere è reale, e viene affrontata con un coltello. Come nei film dell’orrore, una metafora si fa letterale. Nel caso degli uomini, i testicoli vengo no recisi e scartati, i peni vengono svuotati e rovesciati per diventare «vagine» con un tipo di sensibilità interiore man cante alle vere vagine. Gli psichiatri hanno ripetuto per gene razioni alle donne che avrebbero dovuto avere «orgasmi vagi nali»; così, tramite l’intervento transessuale, i medici hanno potuto creare le proprie fantasie su carne. In The Transexual Empire, Janice G. Raymond oppone una tesi bruciante a questa pratica da una posizione femmini sta. «Nel suo tentativo di scacciare dalle donne il potere ine rente alla biologia femminile, il transessualismo non è solo una procedura medica isolata o aberrante», scrive la Raymond. «Si può affiancare a una serie di altre tecnologie maschili interventiste come la clonazione, la fertilizzazione attraverso test sulle tube e la selezione sessuale. » Per la saggista, il transessualismo non solo origina un «lei-maschio», ma, ciò che è più impor tante, un «lui-madre», un Frankenstein restituito alla terra. Il film di immenso culto The Rocky Horror Picture Show di Jim Sharman, una ricapitolazione camp di personaggi e cliché hor ror, fu altrettanto importante per il travestitismo istrionico: lo scienziato folle del film, Frank N. Furter (Tim Curry) è un «travestito transessuale della Transilvania», proprio il fulcro della mescolanza dei generi, con le suture in bella evidenza. I film horror degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta contri buirono parecchio a popolarizzare il concetto di doppi sessua li: Psycho resta tuttora uno dei film in bianco e nero più visti di tutti i tempi. Sarebbe illuminante capire la portata di immagini orrorifìcamente persuasive di uomini e donne all’interno di un unico corpo nel condizionare e legittimare la stessa procedura transessuale. La chirurgia estetica non è l’unica sede contemporanea dell’ansia corporea correlata all’orrore. Come comprovato dal vasto numero di riviste, libri e programmi informativi sul sog getto, il pubblico interesse per tatuaggi, scarificazione, pierc-
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ing e analoghe attività volte all’alterazione del corpo è più forte che mai. V. Vale e Andrea Juno. curatori della raccolta Modem Primitives, scrivono che contro uno sfondo di «sensazione quasi universale di impotenza a “cambiare il mondo”, gli indi vidui cambiano ciò su cui esercitano il potere: i propri corpi. Quella zona di confine tra fìsico e psichico viene messa alla prova di qualunque intuizione e libertà reclamabile».18 Una forma meno decorativa di abbellimento (se la parola è quella giusta) corporeo è stata ampiamente, ma non esclusivamente, osservata nel comportamento automutilante di detenuti e isti tuzionalizzati. Secondo due esperti in materia, Robert Robert son Ross e Hugh Bryan McKay:
Rassicurerebbe molti di noi sapere che l’automutilazione rap presenta esclusivamente la bizzarra reazione di un esiguo nu mero di individui deviati attentamente allontanati dall’occhio del pubblico... [ma] non è così. L’automutilazione non si ri trova esclusivamente in istituti di correzione, né è ristretta a individui fortemente disturbati. Proprio come non esiste par te del corpo umano che non abbia subito mutilazioni, non esiste ambiente dove non si sia verificata automutilazione.19
I comportamenti qui descritti svariano da cruenti autota tuaggi a graffi, incisioni, morsi, bruciature o amputazioni vere e proprie, e atti analoghi contro l’identità come il digiuno e l’avvelenamento. Talvolta l’importante, come nel caso di certi schizofrenici, è semplicemente l’indurre una sensazione in un corpo che si sente «tagliato fuori». In altri casi più tipici, come quelli a cui si assiste nei riformatori femminili, vi è una netta dinamica sociale all’opera, completa di manipolazione-provo cazione dell’autorità e masochismo voyeuristico. Un segno per manente sulla carne, per quanto sfìguratore, è tuttavia un’eti chetta, un’identità, e un inoppugnabile marchio di riferimento sociale. Un altro specialista, Armando R. Favazza, ha esaminato approfonditamente la base storica, letterale e antropologica dell’automutilazione. In Bodies Under Siege egli riscontra la prevalenza di immagini di mutilazione nei miti cosmogenici, il
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che «dimostra le origini di un ordine sociale da arti di esseri primari smembrati».20 Gli antecedenti mitici, naturalmente, si osservano facilmente nei film horror del genere fantastico demoniaco. Anche la mutilazione possiede caratteristiche fun zioni iniziatorie, e al fine della corrente discussione è di qual che rilievo il fatto che uno dei primi utilizzi mutilatori su gran de schermo in un film americano sia stata Fimmagine dell’atto re Richard Harris appeso per i pettorali perforati in Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, 1970, di Elliot Silver stein). Quell’indimenticabile ricostruzione torcibudella di una cerimonia di iniziazione Sioux innalzò significativamente il li vello di tolleranza per l’orrore fisico hollywoodiano in tutta la sua rutilanza, spianando la strada per successive pietre miliari come L'esorcista. Qualunque patologia collettiva possa essere coinvolta nel l’odierno diffuso immaginario di mutilazioni e mutazioni, gli individui che si guadagnano da vivere con spettacoli analoghi sono, in base alle mie ripetute osservazioni, un gruppo amiche vole, allegro ed equilibrato. Greg Nicotero, un giovane protégé di Tom Savini assistente in II giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985) - i cui tratti furono usati per una delle teste taglia te e ghignanti del film - abbandonò ottimi studi per lavorare nel film romeriano sugli zombi, e non ritornò più indietro.21 Dopo aver collaborato in film come La casa 2 (The Evil Dead II, 1987, di Sam Raimi), Nicotero si mise in affari con Howard Berger e Robert Kurtzman, giovani di formazione e gusti simi li, e nel 1988 fondò il Knb Efx Group. Con base a Chatsworth, in California, un’ora a nord di Los Angeles, lo studio è uno fra le svariate dozzine nell’area losangelina a soddisfare l’appetito instancabile dell’industria del divertimento per realistici cada veri, ferite, parti del corpo scomponibili e ovviamente mostri. Nella sala d’aspetto del loro studio, un sedile di auto gio cattolo è spinto con noncuranza contro un muro a cui sono appesi gli impressionanti cadaveri da dissezione creati dal gruppo per il film Gross Anatomy (t. lett.: Anatomia all’ingrosso, 1989, di Thom Eberhardt). La maggior parte del laborato rio vede in corso diversi progetti, quasi tutti su corpi in putre fazione e ferite traumatiche alla testa. In una zona di lavorazio-
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condivisi. Riempiva quaderni con il genere di vicende vampire * sche che non riusciva mai a trovare nei libri di testo, storie in cui i vampiri trionfavano ed erano chiaramente esseri superio ri. Il sabato notte guardava i film horror presentati da Maila «Vampira» Nurmi. «La idealizzavo totalmente», dice Megan. «Riesco ancora a ricordarmi la sigla: “Fletcher Jones Chevrolet presenta... Vampira!” Per me lei era come una dea.» La sua ossessione per Vampira la ficcò nei guai sia a scuola sia a casa. «I miei genitori mi avevano seppellito in una scuola cattolica femminile, ignari di quanto stimolante io trovassi l’immaginario cattolico relativo al sangue.» Fin da piccolissi ma, Megan aveva ricevuto messaggi contraddittori riguardo al la religione e al sangue^ all’amore e al dolore. «Era buono, era cattivo, fa’ così, non fare cosà... Mia madre era stata educata cattolicamente secondo la tradizione polacca, e il timor di Dio le era stato inculcato a viva forza da mia nonna.» In chiesa, ai bambini veniva insegnato che il vino bevuto dal prete era san gue, non solo simbolico, ma reale. Le suore, in ogni caso, non riuscivano a intuire l’importanza del vampirismo in un’educa zione cattolica. «Andavo a scuola con lo smalto nero sulle unghie. Gli altri ragazzi mi consideravano pazza e per questo mi tormenta vano.» Persino le ragazze della cerchia più intima di Megan non condividevano la sua fissazione per la vistosa Vampira. «Era un’identità segreta a tempo pieno, finché non fui becca ta. » Una delle sue amiche strisciò dalle suore, spifferando tutti i particolari della vita fantastica di Megan. «Le suore mi sotto posero a interrogatorio e mandarono a chiamare i miei genito ri, che a loro volta decisero di svolgere indagini personali su Vampira. Una notte si sedettero a guardare il programma, in silenzio. Dopodiché mi fu intimato di non rivederlo mai più. Scovarono le mie preziose storie e me le fecero strappare una a una. Se mai avessi menzionato l’argomento, mi dissero, mi avrebbero portato da un dottore che mi avrebbe strizzato ben bene la testa. » In pratica, l’embargo sui non-morti avrebbe avuto vita breve per l’alcolismo dei suoi genitori. «Aspettavo fino a quando non erano fuori uso, il sabato notte, un evento imman
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cabile. Erano così stravolti che non riuscivano assolutamente a distinguere quel che passava in televisione.» Poi, come uno spettro invisibile in casa loro, Megan si alzava dal letto e supe rava le figure semincoscenti dei suoi genitori per unirsi a Vam pira. Le perverse contraddizioni del personaggio - bella-brut ta, sensuale-fatale - echeggiavano i conflitti irrisolvibili della sua vita familiare. «In un certo senso, Vampira era una specie di beatnik », un’immagine rassicurante e antiautoritaria. Vampira si rivelò un fenomeno di breve durata, un’oscura cometa visibile in cielo per meno di un anno. La sua scompar sa dallo schermo fu uno dei due eventi traumatici per Megan nel 1954. Un giorno, sua madre uscì di casa e fu investita da una macchina che la storpiò a vita. L’incidente rovinò finanzia riamente la famiglia. Costretta nel ruolo di infermiera in verde età, la ragazza cominciò a sublimare le proprie fantasie oscure. Era sempre una scheggia impazzita c un’emarginata a scuola, ma ora leggeva le sorelle Brònte invece di «Tales from the Crypt», sostituendo un gentile goticismo all’esplosività da fu metto del Guardiano della Cripta e di Vampira. Visse in casa fino ai venticinque anni assistendo la madre, le cui lesioni si rivelarono mentali e fisiche insieme. La donna invecchiata sprofondò nella depressione, continuò a bere parecchio e igno rò i consigli del medico per una fisioterapia. «Si stava lenta mente suicidando», ricorda Megan. Con notevole sforzo emotivo, la giovane rinunciò alla pro pria parte oscura, trovò un lavoro che le fruttava cinquanta dollari alla settimana e si trasferì in un appartamento tutto per sé. «Cominciai a spassarmela», ricorda. «Per un po’ diventai hippy, fumai erba, presi dell’acido, mi feci. Imparai parecchio sulla vita, e sui diversi livelli di coscienza. L’acido era una cosa spirituale, era ritualistico, religioso. » Per un certo periodo Me gan divenne uno dei tanti guru psichedelici di Los Angeles, una madreterra hippy che nutriva gli altri come lei non era mai stata nutrita. Nel 1971, sua madre morì all’improvviso di attacco cardia co. E poco dopo, le sue esperienze psichedeliche cominciarono ad assumere un immaginario terrorizzante, correlato ai vampi ri. «Credevo che fosse finita. Ma mi risvegliai, più forte che
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mai. Era qualcosa di talmente contrario al mio abituale ruolo di madreterra che andai completamente fuori di testa.» Le visioni erano «intensamente religiose, estatiche, e terrorizzanti. Mi vidi nei panni di una vampira, con una pulsione irresistibile a bere sangue da un amante. Uomo o donna, non contava». Megan brancolò negli anni Settanta in uno stato di trance. Sapeva che la sua ossessione vampiresca non era una fantasia capricciosa riaffiorante .dall’infanzia, ma qualcosa che faceva parte della sua natura profonda, in cerca di confronto e assimi lazione. Ma l’unico sollievo possibile era in film dell’orrore autoctoni come Count Yorga, Vampire (t. lett.: Il conte Yorga, vampiro, 1970, di Bob Kelljan) e Amore al primo morso (Love at First Bite, 1979, di Stan Dragoti), così come negli eleganti incubi di importazione della Hammer. Allo stesso tempo assi stette il padre nella sua malattia terminale, annullandosi nel gelido erotismo di Christopher Lee. La musica rock, che aveva coinvolto Megan fin dai suoi primi giorni psichedelici, cominciò negli anni Settanta a far proprio l’armamentario orrorifico del cinema con Black Sab bath, Alice Cooper, Kiss e altri. Alla fine del decennio, fuso con la nascente sensibilità del punk, emerse un nuovo pertur bante ibrido, un nuovo tipo di rock scioccante noto generica mente come Gothic. A Hollywood cominciarono a spuntare locali con nomi come Theatre of Blood, The Veil, e Helter Skelter. Un giorno Megan percorreva Hollywood Boulevard quando vide un manifesto appiccicato su un muro: SOLO PER STANOTTE - CASTRATION SQUAD. Era stata sempre follemente attratta dai leggendari castrati del mondo dell’opera, un interesse che aveva quasi eclissato la sua ossessione per i vampiri, e il nome del gruppo le trafisse il cuore. Benché all’epoca lei non ne fosse del tutto consapevole, il castrato e il vampiro condividevano una psicologia sotterra nea, una dislocazione orale del sesso genitale, rovesciato e tra sformato in Romanticismo del XIX secolo. Megan cominciò a uscire con gruppi come Castration Squad, The Sleepless, 45 Grave e Christian Death. Fu allora che ricevette una telefonata da Anne Rice. Non si conoscevano, ma avevano un’amicizia comune che
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raccomandò alla scrittrice di contattarla per le ricerche per il suo nuovo romanzo sui castrati, Un grido fino al cielo. Da quel che dice Megan, parlarono per ore, nel modo possibile solo a due persone che condividono un interesse appassionato e specialistico per un soggetto arcano. Megan registrò alla ro manziera delle cassette dalla propria collezione di rarità fine secolo sulle ultime voci di castrati mai registrate, e ricevette un ringraziamento sul libro. La Rice le suggerì che forse le sareb be piaciuto il suo primo romanzo, che trattava un tema analo go. Il libro era intitolato Intervista col vampiro. «Uscii e acquistai il tascabile», ricorda Megan. «E non mi riusciva di smettere di leggerlo.» Storia densa e decadente di vampiri nella New Orleans del XIX secolo che aveva già richia mato un seguito di culto, il libro conteneva un personaggio diffìcile da dimenticare, con una risonanza speciale per lei: una ragazzina trasformata in vampira e intrappolata per l’eternità nel corpo non morto di una bimba. Megan usciva dalla propria stanza solo per mangiare. «Non riuscivo mai ad averne abba stanza, fu una rivelazione. Per non dire altro, ecco una scrittri ce moderna che creava una storia meravigliosa e non distrug geva i suoi vampiri alla fine. Era come se la letteratura vampiresca fosse finalmente uscita dalle caverne preistoriche ed en trata nella civiltà.» Intervista col vampiro spinse la vita di Megan in una sorta di massa critica. D’improvviso i vampiri erano ovunque. E un giorno «un piccoletto dall’aria spettrale e pallida e in perfetta tenuta da impresario delle pompe funebri» entrò nell’ufficio del quotidiano losangelino dove Megan lavorava come super visore. Era un musicista con affettazioni inglesi e si faceva chia mare Jonathan Cape. Il suo gruppo erano gli Schreck’s Bad Boys, dal nome dell’attore del film tedesco Nosferatu. «Mi in namorai immediatamente e follemente di lui. Mi raccontò tut to del suo io più profondo, delle cose segrete che faceva e lo eccitavano. » Il sangue, le fece capire, era tra quelle. Megan si innamorò anche di una delle cantanti di Jona than, che usava il nome di Desiree Le Fanu. «Era così esotica, alta e magra. Magrissima. Mi si presentò come se io fossi stata la sorella perduta da tanto tempo, fissandomi con quegli strani
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occhi. Mi invitò a una lettura di sue poesie. E dopo che vi ebbi assistito una sera mi chiamò, alla Anne Rice, e parlammo soltanto, ma per cinque ore e mezzo. Fu una maratona telefo nica che cambiò totalmente la mia vita. Mi parlò della sua poesia e degli amici nell’underground, di droga e della sua vita onirica. E infine mi disse: “Ti dispiace se ti faccio una doman da molto personale?” “No”, risposi io. “Ne sei proprio sicu ra?” insistè. Risposi affermativamente. «“Dimmi, Megan, nessuno ti ha mai chiesto... il tuo sangue?”» Fu come il crollo di una diga. Desiree rivelò la propria storia personale di vampirismo, di come avesse bevuto ritual mente sangue fin dall’età di dodici o tredici anni. Megan provò l’ondata di desiderio più forte della sua vita. Pensare che que sta splendida creatura, non una fantasia, non un film, volesse condividere la sua essenza più profonda! Il consumo vero e proprio si rivelò più difficile. Nonostan te la sete conclamata, Desiree tormentò la donna rinviando l’evento cruciale. E poi, in una sorta di scena primaria, Megan apprese che i suoi amati Jonathan e Desiree avevano iniziato a bersi il sangue a vicenda, girando per le colline di Hollywood nel retro di una macchina, lacerandosi vicendevolmente le gole e leccando il flusso. (In seguito Megan avrebbe sentito di feti cisti del sangue che alzavano la posta, e potevano saziarsi solo facendo zampillare sangue, autovampiri che sapevano come perforarsi senza rischio la vena giugulare, suggendo lo zampil lo nelle proprie bocche.) Gli amoreggiamenti di Jonathan e Desiree si rivelarono un crudele gioco al massacro: restavano gli adulti inavvicinabili e non-morti, con lei nei panni dell’eterna bambina. L’uomo si alienò ulteriormente Megan, e quasi tutti gli altri, con il pro prio coinvolgimento con skinhead, satanisti e neonazi. «Nes suno voleva più avere a che fare con lui», ricordava Megan. Totalmente disincantata, si ritirò dall’orbita degli Schreck’s Bad Boys. Alla fine trovò un donatore solidale in Christopher, un giovane accattivante dai capelli scuri, profilo aquilino e una eccezionale conoscenza della musica punk, heavy-metal e go-
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(Ilic. Christopher è colui che passa, nei circoli di vampiri, per donatore «passivo»; lui e Megan sono compagni d’anima, non amanti in senso fisico. Le sue stesse fantasie erotiche si incen trano sulla classica immagine della Vampira-dominatrice: Diamanda Galàs, la cantante intensa e priva di compromessi che ha attuato una decisa connessione teatrale tra goticismo, politi ca e Aids con la sua Plague Mass, è la sua icona femminile più idealizzata. Christopher, che è sieronegativo, dona a Megan circa cento purissimi centimetri cubici di sangue alla settima na, aspirati con un siringa per il privato e autoerotico piacere della donna. La consapevolezza dell’Aids è elevata nella comu nità dei vampiri, il cui rito centrale è lo scambio di fluidi cor porali, benché la sindrome non sia direttamente trasmissibile attraverso l’ingestione orale di sangue. Diverse persone hanno problemi a considerare questo ge nere di attività altrimenti che bestiale. Secondo il giovane, «sebbene il movimento gotico possa apparire circonfuso di violenza, è in realtà sensibile, altruista ed educativo. I Gothic sono pieni di vita, e tanto onesti da affrontare apertamente immagini di morte». Vi sono diversi «tipi»_sulla scena gotica, sosteneva Chri stopher, «ma il posto centrale lo occupa il vampiro, ipostasi definitiva dell’emarginato, un ribelle solitario in lotta contro il sistema». Tanto Megan quanto lui considerano la connessione comunemente stabilita tra vampiri e satanismo equivoca e ste reotipata. «Il vampirismo è una concezione precristiana», dice Megan, e non ha nulla a che fare con religoni moderne o loro perversioni sataniche. Come gli adepti della stregoneria druidica, sentono che il movimento vampiresco/gotico è stato ingiu stamente malignato. Ma quante persone sono coinvolte esattamente in questo fenomeno? Megan e Christopher conoscono personalmente una mezza dozzina di bevitori di sangue dichiarati; stime delle dimensioni di una comunità di succhiasangue «attiva» a Hol lywood parlano solitamente di centinaia. I praticanti nascosti sembrano assai di più: abbastanza numerosi, a dire il vero, da far inaugurare nel 1990 una linea verde vampiresca per gli anonimi adepti.
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E chi diventa vampiro? Il caso di Megan rientra nella nor ma? Secondo Notine Dresser, la studiosa di folklore california na che infranse il tabù sull’argomento nel 1989 con il suo libro American Vampires, sono state provate forti correlazioni tra violenze subite nella prima infanzia e successive manifestazioni di fantasie vampiresche. Bere sangue è una fortissima metafora di un caldo contatto umano. La Dresser cita la ricerca unica nel suo genere della dottoressa Jeanne Youngson, che ha rac colto la corrispondenza di feticisti del sangue per tredici anni (l’interesse della Youngson è eminentemente ecumenico; in qualità di presidentessa del Count Dracula Fan Club, officia per entusiasti di tutte le razze, dai cinefili agli assetati senza speranza). Le storie che narrano sono una processione di «vio lenza, trascuratezza, abbandono, solitudine o molestie». C’è un altro modo di considerare la faccenda. Simile ai vampiri del mito, Megan è semplicemente una sopravvissuta che ha assemblato dalle macerie di un’infanzia tumultuosa un potente senso dell’identità, che molti potrebbero trovare per versa. Ma la loro reazione potrebbe anche alludere a un rico noscimento, perché tutti noi condividiamo il mondo più vasto di Megan. C’è chi ha ripetuto per anni che la nostra è una generazione già cresciuta da non-morta di fronte alla televisio ne, traendo vita e alimento surrettizi da scene di violenza e sangue, vere o immaginarie che siano. Non abbiamo bisogno di aver vissuto i traumi peculiari di Megan per diventare «non morti». Con o senza famiglia, la vita moderna in sé può essere supremamente disfunzionale e violenta, distorcendo totalmen te una generazione in gran parte anonima di ragazze e ragazzi perduti. Ed è a loro, in definitiva, che dev’essere prestata at tenzione. Due recenti romanzi orrorifici tascabili hanno lanciato una luce oscura sul mondo di Megan, così come sul nostro. Pubbli cati da editori diversi, esibiscono copertine sorprendentemente simili. Da lontano si potrebbero prendere per classiche imma gini di una Madonna col bambino, ma da un esame ravvicinato risulta evidente che i neonati non sono tanto interessati al seno della madre quanto alla sua gola. GB occhi mandano un ba gliore sinistro, e all’angolo delle labbra infantili c’è qualcos’al-
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tro... affilato, luccicante c bianco. Amore e odio, sangue e nu trimento, oscenamente sovrapposti. Sono immagini genuina mente mostruose, tantopiù perché illustrano ambivalenti le ra dici del vampiro nei legami e nelle interdipendenze vitali fon damentali. A questo livello, da cui tutti proveniamo, nessuno può considerarsi al sicuro. Figli della notte? Che splendida musica, la nostra. Alla metà degli anni Ottanta, non vi erano mai stati così tanti lettori di storie sui vampiri, e per la prima volta vi si identificavano in senso positivo. Al Dark Carnivai, uno dei più grandi empori librari di Berkeley, in California, la letteratura vampiresca divenne tanto ingombrante da meritarsi uno scaf fale tutto suo, con oltre un centinaio di titoli stampati. (Accan to ai vampiri ecco i serial killer, e un’altra curiosa categoria chiamata «Umorismo forense», cioè libri di testo illustrati di patologia e affini. Il proprietario Jack Rems sosteneva che le giovani coppie spesso frugano a fondo questi scaffali, «perché dà loro un motivo per attaccare discorso sulle funzioni corpo rali».1) La scrittrice Anne Rice è stata la regina indiscussa dei vam piri letterari negli anni Ottanta: i due seguiti di Intervista col vampiro (1976) - The Vampire Lestat (1985) e La regina dei dannati (1988) - furono successi immediati. Altri titoli di largo richiamo sono Hotel Transilvania (1978) di Chelsea Quinn. Yarbro, e il suo seguito, A Flame in Fyunlium (1988), sul vampiro Ragoczy, il Conte di Saint-Germain; Vampire Junction (1984) di S.P. Somtow, ambientato nel mondo del rock gotico; e l’audace Uve Girls (1987) di Ray Garton, dove vampirebattone della 42’ succhiano sangue e sperma dalle loro vittime maschili nel corso di pubbliche esibizioni di sesso orale. Le fantasie vampiresche non si limitavano alla narrativa. In un decennio morbosamente preoccupato di fluidi corporali e malattie trasmesse per via sessuale, le metafore sui flussi di sangue apparvero regolarmente nell’oratoria di Ronald Reagan e dei suoi consiglieri economici. Il gran parlare di tagli, colpi d’accetta ed emorragie di bilancio fu ininterrotto, dal confron-
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to televisivo di Reagan con Jimmy Carter lino alTattuazionc da parte della nuova amministrazione dei programmi per l’econo mia. La politica liberal, dal punto di vista reaganiano, indeboli va il corpo politico o addirittura lo avvelenava. In una nuova era di austerità puritana, le spese sociali furono improvvisa mente considerate tossiche. Nel suo Reagan’s America, lo stori co-psicologo Lloyd deMause enumera i vari tipi di inquina mento, avvelenamento e contagio che catturavano l’immagina rio pubblico, culminanti nel circo mediatico che circondava l’Aids: isteria da herpes, avvelenamento da Tylenol, diossina, rifiuti tossici ecc. sarebbero stati presto seguiti dallo stillicidio del gas radon, dagli additivi alimentari carcinogeni e dalle ra diazioni dei disastri nucleari a Three Miles Island e Chernobyl. La chiamata reaganiana a una purificazione di massa provocò una risposta significativa in un pubblico pronto a credere che gran parte del sangue della nazione fosse marcio, e nero come i suoi peccati. Seguendo l’esempio di Bela Lugosi in 11 dottor Miracolo, scoppiò la mania per gli esami del sangue (per l’Aids, le droghe, il colesterolo assassino). Come scrive deMause, «ogni volta che in una nazione è trascorso un lungo periodo dall’ultima purificazione sacrificale, ecco che si sceglie un lead er in grado di offrire paranoiche fantasie di avvelenamento».2 DeMause stabilisce anche un provocatorio rapporto sociopsi cologico tra il capro espiatorio sacrificale degli anni di Reagan e i riti cannibalici degli aztechi: proprio come gli aztechi si riunivano per assistere allo spettacolo di un cuore strappato da una vittima viva, gli americani nel 1982 si concentrarono sull’allegoria miracolosa di un uomo privo di cuore, Barney Clark, tenuto in vita da una «magica» pompa meccanica.5 Come Tod Browning, il regista di Dracula e Freaks, anche Ronald Reagan pare avere una profonda affinità, personale e professionale, per l’immaginario di castrazione. Il suo più cele bre film, Delitti senza castigo (King’s Row, 1942, di Sam Wood), avrebbe potuto costituire, nelle mani di un program matore cinematografico avveduto, un’ideale tripla proiezione, incastonato tra Freaks e Lo sconosciuto di Browning. In Delitti senza castigo Reagan è la giovane vittima di un dottore sadico che, in seguito a un incidente, gli amputa senza ragione le
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