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Italian Pages 408 [418] Year 2017
Ruggero Eugeni è professore di Semiotica dei media all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove ha diretto l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo. È fra i principali studiosi dell’incontro tra semiotica dei media e scienze neurocognitive. È autore di Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza (2010) e La condizione postmediale (2015). Con Adriano D’Aloia ha curato il numero monografico di Cinéma&Cie sul tema “Neurofilmology.Audiovisual Studies and the Challenge of Neuroscience” (2014).
Le immagini in movimento continuano a costellare la nostra vita quotidiana, immersa in una miriade di schermi – grandi e piccoli, fissi e mobili, personali e collettivi – e in un flusso ininterrotto di narrazioni audiovisive. Anche i discorsi e le riflessioni sul cinema e sui film non cessano di animare il dibattito culturale contemporaneo coinvolgendo un gran numero di istituzioni (accademiche e non), appassionati di cinema e semplici spettatori. Se, da un lato, i film rappresentano da sempre le tendenze e le tensioni sociali della nostra cultura, dall’altro le teorie del cinema riflettono sempre più l’incontro (e lo scontro) tra differenti visioni del mondo e della conoscenza. Questa antologia presenta per la prima volta in italiano i contributi dei più autorevoli e originali rappresentanti dei film studies degli ultimi quindici anni. L’idea di fondo è che la riflessione sul cinema e sull’audiovisivo non si svolge in un perimetro chiuso e invalicabile, ma in aperto dialogo con altre discipline: con la filosofia, intorno al concetto di esperienza; con le scienze sperimentali, a proposito del concetto di organismo; con la teoria dei media, rispetto al concetto di dispositivo. Un’articolata introduzione e una postfazione intenzionalmente provocatoria permettono al lettore di comprendere “dal vivo” come il pensiero sul cinema, nei suoi rizomatici mutamenti, sia fondamentale per interpretare la complessità dell’esperienza mediale contemporanea. Contributi di François Albera, Raymond Bellour, Giuliana Bruno, Francesco Casetti, Antonio Damasio, Uri Hasson, Erkki Huhtamo, Friedrich Kittler, Jussi Parikka, Patricia Pisters, Carl Plantinga, Murray Smith,Tim J. Smith, Vivian Sobchack, Maria Tortajada
A CURA DI ADRIANO D’ALOIA RUGGERO EUGENI
Teorie del cinema Il dibattito contemporaneo
A. D’Aloia, R. Eugeni Teorie del cinema
Adriano D’Aloia è ricercatore all’Università Telematica Internazionale UniNettuno, Roma. Si interessa del rapporto fra teorie dei media, estetica, psicologia e neuroscienze. È autore di La vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra estetica e scienze neurocognitive (2013) e curatore del volume di Rudolf Arnheim, I baffi di Charlot. Scritti italiani sul cinema 19321938 (2009).
ISBN 978-88-6030-958-7
9 788860 309 5 87
In copertina: una scena del film Ombre rosse (1939) di John Ford
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A CURA DI ADRIANO D’ALOIA RUGGERO EUGENI
Teorie del cinema Il dibattito contemporaneo
Saggi
Dal catalogo Vittorio Gallese, Michele Guerra
Lo schermo empatico Cinema e neuroscienze
Edgar Morin
Il cinema o l’uomo immaginario Mauro Carbone
Filosofia-schermi Dal cinema alla rivoluzione digitale
Maurizio Guerri, Francesco Parisi (a cura di)
Filosofia della fotografia Andrea Pinotti, Antonio Somaini (a cura di)
Teorie dell’immagine Il dibattito contemporaneo
Teorie del cinema Il dibattito contemporaneo a cura di Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni
www.raffaellocortina.it
Copertina Studio CReE ISBN 978-88-6030-958-7 © 2017 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4
Prima edizione: 2017 Stampato da Press Grafica SRL, Gravellona Toce (VB) per conto di Raffaello Cortina Editore Ristampe 0 1 2 3 4 5 2017 2018 2019 2020 2021
INDICE
Introduzione Philo-, Neuro-, Post-. Cos’è e cosa sarà la teoria del cinema (Adriano D’Aloia, Ruggero Eugeni)
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PARTE PRIMA IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
1. Quello che le mie dita sapevano. Il soggetto cinestesico, o della visione incarnata (Vivian Sobchack)
31
2. Uno spettatore pensoso (Raymond Bellour)
75
3. I film e le emozioni (Carl Plantinga)
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4. La neuro-immagine. Schizoanalisi, schermi digitali e nuovi circuiti cerebrali (Patricia Pisters)
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PARTE SECONDA IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
5. Cinema, mente ed emozione. La prospettiva del cervello (Antonio Damasio)
153
6. Neurocinematica. La neuroscienza del film (Uri Hasson, Ohad Landesman, Barbara Knappmeyer, Ignacio Vallines, Nava Rubin, David J. Heeger)
165
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7. Guardarsi guardare i film. L’uso dell’oculometria per la teoria cognitiva del film (Tim J. Smith)
197
8. “La trappola del naturalismo”. Le neuroscienze e la naturalizzazione dell’estetica del cinema (Murray Smith)
241
PARTE TERZA IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
9. Grammofono, film, macchina da scrivere (Friedrich Kittler)
269
10. Un’archeologia dell’archeologia dei media (Erkki Huhtamo, Jussi Parikka)
295
11. Il dispositivo non esiste! (François Albera, Maria Tortajada)
327
12. L’architettura dello schermo. Arte e atmosfere della proiezione (Giuliana Bruno)
351
Postfazione Post-, Grand, classica, o “tra virgolette”. Cos’è e cos’è stata la teoria del cinema (Francesco Casetti)
373
Fonti e traduttori dei testi
389
Indice degli audiovisivi
391
Indice dei nomi
395
8
INTRODUZIONE
PHILO-, NEURO-, POSTCOS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
Adriano D’Aloia, Ruggero Eugeni *
Se tradurre è – anche etimologicamente – tradire, antologizzare è, ancor più cruentemente, sopprimere. Per questo vogliamo anzitutto chiarire i criteri seguiti nella scelta e nell’organizzazione dei saggi di questa raccolta. Il criterio più immediato è stato di ordine temporale: abbiamo circoscritto gli interventi agli ultimi quindici anni circa (tredici, per la precisione); l’unica eccezione è rappresentata dal testo di Friedrich Kittler, che però, pur essendo stato pubblicato nel 1986 (e nel 1987 in traduzione inglese), ha conosciuto ampia circolazione solo in tempi più recenti. Un secondo criterio è stato geografico: abbiamo selezionato solo testi di autori stranieri inediti in italiano. Non si tratta di esterofilia, ma, diciamo, di pubblico servizio: il lettore potrà integrare questo volume con altri libri e articoli, indicati in questa Introduzione o in bibliografia, reperibili agevolmente in libreria o in biblioteca. Infine abbiamo cercato di presentare saggi che fossero, per quanto possibile, rappresentativi di filoni di ricerca unitari: lavori groundbreaking, capaci cioè di dare al lettore il polso del dibattito “in diretta”, e al tempo stesso sufficientemente chiari – e, perché no, di lettura interessante, per esempio grazie alla presenza di alcune analisi di sequenze filmiche. Come spiegheremo tra poco, abbiamo seguito l’idea che a partire da una ventina d’anni a questa parte, la teoria del cinema si sia sempre più configurata come una disciplina “interstiziale” (o, come diremo meglio, “infrastrutturale”), tale cioè da formarsi e * I due autori hanno discusso congiuntamente l’impianto del volume e della presente Introduzione. Materialmente Ruggero Eugeni ha scritto il primo e il quarto paragrafo, Adriano D’Aloia il secondo e il terzo.
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INTRODUZIONE
riconoscersi sostanzialmente attraverso il dialogo con altri campi disciplinari. In questa Introduzione vedremo in un primo momento come nasce questa particolare configurazione della teoria, per poi osservare come essa si declini nel dialogo con tre fronti della ricerca: la filosofia, le scienze sperimentali (psico- e neurocognitive), la mediologia. Dal momento che questo triplice schema impronta l’organizzazione del volume, l’Introduzione ci permetterà al contempo di contestualizzare i saggi presentati, completare il quadro con qualche ulteriore tassello e infine fornire al lettore una guida per ulteriori approfondimenti (vedi a tal fine la bibliografia finale). La Postfazione di Francesco Casetti riprenderà questi temi, collocandoli però sul più ampio sfondo dell’intera storia della teoria del cinema: ciò permetterà di rileggere con ulteriori chiavi interpretative il dibattito che abbiamo ricostruito in queste pagine. La teoria del cinema dal post-strutturalismo all’infrastrutturalismo Nel 1993 lo stesso Casetti concludeva il suo volume sulle teorie del cinema dal 1945 al 1990 preconizzando un destino di dispersione e di frammentazione della teoria (destino simile peraltro a quello del proprio oggetto). La profezia era azzeccata. Di lì a pochissimo tre influenti raccolte di saggi avrebbero attaccato frontalmente la teoria del cinema – o almeno la sua versione francofona derivante dal post-strutturalismo che, nella sua ibridazione di semiotica, marxismo e psicoanalisi, appariva troppo ambiziosa nei propri intenti e troppo fumosa nei propri enunciati. PostTheory a cura di David Bordwell e Noël Carroll (1996) e Film Theory and Philosophy a cura di Richard Allen e Murray Smith (1997) oppongono alla Grand Theory francofona un nuovo modello di (post-)teoria basato sul metodo argomentativo della filosofia analitica, su una strategia di ricerca focalizzata su problemi specifici e concreti (“piecemeal theory”) e su un dialogo con le scienze sperimentali – in particolare con la psicologia della percezione e della conoscenza proprie del cognitivismo. Più radicale la critica avanzata dal volume Wittgenstein, Theory and the Arts curato da Richard Allen e Malcolm Turvey (2001): l’idea stessa di “teoria” dev’essere rifiutata in quanto compromessa con la ricerca scientifica in senso stretto (che investiga le cause dei fenomeni) 10
PHILO-, NEURO-, POST-. COS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
e sostanzialmente estranea alla ricerca filosofica (che ne indaga piuttosto le ragioni). Questo dibattito, avviato tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, giunge in sostanza fino a noi. Per esempio David Rodowick dedica al tema una trilogia di volumi apparsi tra il 2007 e il 2015: sulla scorta di Stanley Cavell e Gilles Deleuze, lo studioso ricostruisce una vera e propria genealogia della teoria del cinema, si interroga a fondo sul suo rapporto con la filosofia e conclude sostenendo tanto l’opportunità di costruire una filosofia delle humanities quanto quella di preservare per la teoria del cinema uno specifico ruolo di più immediata descrizione dei fenomeni. Allo stesso titolo, alcuni studiosi avviano una ricostruzione e una valutazione epistemologica dei grandi concetti e dei maggiori autori della teoria degli anni precedenti: per esempio Edward Branigan in un’opera del 2006 dedicata alle metafore della macchina da presa; Malcolm Turvey in un volume del 2008 dedicato alla concezione “rivelazionista” delle teorie cinematografiche; Warren Buckland in un lavoro del 2012 dedicato a una scrupolosa disamina epistemologica dell’opera di alcuni autori; sia Branigan sia Buckland nella curatela della Routledge Encyclopedia of Film Theory del 2014; Felicity Colman in Film Theory. Creating a Cinematic Grammar del 2014. La sorveglianza epistemologica delle relazioni tra teoria da un lato, pratiche e modelli di ricerca empirici dall’altro si ritrova inoltre nel dibattito che accompagna il dialogo con le scienze neurocognitive (di cui diremo tra poco). A nostro avviso la questione della (impossibile, possibile, consigliabile o necessaria) sopravvivenza ed eventualmente dello statuto della teoria del cinema va letta come il segnale di un fenomeno più profondo: come aveva intravisto Casetti, la teoria alla fine degli anni Novanta cambia pelle e si riconfigura come pratica di dialogo tra specialisti del cinema e studiosi di altre aree. La teoria in altri termini è più presa dal proprio fare che dal darsi uno statuto definito: si potrebbe citare il principio deleuziano della “doppia cattura”, che ha guidato il rapporto di irrorazione reciproca tra riflessione sul cinema e filosofia. Più ampiamente preferiamo però parlare (riprendendo un’idea che sviluppa John Durham Peters nel suo volume del 2015) di una teoria che passa dal post-strutturalismo all’“infrastrutturalismo”: teoria dunque non come prodotto, ma piuttosto come condizione attiva, come habitat persistente 11
INTRODUZIONE
e come rete di connessioni non sempre immediatamente visibile, che rende comunque possibili e fruttuosi la riflessione, il discorso, il confronto con altre discipline. Come abbiamo accennato (e come la struttura di questa antologia riflette chiaramente) un simile confronto è stato esercitato negli ultimi anni in tre direzioni: verso la filosofia, verso le scienze sperimentali e verso la mediologia. Per ciascuna di queste aree un concetto si è imposto quale baricentro della discussione: rispettivamente l’esperienza, l’organismo, il dispositivo. Ovviamente i tre ambiti non sono del tutto impermeabili l’uno all’altro e dunque alcuni nodi del dibattito ritornano trasversalmente. In ogni caso esaminiamo separatamente i tre differenti fronti del dialogo. La teoria del cinema in dialogo con la filosofia: il tema dell’esperienza Il confronto fra teoria del cinema e filosofia ha ruotato attorno al tema dell’esperienza. Il concetto rischia certamente di essere un termine passepartout (vedi per esempio il volume a cura di Dominique Chateau Subjectivity. Filmic Representation and the Spectator’s Experience del 2012, o la ricostruzione accurata del concetto nella teoria critica tedesca elaborata da Miriam Hansen con specifica attenzione al cinema, o ancora il numero monografico della rivista Fata Morgana del 2008). Eppure esso evidenzia bene la volontà di coinvolgere nella riflessione alcune dimensioni della visione del film precedentemente trascurate, in particolare quella delle emozioni e della sensibilità corporea. Le aree del dialogo sono state sostanzialmente tre. La prima riguarda la filosofia analitica e il cognitivismo: se già in precedenza era emersa un’indagine dell’esperienza dello spettatore come attività cosciente di comprensione del racconto filmico nel quadro del discorso teorico sulla Teoria della Mente (Bordwell, Carroll, Gregory Currie, Richard Allen), il dibattito integra alla “cold cognition” una “hot cognition” legata essenzialmente al ruolo delle emozioni filmiche e delle relazioni di simpatia o empatia con i personaggi. Partecipano a questo dibattito, sostanzialmente improntato sui concetti di mindreading e simulazione mentale, soprattutto Murray Smith, Ed Tan, Carl Plantinga e Torben Grodal, pur con sensibilità diverse (e a volte persino contradditto12
PHILO-, NEURO-, POST-. COS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
rie). Esemplare è l’antologia Passionate Views. Film, Cognition, and Emotion, curata da Plantinga e Greg M. Smith nel 1999. Il lettore italiano potrà trovare ampi stralci del dibattito nelle raccolte di saggi Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emozioni, curato da Giulia Carluccio e Federica Villa nel 2006, e Il cinema e le emozioni. Estetica, espressione, esperienza, curato da Giorgio De Vincenti e Enrico Carocci nel 2013. Il saggio dello stesso Plantinga qui antologizzato disegna chiaramente l’ossatura di un simile dibattito. In sintesi, le emozioni sono sì assunte all’interno dell’orizzonte della ricerca, ma pur sempre in quanto forme di comprensione narrativa – benché forme immediate e solo successivamente concettualizzate. La seconda area del dialogo riguarda l’avvento (o la riemersione) di un approccio fenomenologico al cinema: in questo caso l’esperienza dello spettatore viene avvertita come primariamente e radicalmente incarnata, fondata sulle categorie del sentire corporeo immediato e sulle sue risonanze multi- e inter-sensoriali. La principale sostenitrice di questo orientamento, Vivian Sobchack, parla nel saggio che presentiamo di uno spettatore “cinestesico” – ovvero sinestesico, cenestesico e cine-estesico – e descrive bene il contesto di autori che si muovono nello stesso senso, come Steven Shaviro, Laura Marks, Brian Massumi, Elena del Río, Jennifer Barker – a cui possiamo aggiungere come precursori Annette Michelson e Allan Casebier (il quale propone tuttavia un approccio husserliano) e vari epigoni. Recentemente Mauro Carbone ha ricostruito con accuratezza la presenza di una tensione fenomenologica all’interno della riflessione sul cinema soprattutto francofona, applicandola al dispositivo degli schermi in Filosofiaschermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale (2016). La terza area del dialogo con la filosofia si concentra sulla natura stessa della relazione tra il film e il pensiero, ovvero sull’idea di teoria del film come filosofia, o più precisamente sulla capacità del film di produrre pensiero. Siamo di fronte non più solo a una lettura filosofica del film o dell’esperienza filmica, bensì a una vera e propria “filosofia del film”. Tale area di ricerca si sviluppa almeno sotto due “influenze”. Da un lato pesa, in area anglosassone, l’eredità di Stanley Cavell, linea su cui si è mosso soprattutto Stephen Mulhall (in un volume uscito in prima edizione nel 2002 e in seconda edizione nel 2008) elaborando una concezione radicale di filmphilosophy secondo cui i film non semplicemente offrono materiale 13
INTRODUZIONE
utile per la riflessione filosofica, ma filosofano essi stessi. Una visione mitigata da Thomas Wartenberg (di cui il testo più significativo è stato tradotto in italiano nel 2011), che richiama a un più diretto e meno aprioristico riferimento ai film e alla loro capacità di “filosofeggiare” o persino di compiere degli “esperimenti filosofici” (alcuni studi sulla complex storytelling ne sono un esempio). Qui però il confine tra filosofia e teoria del cinema si fa molto precario e scivoloso, con il rischio che il dialogo in realtà venga meno e che la prima sostituisca integralmente la seconda, come sottolinea Casetti all’inizio della sua Postfazione. Dall’altro lato la filosofia del film si è sviluppata sotto il segno di Deleuze e del suo approccio bergsoniano al cinema. Benché apparsi negli anni Ottanta, i due volumi del filosofo francese dedicati al cinema infatti cominciano a essere ripresi nel corso degli anni Novanta e si affermano gradualmente come un luogo chiave del dibattito (vedi per esempio le raccolte di saggi curate da Gregory Flaxman nel 2000 e da David Rodowick nel 2010). Non possiamo qui né dettagliare la lezione di Deleuze, né considerare le sue riprese contemporanee – ci porterebbero oltre i confini che ci siamo imposti. Per il panorama internazionale rinviamo il lettore ai lavori di Patricia Pisters: il saggio inserito in questa raccolta per esempio esprime bene il tentativo di leggere il film in chiave di “modulazioni d’intensità”, spingendosi sino a scorporare dall’immagine-tempo un nuovo tipo di immagine tipica della cultura mediale contemporanea, la neuro-immagine. Per il panorama italiano rimandiamo invece alle indicazioni e alle sistemazioni di Roberto De Gaetano e di Paolo Bertetto riportate in bibliografia. Detto questo occorre però riconoscere alcuni punti di contatto fra i diversi approcci, apparentemente incommensurabili, rappresentati dagli autori e dai saggi antologizzati. Il saggio di Raymond Bellour dimostra che la distinzione tra approccio fenomenologico e approccio deleuziano è forse più apparente che reale; che il tema dell’emozione cinematografica in quanto legata al sentire e alle sue progressive elaborazioni riflessive possiede una tradizione significativa nella riflessione sul cinema; che esso permette di riprendere e prolungare con nuovi mezzi la questione della potenza “figurale” e di pensiero delle immagini cinematografiche già emersa negli anni Novanta (su cui vedi per esempio A cosa pensano i film di Jacques Aumont, tradotto in italiano nel 2007, o il volume di Luc Vancheri del 2011); e che la reale opposizione è tra questa idea 14
PHILO-, NEURO-, POST-. COS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
di emozione e quella cognitivista (emozione quale strumento di “comprensione”) delineata da Plantinga. D’altro canto Plantinga e Sobchack partono da una premessa simile – l’esperienza filmica non si riduce a una questione di visione e di ascolto, è invece un’esperienza estetica che coinvolge un sentire – ma procedono con metodi differenti e pervengono a risultati quasi antitetici: da una parte si delinea con precisione maniacale il perimetro e la natura specifica del “sistema delle emozioni”, dall’altra si tratteggia con imprecisione programmatica la diffusività e la vaghezza della “compenetrazione corporea” tra film e spettatore. Anche la riflessione “filmosofica” cui abbiamo già accennato, sviluppatasi attorno ai convegni e alla rivista Film-Philosophy, predilige l’approccio continentale pur rimanendo aperta a quello analitico. Occorre infine osservare che i confini fra teoria del cinema e filosofia sono stati in molti casi non del tutto definiti: accade così che alcune ricostruzioni sul versante filosofico (come quelle di Enrico Terrone o di Robert Sinnerbrink, o quella per profili di singoli studiosi curata da Felicity Colman) e molte antologie di testi “filosofici” (per esempio quelle di Thomas Wartenberg e Angela Curran nel 2005, di Murray Smith e Wartenberg del 2006, di Noël Carroll e Jinhee Choi del 2006, di Paisley Livingston e Carl Plantinga del 2009, di Havi Carel e Greg Tuck del 2011 o, in Italia, di Roberto Diodato e Antonio Somaini del 2011) contengono molti saggi utili per sviluppare i temi teorici sopra delineati. La teoria del cinema in dialogo con le scienze sperimentali: il ruolo dell’organismo Quando, alla fine degli anni Novanta, gli studiosi americani decisero di aprire le porte alle scienze sperimentali di taglio cognitivo, non potevano sapere cosa sarebbe avvenuto di lì a poco: il perfezionamento delle tecniche di indagine e in particolare di brain imaging avrebbe avviato una tendenza fisiologizzante delle discipline psicologiche, dando luogo a un neurocognitivismo impegnato a differenziarsi nettamente dal ben più astratto cognitivismo classico (su questo punto torneremo alla fine del paragrafo). Il nuovo approccio avrebbe inoltre acceso un dialogo sempre più serrato tra scienze sperimentali e discipline umanistiche all’insegna di una neurofilosofia della mente e di una neuroestetica – ma 15
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anche di una psicologia evolutiva dei comportamenti e dei giudizi estetici incaricata di giustificare gli assetti neurali alla base delle esperienze artistiche. Dialogo che non poteva non estendersi rapidamente all’esperienza filmica, come dimostra un numero crescente di opere e in particolare le antologie Psychocinematics. Exploring Cognition at the Movies a cura di Arthur P. Shimamura (2013), Cognitive Media Theory a cura di Ted Nannicelli e Paul Taberham (2014), Neurofilmology. Audiovisual Studies and the Challenge of Neurosciences, a cura di Adriano D’Aloia e Ruggero Eugeni (2014), Neuroscience and Media. New Understandings and Representations, a cura di Michael Grabowski (2015). All’interno di questo campo di studi, attualmente in piena espansione, possiamo distinguere tre grandi tendenze, che ovviamente non si escludono ma si integrano reciprocamente. La prima è focalizzata sull’ideazione e realizzazione di esperimenti mediante una varietà di strumenti empirici (eye tracking, risonanza magnetica funzionale, elettroencefalogramma ecc.) per comprendere cosa avvenga nel cervello degli spettatori di fronte a brani di film stilisticamente diversi. I saggi di Tim Smith e di Uri Hasson e colleghi antologizzati in questo volume sono esempi di riferimento di questa tendenza. Il metodo psicofisiologico dell’oculometria (eye tracking) e il metodo neurofisiologico della risonanza magnetica funzionale (o dell’elettroencefalogramma ad alta densità, o di altri sistemi di brain imaging) si integrano a vicenda, offrendosi come mutuo parametro di conferma o confutazione dei dati ottenuti negli esperimenti. Entrambi di fatto reagiscono alla vaghezza dei metodi speculativi facendo dei prefissi psico- e neuro- un criterio di attestazione oggettiva e quantitativa sia dello stile della composizione sia dell’esperienza di ricezione del film, fino a pochi anni fa appannaggio dell’estetica e della filosofia. Le evidenze empiriche di queste metodiche sono ricavate statisticamente tramite nuove unità di misura come, rispettivamente, la “sincronia attenzionale” e la “correlazione intersoggettiva”, ovvero una sorta di media del comportamento degli occhi (nel primo caso) e del cervello (nel secondo) degli spettatori. Il lettore interessato troverà una sintesi aggiornata delle evidenze della ricerca nel volume Flicker. Your Brain on Movies di Jeffrey Zacks (2015). La seconda tendenza consiste in una riflessione epistemologica sull’opportunità e l’eventuale utilità dell’integrazione dei metodi e 16
PHILO-, NEURO-, POST-. COS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
dei risultati della ricerca empirica all’interno della teoria del cinema. In parte questa discussione riprende e prolunga le preoccupazioni per una “naturalizzazione” della ricerca che ne snaturerebbe le premesse filosofiche e umanistiche – dibattito che abbiamo già incontrato, per esempio in Rodowick. In parte la discussione si sposta dalla questione della salvaguardia epistemologica della teoria (che viene data per scontata) all’effettiva produttività in termini teorici dell’incontro con le scienze naturali e sperimentali: alle posizioni scettiche di alcuni (per esempio il già citato Turvey) e a chi ritiene che l’utilità consista semplicemente nel transito di alcune suggestioni e analogie (come Bellour e Pisters nei saggi che presentiamo in questo volume), fa da contraltare chi ritiene teoricamente produttivo un confronto radicale con le scienze “dure”, i loro metodi e i loro risultati. Esemplare sotto questo aspetto è il saggio antologizzato di Murray Smith, fra i principali difensori di un simile confronto: nel recente Film, Art, and the Third Culture. A Naturalized Aesthetics of Film (2017) il filosofo inglese argomenta che la triangolazione tra ricerca teorica autoanalitica, modelli della psicologia funzionale ed evidenze delle ricerche neurali consente una “spiegazione densa” (thick explanation) dell’esperienza di visione del film – o almeno di alcuni suoi fenomeni specifici. La terza tendenza infine intende giungere attraverso le neuroscienze a una nuova e aggiornata definizione dell’esperienza dello spettatore cinematografico. Non mancano per un verso alcune riaffermazioni del modello cognitivista classico per cui l’esperienza di visione consiste in un processo di comprensione: tali per esempio i lavori della scuola neocognitivista tedesca con le opere di John Bateman e Karl-Heinrich Schmidt, Chiao-I Tseng o Janina Wildfeuer. Tuttavia in molti altri casi l’avvento delle scienze neurocognitive serve piuttosto a scardinare tale modello e alcuni suoi presupposti. In particolare il cognitivismo classico viene definito come “computazionale”, basato sulla metafora per cui il nostro cervello sarebbe un computer e la nostra mente il suo software: deriva da qui una netta separazione tra mente e corpo e quindi una schematizzazione astratta dei processi mentali che non tiene conto di quanto effettivamente avviene a livello neurale. Un atteggiamento che coinvolge inevitabilmente anche il modello di spettatore costruito dalla teoria del cinema. Al contrario, come osserva il neuroscienziato Antonio Damasio nel saggio 17
INTRODUZIONE
che presentiamo, una visione fisiologizzante e neurale dei processi emozionali e di credenza dello spettatore implica modelli ben più complessi e articolati. Si muove in questo senso anche il lavoro di Vittorio Gallese e Michele Guerra confluito in Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze (2015): in base a una serie di evidenze empiriche (in particolare la scoperta dei neuroni specchio), a esperimenti appositamente ideati e al concetto di simulazione incarnata (evidentemente opposto a quello cognitivista di simulazione mentale), i due studiosi cercano “spiegazioni dense” per i modelli dell’esperienza filmica messi a punto dalla ricerca fenomenologica (vedi supra). Sempre all’interno di questa tendenza, Pia Tikka ha cercato di rielaborare in termini neurali il modello spettatoriale di Ėjzenštejn in un volume del 2008 che costituisce nella parte centrale un’ottima introduzione a quest’area di studi. Diversa la strada scelta da Torben Grodal, che in Immagini-corpo. Cinema, natura, emozioni (2009, tradotto in italiano nel 2014) sembra fisiologizzare mediante il flusso pecma (Percezione, Emozione, Cognizione, Azione Motoria) gli andamenti dell’immagine-movimento e dell’immagine-tempo di Deleuze. Pur nella loro varietà, questi approcci dimostrano una decisa apertura verso un nuovo “cognitivismo fenomenologico” che sta progressivamente maturando una concezione di esperienza filmica come incarnata, situata, enattiva, estesa e affettiva e che pone enfasi sugli aspetti costitutivi, rispettivamente, del corpo, dell’ambiente, dell’azione, delle tecnologie e delle emozioni. La teoria del cinema in dialogo con la mediologia: le funzioni del dispositivo L’avvento del digitale, nel corso degli anni Ottanta, ha modificato profondamente la percezione del cinema in quanto medium: la materialità tecnologica dei procedimenti di cattura, archiviazione, manipolazione e visualizzazione delle immagini non è più analogica ma appunto digitale. In tal modo il cinema perde i propri criteri distintivi “ontologici”, viene uniformato ad altri mezzi di comunicazione ugualmente digitalizzati, ed entra in quella che Rosalind Krauss nel 1999 ha definito era postmediale. A livello teorico questa nuova condizione produce due effetti opposti ma correlati. 18
PHILO-, NEURO-, POST-. COS’È E COSA SARÀ LA TEORIA DEL CINEMA
Per un verso la teoria considera le forme di “rilocazione” del cinema all’interno di contesti un tempo anomali se non impossibili: sale di museo, installazioni artistiche, megaschermi urbani, mini o microschermi di tablet e telefonini, e così via. Si tratta in questi casi di capire cosa resta del cinema, e in che senso continuiamo a usare (in forma lecita) questa parola. Un libro di riferimento in questo senso è La galassia Lumière di Francesco Casetti (2015). La discussione circa la possibilità di considerare “cinema” le forme “post-cinematografiche” è stata inoltre oggetto di una discussione a tratti accesa di cui si trovano tracce in volumi quali Oui, c’est du cinéma a cura di Philippe Dubois e altri (2009), What Cinema Is! di Dudley Andrew (2010) e La querelle des dispositifs di Bellour (2012). L’esito teorico più attuale di questo filone di riflessioni consiste nel rifondare l’identità del cinema a partire dalla sua valenza “ambientale” (il libro di Durham Peters già citato costituisce un eccellente esempio di un simile orientamento): se i media non sono altro che condizioni dello svolgersi e del conformarsi della nostra esperienza, occorrerà interrogarsi sulla (eventuale) specificità del mezzo-cinema in questo processo. Su questo aspetto rimandiamo alla Postfazione di Casetti (come pure al lavoro recente di Pietro Montani). Per altro verso l’avvento del digitale e la conseguente indistinzione rispetto ad altri media ha spinto il cinema a rileggere il proprio passato inserendosi nel più ampio alveo dell’“archeologia dei media” – una tendenza disciplinare recente piuttosto variegata, accomunata dalla volontà di ricostruire storie non convenzionali dei media privilegiando aspetti dimenticati, discontinuità, forme carsiche e ritorni a distanza. Il saggio di Erkki Huhtamo e Jussi Parikka che presentiamo costituisce un’ottima introduzione alla nuova disciplina (ma vedi ora anche il volume a cura di Giuseppe Fidotta e Andrea Mariani, nonché il libro di Parikka, entrambi apparsi in italiano nel 2017; sulla ridefinizione della storia del cinema in chiave archeologica rimandiamo invece a Film History as Media Archaeology di Thomas Elsaesser, uscito nel 2016). È sufficiente qui ricordare che gioca al suo interno una tensione dialettica tra una tendenza “culturalista” e una “tecnologista”. La prima, di ambito anglosassone, privilegia il ruolo dei contesti culturali nella formazione e diffusione dei media; la seconda, propria della Medienwissenschaft di ambito tedesco, evidenzia al contrario il ruolo 19
INTRODUZIONE
delle componenti materiali e tecnologiche nella definizione dei media e indirettamente degli assetti culturali complessivi. Quest’ultima tendenza ha rappresentato una novità importante nel panorama teorico, costituendo una sorta di risposta talvolta radicale ai cultural studies: i volumi su cinema e tecnologia si sono moltiplicati, come testimoniano per esempio quelli a cura di Andrew Utterson del 2005, di Bruce Bennett, Marc Furstenau e Adrian Mackenzie del 2008, di Annie van den Oever nel 2014, di André Gaudreault e Martin Lefebvre nel 2015. Tale tendenza risale in larga parte al magistero di Friedrich Kittler, studioso a sua volta fortemente influenzato da Marshall McLuhan e Harold Innis, oggi al centro di un’ampia riscoperta e valorizzazione: presentiamo nella terza sezione di questo volume un suo saggio fondamentale. Come abbiamo accennato le due tendenze non sono in contrasto tra loro. Lo testimonia il saggio di Giuliana Bruno qui antologizzato, dedicato a un tema particolarmente “caldo”, quello degli schermi cinematografici (sui quali vedi anche il volume curato da Chateau e José Moure nel 2016 e quello già citato di Carbone, o il lavoro in corso di Huhtamo): la materialità delle superfici di apparizione delle immagini in movimento collega agevolmente un’archeologia dello schermo a un’esplorazione delle sue differenti declinazioni e reinvenzioni artistiche contemporanee. Il saggio di Bruno è peraltro sintomatico di uno stile di ricerca condiviso da vari autori: pensiamo per esempio ai lavori di Sean Cubitt e di Siegfried Zielinski sulle tecnologie della luce riportati in bibliografia. È possibile individuare un aspetto specifico di collegamento tra ispezione o prospezione da un lato e retrospezione dall’altro. Risulta centrale in entrambi i casi il concetto di dispositivo cinematografico (su cui vedi l’introduzione di Eugeni alla traduzione italiana dei saggi di Jean-Louis Baudry, del 2017). Questo termine era nato nel contesto della teoria francese degli anni Settanta in riferimento ai processi di “soggettivazione/assoggettamento” dello spettatore da parte dell’“apparato” cinematografico. Tuttavia esso si è oggi in larga parte liberato dei legami con quella stagione della teoria. Tale distacco è al centro del saggio di François Albera e Maria Tortajada incluso in questa raccolta – benché, occorre aggiungere, non tutti intendano sbarazzarsi di una riflessione sul legame tra dispositivi e “biopoteri”: vedi per esempio il libro di Pasi Väliaho, Biopolitical Screens. Image, Power, and the Neoliberal 20
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Brain, del 2014. Per un verso il concetto di dispositivo permette di connettere gli studi cinematografici alla più ampia area del visuale (vedi per esempio l’opera di Michele Cometa del 2016 e il capitolo sui dispositivi dell’opera di Pinotti e Somaini dello stesso anno). Per altro verso il dispositivo permette di affrontare direttamente tutti i nodi problematici sopra delineati attraverso una serie di domande chiave: cos’è un dispositivo e come connette saperi, pratiche e tecnologie? Da quali precedenti dispositivi deriva il cinema, e quali forme più o meno canoniche ha assunto nel tempo? Come si dissemina e si riloca oggi il dispositivo cinematografico, quali ambienti crea, quali trasforma? Come cambia insomma il cinema, come viene cambiato, e quali distruzioni oggi lo creano? Dunque, per sintetizzare e concludere, un triplice fronte di dialogo – con la filosofia, con le scienze sperimentali, con i media studies –, ognuno dei quali focalizzato attorno a un concetto paradigmatico – esperienza, organismo, dispositivo. Siamo forse entrati nell’era di una teoria del cinema dall’infrastruttura rizomatica che, da un lato, inseguendo le mutazioni dei suoi oggetti di ricerca, rende evidenti i propri limiti; dall’altro, ponendo in tensione interdisciplinare il suo perimetro e il suo raggio d’azione, si assicura la sopravvivenza e rilancia il proprio potenziale ermeneutico.
Ringraziamenti Durante l’ideazione e la preparazione di questo volume abbiamo contratto alcuni debiti di riconoscenza. Andrea Pinotti è stato il primo a darci credito e ci ha aiutato a impostare il progetto: abbiamo pensato questa antologia facendo costante riferimento a Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, da lui curato assieme a Antonio Somaini per Raffaello Cortina nel 2009. Francesco Casetti è stato prodigo di consigli e ha accompagnato l’intero processo di lavorazione del libro, oltre a scriverne la Postfazione. Molti amici e colleghi hanno commentato l’impostazione del volume e la nostra Introduzione, oppure ci hanno dato consigli e spunti per traduzioni e annotazioni: tra gli altri ricordiamo con gratitudine Mauro Carbone, Enrico Carocci, Michele Cometa, Roberto De Gaetano, Michele Guerra, Andrea Inzerillo. Gli autori antologizzati ci hanno spesso aiutato a risolvere piccoli e grandi problemi di traduzione. I traduttori si sono generosamente presi cura dei testi e hanno pazientemente risposto alle esigenti richieste dei curatori.
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INTRODUZIONE
BIBLIOGRAFIA
La seguente bibliografia riporta i riferimenti dei testi citati nell’Introduzione e li integra con altre opere, di carattere generale o su temi e problemi specifici, che per motivi di spazio non è stato possibile citare ma che pensiamo siano utili a esplorare con più ampiezza e profondità il dibattito in ambito sia internazionale sia italiano. AA.VV., Coscienza, numero monografico di Fata Morgana, 31, 2017. AA.VV., Dispositivo, numero monografico di Fata Morgana, 24, 2014. AA.VV., Teoria, numero monografico di Fata Morgana, 26, 2015. Albera F., Tortajada M. (a cura di), Cine-Dispositives. Essays in Epistemology Across Media, Amsterdam University Press, Amsterdam 2015. Albera F., Tortajada M. (a cura di), Cinema Beyond Film. Media Epistemology in the Modern Era, Amsterdam University Press, Amsterdam 2010. Allen R., Projecting Illusion. Film, Spectatorship and the Impression of Reality, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1995. Allen R., Smith M. (a cura di), Film Theory and Philosophy, Oxford University Press-Clarendon Press, Oxford-New York 1997. Allen R., Turvey M. (a cura di), Wittgenstein, Theory and the Arts, Routledge, London-New York 2001. Andrew D., What Cinema Is! Bazin’s Quest and Its Charge, Wiley-Blackwell, Malden (ma)-Oxford-Chichester 2010. Aumont J., A cosa pensano i film (1996), tr. it. di C. Tognolotti, ets, Pisa 2007. Aumont J., Matière d’images, redux, Éditions de la Différence, Paris 2009. Badiou A., Del capello e del fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini, Pellegrini, Cosenza 2009. Badiou A., Imágenes y palabras. Escritos sobre cine y teatro, Manantial, Buenos Aires 2005. Barker J.M., The Tactile Eye. Touch and the Cinematic Experience, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2009. Bateman J.A., Schmidt K.-H., Multimodal Film Analysis. How Films Mean, Routledge, New York-London 2012. Bellour R., La querelle des dispositifs. Cinéma – installations, expositions, P.O.L., Paris 2012. Bellour R., Le corps du cinéma. Hypnoses, émotions, animalités, P.O.L., Paris 2009. Bennett B., Furstenau M., Mackenzie A., Cinema and Technology. Cultures, Theories, Practices, Palgrave MacMillan, New York 2008. Bertetto P., Il cinema e l’estetica dell’intensità, Mimesis, Milano 2016. Blandorf S., Grant B.K., Hillier J., The Film Studies Dictionary, Arnold, London 2001. Bogue R., Deleuze on Cinema, Routledge, New York-London 2003. Bordwell D., Carroll N. (a cura di), Post-Theory. Reconstructing Film Studies, Wisconsin University Press, Madison 1996. Bordwell D., Poetics of Cinema, Routledge, New York-London 2008. Bordwell D., The Way Hollywood Tells It: Story and Style in the Movies, University of California Press, Berkeley 2006.
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PARTE PRIMA
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
1 QUELLO CHE LE MIE DITA SAPEVANO IL SOGGETTO CINESTESICO, O DELLA VISIONE INCARNATA
Vivian Sobchack
Vivian Sobchack (http://www.tft.ucla.edu/2012/03/vivian-sobchack/) è considerata la fondatrice degli studi di approccio fenomenologico al cinema. Dopo una laurea in Letteratura inglese a New York nel 1960 e alcune prime esperienze accademiche nel campo dei film studies alla University of Utah, si laurea nel 1976 in Critical Studies alla ucla con una tesi che diverrà il suo primo libro, a oggi l’unico a essere stato tradotto in italiano (Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, Bononia University Press, Bologna 2002). Nel 1979 ottiene il dottorato di ricerca alla University of Southern Illinois-Carbondale con una tesi sulla fenomenologia dell’esperienza filmica, alla base del più noto e importante dei suoi lavori, The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience (Princeton University Press, Princeton 1992), ispirato alla fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty. A questo seguirà oltre dieci anni più tardi una collezione di saggi che applica approfonditamente la teoria in esso elaborata (Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, Berkeley 2004). Nel 1981 comincia a insegnare alla University of California, Santa Cruz, dove diviene la prima direttrice della Arts Division e contribuisce a fondare gli studi sul film. Dal 1985 al 1987 è il primo presidente donna della Society for Cinema and Media Studies (scms), oggi la più vasta e importante associazione di studiosi di cinema e media in Nord America e nel mondo. Nel 1992 si sposta nel Dipartimento di Film, Television and Digital Media alla ucla, dove è stata direttore associato della School of Theater, Film and Television ed è attualmente professoressa emerita. Nel 2005 è stata insignita del Distinguished Service Award dalla scms. Vivere l’esperienza del film – tutt’altro che semplicemente “vederlo” o “assistervi” – interessa lo spettatore nella sua fisicità corporea, nella sua “sensualità” e “carnalità”, si spinge a dire Sobchack in uno straordinario esercizio di tensione del linguaggio. Il lettore più paziente si accorgerà che non si tratta di mero vezzo retorico, ma di rispon31
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
dere a una precisa necessità riflessiva (nel doppio senso di riflesso fisico e riflessione mentale) e dunque “gioco” di parole in cui i significati si incarnano letteralmente nell’espressione, al contempo così esplicita e così enigmatica, al limite dell’intelligibilità e della traducibilità. In Sobchack, sensorialità (percettiva) e sensatezza (cognitiva) sono forme di sensibilità anzitutto sensuali. Questa doppia valenza del linguaggio, inscindibile nella sua doppiezza letterale/figurata, è un’ambiguità nel senso pienamente gestaltista di compresenza e oscillazione infinita, e dunque assolutamente anche di chiasmo, per ricorrere al vocabolario merleau-pontyano a cui l’autrice attinge a piene mani. L’intima reversibilità di percezione ed espressione come dinamica fondativa dell’esperienza estetica proviene esattamente dalla proposta della fenomenologia esistenzialista di Merleau-Ponty, radicalmente e quasi pedissequamente applicata da Sobchack all’esperienza filmica. Già nel suo The Address of the Eye – di cui Carnal Toughts, la collezione di saggi da cui è tratto anche quello che il lettore sta per leggere, è una sorta di spin-off – l’autrice si opponeva alla concezione disincarnata e “trascendentale” dello spettatore proposta da Metz e Baudry e optava per la lezione di Mitry: “Mentre le arti classiche propongono di esprimere il movimento con l’immobile, la vita con l’inanimato, il cinema deve esprimere la vita con la vita stessa”.* Il film e il suo spettatore sono inscindibilmente congiunti, sono “vedenti visti”, “toccanti toccati”, poli attivi in un medesimo spazio di relazione intersoggettiva. Come nessun altro medium, il film rappresenta e presenta azioni di visione, ascolto e movimento sia come strutture originarie dell’essere, sia come strutture mediate dal linguaggio. L’incontro fra attività espressiva del film e attività percettiva dello spettatore avviene attraverso la mediazione di un terzo corpo, il “corpo del film”. In questo senso il film possederebbe una “mente incarnata”, una pseudo-coscienza innestata in un corpo speciale in grado di esprimere intenzioni, quasi dotato di una soggettività. Ovviamente è un corpo non assimilabile ontologicamente a quello dello spettatore, ma che tuttavia si muove nello spazio, tocca ed è toccato, percepisce ed esprime. Per questo, in un certo senso, persino la lettura di questo saggio offre un’esperienza di conoscenza carnale, in tutto e per tutto simile all’esperienza di vivere un film, ovvero di comprenderlo anzitutto sentendolo. È un sentire che oltre alla vista e all’udito coinvolge l’olfatto, il gusto e soprattutto il tatto e l’equilibrio. Lezioni di piano di Jane Campion è l’esempio perfetto, qui approcciato (fisicamente!) da Sobchack con il metodo in prima persona della fenomenologia: un corpo-a-corpo da cui emerge progressivamente e potentemente l’assoluta crucialità della dimensione incarnata dell’esperienza filmica. * J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma, vol. 2, Éditions Universitaires, Paris 1965, pp. 453-454 (traduzione nostra). [NdC]
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[I]l mio corpo non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, […] ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale in virtù del modo in cui le accoglie. maurice merleau-ponty, Fenomenologia della percezione Cos’è la significanza? È il senso in quanto prodotto sensualmente. roland barthes, Il piacere del testo
Quasi ogni volta che leggo recensioni di film su giornali o riviste resto stupefatta dal divario che separa la nostra effettiva esperienza del cinema dalla teoria che noi studiosi costruiamo per spiegarla – o forse, più propriamente, per imbastire una spiegazione al riguardo. Prendiamo, per esempio, molte delle descrizioni di Lezioni di piano di Jane Campion (1993) apparse sulla stampa: “Ciò che più colpisce è la forza tattile delle immagini. L’aria salata può quasi essere assaporata, si può quasi sentire il morso feroce del vento”.1 Il film è “[u]n’incessante esperienza sensuale di musica e tessuti, di fango e carne”.2 “Si scriveranno poesie sulle curve delle natiche degli attori, disegnate dalla luce delle candele; sull’atmosfera che avvolge il loro liberarsi di ogni indumento; sull’immediato shock tattile nel momento in cui, in primo piano, la carne per prima tocca la carne.”3 Un film di tipo completamente diverso, Speed di Jan de Bont (1994), suscita quanto segue: “Visceralmente, si tratta di un viaggio mozzafiato”.4 È “[la] tipica scarica di adrenalina da vacanze estive”.5 “Si tratta di un film d’azione in cui c’è davvero da reggersi forte”;6 “[una] corsa da brivido assurdamente elettrizzante che si prende abbastanza sul serio da produrre sussulti di tensione e abbastanza alla leggera da far ridacchiare mentre ci si aggrappa alla poltrona”.7 “Ci si sente devastati dalla fibrillazione e poi dal sollievo. Il film se ne torna a casa in trionfo e noi a pezzi”.8 I critici dell’adattamento cinematografico di Paul Anderson del videogame di kung-fu Mortal Kombat (1995) sottolineano “una colonna sonora di […] un’insistenza selvaggia, martellante”9 e scene infinite di “calci, colpi, pugni, […] combattimenti all’ultimo sangue”,10 in cui “schiene, polsi e ossa del collo vengono frantumati con nauseanti rumori di schiocco”.11 Mentre, riguardo al cartone animato digitale di John Lasseter Toy Story (1995), un altro critico scrive: Il modellino di Tyrannosaurus rex è così lucido e invitante per il tatto che è come se si potesse allungare una mano e incontrare con le
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dita la sua testa dura e scintillante. […] Nel momento in cui alcuni soldati giocattolo prendono vita, la cerea lucentezza delle loro divise innescherà un proustiano meccanismo di riconoscimento in chiunque abbia mai giocato a fare la guerra con i soldatini. […] [Q]uesto film invita a guardare alle trame del mondo materiale con occhi nuovi. Quello che Bambi e Biancaneve hanno fatto per la natura, Toy Story, in maniera sorprendente, lo fa per la plastica.12
Che cosa abbiamo a che fare noi, come teorici dei media contemporanei, con queste descrizioni dell’esperienza filmica così tattili, cinetiche, odorose, sonore e talvolta persino gustative? I
Agli albori della teoria del film ci sono stati diversi tentativi di comprendere la relazione significativa tra il cinema e i nostri corpi senzienti. Peter Wollen osserva che il grande regista e teorico sovietico Sergej Ėjzenštejn, affascinato dal movimento Simbolista, dedicò l’ultima fase della sua carriera a indagare la “sincronizzazione dei sensi” e che i suoi “scritti sulla sinestesia sono di grande erudizione e di notevole interesse, nonostante la loro natura fondamentalmente non scientifica”.13 Gilles Deleuze scrive che Ėjzenštejn “ricorda costantemente che ‘il cinema intellettuale’ ha come correlato ‘il pensiero sensoriale’ o ‘l’intelligenza emozionale’ e non vale nulla altrimenti”.14 E Lesley Stern, in uno stupendo saggio in cui utilizza la figura del salto mortale per indicare la relazione tra cinema e corpo, descrive come, per Ėjzenštejn, il corpo in movimento fosse “concepito e configurato cinematograficamente […] non soltanto [come] una questione di rappresentazione, ma [come] un circuito di vibrazioni sensoriali che connettono l’osservatore e lo schermo”.15 Questo iniziale interesse per gli effetti somatici del cinema è culminato forse, su un primo fronte, negli anni Trenta, con il lavoro empirico svolto negli Stati Uniti nel contesto dei Payne Studies – molti dei quali hanno misurato quantitativamente le “risposte galvaniche” e la pressione sanguigna degli spettatori cinematografici.16 Su un fronte invece qualitativo, c’è stato il lavoro materialista di influenza fenomenologica compiuto negli anni Trenta e Quaranta da Walter Benjamin e Siegfried Kracauer. Nel suo celebre “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” Benjamin parla dell’intelligibilità del cinema nei termini 34
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di una “fruizione tattile”, e altrove si riferisce alla “facoltà mimetica” dello spettatore, una forma di percezione fondata sui sensi e sulla corporeità.17 Kracauer invece individua l’unicità del cinema nella capacità essenziale di questo medium di fornirci stimoli di tipo fisiologico e sensuale; per questa ragione egli considera lo spettatore un “essere corporeo-materiale”, un “essere umano in carne e ossa”, e afferma: “Gli elementi materiali che si presentano nei film stimolano direttamente gli strati materiali dell’essere umano: i suoi nervi, i suoi sensi, la sua intera sostanza fisiologica”.18 Fino a poco tempo fa tuttavia la teoria contemporanea del cinema ha generalmente ignorato o espunto sia la vocazione sensuale del cinema sia l’“essenza corporeo-materiale” dello spettatore.19 Perciò, se consideriamo la letteratura in questo campo, la produzione in lingua inglese sull’aspetto corporeo e sensuale dell’esperienza cinematografica, su quale significato ne derivi e come, è molto scarsa. Tra le poche eccezioni figurano la ricerca in corso di Linda Williams su quelli che l’autrice definisce “generi del corpo”;20 il riconoscimento di Jonathan Crary, in Le tecniche dell’osservatore, della “densità carnale” della spettatorialità che emerge nel xix secolo con le nuove tecnologie della visione;21 l’enfasi deleuziana posta da Steven Shaviro, in The Cinematic Body, sulla visione del film come evento viscerale;22 i lavori di Laura Marks sulla “pelle del film” e sul “tatto”, che si concentrano su ciò che l’autrice descrive, in relazione a corpi e immagini, come “visualità aptica”;23 diversi saggi di Elena del Río che, da una prospettiva fenomenologica, tentano di smantellare “le rigide demarcazioni binarie tra esterno e interno”;24 e lo studio di Jennifer Barker, di prossima pubblicazione, che sviluppa una fenomenologia della tattilità cinematografica.25 In generale, tuttavia, la maggior parte dei teorici sembra ancora imbarazzata o sconcertata da corpi che spesso di fronte a un film si comportano in modo rozzo e sguaiato, contraddicendo involontariamente la sensibilità raffinata, i discernimenti intellettuali e il vocabolario della riflessione critica. Infatti, come suggerisce Williams riguardo ai generi del corpo “bassi” come la pornografia, l’horror e il melodramma, che l’autrice privilegia, un certo disagio insorge quando sperimentiamo una “evidente mancanza di un’adeguata distanza estetica, un’impressione di eccessivo coinvolgimento al livello delle sensazioni e delle emozioni”. L’autrice afferma: “Ci sentiamo manipolati da questi testi – una 35
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percezione restituita da termini colloquiali come ‘strappa-lacrime’ e ‘strappa-urla’ – e alla quale potremmo aggiungere quella ancora più oscena generata dalla pornografia, intesa come testo che ad alcuni fa venire voglia di masturbarsi.26 Le risposte corporee a questi film vengono considerate alla stregua di un’involontaria e autoevidente riflessologia, che, come osserva Williams, valuta l’eccitazione sessuale sulla base delle erezioni;27 il terrore sulla base di strilli, svenimenti e persino attacchi di cuore; e il coinvolgimento sentimentale sulla base di “uno, due o tre fazzoletti”.28 In linea di massima, dunque, le risposte carnali al cinema sono state considerate troppo rozze per suggerire un’elaborazione che andasse al di là di un loro affiancamento – per la loro capacità di suscitare facili brividi, per l’impatto commerciale e le associazioni culturali che le caratterizzano – ad altre forme più “cinetiche” di intrattenimento, come per esempio le giostre dei parchi tematici o il “cinema delle attrazioni”, nozione proposta da Tom Gunning un tempo storicamente motivata ma ora buona per qualunque contesto.29 Così l’interesse degli studiosi si è concentrato non tanto sulla capacità del film di eccitarci fisicamente, quanto piuttosto su ciò che tale richiamo rivela sull’ascesa e la caduta della narrazione classica, sull’attuale struttura transmediale dell’industria dell’intrattenimento e sulla ricerca, da parte della nostra cultura, di immediate esperienze sensoriali immersive, in un’epoca di mediazione pervasiva. Ciononostante le discussioni critiche spesso suggeriscono che i film che fanno appello alla nostra sfera sensoriale costituiscono la quintessenza del cinema. Per esempio, scrivendo a proposito di Speed, Richard Dyer mette in relazione il pubblico dei Lumière, che arretra terrorizzato di fronte a un treno in arrivo sullo schermo, e l’imax e lo Showscan, avanzando la tesi che tutto il cinema sia, in fondo, un “cinema della sensazione”.30 L’autore infatti sostiene che l’essenza del cinema sia rappresentare e appagare il nostro desiderio di “uno schema del sentire di base, che riguarda la libertà di movimento, la fiducia nel proprio corpo, la relazione con il mondo materiale, che è codificato come proprio del maschio (in più, eterosessuale e bianco), ma al quale ogni essere umano ha necessità di accedere”.31 Tuttavia, nonostante Dyer riconosca l’importanza dell’esperienza corporea diretta dello spettatore, egli è in difficoltà nel rendere conto della sua stessa esistenza. L’autore 36
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afferma: “L’esaltazione del movimento sensazionale, al quale rispondiamo in modo ancora indefinito ‘come se fosse reale’, per molti è il film”.32 Non soltanto la struttura dinamica che fonda la nostra risposta corporea alle rappresentazioni visive (e uditive) del cinema viene articolata come un persistente mistero; la sua “datità” eidetica rispetto all’esperienza viene inoltre minata dalla formula “come se fosse reale” – essendo peraltro la formula stessa circondata da un paio di virgolette che, mettendo in discussione la stessa messa in discussione della datità, ci spingono oltre verso una mise en abyme dell’indecidibilità esperienziale. Questo “modo ancora indefinito” del movimento sensazionale che, “come se fosse reale”, innesca una risposta corporea rivela la confusione e il disagio che noi accademici proviamo non solo nell’affrontare la nostra esperienza sensuale del cinema, ma anche rispetto alla nostra scarsa capacità di spiegare la sua base somatica come qualcosa che va al di là di un “mero” riflesso fisiologico o di ammettere che il suo significato sia qualcosa di più di una descrizione metaforica.33 Così, il linguaggio usato dalla stampa per descrivere la dimensione sensuale e affettiva dell’esperienza cinematografica è stato dequalificato come la versione popolare di quell’imprecisa critica umanistica spazzata via dall’ambito dei film studies nei primi anni Settanta con l’avvento di modalità descrittive più “rigorose” e “oggettive”. Il riferimento ai sensi nelle descrizioni del cinema è stato generalmente considerato alla stregua di un eccesso retorico o poetico – collocando dunque costantemente la dimensione sensuale sul fronte del linguaggio più che su quello del corpo. Questa visione delle cose è tautologica. Come fa notare Shaviro, essa comprende la sensazione “all’interno di forme universali (linguistiche o concettuali) soltanto perché ha impiegato queste forme al fine di descrivere la sensazione stessa”. Questo annullamento del corpo in sé come “produttore di significato” è radicato nell’“assunto idealista che l’esperienza umana sia originariamente e sostanzialmente cognitiva”. Abbracciare un simile assunto idealista, prosegue Shaviro, significa ridurre la questione della percezione a una questione di conoscenza, e stabilire un’equivalenza tra sensazione e coscienza riflessiva della sensazione. L’equivalenza, hegeliana e strutturalista, sopprime il corpo. Ignora o astrae le forme originarie della sensazione grezza: affetto, eccitazione, stimolazione e repressione, piacere e do-
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lore, shock e abitudine. Afferma invece un occhio e un orecchio disincarnati i cui dati sono immediatamente oggettivati in forma di consapevolezza autocosciente o di conoscenza positiva.34
In sintesi, nonostante si sia manifestato un interesse crescente a questo riguardo, non abbiamo ancora effettivamente afferrato i fondamenti carnali dell’intelligibilità del cinema, il fatto che per comprendere i film in modo figurato, dobbiamo prima trarne il senso letterale. Non si tratta di una tautologia – specialmente in una disciplina che si è sforzata a lungo di separare il senso e il significato della visione e della specularità da un corpo che, nell’esperienza, vive la visione come una modalità in costante cooperazione e scambio significativo con altri canali di accesso al mondo, un corpo che produce significato prima di produrre pensiero cosciente e riflessivo. Così, a dispetto dell’attuale feticizzazione del “corpo” in ambito accademico, la maggior parte dei teorici ancora non sa bene che farsene delle proprie ingovernabili risposte corporee e sensoriali. Le nostre sensazioni e reazioni pongono un problema indigeribile per gli approcci prevalenti al cinema, di stampo linguistico e psicoanalitico, che lo reputano fondato su codici convenzionali e schemi cognitivi e basato sull’assenza, la mancanza, l’illusione. Costituiscono una sfida altrettanto inaccettabile al diffuso presupposto culturale che l’immagine filmica sia legata a una geometria meramente bidimensionale.35 Assumendo la visione cinematografica semplicemente come una modalità oggettiva di rappresentazione simbolica, e astraendo in modo riduttivo – “disincarnando” – la visione soggettiva e pienamente corporea dello spettatore per trattarla solo in termini di “senso della distanza”, la teoria contemporanea del cinema si è trovata in grande difficoltà nel comprendere come sia possibile per un corpo umano essere effettivamente “toccato” e “mosso” da un film. Nel peggiore dei casi, dunque, la teoria contemporanea del cinema non ha considerato seriamente l’essere fisicamente al cinema – e, nel migliore, non ha saputo fornire una risposta o una descrizione riguardo al fatto che un film ci possa “muovere” e “toccare” fisicamente. Invece, con alcune note eccezioni, la teoria del film ha tentato (a mio giudizio ponendosi in qualche modo sulla difensiva) di riportare l’esperienza filmica, ambigua e indisciplinata, soggettivamente sensuale e incarnata, là dove riteneva “propriamente” 38
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– ossia, oggettivamente – fosse il suo posto: la teoria infatti colloca l’aspetto sensuale sullo schermo come effetto semiotico della rappresentazione cinematografica e come proprietà semantica degli oggetti cinematografici, oppure al di fuori dello schermo, nelle formazioni psichiche fantasmatiche dello spettatore, in processi cognitivi e riflessi fisiologici di base che non pongono particolari problemi di significato. Eppure, come teorici del film, noi non siamo esenti da una partecipazione sensuale all’esperienza cinematografica – né, ammettiamolo, desidereremmo esserlo. In quanto “corpi vissuti” (per usare un’espressione fenomenologica che insiste sul fatto che “il” corpo oggettivo è sempre anche vissuto soggettivamente come “il mio” corpo, investito di un potere distintivamente e attivamente impegnato nel produrre senso e significato nel mondo e riguardo al mondo), esercitiamo una visione che è sempre incarnata. Anche al cinema la nostra vista e il nostro udito sono sempre informati e riforniti di significato dagli altri canali di accesso sensoriale al mondo di cui disponiamo: la nostra capacità non solo di vedere e udire, ma anche di toccare, percepire odori e gusti, e anche, costantemente, di avvertire per via propriocettiva il nostro peso, la nostra dimensione, la gravità e il movimento che compiamo nel mondo. In sintesi, l’esperienza cinematografica ha significato non in modo collaterale rispetto al nostro corpo ma attraverso di esso. Il che vuol dire che i film innescano in noi quei “pensieri carnali” che radicano e sostanziano un’analisi più cosciente. Per questo dobbiamo modificare le strutture binarie e dualistiche dell’esperienza cinematografica ipotizzate dalle precedenti formulazioni e porre invece il corpo vissuto dello spettatore come un “terzo termine” carnale che fonda e media tra esperienza e linguaggio, visione soggettiva e immagine oggettiva – al tempo stesso differenziandoli e unificandoli nei processi reversibili (o chiasmatici) di percezione ed espressione.36 Infatti è il corpo vissuto a fornire tanto la sede quanto l’origine del “terzo” senso, o “ottuso”, che Roland Barthes suggerisce esuli dal linguaggio eppure risieda in esso.37 Gettato in un ambiente denso di significato, il corpo vissuto è sempre costantemente impegnato in un’opera di commutazione e di transustanziazione di ciò che è offerto, in modo cooperativo, dalla capacità di produzione di significato dei suoi sensi (che sono sempre culturalmente influenzati e mai esperiti come discreti o grezzi) – un processo che converte il signifi39
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cato fornito da un senso in quello di un altro, traduce il letterale nel figurato e viceversa, e fonda in chiave preriflessiva i criteri più specifici e riflessivi di una semiologia di “livello più alto”. In altri termini potremmo dire che il corpo vissuto al contempo fornisce e realizza la possibilità di una reversibilità commutativa tra sentire soggettivo e conoscenza oggettiva, tra i sensi e il loro senso o significato cosciente. A questo proposito, Shaviro è molto eloquente: Non c’è alcuna carenza di strutturazione, alcuna divisione originaria, ma una continuità tra le risposte fisiologiche e affettive del mio corpo e le apparizioni e sparizioni, le mutazioni e la persistenza dei corpi e delle immagini sullo schermo. La distinzione che conta non è quella gerarchica e binaria tra corpi e immagini, o quella tra la realtà e le sue rappresentazioni. Si tratta piuttosto di distinguere le molteplici e sempre variabili interazioni tra ciò che si può definire ugualmente come corpo e come immagine: gradi di stasi e movimento, di azione e passione, di pieno e vuoto, di luce e oscurità. […] L’immagine non può essere contrapposta al corpo, come la rappresentazione viene contrapposta al suo inafferrabile referente. Perché una materialità che si insinua in questo quadro minaccia il (presunto) processo idealizzante della riproduzione meccanica. […] La carne è intrinseca all’apparato cinematografico, ne è al tempo stesso il suo soggetto, la sua sostanza e il suo limite.38 II
A questo punto, data la mia critica piuttosto consistente dell’astrazione teorica e della sua noncuranza della nostra esperienza corporea del film, voglio fondare la discussione condotta finora “nella carne”. Di fatto nella mia carne – nella sua capacità di rendere significativamente conto e di comprendere un film concreto, Lezioni di piano. Per quanto intellettualmente problematico per via della sua politica sessuale e coloniale,39 il film di Campion mi ha colpito nel profondo, mobilitando i miei sensi e il senso che ho del mio corpo. Il film non soltanto mi ha “riempito” e spesso “soffocato” di sensazioni che hanno risuonato nel mio petto e mi hanno stretto lo stomaco, ma ha anche “sensibilizzato” la superficie della mia pelle – così come della sua – al tatto. Nel corso del film sono stata intensamente concentrata con il mio intero essere e, rapita com’ero dal mondo sullo schermo, ero anche avvolta in un corpo estremamente consapevole di se stesso e della sua fisica 40
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capacità sensuale, sensibilizzata, sensibile.40 (A questo proposito potremmo richiamare i critici che avevano parlato di “ininterrotta esperienza dei sensi, fatta di musica e tessuti, di fango e carne” e di “immediato shock tattile”.) In particolare voglio soffermarmi sulla mia esperienza dei sensi e di senso delle prime due inquadrature di Lezioni di piano – dal momento che proprio queste hanno generato il presente saggio. Nonostante la mia attenzione corporea fosse costantemente mobilitata e vigile nel corso di un film che non ha mai smesso di emozionarmi o toccarmi a livello carnale, emozionale e cosciente nei modi più complessi, queste prime due inquadrature hanno evidenziato il tema che abbiamo (è proprio il caso di dire) tra le mani: il nostro coinvolgimento sensuale non soltanto rispetto a questo singolo film ma, a gradi diversi, rispetto a tutti gli altri.41 Più esattamente queste inquadrature di apertura hanno evidenziato l’ambiguità e l’ambivalenza della relazione tra la vista e il tatto, che è stato evocato in senso sia letterale sia figurato. In termini visivi e figurativi, la primissima inquadratura cui assistiamo in Lezioni di piano propone in apparenza un’immagine non identificabile. Carol Jacobs fornisce una descrizione e una spiegazione precise di questa inquadratura e della successiva: Lunghi, irregolari fasci di luce di un rosa tendente al rosso si aprono a ventaglio sullo schermo, sfocati come una fotografia a colori non riuscita di traslucidi vasi sanguigni. […] Eppure non si vede pressoché nulla – una quasi-cecità, con una distanza così ridotta tra l’occhio e l’oggetto della visione da non consentire di vedere altro che una nebbia indistinta. […] La prima immagine che vediamo viene dall’altro lato, dalla prospettiva di Ada, le sue dita, dita liquide. […] Vediamo le dita di Ada attraversate dalla luce del sole, come dalla sua prospettiva, mentre sentiamo la voce della sua mente, ma subito dopo le vediamo chiaramente secondo la prospettiva di un osservatore quale noi siamo, quando diventano oggetti concreti di fronte alla macchina da presa.42
Quando ho visto la scena iniziale di Lezioni di piano – nel corso di quella prima inquadratura, prima di sapere che c’era un’Ada e prima di scorgerla dal mio lato della sua visione (ossia, prima di guardare lei e non la sua visione) – è accaduto qualcosa di apparentemente straordinario. Nonostante la mia “quasi-cecità”, la “nebbia indistinta” e la resistenza che l’immagine opponeva ai miei occhi, le mie dita sapevano cosa stavo guardando – e questo prima 41
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che il successivo controcampo oggettivo mettesse quelle dita al loro posto (ossia, le mettesse dove fossero visibili oggettivamente piuttosto che “attraversate da uno sguardo” corrispondente a una prospettiva soggettiva). Fin dall’inizio, infatti, quello che stavo vedendo non era un’immagine irriconoscibile, per quanto fosse confusa e indeterminata per la mia vista, per quanto i miei occhi non riuscissero a “leggerla”. Fin dal principio (nonostante io non ne sia stata conscia fino alla seconda inquadratura), le mie dita riuscivano a comprendere quell’immagine, ad afferrarla con un fremito quasi impercettibile di attenzione e di attesa e, lontane dallo schermo, “sentivano se stesse” come una possibilità nella situazione soggettiva e incarnata rappresentata sullo schermo. E ciò prima che io riformulassi la mia comprensione corporea nel pensiero cosciente: “Ah, sono dita quelle che sto guardando”. Inizialmente, infatti, prima di questo riconoscimento cosciente, io non consideravo quelle dita come “quelle” dita – ossia, come a distanza rispetto alle mie proprie dita e oggettive nel loro “trovarsi là”. Piuttosto, ho conosciuto in primo luogo quelle dita per via sensuale e sensibile come “queste” dita, collocandole ambiguamente al di fuori dello schermo e dentro di esso – soggettivamente “qui” come oggettivamente “là”, “mie” come dell’immagine. Perciò, anche se avrebbe dovuto, data la mia “quasi-cecità” rispetto alla prima inquadratura, il successivo e oggettivo controcampo di una donna intenta a sbirciare il mondo attraverso le sue dita aperte a ventaglio non ha affatto costituito una sorpresa o una rivelazione. Mi è sembrato invece un piacevole esito e una conferma di quello che le mie dita – e io, per riflesso e non per riflessione – già sapevano. Sebbene questa esperienza di comprensione corporea preriflessiva del visibile (e dunque della scena) sia un fatto per certi versi straordinario, non è affatto eccezionale per molti altri. Direi infatti che questa responsività preriflessiva del corpo al film è un’ovvietà. In altri termini, noi non facciamo mai esperienza di un film soltanto attraverso i nostri occhi. Noi vediamo, comprendiamo e sentiamo i film con tutto il nostro essere corporeo, modellato dalla storia e dalla conoscenza incarnata accumulate dalla nostra sfera sensoriale culturalmente connotata. Da un punto di vista normativo, tuttavia, l’ovvia datità di ciò che è proposto alla nostra vista al cinema, il dominio globale della visione nell’abbracciare i suoi oggetti e la sua storica supremazia gerarchica rispetto 42
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agli altri sensi tendono a offuscare la nostra consapevolezza degli altri modi attraverso cui il nostro corpo accoglie e ricava senso dal mondo e dalle sue rappresentazioni. Così, ciò che è straordinario nell’inquadratura iniziale di Lezioni di piano è il fatto che essa offre (quantomeno a una prima visione) un esempio relativamente raro di cinema narrativo in cui l’egemonia culturale della vista è sconfitta,43 un esempio in cui i miei occhi non “vedevano” niente di significativo e sperimentavano una sorta di cecità nello stesso momento in cui il senso tattile del mio essere nel mondo afferrava attraverso le mie dita il senso dell’immagine in un modo non praticabile dalla mia visione ostacolata e sconcertata.44 Jacobs dice che l’immagine iniziale è “come una fotografia a colori non riuscita di traslucidi vasi sanguigni”. Tuttavia si avverte che il suo riferimento al corpo deriva non tanto da un’anticipazione tattile quanto da una considerazione visiva a posteriori. Infatti, in un saggio altrimenti ammirevole che mette a fuoco l’enfasi narrativa e visiva sul tatto, Jacobs identifica la sede del tatto decisamente troppo in fretta – precipitandosi a ridurre la visione a punto di vista, a considerare la tattilità, le dita e le mani nei termini del loro simbolismo narrativo.45 Afferma dunque che le dita di Ada nella prima inquadratura (così come nella prosecuzione del film) vengono usate simbolicamente per “renderci illetterati” e “incapaci di leggerle”.46 Ora, se la vista fosse un senso isolato e non semplicemente un senso distinto, con la sua struttura, le sue capacità e i suoi limiti, suppongo che questo potrebbe anche essere vero. Ma la vista non è isolata dagli altri sensi. Al di là della sua specifica struttura, delle sue capacità e delle sue operazioni di discernimento sensoriale, la vista è soltanto una della modalità di accesso al mondo del mio corpo vissuto e uno dei mezzi per rendere gli oggetti e gli altri per me sensibili – ossia significativi.47 La vista sarà pure il senso privilegiato nella cultura e nel cinema, con l’udito che segue a ruota; tuttavia, entrando in sala, io non abbandono la mia capacità di toccare, odorare o gustare, né, una volta sulla mia poltrona, impiego questi sensi soltanto per mangiare popcorn. Intendo dunque sostenere che la mia esperienza di Lezioni di piano abbia costituito un caso particolarmente intenso della nostra ordinaria esperienza sensuale del cinema: di come siamo in grado, secondo una qualche modalità incarnata, di toccare ed essere toccati dalla sostanza e dalla testura delle immagini; di sen43
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
tirci avvolti da un’atmosfera visiva; di provare un senso di peso, di soffocamento e di fame d’aria; di prendere il volo con euforia e libertà cinetica, anche se siamo relativamente ancorati alle nostre poltrone; di essere catapultati all’indietro da un suono; a volte, persino di annusare e gustare il mondo che vediamo sullo schermo. Anche se forse l’olfatto e il gusto sono meno mobilitati del tatto nel conformare la comprensione delle immagini che vediamo, io ricordo ancora l’“aroma visivo” della mia esperienza di Narciso nero (Michael Powell e Emeric Pressburger, 1946), un film che prende il suo titolo proprio da un profumo, o il sapore di noodle al maiale dei piatti di Tampopo (Juzo Itami, 1986). (E perché dovremmo esserne sorpresi, dal momento che anche il potere delle pubblicità di profumi o di cibi si basa in gran parte sulla cooperazione e sulla traslazione transmodali che si realizzano attraverso la nostra sfera sensoriale?) Inoltre, nella fruizione di questi film, io non ho “pensato” a una traduzione dell’attività della mia vista in termini olfattivi o gustativi; l’ho vissuta senza pensarci. Elena del Río descrive la struttura fenomenologica di questa esperienza: “Non appena l’immagine viene tradotta in una risposta corporea, il corpo e l’immagine non funzionano più come unità distinte, ma come superfici in contatto, impegnate in una costante attività di allineamento e flessione reciproci”.48 A questo proposito, potremmo ripensare ai processi di identificazione in atto nell’esperienza cinematografica, connettendoli non alla nostra identificazione secondaria e al riconoscimento di “posizioni soggettive” o dei personaggi, ma piuttosto alla nostra identificazione primaria (e quella del film) rispetto al senso e alla sensibilità della materialità in sé. Noi stessi siamo materia soggettiva: il nostro corpo vissuto entra in una relazione sensuale con “cose” che “hanno materia”49 sullo schermo e le scopre sensibili nel modo primario, prepersonale e globale che fonda le successive forme di identificazione secondaria più distinte e localizzate. Senza dubbio la mia esperienza dell’inquadratura soggettiva iniziale di Lezioni di piano è una prova di questa comprensione corporea prepersonale e diffusa, ma tale identificazione ambientale e carnale con la soggettività materiale si verifica anche quando, per esempio, io guardo da un punto di vista “oggettivo” Baines – sotto al piano e alla gonna di Ada – che si protende fino a toccare la pelle di Ada attraverso un buco delle sue calze nere di lana.50 Di 44
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fronte a questa immagine oggettiva, come il critico sopra citato, anch’io ho sentito un “immediato shock tattile nel momento in cui, in primo piano, la carne per prima tocca la carne”. Eppure di chi precisamente fosse la carne che ho sentito è stato qualcosa di ambiguo e vago, che emergeva da un’esperienza fenomenologica strutturata sull’ambivalenza e sulla diffusività. In altri termini, ho provato un interesse e un investimento corporei nel trovarmi insieme “qui” e “là”, nell’essere capace sia di sentire sia di essere sensibile, di essere insieme il soggetto e l’oggetto del desiderio tattile. Nel momento in cui Baines tocca la pelle di Ada attraverso le sue calze, improvvisamente la mia pelle è al contempo mia e non mia: in altri termini, l’“immediato shock tattile” mi dà accesso alla generale materialità e diffusività erotica della mia carne, così che io non sento soltanto il “mio” corpo ma anche il corpo di Baines, il corpo di Ada e quello che altrove ho definito il “corpo del film”.51 Perciò anche rispetto a un’inquadratura “oggettiva”, le mie dita sanno e comprendono i significati soggettivi del “visto” e di questa situazione di visione, e afferrano il significato testurale e testuale ovunque – non soltanto come toccanti, ma anche come toccate. La distinzione tra oggettività e soggettività perde la sua presunta chiarezza. Ciò significa che, in questa situazione di visione (e in certa misura in qualunque situazione di questo tipo), “situare la soggettività nel corpo vissuto mette a repentaglio una metafisica dualista nel suo complesso. Non vi è più alcuna ragione per conservare la reciproca esclusività delle categorie di soggetto e oggetto, di interno ed esterno, di io e mondo”.52 Di nuovo, voglio sottolineare che non sto parlando metaforicamente di toccare ed essere toccati al cinema e dal cinema, ma “in un certo senso” piuttosto letterale della nostra capacità di sentire il mondo che vediamo e ascoltiamo sullo schermo e della capacità del cinema di “toccarci” e di “muoverci” al di fuori dello schermo. Nei termini della filosofa Elizabeth Grosz: “Le cose sollecitano la carne esattamente come essa le richiama e ne è oggetto. La percezione è la reversibilità della carne, è la carne che si tocca, si vede, si percepisce, una piega che avvolgendosi (provvisoriamente) abbraccia se stessa”.53 Facendo esperienza di un film, e non meramente “vedendolo”, il mio corpo vissuto attua questa reversibilità della percezione e mina le nozioni stesse di sullo schermo e al di fuori dello schermo intese come sedi o posizioni soggettive reciprocamente 45
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
esclusive. Infatti gran parte del “piacere del testo” deriva da questa sovversione carnale della fissità delle posizioni soggettive, dal corpo come un “terzo” termine che al contempo eccede una rappresentazione separata eppure ne è contenuto; perciò, come ha mostrato Barthes, “sarebbe scorretto […] immaginare una rigida distinzione tra il corpo all’interno e il corpo all’esterno del testo, perché la forza sovversiva del corpo risiede in parte nella sua capacità di funzionare sia figurativamente sia letteralmente”.54 Tutti i corpi dell’esperienza filmica – quelli sullo schermo e quelli al di fuori di esso (e forse lo schermo stesso) – sono corpi potenzialmente sovversivi. Essi hanno la capacità di funzionare sia figurativamente sia letteralmente; sono situati in modo pervasivo e diffuso nell’esperienza del film. Tuttavia questi corpi sono anche materialmente circoscritti e possono essere specificamente situati; ciascuno, verosimilmente, diventa in questo modo il “corpo-sfondo” del senso e del significato, dal momento che ciascuno esiste in una relazione dinamica di reciproca reversibilità di figura e sfondo. Inoltre questi corpi sovvertono dall’interno la loro stessa fissità, amalgamando carne e coscienza, interscambiando il sensorio umano e quello tecnologico, così che il significato, e il luogo in cui è prodotto, non abbia un’origine distinta nei corpi degli spettatori o nella rappresentazione filmica, ma emerga dalla loro congiunzione. Potremmo definire questo corpo che agisce in maniera sovversiva nell’esperienza cinematografica soggetto cinestesico – un neologismo che deriva non soltanto dalla parola cinema ma anche da due termini scientifici che designano particolari strutture e condizioni del sensorio umano: sinestesia e cenestesia. Entrambe queste strutture e condizioni evidenziano la complessità e la ricchezza della più generale esperienza corporea che fonda la particolare esperienza del cinema, ed entrambe indicano anche i modi in cui il cinema usa i nostri sensi dominanti della vista e dell’udito per rivolgersi in modo comprensibile anche agli altri sensi. In ambito strettamente medico, il neuropsicologo Richard Cytowic osserva che la sinestesia è definita come una “esperienza involontaria in cui la stimolazione di un senso determina una percezione in un altro”.55 I sinesteti percepiscono regolarmente, vividamente e automaticamente suoni come colori oppure forme come gusti. Una donna spiega: “Il più delle volte vedo i suoni come colori, avvertendo un certo senso di pressione sulla pelle. […] Sto 46
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vedendo, ma non con i miei occhi, se questo può avere senso”; e, come esempio, sostiene di percepire la voce e la risata del marito non metaforicamente bensì letteralmente come “un meraviglioso color marrone dorato, dal gusto di toast croccante e burroso”.56 “La sinestesia – afferma Cytowic – è la forma di esperienza più immediata e diretta. […] È sensuale e concreta, non è un qualche concetto intellettualizzato e pregno di significato. Essa esalta i processi limbici [a discapito delle funzioni corticali più elevate del cervello] che si fanno largo fino alla coscienza. Si tratta di sentire ed essere, qualcosa di più immediato che analizzare cosa stia accadendo e parlarne.”57 Tuttavia questo non significa che l’esperienza sinestetica in quanto “più immediata di un’analisi” sfugga all’influenza culturale – come evidente dal fatto che la risata sia percepita come il gusto di un “toast croccante e burroso”. La sinestesia clinica è rara nella popolazione globale, sebbene in certa misura una forma meno estrema di “transfer cross-modale” tra i nostri sensi sia sufficientemente diffusa da avere permesso che l’impiego del termine e la descrizione della condizione corrispondente entrassero nel linguaggio comune. Diversi artisti si sono a lungo interessati alla sinestesia (tra di essi i Simbolisti e Ėjzenštejn); in effetti, non pochi di loro erano anche sinesteti (il romanziere Vladimir Nabokov non è che un esempio). Inoltre, nel linguaggio comune la sinestesia non indica soltanto un involontario trasferimento di percezioni tra i sensi, ma anche l’uso volontario di metafore in cui termini relativi a un tipo di impressione sensoriale siano usati per descrivere impressioni sensoriali di altri tipi. Questo passaggio da uno scambio immediato e involontario che si verifica entro il sensorio a uno scambio consapevole e mediato tra il sensorio e la sfera del linguaggio non soltanto rimanda al già citato “amore Simbolista per la sinestesia”,58 ma porta anche a un’economia sensuale del linguaggio che dipende dal corpo vissuto come al contempo sorgente fondamentale del linguaggio stesso, suo produttore di segni primario e suo segno primario. Per questo, in Metafora e vita quotidiana, il linguista George Lakoff e il filosofo Mark Johnson sostengono che il linguaggio figurato emerge e trae il suo significato dalla nostra esperienza fisica (per quanto culturalmente disciplinata)59 e Cytowic, lavorando sui sinesteti, conclude che “la coerenza delle metafore […] [è] radicata nell’esperienza concreta, che è ciò che conferisce alle metafore il loro significato. […] La metafora è 47
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esperienziale e viscerale”.60 Questa relazione tra il corpo sensibile letterale e la metafora come figura sensibile è centrale per la nostra comprensione sia dell’intelligibilità cinematografica sia del soggetto cinestesico che è mosso e toccato durante la visione filmica – e questo è un punto sul quale tornerò. Il neologismo che indica lo spettatore cinematografico come un “soggetto cinestesico” si rifà inoltre a un altro termine scientifico impiegato per designare una condizione corporea: cenestesia. Condizione non patologica né rara, la cenestesia individua le potenzialità e la percezione legate all’intero essere sensoriale di un soggetto. Dunque il termine è utilizzato per descrivere la condizione sensoriale generale e aperta del bambino alla nascita. Il termine si riferisce anche a una certa unità prelogica e non gerarchica del sensorio che costituisce il fondamento carnale per la successiva disposizione gerarchica dei sensi raggiunta attraverso l’immersione e la pratica culturali. A questo proposito, osserva Cytowic, è stato dimostrato che i bambini piccoli – non ancora completamente acculturati a un’organizzazione del sensorio disciplinata in modo specifico – sperimentano una maggiore “orizzontalizzazione” dei sensi e di conseguenza una maggiore capacità di scambio sensoriale cross-modale rispetto agli adulti.61 In sintesi, mentre la sinestesia indica lo scambio e la traslazione che hanno luogo tra i sensi, la cenestesia indica il modo in cui sensi equamente disponibili vengono variamente potenziati o depotenziati, in base al potere della storia e della cultura di regolare i loro confini organizzandoli in una gerarchia normativa. Vi sono casi, tuttavia, in cui non è necessario essere soggetti clinicamente sinestesici oppure bambini molto piccoli per mettere alla prova questi confini e trasformare queste gerarchie. Lo smantellamento dei limiti e degli ordinamenti stabiliti tra i sensi può verificarsi in numerose situazioni. Elaine Scarry, per esempio, riferendosi a quando ci imbattiamo in qualcosa di straordinariamente bello, scrive: Un evento visivo può riprodurre se stesso nella sfera del tatto (come quando il volto percepito provoca quasi un desiderio ansioso nella mano […]) […]. Questi intrecci dei sensi possono svolgersi in qualunque direzione. Wittgenstein non parla solo di eventi visivi belli che inducono la mano a muoversi, ma […] anche del fatto che l’ascolto di certa musica provoca in lui in un secondo tempo una spettrale rea-
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zione anatomica nei denti e nelle gengive. Analogamente, un evento tattile può riprodursi come evento acustico o addirittura come idea astratta: ogni volta che tocca qualcosa di liscio, Agostino pensa alla musica e a Dio.62
In altri casi, l’involontario scambio sensoriale cross-modale acquista evidenza nell’esperienza cosciente per via dell’assunzione di sostanze che alterano la percezione, come le droghe. Come osserva Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione, “[s]otto l’effetto della mescalina, un soggetto trova un pezzo di ferro, lo percuote sul davanzale dicendo ‘Ecco la magia’: gli alberi divengono più verdi. L’abbaiare di un cane attira l’illuminazione in modo indescrivibile e risuona nel piede destro”.63 In una critica delle scienze oggettive che potrebbe perfettamente essere applicata alle riduzioni oggettiviste dell’esperienza filmica, il filosofo prosegue: La percezione sinestesica è la regola e, se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo disimparato a vedere, a udire e, in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione corporea e dal mondo quale lo concepisce il fisico ciò che dobbiamo vedere, udire e sentire.64
Potremmo aggiungere che siamo inconsapevoli della percezione sinestesica perché è la norma, e ci siamo abituati alle costanti traduzioni cross-modali della nostra esperienza sensoriale al punto che esse sono per noi inavvertite se non nelle loro manifestazioni più estreme. È emblematica qui, per la sua ordinarietà, l’esperienza di chi ama cucinare – e mangiare – del gustare una ricetta mentre la si legge. Questo atto commutativo tra la comprensione visiva del linguaggio astratto e il suo significato incarnato non solo attesta una sinestesia fondante che abilita tale traslazione ma dimostra anche, di nuovo, “la forza sovversiva del corpo […] nella sua capacità di funzionare sia figurativamente sia letteralmente”. I miei occhi leggono e comprendono la ricetta in modo cognitivo, ma non sono separati dal mio corpo, che può – seppure in un atto trasformato e in qualche modo diffuso di produzione di senso gustativo – assaporare il piatto. Perché allora non dovrebbe essere possibile che noi partecipiamo persino più intensamente a Il pranzo di Babette (Gabriel Axel, 1987)? E in quale misura ci stiamo 49
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esprimendo in senso letterale, oltre che in senso figurato, quando descriviamo i pasti in Come l’acqua per il cioccolato (Alfonso Arau, 1994) come “un banchetto per gli occhi”? A questo proposito, in una recensione di Big Night (Stanley Tucci e Campbell Scott, 1996) Lisa Schwarzbaum compie alcune opportune distinzioni: La differenza tra un film che fa ammirare il cibo e uno che lo fa amare è la differenza tra una tavola sistemata come una natura morta in L’età dell’innocenza di Martin Scorsese (1993) e uno spicchio d’aglio tagliato così accuratamente da poterne quasi respirare l’odore pungente in Quei bravi ragazzi dello stesso Scorsese (1990). L’uno coinvolge l’occhio e l’altro sollecita tutti e cinque i sensi.65
Non si tratta di pura retorica. Al di là della filosofia, recenti sviluppi nelle neuroscienze hanno indicato che “i confini tra i sensi sono sfumati”.66 Inoltre, una serie di esperimenti ha mostrato non soltanto che la corteccia cerebrale visiva si attiva quando i soggetti in esame – che sono bendati – toccano degli oggetti con le dita, ma anche che quando gli sperimentatori bloccano la corteccia visiva dei soggetti la loro percezione tattile risulta compromessa. La ricerca ha inoltre mostrato che “l’area olfattiva del cervello coinvolge anche la vista”, in particolare in relazione alla percezione dei colori.67 Siamo, in effetti, tutti soggetti sinestesici – e dunque vedere un film può voler dire anche toccarlo, gustarlo e annusarlo. In sintesi, il soggetto cinestesico definisce lo spettatore cinematografico (e, del resto, anche il regista) che, attraverso una visione incarnata in-formata dal sapere degli altri sensi, “si rende conto” di cosa sia “vedere” un film – sia “in carne e ossa” sia per ciò che “importa”. Merleau-Ponty afferma che il corpo vissuto sensibilesenziente “è […] un sistema già fatto di equivalenze e di trasposizioni intersensoriali. I sensi si traducono vicendevolmente senza aver bisogno di un interprete, si comprendono vicendevolmente senza dover passare attraverso l’idea”.68 Dunque, il soggetto cinestesico tocca lo schermo ed è toccato dallo schermo – capace di commutare la visione nel tatto e viceversa senza pensarci e, attraverso un’attività sensuale e cross-modale, di vivere il film come al contempo qui e là, anziché collocando chiaramente la sede dell’esperienza filmica sullo schermo o al di fuori di esso. In quanto corpo vissuto e spettatore cinematografico, il soggetto cinestesico sovverte la prevalente oggettivazione della visione che ridurrebbe 50
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l’esperienza sensoriale al cinema a una misera “vista cinematografica” o assumerebbe teorie dell’identificazione anoressiche, che non hanno carne, che non digeriscono un “banchetto per gli occhi”. In un brano di particolare rilevanza e risonanza Merleau-Ponty approfondisce l’intercomunicazione dei sensi, non solo come essi ci forniscano accesso alla ricca struttura degli oggetti percepiti ma anche come ci rivelino la simultaneità della cooperazione sensoriale e la conoscenza carnale che essa ci offre: La forma degli oggetti non è il loro contorno geometrico, ma ha un certo rapporto con la loro natura propria, e mentre parla alla vista, parla a tutti i nostri sensi. La forma di una piega in un tessuto di lino o di cotone ci fa vedere la morbidezza o la secchezza della fibra, la freddezza o il tepore del tessuto. […] Nel movimento del ramo da cui un uccello ha spiccato il volo si legge la sua flessibilità o la sua elasticità […] Si vede il peso di un blocco di ghisa che affonda nella sabbia, la fluidità dell’acqua, la viscosità dello sciroppo.69
(Qui, citando questo brano, rimando a Lezioni di piano e alla mia risposta corporea di fronte all’umida pesantezza del bordo della gonna di Ada e dei suoi stivali nel momento in cui sono risucchiati dal fango viscoso della foresta, o, più avanti, l’effetto di trascinamento provocato sulla mia propriocezione dal peso e dal volume degli strati della gonna e della sottoveste bagnate della donna quando tenta di affogarsi.)70 Proseguendo questa discussione sulla cross-modalità dei sensi, Merleau-Ponty scrive: “Pertanto, considerati come qualità incomparabili, i ‘dati dei diversi sensi’ dipendono da altrettanti mondi separati, dal momento che ciascuno di essi è, nella sua essenza particolare, una maniera di modulare la cosa: ciò non toglie che comunichino tutti in virtù del loro nucleo significativo”.71 Tale nucleo significativo è, ovviamente, il corpo vissuto: quel campo dell’essere materiale cosciente e sensibile in cui l’esperienza è raccolta, epitomizzata e diffusa nella forma di un significato prelogico che, nonostante sia diffuso, nondimeno “lì con-siste”. Questo perché, spiega il filosofo, “[i]l mio corpo è la testura comune di tutti gli oggetti ed è, per lo meno nei confronti del mondo, lo strumento generale della mia ‘comprensione’”.72 Dunque, se da una parte ciascun senso fornisce modi di accesso al mondo dalla struttura discreta, dall’altra i sensi nel loro insieme sono sempre già interattivi e “reciproca51
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mente trasferibili, almeno entro certi limiti, dal dominio dell’uno a quelli degli altri” – e questo dal momento che “essi sono i sensi di un unico soggetto, e operano simultaneamente in un unico mondo”.73 Potremmo dire, allora, che è il corpo vissuto (in quanto al contempo soggetto cosciente e oggetto materiale) che offre le premesse (pre)logiche, il fondamento e lo sfondo del soggetto cinestesico, il quale si costituisce al cinema come ambiguamente collocato sia “qui” al di fuori dello schermo sia “là” sullo schermo. In effetti, è a questa radice corporea della coscienza dello spettatore che ogni teoria interpretativa dell’esperienza filmica deve tornare. III
Torniamo così alla questione della natura specifica della relazione che lega il corpo alla rappresentazione cinematografica, il letterale al figurato. Sulla base di tutta l’argomentazione che ho svolto sulla comunicazione cross-modale tra i nostri sensi e sulla qualità sinestesica del corpo vissuto, che comprende sia la nostra sfera sensoriale sia la nostra capacità di produrre linguaggio, è fenomenologicamente – e logicamente – evidente che io non tocco il cinema, né il cinema mi tocca esattamente nello stesso modo in cui io tocco o sono toccata dagli altri e dalle cose non mediate dal cinema (o da altre tecnologie della percezione). Per quanto intensamente io possa trattenere il respiro o aggrapparmi alla poltrona, io non vivo, guardando Speed, esattamente la stessa corsa forsennata che vivrei se mi trovassi davvero su un autobus fuori controllo. Non gusto, odoro né consumo i deliziosi piatti di Come l’acqua per il cioccolato (né quelli del mio libro di cucina) esattamente come se si trovassero sul tavolo davanti a me, non mediati dal cinema. Qual è allora la nostra condizione in quanto spettatori di cinema o teorici del cinema? Siamo condannati a parlare del nostro coinvolgimento sensuale nel film come di qualcosa di contraddittorio – intendendo la nostra responsività fisica soltanto, nei termini di Dyer, “in modo ancora indefinito ‘come se fosse reale’”? E Dyer non è l’unico a porsi in questo modo: se torniamo alle recensioni da cui ho preso le mosse, la sua incertezza e ambivalenza sono duplicate, anche se in modo meno consapevole. In Lezioni di piano, “l’aria salata può quasi essere assaporata”, ha scritto un critico, che allo stesso tempo parla di “immediato shock tattile”. Il recensore di Toy Story scrive 52
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che il Tyrannosaurus rex di plastica “è così lucido e invitante al tatto che è come se si potesse allungare una mano e toccare con le dita la sua testa dura e scintillante” – e allo stesso tempo dice che “la cerea lucentezza” dei soldati giocattolo innescherà “un proustiano meccanismo di riconoscimento”, suggerendo una memoria sensoriale non tanto fondata su un pensiero riflessivo quanto invece rivissuta. Questa complessa ambivalenza e confusione sulla natura letterale e figurata del nostro coinvolgimento sensuale al cinema è splendidamente condensata in una recensione di Mangiare bere uomo donna (Ang Lee, 1994), che dice: “La presentazione del cibo sullo schermo è, in tutti i sensi della parola, delizioso”.74 Qui non solo il cibo sullo schermo è “presentato” anziché “rappresentato”, ma è anche percepito come “delizioso” sia letteralmente “in tutti i sensi” sia figurativamente in tutti i sensi “della parola”. In La metafora viva il filosofo Paul Ricoeur scrive: “Se c’è un punto della nostra esperienza in cui l’espressione viva dice l’esistenza viva, è quello in cui il movimento che ci fa risalire la china entropica del linguaggio incontra il movimento che ci porta al di là delle distinzioni tra atto, azione, produzione, movimento”.75 Chiaramente le ambivalenti articolazioni del coinvolgimento sensuale del corpo vissuto in relazione alle rappresentazioni cinematografiche evidenziano proprio questo punto. Voglio dunque prendere in considerazione l’ambiguità e il carattere confuso della nostra impressione di avere, al cinema, sia un’esperienza sensuale “reale” (o letterale), sia un’esperienza sensuale “come-se-reale” (o figurata). Voglio inoltre sostenere che questa ambivalenza ha una precisa struttura fenomenologica basata sulla reciprocità non gerarchica e sulla reversibilità figura-sfondo del “ricevere senso” e “dare senso” – fattori che rendono il significato al contempo una materia carnale e un significato cosciente che emerge simultaneamente (pur secondo proporzioni variabili) dal sistema unitario di carne e coscienza che è il corpo vissuto. Il che è un altro modo per dire che il corpo e il linguaggio (il linguaggio del film o quello “naturale”) non sono semplicemente in un rapporto di reciproca opposizione o specularità. Piuttosto, essi più radicalmente si in-formano reciprocamente in una relazione non gerarchica e reversibile che, in alcune circostanze, si manifesta come un’esperienza vacillante, ambivalente, spesso ambiguamente indistinta, e dunque come un’esperienza “indefinibile” e “indecidibile”.76 53
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Come interpretare dunque ciò che si intende con l’espressione “tutti i sensi della parola”? Cosa significa definire il nostro coinvolgimento sensuale nel film come “reale” e “come-se-reale” nello stesso momento – e, il più delle volte, nella stessa frase? O il “gioco di parole” che io stessa propongo nell’indicare il nostro corpo letterale come “materia significante” e le nostre rappresentazioni figurative come “significato materiale”? In queste formulazioni – realizzate all’interno e per il tramite del linguaggio – è messa in evidenza la stessa struttura chiasmatica di reversibilità che lega ma anche sottende il corpo e la coscienza, il corpo e la rappresentazione. Che sia percepita come una ambivalente vacillazione o una ambigua fusione tra reale e come-se-reale, o tra il corpo vissuto (materia significante) e la rappresentazione (significato materiale), questa esperienza della fondamentale reversibilità di corpo e linguaggio è sentita profondamente – e spesso articolata – in queste descrizioni indefinibili e indecidibili che tuttavia esprimono piuttosto chiaramente il punto ambiguo e ambivalente in cui “il movimento che ci fa risalire la china entropica del linguaggio incontra il movimento che ci porta al di là delle distinzioni tra atto, azione, produzione, movimento”. Dunque i giochi di parole che compaiono nelle recensioni, nelle osservazioni di Dyer e nelle mie stesse descrizioni fenomenologiche sono piuttosto precisi e si basano empiricamente sulla struttura e sul senso dell’esperienza corporea stessa. In effetti ci aiutano non soltanto a comprendere l’enorme capacità del linguaggio di esprimere ciò che vogliamo significare ma anche a rivelare la struttura stessa della nostra esperienza di significato. La relazione chiasmatica in cui il senso soggettivo dell’esperienza incarnata e il senso oggettivo della rappresentazione sono percepiti come termini reversibili di figura e sfondo e perciò al contempo come commensurabili e incommensurabili, potrebbe, in effetti, essere particolarmente accentuata dal medium del cinema. Perché il cinema usa “modi vissuti” di esperienza percettiva e sensoriale (visione, movimento e ascolto sono i dominanti) come “veicoli segnici” della rappresentazione.77 Utilizzando tali modi vissuti, il cinema assume una struttura sensuale e percettiva ambivalente e ambigua. In altri termini, il cinema rappresenta l’esperienza attraverso una presentazione dinamica (il tempo sempre al presente della percezione sensoriale che, attraverso la tecnologia, costituisce e fa esistere il film per noi e per se stesso) – e simulta54
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neamente presenta l’esperienza come rappresentazione (la fissità a posteriori delle immagini già percepite e ora espresse, corrispettive delle forme nominali). A questo proposito, nonostante abbia enfatizzato la commensurabilità di corpo e rappresentazione in risposta alla teoria dominante che ha a lungo insistito sulla loro incommensurabilità, certamente non nego la possibilità di quest’ultima – in particolare nell’esperienza filmica. Infatti, da una diversa prospettiva, Lesley Stern affronta il tema dell’incommensurabilità privilegiando il perturbante nel – e del – cinema come esperienza di disgiunzione tra il corpo vissuto dello spettatore e la rappresentazione cinematografica: Il cinema, mentre incoraggia una certa conoscenza corporea, apre anche, e nello stesso processo, al riconoscimento di un tipo particolare di non-conoscenza, una sorta di afasia corporea, un divario che talvolta può essere avvertito come una stretta di paura allo stomaco, o una sensazione di sollevamento ed euforia. […] Queste tensioni generano una serie di differenze, lacune o discontinuità tra conoscere e sentire che talvolta si acuiscono in un senso del perturbante.78
Ciononostante, questo senso del perturbante è sufficientemente estemporaneo da caratterizzarsi come figura sul più necessario e continuo sfondo della nostra esistenza, in cui conoscere e sentire sono generalmente indifferenziati e vissuti come commensurabili – questo perché siamo sistemicamente integrati come soggetti incarnati e coscienti che “ricevono” e “danno” senso simultaneamente. Infatti è un’esperienza indifferenziata di senso che fonda e congiunge corpo e linguaggio, sensazione e conoscenza – e la loro coincidenza è così comune nella nostra esperienza che la loro improvvisa divergenza è caratterizzata come frustrante o perturbante, oppure, in casi estremi, come patologica. Sottolineando questa intima congiunzione tra corpo vissuto e rappresentazione, Alphonso Lingis afferma: “Il mio corpo come sfera interiore in cui le rappresentazioni sono percepibili […] e il mio corpo come immagine vista di rimbalzo dal mondo, sono inscritte l’una nell’altra. […] La densità del corpo è quella delle ‘pre-cose’, non ancora differenziate in realtà e illusione. […] [Il corpo] è una riserva di significanti”.79 E Ricoeur, evidenziando il profondo legame tra rappresentazione e corpo vissuto, ci dice che il linguaggio non soltanto designa “il suo altro” ma “si designa” – e nel farlo 55
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non è solamente referenziale ma anche radicalmente riflessivo, portando in sé “il sapere del suo esser-rapportato all’essere”. Prosegue Ricoeur: “In forza di tale sapere riflessivo, il linguaggio si conosce nell’essere. Il rapporto abituale tra il linguaggio e il suo referente viene rovesciato: il linguaggio si coglie come venuto al discorso dell’essere, discorso che è oggetto del linguaggio. Tale coscienza riflessiva, lungi dal rinchiudere il linguaggio su se stesso, è la coscienza stessa della sua apertura”.80 Nell’essere soggetti sia incarnati sia coscienti, nel ricevere e dare senso, il letterale e il figurato si informano a vicenda – come informano noi stessi. La “materia significante” e il “significato materiale” emergono in una relazione reciproca e reversibile di figura-sfondo, ovvero il corpo vissuto che riceve un senso del mondo e produce senso con le parole. Per questo la formula (figurata) “in tutti i sensi della parola” suona ambigua e, nel “sapere del suo esser-rapportato all’essere”, suggerisce riflessivamente il suo inverso nella formula (letterale) “in tutte le parole dei sensi” – e senza perdita di referenzialità o riflessività, pur al cambiare dell’enfasi. La nostra esperienza incarnata del film, dunque, è un’esperienza di visione, udito, tatto, movimento, gusto, odorato in cui il nostro senso del letterale e del figurato può a volte vacillare, può a volte manifestare una perturbante discontinuità, ma nella maggior parte dei casi assume una configurazione tale da produrre senso e significato indistinti – per quanto in modalità specifiche. Nonostante guardando Lezioni di piano io non possa pienamente toccare la gamba di Ada attraverso le sue calze, nonostante l’esatto profumo di bucato fresco e il calore della biancheria che vedo in Pretty Baby (Louis Malle, 1978) resti una vaga percezione, nonostante io non possa assaporare proprio quel profumo di noodle al maiale che vedo in un bel primo piano in Tampopo, io di queste cose compio un’esperienza sensoriale parzialmente completa tale da renderle per me intelligibili e significative. Perciò, anche se non colgo pienamente gli oggetti intenzionali della mia esperienza filmica e li colgo tramite una struttura sensoriale che sarebbe diversa se non mi trovassi in sala, io ho ugualmente un’esperienza sensuale reale, che non è riducibile né alla soddisfazione di due soltanto dei miei sensi né ad analogie o metafore riguardanti i sensi costruite soltanto “a posteriori” attraverso operazioni cognitive del pensiero cosciente. L’interrogativo pressante a questo punto 56
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è, ovviamente, quale “diverso” riempimento dei sensi sperimentiamo al cinema? Ossia, qual è la struttura di questo riempimento e come accade che noi, di fatto, viviamo l’esperienza filmica non soltanto come una riduzione del nostro essere sensuale ma anche come un suo arricchimento? Innanzitutto nella sala cinematografica (così come in qualunque altro luogo) il mio corpo vissuto sta all’erta, pronto a realizzare una potenzialità tanto sensuale quanto produttrice di senso. Focalizzato verso lo schermo, il mio “schema corporeo” o postura intenzionale prende forma attraverso una relazione di simpatia mimetica (o di allontanamento e ritrazione) rispetto a ciò che vedo e ascolto.81 Se sono coinvolta in ciò che vedo, la mia intenzionalità fluisce verso il mondo sullo schermo, caratterizzandosi non soltanto nella mia attenzione cosciente ma sempre anche nella mia tensione corporea: l’investimento, l’inclinazione e la disposizione del mio essere corporeo, talvolta evidenti, talvolta sottili, ma sempre dinamici. Tuttavia, siccome non posso letteralmente toccare, odorare, o assaporare le figure sullo schermo che sollecitano il mio desiderio sensuale, la traiettoria intenzionale del mio corpo, in cerca di un oggetto sensibile che appaghi questa sollecitazione, invertirà la sua direzione per ricollocare la sua presa sensuale parzialmente frustrata su qualcosa di più letteralmente accessibile. Questo oggetto dei sensi più letteralmente accessibile è il mio corpo proprio soggettivamente percepito. Dunque, “di rimbalzo” dallo schermo – e senza pensarvi deliberatamente – io mi rivolgerò riflessivamente verso il mio stesso essere incarnato, sensuale e sensibile per toccare me stessa toccante, odorare me stessa odorante, gustare me stessa gustante, insomma per sentire il mio stesso sentire.82 Certamente la sensazione e il senso che ho del mio sentire al cinema sono in qualche modo ridotti rispetto all’esperienza sensuale diretta – questo per via della presa soltanto parziale dei miei sensi sull’oggetto del desiderio. Ma altrettanto certamente, in altri modi, essi sono anche potenziati rispetto a molte esperienze dirette, dal momento che la mia presa soltanto parziale sull’originale oggetto cinematografico è completata non dall’afferramento di quell’oggetto, ma attraverso il mio corpo, dove la presa dei miei sensi è riflessivamente duplicata perché, nel rimbalzo dallo schermo, io sono diventata non solo toccante ma anche toccata. (Questo potenziamento sensuale nel quale il mio corpo riflessivamente riflette 57
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– senza pensarci – sulla sua stessa sensualità emerge nelle situazioni più intense di coinvolgimento diretto nelle quali noi “sentiamo noi stessi sentire”: un fantastico piatto o un incredibile bicchiere di vino nei quali riflessivamente gustiamo noi stessi gustare, del buon sesso in cui ci perdiamo nel sentirci sentire.) Nell’esperienza filmica, poiché la nostra coscienza non è diretta verso i nostri stessi corpi ma verso il mondo del film, noi siamo catturati senza pensarci (i nostri pensieri infatti sono “altrove”) in questa struttura sensuale vacillante e reversibile che differenzia e connette il senso del mio corpo letterale e il senso dei corpi e degli oggetti figurati che io vedo sullo schermo. In questa struttura l’esperienza del mio sentire è accentuata e intensificata nello stesso momento in cui viene percepita come generale e diffusa. Ovverosia, siccome il mio corpo vissuto sente se stesso nell’esperienza filmica, le particolari proprietà sensibili degli oggetti figurati sullo schermo che provocano una reazione dei miei sensi (il senso del peso e la leggera sensazione di ruvido di un vestito di lana, la levigatezza di una pietra, la trama e l’elasticità della pelle di un’altra persona) saranno percepite in modo vago e diffuso. Questo carattere diffuso delle particolari proprietà sensibili del film tuttavia non diminuisce l’intensità sensuale del mio coinvolgimento verso di esse, poiché sono ciò che mi sollecita e la meta verso cui si indirizza il mio interesse intenzionale. Vale a dire che siccome sono sensualmente sollecitata e provocata da oggetti figurativi che si trovano altrove (sullo schermo, dove i miei sensi li afferrano parzialmente), io non sono focalizzata neppure sulla dimensione sensuale particolare del mio corpo. Di rimbalzo dalle mie intenzioni corporee incompiute del sentire pienamente le figure sullo schermo, e tuttavia ancora con una tensione intenzionale cosciente e con una presa sensibile parziale nei loro confronti, il senso della mia letterale e particolare situazione corporea sarà a sua volta generale e diffuso – nonostante possa essere piuttosto intenso. (La forma del “toccare se stessi” di cui sto parlando – una forma che al livello della coscienza è diretta ad “altro” – è dunque diversa nella sua struttura rispetto a forme del “toccare se stessi” coscienti in cui tanto il proprio corpo quanto la propria coscienza sono rivolti a sé; in questo secondo tipo di riflessività, l’intenzionalità e l’attenzione raddoppiate comportano un tale grado di riflessione consapevole che, nonostante l’obiettivo autoerotico del loro 58
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soggetto, esse possono annientare il piacere carnale.)83 In ultima analisi, il mio gesto di intendere specificamente verso lo schermo ottenendo un rimbalzo intenzionale diffuso su me stessa “apre” il mio corpo a una sensualità che è tanto letterale quanto figurata. Guardando Lezioni di piano, per esempio, il desiderio della mia pelle di toccare fluisce verso lo schermo per rimbalzare all’indietro su se stesso, e poi in avanti verso lo schermo, e così via. In questo processo, la mia pelle diventa letteralmente e intensamente sensibilizzata rispetto alle trame e alla tattilità che vedo rappresentate sullo schermo, ma non è né la particolarità dei taffettà e degli indumenti di lana di Ada né la particolarità della camicetta di seta che indosso ciò che io sento sulla pelle. Da una parte, non posso toccare pienamente il taffettà e la lana della scena, nonostante possa afferrare in chiave cross-modale e diffusamente la loro trama e il loro peso. Dall’altra, sebbene abbia la capacità di sentire pienamente – e letteralmente – la specifica trama e l’esatto peso della camicetta di seta che indosso, il mio desiderio tattile è collocato altrove, nel taffettà e nella lana sullo schermo, e dunque, rivolgendo la mia intenzionalità altrove, io sento la specificità della seta sulla mia pelle in modo soltanto parziale e diffuso. Di più, in questo movimento incarnato non deliberato di continuo fluire avanti e indietro del mio desiderio tattile, il mio senso del tatto – “rimbalzando” dal suo appagamento solo parziale sullo schermo e attraverso di esso al suo altrettanto parziale appagamento nel mio corpo e attraverso di esso – è intensificato. La mia pelle diventa estremamente sensibilizzata. Infatti questo scambio di riflessi e riflessione tra il mio senso del tocco letterale e figurato mi apre a tutti i tessuti e loro trame – in effetti ciò ha reso anche la sensazione tattile letterale di uno specifico tessuto sulla mia pelle un modo di essere enormemente generale e intensamente esteso. Deve essere di nuovo sottolineato che la riflessività corporea che sto prendendo in esame non coinvolge la riflessione cosciente. In effetti, nella maggior parte delle esperienze sensuali al cinema il soggetto cinestesico non pensa al suo corpo letterale (o al suo abbigliamento) e non è di conseguenza drasticamente respinto sulla sua poltrona e al di fuori dello schermo nel momento in cui percepisce una discontinuità rispetto ai corpi figurati e alle loro trame sullo schermo. Piuttosto, il soggetto cinestesico sente il proprio corpo letterale come soltanto un fronte di una struttura rela59
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zionale irriducibile e dinamica di reversibilità e reciprocità che ha il suo altro fronte sullo schermo, negli oggetti figurati della stimolazione corporea. Questa struttura relazionale può, naturalmente, essere respinta o può rompersi – cosa che in effetti accade spesso quando l’esperienza dei sensi diventa troppo intensa o sgradevole. Tuttavia abbandonare la sala perché si è arrivati a provare letteralmente un senso di nausea o coprirsi gli occhi per non vedere sono reazioni difficilmente considerabili come esito del pensiero. Si tratta di riflessi, gesti di protezione che attestano la relazione reciproca e reversibile che lega il corpo letterale alle figure sullo schermo, il senso del corpo di compiere un effettivo investimento in un’esperienza densa, anche se diffusa, carnalmente e consciamente significativa – un’esperienza, come osserva Lingis, che “non è ancora distinta in realtà e illusione”. Guardando Lezioni di piano, per esempio, dal momento che avrei potuto sentirlo troppo intensamente sia sul mio corpo sia sul suo (essendo entrambi i corpi, in una certa misura, “miei”), io non ho potuto letteralmente sopportare di vedere Stewart mozzare, in senso figurato, il dito di Ada con un’accetta. Per questo, non solo mi sono acquattata nella poltrona, ma mi sono anche coperta gli occhi con le dita che, di nuovo, avevano previsto – istintivamente e non sulla base di un ragionamento – l’imminente violenza. IV
Riprendiamo la formulazione proposta da Lingis: “Il mio corpo come sfera interiore in cui le rappresentazioni sono percepibili […] e il mio corpo come immagine vista di rimbalzo dal mondo, sono inscritte l’una nell’altra”. Sia il corpo sia il linguaggio [verbale] e figurativo si pervadono e informano reciprocamente in una struttura intenzionale reversibile e riflessiva. Perciò, presi in considerazione gli aspetti letterali e carnali dell’espressione figurata “in tutti i sensi della parola” (figurata perché “sappiamo” che le parole non hanno davvero dei sensi), dobbiamo anche esaminare gli aspetti figurati e rappresentazionali dell’espressione nel suo inverso letterale “in tutte le parole dei sensi” (letterale perché “sappiamo” che le parole effettivamente descrivono i sensi). La mia argomentazione fino a questo punto ha sottolineato che il linguaggio sensuale che molte persone (e persino alcuni teorici 60
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del film) usano per descrivere la loro esperienza filmica non è necessariamente o solamente metaforico – da cui il mio riferimento a Lakoff e Johnson e a Cytowic sulle basi corporee della metafora.84 Ora però voglio spingermi oltre e suggerire che “tutte le parole dei sensi” utilizzate così spesso per dipingere l’esperienza del film non sono metaforiche. Per cominciare, la retorica tradizionale sostiene che le metafore scaturiscano da una relazione gerarchica tra un contesto primario di uso del linguaggio e uno secondario: una parola è intesa in senso letterale fintantoché è impiegata in un contesto normativamente abituale. La stessa parola inizia a essere intesa in senso figurato e metaforico soltanto nel momento in cui viene impiegata in un’accezione estesa e inusuale e trasferita oltre il suo normale contesto (in effetti, il termine “metafora” significa “portata oltre”).85 Tuttavia se noi riconosciamo che è il corpo vissuto a fornire all’esperienza una base e un contesto normativo e se riconosciamo che esso opera, fin dal principio, come un sistema sinestesico in cui i sensi collaborano e in cui uno di essi è commutabile e inteso come reciproco e reversibile rispetto agli altri, allora non possiamo più sostenere che – nella sensualità indistinta dell’esperienza filmica – esiste quella chiara gerarchia di contesti necessaria alla struttura e alla funzione della metafora. In altri termini, una volta che comprendiamo che la vista è informata dai nostri altri sensi e al contempo li informa, in una struttura dinamica che non è sempre o necessariamente gerarchica, non è più metaforico dire che noi “tocchiamo” un film o ne siamo “toccati”. Il tatto non costituisce più un’estensione metaforica nell’esperienza filmica, non è più portato oltre il suo abituale contesto e oltre il suo significato letterale. In effetti potremmo affermare che è soltanto nella riflessione a posteriori che le nostre descrizioni relative ai sensi sembrano metaforiche. La conoscenza che ci è stata trasmessa ci dice che il film è un medium primariamente visivo e uditivo; ne discende dunque “naturalmente” che il suo appello a sensi che non siano la vista e l’udito sia considerato in modo figurato piuttosto che letterale. A questo punto, tuttavia, spero di avere chiarito che una tale interpretazione abituale è riduttiva e non descrive accuratamente la nostra effettiva esperienza sensoriale al cinema. Quando guardiamo un film, tutti i nostri sensi sono mobilitati e spesso, in base alle particolari sollecitazioni di un dato film o momento del film, la nostra gerarchia sensoriale natu61
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ralizzata e la nostra abituale economia sensuale vengono alterate e riformulate. In questa esperienza il letterale e il figurato si fanno reciproci e si invertono di “senso” – contesto primario e secondario si confondono, le gerarchie e dunque le basi della metafora sono minate se non completamente annullate. Scrivendo a proposito della relazione tra vista e tatto nella pittura, lo storico dell’arte Richard Shiff afferma: “Parlare di reciprocità significa eliminare la possibilità di istituire un’opposizione tra elementi metaforici soggettivi (o devianti) ed elementi letterali oggettivi (o normativi). All’interno del flusso di reciprocità, ogni cosa diventa figurata in senso metaforico oppure possiede l’effetto di realtà del letterale”.86 Rievocando la discussione sulla natura del “come-se-reale”, in particolare quando la “non realtà” è messa in discussione dalle virgolette che immancabilmente la contornano, Shiff suggerisce che entro questo flusso di reciprocità “si potrebbe parlare […] di una letteralità figurata” – un uso che “eliminerebbe la necessità delle virgolette, che non fanno altro che opporsi alla normalizzazione della letteralità tramite l’aggiunta di un livello di distanza o di figuratività”. Shiff poi si domanda: “Quale tipo di rappresentazione o di costruzione linguistica fonde in questo modo il letterale e il figurato?”.87 La risposta non è la metafora ma la catacresi, “talvolta definita metafora falsa e impropria”. La catacresi, spiega Shiff, “media e fonde il metaforico e il letterale” ed è impiegata “quando non è disponibile un termine appropriato o letterale”.88 Dunque, prendendo in prestito un termine appartenente a un contesto per nominare qualcosa che appartiene a un altro, noi parliamo di “capocchia” dello spillo o di “gamba” della sedia in assenza di qualcosa di specifico da riferire propriamente a questi oggetti.89 La catacresi si differenzia dalla metafora vera e propria in quanto ci costringe ad affrontare e a dare un nome a una lacuna del linguaggio o, con Ricoeur, la “mancanza di termini propri, e […] il bisogno, la necessità di far fronte a questa povertà, a questa mancanza”.90 Perciò, quando ci serviamo della catacresi, ci troviamo sulla “china entropica del linguaggio” di Ricoeur – cercando un’espressione linguistica adeguata per un’esperienza reale. Inoltre, poiché il termine catacretico sostituisce una parte del corpo (la “capocchia” dello spillo, la “gamba” della sedia), ci troviamo evidentemente nel punto in cui il nostro movimento che risale la “china entropica del 62
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linguaggio incontra quello che ci porta al di là delle distinzioni tra atto, azione, produzione, movimento”, quel punto “in cui l’espressione viva chiama l’esistenza viva”. Questo modo di (oserei dire) “alzare le mani” in un gesto di resa e nominare in modo impreciso un oggetto per mancanza di una parola adeguata implica “l’estensione forzata del significato delle parole” piuttosto che il gioco linguistico che è la metafora. Nel gioco linguistico noi usiamo volontariamente un termine sostituendolo a un altro per creare una varietà di significati figurati. Dunque, secondo Ricoeur, dal momento che il suo uso invece non è volontario, non soltanto la catacresi va considerata una falsa metafora ma dovrebbe anche essere esclusa “dal campo delle figure”.91 In effetti Ricoeur vede la catacresi come “alla fin fine una estensione della denominazione” e quindi “un fenomeno di lingua” piuttosto che – come nel caso della metafora – un fenomeno di “discorso”.92 La catacresi dunque non funziona né come una metafora né come una figura retorica. Piuttosto, come scrive Shiff, “la catacresi compie esattamente questo: applica un senso figurato come uno letterale, conservando tuttavia l’aspetto o la sensazione della figuralità”.93 Questo è esattamente anche ciò che il cinema realizza attraverso i suoi modi di rappresentazione – ed è anche esattamente il modo in cui il corpo vissuto dello spettatore realizza la reciprocità in modo da rendere la materia significante e il significato materiale. Per questo, afferma Shiff, “la reciprocità o lo slittamento prodotti dalla catacresi minano qualunque polarizzazione di soggetto e oggetto, sé e altro, deviazione e norma, tatto e vista”.94 Infatti “tatto e vista sono colti in reciproca figurazione: è il tatto a rendere figurativa la vista, e la vista a rendere figurativo il tatto”.95 Attuando la reciprocità che lo lega alle rappresentazioni figurativamente letterali dei corpi e degli oggetti del mondo al cinema, il corpo vissuto dello spettatore nell’esperienza del film si impegna in una forma di catacresi sensuale. Ossia, colma le lacune della sua presa sensuale sul mondo figurato dello schermo tornando su se stesso per “dargli corpo” reciprocamente (sebbene parzialmente), in un senso letterale e fisicizzato.96 Questa stessa relazione reciproca tra figurato e letterale emerge anche nei nostri resoconti linguistici dell’esperienza filmica. Infatti, cercando di descrivere questa complessa reciprocità di corpo e rappresentazione, le nostre formule verbali tornano su se stesse per trasmettere il signifi63
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cato figurato di quell’esperienza come letteralmente fisicizzata. In assenza di un modo più appropriato o esaustivo di nominare e veicolare la struttura e il significato dell’esperienza sensuale del guardare un film, i critici cinematografici tornano con un atto riflessivo sul linguaggio stesso e applicano letteralmente le sue espressioni figurate sensuali, sia per dare corpo all’immagine sia per adeguare la descrizione al senso dell’effettiva esperienza filmica. Non è particolarmente strano dunque che, sia nella nostra esperienza del film sia nei nostri sforzi linguistici di descriverla, una certa ambivalente impressione di metaforicità e figuratività permanga – e noi siamo catturati in una struttura catacretica di produzione di significato che, in virtù della parzialità dei suoi afferramenti sensuali ma d’altra parte dell’arricchimento e dell’intensificazione dei suoi meccanismi di reciprocità atti a colmare le sue stesse lacune, è vissuta e descritta come un’esperienza sia reale sia “come-se-reale”. Ricoeur discute di questa tensione tra significato metaforico e letterale in relazione alla distinzione di Wittgenstein tra “vedere” e “vedere-come”, una formulazione che ricalca quella di Dyer di “reale” e “come-se-reale”: Il “vedere-come” è […] costituito a metà da un processo del pensiero e a metà da un’esperienza. […] Il “vedere-come” rappresenta l’anello mancante nella catena delle spiegazioni; il “vedere-come” è il lato sensibile del linguaggio poetico. […] Ora, una teoria della fusione del senso e del sensibile […] sembrerebbe incompatibile con questo carattere di tensione tra senso metaforico e senso letterale. Per contro, una volta reinterpretata, a partire dal “vedere-come”, la teoria della fusione è perfettamente compatibile con la teoria dell’interazione e della tensione. Vedere X come Y comporta il giudizio: X non è Y. […] Le frontiere di senso sono superate, ma non abolite. […] [I]l vederecome… designa la mediazione non-verbale dell’enunciato metaforico. Dicendo questo, la semantica riconosce il suo limite, e, muovendosi in tal senso, realizza il proprio compito. […] Se la semantica incontra, a questo punto, il suo limite, una fenomenologia dell’immaginazione […] potrebbe subentrare.97
Una fenomenologia del soggetto cinestesico che riceve e dà senso a partire dal film rivela la funzione chiasmatica del corpo vissuto in quanto carnale e cosciente, sensibile e senziente – e come avviene che noi apprendiamo ciò che è sullo schermo in senso sia figurato sia letterale. In altri termini, il corpo vissuto fornisce in modo 64
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trasparente le premesse chiasmatiche primarie che connettono e uniscono i sensi come significativi a livello incarnato e a livello cosciente e permette inoltre la loro differenziazione secondaria in un significato incarnato e un altro cosciente. Correlativamente, una fenomenologia dell’espressione di questa “fusione” e differenziazione vissuta propria dell’esperienza del film rivela – attraverso l’articolazione catacretica del linguaggio – la struttura reversibile e vacillante dell’esperienza del senso filmico da parte del corpo vissuto, al contempo unificata e differenziata. Sottendendo in modo ambivalente fusione e distinzione, ambivalente nella sua struttura e apparentemente ambigua nel suo significato, la catacresi non solo indica il “divario” tra le figure del linguaggio e l’esperienza letterale del corpo vissuto, ma “vi fa ponte” e lo “colma” reversibilmente e chiasmaticamente. Come scrive Ricoeur, la catacresi “designa la mediazione non-verbale dell’enunciato metaforico”. Nell’esperienza filmica, la mediazione non-verbale della catacresi è ottenuta letteralmente dal corpo vissuto dello spettatore in una relazione sensuale con la figuratività sensibile del film. Infatti, come conclude Ricoeur: “Semi-pensiero e semi-esperienza, il ‘vedere come’ è la relazione intuitiva che salda insieme il senso e l’immagine”.98 Nell’esperienza filmica, sul fronte del soggetto cinestesico che fa esperienza di un dato film sensualmente, questa reciprocità e (con)fusione chiasmatica del letterale e del figurato si realizza nel corpo vissuto in grado sia di ricevere sia di dare senso; e sul fronte delle descrizioni sensuali, questa reciprocità e (con)fusione catacretica del letterale e del figurato si verifica nel linguaggio – sia esso cinematografico o verbale. Perciò l’esperienza del film – su entrambi i fronti dello schermo – mobilita, confonde, discerne e tuttavia unifica a livello esperienziale corpo e linguaggio, e pone in primo piano la reciprocità e la reversibilità della materia sensibile e del significato sensuale. Le nostre dita, la nostra pelle, il naso, le labbra, la lingua, lo stomaco e ogni altra parte di noi comprende ciò che vediamo nell’esperienza del film. In quanto soggetti cinestesici dunque noi possediamo un’intelligenza incarnata che apre i nostri occhi ben oltre la loro capacità discreta di vedere, apre il film ben oltre la sua visibilità sullo schermo, e apre il linguaggio a una conoscenza consapevole delle sue origini e dei suoi limiti carnali. Ecco quello che, senza pensarci, le mie dita sanno al cinema. 65
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NOTE
1. G. Cheshire, “Film: auteurist elan”, recensione di Lezioni di piano (J. Campion), in Raleigh (North Carolina) Spectator Magazine, 18 novembre 1993. 2. B. Straus, “The Piano strikes emotional chords”, recensione di Lezioni di piano, in Los Angeles Daily News, 19 novembre 1993. 3. S. Klawans, “Films”, recensione di Lezioni di piano, in Nation, 6 dicembre 1993, p. 704. 4. D. Heman, “It’s a bumpy ride, but this film’s built for speed”, recensione di Speed (J. de Bont), in Richmond Time-Dispatch, 10 giugno 1994. 5. H. Sheehan, “Speed thrills”, recensione di Speed, in Orange Country Register, 10 giugno 1994. 6. J. Leydon, “Breakneck Speed”, recensione di Speed, in Houston Post, 10 giugno 1994. 7. D. Ansen, “Popcorn deluxe”, recensione di Speed, in Newsweek, 13 giugno 1994, p. 53. 8. A. Lane, “Faster, faster”, in New Yorker, recensione di Speed, 13 giugno 1994, p. 103. 9. S. Hunter, “As cosmic battles go, Kombat is merely mortal”, recensione di Mortal Kombat (P. Anderson), in Baltimore Sun, 19 agosto 1995. 10. J. Weeks, “Is faux violence less violent?”, recensione di Mortal Kombat, in Los Angeles Daily News, 19 agosto 1995. 11. S. Griest, “Mortal Kombat’s bloodless coup”, recensione di Mortal Kombat, in Washington Post, 28 agosto 1995. 12. O. Gleibermann, “Plastic fantastic”, recensione di Toy Story (J. Lasseter), in Entertainment Weekly, 14 novembre 1995, p. 74. 13. P. Wollen, Signs and Meaning in the Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1969, pp. 57, 59. 14. G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), tr. it. di L. Rampello, Einaudi, Torino 2017, p. 185. 15. L. Stern, “I think, Sebastian, therefore… I somersault: Film and the uncanny”, in Paradoxa, 3-4, 1997, pp. 348-366, qui p. 361. 16. Una ricerca di rilievo condotta dai Payne Studies è W.W. Charters, Motion Picture and Youth: A Summary, Macmillan, New York 1933. In un contesto affine, Alison Landsberg scrive che i Payne Studies “presumevano che il corpo potesse dare segni di sintomi fisiologici causati da una sorta di intervento tecnologico sulla soggettività, un’ingerenza che è parte integrante dell’esperienza del cinema” (A. Lindberg, “Memoria prostetica: Total Recall e Blade Runner”, in M. Featherstone, R. Burrows, a cura di, Tecnologia e cultura visuale. Cyberspace, cyberbodies, cyberpunk, tr. it. di L. Ruggerone, FrancoAngeli, Milano 2007, pp. 155-171, qui p. 161). 17. W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (1935-1936), in Aura e choc, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 17-73, qui p. 47; e “Sulla facoltà mimetica” (1933), in Angelus novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, pp. 71-74.
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18. Citato in M. Hansen, “‘With skin and hair’: Kracauer’s theory of film, Marseilles 1940”, in Critical Inquiry, 19, 3, 1993, pp. 437-469, qui p. 458. Hansen prosegue inoltre osservando: “Riferendosi all’esempio dei ‘film pornografici arcaici’, Kracauer si avvicina a una descrizione della dimensione fisica e tattile della spettatorialità filmica in termini sessuali (anche se non di gender); nell’aspirare a una stimolazione sensuale, fisiologica, l’autore osserva, questi ‘film’ [flicks] realizzano il potenziale del film in generale” (p. 458). 19. La designazione accademica di teoria contemporanea del cinema si riferisce solitamente al periodo che si estende dalla fine degli anni Sessanta agli inizi degli anni Settanta, quando la semiotica, lo strutturalismo e la psicoanalisi erano considerati come antidoti metodologici a una critica cinematografica “blanda” e non scientifica, e la critica culturale marxista e la teoria femminista erano considerate come antidoti ideologici a un’estetica borghese e patriarcale. Un’ampia discussione dell’omissione (se non della repressione) nell’ambito teorico contemporaneo del corpo vissuto dello spettatore, così come una disamina delle sue ragioni storiche e teoretiche, si trova nel mio The Address of the Eye. A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton 1992. 20. Vedi L. Williams, “Film bodies: Gender, genre, and excess”, in Film Quarterly, 44, 4, 1991, pp. 2-13; “Corporealized observers: Visual pornographies and the carnal density of vision”, in P. Petro (a cura di), Fugitive Images: From Photography to Video, Indiana University Press, Bloomington 1995, pp. 3-41; e “The visual and carnal pleasure of moving-image pornography: A brief history” (manoscritto inedito). Quest’ultimo è stato infine incorporato nell’epilogo dell’edizione del 1999 di L. Williams, Hard Core: Power, Pleasure, and the Frenzy of the Visible, University of California Press, Berkeley 1989. 21. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel xix secolo (1990), tr. it. di L. Acquarelli, Einaudi, Torino 2013. 22. S. Shaviro, The Cinematic Body, University of Minnesota Press, Minneapolis 1993. 23. L.U. Marks, The Skin of the Film: Intercultural Cinema, Embodiment, and the Senses, Duke University Press, Durham 1999; e Touch: Sensous Theory and Multisensory Media, University of Minnesota Press, Minneapolis 2002. 24. E. del Río, “The body as foundation of the screen: Allegories of technology in Atom Egoyan’s Speaking Parts”, in Camera Obscura, 37-38, 1996, pp. 94-115; e “The body of voyeurism: Mapping a discourse of the senses in Michael Powell’s Peeping Tom”, in Camera Obscura, 15, 3, 2000, pp. 115-149. 25. La dissertazione di Jennifer Barker The Tactile Eye (ucla) è in corso d’opera; tuttavia, l’autrice ha presentato due relazioni derivanti dalla sua ricerca: “Fascinating rhythms: The visceral pleasure of the cinema” (“Come to your senses”, Amsterdam School for Natural Analysis, Theory and Interpretation, Amsterdam, maggio 1998); e “Affecting cinema” (meeting annuale della Society for Cinema Studies, Chicago, marzo 2000). [La dissertazione è stata in seguito pubblicata. Vedi J. Barker, The Tactile Eye.
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Touch and the Cinematic Experience, University of California Press, Berkeley 2009. NdC] 26. La traduzione italiana non restituisce il gioco di parole offerto dall’autrice giustapponendo le espressioni colloquiali tear jerker e fear jerker all’espressione volgare jerk off, letteralmente “farsi una sega”. [NdC] 27. L’espressione originale è “peter meter”, strumento di rilevazione delle dimensioni del pene eretto. [NdC] 28. L. Williams, “Film bodies: Gender, genre, and excess”, cit., p. 5. 29. T. Gunning, “The cinema of attractions: Early film, its spectator, and the avant-garde” (1986), in T. Elsaesser, A. Barker (a cura di), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, bfi, Londra 1990, pp. 56-62. Commenta Gunning: “Chiaramente in un certo senso il cinema spettacolare contemporaneo ha riaffermato come le sue radici consistano nello stimolo e nella carnevalata, in quello che potrebbe essere definito il cinema a effetti della triade SpielbergLucas-Coppola” (p. 61). Vale la pena notare che questo passaggio dall’uso della formula “cinema delle attrazioni” per designare una modalità e una fase storicamente specifiche della produzione cinematografica al suo uso in senso più generico e trans-storico è visto come problematico. Una critica ponderata è stata offerta da Ben Brewster in “Periodization of the early cinema: Some problems” (relazione presentata al meeting annuale della Society for Cinema Studies, Dallas, marzo 1996). 30. R. Dyer, “Action!”, in Sight and Sound, 4, 10, 1994, pp. 7-10. 31. Ibidem, p. 9. 32. Ibidem, p. 8 (corsivo mio). 33. Paul Ricoeur discute lo statuto del “come se” in relazione alla metafora e alla referenza in La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, tr. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 2001; vedi in particolare pp. 324-336. L’autore trova inadeguata tanto “una interpretazione che, per il fatto di ignorare il ‘non è’ implicito, finisce in una posizione di ingenuità ontologica nella valutazione della verità metaforica” quanto l’interpretazione inversa “per il fatto che non coglie l’‘è’ riducendolo al ‘come se’ del giudizio riflettente, sotto la pressione critica del ‘non è’”. Come afferma Ricoeur, “dalla convergenza di queste due critiche scaturirà la legittimazione del concetto di verità metaforica, che conserva il ‘non è’ dentro l’‘è’” (p. 327, corsivo mio). 34. S. Shaviro, The Cinematic Body, cit., pp. 26-27. 35. Come riassume Linda Williams, in “The visual and carnal pleasure of moving-image pornography: A brief history”, cit.: “Nella teoria psicoanalitica del film questa opposizione tra un corpo e una sensazione eccedenti e non articolati da un lato e uno spirito o pensiero che li domina dall’altro è stata fondamentale, dando vita al concetto di un ‘piacere visivo’ astratto fondato in uno sguardo voyeuristico il cui piacere presuppone un occhio distanziato, disincarnato, monoculare che domina tutto ciò che osserva ma che non è implicato fisicamente negli oggetti della sua visione”. Questo sguardo “dominante” ha significato il predominio della prospettiva rinascimentale e la sua cartesiana “falegnameria” del mondo come modelli esplicativi per
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la descrizione dello spazio cinematografico. Per un’ulteriore discussione di questa tematica e per modelli descrittivi alternativi vedi anche V. Sobchack, “Breadcrumbs in the forest: Three meditations on being lost in the space”, in Carnal Thoughts. Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, Berkeley 2004. 36. Chiasmo (a volte chiasmus) è il termine usato da Maurice MerleauPonty per indicare “un unico Spazio che separa e riunisce, che sostiene ogni coesione” (M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito [1960], tr. it. di A. Sordini, se, Milano 1989, p. 58). In generale, chiasmo è usato per definire lo sfondo di ogni forma di presenza contro cui si stagliano le distinte figure dell’essere; in quanto tale, lo sfondo è ciò che fa sì che tutte le opposizioni emergano e svaniscano, diventino reversibili. In questa sede suggerisco che il corpo vissuto immerso nell’ambiente funziona come la nostra sede chiasmatica della materia del significato e del significato della materia: ossia, esso supporta figure distinte e opposte (come il linguaggio e l’essere) ma fornisce anche lo sfondo sinottico per la sospensione della loro distinzione e opposizione. Vedi anche M. Merleau-Ponty, “L’intreccio – Il chiasma”, in Il visibile e l’invisibile (1964), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2007, pp. 147-170. 37. R. Barthes, “Il terzo senso”, in L’ovvio e l’ottuso, tr. it. di G. Bottiroli, Einaudi, Milano 2001, pp. 42-61. Miriam Hansen scrive riguardo a questa connessione tra il “terzo senso” e il corpo vissuto in relazione alla riflessione di Walter Benjamin sulla “facoltà mimetica”: “Per Benjamin, l’aspetto semiotico del linguaggio abbraccia sia il livello ‘informativo’ sia il livello ‘simbolico’ del significato […] mentre l’aspetto mimetico corrisponderebbe al livello dell’eccesso fisiognomico” (M. Hansen, “Benjamin, cinema and experience: ‘The blue flower in the land of technology’”, in New German Critique, 40, 1987, pp. 179-224, qui p. 196). 38. S. Shaviro, The Cinematic Body, cit., pp. 255-256. 39. Per una discussione di tali politiche vedi per esempio C. Kauffman, “Colonialism, purity and resistance in The Piano”, in Socialist Review, 24/12, 1994, pp. 251-255; L. Pihama, “Are film dangerous? A Maori woman’s perspective on The Piano”, in Hecate, 20/2, 1994, pp. 239-242; L. Dyson, “The return of the repressed? Whiteness, femininity, and colonialism in The Piano”, in Screen, 36, 3, 1995, pp. 267-276; e D. Polan, Jane Campion, bfi, Londra 2002. 40. Non sono certamente la sola ad aver reagito in questo modo. Vedi per esempio S. Gillett, “Lips and fingers: Jane Campion’s The Piano”, in Screen, 36, 3, 1995, pp. 277-287. Non solo Gillett apre e chiude il suo insolito saggio utilizzando la prima persona per “abitare” la coscienza della protagonista Ada, ma, come critico, dice anche apertamente, in una descrizione che trovo affine alla mia esperienza, “Lezioni di piano mi ha colpito molto profondamente. Ero ipnotizzata, mobilitata, disorientata. Trattenevo il respiro. Recalcitravo a rientrare nel mondo quotidiano al termine del film. Lezioni di piano mi ha scosso, disturbato e abitato. Mi sentivo come se i miei stessi sogni avessero preso forma, venendo rivelati. […] Erano sensazioni corpose, pesanti ed esaltanti” (p. 286).
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41. Senza dubbio alcuni singoli film come Lezioni di piano e i film indicati da Williams come appartenenti a “generi del corpo” rendono evidente il coinvolgimento sensuale in immagini e suoni espliciti e attraverso un focus narrativo, così come in un modo più discreto – ossia, attraverso l’attività cinetica e sensoriale di quello che in The Address of the Eye ho chiamato “il corpo del film”. Altri film possono mostrarci corpi sensualmente coinvolti ma lo fanno in modo non sensuale, dunque distanziandoci piuttosto che sollecitandoci a vivere un’esperienza simile attraverso l’“atteggiamento” della loro visione mediata. Ciononostante, direi che tutti i film impegnano la capacità dei nostri corpi di produrre senso, così come quella delle nostre menti – anche se secondo diverse logiche. 42. C. Jacobs, “Playing Jane Campion’s Piano: Politically”, in Modern Language Notes, 109, 5, 1994, pp. 769-770. 43. Il predominio normativo della vista e il suo dominio oggettivo sul mondo sono molto frequentemente capovolti in quello che viene chiamato cinema sperimentale o di avanguardia. A questo proposito vedi anche la discussione di L. Marks sul cinema interculturale in The Skin of the Film, cit. 44. L’espressione “visione sconcertata” [baffled vision] è tratta da L. Marks, “Haptic visuality” (relazione presentata al meeting annuale della Society for Film Studies, Dallas, marzo 1996). 45. Qui non posso esimermi dal citare un commento piuttosto derisorio riguardo al successivo (e criticamente meno fortunato) film di Campion, Ritratto di signora (1996), che è esplicito riguardo alla fissazione “simbolica” della regista su quella che in precedenza era una rappresentazione dinamica del tatto. In Entertainment Weekly, 7 febbraio 1997, si trova una rubrica intitolata “Fixation of the week” e sottotitolata “Jane Campion’s hands-on approach”. Il testo recita: “A partire dalla sequenza del titolo, in cui The Portrait of a Lady è scritto su un dito medio, la regista ci offre una sessantina di inquadrature di dita. C’è il colpetto alla mosca, il tocco al piano, lo struscio della pelle, la grattata al naso, l’impugnatura della sigaretta, e quel momento troppo alla Lezioni di piano in cui Isabel Archer, interpretata da Nicole Kidman, dice: ‘Avrei dato un dito’. Oh, Jane, ti prego, non un’altra volta!” (p. 53). 46. C. Jacobs, “Playing Jane Campion’s Piano: Politically”, cit., p. 770. 47. Questo tema del carattere distinto di ciascun senso e della loro relazione reciproca come sensi non isolati è discusso in M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2009, pp. 301-304. Il filosofo scrive: “Ogni organo di senso interroga l’oggetto a modo suo, che è l’agente di un certo tipo di sintesi” (p. 301). E prosegue: “I sensi sono distinti l’uno dall’altro e distinti dall’intellezione, in quanto ciascuno di essi porta con sé una struttura d’essere che non è mai esattamente trasferibile. […] E possiamo riconoscerlo senza compromettere l’unità dei sensi. Infatti, i sensi comunicano. […] L’esperienza dei ‘sensi’ separati ha luogo solo in un atteggiamento particolarissimo e non può servire all’analisi diretta della coscienza” (pp. 303-304). 48. E. del Río, “The body as foundation of the screen: Allegories of technology in Atom Egoyan’s Speaking Parts”, cit., p. 101.
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49. L’italiano non restituisce l’implicito gioco di parole fra l’originale matter inteso sia come “materia” sia come “importare”, ovvero come “avere corpo” in senso letterale e “avere peso” in senso figurato. [NdC] 50. Anche se discutendola soltanto in modo generale e non elaborandola come una specifica struttura fenomenologica dell’esperienza filmica, Marks usa la formula “identificazione ambientale” nel suo “Haptic Visuality” per suggerire un’identificazione con l’immagine che non è ascrivibile alla singola posizione soggettiva di un personaggio della narrazione. 51. Uso la formula “corpo del film” in modo molto preciso in The Address of the Eye per designare l’esistenza materiale del film come funzionalmente incorporata (e dunque differente in termini esistenziali rispetto al regista e allo spettatore). Il “corpo del film” non è visibile nel film se non nella sua attività intenzionale e nel suo movimento distintivo. Non è antropomorfo, ma nemmeno riducibile all’apparato cinematografico (nello stesso modo in cui noi non siamo riducibili alla nostra fisionomia materiale); è individuato e collocato solo per riflesso come un occhio quasi-soggettivo e incorporato, dotato di un’esistenza distinta, per quanto prepersonale e anonima. 52. I.M. Young, “Pregnant embodiment: Subjectivity and alienation”, in Throwing Like a Girl and Other Essays in Feminist Philosophy and Social Theory, Indiana University Press, Bloomington 1990, p. 161. 53. E. Grosz, “Merleau-Ponty and Irigaray in the flesh”, in “Sense and sensuousness: Merleau-Ponty”, in Thesis Eleven, 36, 1993, pp. 37-59, qui p. 46. 54. M. Moriarty, Roland Barthes, Stanford University Press, Stanford 1991, p. 190. 55. R.E. Cytowic, The Man Who Tasted Shapes: A Bizarre Medical Mystery Offers Revolutionary Insights into Emotions, Reasoning, and Consciousness, Warner, New York 1993, p. 52. Per un lavoro più recente sulla sinestesia vedi J.E. Harrison, S. Baron-Cohen (a cura di), Synaesthesia: Classic and Contemporary Readings, Blackwell, Cambridge 1996; e K.T. Dann, Bright Colors Falsely Seen: Synaesthesia and the Search for Transcendental Knowledge, Yale University Press, New Haven 1998. 56. R.E. Cytowic, The Man Who Tasted Shapes: A Bizarre Medical Mystery Offers Revolutionary Insights into Emotions, Reasoning and Consciousness, cit., p. 118. 57. Ibidem, p. 176. 58. D. Ackerman, A Natural History of the Senses, Vintage, New York 1990, p. 291. 59. G. Lakoff, M. Johnson, Metafora e vita quotidiana (1982), tr. it. di P. Violi, Bompiani, Milano 2004. 60. R.E. Cytowic, The Man Who Tasted Shapes: A Bizarre Medical Mystery Offers Revolutionary Insights into Emotions, Reasoning and Consciousness, cit., p. 206. 61. Ibidem, pp. 95-96. Vedi anche D. Ackerman, A Natural History of the Senses, cit., p. 289. 62. E. Scarry, Sulla bellezza e sull’essere giusti, tr. it. di S. Romano, il Saggiatore, Milano 2001, p. 12.
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63. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 307. 64. Ibidem, p. 308. 65. L. Schwarzbaum, “Four-star feast”, recensione di Big Night (C. Scott e S. Tucci), in Entertainment Weekly, 20 settembre 1996, pp. 49-50. 66. L. Guterman, “Do you smell what I hear? Neuroscientists discover crosstalk among the senses”, in Chronicle of Higher Education, 14 dicembre 2001, A17. 67. Ibidem. 68. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 314. 69. Ibidem, p. 308. 70. Per una discussione sulla funzione simbolica e testuale dell’abbigliamento (e del tatto) in Lezioni di piano, vedi S. Bruzzi, “Tempestuous petticoats: Costume and desire in The Piano”, in Screen, 36/3, 1995, pp. 257-266. 71. M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 309. 72. Ibidem, p. 314. 73. E. Grosz, “Merleau-Ponty and Irigaray in the flesh”, cit., p. 56, nota 14 (corsivo mio). 74. L. Martin, recensione di Mangiare bere uomo donna (A. Lee), in Cinemania 96, cd-rom (Microsoft 1992-1995). 75. P. Ricoeur, La metafora viva, cit., p. 410. 76. Uso il termine vacillare in luogo di oscillare deliberatamente, per distinguere un senso di rigida alternanza da uno meno binario e regolare. Su questo vedi J. Elkins, On Pictures and Words That Fail Them, Cambridge University Press, Cambridge 1998. Citando il lavoro di Rosalind Krauss su ciò che l’autrice chiama l’informe, Elkins scrive riguardo a questa struttura: “L’informe […] è un ‘disturbo […] nella modalità dell’alterazione, dell’ambivalenza’, tale da non poterci più essere una stabile distinzione tra figura e sfondo, o qualunque altra coppia di opposti ‘alternanti’. Niente è sicuro, e le forme e le figure vacillano o tremolano piuttosto che oscillare secondo un movimento regolare. L’informe è un principio che contrasta i concetti di antimonia, binarismo, opposizione, struttura, e, in definitiva, lo stesso concetto di figura” (p. 106). 77. Umberto Eco usa il termine “veicolo segnico” come distinto dal contenuto segnico o dal significato. Questo termine mi sembra più utile del termine significante nel ricordarci la natura materiale variegata e attiva delle “cose” attraverso cui il contenuto e il significato sono trasmessi. Vedi U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, p. 79-80 [in cui tuttavia Eco, rivedendo parzialmente il testo per la traduzione americana (Indiana University Press, Bloomington 1976), rinuncia a specificare il termine “veicolo segno” come sinonimo di significante, utilizzando unicamente quest’ultimo. NdC]. 78. L. Stern, “I think, Sebastian, therefore… I somersault: Film and the uncanny”, cit., pp. 356-357. 79. A. Lingis, “Bodies that touch us”, in Sense and sensuousness: Merleau-Ponty, numero monografico di Thesis Eleven, 36, 1993, pp. 159-167, qui p. 162.
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80. P. Ricoeur, La metafora viva, cit., p. 403. 81. Su temi rilevanti inerenti alla mimesi vedi S. Shaviro, The Cinematic Body, cit., pp. 52-53; e M. Taussig, Mimesis and Alterity: A Particular History of the Senses, Routledge, New York 1992. Taussig, in particolare, concepisce la mimesi come un’attività corporea che non richiede che una traduzione del pensiero cosciente sia realizzata o intesa. Su questa empatia incarnata in relazione ai corpi e agli oggetti sullo schermo vedi anche L. Williams, “Film bodies: Gender, genre, and excess”, cit. 82. Vedi M. Merleau-Ponty, “Il filosofo e la sua ombra”, in Segni (1960), tr. it. di G. Alfieri, il Saggiatore, Milano 1967, pp. 211-238, qui p. 219. Nonostante stia trattando di un’esperienza del nostro corpo che sente se stesso più coscientemente riflessiva di quella che si verifica al cinema, il filosofo è d’aiuto per la nostra comprensione di come il coinvolgimento sensuale possa essere “rivolto all’indietro” verso se stesso per intensificare la consapevolezza sensuale e al contempo per diffondere il suo contenuto specifico (una questione legata al nostro senso dell’esperienza filmica sul quale tornerò a breve): “C’è un rapporto del mio corpo con se stesso che fa, di questo corpo, il vinculum dell’io e delle cose. Quando la mia mano destra tocca la mia mano sinistra, io la sento come una ‘cosa fisica’, ma nello stesso momento, se voglio, si produce un evento straordinario: ecco che anche la mano sinistra si mette a sentire la mano destra. […] Pertanto, io mi tocco toccante, il mio corpo compie ‘una specie di riflessione’. Nel corpo, e per mezzo suo, non c’è solo rapporto a senso unico di colui che sente con ciò che egli sente: il rapporto si inverte, la mano toccata diventa toccante, ed io sono obbligato a dire che in questo caso il tatto è diffuso nel corpo, che il corpo è ‘cosa senziente’, ‘soggetto-oggetto’” (corsivo mio). 83. Qui potremmo pensare a quando sentendoci riflessivamente piangere, ci fermiamo; al fatto che sia praticamente impossibile farsi il solletico; al fatto che l’autocoscienza della nostra risata fa sì che essa diventi forzata. Tutto questo aiuta anche a comprendere come il desiderio sessuale sia eterodiretto durante la masturbazione e necessiti di un oggetto che non sia solo se stesso per evitare una riflessività raddoppiata che determina una riflessione conscia sul desiderio sessuale stesso. 84. Vedi anche J. Katz, How Emotions Work, University of Chicago Press, Chicago 1999. Il sociologo osserva, in relazione alla descrizione metaforica: “È l’esperienza del soggetto e non l’analisi che innanzitutto introduce l’elemento metaforico” (p. 299). 85. H.G. Alexander, The Language and Logic of Philosophy, University of New Mexico Press, Albuquerque 1967, p. 92. 86. R. Shiff, “Cézanne’s physicality: The politics of touch”, in S. Kemal, I. Gaskell (a cura di), The Language of Art History, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 129-180, qui p. 150 (corsivo mio). 87. Ibidem, p. 158. 88. Ibidem, p. 150. 89. In J.D. Sapir, “The anatomy of metaphor”, in J.D. Sapir, J.C. Crocker (a cura di), The Social Use of Metaphor: Essays on the Anthropology of Rheto-
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ric, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1977, l’autore scrive: “C’è una grande varietà di espressioni spesso impiegate come esempi di metafora che nonostante ciò difficilmente sono avvertite come figure retoriche. Un bacino comune comprende le parti del corpo utilizzate per rappresentare parti di oggetti materiali: ‘la gamba del tavolo’, ‘la capocchia dello spillo’, ‘la cruna dell’ago’, ‘i piedi della montagna’, e così via. La loro rappresentazione è quella di una metafora sostitutiva; così, per la ‘capocchia dello spillo’ abbiamo lo spillo come tema e la capocchia come termine discontinuo. A differenza di una vera metafora, tuttavia, questa rappresentazione manca del termine continuo, anche se questo potrebbe essere espresso tramite una circonlocuzione: ‘estremità sferica o arrotondata di uno spillo’; che non è altro che un’enumerazione delle caratteristiche comuni che legano X a ‘capocchia’. In molte formulazioni la mancanza di un termine continuo ci impedisce di percepire la giustapposizione tra campi separati che è essenziale per la metafora. Non possiamo rispondere facilmente alla domanda ‘se non è la capocchia (dello spillo), che cos’è?’. Nel caso di una effettiva metafora possiamo. […] William Empson preferisce chiamare queste espressioni ‘trasferimenti’ e Max Black, insieme alla maggior parte degli studiosi di retorica, le considera casi di catacresi, che definisce come ‘l’uso di una parola in un nuovo significato volto a colmare una lacuna del vocabolario’”. 90. P. Ricoeur, La metafora viva, cit., p. 86. [In realtà Ricoeur riporta le parole di Pierre Fontanier, di cui sta ampiamente discutendo il trattato Les Figures du discours (1830), Flammarion, Paris 1968. NdC] 91. Ibidem, p. 74. 92. Ibidem, p. 238. 93. R. Shiff, “Cézanne’s physicality: The politics of touch”, cit., p. 158. 94. Ibidem, p. 150. 95. Ibidem, p. 158. 96. L’espressione originale “flesh it out” rende più efficacemente il gioco di parole inteso dall’autrice, costruito sulla parola flesh, “carne”, a sua volta presente nell’espressione flesh it out, ovvero “dettagliare”, “completare”, “definire meglio”, “espandere”. Per approssimazione, e tuttavia per preservare l’intenzione dell’autrice, è proposta l’espressione “dare corpo”. [NdC] 97. P. Ricoeur, La metafora viva, cit., pp. 281-284. 98. Ibidem, p. 281.
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2 UNO SPETTATORE PENSOSO* Raymond Bellour
Raymond Bellour (http://cral.ehess.fr/index.php?153) proviene dal mondo della critica e dell’animazione culturale, in ambito non solo cinematografico: il dialogo con altre discipline (la semiotica, la psicoanalisi, la filosofia, la teoria della letteratura e più recentemente le neuroscienze) costituisce una costante del suo stile di lavoro. A partire dalla fine degli anni Sessanta Bellour incrocia il cammino della nascente semiologia del cinema di Christian Metz; pur coinvolto nell’impresa semiologica, egli mantiene una posizione originale: lascia infatti sullo sfondo concetti più generali quali quelli di codici cinematografici e sistemi testuali e si concentra piuttosto sul funzionamento specifico dei testi filmici così come emerge da una ravvicinata pratica di analisi: L’analisi del film (1979, tr. it. parziale di C. Capetta e A.A. Chaoul, Kaplan, Torino 2005) raccoglie i contributi di questo periodo. Negli anni Ottanta e Novanta insegna sia presso l’Université Paris iii – Sorbonne Nouvelle di Parigi (dal 1986) sia alla New York University e alla University of California; fonda con il critico cinematografico Serge Daney la rivista Traffic (1991); lavora come Direttore di ricerca presso il Centre National de Recherches Scientifiques (cnrs) di Parigi; partecipa all’organizzazione dell’importante mostra Passages des images presso il Centre Pompidou (1990-91). In questo periodo Bellour ripensa il cinema alla luce di una teoria generale dell’immagine e dunque all’incrocio pratico e teorico tra cinema, fotografia, video, installazioni museali e immagini digitali. Questo lavoro è raccolto in Fra le immagini. Fotografia, cinema, video (La Differénce, Paris 1990, tr. it. di V. Costantino * Per ampliare i temi del presente saggio sono utili due altre traduzioni di lavori di Bellour: “Dispiegare le emozioni”, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Il corpo del film. Scritture, contesti, stile, emozioni, tr. it. di E. Carocci, Carocci, Roma 2006, pp. 111-150 e “Vedute d’insieme”, in G. De Vincenti, E. Carocci (a cura di), Il cinema e le emozioni, tr. it. di E. Carocci, Fondazione Ente dello Spettacolo, Roma 2012, pp. 45-85. Il saggio qui tradotto non va inoltre confuso con quello dello stesso Bellour “Lo spettatore pensoso”, in Fra le immagini: Fotografia, cinema, video (1990), tr. it. di V. Costantino e A. Lissoni, Bruno Mondadori, Milano 2007, pp. 73-78. [NdC]
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e A. Lissoni, Bruno Mondadori, Milano 2007) e L’entre images 2. Mots, Images (P.O.L., Paris 1998). A partire dagli anni Duemila inizia una terza fase del suo lavoro, caratterizzata da un rinnovato interesse per il cinema in quanto specifico dispositivo emozionale: in Le corps du cinéma. Hypnoses, émotions, animalités (P.O.L., Paris 2009) porta a conclusione e collega reciprocamente una serie di ricerche precedenti; in particolare oltre al tema dell’emozione ritorna un interesse per la relazione tra cinema e ipnosi risalente agli anni Ottanta. Bellour non rinuncia all’idea che le immagini di origine fotografica vivano metamorfosi, ibridazioni e manipolazioni di velocità all’interno dei differenti dispositivi di produzione e di esibizione; tuttavia egli si oppone alla tendenza che vede il cinema “rilocarsi” ovunque; e afferma al contrario con decisione la specificità irriducibile della sala cinematografica. Esemplari sotto questo aspetto i suoi ultimi due volumi: La querelle des dispositifs. Cinéma-installations, expositions (P.O.L., Paris 2012) e Pensées du cinéma. Les films qu’on accompagne. Le cinéma qu’on cherche à ressaisir (P.O.L., Paris 2016). Il saggio che presentiamo, uno dei capitoli centrali del volume Le corps du cinéma, rappresenta un passaggio fondamentale della riflessione di Bellour sul tema delle emozioni dello spettatore cinematografico. Secondo l’autore il cinema permette di sperimentare un particolare tipo di emozione, sulla base del proprio dispositivo di scorrimento di immagini in movimento. Questa emozione deriva dalla modulazione regolata di flussi energetici prodotta dal film sul corpo dello spettatore: questi si trova a sperimentare in prima persona una serie di figure dinamiche di slancio, trattenimento, esplosione, crescendo ecc., che vengono trasmesse tanto dai movimenti interni alle inquadrature (di macchina o dei soggetti) quanto dal montaggio. La peculiarità dell’emozione cinematografica è data da una duplice dialettica. Anzitutto l’emozione si gioca sul passaggio reciproco da un interno a un esterno del corpo dello spettatore: la coreografia emozionale si muove al tempo stesso nelle figure filmiche e nel corpo dello spettatore, il che permette di creare una fusionalità che non si ritrova in altre arti. In secondo luogo, l’emozione cinematografica si definisce nel passaggio da forme puntuali, inconsce, immediate e passive a forme complesse, coscienti, riflessive e attive: l’intervento della memoria permette allo spettatore di cogliere in forma riflessiva l’articolazione dei differenti movimenti coreografici del corpo del film e di ridefinirli in quanto forme di “pensiero”. In quest’ultimo senso l’emozione è definibile come il movimento di passaggio dalla “sensazione” o “affezione” al “sentimento”. È evidente il distacco dalla concezione cognitivista dell’emozione (su cui vedi il saggio di Plantinga in questo volume). La prima parte di questo estratto delinea un simile concetto di emozione sulla base di un dialogo triangolato tra la teoria del film (Daney, Schefer), la filosofia di Gilles Deleuze (vedi anche il saggio di Pisters in antologia) 76
Uno spettatore pensoso
e le neuroscienze cognitive di ispirazione fenomenologica: spiccano in particolare i nomi di Daniel Stern e di Antonio Damasio (del quale vedi il contributo in questo volume). Tale dialogo permette di giungere alla pregnante definizione che chiude la prima parte del saggio: “L’emozione è […] questa piega percettiva, discontinua, che scivola continuamente dall’esterno all’interno del corpo, e che continuamente oscilla tra il conscio e l’inconscio”. La seconda parte del saggio è dedicata alla definizione di “momento presente” all’interno dell’esperienza cinematografica, sulla scorta della riflessione di Stern. In particolare Bellour si interroga sul ruolo dell’inquadratura e propone la distinzione tra un presente definito dal montaggio tra inquadrature e uno definito dai movimenti e dalle trasformazioni interne al singolo piano.
Ma chi è in fondo questo spettatore, che sempre ritorna dall’infanzia in cui si era precostituito? Abbastanza adulto da abbandonarsi al film, e insieme in grado di trovare in questo abbandono una capacità, intermittente ma fluida, di trattenerne memoria – o almeno di lasciare che la memoria lavori in lui? Questo spettatore così immerso nell’ipnosi leggera del film è al tempo stesso attivo e passivo: una simile tensione è una delle linee di forza che attraversa L’excercice a été profitable, Monsieur.1 Serge Daney ne individua il principio nella duplice “passività” che sta al cuore del cinema: quella della pellicola che riceve l’impressione delle cose e quella dello spettatore che a sua volta se ne imbeve. Ma, per converso, questa “situazione di infermità corporea” si nutre di una seconda dualità che la accerchia, e che oppone il film e la sala cinematografica: “Lo spettatore ha due posti: uno immobile (inchiodato alla sua poltrona: visione bloccata) e uno mobile (prigioniero di una serie di immagini: visione liberata)”. La stessa scrittura critica interviene come traccia di questa liberazione, che permette di “passare dalla passività di colui che vede all’attività di colui che scrive”. 2 Ma ciò è possibile solo nella misura in cui: “Scrivere è riconoscere ciò che è già stato scritto. Nel film (in quanto archivio organizzato di segni) e in me (organizzato da un archivio di tracce mnestiche che, alla lunga, costituiscono anche la mia storia)”.3 Daney ritrovava così l’ipotesi, che era stata avanzata in particolare da Thierry Kuntzel negli anni Settanta, di un “lavoro del film” che implicasse un’attività mentale e quasi fisica dello spettatore. 77
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A una simile ipotesi si erano richiamati nel corso del secolo, in maniera esplicita o meno, tra gli abbandoni soggettivi e le convinzioni più o meno nervose della “scienza”, molti approcci e analisi di film e molte riflessioni sul e del cinema. In Francia, per esempio, una preoccupazione simile era stata espressa nel dopoguerra: dapprima seguendo prospettive psicologiche o antropologiche poco interessate ai film in sé (con Edgar Morin e i filmologi); poi in termini semiotico-linguistici e psicoanalitici (con Christian Metz). Oggi questa idea di un corpo a corpo tra lo spettatore e il film trova il suo punto di riferimento nella biologia del cervello. Sta qui tutta l’importanza del capitolo più programmatico di L’immagine-tempo: “Cinema, corpo e cervello, pensiero” – e in particolare della sezione 2, in cui Deleuze delinea un’analogia tra il corpo del cinema e la nuova scienza del cervello.4 Poco tempo dopo, Deleuze ritornerà su questo punto per rispondere alla domanda: “Su cosa basare una valutazione dei film?”. Risponde: Credo che ci sia un criterio particolarmente importante ed è la biologia del cervello, una microbiologia. Essa è in piena trasformazione e accumula scoperte straordinarie. Non saranno né la psicoanalisi né la linguistica a fornirci i criteri, ma la biologia del cervello, perché essa non presenta l’inconveniente di applicare concetti già pronti (come le altre due discipline). Si può considerare il cervello come una materia relativamente indifferenziata, e ci si può chiedere quali circuiti, quali specie di circuiti l’immagine-movimento o l’immagine-tempo tracciano o inventano, dal momento che i circuiti non preesistono.5
Senza dubbio è nell’opera di Antonio Damasio che possiamo trovare le suggestioni più adeguate per tali analogie. Queste offrono un motivo di interesse immediato: non devono presentarsi come delle applicazioni, tanto resta significativa la distanza tra i dati scientifici e l’esperienza viva delle opere; tuttavia nel passaggio dagli uni all’altra si impone l’idea di una medesima attività, in particolare riguardo alla formazione delle immagini, dell’intelligenza e della sensibilità che queste presuppongono, della natura degli effetti che esse sono in grado di provocare. Questo confronto può essere esaminato da molti punti di vista. 1. A partire da L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (il cui sottotitolo nella traduzione francese è “La ragione 78
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delle emozioni”, e che verrà seguito nell’arco di pochi anni da altre due grandi opere: Emozione e coscienza e Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello),6 Damasio si è imposto come il neurobiologo che ha rivalutato e sostenuto la funzione delle emozioni nell’insieme della vita umana (e animale), seguendo la linea di Darwin e di William James, e non mancando di dare al suo pensiero un’inflessione filosofica. Troppo a lungo opposta alla ragione – intesa come uno stato di coscienza e di condotta dipendente da un corpo cieco, e quindi come una sorta di fuga dalla realtà (questa la posizione di Sartre nel suo Esquisse) –7 l’emozione ritrova con Damasio (e con altri neuroscienziati) un valore di integrazione positivo, tanto rispetto a una concezione complessiva dell’evoluzione quanto nei confronti di un’idea dello sviluppo e del destino individuali, nella ricchezza e nella diversità dei loro elementi costitutivi. Questa concezione si basa su una maniera abbastanza innovativa di pensare le relazioni tra cervello e corpo, che chiarisce al tempo stesso qual è il ruolo della mente – nonché dell’anima. Il corpo non è più semplicemente istruito dal cervello, ma al contrario partecipa alla sua attività, secondo localizzazioni precise che creano un’interazione costante tra corpo e cervello, come tra le diverse parti di quest’ultimo, attraverso dei circuiti retroattivi la cui complessità è di fatto garante della singolarità irriducibile di ciascuna delle connessioni concepibili. Questa condizione consente una vera e propria reversibilità tra emozione e cognizione, tra pensiero e affetto. Tale reversibilità si trova ben espressa in un passo di Damasio che sembra fare eco al titolo del capitolo di L’immagine-tempo in cui Deleuze si rifà a L’uomo neuronale di Jean-Pierre Changeux per determinare la circolazione tra “corpo, cervello e mente”: Poiché il cervello fornisce i substrati più immediati della mente, in altre parole le mappe neurali, qualcuno potrebbe sostenere che la componente essenziale da considerare nel problema mente-corpo non sia il corpo ma il suo cervello. Qual è il vantaggio di considerare la mente nella prospettiva del corpo, invece che in quella del solo cervello? Il vantaggio è che così facendo perveniamo a una spiegazione razionale della mente che non otterremmo se la considerassimo unicamente in relazione al cervello. La mente esiste per il corpo: è impegnata nel raccontare la storia dei molteplici eventi che interessano il corpo, e si serve di quella storia per ottimizzare la vita dell’organismo nel
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suo complesso. […] La mente del cervello – alimentata dal corpo e al corpo attenta [the brain’s body-furnished, body-minded mind] – è utile al corpo nel suo complesso.8
2. È impressionante la costanza con cui Damasio evoca il paradigma del “film” (movie) per descrivere i processi attraverso cui le emozioni si dispiegano dal corpo al cervello sviluppando quel sentimento di sé che chiamiamo coscienza. All’inizio di L’errore di Cartesio, prima ancora che ne sia pronunciato il nome, la metafora del film si impone, suscitata dall’immagine del treno: Rappresento in termini concettuali la percezione dei sentimenti come l’osservazione di un paesaggio dal finestrino [di un treno]: esso appare in costante trasformazione, e spiccano in esso oggetti in movimento più o meno luminosi e più o meno rumorosi. Questo paesaggio è in effetti il corpo. […] A grandi linee, la percezione di un certo sentimento corrisponde all’informazione sensoriale che proviene da una certa parte del paesaggio corporale nell’istante t1.9
Vi sarebbe dunque un “film cerebrale”, costantemente evocato, di cui il film reale fornirebbe un’immagine attendibile in quanto esso stesso sarebbe concepito sul modello, più o meno virtuale, di un corpo-cervello che si sviluppa per potersi proiettare nel mondo e come mondo. Questa fu l’intuizione fondamentale di Epstein, così come di Artaud o di Ėjzenštejn, oggi riformulata a suo modo da Deleuze: il cinema, corpo-cervello, si dispiega come un’immagine del pensiero. Inoltre, tra i riferimenti tratti da tutti i possibili ambiti artistici, Damasio richiama spesso l’esempio di film reali per illustrare ciò che cerca di rendere comprensibile del funzionamento dell’organismo umano. I film sono la rappresentazione esterna più fedele della narrazione dominante che avviene nella nostra mente. Quel che succede in ognuna delle riprese, le diverse inquadrature di un soggetto che si possono ottenere spostando la macchina da presa, quel che succede nella transizione tra sequenze realizzata in fase di montaggio e quel che succede nella narrazione costruita con una particolare giustapposizione di sequenze è paragonabile, per certi versi, a ciò che succede nella mente, grazie all’apparato responsabile della creazione delle immagini visive e uditive e a modalità di azione quali i molti livelli dell’attenzione e della memoria operativa.10
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In un intervento più recente dedicato espressamente al cinema, Damasio scrive ancora, riassumendo la sua prospettiva: Le menti brillanti che decenni or sono hanno sviluppato le tecniche cinematografiche si sono ispirate, a volte esplicitamente altre volte inconsciamente, ai meccanismi della mente umana prodotti dal più grande e più bizantino degli studi cinematografici: il nostro cervello.11
Occorre precisare questa corrispondenza su due punti. È evidente che il film deve la sua virtù di modello al fatto di sviluppare immagini e suoni nel tempo. Se Damasio arriva a parlare in questo senso di “disposizione cerebrale alla narrazione”12 è perché vede nella formazione originaria delle immagini, determinate esse stesse dalle emozioni primarie del corpo, la condizione necessaria per lo sviluppo umano, ivi compreso quello del linguaggio. Questa visione inglobante si accorda con quella proposta da Daniel Stern per lo sviluppo del bambino. Possiamo immaginare fino a che punto una narratività così estesa coinvolga allo stesso tempo ogni evento di racconto e le forme visibili e sensibili secondo le quali esso si manifesta. Di nuovo, come anche in Mesmer, “immagine” (nel senso di configurazione mentale) vale per tutte le modalità sensoriali suscettibili di essere attivate; ma la metafora (e la realtà) del film conferiscono alle immagini visive e uditive una portata particolarmente significativa. Del resto è proprio come emblema del funzionamento della memoria che l’idea del film prende corpo. In due occasioni Damasio cita l’esempio di Brigadoon (1954), commedia musicale di Vincente Minnelli, richiamando il tema del villaggio il cui nome non figura su alcuna mappa e che si risveglia una volta sola ogni cento anni.13 Egli vi riconosce un’illustrazione del rapporto tra quello che, nel suo secondo libro, chiama spazio delle immagini e spazio delle disposizioni. Il primo è lo spazio in cui i contenuti mentali manifesti si mescolano ad altri che rimangono inconsci;14 il secondo invece è lo spazio di disposizioni latenti, destinate a rimanere inconsce, “registrazioni astratte di potenzialità”15 che formano una sorta di archivio memoriale che permette la riattivazione di un’immagine del passato. A questa prima distinzione se ne aggiunge poi una ulteriore che separa a sua volta lo spazio delle immagini tra conscio e inconscio. 81
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Colpisce (in particolare per quello che suggerisce l’esempio di Brigadoon, come idea-simbolo di questo specifico film e come immagine della realtà di ogni film) il richiamo metaforico tra tali distinzioni e i diversi modi in cui è stata presa in considerazione la peculiarità del film prescritta a sua volta da quella del suo dispositivo: il suo scorrere – in quanto tale da implicare una rimemorazione senza fine e una sorta di oblio programmato. Ma potremmo citare anche la determinazione di un inconscio ottico in Benjamin, la tensione introdotta da Kuntzel tra il film-pellicola e il film-proiezione,16 la concezione del sistema o del blocco testuale nata dalla semiotica del cinema e da alcune analisi filmiche, la relazione tra il tutto e l’intervallo nel pensiero di Deleuze. In particolare, di fronte alla tensione tra questi spazi gemellati nel corpo-cervello si pensa alla dualità che si sprigiona dalla piega – alla “percezione tra le pieghe”.17 In questo senso l’opposizione tra livello macroscopico e microscopico, che egli riformula anche in termini di conscio e inconscio (opposizione netta ma allo stesso tempo fatta di permeabilità e di passaggi, sviluppata da Deleuze a partire dalla fantasticheria monadologica di Leibniz) sembra ben corrispondere alle distinzioni proposte da Damasio tra spazio delle immagini e spazio delle disposizioni – e, all’interno dello stesso spazio delle immagini, tra conscio e inconscio. Essa ne esprime, sul piano della finzione filosofica, la virtualità scientifica, nel senso in cui Deleuze intendeva richiamarsi alla biologia del cervello per una comprensione dei film. 3. Come abbiamo suggerito, esiste un’indubbia convergenza tra il pensiero di Damasio e quello di Daniel Stern. Essa si ritrova nel parallelismo che in diverse occasioni Damasio stabilisce tra il quadro generale dell’evoluzione e quello dello sviluppo del bambino. Ma occorre innanzitutto specificarla in relazione alle emozioni. In due occasioni Damasio ha esplicitato la sua vicinanza nei confronti di Stern, portata alla sua attenzione da alcuni lettori del suo primo libro.18 Questa riguarda primariamente la relazione tra gli “affetti di vitalità” di Stern e ciò che Damasio chiama “sentimenti di fondo [background feelings]”.19 A partire da L’errore di Cartesio, egli propone una tripartizione tra le emozioni primarie (o di base), le emozioni secondarie (o sociali) e i sentimenti di fondo. Le due prime classi tracciano una raffinata cartografia degli affetti categoriali darwiniani, seguono la suddivisione classica e procedono quindi dall’innato all’acquisito, dal naturale al culturale. I 82
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sentimenti di fondo al contrario descrivono un paesaggio in certo modo anteriore e preliminare del corpo e del sentimento che ne possiamo derivare. Damasio ha leggermente corretto da un libro all’altro la sua posizione su questo concetto. In un primo momento egli lo descrive come la “percezione dello stato di fondo del corpo”, e quindi lo “stato corporeo che prevale tra le emozioni”.20 In testi successivi ha parlato invece di “sentimenti – emozioni di fondo [background emotions]”,21 per giungere infine decisamente al termine “emozioni”.22 Nella descrizione più serrata che troviamo nei suoi scritti, in cui questi termini sembrano in parte sovrapporsi, egli delinea una lista aperta di quegli stati del corpo che “contribuiscono a definire il nostro stato mentale e colorano la nostra vita […]: l’affaticamento, l’energia, l’eccitazione, il benessere, il malessere, la tensione, il rilassamento, l’agitazione, il trascinarsi, la stabilità, l’instabilità, l’equilibrio, la mancanza di equilibrio, l’armonia, la discordia”.23 Come si può osservare, si tratta di stati più o meno continui più che di spinte emozionali propriamente dette, anche se i primi possono costituire lo sfondo e favorire l’avanzare in primo piano delle seconde.24 Per quanto sia difficile assumere una posizione netta, non ci sembra del tutto esatto affermare, come fa Damasio, che la nozione così delineata di emozioni o sentimenti di fondo “si avvicini a quella di affetti di vitalità” di Stern, e che entrambi siano debitori, come egli tiene a precisare, delle intuizioni fondamentali di quell’allieva di Whitehead che fu Susanne K. Langer.25 In effetti, le “forms of feeling” di Langer – di cui l’arte fornisce il modello, e da cui lo stesso Stern trae ispirazione – dipendono innanzitutto da forme, forze e figure sensibili.26 Ma se gli affetti di vitalità accompagnano la modulazione della vita in maniera più continua rispetto agli affetti categoriali (ovvero quelli che Damasio definisce emozioni primarie e secondarie), e se essi sembrano in tal modo ricongiungersi con le emozioni di fondo (“queste interazioni mutevoli che costituiscono il nostro ‘stato d’essere’”),27 purtuttavia essi forniscono una segmentazione [découpage] costante e discontinua dell’esperienza soggettiva e intersoggettiva. Proprio in virtù del fatto che non sono discreti, né carichi di contenuto come gli affetti categoriali, questi tratti formali, questi marcatori di intensità, queste scansioni individuate di tempo e spazio, sono tanto più singolari, efficaci, attivi e pienamente vivi. È il fatto di poterli distinguere ed esaminare 83
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singolarmente e nel loro insieme come altrettanti eventi pregnanti, propri dell’immersione del corpo affettivo nella realtà umana, che permette di supporre una loro equivalenza con le figure materiali delle opere d’arte e in particolare con quelle del cinema. Così, per quanto essenziali in ragione del loro carattere di integrazione all’interno del sentimento fluttuante del sé che investe l’organismo, le emozioni o sentimenti di fondo non sono davvero in grado di aprire una zona di comprensione analoga a quella degli affetti di vitalità – di cui in Damasio non sembra trovarsi un equivalente esatto, per posto e funzione. Del resto lo stesso Stern nel suo ultimo libro fa notare che “i sentimenti di fondo descritti da Damasio sembrano sovrapporsi parzialmente agli affetti vitali”,28 per poi operare una differenziazione tra le due nozioni – sia dal punto di vista del loro valore di evento, ovvero per la loro dimensione diacronica, sia per il loro carattere analogico. Tale distacco da Damasio si inserisce nella sua nuova prospettiva di studio: la riflessione sul “momento presente”; in questo nuovo contesto egli riafferma il carattere centrale degli affetti di vitalità per comprendere “la linea di tensione drammatica” che si sviluppa, a un livello micro-elementare e al di là di questo, nell’esperienza della psicoterapia così come nel corso della vita quotidiana e all’interno delle diverse esperienze artistiche. […] Come abbiamo detto, “emozione” e “sentimento” si sostituiscono reciprocamente in Damasio, per quanto egli cerchi di stabilire tra i due una differenza ben definita. Una simile distinzione rimane tuttavia difficile da precisare: da un lato essa appare piuttosto di ordine strategico, dall’altro implica un livello di complessità piuttosto alto.29 Possiamo in ogni caso ricondurla a due divaricazioni essenziali. Secondo la prima, l’emozione può essere compresa come la risposta immediata del corpo a uno stimolo esterno (è in questo senso che essa diviene eventualmente osservabile, anzi quantificabile); essa è perciò “pubblica” mentre il sentimento rimane “privato” e più propriamente mentale, sfuggendo quindi a ogni ascendenza esterna. “Il contenuto essenziale dei sentimenti è la mappa di un particolare stato corporeo; il substrato dei sentimenti è l’insieme delle configurazioni neuronali corrispondenti 84
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allo stato del corpo e dalle quali può emergere un’immagine mentale di quello stato”, afferma Damasio, articolando e coniugando i due termini come segue: “il sentimento di un’emozione è l’idea del corpo nel momento in cui esso è perturbato dall’emozione”.30 E precisa ancora nel suo studio dedicato al cinema: In questo contesto, i sentimenti indotti dall’emozione costituiscono la tappa successiva, il compimento supremo del processo: essi cioè risultano nella percezione complessiva di tutto ciò che si è verificato durante la nostra emozione – azioni, idee, stile di ideazione –, intervenendo letteralmente a ruota rispetto a questa. Provare un’emozione significa percepire ciò che accade mentre questa si produce – tanto nel corpo, realmente o in maniera simulata, quanto nella mente. Il che vuol dire, in termini non scientifici, che il processo parte dalla mente verso il corpo e ritorna alla mente.31
La seconda divaricazione risiede nel fatto che il sentimento, situato sul versante della mente più che su quello del corpo, è successivo rispetto all’emozione; esso ne estende e ne traduce l’effetto come coscienza singola. Il sentimento diviene allora la durata dell’emozione, e costituisce quindi la base modulata su cui possono venire a innestarsi delle nuove emozioni, le quali a loro volta indurranno dei sentimenti più vivi o diversi, secondo un effetto di coinvolgimento reversibile e infinito – come ci accade in continuazione in quell’esperienza così particolare che è la proiezione di un film. Lo spettatore cinematografico riconosce di essere preda di mescolanze incontrollabili, e che la sua situazione di corpo immerso nell’ombra mette fortemente in crisi la separazione tra l’aspetto sociale dell’emozione e la dimensione privata del sentimento. Il mistero del suo corpo immobilizzato, in cui tuttavia non cessa di animarsi la vita oscura che lo circonda, assorbita e trasfigurata da quella che proviene dal film, è tale da rendere meno probabile una divisione in cui la coscienza ha un proprio ruolo. È tale situazione del corpo dello spettatore infatti a consentire il passaggio virtuale dall’emozione alla coscienza che ne rivelerebbe il sentimento, o se si preferisce a una coscienza propria del sentimento. Anche le lacrime, che possono all’improvviso impossessarsi del corpo, sono concentrate sul volto, come se questo dovesse diventare immagine di un pensiero interno che derivi tanto dall’apice di un sentimen85
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to quanto dallo shock propriamente detto di un’emozione – per quanto questa abbia sempre la capacità di farlo precipitare e di accentuarlo. L’immagine per sempre emblematica del volto di Anna Karina scintillante di lacrime, teso verso lo schermo della Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer (1928, in Questa è la mia vita, 1962, Jean-Luc Godard). Simbiosi di primi piani opposti e come confusi, che mostra con insolita chiarezza che la narrazione di un destino e l’empatia che questo suscita dipendono da una certa messa in forma, in termini di forze e intensità, di spazi, ritmi e toni. Così questi due termini, emozione e sentimento – insieme ad altri, come sensazione, ma anche affetto o affezione, o ancora passione – delineano l’ossatura sensibile del libro che ha cercato di evocare, nel modo più diretto e come una materia di pensiero, l’esperienza dello spettatore. In L’uomo comune del cinema –32 in cui, scriveva Deleuze, “la teoria forma una specie di grande poema” –33 Jean-Louis Schefer non ha potuto far altro che mescolare questi termini, riversarli gli uni negli altri, farli derivare l’uno dall’altro. Egli ci lascia così intravedere tra essi delle differenze nette per quanto sottili e, allo stesso tempo, quasi impossibili da delimitare; come per incarnare sensorialmente le definizioni precise e le distinzioni di principio mobilizzate dalla scrittura scientifica in un autore come Damasio. Ascoltiamo allora in che modo le parole dell’uomo comune si sforzino di cogliere la sostanza fluttuante degli eventi della sensazione e del pensiero. L’involucro delle loro frasi può solamente suggerire la confusione di un’esperienza intima che il tempo, offerto come percezione, rende del tutto unica. Misteriosamente legata all’esperienza di una profondità di sentimenti (ma legata pure a una vita del tutto particolare degli affetti isolati), quest’arte desta una memoria34 / degli affetti (e appena dei sentimenti, delle mozioni di sentimenti legate ad azioni impossibili)35 / questi alberi – ripresi con un movimento lento e, d’improvviso, sublime – sono degli affetti innominati o ignoti; sono una specie di aggiramento silenzioso, rigoroso e delicato intorno all’emozione più sconosciuta36 / la verità e […] l’estraneità di affetti compiuti, nuovi – e dominatori, perché la loro entità è inedita, inediti i loro rapporti d’oggetto37 / esistono certi affetti – emozioni, sentimenti di pena, di collera38 / Le sensazioni, i dolori o le paure sono come desideri composti attraverso una parcellizzazione del mondo; […] ed è innanzitutto il mondo degli oggetti, colto in certi particolari, a generare le emozioni. […] questi
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affetti, nati da sproporzioni nuove e incessanti nell’immagine del mondo39 / un puro affetto e, paradossalmente, non c’è rappresentazione in grado di assicurare la sua permanenza / È dunque per questo motivo che lo spettatore (sostenuto dalla speranza di un corpo sconosciuto fatto di tentacoli di emozioni o di sentimenti)40 / ventaglio confuso e precipitoso delle mie emozioni41 / questo amalgama composto di corpo e di coscienza delle immagini che fanno quindi di me tutta la novità di queste sensazioni42 / il colore, quel colore affettivo di cui sono provviste le immagini, ‘ancor prima’ di rappresentare per lui degli atti umani43 / Ora, se il tempo è diventato visibile in determinate azioni, occorre però che esso sia la nostra emozione44 / l’estraneità persistente degli affetti che non riguardano la dimensione possibile del corpo né la sua immaginazione, ma, potremmo dire, unicamente il suo spostamento – e la sua quantità di spostamento senza organi – come emozione45 / queste apparenze stesse sono degli affetti. Questi affetti non hanno volto, non hanno ancora un nome: eppure, in maniera sorda, ci adagiamo in essi, acconsentiamo a questi strani antecedenti di emozioni46 / Sapevamo dunque che quegli stessi sentimenti impalpabili […] quelle emozioni più fini erano come dita leggere47 / un’emozione percettiva e non la durata di qualcosa di costantemente visibile.48
Queste circonlocuzioni di parole di un’astrazione sensibile mirano a circoscrivere una realtà interna del corpo proiettata nel film, che una visione ravvicinata e ossessiva tenderebbe a voler segmentare in un’analisi delle inquadrature e degli elementi interni alle inquadrature – nelle inflessioni minime ma penetranti da cui si originano le impressioni generali. Basta ricordare come Daney, per esempio, prelevava il termine “emozione” all’interno della concatenazione “sensazione-emozione-sentimento-idea”, per individuarvi il cuore del suo desiderio del cinema.49 Senza addentrarsi negli ampi e subitanei movimenti propri dei film presi in esame, è sufficiente evocare la sua intuizione di “momenti misteriosamente precisi” in grado di provocare l’emozione. Il mistero di questa precisione si chiarisce in gran parte se si penetra nel dettaglio di questi momenti, se necessario fino alla vertigine, secondo delle micro-oscillazioni più o meno autonome o reciprocamente sintonizzate. Daney sosteneva che in questi casi l’emozione gli pareva risaltare sulla realtà degli “stati intermedi” che il sentimento si trova a incarnare. Si tratta appunto di designare questi affetti prolungati, più facilmente riconoscibili, nominabili, che rimandano ad altrettanti contenuti psichici, che si suppone qualifichino le emozioni del cinema – e dinanzi ai quali la maggior parte delle 87
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critiche, giornalistiche o scientifiche, si fermano. Ma si tratta anche di toccare quelle costanti più inaccessibili del corpo che Damasio definisce come sentimenti o emozioni di fondo. Laddove invece l’emozione propriamente detta, che prendiamo qui in esame, sciolta dall’una e dall’altra di queste due ascendenze cui pure essa è vicina, sembra poter rispondere degli effetti di modulazione più immediati e variati, che da un lato il film manifesta e dall’altro il corpo dello spettatore esperimenta, mostrandosi capace di riconoscerli e quindi di pensarli. Da qui, il desiderio di approfondire questo temine “emozione”, a costo di attribuirgli una varietà e un’ampiezza eccessiva che comprendono, per un verso, la sensazione nel suo carattere più semplice, e per l’altro, il sentimento più generale con cui in continuazione l’emozione viene a legarsi. L’emozione è questo shock, questa piega percettiva, discontinua, che scivola continuamente dall’esterno all’interno del corpo, e che continuamente oscilla tra il conscio e l’inconscio.50 La definizione cui siamo appena giunti può aiutarci a precisare ulteriormente la relazione che si delinea, nell’ultimo libro di Daniel Stern, tra ciò che egli definisce “momento presente” e l’inquadratura cinematografica – relazione che egli non prende esplicitamente in esame nella sua realtà artistica, ma che tuttavia il suo pensiero implica continuamente. Perché il momento presente è anzitutto al cinema l’inquadratura attraverso la quale tutto avviene, tanto nella forma degli avvenimenti che si svolgono al suo interno quanto nello svolgersi dell’inquadratura come avvenimento in sé. Analizzare le figure che illuminano le inquadrature presuppone anche trattare come figura il piano stesso – potremmo dire, figure dello svolgimento [allure] delle inquadrature, in quanto possiedono una velocità, oltre che un’apparenza. Se Il mondo interpersonale del bambino permette di tracciare un’analogia tra il modello formazione-sensazione-percezione del mondo nel neonato e l’esperienza dello spettatore cinematografico, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana51 introduce due novità fondamentali. Innanzitutto, questo testo non riguarda esclusivamente la prima infanzia, per quanto tale riferimento resti forte, bensì il soggetto umano colto nella sua totalità. Non solo: se il modello dell’esperienza terapeutica rimane centrale, quest’opera affronta fin dal titolo la vita quotidiana e 88
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in modo particolare l’esperienza dell’arte – che in virtù della sua massiccia presenza avrebbe anche potuto figurare come terzo termine nel sottotitolo dell’opera. In secondo luogo, questo testo si concentra sulla segmentazione del tempo, in base alla nozionerealtà di momento. Nella prefazione e nei ringraziamenti, Stern afferma che il suo primo esame del momento presente risale al suo uso del film e del video negli anni Sessanta e Settanta, finalizzato allo studio delle interazioni tra la madre e il bambino. “Un mondo affascinante si spalancò davanti ai miei occhi e mi resi conto di quanto possa accadere in un momento che dura solo pochi secondi.”52 Egli elenca le tecniche utilizzate: fermo immagine, ralenti, riprese segmentali. Si sofferma su una microanalisi realizzata al tavolo di montaggio, che descrive i minimi movimenti reciproci di un padre e di un neonato che fatica a addormentarsi.53 Descrive così la propria pratica di “intervista microanalitica”, sviluppata in seguito e definita “breakfast interview”: una situazione nel corso della quale il paziente è chiamato a ricostruire l’esperienza vissuta attraverso alcuni secondi di particolare intensità, durante la prima colazione. L’intervista dura circa un’ora e mezza. Chiedo al soggetto che cosa facesse, pensasse, provasse, vedesse, udisse e, inoltre, dove si trovasse, quando si era mosso, se fosse nella posizione dell’attore o dello spettatore, oppure in una posizione intermedia. Gli chiedo di ricostruire le sue esperienze come in un film, come se stessimo facendo un montaggio di ciò che attraversava la sua mente. Io sono il cameraman e lui è il regista, che mi indica come usare la macchina da presa. Questa inquadratura è in primo piano o è ripresa a distanza? In che modo devo montare due scene consecutive? Dove si trova la cinepresa e qual è la sua angolazione rispetto all’azione? In altre parole, faccio tutte le domande necessarie per ricostruire al meglio quella che probabilmente è stata la sua esperienza.54
Come in Il mondo interpersonale del bambino, la musica e la danza sono in primo piano tra le arti che Stern convoca continuamente come orizzonte di riferimento. Esse si legano agli inizi e alla stessa concezione della sua pratica. Stern evoca così con passione il suo incontro, avvenuto a New York, con un gruppo di coreografi che utilizzavano delle tecniche simili (fermo immagine, rewind…), le reciproche visite in laboratorio e in studio, e l’amicizia di una vita che lo ha legato a Jerome Robbins e a Robert Wil89
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son, ai quali deve la possibilità di aver saputo penetrare “la sfera non verbale”.55 D’altro canto, la sua descrizione dei parametri che distinguono il momento presente fa ricorso a delle analogie precise con la poesia; Stern si richiama inoltre alla fotografia e alla pittura, per interpretare a suo modo l’opposizione tradizionale tra arti del tempo e dello spazio. Con grande semplicità, precisa: “I profili temporali e gli affetti vitali riguardano ogni nostra esperienza, comune o estetica”.56 Il momento presente si caratterizza innanzitutto per la sua unicità, la porzione di mondo che racchiude in sé, la raccolta di una grande quantità di componenti in una breve durata di tempo. Esso corrisponde a un tempo della coscienza; tuttavia questa è tanto implicita quanto esplicita (awareness/consciousness), e definita prima di tutto dal suo affetto, il sentimento proprio dell’esperienza. Il suo oggetto mentale poi è indifferentemente reale o virtuale. Possiamo riconoscere due grandi aspetti del momento presente: esso è formato da affetti di vitalità e sviluppa una storia – per quanto minima. Il momento presente “mette in scena una rappresentazione di vita vissuta, caratterizzata da un profilo temporale, simile allo svolgimento di una frase musicale”.57 Stern definisce questo momento come kairòs, soggettivamente prelevato sulla linea del Chronos; egli parla anche di micro-kairòs, riguardo alle unità più piccole che si possono isolare, ma aggiunge anche che la sua ricerca intende “dimostrare che tutti i momenti presenti sono anche dei momenti di kairòs, indipendentemente dalle loro dimensioni”.58 Il momento presente è definito come “l’elemento costruttivo basilare delle esperienze psichiche soggettive che si estendono nel tempo”.59 I momenti presenti hanno secondo Stern una durata che si estende da 1 a 10 secondi, e la loro media si attesta tra i 3 e i 4 secondi. Una lunga serie di riferimenti relativi ad ambiti molto diversi ne stabilisce la coerenza. Così nel linguaggio, le cui unità sono state maggiormente analizzate, la maggior parte delle frasi pronunciate si aggirano intorno ai 3 secondi, le più lunghe vanno dai 4 ai 5 secondi. A questa durata corrisponde inoltre a grandi linee il tempo di ciascun interlocutore negli scambi verbali. E così pure il tempo che occorre per recitare ad alta voce il verso di una poesia. Le durate del momento presente in ambito musicale si estendono, secondo diversi autori citati da Stern, tra 2 e 8 se90
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condi. Simili indicazioni di durata si ritrovano in tutta una serie di azioni, come i movimenti corporei, i rituali, la danza. Stern ricorda infine le interazioni non verbali tra la madre e il bambino, che si costituiscono secondo ciò che in Il mondo interpersonale del bambino è definito “accordo affettivo”; e sottolinea, senza però approfondire questo punto, che il ciclo della respirazione dura in media intorno ai 3 secondi. È qui che prende forma un parallelo suggestivo tra momento presente e inquadratura cinematografica. Le inquadrature infatti sono dei blocchi di durata unitaria, divisibili al loro interno a partire da azioni e scansioni variabili, che producono (spesso in pochi secondi) un’inesauribile ricchezza. Un punto su cui insisteva Christian Metz, ricordando che gli elementi dell’inquadratura, a differenza di quelli discreti della lingua, “sono indefiniti in numero e natura” e che se “è possibile scomporre un piano, non è però possibile ridurlo”.60 Si obietterà che se le inquadrature sono di durate differenti, esse sono spesso più lunghe del normale, che ve ne sono alcune veramente lunghissime, anzi interminabili, come è stato dimostrato da Hitchcock a Warhol. E anzi il cinema moderno, da Béla Tarr a Gus Van Sant per esempio, ha fatto di tutto per ritrovare la durata in teoria priva di tagli delle vedute dei Lumières – prima che il caso e le decisioni di un montaggio imprevisto ne spezzassero la temporalità. Senz’altro. E anche nei film in cui è più evidente quell’arte del montaggio di cui Griffith fu il fondatore, la durata dei piani varia più di quanto si possa credere. Yuri Tsivian ha potuto stabilire per esempio che in Intolerance (1916) la lunghezza media dei piani nell’insieme del film è di 5,9 secondi, ma la media di ciascuna delle quattro parti che compongono il film va da 4,9 a 6,7 secondi; il piano più lungo della parte dedicata alla storia francese dura inoltre ben 32 secondi, mentre quello della parte dedicata alla storia moderna arriva fino a 53 secondi.61 Sulla questione cruciale della durata dei momenti presenti Stern mantiene una posizione sfumata. Da un lato, egli si stupisce che un medesimo tempo di 3-4 secondi possa servire tanto a raccogliere dei dati percettivi che a sviluppare delle unità funzionali di comportamento o a prendere coscienza di un avvenimento. “Gli esseri umani sembrano predisposti a adattare gli eventi a misura della loro mente, trasformandoli in momenti presenti.”62 Dall’altro lato sottolinea che entro certi limiti, di cui stabilisce 91
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nuovamente la variazione tra 1 e 10 secondi, il momento presente è un’unità psicobiologica flessibile, sulla base di fattori quali la modalità, la complessità, la familiarità. Egli afferma però che, in determinate condizioni, il momento presente può prolungarsi, come in certi stati di meditazione o in quegli “istanti di vita” (moments of being) che ritroviamo nell’opera di Virginia Woolf. Egli cita anche altri contributi che estendono la concezione di unità autonome fino a una durata di 30 secondi. Stern tende a individuare al loro interno (e questa ambiguità è affascinante) una serie di variazioni che finirebbero per formare delle sequenze di momenti presenti differenti. Egli insiste così sul fatto che i momenti presenti si raccordano gli uni agli altri in modo molto variabile: in certi casi, essi sono separati da veri e propri vuoti di coscienza; “altre volte compongono sequenze di momenti contigui, che si succedono senza soluzione di continuità, come un taglio netto tra una scena e l’altra di un film”.63 Aggiunge infine che nelle situazioni di particolare concentrazione o di intensa carica affettiva, i momenti presenti sembrano susseguirsi a intervalli ravvicinati e che, a uno sguardo attento, sembrerebbe che uno “stesso” momento presente si ristrutturi internamente (come fanno per esempio diversi punti di vista all’interno di una stessa scena). Insomma, Stern cerca in tutti i modi di combinare i dati esatti che gli provengono dall’osservazione sperimentale – di cui la sua pratica terapeutica fa parte, pur senza ridursi a essa – con le realtà fluttuanti della vita e dell’arte. Da dove deriva l’idea di far corrispondere al momento presente l’inquadratura cinematografica? Da dove nasce l’intuizione di sovrapporre la successione virtuale dei momenti presenti al concatenamento del montaggio – sia che questo venga inteso come collegamento tra due inquadrature, oppure in quanto insorgenza di una o più variazioni significative all’interno di una stessa inquadratura? E qual è l’interesse di una simile tentazione? Innanzitutto, si può leggere in essa una rinnovata adesione alla forza del dettaglio, a prescindere dal suo livello di implicazione, intricazione, o localizzazione nello scorrere del film. Sulla base però della convinzione che nell’istante in cui l’inquadratura cambia (per lo meno nei film degni di questo nome) un mondo intero gira ogni volta su se stesso e dispiega una costellazione di richiami; e questo grazie a un effetto di ritrazione interna sul 92
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suo momento proprio che, a partire da lì, si diffonde su altri momenti. Uno dei titoli provvisori di Il momento presente era “Un mondo in un granello di sabbia”.64 È un invito a venerare il Dio che giace nei dettagli dell’inquadratura. E allo stesso tempo, un invito a prestare una rinnovata attenzione alle numerose forme del montaggio interno all’inquadratura, che possono essere lette come altrettanti modi di cristallizzare, separare, concatenare dei momenti dotati di una autonomia relativa. Di nuovo, non si tratta di applicare un modello, ma di coglierne la virtù analogica. Questa dipende dal carattere polifonico, o, dice Stern, “politemporale”, del momento presente e degli affetti di vitalità che lo compongono, lo innervano, come altrettante modalità del vivente immediato. Tra il momento presente e l’inquadratura si instaura così un alternarsi incrociato che dobbiamo tanto intendere in un senso letterale, per tutto ciò che esso implica, quanto commisurare incessantemente alla realtà dei film. Quando Stern afferma: “Nel suo piccolo, ogni momento presente è unico”,65 io vi rivedo l’unicità dirimente di ciascuno dei piani di Bresson. Ma se penso ai movimenti di macchina di Elephant (2003) di Gus Van Sant, credo che siano i micro-avvenimenti che li scandiscono a determinare in altro modo una suddivisione di montaggio; e che nei piani sequenza spetti all’intermittenza stessa della capacità d’attenzione dello spettatore l’operare dei tagli di montaggio, secondo la dinamica corporea che lo lega allo spettacolo. In questo senso, l’idea-realtà del momento presente sembra fare appello a un’attenzione rinnovata per il corpo dello spettatore che si riflette nel corpo del film. Dal ciclo naturale della respirazione, citato da Stern, che risulta particolarmente impressionante (termine che, associato a quello di ritmo, veniva spontaneo a Daney), fino a questa intensa coscienza di sé nel tempo (sempre più o meno esplicita o implicita) che il momento presente presuppone. Tempo del presente terapeutico, con la sua matrice intersoggettiva, o tempo dell’empatia vissuta con il film; tempo scandito da ciascuno in base a quanto riceve dal film stesso e dalla sua maniera di scandirsi. Sembra paradossale che nel riferimento costante di Stern alle diverse arti manchi proprio il cinema; tuttavia ciò è dovuto per un verso al ruolo attivo che egli tende a riconoscergli nell’elaborazione dei modelli di esperienza, e per altro verso alla sovrappo93
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sizione, costantemente riaffermata, del momento presente con la realtà di una storia (story). In particolare il quarto capitolo del libro è dedicato all’esame di queste storie minime, non verbali, che vanno a comporre altrettanti momenti presenti (egli arriva perfino a riformulare le sei domande classiche usate per definire i momenti della trama: chi? quando? perché? cosa? come? dove?). Stern riprende l’idea di “momento decisivo” di Cartier-Bresson, per dilatare questo istante e farne, attraverso l’aggiunta di un contorno temporale immaginario, “una breve narrazione emozionale”.66 È precisamente quello che il cinema non fa che produrre, piano dopo piano, allorché nei film dei grandi autori si operano contrazioni, condensazioni, sospensioni, dilatazioni: tutta una serie di procedimenti espressivi mediante i quali la vita fluisce nella sua estensione e sfavilla nell’intensità della sua realtà spirituale e materiale. Quello che il film, momento dopo momento, compie e persegue è esattamente quel processo che Stern descrive quando cerca di cogliere l’effetto prodotto dagli affetti di vitalità, “come delle frasi musicali”. Gli affetti vitali che accompagnano il flusso affettivo-intenzionale trasmettono una linea di tensione drammatica e un senso di coerenza al momento presente. Gli affetti vitali funzionano come una dorsale temporale su cui è fissata la trama […] conferiscono al momento presente il senso drammatico di una storia vissuta.67
Inoltre, per quanto queste trame possano apparire minimali, raccolte intorno all’attualità del loro evento, esse non mancano tuttavia di introdurre, proprio a partire dalla loro condizione di presente, un’apertura temporale della quale il momento presente rappresenta una sorta di sintesi passeggera. Stern sviluppa infatti l’idea che il momento presente sia fondamentalmente il luogo di una riarticolazione della memoria attraverso un presente continuamente rinnovato. E questo vale a livello sia del vissuto psicologico sia della realtà neurobiologica del funzionamento della memoria. “Il momento presente genera una forma particolare di coscienza e viene codificato nella memoria.”68 E dunque: quando “un nuovo momento presente prende forma, esso riscriv[e] le tracce neurali precedenti e, quindi, i ricordi del passato”.69 Il momento presente mantiene allora la sua consistenza, senza rischiare di essere eclissato dal passato da cui proviene, né cancellato dal futuro che esso 94
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prepara; e viene a comporre, nel passaggio dall’uno all’altro, una sorta di matrice virtuale. Questa estensione del momento presente nei termini della memoria apre la questione della sua collocazione e del suo effetto all’interno dell’insieme più vasto sul quale esso per sua natura viene prelevato. L’esempio della frase musicale argomenta l’idearealtà del momento presente attraverso tutta una serie di analogie e (potremmo dire) di analisi, suggerendo la pressione aperta di andirivieni permanenti tra il dettaglio del momento presente e i diversi livelli dell’insieme, tanto riguardo al tempo della vita individuale quanto a quello dell’opera d’arte. E questo senza mai fare appello a delle logiche interpretative. Si tratta piuttosto di un’affermazione variata, composita, della vita stessa sotto i suoi differenti aspetti; essa è quindi un’estensione libera o, come suggerisce l’ambito musicale, una modulazione, che implica in misura maggiore o minore un’organizzazione. Una simile visione entra così in risonanza con due modi di intendere il film, di cui è più interessante comprendere la parte comune che seguire la via semplicistica di una reciproca opposizione: da un lato il “tutto” deleuziano, profilato a partire da un’affermazione dell’inquadratura e dei suoi intervalli o interstizi, che rivela il film come modulazione; dall’altro, il film considerato come corpo o come testo, composto di elementi e di segni – sia nella prospettiva ormai datata dell’analisi del film ispirata dalla semiotica del cinema sia nelle forme più attuali (non bisogna dimenticare che paradossalmente l’idea di testo, nel senso in cui lo intende l’ultimo Roland Barthes, ha finito per affrancarsi dal paradigma linguistico da cui trae origine, e a coincidere piuttosto – se non altro attraverso la suggestione del “tessuto” – con l’idea di corpo). D’altra parte occorre dipanare un altro possibile contrasto, che riguarda la dimensione stessa del presente. Per Stern la realtà propria del momento è di essere puramente presente, di incarnare un “adesso”, una cristallizzazione del vissuto. Esso si configura quindi come una forma particolare di coscienza, tanto implicita quanto esplicita, che presuppone una concentrazione, una condensazione di tempo. Su questo punto Stern si ispira alla fenomenologia e in particolare al modello husserliano del tempo (Un punto di vista fenomenologico sull’esperienza psicoterapeutica era un altro dei possibili titoli del suo libro). Sembra così profilarsi una possibile 95
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divergenza rispetto alla visione di Deleuze, di cui è nota la generale riluttanza nei confronti della fenomenologia, come pure l’affermazione ripetuta che l’immagine cinematografica non è mai al presente (quando afferma per esempio: “I rapporti di tempo non sono mai visti nella percezione ordinaria, ma lo sono nell’immagine, non appena essa sia creatrice. L’immagine rende sensibili, visibili i rapporti di tempo irriducibili al presente”).70 Eppure, se leggiamo attentamente Stern, sembra che nonostante un accento posto sulla coscienza, il suo presente puro, tanto nell’ambito della realtà dell’arte quanto in quello del tempo ordinario-straordinario della vita raccolta nei suoi “momenti”, sia fatto di qualità di stratificazione e di virtualità dei tempi molto simili a quelle che secondo Deleuze il non-presente imprime all’immagine. Vi troviamo infatti la stessa insistenza sul livello micro-elementare della percezione e più in generale dell’esperienza, la sua dimensione molecolare, che stabilisce diverse soglie tra conscio e inconscio – ciò che porta a conciliare le due prospettive apparentemente opposte. Più che la semplice pienezza della presenza, è una sorta di immagine-cristallo che lascia intravvedere il momento presente. Forse una frase di Deleuze opera qui la connessione: “Il piano, cioè la coscienza” –71 anche se la coscienza in questo caso corrisponde alla macchina da presa che mette in forma l’inquadratura, più che al soggetto che ne fa esperienza. E sembra proprio che spetti alla biologia del cervello, così insistentemente evocata da Deleuze, stabilire un legame tra questi due mondi apparentemente lontani. Infatti la ricerca di Stern, se in prima battuta non appartiene propriamente alla microbiologia, pure vi si riconnette in continuazione: da un lato tramite il carattere quantificabile dei suoi protocolli sperimentali, dall’altro attraverso il costante orizzonte di riferimenti che essa offre alle sue valutazioni, in particolare in quest’ultimo libro (abbiamo visto le correlazioni possibili con Emozione e coscienza di Antonio Damasio). Cosicché nel leggere Il momento presente, nel passare di momento presente in momento presente, secondo altrettante modalità reiterate, possiamo percepire in qualche misura lo scorrere del tempo-movimento dei film all’interno del corpo-cervello: sentiamo qualcosa di ciò che il tempo è, di ciò che noi immaginiamo il tempo sia. 96
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NOTE
1. S. Daney, L’excercice a été profitable, Monsieur, P.O.L., Paris 1993. 2. Ibidem, p. 20. 3. Ibidem, pp. 19-21, 216. 4. G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2 (1985), tr. it. di J.P. Manganaro, Einaudi, Torino 2017, pp. 234-278. [NdC] 5. G. Deleuze, “Sull’immagine tempo” (1985), in Pourparler 1972-1990 (1990), tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 84-85. 6. A.R. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), tr. it. di F. Macaluso, Adelphi, Milano 1995; Emozione e coscienza (1999), tr. it. di S. Frediani, Adelphi, Milano 2000; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello (2003), tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2003. [A questi farà seguito il più riassuntivo Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente (2010), tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2012. NdC] 7. Vedi J.-P. Sartre, “Idee per una teoria delle emozioni” (1939), in L’immaginazione [e] Idee per una teoria delle emozioni, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1962, pp. 141-198. [NdC] 8. A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 247-248 [è lo stesso Bellour a riportare l’originale inglese, NdC]. Logica dei pensieri come degli affetti: Damasio ritiene che Changeux sia il solo biologo della mente a essersi interessato al pensiero di Spinoza, motivo ispiratore del suo libro. Di conseguenza egli è anche l’unico biologo della mente a citare Deleuze a proposito di Spinoza. 9. A.R. Damasio, L’errore di Cartesio, cit., pp. 21-22. Traduzione modificata e adattata alla traduzione francese. 10. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., p. 228. 11. A.R. Damasio, “Cinema, mente ed emozione. La prospettiva del cervello” (2008), infra, cap. 5. 12. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., p. 229. “L’intera costruzione della conoscenza, dalle forme semplici a quelle complesse, dalla conoscenza non verbale per immagini a quella letteraria verbale, dipende dalla capacità di creare mappe di ciò che accade nel corso del tempo dentro il nostro organismo, intorno al nostro organismo, al nostro organismo e con il nostro organismo – una cosa dopo l’altra, che causa un’altra cosa ancora, all’infinito. […] Raccontare storie, nel senso di registrare ciò che accade in forma di mappe cerebrali probabilmente è un’ossessione del cervello e probabilmente inizia relativamente presto, sia in termini di evoluzione sia in termini di complessità delle strutture neuronali necessarie per creare narrazioni. La narrazione precede il linguaggio, poiché, di fatto, è un suo presupposto, che si basa non soltanto sulla corteccia cerebrale, ma anche su altri luoghi del cervello e anche nell’emisfero destro, oltre che nel sinistro”, ibidem. 13. A.R. Damasio, L’errore di Cartesio, cit., p. 159 (vedi pp. 156-159); Emozione e coscienza, cit., p. 399 (vedi pp. 397 sgg.). 14. “Il primo [lo spazio delle immagini] è lo spazio in cui si presentano esplicitamente le immagini di tutti i tipi sensoriali. Di tali immagini, alcu-
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ne costituiscono i contenuti mentali manifesti di cui la coscienza ci consente di avere esperienza, mentre altre rimangono inconsce”, ibidem, p. 397. 15. Ibidem, p. 398. 16. Vedi T. Kuntzel, “Le défilement”, in D. Noguez (a cura di), Cinéma, Théorie, Lectures, Klincksieck, Paris 1972, pp. 97-110 e “A note upon the filmic apparatus”, in Quarterly Review of Film Studies, 3, 1976, pp. 266-271. 17. G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco (1988), tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004. [NdC] 18. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., pp. 345, 441; Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 360-361. 19. Riportiamo l’originale inglese per evitare sovrapposizioni o contraddizioni tra la traduzione italiana e la terminologia derivante dalla traduzione francese che si ritrova nel discorso di Bellour. [NdC] 20. A.R. Damasio, L’errore di Cartesio, cit., p. 217. 21. Vedi A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., pp. 342 sgg., in cui Damasio ritorna sulla definizione di “sentimenti di fondo” data in L’errore di Cartesio. [NdC] 22. Vedi A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 59 sgg., e “A second chance for emotion”, in R.D. Lane, L. Nadel (a cura di), Cognitive Neuroscience of Emotion, Oxford University Press, New York-Oxford 2000, pp. 15-16, 18. 23. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., p. 344. 24. Essi vanno comunque distinti dagli umori, con cui potrebbero essere confusi, che tendono di più alla ripetizione o alla costanza di un’emozione particolare (A.R. Damasio, “A second chance for emotion”, cit., p. 16; Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 59 sgg.). 25. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, cit., p. 345. “Similar”, scrive Damasio nell’edizione originale inglese (The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness, Harcourt, New York 2000, p. 287). [Vedi S.K. Langer, Sentimento e forma (1953), tr. it. L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1975. NdC] 26. È l’autore a preferire il riferimento alla formulazione inglese. [NdC] 27. A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 56 (traduzione modificata). 28. D. Stern, Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana (2004), tr. it. di D. Sarracino, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 56. 29. “Sebbene io ritenga che i fenomeni generalmente indicati come ‘mente’ e ‘corpo’ derivino da un’unica ‘sostanza’ biologica, ho deciso di presentarli come oggetti di ricerca distinti per le stesse ragioni che mi hanno indotto a distinguere emozione e sentimento: si tratta di una strategia di ricerca mirata al progresso della comprensione di quel tutto integrato costituito, rispettivamente, dal sistema mente-corpo o emozione-sentimento”, A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 359, n. 3. Per quanto tale dibattito attraversi i tre libri di Damasio, esso si trova espresso in modo particolare nel capitolo 2 di Emozione e coscienza (“Emozione e sentimento”) e nelle prime sezioni del capitolo 9 dello stesso volu-
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me, “Sentire i sentimenti”; inoltre nei capitoli 2 e 3 di Alla ricerca di Spinoza: “Appetiti ed emozioni” e “I sentimenti”. La medesima questione è affrontata inoltre nell’articolo già citato “A second chance for emotion”. 30. A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 111. 31. A.R. Damasio, “Cinema, mente ed emozione. La prospettiva del cervello”, cit., infra, cap. 6. 32. J.-L. Schefer, L’uomo comune del cinema (1980), tr. it. di M. Canosa, Quodlibet, Macerata 2006. 33. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 49. 34. J.-L. Schefer, L’uomo comune del cinema, cit., p. 12. 35. Ibidem, pp. 12-13. 36. Ibidem, p. 14. 37. Ibidem, p. 15. 38. Ibidem, p. 27. 39. Ibidem, p. 94. 40. Ibidem, pp. 96-97. 41. Ibidem, p. 103. 42. Ibidem, p. 127. 43. Ibidem, p. 130. 44. Ibidem, p. 161. 45. Ibidem, p. 165. 46. Ibidem, p. 168. 47. Ibidem, p. 169. 48. Ibidem, p. 171. 49. S. Daney, L’excercice a été profitable, Monsieur, cit., pp. 16, 147-148. 50. Enfasi nostra. [NdC] 51. D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), tr. it. di A. Biocca e L. Biocca Marghieri, Bollati Boringhieri, Torino 1987; D. Stern, Il momento presente, cit. [NdC] 52. Ibidem, p. xi. 53. Ibidem, p. 142. 54. Ibidem, pp. 8-9. [Traduzione modificata. NdC] 55. Ibidem, p. xx. Ecco, a mo’ di esempio, il primo capoverso di una nota di Robert Wilson, datata 21 giugno 1986, sull’apertura del quarto atto del suo spettacolo Lo sguardo del sordo: “Nel 1967, incontrai il dottor Daniel Stern, all’epoca a capo del Dipartimento di Psicologia della Columbia University. Aveva realizzato all’incirca 300 film su delle madri e i loro bambini. Si trattava di situazioni estremamente semplici: il bambino piange, la madre lo prende in braccio per confortarlo. Quando questi film venivano mostrati a velocità normale, questo era ciò che si percepiva. Ma quando si visionavano un fotogramma alla volta – la velocità normale essendo di 24 immagini al secondo – quello che si percepiva in 8 casi su 10, era che la reazione iniziale della madre nei primi tre fotogrammi – ovvero nei primi tre ventiquattresimi di secondo – è di lanciarsi verso il bambino, provocando in questi un movimento di spaventata ritrazione. Nei due o tre fotogrammi successivi, vediamo delle immagini completamente diverse e così pure quelli ancora
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successivi e così via. Così vediamo che ciò che si produce tra la madre e il bambino in un secondo di tempo è estremamente complesso. Quando si mostra il film alla madre, essa ne rimane sconvolta e risponde: ‘Amo il mio bambino! Voglio consolarlo’”. 56. Ibidem, p. 59. Stern ridefinisce così gli affetti vitali, concepiti come: “Esperienze soggettive legate a dinamiche temporali, costituite da variazioni analogiche, a livello di frazioni di secondo, in affetti, pensieri, percezioni o sensazioni”, ibidem, p. 199. I profili temporali che vi corrispondono, in quanto forme temporali di stimolazioni che sollecitano il sistema nervoso, dall’interno o dall’esterno, sono invece teoricamente calcolabili. La nozione di profilo di attivazione (activation contour) che qualifica la variazione degli affetti vitali in funzione del tempo, in Il mondo interpersonale del bambino, è stata sostituita in Il momento presente da quella di profilo temporale (temporal contour). 57. Ibidem, p. 4. 58. Ibidem, p. 7. 59. Ibidem, p. 37. 60. C. Metz, Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione nel cinema (1968), tr. it. di A. Aprà e F. Ferrini, Garzanti, Milano 1972, p. 163. 61. Y. Tsivian, “‘Qu’est-ce que le cinéma?’: une réponse agnostique”, in Trafic, 55, 2005, p. 117. 62. D. Stern, Il momento presente, cit., p. 45. 63. Ibidem, p. 45. 64. Mantenuto come sottotitolo nell’edizione francese. 65. Ibidem, p. 33. 66. Ibidem, p. 58. 67. Ibidem, p. 59. 68. Ibidem, p. 19. 69. Ibidem, p. 166. 70. G. Deleuze, “Il cervello è lo schermo” (2010), in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, tr. it. di D. Borca, Einaudi, Torino 2010, p. 238. 71. G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (1983), tr. it. di J.P. Manganaro, Einaudi, Torino 2016, p. 28.
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3 I FILM E LE EMOZIONI Carl Plantinga
Carl R. Plantinga (https://calvin.edu/directory/people/carl-plantinga) è uno dei principali esponenti della scuola di approccio cognitivista alla teoria del cinema. Si è laureato alla University of Iowa e ha conseguito il dottorato alla University of Wisconsin-Madison negli anni Ottanta. Ha insegnato alla Hollins University, dove ha diretto il Department of Dance, Film, and Theatre. Attualmente è professore di Film and Media Studies al Calvin College (Grand Rapids, Michigan). I suoi interessi di ricerca includono la storia e teoria del documentario (Rhetoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge University Press, CambridgeNew York 1997); il ruolo delle emozioni nell’esperienza di visione, su cui ha curato, assieme a Greg M. Smith, l’importante antologia Passionate Views. Film, Cognition, and Emotion (Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999) e ha poi pubblicato Moving Viewers. American Film and the Spectator’s Experience (University of California Press, Berkeley 2009); la filosofia del cinema (di cui l’esito principale è The Routledge Companion to Philosophy and Film, Routledge, New York 2009, curato assieme a Paisley Livingston). Dal 2010 al 2013 è stato presidente della Society for Cognitive Studies of the Moving Image, di cui attualmente è membro del comitato di direzione. È membro del comitato editoriale della rivista Projections: The Journal for Movies and Mind. C’è un tema su cui la post-teoria cognitivista, a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, ha insistito con più forza e messo alla prova con più decisione le proprie potenzialità e i propri limiti: le emozioni. Un tema vasto, intricato, ramificato, ma decisivo – pur paradossalmente, data l’istintiva opposizione fra ragione ed emozione – per studiare i processi di comprensione narrativa dello spettatore cinematografico. Come è possibile che lo spettatore provi delle emozioni reali di fronte alle passioni del tutto finzionali dei personaggi sullo schermo, in un modo così simile agli affetti sperimentati nella vita quotidiana? Perché lo spettatore ricava piacere anche da emozioni negative come la su101
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spense, la paura, l’ansia? Qual è la natura di queste emozioni? Quale la loro tipologia? Il primo fuoco di questo articolato dibattito raggiunge un picco d’intensità proprio alla metà degli anni Novanta, quando autori come Murray Smith, Greg Smith, Ed Tan e Torben Grodal pubblicano un primo ciclo di opere che restituisce la complessità e la criticità delle questioni legate alla natura cognitiva delle emozioni cinematografiche. Si pensi anche soltanto al dibattito attorno al concetto di empatia, termine fino a quel momento ambiguo, sfuggente e generico, e ora invece assegnato con precisione (persino maniacale) a declinazioni molto specifiche dell’esperienza di relazione filmica. La questione (dell’empatia in particolare e delle emozioni in generale) è infatti talmente intricata da aprire un fitto gioco di definizioni e aggiustamenti che richiederà almeno un altro decennio di elaborazione. Alla metà degli anni Duemila gli stessi autori, in particolare Grodal e Plantinga (e più tardi anche Murray Smith, di cui a proposito di empatia si veda il saggio in questo volume), ritornano sull’argomento per una raffinazione e alcune integrazioni, pur con prospettive fra loro diverse – il primo elaborando ulteriormente il proprio approccio bioculturalista, il secondo componendo una sorta di “trattato generale” delle emozioni cinematografiche secondo una prospettiva estetico-cognitivista: Moving Viewers. Da quest’ultimo volume è tratto il capitolo qui riportato, estremamente utile perché espone con chiarezza i termini di pertinenza delle emozioni filmiche e ne disegna una precisa tipologia generale. Rispondere emotivamente al cinema non significa sostenere che il film corrisponda alla realtà, ma semplicemente che il bagaglio e le competenze affettive della nostra vita “extra-filmica” entrano (in funzione anche) in sala. Il “paradosso della finzione” non può essere spiegato senza riconoscere che anche l’emozione è un percorso psicologico (più che filosofico) a “due vie” che rispecchia la struttura modulare della mente: la “via bassa” delle reazioni automatiche e inconsce e la “via alta” delle emozioni influenzate dalle credenze. Le emozioni – spiega Plantinga – sono “costrutti basati sulla rilevanza” (concern-based construals), ovvero l’importanza, la pertinenza, il valore che un’emozione ha in una certa situazione per un soggetto. Le emozioni possono essere temporalmente estese (globali) o limitate (locali); rivolte al contenuto della storia (dirette) o frutto di una valutazione (indiretta) del contenuto, principalmente rispetto ai personaggi (simpatetiche/antipatetiche), o anche autodirette (meta-emozioni); riguardano il mondo fittizio del film (finzionali) o il film in quanto artefatto (artefattuali). Le emozioni dipendono dal contagio emotivo, dalla mimesi affettiva, dal feedback facciale, dal contesto sociale, dalle associazioni mentali e dalla memoria. Eppure, come un rasa sanscrito l’emozione è quell’essenza, quel sapore attraverso cui la nostra esperienza personale viene ricordata non come pura rappresentazione, ma come traccia affettiva, quel sentire che pur senza richiamare un oggetto, ne richiama l’esperienza. 102
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Concepite voi stessi, se vi è possibile, improvvisamente spogliati di tutte le emozioni che il vostro mondo ora vi ispira, e tentate di immaginarlo come esiste, puramente per se stesso, senza il vostro commento favorevole o sfavorevole, di speranza o di preoccupazione. Vi sarà quasi impossibile realizzare una simile condizione di negatività o di morte. Nessuna porzione dell’universo avrebbe allora più importanza di un’altra; e l’intero insieme delle sue cose e le serie dei suoi eventi sarebbero senza significato, carattere, espressione o prospettiva. Di qualunque valore, interesse o significato possano apparire dotati i nostri rispettivi mondi, essi sono quindi puri doni dello spirito dello spettatore. […] E come l’interesse eccitato che queste passioni accendono nel mondo è il nostro dono al mondo, allo stesso modo le passioni medesime sono doni. william james1
I film sono sembrati a molti osservatori un’eccellente metafora della coscienza umana, o una sua buona approssimazione. Se la coscienza è in qualche misura autodiretta tramite le configurazioni salienti che imponiamo al mondo che ci circonda, allora, come scrive Oliver Sacks, un film con il suo flusso implacabile di immagini tematicamente connesse, con la sua narrazione visiva integrata dal punto di vista e dai valori del cineasta, non è affatto una cattiva metafora per il flusso di coscienza stesso. E i dispositivi tecnici e concettuali del cinema – lo zoom, la dissolvenza, l’omissione, l’allusione, l’associazione e la giustapposizione in tutta la loro varietà – imitano in maniera piuttosto accurata (e forse sono concepite appositamente per imitare) i flussi e gli sbalzi della coscienza.2
L’intuizione di Sacks deriva in parte dal lavoro di altri studiosi le cui opere si situano al confine tra filosofia e psicologia. Uno dei primi teorici del cinema, Hugo Münsterberg, sosteneva idee simili,3 al pari di William James, che fu suo collega ad Harvard. James si chiedeva se la coscienza, sebbene sembri continua, non sia di fatto discontinua e soggetta allo stesso genere di illusioni dello zootropio. Henri Bergson scrisse che “il meccanismo della nostra conoscenza abituale è di natura cinematografica”.4 Dato che il cinema in qualche modo imita la coscienza umana, possiamo capire perché ha senso concepire un film come un “modo di vedere”. In maniera simile, V.F. Perkins descrive il film come “la proiezione di un universo mentale – un registratore della mente”.5 Per i nostri scopi tuttavia “vedere” è un termine troppo restrittivo, e “universo mentale” può suggerire qualcosa di freddo o di astratto; un film non è solo un modo di vedere, ma anche un modo di 103
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udire, sentire, pensare e reagire. Un film non ci presenta soltanto un universo mentale (percettivo e cognitivo), ma un’esperienza olistica connessa alle emozioni, agli affetti e al corpo. Ci offre una particolare esperienza di ciò che mostra, ossia del mondo fittizio che presenta. Questo modo di esperire ricalca i contorni fenomenologici dell’esperienza cosciente in generale, e in tal senso è complesso e sfaccettato. Numerosi sono gli aspetti interessanti di questi “modi di esperire”, ma il principale è la capacità di molti film di suscitare emozioni nello spettatore e di provocare suspense, sorpresa, paura, grida, ansia, lacrime, sollievo e calma in un ordine temporale efficace e in ultima analisi piacevole. Se i film si avvicinano all’esperienza cosciente come nessun altro medium è anche per la loro capacità di suscitare emozioni in risposta a questa esperienza. […]6 LE EMOZIONI DENTRO E FUORI LA SALA CINEMATOGRAFICA
[…] La visione filmica e le emozioni sono state accostate fin dall’inizio del ventesimo secolo, quando Hugo Münsterberg, uno dei primi teorici di quella che al tempo era una forma d’arte relativamente nuova, scrisse che “lo scopo principale del cinema deve essere rappresentare le emozioni attraverso le immagini”.7 L’idea di Münsterberg era all’avanguardia per quell’epoca, presentando notevoli affinità con le nuove teorie “espressive” dell’arte proposte da Benedetto Croce e da Robin George Collingwood. Le teorie “espressive” generalmente sostengono che l’arte debba essere un’espressione della mente dell’artista e/o debba esprimere sentimenti ed emozioni in generale. Per Croce e Collingwood l’espressione delle emozioni assume grande importanza perché è vista come distinta dalla conoscenza concettuale e precedente a essa. L’arte diviene così una forma fondamentale della conoscenza, offrendosi come uno strumento che è inaccessibile alla filosofia, alla storiografia e alle scienze.8 Alcuni teorici dell’arte hanno sostenuto che la più nobile esperienza artistica è l’esperienza delle “emozioni estetiche”. Tali emozioni, scrive Clive Bell, raggiungono le “cime superbe dell’esaltazione estetica” e costituiscono uno “stato d’animo infinitamente sublime”. Continua Bell: “E nessuno immagini – per essersi sentito 104
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felice nel tepore delle terre coltivate e nei pittoreschi angoli dell’idillio – di poter indovinare i rapimenti austeri e impressionanti propri di coloro che sono saliti sulle cime fredde candide dell’arte”.9 Bell non riesce a descrivere adeguatamente l’origine di tali emozioni estetiche, finendo per fare appello al concetto vago di “forma significante”.10 Si può dubitare tuttavia che Bell avrebbe potuto pensare che le emozioni estetiche avessero un ruolo nella visione di Gangster Story (1967), Terminator 2 (1990) o La fabbrica di cioccolato (2005). Le emozioni di cui Bell scrive sono riservate a una cerchia ristretta di artisti e critici. Ma anche se concediamo che queste emozioni “estetiche” esistano, esse non sono centrali nel mio tentativo di fare luce sul genere di emozioni generalmente suscitate dai film sulla massa del pubblico. Anziché ipotizzare un tipo di emozioni completamente diverso, sostengo che le “emozioni artistiche”, ossia le emozioni e gli affetti suscitati dal cinema narrativo e dalle altre arti, abbiano significative affinità con le emozioni tipiche della nostra vita extra-filmica. Le emozioni al cinema tendono a derivare da simili costrutti basati sulla rilevanza.11 Inoltre, le emozioni provate in reazione alla finzione suscitano espressioni facciali molto simili a quelle che si possono avere fuori dalla sala cinematografica. In molti casi anche gli effetti fisiologici risultano grossomodo gli stessi. Al cinema come nella vita, la tristezza e la commozione possono facilmente portare alle lacrime, la gioia e la felicità al sorriso, la paura alla tensione e al caratteristico serrarsi delle labbra, e il sollievo a un’espirazione come forma di sospiro e rilassamento. Trovare analogie fra le risposte emotive alla vita e quelle alla finzione non vuol dire sostenere che i film siano del tutto realistici. Di certo è difficile sostenere che i film siano registrazioni immediate della realtà; al contrario essi sono traduzioni convenzionali, espressive, eccessive o manipolate della realtà. Tuttavia i film fanno leva sulle strutture di risposta che gli spettatori portano con sé dalle loro vite extra-filmiche. Persino nella ricezione di immagini cinematografiche che raffigurano mondi finzionali fantastici o addirittura impossibili, lo spettatore deve fare uso di abilità percettive che appartengono al mondo reale.12 Quando le narrazioni cinematografiche sono autoreferenziali, esagerate e fortemente manipolate, il mantenimento dell’interesse dello spettatore richiede una connessione agli schemi del mondo reale per quanto concerne i 105
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costrutti basati sulla rilevanza che costituiscono le emozioni. Pertanto una commedia romantica o esageratamente sentimentale, sebbene assai poco realistica sotto vari aspetti, continua a sfruttare tipici schemi extra-filmici (talvolta creati dagli stessi generi narrativi) riguardanti l’amore romantico e la felicità. Alcuni teorici ritengono che le emozioni suscitate dai film siano completamente omologhe a quelle che esperiamo nelle nostre vite ordinarie. Ed S. Tan sostiene che in conseguenza dell’effetto diegetico, ossia ciò che altri hanno chiamato la “sospensione dell’incredulità”, le reazioni agli eventi del mondo fittizio siano “emozioni testimoniali” “comparabili agli affetti evocati dalla visione di eventi emozionanti nella vita reale”. Tan si spinge fino a sostenere che “il pubblico dei tradizionali film narrativi” avrebbe la sensazione di “essere nel film” e di subire l’illusione per cui “io sono presente nella scena” e che “le avventure dei protagonisti stanno effettivamente accadendo”.13 Per Tan, dunque, lo spettatore ha talvolta l’illusione di essere un osservatore invisibile di eventi reali. Secondo questa teoria lo spettatore che vede un uomo e un orso sullo schermo potrebbe immaginare di assistere a un vero confronto fra i due e potrebbe presumibilmente sentirsi minacciato dall’orso. Richard J. Gerrig e Deborah A. Prentice sostengono in modo simile che lo spettatore sia come il testimone defilato di una conversazione e che le cosiddette “risposte come se”, ossia le risposte agli eventi fittizi contrapposte a quelle al film in quanto artefatto, “si avvicinano ai tipi di risposta che gli spettatori avrebbero se stessero realmente partecipando agli eventi rappresentati”.14 Tornando dunque al nostro esempio con l’uomo e l’orso, lo spettatore dovrebbe reagire gridando: “Attento all’orso!” […].15 Tuttavia sotto molti aspetti le emozioni dello spettatore sono diverse da quelle provate fuori dal cinema. L’adozione della tesi della partecipazione diretta, come quella sostenuta da Tan e da Gerrig e Prentice, presenta due elementi problematici. In primo luogo lo spettatore, a differenza di un effettivo partecipante, è ovviamente incapace di influenzare gli eventi fittizi in qualsivoglia modo. Vale a dire che c’è una radicale e insuperabile separazione fisica tra lo spettatore e ciò che questi osserva sullo schermo. Mentre un partecipante reale potrebbe essere incline a intervenire o anche a reagire fisicamente, lo spettatore è completamente libero dalle responsabilità di reagire fisicamente – e a ben vedere ne è 106
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impossibilitato. Ciò crea una differenza decisiva tra le reazioni di un testimone o del partecipante a un evento reale e quelle di uno spettatore di un film di finzione. A questo punto si potrebbe obiettare che è ancora plausibile equiparare le reazioni dello spettatore come testimone alle emozioni “come se”, con la specificazione che tale analogia presuppone un genere di testimone che non può né interferire con ciò che vede né produrre alcun effetto rilevante. Questa specie di osservatore invisibile, silenzioso, impercettibile e impotente, proprio come lo spettatore cinematografico, risulterebbe incapace di condizionare l’esito degli eventi e risulterebbe pertanto sollevato dalla responsabilità di impegnarsi nell’azione. Questa constatazione mi conduce a un secondo punto. Lo spettatore dei film di finzione, a differenza di un testimone o di un osservatore di eventi reali, sa che quel che vede è fittizio. Il pubblico sa bene che il mondo narrativo non è fisicamente presente, né è la rappresentazione di eventi reali. Se mai gli spettatori credessero, anche solo per qualche istante, che le battaglie fra soldati umani e insetti alieni in Starship Troopers - Fanteria dello spazio (1997) stiano realmente accadendo, oppure, ancor meno plausibilmente, se gli spettatori avessero l’illusione di trovarsi essi stessi in battaglia, le loro reazioni sarebbero spiacevoli e terrificanti come quelle che proviamo quando assistiamo a una calamità reale. È fondamentale capire che lo spettatore comprende implicitamente che gli eventi finzionali sono raccontati e non stanno accadendo realmente, e che il film è progettato per una visione che presuppone la conoscenza della natura convenzionale e ludica di questa esperienza. Soltanto gli spettatori affetti da importanti patologie mentali, da vuoti mentali temporanei o dalla rara incapacità di distinguere tra finzione e realtà possono confondere quel che vedono sullo schermo con una realtà tangibile e plasmabile. Lo schema mentale dello spettatore implica la comprensione del contesto della sala e della natura pubblica e convenzionale della visione cinematografica. Anche nel caso in cui gli spettatori credessero che gli eventi stiano davvero accadendo non a loro ma ad altre persone, dovrebbero comunque reagire chiamando la polizia o cercando di distrarre l’orso. Gli spettatori solitamente non fanno nulla di simile perché le loro reazioni avvengono nel contesto di un quadro cognitivo in cui si presuppone la visione di un film 107
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che racconta eventi fittizi. Considero il riconoscimento, da parte dello spettatore, della consapevolezza della finzione come finzione cruciale per la comprensione delle sue reazioni.16 IL PARADOSSO DELLA FINZIONE
Se gli spettatori o i lettori sanno che gli eventi e i personaggi di una narrazione sono fittizi, come ho sostenuto, allora perché dovrebbero reagire emotivamente? Non si tratterebbe di una reazione irrazionale e assurda? Questo “paradosso della finzione” è particolarmente problematico per i teorici cognitivisti che sostengono che le risposte emotive avvengono invariabilmente in risposta a delle credenze. Se gli spettatori di Il mago di Oz (1939) non credono che Dorothy esista nel Kansas o a Oz, perché dovrebbero preoccuparsi per lei? Se non credono che esista una malvagia Strega dell’Ovest, perché dovrebbero reagire come se questo personaggio dal naso curvo e dalla carnagione verdastra minacciasse Dorothy? Questo, in parole povere, è il cosiddetto paradosso della finzione.17 Per rispondere a questi interrogativi si noti innanzitutto che secondo la teoria cognitiva-percettiva qui sostenuta, la credenza non è fondamentale per l’emozione. Considerate come costrutti basati sulla rilevanza, le emozioni possono derivare dalle impressioni o dai modi in cui le cose appaiono al soggetto; esse sono talvolta automatiche e solo parzialmente basate su giudizi, pensieri e credenze. Nella formulazione originaria del paradosso della finzione, Colin Radford sosteneva che se le emozioni dipendono fondamentalmente dalle credenze, allora forse le nostre risposte emotive alla finzione sono irrazionali e indesiderabili.18 A mio avviso questa conclusione tramite dimostrazione per assurdo fa sorgere dei dubbi su una teoria delle emozioni basata sul giudizio, o almeno sulle sue forme più radicali. Il paradosso della finzione non è tanto un problema filosofico quanto piuttosto psicologico, poiché le emozioni, a mio avviso, sono raramente il risultato di riflessioni esclusivamente consapevoli: esse sono talvolta automatiche e possono risultare dall’insieme di effetti di contagio emotivo, memorie associative e costrutti basati sulla rilevanza anziché semplicemente da giudizi consapevoli radicati nelle credenze. Ma perché, ci si potrebbe domandare, le reazioni “automatiche” e “inconsce” sono incompatibili con le credenze? Se istintivamente 108
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evito un colpo indietreggiando, certamente è perché credo di stare per essere colpito. Ma non necessariamente. Io posso indietreggiare istintivamente anche in casi in cui credo chiaramente che non sarò colpito, per esempio quando un mio amico fa finta per la ventesima volta di colpirmi ma poi si ferma all’ultimo momento. Oppure quando il serpente allo zoo urta la gabbia di vetro dentro cui è rinchiuso. La nostra vita affettiva, a mio avviso, è certamente influenzata dalle nostre credenze, ma non è completamente determinata da queste. In molti casi la nostra mente modulare genera reazioni che sono in parte indipendenti dalle credenze. Gli spettatori possono reagire con rabbia, con fascinazione o con pietà rispetto alle entità finzionali, ma riconoscono al tempo stesso la natura finzionale della storia narrata reagendo dunque con emozioni reali, temperate tuttavia dal fatto di sapere che la storia narrata è una finzione. Tre sono le principali risposte al paradosso della finzione nella letteratura filosofica: la “teoria dell’illusione”, per cui noi crediamo davvero alle proposizioni riguardanti i personaggi finzionali (una teoria sulla quale non aggiungerò altro); la “teoria del fare finta”, secondo cui gli spettatori provano emozioni nel contesto del gioco del “far finta”;19 e la “teoria del pensiero”, secondo cui gli spettatori possono provare emozioni reali in reazione a proposizioni che essi credono non essere vere.20 Di queste soluzioni, attualmente è la teoria del pensiero a ottenere pareri più favorevoli. Roger Scruton, per il tramite di Friedrich Gottlob Frege, ha introdotto nell’estetica la locuzione “pensieri non asseriti”, sostenendo che l’immaginazione implica pensieri che non sono asseriti, e pertanto va al di là di ciò che viene creduto. Possiamo reagire emotivamente a pensieri non asseriti, come per esempio immaginare di perdere una persona amata o immaginare di vincere la lotteria. Immaginate di colpire con un martello il vostro pollice; quanto più vivida è questa immaginazione, tanto più probabile sarà la reazione emotiva. Il fatto che noi reagiamo a meri pensieri, come scrive Noël Carroll, “è un elemento naturale della nostra struttura cognitiva ed emotiva, un elemento sul quale è stata costruita l’istituzione della finzione”.21 Reagiamo emotivamente a sogni, immaginazioni e idee. Reagiamo anche a pure impressioni percettive sia nel registro visivo sia in quello sonoro. Le reazioni percettive automatiche risultano amplificate nel caso del cinema, che produce potenti impressioni visive e sonore. Se gran parte della nostra elaborazione del 109
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mondo visivo e sonoro è automatica e inconscia, non è irragionevole suggerire che anche gran parte della nostra elaborazione delle immagini e dei suoni al cinema debba esserlo. Reagire con un trasalimento all’immagine di un serpente che ci sta per mordere non è né razionale né irrazionale, propriamente parlando, ma è piuttosto una caratteristica costitutiva dei nostri meccanismi percettivi. La nostra iniziale reazione automatica viene in seconda battuta stemperata ed evolve seguendo l’elaborazione cognitiva suscitata inizialmente. Forse le etichette di razionale e irrazionale possono essere applicate alle reazioni cognitive secondarie e alle meta-reazioni, mentre ha poco senso applicarle alle risposte automatiche. Inoltre, se la “teoria del pensiero” è corretta come io credo, il cosiddetto paradosso della finzione non è dopo tutto così paradossale. Non ho dubbi che alcuni filosofi, specialmente quelli che ritengono la “teoria del pensiero” problematica, saranno assolutamente insoddisfatti da questa rapida incursione nel paradosso della finzione. D’altra parte mi colpisce il fatto che per prendere sul serio il paradosso della finzione si debba adottare quella che io tendo a considerare un’immagine semplificata e razionalizzata della mente umana e del suo funzionamento. Noi reagiamo alla finzione con emozioni reali perché la mente umana è modulare. Le finzioni prendono la via “bassa” e generano reazioni affettive ed emotive indipendenti dalle credenze, ma al tempo stesso suscitano reazioni cognitive ed emotive “alte” che impediscono agli spettatori di reagire come se le finzioni fossero accadimenti reali. Se le reazioni umane fossero soltanto il risultato di pensieri razionali e fossero separate dai meccanismi costitutivi automatici e inconsci, il paradosso della finzione risulterebbe forse più problematico. IL GIOCO E LA REGOLAZIONE DELLE EMOZIONI
In un certo senso ogni arte può essere concepita come una forma di gioco. Wolfgang Iser dimostra che leggere la narrativa comporta giochi di vario tipo, fra i quali il giocare con il mondo di riferimento di un testo di finzione, i punti di vista del racconto, i mondi possibili e le aspettative del lettore.22 Data questa concezione di finzione narrativa, a suscitare comportamenti ludici non sarebbero soltanto le narrazioni sperimentali come Sliding Doors (1998) o Memento (2000) o Il ladro di orchidee (2002) con le loro manipo110
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lazioni del tempo e delle relazioni fra mondo della storia e mondo del discorso. Anche i film realistici tradizionali sono ludici nella misura in cui dipendono dalla comprensione convenzionale della ludicità della finzione. Secondo Roger Odin i film invitano gli spettatori a adottare una sorta di posizionamento psichico e ad assumere un ruolo sociale.23 Il tipo di esperienza affettiva che gli spettatori compiono al cinema dipende dalle convenzioni associate alla visione, e in molte culture andare al cinema è associato al tempo libero e all’intrattenimento. Un film di finzione è dunque una forma di gioco, in cui lo spettatore è un partecipante che, molto spesso, è disposto a stare al gioco. Che cosa comporta questo rispetto alle reazioni emotive? Innanzitutto i costrutti basati sulla rilevanza che costituiscono le emozioni al cinema sono influenzati dal contesto del gioco. La situazione finzionale rappresentata sullo schermo non ha, nella maggior parte dei casi, conseguenze dirette e nel breve periodo per lo spettatore. Questi non ha la possibilità di agire e reagire. Mentre le emozioni extra-filmiche comportano tendenze all’azione e spesso l’obbligo morale o sociale di agire, lo spettatore è libero da ogni bisogno o costrizione all’azione. La finzione, al pari del gioco, può a volte essere del tutto seria nei suoi intenti, eppure anche le finzioni che si prendono sul serio sul piano politico e morale forniscono agli spettatori la distanza che deriva dal “fare finta”. Questo contesto ludico, libero da preoccupazioni immediate per il mondo esterno, permette allo spettatore di provare esperienze emotive e desideri che risultano sperimentali, esplorativi, di varia natura, e talvolta molto al di là del campo delle esperienze “normali”. Da qui deriva l’euforia, e anche la possibile minaccia morale, della condizione spettatoriale. La condizione spettatoriale è ludica e anche convenzionale. In altre parole, il gioco è governato (talvolta in modo inefficace o imperfetto) da regole derivanti dalle convenzioni sociali. Nel cinema americano mainstream l’esperienza dello spettatore è regolata sia da Hollywood, un’industria culturale con interessi ideologici ed economici che confeziona emozioni per tutti i gusti e gli scopi, sia dalle istituzioni che si occupano di diffondere i film. In tal senso, il gioco delle emozioni è spesso controllato quanto a piacevolezza, intensità e durata in modo da assicurare, alla fine del film, la soddisfazione dello spettatore. Hollywood fornisce anche emozioni in111
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tense e convenzionalmente spiacevoli per i gruppi demografici che ne vanno in cerca. Questo è specialmente vero per i film dell’orrore (che suscitano emozioni estreme di terrore, paura, repulsione e orrore) ma anche per le commedie volgari come per esempio Jackass: The Movie (2002) e Maial College (2002), le quali mescolano la commedia ironica e la commedia “scaltra” con l’evocazione del disgusto associato al contatto ravvicinato con vari fluidi corporei. Le emozioni cinematografiche sono confezionate e vendute, così che il consumatore ha a disposizione una varietà di esperienze affettive. Persino i film indipendenti e i film prodotti al di fuori di Hollywood sono regolati in vari modi secondo i dettami delle culture del cinema indipendente, le usanze, i costumi tipici e le convenzioni locali di produzione e visione dei film. Il gioco svolge una funzione sociale ed è delimitato dalle convenzioni sociali. TIPI DI EMOZIONI
In che modo è possibile categorizzare le emozioni per comprendere meglio quelle che i film suscitano nei loro spettatori? Più sotto si trova una tavola che elenca e descrive i sette tipi di emozione cinematografica che presenterò in questo paragrafo e nel successivo. Occorre notare che molte emozioni specifiche possono contare come esempi di più di un tipo. Inoltre alcune emozioni non si collocano esattamente dentro questa o quella categoria, ma si situano piuttosto a cavallo fra due categorie. I film suscitano sia emozioni di durata estesa (che io chiamo emozioni globali) sia emozioni che durano solo pochi secondi (che io chiamo emozioni locali). Le emozioni globali, come per esempio la suspense, la curiosità, la fascinazione e l’attesa sono decisive per mantenere viva l’attenzione dello spettatore e sostenere il suo interesse dall’inizio alla fine del film. Per Alfred Hitchcock è la suspense, “il mezzo più potente per tenere viva l’attenzione dello spettatore”, a far sì che il pubblico si chieda: “E ora, cosa sta per succedere?”.24 Ed Tan ritiene che sia “l’interesse” l’emozione più caratteristica della condizione spettatoriale. Secondo Tan l’interesse è ciò che tiene viva l’attenzione dello spettatore, motivandolo a continuare la visione. I momenti ad alta intensità emotiva (ossia le emozioni locali), come per esempio una profonda tristezza, l’esaltazione o il terrore, contribuiscono a sostenere l’interesse ma 112
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sono più piacevoli, memorabili e intensi di questo. L’interesse invece, sostiene Tan, copre idealmente l’intera estensione della narrazione e può fornire uno sfondo per gli episodi emotivi più brevi e più intensi.25 Alcuni psicologi, compresi per esempio due eminenti teorici delle emozioni quali Carroll Izard e Nico Frijda, ritengono che l’“interesse” sia un’emozione importante, persino un’emozione essenziale e universale. Izard sostiene che l’interesse, che egli ribattezza “interesse-eccitazione”, sia “la condizione motivazionale prevalente per il funzionamento quotidiano degli esseri umani sani”26 e che sia un elemento fondamentale per l’attività creativa dell’uomo. Anche Frijda ritiene che l’interesse sia un’emozione fondamentale. Per Frijda ogni emozione è associata a una tendenza ad agire. In tal senso l’interesse ci spinge a prestare attenzione a una certa cosa allo scopo di acquisire conoscenza su di essa, e ci spinge anche a orientarci nell’ambiente.27 Tipi di emozioni spettatoriali Globali Locali Dirette Simpatetiche/ antipatetiche
Meta-emozioni Finzionali Artefattuali
Definizione Lunga durata, estese su porzioni significative dell’esperienza di visione filmica Breve durata, spesso più intense delle emozioni globali Hanno per oggetto il contenuto della narrazione e il suo svolgersi Hanno per oggetto gli interessi, gli scopi e il benessere dei personaggi, sia nel bene (emozioni simpatetiche) sia nel male (emozioni antipatetiche) Hanno per oggetto le reazioni dello spettatore stesso o di altri spettatori Hanno per oggetto degli elementi del mondo fittizio del film Hanno per oggetto il film in quanto artefatto
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Esempi Attesa, suspense, curiosità Spavento, sorpresa, disgusto, euforia, eccitazione Curiosità, suspense, attesa, sorpresa, spavento Compassione, pietà, ammirazione, felicità (simpatetiche); rabbia, sdegno, disgusto socio-morale (antipatetiche) Orgoglio, senso di colpa, vergogna, curiosità, sdegno, sorpresa Di vario genere Ammirazione, fascinazione, gratitudine, divertimento, sdegno, rabbia, impazienza
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Tuttavia è problematico porre l’interesse come la principale emozione suscitata dal film. Molti psicologi non riconoscono l’interesse come un’emozione a sé stante, mentre altri lo considerano uno stato cognitivo preparatorio delle emozioni e non un’emozione vera e propria.28 Sebbene io ritenga che Tan abbia ragione a distinguere fra emozioni locali ed emozioni globali nell’esperienza filmica, nutro delle riserve nel concepire l’interesse come un’emozione a sé stante e come emozione globale fondamentale dell’esperienza filmica. Posto che sia un’emozione, l’interesse è talmente ampio e di vasta portata da risultare quasi informe. Quantomeno nelle sue declinazioni più blande, sembra essere una precondizione per qualsiasi tipo di attività cosciente e intenzionale. Solitamente le emozioni sono parzialmente definite da un particolare tipo di costrutto basato sulla rilevanza: una situazione paradigmatica che viene associata a una certa emozione. Proviamo paura quando giudichiamo che un oggetto sia per noi minaccioso; la nostra rabbia è rivolta a qualcuno che ha commesso un torto nei nostri confronti; proviamo vergogna o senso di colpa quando giudichiamo di aver fallito rispetto a qualche standard o obiettivo. L’interesse, d’altra parte, sembra richiedere soltanto che un oggetto abbia una presa più o meno intensa sulla nostra attenzione, quale che ne sia il tipo. I possibili oggetti del mio interesse nella visione di un film includerebbero pressoché ogni cosa – un macabro incidente d’auto, un alieno bavoso, un paesaggio futuribile, un ragno peloso che avanza verso Little Miss Muffet,29 o una vaga avversione nel vedere una star che non mi piace. La mia opinione sul ruolo dell’interesse è simile a ciò che ho sostenuto in relazione al desiderio. Anziché considerare l’interesse come una singola entità univoca – un tipo di emozione – sostengo che quando diciamo di essere interessati a un film, questo interesse non deriva da una singola emozione ma da una varietà di fonti, comprese emozioni globali di lunga durata (suspense, curiosità, attesa),30 emozioni locali (paura, sorpresa, disgusto), desideri, avversioni, piaceri e quant’altro. Uno dei compiti del cineasta consiste nel preservare l’interesse dello spettatore, ma io non considero l’interesse in sé come una singola emozione onnicomprensiva che domina la visione filmica.31 La posizione di Tan secondo cui dovremmo distinguere fra quelle che ho definito emozioni globali ed emozioni locali tutta114
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via appare corretta. Tale distinzione è basata principalmente sulla durata e sulla funzione testuale. Le emozioni locali sono brevi e la loro funzione è confinata a segmenti specifici del processo di visione; in alcuni casi, mediante la ripetizione e la variazione, esse svolgono a intermittenza la funzione di suscitare emozioni globali. Nel guardare un film come Alien (1979), la sorpresa e lo spavento spesso accompagnano l’apparizione improvvisa del minaccioso alieno, ma tali emozioni non durano molto. Anzi è proprio la loro intensità a limitare la durata, ammesso che il cineasta voglia che gli spettatori resistano per l’intera durata del film. Le emozioni globali come la suspense, l’attesa e la curiosità, d’altra parte, hanno maggiore durata e servono a focalizzare l’attenzione dello spettatore nel tempo. La suspense e l’attesa svolgono un ruolo cruciale in Alien quando lo spettatore inizia a sospettare che gli attacchi alieni siano al contempo imminenti e imprevedibili. In questo modo l’attesa ansiosa motiva lo spettatore, per la maggior parte del film, a rimanere all’erta in vista della prossima apparizione dell’alieno. Inoltre le emozioni globali e quelle locali si rinforzano a vicenda. Nel caso di Alien la suspense e l’attesa dello spettatore sono alimentate da momenti ricorrenti di spavento e sorpresa, e le emozioni a breve e a lungo termine cooperano nel definire i contorni della peculiare esperienza offerta dal film. Qui sta una differenza importante fra la concezione delle emozioni suscitate dai film come “stati d’animo” proposta da Greg M. Smith e quella proposta da me e Tan.32 Smith sostiene che “il principale effetto emotivo di un film sia la creazione di uno stato d’animo”.33 Le emozioni sono brevi e intense e necessitano spesso di un orientamento mentale che “ci chiede di interpretare ciò che ci circonda in termini emotivi”.34 Dunque per Smith lo stato d’animo è l’interesse globale primario di un film, ciò che predispone lo spettatore a provare emozioni che si presentano soltanto in brevi interludi. Da parte mia sottolineerei innanzitutto che nel suo modello Smith non è abbastanza chiaro su che cosa sia uno stato d’animo. Uno stato d’animo, scrive, è uno “stato di orientamento emotivo” che svolge una funzione adattiva predisponendoci a prestare attenzione a stimoli particolari, creando aspettative e rendendoci inclini a provare certi tipi di emozioni. Gli stati d’animo, in tal senso, non sono di per sé emozioni, bensì “stati di orientamento 115
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
emotivi” e “tendenze a esprimere emozioni”. 35 Uno stato d’animo è “una predisposizione che rende più probabile un’esperienza emotiva”. Il cineasta dunque suscita uno stato d’animo allo scopo di sollecitare più efficacemente brevi “scariche emotive”. Un episodio emotivo consiste in uno stato d’animo (orientamento emotivo) e in “circostanze esterne” 36 o situazioni narrative. L’intuizione di Smith consiste nel sottolineare l’importanza di questi stati di orientamento nel suscitare le emozioni filmiche. Tuttavia risulta problematico chiamare “stati d’animo” tali orientamenti. Smith parla di stati d’animo “felici”,37 “carichi di suspense”,38 “comici”39 e “spaventosi”.40 Egli descrive lo stato d’animo suscitato all’inizio di Amore sublime (1937) come “imbarazzo per Stella” e “attesa di una imminente catastrofe derivante dai rapporti di classe”.41 Tuttavia suspense, paura, humour, imbarazzo e attesa sono nella maggior parte dei casi considerati emozioni anziché stati d’animo. E nel caso di Amore sublime, l’imbarazzo e l’attesa sono chiaramente il risultato della valutazione, da parte dello spettatore, del personaggio e della situazione narrativa, e non il risultato di soluzioni stilistiche che Smith predilige nella sua teoria basata sugli stati d’animo. Gli stati di orientamento che Smith descrive sono fenomeni complessi che potrebbero essere meglio descritti come affetti sinestetici […], che consistono in un’ampia gamma di fenomeni mentali e fisiologici, stati d’animo ed emozioni compresi. Smith afferma che tutte le emozioni sono brevi e intense, ma non è così che stanno le cose. Le emozioni globali come l’attesa e la suspense possono estendersi per periodi più lunghi nel corso della visione e possono crescere e decrescere in intensità su lunghi brani del film.42 Inoltre, come ho appena sostenuto, le emozioni globali sono essenziali per predisporre l’attenzione dello spettatore e generare le aspettative che Smith vorrebbe riservare agli stati d’animo. In molti casi le aspettative generate da una narrazione filmica possono essere meglio descritte come aspettative suscitate da emozioni a lungo termine anziché da stati d’animo. Nella mia teoria cognitiva-percettiva, lo stato d’animo creato da un film è talvolta un’esperienza di per se stessa certamente importante, ma può anche servire a suscitare e intensificare sia le emozioni globali sia le emozioni locali. 116
I film e le emozioni
EMOZIONI DIRETTE, EMOZIONI SIMPATETICHE/ANTIPATETICHE, EMOZIONI ARTEFATTUALI E META-EMOZIONI
Per i miei scopi la distinzione più importante fra tipi di emozioni è certamente quella fra emozioni dirette, emozioni simpatetiche/ antipatetiche e meta-emozioni. Consideriamo in primo luogo la distinzione fra emozioni dirette ed emozioni simpatetiche. Aristotele, che concepiva l’arte come imitazione della vita, proponeva due tipi di emozioni rispetto alle opere narrative. Uno è il tipo di emozioni relative alla comprensione o al processo di comprensione di ciò di cui tratta la storia, ovvero l’“imitazione”. Le persone “provano piacere a comprendere qualcosa”. L’altro tipo ha a che vedere con le emozioni ordinarie che risultano appropriate alla situazione che è oggetto della mimesi o dell’imitazione.43 Io chiamo queste ultime emozioni dirette. Le emozioni dirette derivano dal coinvolgimento dello spettatore e dal suo interesse per il contenuto della storia che si dipana. Emozioni come attesa, suspense, sorpresa, curiosità, fascinazione ed euforia sono emozioni dirette. Lo spettatore può per esempio essere fortemente curioso di come si svilupperà la vicenda, oppure sorpreso da una svolta improvvisa, o ancora proverà suspense nell’aspettare l’esito di una situazione incerta. Le emozioni dirette solitamente insorgono quando vengono rivelate nuove informazioni narrative che ci permettono di avanzare nella comprensione della storia. Le emozioni simpatetiche o antipatetiche derivano dalla valutazione di una situazione narrativa da parte dello spettatore, principalmente in relazione agli interessi, agli obiettivi e al benessere di un determinato personaggio. Emozioni quali felicità, tristezza, compassione, rabbia, pietà e paura sono emozioni tipicamente simpatetiche dal momento che siamo felici o tristi per un personaggio oppure arrabbiati o spaventati con, per o nei confronti dei personaggi. Mentre varie forme di empatia (discusse più ampiamente fra poco) ci permettono di condividere in parte queste emozioni, la nostra reazione è sempre differentemente connotata, risultando tipicamente più simpatetica che empatica. Vale a dire che io posso provare empatia per un certo personaggio, ma la mia reazione non è mai puramente e unicamente empatica, poiché io percepisco la situazione dalla mia particolare prospettiva anziché “dal di dentro” […]. 117
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
Quando gli spettatori simpatizzano con e “sentono per” un certo personaggio, la loro esperienza affettiva è diversa da ciò che essi immaginano sia l’esperienza di tale personaggio. Diciamo spesso che “temiamo per le sorti di” o “abbiamo compassione per” un personaggio. La paura dello spettatore che assiste alla resa dei conti finale di Il silenzio degli innocenti (1991) non deriva dall’eventualità che Buffalo Bill uccida lo spettatore, bensì dal fatto che possa uccidere Clarice Starling (Jodie Foster). In tal senso la mia paura è per lei, non per me stesso, il che rende la mia paura qualitativamente e quantitativamente diversa dall’avere paura per la mia propria sorte. Anche la compassione è un’emozione che ha come oggetto l’esperienza di qualcun altro, non l’esperienza del soggetto stesso.44 Le emozioni simpatetiche sono “emozioni per”, mentre le emozioni antipatetiche, come la rabbia o il disprezzo rivolti a un personaggio che svolge il ruolo di antagonista, sono “emozioni contro”. Alcune emozioni non sono né dirette né simpatetiche, avendo come oggetto sia le reazioni dello spettatore stesso sia quelle di altri spettatori. Definisco questa tipologia meta-emozioni. Lo spettatore può reagire emotivamente alle sue stesse reazioni, i suoi pensieri o i suoi desideri sorti precedentemente durante la visione del film. Tali emozioni possono variare dalla vergogna e dal senso di colpa all’orgoglio e a un forte senso di gratificazione. Lo spettatore può commuoversi fino alle lacrime durante una scena sentimentale (a causa di un’emozione simpatetica di pietà o compassione) e poi sentirsi imbarazzato del proprio pianto (meta-emozione). Oppure può provare pietà per un personaggio (emozione simpatetica) e poi sentirsi orgoglioso di essere un tipo di persona che prova pietà per gli altri (meta-emozione). O ancora lo spettatore può desiderare la morte di un certo personaggio e poi sentirsi in colpa o vergognarsi per averne desiderato la morte. Possiamo anche distinguere le emozioni sulla base del fatto che esse prendano come oggetto il mondo finzionale della narrazione oppure il film stesso inteso come un artefatto. Le prime sono emozioni finzionali mentre le seconde potrebbero essere definite emozioni artefattuali.45 Tanto le emozioni dirette quanto quelle simpatetiche sono tipicamente emozioni finzionali. Le emozioni artefattuali consistono in tutte quelle reazioni emotive suscitate direttamente dalla natura artefattuale del film considerata come 118
I film e le emozioni
opposta al contenuto della finzione. Le emozioni artefattuali possono includere l’apprezzamento per un movimento di macchina particolarmente geniale, lo sdegno per una sceneggiatura scontata, la rabbia per l’apparente disprezzo che il cineasta mostra nei confronti del pubblico, oppure l’ammirazione per la qualità di un film. La crescente tendenza, nel cinema hollywoodiano contemporaneo, a fare allusione a film precedenti può suscitare piacere e divertimento. Secondo la maggior parte dei modelli illusionistici della spettatorialità filmica durante la visione lo spettatore prova principalmente emozioni finzionali. Io ritengo invece che nell’esperienza dello spettatore le emozioni artefattuali siano molto comuni. Cosa che non dovrebbe sorprendere dato che, come ho avuto modo di sostenere, gli spettatori presuppongono implicitamente la natura fittizia di ciò che vedono. È importante notare che gli spettatori possono provare emozioni finzionali ed emozioni artefattuali simultaneamente. Quando lo spettatore apprezza (o disdegna) consapevolmente il celebre piano sequenza che apre L’infernale Quinlan (1958) di Orson Welles o quello che apre I protagonisti (1992) di Robert Altman, si tratta di emozioni artefattuali. Ma il contenuto di queste inquadrature può simultaneamente suscitare emozioni finzionali. Peraltro anche una carrellata, per il modo in cui presenta il mondo fittizio, può suscitare emozioni finzionali. Una lunga ripresa statica presenta il mondo fittizio e i personaggi in modo diverso da quanto farebbe una carrellata; forse la prima suggerisce stabilità o solidità, mentre la seconda suggerisce malleabilità, fluidità ed energia. TRACCE DI MEMORIA E ASSOCIAZIONI
Le emozioni degli spettatori sono tipicamente suscitate dagli stimoli esterni offerti dal film, ma le risposte a tali stimoli sono spesso dipendenti dai ricordi e dalle associazioni che lo spettatore porta con sé nella propria esperienza del film. In questo capitolo ho tratteggiato una concezione delle emozioni umane come costrutti basati sulla rilevanza. […] Uso qui la parola “rilevanza” in senso ampio: qualunque cosa che ci riguardi, che influenzi i nostri interessi, o ci preoccupi. Nel vedere Il silenzio degli innocenti lo spettatore sviluppa varie forme di rilevanza, a partire dal desiderio di vedere e sapere di più sul malvagio ma affascinante Hannibal Lecter per 119
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arrivare all’auspicio simpatetico che Clarice Starling riesca a sottrarsi alla morsa dell’assassino Buffalo Bill e si dimostri una valida agente dell’fbi. Quanto più forte è la rilevanza, tanto più intensa sarà la reazione emotiva dello spettatore. Tanto più forte è la mia fascinazione per Hannibal Lecter, tanto più grandi saranno la mia curiosità e la mia attesa di quel che combinerà. Tanto più forte è la rilevanza che attribuisco al benessere di Clarice Starling, tanto più grande sarà la mia suspense quando Clarice sfida Buffalo Bill nell’oscurità della sua cantina. L’intensità della reazione dello spettatore dipende anche da altri fattori. Altri generatori di emozioni sono le tracce di memoria, le associazioni apprese e il contagio emotivo. […]46 Qui considero principalmente le tracce di memoria e le associazioni apprese. Le emozioni che gli spettatori provano in reazione ai film sono in parte l’esito di un apprendimento. Le musiche, le immagini, i suoni e le situazioni narrative paradigmatiche vengono associate a esperienze emotive precedenti che lo spettatore ha già sperimentato nella sua vita quotidiana.47 Le associazioni mentali e le tracce di memoria possono essere innescate dalla visione di un film o di un’altra opera d’arte. Questa capacità di suggestione delle opere d’arte ricopre un ruolo cruciale nella poetica sanscrita di Anandavardhana e Abhinavagupta, i quali parlano di rasa, la componente emotiva dell’esperienza di un’opera d’arte. Per Abhinavagupta (come riferisce Patrick Colm Hogan), i ricordi sono al tempo stesso rappresentazionali ed emotivi.48 Vale a dire che non ci limitiamo a ricordare eventi o persone (in forma visiva, verbale ecc.); li ricordiamo emotivamente. I nostri ricordi sono permeati dalle coloriture affettive. In aggiunta, Abhinavagupta riteneva che ci sono occasioni in cui queste tracce di memoria e queste emozioni sono attivate in modo tale che il contenuto rappresentazionale del ricordo resti al di sotto della soglia di coscienza, mentre la componente affettiva emerge ed è sentita consciamente. In altre parole sentiamo qualcosa senza una corrispondente consapevolezza dell’oggetto dell’emozione. In tal senso le opere d’arte possono suscitare stati affettivi che sgorgano da tracce di memoria caricate emotivamente senza che il contenuto rappresentazionale del ricordo sia esplicitato. Per Abhinavagupta il piacere estetico “deriva dalla ‘generalizzazione’ delle emozioni nel rasa, vale a dire il distacco dall’inte120
I film e le emozioni
resse personale che è parte del legame tra l’affetto e il contenuto rappresentazionale nelle tracce di memoria”.49 Rasa è l’emozione che viene parzialmente isolata dall’interesse personale, è di natura empatica, e per tali ragioni è comparabile all’illuminazione religiosa. La mia risposta a queste tesi è la seguente. Può darsi che in certi casi le emozioni suscitate dai film siano causate da tracce di memoria, associazioni apprese, contagio emotivo e altri fattori simili. Più spesso, tuttavia, tali stimoli servono a intensificare o favorire le emozioni, non l’oggetto delle emozioni. Per illustrare quel che voglio dire fornirò un esempio tratto dalla mia esperienza personale. Più di venticinque anni fa, un mese dopo la fine infelice di una relazione sentimentale, ho assistito al film di Elia Kazan Splendore nell’erba (1961). Questo film drammatico, ambientato nel Kansas rurale, narra di due adolescenti innamorati costretti a lasciarsi per le pressioni delle rispettive famiglie, cosa che causa in loro un dolore emotivamente straziante. Sebbene la loro separazione somigliasse solo vagamente alla mia esperienza personale, questo film mi gettò in uno stato di sconvolgimento emotivo che durò per ore. Per quanto io creda che l’oggetto della mia emozione fosse la particolare storia narrata da Splendore nell’erba, quella mia recente e turbolenta esperienza amorosa forse favorì e sicuramente intensificò la mia reazione emotiva. Dunque le emozioni e gli affetti al cinema sono suscitati da narrazioni appositamente progettate per attivare costrutti basati sulla rilevanza, ma sono in parte favoriti e intensificati da associazioni, abitudini, disposizioni o risposte condizionate che suggeriscono sia il motivo per cui emozionarsi sia l’emozione stessa.50 Al cinema, certamente, tale suggestione può manifestarsi in molti modi, attraverso qualsiasi oggetto, persona, evento o ambiente rappresentabili in forma visiva o sonora. Se si considera la vividezza con la quale i film possono rappresentare eventi e altri fenomeni, non sarebbe esagerato sostenere che il medium cinematografico ha una spiccata capacità di suscitare affetti radicati in ricordi e associazioni, favorendo e intensificando le reazioni emotive corrispondenti. […] […]
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IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
NOTE
1. W. James, Le varie forme dell’esperienza religiosa. Uno studio sulla natura umana (1902), Fratelli Bocca, Torino 1904, pp. 143-144. 2. O. Sacks, “In the river of consciousness”, in New York Review of Books, 1, 2004, p. 41. 3. H. Münsterberg, Film (1916), tr. it. di D. Spinosa, Bulzoni, Roma 2010. 4. H. Bergson, citato in O. Sacks, “In the river of consciousness”, cit., p. 41. [Vedi H. Bergson, L’evoluzione creatrice (1907), tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 250. NdC] 5. V.F. Perkins, Film as Film: Understanding and Judging Movies, Penguin Books, Harmondsworth 1972, p. 133. 6. Sono state omesse dalla traduzione le pagine 49-61 del testo originale, nelle quali l’autore discute delle emozioni in generale senza ancora connetterle al discorso sul cinema. È tuttavia importante rimarcare che in tale discussione Plantinga dichiara di voler trattare le emozioni secondo una concezione “cognitivo-percettiva”, attenta sia ai contenuti cognitivi del pensiero sia agli effetti percettivi dell’esperienza. Più specificamente l’autore, adottando la proposta di Robert C. Roberts, definisce le emozioni come “concern-based construals”, ossia stati mentali non necessariamente consapevoli, “impressioni, modi in cui le cose appaiono al soggetto, esperienze e non semplicemente giudizi, pensieri o credenze” (vedi R.C. Roberts, Emotions: An Essay in Aid of Moral Psychology, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 96 e 102). Un costrutto di questo tipo, scrive Plantinga, “è come una percezione nel senso ampio della parola. È l’esperienza di una situazione nella sua importanza; può essere sentito oppure pensato, può essere pre-riflessivo o riflessivo, può essere, ma non necessariamente, automatico” (p. 56). Secondo Roberts, e dunque Plantinga, tali costrutti sono basati sul concern, parola traducibile in italiano con “interesse”, “importanza”, “riguardo”, “preoccupazione”, “premura” ecc. Il verbo to concern è traducibile come “vertere”, “concernere”, “riguardare”. L’espressione indica dunque la percezione della rilevanza posseduta da una determinata situazione per un soggetto. Per esempio ho paura di un orso perché tale paura riguarda la mia sicurezza o la mia sopravvivenza; senza tale concern non proverei alcuna paura. Per questa ragione nella traduzione si è deciso di rendere la parola concern con il termine “rilevanza”, per quanto approssimativo. [NdC] 7. H. Münsterberg, Film, cit., p. 113. [L’espressione originale utilizzata da Münsterberg è photoplay (vedi The Photoplay. A Psychological Study, D. Appleton and Co., New York-London 1916). NdC] 8. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Sandron, Palermo 1902; R.G. Collingwood, The Principles of Art, Oxford University Press, Oxford 1938. Vedi anche J. Spackman, “Expression theory of art”, in M. Kelly (a cura di), Encyclopedia of Aesthetics, vol. 2, Oxford University Press, New York-Oxford 1998, pp. 139-144. Sono incline a sostenere che l’esperienza emotiva non sia separata dalla conoscenza concet-
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tuale o dall’attività cognitiva, ma che forse l’arte abbia una capacità unica di combinare attività concettuale e reazioni emotive. 9. C. Bell, L’arte (1914), tr. it. di C. Zambianchi, Aesthetica, Palermo 2012, pp. 50-51. 10. Come facciamo a sapere che la forma è significante? Lo sappiamo, scrive Bell, perché essa suscita emozioni estetiche. Come facciamo a sapere che queste sono emozioni estetiche? Lo sappiamo perché esse derivano dalla forma significante. Che cos’è la forma significante? È la forma che permette l’esperienza di emozioni estetiche. L’argomentazione di Bell procede secondo questa logica circolare. 11. Sulle emozioni come “costrutti basati sulla rilevanza” vedi nota 6. [NdC] 12. S. Prince, “True Lies: Perceptual realism, digital images and film theory”, in Film Quarterly, 49, 3, 1996, pp. 27-37. 13. E.S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, Lawrence Erlbaum, Mahwah (nj) 1996, pp. 82 e 153. 14. R.J. Gerrig, D.A. Prentice, “Notes on audience response”, in D. Bordwell, N. Carroll (a cura di), Post-Theory. Reconstructing Film Studies, University of Wisconsin Press, Madison 1996, p. 396. 15. Gerrig e Prentice riconoscono che gli spettatori non credono di poter attirare l’attenzione dei personaggi o influenzare l’esito della storia, cosa che, a mio avviso, mette immediatamente in discussione la loro caratterizzazione di spettatore cinematografico come “partecipante”. Non sono persuaso che l’analogia fra un partecipante defilato a una conversazione e lo spettatore cinematografico sia utile essendoci troppe differenze fra le due situazioni. Assistere a un film differisce dall’ascoltare una conversazione sotto molti aspetti. Usare la conversazione umana come modello per la visione cinematografica è un po’ come usare l’immersione subacquea come modello per imparare a sciare. Sarebbe meglio concentrarsi direttamente sullo sci. 16. Vedi M. Smith, “Film spectatorship and the institution of fiction”, in Journal of Aesthetics and Art Criticism, 53, 1995, pp. 113-127. 17. Per una ricognizione sul paradosso della finzione vedi R. Yanal, Paradoxes of Emotion and Fiction, Pennsylvania State University Press, University Park 1999. Vedi anche D. Matravers, Art and Emotion, Clarendon Press, Oxford 1998, specialmente il capitolo 3, “Fearing fictions”, sulla reazione fra emozioni e credenze nella finzione. 18. C. Radford, “How can we be moved by the fate of Anna Karenina?”, in Proceedings of the Aristotelian Society, supp. vol. 49, 1975, pp. 67-80. 19. K. Walton, Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Representational Arts, Harvard University Press, Cambridge (ma) 1990. [L’espressione inglese utilizzata dall’autore – game of make-believe – rimanda alla simulazione nel senso di “giocare a far finta”. NdC] 20. Per un’ampia discussione di questa posizione vedi N. Carroll, The Philosophy of Horror, Routledge, New York-London 1990, pp. 59-88. 21. Ibidem, p. 83.
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22. W. Iser, The Fictive and the Imaginary: Charting Literary Anthropology, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1993. 23. R. Odin, “A semio-pragmatic approach to the documentary film”, in W. Buckland (a cura di), The Film Spectator: From Sign to Mind, Amsterdam University Press, Amsterdam 1995, p. 227. 24. Citazioni di Hitchcock tratte da F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock (1966), tr. it. di G. Ferrari e F. Pititto, Pratiche, Parma 1977, p. 62. 25. E.S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., pp. 85-120. 26. C.E. Izard (a cura di), Human Emotions, Plenum Press, New York 1977, p. 211. 27. Vedi N. Frijda, The Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 1986. 28. A. Ortony, G.L. Clore, A. Collins, The Cognitive Structure of the Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 174. 29. Little Miss Muffet è la bambina protagonista di una filastrocca inglese che racconta di un ragno che la spaventa. [NdC] 30. Tan scrive che l’interesse si dà in tre forme – curiosità, suspense e sorpresa. Io sono più incline a dire che altre emozioni sono coinvolte nel mantenere vivo il nostro desiderio di concentrarci sul film e che queste non possono essere ricondotte a un’unica emozione. 31. Per una discussione sull’interesse come emozione globale nella visione cinematografica vedi C. Plantinga, E.S. Tan, “Interest and unity in the emotional response to film”, in Journal of Moving Image Studies, 4, 1, 2007, www.avila.edu/journal/vol4/Plantinga_Tan_JMIS_def.pdf. 32. G.M. Smith, Film Structure and the Emotion System, Cambridge University Press, Cambridge 2003. 33. Ibidem, p. 42. 34. Ibidem. 35. Ibidem, p. 39. 36. Ibidem. 37. Ibidem, p. 38. 38. Ibidem, p. 45. 39. Ibidem, p. 50. 40. Ibidem, p. 51. 41. Ibidem, p. 89. 42. Le emozioni dirette di lunga durata, come la suspense, la curiosità, l’attesa e l’interesse non sono elencate nell’indice analitico del libro di Smith. Sebbene Smith utilizzi il termine “attesa” nella sua analisi di specifici film, non sembra volerla considerare un’emozione. Queste emozioni di lunga durata, diversamente dagli stati d’animo, possono essere proficuamente usate per spiegare l’attività mentale diretta verso il futuro che è richiesta affinché lo spettatore elabori la narrazione e il tipo di esperienza affettiva che essa genera. 43. Citato in S.H. Olsen, “Literary aesthetics”, in M. Kelly (a cura di), Encyclopedia of Aesthetics, vol. 3, Oxford University Press, New York-Oxford 1998, p. 148.
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44. Per una discussione della compassione in quanto emozione vedi R.S. Lazarus, Emotion and Adaptation, Oxford University Press, Oxford 1994, pp. 287-292. 45. Anche Tan distingue fra emozioni finzionali e artefattuali, sebbene le nostre terminologie differiscano sotto alcuni aspetti fondamentali; vedi E.S. Tan, Emotion and the Structure of Narrative Film, cit., pp. 65-66. 46. In questo omissis l’autore rimanda alla trattazione del “contagio emotivo” affrontata in un capitolo successivo del volume da cui è tratto il presente scritto (il capitolo 4). Per “contagio emotivo” si intende il fenomeno di “trasmissione” delle emozioni provate dalle persone che ci circondano o che osserviamo, in un contesto sociale (per esempio ridiamo perché gli altri spettatori ridono anche se non troviamo la barzelletta esilarante), ma anche al cinema (per esempio ridiamo perché gran parte degli altri spettatori ridono anche se non abbiamo capito la battuta del personaggio). Sul contagio emotivo lo stesso Plantinga rimanda a E. Hatfield, J.T. Cacioppo, R.L. Rapson, Emotional Contagion, Cambridge University Press, Cambridge 1994. [NdC] 47. R.S. Lazarus, Emotion and Adaptation, cit., p. 293. 48. P.C. Hogan, The Mind and Its Stories: Narrative Universals and Human Emotion, Cambridge University Press, Cambridge 2003, pp. 51-54. Hogan descrive (o forse traduce) le teorie di Abhinavagupta nel lessico delle scienze cognitive contemporanee. 49. Ibidem, pp. 53-54. 50. Qualcosa di simile è suggerito in W.K. Wimsatt, M. Beardsley, “The Affective Fallacy”, in H. Adams (a cura di), Critical Theory since Plato, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1971, p. 1030. Wimsatt e Beardsley asseriscono esplicitamente che i critici non dovrebbero confondere la poesia con i suoi effetti, e sostengono che questi ultimi (le reazioni affettive) non sono affatto l’oggetto di studio della critica. Il critico dovrebbe invece limitarsi a riconoscere i correlativi oggettivi, vale a dire le caratteristiche oggettive del testo […] che si pensa possano suscitare tali reazioni. Nonostante l’attenzione riservata a tali elementi credo che Wimsatt e Beardsley sbaglino a negare l’importanza e l’interesse dello studio dei fattori di condizionamento delle reazioni alle opere d’arte.
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4 LA NEURO-IMMAGINE SCHIZOANALISI, SCHERMI DIGITALI E NUOVI CIRCUITI CEREBRALI
Patricia Pisters
Patricia Pisters (http://www.patriciapisters.com) si è formata accademicamente alla Universiteit van Amsterdam, dove è professore di Media Studies con specializzazione in Film Studies e dove dal 2010 al 2013 ha diretto il Dipartimento di Media Studies. Dal 2015 è direttore di ricerca della Amsterdam School of Cultural Analysis (asca). I suoi interessi scientifici si concentrano sulla filosofia del film di ispirazione deleuziana, specialmente in congiunzione alle neuroscienze e alle implicazioni politiche dell’ecosistema mediale contemporaneo. Fra le sue principali pubblicazioni in lingua inglese The Matrix of Visual Culture: Working with Deleuze in Film Theory (Stanford University Press, Stanford 2003), The NeuroImage: A Deleuzian Filmphilosophy of Digital Screen Culture (Stanford University Press, Stanford 2012) e la curatela del volume Micropolitics of Media Culture: Reading the Rhizomes of Deleuze and Guattari (Amsterdam University Press, Amsterdam 2002). È autrice anche di studi sugli autori classici del cinema e sulla cultura cinematografica dei Paesi Bassi (Filming for the Future: The Work of Louis van Gasteren, Amsterdam University Press, Amsterdam 2015). È stata membro del comitato di direzione della European Network for Cinema and Media Studies (necs), la più importante rete europea di studiosi di cinema e media. È tra i fondatori della rivista necsus: European Journal of Media Studies. Un terzo tipo di immagine si è affacciato nell’ecosistema visuale contemporaneo dopo le deleuziane immagine-movimento e immagine-tempo. È la neuro-immagine, i cui tre pilastri fondamentali sono descritti nell’introduzione, qui parzialmente tradotta, del volume The Neuro-Image: A Deleuzian Filmphilosophy of Digital Screen Culture di Patricia Pisters. Il primo pilastro è la filosofia schizoanalitica di Gilles Deleuze, riferimento essenziale dell’autrice. Non solo i due libri sul cinema e i lavori con Félix Guattari su capitalismo e schizofrenia (L’anti-Edipo e Mille piani), ma anche Differenza e ripetizione, Che cos’è la filosofia?, Pourparler e l’intervista “Il cervello è lo schermo”, da cui emerge la predilezione del filoso127
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fo francese (e di Pisters) per un approccio, più o meno metaforicamente, biologico. Una biologia molecolare che riflette la complessa modularità e interconnettività del cervello, organo del pensiero attraversato da sinapsi e reti irrappresentabili e inconcepibili linearmente. Il pensiero non è arborescente, non procede per ramificazioni progressive, bensì è rizomatico, “opera seguendo le connessioni eterogenee e multiple caratteristiche anche dei processi cerebrali”. Il secondo pilastro è il digital turn nella cultura mediale contemporanea: gli schermi sono ubiqui e interconnessi (aspetto che richiama le considerazioni di partenza del saggio di Giuliana Bruno in questo volume), la vita quotidiana “gira” su un software invisibile ma pervasivo, la fruizione dei media è attiva e creatrice, l’archivio si è scoperchiato e si è trasformato in un database infinito e destrutturato di informazioni e memorie. L’impatto del digitale nella cultura contemporanea ha messo in crisi l’istituzione del cinema e dunque l’efficacia e persino la necessità della teoria. La terza caratteristica portante della neuro-immagine potrebbe risolvere la crisi aperta dal digitale: è la transdisciplinarietà, l’impasto di filosofia, arte e scienza, l’affinità tra il pensare per concetti, per affetti e per funzioni, un aspetto che ricorda la tendenza della teoria che nell’Introduzione abbiamo chiamato “infrastrutturale”. La neuro-immagine è il luogo di incontro di questi ambiti, come esemplificato dal viaggio cerebrale nei titoli di testa di Fight Club di David Fincher. Ma l’esempio attorno a cui ruota l’argomentazione di Pisters è Michael Clayton di Tony Gilroy. In un’elegante analisi che apre e chiude il contributo, i concetti deleuziani di schizofrenia, potenza del falso, sintesi passiva, scelta spirituale trovano concretezza nelle menti dei personaggi. La neuro-immagine è espressione diretta dell’unione di cervello e schermo e dell’ingresso delle neuroscienze nella teoria del film. I neuroni specchio sono convocati per supportare il sostrato neurologico del movimento di vibrazione e contrazione che è la sensazione del film, in una modulazione teorica che per un verso si ricongiunge ad alcune considerazioni di Bellour e per l’altro anticipa alcuni temi della prossima sezione.
Il film Michael Clayton (Tony Gilroy, 2007) si apre con un delirante monologo.1 Vediamo prima le luci, le finestre e gli schermi di New York City di notte; poi la macchina da presa si sposta lentamente all’interno di uno dei tanti edifici per uffici, e una voce, più tardi identificata come quella di Arthur Edens (Tom Wilkinson), parla di una illuminazione avuta uscendo dal “vasto e potente studio legale” per cui lavora. “Il tempo è ora”, balbetta, affermando di essere “rinato” lontano dalla sua carriera in un’azienda che “espelle il veleno” nell’umanità. Stava difendendo una società denominata U-North da una class action da tre miliardi di dollari 128
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per inquinamento ambientale. Durante un incontro con le vittime della U-North, Edens scatta. Il suo incontro con una vittima in particolare, la giovane Anna (Merritt Wever), che ha perso i suoi genitori per l’inquinamento del suolo provocato dalla U-North, fa girare una sorta di interruttore sinaptico nella sua mente. Il suo modo ordinario di pensare – a sostegno delle multinazionali che dovrebbe difendere – cambia bruscamente, ed egli comincia a vedere le cose in modo nuovo. Smette di prendere il suo farmaco per la depressione maniacale, e così la sua folle ribellione contro il proprio comportamento abituale comincia finalmente a fomentarsi. Come una protesta in vece delle vittime le cui pretese avrebbe dovuto ignorare, si spoglia nel bel mezzo di un’udienza, mettendo in imbarazzo sia il proprio studio sia la U-North. Il suo amico Michael Clayton (George Clooney), che è il “sistematore” dello studio, è inviato a convincere Edens a tornare ad assumere il farmaco e un appropriato comportamento professionale. Edens rifiuta. In una scena chiave nel cuore del film vediamo Edens al centro di una strada di New York City, il traffico lo assale da tutti i lati e – cosa più importante – centinaia di schermi urbani lo circondano, trasmettendo annunci pubblicitari sulla “tv sul tuo telefonino” e sulla tecnologia alimentare della U-North. Mentre la macchina da presa ruota attorno a Edens, mostrando il flusso vorticoso delle immagini, delle luci e dei suoni che lo circonda, l’uomo è come congelato. Nel mezzo di questa follia vediamo Edens realizzare qualcosa in questo preciso istante (come anticipato dal monologo d’apertura): il tempo (di cambiare) è ora. Arthur Edens, delirante e intelligente, sorpreso nel vortice del paesaggio urbano contemporaneo disseminato di schermi elettronici e digitali interconnessi – schermi essi stessi sempre già connessi ad agglomerati di potere, capitali e movimenti transnazionali di popoli, beni e informazioni – è un personaggio tipico di quel nuovo tipo di cinema – parte della cultura globalizzata degli schermi del xxi secolo – che voglio esplorare e che descriverò come “neuro-immagine”. Per diversi motivi il film Michael Clayton ci porta al cuore del discorso. La follia di Edens segnala il primo aspetto della neuro-immagine che voglio prendere in considerazione: essa implica una forma di schizoanalisi o di analisi collettiva che è dunque particolarmente indebitata con l’opera di Gilles Deleuze e Félix Guattari sul capitalismo e sulla schizofrenia.2 Molte delle 129
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domande che affronterò riguardano la natura schizoanalitica della neuro-immagine: che cosa comporta questo tipo di immagine? In che modo la schizoanalisi, come definita da Deleuze e Guattari, riguarda la schizofrenia patologica e la cultura dello schermo? Quali sono i suoi sintomi (culturali)? Quali le sue dimensioni filosofiche e le sue implicazioni politiche ed etiche? Un secondo aspetto importante della neuro-immagine che troviamo in Michael Clayton è l’onnipresenza di schermi mediali. Non solo nella sequenza che mostra Edens per le strade di New York, piuttosto tipica della cultura contemporanea dello schermo, ma in tutto il film sono presenti schermi grandi e piccoli: display di navigatori, monitor di computer, telefoni cellulari, televisori, schermi urbani e tecnologie di sorveglianza. Questi schermi sono segni sia di una tipica città mediatizzata del ventunesimo secolo, sia delle pratiche d’uso quotidiano dei media.3 La neuro-immagine è parte di questa pratica mediatica interconnessa, legata all’ubiquità della tecnologia digitale e che con queste tecnologie ingaggia una “lotta interna con l’informatica”.4 Questa lotta, secondo Deleuze, è fondamentale per la sopravvivenza del cinema come “volontà d’arte”: Una volontà d’arte originale, l’abbiamo già definita nel cambiamento che riguarda la materia intelligibile del cinema stesso: la sostituzione dell’immagine-tempo all’immagine-movimento. Cosicché le immagini elettroniche dovranno fondarsi in un’altra volontà d’arte ancora, oppure in aspetti ancora sconosciuti dell’immagine-tempo.5
Questo contributo renderà conto del rapporto tra la neuro-immagine e il digitale, e farà riferimento al dibattito e alla ricerca attuali nella cultura contemporanea dello schermo. Dunque (come) effettivamente la neuro-immagine spiega la “volontà d’arte” nel contesto della cultura dell’immagine elettronica e in particolare dell’attuale sovrabbondanza dell’informazione? Può condurci alla scoperta di aspetti ancora sconosciuti dell’immagine-tempo? E se è così, la neuro-immagine è un tipo speciale di immagine-tempo o dovremmo parlare di un terzo tipo di immagine? Per provare a rispondere a questi interrogativi occorrerà ritornare ai libri di Deleuze sul cinema, ma anche a Differenza e ripetizione.6 In Michael Clayton si fa ripetutamente (ma parzialmente) riferimento alla follia di Arthur Edens nei termini di uno squilibrio chimico nel suo sistema neurologico. “In parte si tratta senz’altro 130
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di follia, in parte è una questione chimica”, gli concede Clayton. Questa insistenza sui processi cerebrali introduce un terzo importante aspetto della neuro-immagine. A proposito dello sviluppo del cinema coevo, Deleuze ha notoriamente sostenuto che “il cervello è lo schermo”: Il cervello è l’unità. Il cervello è lo schermo. Non credo che la linguistica e la psicoanalisi siano di grande aiuto per il cinema. Lo è invece la biologia del cervello, la biologia molecolare. Il pensiero è molecolare, le velocità molecolari compongono gli esseri lenti che noi siamo. […] I circuiti e le concatenazioni cerebrali non preesistono agli stimoli, ai corpuscoli o alle particelle che li tracciano. […] Il cinema, proprio perché mette in movimento l’immagine, o meglio, dota l’immagine di un automovimento, traccia e ritraccia continuamente i circuiti cerebrali.7
Se l’immagine-movimento e l’immagine-tempo sono correlate a certi circuiti del cervello, è poi possibile distinguere altri aspetti dello schermo cerebrale tipici della neuro-immagine? Per rispondere a questa domanda prenderò in considerazione gli aspetti biologici e i principi del cervello, accanto alle recenti scoperte delle neuroscienze, e li confronterò con le caratteristiche emergenti della neuro-immagine. La filosofia (schizoanalitica) deleuziana, il cinema nella cultura dello schermo digitale interconnesso e le scoperte neuroscientifiche sono quindi i tre ambiti [da] riunire per comprendere questo nuovo tipo di immagine, la sua forma e il suo significato. SCHIZOANALISI: ILLUMINAZIONI DELIRANTI, REALTÀ ILLUSORIE, VERITÀ AFFETTIVE
Come Arthur Edens insiste in Michael Clayton, è importante riconoscere che il suo delirio non è “solo follia”. Piuttosto, i sintomi di Edens e più in generale la schizofrenia possono essere considerati come un segno dei tempi. Nella sua introduzione a Critica e clinica di Deleuze, Daniel Smith spiega: “Autori e artisti, come dottori e clinici, possono essi stessi essere visti come profondi sintomatologi, […] ‘fisici della cultura’ per i quali i fenomeni sono segni o sintomi che riflettono un certo stato di forze”.8 Smith affronta diversi temi negli scritti di Deleuze sulla letteratura, decisivi per comprendere il modo in cui la schizoanalisi si rapporta al “clinico” e al “critico”9 – tramite la decostruzione del mondo (singolarità 131
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ed eventi), la dissoluzione del soggetto (affetti e percetti), la disintegrazione del corpo (intensità e divenire), la “monitorizzazione” della politica (atti discorsivi e affabulazione) e il tentennamento del linguaggio (sintassi e stile). Senza approfondire la brillante analisi di Smith, vorrei considerare queste “tematiche” come risonanti rispetto alle potenze schizoanalitiche. […] A questo punto torno a Michael Clayton e al monologo di Arthur Edens per introdurre alcune caratteristiche delle potenze della schizoanalisi. In primo luogo, il fondamentale carattere delirante del monologo d’apertura di Edens si esprime potentemente nell’intensa descrizione del divenire-un-altro: dalla rinascita alla quasi morte, alla forma emergente dello “stronzo di un organismo potente”, egli crea un corpo senza organi che resiste alla normale organizzazione della sua azienda (e la rifiuta) e a tutte le strutture di potere istituzionalizzate che essa coinvolge. È come se la vita inorganica attraversasse il suo corpo, trasformando l’architettura della sua azienda in un corpo e il suo stesso corpo in qualcosa di inorganico. Smith spiega che “in linea con Deleuze e Guattari, ciò che chiamiamo ‘delirio’ è la matrice generale tramite cui l’intensità e il divenire del corpo senza organi investe direttamente il campo sociopolitico”.10 Dunque questo potere del delirio non è solo il prodotto della follia, ma anche una particolare forma di resistenza (ai modi di vita) nella realtà, così come nell’arte. Arthur Edens, nella sua percezione delirante, all’improvviso vede la “follia” della cultura capitalistica contemporanea e rifiuta di continuare ad avere un ruolo in tale gioco infernale basato sul cinico abuso delle risorse umane e naturali. Il film ci chiede, piuttosto letteralmente, di considerare la domanda retorica di Deleuze sulla condizione del cinema: “un vero cinema non potrebbe contribuire a ridarci delle ragioni per credere nel mondo e nei corpi venuti meno? Il prezzo da pagare, nel cinema come altrove, era sempre stato l’incontro con la follia”.11 Dunque il primo potere della schizoanalisi insito nella neuroimmagine è il potere del delirio, una pericolosa, intensa e resistente forza di schizoflussi e sovrabbondanza. […] Il confronto schizofrenico con la follia può avere a che fare con due importanti “sintomi schizofrenici” con cui la cultura contemporanea deve vedersela oggi più che mai: la potenza del falso e la potenza degli affetti. Si tratta della seconda e della terza potenza della schizofrenia in gioco nella neuro-immagine. Nei suoi libri 132
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sul cinema Deleuze discute la potenza del falso rispetto al cinema nietzschiano di Orson Welles. Come il carattere di Welles dimostra, il falso può essere “vile” e letale, ma può essere anche “nobile” e creativo.12 In Michael Clayton la potenza del falso gioca un ruolo in diversi modi. Il lavoro di Clayton è quello di “aggiustare la verità” (uno degli slogan del film). Egli deve assicurarsi che i ricchi clienti che finiscono nei guai, come la U-North, scampino ai danni che hanno provocato nella maniera meno compromettente. Clayton deve mettere la potenza manipolatoria del falso a lavoro in favore della macchina capitalista. Le potenze del falso giocano un ruolo piuttosto diverso quando Edens diviene evidentemente allucinato nel suo delirio; ma queste allucinazioni, suggerisce il film, sono più reali di ciò che Edens ha precedentemente preso per la realtà. Attraverso esse, Edens è in grado di vedere realmente come il sistema dell’azienda funzioni contro l’umanità. Qui dunque la potenza del falso (come allucinazione del cervello-schermo di Edens) lavora contro il sistema. Sosterrò che la cultura contemporanea ha spostato la propria attenzione dalle immagini come “illusioni di realtà” alle immagini come “realtà delle illusioni” che operano direttamente sul nostro cervello e dunque come agenti reali nel mondo. Mentre riconoscendo la verità della sua vita lavorativa nelle sue allucinazioni, Edens crede molto fortemente anche nel potere affermativo di questa apparente finzione. […] La potenza degli affetti è ugualmente importante, in quanto si riferisce a una radicale riformulazione della questione del soggetto in Deleuze e nella cultura contemporanea. Edens è divorato da una schiacciante sensazione e improvvisamente vede con incredibile chiarezza la verità affettiva della sua attuale condizione. L’edificio in cui si trova il suo ufficio diviene un corpo lurido ed egli diventa l’escremento di tale corpo, coperto dalla sporcizia di ciò che accade al suo interno. Queste sensazioni e visioni vanno oltre la sua stessa affettività e la percezione individuale. Come sensazione del divenire-altro, esse possono solo essere sentite. […] SCHERMI DIGITALI: CULTURE DEL SOFTWARE INTERCONNESSE, ASSEMBLAGGIO PROFONDO E LOGICA DEL DATABASE
La svolta digitale nella cultura in senso ampio e specificamente nella cultura mediale è il contesto in cui deve essere collocata l’e133
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voluzione della neuro-immagine. Senza proporre una descrizione esaustiva della complessità e dell’eterogeneità della cultura digitale, voglio semplicemente menzionare tre elementi decisivi per inquadrare la mia analisi della neuro-immagine: le culture interconnesse del software, l’assemblaggio profondo e la logica del database. La cultura contemporanea è sempre più generata dai software. Secondo il teorico, praticante e storico dei nuovi media Lev Manovich, il software permea tutte le aree della società contemporanea: “La scuola e l’ospedale, la base militare e il laboratorio scientifico, l’aeroporto e la città – tutti sistemi sociali, economici e culturali della società moderna – girano su software”.13 Particolarmente nella teoria dei media, ampio riconoscimento è dato oggi sia al “ruolo del software nella formazione della cultura contemporanea [sia] alle forze culturali, sociali ed economiche che stanno dando forma allo sviluppo del software stesso”.14 Il software, come ha affermato Manovich, consente la creazione, la pubblicazione, l’accesso, la condivisione e l’assemblaggio delle immagini, spostando sequenze di immagini, disegni 3D, testi, mappe e altri elementi interattivi – così come le combinazioni di questi elementi – in siti web, motion graphic, videogiochi, installazioni commerciali e artistiche e virtualmente in ogni nicchia della nostra cultura sempre più tecnologica. Il software fornisce anche gli strumenti di comunicazione sociale e di condivisione di informazioni, esperienze e conoscenze, come i browser, le e-mail, i wiki, i mondi virtuali e altre piattaforme web 2.0 come Facebook, MySpace, Flickr e YouTube.15 L’ubiquità e la varietà delle videocamere e degli schermi sono un aspetto particolarmente importante di questa cultura digitale “softwarizzata” in rete. […] Gli schermi si sono moltiplicati ovunque, sono sempre più collegati a tutti i tipi di software e, nonostante le loro specificità mediali, sono collegati in vaste reti distribuite. Come sottolinea Alexander Galloway nel suo libro Protocol, queste reti non sono illimitate, ma funzionano sempre più come complessi diagrammi; e come questo genere più elaborato di sistema (di relazioni), i sistemi interconnessi non sono né aperti né chiusi. Una rete, secondo Galloway, è un insieme di nodi e contorni, punti e linee. I punti possono essere computer (server, client o entrambi), utenti umani, comunità, lan,
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aziende, persino paesi. Le linee possono essere qualsiasi pratica, azione o evento eseguito dai punti (scaricare dati, inviare e-mail, collegarsi, crittografare, acquistare, loggarsi ed effettuare port scanning).16
Per comprendere la differenza o il mutamento all’interno delle reti è possibile fare una serie di cose con questo diagramma, sostiene Galloway. È possibile collegare i punti, scollegarli o anche eliminarli. Si possono filtrare i punti connessi o creare portali per la creazione di futuri punti. “Insomma, una rete-diagramma che offre tutte le possibilità di organizzazione, regolazione e gestione”, suggerisce Galloway. “Internet non è semplicemente ‘aperto’ o ‘chiuso’, ma soprattutto una forma modulare”, il che significa che “l’informazione scorre, ma lo fa in modo altamente regolato”, o meglio come un “flusso regolato”.17 […] Un’altra caratteristica della cultura del software sociale – il software che ha permesso l’avvento del web 2.0 – ha trasformato le logiche culturali di Internet da un ambiente ipertestuale di applicazioni interattive a una “cultura partecipativa” popolata da cosiddetti prosumers (consumatori attivi che producono contenuti). Il citizen journalism, YouTube (e altre culture online di condivisione di file), i blog e il transmedia storytelling incorporano i pubblici di diversi media e li raccolgono in una più stretta interrelazione. Queste combinazioni di cambiamenti culturali (digitali) sono state definite da Henry Jenkins “culture convergenti”.18 Come si relaziona la neuro-immagine allo spirito del web 2.0? E in quali modi specifici? Collegato alla cultura partecipativa è il fatto che il software abbia reso la cultura “profondamente assemblabile”. Ciò significa che, come spiega Manovich in Software Culture, non solo il contenuto può essere assemblato e ricombinato, ma anche che tecnologie diverse (come per esempio il design, l’animazione e la live action) possono essere ricombinate.19 Mash-up, remake, ricombinamenti: la cultura contemporanea è profondamente frammentata e costantemente rigenerata. Quelle che una volta erano strategie d’avanguardia sono divenute oggi pratiche quotidiane. I registi professionisti usano sempre più fotocamere digitali economiche e sono interessati a creare un’estetica fai-da-te, come per esempio nel movimento Dogma 95 avviato da Lars von Trier e Thomas Vinterberg.20 All’altra estremità di questa estetica si collocano i sempre più sofisticati effetti speciali e l’ultima gene135
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razione del cinema 3D. Dunque come definiamo la volontà d’arte in questo contesto, in cui si osservano da un lato una democratizzazione delle strategie artistiche a basso costo e dall’altro forme ad alto costo di produzione artigianale di nuove opere digitali? L’assemblaggio profondo della cultura digitale contemporanea è anche l’esito del fatto che il database è diventato un’unità fondamentale di organizzazione, creazione e controllo. In Il linguaggio dei nuovi media, Lev Manovich l’ha chiamata logica del database della cultura contemporanea. Dopo l’avvento del World Wide Web, afferma Manovich, “il mondo ci appare come una raccolta infinita e destrutturata d’immagini, testi e altri record di dati”, e così “è perfettamente logico assimilarlo a un database. Ma è altrettanto logico sviluppare una poetica, un’estetica e un’etica per questo database”.21 La rilevanza della forma database agisce sulla cultura contemporanea per perpetuare “l’intensità archivistica”, un’espressione introdotta da Jacques Derrida nel suo libro Mal d’archivio.22 Siamo passati in un’era in cui così tanto materiale precedentemente nascosto in archivi chiusi è divenuto progressivamente sempre più disponibile, spesso attraverso database online che, per la loro organizzazione e codifica, sono in grado di offrire frammenti di dati e immagini storiche che possono essere richiamate in ordine non cronologico. Questa abbondanza di materiale audiovisivo storico, disponibile in modi nuovi ma accuratamente ordinati, influisce sulla nostra precedente comprensione della storia e della memoria. In combinazione con il fatto che la nozione tradizionale (e accademica) di oggetti multimediali come “documenti” sembra essere sostituita dalla nozione di media che operano come “performance informatiche” dinamiche, la memoria e la storia sono conseguentemente (e sempre più) viste come dinamiche, e si trasformano continuamente in un archivio aperto.23 Sebbene i testi (mediali) in sé non siano certo scomparsi, si potrebbe sostenere che i media contemporanei in generale siano più fluidi dei media, relativamente stabili, del libro e del film classico. Che cosa significa questo rispetto alla nostra proposta di definizione di un nuovo tipo di immagine? La neuro-immagine attesta la logica contemporanea del database? Ed è possibile che questa logica aperta e dinamica possa ricadere sulle precedenti e più stabili forme dell’immagine, destabilizzando gli oggetti mediali più vecchi o permettendoci di vederli in una prospettiva diversa? 136
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Molti storici dell’arte e dei media hanno analizzato i mutamenti del cinema nell’era digitale. Anne Friedberg dimostra come gli schermi si siano moltiplicati nella cultura informatica, eppure la figura della finestra come cornice è ancora prevalente nella cultura contemporanea dello schermo, “da Alberti a Microsoft”, per quanto con caratteristiche diverse, come la simultaneità e la moltiplicazione delle prospettive.24 Nel suo Cinema in the Digital Age Nicholas Rombes ha descritto i mutamenti estetici del cinema e dell’esperienza filmica in termini di visione mobile, assemblata, frammentata e non lineare.25 Lev Manovich si è avventurato nella pratica del “database filmmaking”, che chiama “soft cinema”, caratterizzato da schermi multipli, parametri di selezione automatica e combinazioni di media differenti (animazione, cinema, grafica), il cui risultato è un’opera dalle infinite possibili combinazioni e mai esattamente lo stesso film.26 Matthew Filler suggerisce di vedere la cultura mediale in termini di ecologia di sistemi dinamici “in cui ogni parte è sempre molteplicemente connessa, agendo in virtù di tali connessioni, e sembra variabile, tanto che può essere considerata come una struttura piuttosto che semplicemente un oggetto”.27 David Rodowick in modo simile riconosce che la nuova vita virtuale del cinema è guidata dal software ma enfatizza che “i concetti di immagine, schermo, tempo e movimento sono pertinenti alla teoria contemporanea dell’immagine in movimento, così come lo erano per la teoria classica del cinema”.28 Secondo Rodowick la vita virtuale del film continuerà sotto due forme: come informazione e come arte. Il film in quanto tale, sostiene Rodowick, è morto. Diversamente io sosterrei che la neuroimmagine è la prosecuzione del film in quanto tale, anche se – o meglio esattamente perché – esso incontra la transmedialità. […] I PRINCIPI DEL CERVELLO: INTERFERENZE DISCIPLINARI, RIZOMI E GEOMETRIE FRATTALI
Deleuze propone una relazione fondamentale ed estremamente ricca nella cultura tra la filosofia (continentale), la neurologia e lo schermo (cinematografico): “Tra la filosofia e la neurologia c’è un rapporto privilegiato […]. Il mio interesse per il cinema è dato dal fatto che lo schermo può essere un cervello”.29 Prenderò alla lettera le suggestioni di Deleuze e partirò per un’avventura di incontro 137
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transdisciplinare con le recenti neuroscienze. Ma prima di affrontare alcune specifiche pratiche e scoperte neuroscientifiche, sono necessarie alcune osservazioni generali. In Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari incoraggiano un opportuno entusiasmo per gli incontri disciplinari quando sostengono che la filosofia, l’arte e la scienza siano fondamentalmente legate, in quanto sono i tre grandi ambiti del pensiero: pensare per concetti, pensare per percetti e affetti, pensare per funzioni. La filosofia, l’arte e la scienza condividono inoltre una lotta contro l’opinabilità e contro il caos, ma ognuno lo fa in modo specifico: Ciò che definisce il pensiero, le tre grandi forme del pensiero, l’arte, la scienza e la filosofia, è sempre il fatto di affrontare il caos, tracciare un piano, tendere un piano sul caos. Ma la filosofia vuole salvare l’infinito dandogli consistenza: traccia un piano di immanenza che porta all’infinito eventi o concetti consistenti sotto l’azione di personaggi concettuali. La scienza al contrario rinuncia all’infinito per arrivare alla referenza: traccia un piano di coordinate soltanto indefinite, che definisce di volta in volta stati di cose, funzioni o proposizioni referenziali, sotto l’azione di osservatori parziali. L’arte vuole creare il finito che restituisca l’infinito: traccia un piano di composizione, che a sua volta sostiene monumenti o sensazioni composte, sotto l’azione di figure estetiche.30
Deleuze e Guattari riflettono sugli incontri tra queste grandi aree del pensiero, che iniziano “quando una si accorge di dover risolvere per conto proprio e con i propri mezzi un problema simile a quello che si pone anche in un’altra”.31 In Pourparler Deleuze spiega come la biologia del cervello riveli una somiglianza materiale con il pensiero filosofico: “Nuove connessioni, nuove brecce, nuove sinapsi: è questo che la filosofia mobilita nel creare concetti; ma è anche una vera e propria immagine di cui la biologia del cervello scopre, con i propri mezzi, la somiglianza materiale oggettiva o il materiale potenziale”.32 […] Deleuze e Guattari distinguono diversi modi in cui le discipline possono incontrarsi e interferire tra di loro. Interferenze estrinseche si verificano quando ogni disciplina rimane sul proprio piano e utilizza i propri strumenti metodologici, per esempio quando la filosofia crea concetti di sensazione (si pensi ai libri di Deleuze sul cinema), la scienza crea funzioni di sensazioni o di concetti (come le teorie scientifiche sul colore o sulla bellez138
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za) e l’arte crea sensazioni di concetti o di funzioni (l’arte basata su modelli scientifici, come le immagini del dna o del cervello). L’interferenza intrinseca avviene quando concetti o personaggi concettuali, affetti o figure estetiche, funzioni o osservatori parziali lasciano il proprio piano e scivolano (più sottilmente) sugli altri.33 Deleuze e Guattari fanno l’esempio di Zarathustra, che, come persona concettuale, è quasi una figura estetica nell’opera di Nietzsche. Possiamo anche pensare a Filone, Cleante e Demea di Hume che discutono la questione della fede in Dialoghi sulla religione naturale.34 Ma forse possiamo anche pensare a una figura estetica che si comporta filosoficamente, come per esempio lo strano visitatore in Teorema di Pasolini (1968), che pone gli altri personaggi del film di fronte all’infondatezza del loro essere (anche se in modo molto sensuale). Le inferenze più generali hanno a che fare con l’inevitabile relazione di ciascun campo con il proprio negativo: “La filosofia ha bisogno di una non-filosofia che la comprenda, ha bisogno di una comprensione non filosofica, come l’arte ha bisogno di non-arte e la scienza di non-scienza”.35 Come Eric Alliez ha sostenuto nel suo libro The Signature of the World, per comprendere il mondo contemporaneo, abbiamo bisogno di impostare una “solidarietà” in movimento tra i diversi campi del pensiero.36 […] In Che cos’è la filosofia? il cervello gioca un ruolo importante, in quanto viene presentato come l’incrocio dei tre ambiti del pensiero. Dal momento che Deleuze sostiene che il cervello sia anche lo schermo, e lo schermo possa funzionare come un cervello, è utile stabilire innanzitutto come esattamente il cervello e lo schermo (cinematografico) possano funzionare come luogo di incontro tra l’arte, la scienza e la filosofia. La sequenza iniziale di Fight Club (David Fincher, 1998) è un metaluogo rilevante e interessante in cui possiamo iniziare a cercare alcune connessioni. La sequenza propone letteralmente un percorso attraverso il cervello. Il film esemplifica così il fatto che con la neuro-immagine ci si sposta letteralmente tra gli spazi cerebrali dei personaggi. Non vediamo più attraverso i loro occhi, come nell’immagine-movimento e nell’immagine-tempo; siamo invece più spesso nei loro mondi mentali. Nel dvd del film di Fincher due commenti audio spiegano come è stata realizzata la sequenza, ponendo in sinergia gli effetti visivi del viaggio immersivo cinematografico e il processo di mappa139
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tura neuroscientifica dei processi cerebrali.37 L’idea era di partire dall’amigdala e poi di risalire lungo i lobi frontali fino all’esterno della fronte. I creativi del reparto effetti visivi e i neuroscienziati consultati per la sequenza hanno scoperto che usavano in realtà tecniche (digitali) di visualizzazione molto simili e che avrebbero potuto lavorare assieme molto bene. Ricorrendo alla tipologia delle interferenze interdisciplinari di Deleuze e Guattari, possiamo sostenere che queste lavoravano insieme estrinsecamente. Gli artisti visuali hanno voluto creare la sensazione di una funzione, la sensazione di un viaggio dall’amigdala ai lobi frontali come qualcosa di “oscuro, spaventoso, umido e molto viscerale”, mentre i neuroscienziati si sono concentrati sulla funzione di una sensazione in cui le diverse parti e gli ambienti dell’esplorazione cerebrale fossero corretti nei loro dettagli neurologici. […] Nella sequenza iniziale di Fight Club sono importanti anche le qualità rizomatiche e frattali delle immagini, realizzate con una tecnica digitale chiamata “istanza nidificata”. Questa tecnica è utilizzata per simulare la complessità delle reali dinamiche del cervello, alcuni neuroni modello vengono caricati in un software digitale uno alla volta, ripetutamente, in diverse camere del cervello (modello). È ben noto che nei loro scritti Deleuze e Guattari danno alla forma rizomatica incredibile attenzione e importanza. In Mille piani sostengono che il “rizomatico” è un nome alternativo della loro intera filosofia, la quale opera seguendo le connessioni eterogenee e multiple caratteristiche anche dei processi cerebrali; e che è intercambiabile con il concetto di schizoanalisi. Quando introducono il pensiero rizomatico si riferiscono in modo specifico agli studi neuroscientifici sul cervello: Il pensiero non è arborescente e il cervello non è una materia radicata o ramificata. Quelli che a torto vengono chiamati “dendriti” non assicurano una connessione di neuroni in un tessuto continuo. La discontinuità delle cellule, il ruolo degli assoni, il funzionamento delle sinapsi, l’esistenza di micro-fessure sinaptiche, il passaggio di ogni messaggio al di sopra di queste fessure fanno del cervello una molteplicità che irrora nel suo piano di consistenza o nel suo flusso di cellule un sistema probabilistico incerto, uncertain nervous system. Molta gente ha un albero piantato nella testa, ma il cervello stesso è più erba che albero. “L’assone e il dendrite si avvolgono uno attorno all’altro come il convolvolo intorno al rovo, con una sinapsi per ogni spina.”38
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In questo stesso schema di pensiero rizomatico o di schizoanalisi, Deleuze e Guattari operano anche importanti distinzioni concettuali tra la memoria a breve termine e la memoria a lungo termine. Il pensiero rizomatico è guidato dalla memoria a breve termine e funziona secondo le condizioni del processo multiplo, collettivo e discontinuo che dimenticando include. Il pensiero ad albero opera nella memoria a lungo termine (famiglia, razza, società, civiltà). Deleuze e Guattari preferiscono chiaramente le strategie della memoria rizomatica a breve termine, ma riconoscono che lungo termine e breve termine, rizoma e albero, non possono essere visti in netta contrapposizione. I rizomi e gli alberi possono essere sia buoni sia cattivi, perché non si intende avanzare nessun dualismo, non vi è dualismo assiologico di buono e cattivo, e nemmeno melting-pot o sintesi americana. Nei rizomi si trovano nodi di arborescenza, e nelle radici spinte rizomatiche. Anzi, esistono formazioni dispotiche, di immanenza e di canalizzazione proprie dei rizomi, e deformazioni anarchiche nel sistema trascendente degli alberi, radici aeree e steli sotterranei.39
Inoltre i filosofi sostengono di non voler presentare due modelli differenti e opposti, ma che la relazione tra l’albero e il rizoma è in continua formazione, rompendo e ricollegando. Per via della sua complessità e del carattere probabilistico come sistema incerto, il cervello funziona in modo analogo in processi dinamici che non possono mai essere completamente risolti. È per questo che non può mai funzionare come un modello deterministico (anche se può essere assunto in tutti i tipi di discorsi deterministici). Il cervello è piuttosto un processo in continua mutazione e dunque fondamentalmente legato al movimento e al tempo. Per Deleuze questo è anche il collegamento fondamentale tra il cervello e il cinema; e nella misura in cui la neuro-immagine contemporanea pone anche domande sul futuro del cinema, questa continua trasformazione del cervello è un riferimento fertile e ricorrente. Quando si valutano le dimensioni politiche dinamiche e multiformi della neuro-immagine, si nota che le strutture rizomatiche sono coinvolte nello stato paradossale della neuro-immagine: in grado di essere incorporata mediante “macchine di cattura” e potenze di controllo (qualsiasi cervello, film, movimento, dispositivo), essa può offrire potenti opportunità di resistenza. 141
IL DIALOGO CON LA FILOSOFIA
Come ho sottolineato, Deleuze e Guattari prendono la struttura rizomatica del cervello come principio guida della loro intera filosofia, la cui composizione viene dimostrata in modo frattale. In questo senso la struttura dinamica del cervello funziona come una figura frattale nel loro pensiero, molto simile alla tecnologia dell’“istanza nidificata” utilizzata per creare il viaggio nel cervello nella sequenza di testa di Fight Club.40 È sorprendente vedere come, da un libro al successivo, Deleuze (in proprio o con Guattari) sviluppi una vasta rete di argomenti complessi, multipli ed eterogenei attraverso i quali modelli e preoccupazioni coerenti e simili riemergono come pensieri frattali. Nel suo articolo “Schizoanalysis and the phenomenology of cinema”, Joe Hughes ha dimostrato, per esempio, come il concetto di “sintesi passive” (definite come operazioni che avvengono nella mente, azioni neurologiche sensorimotorie inconsce) riemerge con alcune variazioni in AntiEdipo, Logica del senso e L’immagine-movimento: “In tutti e tre i libri la soggettività si fonda su un campo materiale che è descritto allo stesso modo: frammenti di materia comunicano tra loro indipendentemente da ogni altro soggetto”.41 Il concetto di sintesi passiva sviluppato in Differenza e ripetizione in relazione al tempo è importante anche per la neuro-immagine42 […]. […] IL POTERE DELLE IMMAGINI, I NEURONI SPECCHIO E LA CREAZIONE DI NUOVI CIRCUITI CEREBRALI
Nell’Abécédaire de Gilles Deleuze Claire Parnet propone la parola Zigzag come termine finale di un alfabeto deleuziano.43 Deleuze ama concludere con questa parola. “Non c’è parola dopo zigzag”, dice a Parnet. “La zeta è una grande lettera che stabilisce un ritorno ad A.” Zeta come il movimento della mosca, come il movimento del fulmine, è forse il movimento elementare che presiede alla creazione del mondo. Scherzando Deleuze propone anche di sostituire il Big Bang con “Le Zigzag”. Per la creazione di un universo, per qualsiasi universo, per tutto ciò che esiste, la domanda più elementare è: come può essere creata una connessione tra singoli punti, tra diversi campi di forza? È possibile immaginare un caos potenziale, ma come possiamo riportare gli elementi in 142
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un rapporto reale? Secondo Deleuze tutto esiste in connessione, e queste connessioni vengono raramente realizzate in modo lineare o prevedibile. Ogni connessione tuttavia è anticipata da una “cupa premonizione” – una sorta di esperienza in cui una traiettoria appena percepibile provoca una reazione tra diversi punti o forze. E poi abbiamo il fulmine, le zigzag, che produce un’illuminazione (“l’éclair qui fait voir”), una prolessi forse, uno scorcio del futuro (speculativo) che comporta un pensiero affettivo. Il momento di Michael Clayton in cui Arthur Edens resta congelato in mezzo al traffico e agli schermi urbani di New York potrebbe essere considerato una cupa premonizione. Il suo incontro con Anna, una delle vittime della U-North, è il momento in cui il fulmine colpisce. Ma anche Michael Clayton ha un’illuminazione provocata da un incontro speciale. All’inizio del film tutto quello che sappiamo di Clayton è che presumibilmente lavora come sistematore (un “aggiustatore della verità”) per il suo studio legale e che potrebbe essere in difficoltà finanziaria (poco prima di incontrare un cliente, responsabile di un incidente d’auto e bisognoso delle sue prestazioni, Clayton è mostrato in una bisca sotterranea). Tuttavia, nella scena che costituisce il reale principio della vicenda (incastonata tra le due sequenze), Clayton viene mostrato alla guida lungo una strada di campagna. È mattina presto. Il paesaggio invernale è avvolto nella foschia. La musica ha un tono vagamente minaccioso, l’espressione di Clayton è sommessa, poi ferma l’auto. Anche la musica si ferma. Guarda attraverso il finestrino dell’auto e i rami degli alberi privi di foglie si riflettono sul vetro. Apre il finestrino per vedere più chiaramente e poi esce. La macchina da presa è dietro di lui e per qualche secondo il suo corpo occlude la visione di ciò a cui sta realmente volgendo lo sguardo. I rami degli alberi sembrano fuoriuscire dalla sua testa e un attimo dopo si riflettono sulla sua auto come reti neurali. La messa in scena qui sembra evidenziare il cervello-schermo. Poi vediamo che cosa ha attirato l’attenzione di Clayton: in lontananza sulla vetta di una collina, accanto a qualche albero, sembra che tre cavalli lo stiano chiamando. Clayton cammina verso di loro, incerto, dubbioso, titubante. I cavalli non scappano. In una serie di primi piani li vediamo osservare Clayton, che ora può quasi toccarli. I cavalli sembrano magici, come se provenissero da un’altra dimensione temporale, e sembrano volergli dire qualcosa. In una 143
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lunga inquadratura vediamo la sua auto in lontananza, il motore ovviamente continua a girare, mentre il vapore fuoriesce dallo scarico. Poi all’improvviso un’esplosione… e l’auto avvolta tra le fiamme. I cavalli scappano. Clayton torna all’auto e si rende conto di essersi salvato grazie a questo strano incontro. Dopo questa incursione nel futuro della vicenda, la narrazione torna indietro nel tempo a quattro giorni prima. La scena di per sé è mozzafiato. Senza spiegare esplicitamente gli eventi, le qualità affettive delle immagini, la fredda foschia del mattino, gli alberi, i cavalli, l’espressione sul volto di Clayton e l’esplosione dell’auto ci suggeriscono che si tratta di un momento decisivo, un momento di illuminazione. Il seguito del film ci mostrerà gli eventi che hanno portato fino a questo momento. Verso la fine del film questa scena viene ripetuta, come un ciclo retroattivo, con lievi variazioni. Come spettatori ora sappiamo perché tutti i personaggi sono rappresentati in spenti toni di grigio, sappiamo come decisioni inumane espongano le persone a pressioni estreme (Tilda Swinton è superba nei panni di Karen Crowder, top manager della U-North), sappiamo come Arthur Edens venga assassinato per le sue deliranti e pericolose trasgressioni, e sappiamo come Clayton abbia capito di non avere scelta (la scelta di non avere scelta) nell’accettare dal suo capo un assegno per pagare i propri debiti anziché perseguire i crimini della U-North (e il coinvolgimento del proprio studio legale) scoperti attraverso Edens. Quando la scena dei cavalli viene riproposta per la seconda volta, con Clayton alla guida della sua auto nella campagna nebbiosa, vediamo che gli assassini a contratto che hanno ucciso Edens stanno seguendo anche Clayton. La stessa musica ora suona più precipitosa, più minacciosa. Avevamo visto, inoltre, che Clayton ritrova nell’appartamento di Edens il libro del gioco di fantasia di suo figlio, Regno e conquista, in cui uno dei disegni raffigura dei cavalli in piedi accanto a un albero senza foglie. A livello narrativo questo indizio potrebbe essere considerato una superflua spiegazione della sosta di Clayton. O lo si potrebbe considerare un’oscura (e opaca) premonizione che conduce Clayton all’illuminazione […]. Allo stesso tempo le qualità affettive di questa sequenza funzionano anche senza spiegazioni narrative. Ciò ha a che vedere con l’immanente potenza delle immagini descritta da Deleuze nei 144
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suoi libri sul cinema. Deleuze sostiene che le immagini non siano rappresentazioni e che ci riguardino direttamente, e ciò deve essere considerato secondo la sua cogente concezione di cervello. La scoperta piuttosto recente dei neuroni specchio dà ulteriore e concreto supporto alla concezione deleuziana di potenza delle immagini cinematografiche. I neuroni specchio sono cellule cerebrali che si attivano quando facciamo effettivamente qualcosa ma anche quando vediamo (o sentiamo) qualcun altro fare qualcosa. In alcune fasi del meccanismo cerebrale, quindi, vedere è agire (fenomeno talvolta descritto con l’espressione “La scimmia vede, la scimmia fa”). Così per queste porzioni del cervello non c’è differenza tra vedere qualcuno o qualcosa nella realtà o vedere qualcuno in un film. Damasio descrive questo fenomeno, scoperto dal neuroscienziato Vittorio Gallese e dalla sua équipe, in Alla ricerca di Spinoza.44 Quel che vediamo letteralmente tocca aree del cervello che imitano le azioni o le emozioni percepite. Ciò significa che in termini neurologici le immagini non possono essere considerate (solo) rappresentazioni di una realtà oggettiva, ma hanno invece un potere interno che crea certi effetti nel cervello, il che significa che le immagini creano nuovi circuiti nel cervello dello spettatore, che le riceve e le elabora. Come afferma Antonio Damasio, le reti neurali e le corrispondenti proiezioni mentali di oggetti e di eventi al di fuori del cervello sono creazioni cerebrali legate alla realtà che produce tali creazioni, non un riflesso passivo della realtà. Ogni cervello avrà una percezione leggermente diversa della realtà (delle immagini). Anche uno stesso cervello, mutando nel tempo, vedrà, in momenti diversi, la medesima immagine in modo diverso. Poiché in movimento tra il dentro e il fuori, questa è una concezione dinamica e dialettica del cervello-schermo. I neuroni specchio e il modo in cui il cervello recepisce le immagini possono illuminare le implicazioni deleuziane del cervello come schermo. C’è anche una compatibilità specifica tra la nostra conoscenza dei neuroni specchio e la tassonomia delle immagini proposta da Deleuze nei suoi libri sul cinema. In L’immagine-movimento Deleuze classifica le immagini secondo categorie come l’immagine-azione, l’immagine-affezione, l’immagine-pulsione e l’immagine-relazione: esse suscitano azione, affetto, pulsioni o pensieri nel cervello. Toccano direttamente il cervello e modificano anche la nostra soggettività; sono ciò che Deleuze chiama “aspetti mate145
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riali” della nostra soggettività in cui il cervello e la mente sono un tutt’uno. Quindi lo spettatore, nei termini della filosofia deleuziana del cinema, può essere meglio descritto come influenzato dalla “materia segnaletica” che muta e forma le nostre soggettività in un processo in corso.45 Guardare Michael Clayton è di fatto un’esperienza neurologica, l’esperienza di divenire Michael Clayton (sebbene solo temporaneamente). E i cavalli nella foschia invernale, potremmo dire, diventano potenzialmente per sempre legati alla storia di illuminazione e cambiamento di Clayton. In Differenza e ripetizione Deleuze discute dei segni come la nostra più importante modalità di apprendimento (che non è altro che la creazione o il rafforzamento di nuovi circuiti cerebrali): L’apprendimento non si fa nel rapporto che va dalla rappresentazione all’azione (come riproduzione dello Stesso), ma nel rapporto che va dal segno alla risposta (come incontro con l’Altro). […] Apprendere è proprio costituire questo spazio dell’incontro con dei segni. […] Essi attestano le forze della natura e dello spirito che agiscono sotto le parole, i gesti, i personaggi e gli oggetti rappresentati.46
Il film Michael Clayton chiarisce che prendere sul serio i segni è una questione di credenza e di scelta e non di una data conoscenza. La scelta in termini deleuziani è legata al vitalismo testimoniato dai segni, ed è solitamente provocata a livello affettivo; può essere sentita più che conosciuta. Dunque come può la sensazione essere una sorta di esperienza di scelta nel cervello e in quali modi essa è in relazione con la spiritualità? In Che cos’è la filosofia? Deleuze e Guattari discutono di come la sensazione nell’arte (cinematografica) risponda al caos contraendo le vibrazioni dell’eccitante su una superficie nervosa o in un volume cerebrale: quando una sensazione appare, quella che la precede non è ancora scomparsa. […] Conserva se stessa perché conserva delle vibrazioni. […] La sensazione è la vibrazione contratta, e divenuta qualità, varietà. Per questo chiameremo il cervello-soggetto “anima” o “forza”: solo l’anima conserva contraendo ciò che la materia dissipa, o irradia, fa avanzare, riflette, rifrange o converte.47
Una sensazione è dunque una contrazione, una sintesi passiva, una contemplazione di elementi della materia che conserva il prima nel dopo. Deleuze e Guattari attribuiscono questo aspetto del146
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la sensazione non solo agli esseri umani, ma a tutti i tipi di organismo. Le piante e le rocce non possiedono un sistema nervoso, ma sembrano condividere affinità chimiche e causalità fisiche tanto da costituirsi come “microcervelli” o, come scrivono, come una “vita inorganica delle cose”.48 Inoltre questa concezione vitalistica della spiritualità non ha nulla a che fare con i sogni o con la fantasia, ma è piuttosto “il campo della fredda decisione, dell’ostinazione assoluta, della scelta dell’esistenza”.49 La decisione fredda è esattamente come suona: sembra contraddire le sensazioni che porta con sé, ma di fatto è completamente logica secondo una prospettiva vitalistica che vede l’universo popolato di microcervelli che si muovono costantemente, agiscono e reagiscono, ma che trovano nelle sensazioni un momento di pausa, dove tutte le opzioni sono ancora aperte e una decisione deve essere presa. Quando in L’immagine-movimento Deleuze discute l’immagine-affezione, la categoria di immagini che crea sensazioni per eccellenza, spiega ulteriormente questa idea di scelta spirituale: le alternative non sono tra i termini (come buono o cattivo), ma tra i modi di esistenza di colui che sceglie.50 La vera scelta spirituale è la scelta di scegliere (scegliere di avere una scelta) o scegliere di non aver scelta. Mentre Michael Clayton dapprima ipotizza di non avere altra scelta (se non di accettare il denaro dal suo capo), la sua scelta spirituale, rafforzata dall’incontro con un segno (i cavalli), è quella di scegliere una scelta. La questione della scelta spirituale è di grande importanza, dice Deleuze, perché “quella che consiste nello scegliere la scelta, è quella che si ritiene doverci restituire tutto”.51 Ciò che viene recuperato è la credenza in questo mondo, perché il fatto moderno è che il legame tra l’uomo e il mondo si è rotto. Deleuze sostiene che è questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza: l’impossibile che può essere restituito soltanto in una fede. […] Solo la credenza nel mondo può legare l’uomo a ciò che vede e sente. Bisogna che il cinema filmi, non il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame. […] Cristiani o atei, nella nostra universale schizofrenia, abbiamo bisogno di ragioni per credere in questo mondo.52
Quindi, forse, contro ogni previsione, i molteplici ed eterogenei schermi che ci circondano con frenesia schizoide, invece di respingerci sempre più lontano dalla realtà, possono venire in nostro aiuto. Indagando le condizioni, i limiti e le potenziali illu147
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minazioni delle neuro-immagini, mi sforzo di vedere come l’arte, la scienza e la filosofia possano congiungersi per trasformare la nostra follia contemporanea in metafisica e in forme micropolitiche di resistenza che sono alla base di ogni cambiamento. La neuro-immagine testimonia come il cervello sia diventato il nostro mondo e come il mondo sia diventato una città-cervello, un mondo-cervello. NOTE
1. La trascrizione (in inglese) del monologo è disponibile alla pagina http://www.imdb.com/title/tt0465538/quotes?ref_=tt_ql_trv_4 (ultimo accesso 22 giugno 2017). 2. Vedi G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (1972), tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975; G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (1980), tr. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2006. Vedi anche I. Buchanan, P. MacCormack (a cura di), Deleuze and the Schizoanalysis of Cinema, Continuum, London 2008. 3. Vedi S. McQuire, M. Martin, S. Niederer (a cura di), Urban Screens Reader, Institute of Network Cultures, Amsterdam 2009. 4. G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, (1985), tr. it. di L. Rampello, Einaudi, Torino 2017, p. 317. 5. Ibidem, p. 311. 6. G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), tr. it. di G. Guglielmi, il Mulino, Bologna 1971. 7. G. Deleuze, “Il cervello è lo schermo” (2010), in Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, tr. it. e a cura di D. Borca e P.A. Rovatti, Einaudi, Torino 2010, p. 233. 8. D.W. Smith, “‘A life of pure immanence’: Deleuze’s ‘Critique and Clinique’ Project”, introduzione a G. Deleuze, Essays Critical and Clinical, Verso, London 1998, p. xvii. [In italiano Critica e clinica, tr. it. di A. Panaro, Raffaello Cortina, Milano 1996. NdC] 9. Ibidem, p. xxv. 10. Ibidem, p. xxxviii. 11. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 234. 12. Ibidem, pp. 161-181. 13. L. Manovich, Software Culture (2010), tr. it. di M. Tarantino, Olivares, Milano, p. 14. Altri libri nel campo dei software studies sono A.R. Galloway, Protocol. How Control Exists After Decentralization, mit Press, Cambridge (ma) 2006; M. Fuller (a cura di), Software Studies. A Lexicon, mit Press, Cambridge (ma) 2008. 14. Ibidem, p. 5. 15. Ibidem, p. 11. 16. A.R. Galloway, Protocol, cit., pp. xviii-xix. 17. Ibidem.
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18. H. Jenkins, Cultura convergente (2006), tr. it. di V. Susca e M. Papacchioli, Apogeo, Milano 2007. Vedi anche G. Lovink, S. Niederer, Video Vortex Reader: Responses to YouTube, Institute for Network Culture, Amsterdam 2008. 19. [Vedi L. Manovich, Software Culture, cit., pp. 117 sgg. NdC] Questo assemblaggio profondo crescerà solo con l’evoluzione di Internet al Web 3.0. 20. Vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Dogma_95. Vedi anche J. Simons, Playing the Waves: Lars von Trier’s Game Cinema, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007. 21. L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media (2001), tr. it. di R. Merlini, Olivares, Milano 2002, p, 274. 22. J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana (1995), tr. it. di G. Scibilia, Filema, Napoli 1996. 23. [Vedi L. Manovich, Software Culture, cit., pp. 26-27. NdC] Il più rilevante esempio di software performance è il modo in cui Google Maps cambia a seconda degli schemi di navigazione ogni qualvolta si navigano le mappe. 24. A. Friedberg, The Virtual Window. From Alberti to Microsoft, mit Press, Cambridge (ma) 2006. 25. N. Rombes, Cinema in the Digital Age, Wallflower, London 2009. 26. L. Manovich, A. Kratky, Soft Cinema. Navigating the Database, mit Press, Cambridge (ma) 2005. 27. M. Fuller, Media Ecologies: Materialist Energies in Art and Technoculture, mit Press, Cambridge (ma) 2005, p. 4. Fuller segue Guattari nel connettere ecologia ed “ecosofia”, in cui c’è una contaminazione tra fenomeni mentali, naturali e sociali correlati al software, alle informazioni e alle reti di computer. 28. D.N. Rodowick, Il cinema nell’era del virtuale (2007), tr. it. di M. Miotti, Olivares, Milano 2008, p. 143. Vedi inoltre D. Rodowick, “An elegy for theory”, in October, 122, 2007, pp. 91-109 [ora nel volume Elegy for Theory, Harvard University Press, Cambridge (ma) 2014. NdC]. 29. G. Deleuze, Pourparler, 1972-1990 (1990), tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, pp. 198-199. 30. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia? (1991), tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, pp. 204-205. 31. G. Deleuze, “Il cervello è lo schermo”, cit., p. 234. 32. G. Deleuze, Pourparler, cit., p. 198. 33. Deleuze e Guattari sostengono che i concetti necessitino di personaggi concettuali che aiutino a definirli, come l’Amico. Le figure estetiche sono figure della sensazione che esprimono un universo estetico. Gli osservatori parziali funzionano all’interno di sistemi di riferimento scientifici, indicando che non vi è mai un osservatore totale. Vedi G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit. 34. D. Hume, Dialoghi sulla religione naturale (1779), tr. it. di M. Dal Pra, Bocca, Milano 1947. [NdC] 35. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 254. 36. E. Alliez, The Signature of the World, tr. ingl. di A. Toscano, Continuum, London 2004. In questo libro Alliez si preoccupa principal-
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mente delle connessioni tra la scienza e la filosofia. Egli esplora altrove in profondità le relazioni tra l’arte e la filosofia. Vedi per esempio E. Alliez, J.C. Bonnie, La pensée-Matisse, Le Passage, Paris 2005. 37. K. Hang, K. Mach, “Behind the scenes” (effetti speciali della sequenza dei titoli principali), commenti, Fight Club, Twentieth Century Fox Home Entertainment, 2000, dvd. 38. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 50. Deleuze e Guattari citano S. Rose, Le cerveau conscient, Seuil, Paris 1975, p. 97. 39. G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 56. 40. Antonio Damasio ha dimostrato come rispetto alle emozioni il cervello sia costruito in accordo con i principi della nidificazione, dove gli aspetti dei livelli primari sono incorporati nei livelli delle funzioni più alte: “Il risultato non è esattamente come una bambola russa, perché la componente di ordine superiore non è una mera amplificazione di quella più piccola in essa contenuta. La natura non è mai così ordinata. Tuttavia, il principio di un ‘annidamento’ del più semplice nel più complesso regge. Ciascuna delle diverse reazioni regolatrici che stiamo considerando non è un processo radicalmente diverso, costruito dal nulla in vista di uno scopo specifico. Piuttosto, ogni reazione emerge dall’aggiustamento di parti e porzioni dei processi più semplici” (A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello [2003], tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2003, p. 52). 41. J. Hughes, “Schizoanalysis and the phenomenology of cinema”, in I. Buchanan, P. MacCormack (a cura di), Deleuze and the Schizoanalysis of Cinema, Continuum, London 2008, p. 23. [Vedi G. Deleuze, F. Guattari, L’antiEdipo, cit.; G. Deleuze, Logica del senso (1969), tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975; G. Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1 (2016), tr. it. di J.-P. Manganaro, Einaudi, Torino 1984. NdC] 42. Vedi G. Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), tr. it. di G. Guglielmi, il Mulino, Bologna 1971, cap. 2. [NdC] 43. L’Abécédaire de Gilles Deleuze (P.-A. Bountang, M. Pamart, Video Editions Montparnasse, Francia 1996, con Gilles Deleuze e Claire Parnet). [NdC] 44. A.R. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 143-145. Vedi anche V. Gallese, “The manifold nature of interpersonal relations: The quest for a common mechanism”, in Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences, 358, 2003, pp. 517-528. 45. Vedi G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 37-42. [NdC] 46. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 44-45. 47. G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, cit., p. 223. 48. Ibidem, pp. 224-225. 49. G. Deleuze, “Il cervello è lo schermo”, cit., p. 233. 50. G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 142. Vedi anche R. Bogue, “To choose to choose – To believe in this world”, in D.N. Rodowick (a cura di), Afterimages of Gilles Deleuze’s Film Philosophy, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010, pp. 115-132. 51. G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 145. 52. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 200.
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PARTE SECONDA
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
5 CINEMA, MENTE ED EMOZIONE LA PROSPETTIVA DEL CERVELLO
Antonio Damasio
António R. Damásio (https://dornsife.usc.edu/cf/faculty-and-staff/faculty.cfm?pid=1008328) è professore di Neuroscienze, di Psicologia e di Filosofia alla University of Southern California, dove dal 2005 dirige il Brain and Creativity Institute. Dopo la laurea e il dottorato in Medicina negli anni Settanta a Lisbona ha avviato la propria carriera alla University of Iowa, dove ha diretto la divisione di Behavioral Neurology & Cognitive Neuroscience. La sua ricerca si concentra sulle basi neurali delle emozioni e della coscienza e sulla loro rilevanza nella cognizione sociale. Oltre a numerosi articoli apparsi in riviste scientifiche, ha pubblicato una serie di libri che illustrano ampiamente i risultati dei propri esperimenti e il suo pensiero filosofico e che sono stati tradotti in molte lingue, compreso l’italiano (tutti per i tipi di Adelphi): L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994, tr. it. 1995); Emozione e coscienza (1999, tr. it. 2000), Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello (2003, tr. it. 2003); Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente (2010, tr. it. 2012). Sul suo rapporto con il cinema vedi anche “La formazione della coscienza. Conversazione con Antonio Damasio”, a cura di A. Cervini e M. Guerra (Fata Morgana, 31, 2017, pp. 7-16). Nel corso della sua carriera è stato insignito di numerosi premi e riconoscimenti scientifici, oltre che di dieci lauree honoris causa in università di tutto il mondo. Nel suo progetto di superamento del dualismo cartesiano, Damasio fa ricorso all’immagine del film-nel-cervello e al cinema come metafora di funzionamento dei processi cerebrali. La metafora non è casuale in quanto si oppone a quella del “teatro” della coscienza, che risale a Hume e Cartesio, ed era già stata al centro delle critiche del filosofo Daniel Dennett: contro l’unità del modello teatrale, la metafora cinematografica sembra meglio rendere conto della molteplicità dei processi neurali che danno luogo allo svolgimento dell’esperienza cosciente. Damasio ha sviluppato questa metafora in alcuni articoli dedicati specificatamente al rapporto tra cinema e processi neurali: presentiamo di seguito il più 153
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
conosciuto tra questi, pubblicato nel 2006 nel catalogo di una mostra tedesca sul rapporto tra Freud e il cinema e poi ripreso nel 2008 dalla rivista francese Traffic. L’articolo è tematicamente diviso in due parti. Nella prima Damasio analizza, a partire da una curiosa esperienza personale, il prodursi dell’effetto di realtà cinematografico. Per quanto si sappia ancora poco circa l’elaborazione neurale di immagini e suoni, i meccanismi mentali sembrano funzionare in modo simile al processo di costruzione cinematografico (a dispetto di un’ovvia distanza del sostrato materiale del cinema rispetto a quello del cervello): essi prelevano e montano “orizzontalmente” e “verticalmente” immagini e suoni provenienti sia dai sensi sia dalla memoria. Di qui una “naturalità” del mezzo cinematografico e la conseguente produzione di effetti di realtà. Nella seconda parte Damasio recupera un tema a lui caro: quello delle emozioni. Per lo scienziato le emozioni hanno una base immediata e fisiologica, e solo mediante un atto riflessivo si trasformano in sentimenti coscienti; in tal modo esse partecipano strettamente ai processi di costituzione del sé dei soggetti. Nel saggio Damasio osserva che le emozioni sono suscitate principalmente da stimoli visivi e sonori, il che rende ovviamente il cinema una forte macchina emozionale. Questo implica un lavoro diretto e immediato del film sul corpo dello spettatore: le immagini cinematografiche sollecitano alcuni centri cerebrali specializzati (per esempio, nel caso della paura, l’amigdala), dando avvio a una serie di effetti a cascata che coinvolgono tutto il corpo dello spettatore e, oltre una certa soglia di durata e intensità, penetrano la sua coscienza causando il passaggio dalle emozioni ai sentimenti (un punto quest’ultimo ripreso e discusso da Bellour nel saggio in questo volume). In questo senso la lettura dell’emozione cinematografica di Damasio prevede un livello di complessità superiore rispetto a quello previsto dai cognitivisti (come per esempio Plantinga, al cui saggio antologizzato rimandiamo per un opportuno confronto).
Provate a immaginare: mi trovo seduto a fare colazione in un ristorante di Wilshire Boulevard, nella città in cui il cinema come lo conosciamo è stato inventato. Mentre aspetto il mio caffè, do un’occhiata alla mia destra (grossomodo in direzione nord/nordest) e scorgo in fondo al bancone uno schermo televisivo acceso che trasmette il telegiornale del mattino. Distolgo rapidamente lo sguardo da quell’orrore, riprendo a fissare questa pagina e mi metto a scrivere. Quando i miei occhi si rivolgono nuovamente verso quel punto c’è la pubblicità e qualcosa attira la mia attenzione: un’automobile color grigio metallizzato attraversa lo schermo a tutta velocità da destra verso sinistra (secondo un orientamento nord/sud, rispetto 154
Cinema, mente ed emozione
alla posizione in cui sono seduto). L’automobile resta visibile ancora per un momento, poi scompare. Il mio sguardo torna sul foglio di carta, poi un istante dopo si posa sulla vetrina alla mia sinistra (dunque questa volta verso sud). E proprio mentre sto guardando in quella direzione appare all’improvviso quell’automobile: stessa marca, stesso colore grigio metallizzato – ma questa volta sta correndo verso est sul Wilshire Boulevard. Giro velocemente la testa per seguirla mentre si allontana. Ora, cercate di immaginare questa strana e meravigliosa sensazione. L’automobile dello spot si era materializzata nella realtà, dallo schermo all’asfalto, più rapidamente di quanto ci vorrebbe per scattare da 0 a 100 chilometri orari. Questa quasi-illusione è durata solo un istante, durante il quale ci ho creduto e allo stesso tempo non ci ho creduto. Ma come ho potuto cascarci, anche solo per un momento, e credere che il salto dallo schermo alla realtà fosse possibile e non assurdo? “Sospensione dell’incredulità”: è il nome del gioco a cui ci abbandoniamo quando guardiamo un film; ma questo sconfinamento del film verso la realtà ha realmente sospeso la mia incredulità. Diverse sono le ragioni che hanno permesso a questa quasi-illusione di imporsi. Le circostanze hanno largamente aiutato. L’automobile reale era davvero dello stesso colore e della stessa marca. Dal momento che a quell’ora del mattino su Wilshire Boulevard c’era poco traffico ho potuto vederla molto distintamente. Inoltre, nella mia elaborazione inconscia dei dati visivi, io sapevo che su Wilshire Boulevard si immette una strada trasversale da cui l’automobile sarebbe potuta provenire, e da cui quella dello spot sarebbe potuta arrivare. Lo schermo era sufficientemente lontano da me e collocato in una posizione ideale affinché la fusione avesse un qualche senso senza che io ne avessi coscienza. E comunque, dato non meno significativo, la sequenza e l’orientamento del movimento risultavano perfettamente logici. Se l’automobile dello spot si fosse diretta nella direzione opposta, l’illusione non avrebbe potuto funzionare. Allo stesso modo non avrebbe potuto funzionare se i due eventi – nello spot e nella realtà – fossero accaduti in momenti più distanti nel tempo. La coincidenza e la costituzione di una sequenzialità temporale e spaziale sono processi essenziali del funzionamento del cervello e della mente. La percezione o meno di tali aspetti è dovuta alme155
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
no in parte al modo in cui oggetti distinti sono collocati l’uno in relazione all’altro, nel tempo e nello spazio. Eppure tutte queste circostanze favorevoli vengono meno di fronte a quello che si rivela l’elemento decisivo per spiegare questo fenomeno: la natura del cinema somiglia sotto molti aspetti a quella della nostra mente; tanto che, in un momento di distrazione, l’esperienza mentale legata alla percezione del film e quella che deriva dalla realtà non cinematografica possono fondersi, quasi senza soluzione di continuità. Qui risiede la fonte principale della nostra sottomissione alle immagini del cinema – soprattutto in una sala buia e con buone condizioni di proiezione – e il mio fugace travisamento mattutino, favorito dal caso, differisce di poco da tale sottomissione. Posso certamente capire il punto di vista di Freud, riluttante ad accettare il cinema come una rappresentazione efficace del nostro pensiero, idea che appariva seducente all’alba della storia del cinema. Questa prospettiva in effetti offre una gamma limitata rispetto alle risorse sensoriali del nostro flusso di coscienza; inoltre, come mostrerò in seguito, anche se è in grado di suscitare emozioni e di descrivere il loro aspetto esteriore, essa non può comunque rappresentarle dal punto di vista dell’interiorità del soggetto, ovvero attraverso i sentimenti. Vorrei anche respingere l’idea che l’esperienza mentale del cinema sia equivalente a quella del sogno – un’idea molto popolare, sostenuta in molte occasioni da diversi cineasti. Il controllo rigoroso della coerenza degli avvenimenti narrati nella maggior parte dei film è in effetti l’esatto opposto della logica più libera dei sogni – perfettamente illustrata peraltro nelle sequenze oniriche di film classici, come in Luis Buñuel e Alfred Hitchcock. La struttura tradizionale del cinema riflette la realtà della coscienza e non quella del sogno. Tuttavia sotto diversi aspetti il cinema presenta affinità con lo svolgimento dei processi mentali legati all’udito e alla visione. Se non altro il cinema ha offerto, praticamente nel corso di tutta la sua storia, un’approssimazione visiva e uditiva di ciò che avviene nella nostra mente cosciente quando vediamo e sentiamo. Una volta percepite, tali approssimazioni hanno la capacità di suscitare emozioni nello spettatore, aspetto che, unito all’effetto ipnotico della sala tradizionalmente buia del cinema, agevola molto la restituzione plausibile e immediata della realtà. 156
Cinema, mente ed emozione
Nel corso delle mie ricerche volte a determinare la sede della coscienza nel cervello ho fatto ricorso, alcuni anni fa, a una metafora: la mente cosciente normale si compone di due elementi, il film-nel-cervello e il sé.1 La ragione per cui questa metafora è pertinente è la forte somiglianza tra il cinema e il funzionamento della mente. La mente di coloro che tra noi sono nati dotati di vista e di udito è effettivamente dominata da sequenze di immagini visive in gran parte legate alla nostra percezione oculare del mondo esterno, ma anche alla rappresentazione di percezioni passate di cui abbiamo memoria, ricostruite più o meno fedelmente, e alla descrizione delle manipolazioni che permettono tali rappresentazioni. Questa sequenza visiva si accompagna a una colonna sonora composta da frasi emesse da altri che noi abbiamo sentito, o dallo stadio immaginario delle nostre parole che precede la loro emissione, senza contare i suoni del mondo circostante e della musica, anche in questo caso reale o immaginaria. Le due vie fondamentali della nostra vita mentale corrispondono alle due principali colonne del cinema: quella visiva e quella sonora. Certo, i sostrati del cinema e della mente sono totalmente differenti. In un film analogico la colonna visiva e la colonna sonora sono combinate fra loro l’una nei riquadri trasparenti della pellicola e l’altra su una banda magnetica adiacente. La proiezione ottica su uno schermo bianco e la presenza di potenti altoparlanti correttamente posizionati fanno il resto della magia. I supporti digitali hanno modificato il processo di registrazione dei segnali e la loro proiezione, senza però mutare il principio, che rimane il medesimo: i segnali visivi e sonori provengono ancora da supporti collocati nelle vicinanze e la loro diffusione richiede sempre uno schermo di proiezione e degli altoparlanti. La tecnologia utilizzata dal cervello per produrre nella nostra mente sequenze visive e uditive comparabili è molto diversa e per il momento solo in parte compresa. In primo luogo, le immagini visive sono elaborate in numerose regioni della corteccia cerebrale, fittamente interconnesse e pronte a comunicare a un tempo con la periferia del sistema visivo – le retine – e con le aree di archiviazione delle esperienze visive passate. Nel nostro cervello visivo non vi è assolutamente nulla che assomigli alle trasparenze della pellicola o alle tracce nascoste sotto la superficie riflettente di un dvd. Le informazioni sono immagazzinate nel nostro cer157
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
vello nella maniera più opaca e codificata, pronte per essere immediatamente riportate alla vita grazie agli impulsi perfettamente regolati, avviati da milioni di cellule nervose. Quanto all’equivalente del grande schermo, a un livello funzionale, purtroppo, non conosciamo ancora nulla. Si può dire praticamente lo stesso dei processi uditivi. Sappiamo molto sulla produzione e sul missaggio di immagini sonore nel cervello, a metà tra la coclea, nell’orecchio interno, e la zona di stoccaggio della memoria uditiva. Ma dove è emessa questa banda sonora? Ne sappiamo molto, ma non abbastanza. Un’altra cosa che sappiamo è che il cervello elabora procedimenti di montaggio visivo e sonoro sotto l’influsso delle emozioni e dell’attenzione, servendosi dei movimenti degli occhi, della testa e di tutto il corpo. Le immagini visive di oggetti, di persone e di paesaggi circolano nella nostra mente secondo determinate sequenze costruite a partire dai nostri movimenti nello spazio. Per caso o deliberatamente siamo noi a decidere la composizione delle nostre immagini mentali – ingrandimento di un viso o di un oggetto, visione a distanza, visione fissa, oppure panoramica o carrellata. E senza dubbio siamo noi a determinare la durata di queste immagini. Lo stesso può dirsi delle immagini uditive elaborate dalla nostra mente. È evidente che le menti brillanti che decenni or sono hanno sviluppato le tecniche cinematografiche si sono ispirate, a volte esplicitamente altre inconsciamente, ai meccanismi della mente umana prodotti dal più grande e più sofisticato degli studi cinematografici: il nostro cervello. L’elaborazione dei diversi tipi di inquadratura rispetto alla scena che si vuole creare, unita all’invenzione delle tecniche di montaggio cinematografico e del trattamento del suono, ha avuto come risultato un avvicinamento sempre maggiore del cinema alla mente – e questo processo è ben lungi dall’essersi concluso. L’evoluzione tecnica e artistica della semplice creazione di ciò che chiamiamo un “film” ha dato vita a esperienze realistiche di pura fantasia. Un altro aspetto secondo cui le rappresentazioni visive e uditive della mente e del cinema si assomigliano è da ascrivere al loro potere di generare emozioni. Questi schemi visivi e uditivi sono due dei mezzi più comuni per ciò che ho definito “stimoli emotivamente competenti”,2 ovvero quegli stimoli in grado di suscitare 158
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emozioni, come per esempio oggetti, volti, luoghi. Tutte le modalità sensoriali, compreso il tatto, il gusto e l’olfatto, possono trasmettere questo genere di stimoli. Tuttavia quelli legati alla vista e all’udito sono dominanti nella nostra coscienza; ed è per questa ragione che nella maggioranza dei casi le nostre emozioni dipendono dalla vista o dall’udito. Di conseguenza, il cinema è un mezzo molto potente per suscitare le emozioni, poiché si serve grossomodo degli stessi stimoli utilizzati dalla nostra mente nella vita quotidiana. La similitudine però si ferma qui, e comincia invece qualcosa di assolutamente particolare. Il cinema e la mente lavorano alla produzione di emozioni in potente simbiosi. Ciò dipende dal fatto che alcune delle immagini visive e uditive elaborate dal cervello hanno la capacità di attivare in qualsiasi momento i meccanismi emotivi, per produrre un flusso di emozioni e i sentimenti che ne derivano – come una sorta di commento corale che accompagna senza interruzioni gli schemi visivi e uditivi. Nel nostro organismo queste emozioni risultano prima di tutto dal coinvolgimento di diverse regioni del nostro corpo – vuoi effettivamente, vuoi in forma simulata mediante l’attivazione delle zone del cervello incaricate di rappresentare i processi somatici (lo stato delle viscere, dei muscoli dello scheletro, delle reazioni chimiche sui muscoli nel milieu interno). In altri termini, il concretizzarsi delle emozioni dipende dalle tappe intermedie che si svolgono a livello del corpo o nei suoi sostituti, interni al cervello. Sono necessarie anche altre fasi, tuttavia gli aspetti che hanno origine nel corpo sono uno dei fondamenti dell’emozione. Perché il cinema susciti emozioni e sentimenti occorre dapprima che le immagini e i suoni siano elaborati dal cervello visivo e uditivo, per poi produrre il flusso delle emozioni e dei sentimenti. Potremmo descrivere le cose così: mentre gli schemi visivi esistono allo stesso tempo nel film (e sullo schermo) e nelle regioni cerebrali appropriate, le emozioni e i sentimenti esistono invece solamente nel nostro organismo. Le immagini del cinema hanno la capacità di suscitare emozioni (così come le immagini mentali) e tuttavia esse non le contengono, anche se le rappresentano fedelmente. Come si realizza allora questa produzione di emozioni e sentimenti nel nostro organismo? Per spiegare questo processo permettetemi di basare la mia argomentazione sulle immagini visive. Le immagini che noi vediamo sono elaborate in diverse regioni del 159
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
cervello. Alcune di queste regioni servono a richiamare dei ricordi tematicamente vicini; altre si occupano di attivare un’emozione specifica, se il contesto di un’immagine è in sintonia con questa. Per esempio l’improvvisa e inattesa apparizione di un volto umano che emerge da uno sfondo scuro può, in sé, provocare attività in un’area del cervello definita amigdala. Questa può a sua volta comandare al cervello di effettuare una varietà di azioni: produrre delle molecole chimiche che fanno parte delle nostre risposte allo stress legato alla paura; aumentare il ritmo cardiaco; contrarre l’intestino; farci cambiare posizione; dilatare le pupille; spalancare gli occhi; e risvegliare nella nostra mente certi tipi di idee. Alfred Hitchcock, uno dei più grandi autori del cinema – e un benevolo sadico –, ha tratto grande piacere nel provocare questo genere di reazioni grazie all’impeccabile composizione e al montaggio delle sue immagini, che funzionano individualmente o per accumulo, spesso supportate dal suono. Nella scena della doccia di Psycho il regista governa la nostra paura con grande maestria. Pensiamo alla povera Janet Leigh sola nella sua camera di motel. Sappiamo che si tratta di un luogo che fa venire i brividi, in cui avvengono strane cose. Abbiamo i nervi a fior di pelle. Sappiamo che Anthony Perkins è un tipo eccentrico e che ha spiato Janet Leigh attraverso un buco nella parete divisoria. Quando la sua ombra si disegna sulla tenda della doccia, non ci aspettiamo altro che morte e massacro: e morte e massacro è esattamente ciò che otteniamo. Eppure non vediamo veramente l’omicidio; scorgiamo appena il coltello e pensiamo di sentire Janet Leigh urlare, mentre invece ciò che sentiamo sono i glissando acuti di violino della colonna sonora composta da Bernard Herrmann. Quello che vediamo è il suo viso terrorizzato e la sua lenta caduta verso il pavimento, accompagnata dall’acqua insanguinata che scorre verso lo scarico. Tutti questi elementi del film funzionano come stimoli emotivi che attivano l’amigdala con un fuoco di sbarramento di colpi successivi e sovrapposti, che fanno montare e poi straripare la paura. Perché lo stratagemma funziona? Perché l’evoluzione ha condizionato questo strumento particolare del cervello che è l’amigdala a reagire automaticamente a una certa gamma di stimoli, attivando il concerto di azioni e idee che, considerate nel loro complesso, chiamiamo paura. Il nostro cervello, come quello di molte altre specie animali complesse, è programmato per reagire 160
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in questo modo, che lo vogliamo o meno. Il nostro sviluppo culturale non ha in alcun modo obliterato questa predisposizione evolutiva – anche se, sotto l’influenza della nostra cultura o secondo l’intenzione personale, possiamo cercare entro certi limiti di modificare la soglia e l’espressione delle emozioni. Abbiamo diversificato le paure (io ho paura di cose che lasciano altri indifferenti, e altre che spaventano molti non mi fanno paura), ma le nostre risposte generalmente hanno un’essenza stereotipata. Anche lo stile di queste risposte può differire – per intensità o temporalità – in ciascuno di noi e fra un individuo e l’altro; ma ancora una volta il loro carattere resta invariato. In realtà non c’è alcun determinismo all’opera. Queste risposte non si producono secondo uno schema prestabilito, come in un pupazzo meccanico o in un computer. In certi contesti le risposte possono modificarsi o annullarsi. Ma con grande probabilità, in circostanze simili si produrrà una delle possibili varianti dello stesso genere di risposte. L’essenza di tali risposte è così forte che alcune di queste possono essere attivate senza che ne conosciamo la causa. Grazie ad alcuni studi di neuroimaging funzionale abbiamo scoperto che se siamo esposti molto brevemente a immagini che inducono paura, l’amigdala si mette in funzione al di sotto della nostra soglia cosciente. Potremmo dire che, nella sua beata irriflessività, essa “sa” quando deve reagire; mentre noi, inconsapevoli soggetti coscienti, non padroneggiamo né il fenomeno dello stimolo né tanto meno quello della risposta. L’essenza formale della risposta alla paura è presente anche in altri tipi di emozioni, come per esempio la tristezza o la gioia. La forza e la stabilità delle emozioni durante l’intera evoluzione sono legate al loro immenso valore per la sopravvivenza delle creature che sono provviste di queste reazioni, per non parlare della sopravvivenza dei geni trasmessi da individuo a individuo nella linea di coloro che sopravvivono. Nel corso di milioni di anni la paura ha salvato molte vite, e lo stesso si può dire della gioia, che contribuisce alla nostra realizzazione. Essa infatti ci spinge ad avvicinarci agli altri, a cercare nutrimento, compagnia e relazioni sessuali, ricompensandoci per il loro raggiungimento. E così la tristezza, in quanto segnala una difficoltà personale e il bisogno di chiedere aiuto. Profondamente associate a situazioni di punizione o di ricompensa, le nostre emozioni ci aiutano a sopravvivere. 161
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
Potremmo allora chiederci se lo stesso vale nel momento in cui guardiamo un film, quando Hitchcock ci fa morire di paura o quando un melodramma ci fa piangere come fontane. La risposta è certamente positiva, perché la manipolazione delle emozioni operata dall’arte ci offre un allenamento indiretto che ci prepara ad affrontare un ampio ventaglio di situazioni della vita quotidiana. È ciò che il teatro aveva iniziato a fare in Grecia più di duemila anni fa, in particolare nelle tragedie, e ha continuato a fare nel corso dei secoli con la musica e la letteratura. A partire dal secolo scorso, questo vale anche per il cinema, in una maniera forse più efficace e diretta di ogni altra arte che lo abbia preceduto. Ma torniamo ai meccanismi neurali delle emozioni. L’amigdala non è che una delle regioni del cervello in cui queste si attivano. Per esempio alcune regioni del lobo frontale sono essenziali per suscitare la tristezza, l’imbarazzo o la compassione (che è alla base dei sentimenti di empatia); un’area della corteccia chiamata insula è cruciale per il disgusto, e così via. Una volta che uno qualsiasi di questi punti di attivazione è stimolato, ne discendono determinate conseguenze, come ho mostrato sopra: si secernono delle molecole chimiche (come il cortisolo e l’ossitocina) che si distribuiscono nel cervello e in tutto il corpo; si intraprendono determinate azioni (come la fuga o la paralisi e la contrazione degli intestini); si adottano certe espressioni (in particolare, volto e postura che esprimono terrore); e, fenomeno non meno importante, nella nostra mente si producono idee e progetti (un’emozione negativa come la tristezza rallenta il pensiero e può diminuire l’attenzione; la gioia può accelerare il pensiero e ridurre la capacità di concentrazione). In altri termini, la genesi delle emozioni è una questione complessa: essa implica un’azione dei muscoli del nostro scheletro e di quelli delle nostre viscere, ma anche l’emissione di messaggi chimici, l’evocazione di certi tipi di idee e l’avvento di un certo stile di ideazione. Uno stato emotivo è la somma di tutte queste risposte che si dispiegano molto rapidamente nel tempo, per poi esaurirsi – a meno che altri stimoli emozionalmente attivi non siano inviati al cervello, suscitando una nuova reazione emotiva in un effetto a catena. Le emozioni sono dei complessi programmi d’azione e ideazione, in gran parte automatici e determinati dall’evoluzione. In questo contesto, i sentimenti indotti dall’emozione costituiscono la tappa successiva, il compimento supremo del processo: 162
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essi cioè risultano nella percezione complessiva di tutto ciò che si è verificato durante la nostra emozione – azioni, idee, stile di ideazione –, intervenendo letteralmente a ruota rispetto a questa. Provare un’emozione significa percepire ciò che accade mentre questa si produce – tanto nel corpo, realmente o in maniera simulata, quanto nella mente. Il che vuol dire, in termini non scientifici, che il processo parte dalla mente verso il corpo e ritorna alla mente. Molte sono le ragioni per cui il cinema, ultimo nato nella storia delle arti, ha conquistato ogni cultura che vi sia stata esposta. Uno dei motivi principali è la somiglianza tra cinema e mente che ho richiamato più sopra. Il mezzo cinematografico infatti presenta molte similitudini con la mente, il che spiega il suo carattere naturale. Una grande trasparenza domina le immagini uditive e visive, permettendo di veicolare l’informazione e di raggiungere lo spettatore/ascoltatore senza che questi necessiti di alcun apprendimento preliminare. Gli esseri umani possiedono da lungo tempo la capacità di capire che cosa gli altri vedono e sentono, e possono farlo faccia-a-faccia con i loro simili sullo schermo senza la necessità di ulteriori spiegazioni. Ciò non significa che al cinema non si possa realizzare una struttura sofisticata, comparabile a quella del romanzo, della poesia o della musica classica; ma esso non ha bisogno di essere particolarmente sofisticato per funzionare in maniera efficace e trasmettere una grande quantità di informazioni. Tuttavia l’arma più forte del cinema sta forse nella facilità con cui è in grado di suscitare emozioni e sentimenti potenti, e di manipolarli in una dimensione prossima al tempo reale. La distanza tra il soggetto e l’oggetto filmico è ridotta, qualsiasi dubbio rispetto all’eventualità di assistere a una falsificazione è sospeso, e nasce in noi la convinzione di essere testimoni della vita reale. In altri termini, il cinema produce la propria verità. NOTE
1. A.R. Damasio, Emozione e coscienza, tr. it. di S. Frediani, Adelphi, Milano 2000. [NdC] 2. L’espressione originale in lingua inglese è “emotionally competent stimuli”, vedi A.R. Damasio, “Emotions and feelings”, in A.S.R. Manstead, N. Frijda, A. Fischer (a cura di), Feelings and Emotions. The Amsterdam symposium, Cambridge University Press, Cambridge 2004, pp. 49-57. [NdC]
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6 NEUROCINEMATICA LA NEUROSCIENZA DEL FILM
Uri Hasson, Ohad Landesman, Barbara Knappmeyer, Ignacio Vallines, Nava Rubin, David J. Heeger
Uri Hasson (https://pni.princeton.edu/faculty/uri-hasson) ha studiato Filosofia e Scienze cognitive alla Hebrew University di Gerusalemme, ha conseguito il dottorato di ricerca in Neurobiologia al Weizmann Institute of Science ed è stato post-doctoral fellow alla Chicago University e al Center for Neural Science della New York University. Ha insegnato al Centro Interdipartimentale Mente/Cervello dell’Università degli studi di Trento. Attualmente è professore nel Dipartimento di Psicologia e nell’Istituto di Neuroscienze della Princeton University. Ha fondato e dirige l’Hasson Lab (http://www.hassonlab.com), presso il quale svolge una parte rilevante della propria ricerca, volta principalmente a comprendere come il cervello processa le complesse informazioni nelle condizioni naturali della vita reale e interagisce con l’ambiente, in opposizione ai modelli riduzionistici e deduttivi tipici di una parte delle neuroscienze e della psicologia cognitiva. In questo quadro ha studiato sperimentalmente tramite risonanza magnetica funzionale (fmri) ed elettroencefalogramma intracraniale (ieeg) il comportamento cerebrale rispetto a eventi reali per valutare gli aspetti condivisi e idiosincratici delle risposte corticali. È membro del comitato editoriale della rivista Projections: The Journal for Movies and Mind. Alcuni temerari volontari si recano in un cinema molto particolare. È un laboratorio scientifico, dove dovranno guardare una serie di brani audiovisivi sdraiati all’interno di uno scanner per la risonanza magnetica funzionale (fmri). Durante la visione le aree del loro cervello si colorano sui monitor dei ricercatori guidati da Uri Hasson, mostrando la diversa attivazione dei neuroni a seconda del tipo di video proiettato su uno specchio all’interno dello scanner. Il primo film in cartellone è Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone. Ai ricercatori bastano i primi 30 minuti di proiezione per capire che i cervelli degli spettatori si comportano in modo molto simile. Chiamano questo fenomeno “Correlazione Inter-Soggettiva” (cis) e deducono che il film è in grado di controllare il 165
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
comportamento cerebrale degli spettatori (e anche il loro comportamento oculare, rilevato tramite eye tracking; vedi il saggio di Tim Smith in antologia). Ma questo potere di controllo, si chiedono, vale per qualsiasi film, a prescindere dal contenuto, dallo stile, dalla struttura narrativa, dalla colonna sonora, dal montaggio? Bisogna procedere con il metodo sperimentale e isolare una per una le possibili variabili. Scoprono così che la cis invece è bassa se gli spettatori guardano sequenze diverse dello stesso film o, soprattutto, se il film presenta caratteristiche stilistiche e narrative “deboli”. Per scoprirlo basta proiettare 10 minuti di un video “amatoriale” girato in una piazza di New York, una domenica mattina. C’è un concerto, si vedono persone entrare e uscire dai bordi dell’unica inquadratura, nessun montaggio, nessun sapiente dialogo di inquadrature e sguardi come nel film di Leone. Il video “non strutturato” non esercita alcun controllo, non basta la registrazione meccanica della realtà a orientare collettivamente le risposte cerebrali. Poi danno due film di Chaplin, anche se non è facile seguirli perché il “proiezionista” deve aver fatto confusione con i rulli e l’ordine delle scene è mescolato casualmente. Grazie a questo (volontario) errore i ricercatori scoprono che la comprensione cognitiva del film diventa piuttosto difficoltosa, ma che il mescolamento cronologico non incide sulle risposte sensoriali. Gran finale con il maestro del brivido e un episodio della serie “Alfred Hitchcock presenta”. La cis per un brano di questo episodio risulta persino più alta di quella ottenuta dagli spaghetti western di Leone. Insomma una prova empirica della capacità di Hitchcock di manipolare e controllare a bacchetta le reazioni del pubblico. Il lettore potrà ripercorrere con la necessaria attenzione e precisione di dettaglio gli esperimenti che abbiamo un po’ ironicamente e con molta approssimazione sintetizzato. Si troverà di fronte a un articolo di grande importanza storica e metodologica: è il contributo fondativo (quantomeno terminologicamente) della “neurocinematica”, ovvero lo studio dell’esperienza filmica attraverso le metodiche di neuroimaging e in particolare della fmri. Da subito le potenzialità (di attestazione empirica) di questo approccio saranno evidenti tanto quanto i suoi limiti (di descrizione estetica), come del resto ammesso dagli stessi autori. Ma innegabile è il potenziale guadagno epistemologico che l’ingresso delle neuroscienze cognitive può apportare negli studi sul film (tema su cui si veda anche il saggio di Murray Smith in questo volume). INTRODUZIONE
Il cinema accompagna lo spettatore in un’esperienza che evolve nel tempo, catturando la sua attenzione e suscitando una serie di processi percettivi, cognitivi ed emotivi. Nel corso della storia i registi hanno affinato un arsenale di strumenti cinematografici (per esem166
Neurocinematica
pio il montaggio1 e il primo piano) per indirizzare la mente dello spettatore durante la visione. Queste tecniche, che costituiscono la struttura formale ed estetica di qualsiasi testo cinematografico, determinano il modo in cui gli spettatori rispondono al film. Sebbene l’idea che i film possano avere una presa diretta sulle menti degli spettatori sia stata accreditata sin dagli albori della storia del cinema,2 fino all’avvento di metodi di neuroimaging non invasivi nei primi anni Novanta non c’era alcun modo di penetrare la mente dello spettatore e registrare i suoi stati mentali durante la visione filmica. I più recenti avanzamenti degli scanner per la risonanza magnetica funzionale (fmri) consentono di misurare l’attività cerebrale durante la libera visione dei film. La fmri utilizza uno scanner per la risonanza magnetica del tutto simile a quello usato ordinariamente per lo studio clinico dell’anatomia umana, ma riprogrammato per cogliere, in aggiunta all’anatomia del cervello, una sequenza temporale di immagini in 3D dell’attività cerebrale.3 La fmri ha rivoluzionato le neuroscienze nel corso degli ultimi dieci anni. Essa ha avviato una nuova stagione di ricerca sulle funzioni e sulle disfunzioni del cervello umano, complementari a tecniche più invasive per la misurazione dell’attività neurale nei modelli animali. In un tipico esperimento con fmri viene raccolta una sequenza temporale di immagini dell’attività cerebrale contestualmente alla variazione sistematica di uno stimolo o di un compito cognitivo. In caso vi sia un incremento sufficientemente ampio dell’attività neurale in una certa regione cerebrale, allora l’intensità dell’immagine in quella regione del cervello crescerà (di circa il 5%, solitamente meno) in un intervallo temporale seguendo gli stimoli o i compiti che hanno prodotto il cambiamento nell’attività neurale. L’imaging tramite risonanza magnetica funzionale è stato usato per misurare l’attività cerebrale principalmente nel contesto di esperimenti altamente controllati e con stimoli estremamente semplici. Data la complessità spaziotemporale di una sequenza filmica, i metodi convenzionali dell’analisi dei dati offerti dalla fmri, basati sulle ipotesi, sono sostanzialmente inutilizzabili per la gestione dei dati acquisiti durante la visione filmica. Abbiamo dunque introdotto il nuovo metodo di analisi della Correlazione Inter-Soggettiva (cis), che misura le somiglianze nell’attività cerebrale degli spettatori.4 La cis compara i tempi di risposta di alcuni spettatori in ciascuna regione cerebrale (per esempio in una piccola regione 167
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del sistema visivo del cervello) rispetto ai tempi di risposta ottenuti nella stessa regione per altri spettatori (figura 6.1). Siccome tutti gli spettatori sono esposti allo stesso film, la misurazione della cis regione per regione identifica le aree cerebrali in cui gli andamenti nel tempo di risposta sono simili. L’analisi della correlazione intersoggettiva è stata utilizzata in precedenza per studiare le scale temporali dei processi neurali, le basi neurali delle differenze inter-gruppo, la cognizione sociale, la memoria e l’apprendimento.5 Vi sono due importanti implicazioni della scoperta che un film è in grado suscitare andamenti temporali dell’attività cerebrale simili in spettatori diversi. In primo luogo, alcuni film hanno il potere di “controllare” le risposte neurali degli spettatori. Per “controllare” intendiamo semplicemente che le sequenze di stati neurali suscitate dal film sono affidabili e prevedibili, senza formulare alcun giudizio estetico o etico sulla vantaggiosità di tali mezzi di controllo. In secondo luogo, assumendo che tali stati mentali siano strettamente correlati agli stati cerebrali (un’ipotesi ampiamente assunta come vera da molti neuroscienziati e filosofi), il controllo degli stati cerebrali degli spettatori è per i nostri scopi assimilabile al controllo dei loro stati mentali, come percezioni, emozioni, pensieri, atteggiamenti ecc.6 Questo articolo propone di utilizzare la cis per misurare l’efficacia dei media popolari sul cervello degli spettatori. L’idea è relativamente semplice e diretta. Al cinema alcuni film (o porzioni di film) guidano molti degli spettatori attraverso una successione simile di stati percettivi, emotivi e cognitivi. Tale presa sulle menti degli spettatori sarà riflessa nella similarità dell’attività cerebrale di più soggetti (cis alta). Di contro, altri film esercitano (intenzionalmente o inintenzionalmente) un minor controllo sulle risposte degli spettatori (per esempio un minor controllo delle loro emozioni o dei loro pensieri). In questi casi si prevede vi sia una maggior variabilità dell’attività cerebrale dei diversi spettatori (cis bassa). Per esempio una cis alta nelle aree visive o uditive in risposta a una data sequenza filmica implica un’alta efficacia dell’immagine o della colonna sonora sulle percezioni rispettivamente visive o uditive dello spettatore. Analogamente, una cis alta nelle aree cerebrali collegate ai processi emotivi o cognitivi indica l’efficacia di un film nel controllare rispettivamente le emozioni e i pensieri dello spettatore. 168
Neurocinematica
A Stimolazione visiva Suono
Segnale cerebrale fmri
B
Correlazione Inter-Soggettiva (cis) Corteccia superiore
Corteccia visiva
Coordinate di Talairach Spettatore 1
Spettatore 2
Figura 6.1 Analisi della Correlazione Inter-Soggettiva (cis). (A) Registrazione tramite fmri dell’attività cerebrale dei volontari durante la visione dei film e degli episodi televisivi. (B) L’analisi della cis misura la somiglianza nell’attività cerebrale degli spettatori confrontando i tempi di risposta in ognuna delle regioni del cervello di uno spettatore con quelli ottenuti nella stessa area in altri spettatori durante la visione del film.
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IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
MISURAZIONE DELLA CORRELAZIONE INTERSOGGETTIVA DURANTE LA VISIONE FILMICA
Nel nostro primo studio sull’attività cerebrale durante la visione filmica abbiamo chiesto a cinque volontari di guardare i primi 30 minuti di Il buono, il brutto, il cattivo, noto film di Sergio Leone (1966), mentre la loro attività cerebrale era analizzata con lo scanner della fmri.7 I volontari erano distesi all’interno dello scanner. Immagini e suoni digitalizzati erano erogati tramite un computer. Il video era mostrato tramite un proiettore lcd su uno schermo collocato dietro la testa dei volontari e visibile attraverso uno specchio montato sopra i loro occhi. Il suono era trasmesso tramite cuffie ad alta fedeltà compatibili con la risonanza magnetica (figura 6.1A). Ai volontari era richiesto semplicemente di mantenere immobile la propria testa, mentre potevano interrompere la visione del film e uscire dallo scanner in qualsiasi momento durante l’esperimento. I dati della fmri sono stati elaborati registrando computazionalmente l’attività del cervello di tutti gli spettatori tramite il sistema di coordinate di Talairach,8 in modo che regioni corrispondenti di ciascun cervello fossero approssimativamente allineate alle altre, ripulendo i dati da eventuali errori residuali della registrazione e poi correlando i tempi di risposta in una data regione cerebrale (figura 6.1B). Nonostante il compito apparentemente non controllato (visione libera) e la natura complessa degli stimoli filmici, l’attività cerebrale degli spettatori è risultata simile. Nello specifico circa il 45% della neocorteccia […] mostrava una alta (e statisticamente significativa, p < 0.001) correlazione intersoggettiva durante la visione del film (figura 6.2A). La correlazione interessava molte regioni cerebrali diverse, incluse le aree visive nei lobi occipitali e temporali, le aree uditive nelle circonvoluzioni di Heschl, le regioni prossime al solco laterale note per essere essenziali per il linguaggio (conosciute anche come area di Wernicke), le regioni cerebrali implicate nelle emozioni e le aree multisensoriali nei lobi temporali e parietali. L’intensità della cis può essere apprezzata ispezionando i tempi di risposta in ognuna delle regioni cerebrali. La figura 6.2B, per esempio, mostra la risposta nell’area facciale fusiforme (ffs) – una regione del cervello che si crede decisiva per il riconoscimento facciale –9 di tutti e cinque gli spettatori. L’attività in quest’area cerebrale cresce e decresce seguendo un tempo di 170
Neurocinematica
risposta simile fra tutti gli spettatori durante la visione filmica. In altre parole, il film esercita un considerevole controllo sulle risposte di quest’area del cervello, producendo simili tempi di risposta. Grafici come quelli in figura 6.2B si riscontrano per molte regioni cerebrali (la linea più spessa nella figura 6.2A), ognuna delle quali mostra tempi di risposta temporale simili in diversi spettatori. A
Risposta fMRI (%)
B
Correlazione tra soggetti: 0,45 3 2 1 0 -1 -2 -3
Soggetto 1 Soggetto 2 Soggetto 3 Soggetto 4 Soggetto 5 Media
150
300
450
600
Tempo (sec.)
Figura 6.2 La Correlazione Inter-Soggettiva (cis) nell’attività cerebrale durante la visione di un film commerciale. (A) Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone, 1966) suscita risposte simili fra gli spettatori in circa il 45% della corteccia. (B) La somiglianza nell’attività cerebrale può essere apprezzata analizzando i tempi di risposta in fmri, qui esemplificati rispetto a un’area rappresentativa del cervello (area facciale fusiforme) in tutti e cinque gli spettatori.
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IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
A
Posizione oculare orizzontale
Posizione oculare
1 0,75 0,5 0,25 0
5
34
B
63 92 Tempo (sec.)
121
Soggetto 1 Soggetto 2 Soggetto 3 Soggetto 4
Posizione oculare verticale
Posizione oculare
1 0,75 0,5 0,25 0
C
5
34
63 92 Tempo (sec.)
121
Soggetto 1 Soggetto 2 Soggetto 3 Soggetto 4
Film strutturato
N=6 Inquadratura intermedia
D
Mappa termica
Video non strutturato
N = 11 Inquadratura intermedia
Mappa termica
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Neurocinematica
In aggiunta alla cis alta nell’attività cerebrale, grazie al tracciamento dei movimenti oculari abbiamo scoperto anche che uno stesso film esercita un considerevole controllo sul comportamento visivo degli spettatori (figure 6.3A e 6.3B). Questi ultimi erano liberi di guardare in qualsiasi punto dato che non avevano ricevuto altra istruzione se non quella di rimanere fermi, distesi nello scanner della risonanza magnetica, e di guardare il film, ma in molte scene tutti gli spettatori fissavano lo stesso punto nello stesso momento (figura 6.3C). La relazione tra la cis nell’attività cerebrale e la posizione oculare è discussa più avanti. SPECIFICITÀ E SELETTIVITÀ DELLA CORRELAZIONE INTERSOGGETTIVA
Una correlazione intersoggettiva alta e diffusa dimostra il potere coinvolgente di una particolare struttura del film o è un epifenomeno accidentale che non dice nulla sulle sue caratteristiche? Per isolare le variabili intervenienti che guidano la cis in ognuna delle regioni cerebrali abbiamo manipolato sistematicamente diversi elementi delle sequenze del film. In primo luogo abbiamo ipotizzato che la similarità nei tempi di risposta fra gli spettatori fosse indotta dal contenuto del film. La misurazione della cis mentre gli spettatori erano completamente al buio non ha rivelato prove di una tale correlazione.10 Similmente nessuna evidenza di cis è stata riscontrata in spettatori che guardavano segmenti diversi dello stesso film. Questi dati suggeriscono che le somiglianze osservate nell’attività cerebrale sono temporalFigura 6.3 La Correlazione Inter-Soggettiva (cis) rispetto alla posizione oculare. (A) Posizione oculare orizzontale di quattro spettatori di Il buono, il brutto, il cattivo (registrati contemporaneamente tramite fmri). (B) Posizione oculare verticale degli stessi spettatori e film. Si noti l’alto grado di concordanza dei movimenti oculari. (C) Mappa termica della media dello sguardo di sei spettatori di Il buono, il brutto, il cattivo. A sinistra: un fotogramma tratto da una clip di 0,5 secondi. A destra: la macchia rappresenta il tempo complessivo speso dalla somma di tutti gli spettatori nel fissare ognuno dei punti dell’inquadratura. L’area più scura all’interno della macchia indica il punto maggiormente fissato dagli spettatori durante questa clip. (D) Mappa termica della media dello sguardo per un segmento di video realistico non strutturato a inquadratura unica girato a Washington Square Park. A sinistra: un fotogramma da una clip di 0,5 secondi. A destra: le molteplici macchie indicano che gli spettatori hanno guardato elementi diversi durante la clip.
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mente legate alla particolare sequenza degli eventi del film e dunque indotte da essa. In altre parole lo stesso corso di eventi può far sì che il nostro cervello, in alcuni casi, risponda in modo simile (figura 6.2). A ogni modo, in assenza di stimolazione esterna (come al buio), o quando esposti a sequenze diverse di eventi (dello stesso film), i nostri cervelli rispondono diversamente. In secondo luogo abbiamo posto che la cis potesse dipendere dalle caratteristiche di una particolare sequenza filmica, e che alti livelli di cis non dovessero essere ottenuti per tutti i tipi di film. I film mettono in scena eventi complessi. Da un lato, la mera esposizione degli spettatori alla sequenza di eventi può, per certi versi, indurre risposte cerebrali simili. Se ciò fosse vero allora ci si potrebbe aspettare una cis alta per qualsiasi tipo di sequenza filmica, indipendentemente dal contenuto del film e dallo stile di regia. Dall’altro lato, la ricchezza e la complessità della vita reale potrebbero suscitare risposte diverse fra gli spettatori, poiché ogni individuo può percepire ed elaborare una stessa situazione in modo differente. Se ciò fosse vero allora dovremmo aspettarci che il livello di cis vari in funzione del livello di controllo che un film esercita sugli stati mentali degli spettatori, e che sia inferiore in situazioni a finale aperto, come nella vita reale. Per distinguere tra queste due possibilità abbiamo presentato agli spettatori un filmato di 10 minuti, costituito da un’unica inquadratura senza alcun montaggio. Nel filmato è ripreso un concerto a Washington Square Park a New York City, una domenica mattina. L’inquadratura è stata girata da un unico punto di vista, lasciando che le persone entrassero e uscissero dal quadro senza alcun intervento da parte nostra. In questo esperimento abbiamo dunque comparato la cis di un evento non strutturato di vita reale (ripreso senza l’impiego di soluzioni cinematografiche come panoramiche, tagli e primi piani) con la cis di un noto film commerciale che fa ampio ricorso al montaggio. Il filmato non strutturato a inquadratura unica ha evocato negli spettatori una cis nettamente più bassa rispetto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone. La cis è stata ancora più alta in alcune aree visive (contrassegnate V1+ nella figura 6.4) e uditive (contrassegnate A1+) e in un’area del lobo laterale occipitale (contrassegnato LO) noto per essere coinvolto nel riconoscimento degli oggetti. Il filmato non strutturato invece ha evocato una cis 174
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molto più bassa rispetto a Il buono, il brutto, il cattivo, in particolare nelle regioni del cervello retrostanti quelle conosciute per essere coinvolte nell’elaborazione sensoriale di base degli input visivi e uditivi. Questi risultati suggeriscono che una riproduzione meramente meccanica della realtà, senza alcuna intenzione o intervento registico, non è sufficiente in sé a controllare l’attività cerebrale dello spettatore. Se in questo esperimento abbiamo presentato agli spettatori il video di una sequenza arbitraria di eventi ripresi in un parco, è ragionevole pensare che altre rappresentazioni di eventi di vita reale (per esempio una coinvolgente lezione o una divertente partita di pallacanestro) abbiano una presa maggiore sulle risposte degli spettatori, inducendo una più alta correlazione nelle loro risposte cerebrali. Tuttavia è possibile anche che sequenze più arbitrarie di eventi o inquadrature (simili a molte combinazioni arbitrarie di parole nel famoso racconto La biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges) abbiano un minor controllo sulle risposte cerebrali degli spettatori (come, per esempio, l’esperimento di “mescolamento” descritto più sotto). I nostri dati suggeriscono che il raggiungimento di uno stretto controllo sul cervello degli spettatori durante un film richieda, in molti casi, una costruzione intenzionale della sequenza filmica attraverso mezzi estetici. In terzo luogo abbiamo ipotizzato che la cis dell’attività cerebrale rispetto alle immagini del film potesse essere separata dalla cis dell’attività cerebrale rispetto alla colonna sonora. E inoltre che la cis identificasse regioni cerebrali multimodali, regioni che compiono elaborazioni cognitive indipendenti dalle modalità di presentazione degli stimoli (visivi o acustici). I film sono costituiti da sequenze di stimoli audiovisivi. Per dissociare le risposte neuronali alle immagini dalle risposte neuronali alla colonna sonora abbiamo comparato la cis di film ben strutturati e visivamente “guidati”, da cui abbiamo rimosso la colonna sonora (il film classico di Charlie Chaplin Luci della città, 1931), con la cis di segmenti ben strutturati della colonna sonora di un audiolibro (il romanzo classico Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll). I risultati hanno rivelato un’elevata specificità: la corteccia visiva dei diversi spettatori era altamente correlata durante la visione del film la cui colonna sonora era stata rimossa (figura 6.5, in grigio scuro), ma non durante l’ascolto delle storie, e viceversa per la corteccia auditiva (figura 6.5, in bianco). Questo confronto ha permesso 175
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
di individuare anche le regioni di sovrapposizione della cis alta (figura 6.5, in grigio chiaro): nel solco temporale superiore (sts), nella giunzione temporo-parietale (tpj) e in parte nel solco intraparietale sinistro (ips). Queste regioni multisensoriali del cervello possono essere coinvolte in forme più astratte di elaborazione (per esempio di sequenze di eventi, interazioni umane, narrazioni) sia nella visione del film senza colonna sonora sia nell’ascolto dell’audiolibro. Film strutturato
Segmento di realtà non strutturato
Regioni con cis alta solo per il film strutturato Regioni con cis alta per entrambi i film
V1+
LO
A1+
Figura 6.4 Correlazione Inter-Soggettiva (cis) in film strutturati e non strutturati. La cis per Il buono, il brutto, il cattivo e per il segmento di video realistico non strutturato a inquadratura unica girato a Washington Square Park. Le aree più chiare indicano le regioni con una cis alta solo per Il buono, il brutto, il cattivo. Le aree più scure indicano le regioni con una cis alta per entrambi i filmati. Il video non strutturato suscita una cis molto inferiore rispetto a Il buono, il brutto, il cattivo. V1+ indica la posizione approssimativa della corteccia visiva primaria, obiettivo principale degli input sensoriali provenienti dagli occhi. A1+ indica la posizione approssimativa della corteccia uditiva primaria, obiettivo principale di ingresso degli stimoli provenienti dalle orecchie. LO indica una regione della corteccia occipitale laterale nota per essere coinvolta nella cognizione visiva e nel riconoscimento degli oggetti.
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Audiolibro Film muto Sovrapposizione
Figura 6.5 Correlazioni Inter-Soggettive (cis) diverse per le immagini e la colonna sonora. La cis di un film di cui è stata rimossa la colonna sonora (Luci della città) e di un audiolibro (Alice nel paese delle meraviglie). Si noti la forte specificità per la quale le aree visive degli spettatori sono altamente correlate durante la visione del film (grigio scuro), ma non durante l’ascolto della storia, e viceversa per la corteccia uditiva (bianco). Abbreviazioni anatomiche in bianco: STS - Solco temporale superiore; TPJ - Giunzione temporo-parietale; IPS - Solco intraparietale. Abbreviazioni funzionali in nero: V1+ posizione approssimativa della corteccia visiva primaria; A1+ posizione approssimativa della corteccia uditiva primaria.
DALLE INQUADRATURE SINGOLE ALLA GIUSTAPPOSIZIONE DI INQUADRATURE, ALLE SEQUENZE FILMICHE COERENTI
Un film non è solo una semplice raccolta di elementi isolati. Perché un film possa essere efficace non è sufficiente che includa una successione di singole inquadrature (gli elementi di base della sequenza filmica) ed elementi sonori. Al contrario, un montaggio meticoloso delle singole inquadrature e dei suoni è necessario per combinare i singoli pezzi in un tutt’uno coerente. Per valutare l’effetto del montaggio (la giustapposizione di singole inquadrature adiacenti) sugli spettatori abbiamo variato la struttura temporale di una sequenza filmica11 contrassegnando le singole inquadrature così come definite dal montatore del film e poi mischiandole in modo casuale secondo tre scale temporali: breve, intermedia e lunga. Per l’esperimento sono stati utilizzati due film di Charlie Chaplin (Charlot avventuriero, 1917, e Luci della città, 1931) senza alcun suono, al fine di bypassare l’ulteriore complessità che il montaggio della colonna sonora avrebbe comportato. La procedura di montaggio casuale creava, a partire dalle stesse inquadrature, quattro diverse sequenze filmiche con vari gradi di coerenza temporale. 177
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A) La sequenza originale non mescolata possedeva la struttura temporale più coerente. B) La sequenza filmica su scala temporale lunga conservava coerenza temporale per segmenti di circa 36 secondi (ciascuno composto da circa 8-10 inquadrature) ma perdeva coerenza temporale per periodi di tempo più lunghi. C) La sequenza filmica rimescolata su scala intermedia conservava coerenza temporale solo per segmenti di circa 12 secondi (ciascuno composto da circa 3-4 inquadrature). D) La sequenza su scala temporale breve era composta da una serie di singole inquadrature mescolate casualmente, ciascuna della durata di circa 4 secondi, tanto da apparire reciprocamente estranee. Il film originale non mescolato, così come ciascuno dei film mescolati, è stato presentato ai soggetti due volte. Questo disegno sperimentale ha permesso di misurare la correlazione delle risposte in presentazioni ripetute dello stesso film.12 Nelle aree del cervello in cui le risposte sono guidate principalmente da input sensoriali istantanei, le risposte avrebbero dovuto essere simili nelle varie presentazioni ripetute di ogni film, a prescindere dalla loro coerenza temporale. Al contrario, nelle regioni del cervello dove le risposte dipendono dalla coerenza temporale della sequenza montata, la correlazione tra presentazioni ripetute avrebbe dovuto dipendere dalla scala temporale del mescolamento. I risultati hanno rivelato differenze tra l’attività delle regioni del cervello in funzione della coerenza temporale della sequenza montata (figura 6.6). La correlazione tra presentazioni ripetute in alcune aree visive (etichettate V1+ e MT+ nella figura 6.6A; in grigio scuro nella figura 6.6B) era alta per ciascuno dei tre film mescolati, ed era simile al livello di cis suscitata dal film originale non mescolato (le quattro barre in figura 6.6A indicano la cis alta per V1+ e MT+). La correlazione tra presentazioni ripetute in queste aree visive non è stata influenzata dalla manipolazione della struttura temporale del film, dimostrando che l’attività cerebrale in queste aree era guidata principalmente dal momentaneo contenuto visuo-spaziale delle singole inquadrature, a prescindere dalla coerenza temporale complessiva (o dalla relazione temporale tra le inquadrature). Una coerenza temporale intermedia (circa 12 secondi, che consisteva nella giustapposizione di circa 3-4 inquadrature nel nostro esperimento) era necessaria per ottenere una correlazione alta tra le presentazioni ripetute in altre regioni 178
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cerebrali, come la corteccia occipitale laterale (lo), l’area paraippocampale (ppa), l’area fusiforme facciale (ffa), il solco temporale superiore (sts) e il precuneo (figura 6.6). Sebbene le esatte funzioni di queste regioni del cervello siano ancora oggetto di indagine, la coerenza temporale intermedia può essere necessaria per le funzioni di elaborazione visiva e cognitiva che richiedono un’integrazione delle informazioni relative ai vari eventi. Un esempio potrebbe essere l’elaborazione di diversi tipi di relazione di montaggio tra inquadrature adiacenti.13 Infine, l’elaborazione su scala A
Film in avanti Scala temporale lunga (36 ± 4 sec.)
Correlazione
0,8
Scala temporale media (12 ± 3 sec.) Scala temporale breve (4 ± 1 sec.)
0,6 0,4 0,2 0
MT+
V1+
LO
PPA
FFA
STS
Precuneo
FEF
LS-TPJ
B Lunga (36 ± 4 sec.) Media (12 ± 3 sec.) Breve (4 ± 1 sec.)
N=8
Figura 6.6 Somiglianza di risposta in funzione della coerenza temporale. (A) La correlazione delle risposte fra presentazioni ripetute dello stesso film in ciascuna regione del cervello (V1+, MT+, LO, PPA, STS, precuneo, LS-TPJ, e FEF) per quattro diversi livelli di coerenza temporale. L’esperimento è stato effettuato contrassegnando le singole inquadrature filmiche così come definito dal montatore del film e successivamente rimontandole in ordine casuale secondo tre scale temporali. Prima barra da sinistra: correlazioni di risposta rispetto al film originale, versione che ha ottenuto la struttura temporale più coerente. Seconda barra: correlazioni di risposta rispetto alla versione rimescolata casualmente su scala temporale lunga (36±4 secondi). Terza barra: correlazioni di risposta rispetto alla versione rimescolata casualmente su scala temporale intermedia (12±3 secondi). Quarta barra: correlazioni di risposta rispetto alla versione rimescolata casualmente su scala temporale breve (4±1 secondi). Gli asterischi indicano che le correlazioni di risposta erano (in modo statisticamente significativo) inferiori a quelle evocate dalla versione originale. (B) Le regioni del cervello variano in funzione della coerenza temporale.
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temporale lunga (da circa 30 secondi all’intera sequenza filmica nel nostro esperimento) era necessaria per ottenere una correlazione alta tra presentazioni ripetute in più regioni anteriori del cervello ritenute responsabili di funzioni cognitive più complesse: il solco laterale (ls), la giunzione temporo-parietale (tpj) e il campo oculare frontale (fef; figura 6.6). Una coerenza temporale lunga può essere necessaria per le funzioni cognitive legate all’elaborazione del film nel suo complesso; per esempio per inferire le motivazioni, le intenzioni e le credenze dei personaggi e per l’elaborazione della trama e la previsione dei suoi possibili esiti.14 Questi risultati dimostrano che il ri-montaggio di una stessa serie di inquadrature può avere un sensibile effetto sulle risposte nelle aree cerebrali che sottendono le funzioni cognitive (le quali accumulano informazioni tra le inquadrature ed elaborano il film nel suo insieme), ma un effetto marginale sulle risposte nelle aree cerebrali sensoriali (le quali elaborano le informazioni istantanee all’interno delle singole inquadrature). ATTENZIONE E MOVIMENTI OCULARI
Fino a che punto la correlazione intersoggettiva nell’attività cerebrale dipende dalla capacità del regista di controllare ciò che gli spettatori guardano (figura 6.3)? Il mondo esterno è complesso e le risorse computazionali del nostro cervello sono limitate. Dunque il cervello si basa su meccanismi attenzionali per selezionare ciò che appare l’informazione maggiormente rilevante per la successiva elaborazione. I cineasti utilizzano un gran numero di strumenti formali (l’illuminazione, la composizione e il taglio dell’inquadratura, il movimento o l’assenza di movimento ecc.) per controllare la salienza di determinate aree in ogni inquadratura, controllando così l’attenzione e i movimenti oculari degli spettatori. L’idea di mettere in quadro la realtà nel cinema presuppone un atto di esclusione e inclusione inteso a canalizzare lo sguardo e l’attenzione degli spettatori in modo predeterminato e controllato.15 Durante la visione del film di Sergio Leone gli spettatori tendono a fissare oggetti simili all’interno di ogni singola inquadratura all’incirca nello stesso momento (figure 6.3A, 6.3B e 6.3C). Per esempio nella scena mostrata nella figura 6.3C lo sguardo di tutti gli spettatori è attratto dall’azione del protagonista sul lato destro 180
Neurocinematica
dell’inquadratura nonostante lo schema spaziale complessivo della scena. Non è questo invece il caso del video in piano sequenza girato a Washington Square, dove l’attenzione degli spettatori non è guidata dalle scelte dell’autore. L’analisi dei movimenti oculari durante la visione del video non strutturato ha rivelato che gli spettatori scelgono di guardare, in ogni momento, oggetti diversi (vedi la figura 6.3D come esempio rappresentativo). Se il cineasta non riesce a indirizzare lo sguardo degli spettatori, allora ogni spettatore guarderà verso punti dell’immagine diversi ed elaborerà informazioni diverse nelle varie fasi della visione, cosa che di conseguenza accresce la variabilità delle risposte cerebrali. Ciò può corrispondere a una maggiore variabilità, fra spettatore e spettatore, nell’interpretazione della scena, cosa che può a sua volta condurre a una maggiore variabilità nell’interpretazione delle scene successive. Conoscere la facoltà di determinate sequenze filmiche di controllare i movimenti oculari degli spettatori scena per scena può dunque essere di interesse per i cineasti. Tuttavia la registrazione dei movimenti oculari durante la visione filmica, sebbene molto illuminante, non è sufficiente in sé a determinare il livello di controllo che un film esercita sulle risposte emotive e cognitive dello spettatore. Per dimostrarlo abbiamo misurato contestualmente i movimenti oculari e l’attività cerebrale rispetto a film (privi di colonna sonora) mostrati con scorrimento temporale in avanti e all’indietro.16 I movimenti oculari erano altamente correlati fra gli spettatori e molto simili fra presentazioni ripetute di uno stesso film, mostrato sia in avanti sia all’indietro.17 Allo stesso modo l’attività cerebrale nella corteccia visiva era altamente correlata sia per i film in avanti sia per i film all’indietro. Ma la correlazione nell’attività cerebrale in alcune aree corticali (precuneo, sl, tpj e fef) era molto più bassa durante la presentazione all’indietro.18 La somiglianza dei movimenti oculari nei film in avanti e all’indietro suggerisce un livello comparabile di coinvolgimento, mitigando la potenziale obiezione che la correlazione nell’attività cerebrale durante la visione dei film all’indietro fosse più bassa a causa di una minor attenzione prestata dagli spettatori. Mostrare i film all’indietro ha avuto un forte impatto sulla loro intelligibilità, come rilevato da un questionario somministrato agli spettatori dopo la proiezione.19 Gli spettatori non solo erano imprecisi nel riassumere la trama e le intenzioni dei personaggi; anche le loro risposte al questionario 181
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
erano molto variabili. L’elevata variabilità dell’attività di alcune aree cerebrali nella visione dei film a scorrimento retrogrado è coerente con l’alta variabilità nella comprensione di tali film. Ciò indica che la visione di uno stesso oggetto o evento in un dato momento è una condizione necessaria ma non sufficiente. Movimenti oculari simili non garantiscono risposte cerebrali simili. Essi indicano solo che alcuni aspetti dell’elaborazione visiva di individui diversi sono correlati. La misurazione della correlazione nell’attività cerebrale (sia tra spettatori diversi sia tra presentazioni ripetute per uno stesso spettatore) può dunque fornire informazioni complementari per valutare l’efficacia cognitiva ed emotiva di un film, non offerte invece dall’analisi dei movimenti oculari. COINVOLGIMENTO COLLETTIVO
La capacità di misurare l’effetto dei film sul cervello degli spettatori con elevata precisione spaziale e temporale può offrire nuovi paradigmi analitici di valutazione e interpretazione di diversi aspetti dei film, dei generi filmici e dello stile cinematografico. Come primo passo per testare le potenzialità del metodo della cis per la valutazione di diverse tipologie di film abbiamo comparato la cis ottenuta rispetto a Il buono, il brutto, il cattivo di Sergio Leone (1966) con la cis relativa a due episodi televisivi delle serie “Alfred Hitchcock presenta” (Mani in alto, Alfred Hitchcock, 1961) e Curb Your Enthusiasm di Larry David (2000). Come elemento di riferimento abbiamo anche confrontato i risultati con quelli ottenuti con il video girato a Washington Square Park. Le rilevazioni tramite fmri per tutti e quattro i film sono state acquisite con le medesime attrezzature e procedure. Ciò è importante perché la qualità delle rilevazioni tramite fmri (il livello di rumore e le variazioni che non hanno nulla a che fare con l’attività cerebrale) dipende da come i dati vengono acquisiti (per esempio l’intensità del campo magnetico dello scanner mri): rilevazioni con una qualità inferiore (più rumorosa) hanno verosimilmente una cis bassa. Anche se il dato iniziale della cis per il film di Sergio Leone20 era basato sulle misurazioni effettuate con diversi tipi di scanner mri, abbiamo ripetuto l’esperimento per i risultati presentati in questo articolo (figure 6.2-6.4, 6.7 e 6.8) al fine di avere un equo confronto tra l’uno e l’altro film. Inoltre, per avere un’equa comparazio182
Neurocinematica
ne, abbiamo estratto 10 minuti di misurazioni effettuate con fmri dall’intera durata delle rilevazioni relative a ciascuno dei quattro film, poiché i film differivano in lunghezza e le statistiche dei valori di correlazione avrebbero potuto dipendere dalla loro durata. L’estensione della cis è risultata diversa per i quattro film (figura 6.7A). La percentuale della corteccia che presentava una cis alta offriva una misura dell’efficacia generale o del potere di coinvolgimento collettivo che ogni film ha di indurre risposte simili fra gli spettatori (figura 6.7B). L’episodio di Hitchcock (figura 6.7, in alto a sinistra) ha suscitato risposte simili in tutti gli spettatori in oltre il 65% della corteccia, indicando un alto livello di controllo. La cis alta è risultata estesa (45%) anche per Il buono, il brutto, il cattivo (figura 6.7, in alto al centro), mentre era piuttosto ridotta (18%) per Curb Your Enthusiasm (figura 6.7, in alto a destra). Infine, come già descritto sopra, il segmento di realtà non strutturato A
Mani in alto (Alfred Hitchcock)
B
Il buono, il brutto, il cattivo (Sergio Leone)
Entità della cis dei differenti film
cis
alta (% corteccia)
70
Curb Your Enthusiasm (Larry David)
Washington Square Park (segmento di realtà)
60 50 40 30 20 10 0
Hitchcock
Leone
David
W.S. Park
Figura 6.7 La Correlazione Inter-Soggettiva (cis) di film diversi. (A) La cis dei quattro filmati. Le tre immagini di ciascun pannello rappresentano la cis in tipiche sezioni del cervello per ciascuno dei tre orientamenti cardinali. (B) Percentuale di corteccia con cis alta per i quattro filmati.
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(figura 6.7, in basso a destra; vedi anche figura 6.4) induceva una cis alta solo in una piccola sezione della corteccia (meno del 5%).21 Dal punto di vista dei film studies la selezione di questi quattro filmati potrebbe apparire arbitraria e frammentaria. I dati sono stati raccolti da diversi esperimenti neuroscientifici indipendenti e le motivazioni della selezione dei film per ciascuno di questi esperimenti è discussa altrove.22 Tuttavia crediamo che i quattro brani differiscano per il loro livello di controllo estetico e che anche questi primi risultati presentino alcune implicazioni importanti per la teoria del cinema e per i cineasti (come discusso successivamente). Inoltre uno degli scopi di questo articolo è quello di introdurre agli studiosi di cinema un paradigma basato sulle neuroscienze, nel tentativo di avviare un’esplorazione scientifica più approfondita del rapporto tra cinema e neuroscienze cognitive. Il fatto che Hitchcock sia in grado di orchestrare le risposte di così tante e diverse regioni del cervello, accendendole e spegnendole nello stesso momento in più spettatori, offre prove neuroscientifiche della sua notoria capacità di padroneggiare e manipolare le menti degli spettatori. A Hitchcock piaceva spesso dichiarare ai suoi intervistatori che per lui “la creazione si basa su una scienza esatta delle reazioni del pubblico”.23 Molti registi si sforzano di raggiungere livelli diversi di controllo sulle reazioni degli spettatori.24 I nostri risultati forniscono evidenze empiriche a supporto della distinzione classica operata dalla teoria del cinema tra i film che rimangono il più possibile fedeli alla realtà e quelli che cercano di controllarla o deformarla. Scrivendo a proposito del sonoro nel cinema dopo la Seconda guerra mondiale, il teorico e critico del cinema André Bazin respingeva la tradizionale distinzione tra film sonori e film muti a favore di un’innovativa differenziazione tra “i registi che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà”.25 Bazin diffidava della giustapposizione fortemente controllata delle immagini in fase di montaggio su basi ideologiche ed etiche: più controllata è l’estetica, più il film manipola lo spettatore tramite messaggi inequivocabili (per esempio come nei registi sovietici e nell’Espressionismo tedesco). Film che usano il piano sequenza, la profondità di campo e la composizione multi-spaziale o altre convenzioni filmiche realistiche invece conferiscono una democratica ambiguità all’immagine e invitano gli spettatori a tracciare le proprie 184
Neurocinematica
conclusioni individuali. Nel corso degli anni nei film studies è diventato di moda distinguere tra registi “baziniani” (per esempio i registi del Cinema d’arte europeo e del Neorealismo italiano), che si sforzano di mantenere un’ambiguità nell’immagine tale da consentire diverse possibili interpretazioni, e quei cineasti (come per esempio i registi della Hollywood classica) che mirano a ottenere il massimo controllo delle risposte mentali degli spettatori utilizzando le convenzioni della continuità e altre soluzioni atte a realizzare tale scopo.26 Analogamente ci sono documentaristi che cercano di dare un’impressione di obiettività e imparzialità nelle loro opere di non-fiction (per esempio i registi del Cinema diretto americano), mentre altri prendono in prestito gli strumenti della narrativa di finzione per drammatizzare e trasmettere il proprio messaggio al maggior numero di spettatori possibile (per esempio i film di Michael Moore). Dunque, mentre la cis non può fornire un giudizio estetico sul corretto stile cinematografico da utilizzare, essa può servire come misurazione scientifica obiettiva per valutare l’effetto di stili cinematografici diversi sul cervello e quindi giustificare posizioni teoriche formulate in relazione a essi. Considerare entrambi gli estremi – i casi in cui i film hanno il massimo o il minimo controllo sulle menti degli spettatori – può essere illuminante (figura 6.8A). A un estremo, un film completamente e intenzionalmente destrutturato rischia di essere privo di scopo o non coinvolgente per la maggior parte degli spettatori. Sicuramente la scelta deliberata di un regista di riorganizzare la realtà in un certo modo dissocia l’arte del cinema dall’essere solo un atto di replica meccanica della realtà.27 Inoltre è possibile ipotizzare che parte del potere fascinatorio dei film derivi dalla loro capacità di prendere il controllo delle menti degli spettatori e che questi ultimi spesso ricerchino e godano di tale controllo, perché permette loro di essere profondamente assorbiti (e mentalmente impegnati) dal film. Il massimo controllo sulle menti degli spettatori potrebbe al contrario semplificare e banalizzare l’opera d’arte. Ciò può essere osservato in alcuni film commerciali dove la paura di perdere la presa sul pubblico rende i film ipersemplificati o esagerati, semplicemente perché “spiegano troppo”. Infine, portata all’estremo, la possibilità di controllare fortemente le menti degli spettatori può essere utilizzata per realizzare una forma immorale di propaganda o per fare un “lavaggio del cervello”.28 185
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
A Coinvolgimento collettivo
Vita reale
Documentario
Film d’arte
Hollywood
Propaganda?
min
max L’estensione della cis nell’intero cervello
B Efficacia
Washington Square Park Curb Your Enthusiasm Il buono, il brutto, il cattivo Mani in alto
Corteccia uditiva 0 min
0,1
0 min
0,1
0,2
0,3
0,4 max
Corteccia visiva 0,2 Livello di cis
0,3
0,4 max
Figura 6.8 La Correlazione Inter-Soggettiva (cis) come misurazione del coinvolgimento collettivo e dell’efficacia dei diversi filmati. (A) La cis può servire come metodo analitico oggettivo di valutazione del livello di controllo che ogni film o genere ha sulle menti degli spettatori, dal controllo minimo (per esempio nel filmato non strutturato) al controllo massimo (per esempio nei film di Hollywood). (B) Ulteriori informazioni circa l’efficacia di diversi aspetti del film possono essere ottenute tramite la misurazione della cis separatamente per ciascuna delle diverse regioni del cervello. La cis è tracciata separatamente per la corteccia visiva e la corteccia uditiva rispetto a ciascuno dei quattro filmati.
LIMITAZIONI, RAFFINAMENTO, ESTENSIONI
È importante distinguere tra il livello di elaborazione degli stimoli in ingresso e l’effetto prodotto sugli spettatori. La constatazione che alcuni film abbiano una cis bassa non implica necessariamente che gli spettatori non siano attenti o coinvolti dagli eventi di quei film. La cis misura solo la capacità del regista di suscitare risposte simili in più spettatori. L’attività cerebrale simile fra più spettatori (cis alta) può essere considerata un indicatore del 186
Neurocinematica
fatto che tutti gli spettatori percepiscono ed elaborano il film in modo simile. La variabilità nell’attività cerebrale in più spettatori (cis bassa) può essere dovuta a un’elaborazione meno impegnata delle informazioni in entrata (per esempio come in uno stato di sogno a occhi aperti) o a un’elaborazione di una sequenza filmica con un coinvolgimento intenso ma variabile (fra i diversi individui). Per esempio un film d’arte può richiedere un intenso sforzo intellettuale da parte degli spettatori. Ciononostante la cis può essere bassa perché potrebbe darsi che singoli spettatori rispondano in modo molto diverso allo stesso materiale fortemente coinvolgente. Ci si aspetta che alcune delle facoltà mentali impiegate nell’elaborazione di un film differiscano in base ai generi (drammatico, thriller, commedia). Un film molto emozionante può per esempio impegnare i sistemi emotivi del cervello, mentre un film fortemente contemplativo probabilmente coinvolgerebbe le regioni della corteccia prefrontale. Anche all’interno dello stesso film l’elaborazione di scene diverse può basarsi su operazioni che hanno luogo in differenti regioni del cervello. Ciò comporta un’applicazione più raffinata dell’analisi della cis. In particolare, la cis può essere utilizzata per valutare l’efficacia della sequenza di un film, separatamente per ciascuna delle diverse regioni del cervello. La figura 6.8B, per esempio, mostra la cis separatamente per le aree visive e quelle uditive rispetto a film diversi. Questo tipo di analisi può fornire al ricercatore (o al regista) informazioni circa l’efficacia delle diverse caratteristiche del film. Un altro esempio: i risultati sopra descritti (figura 6.6) suggeriscono che l’attività in alcune aree visive è influenzata solo dal contenuto di singole inquadrature, a prescindere dal montaggio o dall’ordine temporale di presentazione. Pertanto è probabile che la misurazione della cis all’interno di queste regioni ci fornisca una valutazione del potere dell’immagine di suscitare risposte simili fra gli spettatori, ma non spiegherà l’efficacia di una determinata successione di inquadrature. Ulteriori informazioni sul coinvolgimento del pubblico possono essere ottenute dalla rilevazione della cis separatamente per diverse scene del film. La figura 6.9A, per esempio, mostra la cis per ogni segmento di 2 minuti dell’episodio televisivo di Hitchcock. In questo caso la cis aumenta notevolmente verso la fine del film, in corrispondenza della scena saliente. Questa misurazione dina187
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
mica, sensibile al tempo, fornisce un nuovo strumento di “neuromontaggio” per valutare l’impatto di un dato film momento per momento. Cambiamenti nel coinvolgimento nel tempo possono essere attribuiti alle intenzioni del regista (come in questo esempio) o considerati inintenzionali. La misurazione dell’evoluzione della cis nel tempo può fornire ai registi informazioni sul livello di coinvolgimento rispetto a ogni singola scena o a sequenze di scene. Il rilevamento di una riduzione non intenzionale della somiA Coinvolgimento complessivo in tutte le aree cerebrali 0,8 0,6 0,4 0,2
Correlazione Inter-Soggettiva (cis)
0 100
300
500
700
900
1100
900
1100
B Efficacia della sequenza filmica nella corteccia uditiva 0,8 0,6 0,4 0,2 0 100
300
500
700
C Efficacia della sequenza filmica nella corteccia prefrontale dorsolaterale 0,8 0,6 0,4 0,2 0 100
300
500
700
900
1100
Tempo (sec.)
Figura 6.9 L’evoluzione della Correlazione Inter-Soggettiva (cis) nel tempo. (A) La cis generale (media dell’intera corteccia) per ogni segmento di due minuti dell’episodio di Hitchcock. La linea orizzontale indica la cis media nel tempo. (B) Evoluzione temporale della cis nella corteccia uditiva durante la visione dell’episodio di Hitchcock. (C) Evoluzione temporale della cis nella corteccia prefrontale dorsolaterale durante la visione dell’episodio di Hitchcock.
188
Neurocinematica
glianza delle risposte fra gli spettatori in un particolare momento del film può suggerire la necessità di modificare ulteriormente la scena per ottenere l’effetto desiderato. L’evoluzione temporale della cis può essere raffinata ulteriormente misurandola separatamente per ciascuna delle diverse regioni del cervello. Le figure 6.9B e 6.9C mostrano la cis nel tempo in due regioni cerebrali, la corteccia uditiva primaria e la corteccia prefrontale dorsolaterale (dlpfc, una regione del cervello che si ritiene essere coinvolta in alcune funzioni cognitive più elevate) durante l’episodio di Hitchcock. La cis nella corteccia uditiva è risultata alta (valore medio di 0,67) per l’intero film, cosa che attesta l’efficacia di questa particolare colonna sonora nell’indurre risposte simili fra gli spettatori nel corso del film. Al contrario la cis nella dlpfc era relativamente bassa (valore medio 0,24), ma cresceva notevolmente (>0.48) durante un periodo di 2 minuti (tra i 760 e i 900 secondi nella figura 6.9C) a circa due terzi del film. Ulteriore ricerca è necessaria per caratterizzare l’elaborazione neurale associata a un tale aumento della cis in questa zona del cervello, al fine di migliorare la comprensione della funzione di questa regione. Ciò a sua volta potrebbe fornire informazioni utili a un regista che stia cercando di raggiungere un determinato impatto sul pubblico. Infine, finora ci siamo concentrati solo sulla somiglianza nel tempo di risposta degli spettatori durante la visione di uno stesso film, ignorando le differenze individuali e inter-gruppo. I dati presentati in questo articolo sono stati ottenuti da un campione di studenti universitari composto per il 50% circa da uomini e per il 50% circa da donne, con un 30% di minoranze. I risultati restituiscono dunque la somiglianza media in questo gruppo eterogeneo. Una somiglianza prevedibile, dato che tutti gli spettatori erano parte di un gruppo con età simile, erano tutti spettatori dotati di esperienza e nel complesso avrebbero dovuto percepire e interpretare questo particolare gruppo di film nello stesso modo.29 Questo risultato è in accordo con una posizione filosofica esternalista che rifiuta l’idea secondo cui gli stati mentali rappresentano un’“intrinseca proprietà idiosincratica della vita mentale” e che sottolinea il ruolo centrale che l’ambiente esterno gioca nel plasmare i nostri pensieri, le nostre intenzioni e i nostri comportamenti in circostanze diverse.30 Tuttavia, al di là di queste somi189
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
glianze, ci si può aspettare che gli effetti di un dato film varino tra i diversi individui e gruppi. Spettatori diversi possono percepire e interpretare la stessa situazione in modi diversi e talvolta opposti. In questo senso l’analisi della cis nell’attività cerebrale può anche servire come misurazione delle differenze sistematiche nel modo in cui i vari gruppi di individui (definiti da età, sesso, orientamento sessuale, origine etnica, background culturale ecc.) rispondono a uno stesso film. La misurazione della cis in diversi gruppi culturali può consentire lo studio dei substrati neuronali sottostanti che correlano con le differenze interculturali. Ci permetterebbe inoltre di valutare l’impatto di un dato film su target diversi. CONCLUSIONI
In questo articolo abbiamo introdotto un nuovo paradigma – la Correlazione Inter-Soggettiva nell’attività cerebrale – per la misurazione dell’effetto dei film sulle menti degli spettatori. Questo paradigma potrebbe aprire la strada a un approccio di ricerca innovativo che potremmo chiamare “neurocinematica”. Infatti uno degli obiettivi di Projections: The Journal for Movies and Mind è offrire una piattaforma per lo scambio accademico tra film studies e neuroscienze.31 L’associazione tra cinema e neuroscienze cognitive è parte di uno sforzo più vasto che va alla ricerca delle connessioni tra le neuroscienze e l’arte.32 Noi sosteniamo che la cis possa essere utile sia ai teorici del film sia all’industria cinematografica, fornendo una valutazione quantitativa e neuroscientifica del coinvolgimento degli spettatori. La cis è solo un esempio della crescente tendenza nelle neuroscienze a studiare il cervello umano in un ambiente più realistico e naturale.33 Questi e altri studi possono fornire al campo emergente della neurocinematica nuovi strumenti per lo studio dei diversi aspetti dei film e della loro produzione. Dobbiamo anche notare che un approccio cognitivista al cinema non è affatto un percorso teorico nuovo nei film studies. In realtà tale approccio è stato un metodo di analisi piuttosto dominante a partire dagli anni Ottanta. Studiosi di cinema come Gregory Currie, Torben Grodal, Trevor Ponech, David Bordwell, Noël Carroll e Murray Smith hanno scritto molto sulla percezione, il riconoscimento, l’interpretazione e la comprensione del film attraverso il prisma dello studio dei processi mentali dell’uomo. 190
Neurocinematica
Bordwell e Carroll34 hanno caratterizzato il cognitivismo come una posizione teorica che “cerca di capire il pensiero, le emozioni e l’azione umani facendo ricorso ai processi di rappresentazione mentale, ai processi naturalistici e (in un certo senso) all’agency razionale”.35 Noi proponiamo che l’analisi dalla cis possa contribuire al movimento cognitivista della teoria del cinema analogamente ai contributi delle neuroscienze alla psicologia sociale e cognitiva. Come con qualsiasi innovazione è necessario procedere con cautela. Il metodo della cis ci fornisce un nuovo modo di valutazione di un aspetto essenziale del cinema, ovvero il livello di controllo che un determinato film esercita sulle menti degli spettatori. È chiaro che la somiglianza delle risposte non è l’unico parametro, e neppure quello centrale, per valutare la qualità di una sequenza filmica. Pertanto la misurazione della cis probabilmente non dovrebbe essere utilizzata per valutare la componente estetica, artistica, sociale o politica del film. Come affermato in precedenza, diversi registi differiscono nel livello di controllo che scelgono di imporre agli spettatori e i nostri metodi non sono progettati per giudicare questo aspetto, ma piuttosto per misurare l’effetto di un dato film su diversi gruppi di riferimento. Pertanto la valutazione critica di ogni film è fuori dal dominio di questa ricerca e dovrebbe essere lasciata al pubblico e ai critici cinematografici. Inoltre i dati iniziali qui presentati aprono certamente numerose questioni che a loro volta richiedono nuovi esperimenti. Prevediamo che una più sistematica esplorazione delle risposte nelle diverse regioni del cervello da parte di individui appartenenti a gruppi di riferimento diversi rispetto a tipi diversi di film potrà gettare nuova luce sul fiorente campo degli studi sulla mente e il cinema. NOTE
1. Il montaggio, che come concetto ha avuto origine nel cinema sovietico degli anni Venti, esprime significato attraverso la giustapposizione di inquadrature spazialmente e/o temporalmente separate. Tale relazione si basa spesso sul conflitto fra inquadrature piuttosto che sull’individuazione del significato della singola inquadratura. 2. Vedi per esempio gli scritti del teorico e regista sovietico Sergej M. Ėjzenštejn, il quale nel 1920, nel dirigere i processi del pensiero e le emozioni dello spettatore in una serie di “shock” e attrazioni, ha abbracciato la tendenza dominante del comportamentismo pavloviano. Ėjzenštejn descrive
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IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
in questi termini il montaggio del suo film Sciopero (1925): “strappare frammenti dell’ambiente circostante secondo un piano cosciente e predeterminato, calcolato per lanciarli al pubblico in sala nella combinazione appropriata, per soggiogarlo all’associazione appropriata con l’ovvia motivazione ideologica finale” (S.M. Ėjzenštejn, “The problem of the materialist approach to form”, in R. Taylor (a cura di), The Eisenstein Reader, British Film Institute, London 1925, p. 57). 3. D.J. Heeger, D. Ress, “What does fmri tell us about neuronal activity?”, in Nature Reviews Neuroscience, 3 (2), 2002, pp. 142-151; S.A. Huettel, A.W. Song, G. McCarthy, Functional Magnetic Resonance Imaging, Sinauer, Sunderland (ma) 2004. 4. U. Hasson, Y. Nir, I. Levy, G. Fuhrmann, R. Malach, “Intersubject synchronization of cortical activity during natural vision”, in Science, 303 (5664), 2004, pp. 1634-1640. 5. O. Furman, N. Dorfman, U. Hasson, L. Davachi, Y. Dudai, “They saw a movie: Long-term memory for an extended audiovisual narrative”, in Learning and Memory, 14, 6, 2007, pp. 457-467; Y. Golland, S. Bentin, H. Gelbard, Y. Benjamini, R. Heller, Y. Nir, U. Hasson, R. Malach, “Extrinsic and intrinsic systems in the posterior cortex of the human brain revealed during natural sensory stimulation”, in Cerebral Cortex, 17, 4, 2007, pp. 766-777; U. Hasson, R. Malach, “Human brain activation during viewing of dynamic natural scenes”, in Novartis Foundation Symposium, 270, 2005, pp. 203-212; discussion pp. 212-216 e pp. 232-237; U. Hasson et al., “Intersubject synchronization”, cit.; U. Hasson, E. Yang, I. Vallines, D.J. Heeger, N. Rubin, “A hierarchy of temporal receptive windows in human cortex”, in Journal of Neuroscience, 28, 10, 2008, pp. 25392550; U. Hasson, O. Furman, D. Clark, Y. Dudai, L. Davachi, “Enhanced intersubject correlations during movie viewing correlate with successful episodic encoding”, in Neuron, 57, 3, 2008, pp. 452-462; S.M. Wilson, I. Molnar-Szakacs, M. Iacoboni, “Beyond superior temporal cortex: Intersubject correlations in narrative speech comprehension”, in Cerebral Cortex, 18, 1, 2008, pp. 230-242. 6. F. Crick, “The astonishing hypothesis”, in The Journal of Consciousness Studies, 1, 1, 1994, pp. 10-16; A.R. Damasio, Emozione e coscienza (1998), tr. it. di S. Frediani, Adelphi, Milano 2000; J. Ledoux, Il cervello emotivo. Alle radici delle emozioni (1996), tr. it. di S. Coyaud, Baldini&Castoldi, Milano 1998. 7. U. Hasson et al., “Intersubject synchronization”, cit. 8. Il sistema di coordinate di Talairach, chiamato anche “spazio di Talairach” o sistema di coordinate stereotassiche, è un sistema tridimensionale di coordinate del cervello umano usato per mappare la posizione di strutture cerebrali a prescindere dalle differenze individuali di taglia e forma del cervello. Nella risonanza magnetica questo sistema è utilizzato per indirizzare la stimolazione transcranica nelle regioni cerebrali. [NdC] 9. N. Kanwisher, J. McDermott, M.M. Chun, “The fusiform face area: A module in human extrastriate cortex specialized for face perception”, in
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Neurocinematica
Journal of Neuroscience, 17, 11, 1997, pp. 4302-4311; N. Kanwisher, M. Moscovitch, “The cognitive neuroscience of face processing: An introduction”, in Cognitive Neuropsychology, 17, 1-3, 2000, pp. 1-11. 10. U. Hasson et al., “Intersubject synchronization”, cit. 11. U. Hasson, E. Yang et al., “A hierarchy of temporal receptive windows in human cortex”, cit. 12. Per i dettagli e per un confronto diretto con l’analisi della cis sopra descritta vedi ibidem. 13. S.M. Ėjzenštejn, “The problem of the materialist approach to form”, cit. Vedi anche D. Mobbs, N. Weiskopf, H.C. Lau, E. Featherstone, R.J. Dolan, C.D. Frith, “The Kuleshov effect: The influence of contextual framing on emotional attributions”, in Social Cognitive and Affective Neuroscience, 1, 2, 2006, pp. 95-106. 14. Lo sforzo di capire il nostro coinvolgimento narrativo nel film tramite gli strumenti concettuali del cognitivismo è stato compiuto da David Bordwell. Adottando una teoria costruttivista della percezione, Bordwell ha analizzato il modo in cui durante la visione di un film compiamo inferenze e formuliamo ipotesi. Vedi D. Bordwell, Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison 1985. 15. Per una discussione sistematica su come i registi dirigono la nostra attenzione manipolando esteticamente la composizione, il movimento, il contrasto e le tonalità dei colori vedi D. Bordwell, K. Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, tr. it. di P. Bonini, Il castoro, Milano 2003, pp. 248-259. Allo stesso modo Noël Carroll sostiene che i film abbiano a disposizione mezzi più efficaci rispetto al teatro per dirigere l’attenzione dello spettatore, ed elenca tre dispositivi formali per ottenere tale scopo mediante il posizionamento della macchina da presa: indexing (la macchina da presa si muove verso un oggetto), bracketing (inclusione/esclusione nell’inquadratura) e scaling (la capacità di cambiare la dimensione di oggetti). Vedi N. Carroll, Theorizing the Moving Image, Cambridge University Press, New York 1996, pp. 84-86. Ira Konigsberg indica il modo in cui le tecniche di messa a fuoco […] controllano la nostra attenzione su un’immagine in movimento. “Parte del piacere di vedere un film – spiega Konigsberg – è far guidare la nostra attenzione in modo immediato e controllato, come se la macchina da presa stesse guardando per noi – seguendo gli oggetti a fuoco uno dopo l’altro, imponiamo su di esse un qualche tipo di relazione e, in ultima analisi, una sorta di narrazione” (I. Konigsberg, “Film theory and the new science”, in Projections: The Journal for Movies and Mind, 1, 1, 2007, p. 13). 16. U. Hasson, E. Yang et al., “A Hierarchy of temporal receptive windows in human cortex”, cit. 17. Vedi figura 4 in ibidem. 18. Vedi figura 2 in ibidem. 19. Vedi figura 4 supplementare in ibidem. 20. U. Hasson et al., “Intersubject synchronization”, cit. 21. La somiglianza tra risultati della cis ottenuti per l’episodio Curb Your Enthusiasm e quelli ottenuti per il segmento non strutturato di realtà
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IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
potrebbe dipendere, in parte, dal fatto che questa serie televisiva è spesso girata senza copione. 22. O. Furman et al., “They saw a movie”, cit.; Y. Golland et al., “Extrinsic and intrinsic systems”, cit.; U. Hasson, E. Yang et al., “A hierarchy of temporal receptive windows”, cit.; U. Hasson, O. Furman et al., “Enhanced intersubject correlations”, cit.; U. Hasson, R. Malac, “Human brain activation”, cit.; U. Hasson et al., “Intersubject synchronization”, cit. 23. J. Douchet, “Hitchcock and his audience”, in J. Hillier (a cura di), Cahiers du Cinéma, the 1950s: Neo-Realism, Hollywood, New Wave, Harvard University Press, Cambridge (ma) 1985, pp. 150-157. 24. Vedi note 1 e 2. 25. A. Bazin, Che cos’è il cinema? (1958-62), tr. it. e a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973, p. 75. 26. Gran parte della teoria dell’apparato cinematografico (spesso definita come “Grand Theory”) elaborata negli anni Settanta ha cercato di fornire una spiegazione della fascinazione dello spettatore per il cinema di Hollywood poggiandosi sul presupposto che le immagini cinematografiche generano l’illusione della realtà. Di conseguenza l’approccio prevalente all’esperienza di visione sottolineava i processi inconsci di identificazione e i loro effetti apparentemente inevitabili sullo spettatore. Vedi, per esempio, gli scritti di Jean-Louis Baudry (J.-L. Baudry, “Ideological effects of the basic cinematographic apparatus [1970]”, in Film Quarterly, 28, 2, 1974, pp. 39-47) circa l’illusione generata dall’apparato o il modello della sutura del meccanismo del campo-controcampo proposto da Daniel Dayan (D. Dayan, “The tutor-code of classical cinema”, in Film Quarterly, 28, 1, 1974, pp. 22-31). 27. Infatti l’idea che un film non possa essere legittimato come opera d’arte se non è altro che una riproduzione meccanica ha dominato le prime formulazioni teoriche sul cinema. Come per esempio gli sforzi di Rudolf Arnheim, incaricatosi di smentire i pregiudizi sul cinema dimostrando che la caratteristica più importante del film è quella di manipolare la realtà, di riorganizzare l’evento profilmico e non semplicemente di registrarlo (R. Arnheim, Film come arte [1957], tr. it. di P. Gobetti, il Saggiatore, Milano 1960). 28. Un famigerato esempio storico di forte controllo estetico sullo spettatore sono i film di propaganda nazista diretti da Leni Riefenstahl. In Il trionfo della volontà (1935) o Olympia (1938) sono usate tecniche documentaristiche innovative per veicolare un messaggio politico manipolatorio. 29. Una simile concezione di risposte dello spettatore come implicanti una dimensione intersoggettiva è stata assunta da David Bordwell (Narration in the Fiction Film, cit.). Basandosi sull’idea che il film sia una “risorsa sociale condivisa”, Bordwell suggerisce che durante la visione di un film tutti gli spettatori compiono delle ipotesi. In modo simile Ira Konigsberg applica l’approccio delle neuroscienze ai “neuroni specchio” per studiare l’empatia nel cinema presupponendo che “i nostri cervelli funzionano più o meno allo stesso modo quando osserviamo un film, ma a una latitudine suf-
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Neurocinematica
ficiente per permetterci emozioni e reazioni uniche” (I. Konigsberg, “Film theory and the new science”, cit., p. 15). 30. L.S. Vygotsky, Pensiero e linguaggio (1934), tr. it. di L. Mecacci, Laterza, Roma-Bari 1990; L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), tr. it. di R. Piovesan e M. Trinchero, Einaudi, Torino 1967. 31. Vedi per esempio I. Konigsberg, “Film theory and the new science”, cit. 32. C.-Y. Kim, R. Blake, “Brain activity accompanying perception of implied motion in abstract paintings”, in Spatial Vision, 20, 6, 2007, pp. 545560; H. Kawabata, S. Zeki, “Neural correlates of beauty”, in Journal of Neurophysiology, 91, 4, 2004, pp. 1699-1705; M. Livingstone, Vision and Art: The Biology of Seeing, H.N. Abrams, New York 2002; V.S. Ramachandran, W. Hirs, “The science of art: A neurological theory of aesthetic experience”, in Journal of Consciousness Studies, 6, 6-7, 1999, pp. 15-51; S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello (1999), tr. it. di P. Pagli e G. De Vivo, Bollati Boringhieri, Torino 2003. 33. A. Bartels, S. Zeki, “The chronoarchitecture of the human brain: Natural viewing conditions reveal a time-based anatomy of the brain”, in Neuroimage, 22, 1, 2004, pp. 419-33; A. Bartels, “Functional brain mapping during free viewing of natural scenes”, in Human Brain Mapping, 21, 2, 2004, pp. 75-85; J.V. Haxby, M.I. Gobbini, M.L. Furey, A. Ishai, J.L. Schouten, P. Pietrini, “Distributed and overlapping representations of faces and objects in ventral temporal cortex”, in Science, 293, 5539, 2001, pp. 2425-2430; D. Mobbs et al., “The Kuleshov effect”, cit.; H.J. Spiers, E.A. Maguire, “Decoding human brain activity during real-world experiences”, in Trends in Cognitive Science, 11, 8, 2007, pp. 356-365; S.M. Wilson et al., “Beyond superior temporal cortex”, cit.; J.M. Zacks, T.S. Braver, M.A. Sheridan, D.I. Donaldson, A.Z. Snyder, J.M. Ollinger, R.L. Buckner, M.E. Raichle, “Human brain activity time-locked to perceptual event boundaries”, in Nature Neuroscience, 4, 6, 2001, pp. 651-655; S. Zeki, “Art and the brain”, in Daedalus: Proceedings of the American Academy of Arts and Sciences, 127, 2, 1998, pp. 71-104. 34. D. Bordwell, N. Carroll, Post-Theory. Reconstructing Film Studies, University of Wisconsin Press, Madison 1996. 35. Ibidem, p. xvi.
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7 GUARDARSI GUARDARE I FILM L’USO DELL’OCULOMETRIA PER LA TEORIA COGNITIVA DEL FILM
Tim J. Smith
Tim Smith (http://continuityboy.blogspot.it/) ha studiato Intelligenza artificiale e Psicologia alla University of Edinburgh, dove nel 2006 ha ottenuto il dottorato in Scienze cognitive con una tesi sulla teoria attenzionale del montaggio cinematografico (An Attentional Theory of Continuity Editing). Attualmente è senior lecturer nel Dipartimento di Psicologia a Birkbeck, University of London. Si interessa agli aspetti della cognizione visiva (attenzione, percezione, memoria) di immagini statiche e in movimento, come per esempio sequenze cinematografiche o riprese di scene reali, studiati attraverso metodi empirici e in particolare l’oculometria (eye tracking), ovvero l’osservazione diretta del comportamento oculare degli osservatori/spettatori (“The attentional theory of cinematic continuity”, Projections, 6 (1), 2012, pp. 1-27). È consulente presso aziende mediali e sviluppatore di software per interventi sui disturbi dello spettro autistico e i disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Dal 2009 è membro del comitato di direzione della Society for the Cognitive Study of Moving Images. Una macchia rossa dai contorni verdastri danza sullo schermo mutando costantemente forma e posizione. Non è una pellicola cinematografica in fiamme, né un’opera di videoarte o un film astratto. È la “mappa termica” ricavata da una rilevazione oculometrica, cioè un grafico dinamico che mostra i punti di un’immagine (in questo caso in movimento, come quella di un film) osservati per un tempo più (in rosso) o meno (in verde) prolungato da un gruppo di osservatori sottoposti a un esperimento di eye tracking. Sapere quali punti dell’immagine attraggono maggiormente l’attenzione di un osservatore (e dunque anche quali non la attraggono) è di importanza cruciale in campo pubblicitario, nel visual design e in tutte le pratiche creative in cui la composizione visiva determina l’efficacia di un’immagine (soprattutto in termini economici). Ma anche la teoria del cinema e dei media audiovisivi si è interessata – con maggior intensità negli ultimi dieci anni, grazie soprattutto al lavoro di 197
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
Tim Smith – all’oculometria come metodo portante di una “Cinematica Cognitiva Computazionale”. L’era della speculazione estetica sulle forme stilistiche di composizione dell’inquadratura e del montaggio è finita: per studiare e descrivere la continuità del montaggio “invisibile” (o la discontinuità di quello “visibile”) bisogna misurare. Misurare il numero di fissazioni e l’ampiezza delle saccadi, ovvero i momenti in cui l’occhio si posa su un punto dell’immagine e quelli in cui invece si sposta da un punto a un altro. Misurare il comportamento dello sguardo individuale e aggregarlo, ricavando così il livello di sincronia attenzionale, un dato statistico sul grado di “accordo” dello sguardo di più osservatori rispetto alla medesima immagine. Misurare la durata media delle inquadrature per derivare la “tenuta” dell’attenzione dello spettatore (Bellour, con Stern, parlerebbe di “momento presente”). Misurare e correlare. Si potrà così dimostrare empiricamente se e come la composizione delle inquadrature in una scena di montaggio rispecchi e tuteli il percorso attenzionale dello spettatore. Si scoprirà infatti una corrispondenza fra la posizione degli elementi salienti di un’azione, come un gesto o volto, e il punto osservato esattamente in quel momento dagli spettatori. La fluidità e l’immediatezza della comprensione narrativa degli eventi rappresentati dipende insomma dalla capacità dell’immagine di accompagnare lo sguardo, prevedendolo e raccordandolo: il montaggio delle inquadrature è in realtà montaggio di sguardi. Questa pregnanza gestaltica dello sguardo, raggiunta dal sapiente gioco di equilibrio dinamico della composizione, non è più mero appannaggio dell’estetica. Una nuova scienza esatta dell’occhio cinematografico emerge nel terreno di incontro fra fisiologia e statistica (e la neurologia, su cui vedi il contributo di Hasson e collaboratori in questo volume). L’arte della composizione plastica consiste nel guidare l’attenzione dello spettatore lungo un preciso tracciato nell’ordine esatto voluto dall’autore dell’opera. Il che si realizza col movimento dell’occhio sulla superficie di una tela se la composizione è espressa in pittura, o sulla superficie di uno schermo se stiamo esaminando un’inquadratura. sergej m. ėjzenštejn, 1943
Uno degli intenti chiave della teoria cognitivista del cinema è la comprensione dei processi mentali coinvolti nella visione di un film e dei modi in cui essa rispecchia le intenzioni e le decisioni del regista. I teorici del cinema hanno applicato a questo problema una varietà di approcci intellettuali, compresi quelli psicoanalitico e filosofico, l’analisi formale del film e l’applicazione di teorie sociali e culturali.1 Queste esplorazioni teoriche hanno generato ricche e dettagliate ipotesi sul modo in cui le decisioni dei cineasti 198
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possono influenzare gli spettatori, ma tali ipotesi rimangono generalmente non testate. Al fine di individuare delle prove a supporto o confutazione di tali ipotesi, i teorici cognitivisti del cinema possono appellarsi ai metodi e alle teorie della psicologia empirica e alle discipline alleate delle scienze cognitive e delle neuroscienze cognitive. Affinché i metodi della psicologia empirica possano essere applicati alle questioni della teoria cognitiva del cinema è necessario tracciare un quadro che dimostri come i problemi di una disciplina possano essere esplorati nell’altra. In questo testo viene presentato l’approccio della Cinematica Cognitiva Computazionale (ccc). La ccc triangola lo studio dei modi in cui guardiamo i film combinando tre approcci tradizionalmente separati: 1) la psicologia cognitiva e i relativi metodi di verifica delle ipotesi, 2) i metodi computazionali dell’analisi audiovisiva e il modeling computazionale e 3) l’analisi formale e statistica del film.2 Questi metodi possono essere combinati in gradazioni diverse a seconda del problema da studiare. Per esempio, per capire perché certi tipi di taglio di montaggio risultano agli spettatori più “invisibili” di altri, l’approccio ccc può essere quello di eseguire anzitutto uno studio empirico: agli spettatori verrebbe richiesto di rilevare i tagli durante la visione di un film, e i tempi di reazione ai diversi tipi di taglio verrebbero misurati e comparati.3 Le differenze tra i livelli di rilevamento potrebbero quindi essere studiate registrando i movimenti oculari degli spettatori rispetto a ciascun taglio e analizzando con metodi computazionali come le caratteristiche audiovisive di base, come il movimento e il volume, possono spiegare i movimenti oculari rispetto ai tagli.4 Infine, l’evoluzione dei tagli nel tempo potrebbe essere esaminata identificando e analizzando statisticamente la loro distribuzione all’interno di un corpus di film.5 Combinando questi tre approcci in un unico progetto o raccogliendo i risultati di diversi studi può essere individuata la motivazione cognitiva delle tecniche cinematografiche, la loro storia e la loro funzione nel determinare lo stile del film. Per cominciare a studiare le questioni della visione filmica, i metodi empirici per cui si è optato devono catturare le dinamiche che intercorrono tra il regista e lo spettatore, aspetto cruciale nella creazione dell’esperienza filmica. Dato che i film sono costituiti da una rapida serie di inquadrature tenute assieme da tagli (transizioni istantanee da un’inquadratura all’altra) e ognuna delle 199
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quali dura in media meno di 4 secondi,6 i metodi adottati al fine di conoscere come le decisioni registiche influenzano la cognizione dello spettatore devono funzionare a una risoluzione temporale di secondi o millisecondi. La psicologia cognitiva e le neuroscienze offrono diverse tecniche utili per sondare la cognizione dello spettatore: l’introspezione/il report individuale, i test comportamentali (come i test sulla memoria o sul tempo di reazione), le registrazioni biofisiologiche (per esempio il monitoraggio della frequenza cardiaca o la risposta galvanica della pelle), l’elettrofisiologia (per esempio i potenziali evento-correlati [erp]) e la neuroimaging.7 Gli esperimenti volti a indagare la comprensione di sequenze di montaggio solitamente prevedono la presentazione di un filmato e poi testano la memoria dello spettatore a distanza di alcuni minuti.8 La relazione tra la percezione istantanea della sequenza e la sua comprensione non deve essere testata durante la visione del filmato, bensì essere inferita dalla memoria che ne risulta. Altre tecniche come la risonanza magnetica funzionale (fmri) forniscono una misurazione continua dell’attività cerebrale dello spettatore durante la visione da cui può essere dedotta l’elaborazione cognitiva.9 Ma il ritardo implicato nella fmri (l’aumento dei livelli di ossigeno nel sangue misurati mediante fmri richiede dai 2 ai 3 secondi circa per essere registrato) rende difficile l’attribuzione dell’influenza di scelte registiche temporalmente brevi a un particolare cambiamento nell’attività cerebrale. Ciò che occorre è una misurazione in tempo reale delle modalità in cui uno spettatore sta guardando ed elabora un film. Tale tecnica è offerta dall’oculometria.10 CHE COS’È L’OCULOMETRIA
L’oculometria è la misurazione del movimento degli occhi dello spettatore in relazione a una serie visiva, sia essa una scena del mondo reale, il piano di un tavolo, o stimoli presentati al computer o su uno schermo cinematografico. I metodi per la registrazione dei movimenti oculari esistono da oltre cento anni,11 ma fino agli ultimi vent’anni queste tecniche sono state molto invasive e scomode per l’utente. Per esempio alcune delle prime pionieristiche ricerche sul nostro modo di vedere scene naturali sono state compiute dallo scienziato russo Alfred Yarbus utilizzando una tecnica che prevedeva l’uso di un minuscolo obiettivo attacca200
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to all’occhio dello spettatore tramite una ventosa. La testa dello spettatore veniva tenuta ferma e un fascio di luce veniva proiettato sulle lenti. Appena l’occhio si muoveva, un fascio riflettente tracciava un percorso su una lastra fotografica, registrando i movimenti dell’occhio.12 Una tecnica invasiva simile usata ancora oggi prevede l’inserimento di una bobina di filo incorporata in una lente a contatto posizionata sull’occhio anestetizzato dello spettatore e il posizionamento della testa di quest’ultimo in un campo magnetico (scleral contact lens/magnetic search coil tracking). Tali tecniche producono risultati molto accurati, ma richiedono che la testa dello spettatore sia stabilizzata e possono essere molto scomode se utilizzate per periodi prolungati. Fortunatamente le moderne videocamere e le tecnologie informatiche sono progredite al punto da rendere oggi disponibile una tecnica oculometrica non invasiva: il tracciamento del riflesso combinato corneale/pupillare basato sul video. Questa tecnica sfrutta il fatto che la luce infrarossa proiettata sull’occhio umano produce uno schema di riflettività molto specifico. La luce infrarossa (ir) è generata da fonti di luce calda ma è invisibile all’occhio umano. Se l’occhio umano è illuminato mediante ir, la luce che entra nella pupilla non viene riflessa, creando una pupilla scura, mentre si rifrange sull’esterno dell’occhio (la cornea), creando un bagliore noto come riflesso corneale. La pupilla si muove coerentemente alla rotazione dell’occhio, ma il bagliore rimane sempre nella stessa posizione rispetto alla sorgente di luce ir. Identificando lo spostamento del centro della pupilla rispetto al bagliore, siamo in grado di identificare il preciso vettore di movimento dell’occhio su due dimensioni. Questi vettori possono essere calibrati rispetto a un piano bidimensionale, come uno schermo cinematografico o un computer, chiedendo ai partecipanti di guardare una serie di punti sullo schermo (in genere cinque o nove). Il computer utilizza questi punti per costruire un modello dei movimenti oculari e per dedurre quale sia il punto di fissazione (ovvero dove gli occhi dello spettatore stanno puntando) e proietta sullo schermo tale punto.13 PERCHÉ REGISTRARE I MOVIMENTI OCULARI?
L’esperienza fisica di guardare un film può apparire esternamente un’attività passiva. Al contrario, lo spettatore è estremamente at201
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tivo. Lo spettatore deve elaborare la rapida sequenza delle informazioni audiovisive, percepire ciò che è rappresentato sullo schermo, comprendere i personaggi, gli spazi e le azioni rappresentate e impegnarsi nella costruzione della storia nel corso dell’intero film. Le uniche evidenze esterne visibili di questa attività interna sono le espressioni facciali, i movimenti del corpo, i mutamenti fisiologici (per esempio il battito cardiaco, la sudorazione, la dilatazione pupillare), le vocalizzazioni involontarie (come il riso o le urla) e i movimenti oculari. Lo spettatore muove i propri occhi verso diversi punti dello schermo dalle due alle cinque volte al secondo. Durante un lungometraggio della durata standard di 90 minuti si tratta di circa 21.600 movimenti oculari! Ogni movimento oculare indica una nuova fase dell’elaborazione visiva. A causa delle limitazioni dell’acuità visiva dell’occhio umano non possiamo percepire integralmente e in uno stesso momento i dettagli di un’immagine e per elaborare progressivamente le parti della scena a cui siamo interessati dobbiamo muovere i nostri occhi. Diversamente dai chip fotosensibili delle fotocamere digitali, la superficie fotosensibile in fondo all’occhio umano (la retina) non è sensibile uniformemente alla luce in essa proiettata. La retina può elaborare informazioni cromatiche ad alta risoluzione solo al proprio centro per via della distribuzione dei fotorecettori. Vi sono due tipi di fotorecettori nella retina: i bastoncelli, sensibili alla luce a bassi livelli di luminosità, e i coni, sensibili ai colori e alla luce a livelli di luminosità normale. I bastoncelli e i coni sono distribuiti irregolarmente sulla retina, la cui la zona periferica è coperta principalmente da bastoncelli. La maggior parte dei coni è concentrata in una piccola area al centro della retina detta fovea. Quest’area occupa solo 2 gradi circa dell’angolo di visione, approssimativamente corrispondenti alla porzione della scena coperta da un’unghia di pollice alla distanza di un braccio. La risoluzione dell’immagine che percepiamo è la più grande possibile quando elaborata dai coni, poi cala rapidamente al crescere della distanza dalla fovea. A 5 gradi dalla fovea la risoluzione scende del 70% e a 20 gradi scende al 90% (dove 360 gradi è la circonferenza orizzontale che circonda la testa dell’osservatore).14 Ne consegue che abbiamo accesso a informazioni cromatiche ad alta risoluzione solo attorno all’area della scena proiettata sulla fovea o vicino a essa. 202
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Quando i nostri occhi si soffermano su un punto nello spazio (ovvero fissano) avviene la codifica delle informazioni visive.15 Ogni fissazione dura in media 330 ms (quando ci si concentra su una scena visiva statica)16 e varia in durata coerentemente alla complessità degli stimoli e dei compiti.17 Per elaborare una nuova porzione della scena gli occhi devono ruotare affinché il nuovo obiettivo sia proiettato sulla fovea. Questi rapidi movimenti oculari sono definiti saccadi, durano dai 20 ai 50 ms e coprono una distanza di circa 4 gradi.18 Se l’obiettivo della nostra attenzione richiede una saccade ampia (superiore ai 30 gradi) o è fuori dal nostro attuale campo visivo (120 gradi), il movimento oculare sarà accompagnato da una rotazione della testa e/o del corpo.19 Quando lo spettatore siede in una sala cinematografica l’angolo occupato dallo schermo è verosimilmente superiore a 30 gradi, dato che l’angolo di visione minimo raccomandato per le file posteriori di una sala è 35 gradi. Quanto più vicino allo schermo è lo spettatore, tanto più ampio sarà l’angolo di visione da un bordo dello schermo all’altro.20 Per la maggior parte del pubblico lo schermo sottende un angolo di visione significativamente più ampio, richiedendo una rotazione della testa contestualmente ai movimenti oculari saccadici per vedere comodamente i bordi dello schermo. Quando compiamo un movimento oculare saccadico i nostri occhi generalmente sono aperti ma noi non percepiamo il mondo sfocato sulla nostra retina. Ciò accade perché durante una saccade il nostro sistema visivo sospende l’acquisizione di informazioni, un fenomeno noto come soppressione saccadica.21 È possibile vedere da sé i risultati di questo fenomeno guardando in uno specchio e compiendo saccadi con un occhio e con l’altro. Mentre se si guarda qualcun altro compiere saccadi si possono osservare i suoi occhi in movimento, guardando i propri occhi si vedrà soltanto la fissazione. La sequenza di fissazioni e saccadi crea un percorso di scansione: ovvero l’identificazione dei punti osservati dai soggetti in un determinato periodo di visione e degli elementi della scena più probabilmente osservati, percepiti e codificati nella memoria, così come le parti della scena che non vengono osservate. L’attenzione visiva può implicitamente discostarsi dalla fissazione allo scopo di incrementare l’elaborazione delle caratteristiche periferiche, ma studi in cui i partecipanti erano liberi di muovere i propri oc203
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chi hanno dimostrato che l’attenzione “implicita” non segue tale comportamento di scansione ed è invece solo trasferita all’oggetto della saccade successiva.22 L’elaborazione di informazioni visive periferiche è riservata prevalentemente alla selezione degli oggetti delle saccadi successive, al tracciamento degli oggetti in movimento e all’estrazione di informazioni essenziali circa la categoria e la struttura della scena o informazioni generiche sull’oggetto.23 La registrazione dei punti fissati da un soggetto offrirà dunque anche una buona misurazione di ciò che ha elaborato in dettaglio,24 aspetto che è la pietra angolare di tutte le ricerche sul movimento oculare. Conoscere il percorso di scansione dello spettatore durante la visione di una sequenza filmica è importante poiché la breve durata della maggior parte delle inquadrature fa sì che lo spettatore possa percepire solo una piccola porzione dell’area dello schermo. In una sala cinematografica media, con uno schermo da 12 metri visto da una distanza di 10 metri, questa regione, al centro del nostro sguardo, coprirà solo lo 0,19% dell’area complessiva dello schermo. Dato che la durata media delle inquadrature della maggior parte dei film prodotti oggi è inferiore ai 4 secondi,25 gli spettatori sono in grado di compiere al massimo 20 fissazioni coprendo solo il 3,8% dell’area dello schermo. Questa minuscola quantità evidenzia quanto sia importante per un cineasta sapere esattamente dove il pubblico sta guardando in ogni momento. Se gli spettatori non riescono a seguire gli elementi di un’immagine che trasmettono le informazioni visive salienti, non riusciranno a comprendere l’inquadratura, cosa che può accrescere la confusione e azzerare il divertimento. LA STRAORDINARIA CAPACITÀ DI SAPERE DOVE STIAMO GUARDANDO
Il desiderio di sapere dove guardano gli spettatori durante la visione di un film è presente nella teoria del cinema da decenni, ma le innovazioni tecnologiche necessarie a consentire il tracciamento oculare durante la visione filmica sono divenute disponibili solo recentemente. Nel 1943 il regista e teorico sovietico Sergej Ėjzenštejn ha scritto a proposito della percezione visiva e degli schemi di indirizzamento dei movimenti oculari dei suoi spetta204
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tori.26 Ėjzenštejn ha persino incluso un ipotetico diagramma del percorso dei movimenti oculari dello spettatore durante una sequenza del suo film Alexander Nevsky (1938). Il diagramma mostra come Ėjzenštejn prevedeva che gli spettatori seguissero gli elementi chiave delle sue composizioni, quali i caratteri, le azioni, le superfici e le prospettive e come i movimenti oculari ascensionali e discensionali sullo schermo rispecchiassero i “movimenti” nella colonna sonora, creando “corrispondenze audiovisive”.27 In un acuto articolo del 1980, Barbara Anderson28 ha ricontestualizzato l’analisi dello sguardo compiuta da Ėjzenštejn nei termini di un’ipotesi verificabile del modo in cui la sequenza dovrebbe essere vista. Tuttavia al tempo in cui scrive la tecnologia dell’oculometria aveva fatto progressi solo rispetto all’osservazione di immagini statiche e l’autrice chiudeva dichiarando che “questa sperimentazione, effettuata in condizioni controllate, non solo andrebbe affiancata ai nostri metodi di comprensione della percezione visiva, ma avrebbe anche implicazioni estremamente importanti nel campo della teoria del cinema”.29 Simili previsioni del comportamento dello sguardo dello spettatore hanno proliferato nella teoria del montaggio. Edward Dmytryk ha descritto le corrette modalità di collocazione di un taglio sulle inquadrature dello sguardo degli attori in termini di tempo impiegato dagli spettatori per spostare i propri occhi: “Per realizzare il taglio, dunque, fermiamo il fotogramma in cui gli occhi dell’attore si sono ‘congelati’, aggiungiamo tre o quattro fotogrammi in più per dare allo spettatore il tempo di reagire e muovere i propri occhi per seguire lo sguardo dell’attore, punto nel quale cade il taglio”.30 Tre o quattro fotogrammi (da 125 a 167 ms a 24 fotogrammi al secondo) è un tempo simile a quello minimo necessario per eseguire un movimento oculare saccadico (da 100 a 130 ms).31 Dmytryk aveva appreso la tempistica delle proprie saccadi senza aver mai visto un oculometro! La “straordinaria possibilità di avere a disposizione il proprio cervello mentre ‘guarda e annota’ le tue [stesse] risposte oculari automatiche”32 è considerata una delle qualità caratteristiche di un buon montatore. Le discussioni sulla previsione dei movimenti oculari, la loro velocità e i loro limiti sono comuni in tutta la teoria del montaggio.33 Tuttavia fino ad ora nessuna di queste intuizioni o previsioni su come gli spettatori guardino i film è stata sperimentata empiricamente. 205
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COME LE PERSONE GUARDANO I FILM?
Le prime applicazioni dell’oculometria alla visione filmica erano fortemente limitate a causa delle difficoltà tecniche di registrazione accurata del comportamento dello sguardo rispetto all’immagine in movimento e di analisi del percorso di scansione risultante. Alcuni studi hanno fatto ricorso alle descrizioni del comportamento individuale dello sguardo per particolari sequenze filmiche senza alcun tentativo di quantificazione delle differenze.34 Tali descrizioni sono state definite qualitative e si distinguono dai metodi quantitativi che mirano a misurare le differenze. Un esempio di analisi qualitativa è presentato da Treuting.35 Treuting ha sottoposto a tracciamento oculometrico 14 soggetti durante la visione di una serie di clip tratte da lungometraggi, tra cui Le ali della libertà (1994) e Harry Potter e la pietra filosofale (2001). L’autrice non fornisce una quantificazione del comportamento dello sguardo rispetto alle diverse clip, ma descrive alcune tendenze osservabili all’interno di esse, come l’evidente priorità data agli oggetti in movimento, in particolare durante la partita a Quidditch in Harry Potter. Queste descrizioni del comportamento visivo rispetto a particolari brani sono un utile punto di partenza, ma esistono talmente tanti altri fattori che contribuiscono alla composizione dell’inquadratura e alla sua collocazione narrativa come possibile guida dell’attenzione che è difficile dedurre il comportamento degli spettatori rispetto alle altre clip. Per farlo dobbiamo quantificare il comportamento di più spettatori in relazione ai contenuti specifici delle inquadrature o alle caratteristiche cinematografiche. Uno dei modi in cui il comportamento oculare può essere quantificato è la misurazione del comportamento collettivo degli spettatori. Questa tecnica ha prodotto risultati sorprendenti dato che, diversamente dal comportamento oculare durante la visione di scene statiche, il comportamento oculare degli spettatori dei film ha mostrato un notevole livello di coordinamento.36 Solitamente nelle scene visive statiche c’è accordo su quali parti di un’immagine siano di interesse comune (per esempio i volti e gli oggetti rilevanti rispetto al compito assegnato), anche se le persone non guardano in questi punti nello stesso momento.37 Tuttavia, quando si guarda un film, lo sguardo di più spettatori presenta sincronia attenzionale, ovvero il raggruppamento spontaneo dello sguardo.38 La figura 7.1 mostra 206
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un chiaro esempio di sincronia attenzionale rispetto al trailer del film della Dreamwork Animation Il gatto con gli stivali (2011). Si noti come i puntamenti dello sguardo (punti luminosi) occupino solo una piccola porzione dello schermo in ogni singolo momento e come la mappa termica39 rappresenti la densità dello sguardo, prevalentemente raggruppato in un’unica zona. Stelmach e colleghi sono stati i primi a osservare la sincronia attenzionale durante la visione filmica.40 Il loro interesse era rivolto
Figura 7.1 Comportamento oculare di 16 spettatori durante la clip del trailer di Il gatto con gli stivali (Dreamwork Animation, 2011). Il puntamento dello sguardo di ogni spettatore è rappresentato da un piccolo cerchio, con raggruppamenti di punti luminosi che indicano la sincronia attenzionale degli spettatori che fissano la stessa area dello schermo nello stesso momento.
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a come il comportamento oculare degli spettatori potesse essere usato per ridurre la larghezza della banda necessaria per la compressione video predicendo le aree dello schermo più probabilmente atte a ricevere la fissazione e restituendo il dettaglio di tali aree. Quando fu richiesto a 24 partecipanti di vedere liberamente 15 clip della durata di 45 secondi, fu osservato un grado sostanziale di accordo fra gli spettatori rispetto ai punti in cui essi posavano lo sguardo. Goldstein, Woods e Peli41 hanno mostrato a 20 adulti 6 lunghe clip di film hollywoodiani e hanno scoperto che per oltre la metà del tempo di visione la distribuzione delle fissazioni di tutti gli spettatori occupava meno del 12% dello schermo. La sincronia attenzionale è stata successivamente osservata in una varietà di tipologie di immagini in movimento come lungometraggi cinematografici,42 brani televisivi43 e video non montati di scene reali.44 Comparando sistematicamente la sincronia attenzionale rispetto a una varietà di tipologie di immagini in movimento, Dorr e colleghi hanno dimostrato come il grado di sincronia registrato durante la visione dei film hollywoodiani si riduca durante la visione di video di scene dinamiche prive di montaggio.45 Tutte le tipologie di immagine in movimento contenevano momenti in cui circa l’80% degli spettatori guardava la stessa regione dello schermo nello stesso momento, ma la proporzione del tempo complessivo di visione durante il quale ciò accadeva era significativamente più elevata per i film hollywoodiani montati professionalmente rispetto ai video naturalistici. Questi risultati suggeriscono che la composizione e il montaggio dei film determinano la sincronia attenzionale. Per spingere oltre queste premesse dobbiamo necessariamente capire come la componente visiva può influenzare i punti di fissazione delle scene dinamiche. MESSA IN VISTA
I punti fissati in una scena visiva sono una conseguenza dell’interazione fra i nostri progetti interiori, i nostri desideri e le nostre attività di visualizzazione (note come controllo endogeno in quanto originato internamente) e le caratteristiche della scena audiovisiva come la luminanza, il colore, i contorni e il movimento (noti come controllo esogeno in quanto originato esternamente).46 Nel cinema i fattori esogeni corrispondono alla mise-en-scène del film: ciò che 208
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appare entro i bordi dell’inquadratura a seguito delle decisioni riguardanti la scenografia, i costumi, l’illuminazione e l’allestimento del set.47 In francese mise-en-scène significa letteralmente “allestire una scena” e consiste nell’esito delle decisioni del regista circa le modalità di rappresentazione dell’azione narrativa sullo schermo lungo il corso del film. Singole decisioni come per esempio il colore di un costume e la scelta di come inquadrarlo influenzeranno l’immagine finale presentata agli spettatori e alla quale questi risponderanno muovendo gli occhi e percependone il contenuto. La relazione tra mise-en-scène e attenzione è stata ipotizzata dai teorici del cinema Bordwell e Thompson,48 i quali hanno affermato che gli elementi della messa in scena di un film possono attirare la nostra attenzione e i nostri occhi su determinate aree dello schermo. Nel discuterne le caratteristiche principali, essi fanno riferimento alla scienza della visione: Essenzialmente il nostro apparato visivo è predisposto a percepire i cambiamenti, sia nel tempo che nello spazio. I nostri occhi e cervelli sono meglio attrezzati a cogliere i cambiamenti che a concentrarsi su stimoli uniformi e prolungati, così i vari aspetti della messa in scena attrarranno la nostra attenzione per mezzo di variazioni di luce, forme, movimento e altre sembianze dell’immagine.49
L’influenza delle caratteristiche visive di base del film tramite la sua messa in scena è stata notata anche da Bruce Block,50 il quale sostiene che gli occhi degli spettatori siano attirati principalmente dal movimento e in seconda battuta dalle zone illuminate dello schermo e dai volti.51 In un tentativo qualitativo di testare le ipotesi di Block, Treuting52 ha osservato casi di movimento oculare rispetto al movimento, alla luminosità e ai volti. Treuting ha confermato la propensione dello sguardo verso i volti e ha inoltre identificato i momenti dei film durante i quali lo sguardo è attratto dal moto. Tuttavia ha rilevato una minor influenza della luminosità e del colore. Il tentativo di Treuting di osservare la relazione tra le caratteristiche visive e lo sguardo è una buona dimostrazione dei limiti dell’approccio qualitativo. Senza la quantificazione dell’influenza indipendente di queste funzionalità visive è impossibile sapere se esse siano valide per qualsiasi film. Per esempio Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg utilizza il bianco e nero per raccontare la storia dei tentativi di un uomo di salvare gli ebrei dai campi di 209
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concentramento nella Polonia occupata dai nazisti. In una scena sorprendente, Spielberg isola una bambina nel caos del ghetto di Cracovia rappresentando il suo cappotto rosso a colori, in contrasto con lo sfondo monocromatico. In una scena successiva è mostrato il cappotto della bimba in mezzo a una catasta di corpi morti: il tocco di colore individua il personaggio in una massa indistinta di anime perdute. Il contrasto del cappotto sullo sfondo grigio è sorprendente e probabilmente fa in modo che lo sguardo si posi immediatamente sulla bambina, cosa che non avverrebbe se il cappotto non fosse colorato. Tuttavia l’efficacia del cappotto rosso come attrattore dell’attenzione può essere analizzata solo quantificando la differenza relativa tra di esso e il colore dell’intera immagine. Il mantello rosso indossato dalla misteriosa figura della figlia in A Venezia... un dicembre rosso shocking (1973) attrae lo sguardo allo stesso modo anche se il film è girato a colori? Il mantello rosso sembra avere una funzione simile a quella assunta in Schindler’s List, guidando l’occhio dello spettatore verso la piccola figura nei confusi vicoli e canali di Venezia mentre il padre (Donald Sutherland) in lutto insegue il fantasma della propria figlia morta da poco. Ma in A Venezia... il colore rosso ha anche funzione simbolica, rimandando all’orrore, alla morte e all’angoscia mentale sperimentata dal personaggio di Donald Sutherland e da sua moglie e alla lenta discesa verso la tragedia, rappresentata dal suo inseguimento del vestito rosso. Questa funzione simbolica del colore rosso può essere più rilevante della sua funzione di guida dell’attenzione. Allo scopo di progredire dalle descrizioni qualitative del modo in cui una caratteristica visiva come il colore rosso possa influenzare lo sguardo dello spettatore a ipotesi verificabili, dobbiamo quantificare il rapporto tra le funzioni visive e il comportamento oculare dello spettatore. Fortunatamente il computer ci fornisce strumenti per decomporre una qualsiasi immagine digitale nelle sue caratteristiche visive costituenti quali la luminosità, il colore, i contorni e così via e per misurare la loro relazione con i punti di fissazione. Qualsiasi immagine digitale a colori, sia essa statica o dinamica, viene memorizzata come una serie di pixel, ciascuno con canali a 3 o 4 componenti cromatici: rgb (rosso, verde, blu) o cmyk (ciano, magenta, giallo, nero). Ogni canale cromatico ha un valore (in genere da 0 a 255 per il colore a 8 bit) che specifica la quantità di un 210
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determinato colore presente nel pixel. La luminosità (o luminanza) di un pixel è determinata dalla combinazione dei canali cromatici e può essere considerata come approssimativamente equivalente alla quantità di bianco in una versione in scala di grigio della stessa immagine. I canali della luminanza e del colore sono equiparabili alla sensibilità alla luce dei fotorecettori nella retina umana.53 Combinando queste caratteristiche fondamentali nello spazio e nel tempo, gli algoritmi di calcolo possono essere utilizzati per identificare le caratteristiche visive di base, quali i contorni, gli angoli, i cambiamenti nel tempo (“flicker”) e il movimento.54 Le più antiche aree cerebrali visive umane elaborano una scena in modo simile, ed è possibile che la competizione tra queste caratteristiche di base sia influenzata dal modo in cui è distribuita la nostra attenzione.55 Si ritiene che la combinazione ponderata delle caratteristiche di base crei una mappa della salienza, una mappa spaziale relativa al punto di vista della scena i cui valori indicano quanto una posizione “si impone” e cattura la nostra attenzione esogenamente.56 I punti più alti della mappa della salienza sono individuati come obiettivi della saccade successiva; gli occhi si muovono verso quella posizione e la mappa della salienza viene ricomposta in considerazione del nuovo punto di vista. Le prime valutazioni sulla capacità delle mappe computazionali della salienza di predire i punti di fissazione in scene statiche hanno riscontrato una certa efficacia. Quando i partecipanti guardano immagini fisse senza un compito preciso, le proprietà di base dell’immagine, quali i contorni, il contrasto e gli angoli, sono significativamente più alte nei punti di fissazione rispetto ai punti di controllo.57 Tuttavia successivi esperimenti hanno dimostrato che la salienza statica non influenza il punto di fissazione quando è in conflitto con il compito assegnato o con il contenuto semantico della scena.58 In una serie di studi è stato dimostrato che anche se la salienza di un oggetto all’interno di una scena statica è aumentata artificialmente incrementando la sua luminanza,59 ciò non aumenta la frequenza o il tempo per cui esso viene fissato se lo spettatore sta cercando un altro oggetto.60 Anche la rimozione della salienza naturale dell’oggetto non ha alcun effetto sulla probabilità di fissazione nel tempo, ma l’aumento della salienza di un oggetto guida gli occhi verso di esso.61 Questi risultati suggeriscono che le caratteristiche visive statiche di base che contribuisco211
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no alla mise-en-scène di un film hanno un’influenza molto scarsa sullo sguardo, a meno che gli oggetti salienti siano anche di interesse per lo spettatore, come la bambina con il cappotto rosso in Schindler’s List. AZIONE RACCORDANTE
L’analisi dell’influenza delle caratteristiche visive statiche basilari dello sguardo dello spettatore trascura un elemento fondamentale che distingue il cinema dalla fotografia: il cambiamento nel tempo. Come notato da Bordwell e Thompson, “il nostro apparato visivo è predisposto a percepire i cambiamenti, sia nel tempo che nello spazio”.62 Il cambiamento nello spazio crea un contrasto fra le caratteristiche statiche, per esempio le aree luminose in una stanza buia, colori accesi contro uno sfondo sfumato, oppure uno squilibrio nella composizione dovuto a una fitta sovrapposizione di contorni (per esempio di oggetti o superfici) in una parte dell’inquadratura. Per comparazione, il cambiamento di tempo crea cambiamenti di luminosità o di colore e, soprattutto, di movimento. Il movimento può assumere la forma di un campo di flusso ottico63 generato dal movimento della macchina da presa, dal movimento di un oggetto relativamente alla macchina da presa, o da un combinazione dei due. Nel cinema la capacità del movimento di influenzare l’attenzione degli spettatori è ampiamente riconosciuta: Escludendo i tagli fatti all’inizio e alla fine di sequenze e di scene autonome, i tagli sulle reazioni emotive e i tagli sugli scambi di un dialogo, il montatore dovrebbe ricercare un qualche movimento dell’attore che attragga l’attenzione dello spettatore e dovrebbe usare quel movimento per innescare il taglio fra un’inquadratura e l’altra. Un’azione ampia consente un taglio più facile, ma anche un leggero movimento di una parte del corpo dell’attore può servire ad avviare un taglio che risulterà “morbido” o invisibile. […] L’aspetto importante è che vi sia sufficiente movimento per catturare l’attenzione dello spettatore.64
Ciò che Dmytryk descrive è una tecnica di montaggio nota come raccordo sul movimento (o raccordo sull’azione). Si ritiene che il raccordo sul movimento sia il modo più semplice per passare da un punto di vista di un’azione a un altro e creare continuità: “l’illusione dello spettatore di assistere a un’azione continua”.65 Anche 212
Guardarsi guardare i film
il più piccolo movimento, come voltare la testa, lo spostamento dello sguardo di un attore, un’espressione facciale o un battito di ciglia, offre l’occasione per un raccordo.66 Al fine di verificare l’efficacia del montaggio tramite raccordo sul movimento, abbiamo condotto un esperimento ai cui partecipanti è stato chiesto di rilevare i tagli in una serie di clip di 5 minuti tratte da lungometraggi come Blade Runner (1982) e Dogville (2003). Come previsto dalla regola del montaggio tramite raccordo sul movimento, i partecipanti non sono riusciti a individuare un terzo di tali raccordi rispetto invece a soltanto un decimo dei tagli tra le sequenze.67 L’improvvisa insorgenza del movimento prima del raccordo sul movimento e la continuazione del movimento subito dopo sembrano mascherare il taglio, rendendone la rilevazione più difficile per gli spettatori. La relazione tra questi eventi audiovisivi e la percezione della continuità filmica è stata formalizzata nella Teoria Attenzionale della Continuità Cinematica (AToCC).68 Questa teoria sostiene che l’attenzione dello spettatore sia un aspetto decisivo nella creazione della continuità. Lo spettatore ha bisogno di esperire un chiaro flusso di attenzione che vada dai contenuti principali prima del taglio all’oggetto dell’inquadratura successiva. La motivazione del taglio deve essere stabilita tramite la narrazione, il dialogo, la colonna sonora o il movimento, poiché sono questi elementi a guidare l’attenzione dello spettatore verso il contenuto principale della nuova inquadratura. Il movimento svolge un ruolo fondamentale nella AToCC in quanto si assume che esso guidi la sincronia attenzionale e fornisca suggerimenti affidabili che un montatore può utilizzare per guidare l’attenzione. Per esempio, nel trailer di Il gatto con gli stivali (2011) il protagonista attraversa a piedi una cittadina e lancia prima il suo cappello a un gruppo di appassionate fan e poi la sua spada verso un gruppo di bambini. La spada colpisce una pignatta e la frantuma (figura 7.1). La sequenza mantiene pienamente l’impressione della continuità dell’azione nonostante sia costituita da sei inquadrature in rapida successione. L’impressione della continuità è ottenuta grazie ai raccordi sul movimento. La prima transizione è una panoramica “a schiaffo” che segue il cappello mentre vola dal gatto alle sue fan, con un taglio nascosto nella panoramica. La seconda azione presenta due tagli, il primo sulla spada in volo, il secon213
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
do su quest’ultima nel momento in cui colpisce la pignatta. Per esaminare come questa sequenza guidi l’attenzione dello spettatore e crei il flusso della continuità, abbiamo monitorato con l’oculometro uno alla volta 16 adulti durante la visione del trailer.69 Sovrapponendo gli sguardi dei 16 partecipanti e rappresentando sulla mappa termica la densità del loro comportamento oculare rispetto a ogni fotogramma, si nota chiaramente la sincronia attenzionale all’interno delle inquadrature e fra i tagli (figura 7.1). Quando il gatto lancia il suo cappello verso sinistra, la macchina da presa ne segue il movimento con una panoramica e lo spettatore compie delle saccadi in direzione del cappello tentando di seguirlo (figura 7.1A-D). Quando la macchina da presa si sofferma sulla donna che afferra il cappello, la posizione della sua testa sullo schermo corrisponde esattamente al punto in cui lo sguardo dello spettatore era puntato seguendo il cappello, creando un morbido trasferimento dell’attenzione dal cappello al suo viso (e). Lo sguardo si sposta poi sugli altri volti della scena seguendo la direzione del movimento di macchina verso destra, fino a soffermarsi sulla gatta in primo piano, il vero obiettivo dei sentimenti del gatto (f). Un’altra panoramica “a schiaffo” ci riporta sul gatto, lo sguardo si sposta di nuovo rapidamente su di lui al centro dello schermo (g). Il gatto scaglia la sua spada oltre il bordo destro dello schermo; segue un brevissimo dettaglio della spada in volo con raccordo sul movimento (h, durata inferiore a 1 secondo). Il movimento è troppo veloce e la spada è troppo piccola per dare agli spettatori il tempo di effettuare una saccade, così il dettaglio della spada è collocato nello stesso punto dello schermo in cui si trovava il gatto, garantendo continuità di attenzione. Una volta che la spada è uscita dal bordo dello schermo, lo sguardo dello spettatore si sposta leggermente verso destra e si posa sul viso di uno dei bambini dopo il raccordo sul movimento (i). Dopo che la spada ha attraversato il campo visivo dello spettatore, colpisce la pignatta e si conficca nell’albero, lo sguardo effettua una saccade nuovamente seguendo la direzione del movimento di macchina, stavolta a schema invertito rispetto a quello adottato nell’inquadratura f, fino a posarsi sui volti dei bambini rimasti sulla scena (j). Durante questa rapida sequenza il montatore ha previsto in maniera precisa il modo in cui gli spettatori avrebbero guardato la scena, a quali elementi si sarebbero interessati e dove i loro oc214
Guardarsi guardare i film
chi si sarebbero posati al fine di creare continuità d’azione tramite l’attenzione dello spettatore. Questo è il metodo chiave per la costituzione della continuità sostenuto nella AToCC.70 La fiducia dei cineasti nella capacità del movimento di catturare l’attenzione è supportata da evidenze nella letteratura sull’attenzione di base. Gli esperimenti che usano stimoli isolati o la ricerca di semplici configurazioni visive hanno dimostrato che il moto è uno dei fattori che influenzano maggiormente l’attenzione visiva indipendentemente dal compito assegnato.71 Tuttavia tali esperimenti ci dicono solo come funziona il movimento come aspetto relativamente isolato. In un film il movimento è solo uno degli elementi di una sequenza audiovisiva più complessa. Come facciamo a sapere che l’improvviso voltarsi di un attore catturerà l’attenzione del pubblico? In un recente studio, il progetto Dynamic Images and Eye Movements (diem), ho studiato assieme ad alcuni colleghi l’influenza delle caratteristiche visive di base come la luminanza, il colore, i contorni e il movimento sullo sguardo e sulla sincronia attenzionale nel corso della visione di immagini in movimento. Abbiamo registrato i movimenti oculari di 251 persone che guardavano brevi brani televisivi ad alta definizione e filmati tratti da una vasta gamma di tipologie – trailer cinematografici, video musicali, telegiornali, documentari sportivi, video educativi e filmati di storia naturale.72 L’ampia gamma di filmati e il gran numero di spettatori ci ha permesso di studiare dove le persone guardavano durante la visione, le somiglianze nel comportamento di più spettatori e quali elementi visivi permettevano di predire il loro sguardo. Tutti i dati sullo sguardo, l’origine dei filmati e la visualizzazione risultante dal comportamento oculare per ognuna delle clip sono pubblici e disponibili come parte di un corpus liberamente consultabile.73 Al fine di comprendere cosa causasse la sincronia attenzionale, abbiamo scomposto ogni fotogramma dei filmati nelle componenti visive basilari (luminanza e canali di coppie opposte di colori) e poi abbiamo utilizzato i tradizionali algoritmi della computer vision per calcolare neurologicamente le caratteristiche visive di livello intermedio come i contorni, gli angoli e il movimento. L’influenza di ciascun elemento sullo sguardo dello spettatore è stata dunque calcolata confrontando i valori degli elementi nei punti del video fissati degli spettatori. L’analisi ha fatto emergere che le caratteri215
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
stiche basilari come la luminanza e il colore non sono predittive dello sguardo. Di contro, il moto è altamente predittivo, specialmente quando un fotogramma contiene una singola zona con un movimento chiaramente visibile su uno sfondo statico (creando il contrasto del movimento). Tali inquadrature comportano un alto grado di sincronia attenzionale, dato che tutti gli spettatori guardano lo stesso punto nello stesso momento.74 Ciò suggerisce che il movimento nella scena è un importante fattore di influenza del punto a cui tutti gli spettatori guardano durante la libera visione dei filmati del corpus diem. L’influenza del movimento e della salienza dinamica (la combinazione di movimento e altre caratteristiche visive statiche) sul comportamento oculare durante la libera visione è stata dimostrata in altri studi.75 È importante sottolineare che l’elemento decisivo che predice il comportamento oculare non è il movimento in sé, ma il contrasto di movimento, come la distribuzione del movimento all’interno dell’immagine. Se tutti i pixel sullo schermo presentano un elevato valore di movimento a causa del movimento della macchina da presa, allora il movimento non è predittivo del punto di fissazione. Ma quando una piccola area dello schermo si muove in relazione a uno sfondo statico, l’alto grado di contrasto del movimento è fortemente predittivo dei punti di fissazione di tutti gli spettatori, conducendo alla sincronia attenzionale.76 Questa evidenza sembra supportare le intuizioni dei cineasti circa la capacità di piccoli movimenti di attirare l’attenzione degli spettatori e di nascondere i tagli.77 VENIRE AL PUNTO
L’influenza esogena sullo sguardo è maggiore immediatamente dopo un taglio mentre decresce nel corso di un’inquadratura in quanto gli spettatori familiarizzano con i contenuti dell’immagine.78 All’inizio di una nuova inquadratura la frequenza saccadica79 e la sincronia attenzionale sono più alte e tendono a diminuire nel tempo.80 La diminuzione del controllo esogeno durante un’inquadratura è stata predetta da Hochberg e Brooks:81 “il momentum visivo è lo slancio ad acquisire informazioni e […] dovrebbe essere riflesso dalla frequenza con cui si effettuano le occhiate, […] il momentum visivo dovrebbe presumibilmente diminuire proporzio216
Guardarsi guardare i film
nalmente al tempo che lo spettatore impiega per esaminare il campo visivo e dovrebbe aumentare con il numero dei diversi punti a cui egli può guardare per ricevere informazioni non ridondanti”.82 All’epoca la tecnologia oculometrica non consentiva a Hochberg e Brooks di sottoporre a tracciamento gli spettatori di un film e dunque essi presentavano sequenze di immagini tratte da vecchie riviste, cataloghi di elettrodomestici e annuari universitari. Hochberg e Brooks hanno osservato il picco previsto nella frequenza saccadica all’insorgere di ognuna delle immagini seguita da una diminuzione lineare fino a circa 4 secondi, dopo la quale la frequenza saccadica smetteva di diminuire (asintoto) e restava bassa per il resto del tempo in cui le immagini rimanevano sullo schermo. La frequenza saccadica era più alta per le immagini con più centri di interesse (prevalentemente volti), per i centri di interesse lontani dal centro dello schermo e per esposizioni di breve durata.83 I due ricercatori pensavano che la diminuzione della frequenza saccadica fosse una prova diretta che ogni singola inquadratura avesse limitate informazioni salienti per lo spettatore e che dopo aver fissato tutte le sorgenti di informazione le inquadrature diventassero “cinematicamente morte”.84 Un montatore può ottimizzare il momentum visivo di un film tagliando in corrispondenza delle nuove informazioni o riorganizzando le vecchie informazioni una volta che lo spettatore le ha esaurite. In questo modo il montatore può mantenere “viva” l’immagine, attivo lo sguardo dello spettatore e al massimo livello e per tutto il film la sincronia attenzionale. Una simile variazione della frequenza saccadica durante la visione è stata rilevata rispetto a scene statiche.85 Gli spettatori attraversano inizialmente una fase ambientale di elaborazione durante la quale eseguono saccadi ampie e frequenti attorno all’immagine per costruire una rappresentazione iniziale della struttura e del contenuto della scena.86 Con il passare del tempo gli spettatori entrano in una fase di elaborazione focale in cui la frequenza delle saccadi e la loro ampiezza decresce e spendono più tempo a fissare un numero ridotto di oggetti. Dato che la scena è statica, alla fine lo spettatore esaurisce il contenuto informativo e ritorna alle aree precedentemente osservate.87 Si ritiene che la velocità a cui gli spettatori spostano lo sguardo e il tempo impiegato per ciascuna fissazione dipendano dall’informazione elaborata durante la fissazione e dall’informazione residua nella scena.88 217
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
Di contro, il cinema ha la capacità di aggiornare costantemente le informazioni di un’immagine spostando la macchina da presa o rappresentando l’azione all’interno di un’inquadratura. Tuttavia l’aumento della familiarità dell’inquadratura e l’impatto decrescente dei fattori esogeni sembrano determinare una maggiore variabilità nei comportamenti oculari degli spettatori e una diminuzione della frequenza saccadica.89 Attualmente non è chiaro se gli spettatori sperimentino simili fasi ambientali e focali di elaborazione durante la visione filmica, ma il modificarsi della sincronia attenzionale nel tempo suggerisce che vi siano cambiamenti nella strategia di visione. Il picco di sincronia attenzionale si verifica 533 ms dopo il taglio, indicando che le caratteristiche principali della nuova inquadratura sono localizzate con la prima o la seconda saccade.90 Se l’inquadratura termina poco dopo, la sincronia attenzionale è garantita. All’aumentare della durata dell’inquadratura, aumenta la differenza tra lo sguardo degli spettatori. Tuttavia ciò non significa che una lunghezza media di 533 ms sia ottimale, in quanto lo spettatore ha bisogno di tempo per comprendere il contenuto della nuova inquadratura e non solo per individuarne le caratteristiche principali. Le sequenze con montaggio rapido come i trailer mostrano una sincronia attenzionale elevata, ma lo sguardo è in gran parte stazionario, concentrato sul centro dello schermo, poiché ogni taglio presenta il nuovo contenuto nella stessa posizione dell’inquadratura precedente.91 Il mantenimento […] di un livello ottimale nel flusso di informazioni durante un film potrebbe non essere semplicemente una questione di corrispondenza tra la durata dell’inquadratura e il suo contenuto. Devono essere considerate anche le naturali esitazioni dell’attenzione del pubblico. Cutting e colleghi hanno dimostrato che i modelli di montaggio hollywoodiano si sono evoluti nel corso del tempo verso strutture annidate di durata dell’inquadratura che possono rispecchiare le fluttuazioni naturali dell’attenzione umana.92 Identificando le singole inquadrature in un corpus di 160 film dal 1935 al 2010, Cutting e colleghi hanno scomposto ogni singolo film in una sequenza di inquadrature a durata variabile. Le strutture all’interno di questa sequenza sono state quindi identificate correlando la durata di ogni inquadratura con quella delle successive (latenza 1, latenza 2, latenza 3) fino al termine del film (latenza N). Le correlazioni di questo tipo hanno rivelato una tendenza crescente 218
Guardarsi guardare i film
verso i raggruppamenti locali di inquadrature con durata simile nei film più recenti. Per esempio, le sequenze d’azione particolarmente energetiche tendono a contenere molte inquadrature di breve durata, ma sono raggruppate in inquadrature di durata crescente mano a mano che ci si allontana dai momenti di maggiore intensità d’azione. Simili configurazioni sono state osservate in test sul tempo di reazione umana e si pensa che regolino la disponibilità di attenzione per l’elaborazione di informazioni sensoriali.93 Se l’analisi di Cutting e colleghi è corretta, ciò suggerisce che i film sono sempre più corrispondenti ai processi mentali dei propri spettatori. L’attenzione dello spettatore può essere il fattore decisivo per garantire il successo della trasmissione delle informazioni audiovisive di un film nell’esperienza mentale dello spettatore. La comunicazione ottimale può essere raggiunta abbinando il tasso di presentazione delle informazioni ai vincoli spaziotemporali dell’attenzione dello spettatore, sia implicitamente in termini di risorse di elaborazione sia esplicitamente in termini di orientamento dello sguardo. GUARDANDO AL CENTRO
Come accennato in precedenza, le sequenze con un montaggio rapido come i trailer cinematografici comportano una forte polarizzazione dello sguardo dello spettatore verso il centro dello schermo.94 Questa tendenza accentrante non si verifica solo per le sequenze rapide. Una polarizzazione simile è stata osservata in scene statiche95 e si ritiene essere indipendente dalla composizione dell’immagine.96 Nei film questa polarizzazione centrale è molto marcata.97 Nel progetto diem abbiamo scoperto che la polarizzazione centrale sembrava essere un aspetto comune in tutti i video, indipendentemente dal contenuto, dal montaggio e dalla composizione.98 La polarizzazione centrale è chiaramente visibile nella distribuzione dello sguardo per una selezione di video del corpus diem (figura 7.2, colonna a sinistra). Solo quando un video è composto da più centri di interesse, come i due ragazzi che giocano nel video 1 o la composizione a più inquadrature del video 2, la distribuzione dello sguardo si discosta dal centro dello schermo. In caso contrario, la polarizzazione centrale è presente in tutti i video, in particolare subito dopo un taglio di montaggio, con le prime sacca219
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
di successive a un taglio polarizzate al centro dello schermo. Questa polarizzazione diminuisce durante la seconda inquadratura in quanto gli spettatori guardano verso punti diversi dell’immagine. La polarizzazione centrale immediatamente successiva ai tagli di montaggio provoca un elevato livello di sincronia attenzionale al centro dello schermo. Nel corpus diem questo aspetto è stato indicato come covarianza ponderata di raggruppamento: vengono calcolati i raggruppamenti ottimali che descrivono la distribuzione dello sguardo per un singolo fotogramma e si combinano le dimensioni (covarianza) e il numero di spettatori in ciascun raggruppamento (peso) per ricavare una singola misura della sincronia attenzionale, dove un valore inferiore indica una sincronia attenzionale più elevata e un valore più alto indica un’inferiore sincronia attenzionale (ovvero uno sguardo distribuito su tutto il fotogramma).99 La figura 7.2 (colonna di destra) mostra la frequenza dei diversi gradi di covarianza ponderata per un determinato filmato. I film che hanno una maggiore polarizzazione centrale, come il trailer di Quantum of Solace (2008, figura 7.2, film 4) o un minor numero di oggetti focali (ossia oggetti di interesse), come i due giocatori di tennis del filmato 3, presentano una minore covarianza ponderata per via dell’elevato livello di sincronia attenzionale. L’iniziale polarizzazione centrale che segue un taglio di montaggio potrebbe semplicemente essere dovuta alla tendenza a inquadrare gli oggetti di interesse, come i volti, al centro o nei pressi del centro dello schermo. Un’analisi sistematica dei fattori che contribuiscono alla polarizzazione centrale nelle scene dinamiche ha confermato che questa è in parte dovuta a una polarizzazione nel posizionamento focale.100 Tuttavia questo studio ha mostrato anche una tendenza degli spettatori a riportare lo sguardo al centro dello schermo subito dopo un taglio indipendentemente dal contenuto. La polarizzazione centrale dello sguardo conferma la convinzione artistica, fotografica e cinematografica che il centro dell’immagine sia una posizione privilegiata. Nel suo classico lavoro sulla composizione spaziale, Il potere del centro, Rudolf Arnheim101 ha discusso il piacere estetico generato dalla composizione di un’immagine in cui l’oggetto focale è collocato al centro del quadro. Arnheim sosteneva che il centro mantiene la stabilità e l’equilibrio della composizione, e che collocare un oggetto al centro conferisce 220
Guardarsi guardare i film
Frequenza
800
1
600 400 200 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
1500
2
1000 500 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
1500
3
1000 500 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
600
4
400 200 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
800
5
600 400 200 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
400
6
300 200 100 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
Frequenza
80
7
60 40 20 0 500 1000 1500 2000 Covarianza di gruppo pesata
a
b
c
Figura 7.2 Campioni di filmati prelevati dal database diem con allocazioni sovrapposte dello sguardo di 42 spettatori rispetto a singoli fotogrammi. Il raggruppamento dello sguardo è rappresentato come calore (colonna b); la covarianza (ovvero la diffusione) di gruppo è utilizzata per misurare il livello di sincronia attenzionale fra tutti gli spettatori. La distribuzione delle covarianze permette di apprezzare le differenze tra i filmati (colonna c). Le mappe termiche nella colonna a mostrano la distribuzione dello sguardo durante i filmati, indicando più fissazioni in determinate aree dello schermo.
221
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
a esso la più alta salienza visiva. La teoria di Arnheim è supportata da un’analisi del posizionamento dei volti umani nei ritratti classici.102 Tyler scoprì che uno dei due occhi solitamente era centrato lungo la linea mediana verticale di un dipinto quando il volto era rivolto verso l’esterno. Anche quando il volto è raffigurato di profilo, l’unico occhio visibile o la bocca tendevano a essere collocati lungo la linea mediana verticale. Il lavoro di Tyler conferma la fiducia degli artisti nel potere del centro e la loro adesione a tale convenzione, ma non dimostra che le composizioni centrali siano esteticamente più gradevoli di altre. Una regola compositiva concorrente, nota come regola dei terzi, afferma che le composizioni esteticamente più gradevoli posizionano l’oggetto focale all’intersezione delle linee orizzontali e verticali che dividono il fotogramma in terzi. Si immagini uno schermo suddiviso in tre colonne e tre righe identiche. Le colonne e le righe si intersecano in quattro punti: in alto a destra, in alto a sinistra, in basso a destra e in basso a sinistra. L’intuizione dell’artista ha sostenuto per secoli che la collocazione esteticamente più piacevole di un oggetto corrispondesse all’intersezione in alto a destra o in quella in alto a sinistra. Prove empiriche a sostegno della regola dei terzi derivano da studi che confrontano la preferenza degli osservatori rispetto ai dipinti originali e alle loro inversioni speculari.103 Gli osservatori preferiscono i dipinti il cui contenuto significativo è sulla destra del quadro, preferenza che può essere il prodotto della specializzazione emisferica del cervello, in quanto gli spettatori mancini mostrano la preferenza opposta.104 L’apparente conflitto tra la polarizzazione centrale e la regola dei terzi è stato recentemente studiato in un elegante studio psicofisiologico sulla preferenza estetica.105 Nel corso di una serie di studi, Palmer e colleghi hanno chiesto ai partecipanti di identificare quale immagine preferissero fra due semplici alternative. Le immagini differivano unicamente nel posizionamento dell’oggetto focale all’interno del quadro. Quando l’oggetto, come una persona o un animale, aveva un orientamento chiaro ed era rappresentato frontalmente, la posizione preferita era il centro dello schermo. Tuttavia la polarizzazione centrale veniva meno se l’oggetto era presentato di profilo: la collocazione preferita di un oggetto rivolto a sinistra era la parte destra dello schermo, e quella di un oggetto rivolto a destra era la parte sinistra dello schermo. Palmer 222
Guardarsi guardare i film
e colleghi hanno concluso che la preferenza estetica della composizione dipende dalla direzione verso cui è rivolto l’oggetto focale. Questo fattore spiega come la polarizzazione centrale e la regola dei terzi possano essere compatibili a seconda della direzione in cui è rivolto l’oggetto focale. Attualmente non esiste alcuna ricerca empirica sistematica circa l’influenza estetica della composizione nel film. Tuttavia la teoria AToCC106 sostiene che il decentramento del volto degli attori sia un modo per guidare l’attenzione dello spettatore verso il punto in cui apparirà l’oggetto dell’inquadratura successiva. L’attenzione implicita è indirizzata nella direzione dello sguardo dell’attore, facilitando la transizione tra le inquadrature e creando continuità. In un esempio tratto da Requiem for a Dream (Aronofsky, 2000) è mostrato un attore rivolto verso il fuoricampo al fine di rallentare il processo di orientamento fra un taglio e l’altro e rendere difficile l’individuazione dell’oggetto focale dell’inquadratura successiva.107 Tuttavia, mentre la direzione dello sguardo dell’attore nella maggior parte delle inquadrature in primo piano è al centro dello schermo, con la testa leggermente decentrata, la posizione dei suoi occhi può essere vicina al centro. La polarizzazione centrale osservata nel corpus diem può essere spiegata dal fatto che gli occhi dell’attore sono l’obiettivo principale dello sguardo degli spettatori.108 Ulteriori e dettagliate analisi dei filmati e manipolazioni empiriche come quelle proposte da Palmer, Gardner e Wickens109 sono necessarie per verificare questa ipotesi rispetto al film. GUARDARE LE PERSONE GUARDARE LE PERSONE
L’analisi dei dati dello sguardo della diem rivela una polarizzazione verso le caratteristiche di base della composizione come il centro dello schermo e gli elementi visivi di base come il movimento, ma non è in grado di identificare alcuna influenza del tipo di contenuti che di solito si considerano quando descriviamo un film (per esempio persone, azioni e narrazioni). È plausibile che essere in grado di prevedere dove guardiamo in base al movimento non significhi necessariamente che il movimento faccia sì che l’attenzione si sposti verso tali punti. Il movimento può semplicemente coincidere con le caratteristiche a cui siamo effettivamente interessati. Per esempio, guardando la figura 7.2 (co223
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
lonna centrale), è chiaro che lo sguardo è in gran parte orientato verso le persone e i loro volti. Nella maggior parte dei film e dei prodotti televisivi, le persone e gli animali sono i punti di maggiore interesse attorno ai quali viene composta l’inquadratura. I contenuti drammatici derivano dalle emozioni, dalle espressioni e dai pensieri rappresentati attraverso il volto del personaggio. Il compito principale del regista è “la collocazione di questo ovale all’interno del rettangolo dello schermo”.110 La modellazione accurata della composizione dell’inquadratura, dell’illuminazione e della profondità focale altera le caratteristiche visive di base dell’inquadratura e polarizza l’attenzione verso il volto, ma anche il volto in sé è un forte attrattore dell’attenzione.111 Il movimento del viso e del corpo di una persona costituisce una fonte di informazioni potenziali sia attraverso l’interazione della persona con l’ambiente sia tramite ciò che la persona dice. Il movimento può predire dove guardiamo, ma è vero anche che potremmo guardare proprio in quel punto perché siamo interessati alle persone e alle loro azioni, non al movimento in sé. Per studiare l’influenza delle persone e dei volti sul comportamento oculare, tutte le inquadrature di un sottoinsieme di video del corpus diem 112 sono state classificate in termini di scala. La scala dei piani dell’inquadratura, ovvero la distanza della macchina da presa dal soggetto, è un’unità di misura comunemente utilizzata nella teoria del film e nella cinematografia per descrivere la porzione di una figura umana presente nel quadro.113 Per esempio, i tre fotogrammi raffigurati nella figura 7.3 (in basso a destra) sono piani progressivamente più ampi mano a mano che nell’inquadratura rientrano il volto di una persona (primo piano), la parte superiore del corpo (campo medio) e tutto il corpo (campo lungo). Se il punto di interesse principale nella maggior parte delle inquadrature è il volto umano, come ci si aspetterebbe dagli studi precedenti sul comportamento oculare rispetto a immagini statiche,114 allora il taglio dell’inquadratura della figura umana dovrebbe avere una diretta conseguenza sul punto in cui gli spettatori guardano e su come lo sguardo è raggruppato rispetto a una determinata inquadratura. È esattamente quanto abbiamo osservato nel corpus diem. Quando l’inquadratura non conteneva una figura umana (“N” in figura 7.3, in alto a destra), la covarianza era massima (minor sincronia attenzionale). Al ridursi del 224
Guardarsi guardare i film
taglio dell’inquadratura anche la covarianza diminuiva. Il taglio dell’inquadratura con la più alta sincronia attenzionale è il campo medio. Solitamente questo taglio rappresenta un singolo attore, incorniciato centralmente o leggermente decentrato rispetto alla macchina da presa (per esempio i mezzi busti del telegiornale, come in figura 7.3, in basso a destra) o rispetto a un personaggio fuoricampo. Il volto dell’attore occupa solo una piccola area dello schermo ed è abbastanza piccolo da essere visto nella sua interezza con una sola fissazione. […] Una volta che il taglio dell’inquadratura scende sotto il campo medio, il volto si ingrandisce e occupa un’area superiore a quella dello schermo, costringendo lo spettatore a compiere saccadi in vari punti del volto per coglierne tutti i dettagli (per esempio l’occhio sinistro, l’occhio destro, il naso, la bocca, e così via). Poiché non esiste più un singolo punto di interesse, la covarianza aumenta ulteriormente. Ciò è una chiara dimostrazione di come il comportamento oculare degli spettatori e la sincronia attenzionale siano legati al contenuto delle informazioni del film momento per momento. Le caratteristiche di base come il movimento possono suggerire il punto in cui gli spettatori stanno guardando, ma la raAmpiezza delle inquadrature
Dettaglio Primo piano
2500 Covarianza di sguardo 2000
Mezza figura 1500 Campo medio
1000 500
Campo medio-lungo
0 D
PP
MPP
MF
PA
FI
T
N
Campo lungo Campo lunghissimo
Figura 7.3 A sinistra: indicatore del taglio dell’inquadratura. […] In alto a destra: covarianza dei raggruppamenti di sguardo in funzione dell’ampiezza dell’inquadratura. In basso a destra: esempi di primo piano (PP), mezzo primo piano (MPP) e figura intera (FI). D: dettaglio; MF: mezza figura; PA: piano americano; T: totale; N: non in quadro.
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gione per cui essi guardano proprio quel punto potrebbe essere una coincidenza tra il movimento e le caratteristiche sociali a cui gli spettatori sono realmente interessati. PERCHÉ STIAMO GUARDANDO?
Finora la visione filmica è stata discussa come se fosse un compito puramente reattivo: i tagli di montaggio offrono nuove informazioni audiovisive a cui rispondiamo con i nostri occhi rispetto a caratteristiche visive di base quali il movimento e la ricerca di oggetti di interesse come i volti. A questo proposito, gli spettatori potrebbero essere considerati puri automi privi di volontà o motivazione. Al contrario, essi sono fortemente attivi e motivati. Guardiamo perché vogliamo seguire la storia, comprendere le azioni dei personaggi, sentire le loro emozioni e, soprattutto, godere del film. Queste motivazioni dovrebbero fornire una forte spinta a cercare informazioni relative alla narrazione. Ma esistono prove del controllo endogeno sullo sguardo durante la visione filmica? Bordwell e Thompson115 sembrano pensare che ce ne siano: Guardare è un’attività intenzionale; ciò a cui guardiamo è guidato dalle ipotesi e dalle aspettative su ciò che stiamo cercando. Queste a loro volta sono basate sulle precedenti esperienze rispetto alle opere d’arte e al mondo reale. Nella visione di un’immagine filmica compiamo ipotesi sulla base di molti fattori.116
La forte influenza di fattori endogeni sul comportamento oculare durante la visione statica è conosciuta fin dai primi studi oculometrici.117 Il primo e più noto studio sul controllo endogeno dello sguardo è stato condotto dallo psicologo russo Alfred Yarbus. Yarbus ha registrato i movimenti oculari degli spettatori mentre guardavano il dipinto Il visitatore inaspettato di Ilya Repin (18841888), raffigurante un uomo in uniforme militare che entra in una stanza spoglia ed è accolto da una famiglia piuttosto sorpresa. Quando agli spettatori era richiesto di osservare liberamente il dipinto, essi passavano la maggior parte del tempo a guardare i volti, gli abiti e gli oggetti in primo piano, come i mobili, mentre spendevano molto meno tempo guardando lo sfondo, le pareti o i pavimenti.118 Tuttavia il contributo fondamentale dello studio di Yarbus consiste nella fase successiva, durante la quale agli spetta226
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tori era chiesto di guardare il dipinto per sei volte secondo istruzioni di visione diverse. Ognuna delle istruzioni cambiava radicalmente i punti osservati dagli spettatori. Lo sguardo era indirizzato verso gli oggetti rilevanti rispetto alle istruzioni di visione, come i volti per giudicare l’età, gli abiti per ricordare l’abbigliamento, i mobili e i dettagli di sfondo per cercare di ricordare la posizione degli oggetti. I dati ricavati da Yarbus dimostrano chiaramente che le consegne di visione rispetto a un’immagine statica possono esercitare un’influenza diretta sui punti osservati. Nelle immagini in movimento il controllo esogeno aumentato dagli elementi dinamici può indicare che il controllo endogeno ha una minore influenza sull’orientamento dello sguardo. Tale ipotesi sembra essere supportata dall’elevato grado di sincronia attenzionale rilevato durante la visione di immagini in movimento montate.119 Se lo sguardo era sotto controllo endogeno, la variabilità individuale delle caratteristiche dell’immagine prioritarie per un osservatore in un determinato momento riduceva la sincronia attenzionale. L’analisi della visione libera non può consentire l’isolamento di fattori esogeni ed endogeni, in quanto ciò a cui gli spettatori sono interessati può corrispondere agli elementi visivamente salienti. Per isolare fattori endogeni e fattori esogeni, sia la condizione di visione sia lo stato mentale dello spettatore devono essere manipolati. Per esempio, quando il tempo di presentazione di un’immagine dinamica aumenta, l’influenza dei fattori esogeni diminuisce in quanto la visione del contenuto dell’immagine, le aspettative sugli eventi futuri e la familiarità rispetto alle caratteristiche visive aumentano. L’aumento dei fattori endogeni porta a una maggiore variabilità dello sguardo.120 Di conseguenza le immagini in movimento non montate hanno una minore sincronia attenzionale rispetto alle sequenze montate.121 La familiarità del contenuto dell’immagine può essere determinata anche attraverso visioni ripetute. Dorr e colleghi hanno osservato una diminuzione della sincronia attenzionale per visioni ripetute di filmati non montati di scene reali e per trailer di film hollywoodiani.122 Questo può tuttavia essere un effetto a breve termine poiché ripetizioni a distanza di un giorno hanno riportato la sincronia attenzionale al livello iniziale.123 Tale riduzione della sincronia attenzionale per visioni ripetute potrebbe indicare una 227
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minore attenzione rivolta alle caratteristiche salienti e una maggiore attenzione rivolta allo sfondo. Un tale risultato corroborerebbe l’ipotesi non scientifica che sia possibile apprezzare nuovi dettagli di un film grazie a visioni ripetute. E può anche spiegare perché gli errori di continuità sono più facili da individuare durante le visioni ripetute: durante l’osservazione iniziale lo sguardo è guidato dalle caratteristiche salienti, e solo una volta guadagnata conoscenza delle scene osservate tali caratteristiche salienti possono essere ignorate per destinare l’attenzione alle caratteristiche di sfondo. Questo schema di rilevamento degli errori di continuità è stato confermato da Jon Sandys, autore di Movie Mistakes124 ed esperto nell’individuare e catalogare tali errori. Sandys ha sostenuto125 che la maggior parte degli errori sono inizialmente rilevati come una “sensazione che vi sia qualcosa che non va” e solo ripetendo la visione possono essere individuati chiaramente. Come sostenuto in precedenza, a causa delle limitazioni dell’acuità visiva e del tempo necessario per muovere gli occhi, possiamo registrare approssimativamente soltanto il 3,8% della superficie dello schermo durante un campo medio. Ciò fa sì che vi siano ancora ampie porzioni dello schermo da esplorare nelle visioni ripetute. Un altro modo per separare controllo endogeno e controllo esogeno è variare il compito di visione (come proposto da Yarbus). In uno studio preliminare abbiamo manipolato il compito durante la visione di video di scene naturali girate con macchina da presa fissa e non montate.126 I partecipanti hanno guardato i filmati sia senza un compito preciso sia cercando di riconoscere le posizioni rappresentate nel filmato. Per identificarne l’ubicazione, gli spettatori dovevano concentrare il loro sguardo su elementi statici come gli edifici, le strade, i cartelli, gli alberi e così via e ignorare le persone e il traffico. Gli spettatori hanno mostrato una sorprendente capacità di ignorare gli elementi in movimento che durante la visione libera avevano predetto il comportamento oculare. Lo sguardo evitava attivamente le persone e non era più predetto dal movimento; la sincronia attenzionale diminuiva quasi ai livelli rilevati rispetto alle immagini statiche.127 Ancora più sorprendente è quanto accadeva dopo che i partecipanti avevano premuto il pulsante per indicare il riconoscimento della posizione: lo sguardo tornava immediatamente a seguire il movimento. Questi risultati preliminari suggeriscono che il controllo esogeno può essere 228
Guardarsi guardare i film
bypassato dall’assegnazione di un certo compito di visione, ma che il nostro interesse naturale si rivolge alle persone e alle loro azioni. L’assenza di montaggio e di una volontaria composizione delle immagini dinamiche usate in questo esperimento può spiegare come i fattori esogeni possano essere facilmente bypassati da un compito di visione. Le caratteristiche disponibili del film dovrebbero essere usate per esaminare se il compito di visione abbia un effetto simile sul comportamento oculare rispetto a un normale film. Spanne128 ha tentato questa manipolazione utilizzando brani di Armageddon (1998) e Trappola di cristallo (1988) e chiedendo ai partecipanti di guardare liberamente i brani e decidere se volevano vedere il resto del film o esprimere un parere sulle donne che apparivano nelle clip. I risultati hanno mostrato un’influenza del compito sul comportamento oculare molto minore rispetto a quella osservata nelle sequenze non montate.129 La presenza di un esplicito compito di visione determina una diminuzione della sincronia attenzionale, ma l’influenza del compito sembra variare a seconda delle clip e dei contenuti specifici.130 Gli esempi forniti da Spanne, come un primo piano del volto di Bruce Willis in Armageddon, che produce una sincronia attenzionale bassa in tutte le condizioni, suggeriscono che l’influenza esogena può variare durante un film. Le scelte del regista quali la messa in scena, l’allestimento e il montaggio possono influenzare la prominenza dei fattori esogeni e la loro probabilità di deviare lo sguardo da un compito di visione concorrente. Tuttavia gli studi in questo ambito sono preliminari e ulteriori manipolazioni e analisi delle caratteristiche visive circa la fissazione sono necessarie per isolare i fattori endogeni/esogeni durante la visione del film. Per concludere occorre individuare il più importante fattore endogeno che può influenzare il modo in cui guardiamo i film: la narrazione. Mentre gli studi di teoria del cinema sulla narrazione forse superano l’interesse per tutti gli altri aspetti del film, le ricerche cognitive su come percepiamo le narrazioni cinematografiche sono praticamente inesistenti. Solo pochi psicologi cognitivisti hanno esaminato il modo in cui percepiamo e ricordiamo le narrazioni visive,131 ma per quanto ne sappia nessuno ha osservato come la comprensione narrativa influenzi il modo in cui guardiamo i film. Dato ciò che sappiamo sull’influenza endogena sullo sguardo e i dati che descrivono le modalità di accumulo 229
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delle informazioni durante la visione di un’immagine dinamica, è verosimile pensare che la comprensione narrativa debba emergere dallo sguardo degli spettatori. Per esempio, cerchiamo un personaggio più velocemente quando sappiamo che è l’assassino in un film noir? In un’immagine cerchiamo la bomba che è stata nascosta in una scena precedente? Guardiamo più a lungo un personaggio con cui empatizziamo? Evitiamo di guardare qualcosa che prevediamo possa spaventarci o essere spiacevole (si pensi alla scena della tortura ai denti in Il maratoneta, 1976)? La corretta comprensione di una narrazione cinematografica richiede che lo spettatore si impegni nell’acquisizione, nella comprensione e nella conservazione delle informazioni pertinenti. Ciò dovrebbe emergere dallo sguardo degli spettatori, anche se ancora non è stato dimostrato. CONCLUSIONI
A un osservatore esterno gli spettatori cinematografici possono apparire come decisamente passivi. L’intento di questo capitolo è stato quello di dimostrare come gli spettatori siano incredibilmente attivi nello spostare lo sguardo sullo schermo ed elaborare cognitivamente le informazioni disponibili. La costruzione della narrazione è un processo collaborativo che richiede un’adeguata presentazione delle informazioni audiovisive pertinenti da parte del cineasta e l’acquisizione attiva e la decodifica di tali informazioni da parte dello spettatore. Molte scelte registiche, come la messa in scena, il montaggio e l’allestimento dell’azione influenzano il modo in cui le informazioni visive vengono presentate e come esse possono influenzare esogenamente la direzione dello sguardo dello spettatore. Applicando l’approccio della Cinematica Cognitiva Computazionale (ccc) alla visione filmica si è cercato di confermare le intuizioni dei cineasti circa l’influenza del movimento, del contrasto e dei volti sull’attenzione dello spettatore utilizzando una combinazione di oculometria e analisi in computer vision di contenuti video. Tali analisi suggeriscono un’interessante interazione tra l’attività di comprensione dello spettatore e le caratteristiche visive come il movimento e i contenuti dinamici dell’immagine. L’oculometria ha la capacità di fornire una fotografia in tempo reale dell’attività cognitiva degli spettatori. Essa può 230
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essere utilizzata sia separatamente sia, in futuro, in combinazione con i metodi di neuroimaging e i metodi elettrofisiologici. La natura intuitiva dei dati sullo sguardo offre una via d’analisi immediata dell’esperienza di visione di un film senza dover affrontare i complessi aspetti quantitativi della psicologia empirica. Tuttavia, una volta che i dati sullo sguardo sono disaggregati nei loro movimenti oculari costitutivi e correlati ai livelli di base o agli elementi di contenuto di un’immagine, il potenziale interpretativo diventa illimitato. Spero di poter guardare le persone che guardano le persone guardare i film ancora per molto tempo. NOTE
1. D. Bordwell, N. Carroll, Post-Theory. Reconstructing Film Studies, University of Madison Press, Madison 1996, p. 444. 2. Cinemetrics. Movie Measurement and Study Tool Database, http:// www.cinemetrics.lv; B. Salt, Film Style and Technology: History and Analysis, vol. 3, Starword, Totton 2009. 3. Come per esempio in T.J. Smith, J.M. Henderson, “Edit blindness: The relationship between attention and global change blindness in dynamic scenes”, in Journal of Eye Movement Research, 2, 2, 2008, pp. 1-17. 4. Vedi P.K. Mital, T.J. Smith, R.L. Hill, J.M. Henderson, “Clustering of gaze during dynamic scene viewing is predicted by motion”, in Cognitive Computation, 3, 1, 2011, pp. 5-24. 5. Per esempio effettuando un’analisi cinemetrica, come in J.E. Cutting, J.E. DeLong, C.E. Nothelfer, “Attention and the evolution of Hollywood film”, in Psychological Science, 21, 3, 2010, pp. 440-447. 6. J.E. Cutting, K.L. Brunick, J.E. DeLong, C. Iricinschi, A. Candan, “Quicker, faster, darker: Changes in Hollywood film over 75 years”, in i-Perception, 2, 2011, pp. 569-576. 7. Per una rassegna vedi T.J. Smith, D. Levin, J.E. Cutting, “A window on reality: Perceiving edited moving images”, in Current Directions in Psychological Science, 21, 2012, pp. 101-106. 8. Per esempio U. Frith, J.E. Robson, “Perceiving the language of films”, in Perception, 4, 1, 1975, pp. 97-103. 9. Per esempio U. Hasson, O. Landesman, B. Knappmeyer, I. Valines, N. Rubin, D.J. Heeger, “Neurocinematics: The neuroscience of film”, in Projections: The Journal of Movies and Mind, 2, 1, 2008, pp. 1-26. 10. Anche il termine inglese – eye tracking – si sta tuttavia imponendo come forestierismo nel linguaggio comune. [NdC] 11. N.J. Wade, B.W. Tatler, The Moving Tablet of the Eye: The Origins of Modern Eye Movement Research, Plenum Press, New York 2005. 12. A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, Plenum Press, New York 1967.
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13. Per ulteriori dettagli tecnici sulla tecnologia dell’oculometria e su come svolgere uno studio oculometrico vedi A. Duchowsky, Eye Tracking Methodology: Theory and Practice, Springer-Verlag, London 20072 o K. Holmqvist, M. Nyström, R. Andersson, R. Dewhurst, H. Jarodzka, J. van de Weijer, Eye Tracking: A Comprehensive Guide to Methods and Measures, Oxford University Press, Oxford 2011. 14. T. Wertheim, “Über die indirekte Sehschärfe”, Zeitschrift für Psychologie und Physiologie der Sinnesorgane, 7, 1, 1894, pp. 121-187. 15. J.M. Henderson, A. Hollingworth, “The role of fixation position in detecting scene changes across saccades”, in Psychological Science, 10, 5, 1999, pp. 438-443. 16. K. Rayner, “Eye movements in reading and information processing: 20 years of research”, in Psychological Bulletin, 124, 3, 1998, pp. 372-422. 17. J.M. Henderson, “Human gaze control during real-world scene perception”, in Trends in Cognitive Sciences, 7, 11, 2003, pp. 498-504. 18. Ibidem. 19. B.W. Tatler, M.F. Land, “Vision and the representation of the surroundings in spatial memory”, in Philosophical Transactions of the Royal Society B, 1564, 2011, pp. 596-610. 20. thx, “thx tech pages”, ultimo accesso 13 febbraio 2012, http://www. cinemaequipmentsales.com/athx2.html. 21. E. Matin, “Saccadic suppression: A review and an analysis”, in Psychological Bulletin, 81, 12, 1974, pp. 899-917. 22. H. Deubel, W.X. Schneider, “Saccade target selection and object recognition: Evidence for a common attentional mechanism”, in Vision Research, 36, 12, 1996, pp. 1827-1837; E. Kowler, E. Anderson, B. Dosher, E. Blaser, “The role of attention in the programming of saccades”, in Vision Research, 35, 13, 1995, pp. 1897-1916. 23. Per una rassegna vedi J.M. Findlay, I.D. Gilchrist, Active Vision: The Psychology of Looking and Seeing, Oxford University Press, Oxford 2003. 24. J.M. Henderson, “Visual attention and eye movement control during reading and picture viewing”, in K. Rayner (a cura di), Eye Movements and Visual Cognition: Scene Perception and Reading, Springer-Verlag, New York 1992, pp. 260-283. 25. J.E. Cutting, K.L. Brunick, J.E. DeLong, “The changing poetics of the dissolve in Hollywood film”, in Empirical Studies in the Arts, 26, 2011, pp. 149-169. 26. S.M. Ėjzenštejn, Tecnica del cinema (1942), tr. it. di G. Guidi, Einaudi, Torino 1950. 27. Ibidem, pp. 154-216. 28. B.F. Anderson, “Eye movement and cinematic perception”, in Journal of the University Film Association, 32, 1&2, 1980, pp. 23-26. 29. Ibidem, p. 26. 30. E. Dmytryk, On Filmmaking, Focal Press, London 1986, p. 444. 31. B. Fischer, E. Ramsperger, “Human express saccades: Extremely short reaction times of goal directed eye movements”, in Experimental Brain Research, 57, 1984, pp. 191-195.
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Guardarsi guardare i film
32. R.D. Pepperman, The Eye Is Quicker: Film Editing. Making a Good Film Better, Michael Wiese Productions, Studio City 2004, p. 11. 33. B. Block, The Visual Story: Seeing Structure of Film, tv, and New Media, Focal Press, Burlington (ma) 2001; W. Murch, In the Blink of an Eye: A Perspective on Film Editing, Silman-James Press, Los Angeles 2001; R.D. Pepperman, The Eye Is Quicker, cit.; K. Reisz, G. Millar, La tecnica del montaggio cinematografico, tr. it. di M. Amante, SugarCo, Milano 1983. 34. A. Klin, W. Jones, R. Schultz, F. Volkmar, D. Cohen, “Visual fixation patterns during viewing of naturalistic social situations as predictors of social competence in individuals with autism”, in Archives of General Psychiatry, 59, 9, 2002, pp. 809-816; J. Treuting, “Eye tracking and cinema: A study of film theory and visual perception”, in Society of Motion Picture and Television Engineers, 115, 1, 2006, pp. 31-40. 35. J. Treuting, “Eye tracking and cinema”, cit. 36. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements when viewing dynamic natural scenes”, in Journal of Vision, 10, 28, 2010, pp. 1-17; R.B. Goldstein, R.L. Woods, E. Peli, “Where people look when watching movies: Do all viewers look at the same place?”, in Computers in Biology and Medicine, 37, 7, 2007, pp. 957-964; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit.; T.J. Smith, J.M. Henderson, “Attentional synchrony in static and dynamic scenes”, in Journal of Vision, 8, 6, 2008, p. 773; L.B. Stelmach, W.J. Tam, P.J. Hearty, “Static and dynamic spatial resolution in image coding: An investigation of eye movements”, Human Vision, Visual Processing, and Digital Display Conference ii, San Jose, California, 1991; V. Tosi, L. Mecacci, E. Pasquali, “Scanning eye movements made when viewing film: Preliminary observations”, in International Journal of Neuroscience, 92, 1/2, 1997, pp. 47-52. 37. S.K. Mannan et al., “Automatic control of saccadic eye movements”, cit. 38. T.J. Smith, J.M. Henderson, “Attentional synchrony in static and dynamic scenes”, cit. 39. La mappa termica [heatmap] di una misurazione oculometrica è un grafico che mostra, in forma statica o dinamica, le zone dell’immagine che sono state osservate e con quale intensità. Generalmente le zone osservate per un tempo prolungato sono colorate in rosso, mentre le zone osservate per un tempo inferiore sono colorate con gradazioni cromatiche che tendono al verde. [NdC] 40. Stelmach e colleghi si riferiscono a essa come a “un livello di accordo tra gli spettatori in termini di dove hanno guardato” e non di sincronia attenzionale; L.B. Stelmach et al., “Static and dynamic spatial resolution in image coding”, cit. 41. R.B. Goldstein et al., “Where people look when watching movies”, cit. 42. R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, in Journal of Vision, 6, 2006, pp. 898-914; R.B. Goldstein et al., “Where people look when watching movies”, cit.; U. Hasson et al., “Neurocinematics”, cit.; P. Marchant, D. Raybould, T. Renshaw, R. Stevens, “Are you seeing what I’m seeing? An eye-tracking evaluation of dynamic scenes”,
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Guardarsi guardare i film
55. C. Koch, S. Ullman, “Shifts in selective visual-attention – towards the underlying neural circuitry”, in Human Neurobiology, 4, 4, 1985, pp. 219-227. 56. L. Itti, C. Koch, “Computational modelling of visual attention”, in Nature Reviews Neuroscience, 2, 3, 2001, pp. 194-203. 57. R.J. Baddeley, B.W. Tatler, “High frequency edges (but not contrast) predict where we fixate: A Bayesian system identification analysis”, in Vision Research, 46, 2006, pp. 2824-2833; G. Krieger, I. Rentschler, G. Hauske, K. Schill, C. Zetzsche, “Object and scene analysis by saccadic eye-movements: An investigation with higher-order statistics”, in Spatial Vision, 13, 2-3, 2000, pp. 201-214; S.K. Mannan, K.H. Ruddock, D.S. Wooding, “Automatic control of saccadic eye movements made in visual inspection of briefly presented 2-D images”, Spatial Vision, 9, 3, 1995, pp. 363-386; S.K. Mannan, K.H. Ruddock, D.S. Wooding, “The relationship between the locations of spatial features and those of fixations made during visual examination of briefly presented images”, in Spatial Vision, 10, 3, 1996, pp. 165-188; S.K. Mannan, K.H. Ruddock, D.S. Wooding, “Fixation sequences made during visual examination of briefly presented 2D images”, in Spatial Vision, 11, 2, 1997, pp. 157-178; D.J. Parkhurst, E. Niebur, “Scene content selected by active vision”, in Spatial Vision, 6, 2003, pp. 125-154; P. Reinagel, A.M. Zador, “Natural scene statistics at the centre of gaze”, in Network: Computer and Neural Systems, 10, 1999, pp. 1-10; B.W. Tatler, R.J. Baddeley, I.D. Gilchrist, “Visual correlates of fixation selection: Effects of scale and time”, in Vision Research, 45, 5, 2005, pp. 643-659. 58. G.T. Buswell, How People Look at Pictures: A Study of the Psychology of Perception in Art, University of Chicago Press, Chicago 1935; M.S. Castelhano, M. Mack, J.M. Henderson, “Viewing task influences eye movement control during active scene perception”, in Journal of Vision, 9, 2009, pp. 1-15; W. Einhauser, M. Spain, P. Perona, “Objects predict fixations better than early saliency”, in Journal of Vision, 8, 14, 2008, pp. 1126; J.M. Henderson, J.R. Brockmole, M.S. Castelhano, M. Mack, “Visual saliency does not account for eye movements during visual search in realworld scenes”, in R.P.G. van Gompel, M.H. Fischer, W.S. Murray, R.L. Hill (a cura di), Eye Movements: A Window on Mind and Brain, Elsevier, Oxford 2007, pp. 537-562; J.M. Henderson, G.L. Malcolm, C. Schandl, “Searching in the dark: Cognitive relevance drives attention in real-world scenes”, in Psychonomic Bulletin & Review, 16, 2009, pp. 850-856; A. Torralba, A. Oliva, M.S. Castelhano, J.M. Henderson, “Contextual guidance of eye movements and attention in real-world scenes: The role of global features in object search”, in Psychological Review, 113, 4, 2006, pp. 766-786; A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 59. D. Walther, C. Koch, “Modeling attention to salient proto-objects”, in Neural Networks, 19, 2006, pp. 1395-1407. 60. T.J. Smith, J.M. Henderson, “The causal influence of visual salience on gaze guidance during scene search and memorisation”, Object, Perception, Attention and Memory Conference, St. Louis (mo), 2010.
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61. Ibidem. 62. D. Bordwell, K. Thompson, Cinema come arte, cit., p. 248. 63. J.J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva (1979), tr. it. di R. Luccio, il Mulino, Bologna 1999. 64. E. Dmytryk, On Filmmaking, cit., pp. 435-436. 65. K. Reisz, G. Millar, La tecnica del montaggio cinematografico, cit., p. 214. 66. W. Murch, In the Blink of an Eye, cit.; R.D. Pepperman, The Eye Is Quicker, cit.; K. Reisz, G. Millar, La tecnica del montaggio cinematografico, cit. 67. T.J. Smith, J.M. Henderson, “Edit blindness”, cit. 68. T.J. Smith, “Attentional theory of cinematic continuity”, in Projections, 6, 1, 2012, pp. 1-27. 69. L’oculometria è stata eseguita utilizzando il sistema desktop Eyelink 1000 (SR Research) con la testa dello spettatore stabilizzata tramite un poggiamento a una distanza di visione di 60 cm. Il film è stato presentato su uno schermo da 21 pollici con una risoluzione di 1280×1024 e una risoluzione video di 1280×720 a 24 fps (formato Letterbox). Le mappe termiche sono state create utilizzando CARPE [Computational and Algorithmic Representation and Processing of Eye-movement] (P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing is predicted by motion”, cit.). Il video dei movimenti oculari è disponibile all’indirizzo: http://vimeo.com/25033301. 70. T.J. Smith, “Attentional theory of cinematic continuity”, cit. 71. J.M. Wolfe, T.S. Horowitz, “What attributes guide the deployment of visual attention and how do they do it?”, in Nature Reviews Neuroscience, 5, 2004, pp. 1-7. 72. I movimenti oculari sono stati registrati utilizzando il tracciatore oculare Eyelink 1000 (sr Research) e i video sono stati presentati su un monitor Viewsonic da 21 pollici con risoluzione di 1280×960 a 120 Hz a una distanza di visione di 90 cm. La posizione dello sguardo può quindi essere sovrapposta all’immagine associata in modo da rappresentare i punti in cui lo spettatore guarda. Per ulteriori dettagli vedi P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 73. Per ulteriori informazioni sul progetto vedi il sito web diem (http:// thediemproject.wordpress.com/) e le visualizzazioni del comportamento oculare (http://vimeo.com/visualcognition/videos). 74. P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 75. D.J. Berg, S.E. Boehnke, R.A. Marino, D.P. Munoz, L. Itti, “Free viewing of dynamic stimuli by humans and monkeys”, in Journal of Vision, 9, 5, 2009, pp. 1-15.; R. Carmi, L. Itti, “Visual causes versus correlates of attention selection in dynamic scenes”, in Vision Research, 46, 2006, p. 4333; R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, cit.; L. Itti, “Quantifying the contribution of low-level saliency to human eye movements in dynamic scenes”, in Visual Cognition, 12, 6, 2005, pp. 1093-1123; L. Itti, “Quantitative modelling of perceptual salience at human eye position”, in Visual Cognition, 14, 4-8, 2006, pp. 959-984; O. Le
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Guardarsi guardare i film
Meur, P. Le Callet, D. Barba, “Predicting visual fixations on video based on low-level visual features”, in Vision Research, 47, 2007, pp. 2483-2498; B.M.t’ Hart, J. Vockeroth, F. Schumann, K. Bartl, E. Schneider, P. König et al., “Gaze allocation in natural stimuli”, cit.; E. Vig, M. Dorr, E. Barth, “Efficient visual coding and the predictability of eye movements on natural movies”, in Spatial Vision, 22, 2, 2009, pp. 397-408. 76. P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 77. E. Dmytryk, On Filmmaking, cit.; W. Murch, In the Blink of an Eye, cit.; R.D. Pepperman, The Eye Is Quicker, cit.; K. Reisz, G. Millar, La tecnica del montaggio cinematografico, cit. 78. R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, cit.; M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 79. F. Germeys, G. d’Ydewalle, “The psychology of film: Perceiving beyond the cut”, in Psychological Research, 71, 4, 2007, pp. 458-466; J. May et al., “Using film cutting techniques in interface design”, cit.; T.J. Smith, J.M. Henderson, “Edit blindness”, cit. 80. R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, cit.; M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit.; T.J. Smith, J.M. Henderson, “Attentional synchrony in static and dynamic scenes”, cit. 81. J. Hochberg, V. Brooks, “Film cutting and visual momentum”, in J.W. Senders, D.F. Fisher, R.A. Monty (a cura di), Eye Movements and the Higher Psychological Functions, Lawrence Erlbaum, Hillsdale (nj) 1978, pp. 293-317. 82. Ibidem, p. 295. 83. Ibidem. 84. Ibidem, p. 294. 85. J.R. Antes, “Time course of picture viewing”, in Journal of Experimental Psychology, 103, 1, 1974, pp. 62-70; G.T. Buswell, “How people look at pictures”, cit.; P.J.A. Unema, S. Pannasch, M. Joos, B.M. Velichovsky, “Time course of information processing during scene perception: The relationship between saccade amplitude and fixation duration”, in Visual Cognition, 12, 2005, pp. 473-494. 86. P.J.A. Unema, S. Pannasch, M. Joos, B.M. Velichovsky, “Time course of information processing during scene perception”, cit. 87. A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 88. Vedi A. Nuthmann, T.J. Smith, R. Engbert, J.M. Henderson, “crisp: A computational model of fixation durations in scene viewing”, in Psychological Review, 117, 2, 2010, pp. 382-405 per una revisione dei fattori che influenzano il tempo di saccade nelle scene naturali. 89. R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, cit.; M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth,
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“Variability of eye movements”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 90. P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 91. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 92. J.E. Cutting, K.L. Brunick, J.E. DeLong, “The changing poetics of the dissolve in Hollywood film”, cit.; J.E. Cutting, K.L. Brunick, J.E. DeLong, C. Iricinschi, A. Candan, “Quicker, faster, darker…”, cit.; J.E. Cutting et al., “Attention and the evolution of Hollywood film”, cit. 93. D.L. Gilden, “Cognitive emission of 1/f noise”, in Psychological Review, 108, 2001, pp. 33-56. 94. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; O. Le Meur et al., “Predicting visual fixations…”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 95. B.W. Tatler et al., “Visual correlates of fixation selection”, cit. 96. B.W. Tatler, “The central fixation bias in scene viewing: Selecting an optimal viewing position independently of motor biases and image feature distributions”, in Journal of Vision, 7, 14, 2007, pp. 1-17. 97. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; R.B. Goldstein et al., “Where people look when watching movies”, cit.; O. Le Meur et al., “Predicting visual fixations…”, cit. 98. P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 99. Ibidem. 100. P.H. Tseng, R. Carmi, I.G.M. Cameron, D.P. Munoz, L. Itti, “Quantifying centre bias of observers in free viewing of dynamic natural scenes”, in Journal of Vision, 9, 7, 2009, pp. 1-16. 101. R. Arnheim, Il potere del centro. Psicologia della composizione nelle arti visive (1982), tr. it. di R. Pedio, Einaudi, Torino 1984. 102. C.W. Tyler, “Painters centre one eye in portraits”, in Nature, 392, 1998, pp. 877-878. 103. Per esempio J. Levy, “Lateral dominance and aesthetic preference”, in Neuropsychologia, 14, 1976, pp. 431-445. 104. Ibidem. 105. S.E. Palmer, J.S. Gardner, T.D. Wickens, “Aesthetic issues in spatial composition: Effects of position and direction on framing single objects”, in Spatial Vision, 21, 3-5, 2008, pp. 421-449. 106. T.J. Smith, “Attentional theory of cinematic continuity”, cit. 107. Ibidem. 108. P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 109. S.E. Palmer, J.S. Gardner, T.D. Wickens, “Aesthetic issues in spatial composition”, cit.
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Guardarsi guardare i film
110. A. Hitchcock, “La produzione cinematografica” (1965), in S. Gottlieb (a cura di), Hitchcock secondo Hitchcock. Idee e confessioni del maestro del brivido (1995), tr. it. di R. Caccia, Baldini&Castoldi, Milano 1996, p. 257. Originariamente pubblicato in Encyclopedia Britannica, vol. 15, 1965, pp. 907-911. 111. E. Birmingham, W.F. Bischof, A. Kingstone, “Gaze selection in complex social scenes”, in Visual Cognition, 16, 2008, pp. 341-355; M.S. Castelhano, M.S. Wieth, J.M. Henderson, “I see what you see: Eye movements in real-world scenes are affected by perceived direction of gaze”, in I. Paletta, E. Rome (a cura di), Attention in Cognitive Systems. Theories and Systems from an Interdisciplinary Viewpoint, Springer, Berlin 2007, pp. 252262; A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 112. Per i dettagli vedi P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 113. B. Salt, Film Style and Technology, cit. 114. E. Birmingham et al., “Gaze selection in complex social scenes”, cit.; M.S. Castelhano, et al., “I see what you see”, cit., A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 115. D. Bordwell, K. Thompson, Cinema come arte, cit. 116. Ibidem, p. 189. [La traduzione non restituisce il gioco di parole inteso dagli autori fra guardare – look at – e cercare – look for. NdC] 117. G.T. Buswell, “How people look at pictures”, cit.; A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 118. A.L. Yarbus, Eye Movements and Vision, cit. 119. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; R.B. Goldstein, R.L. Woods, E. Peli, “Where people look when watching movies”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit.; T.J. Smith, J.M. Henderson, “Attentional synchrony in static and dynamic scenes”, cit.; L.B. Stelmach et al., “Static and dynamic spatial resolution in image coding”, cit.; V. Tosi et al., “Scanning eye movements”, cit. 120. R. Carmi, L. Itti, “Visual causes versus correlates of attention selection in dynamic scenes”, cit.; R. Carmi, L. Itti, “The role of memory in guiding attention during natural vision”, cit.; M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit.; P.K. Mital et al., “Clustering of gaze during dynamic scene viewing”, cit. 121. M. Dorr, T. Martinetz, K.R. Gegenfurtner, E. Barth, “Variability of eye movements”, cit. 122. Ibidem. 123. Ibidem. 124. J. Sandys, Movie Mistakes: Take 4, Virgin Books, London 2005. 125. Comunicazione privata. 126. T.J. Smith, P.K. Mital, “Watching the world go by: Attentional prioritization of social motion during dynamic scene viewing”, in Journal of Vision, 11, 11, 2011, p. 478. 127. Ibidem. 128. J.G. Spanne, “Task impact on cognitive processing of narrative fiction film”, Master’s thesis, Lund University 2006.
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129. T.J. Smith, P.K. Mital, “Watching the world go by”, cit. 130. J.G. Spanne, “Task impact on cognitive processing of narrative fiction film”, cit. 131. R.N. Kraft, “Rules and strategies of visual narratives”, in Perceptual and Motor Skills, 64, 1, 1987, pp. 3-14; R.N. Kraft, P. Cantor, C. Gottdiener, “The coherence of visual narratives”, in Communication Research, 18, 5, 1991, pp. 601-615; J.P. Magliano, J.M. Zacks, “The impact of continuity editing in narrative film on event segmentation”, in Cognitive Science, 35, 8, 2011, pp. 1-29; J.M. Zacks, J.P. Magliano, “Film understanding and cognitive neuroscience”, in D.P. Melcher, F. Bacci (a cura di), Art & The Senses, Oxford University Press, New York 2009, pp. 435-454; J.M. Zacks, N.K. Speer, K.M. Swallow, C.J. Maley, “The brain’s cutting-room floor: Segmentation of narrative cinema”, in Frontiers in Human Neuroscience, 4, 2010, pp. 1-15.
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8 “LA TRAPPOLA DEL NATURALISMO” LE NEUROSCIENZE E LA NATURALIZZAZIONE DELL’ESTETICA DEL CINEMA
Murray Smith
Dopo la laurea alla University of Liverpool, Murray Smith (https://www. kent.ac.uk/arts/staff-profiles/film/m_smith.html) si è trasferito alla University of Wisconsin-Madison, dove ha ottenuto il dottorato sotto la guida di David Bordwell. Attualmente è professore di Film Studies e condirettore della Aesthetics Research Centre alla University of Kent. Il nucleo fondamentale del suo lavoro riguarda lo studio e l’applicazione della teoria cognitivista al cinema, tema su cui a metà degli anni Novanta ha pubblicato Engaging Characters: Fiction, Emotion, and the Cinema (Clarendon Press, Oxford 1995). Più in generale si interessa all’approccio filosofico ed estetologico al film e all’arte (ha curato con Richard Allen l’importante antologia Film Theory and Philosophy, Clarendon Press, Oxford 1997 e con Thomas E. Wartenberg Thinking through Cinema, Blackwell, Oxford 2006). Si interessa inoltre di teorie classiche del film e di cinema americano (su cui ha curato con Steve Neale il volume Contemporary Hollywood Cinema, Routledge, London-New York 1998). Il suo interesse per l’intersezione fra estetica, teorie del cinema e neuroscienze è maturato con la recente pubblicazione del volume Film, Art, and the Third Culture. A Naturalized Aesthetics of Film (Oxford University Press, Oxford 2017). È l’attuale presidente della Society for Cognitive Studies of the Moving Image, la società scientifica che raccoglie gli studiosi di approccio cognitivista al cinema. È membro del comitato editoriale della rivista Projections: The Journal for Movies and Mind. Difficile sfuggire al cervello di questi tempi – esclama Smith in apertura a questo saggio, apparso nell’antologia Cognitive Media Theory curata nel 2014 da Ted Nannicelli e Paul Taberham e incluso (in versione lievemente rimaneggiata) nella sua ultima recentissima monografia. E ovviamente non se ne sottrae, affrontando a viso aperto il problema della naturalizzazione dell’estetica e dell’esperienza del film, nell’epoca in cui dopo i prefissi Neo- e Post- siamo conclamatamente entrati nell’era del prefisso Neuro-. Anche la teoria cognitivista del cinema, scettica sull’ap241
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propriatezza dell’ingresso del cervello nel dibattito sulla mente, deve fare i conti con le neuroscienze. Per Smith si tratta di un’inevitabile confronto, un’integrazione, anzi decisamente una rivitalizzazione, di alcuni dei problemi classici dell’approccio cognitivista: per esempio la reazione di trasalimento dello spettatore rispetto ad alcune violente e improvvise (e tuttavia non inattese) stimolazioni sensoriali e il rispecchiamento empatico dello stato psicofisico del personaggio. Se il primo era già stato al centro di una delle indagini fondanti dell’approccio cognitivista all’esperienza filmica (The Philosophy of Horror, or Paradoxes of the Heart di Noël Carroll del 1990), il secondo ha di fatto attraversato l’intero dibattito sulle emozioni, di cui il problema dell’empatia è stato il fulcro (vedi il saggio di Plantinga in questa antologia). L’essenza e la portata della proposta di Smith emergono efficacemente dai casi d’analisi sapientemente scelti dall’autore: in particolare l’esplosione di un mezzo militare nel deserto dell’Afghanistan in Iron Man di Jon Favreau e la scena di 127 ore di Danny Boyle in cui il protagonista, intrappolato in un crepaccio nel deserto dello Utah, è costretto a recidersi un braccio per liberarsi e salvarsi. Che cosa le neuroscienze aggiungono all’analisi cognitivista di queste due sequenze e delle rispettive forme di reazione affettiva? Smith giunge a formulare la propria risposta dopo aver passato in rassegna e valutato attentamente le ragioni per cui oggi non è più possibile prescindere dal cervello per spiegare la mente. Anzitutto vi è un’affinità tematica tra la “psicocinematica” e il nascente approccio “neurocinematico” (vedi il saggio di Hasson e colleghi in questa antologia), interessato alle stesse facoltà umane fondamentali poste in primo piano cento anni fa, agli albori della teoria del cinema, da Hugo Münsterberg: percezione, emozione, attenzione, memoria… In secondo luogo perché la neuroimaging non è più solo una metodica scientifica di studio del cervello, ma anche una tecnica di produzione di immagini cinematografiche (con una sua “estetica”; vedi il saggio di Pisters). Insomma, avverte Smith, le neuroscienze penetrano fatalmente ma inevitabilmente i film studies: possiamo far finta di niente e restare al sicuro nel recinto dei metodi consolidati, oppure prenderci il rischio di vedere cosa sta accadendo là fuori. Smith esce dal recinto, ma non senza avvedersi delle insidie di questa avventura: lo scetticismo per la “neuromania” è legittimo, il naturalismo può essere una “trappola”, quella stessa insidiosa gola fra le rocce in cui resta intrappolato il personaggio di 127 ore. Forse un giorno saremo costretti a un gesto drammatico per “salvarci la vita”, ma nel frattempo è difficile resistere al richiamo dell’avventura.
È difficile sfuggire al cervello di questi tempi – ovunque ci si volga si incontrano neuro-immagini, tesi sul fondamento neurale dei comportamenti umani e intere nuove sottodiscipline basa242
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te sull’applicazione di idee o tecniche neuroscientifiche a domini di ricerca tradizionali – per esempio la “neurolinguistica”, la “neurofilosofia” e la “neuroeconomia”. Un altro campo di ricerca emergente è la “neuroestetica”, che cerca di far luce sulla nostra comprensione dell’estetica esaminando i processi cerebrali e le strutture dalle quali l’esperienza estetica sembra dipendere. Fra i neuroscienziati che hanno tracciato questo solco, Semir Zeki e V.S. Ramachandran – entrambi eminenti nel loro campo – sono quelli che hanno attirato maggiormente l’attenzione. Zeki è noto per le sue tesi sulla costanza degli oggetti (ossia la nostra capacità di percepire l’integrità degli oggetti nonostante cambi di angolazione, illuminazione, distanza e così via), sull’astrazione visiva (esperienze visive di colori e forme più che degli oggetti per se) e su cosa le arti visive ci possono dire su questi fenomeni. Ramachandran ha fatto scalpore con la sua proposta delle otto “leggi” dell’esperienza artistica.1 Molti altri ricercatori sono al lavoro su quel che si sta consolidando come un programma di ricerca. Tutti questi sviluppi hanno avuto luogo sullo sfondo (e si possono considerare costitutivi) dello slittamento graduale dalle “scienze cognitive” alle “neuroscienze cognitive”, uno slittamento che esprime un cambiamento nella concezione che il più ampio dominio di ricerca ha di sé. Perché ce ne dovremmo preoccupare? Che cosa questo ha, o avrebbe, a che fare con lo studio del cinema? Ci sono diverse ragioni per cui noi, in quanto studiosi di cinema, potremmo prestare attenzione a questi sviluppi nelle neuroscienze. In primo luogo, in aggiunta al campo specifico della neuroestetica, che si è focalizzato quasi interamente sulle immagini statiche, ci sono ora vari gruppi di ricercatori che affrontano questioni simili in altre forme d’arte, incluso il cinema: Uri Hasson e i suoi collaboratori, per esempio, hanno condotto ricerche pionieristiche sulla “neurocinematica”.2 Da una parte tali ricerche si mantengono in una tradizione preesistente negli studi sul cinema, vale a dire la teoria cognitivista del film, che si è gradualmente sempre più interessata alla ricerca neuroscientifica proprio come il suo dominio “genitore” – le scienze cognitive – ha subito l’influenza del cervello. Come vedremo la ricerca neuroscientifica sulle facoltà umane fondamentali come la percezione, l’emozione, l’empatia e la memoria è pertinente anche rispetto allo studio del cinema. Dall’altra parte 243
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la ricerca neuroscientifica (sul cinema, sull’arte, o più in generale sugli aspetti della psicologia umana) è pertinente non solo per la teoria cognitivista del cinema, ma per qualsiasi studio sul cinema che abbia una dimensione psicologica significativa, incluse le teorie fenomenologiche e psicoanalitiche. Se Deleuze e alcuni dei suoi seguaci non esitano a fare allusione al cervello, allora dovrebbero, in buona fede, essere pronti a dare seguito a queste allusioni laddove la ricerca sul cervello è condotta davvero.3 La seconda ragione per la quale le neuroscienze sono rilevanti per gli studi sul cinema è che sono importanti per i professionisti che lavorano nel settore del cinema – quantomeno per alcuni di loro. Parallelamente alla ricerca accademica sul cinema e sul cervello, si assiste anche al caso di cineasti che si avventurano nel “neurocinema”, ossia l’applicazione di strumenti neuroscientifici alla realizzazione di film. Finora questa pratica si è realizzata in almeno tre forme. Innanzitutto le scansioni del cervello sono state usate come estensione della pratica delle proiezioni di prova, fornendo un modo alternativo di valutazione dell’impatto prodotto da particolari momenti di un film; più in generale, cosa che non dovrebbe sorprendere, le scansioni cerebrali sono usate ora come uno strumento nell’industria pubblicitaria e hanno dato vita al concetto di “neuromarketing”. La seconda applicazione pratica delle neuroscienze nel mondo delle immagini in movimento riguarda quella che potremmo chiamare “interattività neurale” nel cinema narrativo e nella progettazione di videogiochi, in cui i segnali cerebrali trasmessi da caschi indossati dai giocatori o dagli spettatori condizionano direttamente il mondo del gioco e la progressione della narrazione, come nel gioco Focus Pocus o nei film prodotti da MyndPlay.4 Una terza applicazione pratica delle neuroscienze riguarda la conversione di dati neurali in immagini animate: una tecnica pensata per rappresentare le immagini mentali in forma cinematografica – si tratta di fatto di realizzare non solo delle scansioni del cervello, ma autentiche scansioni della mente.5 Queste tecniche e le pratiche che si basano su di esse sono ancora al loro stadio nascente ed è pertanto troppo presto per dire qualcosa sulla loro natura o sul loro valore. Ma il mero fatto che esistano è sicuramente degno di nota. Forse c’è una terza ragione, più generale, per cui gli studi sul cinema in quanto disciplina dovrebbero tenere conto del fiorente 244
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mondo delle neuroscienze. L’attuale preminenza delle neuroscienze deriva dall’emergere di nuove tecnologie che forniscono immagini dell’anatomia e del funzionamento del cervello mai prima d’ora così dettagliate. Molti scienziati e filosofi credono che questa nuova abbondanza di dati trasformerà la nostra comprensione dei fenomeni in numerosi campi. Come vedremo queste tesi sono molto dibattute, ma non vi può essere un dibattito adeguato senza la partecipazione delle persone che posseggono le competenze necessarie – e nel caso degli “studi neurocinematici” ciò significa sia i neuroscienziati sia gli studiosi di cinema. Non fraintendetemi: le neuroscienze continueranno a diffondersi nella pratica e nello studio del cinema. Gli studiosi di cinema possono restare nel proprio perimetro e far finta che non stia accadendo nulla, oppure guardarsi attorno con mente aperta ma con sguardo scettico, valutando ciò che le neuroscienze possono o meno offrire agli studi sul cinema. In questo saggio compio il primo passo di tale valutazione. Inizierò con l’esplorare alcune delle controversie sulle neuroscienze contemporanee e alcuni degli argomenti proposti contro la loro estensione in nuovi domini. Dopo aver delineato queste preoccupazioni critiche considererò due aspetti della nostra esperienza filmica – il trasalimento in reazione al film e il rispecchiamento empatico degli stati mentali dei personaggi – rispetto a cui sosterrò che i contributi delle neuroscienze possono approfondire e arricchire la nostra comprensione dei fenomeni in gioco. INCONTRO CON IL NEUROSCETTICO
Non tutti sono positivamente impressionati dall’ascesa delle neuroscienze. Jerry Fodor ha lucidamente valorizzato una lunga tradizione di scetticismo tra i filosofi e gli psicologi di impostazione funzionalista che mettono in discussione la possibilità di comprendere la mente mediante evidenze sul cervello. Fodor deplora in particolare la moda delle scansioni cerebrali, che egli vede come una indisciplinata “febbre dell’oro” per i dati neurali in assenza di ipotesi chiare e verificabili.6 La classica obiezione funzionalista, d’altra parte, fa leva sulla “realizzabilità multipla” degli stati mentali – ossia l’idea che le funzioni cognitive siano realizzabili con forme diverse di hardware e di implementazione fisica. Su larga scala 245
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ciò conduce alla possibilità dell’intelligenza artificiale o all’intelligenza di entità organiche con una base biochimica diversa dalla nostra; su una scala più modesta, la realizzabilità multipla conduce alla plasticità neurale, che si manifesta per esempio nella capacità del cervello di riconfigurarsi dopo una lesione, ripristinando le capacità mentali mediante interconnessioni molto diverse da quelle precedenti alla lesione.7 Se una funzione cognitiva non dipende da un substrato fisico specifico o da una specifica organizzazione materiale, perché dovremmo aspettarci di imparare qualcosa di significativo sui fenomeni mentali esaminando il cervello? Peter Hacker (un filosofo, come Fodor) e Maxwell Bennett (un neuroscienziato) hanno proposto congiuntamente una critica ancora più profonda delle attuali neuroscienze, insistendo sulla confusione che secondo loro deriva dal parlare di processi neurali usando il linguaggio dell’azione in prima persona.8 Hacker e Bennett parlano a riguardo di fallacia mereologica, in base alla quale una caratteristica o capacità propriamente attribuibile soltanto a una persona o a un organismo nella sua interezza (percepire, pensare, esperire, agire) è attribuita a una parte di quell’organismo, nella fattispecie il cervello. Parlando di “neuromania” Raymond Tallis si concentra a sua volta sui problemi che insorgono se si tratta il cervello separatamente sia dalle capacità motorie ed espressive del singolo corpo umano sia dalla “comunità delle menti” che costituisce il contesto della cognizione e del comportamento individuali. Tallis sostiene anche che le neuroscienze scivolino in una specie di comportamentismo, non lasciando spazio per la complessità, la flessibilità e la capacità di astrazione della cognizione umana, non riuscendo pertanto a riconoscere lo scarto che separa la cognizione umana da quella degli altri animali. Tallis chiama questo presunto fallimento “la trappola del naturalismo”.9 Secondo Tallis, mentre gli animali non umani sono “cablati nel mondo” tramite istinti e riflessi risultanti dall’evoluzione, gli umani sono “disaccoppiati” dal mondo – aspetto che li rende unici.10 Le critiche alle neuroscienze provenienti dal campo della filosofia dell’arte tendono a essere più moderate e meno pesanti. Il commento di John Hyman alle argomentazioni di Zeki e Ramachandran insiste sulla mancata corrispondenza fra la presunta portata e l’ambizione di queste teorie e le loro effettive limitazioni.11 Hyman ribattezza l’approccio di Ramachandran “teoria 246
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dell’arte in stile Baywatch”, sostenendo che mentre da una parte essa spiega solo una porzione limitata di aspetti o tipologie di arte, dall’altra sembra spiegare la capacità di attirare l’attenzione che caratterizza molti fenomeni al di fuori del campo dell’arte e dell’estetica.12 Analogamente Vincent Bergeron e Dominic Lopes hanno sottolineato le notevoli differenze tra le definizioni di “arte” e di “estetico” usate dai neuroscienziati e quelle usate dai teorici dell’arte – differenze spesso inavvertite che rischiano di rendere inutile il lavoro sperimentale che è stato intrapreso.13 David Davies, da parte sua, evidenzia due modi in cui la ricerca neuroscientifica sull’arte può mancare il proprio obiettivo.14 In primo luogo, riecheggiando Fodor, Davies sostiene che la ricerca sul cervello possa fornire nient’altro che un “resoconto dell’implementazione” delle caratteristiche dell’esperienza estetica o artistica già note; in tal senso, apprendere che, per esempio, la sede di alcune reazioni emotive è l’insula anziché l’amigdala non arricchisce la nostra comprensione del fenomeno estetico. In secondo luogo, evidenziando il contrasto fra le questioni descrittive sulla natura delle nostre effettive risposte e le questioni normative sulle reazioni “meritevoli”, Davies sottolinea la centralità di queste ultime nella filosofia dell’arte e si interroga sulla capacità della ricerca empirica di affrontarle. Secondo Davies le cose vanno nel verso opposto: la ricerca sperimentale necessita di assunzioni normative che, se riconosciute e difese apertamente, richiederebbero argomentazioni di tipo concettuale. Qui la posizione di Davies si connette a quella di Tallis nell’accentuare il carattere fortemente normativo del comportamento umano – un’altra dimensione della nostra esistenza specificamente “disaccoppiata”. L’entusiasmo per tutto ciò che è neurale risulta dunque bilanciato dai dubbi provenienti da varie direzioni. È importante allora non limitarsi a individuare alcune aree della ricerca neuroscientifica e mostrare, a grandi linee, come queste ricerche corrispondano a questioni riguardanti il cinema, bensì individuare i contributi specifici, innovativi e irriducibili che sono apportati o potrebbero essere apportati da tali ricerche. È quanto proverò a fare nelle prossime pagine esplorando ciò che le neuroscienze potrebbero insegnarci sui modi in cui i cineasti cercano di suscitare due particolari forme di reazione affettiva – il trasalimento e il rispecchiamento empatico – e i modi in cui gli spettatori ne fanno esperien247
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za. Potremo meglio apprezzare il valore delle neuroscienze e in particolare come esse possono spiegarci qualcosa in più della sola “implementazione”, quando saremo pervenuti ad analisi raffinate di questi fenomeni specifici. IMMAGINI E SUONI MOZZAFIATO
Quando sobbalziamo di fronte a un rumore fragoroso o inaspettato oppure di fronte a un cambiamento improvviso e drammatico nel nostro campo visivo, stiamo sperimentando una reazione di trasalimento. Trasalire in questo modo è un riflesso del tronco cerebrale: non siamo in grado, perlomeno non in circostanze normali, di esercitare su questa reazione un controllo significativo. Non possiamo evitare di trasalire di fronte a un fragoroso e inatteso colpo di pistola proprio come non possiamo far cessare la contrazione delle nostre pupille quando siamo esposti a una luce intensa. La reazione di trasalimento dipende da circuiti neurali specifici che portano dal sistema visivo e acustico sino alla corteccia motoria.15 I segnali trasportati lungo questo circuito causano il caratteristico riflesso motorio del busto e degli arti, insieme a un battito di ciglia e a una tipica espressione facciale. In quanto evolutivamente antica, la reazione di trasalimento si riscontra in molte specie e la sua funzione evolutiva non è difficile da cogliere: in situazioni di minaccia potenziale tale reazione ci spinge in uno stato di intensa attenzione.16 In tal senso essa è una prova evidente sia della “continuità delle specie” – ossia la continuità evolutiva fra gli umani e gli altri animali – sia del modo in cui noi (come altri animali) siamo “cablati nel mondo”. In che modo i cineasti hanno sfruttato la reazione di trasalimento? Nel leggere il paragrafo precedente molti lettori avranno senz’altro pensato a esempi tratti da film horror e thriller. L’“effetto trasalimento” è un fattore chiave di questo genere, proprio come le lacrime lo sono del melodramma. Robert Baird ha suggerito che l’effetto trasalimento, in quanto tratto caratteristico dei film horror, è ascrivibile al produttore Val Lewton, che chiamava tali effetti “gli autobus”, in ragione del primo uso di questa tecnica in Il bacio della pantera (Jacques Tourneur, 1942), in cui l’improvvisa e inattesa apparizione di un autobus dal fuori campo faceva trasalire lo spettatore.17 Iron Man (Jon Favreau, 2008) 248
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fornisce un esempio più recente ma sostanzialmente simile. Tony Stark (Robert Downey Jr.) viene scortato da un gruppo di soldati americani su un veicolo Humvee attraverso un paesaggio desertico dell’Afghanistan. La scena comincia con un’inquadratura che mostra al centro del veicolo uno stereo che suona la canzone Back in Black degli ac/dc, inizialmente udibile ad alto volume e poi, dopo pochi secondi, con funzione di musica diegetica di sfondo. La macchina da presa si solleva oltre lo stereo per mostrarci, attraverso il finestrino, altri due veicoli Humvee che stanno di fronte a quello su cui ci troviamo. Stark è un personaggio appariscente – un apprezzato inventore altrettanto noto come playboy. Piuttosto incongruamente, tiene in mano un cocktail e dopo pochi secondi comincia a chiacchierare in modo bonario con i soldati. Il soldato seduto vicino a Stark sul retro del veicolo gli chiede se può scattare una foto con lui; Stark dà il suo assenso e si mette in posa, mentre il soldato seduto davanti li inquadra. Staccando da Stark e il soldato seduti nel retro (terzo fotogramma in figura 8.1) al soldato seduto davanti (quarto fotogramma), la narrazione si concentra sulla realizzazione della fotografia. Nei circa trenta secondi trascorsi da quando la scena è cominciata, il film ha portato l’attenzione dello spettatore sull’interazione, inizialmente incerta, ma progressivamente più rilassata e spiritosa, fra Stark e i soldati. La canzone degli ac/dc, il cocktail di Stark e il suo modo irriverente di scherzare creano un’atmosfera di socievolezza nel veicolo, un’atmosfera che contrasta con (e ci distrae da) l’insidioso territorio che il veicolo sta attraversando. Il film crea una micro-narrazione sulla realizzazione della fotografia e ci aspettiamo che la porti fino in fondo. Un ritmo complesso ma stabile emerge dalla combinazione del montaggio, dai movimenti di scena e dalla canzone degli ac/dc; la dinamica sonora della sequenza è ugualmente stabile. Tutti questi fattori preparano l’innesco della reazione di trasalimento – un’esplosione improvvisa e fragorosa quando il veicolo di fronte a quello di Stark viene distrutto da un missile (un’esplosione che risuona in tutti gli altoparlanti dell’impianto audio). Questa esplosione è resa visualmente mediante tre inquadrature molto rapide – si comincia dallo sfondo dietro il soldato che scatta la foto (quinto fotogramma in figura 8.1), si continua con una ripresa del convoglio (sesto fotogramma)18 e si 249
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Figura 8.1 Iron Man (J. Favreau, usa 2008).
conclude con un ritorno nel veicolo di Stark, mentre i detriti del veicolo distrutto gli cadono sopra. Ora, è ovvio che il nostro apprezzamento di questa scena e del film nella sua interezza dipendono da un intero apparato di facoltà cognitive che vanno ben al di là di quella reazione breve, involontaria e istintiva che è il trasalimento. Per comprendere l’azione gli spettatori devono capire i dialoghi, interpretare le espressioni facciali e vocali e cogliere le relazioni spaziali fra i soggetti e il loro contesto. Se poi si vuole che la comprensione si spinga al di là di questi dati basilari, allora gli spettatori devono proiettare sull’azione in corso una dose significativa di conoscenze culturali specifiche – sui fumetti Marvel, su Robert Downey Jr. e sulla “guerra al terrore”. Nessuna di queste conoscenze tuttavia rende meno significativo un innesco del trasalimento quale l’esplosione in Iron Man – e la reazione primordiale che essa suscita –, in quanto effetto cinematografico voluto che sfrutta una caratteristica importante della psicologia umana. Qui l’innesco del trasalimento svolge varie funzioni: incorpora una decisiva svolta narrativa (a ben vedere, un plot point); simbolizza in forma concreta il pericolo rappresentato dai ribelli afghani; e ci fornisce un’eccitante “botta” – una di quelle potenti sensazioni corporee caratteristiche del 250
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cinema horror e d’azione, molto simile ai piaceri viscerali che si provano su certe giostre. Tenendo presenti queste associazioni poco eleganti, Baird nota che l’effetto di trasalimento è stato “screditato in quanto insensato e considerato un tratto distintivo dei film di serie B e di exploitation”.19 Pregiudizi culturali di questo tipo, tuttavia, non dovrebbero impedirci di cercare di comprendere più in profondità tali generi e le loro caratteristiche. Tallis e altri tradizionalisti potrebbero essere inclini a riconoscere che la reazione di trasalimento è, letteralmente, “irragionevole” – trattandosi di un riflesso istintivo del corpo privo di flessibilità e variabilità. Ma tale posizione è insostenibile; a meno che non siamo disposti ad abbracciare una prospettiva dualistica, la psicologia umana non può essere vista semplicisticamente come suddivisibile in una dimensione corporea totalmente meccanica e in una dimensione mentale interamente volontaristica. Tallis sottolinea che il cervello non può essere compreso appropriatamente se lo si separa dal corpo.20 Ma è ugualmente vero che la cognizione stessa non può essere compresa propriamente se scissa dai suoi fondamenti neurali e corporei, poiché le capacità cognitive possedute da un organismo dipendono, almeno in qualche modo e in qualche grado, dalla (neuro)fisiologia di quell’organismo.21 In ogni caso l’effetto di trasalimento non è associato soltanto ai film dell’orrore o ad altri generi popolari, sebbene esso sia stato certamente sfruttato più frequentemente e regolarmente in queste tipologie di film. Ran (1985), libero adattamento del Re Lear di Akira Kurosawa, mostra questo effetto all’opera in un contesto culturale molto più “elevato”.22 Nel film, Hidetora (Tatsuya Nakadai), il personaggio ispirato a Lear, ha ceduto la sovranità effettiva sul feudo Ichimonji al suo primogenito Taro (Akira Terao), pur mantenendo il ruolo di capo del clan. Inizialmente Hidetora si trova nel castello di Taro, ma se ne va dopo aver litigato con quest’ultimo, con l’idea di trasferirsi nel castello del terzo figlio, Saburo (Daisuke Ryu). Nel frattempo, Taro e Jiro (il secondo figlio di Hidetora, interpretato da Jinpachi Nezu) organizzano un possente e sanguinoso attacco contro il castello di Saburo. Nel corso di una lunga sequenza assistiamo alla straordinaria carneficina provocata dalla battaglia e alla graduale avanzata delle armate verso il castello di Saburo (i primi quattro fotogrammi in figura 8.2). Tutti i suoni diegetici della battaglia – il clangore del251
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
le armi, il galoppo dei cavalli, le urla dei feriti – risultano tuttavia sospesi; al loro posto, udiamo soltanto lo struggente commento musicale di Toru Takemitsu, ispirato alla musica di Mahler. Tutto prosegue fino a quando vediamo Taro entrare a cavallo nel castello di Saburo alla guida della sua armata (quinto fotogramma). Proprio in questo momento Taro è colpito alle spalle da un unico fragoroso sparo che interrompe bruscamente il commento musicale, segnando il ritorno al suono diegetico. Come nella sequenza di Iron Man, la reazione di trasalimento è innescata da un cambiamento estremo nel ritmo complessivo della scena, in corrispondenza di un evento inatteso e del risuonare di uno sparo fragoroso. E qui la forza del trasalimento consiste sia nel sottolineare una svolta drammaturgica sia nel ricordarci la brutalità fisica della guerra. L’effetto di trasalimento dà inizio a un processo di defamiliarizzazione attraverso il quale il nostro apprezzamento di ciò che viene rappresentato è acuito dal cambiamento di stile. Inizialmente assistiamo a un massacro di massa attraverso
Figura 8.2 Ran (A. Kurosawa, Giappone 1985).
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la fase stilizzata e “operistica” della sequenza, in cui è udibile solo il commento musicale; in seguito, con il ritorno in scena del suono diegetico, emerge tutto il potenziale realistico delle immagini. Il trasalimento generato dallo sparo segna la linea di demarcazione fra i due stili: l’effetto di defamiliarizzazione si attiva proprio in quel momento. Fin qui, nel discutere la reazione di trasalimento, ho presupposto che questa reazione sia una caratteristica invariante della fisiologia umana; la variazione di funzione deriva dal contesto in cui tale reazione è spontaneamente innescata e sfruttata dal film, come in Iron Man e in Ran. Di fatto il contesto può influenzare, in una certa misura, sia la forma sia la funzione della reazione di trasalimento. “Diversamente dal riflesso istintivo, dallo starnuto e dall’indietreggiare – scrive Baird, – i riflessi di trasalimento sono modificati dagli stati emotivi e cognitivi.”23 Secondo Peter Lang e i suoi collaboratori, “il vigore del riflesso di trasalimento varia sistematicamente al variare dello stato emotivo di un organismo […] [L]a reazione di trasalimento (un riflesso avversivo) è aumentata in uno stato di paura e diminuita in un contesto emotivo piacevole”.24 Baird indica la “scena minacciosa” come prova della comprensione (del tutto consapevole o soltanto intuitiva) di questo aspetto da parte dei registi di film horror. In questo tipo di scena, un personaggio è presentato come spaventato da una minaccia indeterminata, invisibile, fuori campo. Dopo aver raffigurato l’ansia del personaggio, lo spazio immediatamente circostante il personaggio è soggetto a un’intrusione improvvisa, tipicamente da una direzione o in modo imprevedibile. La fase di minaccia della sequenza ci predispone alla reazione di trasalimento: in uno stato di ansia e paura, siamo più inclini a trasalire. (Baird suggerisce che questa sia la ragione per cui troviamo l’effetto di trasalimento più frequentemente nei film horror e nei thriller che non in qualsiasi altro contesto cinematografico.) Le scene di minaccia svolgono dunque una funzione di bilanciamento fra la preparazione e la diversione: si crea uno stato d’animo di inquietudine e paura, ma nel quadro di questo ampio contesto affettivo la nostra attenzione risulta dislocata, nel momento critico, in rapporto alla posizione spaziale precisa della minaccia. Baird analizza la scena dell’autobus in Il bacio della pantera come un importante esempio storico della scena di minaccia. Ve253
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diamo Alice (Jane Randolph) camminare per strada di notte. Si accorge che è seguita da qualcuno o qualcosa e guarda ripetutamente verso la parte sinistra dello schermo. Dopo che questo schema è stato iterato per qualche secondo, un autobus entra bruscamente e rumorosamente dal lato destro. La sequenza di Iron Man è più simile a questo antecedente di quanto non lo sia quella di Ran: nel primo caso siamo messi in allerta dalla conoscenza generale sulle zone di guerra e più in particolare dalla conoscenza sugli attacchi ai convogli militari in Afghanistan. L’atmosfera rilassata nel veicolo – l’improbabile cocktail di Stark, la musica martellante degli ac/dc, l’affaccendarsi scherzoso alla preparazione della foto – è pensata per distrarci dalla possibilità di un attacco; la nostra attenzione visiva, in particolare, è (ingannevolmente) diretta sulla destra dell’inquadratura (dove il fotografo tiene la macchina fotografica) e lontano dal suo centro (dove il veicolo che ci sta di fronte esploderà). Nella sequenza di Ran il senso di minaccia è in una qualche misura smorzato e livellato dalla sospensione del suono diegetico, e la pallottola fatale è visivamente meno intrusiva dell’autobus (in Il bacio della pantera) o del missile (in Iron Man); anche così, tuttavia, gli elementi fondamentali (il personaggio, la minaccia implicita e l’intrusione improvvisa) sono tutti presenti. Esistono anche prove che la reazione di trasalimento possa essere soggetta a variazioni culturali più idiosincratiche ed elaborate. Soggetti di cultura malese, di quella indonesiana e di altre culture del Sudest asiatico contemplano una condizione chiamata latah, traducibile grossomodo con “sulle spine”.25 Coloro che sono affetti da questa condizione sembrano avere una marcata e innata predisposizione a trasalire, ma tale predisposizione va di pari passo con alcuni comportamenti appresi (inscenare la reazione di trasalimento) attraverso una “corrispondenza” (l’imitazione dell’evento che fa trasalire) e un’obbedienza “automatica” a un comando che fa seguito al trasalimento. In un’intervista con l’antropologo Ronald Simons, Cik Alimah binti Mamad descrive così il comportamento di una latah: Quando se ne sta seduta tranquillamente, se prendiamo un pezzo di legno e lo sbattiamo da qualche parte, o la sgomitiamo ripetutamente, allora diventa latah. Lei trasalisce! Allora se le ordiniamo di colpire
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o ballare, lei colpirà o ballerà. E farà tutto ciò che le diremo di fare con ciò che ha in mano. Chiunque si trovi di fronte a lei sarà colpito. Ecco che cosa fa una latah!26
In qualche misura la condizione di latah assomiglia alla pratica di inscenare reazioni di trasalimento e paura nel pubblico occidentale dei film horror, specialmente nelle adolescenti, per quanto in questo contesto la pratica non si sia sviluppata in maniera così elaborata e sembri essere limitata al luogo e al momento della proiezione. Da una parte la condizione di latah sembra radicata nella reazione di trasalimento; dall’altra essa sembra piuttosto un’estensione culturale di tale reazione, in cui gli effetti dell’apprendimento e del contesto risultano evidenti. “Quanto più ravvicinata (in microsecondi) è una reazione, tanto più essa sarà innata, ‘cablata’”, sostiene Baird; “all’opposto, quanto più distante è il suo insorgere, tanto più l’apprendimento, il contesto e la personalità [influenzeranno] il comportamento”.27 Come nelle sequenze filmiche discusse in precedenza, non è difficile, in teoria e in pratica, riconoscere sia la base fisiologica invariante sia le variazioni ottenute attraverso particolari usi ed elaborazioni culturali della reazione di trasalimento. Per questa ragione possiamo riconoscere che una tale reazione ci “cabla nel mondo” senza negare che essa sia soltanto una parte di quel repertorio cognitivo e comportamentale, immensamente complesso e flessibile, che gli esseri umani posseggono. BRIVIDI SPECCHIO
Un altro elemento in questo repertorio è l’insieme delle capacità interconnesse solitamente raccolte sotto l’etichetta di empatia – un termine utilizzato per fare riferimento a una varietà di fenomeni, a partire dallo sforzo immaginativo consapevole dell’“adottare la prospettiva” o mettersi nei panni di qualcun altro, sino all’imitazione affettiva e al contagio emotivo, per cui “afferriamo” le emozioni degli altri attraverso un processo imitativo di livello basilare, inconscio e involontario.28 Si tratta di uno degli ambiti in cui la scoperta dei neuroni specchio è stata particolarmente significativa. I neuroni specchio si attivano sia quando i soggetti compiono una certa azione sia quando osservano qualcun altro compiere 255
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l’azione. Esistono prove scientifiche che un “sistema di rispecchiamento” neurale è presente negli esseri umani e si attiva rispetto a esperienze “somatosensorie” (sensazioni tattili, propriocettive e legate al dolore), azioni elementari (afferrare oggetti, premere interruttori), ed emozioni basilari (compresi il disgusto e la tristezza).29 Il sistema specchio è dunque il sostrato neurale che realizza le nostre capacità di imitazione sensoriale, motoria e affettiva – vale a dire la modellizzazione delle emozioni basilari e delle azioni intenzionali degli altri mediante la simulazione, ossia l’esecuzione di questi stati nelle nostre menti incarnate. Queste capacità sembrano, a loro volta, svolgere un ruolo cruciale rispetto al carattere fortemente sociale dell’esistenza umana: l’imitazione sensoriale e affettiva permette una comprensione rapida, quasi immediata, degli stati affettivi elementari degli individui e dei gruppi con cui interagiamo, mentre l’imitazione motoria accresce non solo la nostra capacità di riconoscere facilmente le intenzioni degli altri (poiché esse risultano incorporate nelle loro azioni elementari), ma anche la nostra capacità di apprendere nuove abilità motorie (per esempio nell’attività sportiva o musicale, ma anche in pratiche più ordinarie). In questo contesto, come ha scritto Margrethe Bruun Vaage, vedere è sentire: il sistema specchio ci permette di simulare le sensazioni, le emozioni, i movimenti e le azioni di coloro che osserviamo.30 I neuroni specchio non sono specifici degli esseri umani – anzi, essi furono inizialmente scoperti nei macachi; la ricerca sui neuroni specchio negli esseri umani è ancora in una fase iniziale (e sotto vari aspetti controversa). L’estensione della scoperta – dai macachi agli umani – evidenzia tuttavia, e a ben vedere riassume metaforicamente, la continuità delle specie. Sebbene gli esseri umani si siano significativamente evoluti – biologicamente e culturalmente – in una direzione distintiva, continuiamo a condividere molti antichi tratti fisiologici, psicologici e comportamentali con altre specie animali, in particolare i primati (come sottolineato da Darwin in L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali).31 Questo è un esempio importante di quanto sia proficuo situare il comportamento umano nel contesto del comportamento degli altri animali:32 se i neuroscienziati non avessero formulato e verificato ipotesi sugli umani basate su caratteristiche e comportamenti di animali non umani, nessuno avrebbe mai esplorato l’e256
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sistenza e la natura del sistema dei neuroni specchio nell’uomo. Attualmente tuttavia la questione cruciale sui neuroni specchio e sull’imitazione sensoriale, motoria e affettiva che essi implementano e attivano non consiste tanto nel fatto che questi neuroni ci legano ai nostri antenati e cugini sul piano evolutivo, quanto piuttosto che ci “cablano” gli uni negli altri. Nelle parole di Vittorio Gallese, Christian Keysers e Giacomo Rizzolatti – figure chiave nella scoperta dei neuroni specchio – questi neuroni permettono una forma “diretta ed esperienziale” di comprensione delle emozioni e delle azioni dei nostri conspecifici.33 Nelle parole di Marco Iacoboni, un altro membro della cerchia di ricercatori italiani che lavorano sui neuroni specchio, “empatizziamo senza sforzo e automaticamente con gli altri perché l’evoluzione ha selezionato dei sistemi neurali che legano le nostre azioni, intenzioni ed emozioni a quelle degli altri […] [L]a nostra neurobiologia […] ci mette ‘gli uni dentro gli altri’”.34 Come nel caso della reazione di trasalimento, i cineasti non hanno esitato a sfruttare questa capacità. 127 ore (Danny Boyle, 2011) offre un esempio recente ed efficace del modo in cui il cinema può sfruttare la nostra capacità di rispecchiare le esperienze altrui. Il film racconta la storia vera di Aron Ralston (interpretato da James Franco), uno scalatore che si avventura, in solitaria, in un viaggio in bicicletta e in un’arrampicata nel deserto dello Utah. Mentre attraversa uno stretto crepaccio, a causa della caduta di un masso, il suo braccio resta intrappolato contro la parete della gola. Fin dall’inizio il film punta sull’espressione delle esperienze sensoriali di Ralston – il ritmo intenso della sua vita, il piacere che deriva dall’andare in bicicletta e dall’arrampicarsi, il calore secco del paesaggio desertico sudoccidentale, e così via. I titoli di testa di 127 ore consistono in un montaggio di eventi collettivi di massa, eventi sportivi come una maratona, la corsa dei tori a Pamplona, una gara di nuoto. È significativo dal nostro punto di vista che, durante queste scene di spettacoli sportivi, sia data agli spettatori quasi la stessa importanza dei protagonisti degli eventi. I gesti audaci e gli stati spesso estremi vissuti durante le azioni sportive forniscono al cinema un terreno fertile per rendere le nostre reazioni di rispecchiamento particolarmente salienti. Le varie forme di empatia – sensoriale, motoria e affettiva – ovviamente non sono suscitate unicamente dall’assistere a imprese 257
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sportive; qualsiasi forma di azione fisica, espressione o esperienza sensoriale può funzionare come un innesco di rispecchiamento empatico. Ma non è casuale che molti film impernino la propria drammaturgia su sfide sportive.35 Insieme ai film d’azione, i film sullo sport sono uno dei terreni privilegiati per la generazione di quelli che potremmo chiamare “brividi specchio” – intense sensazioni corporee innescate da quelle dei personaggi sullo schermo. Nel climax di 127 ore i brividi specchio sono presenti in forma concentrata. In questo punto della storia Ralston è intrappolato nel canyon da ormai cinque giorni. La sua scorta d’acqua è terminata, comincia a sopravvenire il delirio da sfinimento e non c’è alcuna realistica prospettiva di venire trovato da altri escursionisti o scalatori, dato che si trova in un punto remoto e sconosciuto. Ralston si ritrova di fronte a una scelta disperata: morire da solo nel canyon per sfinimento e disidratazione o trovare un modo di liberarsi da solo dal masso che lo imprigiona. Ralston sceglie la sopravvivenza – decidendo di amputarsi il braccio bloccato usando un coltellino. Il film si prende tutto il tempo per farci sentire il carattere straziante di questa situazione – ovvero sia il dolore fisico del braccio incastrato, sia più in generale l’ansia che deriva dalla situazione di prigionia solitaria e di morte imminente nel canyon. Nel momento culminante dell’amputazione tutti e tre i tipi di rispecchiamento entrano in gioco, poiché Ralston è al tempo stesso soggetto e oggetto della scena. Vale a dire che il film ci invita a rispecchiare sia le sensazioni del braccio intrappolato e agonizzante (il peso costante del masso, il tagliarsi e il lacerarsi della pelle, il rompersi dell’osso); sia gli strenui sforzi – le azioni motorie – di Ralston che contorce il suo corpo in modo da rompere il braccio e liberarsi; sia le sue espressioni, facciali e vocali, di dolore (figura 8.3). Che cosa potrebbe dire Tallis dell’importanza che attribuisco ai neuroni specchio nella spiegazione della nostra esperienza di 127 ore? Gli scritti di Tallis e le sue tesi sulla distanza fra gli esseri umani e il resto del regno animale sono costellati di discussioni della fisiologia umana, neurofisiologia inclusa. Tuttavia, a causa della sua insistenza sugli aspetti più sofisticati della cognizione umana, Tallis rischia di fornire un’immagine caricaturale della psicologia umana e del posto occupato dall’uomo nel mondo naturale. Prestare attenzione al ruolo “subpersonale” dei vari sistemi neurali discussi in questa sede ci aiuta a correggere questa caricatura. Come abbiamo 258
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Figura 8.3 127 ore (127 Hours, D. Boyle, usa/Regno Unito 2010).
visto gli esseri umani sono “cablati nel mondo” nel senso che le reazioni umane sono, in larga parte, spontanee e irriflesse. Le reazioni inconsce e autonome e i riflessi fisiologici rappresentano soltanto un estremo della gamma di tipi di reazioni umane, ma difficilmente possono essere ignorati. Più precisamente, gli esseri umani – al pari dei membri di molte altre specie – sono “cablati” nelle menti dei loro simili per mezzo delle capacità di imitazione somatosensoriale, motoria e affettiva realizzate dai neuroni specchio. Queste capacità ci permettono di tener traccia, quasi senza sforzo, degli stati emozionali elementari delle persone che ci circondano e ci aiutano a imitare e apprendere nuove abilità motorie. Certamente queste capacità non descrivono esaustivamente la mente umana, né possono essere considerate paradigmatiche di ogni tipo di attività mentale. Tuttavia non possono nemmeno essere accantonate come aspetti banali o irrealistici del repertorio comportamentale umano. E QUINDI?
Vorrei concludere proponendo alcune riflessioni in risposta a una questione che è al tempo stesso una buona domanda e una domanda inevitabile: che cosa esattamente gli aspetti neuroscientifici dei casi che ho analizzato aggiungono alla nostra comprensione? Che cosa possiamo imparare sulla reazione di trasalimento e sul rispecchiamento empatico che non sapevamo già o che non avremmo 259
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potuto sapere, mediante le fonti di conoscenza a nostra disposizione (incluse la riflessione sulla nostra esperienza, lo studio delle pratiche e delle dichiarazioni dei registi e le teorie psicologiche di questi fenomeni)? Innanzitutto impariamo qualcosa in merito all’esistenza stessa di tali fenomeni. L’empatia è stata a lungo discussa come se fosse qualcosa di speculativo; l’evidenza del sistema mirroring è una nuova tipologia di prova scientifica a favore della sua esistenza. In tal senso la scoperta dei neuroni specchio è comparabile all’emergere delle prove dell’esistenza dei bosoni di Higgs. In entrambi i casi l’evidenza sperimentale ha fornito un supporto empirico ai postulati teorici. La reazione di trasalimento può apparire meno fragile come postulato, data la netta evidenza che deriva dall’esperienza ordinaria. Ma ciò che non risulta ovvio da questa esperienza o dalle riflessioni degli autori, dei critici o degli spettatori, è la precisa natura del trasalimento con cui tutti abbiamo familiarità. In che modo la reazione di trasalimento è realizzata fisiologicamente e neuralmente? In quale misura e in quali modi è influenzata dall’apprendimento e dal contesto culturale? In che modo questi fattori influenzano il ruolo della reazione di trasalimento nella nostra esperienza dei film? L’esperienza e la riflessione sono fondamentali, ma l’osservazione controllata e gli esperimenti aggiungono un livello di dettaglio ulteriore e più definito alla nostra comprensione del mondo. Questo fatto ci conduce al secondo modo in cui le neuroscienze aggiungono qualcosa di nuovo alle conoscenze che già possediamo dei fenomeni psicologici quali la reazione di trasalimento e il rispecchiamento empatico. L’evidenza neurale getta luce sulle sfumature funzionali di questi fenomeni che l’esperienza e la riflessione ordinarie eludono.36 In tal senso le neuroscienze sono come qualsiasi altro tipo di osservazione scientifica che trascende i limiti della percezione umana ordinaria; gli strumenti di scansione cerebrale si aggiungono al telescopio, al microscopio, al fermo immagine, alla fotografia a raggi X e così via – tutte tecnologie che ci permettono di osservare nuovi aspetti del mondo o di apprezzare aspetti conosciuti con maggior dettaglio. Le neuroscienze possono dunque fornire importanti evidenze dell’esistenza di un certo processo psicologico e offrirci un’immagine più ricca del carattere di tale processo. Queste due considerazioni prese congiuntamente suggeriscono una risposta al dubbio, 260
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sollevato da Davies e da altri, per cui l’evidenza neurale potrebbe non offrirci altro che un “resoconto dell’implementazione” – vale a dire l’idea secondo cui ciò che apprendiamo dalle evidenze neurali è solo che certi tipi di cognizione dipendono da questa o quella parte del cervello, senza che ciò ci dica nulla sul carattere di questi tipi di cognizione o sul valore che attribuiamo a essi nelle nostre teorie artistiche ed estetiche. Una risposta brusca a questo dubbio consiste nel sostenere che l’architettura cognitiva è modellata dall’architettura neurale; oppure, con più cautela, che è metodologicamente incauto trascurare la possibilità che la nostra architettura cognitiva sia significativamente modellata dall’anatomia e dalla chimica del nostro cervello. Il modo in cui pensiamo è modellato dal tipo di cervello che abbiamo; il tipo di mente che possediamo deriva da come si è evoluta la nostra fisiologia.37 Vediamo il mondo nel modo in cui lo vediamo in ragione della fisiologia del nostro sistema visivo: gli animali con strutture di coni differenti discriminano colori differenti nell’ambiente. La ricerca neuroscientifica sulla memoria ha confermato l’ipotesi che questa non è una singola capacità omogenea, bensì un composto di diverse abilità di conservazione di informazioni, supportate da diversi sottosistemi neurali. Tali ricerche mostrano anche quanto intimamente legati siano i processi, apparentemente distinti, della memoria e dell’immaginazione. Le neuroscienze hanno anche permesso di superare la concezione tradizionale dei cinque sensi, sia scomponendo alcuni di questi meccanismi sensoriali in sensi distinti sia evidenziando l’alto grado di interazione fra differenti modalità sensoriali. Come ci appaiono le reazioni di trasalimento e di rispecchiamento alla luce di queste considerazioni sulla relazione fra l’architettura cognitiva e quella neurale? Nel caso del trasalimento abbiamo visto come il “vigore” di questo riflesso varia al variare dello stato d’animo del soggetto ed è in qualche misura influenzato dall’apprendimento; nel caso del rispecchiamento, la ricerca sul cervello ci sta fornendo gradualmente un’immagine di come gli oggetti delle reazioni empatiche (sensazioni, emozioni, azioni) possono variare fra diverse specie animali, e, nel caso degli esseri umani, come possono variare anche in base al contesto e all’esperienza. Nessuna di queste intuizioni traspare dall’esperienza o dalla riflessione sistematica sull’esperienza, sulle abitudini ordinarie e sulle pratiche artistiche. In tutti questi casi l’evidenza 261
IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
neuroscientifica può retroagire sui nostri presupposti concettuali e modificarli, anziché lasciarli invariati. In tal senso, non possediamo una “grammatica” concettuale semplicemente data e del tutto atemporale, una griglia che la ricerca empirica deve limitarsi a riempire facendo riferimento a un “resoconto dell’implementazione”. All’opposto, la ricerca neuroscientifica – e la ricerca empirica più in generale – può spingerci a rivedere e persino abbandonare la mappa concettuale e le assunzioni da cui eravamo partiti. Dobbiamo infine riconoscere un terzo modo in cui le neuroscienze possono contribuire al nostro sapere. Persino quando l’evidenza neurale aggiunge solo pochi dettagli alla nostra immagine di un certo fenomeno e sembra soltanto confermare ciò che già sappiamo, in realtà essa fa o potrebbe fare molto di più. È importante non confondere, in questo caso, la forte novità di un certo corpus di conoscenze scientifiche con il suo valore epistemologico strettamente inteso. I risultati scientifici che derivano da esperimenti rigorosi che confermano ampiamente ipotesi derivate dall’esperienza ordinaria e dalla psicologia del senso comune possono apparire poco attraenti, dal momento che lasciano immutato il paesaggio delle credenze e delle pratiche ordinarie. Tuttavia da un punto di vista epistemologico tali risultati sono significativi poiché aggiungono quel tipo di evidenza sistematica e quantitativa che viene fornita dal metodo scientifico all’evidenza più vaga, non scientifica e soggettiva che è già a nostra disposizione. Il punto qui non è denigrare queste ultime forme di conoscenza, ma soltanto evidenziare il senso limitato in cui possiamo dire di “conoscere già” qualcosa basandoci soltanto su di esse. La conoscenza non deriva soltanto da fulminanti e inaspettate scoperte, ma anche dall’accumulazione graduale e dalla correzione dei dettagli, così come dalla convergenza delle differenti fonti di conoscenza sulle quali ci basiamo. NOTE
1. S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello (1999), tr. it. di P. Pagli e G. De Vivo, Bollati Boringhieri, Torino 2003; V.S. Ramachandran, W. Hirstein, “The science of art: A neurological theory of aesthetic experience”, in Journal of Consciousness Studies, 6-7, 1999, pp. 15-51. 2. U. Hasson, O. Landesman, B. Knappmeyer, I. Vallines, N. Rubin, D.J. Heeger, “Neurocinematica. La neuroscienza del film”, infra, cap. 6. Fra gli
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altri gruppi di ricerca che lavorano su temi simili vi sono Gal Raz, Talma Hendler e i loro colleghi all’Università di Tel Aviv, e il gruppo di ricerca “NeuroCine” di Pia Tikka alla Aalto University di Helsinki. 3. Vedi per esempio R. Bellour, “Deleuze: The thinking of the brain”, in Cinema: Journal of Philosophy and the Moving Image, 1, 2010, pp. 81-94, http://cjpmi.ifl.pt/1-deleuze/ (ultimo accesso 19 novembre 2011). 4. Sull’uso delle scansioni cerebrali come strumento per testare il pubblico vedi C. Silver, “Neurocinema aims to change the way movies are made”, in Wired.com, http://www.wired.com/geekdad/2009/09/neurocinema-aims-to-change-theway-movies-are-made/ (ultimo accesso 19 novembre 2011); su Focus Pocus vedi C. Des Marais, “Video game uses brain to control action”, in TechHive, http://www.pcworld.com/article/241993/video_game_uses_brain_to_control_action.html (ultimo accesso 19 novembre 2011); su MyndPlay vedi C. Burton, “Directed by Brainwave”, in Wired. co.uk, http://www.wired.co.uk/magazine/archive/2011/10/ play/directedby-brainwave (ultimo accesso 19 novembre 2011). 5. B. Johnson, “Scientists turn brain activity into moving images”, in Slate, 9, 2011, http://slatest.slate.com/posts/2011/09/24/scientists_turn_brain_activity_into_ moving_images.html (ultimo accesso 19 novembre 2011). 6. J. Fodor, “Let your brain alone”, in London Review of Books, 19, 1999, pp. 68-69. In uno scambio epistolare successivo alla pubblicazione di questo testo Fodor puntualizza “la differenza fra uno scienziato che ha un’ipotesi e uno che ha soltanto un dispositivo di scansione” (J. Fodor, “Letter to Benjamin Martin Bly”, in Letters, London Review of Books, 1, 2000, http://www. lrb.co.uk/v21/n19/jerry-fodor/diary, ultimo accesso 19 novembre 2011). 7. D.A. Barrett, “Multiple realizability, identity theory, and the gradual reorganization principle”, in British Journal for the Philosophy of Science, 2, 2013, pp. 325-346. 8. M.R. Bennett, P.M.S. Hacker, Philosophical Foundations of Neuroscience, Wiley-Blackwell, Malden (ma) 2003. 9. R. Tallis, Aping Mankind: Neuromania, Darwinitis and the Misrepresentation of Humanity, Acumen, Durham 2011. Tallis ha usato l’espressione “trappola del naturalismo” in una puntata del programma radiofonico Start the Week di bbc Radio 4, in data 21 aprile 2008. Per una discussione più completa della posizione di Tallis sulle neuroscienze e sulla teoria dell’evoluzione vedi una versione precedente di questo saggio pubblicata in Iluminace, 23, 2011, pp. 59-79. 10. R. Tallis, The Knowing Animal: A Philosophical Inquiry into Knowledge and Truth, Edinburgh University Press, Edinburgh 2005. 11. J. Hyman, “Art and neuroscience”, in R. Frigg, M.C. Hunter (a cura di), Beyond Mimesis and Convention: Representation in Art and Science, Boston Studies in the Philosophy of Science 262, Springer, Dordrecht-London 2010, pp. 245-261. 12. Hyman allude chiaramente alla serie televisiva americana Baywatch (1990-1999) e alle sue icone di esagerata bellezza fisica – specialmente nella variante femminile, incarnata da Pamela Anderson. Colin McGinn propo-
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ne la stessa critica in una recensione del libro di V.S. Ramachandran L’uomo che credeva di essere morto e altri casi clinici sul mistero della natura umana (2011), Mondadori, Milano 2012, che include un capitolo sull’estetica: “La discussione sull’arte sembra riguardare in larga parte tutt’altra questione – ciò che suscita l’attenzione umana” (C. McGinn, “Can the brain explain your mind?”, in The New York Review of Books, http://www.nybooks.com/ articles/archives/2011/mar/24/can-brain-explain-your-mind/, ultimo accesso 19 novembre 2011). 13. V. Bergeron, D. McIver Lopes, “Aesthetic theory and aesthetic science: Prospects for integration”, in A.P. Shimamura, S.E. Palmer (a cura di), Aesthetic Science: Connecting Minds, Brains, and Experience, Oxford University Press, New York 2012, pp. 63-79. 14. D. Davies, “‘This is your brain on art’: What can philosophy of art learn from neuroscience?”, in G. Currie, M. Kieran, A. Meskin, J. Robson (a cura di), Aesthetics and the Sciences of Mind, Oxford University Press, Oxford 2014. 15. Per maggiori dettagli vedi R.C. Simons, Boo! Culture, Experience, and the Startle Reflex, Oxford University Press, New York 1996, pp. 9-15; e M. Davis, “The mammalian startle response”, in R.C. Eaton (a cura di), Neural Mechanisms of Startle Behavior, Plenum Press, New York 1984, pp. 287-351. 16. J.M. Castellote, H. Kumru, A. Queralt, J. Valls-Solé, “A startle speeds up the execution of externally guided saccades”, in Experimental Brain Research, 1, 2007, pp. 129-136. 17. R. Baird, “The startle effect: Implications for spectator cognition and media theory”, in Film Quarterly, 3, 2000, pp. 12-24. 18. Di fatto l’inizio dell’esplosione è visibile sia nella prima sia nella seconda di queste tre inquadrature. Ma non si tratta di un caso di vero montaggio “con sovrapposizione” nel senso ejzenstejniano, poiché la brevissima sovrapposizione non risulta consciamente percepibile in condizioni di visione normali. È tuttavia molto probabile che la sovrapposizione sia registrata inconsciamente e che possa svolgere un ruolo indiretto nella nostra esperienza conscia dell’azione come rapida, sconnessa e caotica. 19. R. Baird, “The startle effect”, cit., p. 15. 20. Vedi in particolare R. Tallis, The Kingdom of Infinite Space. A Fantastical Journey Around Your Head, Atlantic, London 2008. 21. Per un approfondimento su questo tema vedi M. Smith, “Triangulating aesthetic experience”, in A.P. Shimamura, S.E. Palmer (a cura di), Aesthetic Science, cit., pp. 80-106. 22. Nel riferirmi a Ran come “libero” adattamento intendo che il film riprende molti elementi dal Re Lear e sembra concepito per richiamare alla memoria l’opera di Shakespeare, ma non vuole esserne un adattamento “fedele” in cui la totale fedeltà all’opera originale è l’obiettivo primario. Vedi P.N. Livingston, “On the appreciation of cinematic adaptations”, in Projections, 2, 2010, pp. 104-127. Livingston segnala l’uso della locuzione “libero adattamento” nei titoli di testa di Fellini – Satyricon (Federico Fellini, Italia 1969).
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“La trappola del naturalismo”
23. R. Baird, “Startle and the film threat scene”, in Images, 3, http:// www.imagesjournal.com/issue03/features/startle1.htm (ultimo accesso 19 novembre 2011). 24. P.J. Lang, M.M. Bradley, B.N. Cuthbert, “Emotion, attention, and the startle reflex”, in Psychological Review, 3, 1990, p. 377, citato in R. Baird, “The startle effect”, cit., p. 20. 25. Secondo Simons versioni di questa “sindrome culturalmente situata” sono distribuite in altri luoghi anche fuori dall’Asia – “nel più improbabile insieme di altri posti sul globo terrestre – Siberia, Maine, Yemen e l’isola di Hokkaido, per citarne solo alcuni”, R.C. Simons, Boo!, cit., p. vii. 26. Ibidem, p. 162. 27. R. Baird, “The startle effect”, cit., p. 21. Vedi anche C. Plantinga, Moving Viewers: American Film and the Spectator’s Experience, University of California Press, Berkeley 2009, p. 119. 28. Sulla distinzione fra imitazione affettiva e contagio vedi M. Smith, “Empathy, expansionism, and the extended mind”, in A. Coplan, P. Goldie (a cura di), Empathy: Philosophical and Psychological Perspectives, Oxford University Press, Oxford-New York 2011, p. 101. Nel caso del contagio non abbiamo consapevolezza (né controllo) non solo del meccanismo mediante il quale individuiamo le emozioni degli altri, ma neppure del fatto che il nostro stato emotivo derivi dagli stati di coloro che ci circondano. 29. Vedi D. Freedberg, V. Gallese, “Movimento, emozione e empatia nell’esperienza estetica” (2007), in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 331-351; C. Keysers, J.H. Kaas, V. Gazzola, “Somatosensation in social perception”, in Nature Reviews, 11, 2010, pp. 417-428; e A. Motluk, “Mirror neurons control erection response to porn”, in New Scientist, 16 giugno 2008, http://www.newscientist.com/article/dn14147-mirror-neuronscontrol-erection-response-to-porn.html (ultimo accesso 19 novembre 2011). 30. M. Bruun Vaage, “Seeing is feeling: Empathy and the film spectator”, Ph.D. dissertation University of Oslo, 2009. 31. C. Darwin, L’espressione dei sentimenti nell’uomo e negli animali (1872), tr. it. di G. Canestrini e F. Bassani, Unione tipografico-editrice, Torino 1878. 32. Su questo principio esplicativo vedi H. Cronin, citata in M. Ridley, The Origins of Virtue: Human Instincts and the Evolution of Cooperation, Penguin, London-New York 1997, p. 156; vedi anche F. de Waal, Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e in altri animali (1996), tr. it. di L. Montixi Comoglio, Garzanti, Milano 2001, pp. 164-167. 33. V. Gallese, C. Keysers, G. Rizzolatti, “A view of the basis of social cognition”, in Trends in Cognitive Sciences, 9, 2004, pp. 396-403. 34. M. Iacoboni, “Within each other: Neural mechanisms for empathy in the primate brain”, in A. Coplan, P. Goldie (a cura di), Empathy, cit., p. 57. 35. Discuto di tali sfide – una partita di tennis nel film di Hitchcock Delitto per delitto – in M. Smith, “Empathy, expansionism, and the extended mind”, cit., pp. 102-103.
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IL DIALOGO CON LE SCIENZE SPERIMENTALI
36. Sull’integrazione di evidenze fenomenologiche, psicologiche e neurologiche vedi M. Smith, “Triangulating aesthetic experience”, cit. 37. Su questo tema vedi D.C. Dennett, La mente e le menti (1997), tr. it. di I. Blum, Sansoni, Firenze 1997, in particolare il capitolo 3.
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PARTE TERZA
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
9 GRAMMOFONO, FILM, MACCHINA DA SCRIVERE Friedrich Kittler
Friedrich Adolf Kittler (1943-2011), nato in Sassonia e nel 1958 fuggito con la sua famiglia dall’Est all’Ovest della Germania, studia Filologia romanza e Filosofia all’Università Albert Ludwigs di Friburgo in Brisgovia, dove consegue il dottorato in Filosofia nel 1976 con un saggio sul poeta Conrad Ferdinand Meyer e avvia la propria carriera accademica. Ottiene l’abilitazione all’insegnamento nel 1984 con un saggio che diverrà la sua opera principale, Discourse Networks 1800/1900 (Aufschreibesysteme, tradotto in inglese nel 1999), sulle “tecnologie e istituzioni che consentono a una data cultura di selezionare, immagazzinare e produrre informazioni rilevanti”. Fra il 1982 e il 1986 è professore invitato in diverse università degli Stati Uniti, fra cui la University of California, Berkeley, la University of California, Santa Barbara e la Stanford University, nonché all’Università di Basilea. Dal 1986 al 1990 ha diretto il progetto “Literature and Media Analysis” alla Deutsche Forschungsgemeinschaft a Kessel. Nel 1987 si trasferisce alla Ruhr-Universität Bochum come professore di Letteratura tedesca moderna. Dal 1993 al 2008 è professore di Estetica e storia dei media alla Humboldt Universität di Berlino, dove ha insegnato anche Media e scienza e Programmazione unix. La sua ricerca si è concentrata sui media tecnologici [Technischen Medien] e sulle tecniche culturali [Kulturtechniken] con un approccio alternativo a quelli al tempo dominanti della Scuola di Francoforte e dell’ermeneutica di Gadamer e Habermas, influenzato piuttosto dal pensiero di Heidegger, Foucault, Lacan, Shannon, Hegel, Nietzsche, Derrida, Turing, McLuhan, Innis, Virilio e perfino dallo scrittore Thomas Pynchon. La sua prima opera rilevante nell’ambito dei media è Grammophon Film Typewriter (Brinkmann & Bose, Berlin 1986), tradotta in inglese nel 1999 dopo la pubblicazione di Literature, Media, Information Systems: Essays (opa, Amsterdam 1997; Routledge, London-New York 2012); a essi seguirà Optical Media: Berlin Lectures 1999 (Polity, Cambridge-Malden [ma] 2009). Nella sua vastissima e variegata produzione scientifica, si segnala il più recente Die Wahrheit 269
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
der technischen Welt: Essays zur Genealogie der Gegenwart (Suhrkamp, Berlin 2013, tr. ingl. The Truth of the Technological World: Essays on the Genealogy of Presence, Stanford University Press, Stanford 2014). Il saggio che presentiamo è l’introduzione al volume Grammophon Film Typewriter (1986) e riassume bene non solo le linee principali del libro ma più ampiamente i temi portanti del pensiero di Kittler. La lettura è resa complessa dallo stile “cinematografico” della scrittura kittleriana, che procede intenzionalmente per frasi secche e aforismi montati in flashback e flashforward. Cercheremo in questa introduzione di riordinare linearmente lo sviluppo del ragionamento. Abbiamo inoltre aggiunto al testo alcuni titoletti che servano al lettore per orientarsi. Il tema centrale della ricerca di Kittler è l’evoluzione dei sistemi di trattamento dell’informazione che caratterizzano un certo ambiente culturale: l’autore parla a questo proposito di rete discorsiva (Aufschreibesysteme, termine tradotto in inglese come discourse network) e sottolinea il ruolo determinante al suo interno delle concrete tecnologie e dunque degli aspetti materiali gestiti dalle istituzioni. Questa posizione presenta almeno tre implicazioni di rilievo: anzitutto un dialogo con Michel Foucault e la sua idea di episteme/dispositivo (su cui vedi più avanti il saggio di Albera e Tortajada); poi un recupero di pensatori “irregolari” come Harold Innis e Marshall McLuhan; infine un ruolo fondativo per una larga parte dell’archeologia dei media (per la quale rimandiamo al saggio di Huhtamo e Parikka in questa stessa sezione). Nella storia dei media moderni si evidenziano tre tipi successivi di rete discorsiva. Quella dell’Ottocento è dominata dalla parola scritta, sia essa chirografica o tipografica. La logica che la attraversa è quella di una smaterializzazione e di una spiritualizzazione della trasmissione di informazioni: la parola si trasforma istantaneamente in voce e in immagine allucinatorie. La continuità temporale della fonazione orale viene dunque scomposta e ricomposta grazie al fatto che il medium del processo (la scrittura) resta invisibile. Questi aspetti vengono svolti da Kittler nei paragrafi che abbiamo titolato “Scrittura” e “Lettura”. La rete discorsiva del Novecento passa dai media chiro e tipografici ai media elettrici, e rompe quindi i precedenti equilibri: il fonografo e il cinematografo catturano ora direttamente il flusso temporale dei suoni e delle immagini, mentre la macchina da scrivere rende visibile la materialità delle lettere dell’alfabeto. La grande disillusione che ne deriva corrisponde a una perfetta visibilità sociale delle tre grandi categorie lacaniane: il reale (fonografo), l’immaginario (film) e il simbolico (macchina da scrivere). Il lettore troverà esposte queste idee nei paragrafi titolati “Elettricità (1)”, “Elettricità (2)” e, appunto, “Fonografo, film, macchina da scrivere”. La rete discorsiva del xxi secolo (che Kittler abbozza qui in maniera ancora incerta e che svilupperà nei lavori successivi) è quella dei media elettronici e digitali. Due idee appaiono dominanti. In primo luogo nella nuova 270
Grammofono, film, macchina da scrivere
situazione la scrittura (il simbolico) assume il comando e riassorbe gli altri media nella forma del digitale – determinando di fatto la fine della specificità dei singoli media. In secondo luogo i processi di produzione, elaborazione, archiviazione, trasmissione e visualizzazione o auricolarizzazione delle informazioni vengono progressivamente accelerati, e questo grazie a un ruolo crescente dell’industria militare nel campo della comunicazione. Lo spettacolo è ormai un sottoprodotto della guerra – come emerge dai paragrafi “Digitale 1” e “Digitale 2” che aprono e chiudono il saggio. DIGITALE (1)
Reti in fibra ottica. Saremo agganciati a una rete di comunicazione che potrà essere utilizzata per qualunque medium – per la prima volta nella storia, oppure per l’ultima. Quando film e musica, segnali telefonici e testi raggiungeranno le nostre case attraverso cavi in fibra ottica, i media un tempo distinti di televisione, radio, telefono ed e-mail convergeranno, uniformati in frequenza di trasmissione e in formato di bit. Il canale ottico-elettronico in particolare sarà immune alle interferenze che potrebbero randomizzare i graziosi pacchetti di dati dietro le immagini e i suoni. Sarà immune, dunque, alla bomba atomica. Come è noto, le esplosioni nucleari emanano impulsi elettromagnetici (emp) che passano attraverso i tradizionali cavi in rame, infettando tutti i computer collegati. Il Pentagono è impegnato in un piano lungimirante: soltanto la sostituzione dei cavi metallici con quelli in fibra ottica può sostenere gli altissimi ritmi e l’enorme mole di bit che la guerra elettronica richiede, impiega e celebra. Tutti i sistemi di allarme rapido, le installazioni radar, le basi missilistiche e i corpi militari in Europa (“la costa opposta”)1 saranno finalmente connessi a computer protetti dagli emp e resteranno dunque operativi in tempo di guerra. Nel frattempo, il divertimento viene costruito quale prodotto derivato: grazie a questo canale, saremo liberi di navigare tra diversi media destinati all’intrattenimento. Dopotutto la fibra ottica trasmette qualunque messaggio immaginabile eccetto l’unico che conti veramente: la bomba atomica. Prima della fine qualcos’altro sta per giungere alla fine. La generale digitalizzazione dei canali e dell’informazione cancella le differenze tra i singoli media. Suono e immagine, voce e testo sono ridotti a effetti di superficie, noti ai consumatori come “interfacce”. Senso e sensi si vaporizzano. La loro fascinazione media271
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
tica sopravvivrà per qualche tempo come prodotto derivato di programmi strategici. All’interno dei computer tutto diventa numero: quantità priva di immagine, suono o voce. E una volta che le reti di fibra ottica avranno trasformato quelli che prima erano flussi distinti di dati in una serie standardizzata di numeri digitalizzati, qualunque medium potrà essere tradotto in un altro. Con i numeri tutto scorre a briglia sciolta. Modulazione, trasformazione, sincronizzazione; latenza, archiviazione, trasposizione; codificazione, scansione, mappatura – un aggregato mediatico globale su base digitale eliminerà il concetto stesso di medium. Invece di connettere persone e tecnologie, la conoscenza assoluta scorrerà in un circolo senza fine. ELETTRICITÀ (1)
Ma i media esistono ancora; ed esiste ancora l’intrattenimento. Gli standard odierni prevedono connessioni mediatiche parziali che risultano ancora comprensibili nei termini di McLuhan. Secondo quest’ultimo il contenuto di un medium coincide sempre con altri media: film e radio costituiscono il contenuto della televisione; tracce e registrazioni sonore quello della radio; pellicole mute e nastri magnetici quello del cinema; testi, telefono e telegramma quello del monopolio semi-mediale del sistema postale. A partire dagli inizi del Novecento, con lo sviluppo della valvola termoionica da parte di Von Lieben in Germania e di De Forest in California, è divenuto possibile amplificare e trasmettere segnali. Di conseguenza, le grandi reti mediatiche, esistenti fin dagli anni Trenta, hanno potuto fare affidamento su tre media di archiviazione – scrittura, cinema e fotografia – per stabilire connessioni ed emettere liberamente il proprio segnale. Queste connessioni, tuttavia, sono mantenute separate da canali di trasmissione incompatibili e da formati di dati differenti. Ciò che è elettrico non è necessariamente elettronico. All’interno dello spettro del flusso generale di dati, televisione, radio, cinema e servizio postale rappresentano finestre singole e delimitate per la percezione sensoriale degli individui. Le radiazioni infrarosse o le risonanze radio di un missile in avvicinamento sono ancora propagate da altri canali, a differenza di quanto accadrà nel futuro con le reti in fibra ottica. I nostri sistemi mediatici si limitano a 272
Grammofono, film, macchina da scrivere
distribuire le parole, i suoni e le immagini che possono essere trasmesse e ricevute; ma non elaborano questi dati. Non producono un output che, sotto il controllo di un computer, trasforma qualunque algoritmo in qualunque effetto di interfaccia, fino a perdere ogni criterio di buon senso. A oggi l’unica cosa a essere elaborata è la qualità di trasmissione dei media di archiviazione, che si manifesta nelle connessioni mediatiche come nel contenuto dei media stessi. Un compromesso tra ingegneri e commercianti regola quanto scarsa debba essere la qualità del suono che proviene da un televisore, quanto indistinte debbano apparire le immagini di un film o quanto una voce a noi cara debba essere filtrata in una comunicazione telefonica. Le nostre percezioni sensoriali sono la variabile dipendente all’interno di questo compromesso. Un volto e una voce che rimangono calmi, anche quando fronteggiati nel corso di un dibattito televisivo da un avversario di nome Richard M. Nixon, vengono giudicati telegenici e possono vincere una corsa presidenziale, come nel caso di Kennedy. Voci che un primo piano visivo rivelerebbe come infide vengono invece definite radiogeniche e dominano il VE 301, il Ricevitore radiofonico del popolo della Seconda guerra mondiale. Perché, come comprese un discepolo di Heidegger tra i primi esperti di radio tedeschi, “la morte è primariamente un tema radiofonico”.2 Ma queste percezioni sensoriali hanno dovuto innanzitutto essere costruite. Affinché i media possano entrare in connessione e conquistare un predominio, è necessaria una coincidenza in senso lacaniano: il fatto che qualcosa cessi di non scrivere se stessa. Prima dell’elettrificazione dei media, e ben prima del loro approdo all’elettronica, vi erano apparati modesti, meramente meccanici. Incapaci di amplificare o trasmettere, essi furono tuttavia i primi a immagazzinare dati sensoriali: i film muti memorizzavano sguardi, e il fonografo di Edison (che, a differenza del più tardo grammofono di Berliner, era in grado tanto di registrare quanto di riprodurre) memorizzava suoni. Il 6 dicembre 1877 Edison, a capo del primo laboratorio di ricerca nella storia della tecnologia, presentava al pubblico il prototipo del fonografo. Il 20 febbraio 1892, lo stesso laboratorio in Menlo Park (nei pressi di New York) aggiungeva il cosiddetto kinetoscopio. Tre anni dopo i fratelli Lumière in Francia e gli Skladanowsky in Germania non ebbero che da incorporare uno 273
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
strumento di proiezione per trasformare l’invenzione di Edison nel cinema. A partire da quella svolta epocale siamo entrati in possesso di tecnologie di archiviazione capaci di registrare e riprodurre il flusso temporale dei dati acustici e visivi. Orecchie e occhi sono diventati autonomi. E questo ha cambiato lo stato della realtà più dell’avvento della litografia e della fotografia, che (secondo le tesi di Benjamin) nei primi decenni del diciannovesimo secolo hanno semplicemente sospinto l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. I media “definiscono ciò che realmente è”;3 essi si collocano sempre e fin dal principio al di là dell’estetica. SCRITTURA
Ciò che fonografi e cinematografi (i cui nomi derivano non a caso dall’ambito della scrittura) furono in grado di immagazzinare era il tempo: il tempo come miscela di frequenze sonore nell’ambito acustico e come movimento di sequenze di singole immagini in quello ottico. Il tempo segna il limite di ogni arte, che deve innanzitutto arrestare il flusso quotidiano di dati per convertirlo in immagini o segni. Lo stile in arte non è altro che il pannello di controllo di questo tipo di scansioni e selezioni. Lo stesso pannello regola anche quelle arti che impiegano la scrittura come un flusso seriale di dati, ossia trasposto nel tempo. Per registrare le sequenze sonore del parlato la letteratura deve catturarle in un sistema di ventuno lettere,4 escludendo categoricamente, in questo modo, ogni sequenza di rumore. Non per nulla questo sistema comprende anche, come sub-sistema, l’insieme delle sette note musicali, le cui diatoniche – dal Do al Si – formano il fondamento della musica occidentale. Raccogliendo uno spunto del musicologo von Hornbostel, sarebbe possibile controllare il caos della musica esotica che assale le orecchie europee servendosi di un fonografo che registri questo caos in tempo reale e che poi lo riproduca al rallentatore. Quando il ritmo inizia a decelerare e “singole misure, persino singole note risuonano individualmente”, l’alfabetismo occidentale con la sua strumentazione può procedere a una “esatta notazione”.5 Testi e partiture: l’Europa non disponeva di altri mezzi per immagazzinare il tempo. Entrambe le modalità sono basate su un 274
Grammofono, film, macchina da scrivere
sistema di scrittura la cui dimensione temporale è (nei termini di Lacan) simbolica. Tramite l’anticipazione e il recupero di dati, questo tempo memorizzava se stesso – come una catena fatta di catene. Tuttavia il tempo che scorreva, in modo cieco e imprevedibile, a livello fisico o (di nuovo nei termini di Lacan) reale, non poteva in alcun modo essere codificato. Perciò ogni flusso di dati, ammesso che fosse effettivamente tale, doveva attraversare la strettoia del significante. Monopolio alfabetico, grammatologia. Se il film chiamato storia viene riavvolto, si trasforma in un circolo senza fine. Quello che presto finirà nel monopolio dei bit e della fibra ottica ha avuto inizio con il monopolio della scrittura. La storia è stato il campo omologato che, come un soggetto accademico, si è occupato solo delle culture basate sulla scrittura. Voci e grafismi sono stati relegati alla preistoria. Se fosse stato altrimenti, storie e storia (entrambe derivanti da historia) non avrebbero potuto essere collegate. Tutti gli ordini e i giudizi, gli annunci e le prescrizioni (militari e giuridici, religiosi e medici) che hanno prodotto montagne di documenti e altrettante di cadaveri, venivano diffusi esattamente tramite lo stesso canale che monopolizzava le descrizioni di quei cumuli. Che è anche il motivo per cui qualunque cosa sia mai accaduta è finita in una biblioteca. E Foucault, l’ultimo degli storici o il primo degli archeologi, ha dovuto solo guardare. Il sospetto che il potere nel suo complesso emanasse dagli archivi e a essi ritornasse poté essere brillantemente confermato, quantomeno entro i domini della legge, della medicina e della teologia. Una tautologia della storia, o il suo calvario. Perché le biblioteche in cui l’archeologo ha potuto trovare materiale così abbondante e così ricco raccoglievano e catalogavano carte estremamente diverse in termini di destinatari, modalità di distribuzione, grado di segretezza e tecniche di scrittura – l’archivio di Foucault come l’entropia di un ufficio postale.6 La scrittura stessa, prima di finire in una biblioteca, è un mezzo di comunicazione, è la tecnologia di cui l’archeologo semplicemente si è dimenticato. È per questo che la sua analisi si interrompe immediatamente prima del momento in cui altri media si sono infiltrati tra gli scaffali delle biblioteche. L’analisi del discorso non poteva essere applicata ad archivi sonori o a torri di bobine cinematografiche. Mano a mano che procedeva la storia era in effetti la “fluttuante proliferazione delle parole”7 di cui parlava Foucault. In modo 275
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più semplice, ma non meno tecnico rispetto ai cavi in fibra ottica di domani, la scrittura funzionava come un medium universale – in tempi in cui il concetto di medium nemmeno esisteva. Qualunque altra cosa veniva distillata attraverso il filtro delle lettere o degli ideogrammi. “La letteratura – ha scritto Goethe – è il frammento dei frammenti; non fu scritto che la minima parte di ciò che avvenne e fu detto, e di ciò che fu scritto solo un’infima parte è rimasta.”8 Per questo la storia orale si trova oggi a fronteggiare il monopolio della scrittura degli storici; per questo un teorico dei media come il sacerdote gesuita Walter J. Ong, che deve avere nutrito un interesse per lo spirito del mistero della Pentecoste, ha potuto celebrare un’oralità primaria delle culture tribali, contrapposta all’oralità secondaria dei nostri media acustici. Una simile ricerca sarebbe rimasta inconcepibile se il contrario di “storia” avesse continuato a portare semplicemente il nome (di nuovo seguendo Goethe) di “saga”.9 La preistoria veniva inghiottita dalla sua denominazione mitica; la definizione di Goethe di letteratura non doveva neppure menzionare flussi di dati ottici o acustici. E persino le leggende, quei segmenti oralizzati di eventi passati, sopravvivevano soltanto in forma scritta; vale a dire, sottostando a condizioni pretecnologiche ma letterarie. Tuttavia il fatto che sia divenuto possibile registrare l’epica degli ultimi bardi omerici, che fino a tempi recenti percorrevano la Serbia e la Croazia, ha consentito a mnemotecniche o culture di tipo orale di essere ricostruite in modo completamente diverso.10 Persino l’Aurora dalle rosee dita di Omero dismette i panni di Dea per trasformarsi in un frammento di diossido di cromo immagazzinato nella memoria del bardo e pronto per essere combinato con altri frammenti, a formare un’epica intera. “Oralità primaria” e “storia orale” videro la luce soltanto con la fine del monopolio della scrittura, come le ombre tecnologiche degli apparati che le documentano. LETTURA
Eppure, la scrittura immagazzinava scrittura – né più né meno di questo. I testi sacri lo testimoniano. Il ventesimo capitolo dell’Esodo contiene una copia di ciò che il dito dello stesso Yahweh aveva originariamente scritto su due tavolette in pietra: la legge. Ma 276
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del tuono e del fulmine, delle nuvole spesse e del suono potente di tromba che, secondo le Scritture, circondarono questo primo atto grafico sul Monte Sinai, la Bibbia stessa non poté conservare che mere parole.11 Ancora meno è stato tramandato degli incubi e delle tentazioni che hanno afflitto un nomade di nome Maometto, durante la sua ascesa al sacro Monte Hira. Il Corano non ha inizio fino al momento in cui il Dio unico prende il posto dei molti demoni. L’Arcangelo Gabriele discende dal settimo cielo portando con sé un rotolo di testo scritto e ordinando di decifrarlo. “Grida, in nome del tuo Signore, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue! Grida! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato all’uomo ciò che non sapeva.”12 Tuttavia Maometto, il nomade, risponde di non sapere leggere; nemmeno il messaggio divino sull’origine della lettura e della scrittura. L’Arcangelo deve ripetere il suo comando prima che un illetterato possa trasformarsi nel fondatore di una religione basata su un libro. Perché presto, o forse troppo presto, il rotolo illeggibile assume significato e presenta agli occhi di un Maometto miracolosamente alfabetizzato lo stesso testo che Gabriele aveva già pronunciato due volte in forma di comando orale. Le illuminazioni di Maometto iniziarono a scaturire, secondo la tradizione, a partire da questa novantaseiesima sura – per poi essere “memorizzate dai fedeli e trascritte su superfici primitive come foglie di palma, pietre, legni, ossa e pellame, e recitate, a ripetizione, da Maometto e da un numero di credenti scelti, specialmente nel corso del Ramadan”.13 La scrittura, dunque, semplicemente annota e porta traccia della sua autorizzazione. Essa celebra il monopolio dell’archiviazione del Dio che l’ha inventata. E dal momento che il regno di questo Dio consiste di segni che soltanto chi non è in grado di leggere non riesce a intendere, tutti i libri sono libri di morti – come quelli egizi che diedero avvio alla letteratura.14 Il libro in sé coincide con il regno dei morti, al di là di tutti i sensi nei quali esso ci attrae. Quando il filosofo stoico Zenone domandò all’oracolo di Delfi come potesse condurre al meglio la sua vita, gli fu risposto di “frequentare i morti. Egli capì che avrebbe dovuto leggere gli antichi”.15 La storia di come le istruzioni divine sull’utilizzo di penna e calamaio si siano estese al di là di Mosè e Maometto per raggiun277
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gere genti sempre più semplici è un lungo racconto che nessuno può scrivere, perché coinciderebbe con la storia stessa. In modo analogo, la capacità di archiviazione dei nostri computer presto coinciderà con la guerra elettronica e, gigabyte su gigabyte, eccederà la capacità di analisi degli storici. È sufficiente accennare al fatto che un giorno – in Germania, probabilmente già negli anni di Goethe – il medium omogeneo della scrittura divenne tale anche nella sfera sociale. L’educazione obbligatoria sommerse gli individui di carta. Questi appresero una modalità di scrittura che, come un “abuso del linguaggio” (secondo Goethe), cessava di lottare con crampi muscolari e singole lettere, ma si svolgeva piuttosto nel rapimento o nell’oscurità. Impararono a leggere “silenziosamente a se stessi”, procurandosi un “misero sostituto della parola parlata”16 che consumava le lettere senza sforzo aggirando gli organi della fonazione. Qualunque cosa emettessero o ricevessero era scrittura. E dal momento che esiste soltanto ciò che può essere esposto, gli stessi corpi finirono soggiogati al regime del simbolico. Quello che oggi è inconcepibile un tempo era realtà: nessun film raccoglieva i movimenti che queste persone compivano o vedevano, nessun fonografo registrava i rumori che esse producevano o ascoltavano: perché tutto quello che esisteva incontrava il proprio limite nel tempo. Silhouettes o disegni a pastello congelavano sulla carta le espressioni del volto, le partiture erano incapaci di immagazzinare il suono. Ma quando la mano impugnava la penna, accadeva qualcosa di miracoloso: il corpo, che non aveva cessato di non scrivere se stesso, lasciava tracce in modo stranamente inevitabile. Mi vergogno a raccontarlo. Mi vergogno della mia grafia. Essa mi mostra in completa nudità spirituale. Nella scrittura sono più nudo di quando sono svestito. Non ossa, non respiro, non vestiti, non suono. Né voce né ombra. Tutto svuotato. Al suo posto, tutta la pienezza di un uomo, raggrinzita e deforme, nel suo scribacchiare. Le sue righe sono il suo residuo e il suo accrescimento. Il dislivello fra il segno lasciato dalla mina e la carta liscia, minimo e appena percettibile dai polpastrelli di un cieco, costituisce l’ultima proporzione che ancora una volta abbraccia tutto l’individuo.17
Oggi questa vergogna che assale l’eroe dell’ultima storia d’amore di Botho Strauss, La dedica, ogni volta che egli osserva la propria 278
Grammofono, film, macchina da scrivere
grafia non è altro che un anacronismo. Il fatto che quel minimo dislivello non possa immagazzinare né la voce né l’immagine di un uomo presuppone in questa stessa esclusione l’invenzione del fonografo e del cinema. Prima dell’avvento di questi ultimi, tuttavia, la sola grafia poteva garantire la perfetta conservazione delle tracce. Scorreva e scorreva, in un flusso di energia potenzialmente ininterrotto. Come Hegel ha correttamente osservato, l’individuo alfabetizzato aveva nel fluire continuo di inchiostro o di lettere “la sua apparenza ed esteriorità”.18 Tutto questo valeva inoltre anche per la lettura. Nonostante l’individuo alfabetizzato conosciuto come “autore” avesse dovuto infine scivolare dalla privata esteriorità della scrittura manuale all’esteriorità anonima della stampa, per mettere al sicuro “ciò che restava di se stesso, così come la sua propagazione”, rimaneva possibile per gli individui alfabetizzati noti come “lettori” rovesciare questa esteriorizzazione. “Se si leggesse nel modo più opportuno – scriveva Novalis – le parole dispiegherebbero in noi un mondo reale, e pienamente visibile.”19 E il suo amico Schlegel aggiungeva: “Si ha l’impressione di ascoltare ciò che si sta solo leggendo”.20 Una perfetta alfabetizzazione era destinata a integrare proprio quei flussi di dati visivi e acustici che, sotto il monopolio della scrittura, non avevano ancora cessato di non scrivere se stessi. Lo sforzo era stato rimosso dall’atto di scrittura, e il suono dalla lettura, così da naturalizzare la scrittura in quanto medium. Le lettere che le persone istruite percorrevano rapidamente con lo sguardo divenivano flussi di immagini e suoni. Sulla scorta dell’educazione obbligatoria e di nuove tecniche di alfabetizzazione, il libro divenne film e registrazione sonora intorno al 1800 – non in quanto realtà tecnologico-mediale, ma nell’immaginario e nell’animo dei lettori. Surrogato di flussi di dati non ancora immagazzinabili, il libro assurse a potere e gloria. 21 Nel 1774 un curatore che rispondeva al nome di Goethe mandò in stampa alcune lettere vergate a mano, sotto il titolo I dolori del giovane Werther. Anche le “folle ignote” (per citare la “Dedica” del Faust) avrebbero ascoltato le “prime note” che, come la “eco morente d’una antica saga”, rinnovavano il “pianto” e l’immagine dei “primi amici”.22 Si trattava della nuova ricetta letteraria per il successo: convertire surrettiziamente la voce o la grafia di un carattere in caratteri a stampa. Nell’ultima lettera che egli scrisse e 279
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sigillò ma non spedì prima del suicidio, Werther consegnò alla sua amata la vera promessa della poesia: nel corso della sua vita ella avrebbe dovuto rimanere con Albert, il marito che non amava, ma alla fine si sarebbe ricongiunta al suo amante “al cospetto dell’Infinito in un eterno amplesso”.23 Proprio così: la destinataria di lettere d’amore autografe, che vennero poi pubblicate da un semplice curatore, doveva essere ricompensata con un’immortalità la cui forma altro non era che lo stesso romanzo. Soltanto in questo modo sarebbe stato possibile creare il “mondo beato”24 in cui gli amanti delle Affinità elettive di Goethe, secondo le speranze del loro narratore, “un giorno si ridesteranno insieme”.25 Curiosamente, Eduard e Ottilie hanno avuto la stessa grafia nel corso della loro vita. La morte li ha elevati a un paradiso che sotto il monopolio di archiviazione della scrittura era chiamato poesia. E forse quel paradiso era più reale di quanto i nostri sensi controllati dai media possano immaginare. Con una certa dose di attenzione, i lettori suicidi di Werther potrebbero davvero avere percepito il loro eroe come presente in un mondo reale e pienamente visibile. E le amanti, tra le lettrici di Goethe, come Bettina Brentano, potrebbero effettivamente avere abbracciato la morte insieme all’eroina delle Affinità elettive soltanto per “rinascere in una più splendida giovinezza” grazie al “genio” di Goethe.26 Forse i lettori perfettamente alfabetizzati del 1800 offrivano una risposta alla domanda con cui Chris Marker conclude il suo film-saggio Sans Soleil: Sperduto in capo al mondo, sulla mia isola di Sal, in compagnia dei miei cani fieri di se stessi, ricordo quel mese di gennaio a Tokyo, o piuttosto ricordo le immagini che ho girato nel mese di gennaio a Tokyo. Adesso si sono sostituite alla mia memoria, sono la mia memoria. Mi chiedo come facciano a ricordare quelli che non filmano, non fotografano, non videoregistrano, come facesse l’umanità a ricordare…27
Lo stesso accade con il linguaggio, che consente soltanto di scegliere se trattenere le parole perdendone il significato oppure, viceversa, di conservare il significato smarrendo le parole.28 Dal momento in cui i media di archiviazione acquisiscono la possibilità di ospitare dati visivi e acustici, la capacità mnemonica degli esseri umani è destinata a scemare. La sua “liberazione”29 coincide con la sua fine. Finché il libro è stato responsabile di ogni flusso seriale di dati, le parole hanno potuto fremere di un’aura sensuale 280
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e memoriale. Era la passione della lettura a generare allucinazioni di significato, che emergevano tra le righe e le lettere: le parole visibili e udibili della poesia romantica. E la passione della scrittura costituiva (nei termini di E.T.A. Hoffmann) il desiderio del poeta di “esprimere” l’allucinata “immagine interiore coi colori più vivi e con le ombre e le luci”, al fine di “colpire il gentil lettore come una scossa elettrica”.30 ELETTRICITÀ (2)
Fu proprio l’elettricità a porre fine a tutto questo. Una volta che ricordi e sogni, fantasmi e defunti furono resi tecnicamente riproducibili, lettori e scrittori non ebbero più bisogno dei poteri dell’allucinazione. Il regno dei morti si era ritirato dai libri, nei quali aveva albergato per così tanto tempo. Come scrisse una volta Diodoro Siculo, “non è più soltanto attraverso la scrittura che i morti rimangono nella memoria di chi vive”. Lo scrittore Balzac fu subito sopraffatto dalla paura nel momento in cui dovette confrontarsi con la fotografia, come confessò a Nadar, il grande pioniere in questo settore. Se (stando a Balzac) il corpo umano consiste in una serie infinita di sottili strati di “spettri”, e se lo spirito umano non può essere creato dal nulla, allora il dagherrotipo deve essere una sorta di sinistro trabocchetto: esso infatti fissa, ossia ruba, uno strato dopo l’altro, fino a che non resta nulla degli spettri e del corpo fotografato che questi costituivano.31 Gli album fotografici fondano un regno dei morti infinitamente più preciso di quello che la loro concorrente, l’impresa letteraria della Commedia umana di Balzac, potesse ambire a creare. A differenza delle arti, i media non devono accontentarsi della griglia del simbolico. Vale a dire, i media ricostruiscono i corpi senza limitarsi a impiegare un sistema di parole, di colori o di intervalli sonori. I media e soltanto i media soddisfano gli “alti standard” che (secondo Rudolf Arnheim) ci attendiamo dalle “riproduzioni” a partire dall’invenzione della fotografia: “Pretendiamo dalle riproduzioni non soltanto la fedeltà all’oggetto, ma anche la garanzia di questa fedeltà: garanzia data dal fatto che si tratta di manifestazioni meccaniche dello stesso oggetto riprodotto. Gli oggetti fotografati imprimono meccanicamente la loro immagine sul negativo sensibile”;32 così come le 281
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curve di frequenza del rumore inscrivono le loro forme ondivaghe sul supporto fonografico. Una riproduzione autenticata dall’oggetto stesso è una riproduzione di precisione fisica. Essa fa riferimento a ciò che è materialmente reale, e che di necessità sfugge dunque a qualunque griglia del simbolico. I media forniscono sempre e in primo luogo le sembianze degli spettri. Perché, seguendo Lacan, persino la parola “corpse” [cadavere] è un eufemismo rispetto al reale.33 Per questo l’invenzione dell’alfabeto Morse nel 1837 fu prontamente seguita dall’avvento degli spettri tamburellanti che nelle sedute spiritiche mandavano i loro messaggi dal regno dei morti. Altrettanto prontamente, le lastre fotografiche – anche e specialmente quelle ottenute scattando con l’otturatore chiuso – iniziarono a fornire riproduzioni di fantasmi o spettri, la cui nebulosità bianca e nera non poteva che sottolinearne la promessa di somiglianza. Infine, una delle dieci applicazioni previste da Edison per il suo fonografo, appena inventato, sulle pagine della North American Review (1878) fu quella di registrare “le ultime parole delle persone morenti”. Soltanto un breve passo separava tali “registrazioni familiari”,34 con la loro speciale considerazione per i redivivi, dalle fantasie che vedevano le cabine telefoniche connettere i vivi e i morti. Ciò che Leopold Bloom nell’Ulisse poté soltanto desiderare nelle sue meditazioni sepolcrali dublinesi era già stato trasformato in fantascienza da Walter Rathenau, presidente del consiglio di amministrazione della aeg e scrittore futurista.35 Nel racconto di Rathenau Resurrection Co., l’amministrazione cimiteriale di Necropolis, Dakota, usa, a seguito di una serie di scandalose sepolture premature verificatesi nel 1898, fonda una società affiliata chiamata “Dakota and Central Resurrection Telephone Bell Co.”, con un capitale sociale di 750.000 dollari. La sua sola funzione è quella di accertarsi che anche agli abitanti delle tombe sia assicurata la connessione alla rete di telefonia pubblica. Il che offre ai morti la possibilità di dimostrare, ben prima di McLuhan, che il contenuto di un medium è sempre un altro medium – in questo caso, una déformation professionelle.36 Al giorno d’oggi, voci paranormali in registrazioni sonore o in radio (i cui precedenti sono stati indagati per via spiritistica fin dal 1959 e vengono preservati nella musica rock a partire dal lancio di Big Science di Laurie Anderson nel 1982)37 informano i propri 282
Grammofono, film, macchina da scrivere
ricercatori riguardo alla loro lunghezza d’onda preferita. Ma si tratta di quanto già avvenuto nel 1898, nel caso del Presidente del Senato Schreber: quando la Lingua fondamentale, paranormale e splendidamente autonoma, rivelò il proprio codice e i propri canali di trasmissione, messaggio e canale divennero una cosa sola.38 “Bisogna soltanto scegliere una stazione che ospiti talk-show su onda media, corta o lunga, oppure il ‘rumore bianco’ tra due stazioni, oppure la cosiddetta ‘onda Jürgenson’, che, a seconda di dove ci si trova, si colloca intorno ai 1450-1600 kHz tra Vienna e Mosca.”39 Riproducendo una traccia sonora registrata dalla radio, si sentiranno tutte quelle voci di fantasmi che non provengono da nessuna stazione radio conosciuta; ma che, come ogni annunciatore che si rispetti, indulgono in una radiofonica forma di autopromozione. In effetti, la collocazione e l’esistenza di quella “onda Jürgenson” vennero determinate nientemeno che da “Friedrich Jürgenson, il Nestore della ricerca vocale”.40 Il regno dei morti è tanto esteso quanto lo sono le capacità di archiviazione e trasmissione di una data cultura. Come ha osservato Klaus Theweleit, i media sono sempre apparecchi in volo lanciati verso il grande Oltre. Se all’inizio della cultura le pietre tombali costituivano dei simboli, la nostra tecnologica mediatica può richiamare in vita tutti gli dei. Gli antichi lamenti scritti sull’effimero, che misuravano nient’altro se non la distanza tra la scrittura e la dimensione dei sensi, sono improvvisamente ridotti al silenzio. Nel nostro panorama mediale, gli immortali hanno riacquistato la loro esistenza. War on the Mind è il titolo di un resoconto sulle strategie psicologiche ordite dal Pentagono. Il resoconto riporta che lo staff impegnato nella programmazione della guerra elettronica, che si limita a proseguire la Battaglia dell’Atlantico,41 ha già compilato una lista dei giorni fausti e infausti presso un certo numero di altre culture. Questa lista consente all’Aeronautica statunitense “di programmare [le sue] sessioni di bombardamento in modo che coincidano con giorni nefasti, ‘confermando’ così le previsioni degli dei locali”. Le voci di questi dei, inoltre, sono state registrate per essere diffuse dagli elicotteri “al fine di mantenere le tribù nei loro villaggi”. E infine, il Pentagono ha sviluppato speciali apparecchi cinematografici in grado di proiettare questi stessi dei su nuvole a bassa quota.42 Un Oltre tecnologicamente implementato… 283
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
FONOGRAFO, FILM, MACCHINA DA SCRIVERE
Naturalmente la lista del Pentagono dei giorni buoni e cattivi non è scritta a mano. La tecnologia da ufficio sta al passo di quella mediatica. Il cinema e il fonografo, i due grandi successi di Edison che inaugurarono il presente, sono completati dalla macchina da scrivere. A partire dal 1865 (secondo i resoconti europei) o dal 1868 (secondo quelli americani), la scrittura non ha più coinciso con la traccia di inchiostro o di matita lasciata da un corpo le cui tracce ottiche e acustiche erano irrimediabilmente perdute, e potevano riaffiorare soltanto (nella mente dei lettori) nella sensualità surrogata della grafia manuale. Perché immagini e suoni potessero essere conservati, la sola tecnologia di archiviazione della Vecchia Europa doveva innanzitutto essere meccanizzata. Hans Magnus Malling Hansen a Copenaghen e Christopher Latham Sholes a Milwaukee misero a punto macchine per scrivere adatte a una produzione su larga scala. Edison si espresse positivamente sul potenziale di questo ritrovato quando a Newark ricevette in visita Sholes, che voleva mostrargli il suo modello appena brevettato e proporre all’uomo che aveva inventato l’idea stessa di invenzione di imbarcarsi in un’impresa comune.43 Edison però declinò l’offerta – come se, nel 1868, il fonografo e il kinetoscopio già preoccupassero il loro futuro ideatore. La proposta fu invece raccolta da un fabbricante d’armi in crisi di entrate a causa del calo di affari che seguì la fine della Guerra Civile. Remington, e non Edison, si prese carico della mitragliatrice verbale di Sholes. Così non vi fu un unico eroe mitologico dal cui arco venissero scoccate tutte e tre le tecnologie mediatiche dell’età moderna. Al contrario, l’inizio della nostra epoca fu segnato dalla separazione e dalla differenziazione.44 Da una parte abbiamo due media tecnologici che, per la prima volta, fissano flussi di dati che non possono essere fissati tramite la scrittura; dall’altra, una “‘cosa intermedia’ (Zwischending) situata tra l’utensile e la macchina”, come Heidegger scrisse in modo così preciso riguardo alla macchina da scrivere.45 Da un lato abbiamo un’industria dell’intrattenimento con le sue nuove seduzioni; dall’altro una forma di scrittura che separa il corpo e la carta nel corso della stessa produzione testuale, e non durante la riproduzione (come avevano fatto i caratteri 284
Grammofono, film, macchina da scrivere
mobili di Gutenberg). Fin dal principio, le lettere e la loro disposizione vennero standardizzati secondo la forma dei caratteri e della tastiera, mentre i media erano inghiottiti dal rumore del reale – la nebulosità delle immagini cinematografiche, il sibilo delle registrazioni sonore. Nei testi standardizzati la carta e il corpo, i caratteri e il carattere, si separano. Le macchine per scrivere non catturano gli individui; le loro lettere non comunicano un Oltre che lettori perfettamente alfabetizzati possano tradurre per via allucinatoria in un significato. Tutto quello che era stato conquistato dai media tecnologici a partire dalle invenzioni di Edison scompare dai dattiloscritti. Il sogno di un mondo reale fatto di immagini o di suoni che sorga dalle parole è infranto. La sincronia storica di cinema, fonografia e scrittura a macchina ha separato i flussi di dati visivi, acustici e verbali, rendendoli in questo modo autonomi. Il fatto che media basati sull’elettricità o sull’elettronica possano combinarli di nuovo non cancella la loro differenziazione. Nel 1860, cinque anni prima della macchina da scrivere semisferica di Malling Hansen (la prima macchina prodotta su larga scala), le Lettere d’amore tradite di Gottfried Keller ancora proclamavano l’illusione fondamentale della poesia: all’amore veniva lasciata l’impossibile alternativa di parlare con “nero inchiostro” o con “sangue vivo”.46 Ma una volta che dattilografia, ripresa cinematografica e registrazione sonora furono diventate opzioni di pari validità, la scrittura perse queste surrogate seduzioni. Intorno al 1880 la poesia si trasformò in letteratura. Standardizzate, le lettere non trasmettevano più il sangue vivo di Keller o le forme interiori di Hoffmann, ma una nuova ed elegante tautologia dei tecnici. Secondo la fulminea intuizione di Mallarmé, la letteratura è fatta di ventuno lettere: nulla di più, nulla di meno.47 La “distinzione metodica”48 di Lacan tra reale, immaginario e simbolico è la teoria (o forse meramente l’effetto storico) di una tale differenziazione. Il simbolico ora abbraccia i segni linguistici nella loro dimensione materiale e tecnica. Vale a dire, lettere e cifre formano un repertorio circoscritto di elementi che non tiene conto del sogno filosofico dell’infinità. Ciò che importa sono le differenze, oppure, nel linguaggio della macchina da scrivere, gli spazi tra gli elementi del sistema. Per questo motivo Lacan designa “il mondo simbolico [come] il mondo della macchina”.49 285
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
L’immaginario, invece, emerge come l’immagine riflessa di un corpo che appare, in termini di controllo motorio, più perfetto rispetto al corpo proprio del bambino; perché nel reale tutto comincia con freddo, stordimento e fame d’aria. 50 Così l’immaginario realizza esattamente quelle illusioni ottiche che venivano indagate agli albori del cinema. Un corpo smembrato o (nel caso del film) smontato e rimontato fronteggia l’illusoria continuità del movimento nello specchio o sullo schermo. Non a caso Lacan registrò le reazioni giubilanti dei bambini di fronte alle loro immagini riflesse scegliendo la forma del filmato documentario. Infine, del reale nulla può essere portato alla luce più di quanto presupposto da Lacan – vale a dire nulla. Il reale forma lo scarto o il residuo che né lo specchio dell’immaginario né la griglia del simbolico possono catturare: gli incidenti psicologici e i disordini stocastici del corpo. La distinzione metodologica della moderna psicoanalisi coincide chiaramente con la distinzione dei media tecnologici. Ogni teoria possiede il proprio a priori storico. E la teoria strutturalista semplicemente esprime in modo aperto quello che, a partire dall’inizio del nuovo secolo, si è verificato nell’ambito dei canali di informazione. Soltanto la macchina da scrivere produce una forma di scrittura che è una selezione a partire dal set finito e organizzato della sua tastiera. Essa incarna letteralmente quello che Lacan illustrava attraverso l’antiquata metafora della cassetta delle lettere. Contrariamente al flusso della scrittura manuale, essa offre elementi discreti separati da spazi. Perciò il simbolico possiede lo status delle lettere maiuscole. La pellicola cinematografica per prima ha catturato quei doppi semoventi che gli esseri umani, diversamente dagli altri primati, furono in grado di riconoscere (erroneamente?) come i loro propri corpi. Perciò l’immaginario possiede lo status del cinema. E soltanto il fonografo può registrare tutto quanto di sonoro venga prodotto dalla laringe prima di qualunque ordine semiotico o significato linguistico. Per provare piacere i pazienti di Freud non devono più desiderare quello che i filosofi considerano buono. Piuttosto, sono liberi di balbettare.51 Perciò il reale – specialmente nell’ambito di quella cura della parola nota come psicoanalisi – possiede lo status della fonografia. 286
Grammofono, film, macchina da scrivere
Una volta che la differenziazione tecnologica tra dimensione ottica, acustica e verbale ebbe scardinato il monopolio gutenberghiano della scrittura intorno al 1880, l’edificazione del cosiddetto Uomo divenne possibile. La sua essenza sfugge all’interno di dispositivi. Le macchine si fanno carico delle funzioni del sistema nervoso centrale e non più soltanto, come in tempi passati, di quelle muscolari. Ed è con questa differenziazione, e non con i motori a vapore e le ferrovie, che si instaura una netta distinzione tra materia e informazione, tra il reale e il simbolico. Di fronte all’invenzione della fonografia e del cinema, gli antichi sogni del genere umano non sono più sufficienti. La fisiologia dell’occhio, dell’orecchio e del cervello devono diventare oggetto di ricerca scientifica. Perché la scrittura meccanica possa essere ottimizzata, non è più possibile sognare una scrittura che sia espressione individuale o traccia somatica. Le stesse forme, differenze e frequenze delle sue lettere devono ora essere ridotte a formule. Il cosiddetto Uomo è spaccato in due, tra fisiologia e tecnologia dell’informazione. Quando Hegel dovette riassumere il perfetto alfabetismo della sua epoca, lo definì Spirito. La leggibilità della storia intera e di ogni discorso equiparava gli uomini o i filosofi a Dio. La rivoluzione mediatica del 1880, tuttavia, gettò le premesse per una serie di teorie e di pratiche che non confondevano più l’informazione con lo spirito. Il pensiero è rimpiazzato dall’algebra booleana, e la coscienza è sostituita dall’inconscio – il che (almeno nella lettura di Lacan) fa della Lettera rubata di Poe un processo stocastico markoviano.52 E il fatto che il simbolico venga definito come il mondo delle macchine mina la delusione dell’Uomo di possedere una “qualità” chiamata “coscienza”, che lo identifichi come qualcosa di diverso e migliore rispetto a un “calcolatore”. Perché tanto le persone quanto le macchine sono “soggette al richiamo del significante”; vale a dire, sono entrambe dirette da programmi. “Questi sono ancora uomini – si chiedeva Nietzsche già nel 1874, otto anni prima di acquistare una macchina da scrivere, – o forse soltanto macchine per pensare, per scrivere e per parlare?”53 DIGITALE (2)
Nel 1950 Alan Turing, il matematico inglese più vicino alla figura di un professionista, fornì la risposta alla domanda di Nietzsche. 287
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
Egli osservò, con eleganza formale, che la domanda non è nemmeno da porsi. Per chiarire il punto, nel saggio “Macchine calcolatrici e intelligenza” – originariamente pubblicato, tra tutte le sedi possibili, sulla rivista filosofica Mind – Turing propose un esperimento, il cosiddetto gioco di Turing. Un computer A e un essere umano B si scambiano dati tramite una qualche interfaccia di telescrittura. Lo scambio testuale è monitorato da un controllore C, che riceve ugualmente solo informazioni scritte. A e B fingono entrambi di essere umani, e C deve decidere quale dei due stia simulando e quale sia invece semplicemente la macchina pensante, scrivente e parlante di Nietzsche. Il gioco tuttavia rimane aperto, perché ogni volta che la macchina si tradisce – vuoi commettendo un errore vuoi, più probabilmente, non commettendone alcuno – è successivamente in grado di perfezionare il suo programma operativo attraverso l’apprendimento.54 Nel gioco di Turing, l’Uomo coincide con la sua simulazione. E questo, ovviamente, accade in primo luogo perché il controllore C riceve stampate e dattiloscritti invece di testi vergati a mano. Senza dubbio i programmi di un computer potrebbero simulare l’“individualità” della mano umana, con le sue abitudini e i suoi errori; ma Turing, in quanto inventore della macchina universale discreta, era un dattilografo. Nonostante egli non fosse in questo molto più dotato del suo gatto Timothy, cui era permesso saltare da un capo all’altro della tastiera nel caotico ufficio di Turing presso i servizi segreti,55 era senz’altro meno disastroso di quanto non lo fosse nella scrittura a mano. Gli insegnanti della prestigiosa Sherborne School potevano a stento “perdonare” lo stile di vita sconclusionato e la grafia disordinata del loro allievo. Turing conseguì valutazioni impietose per esami di matematica brillanti soltanto perché la sua grafia era “la peggiore… mai vist[a]”.56 Le scuole restano fedelmente ancorate al loro antico dovere di fabbricare individui (nel senso letterale del termine) addestrandoli a una grafia elegante, fluida e personale. Turing, tuttavia, un maestro nel sovvertire l’educazione nel suo insieme, aggirava il sistema; egli ordiva piani per una macchina da scrivere “estremamente rudimentale”.57 Da questi piani non derivò nulla. Ma quando, sui prati di Grantchester, i prati di tutta la poesia inglese dal Romanticismo ai Pink Floyd, Turing escogitò l’idea della macchina universale, i suoi antichi sogni vennero realizzati e trasformati. La macchina 288
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da scrivere di Sholes, ridotta al suo principio fondamentale, ci ha supportato fino a oggi. Turing semplicemente si sbarazzò delle persone e dei dattilografi di cui Remington & Son aveva bisogno per leggere e scrivere. E questo fu possibile perché una macchina di Turing è persino più straordinariamente rudimentale della macchina da scrivere progettata alla Sherborne. Tutto ciò di cui ha bisogno è una striscia di carta che è al contempo il suo programma e il suo insieme di dati, il suo input e il suo output. Turing rimpicciolì la comune pagina da macchina da scrivere fino a ridurla a questa striscia. Ma attuò al tempo stesso anche altre forme di ottimizzazione: la sua macchina non ha bisogno delle tante ridondanti lettere o cifre della tastiera di una macchina da scrivere; le basta disporre di un segno e della sua assenza, 1 e 0. Questa informazione binaria viene letta o (nel tecnolinguaggio di Turing) scansionata dalla macchina. Quest’ultima può dunque spostare la striscia di carta di uno spazio a destra, di uno a sinistra, o non spostarla affatto, muovendosi a scatti (vale a dire, in modo discreto) come una macchina da scrivere, che diversamente dalla scrittura manuale ha lettere maiuscole, un tasto di ritorno e una barra spaziatrice. (Da una lettera di Turing: “Scusa se scrivo a macchina: ho finito per preferire le macchine discrete a quelle continue”.)58 Il modello matematico del 1936 non è più un ermafrodito, un ibrido tra una macchina e un mero utensile. In quanto sistema di feedback, esso surclassa ogni macchina Remington, dal momento che ogni passaggio è controllato da una scansione della striscia di carta alla ricerca del segno o della sua assenza, che equivalgono a un tipo di scrittura: dipende dall’esito di questa lettura se la macchina conservi il segno o lo cancelli, oppure, viceversa, se conservi uno spazio o lo rimpiazzi con un segno, e così via. Questo è tutto. Ma nessun computer che sia stato o che verrà costruito potrà fare di più. Persino le più avanzate macchine di Von Neumann (dotate di memorizzazione dei programmi e di unità di elaborazione), nonostante lavorino molto più rapidamente, non sono in linea di principio diverse dall’infinitamente più lento modello di Turing. Inoltre, mentre non tutti i computer necessariamente sono delle macchine di Von Neumann, ogni possibile macchina che elabori dati è semplicemente uno stato n della macchina universale. Questo venne provato matematicamente da Alan Turing nel 1936, due anni prima che Konrad Zuse a Berlino 289
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costruisse il primo computer programmabile a partire da semplici relè. E con questo il mondo del simbolico davvero si trasformò nel mondo della macchina.59 Diversamente dalla storia a cui pose fine, l’età mediatica procede a scatti, proprio come la striscia di carta di Turing. Dalla macchina di Remington a quella di Turing alla microelettronica, dalla meccanizzazione all’automazione all’implementazione di una scrittura che è soltanto cifre, non significato: un secolo è stato sufficiente a realizzare la transizione dal vecchio monopolio della scrittura all’onnipotenza dei circuiti integrati. Non diversamente dai corrispondenti di Turing, chiunque oggi abbandona le macchine analogiche in favore di quelle discrete. Il cd digitalizza il grammofono, la videocamera digitalizza il cinema. Ogni flusso di dati viene incanalato in uno stato n della macchina universale di Turing; con buona pace del Romanticismo, numeri e cifre diventano la chiave d’accesso a tutte le creature. NOTE
1. In uno scritto dal titolo “Nostris ex ossibus. Gedanken eines Optimisten”, Karl Haushofer, “il principale rappresentante, […] anche se non l’iniziatore, del termine ‘geopolitica’” (2 novembre 1945, in K. Haushofer, Leben und Werk, 2 voll., a cura di H.-A. Jacobsen, Boldt, Boppard am Rhein 1979, vol. ii, p. 639), scrisse: “Dopo la guerra, gli americani si approprieranno di una striscia relativamente ampia della costa occidentale e meridionale dell’Europa e, allo stesso tempo, in qualche forma o in qualche modo annetteranno l’Inghilterra, realizzando in questo modo l’ideale di Cecil Rhodes dalla costa opposta. Nel fare questo, agiranno conformemente all’antica ambizione di ogni potenza marittima di assumere il controllo della costa opposta (o delle coste opposte) e dominare l’oceano che le separa. La costa opposta coincide almeno con l’intera sponda orientale dell’Atlantico e, al fine di conquistare il dominio di tutti i ‘sette mari’, potenzialmente l’intera sponda occidentale del Pacifico. Perciò, l’America intende connettere la mezzaluna esterna all’‘asse’” (19 ottobre 1944, ibidem, p. 635). 2. W. Hoffmann (1944) in G. Hay, Literatur und Rundfunk 1923-1933, Gerstenberg, Hildesheim 1975, p. 374. 3. N. Bolz, “Die Schrift des Film” (1986), in F.A. Kittler, M. Schneider, S. Weber (a cura di), Diskursanalysen i: Medien, Verlag für Sozialwissenschaft, Wiesbaden 1987, pp. 26-34. 4. Il testo inglese riporta “26 letters”. [NdC] 5. O. Abraham, E.M. von Hornbostel, “Über die Bedeutung des Photographen für vergleichende Musikwissenschaft”, in Zeitschrift für Ethnologie, 36, 1904, pp. 222-236.
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6. R. Campe, “Pronto! Telefonate und Telephonstimmen”, in Diskursanalysen i: Medien, cit., pp. 68-93. 7. M. Foucault, “Il linguaggio all’infinito” (1963), in Scritti letterari, tr. it. di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 1971, pp. 73-85, qui p. 83. 8. J.W. Goethe, Massime e riflessioni (1833), a cura di S. Seidel, tr. it. di M. Bignami, Theoria, Roma-Napoli 1990, p. 143 (n. 512). 9. J.W. Goethe, La storia dei colori (1810), a cura di R. Troncon, Luni, Milano-Trento 1997, p. 116. 10. Vedi W. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola (1982), tr. it. di A. Calanchi, il Mulino, Bologna 1986, p. 52 e (più ragionevolmente) pp. 30-31. 11. Vedi Es 24,12 e 34,28. 12. Corano xcvi,1-6. 13. L.W. Winter (a cura di), Der Koran: Das heilige Buch des Islam, Goldmann, München 1959, p. 6. 14. A. Assmann, J. Assmann (a cura di), Schrift und Gedächtnis: Archäelogie der literarischen Kommunikation, Fink, München 1983, p. 68. 15. F. Nietzsche, “Geschichte der griechischen Literatur” (1874), in Sämlichte Werke, Musarion-Ausgabe, Munich 1922-1929, vol. v, p. 213. 16. J.W. Goethe, Gespräche, a cura di W. Herwig, Artemis, Zurich 19651972, vol. iii, p. 59. 17. B. Strauss, La dedica (1977), tr. it. di V. Ruberl, Guanda, Milano 1982, p. 17. 18. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito (1807), 2 voll., tr. it. di E. De Negri, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2008, vol. i, p. 262. 19. Novalis, “L’‘Allgemeines Brouillon’” (1798-1799), in Opera filosofica, 2 voll., a cura di F. Desideri, Einaudi, Torino 1993, vol. ii, pp. 225-563, qui p. 407 [traduzione modificata]. 20. F. Schlegel, “Sulla filosofia. A Dorotea” (1799), in Athenaeum 17981800. La rivista di August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel, a cura di G. Cusatelli, tr. it. di E. Agazzi e D. Mazza, Sansoni, Milano 2000, pp. 297-319, qui p. 298 (fascicolo 3, marzo 1799). 21. Vedi F.A. Kittler, Discourse Networks, 1800/1900, tr. ingl. di M. Metteer e C. Cullens, Stanford University Press, Stanford 1990, pp. 108-123. 22. J.W. Goethe, “Dedica”, in Faust, in Opere, 4 voll., a cura di L. Mazzucchetti, tr. it. di V. Errante, Sansoni, Firenze 1949, vol. iv, pp. 1-524, qui p. 5. Per le ragioni per cui una letteratura pienamente alfabetizzata, in particolare, simulasse l’oralità, vedi H. Schlaffer, “Einführung”, in Enstehung und Folgen der Schriftkultur, a cura di J. Goody, I. Watt, K. Gough, tr. ted. di F. Herborth, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1986, pp. 7-20, qui p. 7. 23. J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther (1774), in Opere, cit., tr. it. di L. Graziani, vol. i, pp. 415-538, qui p. 531. 24. W. Benjamin, “Le affinità elettive di Goethe” (1924-1925), in Opere complete, 9 voll., a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, vol. i, pp. 523589, qui p. 588. 25. J.W. Goethe, Le affinità elettive (1809), in Opere, cit., tr. it. di C. Baseggio, vol. iii, pp. 893-1133, qui p. 1133.
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26. B. Brentano Von Arnim, Il carteggio di Goethe con una bimba (1835), tr. it. di G. Necco, Treves, Milano-Roma 1932, p. 60. 27. C. Marker, “Sans Soleil” (1993), in B. Eisenschitz (a cura di), Chris Marker: Pesaro, 14-22 giugno 1996. xxxii Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Dino Audino, Roma 1996, pp. 54-71, qui p. 69. 28. Vedi G. Deleuze, “Klossowski o i corpi-linguaggio” (1965), in Logica del senso, tr. it. di M. De Stefanis, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 247-264, qui p. 256. “L’alternativa è fra due purezze, la falsa e la vera, quella della responsabilità e quella dell’innocenza, quella della Memoria e quella dell’Oblio. […] o ci si ricorda le parole, ma il loro senso resta oscuro; o appare il senso, quando scompare la memoria delle parole”. [Il testo venne pubblicato originariamente come G. Deleuze, “Pierre Klossowksi ou les corps-langage”, in Critique, 21, 1965, pp. 199-219. NdC] 29. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola (1964), 2 voll., tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, vol. i, Tecnica e linguaggio, pp. 257 sgg., citato in J. Derrida, Della grammatologia (1967), tr. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso e A.C. Loaldi, Jaca Book, Milano 1969, p. 98. 30. E.T.A. Hoffmann, “L’uomo della sabbia” (1816), in L’uomo della sabbia e altri racconti, tr. it. di G. Bianchi, Rizzoli, Milano 1950, pp. 13-47, qui p. 26. [Traduzione modificata. NdC] 31. F.-G. Tournachon (Nadar), “My life as a photographer” (1899), tr. ingl. di T. Repensek, in October, 5, 1978, pp. 6-28, qui p. 9. 32. R. Arnheim, “Le idee che fecero muovere le immagini” (1933), in Film come arte, tr. it. di P. Gobetti, Abscondita, Milano 2013, pp. 109-124, qui p. 113. 33. J. Lacan, “Dov’è la parola? Dov’è il linguaggio?” (1955), in Il seminario. Libro ii. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi. 19541955, a cura di G.B. Contri, tr. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 1991, pp. 349-370, qui p. 351. 34. Edison (1878), citato in R. Gelatt, The Fabolous Phonograf 18771977. From Edison to Stereo, Cassel, London 1977, p. 29. Le registrazioni fonografiche delle ultime parole erano basate sul riconoscimento del fatto che “il tempo fisiologico […] non sia reversibile” e sull’assunto che “nel campo del ritmo e del tempo in generale non esiste alcuna simmetria” (E. Mach, “La sensazione di tempo”, in L’analisi delle sensazioni e il rapporto fra fisico e psichico [1886], tr. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1975, pp. 221-233, qui p. 229). 35. J. Joyce, Ulisse (1922), tr. it. di G. De Angelis, Mondadori, Milano 1998, pp. 156-159. Vedi anche J. Brooks, “The first and only century of telephone literature”, in I.d.S. Pool (a cura di), The Social Impact of the Telephone, mit Press, Cambridge (ma)-London 1977, pp. 208-224, qui pp. 213-214. [La sigla aeg si riferisce alla Allgemeine Elektrizitäts-Gesellschaft, una delle principali società tedesche nell’ambito dell’energia elettrica. La società venne fondata da Emil Rathenau nel 1883 come Società Tedesca Edison per l’Elettricità Applicata. Nota del traduttore inglese] 36. W. Rathenau, Gesammelte Schriften, 6 voll., Fischer, Berlin 19181929, vol. 4, p. 347. Due esempi di déformation professionelle tra i morti di
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Necropolis: “Uno scrittore non è soddisfatto del suo epitaffio. Un impiegato in una compagnia telefonica usa intervalli brevi e lunghi, una sorta di codice Morse, per trasmettere un commento sul suo successore”. Re Alessandro, l’eroe di Ostpolzug di Bronnen, esprime tutto quanto ci sia da dire tra “telefonite” e Ade mentre, secondo la didascalia, “il telefono sta squillando”: “Oh, tu, bestia nera che cresce su grassi steli marroni, tu, fiore intempestivo, tu, coniglio di stanze oscure! La tua voce è il nostro aldilà, e ha spopolato il cielo” (A. Bronnen, “Ostpolzug”, in Werke, 5 voll., Ritter, Klagenfurt 1989, vol. 2, pp. 211-270, qui p. 239). 37. La canzone Example #22 (H. Schäfer, Stimmen aus einer einer anderen Welt: Chronik und Technik der Tonbandstimmenforschung, Bauer, Freiburg 1983, p. 11). 38. J. Lacan, “Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi”, in Scritti (1966), tr. it. e a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 2002, pp. 527-579 [vedi D.P. Schreber, Memorie di un malato di nervi (1903), tr. it. di F. Scardonelli, Adelphi, Milano 1979. NdC]. 39. H. Schäfer, Stimmen aus einer einer anderen Welt, cit., p. 2. 40. Ibidem, p. 3. 41. D.E. Gordon, Electronic Warfare: Elements of Strategy and Multiplier of Combat Power, Pergamon Press, New York 1981. 42. P. Watson, War on the Mind: The Military Uses and Abuses of Psychology, Hutchinson, London 1978, pp. 26, 410. 43. A. Walze, “Auf den Spuren von Christopher Latham Scholes: Ein Besuch in Milwaukee, der Geburstätte der ersten brauchbaren Schreibmaschine” (1980), in Deutsche Stenografenzeitung, pp. 132-133, 159-161. 44. N. Luhmann, “Das Problem der Epochenbildung und die Evolutionstheorie”, in H.-U. Gumbrecht, U. Link-Herr (a cura di), Epochenschwellen und Epochenstrukturen im Diskurs der Literatur- und Sprachhistorie, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1985, pp. 11-13, qui pp. 20-22. 45. M. Heidegger, Parmenide (1942-1943), a cura di F. Volpi, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999, p. 164. 46. G. Keller, Lettere d’amore tradite (1865), tr. it. di M. Chiarini, Elliot, Roma 2015, p. 33. 47. S. Mallarmé, Oeuvres complètes, a cura di H. Mondor e G. Jean-Aubry, Gallimard, Paris 1945, p. 850 [Il testo originale parla di ventiquattro lettere. NdC] 48. J. Lacan, “Un sillabario di poi” (1966), in Scritti, 2 voll., tr. it. e a cura di G.B. Contri, vol. ii, pp. 714-720, qui p. 716. 49. J. Lacan, “Una definizione materialistica del fenomeno di coscienza” (1954), in Il seminario. Libro ii, cit., pp. 51-67, qui p. 60. 50. J. Lacan, “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io” (1949), in Scritti, cit., vol. i, pp. 87-94. 51. Vedi J. Lacan, Il seminario. Libro xx. Ancora. 1972-1973, a cura di A. Di Ciaccia, tr. it. di A. Di Ciaccia e L. Longato, Einaudi, Milano 2011. 52. J. Lacan, “La lettera rubata” (1955), in Il seminario. Libro ii…, cit., pp. 243-260.
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53. F. Nietzsche, “Considerazioni inattuali, ii. Sull’utilità e il danno della storia per la vita” (1873-1876), in Opere di Friedrich Nietzsche, 8 voll., a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. iii, tomo i, La nascita della tragedia. Considerazioni inattuali, i-iii, tr. it. di S. Giametta e M. Montinari, Adelphi, Milano 1972, pp. 257-355, qui p. 299. 54. A. Turing, “Macchine calcolatrici e intelligenza” (1950), in R. Cordeschi, V. Somenzi (a cura di), La filosofia degli automi. Origini dell’intelligenza artificiale, Boringhieri, Torino 1986, pp. 157-183; A. Hodges, Alan Turing. Storia di un enigma, tr. it. di D. Mezzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 425-427. 55. A. Hodges, Alan Turing, cit., p. 364. 56. Ibidem, p. 45. 57. Ibidem, p. 23. 58. J. Good, lettera del 16 settembre 1948, in ibidem, p. 503. 59. Vedi K. Zuse, 19 giugno 1937, in K. Zuse, Der Computer: Mein Lebenwerk, Springer, Berlin 1984, p. 41: “Pensiero decisivo, 19 giugno 1937 / Presa di coscienza del fatto che esistono operazioni elementari alle quali possono essere ridotte tutte le operazioni di computazione e di pensiero. / Un cervello meccanico primitivo consiste in un’unità di archiviazione, un sistema di composizione, e un semplice meccanismo che possa gestire catene condizionali di due o tre connessioni. / Con un cervello di questo tipo deve essere possibile svolgere qualunque operazione mentale che possa essere svolta meccanicamente, a prescindere dal tempo che questo processo richiede. Un cervello più complesso si distinguerà semplicemente per il fatto di concludere queste stesse operazioni più rapidamente”.
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10 UN’ARCHEOLOGIA DELL’ARCHEOLOGIA DEI MEDIA Erkki Huhtamo, Jussi Parikka
Formatisi entrambi in Storia culturale all’Università di Turku, Erkki Huhtamo (http://www.erkkihuhtamo.com) e Jussi Parikka (https://jussiparikka.net) sono due dei più eminenti esponenti degli studi sull’archeologia dei media. Assieme hanno curato il volume Media Archaeology: Approaches, Applications, and Implications (University of California Press, Berkeley 2011). Erkki Huhtamo è professore alla University of California Los Angeles (ucla), sia nel Dipartimento di Design Media Arts sia in quello di Film, Television and Digital Media. Storico e teorico dei media, è conosciuto a livello internazionale grazie anche alle sue conferenze, che consistono in veri e propri spettacoli multimediali in cui vengono utilizzate anche tecnologie precinematografiche originali, come per esempio la lanterna magica. Ha inoltre pubblicato Illusions in Motion. Media Archaeology of the Moving Panorama and Related Spectacles (mit Press, Cambridge [ma] 2013). In lingua italiana è disponibile il saggio Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo (2004, tr. it. di R. Terrosi, ke Edizioni-Youcanprint, Tricase 2015). È anche curatore di mostre in Europa, negli Stati Uniti e in Australia. Jussi Parikka è professore di Technological Culture & Aesthetics alla Winchester School of Art della University of Southampton. Ha ampiamente esplorato la cultura visuale e digitale attraverso la storia e la teoria dei media. È autore di Che cos’è l’archeologia dei media (2012, tr. it. di E. Campo, Carocci, Roma 2017), A Geology of Media (University of Minnesota Press, Minneapolis-London 2015), Insect Media. An Archaeology of Animals and Technology (University of Minnesota Press, Minneapolis 2010), The Anthrobscene (University of Minnesota Press, Minneapolis 2014) e Digital Contagions. A Media Archaeology of Computer Viruses (Peter Lang, New York 2007, 20162). Come abbiamo accennato nell’Introduzione, l’archeologia dei media non si configura come un campo unitario, ma piuttosto come una costellazione di ricerche impegnate a rileggere e “reingegnerizzare” la 295
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
ricerca storica sui differenti media alla luce della recente svolta digitale. Il saggio che presentiamo – l’introduzione a Media Archaeology – applica all’archeologia dei media il proprio stesso metodo: ne mappa contorni e articolazioni a partire da una rilettura delle sue differenti radici. Il saggio definisce anzitutto alcune coordinate generali dell’archeologia dei media: la rilettura del passato dei media a partire dalla svolta digitale; la volontà di costruire delle contro-storie che contestano l’idea di un unico progresso lineare e teleologico, valorizzando da un lato sentieri interrotti e figure rimosse e dall’altro ripetizioni e ritorni trasversali; una tendenza a spingere all’indietro le ricostruzioni fino al Rinascimento e talvolta alle prime manifestazioni espressive dell’uomo (e, in alcuni casi, a “globalizzare” la portata delle trasformazioni, superando per quanto possibile una storia “occidentocentrica”). In questo tentativo si pone un problema centrale e tutt’ora aperto: quale ruolo e quale peso assegnare ai discorsi e alle configurazioni culturali che circondano i dispositivi (i “media”) rispetto alla materialità tecnologica dei dispositivi stessi (i “medium”)? Sono i “media” a determinare i “medium” o avviene piuttosto il contrario? Su queste coordinate si gioca il recupero degli autori di riferimento del passato, come pure la definizione del presente. Se figure rilevanti come Walter Benjamin e Marshall McLuhan (rispettivamente negli anni Trenta e Sessanta) hanno insegnato a pensare congiuntamente gli aspetti culturali e quelli materiali dei mezzi di comunicazione, una frattura si produce a partire da due differenti letture dell’archeologica del sapere di Michel Foucault svoltesi negli anni Ottanta. Da un lato Friedrich Kittler (al cui articolo antologizzato rimandiamo) insiste sulla preminenza degli aspetti tecnologici materiali, dando luogo a una tradizione tedesca di archeologia dei media, tutt’ora attiva. Dall’altro gli autori del Nuovo storicismo anglosassone sottolineano il ruolo degli intrecci “discorsivi” tra saperi e poteri nella determinazione delle dinamiche mediali. L’ultima parte del saggio infine è dedicata all’analisi di alcuni autori o gruppi di autori che caratterizzano l’archeologia dei media oggi.
L’avvento dei “nuovi media” (termine che nel linguaggio comune designa un ampio agglomerato di fenomeni quali Internet, la televisione digitale, i media interattivi e multimediali, la realtà virtuale, la comunicazione in mobilità e i videogiochi) ha portato molti studiosi a misurarsi con l’obiettivo di indagare la cultura mediale della tarda modernità. I programmi di ricerca spaziano dall’analisi delle reti sociali agli studi di software, dalle mappature del nuovo impero delle economie di rete alle analisi dei nuovi media come “modi di vedere” (o di sentire, leggere, 296
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toccare). Sforzi significativi sono stati compiuti per determinare in cosa consista la novità delle reti di relazioni sui social network, dei giochi interattivi o del data mining, e per porre le basi per delle “filosofie” e dei “linguaggi” dei nuovi media. Per alcuni ricercatori, gli aspetti principali sono sociali o psicologici, per altri invece economici e ideologici, o legati all’individuazione dei fattori tecnologici decisivi che sottendono le innumerevoli manifestazioni mediatiche. Per quanto questi approcci possano essere distanti tra loro, gli studi rivolti ai nuovi media sono in genere accomunati da uno scarso interesse nei confronti del passato. Le questioni sollevate dalla cultura mediale contemporanea appaiono complesse, ma si è ritenuto che il passato non potesse apportare un contributo significativo alla loro risoluzione. I nuovi media sono stati salutati come un universo onnicomprensivo e “senza tempo” che sembrava poter essere spiegato dal suo interno. Eppure, con frequenza crescente, sembrano comparire alcuni segnali di cambiamento. Negli ultimi anni, infatti, si contano diversi studi e raccolte che affrontano il passato dei media in relazione al loro presente.1 L’avvento di un approccio storicamente orientato rivolto ai media studies deve essere accolto con entusiasmo. Ciononostante non si può evitare di notare come una scarsa attenzione sia stata finora rivolta a definire e discutere gli aspetti metodologici di tale approccio. Se è stato rivolto uno sguardo al passato per portare alla luce fatti di particolare interesse o ritenuti in sé significativi per la cultura mediale in senso lato, pure la natura di questi “fatti” è stata data spesso per scontata; al tempo stesso, la loro relazione nei confronti degli osservatori, come anche la posizione temporale e culturale di questi ultimi, non sono stati adeguatamente problematizzati. In questo intervento introduciamo un approccio differente – o meglio un insieme di diversi approcci strettamente correlati – che è venuto a definirsi come “archeologia dei media”. Sebbene questo termine non corrisponda ad alcuna disciplina accademica, esso è apparso in un numero crescente di contributi e persino alcuni insegnamenti universitari hanno assunto questo titolo.2 Come testimoniano i programmi e la bibliografia dei corsi citati, non è possibile identificare un accordo generale sui criteri e la terminologia di una archeologia dei media. Tuttavia, questa espressione ha 297
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ispirato ricerche con un taglio storico e ha così portato gli studiosi a definire i principi di tale approccio e a riflettere sulle sue implicazioni teoriche e filosofiche. Nel portare avanti un simile processo di autoidentificazione e autodefinizione dell’archeologia dei media, non si tratta di fissare delle linee metodologiche o dei principi “corretti”, né tanto meno di stabilire i confini di una nuova disciplina. Lungi dal voler postulare un’“ortodossia”, occorre invece aprire un dialogo tra voci molto diverse, nella speranza di suscitare dei “poliloghi” riguardo ai problemi e alle prospettive di questo campo di ricerca emergente. […] In questo intervento ci proponiamo di ripercorrere i contributi esistenti, nel tentativo di effettuare una loro mappatura o, si potrebbe dire, di tratteggiare un’“archeologia dell’archeologia dei media”. In questa prospettiva, limitarsi a prendere in esame solamente i casi in cui gli autori si riferiscono esplicitamente all’espressione “archeologia dei media” sarebbe stato decisamente riduttivo.3 È altrettanto essenziale infatti riconoscere l’importanza di quei lavori che, pur non essendosi definiti come parte di un’“archeologia dei media”, hanno tuttavia condiviso una simile impostazione teorica e perseguono degli obiettivi comuni. I testi di Michel Foucault hanno rappresentato un’esperienza formativa importante per molti archeologi dei media. Tuttavia vi sono altri contributi teorici e critici che hanno costituito un terreno fertile per l’archeologia dei media. Teorici e storici come Walter Benjamin, Siegfried Giedion, Ernst Robert Curtius, Dolf Sternberger, Aby Warburg e Marshall McLuhan possono essere considerati degli archeologi dei media ante litteram. In tempi più recenti, è stato il dibattito riguardo al cosiddetto new historicism a portare alla luce temi e motivi che interessano gli archeologi dei media. Si potrebbe sostenere che l’approccio dell’archeologia dei media è essenzialmente neostoricista, ma si rischierebbe così di compiere una generalizzazione approssimativa.4 La realtà è più complessa, in quanto l’archeologia dei media ha tratto ispirazione da un ampio spettro di idee, che comprende le teorie del materialismo culturale, l’analisi del discorso, il concetto di temporalità non lineari, la teoria del gender, gli studi postcoloniali, l’antropologia del visuale e dei media, le filosofie del neonomadismo. Cosa dunque tiene uniti i differenti approcci e interessi degli archeologi dei media, tanto da legittimare l’uso di questo termi298
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ne come un comune denominatore? Una delle forze trainanti più evidenti è certamente il rifiuto delle narrazioni “canoniche” della storia e degli studi culturali rivolti ai media. Gli archeologi dei media hanno ritenuto che gli approcci più diffusi tanto nella cultura mediale contemporanea quanto nella storia dei media tendono a prendere in considerazione solo alcune parti della storia, e non necessariamente quelle corrette e più rilevanti. Molti aspetti sono stati trascurati o lasciati al margine per semplice negligenza o a causa di pregiudizi ideologici. Per il critico dei media Geert Lovink, l’archeologia dei media è per sua stessa natura una “disciplina” che deve procedere andando controcorrente: essa deve mettere in atto “una lettura ermeneutica del ‘nuovo’ risalendo la corrente del passato, anziché raccontare la storia delle tecnologie andando dal passato al presente”.5 Gli archeologi dei media hanno così sottoposto a critica il rifiuto della storia operato dalla teoria e dagli studi culturali sui media contemporanei sottolineando continuità e rotture che fino a quel momento erano state ignorate. Questo ha avuto l’effetto di estendere l’area dei media studies sia dal punto di vista temporale – fino ad abbracciare molti secoli a ritroso – sia da quello geografico – ovvero ben oltre i confini del mondo occidentale.6 A partire da tali scoperte, gli archeologi dei media hanno iniziato a costruire la storia di quei media che erano stati rimossi, trascurati e dimenticati, in quanto non si trovavano inseriti lungo una linea teleologicamente orientata verso la condizione presente della cultura mediale, concepita come suo “compimento”. Eppure tutte quelle strade interrotte, tutte quelle figure di perdenti, così come quelle invenzioni che non hanno mai raggiunto una realizzazione materiale come prodotti, hanno delle storie importanti da raccontare. L’archeologia dei media non deve essere confusa con l’archeologia come disciplina.7 Quando gli archeologi dei media affermano di “estrarre” dal passato fenomeni mediali e culturali, occorre precisare in che modo si intende tale espressione. L’archeologia industriale, per esempio, scava nelle fondamenta di fabbriche demolite, dormitori e discariche per rivelare indizi riguardo alle abitudini, agli stili di vita, alle stratificazioni economiche e sociali e persino alla diffusione di malattie mortali. L’archeologia dei media rovista negli archivi testuali e audiovisivi o nelle collezioni di strumenti e manufatti, per mettere in rilievo le manifestazioni discorsive e 299
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materiali di una cultura. Le sue esplorazioni si muovono in modo fluido tra le discipline, senza che nessuna di queste possa essere considerata come la sua dimora permanente. Tale “nomadismo”, anziché rappresentare un ostacolo, opera invece a vantaggio degli obiettivi e dei metodi di lavoro, consentendo di spaziare attraverso il panorama delle discipline umanistiche e delle scienze sociali, sconfinando occasionalmente nell’ambito dell’arte. In questo senso, l’archeologia dei media può – e forse deve – svilupparsi come “disciplina itinerante”, per citare un’idea proposta da Mieke Bal.8 LA SCOPERTA DELLA DIMENSIONE “ARCHEOLOGICA” DEI MEDIA
Probabilmente il primo studioso ad aver sviluppato un approccio archeologico rivolto ai media e ad averlo definito in questi termini fu Jacques Perriault nelle sue Mémoires de l’ombre et du son: Une archéologie de l’audio-visuel (1981). Come suggerisce il titolo dell’opera, la sua “archeologia dell’audiovisivo” si rivolgeva ai media visivi e sonori del passato. Perriault analizzò la relazione tra ciò che chiamava “funzione d’uso” e “rappresentazione sociale”.9 Affrontò inoltre il rapporto tra le tecnologie del passato e le loro forme contemporanee, sottolineando che il suo lavoro non doveva essere visto come una “fuga nella storia”, motivata dalla paura nei confronti delle pratiche mediali contemporanee.10 Il fatto che Perriault non si considerasse a rigore uno storico può aver contribuito alla flessibilità libera da pregiudizi che caratterizza il suo approccio. Anni prima di Perriault, il termine archeologia era stato utilizzato nel titolo del volume di C.W. Ceram Archeologia del cinema (1965). Ceram, il cui vero nome fu Kurt Wilhelm Marek (19151972), era un noto divulgatore di archeologia. Eppure, una volta applicata alla preistoria del cinema, la sua idea di “archeologia” non differiva di molto dagli obiettivi della tradizionale disciplina storica positivistica. Ceram presentò uno sviluppo rigorosamente lineare e teleologico del cinema, interrompendo la sua narrazione al 1897, anno che, secondo lui, “vedeva la nascita dell’industria del cinema”.11 Ceram concentrò il suo studio sugli inventori e sui progressi tecnici che portarono al cinematografo. Tutto ciò che non era strettamente attinente a questa narrazione fu tralasciato, 300
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indipendentemente dal suo possibile interesse intrinseco. Paradossalmente invece le illustrazioni del libro, selezionate dalla ricercatrice britannica Olive Cook (provenienti per la maggior parte dalla grande collezione di John e William Barnes), raccontavano una storia completamente diversa, portando alla luce fenomeni e legami potenziali che Ceram aveva omesso.12 Si trattava di una rottura significativa, che incarnava una tensione tra due concezioni profondamente diverse della storia delle immagini in movimento. In seguito, il termine “archeologia” apparve nel titolo dell’opera di Laurent Mannoni La grande arte della luce e dell’ombra. Archeologia del cinema (1994),13 segnando un chiaro cambiamento di rotta. Basandosi su un’estesa consultazione di materiali d’archivio (che giustificavano l’uso del termine archeologia), il volume di Mannoni non mirava più a costruire una narrazione storica chiusa, intesa come una serie di concatenazioni causali interconnesse inevitabilmente destinate a condurre verso la nascita del cinema. Al contrario, questo volume di ben cinquecento pagine era composto da una successione di studi di caso attentamente documentati che, snodandosi attraverso i secoli, rappresentavano diversi aspetti della cultura dell’immagine in movimento. Nonostante l’accento principale fosse posto sulla tecnologia, Mannoni dedicava spazio anche alle sue applicazioni e manifestazioni discorsive. Passo dopo passo, si dipanava una narrazione che non pretendeva di costituire un resoconto completo, né di nascondere le proprie lacune. Sebbene il discorso di Mannoni mantenesse un approccio strettamente storico evitando ogni speculazione teorica, pure il volume offriva intuizioni nuove, aprendo la strada per delle interpretazioni ulteriori.14 Tuttavia questi contributi pionieristici rappresentano solo una delle possibili strade verso l’archeologia dei media. L’emergere della tecnologia dei media contemporanei, a partire dal xix secolo, e il suo crescente influsso sulle menti nella società di massa, richiedeva che si analizzassero la sua natura e il suo impatto. Proprio tale necessità ha spesso condotto i ricercatori a concentrarsi sulle questioni più contemporanee, le cui implicazioni politiche e sociali risultavano più evidenti, lasciando così meno spazio a un interesse media-archeologico. La critica dei mass media sviluppata da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer nella loro Dialettica dell’illuminismo (1944) e da 301
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Richard Hoggart nel suo The Uses of Literacy (1957) ne sono esempi significativi.15 Quando questi autori si rivolsero alle prime storie dei media, queste erano prevalentemente occupate a ricostruire il loro sviluppo tecnologico e industriale, e – nel caso della fotografia e del cinema – a rivendicare il loro potenziale come nuove forme d’arte. Inventori e industriali giocavano un ruolo di rilievo. La struttura era solitamente lineare e le diverse forme mediali erano in genere prese in considerazione separatamente le une dalle altre. Fu Marshall McLuhan a introdurre un nuovo approccio, nuove combinazioni e nuovi temi per gli studi di media. La sposa meccanica (il suo primo lavoro, pubblicato nel 1951) avanzava una critica dei mezzi di comunicazione di massa contemporanei, delineando alcuni parallelismi con la mitologia e la storia, e muovendosi tra cultura elevata e cultura popolare con grande disinvoltura (se non, come qualcuno ritenne, in modo avventato). In La galassia Gutenberg (1962) la prospettiva di McLuhan giunse ad affrontare la storia dei media in un senso più rigoroso, nella misura in cui proponeva di identificare le dinamiche che legavano la cultura orale, la rivoluzione della stampa a partire da Gutenberg e la nuova oralità introdotta dai media televisivi.16 Anziché sviluppare una narrazione neutrale e lineare, la posizione idiosincratica di McLuhan emergeva come elemento essenziale. La materialità e la natura processuale del suo discorso furono ulteriormente sottolineate dai successivi libri – The Medium Is the Massage, War and Peace in the Global Village, e Counterblast – costruiti in forma di collage in collaborazione con il grafico Quentin Fiore in seguito al successo internazionale di Understanding Media: The Extensions of Man (1964).17 L’influenza di McLuhan sugli archeologi dei media è molteplice. Anzitutto è fondamentale l’importanza che la sua opera ha conferito alle connessioni temporali, ai movimenti di traslazione e alla fusione tra diversi media, un approccio che ha ispirato Jay David Bolter e Richard Grusin nello sviluppare la loro concezione della “rimediazione” e nell’esplorare in che modo i caratteri delle forme mediali precedenti siano stati riprodotti all’interno dei media digitali.18 L’approccio di Bolter e Grusin non fu etichettato come “archeologia dei media”, benché presenti forti affinità con quello messo in atto dagli archeologi dei media nel delineare collegamenti tra fenomeni apparentemente incompatibili. La lettura di 302
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McLuhan di “media” e “medium” era ampia e metteva alla prova le dicotomie esistenti, così come l’opposizione tra oggetti materiali e concetti mentali. La sua idea dei media come “estensioni” e come forze in grado di ingenerare dei cambiamenti sociali ha influenzato la “scuola materialista” tedesca dell’archeologia dei media, in particolare attraverso la riflessione di Friedrich Kittler.19 Infine (ma l’aspetto non è marginale), il rifiuto da parte di McLuhan di sottostare ai “metodi” formali e alle categorie precostituite, così come il suo andamento autoriflessivo nei confronti del proprio discorso teorico, sembra tratteggiare il profilo di un archeologo dei media caratterizzato da un atteggiamento “anarchico” – determinato cioè a mantenere il proprio approccio libero dai dogmi e dal contagio della teoria istituzionalizzata.20 STORIA SENZA NOMI, SALE GIOCHI E IL MUSEO IMMAGINARIO
Le prime ricerche sui media erano associate all’impatto della tecnologia sulla civiltà umana, un approccio che si trovava espresso dall’opera di Lewis Mumford Tecnica e cultura (1934), divenuta un testo classico di riferimento.21 L’era della meccanizzazione (1948) di Siegfried Giedion presentava un resoconto dettagliato delle forme e dell’impatto della meccanizzazione. Spaziando dalle tecniche di cattura dei movimenti umani in rappresentazioni grafiche, fino agli oggetti della vita domestica come la vasca da bagno, l’analisi storica di Giedion si rivolgeva non tanto ai dispositivi presi isolatamente, quanto alle loro interconnessioni.22 La meccanizzazione era presentata come una forza impersonale che si infiltrava nella società occidentale fin nei minimi dettagli della vita quotidiana. L’obiettivo principale di Giedion era indagare la cultura materiale, “gli strumenti che hanno dato forma alla vita moderna”.23 La “storia anonima” da lui proposta mirava a una sintesi tra Geistesgeschichte e positivismo, secondo cui ogni dettaglio va compreso come “direttamente connesso con l’idea generale che guida un’epoca. Ma, allo stesso tempo, esso deve essere ricondotto agli eventi particolari dai quali emerge”.24 D’altra parte il critico e teorico tedesco Walter Benjamin aveva delineato già in precedenza una sorta di storia anonima, che coinvolgeva però gli strati concettuali della cultura in maniera deci303
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samente più ampia rispetto alla visione materialista di Giedion. Benjamin è probabilmente – insieme a Foucault – il più decisivo precursore della metodologia di analisi propria dell’archeologia dei media, nonché lo studioso di maggior influenza sugli studi culturali.25 In particolare, l’incompiuto Passagen-Werk divenne un caso esemplare per il genere di questioni trattate dagli archeologi dei media.26 La ricostruzione condotta da Benjamin della cultura del xix secolo, con Parigi come sua capitale, prendeva le mosse da fonti molteplici; testi, illustrazioni, ambienti urbani, architettura, spettacoli e attrazioni, come il panorama e il diorama, e altri oggetti ritenuti emblematici dell’epoca. Il suo approccio era straordinariamente aperto, variabile e stratificato, e prendeva in considerazione fattori politici ed economici, ma anche psicologici e collettivi. Oltre alle forme materiali, l’opera di Benjamin portava alla luce il “mondo dei sogni” del consumismo agli albori della modernità. Andando controcorrente rispetto alla Geistesgeschichte dominante, Benjamin rifiutò di ricondurre la miriade di documenti raccolti sotto un unico simbolo compreso come caratteristico dell’epoca. Una simile determinazione è una delle ragioni dell’incompiutezza dell’opera. Al lettore è affidata un’immensa collezione di appunti, immagini e idee che costituiscono un archivio di dati, piuttosto che rispondere a una narrativa preordinata. Benjamin espone riflessioni sul tempo, la spazialità, la natura e la modernità emergente compresa come un nuovo dominio di sensazioni. Il concetto e il metodo dell’allegoria che egli aveva sviluppato nei suoi lavori precedenti rimandava a dei modi alternativi di guardare alla temporalità non come una successione organica, ma attraverso le figure della rovina e della decadenza. L’interesse per il cambiamento e per le “rovine” del corpo e dello spirito risultava evidente anche in altri luoghi della sua opera, che notoriamente affrontavano i mutamenti storici delle modalità percettive. Anche Panorama del xix secolo di Dolf Sternberger, pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1938, anticipava questioni che sarebbero divenute importanti per l’archeologia dei media. A prima vista questo testo presenta delle somiglianze con i Passagen benjaminiani per la tendenza a partire da una moltitudine di fonti con l’obiettivo di ritrarre un’epoca.27 Benjamin e Sternberger erano entrambi interessati al panorama come manifestazione visuale 304
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della cultura del xix secolo. Tuttavia i loro approcci differiscono sotto molti aspetti. Per Benjamin il panorama era solo una delle tante manifestazioni del fenomeno più ampio che egli cercava di circoscrivere; per Sternberger al contrario esso divenne la metafora decisiva intorno alla quale organizzare il ritratto di un’epoca, la chiave per accedere ai segreti di “come l’uomo del xix secolo vedeva se stesso e il suo mondo e come sperimentava la storia” – per riprendere il sottotitolo della sua opera. Nel suo studio Sternberger affrontava non tanto il panorama come dispositivo concreto quanto piuttosto le diverse manifestazioni culturali legate a tale fenomeno, come per esempio l’energia a vapore, il viaggio ferroviario, l’idea occidentale dell’Oriente, la teoria dell’evoluzione e l’illuminazione elettrica domestica. Questa idea totalizzante derivava chiaramente dall’ideologia della Geistesgeschichte, e potrebbe anche essere letta in parallelo con il modo in cui Foucault caratterizza le sue “episteme”. Nei primi decenni del xx secolo, anche la storia dell’arte iniziò a proporre dei modi per ricontestualizzare l’arte all’interno di tradizioni testuali e per allargare il proprio campo di indagine a tutti quei materiali visivi che tradizionalmente erano stati confinati al di fuori dei confini disciplinari. Una rivalutazione delle “tradizioni trascurate” della storia dell’arte è stata proposta da Horst Bredekamp, che ha messo in relazione le teorie della Bildwissenschaft, emerse in Germania, con gli approcci pionieristici rivolti alle tecnologie e ai media all’inizio del xx secolo. Secondo Bredekamp, attorno al 1900-1933 una nuova “scienza dell’immagine” era emersa in area germanofona avanzando l’ipotesi radicale di una continuità tra generi differenti di immagini: dalla pubblicità e dalla fotografia, al film e all’iconografia politica.28 Lo storico dell’arte Aby Warburg e gli studiosi influenzati dal suo pensiero, come Erwin Panofsky e Ernst Gombrich, spiccavano nella sua analisi come “storici delle immagini”, maggiormente interessati ai motivi visuali ricorrenti e alla loro contestualizzazione che a eliminare la cultura popolare dalla storia dell’arte. L’opera incompiuta di Warburg Atlas Mnemosyne (che per certi versi richiama il Passagen-Werk di Benjamin) suggeriva un modo non-lineare di leggere la ricorsività temporale delle immagini e le loro relazioni, e sollevava al tempo stesso la questione dell’intermedialità, attraverso l’individuazione di motivi visuali che ritornavano e si trasformavano nel transito da una piat305
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taforma mediale (per usare un termine contemporaneo) e l’altra.29 Inoltre, il progetto avanzava un’idea nuova riguardo alla dinamica dell’immagine, sottolineando come le immagini e i motivi stessi potevano funzionare come “macchine del tempo” in una maniera isomorfa rispetto agli obiettivi dell’archeologia dei media.30 Un’altra opera il cui taglio insolito anticipava alcuni interessi dell’archeologia dei media fu il Museo immaginario di André Malraux, pubblicato nel 1947.31 Malraux esaminava i modi in cui la riproduzione meccanica, in particolare la fotografia, stava modificando il nostro modo di comprendere le immagini e la cultura visuale in generale (senza però riferirsi al celebre saggio di Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936).32 Malraux mostrava come la disponibilità di riproduzioni, senza precedenti per la storia dell’arte, stava trasformando il passato in un archivio, e spingeva l’osservatore a disegnare connessioni tra la tradizione visuale e una serie di motivi iconografici che fino a quel momento erano considerati come slegati da essa. INFLUENZE: L’ARCHEOLOGIA DEL SAPERE E IL NUOVO STORICISMO
L’opera di Michel Foucault ha avuto un forte impatto sull’archeologia dei media. Un’archeologia della sua “archeologia del sapere” sarebbe estremamente utile in questo contesto, ma non può essere sviluppata in questa sede.33 I tentativi fin qui condotti di classificare l’archeologia dei media hanno delineato una divisione tra gli studi culturali e sociali angloamericani da un lato e, dall’altro, l’approccio tecnologico e materialista proprio degli studiosi tedeschi – che hanno preso le mosse dalla sintesi di Foucault operata da Friedrich Kittler, dalla teoria dell’informazione, dalla storia dei media e dall’accento posto da McLuhan sul medium come messaggio.34 La tradizione tedesca enfatizzerebbe il ruolo della tecnologia come primum mobile, il che ha portato ad accuse di determinismo tecnologico; al contrario, gli studiosi angloamericani partirebbero dal presupposto che il significato della tecnologia dipende dal contesto culturale preesistente in cui questa si inserisce. Una simile divisione può essere compresa come conseguenza di due differenti letture di Foucault. La tradizione angloamericana infatti ha valorizzato Foucault come pensatore che ha saputo 306
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mettere in luce il ruolo del discorso, inteso come luogo in cui il sapere si lega al potere culturale e sociale. Corpi materiali, eventi e istituzioni sono tutti condizionati da formazioni discorsive. Gli effetti del sostrato materiale della tecnologia vengono considerati secondari rispetto alle forze immateriali che intervengono a differenziare e a mediare i loro utilizzi. Al contrario, sul versante tedesco dell’archeologia dei media troviamo una lettura decisamente diversa di Foucault, fortemente influenzata dalla Aufschreibesysteme 1800/1900 (1985) di Kittler, la sua rivoluzionaria tesi di abilitazione che affrontava l’impatto delle tecniche e dei media del xix secolo sulla letteratura e sulle pratiche di scrittura,35 e dal successivo Grammophon Film Typewriter (1986) che, condividendo le stesse premesse di base, si concentrava più direttamente sulle tecnologie mediali.36 Kittler sosteneva la necessità di adattare l’accento posto da Foucault sulla predominanza delle parole e delle biblioteche a modi di comprensione della cultura che tenessero maggiormente conto della specificità mediale di quest’ultima. Secondo lui “l’analisi del discorso ignorava il fatto che le condizioni fattuali non rappresentassero un semplice esempio metodologico ma fossero, in ogni caso specifico, un evento tecno-storico”.37 Per poter comprendere le tecnologie mediali – partendo dal grammofono, dalla macchina da scrivere e dal cinema fino alle reti digitali e ai linguaggi di programmazione del software – occorre esaminare la loro particolare natura materiale: un’idea che gli allievi di Kittler come Wolfgang Ernst hanno adottato come prospettiva per la loro linea di ricerca.38 È probabilmente in questo senso che Michael Wetzel propone una lettura congiunta di Foucault e di Kittler nelle sue “considerazioni preliminari per un’archeologia dei media”, pubblicate nel 1989 all’interno di una raccolta di testi che già conteneva nel suo titolo l’espressione “archeologia dei media”.39 Ciononostante Kittler non affermò mai di volersi concentrare unicamente sulla tecnologia o sugli apparati tecnologici. Fin dall’inizio egli pose l’accento sul ruolo delle istituzioni come snodi essenziali nella rete delle tecnologie mediali. Per quanto Kittler sia stato visto molto spesso come parte di quella generazione di studiosi tedeschi determinati a spingere la teoria dei media lontano dal significato e dall’interpretazione, egli non ha certo trascurato le implicazioni della tecnologia nei confronti del potere. Come 307
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spiega uno dei curatori di un recente numero della rivista Grey Room, nella teoria dei media tedesca si può individuare una tendenza a enfatizzare “gli effetti epistemici dei media nella produzione e nell’elaborazione del sapere” e “la dimensione mediale dei meccanismi di potere”.40 Onde evitare che il suo lavoro e la sua posizione intellettuale venissero classificati secondo dei modelli binari, Kittler ha rifiutato qualsiasi associazione con la nozione di archeologia dei media.41 Il suo lavoro più recente si è rivolto, seguendo un’ispirazione heideggeriana, a uno scavo della storia della cultura occidentale attraverso la musica e la matematica.42 Gli archeologi dei media angloamericani – che si riconoscano o meno in questa nozione – hanno subito l’influsso del Nuovo Storicismo emerso negli anni Ottanta del Novecento. Apparso inizialmente in seno all’ambito letterario, esso si è presto diffuso in altre discipline compresa la storia, ispirando un movimento conosciuto come nuova storia culturale.43 Tra le varie fonti, il neostoricismo era influenzato anche da Foucault, per quanto le sue idee non fossero assimilate senza discussioni.44 In modo molto appropriato, H. Aram Veeser ha sintetizzato gli assunti fondamentali di tale corrente secondo i seguenti criteri: 1) ogni atto espressivo è incorporato in una rete di pratiche materiali; 2) ogni atto di smascheramento, critica e opposizione si serve degli strumenti che condanna e rischia di essere vittima delle pratiche che denuncia; 3) i “testi” letterari e non-letterari circolano in modo inseparabile; 4) nessun discorso, immaginario o archivistico, può dare accesso a verità immutabili o esprimere una natura umana inalterabile; 5) infine […] un metodo critico e un linguaggio adeguato per descrivere la cultura nella fase del capitalismo fa parte dell’economia che mira a descrivere.45
Applicato allo studio della storia, il neostoricismo introduceva un approccio autoriflessivo e orientato al discorso che spesso ibridava discipline limitrofe, come l’antropologia simbolica di Clifford Geertz e il campo multiforme degli studi culturali.46 Si sviluppò così una duplice tendenza: da un lato, si assumeva che gli storici si immergessero nel passato, osservandolo come attraverso gli occhi dei contemporanei; dall’altro, essi dovevano rimanere costantemente coscienti del loro particolare punto di osservazione nel presente, con tutte le implicazioni ideologiche che questo com308
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portava.47 Il processo di ricerca si spostava di continuo tra i fatti del passato, che andavano a formare delle costellazioni di senso, e la soggettività dell’osservatore. La spiegazione storica era quindi formulata sulla base e nella forma di un campo dinamico in cui giocano molteplici fattori, dinamici piuttosto che statici. Gli studi di archeologia dei media, sviluppatisi sotto l’influenza di una simile forma di pensiero, prendevano in esame gli aspetti materiali e tecnologici a partire dalle loro manifestazioni discorsive. L’Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002) di Giuliana Bruno creava una trama di “viaggi” attraverso la storia (considerata come un luogo o una mappa) secondo un andamento non lineare, suscitato dalle “e-mozioni” (e dalla malattia) dell’autrice.48 Il soggetto osservatore e senziente divenne così il fulcro organizzatore per un materiale altamente eterogeneo, dando talvolta al testo uno stile narrativo o diaristico, per quanto esso fosse caratterizzato come una “storia culturale”.49 Un altro esempio, per quanto meno incentrato sulla posizione dell’osservatore, è Haunted Media: Electronic Presence from Telegraphy to Television (2000) di Jeffrey Sconce, uno studio che esplorava come il discorso del soprannaturale fosse una presenza costante nel contesto delle telecomunicazioni e dei media televisivi.50 Sebbene Sconce definisse il proprio lavoro come “una storia culturale della presenza elettronica”, l’attenzione rivolta a quest’ultima come costrutto sociale mutevole, così come la sua analisi delle continuità e rotture che si manifestavano nella ricomparsa di “narrazioni e motivi che si ripresentavano, con incarnazioni sempre nuove, con l’avvento di ogni nuovo medium”, mostrava con chiarezza un approccio che possiamo definire media-archeologico.51 CONTROCORRENTE RISPETTO A (QUASI) OGNI COSA
La versione dell’archeologia dei media declinata da Siegfried Zielinski va compresa come una pratica di resistenza, non solo nei confronti della crescente uniformità della cultura mediale mainstream, ma anche nei confronti dell’archeologia dei media stessa, o meglio della sua assimilazione e del suo irrigidimento, che vanno di pari passo con la normalizzazione dei media studies come disciplina. Considerare l’archeologia dei media come un “metodo”, fissato nero su bianco in un testo accademico, sarebbe senza dubbio 309
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uno scenario horror per Zielinski, che, per definire la propria “attività” (Tätigkeit), si serve di altri termini, come “anarcheologia” e “variantologia”, esprimendo così un certo malessere nei confronti delle categorie e delle dottrine stabilite. Per lui, l’archeologia dei media “in una prospettiva pragmatica, significa portare alla luce dei percorsi segreti della storia, che potrebbero aiutarci a trovare un modo per rivolgerci al futuro”.52 Questa formulazione rivela il carattere utopistico e romantico che sottende il pensiero di Zielinski, non senza delle (produttive?) contraddizioni. I primi lavori di Zielinski non erano ancora identificati come “media-archeologici”. Zur Geschichte des Videorecorders [Sulla storia del videoregistratore] (1986) presentava un’esplorazione densa e dettagliata della questione, che abbracciava aspetti tecnologici, istituzionali ed economici, ma anche socioculturali.53 Il testo conteneva anche una sezione speciale, “Aspetti della registrazione video nelle immagini”, una sorta di saggio visuale che già si orientava verso delle problematiche media-archeologiche. La sua principale opera successiva, pubblicata per la prima volta nel 1989 e che portava il titolo Audiovisionen: Kino und Fernsehen als Zwischenspiele in der Geschichte [Audiovisioni: cinema e televisione come intermezzi nella storia], si definiva come un “abbozzo di una storia dell’audiovisione” [Entwurf zu Geschichte der Audiovision], o un contributo per una “storia integrata dei media” [integrierte Mediengeschichte].54 Attingendo a una immensa massa di fonti e materiali eterogenei, quest’opera dimostrava come le distinzioni tra i diversi media audiovisivi fossero state gradualmente cancellate nel corso del xx secolo.55 Sotto l’influsso dell’opera di Kittler, un dibattito intorno all’archeologia dei media emerse in Germania alla fine degli anni Ottanta, ma ovviamente Zielinski non ne faceva ancora parte; le sue fonti erano diverse.56 Per quanto il costrutto teorico sotteso a Audiovisionen fosse più implicito che esplicito (come Zielinski stesso ha ammesso), egli individuò la triade “tecnologia-culturasoggetto”, identificando ciascuno di questi elementi con una tradizione intellettuale recente che lo aveva influenzato: gli studi culturali britannici rappresentati da Raymond Williams; la storia della tecnologia tedesca che aveva elaborato uno specifico approccio sistemico (Günter Ropohl); e le teorie metapsicologiche del cinema di Jean-Louis Baudry, Jean-Louis Comolli e Christian Metz, 310
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che avevano messo in luce la nozione di dispositivo cinematografico.57 Zielinski affermava di non voler “competere con altri modelli che mettevano maggiormente l’accento sulla tecnostruttura dei processi mediali (come per esempio quelli di Friedrich Kittler e dei suoi allievi)”, e vedeva piuttosto il proprio paradigma come “supplementare”.58 Il percorso effettuato da Zielinski, da Audiovisionen all’archeologia dei media, appare logico.59 Il suo progetto lo condusse alla “fine della storia del cinema e della televisione”, nei quali egli vide solo uniformità e uno sfruttamento industriale illimitato, sorprendentemente in linea con la posizione di Adorno e Horkheimer. I “nuovi media” non procuravano conforto, in quanto le loro potenzialità erano per lo più utilizzate per rimediare e perpetuare le forme egemoniche. Zielinski iniziò a orientarsi in due direzioni, in apparenza opposte, ma che in definitiva miravano al medesimo obiettivo: rompere la psychopathia medialis della cultura mediale moderna. Da un lato, si trovavano gli artisti contemporanei radicali, la cui azione era potenzialmente in grado di cortocircuitare i cattivi obiettivi della cultura industriale; dall’altro lato, vi erano i tesori nascosti del passato, che potevano fornire delle chiavi per un rinnovamento culturale. La posizione di Zielinski era inoltre influenzata dal suo ruolo come fondatore e in seguito rettore dell’Accademia delle Arti e dei Media di Colonia, che gli diede l’opportunità di costruire connessioni tra gli studi sui media e le pratiche mediali sperimentali.60 Il testo successivo di Zielinski, Deep Time of the Media: Toward an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means (2002), si immergeva nel “tempo profondo” dei media, offrendo una serie di studi – scritti in uno “spirito di elogio e non di critica” – dedicati all’opera di alcune personalità che prima di allora erano state associate molto raramente con la cultura mediale.61 Tra gli altri, Empedocle, Athanasius Kircher, Cesare Lombroso erano presentati come esempi di individui geniali che, per passione e ispirazione, erano andati controcorrente rispetto alle aspettative e tendenze del mondo che li circondava.62 Nella concezione di Zielinski almeno, essi erano accomunati a un’altra serie di eroi culturali, artisti contemporanei che lavoravano con i media, come Valie Export, David Larcher, Nam June Paik, Steina e Woody Vasulka e Peter Weibel.63 Ideologicamente, Zielinski sembrava quasi voler alludere al clas311
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sico della letteratura romantica Gli eroi e il culto degli eroi (1841) di Thomas Carlyle. Egli si immergeva a capofitto e con pathos nel mondo dei suoi eroi, respingendo prospettive critiche, scettiche e orientate alla teoria.64 L’interpretazione degli strumenti del comunicare offerta da Zielinski è insolita per la sua apertura (richiamando forse senza volerlo le definizioni “amebiche” di McLuhan) e il suo appetito intellettuale senza limiti.65 Il suo recente progetto ancora in corso, dal titolo Variantology, una serie di antologie basate su workshop internazionali, sembra concepito per portare avanti, e far salire di livello, il suo appello per un’eterogeneità radicale. I suoi concetti chiave sono ben espressi dalla traduzione del verbo latino variare: “essere differente, deviare, mutare, alternarsi, modificarsi”.66 La sua variantologia – marchio di fabbrica della sua archeologia dei media – promuove lo sviluppo di esplorazioni “locali”, rifiutando di inserirle in teorie onnicomprensive come hanno fatto altri teorici visuali il cui lavoro rivela una propensione per l’approccio storico, come per esempio Jonathan Crary.67 L’appello di Zielinski per l’apertura, la curiosità e il “traffico” tra diverse discipline è encomiabile, ma la sua evidente resistenza alla sistematizzazione e alla teoria rischia di condurlo all’atomismo. LA NUOVA STORIA DEL CINEMA, L’ARCHEOLOGIA DEI MEDIA E LA SFIDA DEL DIGITALE
La “nuova storia del cinema” può ben essere vista come un’impresa parallela all’archeologia dei media; entrambe hanno origine negli anni Ottanta e sono ancora oggi in piena evoluzione.68 Sebbene i contorni della prima siano ben lontani dall’essere definiti, molti dei suoi esponenti hanno cercato nuovi spunti di riflessione per pensare la natura specifica del cinema attraverso un’estesa contestualizzazione culturale, sociale ed economica, sulla base della consultazione di varie fonti dirette, e ponendo una particolare attenzione ai rapporti intermediali che il cinema intrattiene con altri media. In un certo senso, anche Audiovisionen di Zielinski andava in questa direzione, ma, oltrepassando l’orizzonte di molti storici del cinema, egli si concentrava sulla relazione reciproca tra tecnologia, forme culturali e soggetti della visione, e poneva invece una minore attenzione al contenuto di film o programmi 312
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televisivi; il contesto e l’apparato tecnologico avevano perciò un ruolo di primo piano. Il bisogno di contestualizzazione e intermedialità era ben espresso in un articolo di Thomas Elsaesser intitolato “The new film history as media archaeology”: Il suono per esempio, dal momento che il cinema muto era raramente o quasi mai un cinema silenzioso; da cui: perché la storia del fonografo non è presa in esame come uno dei suoi affluenti? E se oggi consideriamo il cinema come parte di un ambiente multimediale, cosa dire del telefono come tecnologia indispensabile? Delle onde radio? Dei campi elettromagnetici? Della storia dell’aviazione? Non ci sono forse indispensabili il motore differenziale di Babbage sviluppato parallelamente alla calotipia del suo amico Henry Fox-Talbot, o le lastre di rame di Louis Daguerre? Queste domande in sé mostrano fino a che punto la nostra idea – e forse anche la nostra definizione – di cinema è mutata anche senza fare appello alla digitalizzazione, che è tuttavia implicita come una potenza in grado di “correggere la prospettiva” e funziona così come un impulso in questa riscrittura retrospettiva del passato.69
Secondo Elsaesser uno degli obiettivi della nuova storia del cinema è consistito nell’esplorare la natura peculiare dell’esperienza cinematografica fino all’incirca al 1917.70 Gli scritti di Tom Gunning sul cinema delle attrazioni, il lavoro di Charles Musser sulla storia delle pratiche dello schermo, e le esplorazioni di André Gaudreault sui primi media ottici ne sono esempi rappresentativi.71 Gunning ha inoltre pubblicato diversi studi che legano il cinema delle origini ad altri media, a fenomeni tecnologici come la fotografia di fantasmi e i raggi X, e ad alcune istituzioni emergenti della modernità, come per esempio le esposizioni universali. Analogamente, Anne Friedberg in Window Shopping (1993) tracciava punti di connessione tra le origini del cinema e le forme e istituzioni della cultura popolare e consumistica emergente nel xix secolo, creando un approccio che sollevava questioni in una prospettiva chiaramente media-archeologica.72 In The Virtual Window (2006) la sua analisi si spingeva centinaia di anni all’indietro, allontanandosi così ulteriormente dal paradigma degli studi cinematografici. Per Elsaesser una delle sfide principali risiede nella rivalutazione delle connessioni e degli intervalli tra le diverse tecnologie mediali. Il violento attacco della digitalizzazione forza il cinema a 313
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ripensare allo stesso tempo la propria posizione culturale e la propria storia. Considerare il digitale come una frattura fornisce uno strumento concettuale per comprendere la storia dei media come uno sviluppo discontinuo, che necessita di essere costantemente messo in discussione. Il linguaggio dei nuovi media (2001) di Lev Manovich ha offerto una versione della teoria dei nuovi media caratterizzata da un’inflessione storica, che prendeva le mosse dai cinema studies e dalla film theory. Manovich proponeva di collocare i nuovi media “entro la storia delle moderne culture visive e mediali”73 e individuava così alcune linee di continuità tra le prime avanguardie, le pratiche del film d’animazione e la cultura digitale emergente – basata secondo lui sulla rappresentazione numerica, la modularità, l’automazione, la variabilità e la transcodifica. Oltre alla storia e alla teoria del cinema, egli attingeva alla tradizione della Bildwissenschaft, compreso il lavoro di Erwin Panofsky. L’attenzione per i nuovi media viene così a modificare il significato storico e il contesto del cinema, in quanto passa da un’idea di cinema improntata alla narratività lineare, a una nozione sufficientemente flessibile da accogliere l’interattività, la navigabilità e la rappresentazione e trasmissione digitale. Gli studi di storia e di teoria dei media che prendono le mosse dai film studies costituiscono dunque uno stimolo per un rinnovamento continuo dell’archeologia dei media. Ma come evitare di ridurre ogni altro medium a una nota a piè di pagina della storia dell’immagine in movimento? Un’alternativa è rappresentata dall’influsso di recenti studi, orientati in una prospettiva archeologica, che concentrano l’attenzione sulla dimensione uditiva della cultura e della storia.74 ARCHEOLOGIA DEI MEDIA, ARTE E VITA QUOTIDIANA
Certo, l’archeologia dei media può non essersi organizzata come una disciplina, e può vagabondare alla periferia delle istituzioni attirando l’attenzione di accademici precedentemente fedeli alle discipline istituite: qualche volta può evitare di definire la propria identità, o persino ignorarla, tutta presa dal processo della propria autoscoperta. Eppure l’archeologia dei media è già molto di più di una semplice postilla all’opera di Foucault o di Kittler. Non dobbiamo dimenticare gli studi di Bernhard Siegert sul sistema postale; la ricerca di Wolfgang Ernst sull’archeologia dei media tecni314
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ci e degli archivi; gli studi di Claus Pias sulla costellazione storica dei computer games, o l’archeologia dei virus informatici e degli “insect media” di Jussi Parikka – senza considerare tutti i contributi scientifici che possono essere inclusi in un approccio mediaarcheologico anche laddove questi si identifichino esplicitamente come tali.75 Mettendo in luce questa eterogeneità non miriamo a frammentare deliberatamente il corpus teorico e pratico dell’archeologia dei media, quanto piuttosto ad incoraggiare degli “itinerari” tra discorsi e discipline. Tuttavia, di fronte a questa straordinaria varietà, rimane il bisogno di definire degli approcci e forse persino di cristallizzarli in “metodi”, se non altro in una prospettiva locale e strategica. La variante dell’archeologia dei media elaborata da Erkki Huhtamo si muove in questa direzione programmatica, traendo origine dallo sforzo di applicare al campo della cultura mediale l’idea di topos, sviluppata dallo studioso di letteratura tedesco Ernst Robert Curtius nel suo ormai classico Europäische Literatur und lateininsches Mittelalter [Letteratura europea e medioevo latino] (1948).76 L’approccio che ne deriva tende a respingere l’idea di “nuovo”, che molto spesso caratterizza il discorso della cultura mediale, sia critico sia popolare, per porre l’accento invece sul cliché, il luogo comune e il “logoro [tired]” (per riprendere un termine utilizzato dalla rivista Wired). Identificare modi in cui la cultura mediale si appoggia sul già noto è tanto essenziale quanto determinare come essa incarna e promuove configurazioni mai viste prima. In realtà questi due aspetti sono interconnessi; il nuovo è “rivestito” di formule che potrebbero essere vecchie di centinaia di anni, laddove invece il vecchio è in grado di fornire dei “modelli” per comprendere le innovazioni culturali e i mutamenti di prospettiva. L’approccio di Huhtamo non si limita però a identificare dei topoi, a tracciare le loro traiettorie ed esplorare le circostanze della loro reiterata ricomparsa. Esso intende anche dimostrare come i topoi sono costantemente evocati dagli attori culturali, a partire da portavoce, rappresentanti di commercio, uomini politici, fino a scrittori, giornalisti, curatori di mostre e (ultimi ma non meno importanti) dagli artisti mediali che se ne servono per diversi scopi – dal lancio delle vendite e dalla persuasione ideologica, fino alla riflessione estetica sulla cultura e sulla storia dei media. Questo interesse conferisce all’approccio di Huhtamo un carattere criti315
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co-culturale.77 Per quanto gli stessi attori culturali non sempre lo riconoscano, la dimensione propria all’archeologia dei media è un elemento essenziale della mentalità contemporanea, costantemente bombardata dai media e dai mezzi di comunicazione. Dimostrando come il passato dei media continua a vivere nel presente, guidando e dando forma ai comportamenti quotidiani, l’approccio del topos contribuisce a individuare le novità e le innovazioni, così come i punti di rottura nella cultura mediale. Come Huhtamo ha già avuto modo di sottolineare nel suo saggio “Time machines in the gallery: An archeological approach in media art” (1996), un numero crescente di artisti che conoscono l’archeologia dei media traggono ispirazione da queste ricerche e vi contribuiscono attraverso le loro creazioni e scoperte.78 Questo ha condotto a sviluppare intriganti parallelismi e connessioni tra la ricerca e la creazione artistica.79 Artisti come Paul DeMarinis e Toshio Iwai hanno utilizzato le loro esplorazioni archeologiche per costruire delle storie dei media alternative e ipotetiche, mentre altri, come Zoe Beloff, Heidi Kumao, Rebecca Cummins e Ellen Zweig, hanno immaginato le implicazioni psicologiche o legate al gender delle tecnologie del passato, rendendole visibili attraverso le loro ri-creazioni. Altri ancora hanno riprodotto delle versioni idiosincratiche di media “obsoleti”, liberando il loro potenziale inesplorato; Ken Jacobs, Bernie Lubell e Gebhard Sengmüller sono esempi significativi di questa tendenza. Anche per Iwai, DeMarinis e Julien Marie l’archeologia dei media è una fonte di ispirazione per le loro sorprendenti creazioni high-tech, come Electroplankton di Iwai (concepito per Nintendo ds) e tenori-on (sviluppato in collaborazione con Yamaha), Rain Dance e Firebirds di DeMarinis e Demi-Pas di Marie, una versione del xxi secolo della lanterna magica. Se a prima vista queste opere non rivelano la loro ascendenza media-archeologica, esse creano però un movimento ciclico a cui senza dubbio molti archeologi dei media aderirebbero. Non vi è separazione ma, al contrario, uno scambio costante, un continuo viaggio nel tempo. Il passato è portato nel presente e il presente nel passato; essi si danno forma e si illuminano reciprocamente, suscitando questioni e prospettando scenari futuri che potrebbero svilupparsi – oppure no.
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NOTE
1. Il lettore italiano potrà trovare molti riferimenti bibliografici in J. Parikka, Che cos’è l’archeologia dei media, tr. it. di E. Campo, Carocci, Roma 2017 e in G. Fidotta, A. Mariani (a cura di), Archeologia dei media. Temporalità, tecnologia, materia, Meltemi, Milano 2017. [NdC] 2. Per esempio Trebor Scholz del Department of Media Study, suny a Buffalo; Alex Galloway e Ben Kafka, Department of Media, Culture, and Communication, New York University; Darren Wershler-Henry, Department of Communication Studies, Wilfrid Laurier University; Wendy Chun, Committee on Science and Technology Studies, Brown University; Erkki Huhtamo, Department of Design | Media Arts, University of California, Los Angeles. 3. Jeffrey T. Schnapp utilizza il termine antropologia nelle sue esplorazioni delle manifestazioni culturali della velocità, per quanto il suo approccio non lineare e antideterministico presenti dei paralleli con quello degli archeologi dei media (certo, i mezzi di trasporto sono per lui di maggiore interesse rispetto ai movimenti virtuali nei media). Vedi il suo “Crash (speed as engine of individuation)”, in Modernism/Modernity, 6, 1, 1999, pp. 1-49. Il progetto di libro che Schnapp prepara porta il titolo “Quickening: On the cultural history and anthropology of speed”. Altri contributi rilevanti che non fanno uso dell’espressione “archeologia dei media”, ma presentano somiglianze con tale approccio (associati in particolare ai women’s studies) sono T. Castle, The Female Thermometer: 18th Century Culture and the Invention of the Uncanny, Oxford University Press, New York 1995; R.P. Maines, The Technology of Orgasm: “Hysteria”, the Vibrator, and Women’s Sexual Satisfaction, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1999; e L. Spigel, Make Room for tv, University of Chicago Press, Chicago-London 1992. Bisogna inoltre riconoscere la risonanza del sito web “Early visual media archaeology”, curato dal collezionista e appassionato di media ottici Thomas Weynants (www.visual-media.be, ultima visita 15 giugno 2017). 4. In Window Shopping, testo che presenta molte affinità con l’approccio media-archeologico, per quanto si situi all’interno del paradigma degli studi cinematografici, Anne Friedberg afferma: “Siccome questo libro oltrepassa i confini disciplinari (architettura, letteratura, film, cultura consumistica) e poiché ritengo che il testo filmico debba essere letto nel contesto architetturale della sua ricezione, piuttosto che come un prodotto estetico autonomo, il mio metodo può essere definito come neostoricistico” (A. Friedberg, Window Shopping: Cinema and the Postmodern, University of California Press, Berkeley 1993, p. 6). 5. G. Lovink, Internet non è il paradiso. Reti sociali e critica della cibercultura (2009), tr. it. di M. Deseriis, Apogeo, Milano 2004, p. 7. [Traduzione modificata. NdC] 6. Il notevole libro di Timon Screech, The Lens within the Heart: The Western Scientific Gaze and Popular Imagery in Later Edo Japan (1996), University of Hawaii Press, Honolulu 2002, può essere considerato una ricerca
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di archeologia dei media, sebbene Screech non faccia esplicito uso del termine. La studiosa giapponese di media Machiko Kusahara ha inoltre contribuito all’archeologia dei media con numerosi articoli. 7. Vedi J. Malina, Z. Vašiček, Archaeology Yesterday and Today: The Development of Archaeology in the Sciences and Humanities, a cura di M. Zvelebil, Cambridge University Press, Cambridge 1990. Sul rapporto tra archeologia e nuova storia culturale vedi I. Morris, Archaeology as Cultural History: Words and Things in Iron Age Greece, Blackwell, Malden 2000, cap. 1. 8. M. Bal, Travelling Concepts in the Humanities, University of Toronto Press, Toronto 2002. 9. J. Perriault, Mémoires de l’ombre et du son: Une archéologie de l’audiovisuel, Flammarion, Paris 1981, p. 13. Il testo di Perriault non è da considerarsi attuale, se non da un punto di vista storiografico, in quanto è cosparso di errori e molte delle sue interpretazioni si sono rivelate scorrette. 10. Ibidem, p. 18. 11. C.W. Ceram, Archeologia del cinema (1965), tr. it. di A. Comello, Mondadori, Milano 1966, p. 154 [enfasi degli autori. NdC]. La contraddizione tra il testo e l’apparato visivo proposto è stata sottolineata da Erkki Huhtamo, nel suo “From kaleidoscomaniac to cybernerd: Notes toward an archaeology of the media”, in T. Druckrey (a cura di), Electronic Culture: Technology and Visual Representation, Aperture, New York 1996, pp. 296-303, 425-427, e discussa in seguito da Stephen Herbert nella sua introduzione a S. Herbert (a cura di), A History of Pre-cinema, Routledge, London 2000, pp. xxv-xxvi. 12. La stessa Olive Cook ha già pubblicato un libro su tale questione: Movement in Two Dimensions, Hutchinson, London 1963. Vi si trova presentata una visione decisamente più ampia, che si allontana dalle catene di causa-effetto proposte da Ceram per esaminare anche dei fattori discorsivi. 13. L. Mannoni, La grande arte della luce e dell’ombra. Archeologia del cinema (1994), tr. it. di S. Toffetti, Lindau, Torino 2007. 14. Nel catalogo di una mostra da lui curata e consacrata a un’“archeologia del cinema”, Mannoni sottolinea che “questa lunga storia è complessa, piena di soprese, misteri e scoperte straordinarie” (L. Mannoni, Trois siècles de cinéma: de la lanterne magique au Cinématographe, Réunion des musées nationaux, Paris 1995, p. 13). Il titolo accattivante è dovuto al fatto che la mostra era proposta in occasione del centenario della nascita del cinema. Nella prefazione, Dominique Païni parla di una prospettiva antropologica, sottolineando come la mostra non affrontasse solo le tecnologie ma anche le credenze associate a esse, vedi ibidem, p. 11. 15. Vedi T.W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (1944), tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1966, “L’industria culturale – Quando l’Illuminismo diventa mistificazione di massa”, pp. 126-181; R. Hoggart, The Uses of Literacy, Chatto and Windus, London 1957. Mentre Adorno e Horkheimer descrissero l’“industria culturale” come monolitica, anonima e alienante, Hoggart sottolineava invece come la classe dei lavoratori fosse anche in grado di leggere “a contropelo” i prodotti dell’industria culturale mediale.
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16. M. McLuhan, La galassia Gutenberg (1962), tr. it. di S. Rizzo, Armando, Roma 2011, e, dello stesso autore, Counterblast, Brace and World, New York 1969; M. McLuhan, Q. Fiore, Il medium è il massaggio. Un inventario di effetti (1967), tr. it. di R. Petrillo, Feltrinelli, Milano 1968 (ora Corraini, Mantova 2011). 17. Tradotto in italiano con il titolo Gli strumenti del comunicare (1964), tr. it. di E. Capriolo, il Saggiatore, Milano 2015. [NdC] 18. J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi (1999), tr. it. di B. Gennaro, Guerini e Associati, Milano 2003. Il titolo originale Remediation: Understanding New Media, faceva esplicito riferimento al classico di McLuhan Understanding Media: The Extensions of Man [tradotto in italiano con Gli strumenti del comunicare, cit. NdC]. 19. Sul quale vedi la scheda e il saggio “Grammofono, film, macchina da scrivere”, infra, cap. 9. [NdC] 20. Nel suo The Virtual McLuhan (McGill-Queen’s University Press, Montreal 2001), Donald F. Theall ha definito McLuhan come un “satiro menippeo” più che un teorico dei media. 21. L. Mumford, Tecnica e cultura (1934), tr. it. di E. Gentili, Net, Milano 2005. 22. Un simile approccio non rimaneva un caso isolato. Nuove idee riguardo a un’“evoluzione della tecnologia” emergevano su un più vasto fronte, dagli scritti di narrativa di Samuel Butler alla collezione di strumenti del Generale A. Lane Fox Pitt-Rivers, fino alle dispute a proposito delle relazioni sistemiche tra artefatti tecnologici. Dopo la Seconda guerra mondiale, il filosofo francese Gilbert Simondon diede seguito a questa linea con la sua individuazione degli oggetti tecnici e delle idee della storia materiale da un punto di vista apersonale (o “preindividuale”), G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques (1958), Aubier, Paris 2012. 23. S. Giedion, L’era della meccanizzazione (1948), tr. it. di M. Labò, Feltrinelli, Milano 1967, p. 12. [Traduzione modificata. NdC] 24. Ibidem, p. 13. [Traduzione modificata. NdC] 25. L’influenza di entrambi gli autori può essere apprezzata nel testo di J. Crary, Le tecniche dell’osservatore. Visione e modernità nel xix secolo (2010), tr. it. di M. Vigiak, Einaudi, Torino 2013, un altro testo che presenta grandi affinità con degli interessi media-archeologici. 26. W. Benjamin, I “passages” di Parigi (1927-1940), a cura di R. Tiedemann e E. Ganni, Einaudi, Torino 2010. Vedi anche la creativa ricostruzione di S. Buck-Morss, The Dialectics of Seeing: Walter Benjamin and the Arcades Project, mit Press, Cambridge (ma) 1991. Per un’eccellente introduzione al pensiero di Benjamin si rimanda a N. Bolz, W. van Reijen, Walter Benjamin, Campus Verlag, Frankfurt am Main 1991. 27. D. Sternberger, Panorama del xix secolo (1938), tr. it. di M. Keller, il Mulino, Bologna 1985. Quest’opera ha avuto una forte influenza sullo storico culturale Wolfgang Schivelbusch, la cui ricerca presenta inoltre affinità con un approccio media-archeologico.
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28. H. Bredekamp, “Una tradizione trascurata? La storia dell’arte come Bildwissenschaft”, in A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, tr. it. di S. Pezzano, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 137-154. 29. Riguardo a questo progetto, vedi P.-A. Michaud, Aby Warburg et l’image en mouvement, prefazione di G. Didi-Huberman, Macula, Paris 1998. 30. P. Väliaho, The Moving Image: Gesture and Logos circa 1900, University of Turku Publications, Turku 2007, pp. 215-217. 31. Il “Museo immaginario” di Malraux fu pubblicato come primo tomo di Psychologie de l’art i. Le Musée imaginaire, Skira, Geneve 1947, poi confluito in Les voix du silence, Gallimard, Paris 1951. 32. W. Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, pp. 17-73. [NdC] 33. Per un’introduzione critica e un’analisi penetrante di tale questione, vedi H.L. Dreyfus, P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analisi della verità e storia del presente (1982), tr. it. di D. Benati, M. Bertani e I. Levrini, La Casa Usher, Firenze 2010, capp. 2 e 4. Foucault ha inoltre delineato i principi del suo approccio archeologico in due libri: Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (1966), tr. it. di E. Panaitescu, con un saggio critico di G. Canguilhem, Rizzoli, Milano 1998, e L’archeologia del sapere. Una metodologia per la storia della cultura (1969), tr. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1999. 34. È evidente il debito di Kittler nei confronti di McLuhan. A tal proposito vedi W. Hui Kyong Chun, “Introduction: Did somebody say new media?”, in W. Hui Kyong Chun, T. Keenan (a cura di), New Media, Old Media: A History and Theory Reader, Routledge, New York 2006, p. 4. 35. F. Kittler, Aufschreibesysteme 1800/1900, Wilhelm Fink, München 1985. 36. F. Kittler, Grammophon Film Typewriter, Brinkmann & Bose, Berlin 1986. [Vedi la traduzione dell’introduzione del volume, infra, cap. 9. NdC] 37. Gli autori rimandano nel testo alla traduzione inglese: F. Kittler, Gramophone, Film, Typewriter, tr. ingl. di G. Winthrop-Young e M. Wutz, Stanford University Press, Stanford 1999, p. 229. [NdC] 38. A partire dall’opera di Foucault e di Kittler, Wolfgang Ernst ha proposto che i media siano indagati primariamente come canali non-significativi. Il contenuto fenomenologico della comunicazione viene troppo spesso frainteso come la vera essenza dei media. Per Ernst invece, l’archeologia dei media deve concentrarsi sull’agentività della macchina, sui modi in cui i media tecnici sono in grado di contrarre lo spazio e il tempo. Vedi W. Ernst, “Let there be irony: Cultural history and media archaeology in parallel lines”, in Art History, 28, novembre 2005, pp. 582-603. 39. M. Wetzel, “Von der Einbildungskraft zur Nachrichtentechnik: Vorueberlegungen zu einer Archäologie der Medien”, in P. Klier, J.-L. Evard (a cura di), Mediendämmerung: Zur Archäologie der Medien, Tiamat, Berlin 1989, pp. 16-17. 40. E. Horn, “Editor’s introduction: There are no media”, in Grey Room, 29, autunno 2007, p. 10.
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41. J. Armitage, “From discourse networks to cultural mathematics: An interview with Friedrich A. Kittler”, in Theory, Culture and Society, 23, 7-8, 2006, pp. 32-33. 42. F. Kittler, Musik und Mathematik, Wilhelm Fink, München 2006. 43. Vedi L. Hunt (a cura di), The New Cultural History, University of California Press, Berkeley 1989. 44. Vedi P. O’Brien, “Michel Foucault’s history of culture”, in The New Cultural History, cit., pp. 25-46; K. Windschuttle, “The discourses of Michel Foucault: Poststructuralism and antihumanism”, in The Killing of History: How Literary Critics and Social Theorists Are Murdering Our Past, Encounter Books, San Francisco 2000, pp. 131-171. 45. H. Aram Veeser (a cura di), The New Historicism, Routledge, New York 1989, p. xi. 46. Vedi B. Thomas, The New Historicism and Other Old-Fashioned Topics, Princeton University Press, Princeton 1991, e anche la tradizionale critica di K. Windschuttle, sviluppata in The Killing of History, cit. 47. Già negli anni Settanta Hayden White sosteneva che ci fossero diversi modi di scrivere la storia e che il discorso storico in sé potesse essere analizzato in una chiave epistemologica come un modo di produzione del sapere. Vedi H. White, Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, Johns Hopkins University Press, Baltimore 1973. 48. G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002), tr. it. di M. Nadotti, Johan & Levi, Monza 2015. The Telephone Book: Technology, Schizophrenia, Electric Speech di Avital Ronell (University of Nebraska Press, Lincoln 1989) lasciava invece implicita la soggettività dell’autore che, insieme al risultante discorso, altamente idiosincratico, dominava a tal punto il libro da rendere difficile per il lettore valutare la reale materia storica attraverso questo “schermo”. 49. G. Bruno, Atlante delle emozioni, cit., p. 4. 50. J. Sconce, Haunted Media: Electronic Presence from Telegraphy to Television, Duke University Press, Durham 2000. 51. Ibidem, p. 8. 52. S. Zielinski, “Media Archaeology”, in CTheory, ga111, 1996, www. ctheory.net/articles.apsx?id=42. 53. S. Zielinski, Zur Geschichte des Videorecorders, Wissenschaftsverlag Volker Spiess, Berlin 1985 era la tesi di dottorato di Zielinski [pubblicata l’anno successivo, Wissenschaftsverlag Volker Spiess, Berlin 1986. NdC]. 54. S. Zielinski, Audiovisionen: Kino und Fernsehen als Zwischenspiele in der Geschichte, Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbek bei Hamburg 1989. Zielinski voleva dire che sia il cinema sia la televisione erano da considerarsi come semplici intermezzi in una ben più ampia storia dei media? In tal caso, questo si potrebbe considerare un atteggiamento altamente media-archeologico. La scelta di parlare di intermezzo potrebbe inoltre richiamare il film dadaista di Clair e Picabia intitolato per l’appunto Entr’Acte (1924). 55. Retrospettivamente Audiovisionen è dal punto di vista strutturale un’opera relativamente convenzionale di storia lineare dei media. Tuttavia
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il suo apparato illustrato sembra fare segno verso una più ampia potenzialità (in un certo senso, in maniera non dissimile rispetto a quanto si è detto dell’Archeologia del cinema di Ceram). 56. L’espressione “archeologia dei media” sembra essere stata presente nel discorso di Zielinski intorno al 1993-1994. Nel 1994 egli definì l’“archeologia (dei media o delle audiovisioni)” come “un metodo per decostruire le storiografie costruite in una maniera lineare e cronologica, attraverso la ricerca di discorsività locali, forme di resistenza e pratiche espressive, ma anche di immagini del mondo basate sulla tecnica e su mondi di immagini”. 57. [Gli autori si riferiscono all’edizione inglese del testo, pubblicata, con significative aggiunte e rimaneggiamenti nel 1999. NdC] S. Zielinski, Audiovisions: Cinema and Television as Entr’actes in History, tr. ingl. di G. Custance, Amsterdam University Press, Amsterdam 1999, p. 21. 58. Ibidem, p. 21. 59. Il termine “archeologia dei media” è utilizzato in Audiovisionen quando Zielinski fa appello a una futura ricerca sui media. Ibidem, p. 35. 60. La sua affiliazione più recente è presso l’Universität der Künste Berlin, presso l’Institute for Time Based Media, dove occupa la cattedra di Archeologia e variantologia dei media. [Zielinski è inoltre titolare della cattedra “Michel Foucault” e di Teoria dei media presso l’European Graduate School / egs. NdC] 61. S. Zielinski, Archäologie der Medien: Zur Tiefenzeit des technischen Hörens und Sehens, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 2002. [Huhtamo e Parikka si riferiscono alla traduzione inglese del testo: Deep Time of the Media: Toward an Archaeology of Hearing and Seeing by Technical Means, mit Press, Cambridge (ma) 2006, p. 34. NdC] 62. La centralità delle figure descritte era sottolineata anche nella suddivisione dei capitoli che portavano i nomi di Empedocle, Kircher, Lombroso. 63. [Gli autori si riferiscono all’edizione inglese (S. Zielinski, Audiovisions, cit., p. 22) sottolineando che (NdC)] rispetto all’edizione tedesca, pubblicata un decennio prima, la lista è stata modificata. Bill Viola ha perso terreno (forse per essersi mescolato con l’establishment istituzionale), mentre sono stati aggiunti Export, Larcher e i Vasulka. 64. Zielinski dimostra un interesse relativamente scarso nel coinvolgersi esplicitamente nel dialogo con gli studiosi di media a lui contemporanei, appoggiandosi primariamente sui propri incontri personali e materiali con le fonti. Per esempio, non si riferisce all’opera di T.L. Hankins, R.J. Silverman, Instruments and the Imagination, Princeton University Press, Princeton 1995, sebbene questa contenga un capitolo importante su Kircher (vedi cap. 2). Spinto alla discussione in occasione del suo intervento alla Imaginary Media Conference a Amsterdam nel 2004, Zielinski definì il suo metodo come “kircheriano”, riferendosi all’eclettico gesuita del xvii secolo di cui trattava in Archäologie der Medien. 65. [Gli autori si riferiscono all’edizione inglese del testo. NdC] S. Zielinski, Deep Time of the Media, cit., p. 33.
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66. S. Zielinski, S.M. Wagnermaier, “Depth of subject and diversity of method: An introduction to variantology”, in S. Zielinski, S. Wagnermaier (a cura di), Variantology 1, On Deep Time Relations of Arts, Sciences and Technologies, König, Colonia 2007, p. 9. Finora sono stati organizzati cinque workshop e sono stati pubblicati altrettanti volumi: oltre al numero già citato, Variantology 2 (2007), Variantology 3 (2008), Variantology 4 (2010), Variantology 5 (2011), più un’edizione speciale in lingua tedesca: Variantologie (2013). [Al momento della pubblicazione del presente saggio i volumi si fermavano al n. 4. NdC] 67. J. Crary, Le tecniche dell’osservatore, cit. Gli interessi scientifici di Crary sono molti vicini a quelli degli archeologi dei media; vedi in particolare il suo saggio “Géricault, the panorama, and sites of reality in the early nineteenth century”, in Grey Room, 9, autunno 2002, pp. 5-25. 68. La prima occorrenza del termine “nuova storia del cinema” si registra in T. Elsaesser, “The new film history”, in Sight and Sound, 55, autunno 1986, pp. 246-251. Vedi J. Chapman, M. Glancy, S. Harper (a cura di), Introduzione a The New Film History: Sources, Methods, Approaches, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2007, p. 5. 69. T. Elsaesser, “The new film history as media archaeology”, in Cinémas, 14, 2-3, 2004, p. 86. L’impulso teorico sotteso alla versione di Elsaesser dell’archeologia dei media discende dagli scritti genealogici di Foucault, in particolare dal suo saggio “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), in Il discorso, la verità, la storia. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, pp. 43-64. Una prospettiva genealogica prende in esame il corpo percipiente e sensibile come una superficie di iscrizione, aperta a forze culturali come le tecnologie mediali. Per quanto Foucault non faccia esplicito riferimento alla tecnologia come forza culturale, la sua enfasi sul corpo come campo di forze storico e discontinuo può essere legata all’idea che i nostri modi di percepire il mondo siano storicamente determinati: “La storia diverrà ‘effettiva’ nella misura in cui essa introdurrà la discontinuità nel nostro stesso essere. Separerà i sentimenti, drammatizzerà i nostri istinti, moltiplicherà il nostro corpo e l’opporrà a se stesso”. [Traduzione modificata. Vedi ora il definitivo T. Elsaesser, Film History As Media Archaeology: Tracking Digital Cinema, Amsterdam University Press, Amsterdam 2016. NdC] 70. T. Elsaesser, “The new film history as media archaeology”, cit. 71. Vedi T. Gunning, “An aesthetic of astonishment: Early cinema and the (in)credulous spectator”, in Art and Text, 34, 1989, pp. 31-45. Vedi per esempio W. Strauven (a cura di), The Cinema of Attractions Reloaded, Amsterdam University Press, Amsterdam 2006 e T. Elsaesser, A. Barker (a cura di), Early Cinema: Space, Frame, Narrative, British Film Institute, London 1990. 72. A. Friedberg, Window Shopping: Cinema and the Postmodern, cit. e The Virtual Window: From Alberti to Microsoft, mit Press, Cambridge (ma) 2006. 73. L. Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, tr. it. di R. Merlini, Olivares, Milano 2002, p. 25. Nonostante la grande popolarità del testo di
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Manovich, vi sono altri modelli di archeologia del computer e del software. Un altro tipo di archeologia del software elaborata a partire dalla riflessione di Deleuze e Guattari è J. Parikka, Digital Contagions: A Media Archaeology of Computer Viruses, Peter Lang, New York 2007. Un’interessante archeologia del computer è sviluppata in W. Künzel, P. Bexte, Allwissen und Absturz: Der Ursprung des Computers, Insel, Frankfurt am Main 1993. 74. Vedi per esempio J. Sterne, The Audible Past: Cultural Origins of Sound Reproduction, Duke University Press, Durham 2003; E. Thompson, The Soundscape of Modernity: Architectural Acoustics and the Culture of Listening in America, 1900-1933, mit Press, Cambridge (ma) 2004. 75. B. Siegert, Relais: Geschicke der Literatur als Epoche der Post 17511913, Brinkmann U. Bose, Berlin 1993; W. Ernst, Das Gesetz des Gedächtnisses: Medien und Archive am Ende (des 20. Jahrhunderts), Kulturverlag Kadmos, Berlin 2007; C. Holtorf, C. Pias (a cura di), Escape! Computerspiele als Kulturtechnik, Böhlau, Köln 2007; J. Parikka, Digital Contagions, cit. e Insect Media: An Archaeology of Animals and Technology, University of Minnesota Press, Minneapolis 2010. Notevoli esempi di contributi che propendono per l’approccio media-archeologico, pur non proclamandosi tali, sono E. Lupton, Mechanical Brides: Women and Machines from Home to Office, Cooper-Hewitt National Museum of Design, New York; Smithsonian Institution, Washington, dc; Princeton Architectural Press, Princeton 1993; L. Cartwright, Screening the Body: Tracing Medicine’s Visual Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1995; L. Gitelman, Scripts, Grooves, and Writing Machines: Representing Technology in the Edison Era, Stanford University Press, Stanford 1999, e, della stessa autrice, Always Already New: Media, History, and the Data of Culture, mit Press, Cambridge (ma) 2006. 76. Vedi E. Huhtamo, “Dismantling the fairy engine: Media archaeology as topos study”, in E. Huhtamo, J. Parikka (a cura di), Media Archaeology: Approaches, Applications, and Implications, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2011, pp. 27-47. 77. Per quanto l’espressione “archeologia dei media” non vi sia esplicitamente menzionata, la mostra Spectres: When Fashion Turns Back organizzata nel 2005 dal Victoria and Albert Museum prometteva di mostrare “le nascoste ma ben presenti connessioni tra la moda recente e il suo passato”, con l’intento di “rivelare le ombre e le esperienze che danno forma a una ‘memoria della moda’ nell’abito contemporaneo”. L’intero allestimento della mostra era ispirato a media “obsoleti” come peep show, caleidoscopi e fantasmagorie. Alcune tracce del passato, come delle figure della lanterna magica, erano esposte come arredi, “Guide to Exhibition, 24 February – 8 May 2005”, Victoria and Albert Museum. Vedi anche il catalogo dell’esposizione J. Clark, Spectres: When Fashion Turns Back, V&A Publications, London 2004. Per un altro esempio di approccio media-archeologico all’allestimento di mostre vedi il lavoro dell’artista e designer olandese Tjebbe van Tijen sul sito http://imaginarymuseum.org. 78. E. Huhtamo, “Time machines in the gallery: An archeological approach in media art”, in M.A. Moser (a cura di), Immersed in Technology:
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Art and Virtual Environments, mit Press, Cambridge (ma) 1996, pp. 232268. Vedi anche “Twin-touch-test-redux: Media archaeological approach to art, interactivity, and tactility”, in MediaArtHistories, a cura di O. Grau, mit Press, Cambridge (ma) 2007, pp. 71-101. 79. Si confà al loro approccio il fatto che gli archeologi dei media stessi abbiano cercato di elaborare modi alternativi per dimostrare le loro scoperte, come nel caso di Huhtamo che ha creato Ride of Your Life, una “metacorsa” attraverso la storia del genere dei “ride films” utilizzando un simulatore di volo (zkm, 1998) o come la performance intitolata “Musings on hands” degli artisti Golan Levin e Zachary Lieberman (Ars Electronica, 2006). Quest’ultima dedicata al topos della “mano di Dio”.
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11 IL DISPOSITIVO NON ESISTE! François Albera, Maria Tortajada
François Albera (http://www.unil.ch/cin/FrancoisAlbera) e Maria Tortajada (http://www.unil.ch/cin/MariaTortajada) sono professori di Storia ed estetica del cinema dell’Université de Lausanne. Albera è autore di numerosi studi sul cinema sovietico e le avanguardie, fra cui Albatros, des Russes à Paris 1919-1929 (Mazzotta, Milano 1995), Avanguardie (Il castoro, Milano 2004) e L’Avant-Garde au cinéma (Armand Colin, Paris 2006). Si è concentrato in particolare su Sergei Ėjzenštejn (vedi, per esempio, Eisenstein et le constructivisme russe, L’Age d’Homme, Lausanne 1989), su Lev Kouléchov (L’Art du cinéma et autres écrits 1917-1934, L’Age d’Homme, Lausanne 1994) e sui formalisti russi (Poétique du film, Nathan, Paris 1995, poi L’Age d’Homme, Lausanne 2008). È stato curatore del Dictionnaire du cinéma français des années 20, (afrhc/1895, 2001, con Jean A. Gili) e del numero monografico Cinémas “La Filmologie de nouveau” (2-3, 2009, con Martin Lefebvre). È redattore capo della rivista 1895 - Revue d’histoire du cinéma. Maria Tortajada concentra i propri interessi di ricerca sull’epistemologia dei testi audiovisivi, sulle teorie della rappresentazione e sul cinema svizzero. Tra i suoi numerosi articoli e libri, Le spectateur séduit. Le libertinage dans le cinéma d’Eric Rohmer et sa fonction dans une théorie de la représentation filmique (Kimé, Paris 1999). I due autori hanno curato assieme Cinéma suisse, nouvelles approches (Payot, Lausanne 2002) Cinema Beyond Film. Ciné-dispositifs. Spectacles, cinéma, télévision, littérature (Amsterdam University Press, Amsterdam 2010) e Cine-Dispositives. Essays in Epistemology Across Media (Amsterdam University Press, Amsterdam 2015). Il saggio che presentiamo sintetizza un lavoro dei due studiosi all’Università di Losanna sul concetto e sulla storia del dispositivo cinematografico. Il concetto di dispositivo è anzitutto sottoposto a una disamina terminologica. Gli autori individuano in tal modo cinque ampie accezioni del termine: la specifica combinazione delle parti che compongono un 327
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apparecchio meccanico; la macchina stessa in quanto funzionale a produrre determinati effetti; una certa situazione (per esempio sperimentale) in cui le macchine sono associate ad alcuni soggetti e ad altri tipi di entità; dispositivi del tipo precedente, ma che implicano l’intervento di processi di rappresentazione (emerge qui il dispositivo-apparato del cinema, proprio della discussione teorica degli anni Settanta); e infine il dispositivo come strumento di correlazione tra soggetti e potere (di “assoggettamento”) introdotto da Michel Foucault. La riflessione sul dispositivo cinematografico si è concentrata sulla quarta delle accezioni delineate. Il tentativo degli autori è comprendere se, in che misura e a quali condizioni la quinta accezione – quella foucaultiana – possa essere presa in considerazione in riferimento al cinema. Un simile spostamento apre due ordini di problemi tra loro intrecciati. In primo luogo occorre distinguere e collegare la storia strettamente tecnologica del dispositivo cinematografico alla sua storia “discorsiva” e culturale – e dunque alla complessa rete di nozioni mediche, scientifiche, giuridiche, politiche ecc., come pure di elaborazioni immaginarie, variamente legate alle componenti tecnologiche che convergono e si correlano nel dispositivo cinematografico. Si tratta del problema centrale dell’archeologia dei media (come mette bene in evidenza il saggio di Huhtamo e Parikka presentato in questa stessa sezione). In secondo luogo occorre superare la stretta connessione tra dispositivi e processi di potere che si ritrova in Foucault, in particolare nella sua famosa analisi del Panopticon di Bentham. Secondo gli autori, su questo aspetto Foucault va ricondotto al contesto dell’epistemologia francese di taglio storico e culturale (in particolare a Gaston Bachelard e Georges Canguilhem). A partire da qui, la lezione di Foucault rivolta allo studio dei dispositivi di visione e di ascolto non implica necessariamente un riferimento al potere, mentre richiede comunque di riportare i singoli dispositivi alle reti di relazione tra i concetti e le pratiche che di fatto li costituiscono.
In francese il termine dispositivo si riferisce a una pluralità di significati, da quello di semplice meccanismo di un determinato apparecchio, strumento o macchina, a quello di costrutto epistemologico responsabile della produzione di effetti negli ambiti del potere e del sapere – come il dispositivo disciplinare e il dispositivo della sessualità. Dalla sua più concreta definizione a quella più astratta, il dispositivo comprende la comune accezione di organizzazione di elementi differenti. Rimane tuttavia il fatto che i diversi significati di questa nozione impongono alla nozione stessa – e a chi la impiega – stiramenti concettuali considerevoli tra il polo dell’empirismo e quello della epistemologia. Proponiamo dunque 328
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di esaminare questi significati in modo da spiegare la nostra personale proposta programmatica, che è di natura epistemologica. CINQUE DEFINIZIONI DELLA NOZIONE DI “DISPOSITIF”
La definizione più comune di dispositivo fa riferimento al “modo in cui sono disposti gli organi di un apparecchio” (1860 circa), ed è stata presto arricchita da un altro significato, quello di un insieme di elementi meccanici combinati in vista di un effetto, di un risultato (1874).1 Fino a quel momento, il termine aveva rivestito il suo significato (originale) soltanto nell’ambito giuridico (in quanto parte di un testo legislativo che risolve d’imperio un certo tipo di caso); e, in tempi più recenti, nell’ambito della scienza militare (in quanto insieme di misure, di mezzi organizzati in funzione di un fine strategico).2 Come appare con evidenza nell’ambito tecnico, il termine indicava dunque la relazione tra gli elementi costitutivi di un apparecchio di un certo grado di complessità, adeguatamente assemblati e organizzati, in vista di un determinato effetto. Secondo questa definizione, un dispositivo si differenzia tanto da un utensile (per esempio delle pinze) quanto da uno strumento (il trapano del dentista), tanto da una macchina (la sega a nastro) quanto da un’apparecchiatura (il telefono) – benché esso tenda a sostituire metonimicamente quest’ultima. Infatti ciascuno di questi si presenta come un oggetto unico, un insieme unitario collegato al proprio utente mediante una relazione lineare (come un’estensione della sua mano); oppure, nel caso delle macchine complesse (a maggior ragione oggi nel caso dei computer), come ciò che Bruno Latour definisce una scatola nera. Questo non significa che gli oggetti menzionati non possano costituire un dispositivo o includere uno o più dispositivi interni (per esempio un interruttore); né che essi non possano diventare parte di ciò che chiamiamo dispositivo esterno in un senso che chiariremo più avanti. Tutto dipende dalla prospettiva adottata, e quindi dall’oggetto prodotto dallo studioso. Nel cinema delle origini il termine dispositivo ricorreva piuttosto frequentemente nei discorsi attribuiti ai fratelli Lumière o nei loro stessi scritti: brevetti, descrizioni delle loro invenzioni, varie narrazioni. La sua caratterizzazione come combinazione di diversi meccanismi è evidente nell’evocazione che Auguste Lumière fa 329
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dell’invenzione del fratello Louis. Questi non avrebbe escogitato un apparecchio costituito come un oggetto unitario, una macchina; piuttosto, egli avrebbe reimpiegato sistemi preesistenti, ne avrebbe perfezionato altri, finendo così per combinare il kinetoscopio di Edison con il meccanismo per l’alternanza di stasi e avanzamento delle macchine per cucire.3 Il sistema di arresti intermittenti che permetteva la proiezione di una striscia di pellicola cronofotografica si trovava dunque all’interno dell’apparecchiatura chiamata “cinematografo”.4 Tuttavia quando l’apparecchiatura – insieme ai suoi sistemi interni – entrava in funzione nel momento della ripresa oppure, per converso, in sala di proiezione davanti a uno schermo e in presenza degli spettatori, essa istituiva un dispositivo in grado di connettere diversi agenti: il cinematografo. Emergono dunque due livelli tecnici nella definizione dei dispositivi: (1) i sistemi interni a una macchina, un certo numero di meccanismi che operano con una loro coerenza; e (2) la macchina in sé, o l’apparecchiatura, in quanto insieme di diversi gruppi di meccanismi, di sistemi interni. La macchina non coincide con la somma di queste parti, ma costituisce l’assemblaggio che permette la connessione meccanica ed energetica di questi distinti sistemi interni. Dai primi due livelli di significato ne deriva un terzo, non più limitato alle operazioni dell’apparecchiatura, della macchina presa in esame o ai suoi effetti: il dispositivo è infatti anche (3) un sistema di connessioni tra questi elementi e i loro utenti, o con altre apparecchiature o macchine, capace di definire una situazione. Descrivendo il dispositivo realizzato dall’ingegnere John T. Isaacs per Leland Stanford, che rese possibile un’analisi piuttosto elaborata del movimento animale, Muybridge spiegava che trenta macchine da presa dotate di otturatore elettronico erano state costruite per fotografare i cavalli al galoppo, e disposte a circa 30 centimetri l’una dall’altra. Egli si proponeva di catturare allo stesso modo tutte le pose immaginabili di atleti, cavalli, buoi, cani e altri animali in movimento. Similmente, Michel Frizot scrive riguardo all’allestimento fotografico di Marey considerandolo “non soltanto nei termini di una macchina da presa, ma in quelli dell’intera area di sperimentazione che Marey ha disposto nel Bois de Boulogne”,5 parte di un “esperimento” regolato da un protocollo: un riparo oscuro, uno sfondo nero, un soggetto vestito di bianco, un tracciato, una cabina mobile su rotaia, cavi elettrici che trasmet330
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tessero segnali di sincronizzazione e un orologio a rotazione rapida collocato entro il campo visivo. In breve, si ha l’organizzazione dell’apparecchiatura e dell’insieme eterogeneo di elementi del quale essa diventa parte, ma si ha anche l’individuo per il quale o per mano del quale il dispositivo opera: lo scienziato – o chiunque compia l’esperimento. Questo ci riporta al terzo livello di organizzazione tecnica, e di conseguenza alla nostra terza definizione di dispositivo: la nuova disposizione entro cui l’apparecchiatura o la macchina in quanto sistemi trovano il loro posto, una disposizione che è determinata da una finalità e da una pratica, e della quale gli utenti costituiscono elementi allo stesso titolo delle componenti meccaniche. Questo dispositivo è esterno. In modo analogo a quanto previsto dal modello di macchina ricostruito da George Simondon, i dispositivi sono incessantemente coinvolti in nuovi assemblaggi, essi stessi definiti dispositivi. […] La specifica menzione del soggetto per il quale l’apparecchio è in funzione ci sembra definire un quarto uso della nozione di dispositivo, riscontrabile in quella che negli Stati Uniti è stata chiamata Apparatus theory e che in Europa passa come Teoria del dispositivo cinematografico. Jean-Louis Baudry ne propose due versioni. La sua prima teorizzazione, “Effets idéologiques produits par l’appareil de base”, pubblicata nel numero 7/8 di Cinéthique (1970),6 non utilizza il termine “dispositivo”, a differenza del suo articolo del 1972 apparso in Communications. La macchina e l’organizzazione che la presuppone sono presentati come produttori di ideologia. In questo contesto il dispositivo (tradotto in inglese come “apparatus”, e che da qui in poi chiameremo dispositivo-apparato) e la sua analisi tecnico-ideologica si riferiscono primariamente al soggetto cui è indirizzata la rappresentazione. In entrambi i casi, la nozione di dispositivo-apparato si fonda sulla teoria della rappresentazione, che vede, fin dal primo saggio di Baudry, l’apparecchio di base [appareil de base] istituire una situazione nella quale lo spettatore è invitato a investire una credenza nei confronti di un’impressione di realtà. Questa impressione è provocata dal tipo di rappresentazione proiettata sullo schermo, che segue 331
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le regole della prospettiva monoculare. L’enfasi sulla prospettiva sviluppata nel corso del Quattrocento e sul rispettivo modello pittorico (manifestata da Marcelin Pleynet e più tardi da Jean-Louis Comolli, sulla base del lavoro di Pierre Francastel)7 era destinata ad accentuarsi anche negli studi sulla pittura, in particolare con Louis Marin, i cui interessi derivavano dalla ricerca di Benveniste sulla questione dell’enunciazione e dalla sua teoria del discorso.8 Con il passaggio dall’apparecchio di base [appareil de base in Baudry, basic apparatus nelle traduzioni anglosassoni] del primo articolo al dispositivo-apparato [dispositif, nei termini di Baudry, apparatus nelle traduzioni] del secondo articolo, l’atteggiamento di Baudry nei confronti dello spettatore iniziò a fare riferimento al quadro teorico metapsicologico di ispirazione freudiana e lacaniana (la fase dello specchio nel bambino) e conobbe un’evoluzione dall’impressione di realtà all’effetto di reale – concetto articolato da Jean-Pierre Oudart. Il cinema non poteva più essere ridotto alla sua dimensione tecnologica. Seguendo questa linea di ricerca, Christian Metz ne offrì anche una critica, definendo il cinema un dispositivo-apparato simbolico in Il significante immaginario. Questi approcci condividevano una finalità euristica: quella di enfatizzare la posizione dello spettatore nel suo status di presenzaassenza – così come prescriveva la teoria della rappresentazione che, avendo la prospettiva come modello, veniva precisamente determinata da un apparato tecnico. Questa definizione del soggetto centrato imposta dalla teoria poté allora essere estesa alle arti figurative così come a quelle narrative, che a loro volta prevedono l’impiego di alcune tecniche – questa volta in relazione al discorso e alla narrazione – fondando l’uso del termine dispositivo (in quanto dispositivo-apparato) in questo contesto. Il quinto significato, elaborato da Foucault a partire da Sorvegliare e punire,9 introduce il tema dell’assoggettamento. Il termine sostituisce quello di soggettività per sottolineare il posto centrale e organizzatore assegnato al soggetto, che sta al centro degli approcci precedentemente menzionati (Baudry, Marin, Metz). L’uso di questo termine venne inaugurato da Althusser nel suo articolo sugli “Apparati ideologici di Stato” e attraverso il suo concetto di interpellazione degli individui come soggetti.10 Negli appunti delle sue lezioni al Collège de France, Foucault scrive: “Il soggetto psicologico [del panoptismo, della disciplina e della normalizzazio332
Il dispositivo non esiste!
ne] non è che l’altra faccia di questo processo di assoggettamento”.11 Tuttavia egli si pone in contrasto con la teorizzazione dello Stato e delle sue istituzioni come agenti, un argomento centrale nella trattazione di Althusser, e sostituisce all’analisi degli apparati che esercitano il potere (istituzioni localizzabili, espansioniste, repressive e legali) quella dei “dispositivi” [dispositifs] che hanno “vampirizzato” tali istituzioni e riorganizzato di nascosto il suo funzionamento: procedure tecniche “minuscole”, che giocano sui dettagli, hanno ridistribuito lo spazio per farne l’operatore di una “sorveglianza” [surveillance] generalizzata.12
Una seconda fase di elaborazione foucaultiana situa poi la questione dell’istituzione del soggetto – “soggettivazione” – sul fronte delle “tecnologie del sé”: queste hanno sì a che fare con la sfera della governabilità, ma si dispiegano nella relazione del soggetto con se stesso e con gli altri, e sono in tal modo solo una condizione indiretta del funzionamento sociale del potere. Come già affermato, i vari atteggiamenti nei confronti della nozione di dispositif e i suoi usi restano distinti e tuttavia si fondono; possono essere reciprocamente inclusivi o presupporsi l’un l’altro. Lo stesso ambito si estende dalla più piccola organizzazione di elementi (1) ad assemblaggi determinati da situazioni sperimentali (3); passa nel frattempo anche attraverso macchine, congegni o apparecchiature (2) per espandersi e includere una problematizzazione degli apparati legata alle questioni della rappresentazione (4) o implicazioni relative al potere (5). Mentre tutti questi cinque livelli si riferiscono variamente alla dimensione tecnica della nozione di dispositivo, i primi tre, più strettamente connessi ad allestimenti meccanico-motori, sono organizzati secondo una logica comune di assemblaggio di assemblaggi. Gli ultimi due livelli sviluppano un potenziale implicito nel terzo, che conduce a due differenti considerazioni del soggetto implicato nel dispositivo – visto ora come pienamente investito di potere, ora come ingannato, o assoggettato. PROPOSTE
Nell’uso comune, il termine dispositivo, nei suoi diversi significati, si riferisce a oggetti storicamente situati – talvolta senza che abbiano conosciuto un successo e uno sviluppo successivi. Tuttavia se 333
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vogliamo andare oltre, non possiamo accontentarci di un dispositivo che costituisca semplicemente un meta-concetto o un significante flottante – una parola di moda sfruttata da qualunque curatore di mostre in modo tanto impreciso quanto diffuso. Le definizioni, e in modo particolare quelle fornite da Foucault, diventano interessanti a più livelli nel momento in cui cerchiamo di elaborare un metodo di lavoro che ci permetta di tracciare le condizioni di possibilità per i dispositivi di visione e di ascolto. Per qualche tempo si è ritenuto che un capovolgimento delle sue polarità fornisse la possibilità di mettere alla prova la dimensione coercitiva del dispositivo di Foucault: con l’avvento dell’età digitale, i dispositivi (computer, interfacce e network) sembravano diventati un luogo di interattività e di scambio. Foucault veniva criticato per avere concepito il dispositivo come qualcosa che “applicandosi al corpo dell’individuo, e di conseguenza alla sua mente [pur restandone] al di fuori, finisce per produrre soggettività senza esserne prodotto”.13 Ora, la grande originalità di Sorvegliare e punire, così come dei lavori successivi di Foucault, risiede senza dubbio nello spazio riservato alla libertà e all’autonomia all’interno del sistema sociale di controllo e produttività. In altre parole, Foucault mostra che l’emancipazione del soggetto è parte del suo assoggettamento. Riteniamo, con Giorgio Agamben, che il nostro tempo appartenga all’episteme descritta da Foucault.14 Tuttavia associare automaticamente la questione del potere alla nozione di dispositivo diventa problematico nel momento in cui l’indagine sui dispositivi non mira più a delineare il modo in cui il potere opera – come nel progetto di Foucault – o a riprendere e rilanciare la dimostrazione già prodotta da Foucault stesso. In un certo senso (e paradossalmente), è necessario allontanarsi da Foucault per fare luce su un metodo che egli stesso rende possibile mettere a punto. Non c’è dubbio infatti che, attraverso la sua analisi dei processi di assoggettamento, Foucault abbia portato avanti in modo decisivo la nozione di dispositivo; né dubitiamo del fatto che, al di là del tema in questione della coercizione, la nozione sia rilevante per l’analisi dei dispositivi di visione e di ascolto. Riteniamo tuttavia che occorra operare una rilettura di Foucault dal punto di vista della sua posizione storica nell’ambito dell’epistemologia delle scienze di tradizione francese, al fine di gettare le basi di un metodo che permetta di lavorare con la no334
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zione di dispositivi di visione e di ascolto – un punto sul quale torneremo tra poco. L’interesse della nozione di dispositivo e l’importanza del suo raffinamento riguardano anche l’ambito delle tecnologie, delle apparecchiature, e più esattamente la possibile reintegrazione della storia tecnica del cinema non più in quanto narrazione isolata, catalogo o lista di invenzioni e di individui geniali. Per quanto una simile catalogazione sia necessaria, i suoi limiti (si trattava per la maggior parte di brevetti) hanno legittimato teorici, critici e studiosi di estetica ad aggirarla e a limitare l’approccio di ricerca all’ambito della rappresentazione o dei suoi soli effetti sociali. La dimensione tecnica, affrontata attraverso la questione del dispositivo, raccoglie a) lo spettatore, l’ambiente, il fruitore; b) la macchina, l’apparecchiatura o le apparecchiature; c) l’istituzione o le istituzioni. Questi elementi rimandano a tre aree che gli studi sul film tengono separate: sociologia ed economia, storia tecnica e dei brevetti, estetica. Eppure queste tre aree interagiscono al livello della produzione di immagini e suoni tanto quanto nella loro ricezione, sebbene alcuni studiosi privilegino uno soltanto di questi due poli. Nel 1935, Lucien Febvre definiva un programma preciso in Les Annales. Storici della tecnica come Maurice Daumas e Bertrand Gilles avrebbero fatto riferimento a questa agenda negli anni Sessanta e Settanta (così come, tra gli altri, Leroi-Gourhan e Haudricourt): 1) una storia della tecnica (processi, set di strumenti, attività tecniche); 2) un’indagine di questi insiemi di processi, strumenti, attività pratiche in quanto sottoposti a un’evoluzione nella quale il progresso solleva interrogativi riguardo alla loro realizzazione stessa (teoria e pratica, scienza e invenzione tecnica); 3) uno studio delle relazioni tra attività tecnica e altre attività umane (religione, arte, politica), dalle quali la prima “non può essere isolata”. In breve, si trattava di delineare una disciplina che indagasse come la tecnica influenzi la storia e come reciprocamente ne sia influenzata – una disciplina che può nascere soltanto dalla convergenza e dalla collaborazione di scienziati, tecnici e storici.15 Lo studio del cinema ha bisogno di questa storia delle tecniche: è divenuto infatti essenziale ricostruire la rete di discorsi, pratiche e istituzioni che legano tali tecniche alle questioni estetiche relative al tema della rappresentazione – cui lo studio del cinema è stato troppo spesso limitato. 335
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Per esempio, connettendo l’evoluzione delle tecniche dell’immagine in movimento a ricerche riguardanti il fissaggio di una bolla di sapone o l’analisi dell’atto di camminare – ricerche programmate da due studiosi del Dipartimento di Storia e Filosofia delle scienze dell’Università di Cambridge, Simon Schaffer e Andreas Mayer –16 si rendono evidenti una serie di elementi: la rete di sperimentazioni nella fisica e nella fisiologia, ma anche le rappresentazioni pittoriche o finzionali realizzate grazie a giocattoli ottici, la ripresa in stop motion, gli approcci al cinema che si fondano su categorie di pensiero (evanescenza, effimerità, fissaggio…) o alcune pratiche sociali (divulgazione scientifica, tecniche del corpo…). Infine, l’ambito delle tecniche e delle tecnologie cinematografiche comprende un’altra vasta area. Essa viene il più delle volte ricondotta all’ambito della fantascienza o del fantastico; eppure, il cosiddetto “projected cinema”17 si collega in modo molto serio al contesto dell’invenzione tecnica e degli immaginari sociali che hanno formato quel milieu entro cui i due generi citati hanno fatto la loro comparsa. Tale area comprende elaborazioni spesso immaginose, o pensate nei termini di una divulgazione divertente, realizzate da letterati o giornalisti, specialmente nel diciannovesimo secolo (ma anche, fino ad anni molto recenti, nell’ambito della fantascienza in senso stretto); tali elaborazioni traevano ispirazione da tecnologie esistenti o in via di sperimentazione, per concretizzarle attraverso la finzione, generalizzarle, combinarle reciprocamente e moltiplicarle: si pensi a Villiers de l’Isle Adam, Verne, Robida e molti altri, fino a Barjavel. Questi testi ampliavano sistematicamente le funzioni attribuite a oggetti tecnici esistenti, mostrando inoltre uno scarso riguardo per la loro specificità: al contrario, incrociando caratteristiche diverse, essi trasformavano questi oggetti in ibridi tecnici. Si tratta di indicazioni preziose per l’immaginazione tecnica o per i sistemi concettuali e sociali (categorie, ideologie) dominanti nel momento in cui queste tecniche venivano immaginate – nonostante specializzazioni successive ci abbiano condotto a ritenere che esse venissero e vengano create nel perimetro restrittivo, autonomo e specifico della loro costituzione. Nel suo lavoro sugli oggetti tecnici, Gilbert Simondon si riferisce a tutto ciò che appartiene a questo insieme di anticipazione336
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simulazione-invenzione con l’espressione “psicologia dell’invenzione” – espressione probabilmente poco fortunata, dal momento che l’autore pensa a una psicologia “senza soggetto”, “trasduttiva”.18 Gli elementi in questione sono riuniti a formare una “genesi” e costituiscono “oggetti mentali”. Le riflessioni di Simondon sulla definizione di oggetto tecnico si intrecciano con le indagini di Georges Canguilhem sulla storia delle scienze, che enfatizzano l’origine di un concetto piuttosto che la sua apparizione – considerando l’origine sempre dovuta a causa esterne, non a quella che sarebbe una “logica della scienza”. Per esempio, il concetto di riflesso comparve non entro il discorso scientifico come per generazione interna (di tipo hegeliano), ma nelle concrete condizioni di osservazione delle forme patologiche all’interno della tecnica clinica. A quali condizioni, si domanda Simondon, può l’oggetto tecnico essere definito come tale? Non nel momento in cui è contemplato, né quando semplicemente viene utilizzato e nemmeno quando viene considerato oggettivamente dal punto di vista del suo impiego e delle sue funzioni o secondo la sua struttura materiale: è la conoscenza del processo di concretizzazione dell’oggetto tecnico che lo costituisce come tale. In questa genesi, convergono immaginazione, progettazione, ideazione: Simondon nomina questo insieme di fattori “genesi immaginante”19 e vi vede una dimensione virtuale. L’interesse dei testi narrativi di finzione, dunque, risiede non tanto nel fatto che essi prevedano o prefigurino ciò che sarà (alla stregua di una profezia), quanto nella loro partecipazione a questo processo di genesi – probabilmente più sul fronte di una creatività sincretica, nebulosa e profusa che non su quello dell’invenzione, che è discontinua e si estende nel corso del tempo e della storia. Inoltre, questi testi di finzione, nella misura in cui traggono materiale e sperimentano (almeno sulla carta) a partire dalla conoscenza esistente o da progetti in corso di sviluppo, potrebbero chiarire alcuni aspetti delle tecniche contemporanee lasciati da parte da una storia intesa come catalogo – che privilegia usi consolidati nel tempo o riduce diverse possibilità a una sola dominante. Questi aspetti “marginalizzati” presentano almeno due implicazioni: da un lato le potenzialità caratteristiche del medium o della macchina (a partire dal momento in cui il loro stadio artigianale o prototipico consente una generalizzazione); dall’altro le aspettative di 337
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ambito sociale, immaginario o pragmatico legate a queste potenzialità e in grado di insinuarsi in esse. In più di un senso, dunque, si può affermare che “il dispositivo non esiste”. Nel momento in cui si esamina la dimensione più strettamente epistemologica della questione, risulta evidente che il dispositivo resta da costruire come nozione, come schema epistemico de-centrato rispetto alla sua realtà oggettuale. Ciò che è in gioco è la ricostruzione dei concetti associati ai dispositivi di visione e di ascolto al momento dell’emergere del cinema: il fine è quello di catturare le trasformazioni che hanno investito questi dispositivi – trasformazioni inizialmente non avvertite ma che possono dare adito a un lavoro epistemologico. Concretamente, prendendo le mosse dalle fonti primarie – Etienne-Jules Marey, Henri Bergson e Alfred Jarry, tra gli altri –20 questo approccio mira a dare visibilità alle reti concettuali e alle pratiche implicite nelle definizioni dei dispositivi. I dispositivi del cinema – ossia, le configurazioni che potrebbero essere connesse al cinema a partire da una serie di tratti e variabili definitorie – sono centrali. Al tempo stesso, questi dispositivi non possono essere concepiti come isolati e autonomi. Che dire dei concetti di movimento, tempo, istante? Che dire delle nozioni di ripetizione, istantaneità, scomposizione e sintesi del movimento? Dell’idea di proiezione o di percezione visiva, o di illusione di realtà? O della meccanizzazione e automazione del corpo umano? Quale ruolo viene rivestito da queste nozioni nella costituzione e nella trasformazione dei dispositivi? Di esse si potrebbe rendere conto in vari modi; e, di volta in volta, questo comporterebbe la messa in gioco di concetti molto diversi fra loro. In ogni caso, tali nozioni sono centrali per il dibattito sui dispositivi: si tratta di variazioni concettuali che apportano modifiche storicamente rilevanti alla concezione di questi ultimi. L’attenzione del lavoro epistemologico si incentra su dispositivi specifici, variamente connessi al cinema, alla fotografia, alla televisione – dal momento che le loro vicende sono particolarmente interconnesse. L’episteme novecentesca, superfluo a dirsi, impone alla ricerca un enorme sforzo collettivo nell’ambito del quale il cinema non gode di alcuna posizione di preminenza. Tuttavia l’argomentazione richiede che ci fermiamo a considerare alcune premesse metodologiche. Esistono molti dispositivi nel mondo (oggetti) e i testi più svariati a partire dalla fine del 338
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diciannovesimo secolo (discorsi) ne ospitano in abbondanza. In questa sede considereremo il dispositivo come un oggetto metodologicamente costruito, che dia adito all’indagine concettuale di una realtà effettiva quanto discorsiva. La nostra epistemologia dei dispositivi di visione e di ascolto, per quanto nel suo processo di elaborazione possa rivolgersi a nuove fonti, rimane foucaultiana nella propria ispirazione; tuttavia alcuni problemi del pensiero di Foucault potrebbero essere superati attraverso una rilettura dei suoi testi alla luce dell’epistemologia storica di Gaston Bachelard. Perciò, nel presentare la nostra metodologia, ci concentreremo più precisamente sull’analisi di queste principali proposte teoriche. […] I “DISPOSITIVI” DI FOUCAULT
Per rintracciare le reti di concetti associati a un dispositivo, è indispensabile che il processo concreto di lettura delle fonti sia rigoroso.21 Questo è il primo insegnamento di Foucault, perfettamente espresso nella sua analisi del Panopticon di Jeremy Bentham.22 Foucault descrive l’oggetto architettonico fisicamente, materialmente, come se descrivesse le parti di una macchina: […] alla periferia una costruzione ad anello; al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte.23
Tuttavia la descrizione fisico-tecnica non è sufficiente. Decisiva è invece la costruzione da parte di Foucault dell’insieme architettonico come dispositivo, che individua al contempo il gioco di sguardi e non-sguardi e l’istituzione del carattere di rappresentazione degli spazi osservati; il funzionamento globale di questi elementi produce effetti di potere: Basta allora mettere un sorvegliante nella torre centrale, ed in ogni cella rinchiudere un pazzo, un ammalato, un condannato, un operaio o uno scolaro. Per effetto del controluce, si possono cogliere dalla tor-
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re, stagliantisi esattamente, le piccole silhouettes prigioniere nelle celle della periferia. Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile.24
La fonte stessa precisa le condizioni architettoniche della struttura e i vantaggi che ne derivano.25 Foucault preleva dal testo di Bentham questi principi e ne ricava un sistema. Osserviamo che il potere agisce a partire dal fatto che il prigioniero sia oggetto dello sguardo del sorvegliante collocato nella torre di controllo; ma anche dal fatto che il prigioniero stesso costituisce un punto di vista diretto a questo luogo centrale, nel quale egli sa che potrebbe essere situato uno sguardo. Questa bidirezionalità è il fattore che garantisce l’automaticità dell’effetto di potere, indipendentemente dal fatto che vi sia o meno qualcuno nella torre. Ciò che produce l’effetto di potere è il dispositivo, non l’effettiva presenza di un sorvegliante. Lo spettatore-fruitore non è posto davanti al dispositivo: egli letteralmente vi appartiene. Ciascun elemento è definito dalla sua collocazione entro il dispositivo e dalle sue relazioni con altri elementi. Quando Foucault indica la distribuzione degli sguardi nel Panopticon, egli fa riferimento alle informazioni fornite dalla fonte stessa che descrive questo specifico dispositivo; non menziona invece i codici e le leggi in vigore a quel tempo. Se la trattazione di Foucault deve fungere da modello nell’elaborazione di un metodo di analisi dei dispositivi, una mera lettura delle teorie contemporanee sul soggetto o delle tecniche di costruzione di una data macchina non basta, evidentemente, a definire lo spettatore connesso a uno specifico dispositivo. Per primi devono essere presi in esame gli assunti che riguardano lo spettatore che viene presupposto da questi dispositivi e dalle fonti che li evocano.26 Il Panopticon e il metodo analitico a esso applicato rappresentano un modello eccellente per lo sviluppo di un’epistemologia dei dispositivi di visione e di ascolto. Foucault stesso si riferisce al Panopticon come a un dispositivo. Il termine, che l’autore aveva iniziato a impiegare nella metà degli anni Settanta con Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, gli consentì di identificare il dispositivo disciplinare, quello di alleanza e quello di sessualità, accomunati dalla capacità di produrre effetti di potere. Quello che interessava in particolare Foucault 340
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in quegli anni era mostrare che il potere non è uno, ma che deriva da una rete di relazioni; e che esso può essere rintracciato a partire dai suoi effetti. Tuttavia il Panopticon non equivale all’ampio schema di produzione di effetti di potere: esso non è di per sé il dispositivo disciplinare, nonostante ne sia certamente emblematico nella potente dimostrazione sintetica che ne offre. In ultima analisi ne rimane una mera componente, una parte. Il dispositivo disciplinare è un dispositivo nel senso stabilito da Foucault in questo passo frequentemente citato: “[…] Un insieme decisamente eterogeneo, che comporta discorsi, istituzioni, pianificazioni architettoniche, decisioni regolamentari, leggi, misure amministrative, enunciati scientifici, proposizioni filosofiche, morali, filantropiche; in breve, il detto ma anche il non-detto: sono questi gli elementi del dispositivo”.27 Nel complesso, dunque, Foucault usa il termine dispositivo in due modi: 1) per un verso egli intende il dispositivo come dispositivo di visione e di ascolto per come esso viene inteso qui: il Panopticon, per esempio; 2) per altro verso, Foucault si riferisce attraverso il dispositivo – che chiameremo dispositivo-episteme, per evitare confusione –28 a uno schema di relazioni tra elementi eterogenei. Questi schemi – il dispositivo disciplinare, per esempio – possono includere anche dispositivi di visione e di ascolto. Accade così che, nell’analisi di Foucault, il particolare dispositivo presentato, il Panopticon, operi entro quello che è costituito come un dispositivo disciplinare. Ciononostante, i due termini non possono essere sovrapposti. Il Panopticon non è di per sé il panoptismo. […] Date queste circostanze, l’importanza di una ricerca sull’epistemologia dei dispositivi di visione e di ascolto dovrebbe essere precisamente delineata. Non si tratta di ricostruire giochi di potere o procedure disciplinari: a questo fine, la nozione di dispositivo di potere – così come quella di dispositivo disciplinare o di sessualità – potrebbe non risultare un modello utile. Eppure l’analisi del Panopticon come specifico dispositivo di visione e di ascolto dovrebbe essere mantenuta come punto di riferimento, nonostan341
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te l’analisi in questione rappresenti il dispositivo primariamente nei suoi effetti di potere.29 Come trattare questo tema del potere? Quest’ultimo dovrebbe essere posto come un dato immediato nei dispositivi di visione e di ascolto? Inoltre, se l’episteme è un dispositivo discorsivo, cosa si intende effettivamente per “discorsivo”? Dovremmo pensare che vi sia da una parte l’episteme, il discorsivo, ciò che è reperibile nei testi, e dall’altra il concreto della storia, macchine, tecniche, pratiche, istituzioni, e l’eterogeneità del dispositivo? Questo equivarrebbe a ridurre il discorsivo alle fonti analizzate, trascurando invece il fatto che, al fine di conoscere il concreto della storia, è decisamente necessario passare attraverso una serie di discorsi. Il discorsivo si riferirebbe allora alla parola scritta, o nella migliore delle ipotesi all’insieme dei discorsi orali, iconici o di altro tipo prodotti da una società. E questo significherebbe ignorare l’uso del tutto particolare che Foucault fa della nozione di discorso, da lui inteso come ciò che deve essere costruito a partire dai discorsi offerti dalle fonti, ossia gli enunciati ricorrenti che nel loro insieme costituiscono un sapere. Il discorso è proprio questo sapere, che caratterizza l’episteme. L’interrogativo, dunque, è il seguente: questo sapere dovrebbe essere concepito come del tutto distaccato da istituzioni, pratiche sociali, oggetti concreti le cui tracce potrebbero al limite essere reperite nei musei? Per rispondere a questi due interrogativi, che riguardano il potere e il discorsivo, ci rivolgiamo a Gaston Bachelard. BACHELARD: LA SPIEGAZIONE DEI CONCETTI
Foucault disegnò il proprio metodo facendo riferimento alla tradizione francese dell’epistemologia delle scienze, rappresentata da Bachelard e Canguilhem e definita come epistemologia storica. In L’archeologia del sapere, il filosofo tracciò i confini della sua area di ricerca in relazione a tale epistemologia, e, nella prefazione all’edizione inglese di Il normale e il patologico di Georges Canguilhem, la descrisse una filosofia della razionalità, del sapere e del concetto, riferendosi ancora una volta a Bachelard.30 Foucault inscrive chiaramente il proprio lavoro in questa tradizione con il tentativo di produrre una forma di razionalità (o positività, come lui stesso la chiama). Quello che gli scrittori menzionati 342
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condividono è l’ambizione di scrivere una storia della “formazione dei concetti”.31 Il razionalismo di Bachelard non rappresenta soltanto un esplicito rimando alla storia epistemologica delle scienze rispetto alla quale Foucault poté delineare la sua pratica. Per altri aspetti esso potrebbe anche apparire un modello strutturante per il metodo foucaultiano, il cui fulcro sarebbe allora la nozione di concetto scientifico di Bachelard. Per quest’ultimo un concetto è qualcosa di diverso da quanto normalmente si intenda con questo termine: una denominazione e una definizione, oppure, in altre parole, “un nome pregno di significato”.32 Per Bachelard il significato deve essere lasciato in disparte quando si voglia individuare la spiegazione epistemologica di un termine. La spiegazione non ha a che vedere con la denominazione: riguarda invece l’analisi di un fatto riportato al suo contesto di produzione e sperimentazione, così da rendere possibile la rimozione degli ostacoli di natura epistemologica che interferiscono con esso e lo escludono dalla razionalità. Soltanto a questo punto si giunge a maneggiare un concetto: In una stessa epoca e dietro una stessa parola, quanti concetti diversi! Quello che ci trae in inganno, è che una medesima parola viene usata allo stesso tempo per designare e spiegare. La designazione è sempre la stessa; la spiegazione invece è diversa.33
La spiegazione implica che le condizioni di possibilità di un concetto vengano enfatizzate, prendendo in considerazione il contesto entro cui quest’ultimo viene utilizzato, la finalità delle pratiche in cui esso è collocato e l’intenzione che guida l’esperienza concreta cui esso è legato.34 Il rifiuto dell’approccio empirico, di una fenomenologia superficiale, è dunque giustificato come segue: “Ora, se il concetto empirico è un concetto di classificazione, il concetto razionale è un concetto d’interconnessioni, di relazioni assolutamente reciproche”.35 Come sarebbe stato più tardi per Foucault, anche in questo caso il principio determinante è quello della relazione. Un concetto non è semplicemente identificato attraverso la sua comprensione e la sua estensione, almeno non fintantoché questi termini si riferiscono a un accumulo o a una somma di dati, o nella migliore delle ipotesi a una classificazione. Essenziali nella strutturazione di un concetto sono le relazioni che vengono attivamente intrecciate tra le “nozioni di base” o “varia343
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bili fondamentali” che caratterizzano un fenomeno.36 Di nuovo, delle correlazioni sono alla base della coerenza di un’entità di livello più alto, il “corpus di concetti”, che costituisce un dominio di razionalità, ossia quello che potrebbe essere definito un dominio scientifico. La relazione, ne deriva, è un principio strutturale che può essere generalizzato. Tale principio definisce il concetto tanto quanto la razionalità. L’omologia strutturale tra diversi livelli di definizione di coerenza scientifica che si trova in Bachelard può essere rintracciata anche nell’archeologia di Foucault: ciò è palese nel caso dell’episteme, che venne sviluppata esattamente in questo modo, così come nel caso di diversi altri elementi del sapere.37 Il principio della relazione venne esteso alla positività e, più tardi, ai dispositivi in grado di produrre effetti di potere, disciplinari o di sessualità, solo per citarne alcuni. La definizione di concetto di Bachelard, incentrata sulla correlazione di nozioni, può essere applicata anche al di fuori di una coerenza strettamente scientifica. Foucault realizzò effettivamente questa trasposizione,38 ma Bachelard stesso aveva aperto questa strada, se non altro impiegando un esempio estraneo all’ambito scientifico per avviare alla comprensione del concetto scientifico stesso. Di fatto, il filosofo scelse l’esempio di un dispositivo di ascolto, il telefono: “Al telefono, per esempio, corrispondono concetti totalmente differenti per l’abbonato, per la telefonista, per l’ingegnere, per il matematico preoccupato dalle equazioni differenziali della corrente telefonica”.39 Per quanto minimale, si tratta di un esempio efficace che rende molto concreto il secondo punto fondamentale nella definizione di concetto: quest’ultimo è intrinsecamente connesso alla pratica che lo individua. In breve, il telefono è qualcosa tramite cui si comunica verbalmente, si stabilisce una connessione tra più linee, o si calcolano equazioni. Sulla base di quale operazione viene presa in considerazione, l’idea di telefono può subire variazioni radicali. Secondo questo modello, si può sostenere che la costituzione di un sapere associato a dispositivi di visione e di ascolto risulti inconcepibile qualora tali dispositivi vengano scollegati da una forma di esperienza o di pratica. Quali sono le intenzioni che motivano l’impiego di una nozione in un dato momento storico? Quali altri concetti sono correlati a questa nozione all’interno dei discorsi ana344
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lizzati che presentano dei dispositivi? Queste sono le due principali domande nel lavoro di ricostruzione storica di concetti. Studiare la loro formazione consentirà occasionalmente di individuare trasformazioni concettuali o epistemologiche. Rileggere Foucault attraverso Bachelard evidenzia quanto il concetto sia legato alla pratica. A buon diritto, allora, il “discorsivo” in Foucault, inteso come dominio di sapere, potrebbe essere reputato significativo solo a patto che si considerino gli scopi di chi impiega i concetti e il processo di applicazione delle nozioni in questione. Gli scopi si troveranno non tanto sul fronte della soggettività della parola – sebbene Bachelard parli di intenzioni – quanto su quello della pragmatica del discorso, che si trova all’incrocio tra il contesto istituzionale che rende questi stessi discorsi possibili; i progetti scientifici, tecnici e artistici che li incorniciano; le caratteristiche delle pratiche o delle sperimentazioni che essi implicano; e i presupposti ideologici a essi soggiacenti. A questo livello, sarebbe coerente e opportuno superare l’opposizione tra episteme e dispositivi (dispositivi-episteme), che Foucault stesso sembra introdurre con la sua critica del discorsivo. Il discorsivo stesso potrebbe essere compreso attraverso il confronto con le pratiche, rese note a partire dalle fonti che le descrivono o da qualunque altra ricostruzione storica. Quella tra il discorsivo e il non-discorsivo è una relazione decisiva e complessa.40 La digressione su Bachelard mostra infine che la nozione di potere dovrebbe essere tenuta in disparte nel momento in cui si interrogano dei dispositivi di visione e di ascolto, anche nel caso essa debba essere reintrodotta in un secondo momento. Il Panopticon e la sua analisi possono essere stati presi a modello: tuttavia, in quel caso si sono rintracciati degli effetti di potere. Foucault viene spesso riletto e citato nell’ambito di analisi che applicano automaticamente la nozione di potere a dispositivi di visione e di ascolto, come se questi fossero casi in sé di dispositivo-episteme. Ma se torniamo all’analisi di Foucault del testo di Bentham, appare evidente che la costituzione dell’idea di potere è inscritta come fine ultimo del dispositivo nella fonte stessa. Nel momento in cui Foucault descrive un dispositivo per ricostruire la nozione di potere, egli recupera la pratica e il progetto entro cui la descrizione del dispositivo è inquadrata. Per Bentham, il Panopticon in effetti è una prigione – non soltanto uno strumento di potere, ma il mez345
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zo per ripensare l’esercizio del potere da un punto di vista utilitaristico ed economico. […] Si può dire che Foucault applichi il metodo di Bachelard alla lettera. Il potere è connesso a questo specifico dispositivo di visione, ed è esattamente questa la ragione per cui esso appartiene al corpus di studi di Foucault. Non per questo, tuttavia, ogni dispositivo di visione e di ascolto deve essere automaticamente riferito a una pratica e un orizzonte che ne fanno uno strumento diretto o indiretto del potere. È fondamentale che questa finalità non sia associata in modo meccanico a qualunque dispositivo di visione e di ascolto. Piuttosto, la finalità di ciascun dispositivo dovrebbe essere derivata dal suo contesto di impiego per come riportato dalle fonti che ne fanno menzione. Degli effetti di potere potrebbero in ultima analisi dimostrarsi decisivi in una data pratica; ma essi devono essere costruiti per via e con strumenti di natura epistemologica. Se il dispositivo non esiste, dunque, è perché, in un’epistemologia dei dispositivi di visione e di ascolto, esso non è un “oggetto” che si possa trovare dietro l’angolo lungo la pista di ricerca seguita dallo studioso – un oggetto bello e pronto che possa essere semplicemente afferrato nella sua concretezza materiale. Il dispositivo è uno schema, un gioco dinamico di relazioni che articolano discorsi e pratiche connettendoli vicendevolmente; schema che va ricavato a partire da una descrizione che lega tre termini: lo spettatore, il macchinario, la rappresentazione. Spetta al ricercatore, di volta in volta e nell’ambito di ciascuna ricerca, ridefinirli e comprenderli nelle loro reciproche relazioni. Il dispositivo, dunque, non esiste; ma la sua costruzione va continuamente realizzata – e desiderata. NOTE
1. Vedi Dictionnaire de la langue française, abrégé du dictionnaire de E. Littré, a cura di A. Beaujean, Hachette, Paris 1874. 2. Evidentemente questi livelli non sono impermeabili, cosa che da un punto di vista metodologico costituisce una delle difficoltà del nostro approccio. Anche la genealogia del termine potrebbe gettare luce sui suoi usi successivi: la dimensione militare, e ancora più specificamente quella strategica, sono presenti nell’appropriazione di Foucault del termine; analogamente, Giorgio Agamben ha effettuato una riappropriazione dell’aspetto legale della stessa nozione.
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3. Si parla di meccanismi nel brevetto principale (n. 245.032, datato 12 febbraio 1895). Vedi inoltre il brevetto n. 323.667, inerente al proiettore continuo e datato 1902, e il n. 410.495, inerente a un’apparecchiatura cinematografica con riquadro reversibile, datato 1910 e firmato Carpentier: in tutti questi testi ricorrono termini come “organizzazione” di elementi e “dispositivo”. 4. “Ho messo a punto uno speciale dispositivo composto da griffe che si adattano ai fori della pellicola…”. Vedi L. Lumière, in Sciences et voyages (1921), citato in B. Chardère, Le Roman des Lumière, Gallimard, Paris 1995, p. 284. 5. M. Frizot, A New History of Photography, Könemann, London 1998, p. 249. 6. Nella versione inglese, tuttavia, il termine scelto per tradurre “appareil” e “dispositif” è lo stesso: “apparatus” (vedi avanti). Il testo di Baudry è stato tradotto da Alan Williams e pubblicato nel 1974 come “Ideological effects of the basic cinematographic apparatus”, in Film Quarterly, 28, 2, 1974-1975, pp. 39-47. Il suo articolo intitolato “Le dispositif” è apparso come “The Apparatus”, tr. ingl. di J. Andrews e B. Augst, in Camera Obscura, 1, 11, 1976, pp. 104-126. In italiano i due saggi sono in corso di traduzione: J.-L. Baudry, Il dispositivo, a cura di R. Eugeni, tr. it. di G. Avezzù, La Scuola, Brescia 2017. [NdC] 7. Vedi P. Francastel, La réalité figurative: eléments structurels de sociologie de l’art, Gonthier, Paris 1965 e La figure et le lieu: l’ordre visuel du Quattrocento, Gonthier, Paris 1967, così come i suoi corsi all’Institute de Filmologie, con il quale l’autore iniziò a collaborare nel 1947. 8. Vedi L. Marin, Della rappresentazione (1994), tr. it. di M. Della Bernardina, Mimesis, Milano 2014. 9. M. Foucault, Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1976. 10. L. Althusser, “Ideologia ed apparati ideologici di Stato” (1970), in Freud e Lacan, a cura di C. Mancina, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 65123, qui pp. 107-120. 11. M. Foucault, “La société punitive”, in Résumés des cours 1970-1982, Julliard, Paris 1989, qui pp. 49-50. 12. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano (1980), tr. it. di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma 2001, pp. 8-9. 13. A. Berten, “Dispositif, médiation, créativité: petite généalogie”, in Hermès, 25, 1999, p. 35. 14. G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006. [NdC] 15. Vedi L. Febvre, “Réflexions sur l’histoire des techniques”, in Annales d’histoire économique et sociale, 36, 1935, pp. 531-535. Questo rinnovamento prese avvio in parte con autori come Simondon, Dagognet, Ellul, Beaune e Latour, per citarne alcuni, ma non ha effettivamente riguardato l’ambito dei film studies, nonostante alcuni sforzi – decisamente troppo rari e tendenti a ridursi a vaghe estrapolazioni o, all’opposto, a sole descrizioni empiriche.
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16. S. Schaffer “Une science de l’éclat. Les bulles de savon et l’art de faire de la physique à l’époque victorienne” e A. Mayer, “Faire marcher les hommes et les images. Les artifices du corps en movement”, in Terrain, 46, 2006, pp. 15-32 e 33-48. 17. Vedi F. Albera, “Projected cinema (a hypothesis on the cinema’s imagination)”, in F. Albera, M. Tortajada (a cura di), Cinema Beyond Film. Media Epistemology in the Modern Era, Amsterdam University Press, Amsterdam 2009, pp. 45-58. 18. Vedi G. Simondon, Du mode d’existence des objects techniques, Aubier-Montaigne, Paris 1969. [NdC] 19. Vedi ibidem. [NdC] 20. Riguardo a questi autori, rimandiamo il lettore a Cinema Beyond Film. Media Epistemology in the Modern Era, cit. 21. M. Foucault, “Nietzsche, la genealogia, la storia” (1971), tr. it. di A. Fontana e P. Pasquino, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 41-49. 22. L’edizione cui fa riferimento Foucault è J. Bentham, “Panopticon or the inspection house”, in The Works of Jeremy Bentham, published under the Superintendence of his Executor, John Bowring, William Tait, Edinburgh 1838-1843, vol. 4, pp. 37-171. La fonte è disponibile all’indirizzo http:// oll.libertyfund.org/titles/bentham-the-works-of-jeremy-bentham-vol4#lf0872-04_head_010 (ultima consultazione 02/03/2017). [Per l’edizione italiana vedi J. Bentham, Panopticon: ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, tr. it. di V. Fortunati, Marsilio, Venezia 1983. NdC] 23. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 218. 24. Ibidem. 25. J. Bentham, Panopticon: ovvero la casa d’ispezione, cit., pp. 35-40, in particolare p. 36. 26. Alcuni dispositivi possono essere appena tratteggiati, perché la macchina è soltanto menzionata o perché i vari elementi appaiono come frammenti. In questi casi è opportuno ricostruire il dispositivo nel suo complesso, se questo è possibile e se costituisce l’intento della ricerca. Altri dispositivi sono descritti fin dall’inizio in quanto tali [en dispositif]: gli esperimenti di Marey, per esempio. La descrizione di un esperimento, infatti, implica la presentazione esaustiva del dispositivo di riferimento. Il primo spettatore diventa in queste circostanze lo scienziato stesso. 27. M. Foucault, “Il gioco di Michel Foucault” (1977), in Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), a cura di M. Bertani e P.A. Rovatti, tr. it. di D. Borca e V. Zini, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 155-191, qui p. 156. 28. Gilles Deleuze ha optato per il termine “diagramma”. Vedi G. Deleuze, Foucault (1986), tr. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1987. 29. Foucault stabilisce anche una connessione tra il panorama di Barker e il Panopticon, senza però sviluppare l’idea. Vedi M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 226, nota a piè di pagina. 30. Foucault oppone questa filosofia alla filosofia dell’esperienza, del senso e del soggetto rappresentata da Jean-Paul Sartre e Maurice Merleau-Ponty.
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Il dispositivo non esiste!
Vedi M. Foucault, “Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore”, in Quaderni Piacentini, 14, 1984, tr. it. di P. Rossi, pp. 39-52, in particolare p. 40. 31. Ibidem, p. 48. 32. Nel suo articolo sul “movimento riflesso”, Canguilhem prende le mosse dalla comune definizione di concetto: “Sappiamo di trovarci di fronte a un concetto perché ci siamo imbattuti nella sua definizione – una definizione al contempo nominale e reale”. Vedi G. Canguilhem, “Le concept de réflexe au xixe siècle” (1964), in F. Delaporte (a cura di), A Vital Rationalist: Selected Writings from Georges Canguilhem, tr. ingl. A. Goldhammer, Zone, New York 1994, pp. 179-202, qui p. 188. [Traduzione nostra. NdC] 33. G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico (1938), tr. it. di E. Castelli Gattinara, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 16. 34. Sintetizzando il pensiero di Bachelard, Canguilhem scrive: “Bisogna ricostruire la sintesi entro cui si trova il concetto, vale a dire tanto il contesto concettuale quanto l’intenzione che presiede a esperimenti e osservazioni” (G. Canguilhem, “Gaston Bachelard”, in Études d’histoire et de philosophie des sciences, Vrin, Paris 1994, pp. 173-207, qui p. 177). 35. G. Bachelard, Il razionalismo applicato (1949), tr. it. di M. Giannuzzi Bruno e L. Semerari, Dedalo, Bari 1975, p. 186. 36. Ibidem, pp. 235, 239. 37. Vedi per esempio l’“oggetto” o il “gruppo di oggetti” in M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit. 38. Esistono diversi sistemi coerenti di sapere, che si riecheggiano oppure si contraddicono l’un l’altro. Alcuni determinano le condizioni di possibilità delle scienze: di questo si occupano epistemologi come Bachelard o Canguilhem. Quelli di interesse di Foucault hanno invece direttamente a che fare non con le scienze, ma con aree di sapere meno rigidamente costituite, “domini di scientificità”, campi di relazioni attraverso i quali un tipo di sapere si costituisce, definiti da oggetti del sapere, modalità enunciative, corpora teorici, relazioni tra concetti (questa la terminologia usata in L’archeologia del sapere). 39. G. Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, cit., p. 16. 40. Definendo ciascun termine in relazione all’altro, Foucault scrive più specificamente: “Per tornare su questo punto, se vuoi, definirei l’episteme come il dispositivo strategico che permette di selezionare, tra tutti gli enunciati possibili, quelli che potranno essere accettati all’interno, non dico di una teoria scientifica, ma di un campo di scientificità, e di cui si potrà dire: questo è vero, questo è falso. È il dispositivo che permette di separare, non tanto il vero dal falso, ma ciò che è scientificamente qualificabile da ciò che non lo è” (M. Foucault, “Il gioco di Michel Foucault”, cit., p. 159). Deleuze lavora con particolare attenzione su questa differenza tra discorsivo e non-discorsivo, tra episteme e dispositif, sapere e potere, in breve tra L’archeologia del sapere e Sorvegliare e punire. L’autore articola la distinzione in modo illuminante: “Ciò che L’archeologia riconosceva ma che designava ancora solo negativamente, come ambito non-discorsivo, assume, con Sorvegliare e punire, quella forma positiva che circola in tutta l’opera di
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IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
Foucault: la forma del visibile nella sua differenza con la forma dell’enunciabile” (G. Deleuze, Foucault, cit., p. 40). E prosegue: “Se sapere consiste nell’intrecciare il visibile e l’enunciabile, il potere ne è la causa presupposta; ma, inversamente, il potere implica il sapere come quella biforcazione, differenziazione, senza la quale non passerebbe all’atto” (ibidem, p. 46). La terminologia deleuziana, tuttavia, introducendo l’espressione “visibile” rispetto al foucaultiano “enunciato” rischia di mascherare la costante eterogeneità dei due domini. Questo accade per esempio nel caso in cui il Panopticon, posto come una organizzazione visibile, viene opposto al diritto penale, che è invece connesso all’ambito dell’enunciato. Deleuze trascura il fatto che il Panopticon, prima di essere un assetto architettonico visibile, è un discorso che descrive questo assetto e che implica enunciazioni di ordine discorsivo le quali rendono possibile la costruzione di questo specifico dispositivo disciplinare. Detto questo, riguardo alla questione delle pratiche la formulazione di Deleuze resta rilevante: “Ci sono solo pratiche, o positività, costitutive del sapere: pratiche discorsive di enunciati, pratiche non-discorsive di visibilità” (ibidem, p. 59).
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12 L’ARCHITETTURA DELLO SCHERMO ARTE E ATMOSFERE DELLA PROIEZIONE
Giuliana Bruno
Giuliana Bruno (https://ves.fas.harvard.edu/people/giuliana-bruno) è professore di Visual and Environmental Studies alla Harvard University. Laureata all’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”, si è trasferita negli Stati Uniti per proseguire la propria formazione accademica presso la New York University, dove ha ottenuto il dottorato in Cinema Studies. In una prima fase si è interessata particolarmente di spettatorialità femminile: Off Screen: Women and Film in Italy (Routledge, London 1988); Immagini allo schermo. La spettatrice e il cinema (curato con Maria Nadotti; tr. it. di S. Cortellazzo, Rosenberg & Sellier, Torino 1991); Rovine con vista: alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari (1993, tr. it. di M. Nadotti, La tartaruga, Milano 1995). La sua ricerca si è poi focalizzata sulle intersezioni tra le arti visive, il cinema, i media e la dimensione spaziale, in particolare l’architettura, su cui ha pubblicato una trilogia di opere: nel 2002 Atlante delle emozioni: in viaggio tra arte, architettura e cinema (tr. it. di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2006; Johan & Levi, Milano 2015); nel 2007 Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (tr. it. di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2009); e infine Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (2014, tr. it. di M. Nadotti, Johan & Levi, Milano 2016). Il saggio che presentiamo si inserisce nella recente riflessione di Giuliana Bruno sulle superfici, intese come luoghi materiali di apparizione delle immagini e dunque come strumenti di mediazione e di connessione tra spazi fisici, corpi e oggetti visuali. In particolare il saggio si concentra sugli schermi cinematografici o paracinematografici: esso si connette in tal modo a un filone di ricerca oggi in piena fioritura che, sollecitato dalla proliferazione degli schermi digitali nella vita quotidiana, ne indaga le premesse teoriche e ne ripercorre gli sviluppi nella prospettiva di un’archeologia dei media (su cui vedi anche gli altri contributi in questa sezione dell’antologia). Nello specifico Giuliana Bruno incrocia nel suo percorso archeologico dispositivi cinematografici o precinematografi351
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
ci e oggetti o installazioni artistici, convinta che tra i due ambiti si attivi una serie di risonanze, di esplicitazioni e di rilanci. Il punto di partenza del saggio consiste nell’affermazione del carattere specifico dello schermo cinematografico rispetto ad altri tipi di superfici: esso è legato a una canalizzazione della luce ambientale (il processo di proiezione) che costruisce su di esso effetti di mutamento e trasformazione incessanti. A partire da questo “grado zero” del cinema, si affermano tre grandi concezioni dello schermo. In primo luogo esso è un oggetto di arredamento e di partizione dello spazio (elemento di architettura mobile): la sua origine terminologica lo riporta al paravento, al divisorio, alla parete provvisoria incaricata di ridefinire lo spazio in termini di interno ed esterno. In secondo luogo lo schermo è una superficie (elemento di architettura tensile), tanto nelle sue forme puntuali e localizzate quanto in quelle estese e avvolgenti; inoltre il suo grado di visibilità è modulabile, dall’invisibilità dovuta alla preminenza dell’immagine alla progressiva visibilità (per esempio in tutti i casi in cui particolari effetti di luce ne evidenziano la testuralità materiale). Infine lo schermo cinematografico può dissolversi e risolversi nello stesso spazio vuoto (architettura atmosferica): si pensi agli esperimenti di film proiettati sul fumo o sul vapore che fin dalla Fantasmagoria settecentesca non cessano di ripresentarsi. Nel passaggio dalla prima alla terza accezione sembra consumarsi peraltro non solo un percorso storico, ma ancora di più un percorso teorico: lo schermo, nato per stare in uno spazio, torna a dissolversi nello spazio, affermando la vocazione “ambientale” del mezzo cinematografico. Noi proiettiamo come su uno schermo la nostra cultura, la nostra decifrazione delle cose del mondo […] La proiezione mi spiega la nascita del significato, così vedo che la proiezione modifica il senso dell’oggetto. 1 fabio mauri
“Che cos’è il cinema?” si domandava il teorico e critico francese André Bazin.2 “Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena”, rispose una volta, “quindi si arriva all’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema”.3 È utile introdurre questa nozione di grado zero spaziale del cinema per parlare della nascita storica del mezzo, e per valutare la trasformazione e la potenziale dissoluzione delle sue forme in epoca contemporanea. In quest’ottica, ci domanderemo, “dov’è il cinema?”. Al giorno d’oggi, esso esce sempre più spesso dalla sala cinematografica per trasferirsi nella galleria d’arte e nel museo. Percorrendo gli spazi espositivi, incontriamo frequentemente installazioni con immagini in movimento che, abbandonate la stretta logica del racconto, le stelle del 352
L’architettura dello schermo
cinema e la messa in scena, tendono invece a esporre la materialità del mezzo filmico sui propri schermi e nello spazio. Nell’accettare un grado zero di espressione cinematografica, molte di queste opere si oppongono completamente alle modalità narrative convenzionali e scelgono invece di “inscenare” la propria capacità di creare multiformi spazi di luce. Così facendo, evocano le forme luminose e caliginose con cui il cinema si presentava in origine. In tal senso qui il cinematografico non è una proprietà del cinema in sé, ma emerge piuttosto in congiunzione con e tramite altre forme d’arte, per esempio la pittura, la fotografia e la scultura, ed è inoltre diffuso in vari altri media nonché ambienti e terreni materiali. Può manifestarsi nella sagoma di una tela oppure come volume o spazio, operando come se fossero degli schermi, secondo modalità che riconfigurano la storia della proiezione. Esaminiamo dunque questo loop materiale che collega il pre-cinema al post-cinema e crea una convergenza tra vecchi e nuovi media, concentrandoci sullo schermo e indagandone la radiosa, permeabile “oggettualità” così come è andata trasformandosi nello spazio e nel corso del tempo. NASCITA E DISSOLUZIONE DELLO SCHERMO
In principio era la luce. La superficie dello schermo nasce da lì, dal desiderio di trasformare lo spazio mediante la luminosità e il gioco delle ombre. Approfondendo questo tema, trattato nel mio libro Superfici. A proposito di estetica, materialità e media, propongo di considerare la storia trasformativa dello spazio di luce in schermo come il grado zero materiale del cinema, e di indagare ulteriormente in che modo l’attrazione per l’arte della proiezione sia migrata nell’arte e nell’architettura contemporanee.4 È ora di tracciare una genealogia alternativa per lo schermo: invece di concepirlo otticamente come una finestra o uno specchio, suggerisco di pensarlo come uno spazio aptico. Per approfondire il concetto che lo schermo è un’architettura e, a sua volta, crea un ambiente, è utile misurarsi con la forma della sua storia materiale, poiché essa rivela alcuni aspetti di una storia culturale. L’interessante etimologia evolutiva della parola schermo può cominciare a dirci qualcosa riguardo a questa diversa storia “elementare” e ambientale dello spazio proiettivo. Occupandoci di archeologia dei media, ci accorgiamo che l’idea dello schermo, e 353
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
della sua visione luminosa, precede di molto l’invenzione del cinema. La parola schermo, in effetti, è stata usata per lungo tempo in relazione allo spazio prima di essere applicata all’arte della proiezione. Fece la sua comparsa durante il primo Rinascimento, evolvendo da una precedente radice germanica passata anch’essa alle lingue latine. In origine il termine indicava una varietà di mezzi, superfici e tipi di schermatura, perlopiù provenienti dal mondo dell’architettura. Come lo storico dei media Erkki Huhtamo ha mostrato, esso designava in particolare “un tipo di mobile che è ‘mobile’, consistente in un foglio di materiale leggero, spesso semitrasparente (carta, un qualche tipo di tessuto ecc.) teso su un telaio in legno (o su una serie di cornici pieghevoli connesse tra loro)”.5 Nel xix secolo il suo significato si è esteso a comprendere la superficie della proiezione. Trasferito dallo spazio architettonico alla sfera dei media precinematografici, il lemma ha finito per definire un nuovo tipo di membrana traslucida, e una nuova forma di trama materiale: un tessuto che riflette la luce per la trasmissione di immagini luminose. È significativo notare che The Century Dictionary and Cyclopedia, la cui prima edizione risale al 1899, definisce lo schermo innanzitutto dal punto di vista architettonico, come “una struttura velata, divisorio o sipario…; per esempio, un paracamino; un paravento pieghevole; una persiana”, per poi includere in questa forma di metamorfosi spaziale “uno schermo su cui una lanterna magica può imprimere delle immagini”.6 L’evoluzione del termine ci dice che quello che noi oggi chiamiamo schermo e intendiamo come superficie proiettiva ha avuto origine nell’universo degli oggetti e dello spazio materiale. Lo schermo era una “cosa”, un oggetto di arredamento flessibile che occupava gli interni domestici. Serviva in particolare a negoziare interno ed esterno, e a trasformare materialmente – addirittura atmosfericamente – lo spazio, agendo come filtro di concerto con la luce. Utilizzato come sipario per dividere lo spazio all’interno della casa, lo schermo mediava tra zone private e pubbliche dell’abitazione, creando privacy e intimità. Tale è la funzione spaziale simbolizzata con maggior forza dallo schermo quando, alla fine dell’Ottocento, divenne una peculiarità della sala cinematografica, dove gli spettatori potevano vivere la proiezione degli esterni negli interni in un’atmosfera sociale di “pubblica intimità”.7 354
L’architettura dello schermo
Nato come tessuto che fungeva da filtro traslucido, nell’arte visiva moderna e contemporanea lo schermo continua a essere espressione di quella cultura materiale e di quella funzione spaziale. Nelle mani dell’artista Fabio Mauri, per esempio, esso conserva il proprio carattere genealogico e le proprie qualità architettoniche e ambientali. Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso Mauri realizzò la sua prima serie di “Schermi” monocromatici, delicate opere d’arte fatte di materiali traslucidi quali carte e tessuti simili a pelli, tesi su telai. Evocative degli schermi che ornano le finestre o le oscurano, tali opere ci ricordano che lo schermo cinematografico nasce con l’architettura come dispositivo per far trasparire la luce nell’ambiente. Dotati della qualità materiale di un sipario, un divisorio, una pergamena, o un filtro, gli oggetti di Mauri, costruiti come pannelli tessili, rivelano il vero e proprio tessuto di cui è fatto lo schermo cinematografico. Spesso corredati di una scritta minimale, “the end”, questi schermi di tela fanno perfino un riferimento diretto al cinema, svelandone il grado zero di espressione. Essi espongono in una dimensione plastica la configurazione storica della nascita della proiezione e la condizione materiale della sua esistenza. Lo schermo come struttura architettonica e plastica può agire intimamente sulla materialità della luce nello spazio pubblico della galleria d’arte contemporanea. Si pensi, per esempio, a come questo oggetto si materializzi in Three Screens for Looking at Abstraction (2012) di Josiah McElheny, un’opera che si pone a sua volta proprio la questione di cosa sia, fisicamente, uno schermo e di come sia emerso materialmente nella storia. Qui ogni schermo è costruito come una presenza scultorea, un oggetto volumetrico che occupa lo spazio e diventa un vero e proprio pezzo di architettura. Configurati spazialmente, gli schermi creano un’atmosfera, e assumono qualità perfino più aptiche dalla gamma di superfici proiettive, riflettenti e traslucide, di cui sono composti. Mentre la luce si rifrange sulle superfici dinamiche degli schermi di McElheny, lo spettatore percepisce in modo tangibile come un materiale possa trasformare uno spazio. Fratturati e ricomposti attraverso la proiezione delle forme astratte del cinema sperimentale, questi tessuti schermo riuniti creano uno spazio sensoriale che riflette e ingloba anche i corpi degli spettatori, la cui ombra e il cui riflesso si proiettano in maniera fantasmagorica sulle superfici luminose nell’ambiente. 355
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
Concepito quale texturale, plastico oggetto di proiezione, lo schermo rientra in pieno nella sfera di quella che il filosofo Jacques Rancière chiama la “superficie del design”.8 Questa superficie proiettiva continua a creare e trasformare il nostro ambiente, sia fisicamente sia immaginariamente. Per l’artista francese Philippe Parreno, uno schermo digitale a led ha tanto una dimensione scultorea quanto una superficie in costante e fluida trasformazione, al contempo elettrica e capace di elettrizzare l’atmosfera circostante – come previsto, con i lampeggianti disegni animati di farfalle, nella sua installazione With a Rhythmic Instinction to Be Able to Travel beyond Existing Forces of Life (2014). Lo schermo può fungere anche da mobile oggetto di trasporto sensoriale, come nella videoinstallazione di Trisha Baga Flatlands 3D (2010), dove si configura variamente in forma di finestrino di aeroplano o di automobile. Uno schermo simile filtra diversi piani di informazione. Agli spettatori viene chiesto di attraversare la superficie stratificata dello schermo, dove l’intimo spazio psichico di una donna si coagula in un paesaggio di simulazioni. La pioggia vela ulteriormente questa finestra-schermo a più strati, e alla fine un cartello prega gentilmente lo spettatore di “pulire il filtro”. Lo schermo, che nella nostra cultura digitale è stato riposizionato come elemento onnipresente, opera sempre più – qui lo si avverte in modo chiaro – come un filtro. Come oggetto della vita quotidiana, esso è diventato un sito cruciale di mediazione dei piani, tra cui il privato e il pubblico, e in quanto tale costituisce l’architettura di una trasformazione sensoriale, sociale ed estetica. La capacità dello schermo di connettere empiricamente e sensorialmente la nostra percezione di diversi spazi, tra cui l’interno e l’esterno, nonché di muoversi tra forme d’arte, fu riconosciuta fin dalla nascita del mezzo. Nel 1915 il poeta e critico Vachel Lindsay espose quel passaggio di grado zero che è lo schermo cinematografico, descrivendo tale transizionale superficie materiale come “scultura in movimento”, “pittura in movimento” e “architettura in movimento”.9 Lindsay accennava alla materialità che lo schermo ha ormai pienamente finito per incarnare sia in quanto oggetto sia in quanto spazio di proiezione. Come non pensare a tali brillanti definizioni quando esaminiamo la forma degli schermi attuali, così come si presentano nelle nostre case e nelle gallerie d’arte? Siamo effettivamente circondati da schermi che sono pezzi di “scultura 356
L’architettura dello schermo
in movimento” – tattili oggetti di trasporto, dotati di una struttura materiale e di una qualità plastica. Lo schermo digitale portatile è un’“architettura in movimento” che si sposta con noi, e nelle nostre case funziona come un vero e proprio pezzo di “arredamento in movimento”, un reale mobile “mobile”. Infine le installazioni con immagini in movimento ci offrono il piacere sensoriale della pennellata pittorica, che si materializza cineticamente sullo schermo nello spazio delle gallerie e dei musei. LO SPAZIO DELLO SCHERMO: SUPERFICI LUMINOSE E SUPERFICI IN OMBRA
I fenomeni di cui facciamo esperienza nella galleria d’arte contemporanea e nella odierna cultura dei media entrano in risonanza con l’archeologia dello stesso mezzo cinematografico, e non possono essere colti appieno se non si indaga la storia dello schermo e non ci si interroga su come esso sia arrivato ad articolarsi in forma di architettura tensile e di luminosa superficie di design. Per elucidare ulteriormente questo aspetto dello schermo, dovremmo riconsiderare gli anni Venti del secolo scorso, un decennio cruciale, durante il quale l’architettura dello schermo si sviluppò in superficie da progettare. Gli anni Venti videro nascere i palazzi del cinema: ampi spazi pubblici di proiezione dal disegno sontuoso e dall’ornamentazione sfarzosa.10 Lì, come nella galleria d’arte contemporanea, lo schermo è parte di uno spazio più ampio – una componente di un’“installazione” – e concorre a creare l’atmosfera del luogo. In quell’epoca la spazializzazione dell’arte della proiezione prese addirittura una piega atmosferica, tramite la progettazione del “cinema d’atmosfera”. In genere i palazzi del cinema dell’era moderna sottolineavano l’assorbimento dello spettatore nella superficie della proiezione, e per creare lo spazio della superficie si servivano di linee ornamentali, curve e geometrie essenziali.11 Tuttavia John Eberson, illustre architetto di cinema d’atmosfera, si spinse oltre. Creò spazi cinematografici che incarnavano il concetto ottocentesco di Stimmung – vale a dire le atmosfere che infondono un sentimento, uno stato mentale, un umore o una tonalità.12 In questi spazi, costruiti come se fossero degli allestimenti scenici, gli spettatori vivevano interno ed esterno come confini fluidi, poi357
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
ché l’ambiente che li circondava era spesso una riproduzione architettonica di un esterno, e la trama della luce e dell’oscurità era parte integrante dello spettacolo cinematografico. Nel descrivere il Capitol Theatre costruito a Chicago nel 1925, Eberson rimarcava l’importanza di utilizzare abilmente “vernice, pennello, e luce elettrica, piante ornamentali, arredi, luci e ombre” nella progettazione dei cinema d’atmosfera.13 Il Loew’s Paradise Theatre da lui costruito nel Bronx nel 1929 ricordava l’architettura del giardino all’italiana, con tanto di plafoniere celestiali che riproducevano l’intera sequenza del passaggio dal giorno alla notte. Questa atmosfera radiosa era in perfetta sintonia con la superficie luminosa dello schermo, concepito come un minuscolo elemento del grandioso design di superficie dell’immenso, barocco ambiente teatrale.14 Questi cinema d’atmosfera erano davvero degli spazi immersivi capaci di avvolgere e coinvolgere sensorialmente gli spettatori, in forme che hanno anticipato l’immersione digitale e il senso di geografia ambientale sperimentati con tecnologie attuali quali 3D, imax e realtà virtuale. Il Film Guild Cinema, progettato in stile neoplastico modernista da Frederick Kiesler, raffigurava un diverso tipo di atmosfera percettiva.15 Per questo cinema, costruito a New York nel 1929, l’architetto d’avanguardia immaginò uno spettatore idealmente “proiettato” dal buio della sala alla luce di uno schermo centrale, che somigliava al diaframma di una cinepresa. Nella sala, priva di addobbi architettonici, la sola decorazione era creata dalla luce e dall’orditura delle onde sonore. Dei pannelli meccanici consentivano allo schermo di espandersi o contrarsi, e le pareti si piegavano ad angolo verso quel flessibile schermo cinetico, che Kiesler chiamò “screen-o-scope”, schermo-scopio. Lo schermo elastico da lui progettato prevedeva altresì un mai realizzato “project-o-scope”. Il proietto-scopio avrebbe dovuto estendere la proiezione dallo schermo centrale alle due pareti laterali e al soffitto producendo così proiezioni multiple e ininterrotte e un avvolgente ambiente filmico totale. Proiettando la luce su queste pareti-schermo, Kiesler dava forma architettonica alla nozione di cinema come spazio di superficie. Nel concepirlo, affermò che “Il cinema è un gioco di superficie, il teatro è una performance nello spazio […]. Il cinema ideale è la sala del silenzio […] Lo spettatore deve essere in grado di perdersi in un immaginario spazio infinito”.16 358
L’architettura dello schermo
Questo modello assorbente sul piano delle percezioni si è reincarnato con radicalità in tempi più recenti. Per certi versi, ha informato il progetto per l’“Invisible Cinema” di New York del filmmaker austriaco Peter Kubelka.17 Attiva dal 1970 al 1974, questa sala cinematografica era un’espressione architettonica modernista della missione dell’Anthology Film Archives, un tempio dedicato in particolar modo al cinema d’avanguardia.18 Il “Cinema invisibile”, che poteva accogliere un po’ meno di cento persone, durante il primo anno fu meta di oltre quattordicimila spettatori. In questo “interno interamente rivestito di un tessuto che assorbe la luce”, la teorica dell’arte e del cinema Annette Michelson ha scoperto “l’architettura della Velvet Light Trap”.19 Per assicurare la completa fusione percettiva con l’ambiente del cinema – una totale scatola nera – le poltrone di velluto degli spettatori erano dotate di tramezzi simili a gusci che, a partire dai due braccioli, si innalzavano su entrambi i lati. Uno “schermo” a pieno titolo, questo divisorio incapsulava lo spettatore, sia dal punto di vista atmosferico sia sul piano uditivo, con dei paraocchi che impedivano la visione periferica o la distrazione dai lati. I dintorni erano “schermati”, e si era al riparo oltre che protetti e al sicuro. Allo spettatore era dunque manifestamente richiesto di guardare la superficie “splendente” dello schermo perché, per dirla con Kubelka, per il pubblico “gli unici punti di riferimento visivi erano lo schermo e il film”.20 Il silenzio e un comportamento corretto erano di precetto in questa “macchina per la visione”, benché il progettista sottolineasse una possibile connessione aptica tra gli spettatori.21 “Solo i vostri occhi erano al riparo dai vostri vicini, pressappoco dalle spalle in su”, spiegava Kubelka, “ma potevate toccarvi, e dato che non si trattava di una divisione completa, avvertivate di continuo che al vostro fianco c’era qualcuno”.22 In tal modo, insisteva, “si creava una comunità empatica”, giacché “l’architettura deve fornire una struttura in cui si è in una comunità che non è di disturbo agli altri”. 23 Per certi versi l’architettura del Cinema invisibile anticipava un aspetto della nostra esperienza contemporanea dello spazio visivo, in particolare per quanto riguarda lo schermo. Osservando una fotografia di Andy Warhol seduto all’interno del Cinema invisibile nel 1970, o altre immagini del pubblico nella sala, non si può fare a meno di riflettere sull’isolamento sociale prodotto da una situazione cinematografica di questo tipo. Il totale assorbimento del 359
IL DIALOGO CON LA MEDIOLOGIA
singolo spettatore nello schermo illuminato sembra preannunciare il nostro attuale rapporto con i nostri schermi portatili. Anche noi tendiamo a starcene seduti per conto nostro anche se insieme ad altri negli spazi pubblici, lo sguardo fisso e concentrato sui nostri schermi. E questo isolamento digitale è complesso quanto il grado zero del cinema di cui si faceva esperienza nella sala del Cinema invisibile, perché vi sono coinvolti simultaneamente privacy e dimensione pubblica, intimità ed estraniazione. L’esperienza dello schermo si è individualizzata, come se intorno a noi fosse stato costruito un divisorio, reale come quelli del progetto visionario di Kubelka. “Screen”, proiettare, ha finito per comportare uno “screening out”, un modo di schermare che crea un’esclusione tanto delle altre persone quanto dell’ambiente circostante. E tuttavia, assorbiti dalla luce dei nostri personali schermi portatili, anche noi diventiamo parte della comunità propugnata da Kubelka. Creiamo relazione e comunichiamo, mettendoci “in contatto” tramite i nostri schermi. Sempre, naturalmente, accertandoci di non disturbare le persone intorno a noi. INSTALLARE IL CINEMA SU UNA MOLTEPLICITÀ DI SCHERMI
Gli avveniristici spazi cinematografici sperimentali creati negli anni Venti del secolo scorso illustravano una creativa trasformazione sensoriale dello spazio visivo. Tale trasformazione, che era di natura empirica, includeva la conversione dello schermo in un tensile materiale di proiezione. Il Café et Cinéma de L’Aubette, per esempio, progettato nel 1928 a Strasburgo dall’artista olandese De Stijl Theo van Doesburg, contribuì all’espansione della geometria dello schermo. Questo spazio polifunzionale disponeva di uno schermo circondato da vari altri pannelli quadrati e rettangolari, in una composizione ortogonale che creava un montaggio di strutture geometriche. Qui lo schermo diventò un elemento “superficiale” di un assemblaggio decorativo che si estendeva dalle pareti al soffitto. Nel xix secolo, agli albori della modernità, alcune forme di visione panoramica avevano già allargato il nostro campo visivo per incorporare uno spazio esteso.24 Dal movimento moderno della visione panoramica emerse uno schermo cinematografico tensile, che includeva vedute pittoriche, diorami, georami, cosmorami e 360
L’architettura dello schermo
altri “-orami” spaziali, nonché superfici ornamentali quali le tappezzerie panoramiche.25 Negli anni Venti, queste forme precinematografiche dilatate, ingrandite, moltiplicate e portatili di schermo, molte delle quali sono diventate parte dell’arte e della cultura contemporanee, ebbero uno sviluppo ulteriore. Gli esperimenti d’avanguardia di questo periodo rispecchiano con forza la nostra attuale esperienza dello schermo, in particolar modo per quanto riguarda il rifiuto della sua fissità geometrica e della sua singolarità. Uno di questi esperimenti vide la luce nel 1927, quando il regista francese Abel Gance adattò le forme dell’esposizione panoramica precinematografica al cinema e proiettò in questo modo una parte della sua epopea filmica Napoléon. Servendosi di un sistema chiamato Polyvision, Gance riprodusse sul piano cinematografico l’effetto visivo di un “panorama mobile” ottocentesco: una gigantesca visualizzazione di immagini che scorrevano orizzontalmente, offrendo agli spettatori l’illusione del movimento nello spazio. Il regista sperimentò l’uso di vari proiettori per dare al pubblico l’impressione di essere immerso nello spazio della narrazione. Originariamente previsto per sei schermi, Napoléon finì per usarne tre con risultati stupefacenti. Sugli schermi adiacenti scorrevano le sequenze filmate simultaneamente da un sistema a tre cineprese, nonché scene diverse proiettate in modo contiguo per dare la sensazione effettiva di un panorama mobile. Con Napoléon, Gance usò la congiunzione degli schermi per movimentare la scena e comunicare una molteplicità fluida, attivando così la modalità diffratta di un mobile panorama in continua espansione. Più o meno in quegli stessi anni, l’architetto Walter Gropius, uno dei fondatori del Bauhaus, propugnò l’uso di una proiezione multipla e avvolgente. Il suo progetto di “Totaltheater” del 1927, una collaborazione irrealizzata con il regista teatrale Erwin Piscator, richiedeva schermi enormi “tesi tra le dodici colonne dell’auditorium” in modo che il pubblico potesse “trovarsi in mezzo a un turbolento mare” di immagini.26 Sempre nell’ambito del Bauhaus, l’artista transdisciplinare László Moholy-Nagy concepì uno schermo ancora più tensile.27 Nel suo libro del 1925 Pittura Fotografia Film, teorizzava la luminosità come tramite materiale tra i media e collegava “la pittura di pigmento ai giochi di luce proiettati con un riflettore”.28 Parlandone in questi termini, vale a dire come di una superficie splendente e dotata di una texture, l’artista 361
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considerava lo schermo un materiale in sé, un vero e proprio spazio da progettare con creatività. In un capitolo significativamente intitolato “Il cinema simultaneo o policinema”, Moholy-Nagy suggeriva una serie di riconfigurazioni dinamiche dello schermo, che includevano dispositivi atti a dividere “la superficie di proiezione” in “diversi piani e spazi posti obliquamente come un paesaggio” e a proiettare “più di un film” su tale superficie in modo che si potessero “rappresentare due o più avvenimenti, inizialmente indipendenti fra di loro, poi, al momento del loro calcolato convergere, coincidenti anche nel significato”.29 In questa sperimentazione fantasiosa, lo schermo, costruito come un “paesaggio”, offre vedute e visuali. La sua ampliata idoneità “a una funzione acustica e ottica simultanea” è per di più condivisa dalla metropoli, che può essere intesa a sua volta come uno schermo riverberante.30 Questo schermo-paesaggio tonale era sottoposto a una movimentazione planare non solo tramite la varietà delle geometrie e la suddivisione delle forme, ma anche mediante proiezioni multiple. Moholy-Nagy immaginava di “ripetere una sequenza di figure partendo di nuovo dall’inizio proiettando in aggiunta copie della pellicola che scorre sullo schermo per mezzo di proiettori che stanno uno vicino all’altro”.31 Il polifonico spazio multischermo descritto da Moholy-Nagy era il moderno paesaggio della comunicazione, immaginato ben prima che sullo schermo dei computer si potessero aprire multiple “finestre”. Svincolata dalla fissità logistica e dalle geometrie univoche e statiche, potenziando la simultaneità, il parallelismo e le situazioni eterogenee in uno spazio di proiezione ampio, fluido e sensoriale, la tensile superficie di questo schermo sognava un “cinema espanso” e la digitalità mobile a venire. TRAME RADIOSE, SOLIDI SPAZI DI LUCE
Nel tipo di sperimentazione avviato da Moholy-Nagy, “il materiale pigmento e il materiale luce” sono attivati su uno schermopaesaggio che si trasforma di continuo con modalità che creano l’esperienza di un grado zero di cinema.32 In questo materiale c’è una qualità atmosferica, un’esperienza sensoriale dello spazio di luce, che non solo annuncia il futuro del cinema, ma ci ricorda altresì proprio la nascita del mezzo. Oggi, nel momento della disso362
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luzione del cinema, assistiamo al ritorno delle luminose materialità texturali apparse agli albori del mezzo filmico. Si pensi a Coney Island at Night, diretto da Edwin S. Porter nel 1905, parte della tendenza “elettrica” presente nel cinema delle origini a esplorare immagini fatte di pura luce. Espressione della modalità ornamentale che il teorico tedesco Siegfried Kracauer chiamava “splendore di superficie”, Coney Island at Night dimostra come il sogno del cinema si sia materializzato nell’epoca della modernità come un’arte della proiezione.33 Mentre scivoliamo sulla sfavillante superficie urbana, elettrizzati dallo sfarfallio luccicante delle luci, arriviamo a sperimentare la texture sensoriale dei nuovi media della modernità: la magia delle lanterne magiche e le fulgide proiezioni degli spettacoli fantasmagorici.34 Qui l’elemento fisico della proiezione diventa evidente. Siamo sensibilizzati all’aspetto esteriore dello schermo, in sintonia con la sua presenza fenomenologica di mezzo da cui traspare la luce. In Coney Island at Night percepiamo la porosità di una superficie pittorica. Lo schermo di Porter si presenta come un panno, un tessuto che sembra sia stato perforato da puntini luminosi. Benché piatto in superficie, questo schermo ha volume, perché la luce sfarfallante che lo anima gli conferisce profondità, ampiezza e plasticità. Le particelle di luce danzante, che paiono impresse su una superficie ondeggiante, danno allo schermo la forma di un piano mobile e operato, e di conseguenza ne rivelano proprio la trama. Prendendo vita in forma tessile, lo schermo-tela si converte in un velatino sul quale l’architettura di luce è percepibile in forma riflessa nella tensione superficiale. Trasformandosi in velatino, esso ci induce a riflettere sul fenomeno delle “leggere”, tensili texture dello schermo che si ripresentano nello spazio della galleria d’arte contemporanea, dove lo schermo ha finito per insediarsi in una condizione plastica e in una materialità di superficie. L’interesse per l’arte della proiezione che è tornato a diffondersi nell’arte contemporanea crea un loop cinematografico che connette la fine del secolo scorso agli inizi del nuovo millennio, e noi siamo rimandati alla sua condizione paradigmatica e alla luminosità superficiale che ha caratterizzato la storia della prima modernità, oggi reinventata nei musei.35 All’interesse contemporaneo per le proiezioni fantasmagoriche della modernità ha fatto da pioniere Anthony McCall, che descri363
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ve la sua installazione filmica del 1973 Line Describing a Cone con queste parole: “è quello che definisco un film di luce solida. […] Questo film parla di una delle condizioni necessarie e irriducibili del cinema: la proiezione di luce”.36 In quest’opera un proiettore proietta – cioè rende visibile, effonde e trasmette – un cono di luce in un ambiente abbuiato, stimolando lo spettatore a percepire quel grado zero di cinema di cui abbiamo parlato. La luce viene percepita come un’entità materiale perché è ulteriormente filtrata dal fumo, che ne aumenta e ne rende più tangibile la densità. Trasformata in un volume dotato di corpo, questa solida superficie luminosa è percepita come una presenza scultorea e diventa uno spazio materiale con cui negoziare. Qui, come in un’altra opera di McCall, Long Film for Four Projectors (1974), lo spettatore è indotto a toccare il cono di luce, a maneggiarne la superficie e a girare intorno e in mezzo alla scultura-ambiente proiettiva. L’idea di cinema di McCall è diventata ancor più ambientale nel suo recente ritorno ai film di “luce solida”, prodotti digitalmente a partire dai primi anni Duemila. Ancora una volta, finiamo per essere assorbiti nell’atmosfera luminosa di proiezioni pure, mentre condividiamo un’intimità pubblica. Utilizzando la tecnologia digitale per potenziare gli effetti materiali, questo lavoro recente restituisce la dimensione più atmosferica del cinema e, in tal senso, riprende alcuni aspetti delle prime performance ambientali dell’artista, per esempio Landscape for Fire (1972). L’“esperienza atmosferica” del cinema diventa la vera e propria materialità di superficie delle installazioni di McCall.37 L’“aria” della luce qui è resa tangibile, e avvertiamo la profondità insita nello spazio di superficie ambientale. Resi sensibili alla materialità dell’etere, ci ritroviamo avvolti da un mutevole, permeabile ambiente atmosferico, alla cui performance e permutazione siamo palpabilmente invitati a partecipare. ATMOSFERE: DENSITÀ DELLO SCHERMO IMMATERIALE
L’idea della dimensione atmosferica della proiezione è altresì, se pur in modo diverso, alla base di alcune delle esperienze che vanno sotto la formula onnicomprensiva di “cinema espanso”.38 Degni di nota all’interno di quest’ampia categoria sono gli ambienti sensoriali intermediali creati dal filmmaker sperimentale Stan VanDerBeek nel suo Movie-Drome (1963-66).39 Questa cupola emisferica 364
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era un ambiente immersivo, rivestito al suo interno delle superfici sfaccettate di multiple proiezioni di immagini fisse e in movimento. L’atmosfera diventa l’elemento chiave anche di Steam Screens, una performance-installazione che VanDerBeek crea nel 1979 allo Sculpture Garden del Whitney Museum of American Art di New York insieme all’artista ambientale Joan Brigham. Brigham, che nella sua opera aveva dato inizio all’uso del vapore, si impegna in una serie di collaborazioni con VanDerBeek nelle quali si servono del vapore come di uno schermo su cui vengono proiettate le immagini filmiche. Nello spazio del museo, per citare Brigham, “le mobili onde di vapore catturavano e rifrangevano le immagini filmiche, formandole e riformandole mentre le onde rotolavano attraverso il flusso di luce proiettata”.40 Proiettata sul vapore, la pellicola poteva raggiungere l’ultimo stadio di un grado zero di esistenza, venendo alla luce in uno stato di dissoluzione. Materiale immateriale, il vapore ha finanche la qualità texturale di una “pellicola”, poiché può filtrare e riflettere la luminosità e rendere tangibili lo spazio e la luce. Con Steam Screens, il pubblico finiva per essere avviluppato in un’esperienza proiettiva autenticamente ambientale, che ricordava Steam, la prima opera di Land Art realizzata da Robert Morris nel 1967.41 Per l’installazione VanDerBeek e Brigham progettano uno spazio performativo, atmosfericamente appannato da particelle di luce, acqua e aria, in cui la superficie filmica si vela e l’ambiente della proiezione si offusca. Tuttavia, come ha osservato Brigham, qui le “nubi accrescono la visione, non la oscurano”, perché nell’opera gli artisti mirano ad agire su “superfici, distanze, texture e volumi – i fattori con i quali ci orientiamo nel tempo e nello spazio”, facendo sì che le immagini “aleggino a mezz’aria come apparizioni”.42 E così, nei vapori della proiezione, la stessa immagine filmica diventa una nuvola. Steam Screens crea uno schermo che è una superficie atmosferica quasi elettrica, giacché il vapore è usato come una forza energetica. Per dirla con Brigham, “il vapore entra nel lavoro diurno e nei sogni notturni come il danzatore in scena, energizzando lo spazio con il movimento continuo”.43 Oltre a essere performativa, l’installazione era anche interattiva, poiché metteva lo spettatore in una posizione in cui “le realtà percepite nei singoli momenti sono in flusso; contraddittorie, insistenti ed eleganti. Mentre il vapore 365
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modifica il pubblico, il pubblico modifica il vapore”.44 L’ambiente nebuloso della proiezione diventa il luogo di un’esibizione toccante, partecipativa, concreta di pubblica intimità. Qui il vapore è, in sostanza, “una manifestazione del sogno collettivo” del cinema, materializzato nella dissoluzione delle sue forme.45 AMBIENTI DI PROIEZIONE
Coinvolgendo la materialità e le atmosfere della proiezione, Steam Screens ci ricorda quanto la consistenza immateriale della luce e dell’aria permei lo spazio proiettivo, dove “il visibile non è che una qualità pregnante di una trama, la superficie di una profondità”.46 L’atmosfera della proiezione – che sia in una sala cinematografica o in una galleria – è densa di volubili particelle luminose che danzano nello spazio, pervase di un’aria di nebulosa, permeabile palpabilità. La proiezione è sempre stata un ambiente carico, e nelle mani degli artisti contemporanei sta diventando ancor più un’atmosfera di vitale energia. Lo spazio dello schermo è un luogo inondato dalle perturbazioni delle superfici. Per avvertire completamente queste vibranti sostanze texturali, ripensiamo alla storia materiale dello schermo e alla superficie del design nella storia da cui siamo partiti. In fondo, la base materiale dell’atto di proiezione è sempre stata una consistenza eterea. Emersa dal design del paracamino, del paravento e della persiana, e trasformatasi poi nello spazio espositivo della lanterna magica e della fantasmagoria, l’idea della proiezione è scaturita da vibranti superfici atmosferiche, per poi convertirsi nello Stimmung dei “cinema d’atmosfera”. L’atto di proiezione fu progettato perché le immagini si allargassero e si muovessero, affiorando dal tessuto di luce e dalla densità dell’aria. Le prime forme di proiezione furono inoltre uno spazio alterato dagli agenti atmosferici, dove la fantasmagoria della proiezione era permeata di essenze vaporose come il fumo e la nebbia. La proiezione era altresì strettamente associata a sostanze elusive e dalla qualità caliginosa e indistinta quali le sfumature, le sagome e le ombre, che si credeva si materializzassero effettivamente sullo schermo. Ne conseguì che Moholy-Nagy sognasse “visioni di luce” perfino negli “spazi aperti, o su schermi inusuali, quali la nebbia, il gas e le nuvole”.47 Analogamente, Brigham ha pensato al vapore come a uno schermo cinematogra366
L’architettura dello schermo
fico, perché, “come altri sistemi energetici”, esso interagisce “con l’ambiente circostante tramite un’espansione trasparente” e “tramuta le apparenze in apparizioni”.48 L’eterea atmosfera elettrica può davvero fare da materia di proiezione, come l’artista Aldo Tambellini ha mostrato nei suoi esperimenti elettronici intermediali degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Con la sua arte “elettromediale” Tambellini ha creato una fantasmagorica costellazione di proiezioni. Il suo film Black Spiral (Split Screen) (1969/2013) ha dato corpo alle “vie dell’etere” tramite la cattura delle emissioni di schermi televisivi manipolati trasformando i raster orizzontali in vorticose tempeste di pixel, con il risultato di deteriorare la superficie dell’immagine. In questo modo ha dato una consistenza all’essere “in onda” e ha convertito l’etere in forme nere che evocano la materia oscura. Mediante la luce e il buio, Tambellini ha creato l’esperienza sensoriale di una cosmologia mobile, in cui i vecchi e i nuovi media convergono atmosfericamente. Etere, vapore, e cielo continuano a fornire animati ambienti di proiezione. Come se inventasse una nuova forma di “Sky art”, la serie pittorica di Alex Israel Sky Backdrop (2016) – tele prodotte con il dipartimento di scenografia della Warner Bros. – raffigura uno “schermo” di luce e crea un proprio atmosferico grado zero di proiezione. Le elementari, atmosferiche condizioni materiali della proiezione vengono ancor più alla luce in Flashlight Filmstrip Projections (2014) di Jennifer West, poiché la luce risplende su “schermi” piatti fatti di strisce di pellicola cinematografica da 35 e 70 millimetri, appesi come sculture che fungono da traslucidi piani proiettivi. In questa installazione, dato che gli schermi di strisce di pellicola filtrati dalla luce sono anche riproiettati sulle pareti, è la stessa texture del mezzo filmico a essere evocata fisicamente in modo etereo in una fioca, atmosferica scena di proiezione. Infine, nel video del 2009 di Artie Vierkant, Exposure Adjustment on a Sunset, osserviamo il lento arco di un tramonto sull’oceano, alterato in modo che il cielo rimanga luminoso mentre l’immagine si fa digitalmente texturata, animando in forma digitale l’esperienza di un ambiente-cinema. Le immagini continuano a creare densità e frequenza elettrica quando “attraversano i cavi in fibra di vetro”, come dice Hito Steyerl nel suo avveniristico video Factory of the Sun (2015).49 E lo fanno davve367
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ro, mentre viaggiano nell’etereo spazio digitale che ci siamo abituati a chiamare “the cloud”, la nuvola. Poiché queste opere contemporanee riflettono sull’attuale cultura dello schermo, la storia atmosferica della proiezione viene a essere creativamente, invece che nostalgicamente, reinventata e trasformata. Lungi dall’essere responsabile di una smaterializzazione delle forme, questa attrazione per la proiezione nella galleria d’arte cerca in tutti i modi di rimodellare le trasformative, sensoriali, comunitarie architetture della materialità dell’ambiente e dell’intimità pubblica originatesi nel cinema e nei suoi precursori. Superfici di resistenza e permeabilità, essenziali alla stessa attività della proiezione, trovano una propria sostanza digitale in una nuova, vitale atmosfera di proiezione, su ancora altre forme di schermo-membrana. Qui le atmosfere non sono semplicemente raffigurate sugli schermi; si materializzano come schermi, in palpitanti densità di superficie che, per riprendere le parole di Mauri, continuano a “modificare il senso dell’oggetto” e, in modo etereo, continuano a “proiettare la nostra cultura, la nostra decifrazione delle cose del mondo”. NOTE
1. F. Mauri, in Alfabeta2, 2, settembre 2010. Citato in Umberto Eco, “Uno smarrimento convinto”, prefazione a Studio F. Mauri (a cura di), Fabio Mauri. Ideologia e memoria, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. xiv. 2. A. Bazin, Che cos’è il cinema? (1958-1962), tr. it. e a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973. 3. Ibidem, vol. 2, p. 60. Da questa immaginaria cancellazione del cinema, emergeva una visione radicale del cinematografico che potenziava l’aspetto materiale e spaziale del mezzo. In quegli stessi anni prendeva il via la “nouvelle vague” cinematografica. 4. Per un’ulteriore e più approfondita analisi del ruolo dello schermo nell’arte, nell’architettura e nel cinema, vedi G. Bruno, Superfici. A proposito di estetica, materialità e media (2014), tr. it. e a cura di M. Nadotti, Johan & Levi, Milano 2016. 5. E. Huhtamo, Elementi di schermologia. Verso un’archeologia dello schermo (2004), tr. it. di R. Terrosi, ke Edizioni-Youcanprint, Tricase 2015, p. 35. 6. Ibidem, p. 31. 7. Vedi G. Bruno, Pubbliche intimità. Architettura e arti visive (2007), tr. it. e a cura di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2009. 8. J. Rancière, Il destino delle immagini (2007), tr. it. di R. De Gaetano, Pellegrini, Cosenza 2007, cap. 4.
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9. V. Lindsay, L’arte del film (1915/1922), tr. it. di A. De Biasio, a cura di A. Costa, Marsilio, Venezia 2008, capp. 8-11. 10. Vedi, tra gli altri, M. Valentine, The Show Starts on the Sidewalk: An Architectural History of the Movie Theatre, Yale University Press, New Haven 1994. 11. Vedi P.M. Shand, Modern Picture-Houses and Theaters, J.B. Lippincott, Philadelphia 1930. 12. Eberson costruì più di quaranta palazzi del cinema “d’atmosfera”, nella maggior parte dei casi andati distrutti, e in totale circa trecento sale cinematografiche, tra cui alcune aerodinamiche versioni Art Déco. Negli anni Venti del secolo scorso la moglie e collaboratrice, Beatrice Lamb, diresse la compagnia Michael Angelo Studios, che progettava gli interni dei cinematografi. Per informazioni utili sulla carriera atmosferica di Eberson, vedi R. Stapleford, Temples of Illusion: The Atmospheric Theaters of John Eberson, catalogo della mostra, Bertha and Karl Leubsdorf Art Gallery of Hunter College, New York 1988. 13. J. Eberson, “A Description of the Capitol Theatre, Chicago (1925)”, in G.A. Waller (a cura di), Moviegoing in America: A Sourcebook in the History of Film Exhibition, Blackwell, Oxford 2002, p. 106. 14. Il Loew’s Paradise Theatre, ubicato al 2403 Grand Concourse, Bronx, New York, negli anni Settanta fu suddiviso e privato delle sue peculiarità, e nel 1994 fu chiuso. Ristrutturato, riaprì i battenti nel 2005 come teatro per spettacoli dal vivo, e oggi è una chiesa. 15. Su Kiesler vedi, tra gli altri, S. Phillips, Elastic Architecture: Frederick Kiesler and Design Research in the First Age of Robotic Culture, mit Press, Cambridge (ma) 2017; L.M. McGuire, “A movie house in space and time: Frederick Kiesler’s film arts guild cinema, New York, 1929”, in Studies in the Decorative Arts, 2, 2007, pp. 45-78; e Frederick Kiesler, Artiste-architecte, catalogo della mostra, Centre Georges Pompidou, Paris 1996. Informazioni sui progetti di Kiesler sono disponibili anche presso il Fondo Kiesler della Harvard Theatre Collection, Houghton Library, Cambridge (ma). 16. F. Kiesler, “Building a cinema theater”, in New York Evening Post, 2 febbraio 1929. The Film Guild Cinema, ubicato al 52-54 West 8th Street di New York, ebbe vita breve. Nel 1930 fu ribattezzato e, benché sia rimasto aperto fino al 1992, fu spogliato dello “screen-o-scope”, dello schermoscopio di Kiesler. 17. Il “Cinema invisibile” era parte del Public Theater di Joseph Papp, al 425 Lafayette Street di New York. Per una storia orale di questa sala sperimentale, vedi S. Sitney, “The search for the invisible cinema”, in Grey Room, 19, 2005, pp. 102-113. 18. Vedi K. Alfaro, “Access and experimental film: New technologies and anthology film archives’ institutionalization of the avant-garde”, in Moving Image, 1, 2012, pp. 44-64. 19. A. Michelson, “Gnosis and iconoclasm: A case study of cinephilia”, in October, 83, 1998, p. 5. 20. P. Kubelka, “The Invisible Cinema”, in Design Quarterly, 93, 1974, pp. 32, 34.
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21. Ibidem, p. 36. 22. Ibidem, p. 34. 23. Ibidem. 24. Vedi S. Oettermann, The Panorama: History of a Mass Medium, tr. ingl. di D. Lucas Schneider, Zone Books, New York 1997. 25. Per un’archeologia culturale del mezzo filmico in relazione allo spazio, vedi, tra gli altri, G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema (2002), tr. it. di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2006; nuova ed. Johan & Levi, Milano 2015. 26. W. Gropius, “Theaterbau” (1934), citato in S. Giedion, Walter Gropius: Work and Teamwork, Reinhold, New York 1954, p. 64. 27. È rilevante che Moholy-Nagy concepisse il cinema come Light-Space Modulator (1922-1930), e nel 1930 trasformasse questa scultura cinetica, che somigliava a un proiettore cinematografico, nel film Ein Lichtspiel schwarzweiß-grau (Gioco di luce: nero, bianco e grigio). Sugli esperimenti di MoholyNagy con la luce nelle esposizioni, vedi N. Elcott, “Rooms of our time: László Moholy-Nagy and the stillbirth of multi-media museums”, in T. Trodd (a cura di), Screen/Space: The Projected Image in Contemporary Art, Manchester University Press, Manchester 2011, pp. 25-52. 28. L. Moholy-Nagy, Pittura Fotografia Film (1925), tr. it. di B. Reichlin, Einaudi, Torino 2010, p. 10. 29. Ibidem, p. 9. 30. Ibidem, p. 10. 31. Ibidem. 32. Ibidem. 33. S. Kracauer, La massa come ornamento (1963), tr. it. di M.G. Amirante Pappalardo e F. Maione, Prismi, Napoli 1982. 34. Coney Island at Night attesta che la fantasmagoria – dalle seicentesche lanterne magiche di Athanasius Kircher su su fino alle lastre disegnate da Étienne-Gaspard Robertson a fine Settecento, inizi Ottocento – ha definito l’invenzione del cinema come un’arte della proiezione. Vedi, tra gli altri, M. Warner, Phantasmagoria: Spirit Visions, Metaphors, and Media into the Twenty-First Century, Oxford University Press, Oxford 2006; W. Schivelbusch, Disenchanted Night: The Industrialization of Light in the Nineteenth Century, University of California Press, Berkeley 1995. 35. Vedi D. Païni, “Should we put an end to projection?”, in October, 110, 2004, pp. 23-48; e, sulle proiezioni elettriche elementari, Noches Eléctricas: Arte y pirtécnia / Electric Nights: Art and Pyrotechnics, catalogo della mostra, LABoral Centro de Arte y Creación Industrial, Gijón 2011, che ha accompagnato un’esposizione curata da Philippe-Alain Michaud. 36. A. McCall, “Two statements”, in P. Adams Sitney (a cura di), The Avant-garde Film: A Reader of Theory and Criticism, New York University Press, New York 1978, p. 250. Vedi anche, tra gli altri, C. Eamon (a cura di), Anthony McCall: The Solid Light Films and Related Works, Northwestern University Press, Evanston (il) 2005; e G. Baker, “Film beyond its limits”, in Grey Room, 25, 2006, pp. 92-125.
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37. Vedi la descrizione fornita dallo stesso McCall dell’esperienza dell’ambiente in “Line Describing a Cone and related films”, in H. Legg (a cura di), Anthony McCall: Film Installations, catalogo della mostra, Mead Gallery and University of Warwick, Coventry (uk) 2004, p. 44. 38. Vedi, tra gli altri, G. Youngblood, Expanded Cinema, Studio Vista, London 1970; e A.L. Rees et al. (a cura di), Expanded Cinema: Art, Performance, Film, catalogo della mostra, Tate Gallery, Londra 2011. 39. Per un’accurata disamina dell’argomento vedi G. Sutton, The Experience Machine: Stan VanDerBeek’s Movie-Drome and Expanded Cinema, mit Press, Cambridge (ma) 2015. 40. Dichiarazione di Joan Brigham che accompagna l’installazione/performance Steam Screens di Stan VanDerBeek e Brigham, 1979. John G. Hanhardt Film and Video Archive, Frances Mulhall Achilles Library, Whitney Museum of American Art, New York. 41. Su questo artista vedi, tra gli altri, J. Bryan-Wilson (a cura di), october Files: Robert Morris, mit Press, Cambridge (ma) 2013. 42. Joan Brigham, dichiarazione per il Whitney Museum. 43. Ibidem. 44. Ibidem. 45. Ibidem. 46. Vedi M. Merleau-Ponty, “L’intreccio – Il chiasma”, in Il visibile e l’invisibile (1964), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1993, pp. 147-170. 47. Moholy-Nagy, citato in E. Huhtamo, “The sky is (not) the limit: Envisioning the ultimate public media display”, in Journal of Visual Culture, 3, 2009, p. 242. 48. J. Brigham, “Steam”, in O. Piene, E. Goldring (a cura di), Centerbeam, mit Press, Cambridge (ma) 1980, p. 69. 49. Hito Steyerl parla di spazio digitale nel suo libro The Wretched of the Screen, Sternberg Press, Berlin 2013.
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POSTFAZIONE
POST-, GRAND, CLASSICA, O “TRA VIRGOLETTE” COS’È E COS’È STATA LA TEORIA DEL CINEMA
Francesco Casetti *
LA TEORIA AL BIVIO
Oggi la teoria del cinema è a un bivio. Da un lato i suoi interessi e il suo raggio d’azione stanno crescendo, grazie all’emergere di nuovi quadri concettuali e di nuove situazioni e processi di cui tener conto. Dall’altro lato molti dei suoi tradizionali strumenti e delle sue tradizionali parole chiave sono sotto attacco a causa della loro supposta incoerenza e inefficacia, specie da parte della cosiddetta “Philosophy of film” di stampo anglosassone. La crescita della teoria risponde a parecchi impulsi. Innanzitutto essa si trova a fare i conti con una serie di forti novità legate alla rivoluzione digitale e più in generale alla convergenza mediatica: novità che la costringono ad affrontare problemi inediti e a confrontarsi con altri approcci. Penso alla migrazione del cinema negli spazi domestici, nei luoghi pubblici, o nei parchi tematici: essa richiama una sensibilità ecologica che era largamente sconosciuta nel dibattito precedente, anche se la configurazione della sala cinematografica avrebbe potuto suggerire che il cinema non è solo un’arte visiva, ma anche un medium ambientale. Penso al crescente uso di nuovi dispositivi e nuove piattaforme, dal computer allo smartphone o all’Oculus Rift: essi cambiano la nostra idea di dispositivo, e richiamano problemi quali l’interconnessione o la possibilità di feedback, che sono più familiari al mondo * Francesco Casetti è Thomas E. Donnelley Professor of Humanities and Film and Media Studies, Yale University. Questo testo rielabora e sviluppa per il lettore italiano il saggio “Post-, grand, classical, or ‘so-called’: What is, and was, film theory?”, in H. Vaughan, T. Conley (a cura di), Film Theory Handbook, Anthem Press, London, in pubblicazione. Traduzione di Adriano D’Aloia.
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Postfazione
dei media che a quello del cinema. Infine penso allo sviluppo di nuove forme di visione, dal 3D all’alta definizione o alla realtà virtuale: siamo costretti a ripensare che cosa è la ricezione filmica, e a chiedere aiuto ad altre discipline come le neuroscienze. Insomma, la teoria del cinema si confronta con nuovi fenomeni e nuovi tipi di approccio, e nel far questo adotta parole-chiave nuove, come flusso, network, immersione, risposta neuronale, lavoro diffuso, società neoliberale, o Antropocene.1 Allo stesso tempo, la crescente disponibilità di archivi del tutto o parzialmente inesplorati consente alla teoria del cinema di cogliere con maggiore ricchezza e complessità quello che è stato il dibattito tradizionale. La cosa vale per la teoria occidentale. Basta ricordare l’importanza che hanno avuto, specie per l’ambiente americano, l’antologia di Abel riguardante la prima teoria francese,2 o l’antologia di Andel e Szczepanik sulla teoria ceca,3 e più recentemente la straordinaria antologia curata da Kaes, Baer e Cowan sul dibattito tedesco fino all’avvento del nazismo.4 Ma la cosa vale anche per le teorie non occidentali, che oggi si trovano sempre più al centro dell’attenzione. Gli esempi in questo caso sono le esplorazioni del dibattito asiatico fatte da Gerow e Nornes per il Giappone,5 o da Bao e Fan per la Cina,6 con la loro capacità di portare alla luce nuovi concetti e nuovi temi. Il lavoro d’archivio consente alla teoria del cinema di avviare una profonda riconsiderazione del proprio passato, di contare su nuove testimonianze, ma anche di rileggere in una nuova luce testi già conosciuti,7 arricchendo il bilancio di una lunga stagione anche al di là dell’attenzione ai temi estetici che David Rodowick ha messo al centro del suo influente volume Elegy for Theory.8 La teoria del cinema fiorisce, sia attraverso uno sguardo al suo passato, sia attraverso un confronto con il futuro del cinema. E tuttavia essa è anche sotto attacco. Un gruppo di studiosi, prevalentemente angloamericani, sostiene che i suoi concetti siano inaccurati, infondati e sostanzialmente inutili. Essi mancano di coerenza interna e non spiegano come il cinema funziona. Di qui la necessità dell’ingresso in campo di un approccio propriamente filosofico. Non si tratta di creare una fruttuosa collaborazione tra filosofia e teoria del cinema, come altri studiosi cercano oggi di fare, compreso il gruppo che si raccoglie attorno alla rivista Fata Morgana: si tratta di sostituire la seconda con la prima. Secondo i dettami 374
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della “Philosophy of film”, infatti, solo la filosofia, e in particolare la filosofia analitica, è in grado di individuare i veri problemi del cinema, di assicurare uno sguardo rigoroso, di evitare strade improprie, e di procedere in modo corretto.9 Tocca dunque alla filosofia, e alla filosofia da sola, portare avanti la ricerca sugli aspetti fondamentali del cinema. LA VERITÀ DELLA TEORIA
Non c’è dubbio che la presenza di una sorta di metateoria, attenta a interrogare le basi e il modo di procedere della teoria del cinema, può essere utile. Molti dei concetti propri di quest’ultima sono il frutto di mode più o meno passeggere, o di ragionamenti tendenzialmente insulari. Se uno dei compiti della filosofia è quello di una continua autointerrogazione, come uno degli esponenti della “Philosophy of film” ci ricorda,10 il suo intervento è benvenuto. Purtroppo la “filosofia del cinema” nell’accezione della maggior parte dei suoi fondatori e adepti tende a interpretare questo suo compito non solo in un modo unilaterale, ma anche in modo polemico: i concetti sotto esame sono smontati per essere meglio rigettati; e quando sono invece rimessi a punto, ciò avviene nel totale disinteresse per la loro storia. La conseguenza è la creazione di un rapporto fortemente asimmetrico: la “Philosophy of film” guarda alla “Film theory” come farebbe un giudice che assume il proprio codice come l’unico possibile. Essa valuta la teoria a partire dai propri criteri, decide cosa va bene e male, e alla fine si sostituisce a essa. Non cerca di capirla; cerca di dettarle quella che avrebbe dovuto essere la sua verità. Ma che cos’è la “verità” di una teoria? L’esattezza dei suoi concetti o la necessità che ha fatto sì che quei concetti emergessero? La sua interna coerenza o la sua capacità di fare i conti con questioni brucianti? Il suo rigore concettuale o anche la sua responsabilità intellettuale? La “verità” della teoria del cinema non è un dato formale. Come nel caso delle teorie della letteratura, dell’arte, o del teatro, così diverse dall’idea di teoria scientifica, qui quello che conta è l’incessante tentativo di muovere verso un oggetto con passi che riflettono consapevolmente lo spirito dei tempi. In questo senso la “verità” della teoria del cinema si mescola con la sua significatività e la sua efficacia storica – ed emerge dai modi 375
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in cui queste significatività ed efficacia sono andate via via dispiegandosi. Una pura e semplice analisi interna dei concetti e delle procedure usate dai diversi teorici del cinema non coglie il centro del loro lavoro. Mai. Bisogna infatti ricordare con Foucault11 che tutti i discorsi sono “eventi”: essi appaiono in un momento e in un luogo determinati, e rispondono a delle condizioni di esistenza che cambiano col tempo. Un’analisi che non tenga conto di questo fatto rischia davvero di non capire che cosa essi siano – e di non capire le loro potenzialità. Anche i discorsi che sostanziano la teoria del cinema sono “eventi”: anch’essi rispondono alla pressione del tempo, e anch’essi possono essere compresi solo se colti nel campo di forze dentro cui si muovono.12 È in quest’ottica che vorrei riconsiderare che cosa noi intendiamo per teoria del cinema. Se assumiamo, sempre con Foucault, che anche una teoria è una “formazione discorsiva” che tiene insieme una grande varietà di considerazioni altrimenti disperse, possiamo individuare sotto il comune termine “teoria” almeno quattro grandi tipi di aggregazioni, ciascuno dei quali emerge in un determinato periodo storico, opera collegamenti diversi, riflette un distinto stile di pensiero, obbedisce a particolari regole, mira a specifici obiettivi, e, inevitabilmente, ruota attorno a una determinata idea di verità. La teoria del cinema non va pensata al singolare: non solo essa è sostanziata da una moltitudine di diversi contributi; essa risponde anche a modelli che via via si sono passati la mano. Sotto questo aspetto, storicamente, essa è una realtà almeno quadruplice. “TEORIE” TRA VIRGOLETTE
I primi contributi caratterizzati da un’ambizione “teorica” appaiono intorno al 1907, in coincidenza con il consolidarsi di quella che sarà la forma canonica del cinema: una proiezione pubblica in una sala dedicata. Uso qui il termine “teoria” e “teorico” tra virgolette, a sottolineare come siamo di fronte a qualcosa che non possiede le stesse caratteristiche delle grandi riflessioni sul cinema dalla metà degli anni Venti in poi – quelle riflessioni che in qualche modo hanno modellato l’idea dominante di teoria. Le “teorie” tra virgolette per esempio non sviluppano indagini sistematiche quali saranno quelle portate avanti da articoli pubblicati in riviste di settore e in libri specializzati. Esse al contrario si manifestano in discorsi spo376
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radici, nella forma di opinioni o notizie pubblicate su quotidiani, o di commenti o annunci su giornali promozionali, o di pezzi di costume su riviste illustrate, o anche di racconti di finzione su riviste letterarie. Qualche volta i giornali professionali organizzano dibattiti più focalizzati: per esempio negli Stati Uniti la rivista The Moving Picture World offre una costante attenzione al ruolo sociale del cinema e ai criteri di giudizio propri del critico cinematografico. Tuttavia solo a metà degli anni Dieci troviamo libri che cercano di approfondire questo o quell’aspetto della recente invenzione, dando al ragionamento sul cinema un respiro più vasto. Inoltre gli autori di questi primi contributi non sono individui che lavorano continuativamente e sistematicamente sul cinema: al contrario, sono spesso giornalisti, intellettuali o scrittori che trattano una larga varietà di temi, e per i quali il cinema è solo uno degli oggetti di interesse, talvolta passeggero. Di nuovo, non mancano eccezioni: Thomas Bedding, Stephen W. Bush o Louis Reeves Harrison negli Stati Uniti, Ricciotto Canudo e più tardi Luis Delluc in Europa, sono critici specificatamente cinematografici. Tuttavia il grosso del dibattito è sostenuto da individui non specializzati. Va aggiunto che non c’è una “disciplina” che funziona come quadro di riferimento anche professionale e che stabilisce come e perché parlare di cinema; i contributi rispondono invece alle motivazioni più diverse, dalla semplice curiosità per una recente invenzione all’interesse per gli effetti del cinema sulla società. Infine, i contributi non si autodefiniscono praticamente mai come teorie, e quando ciò avviene non è senza qualche ritegno. È il caso di Victor Oscar Freeburg, che nel 1918 rivendica per se stesso il ruolo di teorico e filosofo, ma nello stesso tempo riconosce il primato del produttore nel trattare di cinema.13 O è il caso di Arturo Sebastiano Luciani, che nel 1919 attribuisce un valore teorico alle sue riflessioni, ma nello stesso tempo riconosce che esse possono destare sospetto proprio perché astratte – e una loro applicazione pratica a un brano di sceneggiatura mira proprio a dissolvere questo sospetto.14 Le quattro caratteristiche delle primissime “teorie” – la loro natura sporadica, il quasi anonimato degli autori, la mancanza di un metodo e l’esitazione a definirsi teorie – trovano la loro radice nel problema cui questi discorsi cercano di far fronte: fornire un’immagine del cinema che ne faciliti la comprensione e l’accettazione da parte della società. Nei primi anni della sua vita, il cinema 377
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appare un fenomeno problematico e persino scandaloso. Come giudicare un dispositivo che sembra catturare l’attimo fuggente e sconfiggere la morte? Come misurarsi con una macchina dotata di uno sguardo che va ben oltre le capacità umane? Come adattarsi a una rappresentazione del mondo che esalta oltre misura la velocità, l’ubiquità, la simultaneità, il dettaglio? E come spiegare il successo senza precedenti del cinema? Le primissime “teorie” rispondono al bisogno di dar ragione di un fenomeno che sembra sfidare ogni abitudine e ogni aspettativa. In questo senso, le primissime “teorie” assomigliano a quelle definizioni con cui diamo ragione dei nostri atti quotidiani quando essi non appaiono autoevidenti o richiedono una giustificazione presso gli altri. L’etnometodologia chiama queste definizioni pratiche “account” e ne fa una componente essenziale della nostra vita sociale: l’account infatti sintetizza il modo in cui i membri di una comunità danno senso, descrivono o spiegano la proprietà di una situazione affinché il suo significato diventi un fatto condiviso.15 Allo stesso modo, la primissima “teoria” cerca di convertire ciò che a prima vista suona come strano e ambiguo in qualcosa di comprensibile e maneggevole: essa mostra cosa il cinema è e come possiamo affrontarlo, cosa lo distingue dalle altre arti e quali reazioni suscita in noi, cosa può offrirci e cosa noi possiamo accettare. Il risultato è quello di modellare una “immagine pubblica” del cinema che funziona sia da sua definizione che da sua legittimazione. LE TEORIE CLASSICHE
A metà degli anni Venti assistiamo al graduale imporsi di una diversa “formazione discorsiva”. Prende infatti forma quella che siamo soliti chiamare teoria classica del cinema. Un punto di svolta è L’uomo visibile di Béla Balázs, uscito nel 1924. Balázs afferma che il cinema è ormai penetrato così a fondo nella realtà sociale da meritare un’indagine più approfondita. L’estetica potrebbe condurre questa indagine, se non fosse costantemente sulla difensiva, poco disponibile a guardare al di là dei suoi oggetti tradizionali. Bisogna quindi creare un nuovo campo di studi: la teoria del cinema può rispondere a questo compito. Il suo modo di procedere deve essere deduttivo-induttivo: “Dapprima la teoria individua determinati obiettivi e dà un’idea di tutte le possibilità, quindi solo le 378
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direzioni percorribili vengono verificate con esperimenti”.16 Ciò fa della teoria “la mappa del viandante dell’arte, che mostra tutte le strade e le possibilità, e svela come ciò che può apparire obbligata necessità, altro non è che un percorso qualunque entro cento altri”.17 E ancora: “La teoria è, se non proprio un timone, per lo meno la bussola di uno sviluppo artistico”.18 Il cinema ha bisogno, e merita, una teoria. Pochi anni più tardi Rudolf Arnheim, con il suo Film als Kunst – anch’esso un libro estremamente influente, spesso citato in un suo rifacimento degli anni Cinquanta, assai meno significativo –19 compie un passo ancor più radicale. Invece che elencare gli elementi che fanno del cinema un’arte meritevole d’attenzione, come per esempio la sua capacità di rivitalizzare il nostro sguardo, di cogliere la realtà nel dettaglio, o di restituire il senso dell’ambiente in cui noi viviamo, Arnheim affronta direttamente le regole che governano il suo modo di esprimersi. Egli parte da un assioma: “Affinché l’artista del cinema possa creare un’opera d’arte è importante ch’egli coscientemente accentui la particolarità del proprio mezzo espressivo”.20 Il medium-cinema ha la particolarità di riprodurre un oggetto, ma anche di trasformare le sue caratteristiche fisiche in quella che è una mera rappresentazione visiva. Di qui un secondo assioma, secondo cui “è grazie alle divergenze tra il film e la natura che è possibile che un’opera d’arte emerga dalla macchina da presa”.21 Da questi due assiomi Arnheim trae tutta una serie di regole che stanno alla base di una pratica artistica appropriata. Come conseguenza, la teoria, che in Balázs costituiva la mappa e la bussola per orientare il viandante, diventa in Arnheim il codice che definisce le leggi a cui il cinema deve obbedire e che lo spettatore deve accettare. Le caratteristiche principali della teoria classica rispetteranno l’impostazione suggerita da Balázs e da Arnheim. Innanzitutto, la teoria si presenterà come un discorso fondativo: il suo scopo è quello di mettere in luce i principi su cui la nuova arte si basa – la specificità a cui essa obbedisce. In conseguenza essa favorirà un dibattito assai più organico e serrato, caratterizzato dalla presenza di un nucleo problematico e di alcuni temi satelliti. Terzo: la teoria si presenterà come un campo di ricerca riconoscibile, diverso dagli approcci personali o dalla semplice critica. Quarto, il compito di legittimare il cinema come oggetto sociale non spetterà più al379
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la pubblica opinione, ma a un gruppo di intellettuali in grado di afferrare le leggi del cinema e il modo di applicarle: la teoria sarà un campo da specialisti. Per quanto possa sembrare paradossale, i grandi contributi teorici degli anni Quaranta e Cinquanta, in particolare quelli di André Bazin22 e Edgar Morin,23 obbediranno a questa impostazione. Ci sono elementi che definiscono il cinema in quanto tale (la riapparizione del reale in Bazin, la creazione di un immaginario in Morin); c’è una rete di concetti che sostanziano il campo di studi (in Bazin il ripensamento del linguaggio filmico in termini di indessicalità, in Morin in termini di “ragione”); ci sono metodi di lettura dei film che si affermano in ambiti specializzati (i cine-club per Bazin; almeno in parte la ricerca accademica per Morin). Aggiungo due osservazioni. La teoria classica può affermarsi anche a causa del lungo periodo di stabilità che il cinema gode tra la fine degli anni Dieci e la fine degli anni Sessanta. Quest’ultimo adotta un modo di espressione e in parallelo un modo di produzione che, per quanto suscettibili di variazioni periodiche, dimostrano una forte tenuta. In questo quadro, i teorici possono assumere tali modi di espressione come intrinsecamente caratteristici del cinema, e affrontarli come se ne costituissero la sua stessa natura – quando in realtà, come ben sottolinea Jonathan Crary, più che “elementi essenziali” essi sono “tratti passeggeri di più ampie costellazioni, i cui ritmi di cambiamento erano variabili e imprevedibili”.24 Secondo: Bazin e Morin testimoniano quanto la teoria classica, per quanto nasca e si muova sul terreno che dovrebbe essere proprio dell’estetica, è del tutto aperta ad altre influenze: per esempio sia in Bazin sia ancor più in Morin i richiami antropologici sono evidenti. Questo significa che la teoria classica, se per un verso gode di una certa compattezza, per un altro non appare certamente immobile – anzi, lavora inconsciamente a un proprio superamento. LA “GRAND THEORY”
All’inizio degli anni Settanta una nuova “formazione discorsiva” prende forma: si tratta di quella che Bordwell e Carroll chiamano, con grande disprezzo, la Grand Theory.25 Senza entrare nei dettagli, basti ricordare che la Grand Theory si caratterizza per la 380
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presenza di due obiettivi di fondo. In primo luogo, attraverso la convergenza di alcune discipline che sembrano in grado di guidare le scienze umane quali la psicoanalisi, la semiotica e il marxismo, cerca di indagare il modo in cui il cinema opera in relazione alle regole che governano il linguaggio, i processi psichici e la produzione generale delle merci. Essa vuole offrire un paradigma unificato agli studi di cinema. In secondo luogo, attraverso una sistematica decostruzione del modo di operare del cinema, la Grand Theory cerca di metterne a nudo gli “effetti ideologici”, in particolare la maniera in cui offre agli spettatori una rappresentazione che essi prendono per percezione diretta del mondo, o la maniera in cui posiziona gli spettatori come se fossero loro a muovere il gioco delle immagini. La Grand Theory vuole anche offrire un paradigma di critica sociale. Per molti versi la Grand Theory non deflette dal percorso che la teoria classica aveva già indicato: anche qui troviamo un gruppo di assiomi e la loro applicazione al cinema nella sua generalità. Ciò che è nuovo è il determinismo che permea il suo approccio: anziché esplorare un certo numero di casi e con essi ritornare alle premesse per metterle eventualmente in crisi, la Grand Theory applica le premesse ai casi trovando in essi nient’altro che conferme. In questo senso la critica di Bordwell e Carroll – la Grand Theory sarebbe caratterizzata da un’ipertrofica ambizione, da una eccessiva astrattezza e da una ricorrente ambiguità – ha una qualche ragione d’essere. Ciò che i due studiosi non colgono è però il contesto in cui la Grand Theory si sviluppa (o meglio, riducono questo contesto a una battaglia accademica tra Francia e Stati Uniti…): se le primissime “teorie” reagivano alla presenza di un oggetto sorprendentemente nuovo, e se le teorie classiche collaboravano a un processo di istituzionalizzazione di questa novità, la Grand Theory cerca di mettere a nudo gli effetti di questa novità. In ciò essa riflette un’epoca ossessionata dal fatto che il cinema e i media possano costituire una presenza che condiziona l’intera vita sociale, grazie alla loro capacità di modellare il modo in cui noi ci rapportiamo alla realtà e a noi stessi. Noi vediamo e sentiamo come Hollywood ci dice di fare. Ci illudiamo di dominare il mondo e invece obbediamo ai dettami di una rappresentazione. Godiamo dei film, e insieme ne siamo prede. L’unico modo di liberarci è smontare radicalmente il gioco – anzi, distruggerlo. 381
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In questo senso, il peccato originale della Grand Theory non è la sua ambizione, è piuttosto la sua paranoia. Essa è in parte il prodotto di una paura – la paura appunto di credere di avere un più facile accesso e una più facile presa sulla realtà, quando di fatto ce ne allontaniamo irrimediabilmente. Naturalmente questo senso di paura si avverte più in alcuni teorici, come Baudry,26 che in altri, come Metz,27 il quale lavora di più a far emergere i meccanismi del cinema e i loro effetti puntuali. In ogni caso, ragionando attorno al piacere che il cinema sembra soddisfare, Laura Mulvey ha portato questa dialettica tra dominio e perdita ai suoi esiti forse più forti, anche per la sua capacità di introdurre la questione del gender.28 Perché la paura può anche essere produttiva: la Grand Theory ci ha lasciato comunque un quadro concettuale che, ruotando attorno all’idea di dispositivo e del modo in cui questo organizza i processi di soggettivizzazione, continua ad avere una sua grande attualità.29 LA POST-TEORIA
Bordwell e Carroll, nel criticare a fondo la Grand Theory, si augurano che essa possa essere rimpiazzata da un diverso tipo di teoria, basata su ricerche più circoscritte e su procedure di indagine più rigorose. La teoria del cinema deve lasciare cadere ambizioni troppo grandi, e scegliersi obiettivi abbordabili: solo così il suo lavoro può diventare veramente utile.30 Essa deve diventare una “piecemeal theory”; di più, una post-theory. La richiesta di un nuovo tipo di teoria del cinema è ispirata dal modo di procedere della ricerca scientifica: quest’ultima mette grande cura nel controllare i propri scopi, strumenti, e risultati, e soprattutto procede per verifiche successive, senza avventurarsi in indebite generalizzazioni. In realtà questo ideale di ricerca scientifica, nel momento in cui viene proposto da Bordwell e Carroll anche per le discipline umanistiche, è in crisi a casa sua: basta pensare all’“anarchismo epistemologico” di Feyerabend,31 e alle successive rilevazioni di come il lavoro nel laboratorio sia ben lontano dall’essere puramente razionale. Ma gli ideali spesso resistono anche alle critiche: l’investigazione propriamente scientifica appare una valida alternativa alla critica ideologica della Grand Theory, e la post-theory proposta da Bordwell e Carroll diventa un’opzione di successo. 382
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La grande espansione della post-teoria negli anni Novanta e nel decennio successivo maschera in realtà una situazione assai più complessa. C’è una disciplina, la psicologia cognitiva, che cerca di porsi come modello di ricerca, ma ci sono anche numerosi interventi che in qualche modo sono ancora indebitati con la Grand Theory, come i Gender Studies, e ci sono interventi che riesumano un’impostazione “ontologica”, come molti studi sull’avvento del digitale, per i quali la fine dell’analogico significa la fine del cinema nella sua essenza. Da questo punto di vista il progetto di postteoria di Bordwell e Carroll finisce con il coincidere con l’apertura di un supermarket teorico dove ciascuno può trovare la merce che preferisce, e dove tutte le marche sono esposte sugli scaffali. In linea con lo spirito neoliberale dell’epoca, la teoria si confronta con il mercato. E tuttavia questo accavallarsi di voci diverse (una teoria di Babele...) è anche qualcosa che consente estensioni, sovrapposizioni, sconfinamenti, confusioni, di cui la teoria di oggi può in qualche modo approfittare. LA TEORIA OGGI
Sarebbe un grosso errore considerare la “teoria” tra virgolette, la teoria classica, la Grand Theory e la post-theory come delle “formazioni discorsive” che appartengono al passato. La storia non è necessariamente qualcosa in cui il nuovo seppellisce il vecchio – non è neppure una semplice cronologia lineare, in cui a uno stato di cose se ne sostituisce un altro, ma è piuttosto un insieme di relazioni nel quale c’è un costante avanti e indietro tra passato e presente.32 Questo è particolarmente vero per le quattro fasi della teoria: esse hanno lasciato dietro di sé delle scie le cui onde continuano a infrangersi sulla nostra spiaggia. Non è un caso che molte delle loro parole chiave siano ancora in uso nei film studies, così come sono ancora radicate alcune delle loro convinzioni: la natura soprattutto visiva del cinema, l’esistenza di una qualche specificità, il fatto che ci sia una qualche grammatica filmica ecc. In questo senso la teoria del cinema, quella che tuttora pratichiamo, è una sorta di formazione geologica che presenta quattro strati; o, se si preferisce, è una torta con quattro farciture una sopra l’altra, che quelli golosi come me si godono nei loro diversi sapori (del resto, che la teoria del cinema abbia a che fare con dei sapori è qualcosa 383
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che Balázs aveva già notato…).33 Fare teoria, oggi, obbliga a muoversi tra questi strati – e a regolare su di essi il nostro approccio. Ma perché continuare a fare teoria, e che cosa fare della teoria? Ho già detto come la “teoria” tra virgolette rispondesse a una sorpresa, come la teoria classica lavorasse a una sistematizzazione, come la Grand Theory praticasse forme di resistenza, e come la post-theory facesse spazio a ogni approccio. Oggi, se c’è qualcosa che caratterizza la teoria, è il fatto che essa risponde a una sfida. Questa sfida nasce da un dilemma: la profonda trasformazione che il cinema sta vivendo è qualcosa che porta a preservare la sua identità e riscoprire le sue possibilità oppure è un passo verso la sua dissoluzione entro un panorama più vasto? In La galassia Lumière ho provato a spendere buoni argomenti a favore della prima ipotesi, ma la seconda non può essere affatto esclusa: cercando di andare oltre se stesso, o anche cercando di rifondarsi, il cinema può collassare.34 Questo dilemma ci fa capire meglio due mosse di cui ho parlato all’inizio – e ce ne fa cogliere anche gli intimi paradossi. Ho detto come oggi la teoria stia espandendo il suo raggio d’azione: in particolare essa aggiusta il proprio sguardo sia ricatturando pezzi del suo passato sia rubando concetti ad altre discipline. Ebbene, alla luce dell’incertezza sul destino del cinema (una nuova vita o una dissoluzione in un quadro più ampio?) possiamo ben capire come questa mossa sia insieme rassicurante e allarmante: rassicurante perché in questo modo un terreno sempre più poroso è comunque sotto controllo; allarmante perché alla fine gli approcci concorrenti potrebbero prendersi la loro rivincita – riprendendosi le loro parole chiave. Un’espansione è anche sempre una dispersione. In secondo luogo, ho parlato dell’esigenza, di cui la filosofia del cinema si fa carico, di controllare le parole chiave di solito usate. Soprattutto se non si limita a essere un esame formale, questa revisione può essere un’occasione per cogliere la flessibilità e la tenuta dei concetti. Non c’è dubbio che le parole chiave devono in qualche modo giustificare la loro utilità – ed è proprio per questo che vanno ri-testate.35 Ma, di nuovo, il dilemma sul destino del cinema ci fa capire anche il lato oscuro di questa operazione. Un controllo non è mai privo di costo: anche quando è condotto con onestà, e senza il desiderio di prevalere, esso ha degli effetti di ritorno. Per esempio, il bisogno di aggiornare un concetto può 384
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significare la rinuncia al suo spessore storico e può anche significare la rinuncia al concetto stesso. Ridefinire in questo caso vuol dire tradire. Infatti, in questo modo, si fa vivere la teoria in una sorta di presente: le si fa perdere i suoi strati, la sua sostanza. Anche questo è un modo di far fuori il cinema, nel momento in cui si dice che se ne vuole preservare il nucleo. Il destino incerto del cinema mette dunque alla prova la teoria. Ma le fa anche acquistare un’agilità che forse non ha mai avuto. La costringe a interrogare e a interrogarsi. La fa diventare, più che mai, quella tela di Penelope che essa in fondo è stata: un approccio pieno di avanzamenti e di ripensamenti, ma sempre fisso a uno scopo: capire il cinema, darne ragione. Il cinema continua ad aver bisogno di discorsi capaci di afferrare il senso e i modi della sua presenza. Il suo destino incerto amplifica questo bisogno – e rende la sua richiesta ancora più cogente. NOTE
1. Un contributo ampiamente rappresentativo dei concetti e delle questioni sollevati dal post-cinema è J. Shaw, P. Weibel, Future Cinema. The Cinematic Imaginary After Film, mit Press, Cambridge (ma) 2003. 2. R. Abel (a cura di), French Film Theory and Criticism. A History/Anthology, 1907-1939, 2 voll., Princeton University Press, Princeton 1988. 3. J. Andel, P. Szczepanik (a cura di), Cinema all the Time. An Anthology of Czech Film Theory and Criticism, National Film Archive, Praha 2008. 4. A. Kaes, N. Baer, M. Cowan (a cura di), The Promise of Cinema. German Film Theory 1907-1933, University of California Press, Oakland 2016. 5. A.M. Nornes, A. Gerow, Research Guide to Japanese Film Studies, Center for Japanese Studies, The University of Michigan, Ann Arbor 2009. 6. V. Fan, Cinema Approaching Reality. Locating Chinese Film Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis 2015; W. Bao, Fiery Cinema. The Emergence of an Affective Medium in China, 1915-1945, University of Minnesota Press, Minneapolis 2015. 7. Un impulso a rileggere i testi canonici deriva, fra gli altri, dai numeri monografici di due riviste: “A return to classical film theory?”, in October, 148, primavera 2014; e “What’s new in classical film theory?”, Screen, 55, 3, autunno 2014. 8. D.N. Rodowick, Elegy for Theory, Harvard University Press, Cambridge (ma) 2014. 9. Vedi per esempio R. Allen, M. Smith, Film Theory and Philosophy, Oxford University Press, Oxford 1997. Il modello ispiratore è costituito dai due volumi di Noël Carroll, Philosophical Problems of Classical Film Theory, Princeton University Press, Princeton 1988 e Mystifying Movies. Fads and
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Fallacies in Contemporary Film Theory, Columbia University Press, New York 1988. 10. “Una delle caratteristiche della filosofia come disciplina è la sua indagine sulla propria natura e sulle proprie basi. La filosofia del film condivide questa caratteristica con il campo in generale. Infatti una prima questione che la filosofia del film deve affrontare è il terreno della propria esistenza. Questo investe non solo il problema di ciò a cui il campo dovrebbe somigliare, ma anche se essa abbia ragione di esistere”, T.E. Wartenberg, “Philosophy of film”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (ed. inverno 2015), a cura di E.N. Zalta, http://plato.stanford.edu/archives/win2015/ entries/film/. [Traduzione nostra. NdC] 11. Vedi in particolare M. Foucault, L’archeologia del sapere (1969), tr. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1971. 12. Sulla natura storica della teoria del cinema vedi K. Niemeyer, T. Hochscherf, “Early film theory revisited: Historical perspectives”, in Historical Journal of Film, Radio and Television, 2, 2016, pp. 127-132. 13. “È stato bello assumere il ruolo del teorico e del filosofo, stare in disparte e indicare dall’alto le strade poco battute o inesplorate che ci portano in vista del cinema ideale, ma è sempre bene ricordare che tra il punto di partenza del nostro alto proposito e la meta del suo compimento c’è di mezzo un uomo pratico, il produttore”, V.O. Freeburg, L’arte di fare film (1918), tr. it. di A. Barozzi e M. Beseghi, Diabasis, Parma 2013, p. 223. 14. “Queste considerazioni – lo sappiamo bene – ispirano diffidenza nella gente del mestiere. Nel mondo del cinematografo è nel luogo comune che un uomo pratico non debba essere capace di pensare, e viceversa. Ma per mostrare come tutte queste teorie possano invece facilmente essere messe in pratica, esporremo lo schema di un soggetto notissimo come può essere quello di Giuditta, ma che ha in sé tutti gli elementi cinematografici cui abbiamo accennato, i quali concorrono a costituire non solo il valore estetico ma il successo di una proiezione”, S.A. Luciani, “Lo scenario cinematografico,” in Cronache d’attualità, 2, 15, 10 agosto 1919, p. 3. Vedi comunque l’augurio di Vachel Lindsay quasi negli stessi anni: “Da qualche parte in questo campo sconfinato, nel quale le sovvenzioni raggiungono l’altezza delle montagne, dovrebbe essere possibile istituire una teoria e una pratica del cinema inteso come una delle belle arti”, V. Lindsay, L’arte del film (1915/22), tr. it. di A. De Biasio, a cura di A. Costa, Marsilio, Venezia 2008, p. 63. 15. H. Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (nj) 1967. 16. B. Balázs, L’uomo visibile (1924), tr. it. di S. Terpin, Lindau, Torino 2008, p. 115. 17. Ibidem, p. 110. 18. Ibidem, p. 113. 19. R. Arnheim, Film als Kunst, Ernst Rowohlt Verlag, Berlin 1932; Film as Art, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1957. 20. R. Arnheim, Film come arte (1957), tr. it. di P. Gobetti, il Saggiatore, Milano 1960, pp. 71-72.
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POST-, GRAND, CLASSICA, O “TRA VIRGOLETTE”
21. Mentre la precedente frase si trova sia nell’edizione originale sia nell’edizione rimaneggiata del 1957 (e dunque tradotta in italiano nel 1960), questa seconda frase è stata soppressa da Arnheim nella seconda edizione (vedi p. 35). 22. A. Bazin, Che cos’è il cinema? (1958-1962), tr. it. e a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973. 23. E. Morin, Il cinema, o l’uomo immaginario (1956), tr. it. di G. Esposito, Raffaello Cortina, Milano 2016. 24. J. Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno (2013), tr. it. di M. Vigiak, Einaudi, Torino 2015, p. 37. 25. D. Bordwell, N. Carroll (a cura di), Post-Theory. Reconstructing Film Studies, University of Wisconsin Press, Madison 1996. Molte delle critiche espresse da Bordwell e Carroll sono anticipate in N. Carroll, Mystifying Movies, cit. 26. J.-L. Baudry, “Le Dispositif”, in Communications, 23, 1975, pp. 5672; J.-L. Baudry, “Cinéma: effets idéologiques produits par l’appareil de base”, in Cinéthique, 7-8, 1970, pp. 1-8. 27. C. Metz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario (1977), tr. it. di D. Orati, Marsilio, Venezia 1980. 28. L. Mulvey, “Piacere visivo e cinema narrativo” (1975), in Cinema e piacere visivo, a cura di V. Pravadelli, tr. it. di D. Lodi, Bulzoni, Roma 2013, pp. 29-44. 29. Penso al successo di un contributo come G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006. 30. “Attualmente, dunque, abbiamo bisogno di una teorizzazione più frammentata, abbiamo bisogno di teorie sul film piuttosto che di una Teoria del Film. […] Forse alcuni dei frutti della nostra teoria frammentata saranno organizzabili in costellazioni più ampie, sistematiche e teoretiche”, N. Carroll, Mystifying Movies, cit., p. 232. [Traduzione nostra. NdC] Slavoj Žižek ha ironizzato sulla “proposta modesta” di Bordwell e Carroll, insistendo sul fatto che essa è proprio “modesta”, e mostrando peraltro una simile e opposta arroganza. Vedi S. Žižek, Paura delle lacrime vere. Krzysztof Kieślowski fra teoria e post-teoria (2001), tr. it. di A. Olivieri, Città aperta, Troina 2010. 31. P. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975), tr. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1979. 32. L’“immagine dialettica” di Benjamin cattura precisamente questo avanti e indietro tra il passato e il presente. Vedi W. Benjamin, I “passages” di Parigi (1927-1940), a cura di R. Tiedemann e E. Ganni, Einaudi, Torino 2010. 33. “[…] la teoria estetica non è nient’altro che un modo di assaporare con cura, un modo con cui anche l’opera nascosta della vita interiore viene apprezzata e gustata”, B. Balázs, L’uomo visibile, cit., pp. 118-119. 34. F. Casetti, La galassia Lumière. Sette parole chiave per il cinema che viene, Bompiani, Milano 2015. 35. Quest’affermazione è spesso utilizzata da Malcolm Turvey: vedi per esempio “Roundtable on the return to classical film theory” nel già men-
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Postfazione
zionato numero monografico di October (primavera 2014, pp. 5-26) e il suo recente “Epstein, sound, and the return to classical film theory”, in Mise au point, 8, 2016, http://map.revues.org/2039.
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FONTI E TRADUTTORI DEI TESTI
Capitolo 1 Vivian Sobchack, “‘What my fingers knew’: The cinesthetic subject, or vision in the flesh”, in Carnal Thoughts: Embodiment and Moving Image Culture, University of California Press, Berkeley 2004, pp. 53-84. Traduzione di Federica Cavaletti. Capitolo 2 Raymond Bellour, “Le spectateur pensif”, in Le corps du cinéma. Hypnoses, émotions, animalités, P.O.L., Paris 2009, pp. 179-186, 210-221. Traduzione di Anna Caterina Dalmasso. Capitolo 3 Carl Plantinga, “Movies and emotions”, in Moving Viewers. American Film and the Spectator’s Experience, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2009, pp. 48-49, 61-77. Traduzione di Enrico Terrone. Capitolo 4 Patricia Pisters, “Schizoanalysis, digital screens, and new brain circuits”, in The Neuro-Image. A Deleuzian Film-Philosophy of Digital Screen Culture, Stanford University Press, Stanford 2012, pp. 1-17, 28-32. Traduzione di Adriano D’Aloia. Capitolo 5 Antonio Damasio, “Cinéma, esprit et émotion : la perspective du cerveau”, in Trafic, 67, autunno 2008, pp. 94-101. Traduzione di Anna Caterina Dalmasso. Capitolo 6 Uri Hasson, Ohad Landesman, Barbara Knappmeyer, Ignacio Vallines, Nava Rubin, David J. Heeger, “Neurocinematics: The neuroscience of film”, in Projections: The Journal for Movies and Mind, 2, 1, 2008, pp. 1-26. Traduzione di Adriano D’Aloia.
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Fonti e traduttori dei testi
Capitolo 7 Tim J. Smith, “Watching you watch movies: Using eye tracking to inform cognitive film theory”, in A.P. Shimamura (a cura di), Psychocinematics. Exploring Cognition at the Movies, Oxford University Press, Oxford-New York 2013, pp. 165-191. Traduzione di Adriano D’Aloia. Capitolo 8 Murray Smith, “‘The pit of naturalism’. Neuroscience and the naturalized aesthetics of film”, in T. Nannicelli, P. Taberham (a cura di), Cognitive Media Theory, Routledge, New York-London 2014, pp. 41-59. Traduzione di Enrico Terrone. Capitolo 9 Friedrich Kittler, “Introduction”, in Gramophone, Film, Typewriting (1986), ripubblicato in J. Johnston (a cura di), Literature, Media, Information Systems, Routledge, London-New York 2012, pp. 31-49. Traduzione di Federica Cavaletti. Capitolo 10 Erkki Huhtamo, Jussi Parikka, “An archeology of media archaeology”, in Media Archaeology. Approaches, Applications, and Implications, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 2011, pp. 13-42. Traduzione di Anna Caterina Dalmasso. Capitolo 11 François Albera, Maria Tortajada, “The dispositive does not exist!”, in Cine-Dispositives. Essays in Epistemology Across Media, Amsterdam University Press, Amsterdam 2015, pp. 21-44. Traduzione di Federica Cavaletti. Capitolo 12 Giuliana Bruno, “The architecture of the screen: Art and the atmospheres of projection”, versione rivista di “The screen as object: Art and the atmospheres of projection”, in C. Iles (a cura di), Dreamlands: Immersive Cinema and Art, 1905-2016, catalogo della mostra, Whitney Museum, New York 2016, pp. 156-167. Traduzione di Maria Nadotti.
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INDICE DEGLI AUDIOVISIVI
Film 127 ore (127 Hours, D. Boyle, usa/Regno Unito 2010), 242, 257-258, 259 A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now, N. Roeg, usa 1973), 210 Alexander Nevsky (S.M. Ėjzenštejn, urss 1938), 205 Alien (R. Scott, usa/ Regno Unito 1979), 115 Amore sublime (Stella Dallas, K. Vidor, usa 1937), 116 Armageddon (M. Bay, usa 1998), 229 Big Night (S. Tucci e C. Scott, usa 1996), 50, 72 (n. 65) Blade Runner (R. Scott, usa 1982), 66 (n. 16), 213 Brigadoon (V. Minnelli, usa 1954), 81-82 Charlot avventuriero (The Adventurer, C. Chaplin, usa 1917), 177 Come l’acqua per il cioccolato (Como agua para chocolate, A. Arau, Messico 1994), 50, 52 Coney Island at Night (E.S. Porter, usa 1905), 363, 370 (n. 34) Delitto per delitto (L’altro uomo) (Strangers on a Train, A. Hitchcock, usa 1951), 265 (n. 35) Dogville (L. Von Trier, Danimarca 2003), 213 Elephant (G. Van Sant, usa 2003), 93 Entr’Acte (R. Clair, Francia 1924), 321 (n. 54) Fellini – Satyricon (F. Fellini, Italia 1969), 264 (n. 22) Fight Club (D. Fincher, usa 1998), 128, 139-140, 142, 150 (n. 37) Gangster Story (Bonnie and Clyde, A. Penn, usa 1967), 105 Harry Potter e la pietra filosofale (Harry Potter and the Philosopher’s Stone, C. Columbus, usa 2001), 206 I protagonisti (The Player, R. Altman, usa 1992), 119 Il bacio della pantera (Cat People, J. Tourneur, usa 1942), 248, 253-254 Il buono, il brutto, il cattivo (S. Leone, Spagna/Italia 1966), 165, 170, 171, 173, 174-175, 176, 182-183, 183, 186, Il gatto con gli stivali (Puss in Boots, C. Miller, usa 2011), 207, 207, 213 Il ladro di orchidee (Adaptation, S. Jonze, usa 2002), 110 Il mago di Oz (The Wizard of Oz, V. Fleming, usa 1939), 108
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indice DEGLI AUDIOVISIVI
Il maratoneta (Marathon Man, J. Schlesinger, usa 1976), 230 Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud, G. Axel, Danimarca 1987), 49 Il silenzio degli innocenti (The Silence of the Lambs, J. Demme, usa 1991), 118-119 Il trionfo della volontà (Triumph des Willens, L. Riefenstahl, Germania 1935), 194 (n. 28) Iron Man (J. Favreau, usa 2008), 242, 248, 250, 250, 252-254 Jackass: The Movie (J. Tremaine, usa 2002), 112 L’infernale Quinlan (Touch of Evil, O. Welles, usa 1958), 119 La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, T. Burton, usa/ Regno Unito 2005), 105 Le ali della libertà (Shawshank Redemption, F. Darabont, usa 1994), 206 L’età dell’innocenza (The Age of Innocence, M. Scorsese, usa 1993), 50 Lezioni di piano (The Piano, J. Campion, Nuova Zelanda/Australia/Francia 1993), 32-33, 40-41, 43-44, 51-52, 56, 59-60, 66 (nn. 1-3), 69 (n. 40), 70 (nn. 41, 45), 72 (n. 70) Luci della città (City Lights, C. Chaplin, usa 1931), 175, 177 Maial College (Van Wilder, W. Becker, usa/Germania 2002), 112 Mangiare bere uomo donna (yǐn shí nán nǚ, A. Lee, Taiwan/usa 1994), 53, 72 (n. 74) Memento (C. Nolan, usa 2000), 110 Michael Clayton (T. Gilroy, usa 2007), 128-133, 143, 146 Mortal Kombat (P.W. Anderson, usa 1995), 33, 66 (nn. 9-11) Napoleone (Napoléon, A. Gance, Francia 1927), 361 Narciso nero (Black Narcissus, M. Powell e E. Pressburger, Regno Unito 1947), 44 Olympia – Festa di bellezza (Olympia – Fest der Schönheit, L. Riefenstahl, Germania 1938), 194 (n. 28) Passione di Giovanna d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, C.T. Dreyer, Francia 1928), 86 Pretty Baby (L. Malle, usa 1978), 56 Psycho (A. Hitchcock, usa 1960), 160 Quantum of Solace (M. Forster, Regno Unito 2008), 220 Quei bravi ragazzi (Goodfellas, M. Scorsese, usa 1990), 50 Questa è la mia vita (Vivre sa vie, J.-L. Godard, Francia 1962), 86 Ran (A. Kurosawa, Giappone 1985), 251, 252, 253-254, 264 (n. 22) Requiem for a Dream (D. Aronofsky, usa 2000), 223 Ritratto di signora (The Portrait of a Lady, J. Campion, usa 1996), 70 (n. 45) Schindler’s List (S. Spielberg, usa 1993), 209-210, 212 Sciopero (Stachka, S.M. Ėjzenštejn, urss 1925), 192 (n. 2) Sliding Doors (P. Howitt, usa/ Regno Unito 1998), 110 Speed (J. de Bont, usa 1994), 33, 36, 52, 66 (nn. 4, 5, 6, 7, 8) Splendore nell’erba (Splendor in the Grass, E. Kazan, usa 1961), 121 Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Starship Troopers, P. Verhoeven, usa 1997), 107 Tampopo (J. Itami, Giappone 1985), 44, 56
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indice DEGLI AUDIOVISIVI
Teorema (P.P. Pasolini, Italia 1968), 139 Terminator 2 – Il giorno del giudizio (Terminator 2: Judgment Day, J. Cameron, usa 1991), 105 Toy Story – Il mondo dei giocattoli (Toy Story, J. Lasseter, usa 1995), 33-34, 52, 66 (n. 12) Trappola di cristallo (Die Hard, J. McTiernan, usa 1988), 229
Serie tv Curb Your Enthusiasm (serie tv, L. David, usa 2000), 182-183, 183, 186, 193 Mani in alto (Bang! You’re Dead, “Alfred Hitchcock Presenta”, serie tv, A. Hitchcock, usa 1961), 182
Videoarte/film sperimentali Black Spiral (Split Screen) (A. Tambellini, 1969/2013), 367 Ein Lichtspiel schwarz-weiß-grau (L. Moholy-Nagy, 1930), 370 (n. 27) Exposure Adjustment on a Sunset (A. Vierkant, 2009), 367 Factory of the Sun (H. Steyerl, 2015), 367 Flashlight Filmstrip Projections (J. West, 2014), 367, 397 Flatlands 3D (T. Baga, 2010), 356 Landscape for Fire (A. McCall, 1972), 364 Light-Space Modulator (L. Moholy-Nagy, 1922-1930), 370 (n. 27) Line Describing a Cone (A. McCall, 1973), 364, 371 (n. 37) Long Film for Four Projectors (A. McCall, 1974), 364 Movie-Drome (S. VanDerBeek, 1963-1966), 364, 371 (n. 39) Sky Backdrop (A. Israel, 2016), 367 Three Screens for Looking at Abstraction (J. McElhen, 2012), 355 With a Rhythmic Instinction to Be Able to Travel beyond Existing Forces of Life (P. Parreno, 2014), 356
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INDICE DEI NOMI*
Aristotele, 117 Armitage, J., 321 (n. 41) Arnheim, R., 194, 220, 222, 238 (n. 101), 281, 292 (n. 32), 379, 386 (n. 20), 387 (nn. 21-22) Aronofsky, D., 223 Artaud, A., 80 Assmann, A., 291 (n. 14) Assmann, J., 291 (n. 14) Aumont, J., 14, 22 Axel, G., 49
Abel, R., 374, 385 (n. 3) Abhinavagupta, 120, 125 (n. 48) Abraham, O., 290 (n. 5) Ackerman, D., 71 (nn. 58, 61) Adams Sitney, P., 370 (n. 36) Adorno, T.W., 301, 311, 318 (n. 15) Agamben, G., 334, 346 (n. 2), 347 (n. 14), 387 (n. 30) Albera, F., 20, 22, 270, 327, 348 (n. 17) Alexander, H.G., 73 (n. 85) Allen, R., 10, 12, 22, 241, 385 (n. 10) Alliez, E., 139, 149-150 (n. 36) Althusser, L., 332-333, 347 (n. 10) Altman, R., 119 Anandavardhana, 120 Andel, J., 374, 385 (n. 4) Anderson, B.F., 205, 232 (n. 28) Anderson, E., 232 (n. 22) Anderson, L., 282 Anderson, P., 33, 66 (n. 9) Andersson, R., 232 (n. 13) Andrew, D., 19, 22 Ansen, D., 66 (n. 7) Antes, J.R., 237 (n. 85) Aram Veeser, H., 308, 321 (n. 45) Arau, A., 50
Bacci, F., 240 (n. 131) Bachelard, G., 328, 339, 342-346, 349 (nn. 33-35, 38-39) Baddeley, R.J., 234 (n. 44), 235 (n. 57) Badiou, A., 22 Baer, N., 374, 385 (n. 5) Baga, T., 356 Baird, R., 248, 251, 253, 255, 264 (nn. 17, 19), 265 (nn. 23-24, 27) Baker, G., 370 (n. 36) Bal, M., 300, 318 (n. 8) Balázs, B., 378-379, 384, 386 (n. 17), 387 (n. 34) Bao, W., 374, 385 (n. 7) Barba, D., 237 (n. 75)
* Le occorrenze in corsivo si riferiscono alle figure, quelle precedute da “n.” e fra parentesi alle note.
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Indice dei nomi
Barjavel, R., 336 Barker, A., 68 (n. 29), 323 (n. 71) Barker, J.M., 13, 22, 35, 67 (n. 25) Barnard, P.J., 234 (n. 42) Barnes, J., 301 Barnes, W., 301 Baron-Cohen, S., 71 (n. 55) Barrett, D.A., 263 (n. 7) Bartels, A., 195 (n. 33) Barth, E., 233 (n. 36), 234 (n. 45), 237 (nn. 75, 78, 80, 89), 238 (nn. 91, 94, 97), 239 (nn. 119-121) Barthes, R., 39, 46, 69 (n. 37), 71 (n. 54), 95 Bartl, K., 234 (n. 44), 237 (n. 75) Bateman, J., 17, 22 Baudry, J.-L., 32, 194, 310, 331-332, 347 (n. 6), 382, 387 (n. 27) Bazin, A., 184, 194 (n. 25), 352, 368 (n. 2), 380, 387 (n. 23) Beardsley, M., 125 (n. 50) Beaune, F., 347 (n. 15) Bedding, T. 377 Bell, C., 104-105, 123 (nn. 9-10) Bellour, R., 14, 17, 19, 22, 75-77, 97 (n. 8), 98 (n. 19) Beloff, Z., 316 Benjamin, W., 34, 66 (n. 17), 69, 82, 274, 291 (n. 24), 296, 298, 303-306, 319 (n. 26), 320 (n. 32), 387 (n. 33) Benjamini, Y., 192 (n. 5) Bennett, B., 20, 22 Bennett, M.R., 246, 263 (n. 8) Bentham, J., 328, 339-340, 345, 348 (nn. 22, 25) Bentin, S., 192 (n. 5) Benveniste, E., 332 Berg, D.J., 236 (n. 75) Bergeron, V., 247, 264 (n. 13) Bergson, H., 103, 122 (n. 4), 338 Bertetto, P., 14, 22 Bettinson, G., 27
Bexte, P., 324 (n. 73) Birmingham, E., 239 (nn. 111, 114) Bischof, W.F., 239 (n. 111) Black, M., 74 Blake, R., 195 (n. 32) Blaser, E., 232 (n. 22) Block, B., 209, 233 (n. 33), 234 (n. 50) Bloom, L., 282 Boehnke, S.E., 236 (n. 75) Bogue, R., 22, 150 (n. 50) Bolter, J.D., 302, 319 (n. 18) Bolz, N., 290 (n. 3), 319 (n. 26) Bonnie, J.-C., 150 (n. 36) Bordina, A., 24 Bordwell, D., 10, 12, 22-23, 123 (n. 14), 190-191, 193 (nn. 14-15), 194 (n. 29), 195 (n. 34), 209, 212, 226, 231 (n. 1), 234 (n. 47), 236 (n. 62), 239 (n. 115), 241, 380-383, 387 (nn. 26, 31) Borges, J.L., 175 Boyle, D., 242, 257, 259 Bradley, M.M., 265 (n. 24) Branigan, E., 11, 23 Braver, T.S., 195 (n. 33) Bredekamp, H., 305, 320 (n. 28) Brentano Von Arnim, B., 280, 292 (n. 26) Bresson, R., 93-94 Brewster, B., 68 Brigham, J., 365-366, 371 (nn. 40, 42, 48) Brockmole, J.R., 235 (n. 58) Bronnen, A., 293 (n. 36) Brooks, J., 292 (n. 35) Brooks, V., 216-217, 237 (n. 81) Brunick, K.L., 231 (n. 6), 232 (n.25), 238 (n.92) Bruno, G., 20, 23, 128, 309, 321 (nn. 48-49), 351, 368 (nn. 4, 7), 370 (n. 25) Bruun Vaage, M., 256, 265 (n. 30) Bruzzi, S., 72 (n. 70)
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Indice dei nomi
Bryan-Wilson, J., 371 (n. 41) Buchanan, I., 23, 148 (n. 2), 150 (n. 41) Buck-Morss, S., 319 (n. 26) Buckland, W., 11, 23, 124 (n. 23) Buckner, R.L., 195 (n. 33) Buñuel, L., 156 Burgoyne, R., 27 Burrows, R., 66 Bush, S.W., 377 Buswell, G.T., 235 (n. 58), 237 (n. 85), 239 (n. 117) Butler, S., 319 (n. 22)
Castelhano, M.S., 235 (n. 58), 239 (nn. 111, 114) Castellote, J.M., 264 (n. 16) Castle, T., 317 (n. 3) Cavell, S., 11, 13, 23 Ceram, C.W. (Marek, K.W.), 300301, 318 (nn. 11-12), 322 (n. 55) Changeux, J.-P., 79, 97 (n. 8) Chaplin, C., 166, 175, 177 Chapman, J., 323 (n. 68) Charters, W.W., 66 (n. 16) Chateau, D., 12, 20, 23 Cheshire, G., 66 (n. 1) Chevallier, P., 24 Chion, M., 234 (n. 46) Choi, J., 15, 23 Chun, M.M., 192 (n. 9) Chun, W., 317 (n. 2), 320 (n. 34) Clair, R., 142, 150 (n. 43), 321 (n. 54) Clark, D., 192 (n. 5) Clooney, G., 129 Clore, G.L., 124 (n. 28) Coëgnarts, M., 24 Cohen, D., 233 (n. 34) Collingwood, R.G., 104, 122 (n. 8) Collins, A., 124 (n. 28) Colman, F., 11, 15, 24 Cometa, M., 21, 24 Comolli, J.-L., 310, 332 Cook, O., 301, 318 (n. 12) Coplan, A., 265 (nn. 28, 34) Cordeschi, R., 294 (n. 54) Cowan, M., 374, 385 (n. 5) Crary, J., 35, 67 (n. 21), 312, 319 (n. 25), 323 (n. 67), 380, 387 (n. 25) Crick, F., 192 (n. 6) Cristino, F., 234 (n. 44) Croce, B., 104, 122 (n. 8) Crocker, J.C., 73 (n. 89) Cronin, H., 265 (n. 32) Cubitt, S., 20, 24, 27 Cummins, R., 316
Cacioppo, J.T., 125 (n. 46) Cameron, I.G.M., 238 (n. 100) Campe, R., 291 (n. 6) Campion, J., 32-33, 40, 66 (n. 1), 69 (nn. 39-40), 70 (nn. 42, 45-46) Candan, A., 231 (n. 6), 238 (n. 92) Canguilhem, G., 320, 328, 337, 342, 349 (nn. 30, 32, 34, 38) Canova G., 23 Cantor, P., 240 (n. 131) Canudo, R., 377 Carbone, M., 13, 20-21, 23 Cardinal, S., 23 Carel, H., 15, 23 Carluccio, G., 13, 23, 75 Carlyle, T., 312 Carmi, R., 233 (n. 42), 236 (n. 75), 237 (nn. 78, 80, 89), 238 (n. 100), 239 (n. 129) Carroll, L., 175 Carroll, N., 10, 12, 15, 22-23, 109, 123 (nn. 14, 20), 190-191, 193 (n. 15), 195 (n. 34), 231 (n. 1), 242, 380-383, 386 (n. 10), 387 (nn. 26, 31) Cartesio, R., 153 Cartier-Bresson, H., 94 Cartwright, L., 324 Casebier, A., 13, 23 Casetti, F., 10-11, 14, 19, 21, 23, 373, 387 (n. 35)
397
Indice dei nomi
Curran, A., 15, 28 Currie, G., 12, 24, 190, 264 (n. 14) Curtius, E.R., 298, 315 Cuthbert, B.N., 265 (n. 24) Cutting, J.E., 218-219, 231 (nn. 5- 7), 232 (n. 25), 238 (n. 92) Cytowic, R., 46-48, 61, 71 (nn. 55-56, 60)
35), 150 (nn. 38-39, 41-43, 45-47, 49-52), 244, 263 (n. 3), 292 (n. 28), 324 (n. 73), 348 (n. 28), 349-350 (n. 40) Delluc, L., 377 DeLong, J.E., 231 (nn. 5-6), 232 (n. 25), 238 (n. 92) DeMarinis, P., 316 Dennett, D., 153, 266 Derrida, J., 136, 149 (n. 22), 269, 292 (n. 29) Dewhurst, R., 232 (n. 13) Diodato, R., 15, 24 Diodoro Siculo, 281 Dmytryk, E., 205, 212, 232 (n. 30), 236 (n. 64), 237 (n.77) Doesburg, T. van, 360 Dolan, R.J., 193 (n. 13) Donald, J., 24 Donaldson, D.I., 195 (n. 33) Dorfman, N., 192 (n. 5) Dorr, M., 208, 227, 233 (n. 36), 234 (n. 45), 237 (nn. 75, 78, 80, 89), 238 (nn. 91, 94, 97), 239 (nn. 119-121) Dosher, B., 232 (n. 22) Douchet, J., 194 (n. 23) Downey Jr, R., 249-250 Dreyer, C.T., 86 Dreyfus, H.L., 320 (n. 33) Dubois, P., 19, 24 Duchowsky, A., 232 (n. 13) Dudai, Y., 192 (n. 5) Durham Peters, J., 11, 19, 24 Dusi N., 24 Dyer, R., 36, 52, 54, 64, 68 (n. 30)
D’Aloia, A., 9, 16, 24 d’Ydewalle, G., 237 (n. 79) Dagognet, F., 347 (n. 15) Daguerre, L., 313 Dalle Vacche, A., 24 Damasio, A.R., 17, 77-86, 88, 96, 97 (nn. 6, 8-13), 98 (nn. 18, 20-25, 27, 29), 99 (nn. 30-31), 145, 150 (nn. 40, 44), 153-154, 163 (nn. 1-2), 192 (n. 6) Daney, S., 75-77, 87, 93, 97 (n. 1), 99 (n. 49) Dann, K.T., 71 (n. 55) Darwin, C., 79, 256, 265 (n. 31) Daumas, M., 335 Davachi, L., 192 (n. 5) Davis, M., 264 (n. 15) Dayan, D., 194 (n. 26) De Baecque, A., 24 De Blasio, E., 24 de Bont, J., 33, 66 (n. 4) de Certeau, M., 347 (n. 12) De Forest, L., 272 De Gaetano, R., 14, 21, 24, 26, 368 (n. 8) de Waal, F., 265 (n. 32) de Weijer, J. Van, 232 (n. 13) Dean, M.P., 234 (n. 42) del Río, E., 13, 35, 44, 67 (n. 24), 70 (n. 48) Deleuze, G., 11, 14, 18, 24, 34, 66 (n. 14), 76, 78-80, 82, 86, 96, 97 (nn. 4-5, 8), 98 (n. 17), 99 (n. 33), 100 (nn. 70-71), 127, 129-133, 137-147, 148 (nn. 2, 4, 6-8, 11), 149 (nn. 29-33,
Eamon, C., 370 (n. 36) Eaton, R.C., 264 (n. 15) Eberson, J., 357-358, 369 (nn. 12-13) Eco, U., 72 (n. 77), 368 (n. 1) Edison, T.A., 273-274, 282, 284-285, 292 (n. 34), 330 Egoyan, A., 67 (n. 24), 70 (n. 48) Einhauser, W., 235 (n. 58)
398
Indice dei nomi
Eisenschitz, B., 292 (n. 27) Ėjzenštejn, S.M., 18, 34, 47, 80, 191-192 (n. 2), 193 (n. 13), 204-205, 232 (n. 26) Elcott, N., 370 (n. 27) Elkins, J., 72 (n. 76) Ellul, J., 347 (n. 15) Elsaesser, T., 19, 24, 68 (n. 29), 313, 323 (nn. 68-71) Empedocle, 311, 322 (n. 62) Empson, W., 74 Engbert, R., 237 (n. 88) Epstein, J., 80, 388 (n. 36) Ernst, W., 307, 314, 320 (n. 38), 324 (n. 75) Eugeni, R., 9, 16, 24 Evard, J.-L., 320 (n. 39) Export, V., 311, 322 (n. 63)
(nn. 21-23), 348 (nn. 27, 29-30), 349 (nn. 30, 37-38, 40), 350 (n. 40), 376, 386 (n. 12) Fox-Talbot, H., 313 Frampton, D., 25 Francastel, P., 332, 347 (n. 7) Franco, J., 257 Freeburg, V.O., 377, 386 (n. 14) Freedberg, D., 265 (n. 29) Frege, F.G., 109 Freud, S., 154, 156, 286 Friedberg, A., 25, 137, 149 (n. 24), 313, 317 (n. 4), 323 (n. 72) Frigg, R., 263 (n. 11) Frijda, N., 113, 124 (n. 27), 163 (n. 2) Frith, C.D., 193 (n. 13) Frith, U., 231 (n. 8) Frizot, M., 330, 347 (n. 5) Fuhrmann, G., 192 (n. 4) Fuller, M., 148 (n. 13), 149 (n. 27) Furey, M.L., 195 (n. 33) Furman, O., 192 (n. 5), 194 (n. 22) Furstenau, M., 20, 22
Fan, V., 374, 385 (n. 7) Favreau, J., 242, 248, 250 Featherstone, E., 193 (n. 13) Featherstone, M., 66 (n. 16) Febvre, L., 335, 347 (n. 15) Fellini, F., 264 (n. 22) Feyerabend, P., 382, 387 (n. 32) Fidotta, G., 19, 317 (n. 1) Filler, M., 137 Fincher, D., 128, 139 Findlay, J.M., 232 (n. 23) Fiore, Q., 302, 319 (n. 16) Fischer, A., 163 (n. 2) Fischer, B., 232 (n. 31) Fischer, M.H., 235 (n. 58) Fisher, D.F., 237 (n. 81) Flaxman, G., 14, 25 Flisfeder, M., 25 Flitterman-Lewis S., 27 Fodor, J., 245-247, 263 (n. 6) Fontanier, P., 74 (n. 90) Foster, J., 118 Foucault, M., 269-270, 275, 291 (n. 7), 296, 298, 304-308, 314, 320 (nn. 33, 38), 323 (n. 69), 328, 332, 334, 339-346, 346 (n. 2), 347 (nn. 9, 11), 348
Gadamer, H.-G., 269 Gallese, V., 18, 25, 145, 150 (n. 44), 257, 265 (nn. 29, 33) Galloway, A., 134-135, 148 (nn. 13, 16), 317 (n. 2) Game, J., 26 Gance, A., 361 Gardner, J.S., 223, 238 (nn. 105, 109) Garfinkel, H., 386 (n. 16) Gaskell, I., 73 (n. 86) Gaudreault, A., 20, 25, 313 Gazzola, V., 265 (n. 29) Geertz, C., 308 Gegenfurtner, K.R., 233 (n. 36), 234 (n. 45), 237 (nn. 78, 80, 89), 238 (nn. 91, 94, 97), 239 (nn. 119-121) Gelatt, R., 292 (n. 34)
399
Indice dei nomi
Gelbard, H., 192 (n. 5) Germeys, F., 237 (n. 79) Gerow, A., 374, 385 (n. 6) Gerrig, R.J., 106, 123 (nn. 14-15) Gibson, J.J., 236 (n. 63) Giedion, S., 298, 303-304, 319 (n. 23), 370 (n. 26) Gilchrist, I.D., 232 (n. 23), 235 (n. 57) Gilden, D.L., 238 (n. 93) Gilles, B., 335 Gillett, S., 69 (n. 40) Gilroy, T., 128 Gitelman, L., 324 (n. 75) Glancy, M., 323 (n. 68) Gleibermann, O., 66 (n. 12) Gobbini, M.I., 195 (n. 33) Godard, J.-L., 86 Goethe, J.W. von, 276, 278-280, 291 (nn. 8-9, 16, 22-23, 25), 292 (n. 26) Goldie, P., 265 (nn. 28, 34) Goldring, E., 371 (n. 48) Goldstein, R.B., 208, 233 (nn. 36, 41-42), 238 (n. 97), 239 (n. 119) Golland, Y., 192 (n. 5), 194 (n. 22) Gombrich, E., 305 Gompel, R.P.G. van, 235 (n. 58) Good, J., 294 (n. 58) Goodenough, J., 27 Gordon, D.E., 293 (n. 41) Gottdiener, C., 240 (n. 131) Grabowski, M.J., 16, 25 Grau, O., 325 (n. 78) Griest, S., 66 (n. 11) Griffith, D.W., 91 Grodal, T., 12, 18, 25, 102, 190 Gropius, W., 361, 370 (n. 26) Grosz, E., 45, 71 (n. 53), 72 (n. 73) Grusin, R., 302, 319 (n. 18) Guattari, F., 127, 129-130, 132, 138-142, 146, 148 (n. 2), 149 (nn. 27, 30, 33, 35), 150 (nn. 38-39), 150 (nn. 41, 47), 324 (n. 73) Guerra, M., 18, 21, 25, 153 Gumbrecht, H.-U., 293 (n. 44)
Gunning, T., 36, 68 (n. 29), 313, 323 (n. 71) Gutenberg, J., 285, 302 Guterman, L., 72 (n. 66) Habermas, J., 269 Hacker, P.M.S., 246, 263 (n. 8) Hang, K., 150 (n. 37) Hankins, T.L., 322 (n. 64) Hansen, M.B., 12, 25, 67 (n. 18), 69 (n. 37) Harper, S., 323 (n. 68) Harrison, J.E., 71 (n. 55) Harrison, L.R., 377 Hart, B.M.t’, 234 (n. 44), 237 (n. 75) Hasson, U., 16, 165, 192 (nn. 4-5, 7), 193 (nn. 10-11, 16, 20), 194 (n. 22), 198, 231 (n. 9), 233 (n. 42), 242-243, 262 (n. 2) Hatfield, E., 125 (n. 46) Haudricourt, A.-G., 335 Haushofer, K., 290 (n. 1) Hauske, G., 235 (n. 57) Haxby, J.V., 195 (n. 33) Hay, G., 290 (n. 2) Hearty, P.J., 233 (n. 36) Heeger, D.J., 165, 192 (nn. 3, 5), 231 (n. 9), 262 (n. 2) Hegel, G.W.F., 269, 279, 287, 291 (n. 18) Heidegger, M., 269, 273, 284, 293 (n. 45) Heller, R., 192 (n. 5) Heman, D., 66 (n. 4) Henderson, J.M., 231 (nn. 3-4), 232 (nn. 15, 17, 24), 233 (nn. 36, 38), 234 (nn. 42, 44), 235 (nn. 58, 60), 236 (n. 67), 237 (nn. 79-80, 88), 239 (nn. 111, 119) Hendler, T., 263 Herbert, S., 318 (n. 11) Herrmann, B., 160 Hill, R.L., 231 (n. 4), 235 (n. 58) Hillier, J., 22, 194 (n. 23)
400
Indice dei nomi
Hirs, W., 195 (n. 32) Hiruma, N., 234 (n. 43) Hitchcock, A., 91, 112, 124 (n. 24), 156, 160, 162, 182-184, 187, 188, 189, 194 (n. 23), 239 (n. 110), 265 (n. 35) Hochberg, J., 216-217, 237 (n. 81) Hochscherf, T., 386 (n. 13) Hoffmann, E.T.A., 281, 285, 292 (n. 30) Hoffmann, W., 290 (n. 2) Hogan, P.C., 120, 125 (n. 48) Hoggart, R., 302, 318 (n. 15) Hollingworth, A., 232 (n. 15) Holmqvist, K., 232 (n. 13), 234 (n. 42) Holtorf, C., 324 (n. 75) Horkheimer, M., 301, 311, 318 Horn, E., 320 (n. 40) Hornbostel, E.M. von, 274, 290 (n. 5) Horowitz, T.S., 236 (n. 71) Huettel, S.A., 192 (n. 3) Hughes, J., 142, 150 (n. 41) Huhtamo, E., 19-20, 25, 270, 295, 315-316, 317 (n. 2), 318 (n. 11), 322 (n. 61), 324 (nn. 76, 78), 325 (n. 79), 328, 354, 368 (n. 5), 371 (n. 47) Hui Kyong Chun, W., 320 (n. 34) Hume, D., 139, 149 (n. 34), 153 Hunt, L., 321 (n. 43) Hunter, M.C., 263 (n. 11) Hunter, S., 66 (n. 9) Hyman, J., 246, 263 (nn. 11-12)
Itou, T., 234 (n. 43) Itti, L., 233 (n. 42), 235 (n. 56), 236 (n. 75), 237 (nn. 78, 80, 89), 238 (n. 100), 239 (n. 120) Iwai, T., 316 Izard, C.E., 113, 124 (n. 26) Jacobs, C., 41, 43, 70 (nn. 42, 46) James, W., 79, 103, 122 (n. 1) Jarodzka, H., 232 (n. 13) Jarry, A., 338 Jenkins, H., 135, 149 (n. 18) Johnson, B., 263 (n. 5) Johnson, M., 47, 61, 71 (n. 59) Jones, W., 233 (n. 34) Joos, M., 237 (nn. 85-86) Joyce, J., 292 (n. 35) Kaas, J.H., 265 (n. 29) Kaes, A., 374, 385 (n. 5) Kafka, B., 317 (n. 2) Kanwisher, N., 192-193 (n. 9) Katz, J., 73 (n. 84) Kauffman, C., 69 (n. 39) Kawabata, H., 195 (n. 32) Kazan, E., 121 Keenan, T., 320 (n. 34) Keller, G., 285, 293 (n. 46) Kelly, M., 122 (n. 8), 124 (n. 43) Kemal, S., 73 (n. 86) Kennedy, B.M., 25 Kennedy, J.F., 273 Keysers, C., 257, 265 (nn. 29, 33) Khosla, R., 234 (n. 43) Kidman, N., 70 (n. 45) Kieran, M., 264 (n. 14) Kiesler, F., 358, 369 (nn. 15-16) Kim, C.-Y., 195 (n. 32) Kingstone, A., 239 (n. 11) Kircher, A., 311, 322 (nn. 62, 64), 370 (n. 34) Kittler, F.A., 9, 20, 25, 269-270, 290 (n. 3), 291 (n. 21), 296, 303, 306-308, 310-311, 314, 320 (nn. 34-38), 321 (nn. 41-42) Klawans, S., 66 (n. 3)
Iacoboni, M., 192 (n. 5), 257, 265 (n. 34) Ikoniadou, I., 25 Innis, H., 20, 269-270 Iricinschi, C., 231 (n. 6), 238 (n. 92) Isaacs, J.T., 330 Iser, W., 110, 124 (n. 22) Ishai, A., 195 (n. 33) Israel, A., 367 Itami, J., 44
401
Indice dei nomi
Klier, P., 320 (n. 39) Klin, A., 233 (n. 34) Knappmeyer, B., 165, 231 (n. 9), 262 (n. 2) Koch, C., 235 (nn. 55-56, 59) Komine, K., 234 (n. 43) König, P., 234 (n. 44), 237 (n. 75) Konigsberg, I., 193 (n. 15), 194-195 (n. 29), 195 (n. 31) Kowler, E., 232 (n. 22) Kracauer, S., 34-35, 67 (n. 18), 363, 370 (n. 33) Kraft, R.N., 240 (n. 131) Kratky, A., 149 (n. 26) Krauss, R., 18, 25, 72 (n. 76) Kravanja, P., 24 Krieger, G., 235 (n. 57) Kubelka, P., 359-360, 369 (n. 20) Kuhn, A., 25 Kumao, H., 316 Kumru, H., 264 (n. 16) Kuntzel, T., 77, 82, 98 (n. 16) Künzel, W., 324 (n. 73) Kurosawa, A., 251, 252 Kusahara, M., 318 (n. 6)
Lazarus, R.S., 125 (nn. 44, 47) Le Callet, P., 237 (n. 75) Le Meur, O., 237 (n. 75), 238 (nn. 94, 97) Ledoux, J., 192 (n. 6) Lee, A., 53, 72 (n. 74) Lefebvre, M., 20, 25, 327 Legg, H., 371 (n. 37) Leibniz, G.W. von, 82, 98 (n. 17) Leigh, J., 160 Leone, S., 165-166, 170, 171, 174, 180, 182, 183 Leroi-Gourhan, A., 292 (n. 29), 335 Levin, D., 231 (n. 7) Levin, G., 325 (n. 79) Levy, I., 192 (n. 4) Levy, J., 238 (n. 103) Lewton, V., 248 Leydon, J., 66 (n. 6) Lieberman, Z., 325 (n. 79) Lindsay, V., 356, 369 (n. 9), 386 (n. 15) Lingis, A., 55, 60, 72 (n. 79) Link-Herr, U., 293 (n. 44) Livingstone, P.N., 195 (n. 32) Lombroso, C., 311, 322 (n. 62) Lopes, D., 247 Lovink, G., 149 (n. 18), 299, 317 (n. 5) Lubell, B., 316 Luciani, S.A., 377, 386 (n. 15) Luhmann, N., 293 (n. 44) Lumière, A. e L., 36, 91, 273, 329, 347 (n. 4) Lupton, E., 324
Laine, T., 25 Lakoff, G., 47, 61, 71 (n. 59) Lamb, B., 369 (n. 12) Land, M.F., 232 (n. 19) Landesman, O., 165, 231 (n. 9), 262 (n. 2) Landsberg, A., 66 Lane Fox Pitt-Rivers, A., 319 (n. 22) Lane, A., 66 (n. 8), 319 (n. 22) Lane, R.D., 99 (n. 22) Lang, P.J., 25, 27, 253, 265 (n. 24), 295, 324 (n. 73) Langer, S.K., 83, 98 (n. 25) Lapsley, R., 26 Larcher, D., 311, 322 (n. 63) Larry, D., 182, 183 Lasseter, J., 33, 66 (n. 12) Latour, B., 329, 347 (n. 15) Lau, H.C., 193 (n. 13)
MacCormack, P., 23, 148 (n. 2), 150 (n. 41) Mach, E., 292 (n. 34) Mach, K., 150 (n. 37) Mack, M., 235 (n. 58) Mackenzie, A., 20, 22 Magliano, J.P., 240 (n. 131) Maguire, E.A., 195 (n. 33) Mahler, G., 252
402
Indice dei nomi
Maines, R.P., 317 (n. 3) Malac, R., 192 (nn. 4-5), 194 (n. 22) Malavasi L., 23, 26 Malcolm, G.L., 235 (n. 58) Maley, C.J., 240 (n. 131) Malina, J., 318 (n. 7) Mallarmé, S., 285, 293 (n. 47) Malle, L., 56 Malling Hansen, H.M., 284-285 Mamad, C.A., 254 Mannan, S.K., 233 (n. 37), 235 (n. 57) Mannoni, L., 301, 318 (nn. 13-14) Manovich, L., 26, 134-137, 148 (n. 13), 149 (nn. 19, 21, 23, 26), 314, 323 (n. 73) Manstead, A.S.R., 163 (n. 2) Marchant, P., 233 (n.42) Marek, K.W. (Ceram, C.W.), 300 Marey, E.-J., 330, 338, 348 (n. 26) Mariani, A., 19, 317 (n. 1) Marie, J., 316 Marin, L., 332, 347 (n. 8) Marino, R.A., 236 (n. 75) Marker, C., 280, 292 (n. 27) Marks, L.U., 13, 26, 35, 67 (n. 23), 70 (nn. 43-44), 71 (n. 50) Malraux, A., 306, 320 (n. 31) Marr, D.C., 234 (n. 54) Marrati, M., 26 Martin, L., 72 (n. 74) Martin, M., 148 (n. 3) Martinetz, T., 233 (n. 36), 234 (n. 45), 237 (nn. 78, 80, 89), 238 (nn. 91, 94, 97), 239 (nn. 119-121) Massumi, B., 13 Matin, E., 232 (n. 21) Matravers, D., 123 (n. 17) Mauri, F., 355, 368, 368 (n. 1) May, J., 234 (n. 42), 237 (n. 79) Mayer, A., 336, 348 (n. 16) McCall, A., 363-364, 370 (n. 36), 371 (n. 37)
McCarthy, G., 192 (n. 3) McDermott, J., 192 (n. 9) McElheny, J., 355 McGinn, C., 263-264 (n. 12) McGuire, L.M., 369 (n. 15) McIver Lopes, D., 264 (n. 13) McLuhan, M., 20, 269-270, 272, 282, 296, 298, 302-303, 306, 312, 319 (nn. 16, 18, 20), 320 (n. 34) McQuire, S., 148 (n. 3) Mecacci, L., 195 (n. 30), 233 (n. 36) Melcher, D.P., 240 (n. 131) Merleau-Ponty, M., 31, 49-51, 69 (n. 36), 70 (n. 47), 71 (n. 53), 72 (nn. 63, 68, 71, 73), 73 (n. 82), 348 (n. 30), 371 (n. 46) Meskin, A., 264 (n. 14) Mesmer, F.A., 81 Metz, C., 32, 75, 78, 91, 100 (n. 60), 310, 332, 382, 387 (n. 28) Meyer, C.F., 269 Michaud, P.-A., 320 (n. 29), 370 (n. 35) Michelson, A., 13, 26, 359, 369 (n. 19) Millar, G., 233 (n. 33), 236 (nn. 65-66), 237 (n. 77) Miller, T., 28 Minnelli, M., 81 Mital, P.K., 231 (n. 4), 233 (n. 36), 236 (nn. 69, 72, 74), 237 (nn. 76, 78, 80), 238 (nn. 89-91, 94, 98, 108), 239 (nn. 112, 119-120, 126), 240 (n. 129) Mitry, J., 32 Mobbs, D., 193 (n. 13), 195 (n. 33) Moholy-Nagy, L., 361-362, 366, 370 (nn. 27-28), 371 (n. 47) Molnar-Szakacs, I., 192 (n. 5) Monani, S., 27 Montani, P., 19, 26 Monty, R.A., 237 (n. 81) Moore, M., 185
403
Indice dei nomi
Oliva, A., 235 (n. 58) Ollinger, J.M., 195 (n. 33) Olsen, S.H., 124 (n. 43) Omero, 276 Ong, W.J., 276, 291 (n. 10) Ortony, A., 124 (n. 28) Oudart, J.P., 332
Moriarty, M., 71 (n. 54) Morris, I., 318 (n. 7) Morris, R., 365 Moscovitch, M., 193 (n. 9) Moser, M.A., 324 (n. 78) Motluk, A., 265 (n. 29) Moure, J., 20, 23 Mulhall, S., 13, 26 Mullarkey, J., 26 Mulvey, L., 382, 387 (n. 29) Mumford, L., 303, 319 (n. 21) Munoz, D.P., 236 (n. 75), 238 (n. 100) Münsterberg, H., 103-104, 122 (nn. 3, 7), 242 Murch, W., 233 (n. 33), 236 (n. 66), 237 (n. 77) Murray, W.S., 235 (n. 58) Musser, C., 313 Muybridge, E., 330
Païni, D., 318 (n. 14), 370 (n. 35) Paletta, I., 239 (111) Palmer, S.E., 222-223, 234 (n. 53), 238 (nn. 105, 109), 264 (n. 13), 264 (n. 21) Pannasch, S., 237 (nn. 85-86) Panofsky, E., 305, 314 Parikka, J., 19, 25-26, 270, 295, 315, 317 (n. 1), 322 (n. 61), 324 (nn. 73, 75-76), 328 Parkhurst, D.J., 235 (n. 57) Parnet, C., 142, 159 (n. 43) Parreno, P., 356 Pashler, H., 234 (n. 46) Pasolini, P.P., 139 Pasquali, E., 233 (n. 36) Pearson, R.E., 26 Peli, E., 208, 233 (n. 36), 239 (n. 119) Pepperell, R., 26 Pepperman, R.D., 233 (nn. 32-33), 236 (n. 66), 237 (n. 77) Perkins, A., 160 Perkins, V.F., 103, 122 (n. 5) Perona, P., 235 (n. 58) Perriault, J., 300, 318 (n. 9) Pescatore G., 26 Petro, P., 67 (n. 20) Phillips, S., 369 (n. 15) Pias, C., 315, 324 (n. 75) Picabia, F., 321 (n. 54) Piene, O., 371 (n. 48) Pietrini, P., 195 (n. 33) Pinotti, A., 21, 26, 265 (n. 29), 320 (n. 28) Piscator, E., 361 Pisters, P., 14, 17, 26, 76, 127-128, 242
Nabokov, V., 47 Nadel, L., 98 (n. 22) Nadotti, M., 351, 368 (nn. 4, 7) Nakadai, T., 251 Nam June Paik, 311 Nannicelli, T., 16, 26, 241 Neumann, J. Von, 289 Nezu, J., 251 Niebur, E., 235 (n. 57) Niederer, S., 148 (n. 3), 149 (n. 18) Niemeyer, K., 386 (n. 13) Nietzsche, F., 139, 269, 287-288, 291 (n. 15), 294 (n. 53) Nir, Y., 192 (nn. 4-5) Nixon, R.M., 273 Noguez, D., 98 (n. 16) Nornes, A.M., 374, 385 (n. 6) Nothelfer, C.E., 231 (n. 5) Novalis, 279, 291 (n. 19) Nuthmann, A., 237 (n. 88) Nyström, M., 232 (n. 13), 234 (n. 42) O’Brien, P., 321 (n. 44) Odin, R., 111, 124 (n. 23) Oettermann, S., 370 (n. 24)
404
Indice dei nomi
Plantinga, C., 12-13, 15, 26, 76, 101-102, 122, 124 (n. 31), 125 (n. 46), 154, 242, 265 (n. 27) Pleynet, M., 332 Poe, E.A., 287 Polan, D., 69 (n. 39) Ponech, T., 190 Pool, I.d.S., 292 (n. 35) Porter, E.S., 363 Powell, M., 44, 67 (n. 24) Prentice, D.A., 106, 123 (nn. 14-15) Pressburger, E., 44 Prince, S., 123 (n. 12) Punt, M., 26 Pynchon, T., 269
Ricoeur, P., 53, 55-56, 62-65, 68 (n. 33), 72 (n. 75), 73 (n. 80), 74 (nn. 90, 97) Riefenstahl, L., 194 (n. 28) Rizzolatti, G., 257, 265 (n. 33) Robbins, J., 89 Roberts, R.C., 122 (n. 6) Robertson, E.-G., 370 (n. 34) Robida, A., 336 Robson, J., 264 (n. 14) Robson, J.E., 231 (n. 8) Rodowick, D.N., 11, 14, 17, 27, 137, 149 (n. 28), 150 (n. 50), 374, 385 (n. 9) Rombes, N., 137, 149 (n. 25) Rome, E., 239 (n. 111) Ropohl, G., 310 Rose, S., 150 (n. 38) Rubin, N., 165, 192 (n. 5), 231 (n. 9), 262 (n. 2) Ruddock, K.H., 235 (n. 57) Rushton, R., 27 Rust, S., 27 Rutherford, A., 27 Ryu, D., 251
Queralt, A., 264 (n. 16) Rabinow, P., 320 (n. 33) Radford, C., 108, 123 (n. 18) Raichle, M.E., 195 (n. 33) Ramachandran, V.S., 195 (n. 32), 243, 246, 262 (n. 1), 264 (n. 12) Ramos Monterio, L., 24 Ramsperger, E., 232 (n. 31) Rancière, J., 26-27, 356, 368 (n. 8) Randolph, J., 254 Rapson, R.L., 125 (n. 46) Rathenau, E., 292 (n. 35) Rathenau, W., 282, 292 (n. 37) Raybould, D., 233 (n. 42) Rayner, K., 232 (nn. 16, 24) Raz, G., 263 (n. 2) Read, R., 27 Rees, A.L., 371 (n. 38) Reijen, W. Van, 319 (n. 26) Reinagel, P., 235 (n. 57) Reisz, K., 233 (n. 33), 236 (nn. 65-66), 237 (n. 77) Remington, E., 284, 290 Renov, M., 24 Renshaw, T., 233 (n. 42) Rentschler, I., 235 (n. 57) Repin, I., 226 Ress, D., 192 (n. 3) Rhodes, C., 290 (n. 1)
Sacks, O., 103, 122 (nn. 2, 4) Sainati A., 27 Sandys, J., 228, 239 (n. 124) Sapir, J.D., 73 (n. 89) Sartre, J.-P., 79, 97 (n. 7), 348 (n. 30) Sawahata, Y., 234 (n. 43) Scarry, E., 48, 71 (n. 62) Schäfer, H., 293 (nn. 37, 39) Schaffer, S., 336, 348 (n. 16) Schandl, C., 235 (58) Schefer, J.-L., 76, 86, 99 (nn. 32, 34) Schill, K., 235 (n. 57) Schivelbusch, W., 319 (n. 27), 370 (n. 34) Schlaffer, H., 291 (n. 22) Schlegel, F., 279, 291 (n. 20) Schmidt, K.-H., 17, 22 Schnapp, J.T., 317 (n. 3)
405
Indice dei nomi
Schneider, E., 234 (n. 44), 237 (n. 75) Schneider, M., 290 (n. 3) Schneider, W.X., 232 (n. 22) Scholz, T., 317 (n. 2) Schouten, J.L., 195 (n. 33) Schreber, D.P., 283, 293 (n. 38) Schultz, R., 233 (n. 34) Schumann, F., 234 (n. 44), 237 (n. 75) Schwarzbaum, L., 50, 72 (n. 65) Sconce, J., 309, 321 (n. 50) Scorsese, M., 50 Scott, C., 50, 72 (n. 65) Screech, T., 317-318 (n. 6) Scruton, R., 109 Senders, J.W., 237 (n. 81) Sengmüller, G., 316 Shakespeare, W., 264 (n. 22) Shand, P.M., 369 (n. 11) Shannon, C.E., 269 Shaviro, S., 13, 27, 35, 37, 40, 67 (n. 22), 68 (n. 34), 69 (n. 38), 73 (n. 81) Shaw, D., 27 Shaw, J., 385 (n. 2) Sheridan, M.A., 195 (n. 33) Shiff, R., 62-63, 73 (n. 86), 74 (n. 93) Shimamura, A.P., 16, 27, 264 (nn. 13, 21) Sholes, C.L., 284, 289 Siegert, B., 314, 324 (n. 75) Silver, C., 28, 263 (n. 4) Silverman, R.J., 322 (n. 64) Simondon, G., 319 (n. 22), 331, 336-337, 347 (n. 15), 348 (n. 18) Simons, J., 149 (n. 20) Simons, R.C., 254, 264 (n. 15), 265 (n. 25) Simpson, P., 26 Sinnerbrink, R., 15, 27 Sitney, S., 369 (n. 17) Smith, D., 131-132, 148 (n. 8) Smith, G.M., 26-27, 101-102, 115-116, 124 (nn. 32, 42)
Smith, M., 10, 12-13, 15, 17, 22, 27, 102, 123 (n. 16), 166, 190, 241-242, 264 (n. 21), 265 (nn. 28, 35), 266 (n. 36), 285 (n. 10), 290 Smith, T.J., 16, 166, 197-198, 231 (nn. 3-4, 7), 233 (nn. 36, 38), 234 (nn. 42, 44), 235 (n. 60), 236 (nn. 67-68, 70), 237 (nn. 79-80, 88), 238 (n. 106), 239 (nn. 119, 126), 240 (n. 129), 290 Snyder, A.Z., 195 (n. 33) Sobchack, V., 13, 15, 27, 31-32, 69 (n. 35) Somaini, A., 15, 21, 24, 26, 265 (n. 29), 320 (n. 28) Somenzi, V., 294 (n. 54) Song, A.W., 192 (n. 3) Spackman, J., 122 (n. 8) Spain, M., 235 (n. 58) Spanne, J.G., 229, 239 (n. 128), 240 (n. 130) Speer, N.K., 240 (n. 131) Spielberg, S., 68 (n. 29), 209-210 Spiers, H.J., 195 (n. 33) Spigel, L., 317 (n. 3) Spinoza, 97 (n. 8) Stam, R., 27-28 Stanford, L., 330 Stapleford, R., 369 (n. 12) Starling, C., 118, 120 Stelmach, L.B., 207, 233 (nn. 36, 40), 234 (n. 42), 239 (n. 119) Stern, D., 77, 81-84, 88-96, 98 (n. 28), 99 (nn. 51, 55), 100 (nn. 56, 62), 198 Stern, L., 34, 55, 66 (n. 15), 72 (n. 78) Sternberger, D., 298, 304-305, 319 (n. 27) Sterne, J., 324 (n. 74) Stevens, R., 233 (n. 42) Straus, B., 66 (n. 2) Strauss, B., 278, 291 (n. 17) Strauven, W., 323 (n. 71) Sutherland, D., 210
406
Indice dei nomi
Sutton, G., 371 (n. 39) Swallow, K.M., 240 (n. 131) Szczepanik, P., 374, 385 (n. 4)
Tsivian, Y., 91, 100 (n. 61) Tucci, S., 50, 72 (n. 65) Tuck, G., 15, 23 Turing, A., 269, 287-290, 294 (n. 54) Turvey, M., 10-11, 17, 22, 28, 388 (n. 36) Tyler, C.W., 222, 238 (n. 102)
Taberham, P., 16, 26, 241 Takemitsu, T., 252 Tallis, R., 246-247, 251, 258, 263 (nn. 9-10), 264 (n. 20) Tam, W.J., 233 (n. 36) Tambellini, A., 367 Tan, E.S., 12, 28, 102, 106, 112-115, 123 (n. 13), 124 (nn. 25, 30-31), 125 (n. 45) Tarr, B., 91 Tatler, B.W., 231 (n. 11), 232 (n. 19), 235 (n. 57), 238 (nn. 95-96) Taussig, M., 73 (n. 81) Taylor, R., 192 (n. 2) Terrone, E., 15, 28 Theall, D.F., 319 (n. 20) Theweleit, K., 283 Thomas, B., 321 (n. 46) Thompson, E., 324 (n. 74) Thompson, K., 23, 193 (n. 15), 209, 212, 226, 234 (n. 47), 236 (n. 62), 239 (n. 115) Tijen, T. van, 324 (n. 77) Tikka, P., 18, 28, 263 (n. 2) Tomasulo, F., 28 Torralba, A., 235 (n. 58) Tortajada, M., 20, 22, 270, 327, 348 (n. 17) Tosi, V., 233 (n. 36), 234 (n. 42), 239 (n. 119) Tournachon, F.-G. (Nadar), 292 (n. 31) Tourneur, J., 248 Tredell, N., 28 Treuting, J., 206, 209, 233 (nn. 34-35), 234 (n. 52) Trifonova, T., 28 Trodd, T., 370 (n. 27) Truffaut, F., 124 (n. 24) Tseng, C.-I, 17, 28 Tseng, P.H., 238 (n. 100)
Ullman, S., 235 (n. 55) Unema, P.J.A., 237 (nn. 85-86) Utterson, A., 20 Väliaho, P., 20, 28, 320 (n. 30) Valines, I., 231 (n. 9) Valls-Solé, J., 264 (n. 16) van den Oever, A., 20 Van Sant, G., 91, 93 Vancheri, L., 14, 28 VanDerBeek, S., 365, 371 (n. 40) Vašiček, Z., 318 (n. 7) Vasulka, S., 322 (n. 63) Vasulka, W., 311, 322 (n. 63) Velichovsky, B.M., 237 (nn. 85-86) Verne, J., 336 Vierkant, A., 367 Vig, E., 237 (n. 75) Viganò, D.E., 24 Villa, F., 13, 23, 75 Villiers de l’Isle Adam, A., 336 Vinterberg, T., 135 Viola, B., 322 (n. 63) Virilio, P., 269 Vockeroth, J., 234 (n. 44), 237 (n. 75) Volkmar, F., 233 (n. 34) Von Lieben, R., 272 Voss, C., 28 Vygotsky, L.S., 195 (n. 30) Wade, N.J., 231 (n. 11) Wagnermaier, S., 322 (n. 66) Walther, D., 235 (n. 59) Walton, K., 123 (n. 19) Walze, A., 293 (n. 43)
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Indice dei nomi
Winter, L.W., 291 (n. 13) Winthrop-Young, G., 28, 320 (n. 37) Wittgenstein, L., 48, 64, 195 (n. 30) Wolfe, J.M., 236 (n. 71) Wollen, P., 34, 66 (n. 13) Wooding, D.S., 235 (n. 57) Woods, R.L., 208, 233 (n. 36), 239 (n. 119) Woolf, V., 92
Warburg, A., 298, 305 Warhol, A., 91, 359 Warner, M., 370 (n. 34) Wartenberg, T.E., 14-15, 27-28, 241, 386 (n. 11) Watanabe, S., 234 (n. 43) Weber, S., 290 (n. 3) Weibel, P., 311, 385 (n. 2) Weiskopf, N., 193 (n. 13) Welles, O., 119, 133 Wershler-Henry, D., 317 (n. 2) Wertheim, T., 232 (n. 14) West, J., 367 Westlake, M., 26 Westwell, G., 25 Wetzel, M., 307, 320 (n. 39) Weynants, T., 317 (n. 3) White, H., 321 (n. 47) Whitehead, A.N., 83 Wickens, T.D., 223, 238 (nn. 105, 109) Wieth, M.S., 239 (n. 111) Wildfeuer, J., 17, 28 Wilkinson, T., 128 Williams, L., 35-36, 67 (n. 20), 68 (nn. 28, 35), 70 (n. 41), 73 (n. 81) Willis, B., 229 Wilson, R., 90, 99 Wilson, S., 25 Wilson, S.M., 192 (n. 5), 195 (n. 33) Wimsatt, W.K., 125 (50) Windschuttle, K., 321 (nn. 44, 46)
Yanal, R., 123 (n. 17) Yang, E., 192 (n. 5), 193 (nn. 11, 16), 194 (n. 22) Yarbus, A.L., 200, 226-228, 231 (n. 12), 235 (n. 58), 237 (n. 87), 239 (nn. 111, 114, 117-118) Young, I.M., 71 (n. 52) Zacks, J.M., 16, 28, 195 (n. 33), 240 (n. 131) Zador, A.M., 235 (n. 57) Zeki, S., 195 (nn. 32-33), 243, 246, 262 (n. 1) Zetzsche, C., 235 (n. 57) Zielinski, S., 20, 28, 309-312, 321 (nn. 52- 54), 322 (nn. 56-57, 59-61, 63-66) Žižek, S., 387 (n. 31) Zuse, K., 289, 294 (n. 59) Zweig, E., 316
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SAGGI
1. F. D’Agostini, Analitici e continentali 2. G. Deleuze, Critica e clinica 3. G. Deleuze, Differenza e ripetizione 4. M. Ferraris, Estetica razionale 5. D. Gillies, Intelligenza artificiale e metodo scientifico 6. S. Manghi (a cura di), Attraverso Bateson 7. M. Di Francesco, L’io e i suoi sé 8. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger 9. L. Accati, Il mostro e la bella 10. C. Montaleone, Homo loquens 11. R. Galatolo, G. Pallotti (a cura di), La conversazione 12. A. Oliverio, Esplorare la mente 13. C. Glymour, Dimostrare, credere, pensare 14. A. Wieviorka, L’era del testimone 15. R. Nozick, Puzzle socratici 16. P. Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio 17. G.O. Gabbard, K. Gabbard, Cinema e psichiatria 18. R. de Monticelli (a cura di), La persona: apparenza e realtà 19. E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile 20. U. Wolf, La filosofia come ricerca della felicità 21. E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura 22. S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij 23. H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza 24. E. Morin, Il metodo 5. L’identità umana 25. H. Bergson, L’evoluzione creatrice 26. W. Lycan, Filosofia del linguaggio 27. D. Tarizzo, Il pensiero libero 28. P. Ricœur, La memoria, la storia, l’oblio 29. S. Zˇizˇek, Il soggetto scabroso
30. M. Merleau-Ponty, È possibile oggi la filosofia? 31. R. Girard, Origine della cultura e fine della storia 32. T. Crane, Fenomeni mentali 33. F. Gil, La logica della convinzione 34. S. Manghi, La conoscenza ecologica 35. E. Morin, Il metodo 2. La vita della vita 36. H. Bergson, Durata e simultaneità 37. R. Barilli, Bergson 38. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto 39. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento 40. E. Morin, Il metodo 6. Etica 41. S. Borutti, Filosofia dei sensi 42. M. Dummett, Verità e passato 43. M. Foucault, Follia e psichiatria 44. R. Prezzo, Pensare in un’altra luce 45. A. Garapon, Del giudicare 46. S. Moller Okin, Diritti delle donne e multiculturalismo 47. E. Morin, Il metodo 3. La conoscenza della conoscenza 48. G. Lucignani, A. Pinotti (a cura di), Immagini della mente 49. J.-C. Kaufmann, Corpi di donna, sguardi d’uomo 50. V. Jankélévitch, Corso di filosofia morale 51. E. Morin, Il mondo moderno e la questione ebraica 52. L. Boella, Neuroetica 53. C. Formenti, Cybersoviet 54. J. Simon, Il governo della paura 55. L. Mortari, A scuola di libertà 56. E. Goffman, Relazioni in pubblico 57. E. Morin, Il metodo 4. Le idee: habitat, vita, organizzazione, usi e costumi 58. H. Bergson, L’energia spirituale 59. A. Pinotti, A. Somaini (a cura di), Teorie dell’immagine 60. A. Garapon, Chiudere i conti con la storia
61. S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica 62. P. Bertrando, M. Bianciardi (a cura di), La natura sistemica dell’uomo 63. M. Ceruti, Il vincolo e la possibilità 64. H. Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia 65. G.P. Piretto, Gli occhi di Stalin 66. L. Guzzardi, Lo sguardo muto delle cose 67. M. Bucchi, Scienza e società 68. F. Desideri, La percezione riflessa 69. M. Doni, S. Tomelleri, Giochi sociologici 70. Q. Skinner, Ragione e retorica nella filosofia di Hobbes 71. E. Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità 72. M. Cometa, La scrittura delle immagini 73. A. Garapon, Lo Stato minimo 74. L. Boella, Il coraggio dell’etica 75. M.L. Knott, Hannah Arendt 76. R. Màdera, La carta del senso 77. J. Campbell, Percorsi di felicità 78. M. Recalcati, Jacques Lacan 79. P. Janet, L’automatismo psicologico 80. F. Santoni de Sio, Per colpa di chi 81. J. Butler, Strade che divergono 82. C. Tappolet, F. Teroni, A. Konzelmann Ziv (a cura di), Le ombre dell’anima 83. A. Pinotti, S. Tedesco (a cura di), Estetica e scienze della vita 84. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica 85. M. Guerri, F. Parisi (a cura di), Filosofia della fotografia 86. R. Audi, La razionalità della religione 87. H. Bergson, W. James, Durata reale e flusso di coscienza 88. G.P. Piretto (a cura di), Memorie di pietra 89. H. Kelsen, Religione secolare 90. P. Montani, Tecnologie della sensibilità 91. U. Curi, Endiadi
92. L. Mortari, Filosofia della cura 93. G. Ziccardi, Internet, controllo e libertà 94. M. Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto 95. H.F. Mallgrave, L’empatia degli spazi 96. A. Guerraggio, La scienza in trincea 97. H. Bredekamp, Immagini che ci guardano 98. M. Gilbert, Il noi collettivo 99. M. Vergani, Responsabilità 100. C. Calabi, A. Coliva, A. Sereni, G. Volpe (a cura di), Teorie della conoscenza 101. M. Recalcati, Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto 102. G. Ziccardi, L’odio online 103. P. Janet, Trauma, coscienza, personalità 104. E. Morin, Il cinema o l’uomo immaginario 105. S. Gruzinski, Abbiamo ancora bisogno della storia? 106. M. Carbone, Filosofia-schermi 107. P. Sloterdijk, L’imperativo estetico 108. M. Cometa, Perché le storie ci aiutano a vivere 109. R. Fabbrichesi, Cosa si fa quando si fa filosofia? 110. G.W. Bertram, L’arte come prassi umana 111. U. Curi, Le parole della cura
Ruggero Eugeni è professore di Semiotica dei media all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove ha diretto l’Alta Scuola in Media, Comunicazione e Spettacolo. È fra i principali studiosi dell’incontro tra semiotica dei media e scienze neurocognitive. È autore di Semiotica dei media. Le forme dell’esperienza (2010) e La condizione postmediale (2015). Con Adriano D’Aloia ha curato il numero monografico di Cinéma&Cie sul tema “Neurofilmology.Audiovisual Studies and the Challenge of Neuroscience” (2014).
Le immagini in movimento continuano a costellare la nostra vita quotidiana, immersa in una miriade di schermi – grandi e piccoli, fissi e mobili, personali e collettivi – e in un flusso ininterrotto di narrazioni audiovisive. Anche i discorsi e le riflessioni sul cinema e sui film non cessano di animare il dibattito culturale contemporaneo coinvolgendo un gran numero di istituzioni (accademiche e non), appassionati di cinema e semplici spettatori. Se, da un lato, i film rappresentano da sempre le tendenze e le tensioni sociali della nostra cultura, dall’altro le teorie del cinema riflettono sempre più l’incontro (e lo scontro) tra differenti visioni del mondo e della conoscenza. Questa antologia presenta per la prima volta in italiano i contributi dei più autorevoli e originali rappresentanti dei film studies degli ultimi quindici anni. L’idea di fondo è che la riflessione sul cinema e sull’audiovisivo non si svolge in un perimetro chiuso e invalicabile, ma in aperto dialogo con altre discipline: con la filosofia, intorno al concetto di esperienza; con le scienze sperimentali, a proposito del concetto di organismo; con la teoria dei media, rispetto al concetto di dispositivo. Un’articolata introduzione e una postfazione intenzionalmente provocatoria permettono al lettore di comprendere “dal vivo” come il pensiero sul cinema, nei suoi rizomatici mutamenti, sia fondamentale per interpretare la complessità dell’esperienza mediale contemporanea. Contributi di François Albera, Raymond Bellour, Giuliana Bruno, Francesco Casetti, Antonio Damasio, Uri Hasson, Erkki Huhtamo, Friedrich Kittler, Jussi Parikka, Patricia Pisters, Carl Plantinga, Murray Smith,Tim J. Smith, Vivian Sobchack, Maria Tortajada
A CURA DI ADRIANO D’ALOIA RUGGERO EUGENI
Teorie del cinema Il dibattito contemporaneo
A. D’Aloia, R. Eugeni Teorie del cinema
Adriano D’Aloia è ricercatore all’Università Telematica Internazionale UniNettuno, Roma. Si interessa del rapporto fra teorie dei media, estetica, psicologia e neuroscienze. È autore di La vertigine e il volo. L’esperienza filmica fra estetica e scienze neurocognitive (2013) e curatore del volume di Rudolf Arnheim, I baffi di Charlot. Scritti italiani sul cinema 19321938 (2009).
ISBN 978-88-6030-958-7
9 788860 309 5 87
In copertina: una scena del film Ombre rosse (1939) di John Ford
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E 35,00
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A CURA DI ADRIANO D’ALOIA RUGGERO EUGENI
Teorie del cinema Il dibattito contemporaneo