Strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Profili interni, comparati e sovranazionali 9788892112759

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Indice
Presentazione
Autori
Capitolo I - La competenza territoriale in materia di criminalità organizzata di stampo mafioso - F. Vassallo
Capitolo II - La testimonianza anonima. Questioni intene, internazionali e sovranazionali - M. Miraglia
Capitolo III - La responsabilità del partecipante ad un gruppo criminale per i reati degli altri partecipanti: le soluzioni emesse nel diritto penale internazionale e la loro potenziale applicabilità sul piano nazionale e transazionale - J.P. Pierini
Capitolo IV - La confisca "civile" nella giustizia penale statunitense - V. Fanchiotti
Capitolo V - I "rimedi civili" sotto "ricco" e la recente legislazione antiterrorismo statunitense: possibili spunti per il contrasto della criminalità organizzata - J.P. Pierini
Capitolo VI - Prime note sull'improbabile riforma penitenziaria: salvo lo "Statuto speciale dei mafiosi" - L. Barontini
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Strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Profili interni, comparati e sovranazionali
 9788892112759

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Strumenti di contrasto alla criminalità organizzata Profili interni, comparati e sovranazionali

L. Barontini - V. Fanchiotti - M. Miraglia - J.P. Pierini - F. Vassallo

Strumenti di contrasto alla criminalità organizzata Profili interni, comparati e sovranazionali a cura di

Vittorio Fanchiotti

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2017 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1275-9 ISBN/EAN 978-88-9217236-4 (ebook)

Finanziamento MIUR: – Progetti transfrontalieri – obiettivo 3: Corso di formazione professionale “Criminalità organizzata: tra teoria e prassi”.

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, email [email protected] e sito web www.clearedi.org.

INDICE

pag.

Presentazione

IX

Elenco Autori

XI CAPITOLO I

LA COMPETENZA TERRITORIALE IN MATERIA DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI STAMPO MAFIOSO di Francesca Vassallo 1. 2. 3. 4.

Premessa Competenza per territorio e reati associativi L’unità dell’organizzazione di tipo mafioso ‘ndrangheta: l’autonomia delle locali e la “mafia silente” La competenza territoriale nei recenti processi di criminalità organizzata di stampo mafioso ‘ndranghetista

1 2 10 20

CAPITOLO II LA TESTIMONIANZA ANONIMA: QUESTIONI INTERNE, INTERNAZIONALI E SOVRANAZIONALI di Michela Miraglia 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Diritto al confronto e testimonianza anonima Riflessi interni e sovranazionali I dicta della Corte di Strasburgo La “testimonianza anonima” nel processo penale italiano Whistleblowing e ripercussioni sul processo penale: dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 alla l. 30 novembre 2017, n. 179 Anonimato e prova testimoniale nel processo penale internazionale Riflessioni di sintesi

25 27 30 37 43 46 54

V

pag.

CAPITOLO III LA RESPONSABILITÀ DEL PARTECIPANTE AD UN GRUPPO CRIMINALE PER I REATI DEGLI ALTRI PARTECIPANTI: LE SOLUZIONI EMERSE NEL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE E LA LORO POTENZIALE APPLICABILITÀ SUL PIANO NAZIONALE E TRANSNAZIONALE di Jean Paul Pierini 1. 2. 3. 4.

5.

Premessa Il punto di partenza “transnazionale”: i reati associativi nella Convenzione di Palermo Il problema dei criteri per affermare la responsabilità per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività criminale dell’associazione I criteri sviluppati nell’ambito del diritto penale internazionale per la responsabilità “residuale” del partecipante ad un gruppo per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività dello stesso Conclusioni

59 61 62

65 69

CAPITOLO IV LA CONFISCA “CIVILE” NELLA GIUSTIZIA PENALE STATUNITENSE di Vittorio Fanchiotti 1. 2. 3.

La confisca di common law tra “civile” e “penale” L’importanza attuale dell’istituto e le sue origini storiche La forfeiture solca l’Atlantico, raggiunge il nuovo mondo, perdendo parte del carico e liberandosi di zavorra inglese 4. La forfeiture dopo l’Indipendenza degli Stati Uniti 5. Forfeiture e contrabbando 6. Le prese di posizione della Corte suprema federale 7. Un tuffo all’indietro per ripescare Peisch 8. La legislazione negli anni Settanta del Novecento 9. Libretti v. U.S. e le collateral consequences della nuova fisionomia della forfeiture 10. Ultimi sviluppi legislativi: “qualcosa di nuovo anzi d’antico” nell’assetto “plurale” delle forfeitures e nelle strategie del loro utilizzo

VI

73 77 81 88 93 96 103 112 118 121

pag.

CAPITOLO V I “RIMEDI CIVILI” SOTTO “RICO” E LA RECENTE LEGISLAZIONE ANTITERRORISMO STATUNITENSE: POSSIBILI SPUNTI PER IL CONTRASTO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA di Jean Paul Pierini 1. 2. 3. 4.

5.

Premessa Il Lawfare come “laboratorio di idee” Ipotesi di intervento su fattori abilitanti per la commissione di reati I singoli filoni contenziosi 4.1. Le banche e la responsabilità per l’assistenza sostanziale ad atti di terrorismo internazionale 4.2. La fornitura di beni strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale 4.3. La fornitura di servizi strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale Conclusioni

127 131 133 133 134 135 136 136

CAPITOLO VI PRIME NOTE SULL’IMPROBABILE RIFORMA PENITENZIARIA: SALVO LO “STATUTO SPECIALE DEI MAFIOSI” di Luca Barontini 1. 2. 3. 4. 5.

La proposta della Commissione Giostra: l’entusiasmo post Stati Generali dell’esecuzione fra i confini imposti dalla legge delega I criteri della legge n. 103/2017 per lo “statuto dei mafiosi”: un legislatore delegato con le mani legate Il futuro art. 4-bis ord. penit.: le due proposte Lo scioglimento del cumulo La parola agli elettori …

137 140 141 144 144

VII

8

PRESENTAZIONE

Esce il terzo volume della “non-collana” di studi sulla criminalità organizzata, emerso dal lavoro di un gruppo di ricerca costituitosi nell’ambito del Corso di diritto processuale I presso il Polo didattico imperiese. Preceduto l’anno scorso dalla pubblicazione dello studio di Jean Paul Pierini su “La corruzione passiva del pubblico ufficiale straniero” e del collettaneo “Il contrasto alla criminalità organizzata”, il volume odierno riprende l’approccio glocal alla tematica in questione. Partendo da un approfondimento dei riflessi sulla competenza territoriale delle “locali” della “mafia silente”, emersi in alcuni recenti processi celebrati nell’estremo ponente ligure, l’analisi si estende al tema “classico” della testimonianza anonima – senza trascurare le recenti implicazioni del whistleblowing in materia – nella sua dimensione domestica, europea ed internazionale, nonché ad alcuni profili che potrebbero riguardare la criminalità organizzata “ristretta”, ove l’improbabile riforma penitenziaria venisse varata. Un ulteriore contributo si prefigge di verificare se concetti e meccanismi relativi alle forme di partecipazione nel reato, sviluppatisi nell’ambito del diritto penale propriamente internazionale, possano contribuire a definire specifiche problematiche poste dalla criminalità organizzata ed eventualmente “completare” le previsioni contenute nella Convenzione di Palermo del 2000. Altri due contributi sono dedicati alla strumentazione comparata, in particolare a quella d’oltreoceano. Sotto questo profilo, ad un’indagine sulla storia e sull’incidenza attuale del poliedrico istituto della confisca made in U.S.A., fa séguito – novità assoluta nello scenario della dottrina italiana – un approfondimento critico sulla tematica del Lawfare e sulle sue implicazioni, ancora in gran parte inesplorate, nel contrasto alla criminalità organizzata, anche di stampo terroristico. IL CURATORE Imperia, dicembre 2017

IX

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ELENCO AUTORI

LUCA BARONTINI, dottorando di ricerca – Università degli Studi di Genova VITTORIO FANCHIOTTI, professore ordinario di diritto processuale penale – Università degli Studi di Genova MICHELA MIRAGLIA, ricercatore di diritto processuale penale – Università degli Studi di Genova JEAN PAUL PIERINI, Ufficiale superiore della Marina Militare FRANCESCA VASSALLO, dottoranda di ricerca – Università degli Studi di Genova

XI

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CAPITOLO I LA COMPETENZA TERRITORIALE IN MATERIA DI CRIMINALITÀ ORGANIZZATA DI STAMPO MAFIOSO di Francesca Vassallo

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Competenza per territorio e reati associativi. – 3. L’unità dell’organizzazione di tipo mafioso ‘ndrangheta: l’autonomia delle locali e la “mafia silente”. – 4. La competenza territoriale nei recenti processi di criminalità organizzata di stampo mafioso ‘ndranghetista.

1. Premessa. Come dimostrato dalla più recente esperienza giudiziaria, le mafie storiche e, in particolare, la ‘ndrangheta calabrese hanno ormai travalicato i limiti dell’area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici nazionali un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, nonché all’estero 1. L’immediatezza e l’elevata capacità di diffusione globale dei moderni mezzi di comunicazione hanno contribuito, da un lato, a modulare le potenzialità di controllo del territorio e, dall’altro, ad accrescere la creazione di partnership con realtà economiche esterne 2 nonché una sorta di franchising tra “province” e “locali” 3. 1 La proliferazione oltre i territori d’origine e all’estero è da considerarsi come dato pacifico, puntualmente riportato nella relazione annuale 2016 della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, in cui si legge che le risultanze di importanti indagini compiute dalle diverse Direzioni Distrettuali del territorio nazionale hanno confermato «la diffusa presenza della ndrangheta in quasi tutte le regioni italiane» e «in diversi Paesi esteri, non solo europei, quali la Germania, la Svizzera e l’Olanda, ma anche negli Stati Uniti – per come confermata, da ultimo, nell’indagine “Columbus” – in Canada e in Australia, aspetto, quest’ultimo, venuto fuori con maggiore vigore nella più recente indagine “Acero-Crupi”». 2 Cfr. A. BALSAMO-S. RECCHIONE, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in www.penalecontemporaneo.it, 18 ottobre 2013. 3 Tale espressione viene utilizzata da Trib. Torino, Ufficio GIP, 8 ottobre 2012, citata da C. VISCONTI, Mafie straniere e ‘ndrangheta al Nord, in Dir. pen. cont., 2015, p. 353 ss.

1

Oggetto del presente lavoro sarà l’analisi dei criteri di determinazione della competenza territoriale per reati di criminalità organizzata di stampo mafioso, attraverso una valutazione dei criteri impiegati dalla giurisprudenza nei recenti procedimenti per il reato di cui all’art. 416-bis c.p.

2. Competenza per territorio e reati associativi. Per quanto attiene alla competenza territoriale, ai sensi dell’art. 51 comma 1, lett. a) c.p.p., nella fase delle indagini e nei procedimenti di primo grado, le funzioni del pubblico ministero sono esercitate «dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale» territorialmente competente secondo i criteri stabiliti dagli artt. 8, 9, 10 e 16 c.p.p. Tuttavia, è stata prevista, dallo stesso art. 51 comma 3-bis e dall’art. 371-bis c.p.p., una disciplina specifica per i delitti in materia di associazione di stampo mafioso, attribuendo le attività investigative alle Direzioni Distrettuali Antimafia (D.D.A.) ed eludendo l’originario istituto del collegamento delle indagini di cui all’art. 371 c.p.p. Il collegamento extradistrettuale 4 si introduce quale diretta conseguenza dell’art. 51 comma 3-bis c.p.p. che ha concentrato le indagini relative a fattispecie associative di tipo mafioso in capo «all’ufficio del pubblico ministero presso il capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente», attribuzione poi estesa per altre indagini sempre in relazione a forme di criminalità organizzata – quali quelle per i delitti commessi con finalità di terrorismo – attraverso un ampliamento del catalogo dei delitti previsti all’art. 51 comma 3-bis, tramite l’interpolazione dei commi 3-quater e 3-quinquies c.p.p. Queste previsioni costituiscono un modulo investigativo ad hoc, primum inter pares rispetto a quello generale, formante, insieme a quest’ultimo, un “doppio binario” 5: in particolare, questo binario parallelo all’originario non riguarda solo l’attribuzione distrettuale di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., ma si estende ad altri istituti del sistema processuale penale, quali le misure cautelari e le intercettazioni 6. 4 Per un approfondimento si veda D. CHINNICI, Competenza territoriale e indagini collegate in materia di associazioni di tipo mafioso, in AA.VV., Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, Giappichelli, Torino, 2013, p. 345 ss., nonché G. CANZIO-S. LIOTTA-F. SPIEZIA, La direzione nazionale antimafia e il coordinamento delle indagini di mafia dopo 20 anni: bilancio e prospettive, in Criminalia, 2012, p. 415 ss. 5 Sul punto, si veda D. CHINNICI, Competenza territoriale e indagini collegate in materia di associazioni di tipo mafioso, cit., p. 334 ss. 6 Per quanto attiene alle misure cautelari si veda M. MIRAGLIA, Delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso e custodia cautelare “quasi obbligatoria”: un percorso concluso?, in V. FANCHIOTTI-M. MIRAGLIA (a cura di), Il contrasto alla criminalità organizzata. Contributi di studio, Giappichelli, Torino, 2016, p. 85 ss. Sulle intercettazioni in materia di criminalità organizzata

2

L’analisi della disciplina della competenza per territorio per i delitti associativi di tipo mafioso non può che prendere le mosse dal disposto di cui all’art. 51 c.p.p. che usa il termine “attribuzione” delle funzioni per l’ufficio del pubblico ministero e non già quello di “competenza”, essendo quest’ultima riferibile all’attività giurisdizionale 7. Con particolare riferimento ai delitti associativi di stampo mafioso – nonché per gli altri delitti contenuti nel catalogo di cui all’art. 51 commi 3-bis, 3-quater e 3-quinquies c.p.p. – le funzioni investigative sono esercitate dall’ufficio del pubblico ministero del capoluogo del distretto di corte d’appello nel cui territorio ha sede il giudice del capoluogo distrettuale. Come si è detto, si tratta di una deroga assoluta alle regole sulla competenza per territorio, cui consegue che le funzioni esercitate dalla procura distrettuale, legittimamente radicata in relazione ad uno dei reati per il quale è prevista la deroga, si estende a tutti i reati connessi, anche più gravi, che siano di competenza di un tribunale non compreso nel distretto di quello che esercita la vis attractiva 8. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità l’art. 51 comma 3-bis c.p.p. «è entrato a far parte del sistema normativo sulla competenza in generale, con la conseguenza: a) che per i reati in esso previsti, nell’ambito del distretto, v’è deroga ad ogni altro criterio di competenza in favore dell’ufficio del P.M. presso il tribunale del capoluogo; b) che per la distribuzione della competenza del territorio delle Procure dei diversi capoluoghi (Direzioni Distrettuali Antimafia) deve aversi riguardo alle regole poste dagli artt. 8 ss. c.p.p.; c) che analogo principio deve valere per i casi di connessione di procedimenti relativi ai reati di cui al citato art. 51, avuto riguardo agli artt. 12 ss. c.p.p., e in particolare all’art. 16; d) che la regola posta dal citato art. 12 si estende anche alla competenza per territorio determinata dalla connessione, con i procedimenti relativi ai reati di cui all’art. 51, di altri procedimenti relativi ad ogni altra specie di reato, consumato o tentato, sia all’esterno sia all’interno del distretto in cui ha sede l’ufficio del p.m. del capocfr. S. FURFARO, Le intercettazioni telefoniche ed ambientali, di programmi informatici o di tracce pertenenti in un sistema informatico o telematico, in AA.VV., Il «doppio binario» nell’accertamento dei fatti di mafia, cit., p. 553 ss., nonché, per un commento alla “delega Orlando” in materia, si veda C. CONTI, La riservatezza delle intercettazioni nella “delega Orlando”, in Dir. pen. cont., 3, 2017, p. 78 ss. 7 Come sottolineato da G.P. VOENA, Soggetti, in G. CONSO-V. GREVI-M. BARGIS (a cura di), Compendio di procedura penale, Cedam, Milano, 2016, p. 58, benché il codice eviti l’impiego del termine “competenza”, riservandolo al giudice, «tuttavia, il parametro adottato è il medesimo, posto che il pubblico ministero trae la propria titolarità alle funzioni (c.d. legittimazione) in modo riflesso dalla competenza del giudice del dibattimento presso il quale è istituito». 8 In tal senso, da ultimo, Cass., Sez. I, 3 maggio 2016, n. 32765, in C.e.d. 267503. Conformi, Cass., Sez. IV, 9 dicembre 2015, n. 4484, in Proc. pen. e giust., 4, 2016, p. 56, con nota di E. ZERBINI, Intercettazioni: la Corte amplia l’autonomia del pubblico ministero; Cass., Sez. II, 13 novembre 2008, n. 6783, in C.e.d. 243300.

3

luogo; e) che lo stesso art. 51 stabilisce la competenza funzionale dell’ufficio del p.m. (D.D.A.) del capoluogo del distretto e dei tribunali compresi nello stesso distretto, nel senso che, in caso di connessione dei procedimenti prevale sempre la competenza del p.m. e dei giudici di cui al citato art. 51, anche in deroga al dettato dell’art. 16 primo comma c.p.p.» 9. In forza di tali principi, per la determinazione della competenza per territorio, qualora si versi in ipotesi di connessione tra un unico reato rientrante nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. e reati connessi, eventualmente più gravi, estranei a detta categoria, dovrà aversi riguardo esclusivamente al reato che radica la competenza funzionale di cui all’art. 51 c.p.p. con applicazione dei criteri ordinari di cui all’art. 8 c.p.p. e, quindi, delle regole suppletive di cui all’art. 9 c.p.p. Nella diversa ipotesi di plurimi reati rientranti nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., a loro volta connessi ad altri in esso non ricompresi, dovrà aversi riguardo, nell’ambito dei soli reati di criminalità organizzata, ai criteri generali di cui agli artt. 12 e 16 c.p.p., nel rispetto delle regole di interpretazione individuate dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, troveranno applicazione i principi di inscindibilità della fattispecie concorsuale nell’ipotesi di connessione oggettiva di cui all’art. 12, lett. a) c.p.p.: pertanto, in ossequio al principio del giudice naturale, la presenza di un’ipotesi di connessione oggettiva fondata sull’astratta configurabilità del vincolo della continuazione fra le analoghe, ma distinte fattispecie di reato ascritte ai diversi imputati, «è idonea a determinare lo spostamento della competenza soltanto quando l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi, giacché l’interesse di un imputato alla trattazione unitaria di fatti in continuazione non può pregiudicare quello del coimputato a non essere sottratto al giudice naturale» 10. Ne consegue che, al di fuori di questa ipotesi, la continuazione non è in grado di determinare alcuna attribuzione e conseguente spostamento di competenza, ai sensi dell’art. 15 o 16 c.p.p., ma produce i suoi effetti solo sul piano sostanziale ai fini della determinazione della pena ai sensi dell’art. 671 c.p.p. 11. Sul tema, occorre rilevare che qualora vi siano plurimi reati connessi rientranti nel catalogo di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p., deve aversi riguardo alla fattispecie concorsuale comune a tutti gli imputati mentre, nel caso in cui i delitti connessi di cui all’art. 51 comma 3-bis c.p.p. siano contestati a tutti gli imputati, dovrà aversi riguardo al reato più grave, ai sensi della combinata disposizione di cui all’art. 16 comma 3 c.p.p. in relazione all’art. 4 c.p.p. 9

Così, Cass., Sez. V, 25 maggio 1993, n. 1940, in C.e.d. 194452. Così, da ultimo, Cass., Sez. II, 28 febbraio 2017, n. 17090, in C.e.d. 269960. In senso conforme, ex multis, Cass., Sez. I, 9 gennaio 2013, n. 8526, in C.e.d. 254924; Cass., Sez. I, 20 dicembre 2012, n. 5725, in C.e.d. 254808. 11 Cfr. Cass., Sez. I, 12 novembre 1999, n. 6226, in C.e.d. 214834; si veda anche, Cass., Sez. I, 8 giugno 1998, n. 3357, in C.e.d. 210881. 10

4

Nel caso di connessione teleologica ex art. 12 comma 1, lett c) c.p.p., si sono registrate incertezze interpretative: sulla vexata quaestio dell’identità soggettiva tra gli autori del reato-fine e quelli del reato-mezzo è recentemente intervenuta la Suprema Corte nella sua più ampia composizione. Tale questione interpretativa assume un pregnante rilievo nelle prassi applicative per le immediate ricadute sull’operatività del criterio di cui all’art. 16 comma 1 c.p.p., giacché, se si intende il vincolo teleologico operante solo in caso di coincidenza soggettiva degli autori dei reati connessi con quelli del reato principale, la regola derogativa della competenza territoriale scolpita nell’art. 16 comma 1 c.p.p. risulterebbe paralizzata per i coimputati del reato-fine non chiamati contestualmente a rispondere del reato-mezzo, per i quali il processo dovrebbe svolgersi innanzi al giudice naturale, da individuarsi applicando il canone ordinario di cui all’art. 8 c.p.p. Contrariamente, se si ritiene che la connessione teleologica non postuli identità dei soggetti, lo spostamento della competenza in favore del giudice competente per il reato più grave potrebbe legittimamente predicarsi anche con riferimento ai reati commessi da coimputati non chiamati a rispondere dell’imputazione esercitante la vis attractiva. La Corte di Cassazione ha abbracciato questa seconda opzione ermeneutica ritenendo che «ai fini della configurabilità della connessione teleologica prevista dall’art. 12, lett. c), cod. proc. pen. e della sua idoneità a determinare uno spostamento della competenza per territorio, non è richiesto che vi sia identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo, ferma restando la necessità di accertare che l’autore di quest’ultimo abbia avuto presente l’oggettiva finalizzazione della sua condotta alla commissione o all’occultamento di un altro reato» 12. La peculiarità delle attribuzioni della D.D.A., «per evidenti esigenze logistico-funzionali», comporta una sorta di trascinamento quanto alla competenza del giudice per le indagini preliminari e del giudice per l’udienza preliminare. In particolare, la competenza funzionale del G.i.p. del Tribunale del capoluogo del distretto deve individuarsi sulla base della notizia di reato iscritta nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. 13, non rilevando se il giudice competente ratione loci ai sensi dell’art. 390 comma 1 c.p.p. escluda l’aggravante del metodo mafioso ed eventuali prospettazioni accusatorie circa il contesto di criminalità organizzata in cui sarebbero state commesse le condotte contestate 14. Date queste premesse, considerando le problematiche che si incontrano nel cercare di definire il locus commissi delicti di una fattispecie di reato a consumazione permanente 15, pare ancora più fondato affermare che non sia sempre 12

Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2017, n. 53390, in C.e.d. 271223. Cass., Sez. F., 18 agosto 2015, n. 35672, in C.e.d. 264512. In senso conforme, Cass., Sez. I, 10 maggio 2013, n. 27181, in C.e.d. 256370. 14 Cass., Sez. III, 18 ottobre 2016, n. 13222, in C.e.d. 269257. 15 Sul punto si veda R. BARTOLI, Sulla struttura permanente del reato: un contributo critico, in 13

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agevole, ma presenti profili di difficoltà e incertezza, determinare la competenza territoriale del giudice preposto a giudicare il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. In giurisprudenza, avuto riguardo ai criteri di individuazione della competenza per territorio in materia di reati associativi, si registrano tre principali orientamenti. Il primo, quello tradizionale, individua la competenza del giudice del luogo in cui si è costituita l’associazione. In particolare, il reato associativo, di natura permanente, si consuma nel momento e nel luogo in cui si è stretto il pactum sceleris, ossia quello in cui si costituisce il vincolo diretto allo scopo comune 16. Ove tali riferimenti difettino, soccorrono i criteri sussidiari e presuntivi «che guardano al luogo in cui il sodalizio si è manifestato per la prima volta, o a quello in cui si sono concretizzati i primi segni di operatività», ragionevolmente sintomatici della genesi dell’associazione nello spazio, essendo rilevante il luogo di consumazione dei singoli reati oggetto del pactum sceleris 17. Tuttavia, nell’ipotesi in cui non sia ancora possibile determinare la competenza per territorio secondo le regole innanzi descritte, deve attribuirsi rilievo al luogo in cui fu compiuto il primo atto del procedimento 18. Secondo altro orientamento, occorre far riferimento al luogo in cui l’associazione ha iniziato concretamente ad operare 19, ossia il luogo in cui «l’operatività del sodalizio criminoso divenga esteriormente percepibile per la prima volta» 20, Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 137; M. VALIANTE, Il reato permanente. Aspetti sostanziali e problemi processuali, ivi, 1999, p. 210. 16 Cass., Sez. I, 24 aprile 2001, n. 24849, in C.e.d. 219220 per la quale il luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, ai sensi dell’art. 8 comma 3 c.p.p., coincide con il luogo di costituzione del sodalizio criminoso «a prescindere dalla localizzazione dei reati fine eventualmente realizzati». In applicazione di tale principio, la Corte ha dichiarato competente il giudice del luogo in cui aveva sede la cooperativa agricola, alla quale era stata attribuita la qualificazione di associazione criminosa finalizzata a commettere una serie di truffe ai danni dell’A.i.m.a., ritenendo ivi costituito il sodalizio criminoso. 17 Cass., Sez. II, 3 giugno 2009, n. 26285, in C.e.d. 244666; si veda anche Cass., Sez. III, 6 luglio 2007, n. 35521, in C.e.d. 237397; Cass., Sez. VI, 23 aprile 2004, n. 26010, in C.e.d. 229972; Cass., Sez. VI, 21 maggio 1998, n. 3089, in C.e.d. 213573; Cass., Sez. I, 18 dicembre 1995, n. 6648, in C.e.d. 203609. 18 Cfr., ex multis, Cass., Sez. IV, 7 giugno 2005, n. 35229, in C.e.d. 232081. 19 In questo senso, Cass., Sez. I, 25 novembre 1992, n. 703, in C.e.d. 192783 per la quale, in relazione al reato di cui all’art. 416 c.p., «la competenza territoriale a conoscere dei reati associativi si radica nel luogo in cui la struttura associativa, destinata ad operare nel tempo, diventa concretamente operante e a nulla rileva il sito di consumazione dei singoli delitti oggetto del “pactum sceleris”». 20 Cfr. Cass., Sez. III, 10 maggio 2007, n. 24263, in C.e.d. 237333; da ultimo, Cass., Sez. I, 28 aprile 2015, n. 20908, in C.e.d. 263612, la quale ha ribadito che «ai fini della individuazione della competenza territoriale in relazione ai delitti associativi, trattandosi di reati permanenti, deve ritenersi operante il criterio di cui all’art. 8, comma terzo, cod. proc. pen., per effetto del quale il giudice cui spetta la cognizione della regiudicanda è quello del luogo in cui la struttura organizzata inizia ad essere operativa».

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con ciò non dovendosi intendere né il luogo in cui l’associazione si è costituita, né quello di esecuzione dei reati scopo 21. Infine, un ultimo e più recente orientamento guarda al locus «in cui hanno avuto luogo la programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio», ribadendo l’irrilevanza del luogo di commissione dei singoli reati-fine e quello in cui si è radicato il pactum sceleris, ma considerando il locus in cui si manifesta e realizza effettivamente l’operatività della struttura 22, ossia quello nel quale si esteriorizza l’associazione attraverso l’esecuzione dei delitti programmati 23. Questo ultimo criterio definitorio della competenza per territorio non subisce modifiche neppure laddove i delitti programmati dall’associazione, rappresentativi di una consistente operatività della stessa, siano posti in essere in loca21

Con riguardo all’associazione per delinquere di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p., hanno fatto riferimento al luogo in cui il sodalizio ha manifestato la sua operatività Cass., Sez. I, 10 dicembre 1997, n. 6933, in C.e.d. 209608 e Cass., Sez. VI, 16 maggio 2000, n. 2423, in C.e.d. 217561, per la quale, in particolare, «la competenza territoriale in ordine al reato di associazione per delinquere di tipo mafioso non può determinarsi con riferimento al luogo in cui l’associazione si è costituita né a quello in cui sono stati eseguiti i reati fine, bensì, trattandosi di reato permanente, con riguardo al luogo in cui ha avuto inizio la consumazione del reato stesso, secondo la regola dettata dall’art. 8, terzo comma, c.p.p., cioè al luogo in cui il sodalizio ha manifestato la sua operatività e, ove neppure tale luogo sia determinabile in base agli atti processuali, è necessario fare riferimento ai criteri suppletivi di cui all’art. 9». 22 Da ultimo, Cass., Sez. IV, 31 marzo 2016, n. 16666, in C.e.d. 266744. Conformi Cass., Sez. II, 3 dicembre 2015, n. 50338, in C.e.d. 265282; Cass., Sez. IV, 22 settembre 2015, n. 48837, in C.e.d. 265281; Cass., Sez. II, 15 marzo 2013, n. 26763, in C.e.d. 256650; Cass., Sez. I, 25 novembre 1996, n. 6171, in C.e.d. 206261, riguardante plurime associazioni ex art. 416-bis c.p.p. e ex art. 74 d.p.r. n. 309/1990, per la quale, «al fine della determinazione della competenza per territorio di un reato associativo, occorre far riferimento al luogo in cui ha sede la base ove si svolgono le attività di programmazione e di ideazione riguardanti l’associazione, essendo irrilevante il luogo di commissione dei singoli reati riferibili all’associazione. Tuttavia, qualora ci si trovi in presenza di un’organizzazione criminale composta di vari gruppi operanti su di un vasto territorio nazionale ed estero, i cui raccordi per il conseguimento dei fini dell’associazione prescindono dal territorio, né sono collegati allo stesso per la realizzazione dei suddetti fini, la competenza per territorio a conoscere del reato associativo non può essere individuata sulla base di elementi i quali, pur essendo rilevanti ai fini probatori per l’accertamento della responsabilità degli imputati, non sono particolarmente significativi ai fini della determinazione della competenza territoriale, essendo in contrasto con altri elementi ben più significativi i quali lasciano desumere che il luogo di programmazione e di ideazione dell’attività riferibile all’associazione non possa essere individuato con certezza». 23 Cfr. Cass., Sez. III, 21 aprile 2016, n. 35578, in C.e.d. 267635 la quale individua la consumazione del reato, ai fini della determinazione della competenza territoriale, nel luogo in cui «si realizza un “minimum” di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria per la sussistenza del reato, coincidente con quello in cui sono programmate, ideate e dirette le attività dell’associazione, ovvero in quello nel quale si esteriorizza l’associazione attraverso l’esecuzione dei delitti programmati, in tal modo manifestandosi e realizzandosi, secondo un criterio di effettività, l’operativa della società criminosa».

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lità diverse da quella in cui l’associazione è stata costituita. Infatti, la Corte di Cassazione, in più occasioni, ha affermato che la commissione dei reati-fine non possa determinare alcuna modifica alla competenza individuata secondo il criterio in parola 24 e che la connessione tra il delitto associativo e i reati-fine, comportante il superamento dell’anzidetto criterio, può sussistere solo nel caso in cui un soggetto determinato abbia, fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dall’adesione ad esso, preventivamente individuato uno o più specifici reati, nell’ambito di un generico programma criminoso, poi dallo stesso effettivamente commessi 25: in questo caso il criterio da applicarsi è quello di cui all’art. 16 c.p.p., in base al quale la competenza per territorio appartiene al giudice competente per il reato più grave ovvero, nel caso di reati di pari gravità, al giudice competente per il primo reato 26, con la precisazione che l’identità del disegno criminoso sia comune a tutti i compartecipi 27. Questa impostazione della Cassazione, che apparentemente pone un limite alla trasmigrazione territoriale dei procedimenti contro associazioni mafiose, nella prassi non ha la stessa rilevanza, risultando di non facile individuazione il luogo in cui ha sede la base ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose, ossia il luogo in cui effettivamente viene posta in essere una realtà criminosa di significativo spessore. Inoltre, tale criterio sembra avere maggiore rilievo laddove si sia in presenza di una diramazione del sodalizio che non abbia assunto una tale autonomia da poter configurare, sul piano giuridico, una nuova e diversa consorteria. Tuttavia, questa affermazione risolve il problema solo sul piano teorico, rimanendo aperta la questione di come stabilire quando nella dinamica di relazioni, propria delle dislocazioni, possa dirsi operato il taglio del cordone ombelicale dalla “casa madre” e quindi, la nascita di un nuovo sodalizio o, in altri termini, quando queste dislocazioni possano dirsi autonome al punto da costituire una nuova organizzazione. Tanto premesso, stante la presenza di gruppi criminali – organizzati sul modello ‘ndranghetista – operanti fuori dal territorio di origine, al fine di individuare la competenza territoriale, occorre interrogarsi sull’inquadramento di 24

Cass., Sez. I, 7 dicembre 2005, n. 45388, in C.e.d. 233359; Cass., Sez. II, 25 settembre 1999, n. 993, in C.e.d. 212974. 25 Così, Cass., Sez. I, 21 ottobre 2009, n. 46134, in C.e.d. 245503; Cass., Sez. I, 10 aprile 2008, n. 17831, in C.e.d. 240309; Cass., Sez. I, 7 febbraio 1991, n. 600, in C.e.d. 186709. 26 Cass., Sez. II, 4 novembre 2015, n. 45337, in C.e.d. 265031. 27 Cfr. Cass., Sez. II, 28 febbraio 2017, n. 17090, in C.e.d. 269960, per cui, in una fattispecie in tema di associazione per delinquere, la Suprema Corte ha ritenuto che erroneamente i giudici di merito avessero ritenuto il radicamento della competenza territoriale nel luogo di prima manifestazione del programma del sodalizio ossia nel luogo di commissione del fatto più grave contestato al coimputato, ma non contestato anche all’imputato, sul presupposto dell’astratta configurabilità della continuazione tra reato associativo e reati-fine.

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tali gruppi criminali come associazioni mafiose, soprattutto se collegati alle cellule operanti in Calabria, ma “silenti” in quanto ancora non manifestatesi attraverso percepiti e riconosciuti atti di intimidazione. In particolare, a tale scopo, è necessaria l’individuazione dei presupposti affinché un aggregato delinquenziale, che mutui stili e metodiche comportamentali da organizzazioni mafiose tradizionalmente operanti in altre aree geografiche del Paese, possa essere perseguito ai sensi dell’art. 416-bis c.p. e, in caso positivo, quale sia l’Ufficio territorialmente competente. In altri termini, occorre stabilire se, ai fini della configurazione della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., sia sufficiente l’adesione a “moduli organizzativi” riecheggianti famigerate organizzazioni, ovvero sia necessaria l’esteriorizzazione o esternalizzazione del metodo mafioso, vale a dire la proiezione all’esterno di siffatta metodica criminale, con i conseguenziali riflessi nella realtà ambientale, in termini di assoggettamento ed omertà. Sin d’ora si rileva che per stabilire quale sia l’Ufficio competente a decidere non solo è necessario un accertamento in concreto dei presupposti costitutivi della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., ma, altresì, è indispensabile l’accertamento di una carica intimidatoria autonoma dell’associazione locale dislocata in area lontana da quella di operatività della “casa madre”, ovvero la sua totale dipendenza ad essa: in altri termini, qualora le locali operanti fuori dal territorio su cui insiste la casa madre esistono ed operano in ontologico collegamento con la stessa, occorrerà verificare, con i criteri normativi dettati in materia di competenza territoriale, quale sia il luogo di operatività di tali organismi “madre”. La questione è stata affrontata specie con riferimento alle vicende processuali inerenti soggetti ritenuti appartenere alla ‘ndrangheta calabrese, ma residenti ed operanti in regioni diverse da quella di origine o all’estero. In particolare, si sono avuti processi che hanno riguardato la ‘ndrangheta insediata in Piemonte, Liguria e Lombardia, scaturiti da operazioni note con il nome di Minotauro e Albachiara – quanto alla ‘ndrangheta piemontese –, Infinito – circa la ‘ndrangheta insediata in Lombardia –, Maglio e La Svolta – in ordine a quella operante in Liguria. Si sostiene che le associazioni mafiose, quando si manifestano in territori “refrattari” con modalità “silenti”, “si avvalgono” della fama criminale conseguita nel corso degli anni nei territori di origine e successivamente diffusa ed esportata in altre zone del territorio nazionale ed anche oltre i confini nazionali, sicché si comprende perché il tema della mafia silente sia stato posto quando è risultata la presenza in quei territori di diverse locali di ‘ndrangheta e, in particolare, la presenza di filiazioni ed articolazioni della ‘ndrangheta calabrese in Piemonte, Lombardia e Liguria 28. 28

Sul punto, si veda R.M. SPARAGNA, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in www.penalecontemporaneo.it, 10 novembre 2015.

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Nei processi Minotauro ed Infinito, infatti, il tema della mafia silente è stato posto domandandosi se il metodo intimidatorio che si estrinseca nei territori in cui sono insediate le strutture centralizzate della ‘ndrangheta o in uno di operatività delle locali collegate o confederate possa estendersi anche alle singole strutture – e, quindi, ai singoli imputati – per le quali, in concreto, lo stesso metodo non è stato accertato.

3. L’unità dell’organizzazione di tipo mafioso ‘ndrangheta: l’autonomia delle locali e la “mafia silente”. Come si è detto, numerosi arresti giurisprudenziali hanno chiarito quali siano gli elementi da considerare ai fini della configurazione del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., con particolare riferimento alle c.d. locali. Da tali pronunce, tuttavia, ad una prima lettura, non è agevole cogliere se, ai fini della qualificazione di una locale come un’associazione autonoma, sia sufficiente l’adesione di questa a moduli organizzativi riecheggianti le organizzazioni criminali di storica fama mafiosa, ovvero sia necessaria l’esternalizzazione del metodo mafioso con i conseguenti riflessi sulla realtà ambientale in termini di assoggettamento ed omertà. La scoperta della conformazione strutturale di questa organizzazione è il risultato del procedimento denominato Crimine, la cui impostazione investigativa della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ha avuto una puntuale e definitiva conferma processuale dalla Corte di Cassazione 29. Tuttavia, ferma restando l’importanza di questa indagine che ha analizzato il fenomeno, «il suo primigenio archetipo» 30, nei luoghi in cui ha sede la “casa madre”, dove è maggiormente strutturato, dove l’organizzazione è nata e maturata per poi espandersi, occorre altresì richiamare quegli innumerevoli processi, 29

Cfr. Cass., Sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359, in C.e.d. 269040. Tuttavia, le prime avvisaglie dell’unitarietà della ‘ndrangheta risalgono agli anni Settanta, come riporta una prima sentenza del Trib. Locri, 2 ottobre 1970, n. 299, c.d. operazione Montalto, seguita dalle sentenze rese nel c.d. processo Armonia, in particolare Corte app. Reggio Calabria, 11 luglio 2002, n. 1512 che, riportandosi alle determinazioni assunte in primo grado dal tribunale, enfatizzava come «pur non considerando allo stato raggiunta la prova dell’esistenza di una dimensione “provinciale” dell’associazione mafiosa, nella quale cioè opererebbero in confederazione tutte le cosche del territorio provinciale reggino, ha comunque ritenuto (...) che potesse affermarsi l’esistenza, nell’organizzazione ‘ndranghetista, di un processo “evolutivo di tipo piramidale”, proteso in direzione di un maggiore accentramento soprattutto in relazione alle decisioni più importanti e delicate, in vista del raggiungimento di quegli obiettivi tipici dell’associazione mafiosa, ed anche al fine di garantire la sopravvivenza e la prosperità dell’“istituzione criminale denominata ‘ndrangheta”». 30 In questi termini, Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Relazione annuale, dicembre 2012.

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celebrati negli ultimi anni – alcuni ancora in corso e altri definiti – che hanno permesso di comprendere in maniera più concreta l’estensione e la proliferazione del fenomeno negli altri territori nazionali e internazionali. Ciò che è emerso è un’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata ‘ndrangheta 31, storicamente nata e sviluppatasi in varie parti della provincia di Reggio Calabria che «ha assunto via via nel tempo ed in un contesto di trasformazione ancora non concluso, una strutturazione unitaria, tendente a superare il tradizionale frazionamento ed isolamento tra le varie ‘ndrine: sicché, come significativamente emerso anche nella parallela indagine milanese c.d. Infinito, la ‘ndrangheta non può più essere vista in maniera parcellizzata come un insieme di cosche locali, di fatto scoordinate, i cui vertici si riuniscono saltuariamente (pur se a volte periodicamente), ma come un “arcipelago” che ha una sua organizzazione coordinata ed organi di vertice dotati di una certa stabilità e di specifiche regole» 32. Inoltre, tale unitarietà, «a differenza di quanto è stato giudizialmente accertato per la mafia siciliana (con la “cupola” o “commissione” di Cosa Nostra) fa pienamente salva la persistente autonomia criminale delle diverse strutture territoriali (ivi comprese quelle operanti nel Nord Italia, in primis la c.d. Lombardia)» 33. Alla base dell’organizzazione, quale cellula primaria, vi è la ‘ndrina, composta solitamente da soggetti appartenenti ad una stessa famiglia e legati da rapporti di sangue, che, pur essendo legittimata ad una autogestione, risponde alla locale o società di riferimento che le è sovraordinata. Quest’ultima, composta da almeno sette ‘ndrine o circa cinquanta affiliati 34, controlla in modo 31 Per lungo tempo si è ritenuto che il termine ‘ndragheta significasse “virtù propria dell’uomo”, dal greco andragathia, derivante anche dai legami storici di vari insediamenti calabresi con l’antica Grecia. Si legge in Trib. Reggio Calabria, Ufficio GIP, 8 marzo 2012, operazione Crimine, che «il termine andranghatos (che nel mondo greco arcaico designava l’uomo valoroso) è da alcuni ritenuto all’origine del nome ‘ndrangheta»; in senso analogo F. VARESE, Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi, Torino, 2011, p. 49. Successivamente si è invece accertato che Andrangathia regio era riferibile ad un territorio diverso rispetto all’attuale Calabria, ossia al luogo dove vi erano insediati i Lucani considerati da tutti combattenti fieri e valorosi, da qui il nome. Lo studio condotto da Alberto Nocentini (Camorra, mafia, ‘ndrangheta. Parte III: origine di ‘ndrangheta, in www.accademiadellacrusca.it, 7 aprile 2014), sull’origine etimologica del termine ha portato a far emergere altro: la derivazione greca della parola ‘ndrangheta non sarebbe corretta, poiché nel volume secondo del Vocabolario Siciliano (G. TROPEA (a cura di), Vocabolario Siciliano, vol. II, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Catania-Palermo, 1985) la voce ‘ndràngheti (associazione mafiosa) è segnata con i sinonimi ‘ntràgniti e ‘ntrànchiti e, questa seconda forma, coincide per giunta con l’omonima forma ‘ntrànchiti (frattaglie, intestino, interiora della capra); sul piano semantico quindi, «il significato di interiora, intestini ha assunto quello metaforico di membri uniti da un legame interno, profondo, esclusivo e riservato, e quindi uomini d’onore». 32 Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011. 33 Ibidem. 34 Il numero di affiliati minimo richiesto per la costituzione della locale è emerso essere di

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capillare e in autonomia il territorio di sua competenza e, a sua volta, si struttura secondo lo schema della c.d. doppia compartimentazione: la Società Maggiore e la Società Minore 35. Tali locali possono costituirsi solo se vi è l’autorizzazione del Crimine di San Luca o di Polsi, detto “La Mamma” 36. Diversamente dalla locale situata in un determinato territorio, le ‘ndrine distaccate sono quelle attivate nel territorio di altre locali, ma che sono strettamente collegate solo alla locale calabra di riferimento. cinquanta (cfr. processo Primavera, Corte ass. App. Reggio Calabria, 15 giugno 2005, citata da Trib. Imperia, 7 ottobre 2014), ad eccezione di quelle situate al nord per le quali la regola non è rigidamente osservata e possono costituirsi locali anche con un numero inferiore di affiliati. Tale eccezione è emersa nel procedimento denominato “La Svolta”, Trib. Imperia, 7 ottobre 2014, in cui un collaboratore di giustizia ha dichiarato che «il numero per regola doveva essere quarantanove, cinquanta, ma hanno aperto locali dai dodici ai quindici persone, dieci persone […] Ma per fare numero. Questo succede nelle regioni del nord, per fare numero, per far sì che costituiscono un crimine». 35 Della Società Minore fanno parte: il giovane d’onore, qualifica cui non corrisponde un vero e proprio grado trattandosi di un’affiliazione per “diritto di sangue” che viene assegnata al momento della nascita ai figli degli ‘ndranghetisti; il picciotto d’onore, primo vero e proprio grado, è un gregario, esecutore di ordini, la c.d. fanteria della cosca; il camorrista, affiliato di una certa importanza, che svolge quelle attività che non possono essere svolte dal picciotto d’onore; lo sgarrista, che è un affiliato di rilievo, rappresenta l’ultimo gradino della Società Minore. Della Società Maggiore fanno, invece, parte: il santista, primo grado; il vangelo, grado che si ottiene con una “meritevole” condotta delinquenziale; il quartino, colui che possiede un quarto della massima carica di padrino; il trequartino, colui che possiede invece i tre quarti della massima carica di padrino; il padrino, grado apicale attribuito ad un ristretto numero di affiliati, che costituiscono una sorta di oligarchia con diversi privilegi e responsabilità. Sempre all’interno della Società Maggiore ci sono alcune cariche particolari, che possono essere anche vitalizie: il capobastone o capo locale, ossia colui che è al comando della locale; il capo società, ossia il vice del capo locale; il contabile, carica elettiva, è colui che gestisce le finanze della locale; il crimine, da non confondere con l’organo di vertice, è il “braccio violento” della locale, si occupa di pianificare le azioni delittuose; il mastro di giornata è colui che ha funzioni di raccordo tra la Società Maggiore e la Minore, sovraintende alle attività quotidiane e informa i sodali della convocazione delle riunioni e di altre novità. Chi non fa parte dell’organizzazione viene detto contrasto, mentre i non appartenenti ma di cui l’organizzazione stessa può fidarsi sono detti contrasti onorati e rappresentano quell’area di contiguità o di consenso alla ‘ndrangheta che la rende diffusa ed accettata sul territorio: quest’ultima categoria rimanda alla figura del concorrente esterno. Sulle cariche funzionali dei sodali si veda Trib. Reggio Calabria, Ufficio GIP, 8 marzo 2012, cit.; Trib. Locri, 19 luglio 2013, n. 242; Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011; Trib. Torino, Ufficio GIP, 8 ottobre 2012; Trib. Imperia, 7 ottobre 2014, cit. evidenzia come la Società Maggiore, termine già impiegato nel procedimento Armonia (Trib. Reggio Calabria, 26 ottobre 2002), sia formata da sette affiliati con il grado di santa e che la riunione della stessa sia indicata, in gergo, con il termine “santa” e “fare a sette”. 36 Cfr., tra le altre, Trib. Imperia, 7 ottobre 2014, cit., in cui si riportano le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sul punto: «per far sì che il locale venga attivato venga aperto e venga riconosciuto, chi ha intenzione di aprire il locale ha l’obbligo di avere l’avvallo, l’autorizzazione e la libera da San Luca […]. Senza l’avvallo di San Luca il locale verrebbe immediatamente dichiarato “bastardo” e non verrebbe riconosciuto da nessun componente ‘ndranghetista», «praticamente si deve chiedere il permesso alla mamma».

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Le singole locali, disseminate sul territorio, compongono a loro volta i c.d. Mandamenti, i più importanti dei quali sono situati nella provincia di Reggio Calabria, ossia fascia ionica, fascia tirrenica e il Crimine di Polsi, quale organo decisionale di vertice: questi tre mandamenti hanno compiti funzionali diversi, il «mandamento jonico e quello tirrenico sono cuore e membra, la testa non può che essere il Mandamento del centro» 37. Quello che più rileva è che l’organismo di vertice denominato Crimine o Provincia che, «seppur non sembra intervenire direttamente nella concreta attività criminale gestita in autonomia dai singoli locali di ‘ndrangheta, svolge indiscutibilmente un ruolo incisivo sul piano organizzativo, innanzitutto attraverso la tutela delle regole basilari dell’organizzazione (una sorta di “Costituzione” criminale), quelle, in definitiva, che caratterizzano la Ndrangheta in quanto tale e ne garantiscono la riconoscibilità nel tempo e nello spazio, anche lontano dalla madrepatria Calabria; quindi garantendo il mantenimento degli equilibri generali, il controllo delle nomine dei capi-locali e delle aperture di altri locali, il nulla osta per il conferimento di cariche, la risoluzione di eventuali controversie, la sottoposizione a giudizio di eventuali comportamenti scorretti posti in essere da soggetti intranei alla ‘ndrangheta» 38. Altro profilo da cui si manifesta l’unitarietà è quello psicologico, consistente «nella adesione da parte di ogni singolo accolito ad un progetto criminale collettivo proprio della associazione nel suo complesso, accomunato da identità di rituali di affiliazione (e dalla comunanza della c.d. copiata, cioè della terna di soggetti abilitati a conferire determinate cariche, come la santa), dal rispetto di regole condivise, dal comune sentire di appartenere ad un corpus più ampio, che coinvolge non solo le cosche tradizionalmente operanti nel territorio di origine (provincia di Reggio Calabria), ma anche le cosche che, pur se più o meno distanti (Serre vibonesi, Lombardia, Piemonte, Liguria, Germania, Canada, Australia) si riconoscono nel c.d. Crimine di Polsi (i locali c.d. allineati)». Richiamando quanto evidenziato dal Giudice di Torino 39, inoltre, altro elemento corroborante l’unitarietà dell’associazione è dato dal contributo degli affiliati alla “Mamma”, il cui invio periodico, al fine di «sostenere iniziative e azioni che non riguardano direttamente il singolo territorio da cui proviene il denaro, ma l’associazione nel suo complesso», rappresenta la comune appartenenza all’organizzazione fornendole un aiuto economico in modo stabile, in forma non episodica, cronologicamente cadenzato, realizzando «uno stabile e continuo approvvigionamento di risorse finanziarie con la consapevolezza, da parte dei singoli, della importanza decisiva ai fini del sostentamento e sopravvivenza dell’intero sodalizio». 37

Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Relazione annuale, 2015. Trib. Reggio Calabria, Ufficio GIP, 8 marzo 2012, cit. 39 Trib. Torino, Ufficio GIP, 8 ottobre 2012, cit. 38

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Sull’unitarietà della ‘ndrangheta si è definitivamente pronunciata la stessa Corte di Cassazione nel procedimento Minotauro 40, nella quale è stata evidenziata l’esistenza di «legami fra i vari locali di cui in imputazione (al punto da postularne la riconducibilità ad un’entità sostanzialmente unitaria) e la casa madre reggina». Sul tema del metodo intimidatorio, poi, la sentenza ha sostenuto che l’associazione piemontese, ritenuta entità sostanzialmente unitaria, aveva concreta capacità di intimidazione, per un verso derivata dall’originaria filiazione e dal perdurante legame con la ‘ndrangheta storicamente insediata nella provincia di Reggio Calabria – di cui aveva mantenuto modalità organizzative e comportamenti mafiosi –, per altro verso manifestatisi in via autonoma, con concreti e specifici episodi, verificatisi in territorio piemontese 41. Può, dunque, parlarsi di una sorta di doppio binario in cui la correlazione con la casa madre è considerata fonte dell’“avvalimento” 42 del metodo intimidatorio mafioso, accompagnata all’estrinsecazione di tale metodo in alcune specifiche occasioni. Tuttavia, nella medesima sentenza, la Suprema Corte, pur ribadendo che il metodo intimidatorio si era oggettivamente manifestato, ha fornito una definizione di “mafia silente” nei seguenti termini: «[…] meglio sarebbe ridefinire la nozione di cd. Mafia silente non già come associazione criminale aliena dal cd. Metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione – per certi versi ancora più temibile – che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». L’unità dell’associazione mafiosa di origine calabrese è, ancora più chiaramente, ribadita nella sentenza con cui è stata confermata la pronuncia di condanna nei confronti degli appartenenti alla locale di ‘ndrangheta del “basso 40

Cass., Sez. II, 23 febbraio 2015, n. 15412, in DeJure. La Corte, infatti, ha evidenziato che alcuni affiliati inseriti in determinate locali, per assumere il controllo di attività economiche e per commettere delitti – sovente estorsioni ai danni di imprenditori e commercianti – si erano concretamente avvalsi della forza di intimidazione che promana dalle associazioni mafiose con conseguente assoggettamento delle vittime e omertà, intravista nel rifiuto di queste nel collaborare con gli inquirenti. Dunque, secondo la Corte, il metodo intimidatorio si era esteriorizzato determinando nella comunità piemontese le condizioni di assoggettamento e di omertà. Pertanto, si è confermata la sentenza di condanna pronunciata dai giudici di merito anche nei confronti degli affiliati organici ad alcune locali per le quali il metodo intimidatorio non si era obiettivamente manifestato. 42 Il termine è impiegato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità per indicare l’avvalersi, da parte delle articolazioni ‘ndranghetiste del metodo intimidatorio mafioso proprio della “casa madre”, mutuandolo dall’istituto dell’avvalimento, appunto, di derivazione comunitaria, applicabile nel campo dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, con il quale si consente a un’impresa di concorrere a una gara, pur essendo priva dei requisiti, avvalendosi di quelli posseduti da un’altra impresa. 41

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Piemonte”. Si tratta, cioè, della sentenza resa in ordine alla c.d. operazione Albachiara, in cui la Corte di legittimità ha evidenziato come entrambe le sentenze di merito avessero riconosciuto l’esistenza di una struttura criminale riconducibile al tipo normativo ‘ndrangheta, cui diversi imputati avevano ammesso di appartenere e, pronunciandosi in ordine al contrasto sull’esigenza della mera potenzialità o della reale attualità della forza intimidatrice, ha affrontato la questione partendo dalle modalità con cui la criminalità organizzata si manifesta. In particolare, si evidenzia come esistano strutture criminali autonome e originali che, tuttavia, possono fare ricorso allo stesso modus operandi, avvalendosi della forza dell’intimidazione che promana dalle forme criminali associative mafiose. Dall’altro, in diversi casi, le compagini associative non risultano connotate da autonomia e originalità costitutiva, risultando articolazioni della tradizionale organizzazione mafiosa «in stretto rapporto di dipendenza o, comunque, in collegamento funzionale con la casa madre». La differenza – osserva la Corte – è irrilevante in quanto, nel primo caso, quello della compagine criminale autonoma ed indipendente, è indispensabile l’accertamento in concreto dei presupposti costitutivi della fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., essendo necessario verificare come l’organizzazione si sia proposta nell’ambiente circostante e, cioè, se ivi abbia determinato il clima di soggezione ed omertà, generato dalla manifestazione all’esterno del metodo mafioso. Nella seconda fattispecie, invece, la nuova compagine associativa, lungi dall’essere geneticamente autonoma e priva di legami con le associazioni mafiose storiche, risulta un’articolazione dell’organizzazione mafiosa storicamente radicata nelle regioni che tradizionalmente ne hanno visto la genesi e si evidenzia, infatti, che «la mafia, e più specificamente la ‘ndrangheta che di essa è, certamente, l’espressione di maggiore pericolosità, ha ormai travalicato i limiti dell’area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso». Logica e consequenziale appare, dunque, la conclusione per cui «pretendere che in presenza di una simile caratterizzazione delinquenziale, con inconfondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è, certamente un fuor d’opera […] Ed infatti, l’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce l’in sé della ‘ndrangheta mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve allora, spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente – se esistente – con l’organizzazione di base». Logico corollario, se si vuole, è l’affermazione della Suprema Corte sulla natura unitaria della ‘ndrangheta: «alla luce di recenti acquisizioni investigative e giudiziarie» non esistono «distinte ed autonome espressioni ‘ndranghetiste, 15

posto che la ‘ndrangheta è fenomeno criminale unitario, articolato in diramazioni territoriali, intese locali, dotate di sostanziale autonomia operativa, pur se collegate e coordinate da una struttura centralizzata». Proprio tale argomentare pare convincente, sia perché si fonda su dati di carattere sociologico che paiono insuperabili, sia per l’atteggiarsi del fenomeno criminale che si è tradotto nell’avere la ‘ndrangheta permeato ogni possibile centro vitale del Paese, manifestando una capacità diffusiva sul territorio nazionale, che non è altro che estrinsecazione essa stessa della capacità delinquenziale che è insita nel sistema criminale su cui si fonda. Non a caso, di recente, le attività investigative durate per anni sono risultate tutte convergenti nel senso di affermare la natura unitaria del fenomeno mafioso, palesandone la capacità di “invadere” ogni territorio produttivo e, in particolare, di “esportarvi” il proprio metodo operativo, senza dover necessariamente ricorrere ad eclatanti manifestazioni del proprio agire mafioso. Ciò che viene evidenziato, per quanto attiene agli appartenenti alla locale del basso Piemonte e di alcune delle singole locali piemontesi – ovvero quelle per cui il metodo mafioso non si è estrinsecato – è il fenomeno di osmosi del metodo intimidatorio che si verifica per il semplice collegamento strutturale o organizzativo con altre strutture della ‘ndrangheta “centralizzate” o “dislocate sul territorio” per le quali, invece, il metodo si è concretamente manifestato. Analoga interpretazione si rinviene nelle sentenze relative all’operazione Infinito 43 in cui si è affermato che «le numerose “locali” istituite presso diversi comuni delle province lombarde, ognuna delle quali avente una propria tendenziale autonomia funzionale, si fossero, per così dire, consorziate ovvero confederate tra loro all’interno di una più ampia struttura, detta “La Lombardia”, cui erano state assegnate funzioni di coordinamento tra le singole “locali” e di unitaria rappresentanza delle stesse verso l’esterno», aggiungendo che «le vicende criminali di quel raggruppamento di più “cellule”, appunto “La Lombardia”, fossero state qualificate da una costante tensione con gli affiliati all’organizzazione-madre calabrese, vivendo situazioni di acceso contrasto con coloro che, dalle regioni del Sud, avevano sperato di poter dirigere le iniziative delinquenziali degli appartenenti ai gruppi nordici, laddove questi ultimi, pur nel rispetto dovuto a chi di quelle regole associative era stato il fondatore, avevano alla fine acquisito una propria autonomia decisionale ed operativa». Anche in questo caso, come nel processo Minotauro, risultano dimostrati collegamenti organizzativi tra le locali insediate nel territorio lombardo, tra di loro consorziate o confederate e, quindi, caratterizzate da unitarietà. Un simile vincolo, secondo la Corte, giustifica l’estensione del metodo intimidatorio manifestatosi solo per alcune singole strutture locali. Tuttavia, a differenza del processo Minotauro, la ‘ndrangheta lombarda, per come emersa nel processo 43

Cfr. Cass., Sez. VI, 5 giugno 2014, n. 30059, in C.e.d. 262398; Cass., Sez. II, 26 maggio 2015, n. 36447, in DeJure.

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Infinito, pur rimanendo fortemente collegata dal punto di vista organizzativo alla Calabria, presentava istanze autonomistiche rispetto alle strutture “centralizzate” e, proprio sul punto, il tragico epilogo delle istanze secessioniste di Novella Carmelo – capo de “La Lombardia” dal 15 agosto 2007 sino al 14 luglio 2008, giorno in cui è stato assassinato a seguito di dissapori con i rappresentanti della ‘ndrangheta storica – ben rappresenta quale fosse il grado di dipendenza della stessa La Lombardia dal Crimine 44. La condanna, divenuta definitiva, ha riguardato anche affiliati alla ‘ndrangheta lombarda inseriti in alcune locali – Bresso e Canzo – relativamente alle quali il metodo intimidatorio non si era esteriorizzato: la riscontrata unitarietà e l’autonomia funzionale, pertanto, hanno permesso di estendere ad esse le manifestazioni del metodo intimidatorio riconducibili a soggetti inseriti in altre locali confederate e, quindi, unitarie. In un’altra vicenda processuale, connessa al processo Minotauro, la Corte di Cassazione ha specificato ed elaborato i concetti di “mafia silente” e di collegamento organizzativo tra strutture delinquenziali ‘ndranghetistiche nella loro sostanziale unitarietà. Si tratta dell’operazione Colpo di Coda 45 in cui è emersa l’effettuazione di una “colletta” da parte degli affiliati non ristretti a favore di quelli detenuti per il processo Minotauro, la costituzione di una nuova locale di ‘ndrangheta – quella di Livorno Ferraris – e la ricorrenza di fatti dimostrativi dell’estrinsecazione del metodo intimidatorio e del controllo del territorio. Nei relativi provvedimenti, la Suprema Corte ha rinvenuto la caratteristica tipica dell’associazione mafiosa ‘ndrangheta nella capacità, dovuta alla fama acquisita mediante atti di violenza o di minaccia a danno di chiunque ne ostacoli l’attività, di incutere timore per la loro stessa esistenza: “cattiva fama” acquisita mediante pregresse attività criminali che, per il loro spessore qualitativo, territoriale, mediatico hanno conferito una capacità “promozionale” 44 A tal riguardo, nella sentenza di primo grado del processo Infinito, Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, si evidenzia come «Carmelo Novella (detto compare Nunzio), subito dopo la scarcerazione, tornava in territorio lombardo e tentava di tirare le fila delle locali di ‘ndrangheta presenti, prospettando ai rispettivi capi l’ambizioso progetto di rendere le locali lombarde autonome rispetto a quelle calabresi di riferimento e, al tempo stesso, di renderle “dipendenti” dalla Lombardia e dal suo capo, cioè da se stesso. Un disegno che si prospetta “rivoluzionario” proprio perché fa venir meno uno dei cardini su cui si fonda il sistema ‘ndrangheta, vale a dire la “sovranità” della singola locale, e recide, altresì, il cordone ombelicale tra la madre patria calabrese e le sue affiliazioni al nord. Chiaramente, una simile idea non poteva che trovare l’opposizione della “madrepatria”, dei capi lombardi con più stretti legami con il paese d’origine (poiché la ‘ndrangheta si fonda essenzialmente su vincoli parentali) e degli “anziani”, cioè degli ‘ndranghetisti di lungo corso». 45 Trib. Torino, Ufficio GIP, ord. 10 ottobre 2012; Cass., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 35997, in C.e.d. 256947; Cass., Sez. V, 19 marzo 2013, n. 28531, in DeJure; Cass., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 35998, ivi; Cass., Sez. V, 24 aprile 2013, n. 28332, ivi; Cass., Sez. V, 7 maggio 2013, n. 28337, ivi; Cass., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 35999, ivi.

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all’espansione del timore, dell’assoggettamento e dell’omertà nella collettività originaria calabrese ed in tutte le altre in cui l’associazione abbia deciso di radicarsi e di agire. Pertanto, si è ritenuto che l’azione del sodalizio “delocalizzato” sia finalizzata alla realizzazione del programma finale e di un programma intermedio, identificato nell’intenzione di ricorrere alla forza del vincolo associativo, ove il messaggio – fondato sulla fama – non abbia dato i previsti risultati di adeguamento degli altrui comportamenti 46, ma anche l’aspetto organizzativo costituito dall’autotutela associativa rispetto all’azione repressiva dello Stato, desumibile dalla «colletta in denaro» a favore di altri affiliati detenuti, costituente aspetto sintomatico di appartenenza al sodalizio se non giustificata da altra dimostrata causale diversa dalla spiegazione di appartenenza alla ‘ndrangheta sostenuta dall’accusa 47. La Corte, in tali decisioni, critica l’orientamento giurisprudenziale per cui il metodo mafioso deve necessariamente avere i connotati di esteriorizzazione se le articolazioni delocalizzate si inseriscono ed agiscono in un contesto sociale diverso, non originario, alieno a soggiacere alla subcultura mafiosa, al rifiuto verso l’ordine e la legalità, in cui non sia rinvenibile l’humus in cui alligna e prolifera la devianza mafiosa. Il prevalere dell’indirizzo che ritiene irrinunciabile la prova di una condotta positiva dei sodali dai chiari sintomi di mafiosità, empiricamente percepibili, «porrebbe problemi interpretativi dall’esito necessariamente incerto in sede giudiziaria, quali la ricostruzione e il rilievo da attribuire alle condizioni socio-culturali dei territori e delle popolazioni autoctone, i criteri di misurazione della resistenza locale al metodo mafioso, la possibilità che, all’esito della misurazione della permeabilità del territorio alla cattiva fama dell’associazione di cui gli emigranti appaiano esponenti, tali condizioni siano idonee a supplire ad un deficit di sintomi di mafiosità empiricamente percepibili, la variabilità della rilevanza penale di medesimi comportamenti nei diversi territori dell’Italia costituzionalmente unita, ma economicamente e culturalmente frazionata» 48. La stessa vicenda processuale è occasione per un’altra rilevante affermazione, laddove, in particolare, si evidenzia che le strutture “delocalizzate” sono 46

Così, in particolare, Cass., Sez. V, 5 giugno 2013, n. 35997, cit. Cass., Sez. V, 19 marzo 2013, n. 28531, cit. In particolare, la partecipazione alla colletta «comporta la qualificata probabilità che» l’indagato che vi partecipa «collegato ad altre persone di origine calabrese, a loro volta collegate con l’associazione criminosa ‘ndrangheta, partecipi a una consorteria delinquenziale, che ha mutuato “il metodo mafioso da stili comportamentali in uso a clan operanti in altre aree geografiche” (sez. 5, n. 19141 del 13/2/06, rv. 234403) e per cui l’utilizzazione della forza intimidatoria non sia ricollegabile a una specifica, attuale condotta violenta o minacciosa degli associati, ma a una situazione creata da una pregressa, vigente, attuale carica intimidatrice dell’associazione madre». 48 Cass., Sez. V, 19 marzo 2013, n. 28531, cit. 47

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articolazioni della ‘ndrangheta calabrese che, tuttavia, hanno acquisito autonomia rispetto ad essa e che hanno conseguito nell’ambiente in cui operano un’effettiva capacità di intimidazione «anche se non ancora estrinsecata nella commissione di reati fine e anche se non ancora in pieno percepita nell’area geografica operativa, risultando evidente che l’organizzazione avesse in progetto proprio la realizzazione di reati fine» 49. Altre pronunce della Suprema Corte, invece, nell’affrontare il tema dell’unitarietà dell’associazione, hanno criticato quanto emerso nel caso Minotauro, da un lato ritenendo imprescindibile la percezione o la obiettiva percepibilità del metodo mafioso da parte di soggetti posti pariteticamente in condizioni di avvertirlo 50 e, dall’altro, non condividendo il tema dell’unitarietà affermando che il metodo intimidatorio deve realizzarsi in modo che sia percepibile anche in quei territori autoctoni e quindi deve manifestarsi come strumento di soggezione e di perseguimento dei fini illeciti associativi, non ritenendo «necessaria una sorta di validazione del metodo mafioso della casa madre, per cui se una diramazione non è riconosciuta dalla casa madre e dalle filiali ufficiali non è mafia» ma che i metodi della struttura delocalizzata siano percepiti all’esterno come tali, indipendentemente dalla circostanza che la compagine faccia parte della rete mafiosa ufficiale o ufficiosa 51. Pertanto, non assume alcun rilievo come la compagine mafiosa si colloca in quella originaria e se da quest’ultima venga riconosciuta, in quanto ciò che è essenziale è che la stessa venga percepita come tale all’esterno. Sempre in tema di esteriorizzazione del metodo intimidatorio, la Corte di Cassazione ha altresì affermato che la capacità intimidatrice della compagine criminale deve essere attuale, effettiva e deve necessariamente avere un riscontro esterno, concretandosi in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti, come richiesto dalla norma utilizzando il termine “avvalersi”. Pertanto, a parere della Corte, l’esteriorizzazione del metodo è necessaria ed incontrovertibile, anche in presenza di strutture delocalizzate, salvo che queste siano in rapporto di stretta dipendenza con la casa madre. Se, invece, la struttura delocalizzata, pur mantenendo rapporti di collegamento con la casa madre, ha assunto autonomia e un’indipendenza costitutiva che realizza una realtà associativa del tutto distinta, il metodo intimidatorio deve estrinsecarsi. 49

Cass., Sez. II, 19 giugno 2015, n. 28091, in DeJure. In tale pronuncia il profilo dell’unitarietà è connesso a quello di autonomia della struttura e anche con l’estrinsecazione, pur se non ancora pienamente percepita sul territorio, della capacità intimidatoria; emerge il tema del principio dell’avvalimento del metodo intimidatorio che si ritiene essere da solo sufficiente ad integrare la violazione dell’art. 416-bis c.p. 50 Cass., Sez. V, 20 dicembre 2013, n. 14582, in DeJure. 51 Cass., Sez. I, 28 marzo 2012, n. 13635, in C.e.d. 252358, avente ad oggetto il caso della locale di Salassa, definita “Bastarda” poiché era stata aperta in assenza delle prescritte autorizzazioni provenienti dalle strutture “centralizzate” della ‘ndrangheta calabrese.

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Quanto sino ad ora affermato dimostra come il tema sia stato affrontato e risolto in termini non univoci nell’ambito della giurisprudenza di legittimità 52. Tuttavia, può concludersi affermando che dirimente per la valutazione giuridica della nuova entità dislocata è la verifica, da svolgersi con riferimento a quest’ultima, degli elementi costituitivi del reato di cui all’art. 416-bis c.p. a prescindere dalla variabile dei rapporti interni della medesima con la “casa madre” e senza che sia «necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito dalla connotazione finalistica richiesta dalla norma incriminatrice» 53.

4. La competenza territoriale nei recenti processi di criminalità organizzata di stampo mafioso ‘ndranghetista. Venendo ora ad esaminare come i giudici di merito hanno affrontato la questione della competenza territoriale in alcuni procedimenti per associazione di stampo mafioso di tipo ‘ndrangheta celebrati negli ultimi anni, si rileva che quasi in tutti i procedimenti, ad eccezione de “La Svolta” sono state sollevate dalla difesa questioni di incompetenza territoriale, talvolta sostenendo l’unitarietà dell’organizzazione ‘ndrangheta al fine del radicamento della competenza presso il Tribunale reggino, altre volte sostenendo l’autonomia della locale insistente in altre regioni rispetto alla “casa madre”. Emerge una chiara difficoltà nell’uso dei criteri – di cui si è detto in precedenza – per il radicamento della competenza territoriale e ciò si evince chiaramente nel processo Infinito, in cui la Procura della Repubblica di Milano – Direzione Distrettuale Antimafia aveva deciso di procedere nei confronti degli imputati per aver fatto parte dell’associazione di tipo ‘ndranghetista denominata “La Lombardia”, ossia una associazione autonoma di coordinamento delle locali site nella regione Lombardia, indipendentemente dalla partecipazione degli imputati stessi ad una singola locale. Questa associazione autonoma, si legge nel capo di imputazione, si era riunita più volte in diversi luoghi in provincia di Milano, Como e Varese. 52

Con provvedimento del Primo Presidente della Corte di Cassazione del 28 aprile 2015, è stata esclusa la ravvisabilità di un contrasto giurisprudenziale in merito alla c.d. mafia silente in ragione della convergenza delle decisioni in materia nell’affermazione del principio secondo cui «l’integrazione della fattispecie di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non solo potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti». 53 Verifica da compiersi attraverso una «corretta valutazione delle evidenze probatorie secondo consolidate regole di inferenza logica», così Cass., Sez. II, 4 aprile 2017, n. 24851, in C.e.d. 270442, relativa al procedimento denominato Maglio 3.

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Sollevata questione di incompetenza territoriale dell’autorità giudiziaria milanese, per quello che qui interessa, il giudice ha ritenuto la propria competenza sulla base dell’art. 8 comma 3 c.p.p. facendo riferimento al locus commissi delicti, ossia al luogo in cui ha avuto inizio la consumazione poiché, «pur in difetto di elementi storicamente certi in ordine alla genesi del vincolo associativo, soccorrono criteri presuntivi, che valgono a radicare la competenza territoriale nel luogo in cui il sodalizio criminoso si manifesta per la prima volta all’esterno, ovvero in cui si concretano i primi segni della sua operatività ragionevolmente utilizzabili come elementi sintomatici della genesi dell’associazione nello spazio» 54, abbracciando l’orientamento che faceva coincidere il momento di consumazione del reato permanente con il momento in cui l’operatività del sodalizio criminoso si esternalizzava per la prima volta, senza operare alcun richiamo alla sede di programmazione, direzione e ideazione. Pertanto, richiamando i luoghi in cui per la prima volta l’associazione si era riunita, entrambi ricompresi nel circondario del Tribunale di Milano 55, ha ritenuto la propria competenza. Nel recentissimo procedimento denominato Alchemia, il Tribunale di Palmi ha dovuto affrontare la reiterata eccezione di incompetenza avanzata da un imputato per reati-fine connessi a quello di cui all’art. 416-bis c.p., che invocava la competenza del Tribunale di Savona, sul rilievo che il criterio di attrazione della competenza territoriale dettato dall’art. 16 comma 1 c.p.p., nel caso di procedimenti connessi ex art. 12, lett. c) c.p.p., opererebbe solo a condizione che vi sia identità soggettiva degli autori del reato-fine rispetto a quelli del reato-mezzo. Sull’eccezione il Tribunale si è pronunciato ritenendo la pro54

Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, in cui si fa espresso richiamo a Cass., Sez. I, 18 dicembre 1995, n. 6648, in C.e.d. 203609, a Cass., Sez. III, 10 maggio 2007, n. 24263, in C.e.d. 237333 e a Cass., Sez. VI, 23 aprile 2004. Come evidenziato anche da Cass., Sez. III, 21 aprile 2016, n. 35578, in C.e.d. 267635, «ai fini della determinazione della competenza per territorio nei reati associativi, la consumazione deve ritenersi avvenuta nel luogo in cui si realizza un “minimum” di mantenimento della situazione antigiuridica necessaria per la sussistenza del reato, coincidente con quello in cui sono programmate, ideate e dirette le attività dell’associazione, ovvero in quello nel quale si esteriorizza l’associazione attraverso l’esecuzione dei delitti programmati, in tal modo manifestandosi e realizzandosi, secondo un criterio di effettività, l’operativa della società criminosa». Tuttavia, laddove non possa determinarsi la competenza sula base del locus commissi delicti, quale luogo in cui ha sede la base ove si svolgono programmazione, ideazione e direzione delle attività criminose, soccorrono i criteri suppletivi di cui all’art. 9 c.p.p.: cfr. Cass., Sez. I, 9 aprile 2009, n. 17353, in C.e.d. 243566. 55 In particolare, «il primo luogo indicato in seno all’imputazione come sede di riunione tra sodali nell’ambito de “La Lombardia” è Legnano, ove il 15 febbraio 2008 si era tenuto un incontro presso il ristorante “Il borgo antico”; e peraltro, anche la prima riunione in assoluto fra quelle indicate al capo 1) si era svolta in Limito di Pioltello il 18 ottobre 2007, presso il ristorante “La Cadrega”. […] Alla luce di tali argomentazioni, bene è radicata la competenza di questa autorità giudiziaria, sicché la relativa eccezione è infondata», così Trib. Milano, Ufficio GIP, 19 novembre 2011, cit.

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pria competenza sulla base dell’assunto per cui «la connessione teleologica non postuli necessariamente un’identica componente», legittimando, in tal modo, lo spostamento della competenza in favore del giudice procedente per il reato più grave, sia esso mezzo o fine, per quei reati commessi da coimputati non chiamati a rispondere dell’imputazione esercitante la vis attractiva 56. Altro imputato, nel medesimo procedimento, per il reato di cui all’art. 416bis c.p. ha eccepito l’incompetenza del Tribunale sostenendo l’autonomia della locale ligure rispetto alla ipotizzata “cosca madre” Raso-Gullace-Albanese radicata in Cittanova (RC), contrariamente a quanto sostenuto dal p.m. che la individuava quale mera propaggine operativa di cui l’imputato «Gullace Carmelo sarebbe stato figura apicale quale referente dell’articolazione ‘ndranghetista di appartenenza in Liguria e Piemonte». Sostenendo l’autonomia, la difesa chiedeva di radicare la competenza presso il giudice del luogo in cui si è manifestata la pericolosità della cosca, cioè dove il sodalizio criminoso ha concretamente operato con le condizioni descritte dall’art. 416-bis c.p. Il Tribunale, sul punto, ha rilevato che proprio dalla prospettazione accusatoria si evince che il progressivo radicamento della cosca in Liguria non sia indicativo di una ipotetica scissione di una parte dell’originario sodalizio criminoso costituitosi in Cittanova al fine della creazione di una distinta articolazione dotata di autonomia operativa e decisionale, ma, al contrario, di un’espansione della «(unica) consorteria spinta dalle maggiori e più lucrative opportunità economiche offerte dalla realtà del nord Italia, agevolata dalla risalente presenza di taluni esponenti del clan proprio in Liguria». Pertanto, secondo il Tribunale, le cui motivazioni paiono convincenti, non sarebbe nata una nuova entità associativa autonoma operante in Borghetto Santo Spirito (SV), ritenendosi il centro decisionale della cosca permanere stabilmente in Cittanova e nei territori limitrofi e non assumendo carattere dirimente «la circostanza che la pericolosità della cosca si sia concretamente manifestata anche in altri luoghi del territorio nazionale, ed in specie in Liguria, ove risultano verificatosi i reati satellite» 57. Anche nel procedimento Albachiara il giudice di Torino ha ritenuto radicata la propria competenza territoriale distrettuale con riguardo alla sede di programmazione, ideazione e direzione ovvero al luogo in cui vengono adottate le decisioni operative, ove si manifestano e si realizzano le attività proprie della compagine delinquenziale 58. In particolare, rilevando che in presenza, 56

Cfr. Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2017, n. 53390, in C.e.d. 271223, secondo cui «ai fini della configurabilità della connessione teleologica prevista dall’art. 12, lett. c), cod. proc. pen. e della sua idoneità a determinare uno spostamento della competenza per territorio, non è richiesto che vi sia identità fra gli autori del reato fine e quelli del reato mezzo, ferma restando la necessità di accertare che l’autore di quest’ultimo abbia avuto presente l’oggettiva finalizzazione della sua condotta alla commissione o all’occultamento di un altro reato». 57 Trib. Palmi, ord. 9 novembre 2017. 58

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Sia il giudice di Torino nel procedimento c.d. Albachiara (Trib. Torino, Ufficio GIP, ord.

nella prospettazione accusatoria, di un gruppo che trae le sue origini e le sue forme tipiche «da una matrice fortemente localizzata», ma vive e si manifesta in altra regione, anche estera, deve individuarsi il luogo nel quale concretamente è programmata e ideata l’attività riferibile all’organizzazione o all’articolazione territoriale della stessa. Nel caso specifico, «i confini territoriali entro i quali si manifesterebbero le forme tipiche dell’associazione, da parte del locale del basso Piemonte, sono appunto limitate al territorio piemontese; nello stesso territorio è destinato ad influire il metodo intimidatorio che viene indicato come appartenente alla compagine di cui si tratta; nello stesso territorio vivono e operano concretamente i soggetti ritenuti appartenenti all’associazione», a nulla rilevando che le decisioni strategiche fondamentali debbano essere concordate con il Crimine calabrese in quanto ciò manifesterebbe solo la comune origine, senza mettere in dubbio l’«autonomia decisionale operativa» delle articolazioni territoriali 59. Infine, caso particolare è quello della locale di Singen, in Germania, affrontato nel procedimento Crimine. Come noto, al fine del radicamento dell’azione presso la giurisdizione italiana non deve aversi riguardo alla fondatezza, ossia all’esistenza o meno degli elementi integranti la fattispecie criminosa di cui all’art. 416-bis c.p., bensì alla prospettazione formulata nell’imputazione. Pertanto, ai sensi dell’art. 6 c.p., in tema di punibilità di condotte commesse in parte nel territorio dello Stato, o il cui evento si sia verificato nel territorio italiano 60, si è ritenuto che, nonostante si sostenga l’autonomia di una cellula operante all’estero, il legame con la casa madre attraverso contatti funzionali al mantenimento di una rete comune di interessi, contribuente al raggiungimento delle finalità complessive dell’organizzazione, radica la giurisdizione in Italia 61.

15 giugno 2011) sia quello di Genova nel procedimento denominato Maglio 3 (Trib. Genova, Ufficio GIP, ord. 24 giugno 2011) richiamano integralmente le argomentazioni poste alla base della motivazione in punto competenza del giudice di Torino nel procedimento Minotauro (Trib. Torino, Ufficio GIP, ord. 31 maggio 2011) il quale ha riconosciuto l’«identità del sodalizio operante in Piemonte quale centro operativo, organizzativo e finanche decisionale, strutturato e autonomo, ma rispondente ad una precisa logica di rispetto e di obbedienza dei valori fortemente condivisi con la struttura criminale calabrese». 59 Trib. Torino, Ufficio GIP, 8 ottobre 2012. 60 Sul punto, Cass., Sez. I, 4 ottobre 1988, n. 3160, in C.e.d. 181222; Cass., Sez. VI, 28 ottobre 2008, n. 40287, in C.e.d. 241519 che precisa che la punibilità è correlata al fatto che sul territorio italiano sia stato posto in essere almeno un frammento della condotta, pur privo dei requisiti di idoneità o di inequivocità richiesti dal tentativo; in senso analogo, Cass., Sez. VI, 24 aprile 2013, n. 16115, in C.e.d. 252507; Cass., Sez. V, 7 novembre 2006, n. 40643, in C.e.d. 235247 ove si richiede, nel caso di un associato che abbia operato solo in territorio estero, l’individuazione di un contributo apprezzabile all’organizzazione italiana; in tal senso anche Cass., Sez. I, 6 maggio 2014, n. 41093, in C.e.d. 260703. 61 Cass., Sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359, cit.

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CAPITOLO II LA TESTIMONIANZA ANONIMA: QUESTIONI INTERNE, INTERNAZIONALI E SOVRANAZIONALI * di Michela Miraglia

SOMMARIO: 1. Diritto al confronto e testimonianza anonima. – 2. Riflessi interni e sovranazionali. – 3. I dicta della Corte di Strasburgo. – 4. La “testimonianza anonima” nel processo penale italiano. – 5. Whistleblowing e ripercussioni sul processo penale: dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 alla l. 30 novembre 2017, n. 179. – 6. Anonimato e prova testimoniale nel processo penale internazionale. – 7. Riflessioni di sintesi.

1. Diritto al confronto e testimonianza anonima. La Corte suprema statunitense, nell’affrontare per la prima volta uno degli aspetti più controversi del diritto al confronto, ha ricordato le parole di Francesco Carrara e quelle più pragmatiche di D. D. “Ike” Eisenhower, dalle quali veniva il monito a rifuggire, nel celebrare un processo equo, l’accusatore anonimo ed a consentire all’imputato di guardare direttamente negli occhi quell’accusatore. «[U]na buona legge procedurale mai deve ammetter che possano in un processo criminale accettarsi testificazioni di persone che nascondono il loro nome» 1, scriveva il primo. «[I]n this country, is someone dislikes you, or accuse you, he must come up in front. He cannot hide behind the shadow» affermava il secondo, chiarendo che la regola rientrava nel “codice morale” della sua città natale, Abilene 2. Eppure nell’era del processo equo “globale”, *

Il presente contributo riprende, aggiornandolo e ampliandolo, il contenuto dell’articolo Spunti per dibattito sulla testimonianza anonima, pubblicato su www.penalecontemporaneo.it, 30 dicembre 2011. 1 F. CARRARA, Lineamenti di pratica legislativa penale, II ed., Fratelli Bocca, Torino, 1874, p. 367. 2 Si tratta delle parole citate dalla sentenza Coy v. Iowa, 487 U.S. 1012 (1988). Per un’analisi del “right to confrontation” nell’ordinamento statunitense, cfr. V. FANCHIOTTI, La testimonianza nel processo “adversary”, Ecig, Genova, 1988, p. 58 ss. È “curioso” nonché inusuale per il

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durante la quale il raggiungimento di traguardi di civiltà giuridica all’interno dei singoli ordinamenti sembra trasmettersi agli altri, attraverso un “positivo contagio”, il diritto al confronto viene sempre più frequentemente reinterpretato, allontanandosi, spesso per ragioni più che nobili 3, dall’idea che richiede di poter “to eyball the witness” 4, mentre la testimonianza anonima resiste ai colpi dei fautori della fairness, continua ad essere tollerata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte EDU 5) e, addirittura, trova accoglienza in ordinamenti che sembravano resistere strenuamente alle sue lusinghe, per poter far fronte ad esigenze non solo di protezione dei testimoni, ma anche di conservazione della prova e delle risorse investigative 6. È questo il caso del nostro ordinamento che con la legge 13 agosto 2010 n. 136, modificando sotto diversi aspetti la disciplina delle azioni sotto copertura, ha introdotto una forma di testimonianza anonima non solo per gli esponenti della polizia giudiziaria, italiani e stranieri, ma anche per i soggetti privati utilizzati in operazioni undercover, quando essi siano «chiamati a deporre, in ogni stato e grado del procedimento, in ordine alle attività svolte sotto copertura» 7. Di più: la testimonianza anonima sembra aver trovato spazio anche davanti ad organismi giurisdizionali sovranazionali in particolare di fronte alla Corte penale internazionale – competente per il genocidio, per i crimini di guerra, contro l’umanità e di aggressione – che pareva avviata verso una netta abiura della stessa, dopo che questa aveva fatto una sua comparsa nell’ambito di operatività dei Tribunali ad hoc ed era stata oggetto di aspre critiche da parte della dottrina, oltre che di un ripensamento da parte della stessa giurisprudenza 8. giurista italiano il riferimento alla cittadina texana, balzata nel 1963 agli onori dell’hit parade della musica country, la country music chart, per l’omonima canzone (conosciuta all’epoca anche da noi), ove restò per quattro settimane al primo posto, venendo anche cantata nel film Hootenanny Hoot dal pop singer George Hamilton IV. 3 Ci si riferisce, soprattutto, alla tutela delle vittime e dei testimoni vulnerabili. 4 Si deve rammentare come nell’ordinamento statunitense si è, invece, assistito, negli ultimi tempi, ad un rafforzamento della “confrontation clause”, nelle decisioni della Corte suprema. Si debbono citare, a proposito, la sentenza Crawford v. Washington, 541 U.S. 36 (2004) e, per un’ulteriore specificazione del dictum in essa contenuto, Melendez-Diaz v. Massachusetts, 129 S. Ct. 2527 (2009). 5 Per l’uso di tale espressione si veda F. VIGANÒ, Fonti europee e ordinamento italiano, in Dir. pen. proc.-Speciale Europa, 2011, p. 5. 6 La dottrina parla di «amara scoperta» (cfr. S. LONATI, Il diritto dell’accusato a “interrogare o far interrogare” le fonti di prova a carico (Studio sul contraddittorio nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e nel sistema processuale penale italiano), Giappichelli, Torino, 2008, p. 211). 7 Così recita il comma 2-bis dell’art. 497 c.p.p. introdotto dall’art. 8 comma 3 della l. n. 136/2010. Cfr. infra, § 4. 8 Cfr. infra, § 6.

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Il presente lavoro si propone quale riflessione sul tema della testimonianza anonima per quanto attiene al nostro ordinamento, senza però trascurare le situazioni affrontate e le soluzioni individuate in ambito internazionale, cui spesso si fa riferimento nei singoli sistemi nazionali per giustificare il ricorso all’istituto in questione. Si intendono, così, individuare spunti per un dibattito ancora aperto e attuale, per quel che riguarda la nostra prospettiva “domestica”, dovendoci confrontare non solo con ipotesi, prospettive ed opportunità, ma anche realtà legislative concrete, dai contorni problematici, per quanto il loro ambito di operatività sia limitato, che, comunque, hanno messo in discussione un dogma.

2. Riflessi interni e sovranazionali. L’anonimato del teste, come è noto grazie agli oramai numerosi contributi sull’argomento, è contemplato da fonti internazionali quale mezzo di protezione del soggetto dichiarante e dei suoi famigliari, ammettendone il ricorso, quale misura eccezionale, dopo aver individuato, però, precise cautele che dovrebbero compensare le limitazioni generate dall’anonimato stesso per quanto attiene al diritto di difesa, sotto il profilo di diritto al confronto con l’accusatore 9. In primis, il riferimento è alla Raccomandazione R (97) 13 del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa 10, avente ad oggetto l’intimidazione dei testimoni ed i diritti della difesa, che, fra le misure da adottarsi, relativamente al crimine organizzato, al § III (10), include l’anonimato cui ricorrere, se previsto dalle leggi nazionali, in via eccezionale ed in modo tale da mantenere una «fair balance» fra le esigenze del processo ed i diritti della difesa. Al § III (11) la Raccomandazione individua una procedura minima per utilizzare l’anonimato, in base alla quale l’autorità giudiziaria competente deve verificare, in contraddittorio, la sussistenza di una seria minaccia alla vita o alla libertà del testimone o, se si tratta di un agente sotto copertura, la seria minaccia per la possibilità di svolgere operazioni future, oltre che la rilevanza della prova e la credibilità del teste (pur in via preliminare). La Raccomandazione si esprime anche in merito alla valutazione della prova anonima stabilendo al § III (13) che la condanna non possa basarsi «solely or to a decisive extent» sulla prima 11. 9 Non ci si vuole qui dilungare sull’argomento, se non per i cenni indispensabili richiesti dalla trattazione del tema specifico. Si rimanda, ex multis, a S. MAFFEI, Il diritto al confronto con l’accusatore, La Tribuna, Milano, 2002, passim. Per un’ulteriore analisi della materia, con riferimento specifico alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cfr. S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., passim. 10 Committee of Ministers of Council of Europe, Recommendation No. R (97) 13. 11 Per un’analisi del contenuto della Raccomandazione e per un’opinione critica si veda L. SCOMPARIN, La tutela del testimone nel processo penale, Cedam, Padova, 2000, pp. 113-114.

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Della testimonianza anonima si è anche occupata la giurisprudenza della Corte EDU, sollecitata dai ricorsi proposti relativamente ai numerosi ordinamenti statali che, all’interno del Consiglio d’Europa, ammettevano ed ammettono quell’istituto, secondo forme variabili, per espressa previsione legislativa o per concessione giurisprudenziale. L’approccio di Strasburgo non è stato sempre coerente, è, anzi, mutato nel tempo ed ha sostanzialmente negato come la testimonianza anonima – con riferimento all’anonimato assoluto, che consente di escutere il teste in dibattimento celando la sua identità non solo al pubblico, ma anche all’imputato ed al suo difensore 12 – possa ritenersi, generalmente, in contrasto con la Convenzione per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in poi: CEDU). Anche la Corte, decidendo i casi concreti, ha individuato una serie di accorgimenti perché il ricorso alla stessa possa comunque assicurare la realizzazione di un “fair trial”, scongiurando, quindi, la violazione dell’art. 6(1) e (3)(d) della CEDU 13. Nell’individuare i termini del dibattito sulla testimonianza anonima al di là dei confini del nostro ordinamento, si deve far cenno alla posizione assunta dalla dottrina internazionale, spesso citata da quella italiana 14. Dall’analisi delle idee 12 Per la giurisprudenza della Corte EDU sia la nozione di testimone sia quella di anonimato sono molto ampie. Per una trattazione della definizione del termine cfr. M. VOGLIOTTI, La logica Floue della Corte europea dei diritti dell’uomo tra tutela del testimone e salvaguardia del contraddittorio: il caso delle «testimonianze anonime», in Giur. it., 1998, cc. 854-855. Sul punto si veda anche E. SELVAGGI, Il difficile bilanciamento tra esigenze di difesa della società e diritti della difesa: il teste anonimo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Cass. pen., 1996, p. 2420. L’anonimato, ai fini della presente trattazione e con riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo, si deve intendere come la mancata rivelazione dell’identità reale del soggetto dichiarante all’imputato ed al suo difensore (cfr. S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., pp. 148 e 175; ID., Le testimonianze anonime nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Cass. pen., 2003, p. 1702 ss.). Si tratta di quello che, in ambito internazionale, viene definito “anonimato assoluto” (sul punto si veda, infra, § 6). 13 Per un esame capillare delle decisioni in materia di testimonianza anonima e dei casi concreti a cui esse si riferiscono si rimanda a S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 210 ss. Per una riflessione critica sugli approdi giurisprudenziali della Corte EDU, cfr. infra, § 3. Per un commento dell’art. 6 della CEDU si veda M. CHIAVARIO, Diritto ad un processo equo, in S. BARTOLE-B. CONFORTI-G. RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova, 2001, p. 153 ss. Sulla giurisprudenza della Corte EDU relativa alle “testimonianze anonime” si veda anche R. CASIRAGHI, Diritto a un equo processo, in G. UBERTIS-F. VIGANÒ (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, Torino, 2016, p. 229 ss. Rammenta che la Corte di Strasburgo si è riferita nelle proprie decisioni alle deposizioni «rese da soggetti con identità conosciuta dalla polizia giudiziaria e talvolta pure dall’autorità giudiziaria istruttoria, ma non comunicata né, normalmente al giudice dibattimentale né – ed è ciò che connota la nozione, soprattutto nella prospettiva del contraddittorio – alla difesa» G. UBERTIS, Principi di procedura penale europea, Raffaello Cortina, Milano, 2009, p. 80. 14 Si vedano, per tutti, F. CAPRIOLI, La tutela del testimone nei processi di criminalità orga-

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espresse dalla prima – che non ha mai rifiutato rigidamente quel meccanismo procedimentale, pur rimarcandone le insidie e invitando ad un approccio frutto di attenta riflessione – pare emergere, però, come per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, una progressiva maggior apertura, se pur ragionata, nei suoi confronti 15, dovuta, forse, ad un intensificarsi delle esigenze di protezione del testimone, a causa del sempre crescente sviluppo di forme di criminalità che utilizzano la minaccia e la violenza per annientare o ridurre gli elementi di prova a carico dei propri esponenti e, dall’altro lato, da una rinnovata attenzione per la vittima e per i testimoni, soprattutto se, in qualche modo, vulnerabili 16. nizzata, in AA.VV., Verso uno statuto del testimone nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2005, p. 49; S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 178. 15 In tal senso si deve confrontare il contenuto della Risoluzione n. 6, adottata dall’Association Internationale de Droit Pénal al XVI Congresso internazionale di diritto penale (Budapest, 1999) e più volte citata dalla dottrina italiana (cfr. supra, nota 14), con quello della successiva risoluzione deliberata dieci anni dopo, nel 2009, dalla stessa associazione al XVIII Congresso internazionale (Budapest, 2009), in cui pare di poter scorgere, come accennato, una maggior disponibilità verso il ricorso alla testimonianza anonima, soprattutto dovuta alla differenza di incipit del provvedimento. La prima (in Rev. int. droit pén., 1999, p. 904), infatti, si apriva affermando che in circostanze ordinarie il ricorso alla testimonianza anonima viola i diritti della difesa, pur ammettendo poi, da parte degli ordinamenti nazionali, il ricorso alla stessa, a fronte di istanze eccezionali, rispettando parametri simili a quelli fissati dalla Raccomandazione R (97) 13. Nel secondo provvedimento (in Rev. int. droit pén., 2009, p. 525) manca tale esplicito riconoscimento. Potrebbe trattarsi solo di una differenza non significativa, dovuta alla oramai comune accettazione della compressione dei diritti della difesa nel caso di ricorso all’anonimato del teste. In ogni caso essa è parsa degna di nota. 16 Sull’attenzione per la vittima e per il testimone nel nostro ordinamento si veda, con specifico riferimento all’evoluzione storica, G. TRANCHINA, La vittima del reato nel processo penale, in Cass. pen., 2010, p. 4051 ss.; in relazione alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di Giustizia, A. BALSAMO-S. RECCHIONE, La protezione della persona offesa tra Corte europea, Corte di Giustizia delle Comunità Europee e carenze del nostro ordinamento, in A. BALSAMO-R.E. KOSTORIS (a cura di), Giurisprudenza europea e processo penale italiano, Giappichelli, Torino, 2008, p. 309 ss., in cui si dedica uno spazio specifico alla testimonianza anonima; per quanto riguarda l’audizione del “testimone vulnerabile” si vedano: G. CANZIO, La tutela della vittima nel sistema delle garanzie processuali: le misure cautelari e la testimonianza “vulnerabile”, in Dir. pen. proc., 2010, p. 985 ss.; F. DEL VECCHIO, La nuova fisionomia della vittima del reato dopo l’adeguamento dell’Italia alla direttiva 2012/29/UE, in www.penalecontemporaneo.it, 11 aprile 2016, p. 1 ss.; F. DI MUZIO, La testimonianza della “vittima vulnerabile” nel sistema delle garanzie processuali, in Giurisprudenza Penale Web, 2015, p. 1 ss.; A. FAMIGLIETTI, Persona offesa e modalità di audizione protetta: verso lo statuto del testimone vulnerabile, in Proc. pen. e giust., 2016, p. 8 ss.; E. LORENZETTO, Audizioni investigative e tutela della vittima, in M. BARGIS-H. BELLUTA (a cura di), Vittime di reato e sistema penale. La ricerca di nuovi equilibri, Giappichelli, Torino, 2017, p. 337 ss.; A. PRESUTTI, Le audizioni protette, ivi, p. 375 ss.; S. RECCHIONE, La vittima cambia il volto del processo penale: le tre parti “eventuali”, la testimonianza dell’offeso vulnerabile, la mutazione del principio di oralità, in Dir. pen. cont., 2016, p. 81 ss.; EAD., Il testimone “vulnerabile” fa disordinatamente ingresso nel nostro ordinamento, in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2014, p. 1 ss.

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La dottrina italiana, indotta dal contesto internazionale 17 ad occuparsi in modo piuttosto diffuso del problema, percorrendo varie vie, e – pur prendendo in seria considerazione l’opportunità di introdurre anche nel nostro ordinamento forme di anonimato dichiarativo 18 – ha concluso non solo per un netto “ripudio” della testimonianza anonima allo stato della legislazione vigente 19, ma anche per l’esistenza di una “barriera quasi insormontabile” 20 alla sua introduzione, impedimento che diventava assoluto a seguito di una più approfondita riflessione condotta utilizzando i parametri costituzionali 21. Lo sbarramento individuato negli studi menzionati sembra, però, essere stato del tutto ignorato, piuttosto che pur legittimamente superato, dalla l. n. 136/2010. Quest’ultima ha modificato l’art. 497 c.p.p. (ritenuto uno dei baluardi codicistici contro la testimonianza anonima), oltre che l’art. 115 disp. att. c.p.p. e l’art. 147-bis disp. att. c.p.p., introducendo la prima forma di anonimato del dichiarante capace di condurre, se pur limitatamente alla testimonianza di chi ha svolto operazioni sotto copertura, alla raccolta di elementi probatori utilizzabili ai fini della decisione di merito 22.

3. I dicta della Corte di Strasburgo. Preliminarmente ad un’analisi delle novità legislative riguardanti l’ordinamento italiano, appare opportuno riflettere, in modo critico, sugli approdi giurisprudenziali della Corte EDU in materia di testimonianza anonima, poiché sembrano aver offerto sostegno al legislatore interno per l’introduzione della forma di anonimato in esame, funzionando quale “modello”, dal quale, però, poi, il legislatore interno sembra essersi allontanato 23, come si cercherà di chiarire più oltre 24. 17

Per la posizione assunta in merito alla testimonianza anonima dalla giurisprudenza delle diverse corti internazionali cfr. infra, § 6. Per un’analisi della tutela del testimone in ambito internazionale si veda L. SALVADEGO, La normativa internazionale sulla protezione dei testimoni nel contrasto alla criminalità organizzata, in Riv. dir. int., 2014, p. 132 ss. 18 Cfr. F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., p. 49, dove l’A. prospetta la necessità di prendere seriamente in considerazione l’introduzione della testimonianza anonima anche nell’ordinamento italiano. 19 S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 251. 20 S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 359. 21 F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., p. 65 ss. 22 Per un’analisi delle modifiche introdotte dalla l. n. 136/2010 e degli aspetti critici delle stesse, cfr. infra, § 4. 23 Era già stato sottolineato come l’accoglimento della testimonianza anonima nel nostro ordinamento avrebbe presupposto un vero «ribaltamento del sistema interno» (cfr. S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 251). 24 Le decisioni a cui si fa riferimento, considerate in passato, a ragione, un «filone giurispru-

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Nei casi affrontati 25 la Corte, dopo aver chiarito preliminarmente, a fronte di ricorsi riguardanti condanne pronunciate all’interno di procedimenti ove erano state ammesse testimonianze anonime, come il suo compito non consista nel valutare la correttezza dell’ammissione di quelle prove, bensì se nel suo complesso il procedimento, incluso il modo in cui le prove stesse sono state formate, possa considerarsi equo 26, fin dalle prime sentenze dedicate all’argomento, ha ribadito il suo dictum, già espresso in altra sede 27, secondo cui generalmente le prove dovrebbero essere formate rispettando il «paradigma del contraddittorio» 28 – ovvero alla presenza dell’imputato, in un’udienza pubblica, utilizzando il metodo “adversarial” – ma aggiungendo che l’allontanamento da tale modello di assunzione non genera automaticamente un contrasto con i paragrafi 3(d) e 1 dell’art. 6 CEDU, dovendo una valutazione in base alla “misura” in cui i diritti della difesa sono stati rispettati 29. La Corte EDU, a fronte dell’anonimato del teste, cioè al palese bypassing del modello, sempre con riferimento al caso specifico, assunse, inizialmente, decisioni che ne riconoscevano la violazione. Non escluse però drasticamente la possibilità per i giudici nazionali di utilizzare informazioni anonime nel prodenziale [che] non riveste in sé particolare rilevanza» (cfr. S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 212), dovevano essere tenute in considerazione dal legislatore italiano per conformare le disposizioni in materia di testimonianza anonima previste dalla l. n. 136/2010 alla CEDU, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 348/2007 in cui si legge che «le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea» (Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in Giur. cost., 2007, p. 3508). 25 Si rammenti, come autorevolmente sottolineato, che le decisioni della Corte EDU debbono essere considerate, in quanto al loro valore di precedente, proprio in relazione al fatto che riguardino casi concreti e, quindi, come la portata dei principi in esse enunciati debba essere valutata tenendo in considerazione questa caratteristica (cfr. V. ZAGREBELSKY, Relazione svolta al convegno “Processo penale e giustizia europea” (Torino, 26-27 settembre 2008), in AA.VV., Processo penale e giustizia europea. Omaggio a Giovanni Conso, Giuffrè, Milano, 2010, p. 14, dove l’A. parla di «giurisprudenza casistica»). 26

Cfr. Corte eur., 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 39.

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Ex multis, Corte eur., 15 giugno 1992, Lüdi c. Svizzera, caso in cui la Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, in ragione del fatto che la condanna del ricorrente si basava sulle sole dichiarazioni scritte di un agente sotto copertura e sulla trascrizione delle conversazioni telefoniche, senza la possibilità per il ricorrente di confrontarsi con il testimone, né durante il trial, né durante il pre-trial stage; Corte eur., 27 febbraio 2001, Luca c. Italia, sentenza con la quale il giudice di Strasburgo ha palesato l’iniquità del processo poiché il ricorrente non ha avuto la possibilità di controesaminare il teste che, sentito in indagini, rifiutava di deporre in giudizio. Sul punto, diffusamente, L. BACHMAIER WINTER, Transnational Criminal Proceeding, Witness Evidence and Confrontation: Lessons from the ECtHR’s Case Law, in Utrecht L. Rev., 2013, 9, p. 127. 28

L’espressione è di S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 133.

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Così già in Corte eur., 20 Novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 41.

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cedimento, ma pose un limite al ricorso alle stesse in fase dibattimentale “solo” quando costituissero “prove sufficienti” per la condanna 30, concentrando così la propria attenzione soprattutto sulle limitazioni subìte dalla difesa dell’imputato, la quale risultava privata, a causa dell’anonimato, di tutte quelle informazioni che le avrebbero consentito di dimostrare come il testimone era «prejudiced, hostile or unreliable» 31. L’ottica, a dir poco, “compromissoria” già presente nelle prime decisioni trova una più articolata elaborazione nelle sentenze successive 32. In Doorson la Corte nega che l’uso della testimonianza anonima nel caso oggetto di ricorso abbia determinato la violazione dell’art. 6(1) e (3)(d) della CEDU: i giudici esplicitano, infatti, come la tutela del testimone, in generale, e della vittima chiamata a testimoniare, in particolare, non sia prescritta direttamente dall’art. 6 CEDU, ma come tale protezione sia garantita da altre disposizioni della Convenzione, come, ad esempio, l’art. 8 CEDU. Quindi, considerato ciò, la nozione di “fair trial” richiede, in determinate circostanze, un bilanciamento tra diritti dell’imputato e quelli di vittime e testimoni 33. A fronte dell’evidente allontanamento dal modello “ideale” di assunzione della prova, determinato dall’anonimato del teste, la Corte ritiene che le “inusuali difficoltà” incontrate dalla difesa 34 possano in qualche modo essere “compensate” da una serie di 30

Questa è la locuzione usata dalla maggioranza della Corte EDU, a fianco di quella, da qui in poi ricorrente, «decisive extent». Cfr. Corte eur., 20 Novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 44. 31

Corte eur., 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 42. La Corte sembra aver avuto un approccio più rigido, ovviamente con riferimento al caso concreto trattato, in una decisione successiva in cui scrive: «The Court notes that the Convention does not preclude reliance, at the investigation stage, on sources such as anonymous informants. However, the subsequent use of their statements by the trial court to found a conviction is another matter. The right to a fair administration of justice holds so prominent a place in a democratic society that it cannot be sacrificed» (Corte eur., 27 settembre 1990, Windisch c. Austria, § 30). Per un’analisi dei dettagli relativi ai casi in esame ed a tutti quelli in materia di testimonianza anonima cfr. S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 221 ss. 32 Pur non riconoscendone la validità con riferimento al caso concreto, già nella sentenza Kostovski la Corte, ammettendo le limitazioni del diritto di difesa a fronte di una testimonianza anonima, parla della possibilità di controbilanciarle in presenza di specifiche procedure seguite dall’autorità giudiziaria nazionale (cfr. Corte eur., 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 43). 33 Corte eur., 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, § 70. A parere di autorevole dottrina si tratta della parte più significativa della sentenza in questione. Cfr. M. CHIAVARIO, Il diritto al contraddittorio nell’art. 111 Cost. e nell’attuazione legislativa, in AA.VV., Il contraddittorio tra Costituzione e legge ordinaria, Giuffrè, Milano, 2002, p. 31; L. BACHMAIER WINTER, Transnational Criminal Proceeding, cit., p. 134, per cui «this case is interesting because the ECtHR also admitted that when the trial and pre-trial statement contradict one another, the Court can be freely choose which one to believe and attribute evidentiary value». 34 Cfr. Corte eur., 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, § 72 dove si parla di «difficulties

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accorgimenti – seguendo un protocollo da modellarsi sul singolo procedimento – adottati dalle autorità giudiziarie locali 35, secondo linee-guida rintracciabili, però, nelle decisioni in questione e riguardanti diversi momenti del procedimento probatorio: quello dell’ammissione, dell’assunzione ed infine – il più cruciale secondo il parere dei giudici di Strasburgo – della valutazione della prova anonima 36. La violazione dell’art. 6 viene, quindi, rinvenuta nei casi in cui i controbilanciamenti procedurali non vengano adottati 37. La Corte ritiene, in estrema sintesi 38, che la misura dell’anonimato, nell’ottica appena esposta, debba essere caratterizzata dall’eccezionalità e che, pertanto, l’autorità giudiziaria competente debba valutare, preliminarmente, la necessità della misura in relazione al pericolo, concreto ed attuale, a cui sono esposte le vittime 39. Inoltre, assumendo una posizione più rigorosa di quella palesata nel caso dei testimoni assenti o vulnerabili 40, viene richiesto che la difesa sia posta in grado di esercitare un “qualche” confronto con il testimone di fronte ad un giudice il quale può essere, secondo una teoria di fungibilità, which criminal proceedings should not normally involve» e Corte eur., 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, § 76 dove si usa l’espressione «unusual difficulties». Per un esame di quest’ultima decisione cfr. A. BALSAMO, Testimonianze anonime ed effettività delle garanzie sul territorio del “diritto vivente” nel processo di integrazione giuridica europea, in Cass. pen., 2006, p. 3330 ss. 35 Corte eur., 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, ivi. Si veda anche Corte eur., 17 aprile 2012, Sarzikov e altri c. Bulgaria, dove la Corte ha anche ritenuto che non sussista la violazione dell’art. 6 CEDU quando l’anonimato riferito ad una testimonianza determinante sia funzionale alla salvaguardia dell’incolumità del testimone. Nella decisione Corte eur., 6 dicembre 2012, Pesukic c. Svizzera, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto adeguati, quali «fattori di bilanciamento» (R. CASIRAGHI, Diritto a un equo processo, cit., p. 230), l’audizione dei testimoni di fronte al collegio giudicante, la partecipazione, anche se solo in collegamento audio dell’imputato e del difensore, la possibilità per gli stessi di porre domande al testimone, nonché la risposta di quest’ultimo alle domande, salvo nel caso in cui fosse necessario astenervisi per non svelare la propria identità. 36 Parla di «editto pretorio» M. VOGLIOTTI, La logica floue, cit., p. 858. 37 Corte eur., 23 giugno 2015, Balta e Demir c. Turchia. La Corte afferma la sua conclusione con ancora più convinzione nel caso in cui le salvaguardie procedurali non siano state adottate in presenza di una testimonianza anonima assunta per motivi di economia processuale. Si veda Corte eur., 26 febbraio 2013, Papadakis c. ex Repubblica yugoslava di Macedonia. 38 Per un’analisi dei singoli passaggi e dei loro specifici contenuti si veda M. VOGLIOTTI, La logica floue, p. 858 ss. 39 Per un esame del presupposto e della casistica analizzata dalla Corte di Strasburgo si veda A. BALSAMO, Testimonianze anonime, cit., pp. 3332-3333. 40 Per una riflessione più generale sull’interpretazione del diritto al confronto operata dalla Corte EDU si veda V. ZAGREBELSKY, Corte europea dei diritti dell’uomo e “processo equo”, in AA.VV., Processo penale e giustizia europea, cit., p. 260 ss. Con riguardo ai testimoni vulnerabili si veda l’analisi della giurisprudenza in materia della Corte europea in S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 252. In merito ai testimoni assenti, quando essi siano al contempo anonimi, cfr. S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 259 ss.

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quello della fase preliminare o quello dibattimentale 41. Per “compensare” le compressioni del diritto di difesa è, inoltre, necessario che il giudice conosca l’identità del testimone, così da poter svolgere la valutazione della sua credibilità intrinseca 42. L’ultima linea-guida generale riguarda la regola di valutazione della prova: perché il procedimento possa dirsi “fair”, quando all’interno dello stesso sia stata ammessa una testimonianza anonima, è necessario che la eventuale condanna non sia stata basata «solely or at least to a decisive extent» sulla stessa. Si tratta di un vero e proprio sbarramento insormontabile, secondo la Corte: nel caso in cui, infatti, la prova abbia avuto valore esclusivo o decisivo a nulla giovano gli altri accorgimenti sopra menzionati per salvare il procedimento considerandolo “equo” 43. Gli approdi della giurisprudenza della Corte EDU sono suscettibili di penetranti e più che fondate critiche, soprattutto poiché si basano sull’ottica del compromesso che, in caso di anonimato, appare poco convincente. Pur ammettendo la necessità di salvaguardare, all’interno del processo penale, diritti di soggetti diversi dall’imputato e pur riconoscendo l’urgenza, a fronte di una situazione di pericolo per il testimone, di salvaguardarne l’incolumità, di preservare la fonte di prova e, quindi, di conservarne il risultato e la genuinità, non pare in alcun modo possibile “risarcire” l’imputato dei diritti soggettivi fondamentali sottrattigli celando l’identità del testimone. Si tratta, quindi, di privilegiare uno tra gli interessi in gioco, considerarlo prevalente, e tutelarlo: ciò che però non si può fare, salvo rassegnarsi a rinunciare ai principi-cardine del fair trial e del due process, è fingere di poter raggiungere, come detto, un bilanciamento degli interessi stessi, senza tenere conto del diverso “peso specifico” di ciascuno di essi. In primo luogo, la mancata conoscenza dell’identità del testimone, ma soprattutto il divieto di porre domande relative ad essa per mantenere il segreto, impedisce al difensore (ammesso che possa essere considerato del tutto fungibile rispetto al suo assistito) di svelare situazioni e motivi in base ai quali il teste possa essere ritenuto «prejudiced, hostile or unreliable». Il fatto che la Corte demandi al giudice tale verifica non sembra affatto poter compensare le 41

La fungibilità riguarda, secondo le decisioni della Corte, anche il difensore rispetto al proprio assistito. Non ci si addentra nell’esame delle caratteristiche specifiche individuate dalla Corte per ritenere il confronto sufficiente a controbilanciare le speciali difficoltà vissute dalla difesa, riferite ai casi concreti sottoposti al suo esame, per cui si rimanda a S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 224 ss. 42 Per una critica a tale posizione assunta dalla Corte, cfr. infra, in questo stesso paragrafo. 43 Corte eur., 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, § 85. Si rammenti che in alcune sentenze la Corte parla anche di “estrema cura” da prestare nella valutazione della prova anonima (cfr. Corte eur., 26 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, § 76; Corte eur., 28 febbraio 2006, Krasniki c. Repubblica Ceca, § 77).

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“particolari difficoltà” riconosciute nell’effettuarla. Solo l’imputato – e, forse, il difensore perché ne rappresenta, in questo caso, la voce, anche se non sempre la “memoria” – può essere a conoscenza di ragioni specifiche e pregresse per le quali il testimone potrebbe venir indotto a mentire e solo la conoscenza della sua identità, anche fisica, può consentirne l’eventuale smascheramento 44. La mancanza di un segmento essenziale del confronto non può essere in alcun modo compensata dal fatto che la Corte ritenga sufficiente rivelare l’identità del teste ad un terzo, cioè ad un giudice (tra l’altro, non necessariamente quello dibattimentale). A parere di chi scrive, l’aspetto più critico e criticabile rimane quello relativo alle regole di valutazione della prova. Si condivide l’opinione di chi, molto autorevolmente, ha evidenziato gli aspetti negativi di quelle dettate dal legislatore italiano 45. Essi sono estendibili anche alle regole elaborate dalla Corte di Strasburgo, soprattutto considerando che in alcune decisioni la Corte parla di “estrema cautela” che il giudice interno dovrebbe prestare valutando gli elementi ottenuti da testimoni, in condizioni in presenza delle quali non possono essere garantiti i diritti della difesa nella estensione normalmente richiesta dalla Convenzione 46, come se quella cura non fosse, invece, richiesta per la valutazione di qualunque prova. Criticità specifiche si debbono, però, individuare in relazione alla nozione di decisività usata dalla Corte. Per dar avvio alla loro analisi si possono prendere a prestito le parole di un giudice della Corte, contenute nella dissenting opinion del caso Van Mechelen, che meglio di altre ne disegnano i contorni. Secondo la sua voce il concetto di “decisività” è difficile da applicare: se la testimonianza anonima viene usata dal giudice all’interno di una più vasta piattaforma probatoria ai fini della decisione è perché egli la valuta, in qualche misura, come parte “decisiva” di quella stessa piattaforma, per completarne gli elementi o renderli sufficienti. Altrimenti non avrebbe senso aver fatto ricorso ad essa 47. La Corte, nelle decisioni assunte dalla sua maggioranza, sembra volersi sottrarre a tali difficoltà logico-interpretative legando il concetto di “decisività” a quello di “corroboration” 48 e ritenendo, quindi, il valore decisivo della testimonianza anonima escluso quando il giudice interno abbia considerato ed utilizzato, ai fini della decisione, elementi anonimi e non «as corroborative 44

Cfr. S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 148. P. FERRUA, Un giardino proibito per il legislatore: la valutazione delle prove, in Quest. giust., 1998, p. 583 ss. 46 Corte eur., 2 marzo 1996, Doorson c. Paesi Bassi, § 76. 47 Corte eur., 23 aprile 1997, Van Mechelen c. Paesi Bassi, opinione dissenziente del giudice Van Dijk, § 10. 48 Sulla corroboration, in generale, cfr. V. FANCHIOTTI, voce Corroboration, in Enc. giur. Treccani, vol. IX, Treccani, Roma, 1991, p. 4 ss. 45

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of each other» 49. Questa soluzione, contrabbandata come frutto della logica floue della Corte 50, non convince affatto: sembra, infatti, discendere da un tentativo di limitare “ad ogni costo” il danno derivante dalla restrizione delle garanzie dell’imputato nell’assunzione della prova. Se, cioè, gli accorgimenti in merito alla necessità dell’anonimato ed alla possibilità del giudice di valutare l’attendibilità del teste (pur in modo del tutto incompleto ed unilaterale per la mancanza del sapere di cui è portatore solo l’imputato e, in parte, ma non necessariamente in maniera completa, il suo difensore) possono rappresentare modalità di ricorso limitato e guidato alla testimonianza anonima, il raggiungimento della tutela bilanciata degli interessi in gioco confliggenti, quelli dell’imputato e del testimone, non pare possibile. Soprattutto, tale traguardo non sembra attuabile attraverso la limitazione che dovrebbe derivare dalla riduzione del valore probatorio della testimonianza anonima. Si deve riproporre l’osservazione già formulata: le limitazioni dei diritti dell’imputato non sembrano poter essere compensate attraverso regole di valutazione e, tantomeno, da regole che rimandino in modo immediato a concetti che poi si scoprono “stravolti” dalle decisioni. La prova può, infatti, assumere un valore determinante anche se corroborata, ad esempio, inducendo il giudice a condannare l’imputato sulla base di elementi contraddittori (all’interno dei quali si trovino quelli a cui si ricorre per la corroboration) che non consentirebbero, da soli, di assumere la decisione 51. L’inconsistenza della nozione di decisività si estende, inoltre, se ci riferiamo ai suoi tratti variabili: i “riscontri” non possono essere “incrociati” e, quindi, non possono consistere nelle dichiarazioni di altri soggetti coperti dall’anonimato, per espressa decisione della Corte, trovatasi ad affrontare la questione specifica 52. Ma che dire di altre prove che si allontanino dal “paradigma del contraddittorio”? Anche in queste circostanze permane il rischio che all’interno dei singoli ordinamenti favorevoli al ricorso alla testimonianza ano49

Ivi, § 83. In proposito si veda M. VOGLIOTTI, La logica floue, cit., p. 853 ss. Per una riflessione sulla nozione della decisività cfr. S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 249 ss. 51 Non si può non condividere a pieno l’autorevole critica espressa da F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., p. 61 e quella, altrettanto autorevole, richiamata dall’A., di G. GIOSTRA, Analisi e prospettive di un modello probatorio incompiuto, in Quest. giust., 2001, p. 1143 ss. 52 Cfr. Kostovski c. Paesi Bassi, cit. e Doorson c. Paesi Bassi, cit. Sul punto critico si veda S. MAFFEI, Il diritto al confronto, cit., p. 266. Si deve sottolineare che, talvolta, il ragionamento della Corte sulla “decisività” sembra allontanarsi dalla semplice necessità di corroboration per le dichiarazioni del testimone anonimo, ai fini della loro utilizzabilità nel pronunciare una sentenza di condanna, interpretandola come la capacità delle stesse di rafforzare una parte di un quadro probatorio contraddittorio, contenente elementi che parimenti potrebbero condurre ad una condanna o ad un’assoluzione. Cfr., in proposito, Corte eur., 27 settembre 1990, Windisch c. Austria, § 31 ed il commento di A. BALSAMO, Testimonianze anonime, cit., p. 3336. 50

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nima due elementi “deboli” si uniscano creandone uno “forte” ed idoneo a fondare la condanna di un imputato, aggravando l’eventuale compressione dei diritti dello stesso 53.

4. La “testimonianza anonima” nel processo penale italiano. Il dibattito in materia di testimonianza anonima oggi può avere ad oggetto, per quel che riguarda il nostro ordinamento, non solo opportunità e soluzioni future, ma il diritto vivente, ovvero l’ipotesi di testimonianza anonima dei “soggetti” che abbiano svolto attività di indagine sotto copertura 54. La l. 13 agosto 2010, n. 136, introducendo il «Piano straordinario contro le mafie, nonché delega al Governo in materia di normativa antimafia» 55, ha, infatti, apportato rilevanti modifiche alla disciplina relativa alle operazioni sotto copertura 56, fra le quali, per l’argomento che ci occupa, spiccano quelle riguardanti l’art. 497 c.p.p., l’art. 115 disp. att. c.p.p. e l’art. 147-bis disp. att. c.p.p. La prima norma è stata corredata da un nuovo comma 2-bis in cui si legge che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, anche appartenenti ad orga53 Non si ignora, qui, la possibilità che in simili casi la Corte EDU, eventualmente adita, possa valutare la procedura come “unfair”. Qualora si dovesse adottare in un ordinamento l’approccio della Corte EDU nell’ammissibilità della testimonianza anonima, facendo riferimento alla regola di valutazione della prova della “non decisività”, senza ridurla alla mera necessità di ulteriori elementi che confermino l’attendibilità di quelli anonimi, si dovrebbe citare anche un altro aspetto di “variabilità” del concetto, ricordando come la nozione di decisività assuma un significato mobile, a seconda del contesto ordinamentale in cui la si utilizza e, soprattutto, dei meccanismi adottati all’interno dello stesso, affidati al giudice per valutare le prove ed assumere la decisione di merito, nonché secondo lo standard probatorio richiesto per la condanna. 54 Sulle indagini sotto copertura si veda V. FANCHIOTTI, voce Agente sotto copertura, in Enc. dir., Annali VIII, Giuffrè, Milano, 2015, p. 1 ss. Si veda anche G. BARROCU, Le indagini sotto copertura, Jovene, Napoli, 2011, passim. Il d.lgs. 21 giugno 2017, n. 108, che dà attuazione alla Direttiva 2014/41/UE relativa all’ordine europeo di indagine penale, all’art. 21 detta la disciplina, per l’ambito di operatività del d.lgs. n. 108/2017 menzionato, delle operazioni sotto copertura. Per un’analisi del d.lgs. n. 108/2017 si vedano, per tutti, G. BARROCU, La cooperazione investigativa in ambito europeo, Cedam, Padova, 2017, p. 191 ss.; L. CAMALDO, La normativa di attuazione dell’ordine europeo di indagine penale: le modalità operative del nuovo strumento di acquisizione della prova all’estero, in Cass. pen., 2017, p. 4196 ss.; M. DANIELE, L’ordine di indagine europeo entra a regime. Prime riflessioni sul d.lgs. n. 108 del 2017, in Dir. pen. cont., 2017, p. 208 ss. 55 Per un commento alla legge si veda AA.VV., L. 13.8.2010 – Piano Straordinario contro le mafie, nonché delega al governo in materia di normativa antimafia (GU 23.08.2010 n. 196), in LP, 2010, p. 438 ss. 56 Sulla parte specifica si veda A. CISTERNA, Legge 13 agosto 2010, n. 136. Piano Straordinario contro le mafie, nonché delega al governo in materia di normativa antimafia (GU 23.08.2010 n. 196 – Serie Generale), in A. GIARDA-G. SPANGHER (a cura di), Codice di procedura penale commentato, IV ed., Ipsoa, Milano, 2010, App., p. 1 ss.

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nismi di polizia esteri, gli ausiliari, nonché le interposte persone, chiamati a deporre, in ogni stato e grado del procedimento, in ordine alle attività svolte sotto copertura ai sensi dell’art. 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146, e successive modificazioni, invitati a fornire le proprie generalità, indicano quelle di copertura utilizzate nel corso delle attività medesime». Si tratta, evidentemente, almeno per le definizioni che abbiamo qui assunto a parametro della nostra indagine, di un’ipotesi a pieno titolo di testimonianza anonima assoluta, poiché l’identità reale del dichiarante viene celata non solo al pubblico ed al giudice, ma anche all’imputato ed al suo difensore 57. La protezione di tale identità trova piena tutela, non limitatamente, per ragioni di efficacia, al momento dell’escussione, ma anche attraverso la modifica apportata dalla l. n. 136/2010 all’art. 115 disp. att. c.p.p. che prevede, al nuovo comma 1-bis, come le annotazioni di cui all’art. 357 c.p.p., se riguardanti attività svolte all’interno di operazioni sotto copertura, contengano le generalità fittizie usate dall’agente o dall’ufficiale durante il compimento delle stesse 58. Come appare evidente, delle reali generalità dei soggetti coinvolti non rimane, quindi, traccia nei fascicoli del procedimento 59. È necessario rammentare, inoltre, che, a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 136/2010, l’escussione del dichiarante si deve svolgere secondo le modalità contenute nel novellato art. 147-bis disp. att. c.p.p., non più dedicato, come già esplicitano le parole della rubrica, solo all’esame delle persone che collaborano con la giustizia e degli imputati di reato connesso, ma anche a quello degli operatori sotto copertura, la cui testimonianza sarà assunta, secondo le parole del comma 1-bis, «con le cautele necessarie alla tutela e alla riservatezza della persona sottoposta all’esame e con modalità determinate dal giudice o, nei casi di urgenza, dal presidente, in ogni caso idonee ad evitare che il volto di tali soggetti sia invisibile» e, secondo il dettato congiunto dei commi 2 e 3, lett. c-bis, con lo strumento del “telesame”, a meno che il giudice non «ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona da esaminare». Le disposizioni normative, per delineare questa forma di testimonianza, sembrano aver aggiunto un tassello a quello che è stato definito un vero e proprio procedimento probatorio 60, per quanto attiene al momento di formazione della prova in dibattimento. Esse presentano, però, numerosi aspetti oscuri e critici. 57 Parla di «anonimato sostanziale» A. ZAPPULLA, Art. 8 – Modifiche alla disciplina in materia di operazioni sotto copertura, in AA.VV., L. 13.8.2010 – Piano Straordinario contro le mafie, cit., p. 457. 58 Sull’evoluzione, per quanto riguarda le varie fasi del procedimento, della legislazione in materia di protezione dell’identità dell’agente sotto copertura si veda G. BARROCU, Le indagini sotto copertura, cit., p. 113 ss. che a p. 119, a proposito delle novità legislative, fa riferimento al raggiungimento di una «tutela completa dell’identità e dei connotati fisici» dei soggetti operanti nelle indagini sotto copertura. 59 Cfr. infra, in questo stesso paragrafo. 60 A. CISTERNA, Legge 13 agosto 2010, cit., p. 4.

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Per quanto concerne i primi occorre mettere ordine negli scarsi dati contenuti nelle disposizioni citate e comprendere che cosa la legge dica esplicitamente e quali dati rimangano, invece, lacunosi. Il testo dell’art. 497 comma 2-bis c.p.p. chiarisce esplicitamente quale sia l’ambito soggettivo e oggettivo di operatività della norma: si applica non solo agli esponenti della polizia giudiziaria italiana e straniera, ma anche ai loro ausiliari ed ai soggetti privati che possono essere eventualmente utilizzati nelle operazioni, quali interposte persone 61; inoltre copre tutte le ipotesi in cui tali soggetti vengano sentiti dall’autorità procedente, in fase di indagini, nel corso di incidente probatorio, nell’udienza preliminare, nel caso in cui si proceda con il giudizio abbreviato e, ovviamente, in sede dibattimentale quali testimoni o soggetti che potranno, poi, successivamente, assumere quel ruolo 62. La protezione, infine, opera solo quando il soggetto venga sentito «in ordine alle attività svolte sotto copertura ai sensi dell’articolo 9 della legge 16 marzo 2006, n. 146», ma non sembra estendersi alle audizioni ai sensi dell’art. 210 c.p.p. 63, mentre i riferimenti lessicali contenuti nella norma paiono rendere possibile la sua operatività anche nei casi in cui si utilizzi l’istituto della testimonianza assistita ai sensi dell’art. 197-bis c.p.p. Il comma della norma in esame tace, invece, sul fatto che l’identità del teste sia rivelata o meno al giudice ed anche sulla necessità per il testimone, quando declini le proprie generalità di copertura, di palesarne la natura fittizia. Sembra in entrambi i casi di poter dare risposta negativa, secondo il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, e, per quanto riguarda l’ultimo interrogativo, di poter rendere, quindi, la “finzione”, in caso di testimonianza relativa alle indagini sotto copertura, assoluta, anche nel confronto con quegli ordinamenti che ammettono la testimonianza anonima, palesando, però, il ricorso alla stessa nel corso dell’escussione. È vero che, come si è osservato ad altro riguardo, l’imputato dovrebbe conoscere il teste, avendo avuto contatti con lui nel corso delle operazioni, ma è anche vero che non dobbiamo dimenticare come nel nostro ordinamento, oltre che a livello sovranazionale, operi il principio della presunzione di non colpevolezza, forse troppo spesso posto di lato da diversi interventi legislativi, e come, quindi, di fronte al giudice sieda un imputato che potrebbe non aver alcun coinvolgimento nei fatti per cui si procede 64. In realtà, si ritiene che la finzione debba necessariamente essere svelata qualora la difesa ponga al teste domande sulla sua identità o dalle quali possa derivare una risposta “compromettente” 65. 61 Sul fatto che nella nozione di «interposte persone» rientrino anche i soggetti privati cfr. G. AMATO, Acquisto simulato da parte dei «privati», in Guida dir., 2006, n. 12, pp. 117-118. 62 Sul punto si veda A. ZAPPULLA, Art. 8, cit., p. 459. 63 Lamenta questo fatto G. BARROCU, Le indagini sotto copertura, cit., pp. 116-117. 64 Per la riflessione riportata si veda A. ZAPPULLA, Art. 8, cit., pp. 460-461. 65 Cfr. infra, in questo stesso paragrafo. Non si vede come, infatti, il teste possa non rispondere alle domande senza svelare di aver declinato un’identità di copertura.

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In sintesi: il teste declina le proprie generalità sotto copertura e non dichiara la natura delle stesse; la sua reale identità è sconosciuta all’imputato, al suo difensore ed al giudice, mentre può essere nota al pubblico ministero 66; infine, depone in maniera “protetta”, con il volto celato e, salvo i casi di necessità, fuori dall’aula attraverso i meccanismi del “telesame”. I profili problematici, come detto, sono molteplici. Per poter, anche in questo caso, raccogliere tutti gli elementi rilevanti e utili ai fini di una riflessione critica, occorre aggiungere un tassello all’esame della giurisprudenza della Corte EDU in materia di testimonianza anonima, con riguardo alle posizioni assunte nelle decisioni in cui è stato trattato in modo specifico il problema relativamente all’agente sotto copertura 67. Ciò che sembra essenziale estrapolare dalle sentenze menzionate è, innanzitutto, la posizione generale della Corte secondo cui sarebbe legittimo per le forze dell’ordine nazionali l’interesse a voler mantenere celata l’identità dei propri agenti per proteggerli ed anche per poterli riutilizzare in futuro 68, ma al contempo, quella espressa in un provvedimento successivo, in cui essa afferma che «[i]n the Court’s opinion, the balancing of the interests of the defence against arguments in favor of maintaining the anonymity of witnesses raises special problems if the witnesses in question are members of the police force of the State. Although their interests l and indeed those of their families – also deserve protection under the Convention, it must be recognized that their position is to some extent different from that of a disinterested witness or a victim. They owe a general duty of obedience to the State’s executive authorities and usually have links with the prosecution; for these reasons alone their use as anonymous witnesses should be resorted to only in exceptional circumstances. In addition, it is in the nature of things that their duties, particularly in the case of arresting officers, may involve giving evidence in open court» 69. Nella stessa decisione la Corte chiarisce come le restrizioni dei diritti della difesa determinate dalla testimonianza anonima 70, anche se di persone che abbiano svolto operazioni sotto copertura, debbano essere strettamente necessarie per assicurare una corretta amministrazione della giustizia 71 e come tale necessarietà debba essere valutata in concreto dal giudice procedente, rifuggendo, quindi, da ogni ti66 Sul punto si veda A. ZAPPULLA, ivi, p. 457 dove l’A. ricorda come il PM possa far richiesta all’organo che ha disposto le operazioni del nominativo dei soggetti impiegati nelle stesse, ai sensi dell’art. 9 comma 4 l. n. 146/2006. 67 Per una trattazione dettagliata dei leading cases si vedano G. BARROCU, Le indagini sotto copertura, cit., p. 130 ss. e S. LONATI, Il diritto dell’accusato, cit., p. 241 ss. 68 Corte eur., 15 giugno 1992, Ludi c. Svizzera, § 49. 69 Corte eur., 23 aprile 1997, Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi, § 56. 70 Cfr. supra, § 3. 71 Corte eur., 23 aprile 1997, Van Mechelen e altri c. Paesi Bassi, § 58.

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po di presunzione 72. L’eccezionalità della misura dell’anonimato, anche attuata attraverso una valutazione della sua indispensabilità in concreto, si affianca, nella giurisprudenza della Corte, a tutti gli altri passaggi dell’«editto pretorio» sopra esaminato che richiedono, come visto, una conoscenza da parte del giudice dell’identità del teste per valutarne l’attendibilità (con conseguente obbligo motivazionale), un’opportunità per la difesa di confrontarsi con l’accusatore, nonché dei limiti al valore probatorio delle dichiarazioni ottenute, da cui dovrebbe derivare un ulteriore obbligo motivazionale. Nei commenti sulle modifiche introdotte dalla l. n. 136/2010 e sull’ipotesi di testimonianza anonima non sono mancate riflessioni generali sull’eventuale contrasto delle disposizioni analizzate con la Costituzione e con la giurisprudenza della Corte EDU direttamente incidente, ai sensi della sentenza della Corte costituzionale 348/2007 73, sulla compatibilità della disciplina nostrana con l’art. 6(3)(d) CEDU 74. Il mancato uniformarsi, da parte del legislatore italiano, al contenuto delle decisioni sopra menzionate è evidente e forse di più semplice trattazione rispetto agli aspetti di incostituzionalità astratta: non si rintraccia, come detto, la previsione di una verifica da parte del giudice della necessità (e indispensabilità) del ricorso all’anonimato. Tale difetto sembra essere dovuto al fatto che il legislatore ha scelto di celare l’identità a prevalenti fini di “conservazione delle risorse investigative”, con eventuali e solo indiretti effetti anche sulla tutela dell’incolumità del testimone e dei suoi famigliari 75; tale giustificazione, come si è visto, non sembra, però, poter salvaguardare la disciplina da profili di contrasto con la linea interpretativa adottata dalla Corte sulla eccezionalità della misura, da valutarsi in modo concreto ed attuale. Il legislatore ha riconosciuto, a priori, la necessarietà dell’anonimato, non solo con riguardo ad agenti ed ufficiali di polizia interni o stranieri, ma anche a privati, cioè quelle interposte persone, la cui attività sotto copertura potrebbe, più che nel primo caso, avere carattere di mera occasionalità. Ancora: la mancata rivelazione dell’identità del dichiarante al giudice impedisce, di fatto, la valutazione della credibilità 72 Ivi, § 61. Si rammenti che nel caso esaminato dalla Corte per alcuni degli agenti era stato richiesto l’anonimato per motivi di protezione degli stessi e delle loro famiglie, per altri, invece, la protezione era volta a consentire il reimpiego di questi in future operazioni (ivi, § 17 ss.). 73 Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, cit. 74 G. BARROCU (Le indagini sotto copertura, cit., p. 120) parla, generalmente, di contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. e, poi, per quanto riguarda le difformità della disciplina con i dicta della Corte EDU, si concentra sugli aspetti relativi alla mancata conoscenza dell’identità del dichiarante da parte del giudice (ID., ivi, pp. 133-134). A. ZAPPULLA (Art. 8, cit., p. 458), in relazione a quest’ultimo aspetto, individua una tensione con il principio della parità tra le parti e, per quanto attiene al segreto sull’identità mantenuto nei confronti della difesa, di contrasto con la facoltà di esaminare le persone che rendano dichiarazioni a carico, prevista dall’art. 111 comma 3 Cost. 75 A. ZAPPULLA, Art. 8, cit., p. 453.

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del teste, per quanto limitata ad una riflessione unilaterale, senza godere dei preziosi elementi che possono emergere nel contraddittorio durante il controesame, quando l’imputato ed il suo difensore sono a conoscenza della stessa e possono, quindi, porre domande che si estendono «anche ai rapporti di parentela e di interesse che intercorrono tra il testimone e le parti o altri testimoni nonché alle circostanze il cui accertamento è necessario per valutarne la credibilità» ai sensi dell’art. 194 comma 2 c.p.p. 76. In tal modo si determina una forte menomazione della funzione del giudice e di uno dei segmenti del procedimento probatorio (quello dedicato alla valutazione della prova) con conseguenze evidenti sulla consistenza degli elementi raccolti e sulla loro idoneità ad assumere un valore probatorio 77. Sicuramente la disciplina esaminata presenta delle frizioni con i contenuti della Costituzione e, come riportato dai commentatori, con gli artt. 24, 111 comma 2 e 3 78, forse anche con l’art. 27 comma 2, per quanto attiene alla presunzione di non colpevolezza. Ci si vuole domandare, però, in questa sede se si possa profilare un contrasto con l’art. 111 comma 4 Cost., decisamente più difficile da superare, se non nei casi riconducibili ad una delle eccezioni previste dal comma successivo, anche nel caso in cui si dovesse, de iure condendo, risolvere il problema della mancanza assoluta di valutazione della prova, colmando in parte la difformità rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU, affidando quella valutazione al giudice di fronte al quale si forma la prova, reso edotto dell’identità del teste, o ad un altro magistrato 79. Per far ciò ci si permette di prendere a prestito il ragionamento da autorevole dottrina in relazione alla testimonianza anonima in generale 80. Si tratta, quindi, di domandarsi se, celando l’identità del testimone all’imputato ed al suo difensore, si stia discutendo dell’an o del quomodo della regola del contraddittorio 81. La risposta 76

A. CISTERNA, Legge 13 agosto 2010, cit., pp. 7-8. Il legislatore del 2010 ha omesso di conformarsi alla giurisprudenza della Corte europea anche per quanto riguarda la regola di valutazione della testimonianza anonima che, pur criticabile (cfr. supra, § 3), fa parte del protocollo elaborato dai giudici di Strasburgo. La preoccupazione è stata condivisa recentemente anche da esponenti della magistratura. In proposito si veda F. NANNI, Conoscenze ottenute sotto copertura, in AA.VV., Investigazioni e prove transnazionali, Giuffrè, Milano, 2017, p. 170. 78 Cfr. supra, in questo stesso paragrafo, nota 74. 79 La soluzione prospettata anche per l’ordinamento italiano è quella di rivelare al giudice ed al pubblico ministero la vera identità del testimone in modo che il primo possa «controllare se l’anonimato possa influire sulla valenza probatoria della testimonianza» (cfr. M. DANIELE, La formazione digitale delle prove dichiarative. L’esame a distanza tra regole interne e diritto sovranazionale, Giappichelli, Torino, 2012, p. 78; F. NANNI, Conoscenze ottenute sotto copertura, cit., p. 170). 80 F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., p. 66 ss. 81 Per quanto attiene alla regola del contraddittorio si vedano, ex multis, N. GALANTINI, Giusto processo e garanzia costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova, in Dir. 77

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data da quell’autorevole dottrina era dirompente, ma condivisibile, se non rassicurante. Celare l’identità del teste all’imputato, eventualmente affidando ad altri la verifica della sua credibilità, significa, necessariamente, impedirgli di porre domande sulla stessa e, al contempo, consentire al testimone di tacere quelle risposte che potrebbero rivelarla, privando «il contraddittorio di un suo ingrediente necessario» e impedendo «alla cross-examination di raggiungere la massa critica necessaria per farlo deflagrare» 82. Unico spazio residuo e legittimo, costituzionalmente parlando, per la testimonianza anonima veniva trovato, come accennato, negli stretti limiti dell’eccezione della «provata condotta illecita» ai sensi dell’art. 111 comma 5 Cost. 83. Il ragionamento sembra, a parere di chi scrive, perfettamente utilizzabile anche in relazione alla testimonianza anonima ai sensi dell’art. 497 comma 2bis c.p.p. con un margine quasi nullo per salvare la stessa da una pronuncia di incostituzionalità. Ancora una volta la CEDU, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, sembra aver previsto garanzie minime inferiori a quelle riconosciute a livello costituzionale, oltre che codicistico, nel nostro ordinamento, senza, però, potersene dedurre, solo sulla base di questo dislivello, un contrasto della disciplina interna rispetto al testo della Convenzione 84.

5. Whistleblowing e ripercussioni sul processo penale: dalla l. 6 novembre 2012, n. 190 alla l. 30 novembre 2017, n. 179. La l. 6 novembre 2012, n. 190, contenente Disposizioni per la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione ha inserito l’art. 54-bis nel testo del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, introducendo nel nostro ordinamento il c.d. whistleblowing, ovvero l’atto del «pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro», il cui testo è stato, recentemente sostituito dall’art. 1 della l. 30 novembre 2017, n. 291. La norma, nella sua versione originaria, offriva tutela al “denunciante”, che si esplicitava, per quanto qui intepen. cont., 2011; G. GIOSTRA, voce Contraddittorio (principio del). II) Diritto processuale penale, in Enc. giur. Treccani, Agg. X, Treccani, Roma, 2001, p. 1 ss.; con riferimento specifico alla CEDU, G. UBERTIS, La tutela del contraddittorio e del diritto di difesa tra CEDU e trattato di Lisbona, in Cass. pen., 2010, p. 2494 ss. 82 F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., pp. 67-68. 83 F. CAPRIOLI, ivi, pp. 68-69. Sul cosiddetto “contraddittorio inquinato” si veda M.L. BUSETTO, Il contraddittorio inquinato, Cedam, Padova, 2009. 84 Cfr. G. UBERTIS, La Corte di Strasburgo quale garante del giusto processo, in Argomenti di procedura penale. III, Giuffrè, Milano, 2011, p. 209.

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ressa, attraverso l’anonimato del whistleblower disciplinato nei seguenti termini: «Nell’ambito del procedimento disciplinare, l’identità del segnalante non può essere rivelata, senza il suo consenso, sempre che la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l’identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato» 85. L’anonimato era previsto dalla disposizione nell’ambito del procedimento disciplinare, se pure modulato diversamente a seconda che la contestazione fosse fondata su accertamenti distinti dalla segnalazione oppure sulla stessa, in tutto o in parte. Il testo legislativo in esame non specificava, quindi, quali rapporti dovessero intercorrere con il processo penale. Si profilavano, così, due possibili vie interpretative. La prima, prospettata dalla dottrina, riteneva che l’anonimato in “sede” disciplinare si riverberasse, necessariamente, sul processo che ci occupa, generando problemi di non facile risoluzione con riguardo alla denuncia anonima, al documento anonimo ed, infine, per quel che qui interessa principalmente, in relazione alla possibilità che la tutela del denunciante, anche all’interno del processo penale, avesse effetto, in qualche modo, sull’ingresso di una sorta di “testimonianza anonima” nell’istruttoria dibattimentale, o meglio sulla possibilità di far entrare dichiarazioni che in qualche modo fossero legate alla necessità di mantenere il segreto sulle generalità del whistleblower 86. Si riteneva così, che in caso di legittima tutela dell’anonimato di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 54-bis, nel corso dell’esame testimoniale di qualunque soggetto dichiarante, fossero inammissibili le domande aventi quale scopo quello di scoprire l’identità dell’autore della denuncia o della segnalazione, fino a quando non si fosse concluso il procedimento disciplinare; così come che il testimone esaminato avesse l’obbligo di astenersi dal rispondere nel caso in cui gli venissero poste domande indirizzate al raggiungimento del medesimo scopo, quando avesse avuto conoscenza delle predette generalità 85 In merito al whistleblowing si veda R. LATTANZI, Prime riflessioni sul c.d. whistleblowing: un modello da replicare “ad occhi chiusi”?, in G. FRASCHINI-N. PARISI-D. RINOLDI (a cura di), Protezione delle “vedette civiche”: il ruolo del whistleblowing in Italia, Transparency International Italia, Milano, 2009, p. 107 ss.; per l’art. 54-bis nella versione introdotta dalla l. n. 190/2012 si veda, in generale, F.M. PERRONE, Il “whistleblowing” da adempimento burocratico ad opportunità di promozione di una cultura etica nella p.a., in un necessario passaggio da un sistema di regole ad un sistema di valori, in www.amministrativamente.com, 2017, p. 1 ss. Con riguardo agli aspetti strettamente penalistici, anche per una panoramica delle critiche all’istituto in chiave comparata, si veda G. AMATO, Profili penalistici del whistleblowing: una lettura comparatistica dei possibili strumenti di prevenzione della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. dell’economia, 2014, p. 549 ss. Per quanto attiene ai riflessi della disciplina sul diritto processuale penale G. SACCONE, Anonimato del dichiarante e processo penale: prime riflessioni a seguito della entrata in vigore della legge 6 novembre 2012, n. 190, in Proc. pen. e giust., 2012, p. 89 ss. 86 G. SACCONE, Anonimato del dichiarante e processo penale, cit., p. 91 ss.

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per ragioni d’ufficio ai sensi dell’art. 201 comma 1 c.p.p. La dottrina che si è occupata delle problematiche in esame, per quanto attiene alla testimonianza indiretta 87, sembrava dare per scontata la non problematicità dell’applicazione del settimo comma dell’art. 195 c.p.p., là dove la semplice “individuazione” della fonte non avrebbe richiesto di svelare l’identità della stessa, concentrando le proprie riflessioni sulla questione inerente la possibilità di escutere la fonte stessa, come previsto dal primo comma della norma, su richiesta di parte o per iniziativa assunta dal giudice d’ufficio. In tal caso, l’anonimato del whistleblower, non poteva essere ricondotto ad una delle ipotesi eccezionali elencate dall’art. 195 comma 3 c.p.p., che definiscono, tassativamente, l’impossibilità di verifica della fonte di riferimento. Venivano, quindi, prospettate due vie da percorrere: il giudice avrebbe dovuto attendere la conclusione del procedimento disciplinare e la cessata operatività della tutela dell’anonimato e, quindi, poi, procedere all’escussione della fonte; oppure egli avrebbe dovuto utilizzare la testimonianza de relato senza escussione della fonte principale, in base all’estensione analogica dei dicta di quella giurisprudenza di legittimità che considera le dichiarazioni indirette utilizzabili anche quando la fonte di riferimento non possa essere materialmente escussa perché si rifiuti di rispondere, invocando, però, «canoni di particolare rigore» nella valutazione da parte del giudice 88. In realtà, atteso il silenzio dell’art. 54-bis sull’operatività dell’anonimato anche nel processo penale, si sarebbe potuto, più semplicemente, concludere per una tutela offerta solo in sede disciplinare che non avrebbe dovuto avere alcun tipo di ripercussione su altre sedi procedimentali, dissolvendo, quindi, tutte le questioni a cui si è fatto cenno. Tale ultima interpretazione sembrerebbe avvalorata dall’entrata in vigore, nelle more della stampa del presente lavoro, della l. n. 291/2017 che, attraverso il dettato dell’art. 1, sostituisce il testo dell’art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 con quello di nuova introduzione. Il terzo comma del novellato art. 54-bis, infatti, pur confermando la tutela del whistleblower, attuata attraverso il generale divieto di rivelare la sua identità, detta, poi, specifiche disposizioni in merito al segreto della stessa nell’ambito del procedimento penale, di quello dinnanzi alla Corte dei conti e di quello disciplinare. In merito al procedimento penale la norma prevede esplicitamente, a differenza del testo della disposizione so87 Sulla testimonianza indiretta, in generale, si vedano, per tutti, C. CESARI, voce Testimonianza indiretta (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali II, vol. I, Giuffrè, Milano, 2008, p. 1134 ss.; G. DI PAOLO, La testimonianza de relato nel processo penale. Un’indagine comparata, Università degli Studi di Trento, Trento, 2002, passim. 88

Per il quadro delle problematiche e per l’ultima opzione interpretativa prospettata si veda G. SACCONE, Anonimato del dichiarante e processo penale, cit., p. 93 ss. là dove, a sostegno della tesi elaborata si citano: Cass., Sez. III, 29 novembre 2006, n. 9801, in Cass. pen., 2007, p. 4752; Cass., Sez. I, 6 luglio 2006, n. 26284, in C.e.d. 235001.

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stituito, che «l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale». Sicuramente la protezione del whistleblower viene ridotta, rispetto alla prima linea interpretativa, se pur incerta, sopra menzionata, potendo essere attuata pienamente solo nel procedimento disciplinare, ma il testo novellato dell’art. 54-bis riafferma in modo esplicito, a fronte dei dubbi interpretativi, le garanzie tradizionalmente operanti nel processo penale, con maggior ossequio alla generale sfiducia del nostro legislatore per tutte le conoscenze di provenienza anonima in questo ambito 89.

6. Anonimato e prova testimoniale nel processo penale internazionale. In conclusione del presente lavoro appare necessario fare chiarezza, come preannunciato, su un altro ambito, all’interno del quale il dibattito in merito alla testimonianza anonima può trovare, ancora, molti spunti per essere portato avanti. Si tratta della giustizia penale internazionale 90 che spesso viene citata, anche dalla dottrina italiana, quale esempio di ordinamento (più che autorevole) che ha aperto le porte all’anonimato 91. Si vogliono, qui, ricostruire le tappe fondamentali attraverso le quali la giurisprudenza, in seno ai Tribunali ad hoc e di fronte alla Corte penale internazionale, ha ammesso, in modo più o meno ampio, il ricorso all’anonimato quale strumento di protezione del testimone. Anche di fronte ai tribunali internazionali, come nel nostro ordinamento, la nozione in questione assume significati diversificati che possono essere definiti “assoluti” o “relativi”. Generalmente si parla di “anonimato assoluto”, riferendosi a quello che protegge il testimone anche in fase dibattimentale attraverso la mancata comunicazione della sua identità al pubblico, all’imputato ed al suo difensore. L’“anonimato relativo” ha una valenza oggettiva, quando riguardi solo una fase del procedimento, generalmente quella che precede il dibattimento (pre-trial) 92; può avere, inoltre, una valenza soggettiva quando l’identità non venga rivelata, anche per tutta la durata del procedimento, al pubblico (essendo, però, nota all’imputato ed al suo difensore). 89

In merito a tale sfiducia si veda C. CESARI, voce Testimonianza indiretta, cit., p. 1139. Si limita, qui, la riflessione alla giurisprudenza del Tribunale per la ex Jugoslavia (ICTY), del Tribunale per il Ruanda (ICTR) e della Corte penale internazionale (ICC). 91 Cfr. F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., p. 49; L. SCOMPARIN, La tutela del testimone, cit., p. 93. 92 I suoi confini si spostano, come vedremo, quando l’identità del testimone venga celata fino alla fine del pre-trial, fino all’inizio del dibattimento o, addirittura, fino all’escussione del teste. 90

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Il primo tipo di anonimato è stato utilizzato una sola volta dai tribunali a cui ci si riferisce. Si tratta del noto caso Tadić, primo ad essere trattato di fronte all’ICTY, e della decisione assunta dalla Camera dibattimentale competente 93, da una maggioranza divisa, dalla quale, poi, la successiva giurisprudenza si è progressivamente allontanata 94, senza mai più ricorrere all’anonimato assoluto del teste, facendovi ricorso, invece, in modo relativo. L’opinion della decisione 95, redatta dal giudice McDonald, prendeva avvio, per affermare l’ammissibilità quale prova della testimonianza anonima, dalla “peculiarità” del sistema in cui si operava (paragonato ad un tribunale militare in cui le garanzie del “due process” possono, secondo l’estensore, venire ridotte 96) e soprattutto, anticipando, mutatis mutandis, quello che sarebbe stato poi il dictum esplicito della Corte EDU nel caso Doorson sul concetto intrinseco del “fair trial”, volto ad assicurare, secondo il provvedimento, un “trattamento giusto” all’imputato, ma anche alla prosecution ed alle vittime 97. La maggioranza non si limita a richiamare la giurisprudenza antecedente Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, 10 August 1995. 94 Cfr. infra, in questo stesso paragrafo. 95 A commento della decisione in esame si vedano, ex multis¸ C. CHINKIN, Due Process and Witness Anonymity, in A.J.I.L., 1997, vol. 91, p. 75 ss.; M. LEIGH, Wintness Anonymity is Inconsistent with Due Process, in A.J.I.L., 1997, vol. 91, p. 80 ss.; J. NICHOLLS, Evidence and Anonymous Witnesses, in R. HAVEMAN-O. KAVRAN-J. NICHOLLS (eds.), Supranational Criminal Law: a System Sui Generis, Intersentia, 2003, p. 278 ss. Il contenuto della decisione da alcune voci della dottrina è stato accolto positivamente e da altre aspramente criticato. Per un resoconto della stessa cfr. S. ZAPPALÀ, Ammissibilità dell’anonimato come misura per la protezione dei testimoni, in Dir. pen. proc., 1997, p. 1090. Per un’idea sul conflitto delle posizioni e delle motivazioni poste a loro fondamento si vedano gli scritti di C. CHINKIN, Due Process, cit. e M. LEIGH, Witness Anonymity, cit. Per una rivalutazione, a distanza di anni, di tale acceso dibattito cfr. B. ARIFI, Human Rights Aspects of Witnesses Protection and its Importance for the ICTY, in T. KUESSMAN (ed.), ICTY: Towards a Fair Trial?, Intersentia, 2008, p. 241 ss. di cui non si condividono, però, le conclusioni. Fra la dottrina italiana si deve ricordare l’autorevole voce critica, del tutto condivisibile, di M. CAIANIELLO, Il processo penale nella giustizia internazionale: casi giurisprudenziali dall’esperienza dei Tribunali ad hoc, in G. ILLUMINATI-L. STORTONI-M. VIRGILIO (a cura di), Crimini internazionali tra diritto e giustizia, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 154155. 96 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 28. 97 Letteralmente: «A fair trial means not only fair treatment to the defendant but also to the prosecution and to the witnesses» (Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 55). Nella sentenza Doorson c. Paesi Bassi la Corte EDU ha scritto: «[…] principle of fair trial also require that in appropriate cases the interests of the defence are balanced against those of witnesses or victims called upon to testify» (Corte eur., Doorson c. Paesi Bassi, cit., § 70). Si deve rammentare come la richiesta di anonimato nel caso Tadić riguardasse vittime di crimini internazionali a sfondo sessuale e, quindi, testimoni considerati “vulnerabili”. 93

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della Corte di Strasburgo 98, ma la utilizza nel dettaglio al fine di predisporre il protocollo per l’ammissione e l’assunzione della prova anonima 99, senza rinunciare, però, all’adozione di altre misure che il giudice procedente identifichi come necessarie 100. Nonostante la decisione invochi le norme dello Statuto e delle Rules of Procedure and Evidence, per dimostrare come l’ammissione di una testimonianza anonima possa considerarsi legittima secondo il disposto delle stesse 101, la debolezza di tale conclusione sembra evidenziata dalla loro analisi testuale 102 e ulteriormente provata dalla necessità che la Corte sente di invocare la giurisprudenza della Corte EDU 103. Il giudice Stephen, nella sua motivazione dissenziente, dopo un’attenta disamina delle medesime disposizioni richiamate dalla maggioranza, raggiunse, invece – a parere di chi scrive in modo assai più convincente 104 – una conclusione opposta, ritenendo la testimonianza anonima non fondata normativamente, perché in violazione del right to confrontation e, più in generale, del fair trial 105. Successivamente al caso Tadić, la giurisprudenza dell’ICTY sembra aver preso progressivamente, anche se non sempre in modo netto, le distanze dalla 98 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 56. 99 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 71. 100 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 73. 101 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decision on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, cit., § 57 ss. 102 Si tratta degli articoli 20, 21, 22 ICTY St. e delle Rules 69 e 75 delle ICTY RPE. Il dato testuale forte da cui si ricava la conclusione esposta è quello rintracciabile nell’art. 20(1) dello Statuto che recita: «The Trial Chambers shall ensure that a trial is fair and expeditious and that proceedings are conducted in accordance with the rules of procedure and evidence, with full respect for the rights of the accused and due regard for the protection of victims and witnesses». Il rapporto lessicale fra «full respect» e «due regard» non sembrerebbe lasciare spazio a forme di anonimato assoluto che pregiudichino i diritti dell’imputato. 103 La decisione può essere analizzata, infatti, anche dal punto di vista del rapporto fra le fonti applicabili. In proposito si veda N.A. AFFOLDER, Tadić, The Anonymous Witness and the Sources of International Procedural Law, in Mich. J. Int’l L., vol. 19, 1998, p. 445 ss. 104 In tal senso si veda C. BUISMAN, Defense and Fair Trial, in R. HAVEMAN-O. KAVRAN-J. NICHOLLS (eds.), Supranational Criminal Law, cit., p. 286. 105 Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Separate Opinion of Judge Stephen on the Prosecutor’s Motion Requesting Protective Measures for Victims and Witnesses, 10 August 1995. Si deve ricordare anche che nel caso in esame il Prosecutor fu costretto a chiedere la revoca della misura dell’anonimato in relazione al testimone L, poiché fu scoperto che quest’ultimo aveva mentito durante la sua deposizione, indotto dalle istruzioni ricevute dal governo bosniaco (cfr. Prosecutor v. Tadić, IT-94-1-T, Decison on Prosecutor’s Motion to Withdraw Protective Measures for Witness L, 5 December 1996, § 4).

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decisione esaminata 106. Da allora i due Tribunali ad hoc non hanno più fatto ricorso alla testimonianza anonima “assoluta”, pur utilizzando quella “relativa” 107. Essi, però, hanno concluso la loro attività giurisdizionale e ciò che, qui, preme è riflettere sull’ammissibilità dell’anonimato del testimone in seno alla Corte penale internazionale, realtà in movimento, spesso criticata sia per le sue scelte di “politica criminale” sia per il modo in cui le questioni relative alla fairness del processo vengono trattate e risolte dai giudici competenti in presenza di frequenti lacune o ambiguità normative 108. Per comprendere se lo Statuto e le Rules, in assenza di una esplicita previsione 109, lascino spazio a forme di anonimato si debbono leggere ed analizzare l’art. 64(2) ICC St., che affida alla camera dibattimentale il compito di assicurare un processo giusto e rapido, condotto con «full respect for the rights of the accused and due regard for the protection of victims and witnesses»; l’art. 67(1)(e) ICC St. che sancisce il diritto al confronto; l’art. 68 dello stesso testo, nel quale, al primo com106 Il provvedimento che sembra segnare un decisivo revirement è quello assunto nel caso Blaskić, dove i giudici, pur non negando la correttezza normativa del ricorso alla testimonianza anonima assoluta, elaborano un principio di prevalenza della tutela dei diritti dell’imputato rispetto a quella accordata al testimone. Essi scrivono: «The philosphy which imbues the Statute and the Rules of the Tribunal appears clear: the victims and witnesses merit protection, even from the accused, during the preliminary proceedings and continuing until a reasonable time before the start of the trial itself: from that time forth, however, the right of the accused to an equitable trial must take precedence and require that the veil of anonymity be lifted in his favour, even if the veil must continue to obstruct the view of the public and the media» (Prosecutor v. Blaskić, IT-95-14-T, Decision on the Application of the Prosecutor dated 17 October 1996 requesting protective measures for victims and witnesses, 5 November 1996, § 24). Di fronte all’ICTR tale allontanamento è ancora meno marcato: sul punto si veda J. PZEN, Justice Obscured: the non-Disclosure of Witnesses’Identity in ICTR Trials, in Int’l L. & Politics, vol. 38, 2006, p. 295 ss. Sulle ulteriori limitazioni del diritto al confronto con l’accusatore nella giurisprudenza dell’ICTY e dell’ICTR si veda N. CROQUET, Implied External Limitations on the Right to CrossExamine Prosecution Witnesses: the Tension Between a Means Test and a Balancing Test in the Appraisal of Anonimity Request, in Melbourne J. Int’l L., vol. 11, 2010, p. 1 ss. Per una panoramica sul problema della testimonianza anonima nell’ambito della giustizia penale internazionale si veda anche T. WELCH-H. HAIDER-M. MEENAGH-Y. M’BOGE, Witness Anonymity at the International Criminal Court: Due Process for Defendants, Witness or Both?, in The Danning L. J., vol. 23, 2011, p. 29 ss. 107 Per un’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza in materia in seno all’ICTY cfr. M.E. KURTH, Anonymous witnesses before the International Criminal Court: Due process in dire straits, in C. STAHN-G. SLUITER (eds.), The Emerging Practice of the International Criminal Court, Martinus Nijhoff, 2009, p. 621 ss. Per una critica al ricorso all’anonimato, se pur parziale, di fronte all’ICTR si veda, ex multis, J. POZEN, Justice Obscured: The Non-Disclosure of Witnesses’Identities in ICTR Trials, in NY U. J. Int’l L. & Pol., vol. 38, 2005-2006, p. 281 ss. Sui tempi individuati dalla giurisprudenza dell’ICTY e dell’ICTR per la “full disclosure” si veda S. KIM, The Witness Protection Mechanism of Delayed Disclosure at the Ad Hoc International Criminal Tribunals, in JEAIL, vol. IX, 2016, p. 59 ss. 108 Si veda, volendo, M. MIRAGLIA, Happy birthday ICC, cit., p. 1 ss. 109 Cfr. infra, in questo stesso paragrafo.

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ma, si prevede la facoltà di adottare misure di protezione nei confronti delle vittime e dei testimoni che «shall not be prejudicial to or incosistent with ther rights of the accused and a fair and impartial trial» – formula ripetuta al comma 3 per limitare la partecipazione delle vittime – ed al quinto comma si consente di secretare prove e informazioni tali da mettere in grave pericolo la sicurezza di un testimone e della sua famiglia, ma solo «for the purposes of any proceedings conducted prior to the commencement of the trial». Per quanto attiene alle Rules of Procedure and Evidence si deve far riferimento, in primis, alla Rule 76(1) ICC RPE, che impone al Prosecutor di «provide the defence with the names of witnesses whom the Prosecutor intends to call to testify and copies of any prior statements made by those witnesses» e di comunicare, successivamente, eventuali nominativi aggiuntivi (Rule 76 comma 2), nonché al fondamentale disposto della Rule 81(5) il cui testo prevede la possibilità di “non disclosure” alla difesa di materiali o informazioni in possesso del Prosecutor (e qui si richiama il testo dell’art. 68 dello Statuto sopra menzionato), ma anche la non utilizzabilità quali elementi di prova o prove, rispettivamente, durante la confirmation hearing (udienza deputata alla conferma da parte della camera pre-dibattimentale delle imputazioni formulate dall’accusa ex art. 61 ICC St.) e durante il trial, dei menzionati materiali ed informazioni, a meno che gli stessi non siano stati oggetto di «adeguate prior disclosure» nei confronti della difesa 110. L’analisi delle norme menzionate sembrerebbe escludere l’ammissibilità di qualunque forma di anonimato nella fase dibattimentale e, quindi, l’individuazione di uno sbarramento normativo, almeno dopo la confirmation hearing. A tal scopo si può utilizzare l’argomento già sviluppato per analizzare le norme applicabili di fronte all’ICTY: anche in questo caso il rapporto lessicale fra i termini utilizzati nel secondo comma dell’art. 64 ICC St. («full respect», per quanto riguarda i diritti dell’imputato, «due regard», per quelli riferibili alle vittime ed ai testimoni) non sembra lasciare molto spazio ad una diversa interpretazione. I drafters dello Statuto sembrano essersi posti esplicitamente il problema, risolto con il termine inserito nel quinto comma dell’art. 68 che limita l’adozione delle misure in esso elencate ad una fase antecedente all’inizio del dibattimento. Ancora una volta, ubi lex voluit dixit, ubi nolui tacuit: se avessero voluto estendere la protezione al trial lo avrebbero detto esplicitamente o non avrebbero inserito il termine menzionato. Di contro, non si può tralasciare l’esame della Rule 88, in cui si legge: «Upon the motion of the Prosecutor or the defence, or upon the request of a witness or a victim or his or her legal representative, if any, or on its own motion, and after having consulted with the Victims and Witnesses Unit, as appropriate, a Chamber may […] order special measures such as, but not limited to, measures to facilitate the testimony of a traumatized victim or witness110 Sulla normativa applicabile si veda C. STAHAN, The Law and Practice of the International Criminal Court, Oxford University Press, Oxford, 2015, p. 1105 ss.

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es, a child, an elderly person or a victim of sexual violence, pursuant to article 68, paragraphs 1 and 2» 111. Volendo giustificare, normativamente, l’utilizzabilità dell’anonimato quale misura di protezione per i testimoni si potrebbe interpretate la formula «such as, but not limited to» per dimostrare la fondatezza della tesi 112, sostenendo che la non esaustività delle misure contemplate può consentire al giudice di disporre l’anonimato del teste, superando il limite temporale sancito dall’art. 68 comma 5 ICC St., interpretandolo come riferito solo al Prosecutor e non all’organo giudicante. Non si dimentichi, però, che la questione relativa all’ammissibilità dell’anonimato, inteso quale mancata comunicazione all’imputato ed al suo difensore dell’identità del testimone da escutersi in dibattimento, fu esplicitamente affrontata e dibattuta durante la seconda sessione di lavoro della Preparatory Commission, su impulso di una proposta elaborata proprio dalla delegazione italiana, la cui intenzione, sulla scia della giurisprudenza della Corte di Strasburgo 113, era quella di far accettare l’utilizzabilità della testimonianza anonima nel processo di fronte alla Corte penale internazionale, se pur con un correttivo che avrebbe dovuto, nell’intenzione dei proponenti, garantire i diritti della difesa: la nomina di un “guardian of the witness”, dotato di poteri investigativi tali da consentirgli di verificare l’attendibilità del teste 114. Tale accorgimento, evidentemente, non rappresentava affatto una soluzione per i problemi legati alla limitazione del diritto al controesame, in presenza di un testimone di cui la difesa non conoscesse l’identità. Il dibattito avente ad oggetto la proposta chiarì la posizione della Preparatory Commission: poche delegazioni mostrarono il loro favore – fra cui l’Italia e, ovviamente, l’Olanda 115 – e la maggioranza si schierò contro la stessa, considerando l’anonimato quale misura tale da impedire l’effettivo esercizio del diritto alla cross-examination, sancito dall’art. 67 116. 111 Non si fa riferimento, invece, al testo della Rule 87 ICC RPE che ha come scopo quello di proteggere l’identità della vittima e del testimone nei confronti del pubblico e non nei confronti delle parti. In proposito si veda H. BRADY, Victims and Witnesses-Protective and Special Measures for Victims and Witnesses, in R.S. LEE (ed.), The International Criminal Court. Elements of Crimes and Rules of Procedure and Evidence, Transnational Publishers, 2001, p. 445. 112 Cfr. H. BRADY, Victims and Witnesses-Protective and Special Measures, cit., p. 453. 113 I motivi sottesi alla proposta italiana di utilizzabilità della testimonianza anonima potrebbero anche essere stati di diverso genere, come, ad esempio avere un autorevole precedente, oltre alle decisioni della Corte EDU, che giustificasse l’introduzione dell’istituto nel nostro ordinamento. 114 Proposal Submitted by Italy, PCNICC/1999/WGRPE/DP.20 (28 July 1999). 115 Si rammenti che l’Olanda è uno dei Paesi europei che, con la sua legislazione in materia di testimonianza anonima, ha dato adito a numerose decisioni della Corte EDU, soprattutto quella pronunciata nel caso Doorson che ha segnato una notevole apertura verso l’istituto. 116 Cfr. H. BRADY, Protective and Special Measures, cit., p. 451.

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È vero che la Commission decise di non redigere una norma specifica in materia di “anonymous witnesses”, il cui testo ne escludesse l’utilizzabilità di fronte alla Corte, ma è anche vero che la proposta sopra menzionata, reiterata durante la quarta sessione dei lavori dall’Italia, non fu mai accolta e venne strenuamente opposta da parte della maggioranza delle delegazioni 117. Il mancato accoglimento della stessa sembra rafforzare la tesi relativa alla non utilizzabilità di forme di anonimato durante la fase del trial 118. Durante i primi procedimenti i giudici della Corte penale internazionale, in realtà, non sembrano aver scelto una posizione così netta e paiono essere andati oltre quel dettato normativo sopra esaminato, almeno secondo l’interpretazione qui proposta. È utile ricordare come, nell’ordinamento di cui si tratta, l’anonimato presenti una maggiore complessità rispetto a quella che portava con sé nelle aule dei Tribunali ad hoc. Esso, infatti, può essere invocato come misura di protezione nei confronti della vittima partecipante o nei confronti del testimone, ruoli non sempre coincidenti. Nella prassi iniziale è stato ritenuto ammissibile sia nel primo caso 119 sia nel secondo 120, pur se in forma relativa, attraverso quella che si definisce “rolling disclosure” e che consente, in modo normativamente legittimo – a parere dei giudici – di svelare all’imputato ed al suo difensore l’identità del testimone poco prima dell’inizio del trial (e, quindi, a fase dibattimentale formalmente già iniziata) o, addirittura, poco prima della sua escussione 121. 117

L’Australia, ad esempio, ricordò ai delegati come la Conferenza di Roma, adottando l’art. 68 dello Statuto, avesse consentito la secretazione di alcune informazioni, anche riguardanti l’identità dei testimoni, ma solo ed esclusivamente durante le fasi antecedenti al trial (cfr. C.K. HALL, The First Five Sessions of the UN Preparatory Commissionfor the International Criminal Court, in Am. J. Int’l L., vol. 94, 2000, p. 784). 118 Secondo alcuni autori, invece, il “non scegliere” avrebbe autorizzato i giudici a utilizzare l’anonimato. Cfr. M.E. KURTH, Anonymous witnesses, cit., p. 628. L’A. riporta in nota i riferimenti bibliografici per quegli autori che, invece, raggiungono una conclusione opposta. 119 Prosecutor v. Lubanga Dyilo, ICC-01/04-01/06, Decision on victims’participation, 18 January 2008, §§ 130-131; Prosecutor v. Bemba Gombo, ICC-01/05-01/08, Corrigendum to Decision on the participation of victims in the trial and on 86 applications by victims to participate in the proceedings, 12 July 2010, §§ 61-69. 120 Per il rapporto fra partecipazione anonima delle vittime e anonimato del testimone, nel caso di sopravvenuta commistione dei ruoli si veda Prosecutor v. Katanga and Ngudjolo Chui, ICC-01/04/01/07, Decision on the modalities of Victims Participation at Trial, 22 January 2010, § 93 dove la Trial Chamber II scrive: «Nevertheless, the Chamber does not rule out the possibility of anonymous victims participate ng in the proceedings. In the event that they are called to appear as witnesses in accordance with this Decision, they must relinquish their anonymity». Sul punto, per quanto riguarda il caso Lubanga, si veda M. MIRAGLIA, Happy Birthday ICC, cit., p. 33 ss. 121 Prosecutor v. Katanga and Ngudjolo Chui, ICC-01/04/01/07, Public redacted version of the Decision on the Protection of Prosecution Witnesses 267 and 353 of 20 May 2009, 28 May 2009.

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Le aperture verso l’anonimato vengono motivate chiarendo che si dovrebbe ricorrere allo stesso solo in casi eccezionali 122, citando la giurisprudenza della Corte europea 123 e invocando il bilanciamento degli interessi 124. Ciò che importa, però, è non solo la sua utilizzazione come misura di protezione della vittima e del testimone, ma, soprattutto nel secondo caso, l’assunzione, tramite il ricorso alla “rolling disclosure”, di decisioni che sembrano andare al di là dei limiti normativi sopra esaminati e che, quindi, potrebbero offrire ai giudici, nelle decisioni future, l’appiglio per spingersi oltre, arrivando fino ad adottare provvedimenti in cui si autorizza l’anonimato assoluto, facendo molti passi indietro nella protezione dei diritti dell’imputato all’interno del procedimento internazionale 125. Un altro dato deve essere denunciato: il ricorso all’anonimato, pur se “relativo”, appare molto frequente di fronte alla Corte penale internazionale, divenendo quasi la regola quando si tratti di celare l’identità al pubblico, svelandola, invece, pur in ritardo, all’imputato ed al suo difensore. Sembra, quindi, che anche in riferimento a tale problematica la Corte penale internazionale stia cercando soluzioni “estreme” forse, addirittura, per evitare la paralisi della sua attività, rischio indubbiamente realistico, data la difficoltà oggettiva di avere a disposizione prove dichiarative. Il dibattito sul ricorso all’anonimato del teste, anche in tale ambito, rimane aperto. Al suo interno si fanno sentire voci contrastanti che, da un lato, condannano lo stesso, anche se indirettamente, perché causa della compressione dei diritti dell’imputato, strumento per la riduzione di credibilità e legittimità 122 Nella decisione assunta nel caso Lubanga sull’anonimato delle vittime partecipanti la Trial Chamber I scrive «Although the Trial Chamber recognizes that it is preferable that the identities of victims are disclosed in full to the parties, the Chamber is also conscious of the particularly of the particularly vulnerable position of many of these victims […]. However the Trial Chamber is of the view that extreme care must be exercised before permitting the participation of anonymous victims, particularly in relation to the rights of the accused» (Prosecutor v. Lubanga Dyilo, ICC-01/04-01/06, Decision on victims’participation, cit., §§ 130-131). Per una valutazione negativa dell’anonimato quale misura di protezione adottata a favore delle vittime partecipanti cfr. S. ZAPPALÀ, The Rights of Victims v. the Rights of the Accused, in J. Int’l Crim. Just., vol. 8, 2010, p. 150. 123

Prosecutor v. Katanga and Ngudjolo Chui, ICC-01/04/01/07, Public redacted version of the Decision on the Protection of Prosecution Witnesses 267 and 353 of 20 May 2009, cit., § 32. Si ricordi che l’anonimato, nella decisione citata, è trattato dal punto di vista del diritto dell’imputato alla disclosure e non con riferimento al diritto al confronto. 124 Prosecutor v. Katanga and Ngudjolo Chui, ICC-01/04/01/07, Public redacted version of the Decision on the Protection of Prosecution Witnesses 267 and 353 of 20 May 2009, cit., § 31. 125 Si è già espressa altrove la forte preoccupazione per la compressione dei diritti dell’imputato determinata anche dalla partecipazione delle vittime, dal modello di intervento delle stesse elaborato dai giudici, dalla commistione dei ruoli nel caso di vittime partecipanti, spesso in forma anonima, che si trasformino in testimoni nel corso del procedimento. Si veda, volendo, M. MIRAGLIA, Happy Birthday ICC, cit., p. 30 ss.

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del processo penale internazionale, contrario ad un sistema normativo che dovrebbe ritenere la tutela dei diritti comenzionati come prevalente rispetto a quella offerta ad altri soggetti coinvolti nel processo, come le vittime ed i testimoni 126; dall’altro, in modo assai più diretto e meno condivisibile, aprono le porte all’anonimato, invitando ad un ripensamento della nozione di fairness in ambito internazionale che tenga conto anche delle scelte compiute dai singoli ordinamenti e dalle Corti chiamate ad interpretare le convenzioni internazionali 127.

7. Riflessioni di sintesi. Molti sono gli spunti per proseguire il dibattito sulla testimonianza anonima. Forse si dovrebbe cercare di mantenerli ben presenti per non perdere interesse nella discussione, adagiandosi sulle sempre maggiori aperture che a livello nazionale e sovranazionale si mostrano verso l’anonimato. Per quanto attiene alle legislazioni nazionali dei Paesi appartenenti al Consiglio d’Europa è sicuramente vero che la maggior parte degli Stati ha accolto al suo interno forme di anonimato del teste 128. È vero anche che gli ordinamenti internazionali hanno fatto ricorso in modo più o meno intenso ed esteso all’anonimato. Ciò non basta, però, per giustificarne l’ingresso nel nostro ordinamento e per “purificare” in generale l’istituto di cui si tratta 129. 126

Cfr. M. CAIANIELLO, First Decisions on the Admission of Evidence at ICC Trials: A Blending of Accusatorial and Inquisitorial Models?, in J. Int’l Crim. Just., 2011, vol. 9, p. 387; S. ZAPPALÀ, The Rights of Victims, cit., pp. 139 e 145. 127 M. DAMASKA, The Competing Vision of Fairness, in N.C.J. Int’l L. & Com. Reg., 2011, vol. 36, pp. 383-384. 128 Per un’analisi esaustiva si veda THE LAW SOCIETY, Study of the laws of evidence in criminal proceedings throughout the European Union, 2004. Emblematico è il caso della Gran Bretagna che ha vissuto vicende altalenanti sull’argomento. Nell’ordinamento inglese la testimonianza anonima è stata, dapprima, ammessa in via giurisprudenziale, poi, dopo che la House of Lords nel caso Davis (R v. Davis and Others, [2008] 1 AC 1128) aveva negato l’esistenza di un potere di common law che consentisse all’accusa di citare un testimone la cui identità non venisse rivelata all’imputato, è stata esplicitamente riammessa in via legislativa dal Criminal Evidence Act del 2008, le cui disposizioni a termine sono state sostituite da quelle contenute nel capitolo 2 parte III del Coroners and Justice Bill del 2009. Sull’argomento cfr. D. ORMEROD (ed.), Criminal Practice, Oxford University Press, Oxford, 2011, p. 1696 ss. 129 Sui diversi aspetti dell’anonimato nel processo penale italiano si vedano, per tutti, P. CORSO, Notizie anonime e processo penale, Cedam, Padova, 1977, passim; L. KALB, Il documento nel sistema probatorio, Giappichelli, Torino, 2000, p. 96; F. ZACCHÉ, La prova documentale, Giuffrè, Milano, 2012, p. 63 ss. Da ultimo D. DE ROSA, Le fonti anonime di conoscenza ed il processo penale, in Arch. pen. web, 2017, p. 1 ss.

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All’anonimato si ricorre per due ragioni, le stesse, soprattutto la prima, che in negativo rappresentano motivi per resistere alla testimonianza anonima: cultura e necessità. L’ordinamento italiano ha sempre rifiutato l’ingresso della testimonianza anonima per la prima ragione, quale «scelta di civiltà» 130 (concretizzatasi nei principi presenti nella nostra Costituzione, recepiti dalla legislazione ordinaria attraverso disposizioni codicistiche che hanno svolto per lungo tempo la funzione di sbarramento), ma sicuramente anche per la seconda. Non si vuole, ovviamente, qui sostenere che esso non conosca forme di criminalità che si servono dell’intimidazione e della minaccia per evitare che il testimone deponga o per guidare le sue dichiarazioni; si vuol però sostenere che si sono cercate, lodevolmente, altre soluzioni, come la previsione di programmi di protezione amministrativi per i testimoni di giustizia su basi diversificate rispetto a quelli adottati nei confronti dei collaboratori e soluzioni processuali conseguenti per garantirne l’efficacia, come l’esame protetto ed il “telesame”, che sicuramente rappresentano forme di limitazione, o reinterpretazione a seconda dei punti di vista, del diritto al confronto, ma non la negazione di un elemento essenziale del contraddittorio 131. Per quanto riguarda l’altra esigenza che spesso si accompagna all’adozione dell’anonimato – quella di conservazione della prova e della sua genuinità – il nostro ordinamento ha avuto a disposizione strumenti che, pur facendo avvertire il bisogno di mezzi più efficaci o il miglioramento di quelli esistenti, hanno, forse, consentito di non ricorrere alla testimonianza anonima: ci si riferisce all’incidente probatorio, alla rimessione del processo, alla disciplina, per quanto criticabile, sul contraddittorio inquinato e sulla impossibilità sopravvenuta delle prove. Si potrebbe proporre, timidamente, anche un altro tipo di analisi: l’esigenza della testimonianza anonima, dalla prospettiva della conservazione della prova, non è stata così cogente perché, spesso, nei procedimenti relativi a determinati ambiti criminosi, coincidenti con quelli dove tradizionalmente il testimone viene ucciso, minacciato, subornato, gli elementi di prova possono essere ottenuti aliunde. 130

Cfr., a proposito del contraddittorio, G. GIOSTRA, voce Contraddittorio, cit., p. 5. Si dà per accertata la compatibilità costituzionale dell’esame protetto e del “telesame” con il principio del contraddittorio. Sul punto si vedano, per tutti, D. CURTOTTI NAPPI, I collegamenti audiovisivi nel processo penale, Giuffrè, Milano, 2006, p. 302 ss.; M. DANIELE, La forma digitale delle prove, cit., passim; G. SPANGHER, La protezione del testimone, in Studium iuris, 1999, p. 1344; G.P. VOENA, Il telesame, in E. ZAPPALÀ (a cura di), L’esame e la partecipazione a distanza nei processi di criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 1999, p. 106 ss. Si condivide, però, l’opinione autorevole di chi ha ritenuto che l’esame a distanza non possa «mai sostituire la presenza fisica del dichiarante» (G. ILLUMINATI, Libro VII, in G. CONSO-V. GREVI (a cura di), Profili del nuovo codice di procedura penale, III ed., Cedam, Padova, 1993, p. 474) osservazione che, a parere di chi scrive, rimane valida anche a seguito dei progressi tecnologici utilizzabili nei mezzi di collegamento. Si rammenti che in data 21 dicembre 2017 il Senato della Repubblica ha approvato in via definitiva il d.d.l. n. 2740 recante “Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia”. 131

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In questo senso si spiegherebbe perché quell’ordinamento che si mostrava culturalmente forte per resistere alla testimonianza anonima, abbia, infine, ceduto, accogliendone al suo interno una forma in presenza di esigenze dirette, come quella di “conservazione delle risorse investigative”, difficile da tutelare in modo assoluto, se non proprio celando l’identità delle persone impiegate in operazioni sotto copertura al pubblico, all’imputato, al suo difensore ed anche al giudice 132. È vero che si tratta di una disciplina con un ambito di operatività limitato 133 e che la casistica delle testimonianze è decisamente esigua, ma è anche vero che, in primis, è stato aperto un varco alla testimonianza anonima, generalmente valutato come impossibile in precedenza, e, inoltre, che la “civiltà giuridica” sembra aver ceduto (addirittura senza tenere in considerazione le statuizioni della Corte EDU, pur considerate legittimanti) di fronte alla necessità. Si tratta, in ogni caso, dell’affievolimento di un dogma che merita la dovuta attenzione. Il ricorso alla testimonianza anonima, in ambito internazionale, è stato “limitato” nel tempo, dopo un primo esordio infausto, non nascondendo completamente, almeno in fase dibattimentale, l’identità del teste all’imputato; ma, come si è detto, si è, invece, incrementato numericamente l’uso dell’anonimato quale misura di protezione adottata a favore delle vittime partecipanti e dei testimoni, occultandone l’identità al pubblico ed ai media, trasformando l’eccezione in una regola. Anche in questo contesto l’attenzione per la testimonianza anonima deve essere mantenuta ad un buon livello, per evitare che la necessità di accertare crimini internazionali di incontestabile gravità e quella di proteggere testimoni sicuramente “vulnerabili” giustifichi la riduzione drastica di garanzie imprescindibili. Autorevolmente è stato scritto che, talvolta, le norme rigide, in questo contesto di assoluta protezione del diritto dell’imputato a confrontarsi con un accusatore di cui si conosca l’identità, servono nel momento di sviluppo dell’ossatura del sistema giuridico, quella indispensabile per reggere il peso della sua equità, dovendo, poi, lasciare spazio a norme più flessibili che consentano di far fronte ad esigenze di giustizia concreta, senza che questo possa più rappresentare un pericolo per la fairness del procedimento 134. La storia più recente ha, però, rivelato pericolose insidie in quest’ottica, pur condivisibile, nelle sue linee generali, facendo sgretolare le garanzie processuali, frutto di lunga 132 Si sono già trattati gli aspetti di contrasto con la Costituzione e con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e non si vedono, de iure condendo, correttivi che possano salvare la disciplina attuale da tale contrasto (cfr. per una panoramica sulle posizioni dottrinali in merito agli stessi A. ZAPPULLA, Art. 8, cit., p. 459). 133 Cfr. supra, § 4. 134 Si vedano, in proposito, le osservazioni di E. FASSONE, Garanzie e dintorni: spunti per un processo non metafisico, in Quest. giust., 1991, p. 123 ss. citato da M. VOGLIOTTI, La logica floue, cit., p. 852, nota 12.

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conquista, soprattutto in ordinamenti che venivano considerati protetti nei confronti di una tale degenerazione, consentendo, secondo il principio comune per cui i fini possono giustificare i mezzi, il ricorso ad un “secondo” binario nella lotta ai crimini gravi, costruito con garanzie non solo ridotte, ma addirittura inesistenti, e l’affermazione di una “nuova normalità”, all’interno della quale si è assistito ad una medesima negazione e riduzione delle garanzie processuali 135. Questo, forse, come in altri contesti, dovrebbe costituire lo spunto più illuminante per dar seguito al dibattito in corso, domandandosi se l’accusa anonima possa essere tollerata o se, invece, pur riconoscendone l’utilità nell’accertamento della verità giudiziale in relazione a determinati reati e in presenza di specifiche condizioni, le motivazioni della “civiltà giuridica” debbano prevalere su quelle della necessità. L’interrogativo è drammatico, ma tenerlo a mente può servire per volgere costantemente l’attenzione del legislatore verso soluzioni alternative, diverse da quella in questione 136.

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Per quanto accaduto all’intero dell’ordinamento statunitense, si veda, volendo, M. MIUna nuova normalità: metamorfosi della giustizia penale statunitense dopo l’11 settembre, in Cass. pen., 2005, p. 351 ss. Si deve rammentare che nel corso delle vicende successive all’11 settembre 2001 si arrivò, addirittura, a giustificare (se non invocare) il ricorso alla tortura dei sospettati, con conseguente utilizzabilità in sede processuale delle prove eventualmente raccolte. Per una ricostruzione del dibattito sull’argomento si veda K.J. GREENBERG (ed.), The torture debate in America, Cambridge University Press, Cambridge, 2006. 136 Per quanto riguarda la protezione dell’incolumità del testimone propende per il potenziamento dei mezzi amministrativi F. CAPRIOLI, La tutela del testimone, cit., pp. 70-71. Fa riferimento alla deposizione a distanza L. SCOMPARIN, La tutela del testimone, cit., p. 117. Con riguardo al contraddittorio inquinato ed all’incidente probatorio M.L. BUSETTO (Il contraddittorio, cit., p. 57), valutando gli strumenti amministrativi di tutela del testimone insufficienti, propone, de iure condendo, un ritardo nella comunicazione dell’identità del testimone le cui dichiarazioni debbano essere assunte ai sensi dell’art. 397 comma 1, lett. b) c.p.p. Per quanto riguarda l’efficacia delle misure amministrative di tutela dei testimoni si veda, da ultimo, il d.d.l. n. 2740, cit. definitivamente approvato dal Senato in data 21 dicembre 2017. RAGLIA,

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CAPITOLO III LA RESPONSABILITÀ DEL PARTECIPANTE AD UN GRUPPO CRIMINALE PER I REATI DEGLI ALTRI PARTECIPANTI: LE SOLUZIONI EMERSE NEL DIRITTO PENALE INTERNAZIONALE E LA LORO POTENZIALE APPLICABILITÀ SUL PIANO NAZIONALE E TRANSNAZIONALE di Jean Paul Pierini

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il punto di partenza “transnazionale”: i reati associativi nella Convenzione di Palermo. – 3. Il problema dei criteri per affermare la responsabilità per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività criminale dell’associazione. – 4. I criteri sviluppati nell’ambito del diritto penale internazionale per la responsabilità “residuale” del partecipante ad un gruppo per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività dello stesso. – 5. Conclusioni.

1. Premessa. Quando si pensa ad uno sforzo realmente internazionale per il contrasto della criminalità organizzata è d’obbligo richiamare la Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, adottata dall’Assemblea Generale con la Risoluzione 55/25 del 15 novembre 2000 (UNTOC), ormai universalmente nota come Convenzione di Palermo. Questa costituisce uno strumento multilaterale finalizzato alla promozione della cooperazione internazionale nella prevenzione e nella repressione di gravi reati che coinvolgono, per le loro forme di manifestazione, il territorio di uno o più Stati e vedono implicati gruppi criminali organizzati (art. 3). La Convenzione è, per altro, il risultato di un’enfatizzazione eccessiva che tende ad attribuire agli strumenti dei contenuti che esorbitano tanto dalle previsioni sostanziali 1 quanto dagli aspetti giurisdizionali 2 e talora annullano la 1 La Convenzione considera i reati associativi e gli accordi criminali (art. 5), il riciclaggio (art. 6), la corruzione (art. 8), l’ostruzione alla giustizia (art. 23) e gli altri reati qualificati come gravi in ragione del massimo edittale (art. 2 in relazione all’art. 3(1)(a)). La repressione dei reati sopra indicati è imposta indipendentemente dalla “naturale” transnazionalità degli stessi o dal

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distanza tra simbologia e contenuti. La medesima enfasi ha purtroppo investito anche la definizione di reato transnazionale nella trasposizione nazionale del concetto, alla quale si è talora inteso attribuire una valenza che non è supportata dal carattere descrittivo della norma. Non è questa la sede per contestare alcune interpretazioni della Convenzione che, pur recepite dalla Suprema Corte di Cassazione 3, costituiscono macoinvolgimento di un gruppo criminale organizzato, salvo ovviamente le situazioni relative ai reati associativi e agli accordi criminali di cui all’art. 5 (art. 34). 2 Le previsioni in punto di giurisdizione sono articolate in ipotesi di attuazione “obbligatoria” (art. 15(1)) e in ipotesi di attuazione facoltativa. Le prime comprendono l’obbligo per gli Stati parte di stabilire la propria giurisdizione sui reati commessi nel proprio territorio (lett. (a)), anche “assimilato” (lett. (b)); quest’ultimo rappresentato dalle navi e dagli aeromobili registrati nello specifico Stato. Oltre a tali ipotesi obbligatorie, gli Stati “possono” nel rispetto dei principi relativi al rispetto della sovranità altrui (art. 4), stabilire la propria giurisdizione quando il reato è commesso ai danni di un proprio cittadino (c.d. “personalità passiva”, art. 15(2)(a)), da un proprio cittadino o da un apolide che ha la residenza abituale nello Stato di cui trattasi (principio della “personalità attiva” e “personalità territoriale”, art. 15(2)(b)). Analoga possibilità sussiste rispetto agli atti finalizzati al riciclaggio posti in essere almeno in parte al di fuori del proprio territorio, nelle forme della conspiracy, della complicità, della facilitazione o della consulenza, nella prospettiva della commissione nel territorio dello stesso (art. 15(2)(c)(i)). È inoltre previsto che uno Stato possa stabilire la propria giurisdizione (art. 15(2)(c)(i)) sui reati introdotti nell’attuazione della Convenzione, per punire la partecipazione in un’organizzazione criminale, in forme assimilabili alla conspiracy (art. 5(1)(a)(i)), all’associazione criminale attraverso la partecipazione attiva nelle attività criminali dell’associazione (art. 5(1)(a)(ii)(b)) o in altre attività che contribuiscono al conseguimento dello scopo criminale dell’organizzazione (art. 5(1)(a) (ii)(b)) e, infine, nelle forme di partecipazione dell’organizzazione, direzione, consulenza e nelle non meno tradizionali ipotesi di accessorietà o complicità, quando un reato è commesso all’estero “nella prospettiva della commissione di un reato nel proprio territorio”. 3 Cass., Sez. I, 28 febbraio 2014, n. 14510, in Riv. dir. inter., 2014, p. 939, in materia di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, argomenta la giurisdizione nazionale per il primo reato sulla base degli articoli 5 e 15(2) della Convenzione di Palermo nella loro “interazione” con l’art. 7 comma 2, n. 5 c.p. Nella decisione è, inoltre, richiamato a supporto l’art. 3 della legge 16 marzo 2006, n. 146 relativo alla mera definizione di reato transnazionale, senza che ne sia chiarita l’effettiva rilevanza nell’ambito della ratio decidendi. In particolare, la Cassazione argomenta la giurisdizione nazionale per il reato di favoreggiamento sulla base dell’art. 6 c.p. come “ampliato” nella sua portata dall’art. 15(2) della Convenzione, trascurando il fatto che quest’ultima descrive un’ipotesi di “permissive jurisdiction” ossia una “facoltà” nell’implementazione della Convenzione e non già un’ipotesi per l’esercizio della giurisdizione direttamente efficace nell’ordinamento interno e immediatamente azionabile da parte delle autorità giudiziarie. Secondo R. BARBERINI, La rilevanza penale del fenomeno migratorio, in Quest. giust., 30 ottobre 2015, «la decisione desta qualche perplessità, perché l’art. 7, 2 n. 5 sembrerebbe alludere più a quelle norme internazionali che direttamente stabiliscono la giurisdizione di un determinato Stato [omissis] … che non a disposizioni come quella citata, che si limita a dire che gli Stati aderenti, se lo ritengono, possono introdurre, come criterio di collegamento per l’esercizio della giurisdizione, il caso del reato transnazionale interamente commesso all’estero, ma diretto a produrre effetti in Italia [omissis] ... [è] un dato di fatto che l’Italia questo criterio non lo ha introdotto. In ogni caso, questa decisione ha anche dei pregi, si sta consolidando e risolve molti problemi». Riguardo alla corretta interpretazione della Con-

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nifestazioni di attuazione isolate e prive di riscontro negli altri ordinamenti ed in ogni caso estranee alle esigenze di un’interpretazione uniforme degli strumenti internazionali. Premesso quanto precede, fine del presente scritto è verificare – senza pretese di completezza – se concetti e meccanismi relativi alle forme di partecipazione nel reato, sviluppatisi nell’ambito del diritto penale propriamente internazionale, possano contribuire a definire specifiche problematiche poste dalla criminalità organizzata ed eventualmente “completare” le previsioni contenute nella Convenzione.

2. Il punto di partenza “transnazionale”: i reati associativi nella Convenzione di Palermo. La descrizione delle forme di “partecipazione in un gruppo criminale organizzato” espressa nell’art. 5(1) della Convenzione riflette, come si ricava dalla guida legislativa, i differenti modelli basati sulla conspiracy (art. 5(1)(a)) e quelli della partecipazione in una “associazione criminale” (art. 5(1)(b)), al fine di facilitare l’attuazione della Convenzione da parte di Stati dalla differente tradizione giuridica 4. Questi sono obbligati a criminalizzare almeno una delle suddette ipotesi alternative come un distinto reato rispetto ai reati tentati o consumati che costituiscono il fine del gruppo o dell’accordo criminale nel caso della conspiracy. La conspiracy è descritta quale accordo con una o più persone per commettere un “grave reato” (ossia un reato punibile con pena non inferiore nel massimo a quattro anni) al fine di ottenere un vantaggio finanziario o materiale. Nell’ottemperare al proprio obbligo di criminalizzazione dell’accordo criminale uno Stato deve informare il depositario della Convenzione, qualora, in conformità al proprio diritto domestico, consideri quale elemento materiale del reato il compimento, da parte di almeno uno dei partecipanti all’accordo, di un atto posto in essere in attuazione dell’accordo criminale o l’implicazione di un gruppo criminale organizzato. La prima ipotesi riflette la condizione del cosiddetto overt act compiuto nel perseguimento dell’accordo, mentre la sevenzione, si rinvia alla Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols Thereto, p. 109, in cui si evidenzia che “[b]eyond the mandatory jurisdiction addressed above, the Convention encourages States parties to consider establishing jurisdiction in additional instances, in particular when their national interests have been harmed”. Relativamente all’incidenza della convenzione sulle norme sull’applicazione del diritto penale, si rinvia a P. PINTASKE, Das Palermo-Übereinkommen und sein Einfluss auf das Deutsche Strafrecht, VR Osnabrück, 2014, p. 266; F. JESSBERGER, Der Transantionale Geltingsbereich des Deutschen Strafrechts, Mohr Siebeck, 2011, p. 36. 4 Legislative guide for the implementation of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime and the Protocols Thereto, cit.

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conda aggiunge al mero accordo il requisito strutturale dell’esistenza di un gruppo organizzato criminale. Il carattere necessariamente “strutturato” e non occasionale del gruppo emerge dall’art. 2 (a) e (c) e presuppone che lo stesso non si formi casualmente e sia composto da tre o più persone, esista per un periodo di tempo e agisca con il fine di commettere uno o più gravi reati allo scopo di ottenere direttamente o indirettamente un vantaggio finanziario o altro vantaggio materiale. La partecipazione in un gruppo organizzato criminale richiede, quale elemento soggettivo, la conoscenza, alternativamente, del fine del gruppo e dell’attività criminale generale dello stesso o dell’intenzione del gruppo di commettere uno specifico reato. Quale elemento materiale è, invece, indicata la partecipazione attiva all’attività criminale del gruppo che si concretizza, di massima, attraverso la realizzazione dei reati-fine oppure la partecipazione ad altre attività di per sé anche non penalmente rilevanti o punibili, ma comunque tali da contribuire al raggiungimento del fine dell’organizzazione (art. 5(a)(ii)(b)). Tale forma descrittiva delinea un verso del rapporto verticale, quello a salire, esistente tra il reato-fine ed il reato associativo e permette di far derivare dalla partecipazione al primo, la responsabilità anche per il reato associativo. È interessante notare come la previsione non qualifica il gruppo rispetto all’esistenza di uno scopo comune (common purpose). In aggiunta alle suddette forme di accordo o organizzazione criminale, gli Stati parte sono obbligati a criminalizzare le forme di partecipazione nel reatofine costituite dall’organizzazione, dalla direzione, dalle tradizionali ipotesi di complicità o accessorietà nel reato nelle forme del supporto materiale (aiding) o morale (abetting), quest’ultimo con l’aggiunta della specifica ipotesi del supporto in forma di consulenza (counseling).

3. Il problema dei criteri per affermare la responsabilità per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività criminale dell’associazione. La Convenzione nel prevedere la criminalizzazione della partecipazione in un gruppo, della conspiracy e di certe condotte, non affronta direttamente la questione della responsabilità dei partecipanti nel gruppo criminale organizzato, per i reati che costituiscono il fine di questo. Tale questione costituisce, come osservato recentemente, «uno dei temi di maggiore interesse nel dibattito sulla sfera di operatività della criminalità organizzata» 5. 5 Così, A. CENTONZE, Le fattispecie associative e i reati-fine: riunione e separazione processuale di fronte alla regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, in G. TINEBRA-R. ALFONSO-

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L’aspetto è stato, in particolare, considerato rispetto alle ipotesi di partecipazione qualificata nell’associazione, evidenziandosi il rischio, nel caso di reati-fine contestati a quanti al vertice di un’associazione criminale, di un concreto allentamento del canone della personalità della responsabilità penale e della deriva verso forme di responsabilità “di posizione” 6. Rischio che sarebbe ovviato considerando l’autonomia del reato associativo rispetto all’attuazione del programma criminoso, per cui tutti gli aderenti all’associazione risponderebbero dei reati-fine solo in ragione di un effettivo contributo all’attuazione della singola condotta delittuosa 7. Tuttavia, l’affermazione sul piano dogmatico della netta separazione tra reato associativo e reato-fine non esclude di per sé un’attenuazione sul piano pratico attraverso il ricorso a semplificazioni probatorie prima che sostanziali. In tale ambito si colloca la problematica della valorizzazione della struttura decisoria e dell’ordinario modus procedendi dell’associazione criminale al fine di dedurne l’adesione alla realizzazione di specifici reati-fine fornita dal partecipante qualificato all’associazione 8. Sempre sul piano dei rapporti tra il reato associativo ed il reato-fine si collocano – benché valorizzate nel senso opposto – le considerazioni relative all’immanenza di taluni “programmi” dell’associazione che ne costituiscono l’asse portante, come nel caso della c.d. “soppressione dei collaboratori”. Nell’uso generico e fungibile dei termini “programmi”, “strategie” o “policy”, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di distinguere il “programma” delittuoso dell’associazione di tipo mafioso, per sua natura indeterminato perché orientato verso «future intraprese ancora da elaborare, sebbene comprensivo dell’uso della violenza anche nella sua massima espressione e dell’intimidazione nei confronti dei sodali e dei soggetti entrati in contatto con i suoi esponenti ed interferenti con gli obiettivi antigiuridici di predominio e di arricchimento con i proventi delle attività criminali», dall’ideazione di un «preciso delitto da realizzarsi in modo circoscritto in danno di una limitata categoria di possibili vittime, ancorché non nominativamente o personalmente individuate». Ricostruzione che colloca nell’ambito quest’ultimo, «la programmazione tipica di … un progetto operativo da realizzare in tempi ravvicinati e con modalità stabilite in linea di massima da parte del mandante, che consente di ravvisare l’apporto concorsuale morale nelle forA. CENTONZE (a cura di), Fenomenologia del maxiprocesso: venti anni di esperienze, Giuffrè, Milano, 2011, p. 117. 6 F. ARGIRÒ, La responsabilità dei capi-clan per i reati-fine commessi dagli associati: tra regole di esperienza e criteri di imputazione oggettiva, in Cass. pen., 2008, pp. 1189, 1191. 7 J. DELLA TORRE, La Cassazione tra reati-associativi e reati-scopo: nessuna scorciatoia né sostanziale, né processuale ove l’imputato sia il Capo di una famiglia mafiosa (nota a Cass., Sez. VI, 17 settembre 2014, n. 1390), in www.penalecontemporaneo.it, 14 aprile 2015. 8 Sul punto, v. G. CANZIO, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l’evoluzione giurisprudenziale negli anni 1970-1995, in Cass. pen., 1996, p. 3164.

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me dell’istigazione e della deliberazione di azione delittuosa» 9. Il problema non è d’altra parte limitato al soggetto in posizione apicale o al partecipante qualificato, ma ben può sussistere rispetto al semplice partecipante alla commissione dei reati-fine realizzati nell’ambito dell’attività criminale dell’associazione. Secondo una consolidata giurisprudenza «il ruolo di partecipe rivestito da taluno nell’ambito della struttura organizzativa criminale non è di per sé solo sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, anche se riferibile all’organizzazione e inserito nel quadro del programma criminoso, giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, volontario e consapevole all’attuazione della singola condotta criminosa, alla stregua dei comuni principi in tema di concorso di persone nel reato, essendo teoricamente esclusa dall’ordinamento vigente la configurazione di qualsiasi forma di anomala responsabilità di “posizione”» 10. Il principio affermato, con il quale non si può non concordare, nel collegare il reato associativo al reato-fine riassume in maniera lineare gli elementi del concorso nel reato nella miglior interpretazione dello stesso, fermo restando che la rilevanza dell’apporto causale del contributo morale, ma anche di quello materiale, è il risultato di una valutazione quanto mai difficile in pratica, come del resto la volontarietà e consapevolezza dello stesso. Difficoltà insita nella insufficiente tipizzazione normativa degli elementi del concorso: frutto della scelta deliberata di superare, nella radicale omologazione celata dal c.d. “orientamento causale” (inteso a privilegiare ogni apporto, morale o materiale, alla commissione del reato), le difficoltà di distinguere autore e complice. Relativamente al discrimine tra il concorso nel reato ed il reato associativo, la giurisprudenza di legittimità concorda nell’individuare il criterio distintivo nel grado di determinatezza del disegno criminoso rispetto al programma associativo. Perché si possa affermare l’esistenza del reato di associazione per delinquere, l’accordo deve essere diretto all’attuazione di un più ampio programma criminoso, destinato a durare nel tempo, per la commissione di una serie non determinata di delitti, dando così vita ad un vincolo associativo. Il concorso di persone nel reato continuato, richiede, invece, che l’accordo intervenga in via occasionale ed accidentale, per la realizzazione di uno o più reati e si esaurisca con la commissione degli stessi, facendo venire meno ogni motivo di pericolo e di allarme sociale 11. 9 Cass., Sez. I, 17 ottobre 2017, n. 48590, in C.e.d. 271551, in tema di ideazione di un preciso delitto da realizzarsi in modo circoscritto in danno di una limitata categoria di possibili vittime, ancorché non nominativamente o personalmente individuate. 10 Cass., Sez. VI, 15 novembre 2007, in C.e.d. 238402. 11 Cass., Sez. IV, 21 aprile 2006, n. 22824, in C.e.d. 234576; Cass., Sez. VI, 24 maggio 2011, n. 29581, in C.e.d. 250732.

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Infine, l’accertamento del rapporto tra il reato associativo ed il reato-fine assume connotazioni di peculiare rigore nel caso dell’accertamento – sul piano soggettivo – della “continuazione” tra gli stessi. Secondo la giurisprudenza di legittimità, la continuazione fra il reato associativo e quelli che vengono posti in essere in attuazione delle finalità perseguite dall’organizzazione criminale è ravvisabile «solo quando risulti che l’autore abbia già previsto in origine, al momento della sua adesione al sodalizio, l’iter criminoso da percorrere e i singoli delitti attraverso i quali si snoda» 12.

4. I criteri sviluppati nell’ambito del diritto penale internazionale per la responsabilità “residuale” del partecipante ad un gruppo per i reati-fine posti in essere nell’ambito dell’attività dello stesso. La questione della responsabilità dei partecipanti in posizione non apicale in un gruppo organizzato, per i reati che costituiscono il fine del gruppo, è stata affrontata nello statuto della Corte penale internazionale (ICC). Nel contesto normativo dello Statuto, la partecipazione al gruppo non ha una sua rilevanza penale propria, non venendo in questione una responsabilità per un “reato associativo” autonomo dal reato-fine, bensì solo descrittiva e atta a sostenere, alla presenza dei requisiti di una condotta “accessoria”, la responsabilità per i reati perpetrati dagli altri partecipanti al gruppo. Tali criteri, nell’irrilevanza diretta della partecipazione al gruppo, sono intesi a delimitare la mera partecipazione, dalla responsabilità per il reato-fine. La prospettiva è in un certo senso opposta a quella che ha portato nella Convenzione di Palermo a far derivare la responsabilità per la partecipazione in un gruppo criminale dalla partecipazione alle attività criminali di questo. È altresì il caso di osservare che tali criteri non sono intesi a definire la responsabilità di soggetti in posizione apicale, ai quali può attribuirsi la perpetrazione indiretta (attraverso altri), l’istigazione o anche la responsabilità per omessa prevenzione o repressione nella forma della cosiddetta command responsibility. Premesso quanto precede, lo Statuto della Corte penale internazionale tratta, come accennato, nell’art. 25(3)(d) 13, la responsabilità “accessoria” per il 12 Cass., Sez. I, 16 aprile 2007, n. 24750, in Guida dir., 2007, n. 35, p. 85 ss.; in senso conforme, Cass., Sez. I, 21 gennaio 2009, n. 8451, in C.e.d. 243199. 13 L’art. 25(3)(d) recita come segue: “In any other way contributes to the commission or attempted commission of such a crime by a group of persons acting with a common purpose. Such contribution shall be intentional and shall either: (i) Be made with the aim of furthering the criminal activity or criminal purpose of the group, where such activity or purpose involves the commission of a crime within the jurisdiction of the Court; or (ii) Be made in the knowledge of the intention of the group to commit the crime”.

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reato-fine. Il presupposto è costituito dall’esistenza di un gruppo che agisce con un fine comune (common purpose). Solo di recente la Corte – interrompendo una serie di elaborazioni del principio della perpetrazione indiretta e della “co-perpetrazione”, parimenti indiretta, da parte di soggetti in posizione apicale in un’organizzazione secondo la cosiddetta teoria della Organisationsherrschaft 14 – ha applicato la previsione di cui all’art. 25(3)(d) nel caso di Germain Katanga, al termine di una problematica modifica dell’imputazione in quanto l’impianto probatorio ne escludeva la “apicalità”. Al riguardo occorre premettere che, nel diritto penale internazionale, le questioni relative alle forme di partecipazione nel reato rivestono importanza cruciale e che in relazione alle stesse si sono registrate autentiche azioni di marketing trasversale di concetti giuridici presso altre giurisdizioni internazionali e talora anche discutibili, nella sostanza oltre che nella forma, azioni “di cartello” in difesa di concetti proprietari 15. Gli standard stabiliti dalla disposizione sopra citata sono formalmente rigorosi richiedendo un contributo volontario qualificato dall’intento di contribuire al perseguimento dell’attività criminale o del fine criminale del gruppo (lett. (i)) o, in alternativa, dalla consapevolezza dell’intenzione del gruppo di commettere il reato-fine (lett. (ii)) 16. Nell’interpretazione suggerita dal Procuratore il fine del gruppo deve includere un elemento di criminalità ma non necessita di essere specificamente diretto alla commissione di un reato 17. Se l’intento del presente scritto era di valutare il pregio della soluzione recepita nello Statuto, probabilmente la considerazione per la quale l’associazione deve essere perlomeno “losca”, potrebbe non costituire la miglior testimonianza in favore della tipizzazione normativa. Nondimeno, occorre osservare che il fine criminale non è una connotazione originale del gruppo, ma rileva ai fini dell’elemento soggettivo del soggetto accessorio alla commissione del reato. 14 Cfr. C. ROXIN, Straftaten im Rahmen organisatorischer Machtapparate, in Goltdammer’s Archiv für Strafrecht, 1963. 15 Il riferimento è alla decisione del Special Tribunal for Lebanon (STL), STL-11-01/I/AC/ RI76bis, Appeals Chamber, Interlocutory Decision on the Applicable law: Terrorism, Conspiracy, Homicide, Perpetration, Cumulative Charging, 16 febbraio 2011, § 253 che esclude che la perpetrazione indiretta, come applicata dall’ICC, sia parte del diritto consuetudinario e, pertanto, non deve trovare applicazione presso il STL, richiamando, all’uopo l’analoga e non meno apodittica affermazione contenuta nella decisione dell’ICTY, Prosecutor v. Stakić, IT-97-24-A, Appeals Chamber, Judgment, 22 marzo 2006, § 62. 16 Al riguardo v. ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3436, Trial Chamber II, Judgment, 7 marzo 2014, § 524 ss. 17 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3367, Trial Chamber II, Prosecution’s observations on Article 25(3)(d), 8 aprile 2013.

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Ciò è conseguenza del fatto che il “gruppo” ben potrebbe non essere originalmente o intrinsecamente criminale. Il proposito comune non necessiterebbe inoltre di essere palese; interpretazione che si spiega alla luce del fatto che la consapevolezza dell’intento del gruppo di commettere un reato è elemento soggettivo alternativo all’intento di contribuire all’attività criminale specifica. La disposizione riguarderebbe, nell’interpretazione proposta dall’accusa, tanto situazioni nelle quali l’accusato è membro del gruppo, quanto quelle in cui ne è estraneo, il che colloca l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 25(3)(d) in una “area” in buona parte comune al concorso dell’associato nel reato-fine dell’associazione, al concorso esterno nel reato associativo ed anche al concorso nel solo reato-fine dell’estraneo. Di contro, secondo la difesa, la disposizione richiederebbe l’estraneità dell’interessato al gruppo 18. Laddove l’interpretazione del Procuratore mostra tutte le incongruenze dei travasi di concetti dagli ordinamenti nazionali alle giurisdizioni internazionali, è nella ricostruzione della struttura anche informale del “gruppo”, alla stregua della joint criminal enterprise (JCE) 19, l’impresa criminale congiunta che costituisce a sua volta la trasposizione in forma penale internazionale del nostrano concorso nel reato. Evidentemente i concetti giuridici, una volta recepiti in un differente ed autonomo sistema giuridico, vivono di una vita propria. Infine, la “residualità” della previsione rispetto alle altre forme di partecipazione nel reato, tra le quali anche la complicità (aiding or abetting) indurrebbe a valorizzare “ogni forma di contributo al reato”, prescindendo dal requisito della “rilevanza” del contributo, propria dell’apporto materiale (aiding) nella complicità. D’altra parte, il termine “rilevante” non risulta maggiormente specificato nel diritto penale internazionale rispetto all’accezione che allo stesso dovrebbe essere attribuito nel concorso e la circolarità delle definizioni è plausibilmente un tratto universale di certi giudizi di valore. Posto che l’apporto non deve necessariamente essere “rilevante”, la sua definizione negativa è individuata, secondo l’interpretazione del Procuratore, nella “trivialità della condotta” 20, con un’estensione plausibilmente eccessiva 18

ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3417, Trial Chamber II, Defence observations on article 25(3)(d) of the Rome Statute, 25 ottobre 2013. 19 Nelle osservazioni il procuratore richiama la decisione del Tribunale penale per la ex Jugoslavia, ICTY, Prosecutor v. Duško Tadić (IT-94-1-A), Appeals Chamber, Judgment, 15 luglio 1999, § 227. 20 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3367, Trial Chamber II, Prosecution’s observations on Article 25(3)(d), cit., § 12, laddove si legge che: «where the conduct of an accused is so trivial that no relation between that conduct and any of the elements of the crime can be established, the contribution may considered to be “neutral”, which is insufficient for criminal liability under Article 25(3)(d)».

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dell’ambito di punibilità. Per altro, tale posizione riprendeva quella della precedente decisione della Trial Chamber II, relativa alla modifica dell’imputazione, atta a ritenere rilevante ciascun contributo “attuale” e “reale” 21. Sempre secondo il Procuratore il “contributo” non dovrebbe essere necessariamente fornito al perpetratore fisico del reato, ben potendo essere fornito a qualsiasi altro membro di un gruppo che agisce per un fine comune 22. Tale osservazione collega, invero, la responsabilità per il reato-fine alla contribuzione all’associazione ancorché, come si è visto, la partecipazione, nel “sistema” della Corte penale internazionale, è in sé priva di una autonoma rilevanza penale. È d’altra parte plausibile che il retro-pensiero dell’accusa fosse quello di “piegare” un aspetto dottrinale alla realtà della mancanza di elementi probatori idonei ad identificare i perpetratori ed i destinatari del contributo dell’accusato. Se così non fosse, in una sintetica trasposizione nazionale, la posizione del Procuratore parrebbe raccordare il concorso esterno nel reato associativo con il reato-fine dell’associazione. Il Procuratore nelle sue osservazioni ha evidenziato come Germain Katanga abbia contributo alla commissione dei reati organizzando la partecipazione con altri comandanti alla discussione che ha condotto all’adozione del piano di attaccare un villaggio ed abbia altresì procurato e distribuito armi ad un gruppo di partecipanti nella commissione dei reati 23; contributi alla realizzazione del reato che probabilmente eccedono le ipotesi residuali dell’art. 25(3)(d). La plasticità delle forme di partecipazione del reato emerge nelle posizioni conclusive dell’accusa, laddove il contributo di Katanga alla commissione del reato è definito “essenziale”; caratterizzazione quest’ultima sostenuta dalla difesa in analogia alla consueta forma di responsabilità accessoria costituita dalla complicità (art. 25(3)(c)) che adotta invero i termini “sostanziale” e “significativa”. Nella successiva sentenza conclusiva del giudizio di primo grado, la Trial Chamber II 24, ha ricostruito la portata dell’art. 25(3)(d) nel senso di ritenere responsabile il contributore per tutti i reati rientranti nello scopo comune (common purpose) del gruppo – come discenderebbe dalla joint criminal enterprise (cresciuta nella giurisprudenza dei tribunali ad hoc da mera trasposizione del concorso nel reato a forma di manifestazione collettiva del reato da parte di appartenen21

ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3319-tENG, Trial Chamber II, Decision on the implementation of regulation 55 of the Regulations of the Court and severing the charges against the accused persons, 21 novembre 2012, § 33. 22 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3367, Trial Chamber II, Prosecution’s observations on Article 25(3)(d), cit., § 13. 23 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3367, Trial Chamber II, Prosecution’s observations on Article 25(3)(d), cit. 24 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3436-tENG, Trial Chamber II, Judgment pursuant to article 74 of the Statute, 7 marzo 2014, § 1596 ss.

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ti a gruppi non necessariamente strutturati), ma solo per quei reati-fine ai quali ha contribuito. Nel contesto, non appare condivisibile la posizione della Trial Chamber II che ha limitato l’analisi di merito, tenuto conto delle circostanze del caso, al contributo alla commissione degli specifici reati oggetto di imputazione, affermando di non volersi soffermare sulle situazioni in cui il soggetto ha contribuito ad un qualsiasi tentativo rientrante tra i propositi comuni del gruppo. Tale impostazione lascia comunque aperta la strada ad una affermazione di responsabilità per il reato-fine A, allorquando il partecipante al gruppo ha contribuito al tentativo del reato-fine B. La Trial Chamber II ha ritenuto, aderendo all’impostazione dell’accusa, che l’appartenenza del soggetto al gruppo non costituisse un elemento essenziale della specifica forma di partecipazione nel reato 25 che è di conseguenza ridotto, al termine della parabola interpretativa, ad un doppio in forma minore della complicità nel reato con svilimento dell’essenza determinata dall’esistenza di un gruppo.

5. Conclusioni. L’art. 25(3)(d) dello Statuto della ICC è stato considerato nella presente analisi come esempio di una “normativizzazione” dei criteri per l’affermazione della partecipazione di un soggetto nel reato-fine di un gruppo o associazione che agisce con un comune scopo criminale, pur nell’irrilevanza della partecipazione nell’associazione in sé, cui lo Statuto non ricollega direttamente una responsabilità penale. Gli elementi relativi alla natura intenzionale del contributo al reato-fine ed all’elemento soggettivo relativo all’intenzione di supportare l’attività criminale del gruppo o la specifica commissione del reato-fine tengono conto delle peculiarità del contesto nel quale matura la commissione dei gravi crimini soggetti alla giurisdizione della ICC, della natura non sempre intrinsecamente criminale dello scopo dei gruppi e del fatto che l’adesione agli stessi è spesso informale e mutevole. L’idea di prevedere in via residuale la partecipazione nel reato da parte del contributore è sicuramente condivisibile. Che poi la stessa “residualità” della forma di partecipazione nel reato abbia indotto un ulteriore abbassamento degli standard stabiliti per la complicità che è la forma accessoria di partecipazione per eccellenza, è altra questione. Tale abbassamento è sensibile nella definizione della valenza causale del contributo che, pur nella circolarità e relati25 ICC, Prosecutor v. Germain Katanga, ICC-01/04-01/07-3436-tENG, Trial Chamber II, Judgment pursuant to article 74 of the Statute, cit., § 1631.

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vità delle aggettivazioni utilizzate, si colloca di poco sopra la trivialità dell’apporto. Al riguardo è il caso di osservare che la stessa definizione di complicità (aiding or abetting), se applicata ad attività di supporto (aiding in questo caso) in sé lecite svolte in contesti istituzionalizzati a favore di una pluralità di soggetti, solo alcuni dei quali impegnati in attività criminali, ha un potenziale in termini di attribuzione di responsabilità penale pressoché infinito. Il “potenziale espansivo” della complicità è stato d’altra parte recentemente evidenziato in un rapporto nel Regno Unito 26. Nell’ambito del diritto penale internazionale, si è talora cercato di rimediare all’espansione tendenzialmente infinita della responsabilità per condotte ancillari, ricercandosi nella contribuzione generica una direzione specifica o univoca alla commissione dei reati. Tale attributo dell’actus reus del complice è stato definito come “specific direction” verso la commissione del reato. Tale requisito, affermato dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) nella decisione d’appello nel caso Perišić, ha suscitato ampie quanto, a nostro avviso, eccessive rimostranze. Queste sono culminate, dopo il rigetto di una richiesta di revisione della decisione citata 27, nell’abiura e sconfessione della Camera d’appello della Corte speciale per il Sierra Leone (SCSL) nel caso Taylor e, infine, nella prevedibile riforma in appello della decisione contro Stanišić and Simatović 28. Nel caso Taylor, la Corte speciale ha affermato di aver indipendentemente vagliato tutta la giurisprudenza successiva alla Seconda guerra mondiale senza trovare traccia del requisito della “specific direction” 29. L’analisi ciclopica, se realmente effettuata, rimane comunque discutibile nell’esito 30. Per altro, il problema di distinguere l’assistenza alla commissione del reato, dall’assistenza in sé lecita, è stato solle26

Cfr. The Law Commission, n. 305, Participating in Crime, Presented to the Parliament of the United Kingdom by the Lord Chancellor and Secretary of State for Justice by Command of Her Majesty, Maggio 2007. 27 ICTY, Prosecutor v. Perišić, IT-04-81-A, Appeals Chamber, Decision on Motion for Reconsideration, 20 marzo 2014. 28 ICTY, Prosecutor v. Stanišić and Simatović, IT-03-69-A, Appeals Chamber, Judgment, 9 dicembre 2015, § 108. 29 SCSL, Prosecutor v. Taylor, SCSL-03-01-A, Appeals Chamber, Judgment, 26 settembre 2013, § 474, laddove si afferma che la Corte avrebbe riesaminato indipendentemente «the postSecond World War jurisprudence, and is satisfied that those cases did not require an actus reus element of specific direction in addition to proof that the accused’s acts and conduct had a substantial effect on the commission of the crimes». 30 Il requisito traspare infatti, nelle decisioni The United States of America vs. Wilhelm von List, United States Military Tribunal, Nuremberg, 8 luglio 1947 e The United States of America vs. Wilhelm von Leeb et al., US Military Tribunal Nuremberg, 27 ottobre 1948, pp. 513-514 in relazione alla cosiddetta limitazione della responsabilità dei Capi di stato maggiore che, nel trasmettere ordini nella consapevolezza del carattere criminoso degli stessi, non avrebbero per la genericità in tale atto di assistenza materiale, riscontrato i requisiti di una “partecipazione” nel reato.

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vato nelle opinioni concorrenti alla decisione che – pur negando l’esistenza di un requisito quale quello sopra menzionato – affermano la necessità di un corretto inquadramento della questione nell’ambito della definizione della commissione del reato 31. Sinteticamente inquadrata la portata problematica della complicità, appare evidente come una forma residuale di complicità prevista dall’art. 25(3)(d), rispetto all’assistenza alla realizzazione del programma criminale di un gruppo o alla commissione dei reati-fine, presenta una portata problematica non minore se la sua residualità è intesa come attenuazione dei requisiti della complicità. Il caso Katanga mostra come anche la codificazione dei requisiti della responsabilità per la commissione di un reato-fine da parte dell’appartenente al gruppo (aderendo all’interpretazione letterale della norma) o anche dell’extraneus che assiste il gruppo – problematica che ha una sua urgenza e criticità anche nel diritto nazionale – non appare di per sé risolutiva. La stessa interpretazione risente della indeterminatezza del necessario nesso causale e, in particolare, della difficoltà di stabilire rilevanza e significatività dell’apporto causale nel caso di assistenza materiale e, a maggior ragione, dell’assistenza morale per l’impossibilità di apprezzarne, in termini fisici, la portata. Difficoltà che è propria anche dell’approccio causale seguito nel diritto nazionale, laddove le valutazioni di rilevanza sono di carattere generico. Quanto precede, non toglie che la codificazione “tentativa” rappresentata dall’art. 25(3)(d) dello Statuto possa costituire base di discussione per future codificazioni di strumenti internazionali intesi al contrasto della criminalità organizzata internazionale.

31 Motivazione concorrente alla decisione SCSL, Prosecutor v. Taylor, SCSL-03-01-A, Appeals Chamber, Judgment, 26 settembre 2013, del giudice Shireen Avis Fisher che ritiene, §§ 307-309, che la soluzione debba ricercarsi nell’interpretazione della stessa nozione di “assistenza” nella commissione del reato.

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CAPITOLO IV LA CONFISCA “CIVILE” NELLA GIUSTIZIA PENALE STATUNITENSE di Vittorio Fanchiotti

SOMMARIO: 1. La confisca di common law tra “civile” e “penale”. – 2. L’importanza attuale dell’istituto e le sue origini storiche. – 3. La forfeiture solca l’Atlantico, raggiunge il nuovo mondo, perdendo parte del carico e liberandosi di zavorra inglese. – 4. La forfeiture dopo l’Indipendenza degli Stati Uniti. – 5. Forfeiture e contrabbando. – 6. Le prese di posizione della Corte suprema federale. – 7. Un tuffo all’indietro per ripescare Peisch. – 8. La legislazione negli anni Settanta del Novecento. – 9. Libretti v. U.S. e le collateral consequences della nuova fisionomia della forfeiture. – 10. Ultimi sviluppi legislativi: “qualcosa di nuovo anzi d’antico” nell’assetto “plurale” delle forfeitures e nelle strategie del loro utilizzo.

1. La confisca di common law tra “civile” e “penale”. Nell’ambito del common law il fenomeno della confisca dei “proventi” del reato è tutt’ora rubricato come “civil forfeiture of criminal property”. Tale espressione suscita una certa curiosità, sia per le sue vicende storiche sia per la sua natura, che non ne rendono ictu oculi decifrabile l’esatto contenuto. Sotto il primo profilo, infatti, i giuristi più agés si domandano se il fenomeno consista nella reincarnazione di un istituto, la sanzione penale consistente nella forfeiture of property, più precisamente nella general forfeiture, abolita dall’ultima metà del XIX secolo 1, facendo giustizia di una misura che sottraeva ogni diritto di proprietà personale e, spesso, anche “reale”, a chi veniva condannato come “traitor” o “felon” (cioè commetteva un delitto sanzionato, all’epoca, con la pena capitale) ed ai suoi familiari, precludendo anche alla persona offesa ogni legittimazione al risarcimento del danno derivante dal reato. Una sanzione non solo particolarmente severa, ma al tempo stesso agli antipodi con l’intento risocializzante del condannato, volto al suo reinserimento nel contesto “civile”, verso cui si orientano gli interventi legislativi moderni, interessati 1 In particolare nel Regno Unito ciò è avvenuto nel 1870 col varo del Forfeiture for Treason and Felony Act.

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non soltanto a punire comportamenti illeciti già commessi, quanto a favorire, anche in chiave utilitaristica, il recupero dei responsabili degli stessi 2. L’ottica contemporanea non è neppure più incentrata esclusivamente sulla sostituzione e sul superamento del profilo repressivo a favore di quello risocializzante, ma è anche rivolta a perseguire altre finalità e tecniche di politica criminale, quali lo “svenamento” del condannato dai proventi illeciti accumulati, l’espulsione dal mercato delle organizzazioni criminali, annullandone la disponibilità finanziaria, la possibilità di rendere effettivo il risarcimento alle vittime del reato. Nell’ambito di common law non è mancato chi si è chiesto se l’aggettivazione “civile” della confisca faccia riferimento ai sistemi europeo-continentali di civil law. La risposta è pacificamente negativa: l’istituto nasce, come vedremo, negli anni Settanta del secolo scorso negli Stati Uniti − pur non essendo privo di radici assai profonde nel common law tradizionale − e rapidamente si diffonde in aree sempre di common law, salvo sporadiche ibridazioni, come nel Québec, il cui ordinamento civilistico vanta (e, col passar del tempo, progressivamente millanta, a seguito di inevitabili ibridazioni con l’ordinamento federale e delle altre “provincie”) una matrice europeo-continentale, più precisamente francese 3. Tuttavia il giurista di common law, anche restringendo il significato di “civile” per distinguerlo dal diritto penale, non potrà fare a meno di considerare la civil forfeiture uno “strange animal” 4, nel paragonarla alla tipica controversia civilistica tra privati. Infatti la prima afferisce al diritto pubblico ed è diretta in rem, riguardando un’azione dello Stato volta ad ottenere la confisca di una proprietà in attuazione di una specifica politica criminale diretta nei confronti di una proprietà e non del suo proprietario, cui la relativa procedura è comunque notificata, ma che nella maggior parte dei casi non vi prende parte. Per esempio, negli Stati Uniti, nei casi in materia di stupefacenti circa l’80% degli interessati non partecipa al procedimento (non contestando la pretesa dello Stato oppure giungendo ad un accordo con la controparte pubblica) che si risolve così per “via amministrativa”. Non bisogna però credere che lo strumento sia utilizzabile come deterrente per “forzare” l’interessato ad addivenire ad un plea bargaining o per ottenere un dismissal 2 Cfr. G. RUSCHE-O. KIRCHHEIMER, Pena e struttura sociale, trad. it. D. Melossi-M. Pavarini, Il Mulino, Bologna, 1968, p. 245 ss. 3 H. KELADA, Civil Code du Québec, Texte Annoté, Thomson-Carswell, Toronto, ed. 2006: la stessa “sgrammaticatura” sopra sottolineata è una “spia” eloquente del gusto “fusion” che ormai contamina addirittura il titolo del “ricettario giuridico” di Napoleone, cui storicamente si ispirava. 4 S.N.M. YOUNG, Introduction, in S.N.M. YOUNG (ed.), Civil Forfeiture of Criminal Property. Legal Measures for Targeting the Proceeds of Crime, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, 2009, p. 2.

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(“archiviazione”) del procedimento penale in corso da parte del prosecutor: perlomeno ciò è espressamente vietato on the books, in particolare dall’U.S. Attorneys’ Manual 5. D’altra parte, come vedremo più avanti, anche per il penalista suscita perplessità la messa a fuoco e la “iscrizione” della civil forfeiture nel campo processualpenalistico, pur presentando un’indubbia somiglianza con la criminal forfeiture, considerata, come si è detto, una sanzione penale vera e propria, inserita nella sentence, cioè nella determinazione della pena in concreto. L’uscita recente dal “recinto” penale della forfeiture trova la sua principale giustificazione nel fatto che attraverso il sentencing tradizionale non è facile riuscire a confiscare la totalità dei proventi del reato, qualora non ci si trovi in presenza di una figura di primo piano di un’organizzazione criminale, oppure non si riesca a collegarne i beni posseduti con quelli frutto del reato, anche lasciando da parte il più esigente standard probatorio richiesto nel processo penale (beyond any reasonable doubt) rispetto a quello civile (preponderance of evidence). Alcune giurisdizioni, come quella della New Zealand hanno dovuto superare molti dubbi e incertezze prima di adottare lo strumento della civil forfeiture made in U.S.A., intravedendone, sotto le sembianze di un innocuo “agnello” 6, una forma più vorace di criminal forfeiture, ottenibile senza rispettare le garanzie proprie del processo penale. Negli Stati Uniti d’America, la criminal forfeiture è stata reintrodotta nell’ordinamento federale solo negli anni Settanta del secolo scorso attraverso due provvedimenti legislativi. Innanzitutto, in forza dell’Organized Crime Control Act del 1970 la cui parte più qualificante – il Rackeeter Influenced and Corrupt Organization Act (c.d. R.I.C.O.) – rende illegale l’utilizzazione, in attività illecite o lecite, dei proventi di reati che costituiscono un “pattern of criminal activity” (in pratica si tratta della commissione nell’arco di dieci anni di due c.d. “predicate offences”, previste in una lunga lista di reati contro la persona o contro il patrimonio con l’uso di violenza) e dei proventi dell’attività di racket nella conduzione di imprese commerciali, punendola, oltre che con una pena detentiva fino a vent’anni di carcere 7, anche con la confisca di tutti gli interessi economici acquisiti in violazione della legge stessa 8. 5

U.S. Attorneys’ Manual, Washington D.C., March 2001, §§ 9-113.100 e 9-113.106.

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È ancora una volta S.N.M. YOUNG (Introduction, in S.N.M. YOUNG (ed.), Civil Forfeiture of Criminal Property. Legal Measures for Targeting the Proceeds of Crime, cit., p. 4) ad utilizzare una metafora “animalista”. 7 Cui possono aggiungersi altri vent’anni a titolo di conspiracy: quest’ultima consiste nell’accordo per commettere un reato, punibile anche senza “passaggio all’azione”. In proposito, per tutti M. PAPA, voce Conspiracy, in Dig. disc. pen., vol. III, Utet, Torino, 1989, p. 84 ss. 8

18 U.S.C. § 1963.

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Il secondo provvedimento legislativo, il Comprehensive Drug Prevention and Control Act 9, approvato nella stessa sessione dal parlamento federale, è anch’esso presidiato da una forma di forfeiture, ma regolata con modalità diverse da quelle di R.I.C.O., pur essendo entrambe considerate come una sorta di sanzione da irrogarsi all’interno del processo penale. Il Congresso ritenne all’epoca necessario varare una modifica delle Federal Rules of Criminal Procedure 10 avente validità generale, riferibile a tutte le forme di criminal forfeiture, ricollegabili ai proventi di un’attività criminosa. Si venne in tal modo a istituire una disciplina molto meticolosa ma altrettanto rispettosa dei diritti dell’imputato e dei terzi, eventualmente titolari “innocenti” di diritti di proprietà sui beni da confiscare, ma escludendo dal suo ambito di applicazione le confische di natura civilistica 11, la cui estensione è comunque tutt’altro che trascurabile, soprattutto a livello statale, ove pure quasi ovunque esiste una legislazione modellata su R.I.C.O., ma ovviamente diversa da Stato a Stato. Le civil forfeitures sono tuttavia disciplinate dal U.S. Code 12 con riferimento specifico al reato di riciclaggio (laundering of money instruments) riferito a qualsiasi forma di “illicit activity” 13. Anche a livello statale esistono forme di confische civili, relative a settori più ampi di quelli federali. Le leggi penali statali attualmente vigenti in materia di confisca, analogamente a quelle federali, ma, come si è osservato, a livello più diffuso rispetto a queste ultime, consentono alla pubblica autorità e, in particolare, in prima battuta, alla polizia, il sequestro di denaro in contante e di altre forme di proprietà come strumento per limitare lo spaccio e il consumo di sostanze stupefacenti ed il conseguente diffondersi di forme di criminalità violenta cui spesso si accompagna lo spaccio stesso. Il perseguimento di tale specifica finalità di politica criminale si associa nella prassi ad un ulteriore scopo. Si vuole in tal modo procurare alle forze di polizia locali un incremento del proprio budget e quindi delle risorse a loro di9

21 U.S.C. § 848 (a) (2). Le Federal Rules of Criminal Procedure (d’ora in avanti: F.R.Cr.P.) costituiscono un equivalente funzionale al code of criminal procedure, la cui applicazione svolge un ruolo residuale rispetto alle prime. 11 F.R.Cr.P., Rule 50 (c): “These rules are not applicable to […] civil forfeiture of property for violation of a statute of the United States”. In precedenza ogni tipo di forfeiture era assente dalle F.R.Cr.P. in quanto considerate procedimenti in rem e, quindi, di natura civile: cfr. S. Rep. No. 617, 91st Cong., 1st Sess. 79-80 (1969); H.R. Rep. No. 1549, 91st (1970), Cong., 1st Sess. 188 (dissenting views of Reps. Conyers, Mikva, and Ryan), ristampato in [1970] U.S. CODE CONG. & AD. NEWS 4083-84.14. F.R.Cr.P., Rule 54(b)(5). R. MAXEINER, Bane of American Forfeiture Law−Banished at Last?, in 66 Cornell Law Rev., 1977, p. 793. 12 18 U.S.C. § 984. 13 18 U.S.C. § 1956. 10

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sposizione, tale da consentire la possibilità di dotarsi di nuovi equipaggiamenti e strumenti tecnologici per rendere più efficiente l’assolvimento dei loro compiti istituzionali.

2. L’importanza attuale dell’istituto e le sue origini storiche. L’istituto della forfeiture gioca un ruolo di primaria importanza, anche economica, nel funzionamento concreto della giustizia penale degli Stati Uniti, soprattutto, ma non esclusivamente, nel contrasto alla criminalità organizzata, grazie alla sua multiforme disciplina e ad alcune caratteristiche che storicamente hanno dato origine all’istituto stesso. La forfeiture della proprietà costituisce una delle più antiche sanzioni caratteristiche del diritto anglo-americano, sorta con l’introduzione della categoria dei “public wrongs” risalente al periodo anglo-sassone 14. All’inizio dell’ultimo decennio del diciottesimo secolo, all’epoca dell’introduzione nei neonati Stati Uniti d’America dell’VIII Emendamento del Bill of Rights, il quale sancisce, tra l’altro, che “non devono essere imposte sanzioni pecuniarie eccessive, né inflitte pene crudeli o inusuali”, l’istituto viene importato dall’Inghilterra, ove esistevano tre tipi di confisca: il deodand, la forfeiture consequent to attainder upon conviction e, infine, la statutory forfeiture 15, ognuna delle quali era considerata, almeno in parte, equivalente all’imposizione di una pena. Circa la prima dei tre, nel common law un oggetto inanimato, anche un albero 16 14 Cfr. Laws of Ine, c. 6 (circa 688-695), raccolte in F. LIEBERMANN, Die Gesetze Der Angelsachsen, vol. I, Max Niemeyer, Halle, 1903, p. 81. Più in generale: T. PLUCKNETT, A Concise History of the Common Law, 5th ed., Little, Brown and Co., Boston, 1956, pp. 442-62; F. POLLOCK & F.W. MAITLAND, The History of English Law Before the Time of Edward I, vol. II, 2nd ed., Cambridge University Press, London, 1968, pp. 462-511. 15 Calero-Toledo v. Pearson Yacht Leasing Co., 416 U.S. 663 (1974). 16 O.W. HOLMES, The Common Law, 1st ed., Little, Brown and Co., Boston, 1881, p. 23. Del resto, volendo aprire una breve digressione in chiave di Law & Literature, (cfr. R. POSNER, Law & Literature, Cambridge, Mass., 1988), un approccio che anche in Italia ha iniziato − col solito ultradecennale ritardo con cui approdano in provincia le mode d’oltreoceano che non viaggino su vinile, cd o web − ad avere i suoi estimatori, già riuniti in un’associazione, possiamo rinvenire esempi di “personificazione” di cose a fini sanzionatori. Si veda nel recentissimo 4 3 2 1, di Paul Auster, il passo in cui al piccolo Ferguson, ingessato a seguito della rottura di una gamba, procuratasi cadendo mentre stava saltando da un ramo all’altro della quercia al centro del giardino della nuova casa in cui i suoi genitori avevano deciso di trasferirsi dal vicino New Jersey, proprio perché affascinati dalla bellezza dell’albero, la madre “fece una domanda, una strana domanda, forse la più strana che gli avesse mai fatto. Sei arrabbiato con te stesso Archie [è il nickname del bambino], o sei arrabbiato con l’albero? Che cosa sconcertante da chiedere a un bambino che non aveva nemmeno finito l’asilo. Arrabbiato? Perché non poteva sentirsi solo triste? Sua madre sorrise. Era felice […] Era contenta che non fosse arrabbiato con l’albero,

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o un animale 17, spesso ad esso equiparato, che causava direttamente o indirettamente la morte accidentale di un suddito del sovrano era confiscato dalla Corona a titolo di “deodand”. Si trattava di un istituto le cui origini sono rintracciabili in prescrizioni pre-giudaico-cristiane e bibliche 18 che riflettevano il punto di vista secondo cui l’oggetto materiale o l’animale che aveva causato la morte di un essere umano era formalmente “accusato” (accused) e si rendeva, di conseguenza, necessaria una espiazione religiosa 19, “dando a Dio” (deodand, appunto) l’oggetto stesso il cui valore era confiscato a favore del sovrano, sul presupposto che quest’ultimo avrebbe provveduto a fornire il denaro necessario per far celebrare delle funzioni religiose “for the good of dead man’s soul”, o lo avrebbe comunque utilizzato a scopo di beneficenza 20. Successivamente il deodand, venendo meno la sua utilizzazione a scopi religiosi o caritatevoli, mutò la sua natura giuridica − tornando a reificarsi −, nonché la sua ratio, trasformandosi in una fonte, sia pur limitata, di entrate fiscali per la Corona, giustificata, almeno in parte, come una pena per un comportamento colposo del proprietario della cosa “accusata”, una sorta di “penalty for carelessness” 21, cioè per negligenza. Del resto lo stesso Blackstone, uno dei commentatori più autorevoli del common law inglese e il più conosciuto nelle colonie d’oltreoceano, al punto che i suoi Commentaries of the Laws of England erano considerati la “Bibbia dei giuristi americani”, verso la metà del Settecento approva la pratica: “such misfortunes are in part owing to the negligence of the owner, disse, perché altrimenti sarebbe stata costretta ad abbatterlo” (P. AUSTER, 4 3 2 1, trad. it. C. Mennella, Einaudi, Torino, 2017, pp. 56-57). C’è anche un autorevole precedente, ricavabile dal campo di Law & Cartoons, un genus meno coltivato, se non quasi completamente ignorato dai giuristi utroque oceano (che, per esempio in U.S.A. annovera tra i suoi testi “sacri” addirittura quelli del cartoonist maudit Robert Crumb) ma che in Italia ha trovato fertile terreno di ricerca da parte dell’International Association for Law & Cartoons, la quale vanta tra i soci fondatori, oltre a chi scrive, il prof. Piermaria Corso. Il precedente cui si è fatto cenno è il “famigerato albero divora aquiloni”, che Charlie Brown intende punire prendendolo a calci nello stomaco [cioè sul tronco], col risultato di farsi male al piede “vendicatore”, concludendo amaramente: “Questi alberi cannibali hanno stomaci davvero duri”. I protagonisti dei Peanuts non pensano però ad abbattere l’albero, neppure quando divora il pianoforte di Schroeder, il quale, sconsolato, si limita a chiedersi “chissà cosa avrebbe fatto Beeethoven …” e “come glielo spieghi a una compagnia di assicurazioni che il tuo piano è stato divorato da un albero” in Peanuts 1969, 1 gennaio – 6 luglio, A. Mondadori, Milano, 1991 (febbraio-marzo 1969, p. 27; gennaio-febbraio 1969, p. 14). 17 Nel diritto “antico” la capacità di parlare e di ragionare era il discrimine giuridico tra esseri umani ed animali e/o cose. 18 Esodo 21:28 (“se un bue ferisce un uomo o una donna e questi muoiono, sarà lapidato: e la sua carne non sarà mangiata”). 19 O.W. HOLMES, The Common Law, cit., ch. 1. 20 W. BLACKSTONE, Commentaries on the Laws of England, vol. I, 1st ed., Clarendon Press, Oxford, 1765-1769, p. 300. 21

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Calero-Toledo v. Pearson Yacht Leasing Co., cit.

and therefore he is properly punished by such forfeiture” 22. Secondo Holmes, uno tra i più quotati giuristi d’oltreoceano degli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, ogni forma di confisca troverebbe il suo “antenato spirituale” nel deodand: tale ricostruzione venne però criticata come “romanzesca”, frutto di una teoria “ingegnosa” ma priva di solide basi storiche, al punto che, diventato in seguito giudice della Corte suprema federale, lo stesso autore l’avrebbe accantonata, anche se la giurisprudenza relativamente recente spesso la richiama, attribuendogliene la paternità 23. In Inghilterra lo statutory law, il diritto di origine legislativa, sorto in “concorrenza” con il common law, cioè quello tipico, tradizionale, giurisprudenziale, non costruisce la confisca basandosi sull’analogia col deodand. Nell’Alto Medioevo i deodands effettivamente, secondo alcune ipotesi giurisprudenziali, potrebbero essere stati utilizzati come un’alternativa al blood feud della giustizia “primitiva”, sostituendo all’omicida, come oggetto della vendetta da parte della famiglia della vittima, lo strumento materiale con cui il primo aveva causato la morte di quest’ultima 24. Col passare dei secoli i deodands divennero solo una tra le numerose prerogative dei sovrani inglesi, fornendo loro, come si è accennato, una modesta, sia pur costante, fonte di “reddito”, ma, comunque, il principio sotteso al deodand era considerato sui generis, non suscettibile di estensione analogica ad altre forme del forfeiture law. Lo statutory law in materia 25, come detto, ripudiava ogni discendenza dai deodands: ad esso si affiancò anche la giurisprudenza respingendo infatti esplicitamente tutti i tentativi in questo senso. Solo nel 1766, in un caso deciso dalla Court of the Exchequer 26, il rappresentante della Corona sostenne che il deodand costituiva un principio generale del diritto inerente al forfeiture law 27, ma il Chief Baron 22

W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. I, cit., p. 301.

23

Calero-Toledo, cit., pp. 680-683.

24

Il deodand “was referred to as the dead man’s malefactor or bane”: cfr. H. BRACTON, On The Laws and Customs of England, (trad. Thorne), Harvard University Press, Cambridge, 1968 reprint, pp. 328 e 350. 25

Due leggi anglo-sassoni prevedevano che se un lord costringeva un suo servo a lavorare in un giorno festivo, veniva punito con una sanzione pecuniaria (fine) e il servo, considerato “guilty property”, veniva liberato. Cfr. Laws of Canute, ch. 45, circa 1016-1035; Laws of Ine, ch. 3, circa 688-695, cit. in F. LIEBERMANN, Die Gesetze Der Anglelsachen, cit., pp. 342-345 e 90-91. 26

In sostanza una sorta di giudice prevalentemente tributario.

27

I primi casi americani in tema di forfeiture non fanno affidamento sulla fictio della “proprietà colpevole”. Questi casi sono raccolti in L. MADISON DAY, The Constitutionality and Legality of Confiscation in Fee, under Act of July 17, 1862, New Orleans, 1870, pp. 60-68. Il primo caso a introdurre la fictio è stata una decisione di una Circuit Court resa dal Justice Marshall, che riguardava l’ammissibilità della dichiarazione del capitano di una nave in un forfeiture proceeding: United States v. The Little Charles, 26 F. Cas. 979, 982 (C.C.D. Va. 1818) (No. 15,612). La fictio, come si dirà, aveva perso la sua tradizionale ed autorevole reputazione presso le Vice Ad-

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Parker rigettò tale tesi, citando un precedente 28 del Chief Justice Vaughn, secondo cui “goods as goods, cannot offend, forfeit, unlade, pay duties, or the like, but [only] men whose goods they are” 29. Considerare il deodand come principio generale in tema di confisca agli albori del diritto inglese è quindi probabilmente poco corretto, anche perché l’unica fonte inglese citata per avvalorare la tesi prospettata è rinvenibile nei c.d. “dialogues” tra Doctor & Student, pubblicati nel 1530 30, ove è contenuto il riferimento a “John at Stile”, ripreso poi nel 1974 dalla Corte suprema statunitense nel caso Calero-Toledo, sopra citato. Tuttavia da un’attenta lettura del dialogo risulta che il riferimento fatto dallo “Studente” (che nei dialoghi simboleggia il punto di vista del common law) al deodand in un caso ipotetico di naufragio non aveva lo scopo di illustrare un principio generale di diritto in base al quale la proprietà “colpevole” poteva essere confiscata, ma, piuttosto, un esempio di proprietà sottratta ad un proprietario che non aveva nessuna colpa. Il “Dottore” (che impersona il diritto canonico e il “chancellor of equity”), il cui compito nel dialogue è quello di cercare di far sì che lo “Studente” dia un fondamento razionale alla normativa medievale sul naufragio e spieghi perché il chancellor avrebbe dovuto astenersi dal continuare ad intromettersi ed interferire con il common law per proteggere proprietari senza colpa i cui beni sono confiscati, respinge l’argomentazione dello “Studente”, insistendo sull’esigenza che quest’ultimo proponga una ragione più convincente a giustificazione dell’ablazione della proprietà al titolare legittimo. Nelle parole dell’autore del dialogue, il Doctour (sic) afferma: “In the cases that thou haste put before of the stray & deodand there be consyderacyons why they be forfet/ but it is not so here/ & me thynketh that in this case [the finder should hold the property on behalf of the owner] sauynge his reasonable expences/ & this me thinketh were more resonable law than to pull the property out of the owner without cause” 31. Il secondo tipo di confisca propria del common law britannico, noto come “forfeiture consequent to attainder” 32, era quello della c.d. “forfeiture of estate”, riguardante ogni tipo di proprietà “personale o reale” delle permiralty Courts già dal 1773: Dawson v. The Dolphin (Mass. V. Adm.1773). Sul tema si soffermerà Continental Grain Con. v. Barge FBL-585, 364 U.S. 19 (1960). 28

Mitchell qui tam v. Torup, Parker 227, 145 Eng. Rep. 764 (Ex. 1766). Sheppard v. Gosnold, Vaughn 159, 172, 124 Eng. Rep. 1018, 1024 (C.P. 1673). 29 Mitchell qui tam v. Torup, Parker 227, 145 Eng. Rep. at 767, che cita Sheppard v. Gosnold, Vaughn 159, 172, 124 Eng. Rep. 1018, 1024 (C.P. 1673). Il commento di Vaughn è riportato con favore in Boyd v. United States, 116 U.S. 616, 637 (1886). 30 C. ST. GERMAN, Doctor & Student, in Selden Society, vol. 91, 1974, p. 291. 31 C. ST. GERMAN, Doctor & Student, cit., pp. 291-292. 32 Trattiamo tale di tipo di forfeiture per ultimo delle tre, dati gli “intrecci” tra quello che abbiamo supra indicato come il primo (il deodand) e il terzo (statutory forfeiture).

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sone condannate per i reati di felony o treason e non costituiva parte integrante della sentence, cioè della determinazione in concreto della pena basata sulla condanna in base all’accertamento dibattimentale della colpevolezza dell’imputato 33, ma una conseguenza “naturale” della condanna stessa per felony o treason, intesa come “judgment of legal death” 34. I condannati per felony si vedevano confiscare tutti i propri beni mobili dalla Corona e le proprietà terriere dal signore feudale, mentre tutti i beni sia mobili sia immobili, comprese le proprietà terriere, del treasoner erano devoluti alla Corona 35.

3. La forfeiture solca l’Atlantico, raggiunge il nuovo mondo, perdendo parte del carico e liberandosi di zavorra inglese. Le confische in questione, sanzioni penali vere e proprie – anche se, come si è detto, la forfeiture in senso stretto non faceva parte del contenuto della condanna, ma costituiva una conseguenza necessaria, “automatica” della stessa (per volerla riportare alle nostre categorie attuali, una misura all’incrocio tra “pena accessoria”, “effetto civile” della condanna e “sanzione civile” per il reato) e del giudizio di “legal death” che ne conseguiva – erano considerate tali anche dalle prime decisioni della Corte suprema statunitense 36 aventi ad oggetto casi di “Piracies and Felonies committed in the high Seas”, in applicazione di un Act del 1819 37 emanato dal Congresso nell’ambito dell’Art. I, sect. 8 [10] della Costituzione che faceva rientrare tra gli “enumerated powers” nel campo della legislazione e giurisdizione esclusiva federale, continuavano a trovare il loro fondamento nel fatto che alla loro origine c’era un reato che rap33

Come è noto nel common law il giudizio presenza una struttura bifasica: nella prima, il trial, si accerta la responsabilità dell’imputato per il reato contestato e si perviene ad un verdetto di non colpevolezza o di colpevolezza. In quest’ultimo caso, si ha la conviction (condanna) dell’imputato, cui segue la fase post-trial del sentencing nel quale viene determinata in concreto la pena (sentence). 34

“Forfeiture of personalty followed conviction, while realty was forfeited only after attainder, that is, judgment”: cfr. W. HAWKINS, A Treatise of the pleas of the Crown, 8th ed., Law Booksellers and Publishers, London, 1824, (1st ed. London 1716-21), p. 37 ss. 35

W.S. HOLDSWORTH, History of English Law, vol. III, 3rd ed., Methuen & Co Ltd, London, 1927, pp. 68-71; F. POLLOCK & F.W. MAITLAND, History of English Law, cit., p. 351; T. MADOX, The History and Antiquities of the Exchequer of the Kings of England, 2nd ed., London, 1769, (1st ed. London 1711), pp. 295-302, 343-48. 36

The Palmyra, 25 U.S. 1 (1821).

37

Act of Congress of the 3d of March, 1819, ch. 75. An act to protect the commerce of the United States, and punish the crime of piracy, rifluito poi nell’Act of the 15th of May, 1820, ch. 112.

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presentava “an offense to the King’s 38 peace, which was felt to justify denial of the right to own property” in conseguenza del fatto che “property was a right derived from society which one lost by violating society laws” 39. Veniva così ripresa un’affermazione del già citato Chief Justice Vaughn resa nel 1683, in chiave di Real-Politik giudiziaria: “These words [of the statute] are [...] negative, absolute, and prohibitory; there is not a syllable that hints at the privity or consent of the master, mate or owners. The reason of penning this clause in these strong terms is to prevent as much as possible its being evaded, for if the privity or consent of the master, mate or owners, had been made necessary to the forfeiture, it would have opened a door for perpetual evasion, and the provisions of this excellent act for the increase of the navigation would have been defeated” 40. La stessa Court of Exchequer, competente per le cause di natura civile, ma in personam o in rem a seconda della natura dello statute violato, restrinse però la portata della precedente posizione, stabilendo che una giuria poteva essere ‘giustificata’ se non disponeva la confisca nei casi in cui la quantità di merce di contrabbando era così esigua che il comandante della nave non avrebbe potuto scoprirla a seguito di una perquisizione “ragionevole”: in tal modo la confisca della nave che trasportava merce di contrabbando diveniva possibile solo se il proprietario della stessa o il comandante, da costui scelto oculatamente, non erano coinvolti nell’illecito o non avevano tenuto un comportamento negligente. D’altro canto, il forfeiture law ha spesso costituito un escamotage per cercare di ampliare la responsabilità “vicaria” per fatto altrui. In particolare, nei confronti dei felons e dei traitors forniva alla Corona uno strumento sempre più significativo di riscossione delle tasse, dal momento che, fino alla metà del XIV secolo, la prima poteva estendere la definizione di proprietà confiscabile anche a quella del garante depositario dei beni 41, fino a quando questo tipo di imposizione di responsabilità “vicaria” fu abolita nello Statute of Staples del 1353 42. È da questo momento che la confisca di common law normalmente riguarda solo gli interessi proprietari che il traitor o il felon vanta sui propri beni 43. L’aspetto 38 Ovviamente il termine King vale solo in riferimento all’Inghilterra: qui la giurisprudenza lo usa nel senso generico di “Stato”. 39

W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. IV, cit., p. 382.

40

Mitchell qui tam v. Torup, cit., pp. 232-233.

41

T. PLUCKNETT, A concise History, cit., p. 474.

42

“No merchant or other person shall lose or forfeit his goods or merchandise for any trespass or forfeiture incurred by his servant, unless his act is by the command and consent of his master”: 27 Edw. 3, C. 19 (1353). 43 “Property held by an attainted as trustee, executor, administrator, or corporate officer was not forfeit”. V., per es., Hix v. Harrison, 3 Bulstrode 210, 81 Eng. Rep. 177 (K.B.1616) (opinion

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“vicario” dell’“attainder” non era peraltro la conseguenza più pesante per i terzi innocenti. In particolare, l’attainder of felony non solo comportava che i figli non potevano ereditare la proprietà confiscata ai loro genitori “attainted”, ma implicava anche la “corruption of the blood”, cioè il fatto che nessun discendente poteva ricostruire un asse ereditario risalendo all’antenato condannato. È proprio a causa di tali conseguenze estremamente severe che tale tipo di forfeiture di common law cadde rapidamente in disgrazia in America 44. Il fatto che, ancora in epoca coloniale, tradizioni e regole di matrice religiosa, come quella del deodand, potessero assurgere a fondamento di norme giuridiche, dando luogo a procedimenti con caratteri comuni ad entrambe, non deve meravigliare, se si pensa che lo stesso fenomeno avviene nel campo del diritto penale sostanziale, ove nel diciottesimo secolo abbondano i precetti religiosi dotati di sanzioni di carattere penale ed i reati maggiormente perseguiti sono le “offences against God and religion” 45. Poiché ciascuna di queste tradizioni comportava, come si è detto, un “punitive aspect”, non può sorprendere che anche la confisca prevista in base ai Navigation Acts inglesi venisse giustificata come “a penalty for negligence”. Infatti “i padroni delle navi devono prendersi cura di quale comandante ingaggiano e quest’ultimo a sua volta dei marinai: a proposito del comportamento di costoro, la negligenza è chiaramente imputabile al comandante cui spetta redigere un rapporto sul carico della nave e, che se avesse ispezionato ed esaminato con la dovuta cura la nave, adempiendo ai suoi doveri al riguardo, avrebbe trovato il carico di contrabbando e avrebbe così potuto evitare la confisca”. È da notare che solo quest’ultimo tipo di confisca, collegato alla violazione di una specifica norma, approdò negli Stati Uniti anche se quasi del tutto, ma non sempre, privo del suo carattere di pena contra personam. Tale tipo di confisca, già prevista dal diritto inglese, era quella adottata specificamente da una legge “for offending objects”, cioè riguardava beni, soprattutto mobili, utilizzati per violare le norme doganali e tributarie. Singoli statutes inoltre imponevano confische minori per reati di scarsa gravità relative a singoli beni o all’intera proprietà di un soggetto. La determinazione in concreto dei beni da confiscare era specificata nella sentence che seguiva il giudizio. La più importante di queste concerne i Navigation Acts del 1660 i quali imponevano che la spedizione della maggior parte delle merci avvenisse per mezzo di navi inglesi. La violazione dell’obbligo comportava la confisca non of Coke, C.J.). In proposito: Attorney General v. Weeks, Bunbury 223, 145 Eng. Rep. 654 (Ex. 1726). Per i profani, l’acronimo K.B. sta per King’s Bench, l’abbreviazione “Ex” per Court of Exchequer. 44 R. MAXEINER, Bane, cit., p. 774. 45 V. FANCHIOTTI, Origini e sviluppo della “giustizia contrattata” nell’ordinamento statunitense, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 71.

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solo dei beni trasportati illegalmente ma anche della nave che li trasportava 46. La norma era interpretata nel senso che il comportamento anche di un singolo marinaio, tenuto senza che ne fosse a conoscenza il comandante o il padrone della nave, poteva risultare nella confisca dell’intera nave 47. Blackstone considerava nel 1765 tale legge e, quindi, la confisca che ne conseguiva come dotata di natura “penale”, non diversamente dalla giurisprudenza inglese, anche di molto successiva, secondo cui le statutory forfeitures, cioè quelle previste da singoli provvedimenti legislativi, erano “likely a product of the confluence and merger of the deodand tradition and the belief that the right to own property could be denied the wrongdoer” 48. Preliminarmente va osservato come nel periodo coloniale la legislazione in tema di forfeiture variava nelle diverse colonie, salvo l’esistenza di una specifica normativa inglese e, comunque, la Corona non insisteva sulla sua applicazione, anche perché i proventi delle confische andavano ai governi delle singole colonie 49. Il deodand non divenne mai parte stabile del common law d’oltreoceano 50, neppure nelle sue versioni più aggiornate, “laicizzate” e rese più “miti” e flessibili rispetto alla sua draconiana rigidità originaria 51, mentre la confisca come pena – anche nel suo profilo “ereditario”, il c.d. feud of blood, che estendeva anche agli eredi del condannato il provvedimento emesso nei suoi confronti – per il reato di treason fu abolita nella colonia del Massachusetts, poco usata a New York, restando vigente solo in Pennsylvania e Virginia, fino quando fu esplicitamente abrogata dall’Art. III sect. 3, [2] della Costituzione degli Stati 46 47

L.A. HARPER, The English Navigation Laws, Columbia University Press, New York, 1939. Mitchell v. Torup, Park. 227, 145 Eng. Rep. 764 (Ex. 1766).

48 Secondo quanto osserva la Corte suprema degli Stati Uniti nel descrivere il sistema inglese: Calero-Toledo v. Pearson Yacht Leasing Co., cit., p. 682. 49

R. MAXEINER, Bane, cit., p. 777.

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È difficile attestarne la presenza, se non del tutto sporadica, a New York: cfr. J. GOEBEL & T. NAUGHTON, Law Enforcement in Colonial New York, Commonwealth Fund, New York, 1944, p. 717. 51 Cfr. M. HALE, The history of the Pleas of the Crown, RH Small, Philadelphia, 1847, p. 424; F. POLLOCK & F.W. MAITLAND, History of English Law, cit., p. 473; Law of Deodands, in 34 Law Magazine, 1845, pp. 188-189; J. FINKELSTEIN, The Goring Ox: Some Historical Perspectives on Deodands, Forfeitures, Wrongful Death and the Western Notion of Sovereignty, in Temp.L.Q., 1973, p. 182. In effetti l’abolizione del deodand in Inghilterra risale al 1846 (9 & 10 Vict. c. 62), trasformata dall’emanazione di un Act che crea la possibilità di agire in sede civile per una wrongful death (9 & 10 Vict. c. 93 (1846)). L’abolizione in realtà richiede l’emanazione di due diverse leggi, dal momento che il Lord Chief Justice Campbell era contrario all’abolizione dell’istituto, data la tendenza di quest’ultimo a fungere da deterrente alla disattenzione, in particolare da parte degli addetti alle ferrovie, a meno che ai sopravvissuti degli incidenti ferroviari fosse garantito un diritto azionabile. Cfr. 77 Hansard’s Parliamentary Debates, 3d Series 1031 (1845). In proposito: J. FINKELSTEIN, The Goring Ox, cit., pp. 170-171.

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Uniti, il quale sancisce che “[I]l Congresso avrà il potere di dichiarare la pena per il treason, ma non [...] la forfeiture eccetto durante la vita della persona condannata”. Quanto al terzo tipo di confisca, se, come si è detto, già tre anni dopo il varo della Costituzione, il Crimes Act del 30 aprile 1790 (il c.d. Federal Criminal Code 1790) 52 generalizzò l’abolizione della confisca di beni patrimoniali come pena vera e propria estesa a tutti i felonies 53, il Congresso iniziò sùbito dopo a reintrodurla per specifiche fattispecie di singoli reati o per categorie di essi espressamente (in realtà con una certa “abbondanza” 54) elencate e considerate tra le più pericolose espressioni della criminalità organizzata: questo avvenne, però – lo si è accennato sopra – soprattutto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso 55. 52 La rubrica ufficiale della legge è: An Act for the Punishment of Certain Crimes Against the United States. 53 Act of April 30, 1790, ch. 9, § 24, 1 Stat. 117. La disposizione è rifluita nel 1948 (June 25, 1948, 62 Stat. 873) nel Title 18 dell’United States Code (U.S.C.), il cui § 3563 ricalca la terminologia settecentesca “No conviction or judgment shall work corruption of blood or any forfeiture of estate”. 54 “Esemplare” in proposito la c.d. R.I.C.O. Offence, introdotta nel 1970, su cui infra, passim. 55 La norma del 1948, di cui si è detto supra nella penultima nota, che recepisce e generalizza l’abolizione della forfeiture a livello federale, è stata sostituita e radicalmente ridimensionata dall’Act del December 26, 1985, 99 Stat. 1728 (c.d. Sentencing Reform Act) e inserita nel nuovo 18 U.S.C. § 3554 che, sotto la rubrica “Order of Criminal Forfeiture” recita “il giudice, nell’irrogare la pena nei confronti di un condannato per un reato previsto dal § 1962 di questo Titolo o nel Titolo II o III del Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act del 1970 dovrà stabilire, in aggiunta alla pena determinata in base a quanto disposto dal § 3551, che al condannato sia confiscata la proprietà in favore degli Stati Uniti, secondo quanto dispone il § 1963 dello stesso Titolo 18 o il § 413 del Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act”. Il § 1962 del Title 18 dell’United States Code riguarda le pene previste per il reato c.d. R.I.C.O., previsto dal Rackeeter Influenced and Criminal Organization Act, varato nel 1970 e inserito nel Title 18, il quale costituisce la punta di diamante – forse anche troppo tagliente nel ridurre alcune garanzie, specie processuali, dell’imputato – della normativa contro la criminalità organizzata negli Stati Uniti. Ma su R.I.C.O. e le sue enormi (e a volte abnormi) potenzialità nell’operare la forfeiture dei beni dell’imputato torneremo più avanti. Il § 413 del Comprehensive Drug Abuse Prevention and Control Act del 1970 prevede, per le condanne in materia di stupefacenti alla pena detentiva superiore ad un anno, la forfeiture a favore degli Stati Uniti “irrespectively of any provision of State law”, cioè esercitando la sua “primacy” su eventuali norme statali incidenti sulla stessa materia, di “(1) any property constituting, or derived from, any proceeds the person obtained, directly or indirectly, as the result of such violation; (2) any of the person’s property used, or intended to be used, in any manner or part, to commit, or to facilitate the commission of, such violation; and (3) in the case of a person convicted of engaging in a continuing criminal enterprise in violation of section 408 of this title (21 U.S.C. 848), the person shall forfeit, in addition to any property described in paragraph (1) or (2), any of his interest in, claims against, and property or contractual rights affording a source of control over, the continuing criminal enterprise. The court, in imposing sentence on such person, shall order, in addition to any other sentence imposed pursuant to this title or title III, that the person for-

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In realtà la rappresentazione dell’abolizione generalizzata della confisca all’epoca della nascita degli Stati Uniti come regola e la sua sopravvivenza come eccezione ex lege costituiva una juridical fiction, una sorta di “truffa delle etichette” che non mutava radicalmente la situazione precedente: già antecedentemente all’adozione della Costituzione, le corti di common law – prima quelle inglesi e poi quelle locali – nelle colonie americane e, più tardi anche negli Stati – durante il breve periodo della Confederazione, cioè dal 1776 al 1787, prima del varo della Costituzione, avvenuto il 17 settembre 1787 56 – esercitavano una giurisdizione in rem (cioè diretta contro “la cosa”) applicando leggi che prevedevano la confisca 57. Infatti, durante il periodo coloniale le confische per la violazione delle leggi doganali e della navigazione erano applicate dall’Exchequer, a seguito di una “denuncia” civile (information), presentata o da un Crown attorney (un “avvocato della Corona”, cioè un “funzionario” dello Stato) o da un privato che esercitava l’azione qui tam, cioè a nome proprio e dello Stato (c.d. “informer’s suit”) 58. La causa era in rem o in personam secondo quanto disponeva la norma specifica o il tipo di beni da sequestrare 59. feit to the United States all property described in this subsection. In lieu of a fine otherwise authorized by this part, a defendant who derives profits or other proceeds from an offense may be fined not more than twice the gross profits or other proceeds”. La proprietà assoggettata a criminal forfeiture ai sensi del § 413 comprende “(1) real property, including things growing on, affixed to, and found in land; and (2) tangible and intangible personal property, including rights, privileges, interests, claims, and securities”. Il § 413 peraltro prevede dei rimedi a tutela di eventuali interessi di terzi in buona fede sui beni già confiscati, tenendo conto che la confisca “scatta” automaticamente al momento della commissione del reato. Ne consegue che “[a]ny such property that is subsequently transferred to a person other than the defendant may be the subject of a special verdict of forfeiture and thereafter shall be ordered forfeited to the United States, unless the transferee establishes in a hearing that he is a bona fide purchaser for value of such property who at the time of purchase was reasonably without cause to believe that the property was subject to forfeiture under this section”. La circostanza dell’individuazione esatta del momento in cui la forfeiture diventa esecutiva è stabilita da una consolidata giurisprudenza della Corte – come ricorda U.S. v. Stowell del 1890 – secondo la quale “whenever a statute enacts that upon the commission of a certain act, specific property used in or connected with that act shall be forfeited, the forfeiture takes effect immediately upon the commission of the act; the right to the property then vests in the United States although their title is not perfected until judicial condemnation; the forfeiture constitutes a statutory transfer of the right to the United States at the time the offense is committed, and the condemnation, when obtained, relates back to that time and avoids all intermediate sales and alienations, even to purchasers in good faith”. 56 Sul periodo della Confederazione e sulla sua “precarietà”, pericolosa per il futuro della neonata “Repubblica”: A. NEVINS & H.S. COMMAGER, The Pocket History of the United States. The History of a Free People, Pocket Books, Inc., New York, 1976, p. 87 ss. 57 C. J. Hendry Co. v. Moore, 318 U.S. 139 (1943). 58 M. BACON, A New Abridgment of the Law, Actions qui tam, 6th ed., A. Strahan, London, 1807, p. 61 [1st ed. London, 1736]. 59 Probabilmente il fatto che la Court of Exchequer, una delle tre corti di common law di Westminster, esercitasse cause in rem dipendeva dal fatto che originariamente si occupava di

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Poiché la confisca costituiva spesso la pena più lieve, normalmente il proprietario non la contestava per timore di essere, altrimenti, sottoposto ad un successivo procedimento in personam: fino all’entrata in vigore dei Navigation Acts inglesi (come abbiamo visto risalenti alla seconda metà del XVII secolo), se il proprietario si dichiarava disponibile, la confisca veniva disposta solamente in base alla sua confessione o all’accertamento della sua colpevolezza. In tal caso, se l’azione era iniziata qui tam, all’informer spettava un terzo dei beni confiscati 60. Nel XVII e XVIII secolo un’ampia serie di circostanze faceva propendere per la causa in rem: l’informer agiva senza alcuna interferenza da parte del Crown attorney e, se non c’erano altre obbligazioni oltre a quella relativa alla confisca, poteva negoziare col proprietario un accordo patrimoniale per fargli evitare le spese del dibattimento. Inoltre l’onere probatorio circa la mancanza dei presupposti per la confisca era a carico del proprietario. Quando invece la causa era in personam spettava all’informer provare che la nave o il suo equipaggio non erano inglesi: l’inversione dell’onere della prova comportava a suo carico, dato il crescente sviluppo e la maggior complessità del commercio, una maggior difficoltà nell’identificare i proprietari delle navi per sottoporli alla giurisdizione inglese. Queste circostanze, unite al fatto che i Navigation Acts prevedevano normalmente come sanzione unicamente la confisca (alla quale solamente, del resto, era interessato l’informer, mosso da motivi − come si è visto − esclusivamente economici, mentre i “funzionari” della “Corona” non erano “onnipresenti” e quindi inidonei a imporre il tipo di rito più redditizio per la Corona stessa, ma divenuto troppo impegnativo per loro, quello in personam) favorì ulteriormente la tendenza ad utilizzare cause in rem 61. Nelle colonie, però, non esistendo “succursali” dell’Exchequer Court con “sede unica”, centralizzata a Londra e, data la distanza dalla madrepatria, le cause in tema di confisca erano inizialmente di competenza delle corti di common law, ma alla metà del XVIII secolo la maggior parte del contenzioso veniva affidato neppure ad in rem actions davanti ad Admiralty Courts (tribunali marittimi) inglesi decentrate: le corti d’oltreoceano non seguivano né i procedimenti dell’Exchequer Court né delle Admiralty Courts, ricorrendo a cause in personam fondate su modelli stranieri e non più su quello inglese. Al contrario la “matrignapatria” preferiva celebrare le cause davanti alle proprie Vice Admiralty Courts decentrate oltreoceano, soprattutto – ma non solo 62 − res nullius, relitti di navi naufragate, orfani abbandonati e animali randagi: presumibilmente l’aggiunta della confisca tra le sue competenze dipende dal fatto che anch’essa riguardava spesso beni abbandonati dal proprietario. Cfr. W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. III, cit., p. 262. 60 Cfr. il Case of Shipping Woods to Calais del 1458, in Selected Cases in the Exchequer Chamber Before All the Justice of England, in Selden Soc’y, vol. 51, 1933, p. 144. 61 J. MAXEINER, Bane, cit., p. 776. 62 Le juries di common law erano infatti restie a mitigare la normativa in tema di forfeiture, avallandole solo in presenza di colpa del proprietario: così W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. I, cit., p. 302.

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per evitare l’intervento delle giurie delle colonie, operanti, al contrario presso le corti di common law 63, attirandosi gli strali dei patrioti americani, in primis di John Adams 64. Costui, in particolare, deprecava il fatto che le giurie erano previste davanti all’Exchequer Court. Non va però dimenticato come non solo prima dell’Indipendenza ma neppure dopo il varo del Bill of Rights né tutt’ora ad opera della giurisprudenza della Corte suprema sia previsto un diritto costituzionalmente garantito al jury trial nelle cause relative alla confisca, neanche al di là dei casi di diritto marittimo 65. Inoltre, sebbene ai coloni venisse negato il diritto alla giuria, le Vice Admiralty Courts erano molto restie a disporre la confisca senza colpa: se la Corona non riusciva a provare l’esistenza di una frode, le Vice Admiralty Courts operanti nelle colonie del nuovo mondo spesso negavano la forfeiture, pur in presenza della prova di una violazione tecnica 66.

4. La forfeiture dopo l’Indipendenza degli Stati Uniti. Nel 1773 la Vice Admiralty Court del Massachusetts si rifiuta, infatti, di ordinare la confisca di un carico di uno spedizioniere privo di alcuna responsabilità per degli illeciti commessi dal proprietario della nave sulla quale il carico era stato spedito, spiegando che la saggezza della giustizia o del Parlamento non avrebbe mai dovuto essere messa così alla berlina per aver consentito che, a causa dell’omissione del proprietario, uno spedizioniere innocente potesse essere mandato in rovina: “se si consolidasse, una simile giurisprudenza avrebbe effetti esiziali per il traffico ed il commercio e, di conseguenza, anziché promuovere l’interesse pubblico, produrrebbe un effetto diametralmente opposto” 67. Successivamente, appena entrata in vigore la Costituzione, il primo Congresso, utilizzando il tax power, cioè il potere di imporre tasse federali (compreso tra gli enumerated powers conferitigli nell’Art. I sect. 8 della Costituzio63 L.K. WROTH, The Massachusetts Vice Admiralty Courts and the Federal Admiralty Jurisdiction, in Am. Jorn. Legal History, 1962, pp. 257-259. 64

V. per es., Advocate General v. Hancock, Quincy 457, 460 (Mass. V. Adm. 1769); Legal papers of John Adams Papers, vol. 2, 194-200 (L. WROTH & H. ZOBEL eds., 1965). Al di là della critica all’utilizzo di corti senza giuria la Corte suprema degli Stati Uniti nel 1796 decise che una causa originariamente di competenza dell’Exchequer inglese poteva essere trattata senza giuria di fronte ad un’Admiralty court, se basata su un sequestro eseguito dalla stessa Admiralty jurisdiction: U.S. v. La Vengeance, 3 U.S. (3 Dall. 297 (1796)). 65

Van Oster v. Kansas, 272 U.S., 465 (1926).

66

J. MAXEINER, Bane, cit., p. 778.

67

Dawson v. The Dolphin (Mass. V. Adm. 1773), in L. WROTH & H. ZOEBEL (eds.), Legal Papers of John Adams, vol. II, 1965, p. 232.

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ne), approvò dei provvedimenti legislativi che assoggettavano le imbarcazioni coinvolte in illeciti doganali ed i relativi carichi a confisca, seguendo la tradizione dei Navigation Acts inglesi, operanti in epoca coloniale. L’apparente presa di distanza ufficiale dalla concezione della forfeiture come pena vera e propria, se trasforma quest’ultima in “effetto collaterale” dell’imposizione fiscale, operante solo in caso di mancato adempimento degli obblighi “primari” del contribuente, non esclude però, − come chiarisce senza ombra di dubbio nel 1993 l’attuale leading case della Corte suprema in materia, Austin v. U.S. 68 − che una confisca civile equivalga comunque ad una pena pecuniaria e, quindi, come tale debba essere assoggettata alle limitazioni ed alle garanzie previste in materia dalla Costituzione. In particolare essa deve rispettare il divieto sancito dall’Excessive Fines Clause dell’VIII Emendamento e dall’attribuzione dei enumerated powers di cui al citato Art. I sect. 8, tra cui appunto rientra il tax power, che prevede “il potere del Congresso di emanare tutte le leggi necessarie ed appropriate” anche, ovviamente, di natura penale 69. Il carattere prevalentemente formale della presa di distanza ufficiale dalla concezione della forfeiture come pena, contrabbandata come sanzione tributaria in caso di mancato pagamento di una tassa, è particolarmente evidente nella circostanza che la legislazione in materia venga fatta rientrare nel tax power, cioè avvalendosi non direttamente di uno dei (pochi) enumerated powers riguardanti specificamente la materia penale, ma solo indirettamente, ricorrendo alla c.d. catch-all “necessary and proper clause” che chiude l’elenco dei powers di cui al già citato Art. I sect. 8. Nel caso specifico nei confronti di un soggetto condannato per traffico di stupefacenti, l’autorità federale promuove una causa civile in rem davanti ad una U.S. District Court contro la mobile home e l’auto body shop del condannato ai sensi del § 881(a)(4) e (a)(7) del Title 21 dell’U.S. Code, che prevede la forfeiture di veicoli e beni immobili utilizzati (o destinati ad esserlo), per agevolare la commissione di alcuni reati in tema di sostanze stupefacenti. La District Court emette un summary judgment a favore dell’attore, basandosi sull’affidavit di un ufficiale di polizia secondo il quale il convenuto (già condannato, come si è detto, in sede penale) aveva trasferito due once di cocaina dalla sua mobile home al body shop per condurvi a termine la vendita, già organizzata in precedenza, delle stesse. Nella stessa decisione la District Court respinge la tesi del convenuto secondo cui la confisca delle sue proprietà sarebbe avvenuta in violazione dell’excessive fines clause prevista dall’VIII Emendamento. La U.S. Court of Appeals conferma la decisione, dichiarandosi d’accordo con 68 69

Austin v. U.S., 509 U.S. 602 (1993). V. FANCHIOTTI, Lineamenti del processo penale statunitense, Giappichelli, Torino, 1987, p.

11 ss.

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l’attore sulla inapplicabilità dell’Emendamento in questione alla confisca civile in rem. La Corte suprema decide invece in senso opposto, favorevole alla tesi del convenuto, chiarendo che senza ombra di dubbio il Congresso dell’epoca considerava la confisca vincolata dalla disciplina dell’VIII Emendamento, il quale, come poc’anzi ricordato, vieta pene pecuniarie (fines) “eccessive”, in quanto le riteneva pur sempre una forma di pena, come, secondo la Corte stessa – che qui aderisce ante litteram ad una interpretazione originalist della Costituzione −, risulta esaminando il contenuto delle leggi dell’epoca. La Corte in Austin cita, per esempio, una legge del luglio 1789 che impone di scaricare le merci dalle navi solo se munite di un permesso e non nelle ore notturne 70. Qualora il capitano di qualsiasi imbarcazione consenta o permetta lo scarico di merci senza il rispetto delle regole di cui sopra, allo stesso ed ad ogni altra persona che lo coadiuvi o partecipi allo scarico, al trasporto a terra e allo stoccaggio delle merci, l’imbarcazione viene “confiscata” (sic) e, quindi, il capitano deve versare una somma pari a quattrocento dollari per ogni reato; inoltre viene dichiarata la sua “interdizione” dai pubblici uffici federali per non più di sette anni. Infine tutti i beni e le mercanzie scaricate illegalmente possono venire sequestrate da ogni ufficiale della dogana e, qualora il loro valore complessivo ammonti ad almeno quattrocento dollari, viene assoggettata a confisca anche l’imbarcazione, con la relativa attrezzatura e gli accessori. La Corte nel caso Austin 71 osserva come la legge in questione non solo prevedeva la confisca dell’imbarcazione accanto alle altre pene, ma richiama l’attenzione sul particolare – di cui abbiamo dato conto sopra, nel proporre una traduzione italiana dell’opinion − che il medesimo verbo “to forfeit” sia usato da parte del primo Congresso degli Stati Uniti con riferimento alla pena pecuniaria (“shall forfeit and pay the sum of four hundred dollars for every offence”). In proposito va tenuto conto che, invece, il termine normalmente utilizzato – anche nell’Art. I del testo della Costituzione e nello stesso VIII Emendamento sopra riportati – per indicare una pena originariamente pecuniaria è “fine”, che deriva dall’espressione latina “per finem facere”, cioè porre fine al processo pagando una somma di denaro. Del resto il termine fine era già ufficialmente utilizzato alla metà del diciottesimo secolo: Blackstone stesso, infatti, parla di “fine” e “imprisonment” come delle due pene tipiche del common law inglese a lui contemporaneo 72. 70

Act of July 31, 1789, § 12, 1 Stat. 39. Austin, cit., 614: “La forfeiture dei beni o delle imbarcazioni è elencata tra le altre forme di pena. Ed è anche di qualche interesse che “forfeit” sia il termine adoperato dal Congresso in luogo di “fine”. Altre forfeiture statutes dell’ultimo decennio del diciottesimo secolo usano lo stesso modello. Per tutte: Act of August 4, 1790, §§ 13, 22, 27, 28, 1 Stat. 157, 161, 163. 72 W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. IV, cit., p. 372. 71

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Analizzando i primi casi statunitensi appare chiaro il riconoscimento che la in rem forfeiture prevista specificamente per legge comporti e imponga una pena. In Peisch v. Ware 73, un caso del 1808, ad esempio, la Corte decide all’unanimità che i beni sottratti alla custodia di un funzionario del fisco (“revenue officer”) senza il previo pagamento delle relative imposte, non potrebbero solo per questa ragione essere soggetti a confisca, a meno che non siano stati rimossi col consenso (e, quindi, con la “complicità”, intesa in senso lato) del loro proprietario o di un suo rappresentante. La Corte ha precisato, nella stessa occasione, che la “sottrazione/rimozione” illecita in questione per poter portare alla punizione, prevista dalla legge, del proprietario dei beni dev’essere avvenuta col suo consenso o con la sua connivenza o con quelli della persona incaricata dal proprietario stesso di sottrarre il bene. Ne deriva che, se in conseguenza di un furto o di una rapina senza alcuna colpa da parte del proprietario, la proprietà viene “invasa” (sic) mentre si trova affidata alla custodia del “revenue officer” la legge non può essere utilizzata per “punire” il primo con la confisca di tale proprietà 74. La concezione stessa della forfeiture come pena è rinvenibile nei casi portati dalle lower courts all’attenzione della Corte suprema che respingono l’“innocenza” del proprietario a titolo di causa di giustificazione propria del common law in riferimento alla forfeiture 75. In queste ipotesi, l’istituto è stato giustificato da due teorie: secondo la prima, “the property itself is ‘guilty’ of the offense”, mentre per la seconda il proprietario può essere ritenuto responsabile per gli illeciti 76 (“the wrongs”) di terzi cui ha affidato i suoi beni, in una sorta di “culpa in eligendo” che, tuttavia, la dottrina, più “colta”, ha la sensibilità di non applicare ad una “ciurma” di pirati, limitandola semmai a quella del proprietario, ma solo nei suoi rapporti col capitano. La Corte, infatti, decidendo nel 1844 il caso Brig Malek Adhel, ha basato il suo ragionamento sul fatto che “gli atti del comandante e dell’equipaggio in casi di questo tipo (relativi al reato di piracy 77), sono legati all’interesse del pro73

Peisch v. Ware, 4 Cranch 347 (1808). “If, by private theft, or open robbery, without any fault on his part, his property should be invaded, while in the custody of the officer of the revenue, the law cannot be understood to punish him with the forfeiture of that property”: Peisch v. Ware, cit., p. 364. 75 U.S. v. Brig Malek Adhel, 2 How. 210 (1844): “The vessel which commits the aggression is treated as the offender, as the guilty instrument or thing to which the forfeiture attaches, without any reference whatsoever to the character or conduct of the owner”. Nello stesso senso, The Palmyra, 12 Wheat. 1 (1827): “The thing is here primarily considered as the offender, or rather the offence is attached primarily to the thing”. 76 Traduciamo così il termine “wrong”, dato che nel caso specifico si riferisce a casi gravi di pirateria. 77 Nel Commentary ufficiale all’Act to Protect the Commerce of the United States and Punish the Crime of Piracy, ch. 77, sect. 4 del 3 marzo 1819, cui accenneremo qui di seguito, si riporta la 74

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prietario stesso della nave, innocente o colpevole che sia degli illeciti specifici commessi, e che quest’ultimo implicitamente deve sottostare a qualsiasi conseguenza il diritto gli impone a titolo di forfeiture collegata alla nave, a causa dei comportamenti illeciti o indisciplinati del comandante e dell’equipaggio” 78. Non intendiamo approfondire qui la tematica, pur di primaria importanza, dei rapporti tra forfeiture e legislazione in tema di piracy, una materia ricompresa esplicitamente tra gli enumerated powers dell’Art. I della Costituzione 79, data l’importanza – non solo strettamente criminale e “domestica” ma anche politico-internazionale − del fenomeno all’epoca dei primi decenni di vita degli Stati Uniti 80 (mentre al giorno d’oggi permane solo il profilo politicointernazionale del fenomeno in questione, geograficamente “delocalizzato” nell’area afroasiatica): basti qui richiamare – ma sul punto avremo comunque occasione di tornare – l’Act to Protect the Commerce of the United States and Punish the Crime of Piracy del 1819, in forza del quale “ogniqualvolta una nave o un’altra imbarcazione armata dalla quale per prima (first) sia stata tentata o commessa qualsiasi aggressione piratesca, sequestro, saccheggio, dev’essere catturata e condotta in qualsiasi porto degli Stati Uniti, dev’essere giudicata e, se del caso, condannata (sic) ad essere utilizzata dagli Stati Uniti e da coloro che l’hanno catturata, a seguito di un due process e di un trial (dibattimento) davanti a qualsiasi corte avente admiralty jurisdiction […], al termine del quale, ed a seconda del suo esito, la stessa Corte ordinerà una vendita e una “distribution” [dei relativi proventi] tra i due interessati, il pubblico (gli Stati Uniti) e il privato che ha catturato la nave (il captor), con una decisione affidata alla sua discrezionalità” 81. Entrambe le teorie si fondano sulla considerazione che il padrone sia stato negligente nel consentire che la sua proprietà fosse utilizzata impropriamente (“misused”) e che quindi egli sia stato correttamente sottoposto ad una punizione per la sua negligenza.

definizione data dalla case law, in particolare rifacendosi a U.S. v. Palmer, 3 Wheat. 610, al termine piracy “A robbery committed on the high seas, although such robbery, if committed on land, would not, by the laws of the United States, be punishable with death, is piracy under the act of Congress of 1790; and the Circuit courts have jurisdiction thereof”. 78 U.S. v. Brig Malek Adhel, cit. 79 Art. I, sect. 8: “The Congress shall have Power […] To define and punish Piracy and Felonies committed on the High Seas, and Offenses against the Law of Nations”. 80 Ne è eloquente riprova il fatto che la piracy sia punibile con la pena capitale, a differenza della robbery (rapina): cfr. supra, nota 77. 81 Act to Protect the Commerce of the United States and Punish the Crime of Piracy, ch. LXXVII, sect. 4, March 4, 1819.

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5. Forfeiture e contrabbando. L’attenzione della giurisprudenza della Corte suprema in tema di confiscation, quasi monopolizzata dalla materia marittima durante la prima metà del diciannovesimo secolo, nell’ultimo quarto di quest’ultimo inizia a spostarsi su quella alcoolica. In questo settore spicca, nel 1877, il caso Dobbins Distillery v. U.S. 82, ove si afferma che il reato (distillazione clandestina di alcoolici) è “attached primarily to the distillery” ed alla proprietà personale e reale utilizzata in connessione con la violazione stessa, senza alcun riguardo di nessun tipo alla condotta illecita o alla responsabilità del proprietario. Tuttavia la Corte ha ben presente come la fictio si basi sulla nozione che il proprietario, il quale consenta il coinvolgimento della sua proprietà nella commissione di un illecito, sia stato comunque negligente. In questo senso, nel caso Goldsmith Grant Co. v. U.S. 83, la Corte, nel 1921, chiarisce, citando Blackstone 84, che “attribuire ad una proprietà una certa personalità, un potere di divenire complice e colpevole nel reato”, aveva una qualche analogia con “the law of deodand”. In nessuno di questi casi, come in quelli della prima metà del secolo diciannovesimo in tema di piracy, tuttavia la Corte ha utilizzato la fictio della “guilty property” per giustificare una confisca, ogni volta che risulti che il proprietario ha fatto tutto quello che ragionevolmente ci si poteva aspettare da lui per prevenire l’uso illegittimo (unlawful) della sua proprietà, indipendentemente dall’esistenza e dall’esito di un accertamento penale a suo carico. Infatti, già nel caso The Palmyra del 1821 la Corte si era limitata a rigettare l’argomento che la condanna penale del proprietario debba essere considerata un presupposto necessario per la forfeiture della sua proprietà 85, osservando – nell’opinion del Justice Story – come tale questione fosse la più importante e difficile da decidere, dal momento che nel common law “classico” molti casi di felonies richiedevano la confisca dei propri beni mobili e immobili della parte soccombente a favore della Corona. Sebbene la forfeiture “did not, strictly speacking, attached in rem”, essa, comunque, rappresentava “una parte o, come minimo, una conseguenza del giudizio di condanna”. Ne deriva che, ai fini della confisca, la Corona non acquisiva nessun titolo sui beni del felon sulla base della mera commissione del reato, ma era necessaria la sua successiva condanna. Il risultato fu che in ogni caso ove la Corona cercava di recuperare i 82

Dobbins Distillery v. U.S., 96 U.S. 395 (1878). Goldsmith Grant Co. v. U.S., 254 U.S. 510 (1921). 84 Dobbins Distillery, cit. Il passo di Blackstone, più sopra citato, è “that such misfortunes are in part owing to the negligence of the owner, and therefore he is properly punished by the forfeiture”, W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. I, cit., p. 301. 85 The Palmyra, cit., p. 15 (“[N]o personal conviction of the offender is necessary to enforce a forfeiture in rem in cases of this nature”). 83

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beni in questione era indispensabile che predisponesse il fondamento del suo diritto su di essi producendo copia della sentenza di condanna. Secondo il common law, quindi, l’imputato non era spogliato del suo diritto fino alla condanna. Tale disciplina però – osserva la Corte – non è mai stata applicata ai sequestri e alle confische creati non dal common law, ma da un singolo specifico provvedimento legislativo in rem (“contro la cosa”), tradizionalmente di competenza del “ramo tributario” 86 dell’Exchequer (istituzione oggi rifluita nel King’s Bench). In quella prima sede (cioè nel revenue side dell’Exchequer), la “cosa” è in primo luogo considerata come l’imputato o, piuttosto, il reato si ricollega in primo luogo alla cosa in sé. Lo stesso principio trova applicazione ai procedimenti in rem relativi ai sequestri nel diritto marittimo: ci sono molti casi in cui la forfeiture per fatti commessi colpisce solo in rem, senza parallele pene in personam; in altri sono previsti sia la forfeiture in rem sia la penalty nei confronti della persona, ma in nessun tipo di casi è stato mai deciso che i due procedimenti, quello in rem e quello in personam, dipendessero gli uni dall’esito (e neppure dall’instaurazione) degli altri. La prassi è sempre stata – e così la interpreta la Corte – che il procedimento in rem è del tutto indipendente e del tutto svincolato da ogni procedimento penale in personam: la teoria trova conferma nel fatto che, sia in Inghilterra sia in America, la giurisdizione per i procedimenti in rem, è di solito affidata a tribunali diversi da quelli chiamati ad esercitare la giurisdizione penale. In casi come quello esaminato, a giudizio della Corte – conclude l’opinion – non è quindi affatto necessaria alcuna previa condanna penale “personale” nei confronti dell’imputato per eseguire una confisca in rem. La Corte, raggiunta ormai la decisione sulla questione preliminare – che a noi più interessa in questa sede – prende in considerazione se vi siano elementi sufficienti per sostenere anche la condanna al risarcimento dei danni cagionati dal brigantino Palmyra, non necessaria ai fini della confisca, ma influente sull’ulteriore questione presentata alla Corte circa il risarcimento dei danni provocati dai pirati del Palmyra. Si stabilisce così che non è necessario addentrarsi in un esame approfondito dei vari fatti precedenti e contemporanei alla cattura del Palmyra stesso e neppure del procedimento per danni cui esso era stato sottoposto, dal momento che i giudici delle corti inferiori 87 sono divisi nelle loro decisioni in proposito e, conseguentemente, secondo la pratica consueta della Corte suprema, che lascia alle corti inferiori la ricostruzione dei fatti, il provvedimento della Circuit Court (cioè della Corte d’appello federale), 86

Così lo definisce The Palmyra, cit., p. 8. “Inferior Courts” è la denominazione ufficiale, utilizzata dall’Art. III della Costituzione degli Stati Uniti per designare le corti federali subordinate alla U.S. Supreme Court. Le stesse sono denominate “Inferior Tribunals” nell’Art. I della stessa Costituzione. Sull’organizzazione giudiziaria negli U.S.A., cfr. V. FANCHIOTTI, Processo penale statunitense, in Enc. dir., Ann. II, t. I, 2008, p. 809 ss. 87

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che si è pronunciata per l’assoluzione del Palmyra, dev’essere confermato. In generale va osservato come nella cultura di common law sia profondamente radicata l’idea che lo stesso fatto integrante contemporaneamente un tort ed un crime, cioè un illecito civile ed uno penale, non debba simultaneamente dar luogo a un (unico) procedimento civile ed a uno penale, ma possa venire sanzionato a livello giurisdizionale separatamente e, quindi, potenzialmente in maniera diametralmente opposta, stante la netta (sia pur non assoluta) separatezza del diritto civile da quello penale, in parte paradossalmente dovuta ad una precedente ed eccessivamente stretta commistione tra i due, le cui tracce sono tutt’ora rinvenibili, ad esempio, in generale, anche a livello terminologico, nel fatto che lo stesso termine tecnico “defendant” designi sia il convenuto sia l’imputato e, a proposito della disciplina probatoria, nell’identità del relativo corpus normativo in entrambi i settori, il civile ed il penale, oggetto delle Federal Rules of Evidence statunitensi. Ciò consente addirittura di azzardare, con una certa fondatezza, che il processo penale di common law derivi in epoca tardo medievale-moderna in maniera piuttosto evidente da quello civile 88. Si potrebbe ricordare a questo proposito come inizialmente in Inghilterra le funzioni dei prosecutors – ben oltre il periodo pre-normanno dei blood feuds – fossero svolte, anche in sede dibattimentale 89, dalle vittime stesse del reato o dai loro parenti sopravvissuti, fino alla nascita della polizia “moderna”, databile al 1829, “figlia” dell’Home Secretary Robert Peel (da cui il nickname “Bobby”, tutt’ora utilizzato per indicare i poliziotti britannici). Con l’istituzione della polizia, ad essa viene affidata l’attività investigativa, considerata però ancora ufficialmente come svolta in nome delle vittime stesse, nonché quella relativa alla decisione sul rinvio a giudizio dell’imputato e alla scelta del barrister, l’avvocato deputato a svolgere la funzione dell’accusa in giudizio 90, fino a quando nel 1986 la funzione di decidere sul rinvio a giudizio e sulla scelta dell’accusatore in udienza viene attribuita al Crown Prosecution Service, un organismo indipendente dalla polizia 91. Tuttavia restando sempre in campo probatorio, a proposito dello standard 88

V. FANCHIOTTI, Profili privatistici della giustizia penale statunitense, in Giur. it., 1992, p.

4 ss. 89

W. BLACKSTONE, Commentaries, vol. IV, cit., p. 300; J.H. LANGBEIN, The Origins of the Adversary Criminal Trial, Oxford University Press, Oxford, 2003, p. 11 ss. In realtà le performances dibattimentali delle vittime si rivelarono col tempo poco efficaci, tanto che nella seconda metà del Settecento il Parlamento inglese varò delle leggi che stanziavano dei sussidi economici per i costi sostenuti dai prosecutors privati indigenti in caso di condanna di un felon. Cfr., per tutte: 25 Geo. 2 c. 36 (1752). 90 J. SPRACK, A Practical Approach to Criminal Procedure, 10th ed., Oxford University Press, Oxford, 2004, pp. 61-62. 91 V. FANCHIOTTI, voce Processo penale nei paesi di Common Law, in Dig. disc. pen., vol. X, Utet, Torino, 1995, p. 169.

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richiesto per provare la responsabilità rispettivamente nel processo civile e penale, la separatezza di cui si è detto si mostra nella maniera più eclatante. Infatti, mentre nel campo civile la parte vincente è quella che riesce a provare la fondatezza della sua pretesa in base al criterio della preponderance of evidence (detta anche “dottrina del 51%”), dimostrando che gli elementi a suo favore superano quelli proposti dall’avversario, nel processo penale lo standard probatorio che l’organo dell’accusa deve sostenere per convincere la giuria della colpevolezza dell’imputato è quello, ben più esigente, anche se meno certo di quanto ci si possa aspettare, della prova beyond any reasonable doubt 92. A tale contesto è ovviamente del tutto estranea la figura della parte civile, la cui assenza, anzi, segna uno dei caratteri distintivi del common law rispetto a quello europeo-continentale, come ha ricordato ai giuristi e al pubblico del mondo intero il caso O.J. Simpson. Il noto campione sportivo, assolto perché “non colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio” nel processo penale per l’omicidio della moglie e dell’amante di quest’ultima, è stato successivamente condannato “by preponderance of evidence” al risarcimento dei danni per gli stessi fatti in un separato processo civile intentatogli dagli eredi delle vittime 93.

6. Le prese di posizione della Corte suprema federale. Se, dopo questo inciso contemporaneo, si ritorna alle vicende storiche della forfeiture, nel caso riguardante un altro brigantino pirata, Brig Malek Adhel, deciso nel 1844, si osserva che la dichiarazione d’“innocenza” dei proprietari era limitata dal fatto che essi “never contemplated or authorized the acts complained of”. Più tardi il caso Dobbins’s Distillery v. U.S. 94 del 1878, è paradigmatico dell’inflessibilità nell’applicazione del principio in esame: la Corte ha deciso che se il proprietario di una distilleria o quello di un’altra proprietà le concedono in affitto con lo scopo di svolgere attività di distillazione, gli atti o le omissioni dell’affittuario nel condurre l’attività in questione e con l’in92 I comparatisti italiani, isolati in questo uso nel panorama internazionale, designano lo standard con l’acronimo B.A.R.D., quasi sconosciuto nella letteratura e nella giurisprudenza di common law, sintomo abbastanza eloquente di una lettura “provinciale”, spesso di seconda mano, delle fonti giuridiche d’oltreoceano, nel caso specifico pesantemente condizionata dal volume di F. STELLA, Giustizia e modernità, Giuffrè, Milano, 2003. La stessa osservazione vale per la contrapposizione tra “law in action” e “law on the books”, che pressoché tutti i comparatisti nostrani riportano come “law ‘in’ the books”, dando addirittura prova di una conoscenza basata sull’hearsay dei testi classici nordamericani. 93 Sull’argomento, A. DERSHOWITZ, Reasonable Doubts: the Criminal Justice System and the O.J. Simpson Case, Touchstone, New York, 1997. 94 Dobbins Distillery, cit.

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tento di frodare il fisco (nel caso specifico si trattava della mancata tenuta e nella contraffazione dei libri contabili), sebbene sconosciuti al proprietario, determinano la confisca della distilleria e degli altri beni connessi a favore degli Stati Uniti 95. La Corte, nella sentenza in esame, ha osservato che qualche responsabilità da parte del proprietario derivava “dal fatto che la proprietà era stata affittata al distillatore illegale, e che il proprietario ne tollerava l’occupazione e l’utilizzazione da parte dell’affittuario come una distilleria”: quindi se il proprietario consapevolmente permette che la sua “terra” (land) sia usata come sede di una distilleria, la legge lo considera allo stesso tempo come se fosse sia il distillatore sia il proprietario del terreno dove si trova la distilleria e se, come nel caso specifico, viene commessa una frode, il terreno viene assoggettato a confisca come se il distillatore ne fosse il proprietario. Nel decidere il caso, che portò al sequestro della proprietà immobiliare e mobiliare utilizzata in relazione a una distilleria, riguardante, come si è detto, un illecito fiscale dell’affittuario, le proteste d’innocenza del proprietario vennero respinte dalla Corte come causa di giustificazione nei confronti di una legge di confisca federale dell’intera proprietà, poiché l’illecito si collegava principalmente alla distilleria e alla proprietà reale e personale utilizzata in connessione con la distilleria stessa, senza alcuna considerazione per la “personal misconduct or responsibility” del proprietario, “al di là di quella che necessariamente deriva dal fatto di aver affittato la proprietà al distillatore ed aver tollerato che venisse occupata ed usata da quest’ultimo come una distilleria” 96. “In base alla nostra ben consolidata dottrina” 97 – afferma dodici anni dopo la Corte in Stowell – “le leggi volte a prevenire le frodi sono considerate come emanate per il bene pubblico e per sopprimere un male pubblico e per questo, sebbene impongano pene o confische non devono essere interpretate strettamente in favore dell’imputato, come avviene in generale per le altre leggi penali, ma solo in maniera “fairly and reasonably”, in maniera oggettiva e non defendant-oriented, in modo tale da consentire di perseguire efficacemente l’intenzione del legislatore” 98, cioè, appunto, il bene pubblico. Da questo punto di vista – secondo la Corte – la conclusione legale dev’essere che l’attività illegittima dell’affittuario vincola il titolare della proprietà in riferimento “to the management of the same”, come se tale attività fosse stata condotta dal propretario stesso. La legge lo investe di tale “potere” (power) – in realtà gli accolla la responsabilità e l’assoggettabilità al provvedimento ablatorio della sua proprietà in caso di commissione di un illecito di un altro soggetto – in virtù del contratto di affitto. 95

Trattandosi di violazione di una legge federale. Dobbins Distillery, cit., p. 401. 97 Taylor v. U.S., 44 U.S. 210; Clicquot Champagne v. U.S., 70 U.S. 145; U.S. v. Hodson, 77 U.S. 406; Smythe v. Friske, 90 U.S. 380. Contra: U.S. v. Sugar, 32 U.S. 462-463. 98 United States v. Stowell, 133 U.S. 1, 13-14 (1890). 96

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La Corte si spinge oltre nel fissare i confini tra i rapporti privati intercorrenti tra le parti contraenti del contratto d’affitto e le conseguenze pubblicistiche che necessariamente ne scaturiscono, indipendentemente dai termini in cui è avvenuto tra le parti l’“incontro di volontà” e dal contenuto di quest’ultimo. Infatti: “se l’affittuario abusa della sua fiducia” [cioè di quella del proprietario] si tratta di una questione che dev’essere risolta tra i due: ma gli atti illeciti che producono conseguenze penali sulla proprietà devono essere considerati as if they were the acts of the owner 99. Altre decisioni sono pervenute alle stesse conclusioni nella prima parte del secolo scorso. Nel 1921, nel caso Goldsmith Grant Co. v. U.S. 100, la Corte, sia pur riconoscendo che gli argomenti sostenuti dalla difesa contro l’applicazione della legge, relativi all’opportunità di tutelare il proprietario “innocent” non erano “privi di forza”, cioè non infondati, così come il fatto che la fictio ben si presta ad essere utilizzata per confiscare il bene di un proprietario “truly innocent”, li respinse. In quell’occasione la Corte affermò che la legge in materia di confisca per frode fiscale 101 non sottraeva al proprietario “innocente” (un rivenditore di automobili) la sua proprietà, nel caso di specie un taxi oggetto di una sorta di cessione/vendita “condizionata” (cioè provvisoria, in quanto il prezzo della compravendita non era ancora stato versato dal compratore, che continuava ad essere il titolare del diritto di proprietà) usata per trasportare e nascondere “distilled spirits” per i quali non era stata pagata la tassa federale in violazione del Quinto Emendamento della Costituzione, in forza del quale “nessuno può essere privato della vita, della libertà o della proprietà “without due process of law”. Infatti la Corte in Goldsmith-Grant Co. v. United States evita di imbarcarsi in una lunga discussione per cercare di conciliare la legge sub iudice con la realtà della condotta umana, osservando che se la questione da affrontare fosse la prima di questo tipo proposta alla sua attenzione, il caso stesso e i suoi “apparenti paradossi” l’avrebbero costretta ad una lunga discussione per armonizzare la sect. 3450 con l’analisi generalmente accettata del comportamento umano. Le parole della norma, prese alla lettera, prevedono la confisca del99 Nello stesso senso: The Vrouw Judith, 1 C.Rob. 150; United States v. The Distillery at Spring Valley, 11 Blatchf. 255; Same v. The Reindeer, 2 Cliff. 57; Mitchell v. Torup, Parker 227. 100 Goldsmith Grant Co. v. U.S., cit. 101 In forza della legge in questione, un Act emanato il 13 luglio 1866 (trasfuso in seguito nel § 3450 dei Revised Statutes), che statuisce che ogni “carriage” utilizzato per trasportare, depositare e nascondere dei beni allo scopo di frodare gli Stati Uniti di qualsiasi tassa sarà confiscato, ed ogni automobile, usata a tale scopo da una persona che la detiene a credito da chi ne ha il titolo di proprietà, sarà assoggettata a confisca, anche se il proprietario non fosse stato a conoscenza dell’uso vietato del veicolo. Anche in questo contesto, osserva la Corte, “la legge tratta la cosa come fosse l’imputato (the offender)”.

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la proprietà usata illecitamente sebbene il suo proprietario non abbia partecipato o non sia stato a conoscenza di tale uso illecito. C’è un punto di forza, quindi, nella contestazione avanzata dalla difesa: se quello proposto da quest’ultima fosse il significato inevitabile della section, sembrerebbe violare quel modello di giustizia posto a fondamento del principio del due process of law previsto dalla Costituzione. Ma, secondo la Corte, nei casi di illeciti fiscali, alcune forme di proprietà costituiscono strumenti per delinquere e per questo si può affermare che il legislatore utilizzi la responsabilità dei loro proprietari per rafforzare i divieti normativi e le relative sanzioni, attribuendo alla proprietà una certa personalità, suscettibile di dar luogo a complicità e colpa nell’illecito commesso. È allora plausibile che l’interpretazione suggerita dal ricorrente non avrebbe potuto essere quella del Congresso ma che quest’ultimo, nell’approvare la legge, necessariamente avesse in mente “the facts and practices” del mondo reale, ove, nell’interesse del business (sic) e della vita sociale, spesso – ed a volte necessariamente – la proprietà è posta nel possesso di un soggetto diverso dal proprietario. Da quanto detto discende, secondo la difesa del ricorrente, che se il Congresso avesse inteso sanzionare unicamente l’interesse del possessore/affittuario della proprietà avrebbe potuto punirlo per la sua colpa e non procedere alla confisca del titolo di proprietà del proprietario, che non aveva alcuna colpa. La Corte osserva che, considerato nella sua astrattezza, l’argomento proposto dal ricorrente è “formidabile”, ma ci sono anche altre valutazioni da tener presenti che militano contro di esso: il Congresso, trovandosi ad affrontare l’ineludibile urgenza di emanare una normativa efficace per contrastare le evasioni fiscali colpendo, se non rendendo inoperanti, le modalità e i meccanismi normalmente utilizzati per attuare tali illeciti, deve necessariamente aver tenuto conto delle cogenti necessità della pubblica amministrazione, delle sue tasse e delle sue politiche fiscali, da cui dipende direttamente la sopravvivenza economica dell’apparato pubblico nel suo complesso. Nelle violazioni delle norme tributarie, alcune forme di proprietà consentono, per la loro stessa natura, di svolgere una funzione “agevolatrice”: quindi, si può affermare che il Congresso abbia attribuito un particolare valore all’attenzione e alla responsabilità con cui i loro proprietari sono tenuti a gestirle (proprio in quanto suscettibili di trasformarsi in forme di “aiuto” o “appoggio” alle violazioni della legge e alle sue disposizioni punitive), attribuendo alla proprietà “a certain personality”, “a power of complicity and guilt in the wrong”. In tal caso, c’è qualche analogia con la legge del deodand, per la quale, come si detto, una cosa che costituiva la causa immediata della morte di un essere umano (“a reasonable creature” 102) veniva confiscata. 102

Cfr. Goldsmith Grant Co. v. U.S., cit., fn. 2.

99

In ogni caso, a prescindere dal fatto che la ratio della norma “incriminata”, la sect. 3450 dei Revised Statutes del 1873 (varata, in realtà sei anni prima del suo inserimento negli Statutes stessi), sia “artificiale” o reale, secondo la Corte essa è ormai così saldamente radicata nella teoria punitiva e “remedial” del diritto nazionale da non poterne essere estirpata 103, come, per esempio, abbiamo visto nel caso Dobbins Distillery v. United States 104 del 1877, ove si citano e rivisitano i precedenti, applicando le teorie da questi propugnate, riaffermando la costituzionalità delle leggi di volta in volta esaminate. Tutto ciò milita, quindi, contro la tesi secondo cui la sect. 3450 non sia applicabile ad una proprietà al cui titolare non è addebitabile alcuna colpa. In altre parole, la decisione di Dobbins, basata sui casi che l’hanno preceduta, consiste nell’affermare che è “la cosa” a dover essere in primo luogo considerata come “the offender”. Neppure mancano in proposito altri esempi e precedenti nel campo del diritto marittimo, in primis il caso The Palmyra, di cui ci siamo già occupati 105. La difesa si oppone al ragionamento svolto dalla Corte ed ai precedenti citati, basandosi sulla tesi dell’ingiustizia che deriva dal far sopportare ad una persona innocente le conseguenze negative delle azioni di un terzo colpevole e dell’“ansiosa sollecitudine” che i giudici devono avvertire ed esercitare (come spesso si dice facciano, afferma la difesa in una sorta di inascoltata captatio benevolentiae) ed in base alla quale devono sentirsi in dovere di dichiarare incostituzionali leggi che offendono la ragione e la giustizia 106. Tuttavia la Corte ribatte che i cambiamenti sono messi in moto dal clangore e dal tenore della controversia specifica cui si riferiscono i relativi fatti e, puntualmente, la difesa non manca di fornire esempi di ciò che potrebbe succedere se il suo ricorso venisse respinto: la carrozza di un treno potrebbe essere confiscata se un passeggero vi portasse una bottiglia di liquore o un transatlantico (“an ocean steamer”) potrebbe essere “condemned to confiscation” se una simile confezione di liquore vi venisse caricata e trasportata “innocentemente”. “Nel caso presente però” – precisa la Corte – “non siamo chiamati a decidere se le ipotesi illustrate negli esempi forniti dalla difesa circa i poteri di confisca consentiti dalla legge siano giustificati: come nel caso Dobbins (ma era un caso del 1877, mentre Goldsmith è del 1921!) ci siamo occupati di 103

Goldsmith-Grant Co., cit., pp. 589-590.

104

Dobbins Distillery v. United States, 96 U.S. 395 (1877).

105

The Palmyra, cit. Lo stesso principio è stato affermato in U.S. v. Stowell, 133 U.S. 1 (1890) e da numerose decisioni di Corti d’appello federali: United States v. Mincey, 254 Fed. 287 (1918); Logan v. U.S., 260 Fed. 746, (1919); U.S. v. One Saxon Automobile, 257 Fed. 251; U.S. v. 246 1/2 Pounds of Tobacco (D.C.), 103 Fed. 791; U.S. v. 220 Patented Machines (D.C.), 99 Fed. 559. 106

100

Goldsmith-Grant Co., cit., p. 512.

una legge del 1866 107 che allora non aveva ancora avuto un’applicazione abbastanza estesa, ma lo stesso pare si possa dire anche quasi mezzo secolo più tardi – o comunque così si dice in Goldsmith: “It [il § 3450] has been in existence since 1866, and has not yet received such amplitude of application”. “Quando ciò si verificherà anche per la questione di cui ora – siamo nel 1921 – ci occupiamo, sarà il momento giusto per pronunciarsi in proposito.” […] “E noi” – conclude la Corte – “ci riserviamo anche di esprimerci sulla questione relativa all’applicabilità della norma contenuta nella sect. 3450 alla proprietà rubata al proprietario o altrimenti sottrattagli senza la sua conoscenza o il suo consenso”. La difesa, di fronte al ragionamento della Corte, vorrebbe che la sect. 3450 venisse interpretata nel contesto di altre norme, in particolare le sectt. 3460 e 3461 dei Revised Statutes, per escludere la forfeiture in relazione a tutti gli interessi cui le norme in questione offrono protezione: la Corte ribatte di essere unable, non “pronta” a trovarsi d’accordo con la difesa sul fatto che le norme sopra richiamate tolgano effetto alla section 3450, dal momento che le sections sopra citate non hanno alcun rapporto con la seconda e neppure con il remedy applicabile ai casi rientranti sotto la section in questione. In realtà risulta che non manchino suggerimenti desumibili da casi precedenti dove esisteva qualcosa, nella relazione delle parti con la proprietà o la sua utilizzazione, da cui era possibile inferire la destinazione di quest’ultima ad uno scopo illegale: a qualsiasi livello il rischio di tale scopo e di tale relazione aveva influenzato la decisione dei casi stessi. Tuttavia, nel caso in questione, la majority opinion dichiara non poter accettare tale suggerimento: può esistere, infatti, un rischio maggiore per il titolare di una proprietà derivante da una specifica forma o scopo della sua consegna di merci da custodire piuttosto che in un’altra, ma lo sbaglio non può essergli imputato a causa delle potenzialità astratte collegate alla forma o dello scopo di queste. È l’uso illegale che costituisce la causa sostanziale (material consideration 108), è questo che fa scattare la confisca, mentre la colpa o l’innocenza del suo proprietario è accidentale. La Corte continua a rimarcare come, se si dovesse considerare semplicemente l’adattabilità e l’adeguatezza virtuale di una particolare forma di proprietà ad essere adibita ad uno scopo illegale, si sarebbe costretti a valutare la “facilità” di un’automobile a prestarsi come strumento di aiuto o agevolazione alla violazione della legge. Si tratta di 107 Come abbiamo osservato, inserita nei Revised Statutes (comprensivi di tutte le leggi in vigore nell’ordinamento degli Stati Uniti) all’atto della loro pubblicazione nel 1873. 108 Riportiamo il termine, usato in quest’occasione dalla Corte, “consideration”, dato il suo significato tecnico di “causa” nel law of contracts del diritto angloamericano, per rimarcarne la natura di sintomo della natura ibrida della forfeiture. Va però osservato come questa sia l’unica volta che il termine compare nella giurisprudenza della U.S. Supreme Court in tema di forfeiture.

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una “cosa” 109 e la “condanna” esplicita della legge dipende dal fatto che la “cosa” che è stata concretamente utilizzata nell’ablazione di “beni e merci” e dalla presunta natura “criminogena” della stessa astrattamente considerata. In altre parole è la funzione svolta dalla “cosa” a determinarne la “condanna” alla confisca e non le sue caratteristiche materiali. Per queste ragioni la Corte conferma la sentenza della Corte d’appello, che già si era espressa a favore della legittimità della confisca, decidendo altresì che, nella interpretazione accolta, la legge non priva il proprietario della sua proprietà in violazione del V Emendamento, cioè senza rispettare il due process of law. Dopo un intervallo relativamente lungo, la Corte suprema nel 1974 torna ad occuparsi di confisca nel caso Calero-Toledo v. Pearsons Yacht Leasing Co. 110, relativo alla confisca avvenuta a Puerto Rico di uno yacht adibito dal suo affittuario (lessee) al trasporto di sostanze stupefacenti, di cui si era occupata in prima battuta la locale District Court 111, decidendo per l’illegittimità della confisca. L’appellante, che rappresenta gli uffici della pubblica accusa, eccepisce che la District Court ha errato nel sostenere che i forfeiture statutes autorizzano illegittimamente l’espropriazione “for government use” di proprietà appartenenti a soggetti innocenti senza fornire loro un giusto indennizzo, violando così la clausola finale del V Emendamento della Costituzione federale che vieta che “shall private proprierty be taken for public use, without just compensation”. L’appellante insiste sul fatto che una lunga teoria di precedenti della stessa Corte suprema stabilisce il principio secondo cui i meccanismi legislativi relativi alla forfeiture non sono resi incostituzionali dalla loro applicabilità agli interessi proprietari di soggetti innocenti e inoltre ricorda che il caso U.S. v. United States Coin & Currency 112 del 1971 non ha affatto annullato − contrariamente a quanto sostenuto dalla District Court − quei precedenti sub silentio, cioè semplicemente omettendone la citazione. Secondo la majority opinion della Corte la posizione dell’appellante è da condividere, poiché “the historical background of forfeiture statutes in this country and this Court’s prior decisions sustaining their constitutionality lead to that conclusion”. 109

Goldsmith Grant Co., cit., p. 513. Letteralmente: “It is a ‘thing’ that can be used in the removal of ‘goods and commodities’and the law is explicit in its condemnation of such things”. Per questi motivi il “Judgment [is] affirmed”. 110 Calero-Toledo v. Pearsons Yact Leasing Co., 416 U.S. 663 (1974). 111 Puerto Rico, pur non essendo (ancora) un vero e proprio Stato dell’Unione, è sottoposto ad una forma istituzionale ibrida, per molti versi, soprattutto in materia di diritto penale sostanziale e processuale, equivalente grosso modo a quella dei “normali” Stati membri degli Stati Uniti. Nel caso in esame la majority opinion, seguita sul punto anche dal dissenting Justice Douglas, dichiara: “The statutes of Puerto Rico are “State statute[s]” for purposes of the Three-Judge Court Act, and hence a three-judge court was properly convened under that Act and direct appeal to this Court was proper under 28 U.S.C. 1253”. Calero-Toledo, cit., pp. 669-676. 112 U.S. v. United States Coin & Currency, 401 U.S. 715 (1971).

102

In particolare, il rappresentante dell’accusa, ricollegandosi al caso United States Coin & Currency del 1971, aveva sostenuto che il privilege against selfincrimination, cioè il diritto a non autoincriminarsi, anch’esso previsto dal V Emendamento della Costituzione federale, non poteva venire invocato in un “forfeiture proceeding” – regolato dal title 26 U.S.C. § 7302 113 – da parte di un soggetto arrestato in possesso del denaro che gli era stato sequestrato perché utilizzato per gestire un’attività di scommesse nell’ambito delle quali egli aveva omesso di registrarsi come “gambler” e di pagare la relativa tassa sulle scommesse, come previsto dalla normativa tributaria 114. Secondo l’accusa tale procedimento non era “penale” perché la confisca del denaro era stata autorizzata senza tener conto della colpevolezza o dell’innocenza del proprietario del denaro stesso. Così, United States Coin & Currency non avrebbe inteso annullare i precedenti in materia che legittimavano l’applicazione a soggetti innocenti delle leggi che prevedevano la confisca (come quelle di Puerto Rico, cui si riferisce il caso specifico, Calero-Toledo v. Pearsons Yacht Leasing Co.), non limitandone l’applicazione a persone “significantly involved in a criminal enterprise”. Ciò però non significa, comunque, che la “sterminata estensione” delle leggi implicanti la forfeiture richiamate nel caso United States Coin & Currency non potrebbero, in altre circostanze, fare sorgere “serious constitutional questions”.

7. Un tuffo all’indietro per ripescare Peisch. Del resto, più di centocinquant’anni prima, decidendo il caso Peisch v. Ware, il Chief Justice Marshall fece intendere l’esistenza del problema, nell’osservare che “la confisca può solo essere applicata a quei casi nei quali i mezzi che sono prescritti per la prevenzione del ricorso all’uso della confisca stessa possono essere adoperati” 115. Si trattava di un caso di un naufragio, nel quale il carico di vino e di alcoolici “salvati” e trasportati sulla terraferma non venne considerato suscettibile di confisca quantunque le bottiglie fossero prive delle etichette e dei certificati richiesti dalla legge, ma non perché questi ultimi fossero stati rimossi senza il consenso di chi li aveva raccolti prima che la quantità e la qualità del carico fossero stati verificati e le relative imposte pagate. Al proprietario tali beni non potevano venir sequestrati senza il suo consenso o la connivenza sua o di un suo dipendente o incarica113 “It shall be unlawful to have or possess any property intended for use in violating the provisions of the internal revenue laws […] and no property rights shall exist in any such property ...”. 114 26 U.S.C. §§ 4411, 4412, 4901. 115 Peisch v. Ware, 4 Cranch 347, 363 (1808).

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to. Peisch ed altri proprietari della nave Favourite e di parte del suo carico fecero causa ad un certo Ware che, dopo il naufragio, aveva salvato il carico, consistente in vino, brandy, cordiale, olio d’oliva e seta. Il naufragio avvenne il 26 ottobre 1804 nella Delaware Bay, non a causa di una tempesta, ma dell’incagliamento in una secca, seguita da problemi tecnici alle pompe della nave, che determinarono la rottura dello scafo. L’incidente fu notato da terra da un ispettore del fisco, un certo Rodney, residente nei pressi del luogo del naufragio, che fece rimorchiare il relitto vicino alla costa, riunì un gruppo di persone e di barche, fece loro recuperare il carico, trasferirlo sulle barche e portarlo a terra. Rodney, ritenendosi autorizzato dalla c.d. wreck law dello Stato del Delaware, di dirigere il “business” del salvataggio, incaricò un certo Ware di sovraintendere il trasporto del carico a terra, e si recò sulla spiaggia per occuparsi dello sbarco e dell’immagazzinamento dei beni salvati. Alcuni giorni dopo, il 29 ottobre, il secondo ufficiale della nave con alcuni membri dell’equipaggio, intenzionato, come disse, a salvare quanto possibile del carico, tornò con una scialuppa sulla nave, di cui però nel frattempo si erano impossessati Ware ed altre persone, che non permisero all’ufficiale di asportare alcunché dal relitto, eccetto i suoi effetti personali e quelli dei marinai, cosa che fecero, prima di lasciare la nave. Per svuotare Favourite del suo carico fu necessario l’intervento di quarantotto persone e di sei barche, che lavorarono circa una dozzina di giorni e di notti per portare in salvo il carico, oltre a quattro pianali e tre o quattro altre persone ingaggiate saltuariamente per lavorarci. Il 7 novembre arrivò Peisch e due giorni dopo offrì 4.000 dollari per il recupero delle merci, rifiutato da Ware che, valutando il valore delle merci in circa 14.000 dollari, ne chiese la metà come ricompensa per aver portato in salvo il carico: non arrivando ad un accordo, entrambe le parti, pensando di essere vincolate dalla legislazione del Delaware, che richiede in tali casi un arbitrato, si rivolsero ad un collegio di tre persone, che decisero di concedere metà del valore del carico a Ware, cioè alla parte che l’aveva recuperato. Alcuni giorni dopo arrivò il titolare dell’ufficio delle imposte del Delaware e sùbito dopo Ware si dichiarò disponibile a pagare le imposte statali sulla metà dei beni recuperati. Dopo alcune scaramucce legali circa l’individuazione dell’ufficio competente per la riscossione delle imposte, Ware entrò nel possesso dei beni, che però vennero immediatamente sottoposti a sequestro e confiscati dalle autorità federali per violazione delle leggi fiscali degli Stati Uniti. Si aprì una causa davanti ai giudici federali, nella quale il primo addebito mosso dall’autorità federale riguardava il fatto che non era stato pagato il dazio per l’importazione del vino, dei liquori, del brandy e dei cordiali, essendo stati confiscati perché privi delle etichette e dei certificati richiesti dalla legge per il loro trasporto marittimo e per l’importazione negli Stati Uniti. Il secondo riguardava il fatto che, pur essendo beni confiscati perché rimossi 104

senza il consenso dell’ufficio competente prima dell’accertamento della quantità e qualità dei vini e dei liquori e delle imposte dovute per legge, le imposte in questione non erano state pagate. Il terzo addebito si riferiva alla circostanza che, per non pagare le imposte dovute, tutti i beni recuperati sulla nave erano stati nascosti. In base a tali addebiti del rappresentante degli Stati Uniti, la U.S. District Court stabilì che i beni non potevano essere sottoposti a confisca, ma erano assoggettati ai termini previsti dalla decisione della District Court nella causa relativa al salvataggio del carico: la decisione fu confermata in appello e il rappresentante degli Stati Uniti interpellò in proposito la Corte suprema, che accettò di esaminare il caso. La Corte decise che la “penalty” della confisca non poteva essere applicata nel caso in questione. Innanzitutto dall’intero tenore della legge tributaria da applicare al caso concreto, si evince che le sue previsioni non si adattano al caso di beni recuperati da una nave in caso di naufragio. In secondo luogo la legge non intende confiscare i beni al loro proprietario, consegnatario o vettore a causa del comportamento illecito posto in essere da meri estranei, terzi sul cui comportamento detti proprietari, consegnatari o vettori non possono esercitare alcun controllo. Per questo è sottinteso che sarebbe stato difficile respingere l’eccezione di illegittimità costituzionale proveniente da un proprietario i cui beni, assoggettati a confisca, gli fossero stati sottratti senza il suo permesso o il suo consenso 116. La stessa cosa si potrebbe affermare a proposito di un proprietario che abbia provato non solo di non essere stato coinvolto e di non essere consapevole dell’attività illecita, ma anche di aver fatto tutto quello che ragionevolmente ci si sarebbe potuto aspettare da lui per prevenire l’uso vietato della sua proprietà, dal momento che in quella circostanza sarebbe stato difficile concludere che la confisca era finalizzata a scopi legittimi e che non era “unduly oppressive” 117. Ma nel caso in esame, Caledo-Toledo, l’appellante di sua volontà cedette il possesso dello yacht (sul quale venne rinvenuta sostanza stupefacente che diede luogo alla confisca di quest’ultima e del primo) all’affittuario e non fu presentata nessuna memoria né alcuna prova che la compagnia proprietaria dello yacht aveva fatto tutto ciò che sarebbe stato ragionevole per evitare che la sua proprietà fosse adibita ad un uso illecito 118. La Corte rispose che la norma processuale in questione (il § 7302), letta in combinato disposto con 19 U.S.C. § 1618, che prevedeva la figura di reato contestato, manifestava una chiara intenzione “to impose a penalty only upon those who [were] significantly invol116

Peisch v. Ware, cit., p. 364; Goldsmith-Grant Co. v. U.S., 254 U.S. 512; U.S. v. One Ford Coupe Automobile, 272 U.S. 333; Van Oster v. Kansas, 272 U.S. 467. 117 Armstrong v. U.S., 364 U.S. 49 (1960), cit. da Caledo-Toledo, cit., p. 690. 118 In questo senso, v. anche Goldblatt v. Town of Hempstead, 369 U.S. 596 (1962).

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ved in a criminal enterprise” 119 e che, nella circostanza specifica, il privilege era espressione di quella chiara volontà del legislatore e, quindi, il privilege stesso ben poteva essere invocato nel forfeiture proceeding dalla persona cui il denaro era stato sequestrato. Se ne deve dedurre, secondo la Corte, che il caso United States Coin & Currency non aveva inteso rinnegare le proprie precedenti decisioni che consentivano l’applicabilità della legislazione in materia di confisca a persone “innocenti”, come la legislazione di Puerto Rico in tema di stupefacenti, non limitata nella sua applicazione alle sole persone “significantly involved in a criminal enterprise”. È “sottinteso” – prosegue la majority opinion – che sarebbe difficile respingere un’eccezione di legittimità costituzionale di un proprietario la cui proprietà sottoposta a confisca gli sia stata sequestrata senza che egli ne fosse stato a conoscenza o vi abbia acconsentito 120. La stessa cosa potrebbe dirsi di un proprietario che provi non solo di non essere stato coinvolto e di essere inconsapevole dell’attività illecita, ma che abbia anche fatto tutto ciò che ragionevolmente ci si poteva aspettare da lui per prevenire che la sua proprietà fosse usata illecitamente da terzi perché, in quella circostanza, sarebbe difficile concludere che la confisca abbia raggiunto il suo scopo legittimo e non sia stata indebitamente oppressiva. Ma nel caso in esame il proprietario ha volontariamente consegnato agli affittuari il possesso dello yacht, senza presentare alcuna memoria difensiva né offrire alcuna prova che la sua compagnia avesse fatto tutto ciò che ragionevolmente avrebbe potuto fare per evitare di lasciare la sua proprietà alla mercé di un’utilizzazione illegale 121. Per questi motivi, conclude la majority opinion della Corte suprema federale, la decisione della District Court è annullata. A differenza di quanto avvenuto in pressoché tutti i precedenti succedutisi dall’inizio del diciannovesimo secolo, la sentenza sul caso Calero-Toledo registra una dissenting opinion, redatta dal Justice Douglas, sia pur parziale sotto alcuni profili procedurali. Infatti il Justice, è d’accordo con la majority sul fatto che “Puerto Rico is a State for purposes of the three-judge court jurisdiction”, ma dissente sul merito della decisione sotto alcuni ulteriori profili tra loro interconnessi, che più sopra non abbiamo preso in considerazione, avendo trattato solo quelli “sostanziali” del caso. Innanzitutto il dissenter si riferisce al fatto che la scoperta della marijuana sullo yacht avvenne il 6 maggio 1972, mentre al sequestro dello yacht si procedette l’11 luglio dello stesso anno, cioè più di due mesi dopo. Tenuto conto del lungo intervallo di tempo trascorso nell’operare il sequestro, dov’è − si chiede Douglas − quella “speciale necessità” di 119

Caledo-Toledo, cit., pp. 721-722. Goldsmith-Grant Co. v. United States, 254 U.S. 512 (1921); United States v. One Ford Coupe Automobile, 272 U.S. 321; Van oster v. Kansas, 272 U.S. 465 (1926). 121 Cfr., nello stesso senso: Goldblatt v. Town of Hempstead, 369 U.S. 596 (1962). 120

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una “very prompt action” che noi stessi abbiamo enfatizzato in un caso, Fuentes v. Shevin, deciso solo due anni fa 122? È vero – prosegue Douglas – che la Corte cita una serie di esempi relativi ad “exigent circumstances”, cioè a situazioni urgenti che impongono di effettuare sequestri “straordinari”, come in casi relativi a cibi avvelenati, droghe pericolose, fallimenti di banche, ma sono tutti inconferenti rispetto al caso in esame. In realtà però anche Fuentes v. Shevin 123 riguardava una controversia tra compratori e venditori di oggetti casalinghi, che non coinvolgeva certo alcuna finalità pubblica di una benché minima importanza. Si trattava di applicare una norma della Florida 124 che consentiva al venditore, prima di dare avviso (“notice”) alla controparte o di effettuare un’hearing (udienza) in contraddittorio con quest’ultima, di chiedere pregiudizialmente un c.d. writ of replevin – una procedura sommaria instaurata davanti al “cancelliere” del tribunale – versando provvisoriamente una garanzia pecuniaria equivalente al doppio del valore della somma oggetto della sua pretesa: in seguito a ciò lo sceriffo sottoponeva a sequestro la proprietà contesa per tre giorni, durante i quali il convenuto poteva reclamare il possesso della proprietà, versando anch’egli una cauzione pari al doppio del valore della proprietà, rientrandone così nel possesso, in attesa della decisione definitiva sulla causa relativa all’azione di reimpossessamento. In Pennsylvania 125, l’attore non doveva neppure iniziare un’azione né dimostrare un valido titolo di proprietà, ma semplicemente produrre un affidavit (cioè una dichiarazione giurata) sul valore della proprietà per ottenerne il sequestro provvisorio, mentre spettava alla controparte prestare una garanzia patrimoniale pari al doppio del valore della proprietà per ritornarne in possesso. Secondo i tribunali statali le procedure descritte non avrebbero violato alcuna norma costituzionale, mentre secondo la Corte suprema integrano gli estremi di un esproprio della proprietà privata attuato senza il rispetto del principio del due process of law, dal momento che negano il diritto del possessore ad adire un giudice prima di venire espropriato dei propri beni. La Corte però tende a restringere l’ambito della sua decisione, chiarendo che non intende negare il potere di un singolo Stato di sequestrare dei beni prima di una sentenza definitiva per tutelare gli interessi dei creditori, se questi ultimi hanno provato la fondatezza delle loro pretese nei confronti di tali beni attraverso una previa udienza, che sia stata “fair”, pur nelle sue molteplici variazioni possibili, la cui configurazione è compito dei singoli legisla122 Fuentes v. Shevin, 407 U.S. 67 (1972), decisa il 12 giugno 1972, per una curiosa coincidenza proprio nell’intervallo di tempo tra la scoperta dello stupefacente ed il sequestro, avvenuti, come si è detto, nel maggio e nel luglio di quell’anno. 123

Fuentes v. Shevin, cit.

124

Florida Law No. 70-5039.

125

Pennsylvania Law No. 70-5138.

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tori statali. Ciò che conta, dal momento che la ragione sostanziale dell’esigenza di effettuare un’udienza prima del sequestro o della confisca è prevenire privazioni di proprietà ingiuste o errate: “it is axiomatic that the hearing must provide a real test”. La majority opinion si chiude, annullando le decisioni delle due U.S. District Courts (“con rinvio” alle stesse perché si adeguino alla sua statuizione), con una icastica citazione tratta da alcuni suoi recenti interventi; il due process è garantito solo nei casi di “avviso” e “udienza” volti a stabilire la validità, o almeno la probabile validità, del merito dell’oggetto della causa contro l’asserito debitore prima di privarlo della sua proprietà” 126. “Proprio riguardo a ipotesi come quella relativa al caso in esame, CaleroToledo, in Fuentes 127 abbiamo affermato”, scrive Douglas che “innanzitutto in ciascun caso il sequestro era necessario per soddisfare immediatamente un interesse importante della pubblica amministrazione o del pubblico nel suo complesso. In secondo luogo c’era stata una necessità speciale per intervenire con un’azione rapida. In terzo luogo lo Stato ha esercitato uno stretto controllo sul suo monopolio della forza legittima: infatti, la persona che ha iniziato il sequestro era un funzionario pubblico incaricato di determinare, all’interno degli standard previsti da una legge rigorosa, che il sequestro stesso nel caso specifico fosse necessario e giustificato. Per questo la Corte suprema ha approvato il sequestro sommario della proprietà per riscuotere le tasse nazionali degli Stati Uniti, allo scopo di venire incontro alle necessità dello sforzo bellico nazionale [leggi: il conflitto in Vietnam], di proteggere le banche contro il disastro economico del fallimento di una di esse e per proteggere il pubblico da farmaci con i marchi contraffatti e da cibi contaminati” 128. Il rinvio dell’avviso della sua esecuzione e della relativa “udienza di convalida” a quando il sequestro era già avvenuto apparentemente non era necessario nel caso in esame, conformemente a quanto la District Court (poi smentita, come ha deciso la majority della Corte suprema) ha stabilito. Tuttavia, dopo un ritardo di due mesi, è stata ordinata la forfeiture dell’imbarcazione senza previo avviso al proprietario cui non è neppure stata data una “just compensation” per l’ablazione. “Se ci si basa su queste premesse” – insiste Douglas – “questo è il classico caso di mancata applicazione del principio del procedural due process”. Il proprietario, nel caso in questione, era del tutto innocente e inconsapevole del fatto che l’affittuario stava usando illegalmente l’imbarcazione. Assi126

“[D]ue process is afforded only by the kinds of ‘notice’ and ‘hearing’ that are aimed at establishing the validity, or at least the probable validity, of the underlying claim against the alleged debtor before he can be deprived of his property” che riprende quanto statuito in Sniadach v. Family Finance Corp., 395 U.S 343 (1969) (Harlan, J., concurring); Bell v. Burson, 402 U.S. 540 (971); Goldberg v. Kelly, 397 U.S. 267 (1970). 127 Fuentes v. Shevin, cit., p. 91. 128 Fuentes v. Shevin, cit., pp. 91-92.

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milare questo caso con i vecchi casi di confisca della proprietà dei condannati per felony è particolarmente inappropriato, dal momento che questo non è neppure un caso in cui proprietario e affittuario sono in combutta in una “smuggling venture”, cioè in un business nel campo del contrabbando. È vero che la legge prevede confische di proprietà nei confronti anche di persone innocenti, ma il Chief Justice Marshall, nel già citato caso Peisch v. Ware del 1808 129, aveva affermato che la legge “is not understood to forfeit the property of owners or consignees, on account of the misconduct of mere strangers, over whom such owners or consignees could have no control”. Ovviamente l’affittuario dell’imbarcazione non era sconosciuto al proprietario, ma nel nostro caso, a differenza di quanto deciso nel caso United States v. One Ford Coach 130, niente suggerisce che l’affittuario fosse un mero prestanome per dei trafficanti di droga. Anche qualora queste circostanze ambigue fossero state presenti, la Corte si sarebbe comunque rifiutata di imporre la confisca di un’auto che trasportava whiskey illegale ma apparteneva a coloro che agivano “in good faith and without negligence” 131. “Il caso presente” − prosegue Douglas – “è di un’estrema difficoltà”. La District Court ha accertato che il proprietario “non sapeva che la sua proprietà era usata per uno scopo illegale ed era del tutto innocente rispetto all’attività criminale dell’affittuario. Dell’avvenuto sequestro, durante l’arco di tempo previsto dalla legge per opporvisi, il Superintendent della polizia aveva notificato il relativo avviso all’affittuario, ma non al proprietario e, poiché il primo non aveva prestato la dovuta cauzione, lo yacht era stato confiscato dal Commonwealth of Puerto Rico. Solamente quando il proprietario tentò di rientrare nel possesso dello yacht dopo che l’affittuario non ne aveva più pagato l’affitto venne a sapere della confisca. Inoltre il proprietario aveva inserito nel contratto d’affitto una clausola che vietava l’utilizzo dello yacht per un “unlawful project”. Se lo yacht fosse stato notoriamente adibito al traffico di droghe, coloro che avevano proceduto con la confisca avrebbero potuto avere almeno l’“equity” dalla loro parte, ma nessuna prova venne data in questa direzione e, per quanto risulta finora, solo una sigaretta di marijuana è stata trovata sullo yacht. In questo caso ci si trova ad avere a che fare con un “trivia”, un episodio di poco conto dove la severità della judge-made law potrebbe essere stemperata con la “justice”. “Mi rendo conto” − prosegue Douglas – “che il diritto antico si fonda sulla fictio che un oggetto inanimato può essere di per sé colpevole di un illecito, ma la teoria tradizionale della confisca può a volte − e questo è uno dei casi in questione − non essere più in sintonia con i principi del Quinto 129

Peisch v. Ware, cit., p. 365. U.S. v. One Ford Coach, 307 U.S. 209 (1939) (Douglas, J., diss.). 131 U.S. v. One Ford Coach, cit., p. 236. 130

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Emendamento”. Alcune leggi impongono la forfeiture come obbligatoria, facendone il titolo di cui lo Stato è investito quando l’attuazione della confisca ha luogo, come illustrato nel caso U.S. v. Stowell 132. Altre ne fanno un provvedimento condizionato, da attuarsi solo se e quando lo Stato segue delle procedure prefissate, come risulta nel caso One 1958 Plymouth Sedan v. Pennsylvania 133, altre ancora escludono dalla loro applicazione la proprietà utilizzata per violare la legge nell’ipotesi in cui il proprietario non è “a consenting party or privy” 134. Altre leggi consentono un rimedio discrezionale, amministrativo o giudiziario relativamente alla confisca per controllare se quest’ultima è stata disposta senza negligenza volontaria o senza alcuna intenzione da parte del proprietario di violare la legge 135, oppure se il proprietario non abbia mai avuto conoscenza o ragione di credere che la sua proprietà veniva usata per violare specifiche leggi 136, come la Corte suprema ha evidenziato in U.S. v. One Ford Coach 137. Puerto Rico, comunque, non ha norme che prevedano mitigazioni al regime della confisca nel caso in cui il proprietario dei beni sequestratagli sia completamente innocente rispetto a qualsiasi illecito e, come ha ricordato la majority opinion stessa, queste procedure obbligatorie e vincolanti, sono state ritenute corrette perlomeno da molti obiter dicta nella giurisprudenza sopra riportata. “A mio modo di vedere però” − prosegue Douglas – “la possibilità di appropriarsi della proprietà privata “for public use” prevista dal Quinto Emendamento, applicabile negli ordinamenti statali attraverso il Quattordicesimo 138, prevede che debba essere pagato un compenso al proprietario innocente.” […] “Tutte le volte in cui il proprietario non è coinvolto in alcuna maniera nel progetto illegale io non vedo” − conclude la sua dissenting opinion il Justice Douglas – “nessuna ragione per evitare di pagargli una “just compensation” per la proprietà espropriatagli: per questo rinvierei il caso alla District Court perché effettui i dovuti accertamenti sull’innocenza del locatore 139 dello 132

U.S. v. Stowell, cit., p. 19. One 1958 Plymouth Sedan v. Pennsylvania, 380 U.S. 693, 699. 134 Così: 19 U.S.C. § 1594. 135 19 U.S.C. § 1618. 136 18 U.S.C. § 3617 (b). 137 U.S. v. One Ford Coach, cit. 138 Il XIV Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti estende nel 1868 agli Stati l’applicazione del due process of law. In proposito: V. FANCHIOTTI, Lineamenti, cit., p. 6 ss. 139 Per la prima volta nella giurisprudenza della Corte suprema un giudice usa il termine tecnico “lessor” (locatore) anziché proprietario (owner), mentre “lessee”, usato sia come locatario sia come affittuario, nel senso “italiano” dei termini ricorre già nella giurisprudenza settecentesca. Entrambe le espressioni lessor e lessee, come l’“attuale” leasing, derivano dal verbo to lease. 133

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yacht al fine di verificare se l’uso illegale è stato di una tale “magnitude or notoriety” che il proprietario non avrebbe potuto senza colpa non esserne consapevole”. Ed ecco l’affondo finale, in cui riemerge, levigato e reso permeabile dal corso dei secoli, il deodand: “la legge dei deodands una volta era severa come la regola che oggi la maggioranza della Corte ha deciso di applicare, ma successivamente la sua severità fu mitigata dalle giurie sostenute dalla magistratura ‘professionale’, in particolare dal King’s Bench” 140. La “grande moderazione” dei giurati di fronte alla “innocenza morale della parte che incorreva nella sanzione” in questione dovrebbe rappresentare un esempio che noi dovremmo seguire in questo caso. E ancora: “anche se qui non può venire in considerazione il diritto del deodand, la qualità del perdono (mercy), la quale non era estranea alle giurie poste di fronte all’“innocenza morale” del soggetto sottoposto a confisca non è estranea alla nostra giurisdizione di equità” 141. La presa di posizione del Justice Douglas indubbiamente rievoca il fantasma del deodand a scopo retorico-polemico, tra l’altro bollandolo come “pratica superstiziosa”, sulla scia dell’affermazione di un suo collega, il quale però in realtà riteneva non valesse la pena di allontanarsi dalla natura di actio in rem, con cui l’istituto aveva “contagiato” la disciplina della forfeiture, ma suggeriva di farlo unicamente quando questa fosse prevista da una norma ad hoc 142. Ciò però avviene solo in parte, in quanto Douglas, se non può “salvare” le origini del deodand, sembra più indulgente nel valutarne la fase di “estinzione”, affidata alla mitezza dei giurati ed alla loro moderazione nei confronti dell’innocenza morale del proprietario già nell’Inghilterra della metà del diciannovesimo secolo, al punto da invocarne − nel 1974 – l’applicazione nella soluzione del caso specifico. La circostanza non deve meravigliare: solo undici anni prima, era stata ristampata l’opera, pubblicata nel 1881 di uno dei più stimati e poliedrici giuristi americani, Oliver Wendell Holmes, The Common Law, una raccolta di lectures, la prima delle quali, dal titolo Early Forms of Liability, si propone di illustrare come, accanto alla maggior parte delle norme vigenti all’epoca presente, considerate manifestazioni del buon senso, ne sopravvivano altre che possono essere comprese solo rifacendosi all’“infanzia” della procedura vigente tra le tribù germaniche o alle condizioni sociali di Roma all’epoca dei Decemviri. In proposito, utilizzando la storia solo per quanto strettamente necessario per spiegare una teoria o l’interpretazione di una regola, Holmes affronta l’analisi della teoria generale della responsabilità civile e penale dal momento che, osserva, il common law è molto cambiato in proposi140

The Law of Deodands, in 34 Law Magazine, 1845, p. 191. Hect Co. v. Bowles, 321 U.S. 231. 142 Si tratta del Justice McKenna, estensore della majority opinion del caso Goldsmith-Grant Co., cit., p. 510. 141

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to rispetto ai primi reports giurisprudenziali e ritenendo “istruttivo” ripercorrere le prime forme di responsabilità, quando la procedura si basava sulla vendetta, individua nel deodand una forma di vendetta “sublimata”, utile per risolvere problemi altrimenti di difficile soluzione, come in materia di collisioni tra navi, affidate obbligatoriamente al comando provvisorio di piloti per l’ingresso nelle aree portuali, di cessazione di rapporti di lavoro in caso di naufragio: questo – conclude Holmes − è particolarmente vero nei casi di diritto marittimo, dal momento che “una nave è la più viva delle cose inanimate” 143.

8. La legislazione negli anni Settanta del Novecento. Come si è accennato 144, negli Stati Uniti d’America, la criminal forfeiture è stata reintrodotta nell’ordinamento federale negli anni Settanta del secolo scorso attraverso l’Organized Crime Control Act del 1970 la cui parte più qualificante – il Rackeeter Influenced and Corrupt Organization Act (c.d. R.I.C.O.) −, consistente nell’utilizzare in attività illecite o lecite i proventi di reati che costituiscono un “pattern of criminal activity”, rende illegale l’utilizzazione dei proventi dell’attività di racket nella conduzione di imprese commerciali, anche con la confisca di tutti gli interessi economici acquisiti in violazione della legge stessa 145. Nel 1972, come si è già detto, furono modificate anche le Federal Rules of Criminal Procedure per rendere applicabili le nuove forme di “criminal” forfeitures appena introdotte. Infatti in precedenza ogni tipo di confisca era esclusa dalla sfera di applicazione delle Federal Rules of Criminal Procedure in conseguenza del fatto di essere modellata sulla visione convenzionale che le attribuiva “necessariamente” dal punto di vista sostanziale natura civile e da quello processuale la considerava un’azione in rem 146. A seguito della modifica, il nuovo testo della Rule 54 dispone che la nuova normativa “non si applica alle confische civili di beni conseguenti a violazioni di una legge degli Stati Uniti”: nel Commento ufficiale alla Rule si precisa che l’aggiunta dell’aggettivo “civile”, non presente nel testo preesistente accanto all’esclusione generica di ogni tipo di “confisca”, vuole chiarire, secondo l’indicazione del Congresso, che solo le criminal forfeitures sono assoggettate alla disciplina delle Rules 147. Anche altre Rules che precedono la 55, introdotta 143

O.W. HOLMES, The Common Law, cit., p. 25. Supra, § 1. 145 18 U.S.C. § 1963. 146 S. Rep. No. 617, 91st Cong., 1st Sess. 69-70; H.R. Rep. No. 1549, 91st Cong., 1 Sess. 188. 147 Advisory Committee’s Comments to the 1972 Amendments to the Federal Rules of Criminal Procedure, 56 F.R.D., 1972, pp. 143 e 157. 144

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come regola generale situata nella parte finale delle Rules stesse 148, subiscono modifiche per consentire il funzionamento della criminal forfeiture. Innanzitutto la Rule 7 (c) (2), in tema di requisiti dell’atto di rinvio a giudizio (indictment o information): “Nessun giudizio di confisca può essere emesso in un processo penale, a meno che l’indictment o information indichino gli estremi dell’interesse o della proprietà da assoggettare alla confisca”. Particolarmente significativa è la Rule 32.2, relativa alla determinazione della pena (sentencing) che, sotto la rubrica Criminal Forfeiture, prevedeva, all’atto della sua introduzione nel 1972, che quando un verdetto dispone che una proprietà è soggetta a confisca, il giudizio sulla confisca autorizza l’Attorney General a sequestrare l’interesse o il bene oggetto della confisca stessa, fissando i termini e le condizioni dell’operazione. Successivamente, nel 2000 e nel 2009, la norma viene “ingigantita”, con l’aggiunta di circa cento righe al testo delle cinque inziali, sopra riportate, nelle quali viene dettagliatamente disciplinato il procedimento per giungere correttamente alla confisca, che le riforme del 1972 si erano limitate ad abbozzare sommariamente. Prima di emettere un giudizio di confisca dev’essere dato avviso all’imputato che l’accusa avanzerà una richiesta in tal senso in sede di sentencing: la previsione in realtà era già prevista nella riforma del 1972, ma ora si specifica che l’indictment o l’information non deve identificare la proprietà da confiscare né specificare l’ammontare di ogni confisca patrimoniale cui mira l’accusa. Subito dopo il verdetto o l’accettazione di una dichiarazione di colpevolezza o di un nolo contendere relativa ad ogni imputazione, la corte deve determinare quale proprietà è assoggettabile alla confisca in base alla legge. Qualora l’accusa richieda la confisca di un particolare bene, del denaro depositato in un particolare conto corrente bancario, che si assume essere il provento di un reato, o di un lotto di terreno riconducibile al reato, la corte deve accertare che l’accusa abbia stabilito la necessaria correlazione tra la proprietà e il reato stesso. Se l’accusa chiede un giudizio di contenuto patrimoniale derivante da traffico di sostanze stupefacenti o se l’ammontare del denaro coinvolto nel riciclaggio non è stato trovato o non è disponibile, la corte deve determinare l’ammontare del denaro che dovrebbe essere sequestrato, basandosi sul verbale dibattimentale e su ulteriori prove presentate dall’imputato o dall’accusa, ma l’imputato non può avanzare un’obiezione basata sul fatto che la proprietà appartiene a terzi (per la cui tutela è previsto l’“ancillary proceeding”, azionabile solo da questi ultimi). Se l’accusa richiede il pagamento di una somma di denaro, deve specificarne l’entità. 148 Attualmente le Federal Rules of Criminal Procedure costituiscono grosso modo una sorta di vero e proprio codice di procedura penale federale, pur integrato da numerosi Acts del Congresso.

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La decisione della corte si basa su materiale probatorio già acquisito, anche attraverso un plea agreement redatto in forma scritta e su qualsiasi altro materiale probatorio o documentale ritenuto attendibile. Se una delle parti contesta la confisca, la corte tiene un’udienza ad hoc. Ove la corte stabilisca che la proprietà sia assoggettabile a confisca deve emettere sollecitamente un “ordine preliminare”, stabilendo l’ammontare di ogni pagamento in denaro, specificando la confisca di una specifica proprietà e di ogni eventuale proprietà sostitutiva se l’accusa ha stabilito che quest’ultima è conforme ai criteri stabiliti dalla legge. La corte deve emettere l’ordine senza tener conto di ogni eventuale interesse di terzi nella proprietà: come si è accennato, ogni determinazione in proposito dev’essere differita al momento in cui il terzo presenta un reclamo in un “ancillary proceeding” formulato in base alla Rule 32.2 (c). Inizialmente, nel 1972, le Rules (in particolare la “nuova” Rule 31) davano per scontato come la confisca “criminal” fosse assimilabile ad una “separate criminal offense” la quale richiedeva la presentazione di prove davanti alla giuria dibattimentale che avrebbe emesso il verdetto. Successivamente, nel 1995, nel caso Libretti v. United States 149, la Corte suprema stabilì che la confisca costituisce un aspetto della determinazione della pena 150 imposta al termine di un processo penale e che, di conseguenza l’imputato non è titolare di un diritto di rango costituzionale ad una giuria come giudice designato a determinare l’ammontare e l’esistenza stessa di ogni singola parte della confisca. Lo “special verdict” introdotto nella Rule 31(e) − afferma la Corte − ha la natura di “statutory right”, cioè di legge “ordinaria” priva di rango costituzionale e, quindi, suscettibile di modifica o abrogazione in qualsiasi momento. Se prima della determinazione della pena (cioè del sentencing) la corte non può identificare tutte le proprietà soggette a confisca né calcolare l’ammontare totale del giudizio pecuniario, può comunque emettere un “ordine di confisca” che elenchi tutte le proprietà già identificate, descriva le altre in termini generali, stabilisca la possibilità che l’ordine in questione sia modificato qualora siano individuate nuove proprietà o nuove somme di denaro confiscabili. Il principio in forza del quale l’estensione dell’interesse dell’imputato debba essere stabilito all’interno del dibattimento penale è correlato alla convinzione − qui ribadita per l’ennesima volta! − che la confisca penale è un’“in per149

Libretti v. United States, 516 U.S. 29 (1995). Cioè la sentence, irrogata al termine di una fase post-processuale, il sentencing, normalmente di competenza del Presiding Judge che ha “diretto” il trial e senza la partecipazione della giuria, la quale ha già espresso il suo verdetto di colpevolezza: nel testo usiamo il termine tecnico ufficiale “corte” (court) con riferimento al primo, definito, appunto, dal diritto positivo court, pur ricordando come nella fase del post-trial, in cui si inserisce il sentencing, la “corte” è costituita come organo monocratico (verrebbe da dire: una “corte monocratica”). 150

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sonam action” in cui unicamente l’“interesse” dell’imputato stesso può essere confiscato 151. Quando negli anni Settanta del Novecento le leggi in tema di confisca furono emanate era chiaro che la confisca non poteva che essere disposta all’interno di un processo penale, ma era altrettanto chiaro che non esisteva alcun meccanismo per limitare la confisca stessa riferita agli interessi dell’imputato. Per questo – chiarisce il Commentary ufficiale alle Rules − in un primo tempo fu modificata la Rule 31(e) per inserire la definizione dell’“extent” degli interessi dell’imputato, che a questo scopo furono inseriti all’interno del verdetto dibattimentale. Successivamente ci si rese conto che i terzi che possono avere interessi nella proprietà confiscata non sono parti del processo penale e che, d’altra parte, un imputato che non abbia interessi proprietari da tutelare, non ha incentivi, in sede dibattimentale, ad opporsi alle allegazioni dell’accusa in tema di confisca. Fu così che in seguito la Rule venne abrogata ed inserita nella nuova Rule 32.2, anche per evitare confusioni nei casi in cui è presente una pluralità di imputati che può avere avuto un interesse nella proprietà utilizzata nel commettere il reato, ma non è del tutto chiaro chi tra essi sia l’effettivo titolare della proprietà. Per esempio, in un caso di droga e riciclaggio ci sono due coimputati, A e B, e l’accusa cerca di confiscare tutta la proprietà coinvolta nello schema criminoso, che è condotto a nome di B, mentre A sembra essere il solo effettivo titolare della proprietà stessa. Poiché non avrebbe senso sprecare il tempo della corte per stabilire quale dei due imputati è titolare degli interessi da confiscare, ad entrambi gli imputati devono essere confiscati tutti il loro interessi. Se poi, in base alle nuove Rules, la corte stabilisce che A è l’effettivo titolare della proprietà, B avrà diritto ad iniziare un ancillary proceeding dove cercare di recuperare la sua proprietà nonostante la condanna penale inflittagli, una volta stabilito il nesso necessario tra la proprietà in questione e il reato commesso. Una modifica del dicembre 1996 stabilisce poi, che, una volta emanato un preliminary order of forfeiture che disponga la confisca di qualsiasi interesse che un imputato possa avere nei confronti della proprietà confiscata, anche l’accusa può sequestrare la proprietà ed iniziare un ancillary proceeding per stabilire se esistano interessi di qualsiasi terzo. Inoltre l’Attorney General può designare un soggetto estraneo al Department of Justice per procedere al sequestro della proprietà confiscata. Ciò può essere necessario qualora, per esempio, l’amministrazione che sta conducendo le indagini sia un organo del Treasury Deparment, mentre il sequestro è tipicamente eseguito da organi diversi da quello, facenti capo al Department of Justice. Anche in tal caso se nessun terzo avanza alcuna pretesa, la corte, all’atto 151

United States v. Riley, 78 F.3d 367 (8th Cir. 1996).

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del sentencing, emetterà un ordine definitivo di confisca: se invece un terzo avanza una pretesa al riguardo, l’order of forfeiture diventerà definitivo nei confronti dell’imputato al momento del sentencing, ma sarà soggetto ad eventuali modifiche a favore del terzo, in attesa della conclusione dell’ancillary proceeding. Una volta emesso il “preliminary order of forfeiture” l’Attorney General è autorizzato a sequestrare la proprietà specifica sottoposta a confisca, a condurre ogni indagine che la corte consideri appropriata per individuare, identificare, localizzare, o disporre della proprietà e di iniziare i procedimenti relativi alle leggi che disciplinano i diritti dei terzi. La corte può includere nell’ordine di confisca condizioni ragionevolmente necessarie a conservare il valore della proprietà durante ogni giudizio d’appello. Al momento del sentencing, o anche prima, se l’imputato vi acconsente, il “preliminary order of forfeiture” diventa definitivo nei suoi confronti 152. Se l’ordine impone all’imputato la confisca di determinati beni, la validità dell’ordine rimane però solo “preliminare” nei confronti dei terzi finché il procedimento incidentale (ancillary) nei loro confronti non sia concluso. In ogni processo svoltosi davanti ad una giuria, se l’atto d’accusa stabilisce che il prosecutor possa chiedere la confisca, la corte deve determinare, prima che la giuria inizi a deliberare, se ogni parte richiede che la giuria stabilisca anche l’assoggettabilità alla confisca di beni specifici ove giunga ad un verdetto di colpevolezza. In tal caso l’accusa deve sottoporre alla giuria un formulario relativo allo special verdict relativo alla confisca (special, in quanto diverso da quello sulla colpevolezza), con l’elenco di ogni proprietà da confiscare unitamente alla richiesta di decidere sulla fondatezza della pretesa dell’accusa stessa. Si viene così ad aggiungere una nuova fase al trial, la “forfeiture phase of the trial” 153, che sfocia in quella successiva del sentencing solo ove il giudice dibattimentale abbia emesso un ordine definitivo di confisca. Una volta che la corte abbia ordinato la confisca di una proprietà specifica, l’accusa deve provvedere alla pubblicazione di tale ordine e darne avviso, ai sensi delle Federal Rules of Civil Procedure, ad ogni persona interessata che appaia ragionevolmente titolare della facoltà di contestare la confisca con un procedimento “ancillare”. Inoltre, in ogni momento antecedente all’ordine definitivo di confisca, la corte, ove necessario, può ordinare la vendita “interlocutoria” dei beni da confiscare. 152 Ciò avviene poiché non è infrequente che il sentencing venga procrastinato per un congruo periodo di tempo che consente all’imputato di collaborare con l’accusa nell’ambito di un’(altra) indagine tutt’ora in corso. Se l’order nel frattempo non diventasse definitivo nei confronti dell’imputato, lo Stato non potrebbe disporre della proprietà confiscata fino al termine del sentencing: cfr. Committee Notes on Rules, 2000. 153 F.R.Cr.P., Rule 32.2 (b) (1).

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Quanto allo svolgimento dell’ancillary proceeding, se la legge lo consente, ogni terzo che vanti un interesse sulla proprietà da confiscare può promuovere un’azione davanti alla corte, a meno che la confisca non riguardi una somma di denaro. Durante l’ancillary proceeding la corte può, su istanza di parte, respingere la domanda per mancanza di legittimazione, o per ogni altra legittima causa. Ai fini della richiesta i fatti dichiarati nella stessa sono presunti veritieri. Prima di respingere la richiesta e di celebrare un’udienza sul merito, la corte può consentire alle parti di procedere con la discovery, ai sensi della normativa processualcivilistica, se lo ritiene necessario od opportuno per risolvere questioni di fatto. Terminata la discovery, la corte emette un “summary judgment” previsto dalle Rules of Civil procedure (Rule 56). Chiusasi l’eventuale parentesi dell’ancillary proceeding, che non fa parte tecnicamente del sentencing (in quanto i terzi interessati non sono parti del processo penale) la corte deve emettere un ordine definitivo, (eventualmente modificando quello provvisorio, ove necessario per tener conto dei diritti di terzi). L’ordine preliminare diventa definitivo se la corte accerta che l’imputato o un gruppo di coimputati condannati avevano un interesse nella proprietà confiscabile in forza della legge applicabile al caso specifico. L’imputato non può più opporsi all’emanazione dell’ordine definitivo obbiettando che la proprietà appartiene in tutto o in parte ad un coimputato o ad un terzo, né può un terzo opporsi al final order allegando di avere un interesse sulla proprietà. In sostanza, quindi, se nessun terzo ha vantato interessi sulla proprietà in un ancillary proceeding, la corte deve, comunque, stabilire se l’imputato o più coimputati abbiano un interesse sulla proprietà e siano responsabili in solido o separatamente per la forfeiture dell’insieme dei proventi del reato. L’accusa può confiscare i proventi una volta sola entro il loro limite accertato, ma, entro tale limite, può confiscare ad ogni imputato la quota dei proventi del reato che “prevedibilmente” gli erano ascrivibili 154. Ne consegue che la condanna di qualsiasi imputato è sufficiente a legittimare la confisca di tutti i proventi del reato, anche se i coimputati si sono divisi tra di loro il denaro. L’order è appellabile e la corte può disporne la sospensione dell’esecuzione senza compromettere la disponibilità futura della proprietà. La sospensione non incide sulla lunghezza dell’ancillary proceeding né sulla decisione circa i diritti o degli interessi di un terzo: se la corte decide a favore di quest’ultimo 154

Così: United States v. Hurley, 63 F.3d 1 (1st Cir. 1995). Nello stesso senso: United States v. Cleveland, 1997 WL 602186 (E.D. La. Sept. 29, 1997); United States v. McCarroll, 1996 WL 355371 at 9 (N.D. Ill. June 25, 1996); United States v. DeFries, 909 F. Supp. 13, 19–20 (D.D.C. 1995) (secondo cui gli imputati sono obbligati in solido anche se l’accusa non è in grado di determinare precisamente quanto ogni singolo imputato ha beneficiato rispetto all’ammontare totale dei proventi dello schema criminoso).

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in pendenza d’appello, può modificare l’ordine di confisca, ma non deve trasferire alcun interesse proprietario al terzo fino a quando la decisione d’appello diventi definitiva, a meno che l’imputato vi acconsenta per iscritto. Su richiesta dell’accusa la corte può in qualsiasi momento emettere un ordine di confisca o modificarne uno precedente per includervi dei beni che sono soggetti a confisca in base ad un order ma sono stati localizzati successivamente all’emissione dell’order stesso, e costituiscono una proprietà sostitutiva che può essere assoggettata a confisca. In tal caso, se l’accusa dimostra che la proprietà è assoggettabile a confisca, la corte − in un procedimento senza giuria − emette un nuovo order of forfeiture oppure ne modifica uno preesistente, preliminare o definitivo (eventualmente previo ancillary proceeding, se sono coinvolti interessi di terzi) 155.

9. Libretti v. U.S. e le collateral consequences della nuova fisionomia della forfeiture. Quando furono modificate le Rules − inizialmente solo la Rule 31(e) − si pensava che la “criminal forfeiture” fosse equiparabile ad un reato specifico e separato per il quale si sarebbero dovute produrre delle prove e sul quale la giuria avrebbe dovuto emettere un verdetto, fino a quando, come si è detto, nel 1995 nel caso Libretti v. United States 156 la Corte suprema stabilì che la “criminal forfeiture” costituisce aspetto della sentence e che l’imputato non ha un diritto costituzionalmente protetto ad un accertamento da parte della giuria relativo a qualsiasi parte della confisca: per questo il requisito dello “special verdict” inserito nella Rule 31(e), secondo la Corte è per sua natura un diritto di rango “ordinario” modificabile o abrogabile con legge ordinaria in qualsiasi momento. Tuttavia, anche dopo la decisione sul caso Libretti, in base alla quale si può concludere che un jury trial non sia più appropriato a proposito di alcuno degli aspetti della tematica della confisca, essendo afferente esclusivamente al sentencing, il Committee incaricato della redazione delle nuove Rules ha deciso di mantenere in vita il diritto delle parti, all’interno di un trial già condotto davanti ad una giuria, a far decidere da quest’ultima se l’accusa ha provato il nesso necessariamente richiesto dalla legge tra il reato e la proprietà da confiscare, chiarendo che, comunque, la giuria non ha nessun ruolo nello stabilire se l’imputato abbia un interesse nella proprietà da confiscare, aspetto che de155

Tutta la normativa attinente alla procedura di confisca nel sentencing è stata aggiunta il 17 aprile 2000, con efficacia dal 1 dicembre 2000; successivamente il 29 aprile 2002, con efficacia dal 1 dicembre 2002 ed, infine, il 26 marzo 2009, con efficacia dal 1 dicembre 2009. 156 Libretti v. United States, cit.

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v’essere chiarito nell’ancillary proceeding, il quale, per legge dev’essere celebrato “before the court alone, without a jury” 157. Il primo caso in cui trovarono applicazione le nuove Rules, United States v. Hall del 1974 158, riguardava un certo Hall che aveva importato due anelli di diamanti negli Stati Uniti senza dichiararne il valore (14.000 dollari) ai funzionari doganali. Arrestato, fu rinviato a giudizio in base ad una norma, il 18 U.S.C. § 545.15, risalente al 1866 159, secondo la quale il contrabbando costituisce un felony punibile con pena sia pecuniaria sia detentiva ed autorizza la confisca delle merci così introdotte negli Stati Uniti. Hall cerca di far annullare il provvedimento di rinvio a giudizio per mancata allegazione dell’“extent of the interest or property subject to forfeiture” richiesta dalla Rule 7(c)(2) delle Federal Rules of Criminal Procedure. La District court riconosce la carenza dell’atto di rinvio a giudizio, ma decide che il rimedio appropriato sarebbe stato quello di impedire all’accusa di chiedere la confisca, piuttosto che di “archiviare” il processo, come richiesto dall’imputato. In sede dibattimentale Hall fu condannato alla pena di un anno, la cui esecuzione avrebbe potuto essere sospesa a condizione che egli acconsentisse alla confisca dei due anelli. Hall impugnò la decisione e la Court of Appeals gli diede ragione, chiarendo che se gli si fosse consentito di farsi confiscare “civilmente” gli anelli, dopo che l’accusa gli aveva impedito, non indicandogli quali erano i beni oggetto del capo di imputazione, di difendersi dalla richiesta della confisca stessa, lo si sarebbe privato del tutto della possibilità di difendersi. La Corte d’appello osserva che, anche se effettivamente la Rule 7(c)(2) è stata introdotta solo nel 1970 in riferimento a riforme specifiche, essa appare scritta in termini tali da consentirne un’applicazione generalizzata e, quindi, anche retroattiva. Il rappresentante dell’accusa ha criticato la decisione, sostenendo che “dal 1790 al 1970 nessuna legge penale federale ha previsto la sanzione della confisca come pena per la violazione di una norma penale degli Stati Uniti” 160. Infatti, in epoca moderna, più precisamente subito dopo la nascita degli Stati Uniti (la prima legge in materia risale al 1789), il sequestro e la confisca vengono utilizzati, parallelamente al processo penale vero e proprio, come strumento particolarmente incisivo nel contrasto a un tipo di criminalità all’epoca molto diffuso: la pirateria (cfr. l’Act del 1819 relativo alla “piratical 157

21 U.S.C. § 853(n)(2).

158

U.S. v. Hall, 521 F.2d 406 (9th Circ. 1975).

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Act of July 18, 1866, 14 Stat. 179,52, successivamente inserita nel 18 U.S.C. § 545 (1990). 160

U.S. Department of Justice, Memo No. 828 to all United States Attorneys in the 9th Circuit, il quale si rifà a S. Rep. No. 817, 91st Cong., 1st sess. 79 (1969), cit. in J. MAXEINER, Bane, cit., p. 769.

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aggression” 161). Anziché arrestare l’equipaggio della nave (che avrebbe potuto essere facilmente sostituito) o il padrone della stessa (che spesso si trovava all’estero e magari godeva di immunità penale, in quanto Capo di Stato: ne è esempio un caso relativo al re di Francia) si sequestrava la nave. Allo stesso tipo di provvedimento si ricorreva quando una nave veniva utilizzata per il trasposto di merce di contrabbando e, dopo l’abolizione della schiavitù, nel traffico di esseri umani (non dimentichiamoci che fino alla metà dell’Ottocento la schiavitù era addirittura “legale”). Se il fenomeno della tratta e dell’“importazione” di esseri umani ai nostri giorni non si presenta più apparentemente (cioè nei suoi riflessi a livello giurisprudenziale) come un fenomeno significativo negli Stati Uniti, il sequestro di mezzi di trasporto marittimi, cui si sono nel frattempo aggiunti quelli aerei (anche nelle forme tecnologicamente più avanzate, come i sommergibili telecomandati o i droni) resta tutt’ora uno strumento essenziale nella lotta al contrabbando e soprattutto all’importazione e allo spaccio di sostanze stupefacenti, anche se la parte più significativa e “sostanziosa” dei provvedimenti ablativi riguarda beni immobili, somme di denaro e titoli di credito. La peculiare natura giuridica originaria della confisca ne ha consentito un agevole “riuso” anche nei confronti delle forme di criminalità organizzata (ma non solo) dei giorni nostri. Infatti la confisca in questione, come si è ampiamente detto sopra, è considerata e disciplinata come una “actio in rem” e non “in personam”: la proprietà oggetto del sequestro e della confisca è “parte” nel procedimento di confisca, la cui controparte è l’autorità che procede alla confisca stessa. Si ricorre ad una fictio iuris: il trasgressore della norma, il “wrongdoer” è la cosa in sé utilizzata nel commettere un reato o nel trarne profitto. Tale configurazione della confisca presenta notevolissimi vantaggi per l’autorità che la dispone: consente di operare la confisca di un bene il cui proprietario sia ignoto e, quando è noto, non solo non è necessario che venga previamente condannato, ma neppure che abbia svolto un qualsiasi ruolo nella commissione del reato da cui è conseguita la confisca: secondo la giurisprudenza della Corte suprema federale, è sufficiente dimostrare che qualcuno ha commesso il reato ed ha utilizzato per commetterlo il bene “imputato”. Così in un caso di pirateria deciso nel 1844: “La nave che commette l’aggressione è trattata come l’aggressore (offender), come la cosa o lo strumento a cui si applica la confisca, senza alcun riferimento al carattere o alla condotta del suo proprietario” (Harmony v. U.S.) 162. La Corte, nell’avallare la confisca, osserva che: “È vero che una cosa inanimata non può commettere un reato: 161 162

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Act of March 3, 1819. Harmony v. U.S., 43 U.S. (2 How.) 210 (1844).

ma il suo corpo è animato dall’equipaggio, che è guidato dal padrone della nave” 163. In tal modo la confisca consente di rendere inutilizzabile la nave per commettere ulteriori reati e, nei casi di contrabbando, consente di recuperare le imposte doganali evase. È interessante notare come la connotazione del bene oggetto della confisca come “colpevole” del reato anziché come “strumento” per la sua commissione è utilizzato dalla Corte suprema fino al 1993, data dell’attuale leading case Austin v. U.S. Nel frattempo l’uso della confisca si estende alle nuove forme di criminalità organizzata che piagano il Paese: negli anni Venti del secolo scorso alle violazioni delle imposte su alcool e tabacco (imposte che costituivano all’epoca circa il 75% del gettito fiscale degli Stati Uniti). È così possibile confiscare un appartamento dato in locazione in cui si distillano clandestinamente alcoolici, oppure automobili nelle quali persone diverse dal proprietario trasportano illegalmente alcoolici. A partire dalla seconda metà del secolo scorso il legislatore federale emana una nutrita serie di norme che ampliano il campo d’azione della confisca, il quale in precedenza, come si è detto, era riservato a materie specifiche (reati doganali, pirateria, evasione fiscale) in assenza di una previsione legislativa generale.

10. Ultimi sviluppi legislativi: “qualcosa di nuovo anzi d’antico” nell’assetto “plurale” delle forfeitures e nelle strategie del loro utilizzo. Allo stesso tempo la nuova normativa, estesa tra il 1978 e il 1984 ai reati in tema di stupefacenti, fa diretto riferimento, quanto all’oggetto della confisca, ai “profitti” (proceeds) del reato (21 U.S.C. § 881 (a) (6) (1978)) ed alle cose usate nel commetterli o nell’agevolarne (to facilitate) la commissione (21 U.S.C. § 881 (a) (7) (1984)) 164. Il riferimento alle cose che costituiscono il profitto del reato o che ne hanno agevolato la commissione, anche rendendo più difficoltose le indagini, consente la confisca di beni immobili dove la droga è stata immagazzinata, dove il denaro oggetto di riciclaggio viene contabilizzato, anche se tali immobili non costituiscono lo strumento per commettere il reato, ma semplicemente ne facilitano la commissione. Per l’accusa è sufficiente provare che la proprietà da confiscare sia derivata o, comunque, sia stata usata per commettere o agevolare la commissione del reato, sulla base dello standard probatorio della preponderance of evidence, proprio del processo civile e non già di quello del beyond 163

Harmony v. U.S., cit., p. 234.

164

In proposito S.D. CASSELLA, An Overview of Asset Forfeiture in the United States, in Civil Forfeiture of Criminal Property, cit., p. 27.

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any reasonable doubt che vige in quello penale. Come si è detto, il provvedimento di confisca è del tutto autonomo e privo di collegamenti da qualsiasi procedimento penale e l’eventuale ruolo svolto dal proprietario nella commissione del reato è del tutto irrilevante a fini processuali 165. Va però osservato come solo alcune leggi relative alla confisca civile la prevedono senza la prova del nesso tra gli specifici beni confiscabili e la commissione del reato, consentendo di rivalersi sul “valore” di beni coinvolti nel reato 166, precludendo così la confisca “per equivalente”. Ne deriva che la civil forfeiture può essere utilizzata come mezzo per la confisca di beni non solo quando il proprietario sia ignoto, deceduto, latitante o comunque si trovi al di fuori della giurisdizione federale, ma anche quando abbia consentito per colpa o di proposito ad un terzo l’uso della sua proprietà per commettere un reato. Inoltre, come abbiamo osservato in precedenza, a partire dal 1970, ma soprattutto dal 1990 in poi, la giustizia federale ha “resuscitato” 167 l’altra forma di confisca, caduta in disuso, quella penale (criminal forfeiture), esperibile solo nei confronti dell’imputato nel processo penale, ma suscettibile di “concorrere” con quella civile, parallelamente alla quale può coesistere. Nel 2000 il Congresso ha poi stabilito che è possibile utilizzare anche lo strumento della confisca penale per qualsiasi reato per cui sia prevista quella civile 168. La confisca penale, collocandosi, come si è detto, nell’alveo del processo penale, ove assume la forma di una vera e propria pena, accanto a quella detentiva o pecuniaria, suscettibile di sequestro a fini cautelari e conservativi durante l’intero arco del procedimento, consiste in una azione in personam e quindi risente dei limiti posti dalla Costituzione a tutela dei diritti dell’imputato e consente di confiscare solo i beni di proprietà del condannato, i quali non necessariamente devono essere quelli inerenti alla commissione del reato (cioè è possibile la confisca “per equivalente”), mentre la confisca civile, in quanto azione in rem, riguarda solo i beni specifici ricollegabili al reato, ma prescinde dalla titolarità del diritto di proprietà del bene da confiscare. Per questa ragione e per altre ulteriori peculiarità dei due istituti, nella prassi l’organo dell’accusa in prima battuta persegue contemporaneamente l’iter ablativo civile e quello penale, stante la formale separatezza dei due, per poi focalizzarsi, al momento della “riscossione”, su quello che gli offre l’ambito di applicazione più “produttivo” nel singolo caso specifico. Le ragioni dell’uso massiccio della confisca attualmente praticato risiedono, 165

U.S. v. One Assotrment of 89 Firearms, 465 U.S. 534, 1984. Per es., 18 U.S.C. § 545. Sul punto: S.D. CASSELLA, An Overview, cit., p. 29, nota 26. 167 L’espressione è usata in U.S. v. Bajakajian, 524 U.S. 332, 1998. 168 28 U.S.C. § 2461 (c). 166

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oltre chee nell’ovvia sottrazione di mezzi materiali e logistici alla criminalità organizzata, di cui riducono o “chiudono” i business e nel consentire le restituzioni e i risarcimenti alle vittime dei reati, nel valore anche “simbolico”, e non solo materiale, del “messaggio” deterrente nei confronti del potenziale autore di reati derivante dal sapere che il reato, anziché “pagare”, rischia di “costare” in misura sproporzionata rispetto al rischio. Speculare a quest’ultimo profilo è l’aumento del consenso sociale, derivante dal constatare che è tutt’altro che facile per i criminali godere i frutti delle proprie attività illecite e che le ricchezze accumulate illegalmente danno benefici illusori o di breve durata. Come si è detto, non esiste una normativa generale federale in tema di confisca né civile né penale: per ogni singolo reato la legge stabilisce se, in che misura e entro quali limiti l’istituto sia applicabile. Così per moltissimi reati (oltre 200, in primis quelli contro il patrimonio) è possibile confiscare solo i proventi (proceeds) degli stessi, per altri solo gli strumenti utilizzati, per altri ogni bene “coinvolto” (involved) nel reato (così per il money laundering), per altri ancora qualsiasi cosa di proprietà del condannato (così in tema di racket e terrorismo). Quanto ai proventi, il criterio per individuare l’appartenenza di un bene a questa categoria è il test c.d. del “but for”: sono da considerare tali i beni di cui l’imputato non sarebbe venuto in possesso se non avesse commesso il reato ascrittogli. Quanto alla confisca dei beni in caso di condanna per il reato c.d. “R.I.C.O.”, lo strumento più duttile nella lotta al crimine organizzato, la confisca stessa può riguardare qualsiasi proprietà o attività anche lecita acquistata o amministrata coi proventi del racket, come la conduzione di un ristorante o di un’altra attività commerciale, purché nella gestione sia stata investita anche solo una quota (sia pur minoritaria nella gestione del business) dei proventi del reato. Abbiamo fin qui descritto la civil e la criminal forfeiture: in realtà in molti ordinamenti statali ed in quello federale esiste un’altra forma di confisca che può essere utilizzata come strumento ablativo autonomo o costituire la premessa a titolo provvisorio per l’utilizzazione di una confisca civile o penale. Si tratta della confisca “amministrativa”, la quale non necessita di un intervento del prosecutor né del giudice: può essere attuata dall’autorità di polizia durante lo svolgimento della sua attività di indagine e, se non contestata dall’interessato in un termine relativamente breve (90 giorni), diventa definitiva. Si pensi all’attività della DEA (Drug Enforcement Agency) in tema di stupefacenti, dell’FBI in un reato di frode o dell’ATF&T (Alcohol, Tobacco, Firearms and Terrorism) in un reato in tema di armi. Dal momento che nella maggior parte dei casi (nell’80% in tema di stupefacenti 169) l’indagato non contesta il sequestro, la confisca amministrativa è la più diffusa delle confische e può essere eseguita in presenza della “probable cause”, cioè quando l’ufficiale di polizia procedente ha ragione di ritenere che una 169

Cfr. S.D. CASSELLA, An Overview, cit., p. 37.

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determinata persona sia in possesso di armi, stupefacenti o denaro frutto o provento dello spaccio degli stessi. Secondo il IV Emendamento della Costituzione federale di regola tale sequestro/confisca dovrebbe essere autorizzato da un mandato dell’autorità giudiziaria, ma se ne può prescindere nel corso di un arresto in flagranza o se la cosa da sequestrare è “mobile” 170. Subito dopo il sequestro, la polizia deve avvisare, della sua intenzione di confiscare il bene con un annuncio a mezzo stampa, chiunque abbia un interesse ad opporvisi. Se non viene presentato alcun ricorso, il bene è acquisito a titolo definitivo dall’autorità procedente. Con una legge del 2000, il Civil Asset Forfeiture Reform Act (CAFRA) 171, sono state ampliate le garanzie per i ricorrenti, la cui azione investe della questione il prosecutor, il quale può dar vita ad un procedimento di civil forfeiture o disporre la restituzione del bene. Il limite di utilizzabilità della confisca amministrativa, altrimenti, come si è detto, diffusissima, anche a livello statale, è rinvenibile nella tipologia di beni cui non è applicabile: la proprietà immobiliare e i titoli di credito di valore eccedenti i 500.000 dollari (per i quali si deve ricorrere alla confisca civile o penale). Nessun tetto è invece posto al sequestro di denaro contante. Quanto alle caratteristiche della confisca penale, che, come si è detto, costituisce una sanzione penale vera e propria, esse consistono nel fatto che essa può operare solo sui beni del condannato (ma non necessariamente sui beni specificamente individuati come inerenti al reato, a differenza di quanto avviene per la confisca civile). In realtà possono essere confiscati anche beni di terzi se il prosecutor riesce a dimostrare in base allo standard della preponderance of evidence, utilizzato nella fase del sentencing, cioè di determinazione della pena, che esiste una connessione tra la proprietà confiscata e la commissione del reato (la “criminal forfeiture is not limited to the property owned by the defendant: it reaches any property that is involved in the offense” 172). A proposito dei rapporti tra confisca penale e civile va ribadito che la seconda consiste in un procedimento separato e del tutto autonomo dalla prima e può essere iniziato prima o dopo la formulazione dell’imputazione in sede penale ed anche se non viene formulata alcuna imputazione (non va in proposito dimenticato che l’esercizio dell’azione penale è discrezionale negli Stati Uniti). Circa i criteri che fanno propendere il prosecutor verso l’uso della confisca civile, va annoverato il diverso standard probatorio; la non necessità di una condanna; l’estensione della confisca a beni non coinvolti nella commissione di uno specifico reato, ma anche a quelli da esso derivati quando la proprietà è di un terzo e questi non ne è proprietario “innocente”. 170

Florida v. White, 526 U.S. 559 (1999). 18 U.S.C. § 983 (a) (2). 172 De Almeida v. U.S., 459 F.3d 377 (2nd Cir. 2006). 171

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Sono però presenti numerosi svantaggi nel ricorso parallelo ad entrambi gli strumenti: innanzitutto ci sono termini stringenti per il prosecutor. Inoltre il procedimento civile può interferire negativamente sulle indagini penali (ampliandone la discovery), a meno che il giudice non decida − ma discrezionalmente e senza essere vincolato a darne preavviso al ricorrente − lo stay (la sospensione) del primo. Di più: la proprietà da sequestrare dev’essere ricollegabile al reato e non può riguardare substitutive assets. Infine il ricorrente deve pagare le spese per l’assistenza legale, tranne che nell’ordinamento federale (ove nel processo penale l’accusa le paga unicamente ove il suo case non sia substantially justified). Circa i criteri che fanno propendere il prosecutor verso l’uso della confisca penale, va annoverata l’unicità del procedimento che accerta l’esistenza del reato e quello che dispone la confisca nonché la possibilità per il giudice di ordinare il pagamento di una somma di denaro in quantità corrispondente al valore dei beni da confiscare; inoltre non ci sono termini perentori per effettuare la confisca (nei casi civili invece il procedimento va iniziato entro 90 giorni dal ricorso). Esistono però degli svantaggi. Le proprietà dei terzi di regola non sono confiscabili, neppure se la proprietà non è “innocente”: basta provare la proprietà “superiore” e non la proprietà “innocente” (v. il caso del coniuge noninnocente o del co-conspirator non imputato: in tali casi è preferibile ricorrere alla confisca civile e riuscire a respingere il tentativo del ricorrente di stabilire l’“innocent owner defence”). Inoltre, poiché per procedere alla criminal forfeiture, occorre una previa condanna, un problema in proposito non può essere ignorato: si tratta dell’ipotesi in cui il procedimento si conclude, come avviene in più del 90% dei procedimenti con un plea bargaining, la cui forma più diffusa, il charge bargaining, prevede che l’imputato si dichiari colpevole per un reato meno grave di quello effettivamente commesso e, quindi, perlopiù implicante proventi illeciti inferiori a quelli reali.

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CAPITOLO V I “RIMEDI CIVILI” SOTTO “RICO” E LA RECENTE LEGISLAZIONE ANTITERRORISMO STATUNITENSE: POSSIBILI SPUNTI PER IL CONTRASTO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA di Jean Paul Pierini

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il Lawfare come “laboratorio di idee”. – 3. Ipotesi di intervento su fattori abilitanti per la commissione di reati. – 4. I singoli filoni contenziosi. – 4.1. Le banche e la responsabilità per l’assistenza sostanziale ad atti di terrorismo internazionale. – 4.2. La fornitura di beni strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale. – 4.3. La fornitura di servizi strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale. – 5. Conclusioni.

1. Premessa. La possibilità di agire per il risarcimento dei danni derivanti da qualcuno degli atti proibiti dal Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act (RICO), parte integrante dell’Organized Crime Control Act del 1970, non presenta di per sé particolari tratti di novità, specie per il giurista abituato alla possibilità dell’esercizio dell’azione civile nel processo penale e fuori da questo 1. 1 Si riportano, di seguito, le disposizioni rilevanti: 18 U.S. Code § 1964 – Civil remedies (a) The district courts of the United States shall have jurisdiction to prevent and restrain violations of section 1962 of this chapter by issuing appropriate orders, including, but not limited to: ordering any person to divest himself of any interest, direct or indirect, in any enterprise; imposing reasonable restrictions on the future activities or investments of any person, including, but not limited to, prohibiting any person from engaging in the same type of endeavor as the enterprise engaged in, the activities of which affect interstate or foreign commerce; or ordering dissolution or reorganization of any enterprise, making due provision for the rights of innocent persons. (b) The Attorney General may institute proceedings under this section. Pending final determination thereof, the court may at any time enter such restraining orders or prohibitions, or take such other actions, including the acceptance of satisfactory performance bonds, as it shall deem proper.

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Probabilmente gli aspetti di maggior interesse della normativa attengono al recente ricorso alla stessa da parte delle allora Comunità Europee in un caso riguardante il tentativo di recuperare danni derivanti da un’impresa condotta in violazione delle disposizioni sostanziali di RICO. Tale caso ha portato la Corte suprema degli Stati Uniti ad esaminare gli aspetti extraterritoriali dei civil remedies previsti da RICO nel caso European Community v. RJR Nabisco 2. Nella vicenda le allora “Comunità Europee” per conto proprio e di ventisei Stati membri avevano avviato negli Stati Uniti un contenzioso civile ai sensi di RICO sostenendo che la parte convenuta operava secondo un complesso schema criminale nel quale dei trafficanti avrebbero importato sostanze stupefacenti in Europa e in seguito reinvestito i proventi illeciti attraverso vari brokers in una serie di transazioni sul mercato nero per pagare consistenti forniture di sigarette della RJR Nabisco destinate al mercato europeo. Lo schema implicava il coinvolgimento dei convenuti in numerosi atti di riciclaggio e frode secondo la legislazione statunitense. La causa originalmente avviata per recuperare imposte evase, successivamente modificata 3, ed alla fine naufragata per motivi giurisdizionali, si caratterizza nondimeno per l’interessante tentativo di utilizzare la legislazione statunitense al fine di colpire sul piano civile fenomeni criminali che determinavano conseguenze in Europa 4 e altresì per la curiosa fictio della perdurante esi(c) Any person injured in his business or property by reason of a violation of section 1962 of this chapter may sue therefor in any appropriate United States district court and shall recover threefold the damages he sustains and the cost of the suit, including a reasonable attorney’s fee, except that no person may rely upon any conduct that would have been actionable as fraud in the purchase or sale of securities to establish a violation of section 1962. The exception contained in the preceding sentence does not apply to an action against any person that is criminally convicted in connection with the fraud, in which case the statute of limitations shall start to run on the date on which the conviction becomes final. (d) A final judgment or decree rendered in favor of the United States in any criminal proceeding brought by the United States under this chapter shall estop the defendant from denying the essential allegations of the criminal offense in any subsequent civil proceeding brought by the United States. 2 U.S. Supreme court, RJR Nabisco, Inc., et Al. v. European Community et Al, Certiorari to the United States Court of Appeals for the Second Circuit, June 20, 2016. 3 Sul punto, v. la decisione della Court of Appeal per il secondo circuito, European Community v. RJR Nabisco, Inc., 424 F. 3d 175, 178 (2005) che in applicazione della “revenue rule” ha escluso la possibilità di agire in sede civile per il recupero di tasse e imposte. 4 In prima battuta, la District Court per l’Eastern District of New York, European Cmty. v. RJR Nabisco, Inc., No. 02-CV-5771, 2011 WL 843957, March 8, 2011, aveva, su istanza dei convenuti, rigettato il ricorso perché RICO non sarebbe applicabile ad attività che hanno luogo fuori dal territorio degli Stati Uniti ed a danni subiti da imprese straniere. La Court of Appeal per il secondo circuito, European Community v. RJR Nabisco, 11-2475-cv, decisione del 23 aprile 2014, nel riformare in seguito all’appello delle Comunità europee, la decisione della District Court e nel rinstaurare il ricorso, aveva ritenuto che RICO si applicava, nella sua appendice civile, extra territorium come i predicate acts, ossia i reati presupposti alcuni dei quali espressamente

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stenza, a soli fini processuali, delle Comunità Europee oltre i termini per l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Anche le disposizioni introdotte nell’Anti-Terrorism Act (ATA) del 1990, non sono contraddistinte da caratteristiche inconsuete 5. Tuttavia, le originali limitazioni dei civil remedies previste dall’ATA, che permettevano di agire per il risarcimento dei danni solo nei confronti del principal, ossia dell’autore di una delle condotte vietate, sono state superate dal cosiddetto Justice Against Sponsors of Terrorism Act (JASTA), adottato il 28 settembre 2016. Tale normativa ritenuti di applicazione extraterritoriale. Inoltre, le azioni civili sotto RICO non richiedono una domestic injury (ossia un danno verificatosi negli Stati Uniti), ma permettono di agire anche in caso di foreign injury, causata da reati presupposti di applicazione extraterritoriale. La Corte Suprema, a sua volta adita da RJR Nabisco, ha ritenuto che la presunzione contro l’applicazione extraterritoriale di una legge, nel caso di RICO, sia stata adeguatamente dimostrata, tuttavia, venendo in rilievo l’utilizzo di proventi illeciti (derivanti da condotte eventualmente punibili anche se commesse all’estero) e non avendo le parti attrici messo in chiaro se tale utilizzo doveva intendersi “domestico” o “estero”, lo stesso si assume essere “domestico”. Contrariamente alla decisione della Court of Appeal, la Corte Suprema ha pertanto ritenuto che i civil remedies sotto RICO (18 U.S. Code § 1964) impongono al ricorrente di allegare e provare una domestic injury ai propri affari e proprietà e non permettono di agire per il risarcimento di foreign injuries. Poiché propri i danni subiti in territorio statunitense avevano formato oggetto di rinuncia, la decisione della Corte Suprema ha chiuso il caso in favore di RJR Nabisco. 5 Si riportano di seguito le disposizioni rilevanti: 18 U.S. Code § 2333 – Civil remedies a) Action and Jurisdiction.– Any national of the United States injured in his or her person, property, or business by reason of an act of international terrorism, or his or her estate, survivors, or heirs, may sue therefor in any appropriate district court of the United States and shall recover threefold the damages he or she sustains and the cost of the suit, including attorney’s fees. (b) Estoppel Under United States Law.– A final judgment or decree rendered in favor of the United States in any criminal proceeding under section 1116, 1201, 1203, or 2332 of this title or section 46314, 46502, 46505, or 46506 of title 49 shall estop the defendant from denying the essential allegations of the criminal offense in any subsequent civil proceeding under this section. (c) Estoppel Under Foreign Law.– A final judgment or decree rendered in favor of any foreign state in any criminal proceeding shall, to the extent that such judgment or decree may be accorded full faith and credit under the law of the United States, estop the defendant from denying the essential allegations of the criminal offense in any subsequent civil proceeding under this section. (d) Liability.– (1) Definition.– In this subsection, the term “person” has the meaning given the term in section 1 of title 1. (2) Liability.– In an action under subsection (a) for an injury arising from an act of international terrorism committed, planned, or authorized by an organization that had been designated as a foreign terrorist organization under section 219 of the Immigration and Nationality Act (8 U.S.C. 1189), as of the date on which such act of international terrorism was committed, planned, or authorized, liability may be asserted as to any person who aids and abets, by knowingly providing substantial assistance, or who conspires with the person who committed such an act of international terrorism”.

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estende i civil remedies rendendo possibile la richiesta di danni nei confronti di ogni persona che “supporta o incoraggia fornendo consapevolmente assistenza sostanziale o che cospira con la persona che ha commesso un atto di terrorismo internazionale” (any person who aids and abets, by knowingly providing substantial assistance [to], or who conspires with the person who committed such an act of international terrorism). L’estensione dei suddetti rimedi, pur nella sua formale portata innovativa, costituisce se non altro una presa d’atto della prassi che aveva già manifestato eclatanti esempi di richiesta di danni, non al principal di un reato, ma piuttosto a soggetti che, attraverso la prestazione di servizi, avevano fornito un contributo sostanziale alla commissione di reati, secondo il modello di compartecipazione nel reato della “complicità” e prescindendo dall’accertamento in sede penale di responsabilità. I parametri della complicità civile e della cosiddetta “responsabilità vicaria” sono nel JASTA ripresi dalla decisione Halberstam v. Welch 6. Tale decisione ha affrontato in maniera analitica la questione della responsabilità di un soggetto per il danno arrecato da altri a un terzo, stabilendo che, quando manchi un “disegno comune”, è necessario che il soggetto chiamato a rispondere: – sia consapevole dell’altrui condotta in violazione di doveri nei confronti del terzo e abbia fornito assistenza sostanziale o incoraggiamento a tale condotta, oppure – fornisca assistenza sostanziale alla realizzazione del torto (tort) e la sua condotta, considerata separatamente, costituisca essa stessa una violazione dei doveri nei confronti del terzo danneggiato. La decisione Halberstam v. Welch è, inoltre, di grande interesse dal punto di vista del rapporto tra il principal ed il complice, in quanto relativo a un rapporto di tipo familiare. Tanto i civil remedies regolati da RICO, quanto quelli previsti dall’ATA contengono previsioni espresse relative all’Estoppel che precludono al convenuto la contestazione in sede civile delle risultanze dell’accertamento penale, secondo un modello in genere proprio dei sistemi legali che recepiscono l’idea della res iudicata, ma senza una chiara definizione del suo ambito oggettivo e soggettivo. L’accertamento in sede penale non costituisce, tuttavia, un requisito per l’azione civile. Tale aspetto, ai fini della presente trattazione, ben può ritenersi “convenzionale” e non sarà oggetto di approfondimento. Nei paragrafi seguenti si cercherà piuttosto di illustrare, nei suoi tratti essenziali, una parte della prassi attuale che evidenzia la possibilità di agire in sede civile contro soggetti che hanno in varia misura agevolato o permesso la 6 Halberstam v. Welch, 705 F.2d 472 (D.C. Cir. 1983). La decisione è citata nel Public Law 114-222 – Sept. 28, 2016 in relazione alla modifica dei civil remedies nell’ATA.

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commissione di una delle condotte proibite dalle leggi sopra menzionate. Nel fare ciò non si guarderà tanto alla specifica “azionabilità” del rimedio nell’ordinamento statunitense, ma piuttosto alla “replicabilità” del modello in altri ordinamenti.

2. Il Lawfare come “laboratorio di idee”. Le manifestazioni più ardite di utilizzo da parte di soggetti privati delle previsioni sui rimedi civili, debitamente combinata con ipotesi di responsabilità per complicità, nelle forme del supporto materiale (aiding) o morale (abetting) sono attualmente oggetto di attenzione e di studio da parte di quanti s’interessano del cosiddetto Lawfare che contribuisce alla divulgazione di una interessante casistica. Il neologismo Lawfare nasce dall’unione dei termini “Law”, di evidente comprensione, e Warfare che individua, in genere, l’arte di condurre la guerra e, quando associato ad aggettivi qualificati, specifiche branche della condotta delle operazioni belliche (es. Psychological warfare, Information warfare ecc.). Il termine, ormai ampiamente utilizzato da quanti si occupano di questioni militari e di sicurezza, è talora ricondotto, quanto all’idea originale, a un saggio cinese dal titolo “Unrestricted Warfare” 7. Il suddetto termine è stato, invece, coniato da un giurista statunitense 8. La trattazione del Lawfare si caratterizza per talune ingenuità e luoghi comuni. I primi riguardano l’utilizzo dell’etichetta negativa Lawfare per bollare come “ostili” azioni che si ritengono avverse o foriere di un risultato non gradito e che si caratterizzano per l’uso del diritto o la riconducibilità allo stesso in senso lato. In quest’ultima categoria sono, di volta in volta, ricondotti processi legislativi e di normazione, azioni diplomatiche e giudiziarie, esercizio di diritti in assemblee internazionali, ricorso a strumenti internazionali di risoluzione delle controversie e, infine, anche opere di natura scientifica e accademica quando sgradite nelle loro implicazioni 9. Altra ingenuità, sicuramente più pericolosa, è rappresentata dall’indebita omologazione delle suddette 7

Il riferimento si intende a Q. LIANG-W. XIANGSUI, Unrestricted Warfare, PLA Literature and Arts Publishing House, Pechino, 1999. 8 Il riferimento è a C.J. DUNLAP JR., Law and Military Interventions: Preserving Humanitarian Values in 21st Century Conflicts, Harvard University, XXI Century Conflicts’Center, Working Paper, 2001, disponibile in www.ksg.harvard.edu. Sull’utilizzo del termine, v. B. WHITES, About Lawfare: A Brief History of the Term and the Site, in www.lawfareblog.com. 9 Il riferimento relativo agli academici è allo sconcertante saggio di W.C. BRADFORD, Trahison des Professeurs: The Critical Law of Armed Conflict Academy as an Islamist Fifth Column, 3 National Security Law Journal, 278 (2015), p. 301 ss., oggetto in seguito di pubbliche scuse dell’editore.

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azioni a quelle propriamente belliche e pertanto suscettibili, nelle valutazioni intese a stabilire reazioni appropriate, di indurre l’adozione di misure non necessariamente della medesima specie ed eventualmente anche di natura “cinetica”. Tale approccio è reso possibile, sebbene dal punto di vista meramente teorico, dalla genericità dei criteri che consentono di stabilire quando un civile prende attivamente parte alle ostilità e da un concetto di proporzionalità che guarda alle “conseguenze” dell’azione in termini militari. In una simile distorta prospettiva, un’azione giudiziaria vittoriosa intesa a prevenire l’attività di volo di una specifica classe di velivoli per ragioni di sicurezza, potrebbe essere assimilata nelle conseguenze ad un’incursione armata negli hangar con il medesimo fine. Il cliché consiste, invece, nella costante adduzione di esempi di Lawfare che includerebbero il ricorso alle giurisdizioni penali internazionali, numerose azioni legali poste in essere a margine della contrapposizione Israelo-Palestinese e le sanzioni economiche statunitensi nei confronti dell’Iran. In realtà, i suddetti cliché inducono a trascurare parte delle prassi adottate dal Dipartimento della giustizia statunitense e gran parte della dimensione economico-finanziaria in cui si sviluppa quotidianamente la contrapposizione d’interessi tra gli Stati che è trasversale a plurimi “campi di battaglia” includenti arene come la world trade organization (WTO) e i panels istituiti per esaminare l’imposizione di dazi o altre restrizioni, gli arbitrati in materia di protezione degli investimenti ecc. Infine, non si può sottacere che la “visione” della costante contrapposizione politico-economica degli Stati con gli “occhiali del Lawfare” comporta una completa relativizzazione del diritto, ridotto, nell’utilizzo (definito “Lawfare aggressivo”), a strumento per la realizzazione d’interessi, la prevaricazione e l’usurpazione di concetti universali che molto si avvicinano all’idea di Carl Schmitt di ciò che è politico 10. Prescindendo dagli aspetti sicuramente discutibili delle teorizzazioni del diritto come strumento per realizzare fini militari, per la presente trattazione, si intende trarre spunto, con il necessario distacco, dagli usi strumentali o spregiudicati delle normative citate intese a ricercare un risultato strategico o politico 11 per incidere su elementi ritenuti abilitanti per l’opponente. Quanto precede, al fine di verificare se tali usi potrebbero, di ritorno, essere riprodotti per contrastare sul piano civilistico organizzazioni criminali.

10

C. SCHMITT, Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 54. Al riguardo, v. D. LUBAN, Carl Schmitt and the Critique of Lawfare, in Case Western Reserve Journal of International Law 43, 2011, p. 4. 11 Al riguardo si è rivelato utilissima la recente opera di O.F. KITTRIE, Lawfare. Law as a Weapon of War, Oxford University Press, New York, 2016.

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3. Ipotesi di intervento su fattori abilitanti per la commissione di reati. Nella terminologia consueta della pianificazione delle operazioni o campagne militari è d’uso il riferimento ai Centers of Gravity (COG) in genere distinti in “militari” e “civili”, quali elementi essenziali della struttura e dell’operatività del nemico o opponente. Tali elementi sono talora sinteticamente descritti come, per esempio, la “leadership militare”, il “supporto della popolazione civile” o anche la “capacità di sostentamento delle operazioni”. In una ragionevole trasposizione di tale approccio nel contrasto ad un’organizzazione criminale, i COG di questa potrebbero ragionevolmente includere elementi come “accesso ai servizi bancari”, “atteggiamento omertoso di una popolazione civile”, ma anche aspetti più inquietanti che potrebbero essere presi a prestito dalle operazioni di “contro-insorgenza” come “prestigio presso la popolazione civile”, “inefficienza (o corruzione) delle istituzioni”, “efficienza della rete di informatori”, “controllo di parte del territorio”. Nell’ambito dei civil remedies previsti dal RICO e dall’ATA, ma anche di altri rimedi apprestati negli Stati Uniti nel cosiddetto Alien Torts Statute (ATS), si è assistito probabilmente anche a una serie di suddetti rimedi per “influenzare” fattori abilitanti di una parte avversa. Il riferimento è ad iniziative rivolte nei confronti di: – banche e fornitori di servizi finanziari utilizzati per effettuare pagamenti a gruppi di terroristi, ma anche a singoli terroristi suicidi e ai loro familiari; – fornitori o produttori di mezzi strumentali per le attività che si volevano interdire; un caso interessante è rappresentato dalla causa avviata nei confronti del produttore delle ruspe utilizzate dalle forze armate israeliane per le demolizioni delle case nelle zone occupate dai parenti di una vittima rimasta uccisa durante una di tali attività; – fornitori di servizi essenziali per specifiche attività. Quello dei fornitori di servizi “abilitanti” è probabilmente il settore per il quale risultano minori precedenti e che, pur rilevante, è rimasto in un ambito “precontenzioso”. Possibili ipotesi potrebbero riguardare i fornitori di servizi di comunicazione criptati utilizzati da organizzazioni criminali come strumenti di comando e controllo, i mezzi di comunicazione satellitari utilizzati da quanti sfruttano traffici illegali via mare.

4. I singoli filoni contenziosi. Le ipotesi di azioni giudiziarie in sede civile nei confronti di soggetti ritenuti a vario titolo responsabili del supporto materiale di attività criminose, menzionate nel precedente paragrafo, hanno conosciuto un differente livello 133

di approfondimento e sviluppo giurisprudenziale con una preminenza dei contenziosi avviati verso le banche.

4.1. Le banche e la responsabilità per l’assistenza sostanziale ad atti di terrorismo internazionale. Le azioni giudiziarie avviate nei confronti di banche utilizzate per effettuare pagamenti a terroristi internazionali, costituiscono in un certo senso, l’evoluzione privatistica dell’idea di “inseguire il denaro”. La finalità non è, in questo caso, la ricerca di soggetti penalmente responsabili, ma piuttosto l’estensione soggettiva dell’ambito di quanti sono tenuti per il risarcimento dei danni causati da atti di terrorismo e lo stimolo del sistema bancario nella ricerca di maggior attenzione da parte dello stesso nell’effettuazione di pagamenti che permettono la commissione di atti criminosi. La giurisprudenza sul punto non può ancora considerarsi consolidata 12 quanto ai requisiti materiali e soggettivi per un’affermazione di responsabilità e si rilevano numerosi contrasti giurisprudenziali. Ciò è anche dovuto al fatto che, come si è accennato in precedenza, le ipotesi di “complicità” nell’ATA sono state in parte anticipate dalla giurisprudenza poiché l’estensione normativa a situazioni di responsabilità ancillare risale all’adozione del JASTA. Pertanto, all’interno della stessa responsabilità primaria (quella del perpetratore per intenderci) della banca, si assiste a divergenze interpretative, richiedendosi alternativamente lo stato mentale di una violazione intenzionale delle disposizioni che puniscono il terrorismo internazionale, e quella della consapevolezza della fornitura di servizi finanziari a un soggetto dedito ad atti di terrorismo. Una recente analisi ha individuato tre situazioni nelle quali le cause civili rientranti nell’ATA, sono avviate nei confronti di istituti bancari 13: a) fornitura di servizi finanziari che includono servizi cosiddetti “non routinari” a diretto beneficio di organizzazioni terroristiche; b) servizi finanziari “routinari” con organizzazioni terroristiche, come i servizi di home banking; c) violazione di leggi in materia di transazioni finanziarie con Stati che sponsorizzano il terrorismo. Escludendo l’ultima categoria che, pur interessante è nondimeno irrilevante ai fini di una verifica della possibilità di applicare al contrasto della criminalità organizzata principi sviluppati in ambito giurisprudenziale, conviene bre12

Il primo verdetto di colpevolezza di una banca nell’ambito di un procedimento per civil remedies sotto l’ATA è rappresentato dalla decisione del 2015 della U.S. District Court for the Eastern District of New York, in Linde v. Arab Bank, PLC, 97 F. Supp. 3d 287. 13 O.G. CHALOS, Bank Liability Under the Antiterrorism Act: The Mental State Requirement Under § 2333(a), in 85 Fordham Law Review, 2016, p. 306.

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vemente accennare alle situazioni sub a) e b). Le limitazioni insite nei civil remedies riguardano la nazionalità dell’attore (necessariamente statunitense) ed i poteri dell’Attorney General di inibire un’azione risarcitoria. Per dimostrare la cosiddetta proximate clause la parte attrice dovrà dimostrare che l’azione addebitata alla banca ha rappresentato un fattore sostanziale nella sequenza causale dell’atto di terrorismo e che l’atto poteva ragionevolmente prevedersi al momento della fornitura dei servizi finanziari. La natura routinaria dei servizi finanziari offerti non è di per sé una causa di esclusione della responsabilità. Pertanto, la fornitura di servizi finanziari nella consapevolezza che gli stessi erano destinati a trasferire somme di denaro ad attentatori suicidi nell’ambito di una policy intesa a costituire un’assicurazione per il sostentamento dei familiari superstiti di questi è stata ritenuta sufficiente ad un’affermazione di responsabilità. La categoria dei servizi finanziari “non routinari” sembra invero essere costruita più che sull’essenza dei suddetti servizi, sul rapporto tra la banca ed il cliente e sulle interazioni con quest’ultimo e supporta semmai l’accertamento dello stato mentale della consapevolezza del supporto fornito 14.

4.2. La fornitura di beni strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale. Il caso della fornitura di beni menzionato nel precedente paragrafo non si riferisce ad atti di terrorismo, ma è stato, invece, esaminato nell’ambito di una causa promossa negli Stati Uniti dai parenti di una persona asseritamente deceduta durante l’impiego di ruspe per la demolizione di edifici in Palestina da parte delle forze armate israeliane 15. Impiego che le parti attrici hanno qualificato come crimine di guerra e violazione di RICO. La domanda della parte attrice è stata rigettata e relativamente all’asserita complicità: la corte distrettuale ha ritenuto che la mera vendita di attrezzature non comportasse un atto di assistenza sostanziale alla commissione di un reato. Nel caso di specie, l’approccio in favore dell’iniziativa commerciale si spinge probabilmente troppo oltre, in quanto nella decisione si afferma che, anche in presenza della consapevolezza della destinazione del bene alla commissione di un reato, il venditore non condividerebbe l’intento criminale dell’acquirente. 14 A. BITTERLY, Can Banks Be Liable for Aiding and Abetting Terrorism?: A Closer Look into the Split on Secondary Liability Under the Antiterrorism Act, in 83 Fordham Law Review, 2015, p. 3408 ss. 15 Il riferimento è alla decisione United States District Court, Western District of Washington at Tacoma, Cynthia Corrie v. Caterpillar Inc., C05-5192FDB, Order Granting Defendant Caterpillar’s Motion to Dismiss, November 22, 2005.

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Opportunamente de-politicizzata, ossia presentata in un contesto che non coinvolge uno Stato straniero e questioni di comity, una domanda relativa alla fornitura di beni strumentali alla commissione di reati appare suscettibile di un differente e più favorevole destino.

4.3. La fornitura di servizi strumentali alla commissione di crimini quale assistenza sostanziale. Il “filone” delle azioni “intimidatorie” nei confronti di fornitori di servizi differenti da quelli bancari, come accennato in precedenza, è attualmente in una fase più sperimentale. La casistica è perlopiù riferita a citazioni notificate a fornitori di servizi quali l’assicurazione di navi, comunicazioni satellitari, ma anche social network utilizzati per l’incitazione ad atti di terrorismo. La funzione “intimidatoria” una volta resa nota, per esempio, all’assicuratore la destinazione e l’utilizzo di una nave plausibilmente destinata a trasportare beni destinati a gruppi di terroristi sembra effettivamente essere stata efficace. Come, del resto, le azioni nei confronti di fornitori di sistemi di comunicazione satellitare 16.

5. Conclusioni. Le ipotesi di azioni giudiziarie in sede civile sul modello del civil RICO e dell’ATA presuppongono un sistema giudiziario funzionale e ragionevolmente rapido. Al di là della plausibile speculazione insita nella ricerca di risarcimenti da soggetti, di massima, più solvibili dei diretti autori di reati, la prassi menzionata nel precedente paragrafo appare ragionevolmente “trasponibile” al contrasto con mezzi civili della criminalità organizzata. Quanto precede, almeno rispetto ai fornitori di servizi strumentali alla commissione di reati. Le tattiche adottate per fermare la seconda Gaza Flottilla ben potrebbero essere adottate per il contrasto dei traffici illeciti via mare, almeno di quelli effettuati con navi regolarmente registrate. Similarmente la ricerca di responsabilità tra i fornitori di servizi di comunicazione, quali le comunicazioni satellitari, ma anche le applicazioni che permettono di comunicare in maniera sicura attraverso sistemi di cifratura, potrebbero in effetti meritare un approfondimento.

16 Una panoramica delle iniziative poste in essere allo Shurat HaDin-Israel Law Center è riportata da O.F. KITTRIE, Lawfare. Law as a Weapon of War, cit., p. 311 ss.

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CAPITOLO VI

PRIME NOTE SULL’IMPROBABILE RIFORMA PENITENZIARIA: SALVO LO “STATUTO SPECIALE DEI MAFIOSI” di Luca Barontini

SOMMARIO: 1. La proposta della Commissione Giostra: l’entusiasmo post Stati Generali dell’esecuzione fra i confini imposti dalla legge delega. – 2. I criteri della legge n. 103/2017 per lo “statuto dei mafiosi”: un legislatore delegato con le mani legate. – 3. Il futuro art. 4-bis ord. penit.: le due proposte. – 4. Lo scioglimento del cumulo. – 5. La parola agli elettori …

1. La proposta della Commissione Giostra: l’entusiasmo post Stati Generali dell’esecuzione fra i confini imposti dalla legge delega. Presso la casa circondariale di Rebibbia, nell’aprile 2016, si è celebrata la conclusione del più grande consesso di studiosi dell’esecuzione penale. Per la prima volta nella «storia penitenziaria italiana» 1, si sono riuniti politici, teorici e pratici nel comune intento di emendare le norme dell’ordinamento penitenziario nell’ottica di rimettere al centro della questione penitenziaria la rieducazione del condannato piuttosto che il suo contenimento. L’inumanità 2 del sistema carcerario nostrano, del resto, è nota: non solo per «l’umiliante condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo» 3, ma al1

A. CESARO, Gli Stati Generali dell’esecuzione penale: una lettura educativa, in Studium Educationis, n. 2, giugno 2017, p. 71. 2 L’opposto, cioè, di quanto prescrive l’art. 3 CEDU che, appunto, vieta i trattamenti inumani e degradanti. 3 G. GIOSTRA, Ragioni e obiettivi di una scelta metodologicamente inedita, intervento alla cerimonia di conclusione degli Stati Generali sull’esecuzione penale (Roma, 18-19 aprile 2016), in www.questionegiustizia.it. Il riferimento è, all’evidenza, alla nota sentenza Torreggiani (Corte eur., Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10, in www.giurisprudenzapenale.it, 1 aprile 2013, con commenti, fra gli altri, di G. TAMBURINO, La sentenza Torreggiani ed altri della Corte di Strasburgo, in Cass.

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tresì per una ormai intollerabile forma mentis che continua ad individuare nella detenzione ordinaria l’unica e principale modalità di espiazione della pena 4, in una logica di brutale retribuzione piuttosto che virtuosa rieducazione. Gli Stati Generali dell’esecuzione penale rappresentano la prima grande presa di coscienza del “problema carcere”: dopo anni di palliativi, la volontà del Guardasigilli ha permesso di ricercare una cura che, al netto della sempre maggiore e sempre più mediatica questione sicurezza, assai remunerativa in tempi di campagna elettorale, offra soluzioni stabili nel tempo in grado di rafforzare il sistema immunitario del “paziente carcere” 5. Lo scopo degli Stati Generali, quindi, è stato quello di «sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine alla riforma dell’esecuzione penale e di preparare l’habitat sociale per l’attuazione della Delega, nella consapevolezza che nessuna novità legislativa farà mai presa sulla realtà, se prima le ragioni che la ispirano non avranno messo radici nella coscienza civile del Paese» 6. Venendo alla tematica trattata nel presente volume, la criminalità organizzata, occorre interrogarsi su quali siano gli spunti che il consesso di studiosi ed operatori ha offerto allo “statuto” del condannato “mafioso”, dovendosi però rammentare che il mandato degli Stati Generali ha avuto il limite di percorrere un sentiero già tracciato dai “paletti” della legge delega (l. 23 giugno 2017, n. 103). Tale limite, tuttavia, non ha vincolato il gruppo multidisciplinare nella stessa misura in cui la legge delega circoscriverà il raggio di azione del legislatore delegato. pen., 2013, p. 11; F. VIGANÒ, Sentenza pilota della Corte Edu sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.penalecontemporaneo.it, 9 gennaio 2013) con cui il giudice europeo pronunciò una netta (e sacrosanta) censura del sistema penitenziario italiano, la cui incapienza violava l’art. 3 CEDU. 4 F. FIORENTIN, La conclusione degli “Stati Generali” per la riforma dell’esecuzione penale in Italia, in www.penalecontemporaneo.it, 6 giugno 2016. 5 M. PELISSERO, Gli stati generali sull’esecuzione penale: i problemi noti messi a nudo e la necessità di risposte di sistema, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1125, per cui, a differenza della riforma del 1975, gli Stati Generali «non costituiscono, invece, un momento di svolta, ma predispongono le linee di riforma del sistema penitenziario, offrendo un quadro chiarissimo dei problemi che la riforma del 1975 ed i successivi interventi legislativi non hanno risolto, anzi hanno per molti versi aggravato. Intervengono, infatti, in un momento che si colloca per così dire al termine dell’emergenza carceri, ossia dopo la condanna dell’Italia per trattamenti inumani e degradanti da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani, 8 gennaio 2013) e gli interventi apprestati in via di urgenza (sempre per decreto legge) per ridurre la pressione carceraria e rispondere alle richieste dei giudici di Strasburgo (D.L. n. 78/2013 conv. in L. n. 94/2013; D.L. n. 146/2013 conv. in L. n. 10/2014; D.L. n. 92/2014 conv. in L. n. 117/2014). A fronte di linee di politica criminale che avevano forsennatamente aumentato i livelli di carcerizzazione, la necessità di imprimere una inversione di marcia era questa volta imposta dall’alto». 6 G. GIOSTRA, Premessa, in Carceri: materiali per la riforma. Working paper, in www.penalecontemporaneo.it, 15 giugno 2015, p. III.

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Non sono mancate, infatti, fra le relazioni conclusive dei singoli tavoli, prese di posizione, talvolta nette, dirette a superare, come prevede appunto la delega, ogni automatismo e preclusione, fino a giungere ad un ripensamento dell’art. 4-bis ord. penit., se non – addirittura – alla sua abrogazione, in ragione del fatto che «ogni presunzione assoluta di pericolosità contrasta con il finalismo rieducativo della pena e con il principio dell’individualizzazione del trattamento; la possibilità di accedere ad una misura penale di comunità deve essere sempre valutata nel caso concreto. Inoltre, ogni itinerario di recupero va prefigurato in modo tale da ampliare progressivamente gli spazi di libertà del condannato, qualunque sia il punto di partenza, con accesso, almeno negli ultimi mesi di detenzione, all’affidamento in prova al servizio sociale» 7. In realtà, le conclusioni del Tavolo tematico n. 16 8, quello che – per competenza – aveva il compito di elaborare proposte volte all’agevolazione dell’accesso ai benefici penitenziari, hanno evidenziato la necessità di mantenere le due direttrici di fondo su cui si muove la questione “ostatività” per i condannati per reati di mafia e terrorismo, salvaguardando la premialità sottesa all’art. 58-ter ord. penit. e i profili preventivi e di sicurezza di cui all’art. 4-bis ord. penit. Si è, però, proposta una bonifica “normativa” volta ad estirpare dall’elenco della norma tutte le ipotesi criminose che non dovrebbero ricevere un trattamento differenziato, mantenendo all’interno dell’articolato il regime speciale per i reati sessuali. Tale eccezione, peraltro, ci sembra più funzionale alla digeribilità mediatica della modifica piuttosto che sorretta da ragioni di coerenza. La proposta degli Stati Generali si è quindi orientata sulla trasformazione della presunzione di pericolosità da assoluta in relativa per gli autori dei delitti di mafia, presunzione superabile dal tribunale di sorveglianza solamente qualora risulti l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Per tali motivi, la riforma dovrebbe incidere anche sull’art. 58-ter ord. penit., affiancando alle attuali ipotesi di collaborazione effettiva, collaborazione “impossibile” o “irrilevante”, «una nuova fattispecie idonea a superare le preclusioni normative poste dall’art. 4-bis, ord. penit., nel senso di consentire al giudice – previo esame e valutazione delle ragioni dell’assenza di collaborazione nel singolo caso – e in presenza di condotte concretamente riparative, di applicare i benefici penitenziari anche in assenza di collaborazione effettiva e sempre che risulti l’assenza di collegamenti attuali del soggetto con la criminalità organizzata o eversiva» 9. 7 Cfr. Conclusioni del Tavolo tematico n. 12, Misure e sanzioni di comunità, in www.giustizia.it, p. 22. 8 Cfr. Conclusioni del Tavolo tematico n. 16, Il Trattamento. Ostacoli all’individuazione del trattamento rieducativo, in www.giustizia.it. 9 F. FIORENTIN, La conclusione degli “Stati Generali”, cit., p. 11.

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Come sovente accade, il tema trattato dagli Stati Generali ha trovato terreno fertile di inquinamento nella, a quanto pare imminente, campagna elettorale, sicché l’approvazione finale della legge Orlando, contenente al suo interno la c.d. delega penitenziaria, ha dovuto misurarsi con ferree opposizioni a qualsivoglia provvedimento di lassismo nei confronti dei turbatori della pace sociale. Al netto di ciò, non può tacersi il valore del contributo offerto dagli Stati Generali che, pur operando, per la tematica che ci occupa, in un terreno quantomai insidioso e con “le mani legate”, e nonostante la paventata scomparsa nel dimenticatoio 10, hanno certamente raggiunto lo scopo di rafforzare il substrato mediatico-culturale per l’approvazione di una riforma storica, il cui passo decisivo è ora rimesso al Governo in carica ancora per pochi mesi. Come noto, con d.m. 19 luglio 2017 il Ministro della giustizia ha nominato la commissione presieduta dal Prof. Glauco Giostra proprio al fine di attuare la delega contenuta nella legge 23 giugno 2017, n. 103. Di recente, ne sono state rese pubbliche le bozze.

2. I criteri della legge n. 103/2017 per lo “statuto dei mafiosi”: un legislatore delegato con le mani legate. Il legislatore delegante, pur ricorrendo a criteri «che appaiono peraltro estremamente generici» 11, ha optato per un netto mantenimento del regime differenziato per i condannati per reati di particolare gravità. Il primo criterio direttivo, espressione di tale scelta, è quello di cui al comma 85, lett. b), laddove, nel prevedere «la revisione delle modalità e dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse», limita l’operatività delle modifiche «per i casi di eccezionale gravità e pericolosità» e «in particolare per le condanne per i delitti di mafia e terrorismo anche internazionale». La delega, pertanto, sembrerebbe far salvo il regime differenziato fra condannato comune e condannato mafioso, senza peraltro che sia dato comprendere senza margini residuali di dubbio se i casi di eccezionale gravità e pericolosità siano solamente quelli inerenti le condanne per delitti di mafia e terrorismo oppure questi ultimi reati costituiscano l’ipotesi principale – ma non l’unica – della revisione delle modalità di accesso ai benefici penitenziari. Il punto focale della riforma dell’ordinamento penitenziario per il condan10 G. GIOSTRA, Che fine hanno fatto gli Stati Generali?, in www.penalecontemporaneo.it, 20 aprile 2017. 11 A. DELLA BELLA, Riforma Orlando: la delega in materia di ordinamento penitenziario, in Dir. pen. cont., 6, 2017, p. 250.

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nato mafioso è offerto dal criterio di cui al comma 85, lett. e), tendente all’eliminazione di automatismi e preclusioni «che impediscono ovvero ritardano, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e la differenziazione dei percorsi penitenziari in relazione alla tipologia dei reati commessi e alle caratteristiche personali del condannato, nonché revisione della disciplina di preclusione dei benefici penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo». Come per il criterio di cui alla lett. b), il legislatore delegante salva «i casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati». Mal si comprende, tuttavia, la ragione di una diversa scelta terminologica fra il criterio di cui alla lett. b) e quello di cui alla lett. e), laddove, nel collegare i casi di eccezionale gravità e pericolosità e i delitti di mafia e terrorismo, si è opinato, anziché utilizzare l’espressione «e in particolare per», il diverso inciso «e comunque». In tal modo, l’indicazione del legislatore delegante è ancora meno chiara di quella offerta alla lett. b): non si capisce, infatti, il rapporto fra i casi di eccezionale gravità e pericolosità e i delitti di mafia e terrorismo. In buona sostanza, al netto delle non irrilevanti sfumature terminologiche prescelte, la linea complessiva impartita dal legislatore è stata quella di mantenere uno “statuto” speciale per i condannati per delitti di mafia e terrorismo, lasciando tuttavia aperta la possibilità che l’art. 4-bis ord. penit. osti all’accesso alle misure alternative alla detenzione anche per i condannati per reati comuni che, per quanto gravi, dovrebbero considerarsi ultronei al c.d. doppio binario. Fra le soluzioni di attuazione della delega, riteniamo che la preferibile sia quella, recentemente riproposta da attenta dottrina 12, volta a riordinare l’art. 4bis ord. penit. lungo due direttive: da una parte, epurare l’elenco di cui alla norma in esame da tutte quelle ipotesi che nulla hanno a che vedere con i reati di mafia e terrorismo, riconducendo, in tal modo, «l’art. 4-bis alla sua originaria ispirazione»; dall’altra, abbandonando la radicalità del criterio della collaborazione a favore di approcci meno rigorosi ed invertendo il segno dell’ulteriore requisito: non dovrebbe più essere necessaria l’acquisizione di elementi che escludano l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma dovrebbe essere sufficiente la mancata acquisizione di elementi che ne attestino la sussistenza, eliminando, in tal modo, la probatio diabolica della prova negativa.

3. Il futuro art. 4-bis ord. penit.: le due proposte. La Commissione incaricata dal Governo di elaborare la bozza per lo schema del decreto legislativo ha dovuto misurarsi con una delega di «non agevole 12

F. SIRACUSANO, Modifiche all’art. 4-bis ord. penit., in G. GIOSTRA-P. BRONZO (a cura di), Proposte per l’attuazione delle delega penitenziaria, in www.penalecontemporaneo.it, 15 luglio 2017, p. 189 ss.

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decifrazione» 13, sicché, in via preliminare, si è reso necessario riportare ad intellegibilità le indicazione del delegante. Relativamente semplice è stato il ricorso al canone della ragionevolezza per affermare che la clausola di salvezza («casi di eccezionale gravità specificatamente individuati e comunque per i delitti di mafia e terrorismo») non è limitata alla sola seconda ipotesi contemplata dal criterio (l’ergastolo ostativo), bensì alla generalità dei reati per i quali è previsto il divieto di concessione dei benefici penitenziari. A binari meno obbligati, invece, è stato il percorso relativo all’accezione da offrire al termine «comunque», frapposto tra «i casi di eccezionale gravità e pericolosità» e «i delitti di mafia e terrorismo», atteso che la congiunzione è suscettibile di una duplice valenza: «“integrativa” (sì da predisporre un cumulo fra i “casi di eccezionale gravità e pericolosità specificatamente individuati” e i “delitti di mafia e terrorismo”) ovvero “specificativa” (così che i “delitti di mafia e terrorismo” costituiscono il nucleo essenziale e inderogabile dei “casi di eccezionale gravità e pericolosità” per i quali le preclusioni e gli automatismi devono persistere)». La Commissione, pertanto, è stata costretta ad elaborare due diverse proposte, entrambe conformi ai criteri contenuti nelle delega. La proposta che, per espressa ammissione del consesso di studiosi, meglio si concilia con le sensibilità dei suoi membri è quella diretta a circoscrivere l’automaticità della preclusione «ai soli delitti associativi mafiosi o terroristici e a quelli commessi al fine di agevolarne gli scopi e realizzarne le finalità». Come riporta la relazione illustrativa, l’operazione «è guidata da una logica di tipo sistematico ed è attuata anche attraverso un definitivo accantonamento dall’orbita delle preclusioni e degli automatismi di alcune fattispecie irragionevolmente inseritevi». Si perverrebbe, in tal modo, ad un riallineamento alle logiche sottese all’art. 275 comma 3 c.p.p. in tema di presunzione di pericolosità nelle misure cautelari. Per tali reati, i soggetti condannati avrebbero la possibilità di accedere alle misure alternative solo previa collaborazione con la giustizia, salvo che questa sia impossibile o irrilevante. Si creerebbe, pertanto, un doppio binario nella preclusione: da una parte, per i delitti di criminalità organizzata in senso stretto, i cui condannati potrebbero eludere la preclusione nel solo caso di collaborazione e purché siano stati acquisiti elementi che escludano l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; dall’altra, permarrebbe un binario soft (comma 1-ter), per cui l’accesso ai benefici penitenziari per reati gravi ma non di stampo mafioso o terroristico sarebbe fruibile «salvo che siano stati acquisiti elementi tali da ritenere sussistente l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ter13

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Cfr. Proposta della Commissione Giostra, p. 50.

roristica o eversiva», assegnando all’autorità giudiziaria l’onere di allegazione di elementi in grado di dimostrarne la sussistenza. La proposta a) interviene anche sui commi 2, 3 e 3-bis dell’art. 4-bis ord. penit. La Commissione, conscia del fatto che la comunicazione di cui al comma 3-bis si risolve in una sorta di parere vincolante insuscettibile di qualsivoglia controllo giurisdizionale, propone di abrogare detto comma, trasferendo la potestà del procuratore delle Repubblica nel comma 2 e, di fatto, trasformandolo in un parere non più vincolante. La proposta b), come anticipato, interpreta con valenza «integrativa» il termine «comunque», sicché i casi di eccezionale gravità e pericolosità non devono ritenersi limitati ai delitti di mafia e terrorismo. La Commissione, peraltro, si premura di precisare che esula dal mandato assegnatole integrare o modificare i suddetti casi, dovendosi pertanto avere riguardo a quelli già indicati nell’attuale art. 4-bis ord. penit. Nell’ottica di riportare il meccanismo ostativo alla sua ratio originaria, la preclusione opererebbe per i condannati per i delitti di mafia e terrorismo e per «coloro che abbiano rivestito ruoli chiave all’interno di altre tipologie di organizzazioni criminali». I casi di eccezionale gravità e pericolosità ricorreranno, pertanto, in presenza di un duplice limite: «la necessaria sussistenza di una condanna per una fattispecie associativa e per un ruolo rilevante in seno al sodalizio». In buona sostanza, per l’ostatività del nuovo comma 1 non sarà sufficiente una condanna, ad esempio, per i reati di prostituzione minorile di cui all’art. 600-bis c.p., tale condotta dovrà essere lo scopo del sodalizio all’uopo operante. La norma viene così epurata dalle «ipotesi mono-soggettive (incoerenti con il congegno preclusivo costruito dalla legge)» e da «quelle di mera partecipazione alle associazioni in ruoli secondari, non annoverabili fra i casi “eccezionalmente gravi”». Le suddette epurazioni sono state trasferite nel comma 1-ter, «così da destinarle a un regime di particolare cautela fondato non su rigidi automatismi, ma su vagli più penetranti della magistratura, tesi a verificare, anche con l’obbligatorio ausilio delle forze dell’ordine, che non vi siano “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”». Così come per la proposta sub a), tale sussistenza cambia di segno: non è più richiesta l’acquisizione di elementi tali da escluderla, ma l’ostatività incombe nel caso in cui siano acquisiti elementi tali da farla ritenere sussistente. Per quanto concerne i commi 2, 2-bis e 3, le due proposte sono identiche.

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4. Lo scioglimento del cumulo. Seguendo una prassi ormai tracciata dalla giurisprudenza 14, la Commissione propone di inserire l’art. 4-ter ord. penit. sulla possibilità di sciogliere il cumulo: se il titolo esecutivo contiene condanne per uno dei reati di cui all’art. 4-bis ord. penit., queste si considerano separatamente ed espiate per prime. In buona sostanza, dopo aver scontato la pena per il reato ostativo, il condannato rientra nel circuito ordinario, potendo usufruire dei benefici penitenziari. La novella, chiaramente, non inciderà sul divieto di scioglimento nel caso di cui all’art. 41-bis comma 2, ultimo periodo ord. penit., poiché, appunto, escluso – expressis verbis – da tale disposizione. La ratifica dell’orientamento giurisprudenziale rappresenta un indubbio elemento di novità nell’ottica di superare gli automatismi e le preclusioni di cui al criterio della lett. e), anche ricorrendo alla massima delimitazione delle ipotesi di ostatività.

5. La parola agli elettori … Nei giorni in cui si stanno redigendo queste brevi note (fine dicembre 2017), i media affermano che, a stretto giro, il Presidente della Repubblica potrebbe annunciare lo scioglimento delle Camere, sicché, a breve, dovrebbero essere indette le elezioni per il rinnovo del Parlamento. L’attuazione della delega sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, pertanto, entrerà – necessariamente – nel “calderone” pre-elettorale. Non si tratta, a nostro avviso, di una riforma “copernicana” posto che, per quanto significativo, resta comunque un intervento nell’epoca del rigido e antisociale pareggio di bilancio e delle clausole di invarianza finanziaria, sicché ben difficilmente le buone intenzioni del legislatore e, soprattutto, degli esperti degli Stati Generali verranno trasformate in realtà. L’investimento di risorse per realizzare gli obiettivi, questo sì, sarebbe “copernicano”. Gli stanziamenti predisposti nella legge di bilancio 2018 non appaiono di certo sufficienti all’ambizioso scopo. Ciononostante, non può tacersi che l’approvazione definitiva di una riforma che, di fatto, si propone di limitare il ricorso alla detenzione ordinaria rap14

Ex multis, Cass., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14, in Cass. pen., 2000, p. 570; Cass., Sez. I, 4 maggio 2017, n. 24104, in www.dirittoegiustizia.it, 16 maggio 2017; Cass., Sez. I, 22 dicembre 2014, n. 53781, in C.e.d. 261582. Cfr. G. GUARGLIARDI-M. MOSCARINI, Reati ostativi e liberazione anticipata speciale. Un precedente degno di nota sulle modalità di scioglimento fittizio del cumulo giuridico ai fini della concessione del beneficio penitenziario, in Cass. pen., 2017, p. 2405; G. SILVESTRI, Benefici penitenziari e scioglimento del cumulo, in Foro it., 2011, c. 209; C. RENOLDI, La Corte di cassazione sulla legittimazione al reclamo in materia di rigetto dell’istanza di espulsione come sanzione alternativa alla detenzione, in Cass. pen., 2013, p. 3676.

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presenta un argomento estremamente delicato in tempi di campagna elettorale, suscettibile di essere strumentalizzato ed in grado di “spostare” un gran numero di voti. Entreranno sicuramente nell’agone elettorale non meglio precisate istanze di “certezza della pena”, nonché la ormai pedante “questione sicurezza” a totale discapito di considerazioni dotate di ben più solida base scientifica quali l’effetto criminogeno della carcerazione e, in generale, le statistiche che affermano senza margini di dubbio che la pena espiata nelle forme ordinarie è soggetta ad un maggior tasso di recidiva. Restringendo il presente commento a quelle che sono le valutazioni dei tecnici e tralasciando le strumentalizzazioni che – inevitabilmente – vengono avanzate dai (futuri) legislatori, sembra che le critiche più marcate provengano da taluni procuratori “antimafia”, i quali hanno evidenziato la loro preoccupazione su un’asserita flessione nella lotta alle cosche, palesando – ad un tempo – avversione per entrambe le alternative proposte in attesa del vaglio da parte del Consiglio dei Ministri. Con riguardo ai reati c.d. ostativi, fra le due proposte avanzate dalla Commissione Giostra, quella che sembrerebbe aver trovato il favore del Governo è quella di cui alla lett. b), cioè la proposta che la Commissione ha dovuto – obtorto collo – avanzare, ma ben lontana dal foro interiore degli esperti. Parimenti paventata è l’introduzione dell’art. 4-ter ord. penit. sulla possibilità di sciogliere il cumulo poiché, si sostiene, tale fictio iuris rappresenterebbe una scorciatoia elusiva al regime del carcere duro di cui all’art. 41-bis ord. penit. Orbene, nessuna delle (per ora informali) critiche, per quanto comprensibili, appare del tutto convincente. Per quanto concerne lo scioglimento del cumulo, è sufficiente osservare che l’art. 4-ter ord. penit. costituirebbe la legge generale per la quale è già prevista la deroga ex art. 41-bis ord. penit. Con riferimento, invece, alle critiche alla modifica dell’art. 4-bis ord. penit., occorre ribadire che nessuna delle ipotesi avanzate dalla Commissione vuole abrogare il doppio binario dell’esecuzione della pena, ma entrambe si limitano a riportare all’ispirazione originaria la norma in esame, la cui ratio era limitare l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati per reati che presuppongono l’inscindibilità del sodalizio, salvo una netta ed espressa rottura con esso tramite la collaborazione. L’auspicio è che la scelta del momento – strategicamente ed “elettoralmente” discutibile – in cui varare la riforma non si ripercuota sulla sua approvazione, posto che i vari provvedimenti per adeguarsi ai dicta europei (c.d. “svuotacarceri”) si sono dimostrati insufficienti a risolvere il problema in una prospettiva a medio-lungo termine, diventando così improrogabile una riforma organica in grado di riportare al centro dell’esecuzione penale la rieducazione del reo, indipendentemente dal titolo di reato per cui è stato condannato.

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2017 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna 220

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