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ITINERARI MEDIEVALI PER LA DIDATTICA Collana diretta da Simone Bordini
ANDREA MARCONI
1. Severino Boezio - 2. Giovanni Scoto Eriugena - 3. Anselmo d7Aosta 4. Pietro Abelardo - 5. Alberto Magno - 6. Bonaventura da Bagnoregio 7. Sigieri di Brabante - 8. Dante Alighieri ISBN 978-88-491-3505-3
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ANDREA MARCONI
Vol. 9 PROFILI DI INTELLETTUALI MEDIEVALI Andrea Marconi
PROFILI DI INTELLETTUALI MEDIEVALI
La collana 6Itinerari Medievali per la Didattica7 :IMD; propone una serie di approfondimenti finalizzati allo studio della storia medievale nelle scuole secondarie. I volumi che la compongono, scritti da giovani studiosi variamente impegnati nella ricerca storica, sono utilizzabili con facilita` da docenti e studenti, per integrare con argomenti di taglio monografico lo studio manualistico. Il tono della collana, volutamente essenziale, non intende sacrificare la correttezza delle informazioni e l7aggiornamento scientifico. Ogni argomento affrontato e` provvisto di una stringata bibliografia orientativa di facile reperibilita` e di un minimo corredo di fonti scritte, fornite, quando necessario, in traduzione. L7iniziativa intende porsi come strumento utile per la valorizzazione dello studio della storia, disciplina indispensabile, per metodo e contenuti, alla formazione culturale, all7esercizio della critica, allo sviluppo di un maturo senso civico. Nel caso poi dell7insegnamento della storia medievale, la collana IMD riserva una attenzione tutta particolare alla correzione di alcuni luoghi comuni, ancora oggi vivi nell7insegnamento scolastico, che tendono a presentare il Medioevo come un7eta` sostanzialmente negativa e superata. L7immagine dell7eta` medievale che ci deriva invece dagli studi specialistici 9 i quali sono tenuti costantemente presenti in questa collana 9 e` una civilta` vivace e curiosa, tesa alla sperimentazione istituzionale e culturale, in continuo progresso, ma soprattutto ancora presente, con le sue tracce, nella societa` contemporanea.
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© 2011 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Tutti i diritti sono riservati. Questo volume e` protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro puo` essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti. Il presente volume e` stato pubblicato con finanziamento SSIS J Emilia-Romagna KD.M. 262/04, art.13: EIniziative di formazione degli insegnantiFL
Progetto grafico di Matilde Greci
Marconi, Andrea Profili di intellettuali medievali / Andrea Marconi Bologna: CLUEB 2011 147 pp. ; 21 cm KItinerari Medievali per la Didattica/ collana diretta da Simone Bordini; 9L ISBN 978-88-491-3505-3
CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna J Via Marsala 31 Tel. 051 220736 J Fax 051 237758 www.clueb.com
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INDICE PRESENTAZIONE INTRODUZIONE Severino Boezio Giovanni Scoto Eriugena Anselmo dHAosta Pietro Abelardo Alberto Magno Bonaventura da Bagnoregio Sigieri di Brabante Dante Alighieri
p. 7 p. 9 p. 11 p. 29 p. 45 p. 63 p. 81 p. 97 p. 115 p. 131
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PRESENTAZIONE
La collana GItinerari Medievali per la DidatticaH KIMDL intende mettere a disposizione una raccolta di percorsi finalizzati allo studio della storia medievale nelle scuole secondarie. Queste, prima ancora dellHuniversita`, sono quindi le destinatarie preferenziali J che non significa tuttavia esclusive J di questa nuova iniziativa. I volumi che la compongono, scritti da giovani studiosi variamente impegnati nella ricerca, sono utilizzabili con facilita` da docenti e studenti, per integrare con argomenti di taglio monografico lo studio manualistico. Grazie ad essi, gli studenti avranno modo di aggredire con maggiore presa alcune delle tematiche affrontate in classe dal docente, mentre questHultimo, seguendo tracce di studio razionalmente inanellate, potra` mettere a punto il proprio corso di storia medievale, arrivando a strutturarne piu` proficuamente le lezioni. Il tono della collana, volutamente essenziale, non intende per questo sacrificare la correttezza delle informazioni e lHaggiornamento scientifico. Gli autori hanno cercato di dare vita a un Medioevo risolto in ampi quadri tematici, commentato mediante una scrittura coerente con quella manualistica, mai pero` ridotta al nozionismo enciclopedico e al descrittivismo. Ogni argomento affrontato nei vari volumi e` provvisto di una stringata bibliografia orientativa di facile reperibilita` ed e` completato da un essenziale corredo di fonti,
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fornite, quando necessario, in traduzione. Un rilievo speciale e` stato assegnato alle fonti scritte, per garantirne una visibilita` migliore di quella ad esse riservata nei testi manualistici; si auspica, in tal modo, che docenti e studenti comprendano la loro importanza non soltanto per lesercizio del mestiere di storico, ma anche e soprattutto per la costruzione di ogni serio processo argomentativo, a prescindere dal suo contenuto e dai suoi obiettivi. Per questa via, lHiniziativa editoriale IMD intende contribuire alla valorizzazione dello studio della storia, disciplina indispensabile, per metodo e contenuti, alla formazione culturale, allHesercizio della critica, allo sviluppo di un maturo senso civico. Nel caso poi dellHinsegnamento della storia medievale, la collana IMD riserva una attenzione particolare alla correzione di alcuni luoghi comuni, ancora oggi vivi nellHinsegnamento scolastico, che tendono a presentare il Medioevo come un periodo storico sostanzialmente negativo e superato. Gli studi specialistici invece, tenuti per lHappunto costantemente presenti in questa collana, ci restituiscono una civilta` medievale varia, dinamica e curiosa, coraggiosamente tesa alla sperimentazione istituzionale e culturale, in continuo progresso, ma soprattutto ancora presente nella societa` odierna. Si auspica che la collana, sempre nel rispetto delle sue originarie finalita` didattiche e a partire dal suo specifico osservatorio medievistico, possa costituire un momento di riflessione sulle piu` ampie questioni collegate alla collocazione della conoscenza storica nel processo di formazione delle nuove generazioni. Simone Bordini
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INTRODUZIONE
Questo testo nasce dallHesigenza didattica di illustrare, attraverso i ritratti di alcuni intellettuali, la pluralita` di prospettive filosofiche elaborate allHinterno dellHOccidente medievale. Benche´ gli otto profili biografici qui ricostruiti presentino itinerari esistenziali molto eterogenei e non possano essere considerati paradigmatici di tutta la filosofia medievale, queste figure esibiscono alcune importanti caratteristiche comuni. Si tratta infatti di uomini di cultura pragmatici che, anche quando scelsero la via monastica, coltivarono la ricerca speculativa in stretta connessione con lHinsegnamento e con lHassunzione di responsabilita` istituzionali. Se si e` scelto di delineare le biografie di certi philosophi piuttosto che altri e` stato, in primo luogo, per la volonta` di tratteggiare la grande varieta` di contesti sociali e politici in cui, nelle diverse fasi del Medioevo, si sviluppo` il pensiero filosofico. Naturalmente, per meglio inquadrare le peculiarita` di ciascuno degli otto autori prescelti, e` stato concesso ampio spazio ai rapporti con altri pensatori medievali coevi, anche per evidenziare le contiguita` e le contrapposizioni alla base delle accese dispute dottrinali dellHepoca. Pur avendo circoscritto lHorizzonte del discorso allHOccidente cristiano, in alcuni passaggi del libro e` stato inevitabile inserire brevi digressioni sulle posizioni teoriche elaborate da esponenti di civilta` mediterranee che si svilupparono
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in relazione dialettica con lHarea culturale di lingua latina. Fu in particolare nelle aree geoculturali arabo-islamica e bizantino-ortodossa che la traduzione dei testi degli antichi si accompagno` spesso a contributi originali capaci, almeno fino al XII secolo, di influenzare in profondita` lHintellettualita` europea. In conclusione, e` opportuno precisare che, per chiarire il significato e la portata delle opere filosofiche scritte dagli autori presi in considerazione, non si poteva prescindere dalla descrizione delle istituzioni che resero possibile il loro lavoro: le corti dei sovrani, i monasteri, le scuole cattedrali, le universita`. Questo perche´, nellHEuropa medievale, i centri di cultura non erano solo i luoghi dove si custodivano e si consultavano gli scritti delle auctoritates, ma erano anche le strutture dove si costruirono le condizioni per lHelaborazione e la diffusione di nuove riflessioni filosofiche.
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Alla fine del V secolo la penisola italiana era controllata militarmente dagli Ostrogoti, una popolazione germanica che aveva ottenuto da Bisanzio il permesso di stanziarsi in Italia dopo aver sconfitto il re degli Eruli Odoacre, responsabile della deposizione dell1ultimo imperatore romano d1Occidente Romolo Augustolo. Nel regno dell1ostrogoto Teodorico il Grande, pur essendo proibiti i matrimoni misti tra le due etnie presenti sul territorio italiano, era stato costruito un clima di coesistenza pacifica basato su una precisa divisione dei compiti. Ai Germani spettava il monopolio nell1esercizio delle armi, mentre ai proprietari terrieri romani erano garantite le cariche amministrative piu` prestigiose. In questa netta distinzione tra le aree di competenza delle due etnie si formo` Anicio Manlio Severino Boezio, spesso presentato nei manuali di storia della filosofia come /l1ultimo degli antichi e il primo dei medievali0. Nato a Roma, presumibilmente nel 480, in una famiglia convertita al cristianesimo gia` dai tempi di Costantino, Boezio esibi` durante la sua vita un tale spessore culturale ed etico da apparire, in molte opere dei posteri, come un gigante rispetto ai suoi contemporanei. L1autore del De Consolatione Philosophiae fu un esponente esemplare di quella classe senatoria che poteva ancora coltivare gli studi filosofici e, nel contempo, assumere importanti incarichi istituzionali. Il padre fu due volte prefetto del pretorio d1Italia, oltre che prefetto di Roma e console; mentre la madre apparteneva alla presti-
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giosa e antichissima gens Anicia. Alla morte del padre, avvenuta intorno al 490, Boezio fu accolto in una famiglia molto influente. Del padre adottivo, Quinto Aurelio Memmio Simmaco, importante uomo politico e colto letterato, egli ebbe sempre una stima profonda, giudicandolo un maestro di vita e un vero exemplum morale. Di questo autorevole personaggio del Senato romano Boezio sarebbe divenuto anche il genero e proprio da Simmaco, che intratteneva ottimi rapporti con lNimpero dNOriente, fu incoraggiato ad approfondire la tradizione culturale in lingua greca. Prima di dedicarsi alla carriera politica, come era usuale per i giovani delle famiglie di rango senatorio, egli si reco` alla scuola di Atene, retta allNepoca dallo scolarca Isidoro. Qui trascorse alcuni anni cruciali per la sua formazione intellettuale. A questo periodo risale la sua preparazione teoretica nelle discipline di quel campo del sapere che sarebbe stato indicato da Boezio stesso come quadrivium: lNaritmetica, la geometria, lNastronomia e la musica. Nella citta` greca conobbe probabilmente anche Simplicio, autore di importanti commentari ad alcune delle principali opere filosofiche dellNantichita`. Si deve a questo filosofo eclettico il racconto di come, allNinizio del VI secolo, molti neoplatonici ateniesi cercassero di trovare punti di contatto tra la prospettiva aristotelica e quella platonica, attraverso lo studio sistematico dei due piu` celebri filosofi greci e la discussione sulle opinioni dei loro commentatori. Presso il centro dNinsegnamento ateniese Q che sara` chiuso da Giustiniano con il celebre editto del 529 Q lNapprendistato filosofico incominciava solitamente da un trattato propedeutico alla logica di Aristotele, lNIsagoge di Porfirio; per poi passare, in un secondo momento, ai dialoghi di Platone. Non a caso Boezio, nella sua autonoma rielabora-
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zione della filosofia greca, si sarebbe assunto il compito, al termine dellNesperienza ateniese, di tradurre e commentare i due massimi pensatori dellNeta` antica con lNintento di dimostrarne lNintimo accordo. Dopo aver fatto ritorno a Roma, intorno al 505, Boezio si dedico` alla realizzazione di quattro trattati concernenti le scienze del quadrivium: il De institutione arithmetica, il De institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione astronomica. In linea con le dottrine neoplatoniche, egli reputava queste quattro vie del sapere indispensabili allNapprendimento Q in una coerente progressione degli studi Q della struttura concettualmente diversificata, ma unitaria, del cosmo. A queste quattro branche della conoscenza scientifica egli avrebbe in seguito affiancato, per favorire il pieno sviluppo di tutte facolta` intellettive, le tre scienze del linguaggio alla base del trivium: la grammatica, la retorica e la dialettica. Un binomio boeziano, quello del trivio e del quadrivio, che avrebbe costituito, a partire dal IX secolo, la cornice teorica di riferimento anche per lNinsegnamento delle arti liberali nelle scuole dellNOccidente cristiano. LNintento pedagogico della trattatistica boeziana, in un periodo di crisi profonda della cultura latina, appare quello di rendere fruibile alla classe dirigente della societa` romana una strumentazione concettuale inserita in un coerente quadro filosofico. Nel gruppo dei testi dedicati alle problematiche logiche rivestono primaria importanza quelli che andranno a formare nel Medioevo la cosiddetta logica vetus: la traduzione e il commento di gran parte della logica di Aristotele e dellNIsagoge di Porfirio, nonche´ alcuni trattati composti da Boezio stesso come il De syllogismis categoricis, il De divisione, il De hypotheticis syllogismis e il De differentiis topicis. A dimo-
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strazione dellNinfluenza esercitata da questi scritti sulla riflessione filosofica medievale, basti qui ricordare che, nel commento boeziano allNIsagoge del neoplatonico Porfirio, era gia` individuato un problema filosofico, la questione degli universali, che avrebbe avuto unNenorme risonanza nella scolastica del XII secolo. Un problema che nasceva dallNesigenza di definire la vera natura dei termini universali di genere e specie Rcome, ad esempio, JanimaleK o JuomoKS, per chiarire se tutti i concetti fossero da considerare realta` effettivamente esistenti oppure, al contrario, effimere costruzioni del pensiero. Questa intensa attivita` intellettuale non impedi` a Boezio di assumere cariche politiche che prevedevano anche pesanti responsabilita`. Nel 510 fu infatti proclamato consul sine collega da parte della corte imperiale di Costantinopoli con lNapprovazione di Teodorico, il quale, nel tentativo di presentarsi come il continuatore della tradizione imperiale di Roma, aveva attribuito nuovo prestigio alle antiche magistrature romane. In virtu` di questa carica biennale, Boezio avrebbe presieduto il senato di Roma fino al 31 dicembre 511. Dopo tale incarico ebbe diritto, come patrizio, ad un seggio permanente nel senato romano e svolse, godendo di grande considerazione presso il re ostrogoto, altre importanti funzioni politiche. Negli anni del suo ininterrotto soggiorno a Roma, durato almeno fino al 522, Boezio affianco` agli impegni istituzionali unNintensa attivita` scrittoria articolata in traduzioni, commenti e trattati che sNinseriscono in un progetto culturale che passava attraverso la latinizzazione delle acquisizioni filosofiche greche. Fin dalla prefazione al trattato De instituzione arithmetica, Boezio indico` nella diffusione del patrimonio culturale greco allNinterno del mondo latino la fina-
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lita` principale del proprio lavoro. Le opere boeziane degli esordi si configurano in effetti piu` come quelle di un erudito o di un esegeta, che seleziona i migliori prodotti della cultura greca per rielaborarli in lingua latina e salvarli dai rischi derivanti dal vasto declino politico e sociale in atto. Nel periodo che precedette lNinizio del suo dramma politico ed esistenziale, Boezio scrisse anche cinque brevi e originali trattati di argomento teologico che testimoniano, da una parte, un interesse per lNanalisi razionale delle verita` di fede, dallNaltra, un impegno nella chiarificazione del concetto di Trinita` al centro di frequenti dispute teologiche oltre che di contrapposizioni e lacerazioni tra Occidente e Oriente. Particolarmente interessanti risultano le analisi sulla doppia natura Rdivina e umanaS di Cristo condotte nellNopuscolo teologico Contra Eutychen et Nestorium. Allo scopo di confutare la dottrina monofisita di Eutiche Rche attribuiva a Cristo la sola natura divina, capace di riassorbire quella umanaS e quella bifisita di Nestorio Rche vedeva in Cristo due nature e due persone connesse in unNunione puramente moraleS, Boezio giunse a elaborare un concetto di JpersonaK, intesa come Jsostanza individuale di natura razionaleK, che sarebbe stato ripreso in tutte le discussioni medievali sullNJessere personaK. Con questo genere di definizioni, Boezio rese anche piu` comprensibile quanto affermato nel Concilio di Calcedonia R451S sulla personalita` di Cristo e sNinseri` da protagonista in una controversia cristologia dalle rilevanti implicazioni culturali e politiche. Basti pensare che una possibile ricostruzione dellNalleanza tra patriziato romano e impero dNOriente, preparata dalla ritrovata unita` sul piano religioso, costituiva in Italia una temibile minaccia per i Goti di Teodorico tradizionalmente seguaci dellNeresia ariana.
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Come molte altre popolazioni germaniche, quali i Visigoti e i Longobardi, anche gli Ostrogoti avevano abbandonato, nella seconda meta` del IV secolo, gli antichi culti pagani per convertirsi allNarianesimo: una dottrina elaborata da un sacerdote di Alessandria di nome Ario R256-336S, secondo la quale Cristo era subordinato a Dio Padre ed era privo del medesimo grado di divinita`. Per questo motivo lNinsegnamento di Ario fu condannato come eretico da tutti i trecento vescovi presenti al primo concilio ecumenico organizzato da Costantino a Nicea nel 325. Il movimento ariano si diffuse prevalentemente oltre i confini dellNimpero grazie allNazione di alcuni monaci missionari che predicarono il vangelo in lingua germanica, ma lNadesione allNarianesimo e` principalmente da interpretare, anche presso i Goti stanziatisi nel territorio italiano, non tanto come una precisa scelta teologica, quanto piuttosto come un tratto caratteristico dellNidentita` etnica germanica. Sebbene la fede ariana fosse un elemento di differenziazione rispetto alla popolazione latina di confessione cattolica, inizialmente le divergenze religiose non ostacolarono troppo le relazioni diplomatiche tra guerrieri goti, accomunati dal credo ariano, e aristocratici romani di fede cattolica come Boezio. Nel 522, mentre egli ricopriva lNincarico di magister officiorum Q una carica palatina che lo costrinse ad abbandonare Roma per recarsi presso la corte di Teodorico, itinerante tra Ravenna, Pavia e Verona Q i suoi due figli furono nominati consoli. Per Boezio si tratto` del culmine di una carriera in cui percorse tutto lNordo dignitatum allNinterno dellNamministrazione statale, ma anche il momento in cui iniziarono a manifestarsi i primi contrasti con alcuni personaggi della corte teodoriciana poco inclini a mantenere quella pacifica collaborazione tra popolazione gota e
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romana che aveva connotato i primi decenni del regno di Teodorico. Nel 523 il precario equilibrio interetnico si incrino` ulteriormente quando lNimperatore Giustino I mise al bando lNarianesimo, condannandolo come eresia. Nello stesso anno, alla morte di papa Ormisda, che aveva svolto unNefficace opera di mediazione tra la componente romana e quella ostrogota, le relazioni diplomatiche tra le due etnie divennero ancora piu` difficili. Accadde cosi` che il magistrato Cipriano, in seguito al sequestro di lettere dirette alla corte dellNimpero romano dNOriente, accuso` il patrizio Albino di aver ordito un complotto ai danni del regno degli Ostrogoti. Boezio prese le difese di Albino, sostenendo che se Albino fosse stato colpevole allora egli stesso e tutto il senato lo sarebbero stati, dal momento che non avrebbe potuto macchiarsi di alcuna cospirazione senza che Boezio stesso e il senato intero ne fossero a conoscenza. Cipriano, a quel punto, non abbandono` lNaccusa; coinvolse anzi direttamente Boezio, adducendo alcune lettere falsificate nelle quali il filosofo avrebbe sostenuto la necessita` di Jrestaurare la liberta` di RomaK. Nel settembre del 524, sulla base delle accuse infondate di aver tramato contro il potere di Teodorico e di aver praticato arti magiche, Boezio fu destituito dalla sua carica, privato della liberta` e trasferito a Pavia. Senza un regolare processo, il filosofo fu condannato alla pena capitale da parte di una commissione senatoria. Tra lNinverno del 524 e lNestate del 525, Teodorico, senza ascoltare lNaccusato, rese esecutiva la condanna inflittagli da quello stesso senato che Boezio aveva orgogliosamente difeso. Analoga sorte tocco` al suocero Simmaco, giustiziato a Ravenna con lNaccusa pretestuosa di un delitto mai commesso.
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LNanno dopo, nel 526, mori` in carcere anche papa Giovanni I, al quale Teodorico aveva inutilmente imposto di intercedere presso lNimperatore Giustino I affinche´ concedesse agli ariani di essere riammessi nellNambito della Chiesa. Con queste esecuzioni, il re ostrogoto, che sarebbe morto a Ravenna nello stesso anno a causa di un improvviso malore, voleva con ogni probabilita` spaventare i cattolici latini e diffidarli dalla temuta alleanza con Bisanzio. Il processo e la condanna a morte di Boezio sNinserirono pertanto a pieno titolo in una persecuzione di carattere politico-religioso, messa in atto da Teodorico negli ultimi anni del suo regno, di cui lNautore della Consolatio non fu che la vittima piu` illustre. Durante i mesi della detenzione pavese, in attesa della sentenza definitiva, Boezio si dedico` a comporre il De consolatione philosophiae, un testo dal tono a tratti apologetico Rpoiche´ finalizzato anche a confutare le calunnie allNorigine della sua condannaS, che sarebbe diventato una delle opere filosofiche piu` lette, commentate e pubblicate di tutti i tempi. Da un punto di vista stilistico, inserendosi in una diffusa tendenza della letteratura tardoantica, Boezio scelse di mescolare brani di prosa e versi poetici. Basti qui ricordare che, nella prima meta` del V secolo, Marciano Capella aveva scritto per lNeducazione del figlio il De nuptiis Philologiae et Mercurii, un trattato didattico che avrebbe goduto di grande fortuna tra gli scolari di tutto il Medioevo. Nei nove libri delle JNozzeK sono descritti i doni portati dalle sette arti liberali in occasione del matrimonio tra la Filologia e Mercurio, personificazione dellNEloquenza. Questa allegoria di contenuto enciclopedico, che si sviluppa in un alternarsi di prosa e versi, sembra aver rappresentato un modello, dal punto di vista della struttura formale, anche per il De consolatione.
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Sotto il profilo dellNispirazione religiosa il capolavoro boeziano si discosta invece nettamente dal paganesimo di Marciano Capella, ma, poiche´ le dottrine esposte da Boezio appaiono spesso il risultato di unNoriginale rielaborazione di teorie neoplatoniche, la Consolazione fu spesso erroneamente attribuita in passato a un autore pagano. Sebbene lNultima testimonianza dellNingegno di Boezio contenga solo un breve accenno ai dogmi cristiani, studi come quello di Henry Chadwick hanno chiarito che lNautore della Consolazione della filosofia volle anzitutto mostrare che, anche in circostanze drammatiche, gli strumenti razionali offerti dalla ricerca filosofica possono procurare la necessaria consolazione agli innocenti costretti a sopportare ingiuste sofferenze provocate da uomini malvagi. Questo intento non risulta in contrasto con la religione cattolica, poiche´ nella mentalita` della tarda Antichita` il problema della conciliazione tra lNattivita` filosofica e la professione di fede non si poneva nei termini attuali. Per dirla in breve, Boezio, come i pensatori dellNAntichita` classica e come alcuni degli scolastici del XIII secolo, credeva fermamente che la filosofia fosse una scienza e, in quanto tale, fosse in grado di individuare gli elementi per una spiegazione convincente a tutte le sue domande sulla condizione umana Re sulle sue sventureS, senza dover cercare altre risposte in ambiti differenti, neppure in quello della Sacra Scrittura. Nella parte iniziale dellNopera, lNautore immagina che in prigione gli appaia la filosofia in persona, sotto le vesti di una nobildonna Jdal volto venerabile, dagli occhi scintillanti e acuti T…U dallNincarnato vivo e dal fresco vigore per quanto incredibilmente vecchiaK. E` la filosofia che lo induce a risvegliarsi da una sorta di malattia letargica e a lasciare il conforto delle muse, considerate, con atteggiamento platonico,
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Jdonnacce da teatroK. Attraverso lNimmagine della ruota, che tanto presente sara` nelle allegorie medievali, la filosofia dimostra a Boezio che i mutamenti della fortuna, prima a lui favorevoli, non influiscono sulla vera felicita` derivante dal possesso di un bene imperituro. NellNultima parte del testo, dopo aver distinto il tempo dallNeternita`, Boezio descrive lNonniscienza divina come una comprensione immediata, che si produce in un continuo presente di ogni evento passato e futuro. La forma di durata propria di Dio e`, infatti, lNeternita`, che Boezio definisce con unNespressione fortunata Jinterminabilis vitae tota simul et perfecta possessioK, ovvero Jun possesso perfetto e del tutto simultaneo di una vita senza fineK. In tale eternita` tutti gli eventi che per lNuomo sono separati dai diversi intervalli Ri fatti passati, quelli presenti e quelli futuriS si dispiegano simultaneamente in unNunica visione divina. Questa capacita` divina di intendere il futuro come qualcosa di presente non rende, tuttavia, necessarie le azioni future, poiche´ per Boezio occorre distinguere tra una necessita` JcondizionaleK Rla necessita` che la cosa si verifichi cosi` come si verifica nel momento in cui accade concretamenteS e una necessita` JsempliceK Ril fatto che la cosa non possa mai non verificarsiS. La conoscenza che Dio ha del futuro e` caratterizzata dal primo tipo di necessita`, poiche´ i comportamenti degli uomini sono e saranno dettati dal libero arbitrio. Ma la prescienza di Dio non introduce la determinazione degli eventi umani, che rimangono contingenti nella loro origine sebbene siano conosciuti come presenti nellNintelletto divino. Cosi`, dopo aver impegnato gran parte del tempo dedicato allNotium letterario ad analizzare molteplici problemi filosofici, Boezio scelse di concludere la sua ultima opera analizzando le ricadute sul piano etico che lNattivita` speculativa
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comporta. Nella parte finale di quello che diverra` il suo testamento intellettuale e` infatti sottolineata la responsabilita` collettiva di Jpraticare le virtu`K e, al contempo, la liberta` di ogni singola persona in rapporto dialettico con la provvidenza divina. FONTI IL RAPPORTO TRA PRESCIENZA DIVINA E LIBERTA` UMANA
Dopo aver trattato del male, la cui evidente presenza nel mondo ostacola il riconoscimento della giustizia divina, Boezio offre, al termine della Consolazione della Filosofia, una spiegazione a tutte le vicende umane /anche le piu` dolorose0, che permette di superare l-apparente contrasto tra provvidenza e libero arbitrio.
Duae sunt etenim necessitates, simplex una, veluti quod necesse est omnes homines esse mortales, altera condicionis, ut, si aliquem ambulare scias, eum ambulare necesse est. Quod enim quisque novit, id esse aliter ac notum est, nequit, sed haec condicio minime secum illam simplicem trahit. Hanc enim necessitatem non propria facit natura, sed condicionis adiectio; nulla enim necessitas cogit incedere voluntate gradientem, quamvis eum tum, cum graditur, incedere necessarium sit. Eodem igitur modo, si quid providentia praesens videt, id esse necesse est, tametsi nullam naturae habeat necessitatem. Atqui deus ea futura, quae ex arbitrii libertate proveniunt, praesentia contuetur; haec igitur ad intuitum relata divinum necessaria fiunt per condicionem divinae notionis, per se vero considerata ab absoluta naturae suae libertate non desinunt. Fient igitur pro-
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cul dubio cuncta, quae futura deus esse praenoscit, sed eorum quaedam de libero proficiscuntur arbitrio, quae quamvis eveniant, exsistendo tamen naturam propriam non amittunt, qua, prius quam fierent, etiam non evenire potuissent. Quid igitur refert non esse necessaria, cum propter divinae scientiae condicionem modis omnibus necessitatis instar eveniet? Hoc scilicet, quod ea quae paulo ante proposui, sol oriens et gradiens homo, quae dum fiunt, non fieri non possunt, eorum tamen unum prius quoque, quam fieret, necesse erat exsistere, alterum vero minime. Ita etiam, quae praesentia deus habet, dubio procul exsistent, sed eorum hoc quidem de rerum necessitate descendit, illud vero de potestate facientium. Haud igitur iniuria diximus haec, si ad divinam notitiam referantur, necessaria, si per se considerentur, necessitatis esse nexibus absoluta, sicuti omne quod sensibus patet, si ad rationem referas, universale est, si ad se ipsa respicias, singulare. Sed si in mea, inquies, potestate situm est mutare propositum, evacuabo providentiam, cum, quae illa praenoscit, forte mutavero. Respondebo propositum te quidem tuum posse deflectere, sed quoniam et id te posse et, an facias quove convertas, praesens providentiae veritas intuetur, divinam te praescientiam non posse vitare, sicuti praesentis oculi effugere non possis intuitum, quamvis te in varias actiones libera voluntate converteris. Quid igitur, inquies ex meane dispositione scientia divina mutabitur, ut, cum ego nunc hoc, nunc illud velim, illa quoque noscendi vices alternare videatur? Minime. Omne namque futurum divinus praecurrit intuitus et ad praesentiam propriae cognitionis retorquet ac revocat, nec alternat, ut aestimas, nunc hoc, nunc aliud praenoscendi vice, sed uno ictu mutationes tuas manens praevenit atque complectitur. Quam comprehendendi omnia visendique praesentiam non ex futurarum proventu rerum, sed ex propria deus simplicitate sortitus est. Ex quo illud quoque resolvitur, quod paulo ante posuisti, indignum esse, si scientiae dei causam futura nostra praestare dicantur. Haec enim scientiae vis praesentaria notione cuncta complectens rebus modum omnibus ipsa constituit, nihil vero poste-
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rioribus debet. Quae cum ita sint, manet intemerata mortalibus arbitrii libertas nec iniquae leges solutis omni necessitate voluntatibus praemia poenasque proponunt. Manet etiam spectator desuper cunctorum praescius deus, visionisque eius praesens semper aeternitas cum nostrorum actuum futura qualitate concurrit bonis praemia, malis supplicia dispensans. Nec frustra sunt in deo positae spes precesque, quae cum rectae sunt, inefficaces esse non possunt. Aversamini igitur vitia, colite virtutes, ad rectas spes animum sublevate, humiles preces in excelsa porrigite. Magna vobis est, si dissimulare non vultis, necessitas indicta probitatis, cum ante oculos agitis iudicis cuncta cernentis. RANICIO MANLIO SEVERINO BOEZIO, La consolazione della filosofia, a cura di C. Moreschini, Utet, Torino 2006, pp. 348-352; ora accessibile anche presso lNURL:S Vi sono infatti due specie di necessita`, lNuna semplice, come ad esempio che necessariamente tutti gli uomini sono mortali, lNaltra condizionale, come che se tu sai che un tale cammina, e` necessario che egli cammini. Cio` che uno conosce non puo` essere diversamente da come e` conosciuto; ma questa necessita` condizionale non porta con se´ quella semplice. Non da` origine alla necessita` condizionale la natura propria di una cosa, ma lNaggiunta di una condizione; nessuna necessita` costringe infatti a camminare colui che cammina volontariamente, per quanto sia necessario che, mentre cammina, egli cammini. Allo stesso modo, dunque, se la provvidenza vede qualche cosa come presente, e` necessario che essa sia, per quanto non ne abbia alcuna necessita` di natura. Orbene, Dio vede come insieme a se´ presenti quegli accadimenti futuri che provengono dalla liberta` di decisione; i quali dunque, quando siano riferiti allNintuizione divina, divengono necessari per la condizione della conoscenza divina; considerati invece in se stessi, non perdono lNassoluta liberta` della propria natura. Avverranno dunque senza alcun dubbio tutte le cose che Dio conosce in anticipo che avverranno, ma alcune di esse scaturiscono dal libe-
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ro arbitrio, e, per quanto si compiano, non per questo perdono la propria natura, in virtu` della quale, prima che si compissero, avrebbero potuto anche non realizzarsi. Ma che importa Q mi dirai Q che non siano necessarie, dal momento che, a causa della condizione della scienza divina, ne risultera` comunque unNequivalente necessita`? Questo importa, cioe`, che dei fatti citati poco fa, il sole che sorge e lNuomo che cammina Rdue eventi che, mentre avvengono, non possono non avvenireS, lNuno, ancor prima che accadesse, doveva necessariamente esistere, lNaltro no; cosi` pure, quelle realta` che Dio ha a se´ presenti senza alcun dubbio esistono, ma di esse alcune scaturiscono dalla necessita` naturale, altre dalla volonta` di coloro che le compiono. Non a torto dunque dicemmo che queste cose, se si considerano nella loro relazione alla conoscenza divina, son necessarie, se si considerano in se stesse son libere dai vincoli della necessita`, cosi` come tutto quello che i sensi percepiscono e` universale se lo si riferisce alla ragione, particolare se lo si riferisce a se stesso. Ma se e` in mio potere Q dirai Q di cambiare proposito, vanifichero` la provvidenza, quando per caso cambiero` i miei intendimenti, che essa conosce in precedenza. Ti rispondero` che puoi ben cambiare il tuo proposito, ma non puoi sottrarti alla prescienza divina, poiche´ la presente verita` della provvidenza vede che puoi farlo, e se lo fai, e a che cosa ti volgi, come non potresti sfuggire allo sguardo di un occhio che ti stia addosso, per quanto con libera volonta` tu ti volga alle azioni piu` svariate. Ma allora, chiederai, la scienza divina si mutera` a seconda della mia disposizione, cosi` che quando io voglia or questo or quello anchNessa sembri alternare il modo di conoscere? Niente affatto. LNintuizione divina precorre ogni evento futuro, e lo ritrae e lo richiama alla presenza della propria conoscenza; e non sNalterna, come tu credi, nel prevedere ora questo ora quello, ma in un solo semplice sguardo, restando in ruota, previene e abbraccia i tuoi cambiamenti. E questa potenza di comprendere e di vedere tutte le cose Dio non lNha dallNesito delle realta` future, ma dalla propria semplicita`. Viene
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in tal modo risolta anche la questione posta poco fa, cioe` che sarebbe indegna cosa il dire che le nostre azioni future siano causa della scienza divina. La forza della scienza divina, infatti, abbracciando tutte le cose con la sua conoscenza presenziale, ha fissato a ogni cosa il proprio limite, e nulla deve a quelle che avverranno in seguito. Cio` posto, resta intatta agli uomini la liberta` della scelta, e non ingiustamente le leggi stabiliscono pene e premi, poiche´ le loro volonta` sono libere da qualsiasi necessita`; e resta che Dio tutto conosce in anticipo, guardando dallNalto. LNeternita` sempre presente della sua visione converge con la qualita` futura delle nostre azioni, dispensando premi ai buoni, castighi ai malvagi. Non invano son riposte in Dio speranze e preghiere, che, quando son rette, non possono non avere efficacia. Allontanatevi dunque dai vizi, praticate le virtu`, innalzate lNanimo a giuste speranze, indirizzate al cielo umili preghiere. VNincombe, se non volete fingere di non saperlo, una gran necessita` di essere retti, poiche´ le vostre azioni si compiono dinanzi agli occhi di un giudice che vede ogni cosa. RANICIO MANLIO SEVERINO BOEZIO, Consolazione della filosofia e opuscoli teologici, a cura di L. Obertello, Rusconi, Milano 1996, pp. 231-235S.
BIBLIOGRAFIA H. CHADWICK, Boezio: la consolazione della musica, della logica, della teologia e della filosofia, il Mulino, Bologna 1986. F. GASTALDELLI, Boezio, Edizioni liturgiche, Roma 1997. M. MILANI, Boezio. L-ultimo degli antichi, Camunia, Milano 1994. R. PINZANI, La logica di Boezio, Franco Angeli, Milano 2003.
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Fu durante il regno di Carlo II il Calvo che raggiunse il suo apice la cosiddetta rinascita carolingia. Questa fioritura culturale, accompagnata da un considerevole miglioramento nelle competenze legate alla lettura e alla scrittura presso il ceto intellettuale S che coincideva ancora con quello ecclesiastico S non intacco` affatto il carattere elitario del sapere, ma produsse comunque un sensibile rinnovamento nellPorganizzazione degli studi. Grazie ai provvedimenti legislativi emanati dai sovrani carolingi, si moltiplicarono in Europa le biblioteche e i luoghi dPistruzione presso i monasteri e le cattedrali. Inoltre, nel cenacolo della schola palatina Tcosi` chiamata perche´ legata al palatium, sede della corte e del potere regioU si raggiunse una confidenza con i classici di cui non si aveva memoria almeno dal VI secolo. Proprio nellPambito della cerchia di dotti, di varia provenienza e formazione, che gravitavano intorno alla scuola di palazzo, si colloca la figura di Giovanni Scoto Eriugena T810 circa-870 circaU, il primo autore filosoficamente rilevante comparso in Occidente dopo la morte di Boezio. Non si puo` ignorare lPinfluenza esercitata in precedenza da unPopera enciclopedica come le Etymologiae del vescovo Isidoro di Siviglia T560 circa-633U, oppure da scritti eruditi come quelli del monaco anglosassone Beda Nil VenerabileO T672/673-735U; ma e` un fatto che la produzione teorica eriugeniana rappresenti il primo autentico progetto di metafisica cristiana nel panorama culturale dellPalto Medioevo.
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Giunto in Francia dalla nativa terra d6Irlanda, Giovanni Scoto, che si diede da se´ l6appellativo Eriugena 8figlio dell6Eire9, inizio` la sua carriera di magister di arti liberali negli anni trenta del IX secolo. Verso l6846 fu accolto, in virtu` della sua erudizione e delle sue competenze scientifiche, presso il palazzo del 4re filosofo5 Carlo il Calvo. I biografi non forniscono una data certa della sua nascita e neppure un6indicazione precisa su come avesse appreso la lingua greca; ma si puo` ritenere un punto di svolta del percorso intellettuale di Giovanni Scoto il momento in cui re Carlo gli chiese di tradurre dal greco al latino il corpus areopageticum, donato al suo predecessore Ludovico il Pio dall6imperatore bizantino Michele Balbo. L6insieme dei testi dello Pseudo Dionigi dell6Areopago era costituito perlopiu` da un gruppo di trattati e di lettere di argomento teologico-filosofico, inizialmente attribuiti a un allievo di San Paolo di nome Dionigi, riconducibili a un monaco siriano del VI secolo autore di uno straordinario sforzo di cristianizzazione della filosofia platonica. Da queste nuove fonti Giovanni ricavo` gli elementi per scrivere tra l6862 e l6866 il suo capolavoro, il Periphyseon, un dialogo fra docente e discente in cinque libri che costituisce la prima considerevole costruzione metafisica dell6Occidente dopo il De consolatione di Boezio. Nel sistema filosofico noto anche con il titolo in latino De divisione naturae, il maestro palatino descrisse un processo dialettico di divisione e riunificazione dell6unica natura in quattro dimensioni distinte: la natura che crea e non e` creata 8Dio padre9; la natura che crea ed e` creata 8le idee archetipiche9; la natura che non crea ed e` creata 8le cose sensibili9; la natura che non e` creata e non crea 8Dio come fine di tutta la creazione9. La complessa idea al centro del dialogo non
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richiama la natura del fisico, ma la natura di tutte le cose o lPessere-nulla nella sua totalita`. Questa nozione di natura, che e` la piu` comprensiva di quelle che si offrono al pensiero, include non solo tutto cio` che e`, ma anche tutto cio` che non e`. Tale dottrina della divisione dellPessere, la cui prima fonte e` il Sofista platonico, si ritrova alla base delle formule di ogni teologia negativa, in cui lPineffabilita` di Dio e` superiore a ogni affermazione cui puo` giungere lPapplicazione degli strumenti logici previsti dalla teologia positiva. Il fulcro del pensiero metafisico di Giovanni Scoto, frutto prevalentemente di una originale rivisitazione di temi dionisiani, e` rappresentato dal rapporto tra trascendenza increata e realta` create. Nonostante lPelevato livello di astrazione, la cifra teoretica del teologo irlandese puo` essere apprezzata nella sua concretezza attraverso il riferimento ai due contesti istituzionali in cui presero corpo i suoi scritti: la comunita` monastica irlandese e la corte carolingia. Per comprendere il ruolo esercitato dalle fondazioni monastiche in Irlanda e in Northumbria nella conservazione e trasmissione di molte opere della latinita` durante lPalto Medioevo, puo` senzPaltro essere utile presentare il mito medievale della translatio studii. Secondo questo mito, agli evangelizzatori delle isole britanniche del VI e VII secolo si deve il merito di aver ospitato, prima che si radicasse saldamente a Parigi, quel sapere antico che, fiorito nellPantica Grecia, si era poi trasferito a Roma nel periodo di massimo splendore della civilta` latina. Questa ipotetica peregrinazione della cultura greco-latina, trova una parziale conferma nelle pagine di uno tra i massimi storici della filosofia medievale, Alain De Libera. Secondo la ricostruzione di questo studioso, dopo lPevangelizzazione del territorio irlandese da parte di Patrizio, i mo-
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naci fondarono strutture scolastiche molto efficienti dove, accanto ad elementi di novita`, furono conservati e tramandati anche i testi fondamentali della cultura antica. NellPedificazione delle condizioni necessarie al risveglio in Occidente della pratica filosofica, lPimportanza delle strutture monastiche irlandesi e` pari solamente a quella rivestita dalla politica carolingia, che fu allPorigine di una vasta riorganizzazione istituzionale nel cuore dellPEuropa continentale. Tra VII e VIII secolo, si delineo` infatti un nuovo soggetto politico sovrannazionale intorno allPiniziativa dei Franchi, alleati con la Chiesa di Roma. Nella figura di Carlo Magno e` possibile individuare lPartefice principale di una translatio imperii analoga in tutto alla translatio studii. Dopo la vittoriosa campagna dPItalia contro i Longobardi T773-774U, il potere conquistato da Carlo Magno divenne tale Tin virtu` anche dellPappoggio del papatoU da permettergli di costruire un grande organismo statale suddiviso in circoscrizioni amministrative Tcomitati e marcheU e coordinato da un potere centrale con sede ad Aquisgrana TlPodierna Achen nella Germania occidentaleU. Con lPincoronazione di Carlo Magno da parte di papa Leone III T800U, tornava cosi` a rivivere lPideale imperiale di Roma antica nella sua nuova veste cristiana. Ben presto pero` Carlo divenne consapevole che un territorio tanto esteso doveva essere compattato da un intervento non solo di natura politico-amministrativa, ma anche culturale. Nacque cosi` il progetto dellPunanimitas carolingia, che si espresse mediante una sistematica promozione delle scienze profane al servizio della fede in Cristo. Lo scopo era quello di rafforzare lPautorita` assoluta dellPimperatore tanto in campo politico quanto in campo teologico. Si trattava insomma di un progetto di
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unificazione dell2imperium e dell2ecclesia, da realizzare attraverso un2armonizzazione della ragione e della fede finalizzata alla costituzione di un unico patrimonio di sapere condiviso da ogni individuo del Sacro Romano Impero. Quella di Giovanni Scoto rappresenta forse l2espressione filosofica piu` alta e originale del progetto di unanimitas promossa dalla scuola palatina fondata da Carlo Magno, autentico centro ideologico-culturale dell2impero. Presso il palatium regium di Aquisgrana si radunarono, dalle diverse regioni dell2impero, i migliori intellettuali del tempo. I primi tra questi furono chierici di origine britannica o irlandese, che avviarono un significativo recupero delle arti liberali. La figura piu` rilevante nel gruppo di questi uomini di cultura e` quella del monaco anglosassone Alcuino di York 4730 circa8045, il principale organizzatore dell2accademia palatii. Autore d2importanti manuali per l2insegnamento delle arti del trivio 4grammatica, retorica e dialettica5 e del quadrivio 4musica, aritmetica, geometria e astronomia5, Alcuino riorganizzo` le scholae dell2impero rielaborando la tradizione culturale tardoantica delle sette arti liberali. L2originalita` di questo programma formativo-didattico consisteva nella sua aderenza ai propositi ideologici del nuovo Stato carolingio. L2erudito anglosassone, per questo suo ruolo di primo piano nello Stato carolingio, puo` essere considerato una sorta di ministro dell2istruzione, capace di favorire una contaminazione tra il patrimonio culturale dell2antichita` pagana e quello della cultura patristica al fine di costruire una nuova ideologia cristiana coerente con l2egemonia politica dei Franchi. Nel momento in cui divenne il magister piu` influente d2Europa, Alcuino fu consapevole di operare in una cornice istituzionale radicalmente nuova rispetto a quella della tra-
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dizione monastica, entro la quale, in assenza di un potere politico capace di porsi quale interlocutore stabile e forte, non rimaneva che rivolgere gli sforzi educativi a vantaggio esclusivo della Chiesa di Roma. AllPinterno di un grande Stato in espansione come quello carolingio il monaco anglosassone concepi` le arti liberali come strumenti pedagogici imprescindibili per la formazione dellPintellighenzia del nuovo Stato cristiano. Questa riscoperta delle potenzialita` delle artes aveva unPimpostazione fondamentalmente enciclopedica ed era racchiusa in una ben definita cornice teologica: salendo nella scala della conoscenza gradino dopo gradino, il curriculum studiorum doveva pur sempre condurre a un progressivo avvicinamento alla conoscenza di Dio. Sebbene il numero degli allievi coinvolti in questi processi di acculturazione sia stato modesto, e` importante rilevare come, sotto la regia di Alcuino, nello Stato carolingio si sia tentato di realizzare un programma di diffusione del sapere attraverso precise indicazioni normative indirizzate a una complessa rete di scuole parrocchiali, cattedrali e monastiche. Mentre le prescrizioni dellPimperatore in materia dPistruzione elementare furono spesso disattese nei territori periferici, lPinsegnamento filosofico fu effettivamente impartito a una cerchia di privilegiati, formata da Carlo stesso e da un numero ristretto di suoi fideles e famigliari. I trattati scritti da Alcuino recano spesso i segni della sua attivita` di pedagogo presso la corte dellPimperatore. Non a caso, nel De retorica et virtutibus Tin cui lPargomento e` costituito dalle tecniche retoriche di base e dalla teoria etica delle virtu`U, il discorso e` costruito come un dialogo tra il Lmaestro AlbinusM e un Lsaggissimo re KarolusM.
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Altri intellettuali eminenti provenienti da varie parti dPEuropa, che soggiornarono dopo Alcuino ad Aquisgrana e contribuirono allPistruzione dei figli dei funzionari di corte, furono lo storico longobardo Paolo Diacono, i grammatici Pietro da Pisa e Clemente Scoto e i poeti-teologi Paolino dPAquileia e Teodulfo dPOrleans. Importanti figure di chierici che coltivarono interessi filosofici allPinterno di centri monastici o di sedi episcopali in costante contatto con lPambiente dellPaccademia palatina furono: Fredegiso, allievo di Alcuino e abate di Tours, che nellPepistola De substantia nihili et tenebrarum sostenne che il nulla e le tenebre sono qualcosa e non solamente la privazione di qualcosa; Rabano Mauro, arcivescovo di Magonza, principale promotore dellPirradiamento della cultura classica in Germania; Incmaro, vescovo di Reims, che si contrappose al monaco di origine sassone Gotescalco dPOrbais in unPaccesa e famosa controversia sulla predestinazione. Proprio su invito di Incmaro, anche il professore della schola palatina Giovanni Scoto Eriugena fu coinvolto, nellP851, in una disputa che gia` da alcuni anni impegnava i maggiori teologi del tempo. In virtu` della stima di cui godeva a corte, il teologo irlandese fu incaricato di controbattere alle tesi del monaco Gotescalco che, considerando la salvezza o la condanna eterna lPesito di un giudizio divino assolutamente gratuito e immutabile, metteva in discussione i fondamenti dellPideologia politica dominante e la funzione stessa della comunita` ecclesiastica. Nella visione del monaco ribelle alla disciplina conventuale non era possibile alcuna mediazione della grazia divina da parte di organismi politico-religiosi e la salvezza dellPuomo era sottratta allPazione dei sacramenti come il battesimo. Nel De praedestinatione, scritto per confutare le posi-
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zioni di Gotescalco, il magister di origine irlandese sostenne che agli uomini e` stata donata da Dio una vera liberta`. Nonostante questa liberta` sia stata corrotta e indebolita dopo il peccato originale, non esisterebbe insomma + nella visione di Giovanni Scoto + nessuna causa in grado di costringere gli uomini a vivere bene o male. La riflessione teologica contenuta in questo testo e` gia` contraddistinta da quell(uso preponderante delle risorse della ragione, a discapito delle citazioni patristiche, che condurra` l(Eriugena a elaborare un metodo d(indagine razionale per lo studio sia della realta` mondana sia dell(essenza divina. In questo scritto e` gia` evidente quella padronanza linguistica, acquisita nella traduzione del corpus dionisiano, che rivestira` un(importanza capitale nelle fase finale della produzione di questo autore. E` in particolare nel Periphyseon che saranno applicati in modo sistematico tutti gli strumenti logico-dialettici offerti dalla filosofia greca: precisazioni terminologiche, indagine etimologica, definizione dei concetti mediante opposizioni, verifica di proposizioni, sillogismi e topoi dell(argomentazione. Ispirato alla convergenza di teologia e filosofia ,entrambe sostituite nel lessico eriugeniano dall(unica parola sapientia-, l(orientamento speculativo di Giovanni Scoto fu caratterizzato da una sostanziale identificazione tra linguaggio, pensiero ed essere. L(ordine dei concetti nella loro articolazione dialettica riproduce, nel Periphyseon, anche la medesima struttura del reale, alla cui radice sta l(essenza divina. Ma, come la storiografia piu` recente ha sottolineato, l(intellettuale di origine irlandese problematizzo` in piu` occasioni la fiducia nella capacita` del pensiero di cogliere la verita` delle cose. Egli, infatti, ritenne che ogni essenza, creata e increata, non si potesse comprendere nella sua piu` profonda natura attraverso
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un semplice atto della ragione e sviluppo` una affascinante dottrina sulla valenza metaforica, ovvero sempre traslata e impropria, dell0indagine linguistico-concettuale. In questa complessa prospettiva epistemologica la dimensione trascendente e la realta` terrena sono strettamente connesse. Ogni ente e` manifestazione dell0ineffabile essenza superiore, la quale diviene visibile solo nella realta` da essa creata. L0atto creativo divino e` concepito, secondo lo schema tipico del neoplatonismo 2da Plotino allo pseudo-Dionigi3, come il procedere della stessa sostanza divina oltre se stessa. Il sistema eriugeniano costituisce inoltre un esempio di utilizzazione costante e programmatica della ragione per l0indagine scritturale e per la conoscenza dell0essenza divina. Derivando da Dio la verita` razionale, non vi potra` essere allora contraddizione tra la rivelazione cristiana e l0esito dell0indagine razionale ben condotta. Entrambe, nel Periphyseon, hanno la stessa fonte e lo stesso oggetto, ossia la vera natura divina. Mentre, da una parte, Giovanni Scoto, con l0abile uso delle risorse messe a disposizione dalle arti liberali, anticipo` la .rivoluzione/ che avrebbe trasformato, dopo l0anno Mille, la stessa riflessione teologica 2sempre piu` influenzata dalla metodologia e dalla terminologia filosofica3; dall0altra egli e` interprete, facendolo conoscere al mondo medievale latino, del paradigma teoretico neoplatonico che, prima di costituire la piu` importante fonte d0ispirazione per i filosofi rinascimentali, indusse a una visione panteistica autori come Davide di Dinant e Amalrico di Be`ne attivi tra XII e XIII secolo. Questa prospettiva eriugeniana poteva facilmente condurre a esiti panteistici poiche´ Dio, come essere illimitato privo di qualsiasi forma, fu assimilato alla materia prima e le forme diversificanti divennero solo apparenze sensibili superficiali, alle cui radici vi
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era un unico elemento materiale identico per tutte le realta`. La condanna come eretici di questi due filosofi eterodossi condurra`, nel 1225, anche alla prevedibile condanna, da parte delle autorita` ecclesiastiche, delle opere del magister palatino. FONTI LA NATURA E LA SUA DIVISIONE
Il Periphyseon o De divisione naturae si sviluppa, in cinque libri, attraverso un dialogo serrato tra un maestro 1nutritor2 e un suo discepolo 1alumnus2. Il confronto tra i due e` caratterizzato dalla ricerca della terminologia idonea a parlare di Dio e, al contempo, delle creature. E` il nutritor a suggerire che si possa raggiungere questo scopo attraverso un.analisi puntuale di tutti gli elementi costitutuvi del termine natura. Non a caso, fin dai tempi di Gregorio Magno, l.apprendimento fu spesso paragonato nella cultura mediolatina all.attivita` di nutrirsi. Il sapere, nei suoi elementi concettuali piu` difficili da chiarire, era infatti concepito come un cibo che doveva essere masticato e inghiottito per essere ben assimilato, mentre le nozioni piu` facili potevano essere considerate come una semplice bevanda da deglutire.
NUTRITOR Saepe mihi cogitanti diligentiusque quantum vires suppetunt inquirenti rerum omnium quae vel animo percipi possunt vel intentionem eius superant primam summamque divisionem esse in ea quae sunt et in ea quae non sunt horum omnium generale vocabulum occurrit quod graece fusij, latine vero natura vocitatur. An tibi aliter videtur?
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ALUMNUS Immo consentio. Nam et ego dum ratiocinandi viam ingredior haec ita fieri reperio. NUTRITOR Est igitur natura generale nomen, ut diximus, omnium quae sunt et quae non sunt? ALUMNUS Est quidem. Nihil enim in universo cogitationibus nostris potest occurrere quod tali vocabulo valeat carere. NUTRITOR Quoniam igitur inter nos convenit de hoc vocabulo generale esse, velim dicas divisionis eius per differentias in species rationem; aut, si tibi libet, prius conabor dividere, tuum vero erit recte iudicare. ALUMNUS Ingredere quaeso. Impatiens enim sum de hac re veram rationem a te audire volens. NUTRITOR Videtur mihi divisio naturae per quattuor differentias quattuor species recipere, quarum prima est in eam quae creat et non creatur, secunda in eam quae et creatur et creat, tertia in eam quae creatur et non creat, quarta quae nec creat nec creatur. Harum vero quattuor binae sibi invicem opponuntur. Nam tertia opponitur primae, quarta vero secundae; sed quarta inter impossibilia ponitur cuius esse est non posse esse. Rectane tibi talis divisio videtur an non? ALUMNUS Recta quidem. Sed velim repetas ut praedictarum formarum oppositio clarius elucescat. TIOHANNES SCOTTUS ERIUGENA, Periphyseon, in Iohannis Scotti seu Eriugenae Periphyseon, editionem novam a suppositiciis quidam additamentis purgatam, ditam vero appendice in qua vicissitudines operis synoptice exhibentur, a cura di E.A. Jeauneau, Brepols, Turnholti 1996, p. 1-4, ora accessibile anche presso lPURL:U
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MAESTRO Spesso quando indago e penso, tanto approfonditamente quanto le forze me lo consentono, che tutte le cose, quelle che lPanimo puo` cogliere e quelle che ne superano la capacita` dPindagine, si possono dividere nelle realta` che sono e nelle realta` che non sono, mi si presenta alla mente un termine in grado di raccogliere tutte queste realta`, un termine che in lingua greca e` fusij mentre in latino e` natura. Oppure ti sembra che le cose stiano in un altro modo? ALUNNO TuttPaltro, concordo in pieno. Infatti anchPio, nellPincamminarmi sulla via dellPindagine razionale, scopro che le cose stanno in questo modo. MAESTRO Allora la natura e` il nome universale, come abbiamo detto, che racchiude tutte le cose che sono e che non sono. ALUNNO E` cosi`, infatti. Non si puo` presentare nelle nostre riflessioni nessuna realta` che sia priva di tale termine. MAESTRO Poiche´ siamo tra di noi dPaccordo che questo termine ha una valenza universale, vorrei che tu ne illustrassi la divisione nelle sue specie secondo le differenze; oppure, se preferisci, prima io cerchero` di descrivere tale divisione lasciando poi a te il compito di giudicarla secondo verita`. ALUNNO Ti chiedo di iniziare. Sono impaziente di conoscere da te come tale processo si compia realmente. MAESTRO Mi sembra che la divisione della natura ammetta quattro differenze e quattro specie delle quali la prima consiste nella natura che crea e non e` creata, la seconda nella natura che crea ed e` creata, la terza nella natura che e` creata e non crea, la quarta nella natura che non crea e non e` creata. Queste quattro nature si oppongono tra di loro due a due. Infatti la terza e` opposta alla prima,
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mentre la quarta e` opposta alla seconda; la quarta natura, tuttavia, deve essere annoverata fra le cose impossibili, poiche´ il suo essere consiste nel Lnon poter essereM. Ritieni che una simile divisione sia corretta oppure no? ALUNNO E` corretta. Ma vorrei che ripetessi Vla tua analisiW, in modo che si mostri piu` chiaramente lPopposizione tra le diverse specie da te prima descritte. TGIOVANNI SCOTO ERIUGENA, La natura e la sua divisione, in Filosofia medievale, a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Cortina, Milano 2004, pp. 64-65U
BIBLIOGRAFIA W. BEIERWALTES, Eriugena. I fondamenti del suo pensiero, a cura di E. Peroli, Vita e Pensiero, Milano 1998. M. CRISTIANI, Dall.unanimitas all.universitas. Da Alcuino a Giovanni Eriugena. Lineamenti ideologici e terminologia politica della cultura del IX sec., Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1978. E. GILSON, La filosofia nel Medioevo, Sansoni, Firenze 2008. A. DE LIBERA, Storia della filosofia medievale, Jaka Book, Milano 1995.
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Nel X secolo, sia le istituzioni laiche sia quelle ecclesiastiche raggiunsero lIapice della loro disgregazione. Da una parte, a seguito della crisi dellIimpero, i pubblici poteri si sbriciolarono in una moltitudine di signorie locali svincolate dal controllo dei sovrani; dallIaltra, le strutture della Chiesa furono fortemente indebolite, non solo dai condizionamenti sul papato esercitati dalle famiglie dellIaristocrazia romana, ma anche dalla vasta diffusione della simonia e del concubinato. Inoltre, negli stessi anni, numerose famiglie dellIaristocrazia militare cercarono di controllare stabilmente le cariche vescovili o abbaziali per appropriarsi delle rendite e godere delle immunita` a esse connesse. LIindignazione collettiva verso le forme di corruzione che affliggevano le istituzioni religiose alimento` le spinte verso una purificazione degli apparati ecclesiastici che confluirono, allIinizio del secolo XI, in un processo di riforma destinato ad avere effetti di lungo periodo. Furono in particolare i monasteri che riuscirono a catalizzare le migliori risorse intellettuali dellIepoca e a promuovere un deciso rinnovamento allIinterno delle strutture ecclesiastiche. I protagonisti della Griforma monasticaH ritenevano prioritario, per contrastare il decadimento morale del clero, estendere lIideale monastico, basato sulla purezza del corpo e sulla preghiera, a tutte le articolazioni dellIecclesia. La vitalita` del monachesimo non si manifesto` solo nella proliferazione di nuove strutture cenobitiche che si richiamavano
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alla regola di S. Benedetto, ma anche nella straordinaria autorevolezza della congregazione cluniacense e nellIaffermazione di ordini nuovi, come i Certosini e i Cistercensi, che raggiungeranno il massimo del loro prestigio nei primi anni del XII secolo. Si puo` pertanto facilmente comprendere come, nei decenni centrali del Mille, il mondo del chiostro potesse attrarre tanti giovani che, come Anselmo dIAosta, erano alla ricerca di un centro di spiritualita` in grado di placare la propria inquietudine e, contemporaneamente, la propria sete di conoscenza. Sulla figura di Anselmo si possiedono molte informazioni grazie al suo vasto epistolario e alla biografia scritta dal suo fidato discepolo e segretario Eadmero. Queste fonti attestano che, tra il 1033 e il 1034, egli nacque ad Aosta, a quel tempo allIinterno del regno di Borgogna. I genitori provenivano entrambi da nobili famiglie. La figura materna ebbe una grande influenza sulla sua formazione religiosa, mentre il padre Gandolfo ne ostacolo` la giovanile vocazione. I contrasti con il capofamiglia si acuirono a tal punto da spingerlo, in seguito alla morte della madre Ermenberga, ad abbandonare la casa paterna per intraprendere un itinerario formativo attraverso diverse localita` europee. Dopo essersi inizialmente fermato in Borgogna, il desiderio di ascoltare Lanfranco di Pavia, ritenuto uno dei migliori maestri dIEuropa, lo spinse ad approdare, nel 1059, nella struttura benedettina sorta nella localita` di Bec Lin NormandiaM, da poco fondata dal nobile Erluino. Qui era attiva una celebre scuola, seconda per fama solo a Cluny, dove insegnava appunto Lanfranco, ricordato anche per essersi contrapposto a Berengario di Tours in una celebre controversia sullIinterpretazione del dogma eucaristico.
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Presso questo monastero Anselmo ebbe la possibilita` di frequentare per alcuni mesi la schola esterna, separata da quella organizzata all4interno del chiostro e riservata a giovani non intenzionati, di norma, a diventare monaci. Dopo un anno, nel 1060, con una scelta che appare al tempo stesso culturale, esistenziale e religiosa, egli decise di entrare nella comunita` cenobitica. Dentro le mura dell4abbazia di Bec Anselmo rimarra` per piu` di trent4anni, dedicandosi con entusiasmo allo studio, alla meditazione e alla preghiera. Qui, dopo essere stato per tre anni un semplice monaco, assunse dal 1063 l4incarico di priore quando Lanfranco fu nominato abate di Santo Stefano di Caen. A partire dal 1078, dopo la morte di Erluino, fu eletto egli stesso abate e divenne, oltre che guida spirituale, anche responsabile dell4educazione e del disciplinamento dei giovani monaci beccensi. Come appare evidente dall4analisi del suo epistolario, Anselmo si dichiaro` sempre pienamente appagato dalla vita monastica. Fu negli anni del suo priorato che Anselmo scrisse i testi delle sue opere piu` note: il Monologion 6composto nel 10767 e il Proslogion 6completato nel 10777. Nel primo di questi testi, ragionando con se stesso 6come in un soliloquio7, egli affronta il tema del graduale riconoscimento delle perfezioni insite nelle cose sensibili, che permette di risalire all4esistenza di un sommo principio capace di possedere tutte le perfezioni al grado piu` alto. Nel Proslogion, che si configura come dialogo con Dio, l4autore si mette nei panni di un non credente, per chiarire, usando la sola ragione, cio` che la fede afferma su Dio. Il Proslogion, a differenza del piu` articolato Monologion, e` incentrato sull42unico argomento3 6quello ontologico7 che non ha bisogno di elementi ag-
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giuntivi, tratti dallIesperienza, per dimostrare lIesistenza di Dio. Nel momento in cui si afferma la coincidenza tra il significato del termine Dio e quello dellIespressione Ecio` di cui non si puo` pensare niente di piu` grandeF, per il pensatore aostano lIesistenza di Dio diventa anche necessaria. Quando si pensa o si dice EDio non esisteF, come fa lIEinsipienteF citato dai Salmi, si cade in contraddizione. Se infatti e` pensabile, anche da parte dello stolto LinsipiensM, un essere che esiste necessariamente e se Dio e` cio` di cui non si puo` pensare niente di piu` grande, allora si deve ammettere che Dio e` lIessere necessario. Sarebbe contraddittorio sostenere il contrario. Lo stolto potra` anche non connettere il nome con il relativo concetto astratto Lquesto volevano i nominalisti come il filosofo e teologo francese Roscellino di Compie`gneM e ritenerlo un semplice flatus vocis; potra` dire che Dio non esiste, ma non potra` anche pensarlo, se vorra` ragionare in modo rigoroso, secondo le regole della dialettica, e quindi senza cadere in contraddizione. Il primo titolo che il pensatore aostano assegno` alla sua riflessione piu` famosa era inizialmente Fides quaerens intellectum, ovvero ELa fede che cerca lIintellettoF. Gia` da queste parole appariva chiaro il progetto di rendere accessibile anche al non credente, indicato nel testo come insipiente, cio` in cui crede il cristiano. Per questa ragione il Proslogion, con il suo progetto di trovare un argomento razionale in grado di dimostrare lIesistenza di Dio senza il ricorso allIesperienza concreta, non puo` essere considerato il manifesto di una completa indipendenza della ragione rispetto alla fede. Il ragionamento qui sviluppato e` fondato su una sola premessa: lIequivalenza di significato tra Deus e la definizione id quo ma-
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ius cogitari nequit, cioe` tra Dio e Ecio` di cui non si puo` pensare niente di piu` grandeF. Se davvero Dio e` cio` di cui non si puo` pensare niente di piu` grande, allora non lo si puo` pensare non esistente. Infatti, come precisera` nel XVII secolo Cartesio nella sua rielaborazione dellIargomento ontologico, si potrebbe pensare un essere piu` grande di Dio solo nella condizione di essere pensato, ma non di essere esistente. A seguito della circolazione nelle strutture monastiche europee di copie manoscritte del Proslogion, Gaunilone, un anziano monaco dellIabbazia di Marmoutiers, espresse alcune critiche al ragionamento anselmiano che sarebbero state spesso riprese nel dibattito filosofico successivo. La prima osservazione di Gaunilone, in difesa dellIinsipiente, era che non fosse lecito il passaggio dalla presenza nella mente allIesistenza reale, cosi` come non poteva essere accettabile definire necessariamente esistente unIisola che fosse capace di contenere tutte le perfezioni. A questa obiezione di Gaunilone, esposta nel Liber pro insipiente, Anselmo replico` con una certa facilita` nel Liber apologeticus contra Gaunilonem, affermando che il suo argomento era da considerarsi valido solo per lIessere che contiene tutte le perfezioni al grado piu` elevato, non per un qualunque essere carico di perfezioni. Inoltre, mentre per le realta` contingenti si deve ammettere la possibilita` di essere pensate come non esistenti anche se esistono, la stessa cosa non e` accettabile per Dio, poiche´ cio` di cui non si puo` pensare niente di piu` grande non puo` essere pensato non esistente. A differenza delle cose contingenti, la cui esistenza puo` essere mentalmente scissa dallIessenza, a Dio non si puo` attribuire ne´ un inizio ne´ una fine: Dio e` tutto sempre e ovunque. In questa prospettiva teologica diventa dunque impossibile non solo comprendere fino in fondo la
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realta` divina, ma anche pensarla come non esistente. Secondo Anselmo, questo sarebbe del tutto impossibile, poiche´ essenza ed esistenza sono in Dio inseparabili. Nonostante lIuomo non conosca direttamente lIessenza divina Lma ne abbia solo una definizione per via negativaM, questa via e` sufficiente per rendere evidente nellIintelletto umano, attraverso la ragione, lIesistenza di cio` che e` cosi` definito. Al contrario, Gaunilone, e come lui Tommaso dIAquino nel XIII secolo, affermo` che non e` lecito il passaggio dal piano logico della definizione a quello ontologico dellIesistenza reale, a meno che in soccorso della ragione non intervenga la fede, la sola in grado di garantire la veridicita` del significato dei termini della definizione. Ne consegue che lIargomento e` valido solo per chi sa gia` chi e` Dio. Ragion per cui, nel suo Liber apologeticus contra Gaunilonem, Anselmo non tralascio` di precisare che le sue parole erano indirizzate a un EcredenteF, non a un insipiente, dal momento che lIintento di Anselmo era quello di offrire una prova suprema per la fede alla ricerca di una giustificazione razionale. La prova contenuta nel Proslogion doveva servire a far comprendere cio` in cui gia` si crede, ma non poteva portare a credere in cio` che non si comprende. Tuttavia, sappiamo che Gaunilone non fu convinto dalla prova ontologica e continuo` a sostenere lIimpossibilita` di passare dal piano del pensiero a quello dellIesistenza. Di fronte a questa disputa, i maggiori filosofi dei secoli successivi non potranno evitare di schierarsi. Nel XIII secolo, Duns Scoto, dopo aver riformulato lIargomento ontologico in base alla possibilita` del concetto di un ente primo, finira` per accettarne la validita`. Ad essere influenzati dalla logica anselmiana saranno, nella prima eta` moderna, sia Cartesio sia
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Leibniz e, anche dopo lIilluminismmo, nonostante la critica radicale allIargomento ontologico da parte di Kant, molti altri filosofi K tra i quali Hegel K continuarono a studiare con interesse lIunum argomentum del Proslogion. Oltre ai due testi piu` famosi, nella pace del monastero di Bec, Anselmo scrisse, tra il 1080 e il 1090, anche il dialogo De grammatico, nello sforzo di definire il vero significato del termine EgrammaticoF, egli introdusse nellIambito logico la distinzione tra appellatio e significatio, ovvero tra rinvio immediato alla realta` e rimando ad altri termini di un sistema linguistico. Poiche´ vi sono due modi K egli riteneva K in cui una parola EsignificaF, in questo vero e proprio trattato di semantica lIautore giunse a ricomporre il contrasto, riguardante il significato veritiero da attribuire ad un lessema come EgrammaticoF, tra il punto di vista di Aristotele e quello di Prisciano. Mentre il primo, nelle Categorie, sostenne che tale termine designasse una qualita`, il grammatico stoico lo considero` invece come designante una sostanza. Procedendo attraverso una puntuale argomentazione, il pensatore di origini aostane arrivo` alla conclusione che le due tesi non si escludono, ma sono invece conciliabili. Egli inauguro` cosi` una nuova teoria semantica della referenza, che, a partire dal XII secolo, sara` al centro di un ampio dibattito sul rapporto tra linguaggio, pensiero e realta`. Questa costante attenzione ad aspetti di filosofia del linguaggio, associata allIaspirazione a un chiarimento della razionalita` della fede, costituisce la cifra specifica della produzione teologico-filosofica di Anselmo. DallIintreccio di queste due linee di pensiero scaturirono altri scritti incentrati su questioni strettamente connesse alla ricerca teologica come il De veritate, il De libertate arbitrii e il De casu diaboli. Il co-
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mune denominatore di queste opere puo` essere individuato nel tema della rettitudine 1rectitudo2, ossia di un criterio di verita` che s/identifica con la giustizia e che vale per la logica, per il linguaggio e per l/agire morale. In una prospettiva che unisce la logica alla teoria della conoscenza e alla metafisica, la correttezza nel parlare sara` sempre concepita da Anselmo non semplicemente come un/attenzione per l/estetica, ma come un dovere morale. Quando, nel 1093, fu nominato a sessant/anni arcivescovo di Canterbury per sostituire Lanfranco, Anselmo lascio` il monastero con grande rammarico. Egli, che non possedeva le capacita` diplomatiche del maestro, fini` ben presto per entrare in conflitto frontale con il re normanno Guglielmo II il Rosso, succeduto a Guglielmo il Conquistatore. All/interno di uno scenario politico dominato, anche a livello locale, dalla Lotta per le investiture che contrapponeva il papato all/impero, il re inglese, appellandosi alla consuetudine, cerco` di svincolarsi dall/autorita` papale e di impossessarsi dei beni ecclesiastici. Impegnato nella difesa dei diritti del papato in fatto di investiture e proprieta`, nel suo ruolo di vescovo Anselmo si appello` a una razionalita` superiore che lo condusse a scontrarsi con l/autorita` regia in nome della fedelta` alla volonta` di Dio, identificata con quella del papa Urbano II. Sebbene avesse avuto inizio, con l/importante incarico episcopale, un periodo contrassegnato da continui contrasti con i sovrani inglesi, Anselmo non avrebbe mai abbandonato l/attivita` speculativa, neppure quando fu costretto, nel 1097, a recarsi da esule prima a Lione e poi in Italia. Qui, un anno dopo, completo` la stesura della sua ultima opera, il Cur Deus homo, un trattato di teologia razionale in cui l/intento di
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fondo era, ancora una volta, quello di giustificare razionalmente cio` che si crede per fede. Una volta fatto ritorno a Lione, Anselmo fu interamente riassorbito dallo studio e dalla preghiera fino a quando, morto nel 1100 Guglielmo II con il quale si era a lungo scontrato, non fu richiamato a Canterbury dal successore al trono dIInghilterra Enrico I. Tuttavia, anche con il nuovo sovrano non tardarono a manifestarsi motivi di contrasto incentrati sulla questione dei beni ecclesiastici. Cosi`, Anselmo ridivenne nuovamente esule a partire dal 1103, senza peraltro interrompere le trattative con la corte inglese. Dopo un lungo contenzioso, riusci` alla fine a far prevalere la sua posizione e, tornato in Inghilterra nel 1106, vi mori` dopo tre anni. In conclusione, pur non presentando mai, nella sua lunga esistenza, le proprie riflessioni come esplicitamente ed esclusivamente filosofiche, il pensatore aostano contribui` in modo determinante allo sviluppo di quel processo di razionalizzazione della teologia che, avviato dal suo predecessore e maestro Lanfranco, sara` portato alle sue estreme conseguenze da Abelardo. Ciononostante, nel suo magistero prevalse sempre lo sforzo di rendere comprensibile la fede Lintelligo ut credam4. A questo scopo furono infatti utilizzati tutti gli strumenti concettuali che potevano essere attinti sia da quei pochi testi logici di Aristotele allIora tradotti sia dalla grammatica di Prisciano. Da unIanalisi attenta del suo epistolario, appare chiaro come il pensiero di Anselmo, nonostante lIoriginale metodologia filosofica adottata, sia sempre rimasto intimamente legato alla dimensione comunitaria della vita monastica. Sebbene la poverta` del bagaglio filosofico Ltipica di tutti i suoi contemporaneiM lIabbia costretto ad andare oltre il gia` detto, la sperimentazione sul piano dialetti-
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co non comporto` mai nelle sue osservazioni un distacco dalla Sacre Scritture, ma servi` unicamente ad Anselmo per mostrare ai monaci suoi confratelli tutte le potenzialita` della ragione umana nel lavoro di chiarificazione delle verita` di fede. FONTI LA LETTERA A LANFRANCO
Il ricco epistolario anselmiano, uno forse dei piu` belli di tutto il Medioevo, rappresenta una preziosa fonte per la conoscenza del pensiero e della vita di Anselmo. Nell1esporre la richiesta a Lanfranco di Pavia 3divenuto arcivescovo a Canterbury4, di esaminare il testo che assumera` il titolo di Monologion, l1autore si appella alla sua competenza e gli chiede un suggerimento per il titolo da assegnare al suo opusculum. Al suo antico maestro, inoltre, Anselmo chiede un parere circa l1opportunita` di rendere pubblico il frutto della sua meditazione. Questa lettera offre elementi utili anche per comprendere il clima di stima e amicizia che circondava Anselmo negli anni dell1otium monasticum. Nel punto in cui si accenna alle insistenti richieste dei confratelli, fra i quali si trova il carissimo allievo Maurizio, e` possibile rintracciare un elemento fondamentale per ricostruire le motivazioni all1origine di un1indagine razionale sull1essenza divina che anticipo`, per certi aspetti, l1uso della logica destinato ad affermarsi nelle scuole del XII secolo.
Domino servus, patri filius, reverendo archiepiscopo Lanfranco: frater Anselmus. Opusculum illud quod paternae vestrae censurae misi, libentius ipsemet, si opportunum fuisset, coram ipsa examinandum le-
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gissem. Quod quia nunc esse non potest, vellem multum precari, quatenus dulcis mihi paterna vestra prudentia illud non dedignaretur vel quolibet alio legente audire et quid ex eo fieri deberet praecipere, nisi timerem indiscrete molestus esse dignitati vestrae, quam multis magnisque rerum maiorum consultationibus indesinenter occupatam non dubito. Quapropter, quoniam nihil sic mihi volo placere, ut vobis displiceat: sicut solius est vestrae experientiae iudicare, quantum vobis hoc quod me multum velle significo liceat, ita sit vestri arbitrii eligere, utrum vobis id libeat. Hoc tamen etiam cum importunitate a vestra auctoritate non desinam exigere, quatenus de eodem opusculo, sive audito sive inaudito, quid fieri debeat vestra decernat auctoritas. Titulum autem nullum illi praeposui, quippe quod nequaquam tanti existimavi, ut illud suo nomine dignarer. Si igitur vestro sederit arbitrio ut quod scripsi scripserim: a quo habebit firmitatem, ab eo habeat et nomen; et per vos detur servo vestro, dilecto fratri et conservo meo, domno Mauritio, qui unus est ex illis quorum maxime factum est instantia. Si autem aliter vestro placuerit examini, exemplar quod vobis mitto nec mihi nec praefato fratri reddatur, sed aliquo elemento aut obrutum aut dimersum aut consumptum aut dispersum de medio fiat. Quidquid autem inde vestro placuerit iudicio, ut mihi aliquo modo notum fieri iubeatis efflagito. Quatenus exemplar quod retinui, non aliam sortiatur sententiam, quam illud quod misi. De dilectissimo meo, nepote vestro, et corde et ore et epistola quantum possum deprecor, ut cum primum sanitatem illum recepisse cognoveritis, nequaquam eius me amabili conversatione diutius carere faciatis. Verum quippe dico vobis: talem se exhibuit mihi et cunctis nostris bonos amantibus mores praesentem, ut illum, si absque ulla sua incommoditate K quam nullo modo volumus K reduci possit, desiderare cogamur absentem. LANSELMO dIAOSTA, Lettere, traduzione di A. Granata, note di C. Marabelli, Vol. I, Jaka Book, Milano 1988, pp. 260-262M
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Al signore il servo, il figlio al padre, il reverendo arcivescovo Lanfranco: il fratello Anselmo. Se se ne fosse presentata lIopportunita`, avrei avuto piu` piacere di essere io stesso a leggere in sua presenza, onde averne un giudizio, lIopuscolo da me rimesso alla vostra paterna disamina. Siccome cio` ora non puo` essere, vorrei pregare vivamente la per me soave vostra paterna prudenza di non tralasciare di ascoltarne la lettura, fatta pure da un altro, chiunque sia, e di suggerire che cosa se ne debba fare: senonche´ temo di infastidire al limite dellIindiscrezione la vostra dignita`, che non dubito incessantemente impegnata in numerose e importanti richieste di parere su affari di ben altra importanza. Per cio`, siccome non desidero che qualcosa mi piaccia in modo da dispiacervi, comIe` vero che solo alla vostra esperienza compete di giudicare sino a che punto sia permesso cio` che io vi dichiaro di desiderar vivamente, cosi` sia in arbitrio vostro decidere se cio` vIaggrada. Anche a costo di essere importuno, non desistero` peraltro dal pretendere dalla vostra autorita` che, circa il detto opuscolo, lIabbia o non lIabbia ascoltato, sia la vostra stessa autorita` a decidere che cosa se ne debba fare. Ora, non vi ho premesso nessun titolo, proprio perche´ non lIho per niente valutato cosi` tanto da ritenerlo degno dIavere un nome. Dunque, se a vostro arbitrio risultera` che cio` chIe` scritto e` scritto, chi gli attribuira` autorevolezza gli attribuisca pure il nome; e, tramite vostro, lo si dia al vostro servo, il diletto fratello e mio compagno di servitu`, il monaco Maurizio, che e` tra quelli per la cui insistenza esso fu specialmente composto. Se invece al vostro ponderato giudizio sembrera` diversamente, lIesemplare che vi invio non sia restituito ne´ a me ne´ al suddetto fratello, ma, sepolto o sommerso o consumato o disperso, uno qualsiasi degli elementi lo tolga di mezzo. Comunque sara` poi parso bene al vostro attento esame, vi chiedo vivamente di far si` che in un modo o nellIaltro io ne sia informato; perche´ allIesemplare da me trattenuto non tocchi in sorte dIesser giudicato altrimenti rispetto a quello che gia` vi inviai.
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Quanto al mio dilettissimo, vostro nipote, e col cuore e colla bocca e per lettera vi imploro quanto posso di non lasciarmi assolutamente piu` a lungo privo della sua amabile frequentazione, non appena accerterete essersi egli ristabilito in salute. Vi dico proprio la verita`: essendo presente, tale si mostro` a me e a tutti quanti i nostri, che amano i buoni costumi, che in sua assenza siamo costretti ad averne desiderio; se senza alcun incomodo da parte sua K il che davvero non vorremmo K e` in condizione di ritornare. LANSELMO dIAOSTA, Lettere, traduzione di A. Granata, note di C. Marabelli, Vol. I., Jaka Book, Milano 1988, pp. 261-263M
IL PROEMIO DEL PROSLOGION
Nelle prime pagine del suo capolavoro Anselmo mette in relazione Monologion e Proslogion, evidenziandone le differenze nell1impostazione. La ricerca di una via piu` semplice per dimostrare l1esistenza di Dio, racconta Anselmo, lo spinse ad abbandonare la paziente riflessione adottata nell1opera precedente basata sulla concatenazione di molti argomenti. Quando ormai stava per rinunciare, fu colto dall1improvvisa scoperta alla base dell1argomento ontologico che regge tutta l1architettura del Proslogion. Proemium Postquam opusculum quoddam velut exemplum meditandi de ratione fidei cogentibus me precibus quorundam fratrum in persona alicuius tacite secum ratiocinando quae nesciat investigantis edidi: considerans illud esse multorum concatenatione contextum argumentorum, coepi mecum quaerere, si forte posset inveniri unum argumentum, quod nullo alio ad se probandum quam se solo indigeret, et solum ad astruendum quia deus vere est, et quia est summum bonum nullo alio indigens, et quo omnia indigent ut sint et ut bene sint, et quaecumque de divina credimus substantia, sufficeret.
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Ad quod cum saepe studioseque cogitationem converterem, atque aliquando mihi videretur iam posse capi quod quaerebam, aliquando mentis aciem omnino fugeret: tandem desperans volui cessare velut ab inquisitione rei quam inveniri esset impossibile. Sed cum illam cogitationem, ne mentem meam frustra occupando ab aliis in quibus proficere possem impediret, penitus a me vellem excludere: tunc magis ac magis nolenti et defendenti se coepit cum importunitate quadam ingerere. Cum igitur quadam die vehementer eius importunitatis resistendo fatigarer, in ipso cogitationum conflictu sic se obtulit quod desperaveram, ut studiose cogitationem amplecterer, quam sollicitus repellebam. Aestimans igitur quod me gaudebam invenisse, si scriptum esset, alicui legenti placiturum: de hoc ipso et de quibusdam aliis sub persona conantis erigere mentem suam ad contemplandum deum et quaerentis intelligere quod credit, subditum scripsi opusculum. Et quoniam nec istud nec illud cuius supra memini dignum libri nomine aut cui auctoris praeponeretur nomen iudicabam, nec tamen eadem sine aliquo titulo, quo aliquem in cuius manus venirent quodam modo ad se legendum invitarent, dimittenda putabam: unicuique suum dedi titulum, ut prius Exemplum meditandi de ratione fidei, et sequens Fides quaerens intellectum diceretur. Sed cum iam a pluribus cum his titulis utrumque transcriptum esset, coegerunt me plures et maxime reverendus archiepiscopus Lugdunensis, Hugo nomine, fungens in Gallia legatione Apostolica, qui mihi hoc ex Apostolica praecepit auctoritate, ut nomen meum illis praescriberem. Quod ut aptius fieret, illud quidem Monologion, id est soliloquium, istud vero Proslogion, id est alloquium, nominavi. LANSELMO dIAOSTA, Proslogion, Rizzoli, Milano 1992, pp. 58-59M
Proemio Dopo aver pubblicato, a seguito delle pressanti preghiere di alcuni confratelli, un opuscolo come esempio di meditazione sulla razionalita` della fede da parte di chi, ragionando silenziosamente
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dentro di se´, ricerca cio` che non conosce, considerando che quanto pubblicato era costituito da una concatenazione di molti argomenti, incominciai a chiedermi se per caso fosse possibile trovare un argomento unico, che non avesse bisogno di nientIaltro per essere considerato valido e che fosse in grado da solo di dimostrare non solo che Dio esiste veramente e che e` il sommo bene Ldi nessun altro bisognoso e di cui tutte le cose hanno bisogno per essere e per avere valoreM, ma anche di dimostrare tutto cio` che crediamo della divina sostanza. Rivolgevo spesso e intensamente il mio pensiero su questo punto. Talvolta mi sembrava di poter gia` afferrare cio` che cercavo; talvolta invece sfuggiva del tutto allIacume della mia mente; alla fine, privo di speranza, decisi di cessare la ricerca di una cosa che sembrava impossibile da trovare. Ma quando volli escludere completamente da me quel pensiero, affinche´ non impedisse alla mia mente, occupandola inutilmente, di impegnarsi in altri pensieri nei quali potessi fare progressi, proprio allora quel pensiero comincio` sempre piu` ad imporsi, con una certa importunita`, a me che non lo volevo e lo respingevo. Mentre dunque, un giorno, mi affaticavo strenuamente nel resistere alla sua insistenza, proprio nel conflitto dei pensieri si offri` a me cio` che non speravo piu` di riuscire a trovare, cosi` che io abbracciai con passione quel pensiero che avevo respinto angosciato. Ritenendo poi che quanto gioivo di avere trovato, se fosse stato scritto, sarebbe piaciuto a qualche lettore, scrissi, su questo e su altri argomenti il seguente opuscolo, mettendomi nella posizione di chi tenta di innalzare la sua mente a contemplare Dio e cerca di comprendere cio` che crede. E poiche´ giudicavo che ne´ questo opuscolo ne´ quello che sopra ho ricordato fossero degni del nome di libro o di portare il nome dellIautore, pensavo tuttavia che non si dovessero pubblicare senza un titolo qualsiasi col quale invitassero alla lettura, in qualche modo, colui nelle cui mani fossero pervenuti, diedi a ciascuno il suo titolo, chiamando il primo Esempio di meditazione sulla ragione della fede e il successivo La fede che cerca l1intelletto.
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Ma quando entrambi erano gia` stati trascritti da molti con questi titoli, molti mi sollecitarono, in particolare il reverendo arcivescovo di Lione, di nome Ugol, legato apostolico in Gallia, che me lIordino` con autorita` apostolica, mi imposero di premettere il mio nome su di essi. Per fare cio` piu` adeguatamente ho dunque intitolato il primo opuscolo Monologion, cioe` soliloquio, e questo invece Proslogion, cioe` colloquio. LANSELMO dIAOSTA, Proslogion, traduzione a cura dellIautoreM
BIBLIOGRAFIA K. BARTH, Anselmo d1Aosta. Fides quaerens intellectum, Morcelliana, Brescia 2001. M. PARODI, Nel conflitto dei pensieri. Studio su Anselmo d1Aosta, Lubrina, Bergamo 1988. S. VANNI ROVIGHI, Introduzione a Anselmo d1Aosta, Laterza, Roma-Bari 1987. G. VIOLA, Anselmo d1Aosta. Fede e ricerca dell1intelligenza, Jaka Book, Milano 2000.
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Durante il XII secolo, giunsero a maturazione in Occidente alcuni processi che produssero trasformazioni di lunga durata nel tessuto sociale ed economico. Teatro principale di questo generale rinnovamento furono i centri urbani dove, contemporaneamente al manifestarsi di una piu` articolata divisione del lavoro, si affermo` un nuovo ceto sociale, quello degli intellettuali, inteso come raggruppamento di individui dediti per mestiere a studiare, scrivere e insegnare. A differenza della &rinascita' del IX secolo, limitata al dotto cenacolo riunito intorno alla corte dei Franchi, il rinnovamento culturale del XII secolo non ebbe un programma culturale unitario e diretto dall(alto, ma si articolo` in una pluralita` d(indirizzi eterogenei e, spesso, in competizione tra loro. Nelle citta` in rapida espansione, alcuni maestri iniziarono ad aprire scuole rivolte ad allievi desiderosi di ricevere una preparazione di livello superiore *soprattutto nel diritto e delle arti del trivio+, che le istituzioni culturali sotto il diretto controllo del vescovo non potevano offrire. Prima di questa svolta, nel campo dell(istruzione le strutture monastiche fuori dalle mura cittadine avevano a lungo esercitato un ruolo di primo piano. Successivamente, quando nel cuore delle citta` si determino` un mutamento che produsse uno spostamento verso nuove forme di elaborazione e trasmissione del sapere, in molte citta` europee sorsero scholae collegate alle cattedrali che favorirono una piu`
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estesa alfabetizzazione e che, in alcune realta`, anticiparono la nascita delle universita`. In sintonia con il vivace ambiente urbano, l'intellettualita` che gravitava intorno al capitolo della cattedrale contribui` a innovare anche le pratiche formative nel campo della filosofia. Le lezioni di questi maestri catalizzarono l'interesse di molti chierici che, svincolati dalla regola dell'obbedienza, si spostavano in continuazione da una citta` all'altra per seguire i docenti piu` illustri. I magistri, seguiti dai loro scolari, cambiavano di sovente luogo d'insegnamento e questa mobilita` favori` la creazione di una fitta rete di relazioni tra uomini ) e sedi ) di cultura. Grazie soprattutto alla situazione di pace garantita dalla monarchia francese, il nord della Francia divenne il polo culturale piu` vitale di tutta l'Europa, dove confluivano studenti provenienti anche dalla Germania, dall'Italia e dall'Inghilterra per coltivare le arti liberali. Prima del definitivo imporsi di Parigi come massimo centro per l'istruzione superiore, particolarmente vivaci furono le organizzazioni scolastiche sorte a Reims, a Laon e, soprattutto, a Chartres. Fondata alla fine del X secolo dal vescovo Fulberto, nel corso dei secoli XI e XII la schola chartriana divento`, grazie anche alle prime traduzioni di testi antichi provenienti dalle biblioteche del mondo arabo, un grande punto d'incontro internazionale per chierici-intellettuali desiderosi di coltivare lo studio della filosofia e delle scienze naturali. Il tratto peculiare della scuola divenne la ricerca di una maggiore completezza nella conoscenza scientifica attraverso l'applicazione delle arti del trivio *grammatica, retorica e dialettica+ alle discipline del quadrivio *aritmetica, geometria, astronomia, musica+. Fu in particolare l'analisi dettagliata del Timeo di Platone che
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porto` i maestri di Chartres a concepire la natura come la prima creatura di Dio e l5uomo, per il posto centrale in essa ricoperto, come la creatura piu` perfetta. A uno dei piu` rinomati maestri di questo periodo, Bernardo di Chartres, si deve un celebre aforisma citato da Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon: 1Siamo nani arrampicati su spalle di giganti. Cosi` vediamo di piu` e piu` lontano di loro, non gia` perche´ la nostra vista sia piu` acuta o la statura piu` alta, ma perche´ ci sollevano nell5aria con tutta la loro altezza gigantesca2. Queste parole sintetizzano bene l5invito a una ricerca piu` autonoma senza trascurare la riconoscenza verso i grandi filosofi come Platone, che sara` una costante del cosiddetto umanesimo chartriano. Con la vitalita` di Chartres potevano competere in Europa solo poche realta`, tra cui Bologna per lo studio del diritto e Toledo per il ruolo di mediazione con il mondo musulmano. Nel lungo periodo furono pero` soprattutto le scuole di Parigi, dove si coltivava la dialettica, a imporsi come meta prediletta dagli intellettuali europei. La citta` sulla Senna divenne la capitale degli studi teologici e filosofici procurandosi l5appellativo di 3Atene del Nord4. All5interno della popolazione parigina crebbe considerevolmente il prestigio di chi, come Abelardo, faceva parte della categoria dei liberi maestri attivi nei contesti cittadini piu` dinamici, dove si erano create le condizioni per una profonda lacerazione con l5etica e la cultura legate al mondo rurale del monachesimo. La tradizione scolastica claustrale, pur dovendo fronteggiare la concorrenza di maestri come Abelardo, appariva nel XII secolo ancora dinamica. Una delle massime espressioni della mistica speculativa elaborata entro le mura dei chiostri fu il cistercense Bernardo di Chiaravalle. Nato da una nobile famiglia nel
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1090, Bernardo fondo` nel 1115 un monastero a Clairvaux OClara Vallis in latinoP, che, collocato nellKattuale regione francese denominata Champagne-Ardenne, sarebbe ben presto divenuto il centro cistercense piu` importante dKEuropa. Scrittore assai versatile e prolifico, egli elaboro` una teologia mistica che non lo condusse tuttavia ad alienarsi dalle problematiche del mondo. Anzi, il suo impegno in difesa della cristianita` lo porto` anche ad esprimersi a favore della teocrazia, a scrivere la regola dellKordine monastico-militare dei Templari e a predicare lKesigenza di una seconda crociata, presentata come un momento di purificazione spirituale per il re di Francia e i suoi cavalieri. Le posizioni improntate a una intransigente ortodossia del teologo cistercense si presentavano come antitetiche rispetto allKatteggiamento sperimentale dei maestri di logica che insegnavano a Parigi, definita da Bernardo Fnuova BabiloniaG. Ai dialettici che insegnavano nelle scuole cittadine egli contestava sia il fatto di ottenere ingenti guadagni attraverso la scienza sia la pretesa di voler dimostrare la fede attraverso la logica. Sospinto da una ferrea volonta` di difendere lKortodossia dottrinale, lKabate di Clairvaux ebbe anche un ruolo decisivo durante il concilio di Sens O1140P, al termine del quale fu condannato come eretico il piu` celebre esponente dellKambiente scolastico parigino: Pietro Abelardo. Come la maggior parte dei clerici vagantes che nella prima meta` del secolo XI si spostavano da una citta` allKaltra per completare la propria formazione superiore, anche Abelardo proveniva da una famiglia della nobilta` minore dedita al mestiere delle armi. Era nato nella localita` bretone di Le Pallet, vicino a Nantes, nel 1079. Durante i suoi anni giovanili si era dedicato con passione a un vagabondaggio formativo nelle va-
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rie scuole di dialettica di Tours, di Loches e, infine, di Parigi. Fu allievo prima di Roscellino e poi di Guglielmo di Champeaux, che sarebbero diventati entrambi suoi avversari nella disputa sugli universali. A Parigi, dopo essersi trasformato da allievo in maestro e aver ricevuto il prestigioso incarico di insegnare nella cattedrale di Noˆtre-Dame, Abelardo trascorse gli anni piu` felici della sua avventurosa esistenza. Al culmine della sua carriera sKinnamoro` di Eloisa, con la quale visse una celebre quanto tragica storia dKamore. Eloisa era nipote di Fulberto, canonico della cattedrale, che aveva dato ospitalita` ad Abelardo chiedendogli in cambio solo di perfezionare lKistruzione della congiunta. Innamoratosi di Eloisa, Abelardo la sposo` segretamente dopo che la loro relazione, dalla quale nacque anche un figlio, divenne di pubblico dominio. Quando si sposo` con Eloisa il clericus Abelardo era probabilmente un semplice tonsurato oppure poteva aver ricevuto, al massimo, gli ordini minori. Si trovava percio` in una condizione che poteva conferirgli lo status di chierico, ma non aveva ricevuto una vera e propria ordinazione sacramentale. Abelardo avrebbe quindi potuto anche sposarsi apertamente, dal momento che la dottrina ecclesiastica adottata con la Riforma gregoriana prevedeva il celibato solo per gli ordini maggiori, vale a dire a partire dal suddiaconato. Inoltre, tale imposizione rimaneva nel secolo XII in gran parte inapplicata ed era assai diffusa la pratica del concubinato. Perche´ allora Abelardo, fra le possibili opzioni, preferi` quella di sposarsi in segreto? La scelta potrebbe essere stata dettata da due fattori. In primo luogo, dal desiderio della famiglia di Eloisa di cancellare lKonta ricevuta e, in secondo luogo, dal reale sentimento dKamore che univa Abelardo alla sua allieva, con la quale conservo`, sino alla morte, un intenso rap-
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porto spirituale. E` importante a questo punto sottolineare che, per formalizzare il loro legame, non fu celebrato un matrimonio clandestino, senza cerimonia rituale, assimilabile al concubinato, ma un matrimonio in segreto, senza cioe` divulgarne la notizia. Questa segretezza deve essere ricondotta allKesigenza di tutelare il prestigio di Abelardo. Prender moglie infatti non solo era ritenuto incompatibile con il canonicato e i benefici a esso connessi, ma anche con la continenza richiesta alla condizione di magister e con gli ulteriori possibili sviluppi nella carriera ecclesiastica ai quali Abelardo poteva ancora aspirare. Purtroppo la decisione di non divulgare la notizia delle nozze, adottata di comune accordo dai due amanti, provoco` lKira di Fulberto. Egli, ritenendo di essere stato di nuovo offeso e ingannato, fece evirare Abelardo da due sicari che, catturati, vennero a loro volta castrati e accecati. Dopo aver subito la vendetta di Fulberto, Abelardo si ritiro` a vita monastica piu` per vergogna che per devozione. Eloisa entro` nel monastero di Argenteuil e in seguito, quando Abelardo era gia` stato eletto abate di Saint-Gildas, accetto` di trasferirsi al Paracleto, un piccolo monastero femminile fondato nella Champagne dallo stesso Abelardo. Presso lKeremo del Paracleto, di cui Eloisa era divenuta badessa, Abelardo trovo` rifugio dopo la condanna ricevuta dal concilio di Soisson O1121P per la concezione cristologia, espressa nel De unitate et trinitate divina, giudicata eretica dalle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1136 ritorno` a Parigi dove furono suoi allievi anche Arnaldo da Brescia e Giovanni di Salisbury, ma, dopo una breve stagione di successi in cui compose diversi scritti di etica e teologia, fu travolto da una nuova ondata di critiche. Dopo lKultima condanna inflittagli durante il concilio
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di Sens, morira` nel 1142 nellKabbazia di Cluny, dove era stato amichevolmente accolto dallKabate Pietro Iil VenerabileJ. Al di la` della sua vita avventurosa e sfortunata, la figura di Abelardo e` ricordata, nella storia della filosofia, soprattutto per la sua teoria degli universali, che e` senzKaltro una delle piu` originali di tutto il Medioevo. Egli si oppose al realismo sostenuto dal suo maestro Guglielmo di Champeaux e, al contempo, anche al vocalismo elaborato da un altro dei suoi maestri, Roscellino di Compie`gne. La teoria realista, che rappresento` la prima dottrina globale degli universali, presentava un legame assai stretto con la teoria del significato delle parole e della predicazione dei nomi. Essa si basava sul presupposto che i generi e le specie fossero delle cose; di conseguenza professava lKesistenza di unKFessenza materialeG oltre le entita` particolari attingibili con i sensi e infine sosteneva che nella predicazione non entravano in gioco solo le parole, ma anche le cose, in quanto significati di quelle parole. In antitesi rispetto alla posizione realista si poneva il vocalismo di Roscellino, che riducendo generi e specie a semplici emissioni di voce Oflatus vocisP, considerava impossibile lKesistenza di entita` diverse dagli individui e dalle voci che a essi si riferiscono. Affermare che gli universali non sono altro che emissioni vocali non implicava la loro incapacita` di significare qualcosa, ma voleva semplicemente dire che il nome FuniversaleG, come FuomoG o FanimaleG, si riferiva solo a entita` individuali e non a essenze universali. Il punto di vista abelardiano, ha rilevato Jean Jolivet, puo` essere designato come Fnon-realismo platonicoG o FconcettualismoG, nel senso che si opponeva alla riduzione degli universali a res, ma nello stesso tempo, attraverso la teoria dello status rei, cercava di dare un fondamento non linguistico al-
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lKattribuzione di uno stesso nome a una molteplicita` di cose individuali. Sostenere N affermava Abelardo N che singoli individui, diversi gli uni dagli altri, sono nominabili con lo stesso termine FuomoG significa affermare che essi condividono lKessere uomini, ovvero la condizione di uomo, che non corrisponde ne´ a una cosa particolare, ne´ a una presunta cosa universale che sia partecipata da quegli individui. Abelardo pose lKaccento in questo modo sulla funzione cognitiva e comunicativa dei segni linguistici, piu` che su quella referenziale come era stato per le tesi realiste e vocaliste. La rigorosa indagine razionale fu una costante anche nelle riflessioni abelardiane dedicate a tematiche etiche e teologiche. Ne rappresentano un esempio sia lKEthica, conosciuta anche con il titolo socratico Scito te ipsum Oconosci te stessoP, sia il Dialogus inter Philosophum, Judaeum et Christianum. Nella prima di queste due opere il centro della prospettiva etica di Abelardo consisteva nellKimportanza attribuita alla qualita` morale dellKintenzione allKorigine delle azioni umane: solo lKinteriorita` dellKuomo, e non lKatto esteriore, poteva essere moralmente rilevante. Abelardo applico` al campo dellKetica il modello logico della verita` o falsita` di una proposizione: come una medesima proposizione puo` divenire vera o falsa a seconda che muti la realta` cui fa riferimento, cosi` lKazione riceve valore dallKintenzione che la dirige. Ne consegue, in estrema sintesi, che interiorizzando il concetto di vizio e virtu`, cio` che e` bene o male e` solo il frutto del consenso che lKuomo da` alle inclinazioni naturali. Affermando che gli stati etici nascono dallKintenzionalita` spirituale e non dal corpo o dal mondo materiale, Abelardo si opponeva tanto allKascetismo che considerava peccato certe inclinazioni dellKuomo, quanto a una morale superficiale che classificava le
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azioni come buone o cattive senza considerare lKatteggiamento interiore ad esse connesso. Non a caso, Bernardo di Clairvaux, che proponeva al contrario un itinerario ascetico volto a dominare il corpo con la preghiera, avrebbe osteggiato con particolare vigore la morale abelardiana. Dal momento che dalla definizione dei vizi e delle virtu` allKanalisi del sommo bene il passo e` breve, occorre ora presentare il Dialogus inter Philosophum, Judaeum et Christianum. In questa sorta di compendio di teologia, scritto da Abelardo negli ultimi mesi di vita a Cluny, si confrontano un filosofo, un giudeo e un cristiano, che si presentano di fronte allKautore per chiedergli di fare da giudice nel loro dibattito, gia` in corso da tempo, sulle rispettive fedi religiose e i fondamenti della morale. In questKopera dialogica Abelardo cerco` di mettere in risalto gli aspetti comuni ai tre monoteismi con lKintento di ritrovare nelle leggi naturali, al di la` delle religioni, le motivazioni per riconoscere in ogni uomo il figlio di Dio. Il filosofo N di formazione eclettica e probabilmente musulmano N e` testimone degli interessi filosofici sviluppati a partire dai testi allora disponibili in Occidente e incarna un atteggiamento di apertura allKascolto delle ragioni dellKaltro. Il giudeo rimane fedele alla legge mosaica, con i suoi rigidi precetti legati a unKidea di purezza non razionalmente fondata e si configura come il rappresentante di unKadesione solo esteriore alla Scrittura, cui non corrisponde necessariamente unKintenzione interiore. Nella parte dedicata alla figura del cristiano, Abelardo non dimostro` infine solo la possibilita` di rendere conciliabile la tradizione della Patristica con la logica dei filosofi antichi, ma porto` a compimento anche lKapplicazione del metodo della logica alle questioni teologiche dal quale nascera` una nuova scientia Theologiae. Non a
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caso il Dialogus, a testimonianza di un nuovo stile di fare teologia, si conclude con lKaffermazione che: Fnel sostenere la fede quello che importa non e` la verita` nella sua definizione reale, ma cio` che puo` essere pensato dallKuomo, perche´ si deve ricordare che la maggior parte delle questioni nasce dalle parole delle autorita` e il giudizio verte sulle espressioni e non sui contenutiG. Alla luce di quanto esposto, dovrebbe risultare facilmente comprensibile perche´ il XII secolo sia stato spesso indicato come il secolo di Abelardo. La sua figura rappresento` infatti un punto di svolta per lKintellettualita` occidentale e sarebbe diventato un costante punto di riferimento per tutti i campi del sapere in cui egli si cimento`: la logica, la teoria della conoscenza, lKetica e, in ultimo, la teologia. FONTI LKAUTOBIOGRAFIA
La lunga lettera consolatoria, diffusa per tutto il Medioevo con il titolo di Historia calamitatum mearum OStoria delle mie disgrazieP, rappresenta una delle prime autobiografie dell3epoca medievale. Sebbene la sua autenticita` sia stata in passato messa in dubbio, la critica piu` recente e` concorde nell3attribuire la paternita` di questo testo ad Abelardo. Scritta per consolare un amico infelice, nella sua epistola egli si rivolge all3ipotetico amico per narrargli a sua volta le proprie sventure. Nella Storia, composta presumibilmente tra il 1132 e il 1134, l3autore ripercorre le sue esperienze di allievo e di maestro e ci offre uno spaccato dell3effervescenza del clima culturale
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tipico delle scuole cittadine. Nel passo scelto si potra` cogliere il medesimo stile impetuoso adottato da Abelardo prima in campo logico-filosofico, nel dibattito riguardante la questione degli universali e successivamente, in campo teologico, nella polemica contro l3impianto tradizionale dell3esegesi biblica.
Perveni tandem Parisius, ubi iam maxime disciplina haec florere consueverat, ad Guillelmum scilicet Campellensem praeceptorem meum in hoc tunc magisterio re et fama praecipuum; cum quo aliquantulum moratus primo ei acceptus, postmodum gravissimus, exstiti cum nonnullas scilicet eius sententias refellere conarer et ratiocinari contra eum saepius aggrederer et nonnumquam superior in disputando viderer. Quod quidem et ipsi qui inter conscholares nostros praecipui habebantur tanto maiori sustinebant indignatione, quanto posterior habebar aetatis et studii tempore. Hinc calamitatum mearum quae nunc usque perseverant coeperunt exordia et, quo amplius fama extendebatur nostra, aliena in me succensa est invidia. Factum tandem est ut, supra vires aetatis meae de ingenio meo praesumens, ad scholarum regimen adolescentulus aspirarem et locum, in quo id agerem, providerem insigne videlicet tunc temporis Meliduni castrum et sedem regiam. Praesensit hoc praedictus magister meus et, quo longius posset scholas nostras a se removere conatus, quibus potuit modis, latenter machinatus est ut, priusquam a suis recederem scholis, nostrarum praeparationem scholarum praepediret et provisum mihi locum auferret. Sed quoniam de potentibus terrae nonnullos ibidem habebat aemulos, fretus eorum auxilio, voti mei compos exstiti et plurimorum mihi assensum ipsius invidia manifesta conquisivit. Ab hoc autem scholarum nostrarum tiricinio ita in arte dialectica nomen meum dilatari coepit ut non solum condiscipulorum meorum, verum etiam ipsius magistri, fama contracta paulatim exstingueretur. Hinc factum est ut, de me amplius ipse praesumens ad castrum Corbolii,
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quod Parisiacae urbi vicinius est, quantocius scholas nostras transferrem ut inde videlicet crebriores disputationis assultus nostra daret importunitas. Non multo autem interiecto tempore, ex immoderata studii afflictione correptus infirmitate coactus sum repatriare, et per annos aliquot a Francia remotus, quaerebar ardentius ab his quos dialectica sollicitabat doctrina. Q…R Parisius reversus, scholas mihi iamdudum destinatas atque oblatas, unde primo fueram expulsus, annis aliquibus quiete possedi, atque ibi in ipso statim scholarum initio glossas illas Ezechielis, quas Lauduni inceperam, consummare studui. Quae quidem adeo legentibus acceptabiles fuerunt ut me non minorem gratiam in sacra lectione adeptum iam crederent quam in philosophica viderant. Unde utriusque lectionis studio scholae nostrae vehementer multiplicatae, quanta mihi de pecunia lucra, quantam gloriam compararent, ex fama te quoque latere non potuit. Sed quoniam prosperitas stultos semper inflat, et mundana tranquillitas vigorem enervat animi, et per carnales illecebras facile resolvit, cum iam me solum in mundo superesse philosophum aestimarem, nec ullam ulterius inquietationem formidarem, frena libidini coepi laxare qui antea vixeram continentissime. Et, quo amplius in philosophia vel sacra lectione profeceram, amplius a philosophis et divinis immunditia vitae recedebam. Constat quippe philosophos, nedum divinos, id est sacrae lectionis exhortationibus intentos, continentiae decore maxime polluisse. Cum igitur totus in superbia atque luxuria laborarem, utriusque morbi remedium divina mihi gratia licet nolenti contulit, ac primo luxuriae deinde superbiae; luxuriae quidem his me privando quibus hanc exercebam, superbiae vero quae mihi ex litterarum maxime scientia nascebatur, iuxta illud Apostoli Fscientia inflatG, illius libri, quo maxime gloriabar, combustione me humiliando. Cuius nunc rei utramque historiam verius ex ipsa re quam ex auditu cognoscere te volo, ordine quidem quo processerunt. Quia igitur scortorum immunditiam semper abhorrebam, et ab accessu et frequentatione nobilium feminarum studii scholaris assiduitate revocabar, nec laicarum conver-
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sationem multum noveram, prava mihi, ut dicitur, fortuna blandiens commodiorem nacta est occasionem qua me facilius de sublimitatis huius fastigio prosterneret, immo superbissimum nec acceptae gratiae memorem divina pietas humiliatum sibi vendicaret. OPIETRO ABELARDO, Epistolario di Abelardo ed Eloisa, a cura di I. Pagani, Utet, Torino 2004, pp. 111-133P
Giunsi infine a Parigi, gia` da tempo centro assai fiorente di questo tipo di studi, cioe` dal mio insegnante Guglielmo di Champeaux, che nel magistero di quella disciplina era allora grandissimo in realta` e per fama. Con lui rimasi qualche tempo; allKinizio bene accetto, gli divenni poi assai molesto, quando cioe` cercai di confutare alcune sue proposizioni e resi sempre piu` spesso ad argomentare contro di lui, talora risultando vincitore nella disputa. Questa condotta genero` in quelli tra i nostri condiscepoli che erano considerati piu` bravi tanta maggiore stizza, quanto inferiore ero stimato per eta` e anzianita` di studio. Di qui hanno preso inizio le mie disgrazie che continuano fino ad oggi e, col crescere della nostra fama, e` divampata lKinvidia degli altri contro di me. Avvenne infine che, fidando nelle mie capacita` intellettive piu` di quanto consentisse lKeta`, poco piu` che ragazzo aspirai a reggere una scuola e mi procurai un luogo ove farlo, a Melun cioe`, borgo allora insigne e sede regia. Il mio maestro lo intui` e, cercando di allontanare quanto piu` possibile da se´ la nostra scuola, tramo` segretamente con tutti i mezzi in suo potere per impedirmi di organizzare la nostra scuola, prima che abbandonassi la sua, e per togliermi la sede che avevo previsto. Ma poiche´ alcuni dei potenti della terra gli erano li` nemici, forte del loro aiuto, riuscii nel mio intento, ed anzi proprio la sua manifesta ostilita` mi conquisto` il consenso di molti. Questo primo saggio del nostro insegnamento comincio` a far crescere la mia fama nellKarte dialettica al punto da ledere e gradatamente eclissare non solo la notorieta` dei miei condiscepoli ma anche quella dello stesso maestro. Ne venne che, fat-
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to ancor piu` temerario, prima possibile trasferii la nostra scuola nella citta` di Corbeil, che e` piu` vicina a Parigi, naturalmente perche´ di li` la nostra impudenza potesse piu` spesso sferrare gli attacchi delle dispute. Ma non molto tempo dopo per lo smodato carico di studio mi ammalai e fui costretto a ritornare in patria; rimasi lontano dalla Francia alcuni anni, mentre coloro che erano attratti dallKinsegnamento della dialettica mi attendevano con ardore crescente. Q…R ritornai a Parigi e tenni in pace per alcuni anni la scuola che gia` da un pezzo mi era stata destinata e offerta e dalla quale ero stato prima cacciato. Li` fin dallKinizio del mio insegnamento attesi a completare le glosse a Ezechiele che avevo iniziato a Laon. Esse furono cosi` apprezzate dai lettori da far gia` credere loro che io avessi raggiunto nella lettura del testo sacro unKabilita` non minore di quella che avevano sperimentato nella lettura delle opere filosofiche. Percio` grazie alla pratica di entrambe le letture la nostra scuola crebbe vigorosamente e, per la notorieta` della cosa, anche tu non potesti ignorare quanta abbondanza di denaro mi procuro` e quanta gloria. Ma poiche´ la prosperita` gonfia sempre gli stolti e la tranquillita` terrena infiacchisce il vigore dellKanimo e facilmente lo spegne con la seduzione della carne, quando ormai ritenevo di essere lKunico filosofo al mondo e non temevo piu` alcuna molestia, io che prima ero vissuto in estrema continenza, cominciai ad allentare le redini alla concupiscenza. Quanti maggiori progressi avevo compiuto in filosofia e nella lettura del testo sacro, tanto piu` mi allontanavo dai filosofi e dai divini per la mia vita licenziosa. E` ben noto infatti che i filosofi e ancor piu` i divini, coloro cioe` che sono attenti alle esortazioni che vengono dalla lettura del testo sacro, furono massimamente ornati dello splendore della continenza. Mentre, dunque, ero travagliato tutto dalla superbia e dalla lussuria, la grazia divina mi offri`, pur se contro la mia volonta`, una cura per entrambi questi mali, prima per la lussuria, poi per la superbia: della lussuria privandomi di cio` con cui la praticavo; della superbia, che in me nasceva soprattutto dal sapere letterario N secondo le paro-
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le dellKApostolo Fil sapere gonfiaG N umiliandomi con il rogo del libro del quale sopra ogni altra andavo fiero. Voglio ora che di entrambe tu apprenda la storia veracemente dai fatti stessi piuttosto che per sentito dire, proprio nellKordine in cui si svolsero. Poiche´ dunque avevo sempre avuto orrore delle immonde prostitute, e lKimpegno costante nellKattivita` di scuola mi impediva di incontrare e frequentare donne nobili, ne´ mi era molto famigliare la vita delle donne comuni, la sorte maligna, come si dice, allettandomi, trovo` unKoccasione piu` opportuna con la quale piu` facilmente battermi dal vertice dellKaltezza, o piuttosto la pieta` divina per reclamare a se´, umiliato, me superbissimo e immemore della grazia ricevuta. OPIETRO ABELARDO, Epistolario di Abelardo ed Eloisa, a cura di I. Pagani, Utet, Torino 2004, pp. 110-132P
BIBLIOGRAFIA A. DE LIBERA, Il problema degli universali da Platone alla fine del Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1996. M.T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Introduzione ad Abelardo, Laterza, Roma 1988. C. H. HASKINS, La rinascita del XII secolo, Il Mulino, Bologna 1972. Le sedi della cultura nel Medioevo. Monasteri, scuole, universita`, a cura di G. Albini, con la collaborazione di B. Baldi e S. Leprai, Cuem, Milano 2009. Il pragmatismo degli intellettuali, a cura di R. Greci, Scriptorium, Torino 1996.
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Nelle pagine precedenti e` stato descritto come, a partire dal secolo XI, presso le scuole episcopali e monastiche si fossero create le condizioni per incrementare le ricerche in vari campi della conoscenza. Questa vitalita` intellettuale era stata favorita, da una parte, dai nuovi testi scientifici e filosofici giunti in Occidente attraverso gli scambi con il mondo arabo Lnonostante lIopposizione della Chiesa che tendeva a rifiutare ogni apporto degli GinfedeliHM; dallIaltra, dalla riscoperta della tradizione laica del diritto romano. Dal successivo aumento del numero di persone alfabetizzate connesso allIallargamento del ceto degli intellettuali, si affermo` quella che Charles Haskins ha definito la Drinascita del XII secoloE: un vasto rinnovamento culturale, ben piu` consistente della precedente rinascita carolingia, che porto` anche alla creazione di nuove modalita` di trasmissione del sapere e alla nascita della realta` denominata nel Medioevo Studium, che oggi e` correntemente designata con il termine di universita`. AllIorigine del processo che avrebbe portato al sorgere dei primi Studia si incontrano esperienze scolastiche finalizzate allIistruzione superiore. In queste peculiari forme di scholae, ancora prive di una sede stabile e sprovviste di personale amministrativo, il costo delle lezioni era a carico di studenti gia` adulti che si raccoglievano intorno a un solo maestro. Docente e discenti formavano piccole comunita`, basate su un rapporto di stima e fiducia reciproca, che si possono trovare indicate nelle fonti come societates, familiae o comitivae. In un
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momento successivo, da queste aggregazioni spontanee si sarebbero sviluppate associazioni corporative denominate universitates. Fu a Bologna che nacque lIuniversitas scholariorum: una forma associativa che tendeva a raggruppare e a proteggere la totalita` Lin latino universitasM degli studenti giunti in citta` da tutta Europa per ascoltare i celebri maestri bolognesi di diritto. A Parigi invece, dove esisteva da tempo una rinomata tradizione nellIinsegnamento della teologia, lo Studium si sviluppo` grazie alla corporazione dei professori. Nel corso del tempo, gli Studia disseminati nel territorio europeo si dotarono di strutture piu` solide dal punto di vista istituzionale, regolamentate da statuti che disciplinavano i molteplici aspetti della vita universitaria Lcome il curriculum studiorum, il calendario degli esami, le rette a carico degli studenti e i compensi da elargire ai magistriM. Per rafforzare la propria presenza le universita` medievali dovettero spesso confrontarsi con autorita` laiche ed ecclesiastiche che guardavano con interesse e, allo stesso tempo, con preoccupazione al potere e allIautonomia decisionale di questi nuovi poli di elaborazione culturale. Grazie ai privilegi ottenuti in campo giuridico, le maggiori realta` universitarie acquisirono ben presto una notevole indipendenza, divenendo di fatto istituzioni universali. Basti qui ricordare che a Roncaglia, nel 1158, fu concessa dallIimperatore Federico I una costituzione in favore degli studenti e dei docenti di Bologna, nota come Autentica 1Habita2. Con essa il Barbarossa, in cerca di alleanze per fronteggiare le richieste dei Comuni dellIItalia centro-settentrionale, assicurava la protezione imperiale a tutti coloro che si erano allontanati dalla patria per motivi di studio, garantendo loro il diritto di essere giudicati da tribunali formati da docenti dello Studium. Bologna fu
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un caso paradigmatico, ma non isolato: nel 1200 il re di Francia Filippo Augusto, desideroso di rafforzare il proprio potere, concesse il medesimo privilegio agli studenti di Parigi. Di fronte alle nuove sfide culturali la Chiesa cerco` di controllare la vita all4interno degli Studia e di arrogarsi il diritto di stabilire quali citta` fossero meritevoli di una sede universitaria. Essa tento` di riguadagnare la propria tradizionale supremazia culturale e didattica, vigilando attentamente sull4ortodossia delle dottrine esposte dai maestri autorizzati a insegnare. Nel 1210, come approfondiremo in seguito, furono proibite le lezioni sulla Fisica e sulla Metafisica di Aristotele, poiche´ i contenuti erano ritenuti in disaccordo con le verita` di fede. All4inizio del XIII secolo, in questo clima 2proibizionista3, assunse primaria importanza nell4organizzazione delle universita` la funzione del cancelliere 6esercitata dal vescovo o da un suo delegato7, al cui giudizio era vincolata la possibilita` di conseguire la licentia ubique docendi al termine del percorso accademico. Tuttavia, a Parigi, dopo una condanna emanata dal cancelliere contro alcuni studenti, si verifico` una cospicua migrazione che diede vita a un conflitto in cui fu coinvolto, nel 1231, anche il pontefice Gregorio IX. Con la bolla Parens scientiarum questi ridisegno` l4assetto istituzionale degli Studia, riaffermandone l4indipendenza rispetto ai poteri che se ne contendevano la guida. Tra i soggetti piu` attivi nella competizione all4interno delle universita` si distinsero alcuni maestri provenienti dalle fila dall4ordine dei domenicani, fondato nel 1215 a Tolosa dal sacerdote spagnolo Domenico di Calaruega 61170-12217. Sull4esempio del fondatore, l4azione dei frati domenicani era principalmente rivolta alla predicazione di un ideale di cristianita` ortodossa, sostenuto da una rigorosa preparazione teologica e da una vita ascetica esemplare. L4ordine
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dei frati predicatori fu riconosciuto nel 1216 da papa Onorio III e i suoi membri, per adempiere al compito primario di contrastare la diffusione delle eresie sul piano dottrinario, attribuirono fin dalle origini grande importanza alla formazione teorica. La regola dei domenicani prevedeva percio` che la recita corale delle preghiere dovesse essere fatta brevemente, per lasciare maggior spazio allo studio della teologia e, in secondo luogo, della filosofia. Le prime costituzioni dei domenicani proibivano ai frati di studiare le arti liberali e imponevano di dedicarsi esclusivamente alle verita` teologiche contenute nella Bibbia; ma quando, nel 1259, si riuni` a Valenciennes il capitolo generale per l1incontro annuale di tutti i rappresentanti dell1ordine, fu deciso di istituire nei conventi domenicani delle apposite strutture per insegnamento superiore 3denominati anch1essi Studia4, dove si poteva accedere alla teologia solo dopo un lungo percorso preparatorio nelle arti liberali. Occorre a questo punto segnalare che, fino ad allora, la docenza e la predicazione erano state considerate prerogative del clero secolare, cioe` dei chierici immersi nel mondo 3secolo4. Al clero regolare, vale a dire ai monaci e ai membri degli ordini religiosi che vivevano in comunita` seguendo una determinata regola di vita, non era quindi consentito di predicare o insegnare nello spazio cittadino. Nel vivace clima culturale creatosi all1interno dell1universita` parigina, alcuni magistri domenicani iniziarono pero` a contendere al clero secolare le cattedre disponibili e i migliori studenti. Fin dal generalato di Giordano di Sassonia, successore di san Domenico nel periodo dal 1222 al 1237, all1ordine domenicano fu assegnata una cattedra a Parigi, ma i massimi intellettuali dell1ordine dei predicatori si affermarono solo nella seconda meta` del Duecento.
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Tra questi, occorre senza dubbio annoverare il filosofo e teologo tedesco Alberto di Colonia L1200 circa-1280M, piu` conosciuto come Alberto Magno. Nato a Lauingen, in Svevia, da una famiglia di militari al servizio dei conti di Bo¨llstadt, questi era stato studente alla Facolta` delle Arti nellIuniversita` di Padova, dove aveva conosciuto Giordano di Sassonia. Per influenza di questIultimo, decise di entrare nellIordine e porto` a termine il suo noviziato a Colonia. Nella citta` tedesca, dopo aver ottenuto a Parigi la qualifica di magister in teologia, Alberto ritorno` nel 1248 per fondarvi lo Studium generale dei domenicani. A Colonia si trasferi` anche un suo giovane allievo e confratello, Tommaso dIAquino, il quale affianco` nellIinsegnamento il maestro per quattro anni. Fin da questo periodo, al quale risale il commento allIEthica Nicomachea di Aristotele, Alberto si mostro` indifferente ai timori e alle diffidenze manifestate dalle gerarchie ecclesiastiche nei confronti del filosofo stagirita e dei suoi interpreti. Negli anni successivi, in aperto disaccordo con quanti avevano proibito lo studio di alcune opere di Aristotele, dedico` gran parte della sua vita a testimoniare la sua fiducia nellIaristotelismo e, piu` in generale, nellIindagine razionale. Egli era convinto che bisognasse raccogliere la sfida rappresentata dai nuovi testi aristotelici giunti in Occidente sfruttandone le enormi potenzialita`, anziche´ cercare di arrestarne la diffusione come nel recente passato avevano tentato di fare lIepiscopato parigino e la Santa Sede. Invece di limitarsi prudentemente ad approfondire la logica del filosofo greco, Alberto cerco` nei suoi commentari di reinterpretare criticamente tutto il pensiero aristotelico, in modo da renderlo compatibile con la fede cattolica. Il magister dei frati predicatori non si dedico` esclusivamente allIattivita` intellettuale, ma esercito` anche un ruolo
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di primo piano allIinterno delle istituzioni religiose. Tra il 1254 e il 1257 fu nominato padre provinciale dei domenicani di Teutonica. Divenuto vescovo di Ratisbona nel 1260, ricevette il compito da papa Urbano IV di predicare in Germania la crociata. Dopo un periodo in cui fu quasi totalmente assorbito dagli impegni istituzionali, Alberto riprese ad insegnare allIinterno di alcuni conventi dellIordine domenicano, per poi fare rientro a Colonia, dove risiedera` fino alla morte. Nella citta` tedesca si dedico` alla scrittura dei suoi ultimi trattati: la Summa teologiae sive de mirabili scientia Dei e il De XV problemantibus, un testo scritto su richiesta di un allievo che gli chiedeva di confutare i maestri della Facolta` delle Arti su quindici questioni filosofiche particolarmente spinose. Nella sua vasta produzione Alberto elaboro`, riprendendo in parte il metodo didattico universitario, uno stile argomentativo che avrebbe fatto scuola nei secoli successivi. Nella fattispecie, egli integro` la parafrasi dei filosofi greci con numerose digressioni su opinioni espresse da altri studiosi, senza tralasciare di proporre, in conclusione, la propria personale posizione rispetto alle questioni analizzate. Il suo scopo, infatti, non era solo di impossessarsi delle conoscenze trasmesse da Aristotele, in gran parte gia` disponibili in latino, ma di scrivere unIesposizione del pensiero aristotelico non solo piu` accessibile per i suoi contemporanei, ma anche piu` ricca e piu` problematica. Alberto si prefiggeva, in primo luogo, di spiegare e provare le teorie presentate nei testi del filosofo greco; secondariamente, intendeva chiarire i dubbi che questi concetti potevano sollevare, soprattutto attraverso lIausilio di altri filosofi, come Avicenna e Averroe`, che avevano gia` commentato il Filosofo per antonomasia.
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Questi obiettivi erano coerenti con un progetto enciclopedico che aveva il proprio architrave nel corpus aristotelicum e che illustrava una grande varieta` di tematiche attraverso il ricorso a fonti eterogenee provenienti dalla tradizione greca, latina, araba, ebraica e bizantina. Alberto innesto` sullIaristotelismo elementi ricavati dalla filosofia neoplatonica, dallo stoicismo nonche´ da contributi di enciclopedisti, di naturalisti e di medici. Questa metodologia di lavoro nasceva da un giudizio positivo sulla globalita` del sapere profano e si fondava sul confronto tra diverse tipologie di fonti. In questa prospettiva la filosofia non era piu` vista come riserva di teorie da selezionare, ma come una forma di sapere autonomo e sperimentale, i cui conflitti interni andavano regolati esclusivamente sulla base di argomenti sviluppati razionalmente. Da questa impostazione derivava anche una distinzione fra il metodo da adottare per le discipline filosofiche e quello da applicare allIambito della teologia. Il campo della filosofia, per la prima volta nella scolastica latina, fu cosi` identificato con un settore del sapere ove occorreva procedere tramite dimostrazioni necessarie. Di conseguenza, Alberto collocava in un piano distinto un altro segmento della scienza, quello della teologia, fondato su principi ammessi per fede. Lo statuto epistemologico della scienza teologica veniva cosi` a dipendere dallIadesione dellIuomo alla verita` rivelata. Si noti, per inciso, che simili considerazioni sulla capacita` dellIintelletto umano di operare autonomamente nellIambito filosofico furono uno dei bersagli dellIintervento censorio voluto dal vescovo di Parigi Stefano Tempier. Nel celebre Syllabus del 7 marzo 1277, una lista di 219 tesi considerate eretiche, il presule francese condanno` molti enunciati bollan-
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doli come DaverroistiE, anche se in realta` i philosophi della Facolta` delle Arti, colpevoli di opporsi alle ingerenze ecclesiastiche, avevano probabilmente attinto gli argomenti a sostegno dellIautonomia della ricerca filosofica non tanto da Averroe` quanto dal primo grande dottore domenicano. Per il suo imponente lavoro di traslitterazione filosofica, si puo` riconoscere ad Alberto un ruolo di mediatore tra lIaristotelismo arabo e lIOccidente latino. Egli infatti insegno` al mondo intellettuale cristiano che il pensiero di Aristotele non doveva essere visto come un pericolo da combattere, bensi` come una guida per lIesplorazione razionale della realta` terrena. Al contrario, nel XIII secolo figure come quella del francescano Bonaventura da Bagnoregio avrebbero continuato a contrastare questa interpretazione dellIaristotelismo, in nome di una prospettiva platonico-agostiniana che meglio si adattava alle posizioni piu` conservatrici allIinterno della Chiesa. Un punto cruciale, allIinterno della complessa sistemazione dottrinale di Alberto, e` rappresentato dal confronto con Aristotele e con i maestri arabi sulle tematiche dellIanima e dellIintelletto. Alberto sostenne la tesi che lIuomo, in quanto uomo, non e` altro che intelletto. Per mostrare come questo cammino di elevazione potesse realizzarsi, Alberto si servi` ampiamente del testo di Averroe` in cui sIillustrano le modalita` di congiunzione fra intelletto agente e intelletto possibile. Evidenziare su questo punto le sorprendenti convergenze tra il teologo dellIordine dei predicatori e gli ambienti averroisti delle Facolta` delle Arti di Parigi, non significa di certo sottovalutare le divergenze inconciliabili circa la questione dellIimmortalita` dellIanima personale. Non a caso, proprio contro lIidea di un unico intelletto per tutta la specie umana K in cui si dissolverebbero le anime individuali K Alberto redasse
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nel 1263 il De unitate intellectus contra averroistas, scritto ad Anagni presso la corte pontificia su invito di Alessandro IV. Tuttavia, e` innegabile che la riduzione dellIumanita` dellIuomo alla sua parte razionale professata anche dal magister domenicano fosse coerente con una dottrina antropologica e morale di derivazione aristotelica, la quale individuava la somma felicita` nella vita contemplativa. Alberto ricavo` da queste premesse un ideale di perfezione intellettuale massimamente appagante K perche´ affine alla beatitudine celeste K realizzabile gia` nella vita terrena. NellIesercizio della ragione ogni individuo puo` infatti comprendere che lIintelletto umano in quanto tale ha unIorigine divina e, tramite questa contezza, raggiungere una completa soddisfazione per via razionale. A ulteriore dimostrazione della fascinazione esercitata da queste tematiche, occorre infine segnalare che, nel ventaglio di percorsi filosofici scaturiti dallIapproccio enciclopedico di Alberto, proprio i concetti alla base della dottrina albertina dellIintelletto e della felicita` mentale sarebbero stati approfonditi e sviluppati non solo dal suo discepolo Tommaso dIAquino, ma anche da molti esponenti della mistica speculativa tedesca del XIV e XV secolo. FONTI IL COMMENTO AD ARISTOTELE E LA DOTTRINA DELLA FE-
LICITA` MENTALE
Nel seguente estratto dal commento al terzo libro del De anima di Aristotele, si possono cogliere gli elementi essenziali della teoria
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sulla felicita` contemplativa elaborata da Alberto Magno. Dopo aver confessato di dissociarsi da Averroe` solo in pochi punti, l3autore coniuga idee risalenti a quest3ultimo con quelle di altri filosofi come al-Farabi. Lo scopo e` quello di presentare le tappe attraverso cui l3intelletto umano deve passare per raggiungere la condizione di adeptus 5acquisito6. In questo stato mentale, nel quale l3uomo puo` realizzare pienamente le sue capacita` conoscitive, l3essere umano arriva a diventare in qualche modo simile a Dio, in virtu` del possesso di tutte le forme intellegibili derivante dal contatto con l3intelletto agente.
Nos autem in paucis dissentimus ab Averroe, qui inducit istam quaestionem in Commento super librum de anima. Convenit tamen Averroes cum omnibus aliis fere philosophis in hoc, quod dicit intellectum agentem esse separatum et non coniunctum animae. Et tunc supponit istam propositionem quae et necessaria est, quod omne quod est separatum et efficitur coniunctum, habet aliquam causam suae coniunctionis. Et tunc quaeritur, quae sit illa causa coniunctionis per quam intelligentia agens formaliter coniungitur possibili, ut sic anima efficiatur intelligens separatas substantias. Nos autem in dictis istis nihil imitamur, nisi hoc quod etiam Aristoteles imitasse videtur, quando dixit, quod Dsicut in omni naturaE, in qua est patiens, etiam est agens, et Dita oportetE esse Detiam in anima has differentiasE. Per hoc enim videtur nobis, nec de hoc dubitamus, quin intellectus agens sit pars et potentia animae, sed tunc dicentes eum esse partem, erit quidem animae semper coniunctus sicut pars, sed lumen eius, quo operatur intellecta, hoc non semper est actu coniunctum intellectui possibili, qui est etiam separatus, ut dictum est supra. Convenimus enim cum omnibus Peripateticis, quod intellectus agens magis est separatus quam possibilis. Iterum convenimus cum eis, quod separatum non coniungitur, nisi causam habeat suae coniunctionis. Et his duobus suppositis accipimus duo alia ab Alfarabio, quorum unum dicit in libro suo de anima, et alterum in X
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Nicomachiae suae, quae est Ethica nichomachica dicta apud nos. Id autem quod dicit in libro suo De anima, est, quod cum intellectus duas habeat operationes, quarum una est facere intellecta denudando ea a materia et altera intellecta intelligere et discernere, quod magis diffiniri habet per primam harum operationum quam per secundam, quoniam primam habet per seipsum solus et secundam habet communem cum ceteris potentiis passivis. Id autem quod dicit in X Ethicae, est, quod fiducia philosophantis est non coniungi tantum agenti ut efficienti, sed etiam sicut formae; et hoc explanat dicens, quod intellectus agens, cum agit et creat intellecta in nobis, est ut efficiens coniunctus nobis tantum eo quod tunc agit operatione sibi substantiali, per quam diffinitur, et agit sine nobis coagentibus, licet agat in nobis intellecta, quae facit. Sed intelligere est nostrum opus per intellectum nobis coniunctum; et si fiducia felicis philosophantis est coniungi intellectui sicut formae, tunc coniungetur ei ita, quod ipso intelligat homo felix in optimo statu suae felicitatis; forma enim est, per quam operamur hoc opus quod nostrum est, inquantum homines sumus. LALBERTO MAGNO, De anima, a cura di C. Stroick, Aschendorff, Monasterii Westfalorum 1968, pp. 221-223M
Solo su pochi punti noi ci troviamo qui in dissenso con Averroe`, che introduce tale questione nel Commento al De anima. Tuttavia, Averroe` concorda con quasi tutti gli altri filosofi nellIaffermare che lIintelletto agente e` separato e non congiunto allIanima. E cosi` egli presuppone questa tesi, che e` anche necessaria, e cioe` che tutto cio` che e` separato, e diventa congiunto, abbia una causa della sua congiunzione. Si cerca allora di sapere quale sia questa causa della congiunzione con cui lIintelligenza agente si unisce formalmente a quella possibile, cosi` che lIanima sia messa in condizione di pensare le sostanze separate. Ora, noi non riprendiamo nulla di queste opinioni, se non cio` che sembra aver ripreso anche Aristotele, quando ha affermato che
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come in ogni natura in cui vi e` qualcosa che patisce, vi e` anche un agente, cosi` e` necessario che anche nellIanima esista questa differenza. Per questo ci sembra, e di cio` non dubitiamo, che lIintelletto agente sia una parte e una facolta` dellIanima; ma se si dice che e` parte, sara` sempre congiunto allIanima come una sua parte, anche se il suo lume, per mezzo del quale produce gli intelligibili, non e` sempre congiunto in atto allIintelletto possibile che, come si e` detto prima, e` anchIesso separato. Concordiamo, infatti, con tutti i Peripatetici sul fatto che lIintelletto agente e` piu` separato di quello possibile. Ancora, concordiamo con essi sul fatto che cio` che e` separato non si congiunge, a meno che non ci sia una causa della sua congiunzione. Oltre a questi due presupposti, ne riprendiamo altri due da al-Farabi, dei quali uno si trova nel suo libro sullIanima e lIaltro nel X libro della sua Nicomachea, a noi nota come Etica Nicomachea. Ora, nel suo libro sullIanima, al-Farabi afferma che, dal momento che lIintelletto compie due operazioni, delle quali una e` produrre gli intelligibili spogliandoli dalla loro materia e lIaltra e` pensarli e distinguerli, esso viene definito piu` dalla prima che dalla seconda operazione, perche´ la prima e` propria solo dellIintelletto mentre la seconda e` comune anche a tutte le altre facolta` passive. Nel X libro dellIEtica, al-Farabi afferma invece che la fiducia del filosofo e` quella di congiungersi allIagente non solo come a una causa efficiente, ma anche come a una forma; e spiega cio` dicendo che lIintelletto agente, quando agisce e crea in noi gli intelligibili, e` congiunto a noi solo come efficiente, per il fatto che in quel momento compie lIoperazione che e` propria della sua sostanza, e in base alla quale viene definito, e agisce senza che noi agiamo con esso, sebbene ponga in noi gli intelligibili che produce. Il pensare, pero`, e` la nostra attivita` essenziale, attraverso lIintelletto congiunto a noi; e se la fiducia del filosofo felice e` di congiungersi allIintelletto agente come alla propria forma, allora si congiungera` a esso in modo tale che lIuomo felice, nello stato supremo della sua felicita`, pensi in virtu` di esso; infatti, la forma e` cio` in virtu` di cui
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possiamo svolgere lIattivita` essenziale che ci appartiene, in quanto siamo uomini. LALBERTO MAGNO, De anima, in Filosofia medievale a cura di M. Bettetini, L. Bianchi, C. Marmo, P. Porro, Cortina, Milano 2004, pp. 239-245M
BIBLIOGRAFIA A. DE LIBERA, Albert le grand et la philosophie, Vrin, Paris 1990. A.I. PINI, Scuole e universita`, in La societa` medievale, a cura di S. Collodo e G. Pinto, Monduzzi, Bologna 1999. A. RODOLFI, Introduzione, in Alberto Magno. L3unita` dell3intelletto, introduzione, traduzione note e apparati a cura di A. Rodolfi, Bompiani, Milano 2007, pp. V-LV. R. STURLESE, Storia della filosofia tedesca nel Medioevo. Il secolo XIII, Olschki, Firenze 1996.
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Nati dai fermenti religiosi che, allIinizio del Duecento, percorrevano la societa` urbana e invocavano una riforma della Chiesa, gli ordini religiosi dei domenicani e dei francescani divennero protagonisti di un rinnovato slancio delle istituzioni ecclesiastiche e diedero un cospicuo contributo allo sviluppo degli studi filosofici. A differenza degli ordini monastici derivanti dal tronco dei benedettini Mquali, per esempio i cluniacensi, i certosini, i camaldolesi oppure i cistercensiN, lIordine dei frati minori, fondato da Francesco dIAssisi, e quello dei predicatori, fondato da Domenico di Calaruega, erano privi di monasteri dotati di proprieta` fondiarie nelle aree rurali. Disponevano invece di conventi, ubicati entro le mura della citta`, e potevano procurarsi da vivere solo mendicando. Francescani e domenicani erano accomunati dal proposito di testimoniare il Vangelo nel mondo e, in particolare, nelle citta` dove, sullIonda della crescita economica, si andavano affermando valori in contrasto con quelli evangelici. La questione dei proventi del lavoro intellettuale era destinata a dividere nettamente il campo dei doctores universitari da quello dei magistri appartenenti agli ordini mendicanti. Il conflitto era del resto inevitabile, poiche´ gli esponenti dellIintellettualita` domenicana o francescana, rispetto ai loro colleghi secolari, anteponevano sempre lIobbedienza al papa a tutto il resto, anche alla difesa dei privilegi corporativi di cui godevano i membri delle organizzazioni univer-
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sitarie. Nella famosa disputa divampata nel XIII secolo nello Studium di Parigi, i secolari accusarono i mendicanti di non essere autentici professori e di portare avanti una concorrenza sleale al solo scopo di indirizzare gli studenti verso la vita monastica, sottraendoli in questo modo allIambiente accademico. Dalle fila degli ordini mendicanti provenivano pero` alcuni dei piu` illustri dottori di filosofia e teologia Mcome il domenicano Tommaso dIAquinoN, che delle istituzioni universitarie erano diventati parte integrante e che non potevano essere tacciati di simili sotterfugi. Rimane il fatto che le rivendicazioni dei docenti secolari erano difficilmente condivisibili da chi, come i maestri mendicanti, secondo una logica di gratuita` evangelica, non chiedeva alcun compenso agli allievi. Fin dallIinizio fu chiaro ai secolari che lo stile di vita ascetico e la poverta` materiale erano scelte inconciliabili con i valori di intellettuali abituati a trarre profitto dalla propria attivita` come qualsiasi altro professionista urbano. Questi uomini di cultura erano spesso impegnati, oltre che nellIinsegnamento, a risolvere problematiche pratiche inerenti alla regolamentazione scritta della convivenza civile in molte citta` europee. Ma, nel corso del Duecento, essi si trovarono in competizione, anche su questo terreno, con molti magistri mendicanti che godevano di grande prestigio presso strati della popolazione sempre piu` ampi. I frati, specialmente i francescani, divennero un punto di riferimento non solo per i piu` poveri e per i laici organizzati in confraternite religiose, ma anche per i ceti di governo cittadini che incominciarono ad affidar loro incarichi essenziali per il funzionamento delle istituzioni civiche come, per esempio, ospitare le riunioni dei Consigli comunali, formulare atti amministrativi oppure custodire documenti. LIazio-
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ne dei maestri francescani e domenicani si sviluppo` contemporaneamente allIevoluzione delle forme organizzative dei rispettivi ordini. Il successo e la rapida espansione nei nuovi ordini ne cambio` profondamente la conformazione originaria. I domenicani, messi in secondo piano i precetti della poverta` e della mendicita`, si dotarono di numerosi centri di formazione e, sulla base di una solida rete organizzativa, si dedicarono con efficacia alla predicazione missionaria, alla polemica dottrinale e agli studi teologici. In virtu` dellIesperienza maturata nella lotta contro gli eretici Manzitutto i catariN e la fedelta` dimostrata a Roma, a loro per primi fu affidata la gestione dei tribunali dellIinquisizione, che avevano il compito di sorvegliare sullIosservanza della vera fede. Sotto il pontificato di Innocenzo IV L alla meta` del XIII secolo L anche i frati francescani furono indotti a condurre, superando iniziali titubanze, attivita` inquisitoriali nelle citta` dellIItalia centrale in cui si era maggiormente radicata lIeresia catara. Fin dal tempo in cui era ancora in vita Francesco dIAssisi, nella complessa esperienza dellIordine dei frati minori, vi furono pero` forti contrasti interni, soprattutto sulla questione del possesso dei beni materiali. Il movimento fondato da Francesco si divise cosi` fra una corrente di moderati Mchiamati conventualiN, che aspirava a rivedere le rigide regole sulla poverta` fissate dal fondatore Mvivere senza possedere nulla, ne´ in comunita` ne´ a titolo personale, privi di ripari stabiliN e una corrente di rigoristi Mdenominati spiritualiN, che chiedeva il pieno rispetto dellIindirizzo primigenio. Tra i principali protagonisti di questo scontro va senzIaltro annoverato Guglielmo di Ockham, che caldeggio` un assoluto rispetto
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della originaria poverta` evangelica; mentre, sul fronte opposto, ricopri` un ruolo di primo piano Bonaventura da Bagnoregio, che si fece portavoce di posizioni piu` caute e pragmatiche. Prima di esercitare la massima carica allIinterno dellIordine minoritico, Bonaventura si era distinto per la sua attivita` intellettuale. Per illustrare le prime tappe della sua vita, occorre segnalare che egli nacque, con il nome di Giovanni di Fidanza, intorno al 1217 presso la cittadina di Bagnoregio Mattualmente in provincia di ViterboN, dove, presso il locale convento francescano ricevette i primi rudimenti del sapere. Dal 1236 al 1243 studio` le arti liberali presso lo Studium parigino sotto la guida di Alessandro di Hales, il primo frate minore ad occupare una cattedra universitaria. Nel 1243, divenuto a sua volta magister in artibus, decise di entrare nella Facolta` di Teologia. Nello stesso anno fu accolto, sempre a Parigi, nel convento dei francescani dopo aver deciso di entrare nellIordine. Per essere stato salutato da Francesco, sembra, con le parole FBuona ventura a teG, assunse come frate il nome di Bonaventura. Divenne baccelliere biblico nel 1248 e, in qualita` di baccelliere sentenziario, lesse e commento` il Liber Sententiarum di Pietro Lombardo, il principale strumento didattico utilizzato nellIinsegnamento teologico a partire dal XIII secolo. Consegui` la licentia ubique docendi in teologia nel 1253, ma non gli venne riconosciuto il titolo di magister per le resistenze dei maestri secolari ad accogliere nel collegio dei docenti dello Studium anche i teologi regolari Mfrancescani e domenicaniN. Negli anni successivi compose numerose opere, tra le quali figurano, non a caso, anche le Quaestiones de perfectione evangelica, che rappresentano il suo primo intervento contro lIatteggiamento ostile dei secolari. Anche Bonaven-
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tura, come Tommaso dIAquino, fu insignito ufficialmente del titolo di magister solamente dopo che, nel 1256, presso la curia papale riunita ad Anagni, i maestri secolari Eudes di Douai e Cristiano di Beauvais giurarono solennemente di interrompere lIostracismo verso i membri degli ordini mendicanti. Nel 1257, eletto a soli quarantIanni ministro generale dellIordine francescano, Bonaventura dovette rinunciare al prestigioso insegnamento universitario per dedicarsi esclusivamente ai problemi dellIistituzione che era stato chiamato a presiedere. Due anni dopo, ritiratosi in meditazione sul monte della Verna, nel Casentino, dove nel settembre del 1224 Francesco dIAssisi aveva ricevuto le stimmate, elaboro` il progetto dellIItinerarium mentis in Deum, che puo` essere considerato una delle espressioni piu` alte della spiritualita` del XIII secolo. NellIItinearium Bonaventura amalgamo` citazioni bibliche e patristiche a motivi neoplatonici e agostiniani, ma dimostro` anche una notevole padronanza della filosofia aristotelica. Del resto, qualche anno prima, in quel Commento alle Sentenze destinato a divenire un punto di riferimento per generazioni di teologi francescani, egli aveva accolto non solo il lessico e gli strumenti logici messi a punto da Aristotele, ma anche alcune fondamentali dottrine metafisiche, fisiche, psicologiche e morali di derivazione aristotelica. Sebbene gia` allora avesse denunciato singole tesi dellIaristotelismo radicale incompatibili con la fede cristiana, e` infondato sostenere che il teologo francescano rifiutasse in blocco la filosofia peripatetica. Negli anni successivi, nonostante le responsabilita` di alto livello, continuo` a seguire assiduamente il dibattito filosofico sviluppatosi in seno al mondo universitario, intervenendo a piu` riprese contro gli aristotelici radicali e replicando ai nuovi attacchi rivolti dai maestri secola-
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ri ai docenti degli ordini mendicanti. Partecipo` attivamente al Concilio di Lione, dove si tento` di ristabilire la comunione tra la Chiesa latina e quella greca, ma, ammalatosi gravemente, mori` nel 1274 prima della conclusione dellIassise ecumenica. Nel periodo in cui Bonaventura esercito` la carica di ministro generale dellIordine, il francescanesimo subi` una rifondazione sia dal punto di vista organizzativo sia da quello dottrinario e si concluse un processo gia` iniziato negli ultimi anni di vita di Francesco. Con la crescente stabilizzazione dei frati mendicanti nei conventi e con le ingenti donazioni elargite allIordine si inserirono nelle file dei francescani anche esperti di diritto e di teologia che, dopo averne assunto la guida, modificarono alcuni caratteri originari delle comunita` francescane. Durante il lungo generalato bonaventuriano, ad esempio, dalla curia romana furono affidati ai fratres francescani anche compiti di natura pastorale. Inizialmente si tratto` soltanto di esercitare la predicazione e la confessione, ma, in un secondo momento, i frati minori finirono per porsi in competizione con il clero per cio` che atteneva alla cura delle anime. Fu rivista, in accordo con il papato, la narrazione delle gesta di Francesco, in cui dallIideale spirituale del santo vennero espulsi gli aspetti piu` rivoluzionari in funzione della nuova fisionomia dellIordine. Nel 1266, il capitolo generale di Parigi decreto` di distruggere tutte le testimonianze che non collimavano con la Legenda maior, la biografia ufficiale del santo scritta da Bonaventura stesso nel 1260 Mche ispiro` gli affreschi di Giotto nella basilica superiore di AssisiN. LIobiettivo principale era quello di normalizzare la situazione di contrasto permanente allIinterno dellIordine che nasceva soprattutto dalla spinosa questione della poverta`. Il ri-
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sultato fu pero` contrario alle attese e la lotta tra conventuali e spirituali arrivo` a un punto tale che il papato fu costretto a intervenire pesantemente. Gli esponenti meno prudenti degli spirituali, i cosiddetti fraticelli, vennero equiparati agli eretici e duramente perseguitati. Per approfondire ora le peculiarita` del sistema filosofico di Bonaventura, occorre anzitutto ricordare che, nellIorizzonte culturale in cui questi compi` i suoi studi, ebbero ampia diffusione le traduzioni del corpus aristotelico contenenti le dottrine del Filosofo relative alla fisica, alla metafisica, alla psicologia e allIetica. Come si puo` evincere anche dalla lettura delle opere di Alberto Magno, divenuto gia` in vita unIauctoritas nellIambito scolastico, quanto affermato da Aristotele, insieme ai commenti dei pensatori arabi Msoprattutto quelli di Averroe`N, dominava la scena delle dispute filosofiche allIinterno delle istituzioni universitarie. Nella pluralita` di Studia universitari sorti in Europa, due furono le sedi che sIimposero per la vivacita` e lIampiezza delle ricerche filosofiche: Parigi, dove ebbe ampia diffusione la metafisica aristotelica, nonostante la forte opposizione delle gerarchie ecclesiastiche; e Oxford, dove lIaristotelismo entro` con facilita` nellIambito delle dottrine fisiche, mentre, in ambito metafisico, rimase molto influente la tradizione neoplatonica. In questo scenario culturale dominato dallIingresso del nuovo Aristotele nel mondo latino, si determinarono forti divergenze tra gli esponenti della scolastica sul tema del rapporto tra la ragione e la fede. Un tema che, per la sua centralita`, puo` essere preso come un vero e proprio filo conduttore per comprendere le trasformazioni culturali in atto in quel periodo di tempo. Se in passato il rapporto tra filosofia e teologia era stato visto, da intellettuali come Anselmo e Abelardo, in ter-
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mini di collaborazione e di armonia, a partire dal XIII secolo si affermo` invece un atteggiamento che tendeva a separare rigorosamente i due campi e a riconoscere la piena autonomia dellIindagine filosofica rispetto alla scienza teologica. Era questa la posizione espressa dal domenicano Alberto Magno, mentre il suo allievo prediletto, Tommaso dIAquino, si sarebbe discostato leggermente dalla prospettiva del maestro sottolineando la funzione strumentale che la conoscenza filosofica doveva svolgere, a supporto della fede, contro certi errori dei filosofi. Il luogo in cui si affermo` maggiormente lIinfluenza dellIaristotelismo cristiano fu lo Studium di Parigi, sorto dalle scuole che si raccoglievano intorno alla cattedrale. Presso la Facolta` delle Arti, dove gia` si leggeva e si commentava da tempo la logica aristotelica, si cominciarono a studiare sistematicamente anche la Fisica e la Metafisica di Aristotele, accompagnati dagli scritti dei commentatori arabi. Nel periodo in cui il commento al filosofo stagirita era preponderante nella didattica universitaria di Parigi, alcuni maestri dello Studium presentarono anche dottrine filosofiche considerate non ortodosse, quali lIeternita` del mondo e lIunicita` dellIintelletto. Queste posizioni teoriche, pur essendo condannate Mnel 1270 e nel 1277N dal vescovo parigino come FaverroisteG, erano in realta` il frutto di una lettura radicale del pensiero aristotelico. Nella battaglia culturale che ne segui`, Bonaventura esercito` un ruolo centrale nellIazione di contrasto delle teorie aristoteliche inconciliabili con lIortodossia. Se, da una parte, il commento al Liber Sententiarum di Pietro Lombardo puo` essere considerato, tra i testi del maestro francescano, quello piu` noto e piu` letto dai suoi contemporanei; dallIaltra, quello che ha goduto di maggior fortuna
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presso i posteri e` probabilmente lIItinerarium mentis in Deum, con cui lIautore intendeva accompagnare lIuomo, peccatore e pellegrino sulla terra, alla pace interiore nella contemplazione di Dio. Nella sua intensa attivita` intellettuale, Bonaventura compose anche commenti alla Sacra Scrittura e varie Quaestiones su temi filosofico-teologici. Pur avendo avversato con decisione gli errori dei cosiddetti averroisti, dallIanalisi di tutte queste opere egli non puo` di certo apparire come un nemico della filosofia. Anzi, considerata nel suo complesso, la prospettiva teorica del magister francescano si presenta come un tentativo di integrare alcuni elementi cruciali dellIaristotelismo nel corpo del pensiero cristiano, riformulando, per esempio, i concetti di materia e forma al fine di poter spiegare la realta` naturale dellIuomo, dove si congiungono una componente formale, lIanima, e una componente materiale, il corpo. Alla luce di queste evidenze, considerare, come e` stato fatto in passato, il pensiero di Bonaventura da Bagnoregio semplicemente antiaristotelico, non puo` che apparire fuorviante o, quantomeno, riduttivo; ma rimane vero che, una volta divenuto ministro generale dellIordine francescano, egli maturo` la convinzione che la diffusione della filosofia peripatetica, cosi` come si stava configurando allIinterno della Facolta` delle Arti di Parigi, costituisse un grave pericolo. Egli trovava scandaloso, in particolare, che i maestri parigini ritenessero di poter esporre dottrine filosofiche contrarie alla religione cristiana senza procedere alla loro confutazione. Nel pensatore francescano si riscontra viceversa una netta condanna delle tesi riconducibili allIaristotelismo radicale attraverso argomentazioni derivanti da un approccio alle pro-
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blematiche metafisiche e antropologiche di matrice neoplatonico-agostiniana. E` indicativa, a titolo esemplificativo, la posizione del magister francescano sullIautonomia di alcuni ambiti di conoscenza rispetto allIesperienza sensibile. LIanima infatti, nella visione bonaventuriana, puo` conoscere Dio e se stessa indipendentemente dallIapporto dei sensi. Dai sensi lIuomo ricava le specie sensibili, che sono similitudini o immagini delle cose, ma questi dati resterebbero disarticolati e inerti se non fossero rischiarati da una luce, infusa direttamente da Dio, la quale e` in grado di guidare lIattivita` dellIintelletto. A differenza di Aristotele, Bonaventura affermo` che lIanima, nellIaccezione di forma del corpo, possedeva solo le funzioni vegetativa e sensitiva, mentre lIanima razionale era una sostanza a se´, destinata a sopravvivere al corpo, e quindi immortale. La distanza rispetto a intellettuali di orientamento aristotelico come Alberto Magno e Tommaso si manifesto`, da un altro punto di vista, nella negazione dellIautonomia dellIindagine razionale di fronte alla fede, della filosofia di fronte al teologia. Priva della luce della fede, infatti, la ragione non puo` arrivare a una conoscenza di Dio piena e assolutamente certa; percio` tutte le forme del sapere L la filosofia come le arti L devono porsi al servizio della vera sapienza, che ha per oggetto Dio. Dal momento che le forme di sapere che riguardano le cose del mondo conducono a Dio e trovano la loro conclusione nella teologia, nella prospettiva epistemologica di Bonaventura le scienze profane convergono nella disciplina teologica, intesa come vertice supremo della conoscenza umana.
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FONTI IL DIO
CAMMINO DELLIANIMA VERSO LA CONTEMPLAZIONE DI
L6intento di fondo dell6opera intitolata Itinerarium mentis in Deum, scritta da Bonaventura nel 1259, appare quello di riproporre, per via razionale, l6ascesi mistica compiuta dal 4beatissimo padre Francesco5 sul monte della Verna. Il cammino in cui si snoda l6ascesa dell6uomo a Dio e` suddiviso in tre fasi, corrispondenti alle tre facolta` umane: la sensibilita`, lo spirito e la mente. Infatti, muovendo dalla convinzione che Dio e` presente e riconoscibile nell6intero creato, Bonaventura delineo` un triplice modo di accostarsi alla realta` divina. Poiche´ ciascuno di questi tre modi si sdoppia, in quanto Dio puo` esser considerato sia come principio sia come fine, ne risulta che l6uomo dispone di sei 4vie5 per raggiungerlo. L6uomo deve anzitutto imparare a riconoscere Dio fuori di se´, cioe` nel mondo naturale, che e` 4uno specchio per salire a Dio5, poiche´ egli vi ha lasciato i segni e le tracce della sua potenza, sapienza e bonta`. Poi deve cercarlo in se stesso e in particolare nell6anima, che, fatta a sua immagine e somiglianza, da lui riceve la luce delle ragioni eterne. Infine puo` contemplarlo sopra di se´, nell6unita` della sua essenza e nella pluralita` delle sue persone. Come si puo` evincere dal passo di seguito riprodotto, Bonaventura mostro` come, attraverso la speculazione metafisica, si possa giungere a comprendere Dio come 4lo stesso atto puro dell6essere5, come 4l6essere primo, eterno, semplicissimo, attualissimo e sommamente uno5. Quoniam autem contingit contemplari Deum non solum extra nos et intra nos verum etiam supra nos: extra per vestigium, intra per imaginem et supra per lumen, quod est signatum supra mentem nostram, quod est lumen Veritatis aeternae, cum Fipsa mens
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nostra immediate ab ipsa Veritate formeturG; qui exercitati sunt in primo modo intraverunt iam in atrium ante tabernaculum; qui vero in secundo, intraverunt in sancta; qui autem in tertio, intrant cum summo Pontefice in sancta sanctorum; ubi supra arcam sunt Cherubim gloriae obumbrantia propitiatorium; per quae intelligimus duos modos seu gradus contemplandi Dei ivisibilia et aeterna, quorum unus versatur circa essentialia Dei, alius vero circa propria personarum. Primus modus primo et principaliter defigit aspectum in ipsum esse, dicens, quod qui est est primum nomen Dei. Secundus modus defigit aspectum in ipsum bonum, dicens, hoc esse primum nomen Dei. Primum spectat potissime ad vetus testamentum, quod maxime praedicat divinae essentiae unitatem; unde dictum est Moysi: Ego sum qui sum; secundum ad novum, quod determinat personarum pluralitatem baptizando in nomine Patris et Filii et Spiritus sancti. Ideo magister noster Christus, volens adolescentem, qui servaverat Legem, ad evangelicam levare perfectionem, nomen bonitatis Deo principaliter et praecise attribuit. Nemo, inquit, bonus nisi solus Deus. Damascenus igitur sequens Moysen dicit, quod qui est primum nomen Dei; Dionysius sequens Christum dicit, quod bonum est primum nomen Dei. Volens igitur contemplari Dei invisibilia quoad essentiae unitatem primo defigat aspectum in ipsum esse et videat, ipsum esse adeo in se certissimum quod non potest cogitari non esse, quia ipsum esse purissimum non occurrit nisi in plena fuga non-esse, sicut et nihil in plena fuga esse. Sicut igitur omnino nihil nihil habet de esse nec de eius conditionibus, sic econtra ipsum esse nihil habet de non-esse, nec actu nec potentia, nec secundum veritatem rei nec secundum aestimationem nostram. Cum autem non-esse privatio sit essendi, non cadit in intellectum nisi per esse; esse autem non cadit per aliud, quia omne, quod intelligitur, aut intelligitur ut non ens, aut ut ens in potentia, ut ens in actu. Si igitur non ens non potest intelligi nisi per ens, et ens in potentia non nisi per ens in actu; et esse nominat ipsum purum actum entis: esse igitur est quod primo cadit in intellectu, et illud esse est quod est purus actus. Sed hoc non est esse particulare, quod est esse arctatum,
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quia permixtum est cum potentia; nec esse analogum, quia minime habet de actu, eo quod minime est. Restat igitur, quod illud esse est esse divinum. O…P Vide igitur ipsum purissimum esse, si potes, et occurrit tibi, quod ipsum non potest cogitari ut ab alio acceptum; ac per hoc necessario cogitatur ut omnimode primum, quod nec de nihilo nec de aliquo potest esse. Quid enim est per se, si ipsum esse non est per se nec a se? Occurrit etiam tibi ut carens omnino non-esse ac per hoc ut nunquam incipiens, nunquam desinens, sed aeternum. Occurrit etiam tibi ut nullo modo in se habens, nisi quod est ipsum esse, ac per hoc ut cum nullo compositum, sed simplicissimum. Occurrit tibi ut nihil habens possibilitatis, quia omne possibile aliquo modo habet aliquid de non-esse, ac per hoc ut summe actualissimum. Ocurrit ut nihil habens defectibilitatis, ac per hoc ut perfectissimum. Occurrit postremo ut nihil habens diversificationis, ac per hoc ut summe unum. MBONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario dell6anima a Dio, a cura di L. Mauro, Bompiani, Milano 2002, pp. 120-122N
Ora, avviene che Dio sia contemplato non soltanto nelle realta` esterne a noi e in noi, ma anche nelle realta` superiori a noi: in quelle esterne a noi per mezzo delle sue vestigia, in noi per mezzo della sua immagine, e nelle realta` superiori a noi per mezzo di quella luce che e` impressa nella nostra anima e che e` la luce della Verita` eterna, dato che Fla nostra anima viene istruita direttamente dalla Verita` stessaG. Per questo, coloro che si sono esercitati nel primo modo di contemplazione sono gia` entrati nellIatrio che si trova davanti al Tabernacolo; coloro, invece, che si sono esercitati nel secondo sono entrati nel Santo; coloro, poi, che si sono esercitati nel terzo modo di contemplazione entrano col sommo sacerdote nel Santo dei Santi, dove, sopra lIarca, si trovano i Cherubini della gloria che coprono con le loro ali il propiziatorio, e per mezzo dei quali comprendiamo simbolicamente i due modi o gradi della contemplazione delle realta` invisibili ed eterne di Dio, di cui lIuno considera le proprieta` che appartengono allIessenza di Dio, lIaltro, invece, le proprieta` delle persone divine.
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Il primo modo fissa lo sguardo, innanzi tutto e principalmente, sullIEssere stesso, affermando che il primo nome di Dio e` FColui che e`G. Il secondo modo fissa lo sguardo sul Bene stesso, affermando che questo e` il primo nome di Dio. Il primo modo riguarda in particolare il Vecchio Testamento, il quale proclama soprattutto lIunita` dellIessenza divina, per cui fu detto a Mose`: FIo sono colui che sonoG. Il secondo modo riguarda il Nuovo Testamento, il quale determina la pluralita` delle persone divine, battezzando Fnel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito SantoG. Per questo, Cristo, nostro maestro, volendo elevare alla perfezione evangelica quel giovane che aveva osservato la Legge, attribui` primariamente e assolutamente a Dio lIappellativo di buono. FNessunoG disse Fe` buono se non Dio soloG. Quindi il Damasceno, seguendo Mose`, afferma che il primo nome di Dio e` FColui che e`G. Dionigi, seguendo Cristo, afferma che il primo nome di Dio e` FBeneG. Di conseguenza, colui che vuole contemplare le realta` invisibili di Dio rispetto allIunita` dellIessenza, fissi lo sguardo, prima di tutto, sullIessere stesso, e veda che lIessere stesso e` in se´ certissimo, a tal punto che non e` possibile pensarlo non esistente, poiche´ lIessere purissimo implica la totale esclusione del non-essere, cosi` come il nulla implica la totale esclusione dellIessere. Come, dunque, il nulla non possiede alcunche´ dellIessere e delle sue proprieta`, cosi`, al contrario, lIessere stesso non possiede alcunche´ del non-essere, ne´ in atto ne´ in potenza, ne´ secondo la realta` ne´ secondo la nostra considerazione. Ora, dato che il non-essere e` assenza di essere, non si fa presente allIintelletto se non mediante lIessere; ma lIessere non si fa presente mediante altro, poiche´ tutto cio` che si comprende, o lo si comprende come non ente, o come ente in potenza, o come ente in atto. Se dunque il non ente puo` venire compreso soltanto mediante lIente, e lIente in potenza soltanto mediante lIente in atto, e lIessere designa lo stesso atto puro di essere, ne segue che lIessere e` cio` che per primo si fa presente allIintelletto, e questo essere e` atto puro. Ma questIultimo non e` lIessere particolare L che e` un essere limitato, in quanto mescolato con la potenza L ne´ lIessere analogo, poiche´ questo non e` in atto, per il fatto che non e`. Resta, percio`, stabilito che quellIessere e` lIessere divino.
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O…P Tu, dunque, considera, se ti e` possibile, lIessere purissimo e vedrai che non puoi pensare che abbia ricevuto lIessere da un altro; e percio` lo si deve pensare necessariamente come assolutamente primo, poiche´ non puo` derivare ne´ dal nulla ne´ da qualche altro essere. Che cosa, infatti, potrebbe esistere per se´, se lIessere stesso non esistesse per se´ e da se´? Vedrai, altresi`, che questo essere e` totalmente privo di non-essere, e percio` senza principio, senza fine, ma eterno. Vedrai, inoltre, che non ha in se´, in alcun modo, qualcosa che sia estraneo allIessere stesso, e percio` che non e` unito con nessuna altra cosa, ma e` assolutamente semplice. Vedrai che in esso non vi e` alcunche´ che sia ancora in potenza, poiche´ tutto cio` che e` in potenza ha in qualche modo in se´ una parte di non-essere, ed e` percio` totalmente in atto. Vedrai che e` privo di ogni imperfezione, ed e` percio` in sommo grado perfetto. Vedrai, infine, che non ha in se stesso alcunche´ di diverso da se´, ed e` percio` assolutamente uno. MBONAVENTURA DA BAGNOREGIO, Itinerario dell6anima a Dio, a cura di L. Mauro, Bompiani, Milano 2002, pp. 121-123N
BIBLIOGRAFIA F. CORVINO, Bonaventura da Bagnoregio. Francescano e pensatore, Citta` Nuova, Roma 2006. E. GILSON, La filosofia di san Bonaventura, Jaka Book, Milano 1995. J. RATZINGER, San Bonaventura: la teologia della storia, a cura di L. Mauro, Nardini, Firenze 1991. S. VANNI ROVIGHI, San Bonaventura, Vita e pensiero, Milano 1974.
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I principali centri universitari del Duecento, dove si ritrovavano docenti e studenti provenienti da tutti i paesi dKEuropa, offrivano straordinarie opportunita` di confronto dialettico e di esperienze formative. Alla base del metodo dKinsegnamento universitario vi era anzitutto la lectio del maestro, che consisteva nella lettura e nel commento dei testi delle auctoritates, ovvero degli autori considerati fondamentali in uno specifico ambito disciplinare. Da queste opere il maestro poteva ricavare poi le questioni da indagare e discutere nella disputatio: una sorta di esercitazione didattica, guidata dal maestro o da un suo assistente, in cui gli studenti dovevano argomentare tesi contrapposte. Il giorno successivo, il maestro riesaminava lo svolgimento della discussione in modo approfondito, dando la propria soluzione OsolutioP. Nel corso dellKanno, una o due volte circa, ciascun maestro affrontava in pubblico, davanti ai membri della Facolta`, una disputa sopra un qualsiasi problema proposto da un qualunque uditore. Egli doveva sviluppare sul momento la sua trattazione, dimostrando una vasta erudizione, una notevole capacita` di analisi e una prontezza nellKargomentare non indifferente. DallKinsegnamento dei maestri nacquero le raccolte di quaestiones disputatae e di quaestiones quodlibetales, che ordinavano sistematicamente il contenuto delle dissertazioni accademiche. Accanto a queste, si diffuse il genere letterario di taglio manualistico denominato summa, una raccolta di scritti relativi ad unKampia gamma di ar-
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gomenti afferenti a una determinata materia Ofilosofia, teologia, astronomia ecc.P. A differenza di quanto avveniva nelle altre Facolta`, nella Facolta` delle Arti, alla quale accedevano studenti di dodici/tredici anni dKeta`, i maestri non si limitavano alla lezione e alle dispute, ma, per controllare meglio lKapprendimento degli allievi, sKincaricavano di gestire esercitazioni pratiche. A Parigi, alla meta` del XIII secolo, nella Facolta` delle Arti il numero degli studenti era senzKaltro piu` elevato rispetto agli altri indirizzi di studio. Qui si impartiva un tipo di formazione destinato, in molti casi, a studenti che non potevano permettersi di impegnarsi per molti anni negli studi e che non aspiravano a conseguire titoli prestigiosi. Inoltre, in questa Facolta` si concentravano molti chierici provenienti dagli strati piu` umili della popolazione, i quali erano spesso portatori di uno spirito laico guardato con sospetto dalle gerarchie ecclesiastiche. Fu proprio a Parigi che un certo numero di maestri della Facolta` delle Arti, che insegnava le dottrine aristoteliche riviste attraverso il filtro di Averroe`, stimolo` discussioni appassionate su temi come lKeternita` del mondo Oche escludeva la creazione divinaP e lKunita` dellKintelletto agente Oche escludeva lKimmortalita` dellKanimaP. Questo gruppo di IartistiJ si fece portavoce, in una breve stagione, di una diffusa aspirazione a una libera ricerca filosofica, che fu interpretata come il frutto di un atteggiamento anticlericale e fu bollata in modo spregiativo come averroismo, ma che fu piuttosto un aristotelismo eterodosso e radicale. Questa corrente filosofica fu duramente repressa, poiche´ considerata inconciliabile con la dottrina cristiana. Alla testa di questo movimento composto da maestri IaverroistiJ,
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che praticavano la filosofia come unKattivita` intellettuale caratterizzata da procedimenti esclusivamente razionali, e percio` nettamente distinta dalla teologia, vi era lKenigmatica figura del filosofo Sigieri di Brabante. Per comprendere lKinfluenza esercitata da questo intellettuale del Duecento, e` utile ricordare che, nel decimo canto del Paradiso, Dante affida a Tommaso dKAquino il compito di presentare Sigieri, come colui che Flegendo nel Vico degli Strami, silogizo` invidiosi veriG. Ed e` importante sottolineare, in questo passaggio della Divina Commedia, non solo il riferimento a una delle sedi dello Studium parigino Oil Vico degli StramiP, ma anche a quelle verita` perseguitate e avversate su cui avremo modo di ritornare. Che Sigieri di Brabante fosse un protagonista di primo piano della vita culturale del suo tempo, lo si puo` desumere inoltre dal fatto che Dante abbia collocato la Fluce eterna di SigieriG in Paradiso accanto a san Tommaso e san Bonaventura. Ciononostante, della vita di Sigieri non ci sono stati tramandati molti particolari. Quel che sappiamo con certezza e` che era di origini fiamminghe, e che nacque in una ignota citta` del Brabante intorno al 1235. E` noto anche che, in un documento del 1266 scritto dal legato pontificio Simon de Brion Ofuturo papa Martino IVP, si segnalava la presenza del magister artium Sigieri al centro di alcuni disordini a Parigi, allora capitale culturale della cristianita`. In questa testimonianza il filosofo brabantino era accusato di aver partecipato al sequestro di un maestro della fazione opposta e di averne assaliti altri durante una funzione religiosa celebrata nel convento di Saint Jacques. E` stato inoltre appurato che nel 1277, dopo la definitiva condanna emessa del vescovo parigino Stefano Tempier contro alcune tesi filosofiche professate anche da Sigieri, egli ricevette la richiesta di comparire da-
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vanti al tribunale dellKinquisizione con lKaccusa di eresia. Dopo essere stato condannato, pare pero` che Sigieri si sia appellato alla corte di Roma e che la sentenza non sia stata eseguita. Probabilmente fu cosi` internato presso la corte stessa e la segui` nei suoi spostamenti. Sembra infine che, tra il 1281 e il 1284, sia stato ucciso da un chierico al suo servizio in preda ad una crisi di follia, mentre si trovava a Orvieto, dove si era recato per discolparsi dalle accuse che gli avevano procurato la condanna parigina. Senza voler indulgere a suggestive dietrologie, ci limiteremo a rilevare la sospetta coincidenza dovuta al fatto che la presunta morte violenta di Sigieri sia avvenuta proprio sotto il pontificato di Martino IV, il quale N come e` stato detto pocKanzi N prima di essere eletto papa aveva descritto il magister brabantino come un pericoloso agitatore. Al di la` di questi affascinanti aspetti biografici, dal punto di vista filosofico Sigieri e` conosciuto come autore di vari commenti ad Aristotele e di diverse raccolte di Quaestiones. Scrisse anche trattati su problematiche di primo piano nel dibattito filosofico di quegli anni intitolati De necessitate et contingentia causarum, De aeternitate mundi, De intellectu e De felicitate. Ma, per comprendere adeguatamente il contesto dottrinale in cui si inseri` il percorso intellettuale e filosofico di questo pensatore, occorre fare un passo indietro e sottolineare che, contemporaneamente allo sviluppo delle universita` europee, nel mondo arabo si era affermata una vigorosa corrente di studi filosofici strettamente connessa alla riscoperta di Aristotele. La progressiva diffusione della filosofia araba nel mondo latino ebbe lKeffetto di stimolare la ricerca filosofica in Occidente, ma suscito` al contempo resistenze per il contenuto di alcune tesi inconciliabili con la dottrina
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contenuta nelle Sacre Scritture. Il fatto poi che tali tesi provenissero da un filosofo pagano, rivisitato da commentatori islamici, rafforzava ancor piu` i motivi del rigetto. Una delle questioni piu` discusse riguardava il problema N gia` incontrato nel capitolo dedicato ad Alberto Magno N dei rapporti tra intelletto agente e intelletto possibile. Si trattava di un tema delicato sia per lKislam sia per il cristianesimo, poiche´ aveva attinenza con lKimmortalita` dellKanima. Al-Kindi O800 circa-866 circaP e piu´ tardi al-Farabi O870-950P, sia pure con accenti diversi, affermarono che lKuomo possiede inizialmente solo lKintelletto possibile, il quale puo` passare dalla potenza allKatto solo tramite lKazione dellKintelletto agente, unico e universale, esistente fuori dellKuomo. Piu` complessa era la posizione del filosofo di origini persiane Ibn-Sina, chiamato dai latini Avicenna O980-1037P. Ricollegandosi ad Aristotele, Avicenna affermo` che lKanima e` la forma dellKuomo o, per meglio dire, che lKuomo possiede tre distinte tipologie di anima: vegetativa, sensitiva e intellettiva. NellKanima intellettiva risiederebbe quello che Avicenna chiamava lKintelletto abituale, cioe` la presenza innata dei principi primi su cui si innesta il processo conoscitivo. AllKintelletto abituale il filosofo persiano attribuiva una duplice capacita` di operare: quando viene illuminato dallKintelletto agente, esso ricava dai dati dellKesperienza le nozioni intelligibili, diventando in tal modo intelletto in atto; invece, quando riflette su se stesso e sul patrimonio innato che ha in dotazione, esso si unisce allKintelletto agente e diventa intelletto acquisito, mantenendo in questa operazione la propria individualita`. Percio`, nella prospettiva di Avicenna, lKintelletto umano possedeva una propria dualita` e capacita` dKiniziativa di fronte allKintelletto agente. Di conseguenza si po-
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teva continuare a parlare dKimmortalita` dellKanima personale, in linea con quanto affermato dal Corano, anche se, secondo il pensatore musulmano, solo pochi uomini, i profeti, potevano realizzare in modo stabile lKunione tra il proprio intelletto e lKintelletto FsantoG, cioe` lKintelletto agente. Apparivano invece inaccettabili N dal punto di vista dellKortodossia religiosa, sia islamica sia cristiana N le posizioni di Avicenna sullKorigine delle cose. Per spiegare la derivazione delle cose da Dio, egli riproponeva lKidea neoplatonica di emanazione presentandola come un processo necessario ed eterno. Ma affermare, come fara` anche Averroe` Osulla base di altri presuppostiP, che il mondo e` eterno, non poteva che risultare inconciliabile con la dottrina della libera creazione divina predicata tanto dallKislam quanto dal cristianesimo. Nonostante questi elementi incompatibili con le grandi religioni monoteiste, in Occidente lKinfluenza di queste tesi sul dibattito filosofico duecentesco fu estremamente rilevante. Dopo Avicenna, in ordine di tempo, il filosofo musulmano piu` importante fu senzKaltro lKarabo spagnolo Ibn-Rashd O1126-1198P, chiamato dai latini Averroe`. Commentando il De anima di Aristotele, considerato il filosofo per antonomasia, egli affermo` che solo lKanima vegetativa e quella sensitiva sono propriamente forma del corpo, mentre lKanima intellettiva, che e` lo stesso intelletto possibile, e` invece separata dal corpo del quale percio` non e` forma. Se lKintelletto possibile puo` essere trasformato in intelletto agente, deve condividere con questKultimo la stessa natura. Pertanto, lKintelletto possibile e` unico e universale, uguale in tutti gli uomini, come lKintelletto agente. Dalla partecipazione allKintelletto divino lKuomo attinge unKattitudine capace di astrarre le forme intellegibili delle cose e formare cosi` i concetti alla base della
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conoscenza umana. Per spiegare meglio questa dottrina, definita in seguito FmonopsichismoG, Averroe` affermo` che come il sole, illuminando lKaria, rende visibili i colori delle cose, cosi` lKintelletto agente, illuminando lKintelletto potenziale, consente allKanima di concettualizzare e cogliere le verita` universali. Separando lKanima intellettiva dal corpo e quindi dallKessere individuale, Averroe` N a differenza di Avicenna N propugnava unKantropologia che non riconosceva allKindividuo unKattivita` propria al di la` della funzione vegetativa e sensitiva. Dal momento che, con la morte del corpo, era inevitabile anche la morte dellKindividuo, si possono facilmente intuire le motivazioni allKorigine dei violenti contrasti sorti nellKambiente accademico parigino in merito alle tesi averroiste. Lo statuto dello Studium parigino del 1255, indicando nelle opere aristoteliche i testi ufficiali della Facolta` delle Arti, sanciva di fatto la trasformazione di questKultima in un centro dKinsegnamento filosofico e scientifico. Da una parte tale cambiamento porto` a ripensare la funzione dello studio delle sette arti liberali, originariamente considerate propedeutiche ai corsi N ritenuti superiori N di diritto, medicina o teologia; dallKaltra, spinse alcuni maestri delle arti a riformulare il loro profilo professionale rispetto ai colleghi delle altre Facolta` e i contenuti delle discipline da loro praticate. Il progressivo sviluppo dellKautocoscienza professionale dei magistri artium, che ormai si ritenevano apertamente philosophi, furono dunque allKorigine di una profonda riflessione sul rapporto delle discipline filosofiche sia con la teologia sia con le altre forme del sapere. Fin dai suoi primi scritti, Sigieri mostro` una grande attenzione allKautonomia della ragione e non manco` di eviden-
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ziare come la sua indagine, in quanto essenzialmente filosofica, prendesse in considerazione solo cio` che e` conoscibile attraverso l2esperienza e la ragione. Una simile delimitazione dell2ambito filosofico non rappresentava una novita` assoluta. Espressioni analoghe a quelle utilizzate da Sigieri erano assai diffuse, gia` da alcuni decenni, fra i commentatori di Aristotele, che le usavano per dissociare le loro responsabilita` di interpreti da quelle dell2autore commentato. Inoltre, concetti simili si potevano incontrare, come abbiamo visto, anche nelle pagine di un autorevole teologo come Alberto Magno, in cui era gia` un fatto acquisito la differenziazione nell2oggetto di studio e nel metodo d2indagine fra teologia e filosofia. Sigieri, secondo alcuni suoi interpreti del Novecento, avrebbe portato alle estreme conseguenze questa tendenza, assumendo posizioni radicali e professando, sul tema dell2unita` dell2intelletto possibile, tesi contrarie alla fede cristiana. Non a caso, alle critiche espresse da Tommaso d2Aquino nel trattato Sullunita` dellintelletto, segui` poco dopo l2inserimento della tesi 0che l2intelletto di tutti gli uomini e` uno e numericamente identico1, fra quelle condannate dal vescovo parigino. Per rispondere a una lettera inviatagli da papa Giovanni XXI il 18 gennaio 1277, in cui si richiedeva un2indagine sulla situazione dottrinale nello Studium di Parigi, Tempier aveva infatti istituito una commissione di sedici teologi incaricati di esaminare i testi dei magistri universitari. Dal lavoro di questa commissione il presule trasse gli elementi per promulgare, il 7 marzo del 1277, un documento contenente un elenco di 219 tesi delle quali si vietava l2insegnamento. L2editto, in caso di trasgressione del divieto di insegnare queste dottrine, prevedeva la scomunica ed era dichiaratamente rivolto a colpire le posizioni teoriche assunte da
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Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, i due maggiori esponenti della corrente piu` radicalmente filoaristotelica della Facolta` delle Arti di Parigi. All/origine delle idee di questo movimento di pensiero sorto all/interno dell/universita`, non vi era il rifiuto della teologia in se´, ma vi era la tendenza a una laicizzazione e a una frammentazione del sapere che l/azione di Tempier e dei suoi collaboratori contrasto` con durezza ed efficacia. Per comprendere l/influenza di questo intervento bastera` ricordare che il Sillabo di Tempier rimase in vigore, non solo a Parigi, almeno per tutto il Trecento. Studi recenti hanno ricostruito, partendo dalla diffusione delle tesi contenute nei commenti degli interpreti arabi di Aristotele, le linee di fondo del contesto dottrinale in cui s/innesto` il pensiero di Sigieri. Il Commento al De anima di Averroe` era diffuso a Parigi almeno dal 1225 e inizialmente forni` validi argomenti per contrastare la dottrina avicenniana della separatezza dell/intelletto agente. Ma, verso il 1250, alcuni teologi, tra i quali figuravano Alberto Magno, Bonaventura da Bagnoregio e Tommaso d/Aquino, individuarono al suo interno anche la tesi dell/unita` dell/intelletto possibile, che definirono eretica in quanto contraria all/immortalita` dell/anima individuale. Cosi`, proprio dalla lettura del Commento alle Sentenze dell/Aquinate, Sigieri avrebbe appreso dell/esistenza del cosiddetto monopsichismo averroista. Questa eresia intellettuale sarebbe stata pertanto messa in circolazione, paradossalmente, dalle riflessioni di teologi come Tommaso che, pur condannandola, indussero philosophi come Sigieri a diffonderla nell/ambiente universitario. L/adesione di Sigieri alla dottrina dell/unita` dell/intelletto non si fondava pero` solo sul testo di Averroe` o, peggio ancora, sull/averroismo appreso dall/interpretazione critica di
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Tommaso, dal momento che Sigieri stesso elaboro` una personale strategia argomentativa. Oltre a insistere su alcuni passi aristotelici che mal si prestavano a intendere lKintelletto come una facolta` dellKanima individuale, Sigieri addusse argomenti ricavati per via razionale ed esperienziale. Affermo` in particolare che nelle sostanze immateriali la moltiplicazione di individui appartenenti a una medesima specie non ha alcuna ragione di darsi e che se lKintelletto potesse essere moltiplicato sarebbe una potenza che si trova nel corpo dei diversi uomini. E` importante segnalare che, pur avendo assunto posizioni eterodosse, dagli scritti attribuiti a Sigieri a noi pervenuti non e` possibile ricavare elementi che mettano in dubbio la sua adesione alla fede cristiana. NellKultima fase della sua vita, a seguito delle condanne vescovili alle quali abbiamo fatto riferimento, Sigieri sottopose le proprie precedenti posizioni a unKanalisi critica che non si puo` confondere con un semplice riavvicinamento allKortodossia. Talvolta egli si limito` semplicemente a registrare il conflitto fra dati rivelati e conclusioni della ragione, in altri casi indico` lKorigine dei limiti della conoscenza umana, ma Sigieri non cesso` mai di difendere lKindipendenza della filosofia, della quale elaboro` una concezione problematica e critica, come ben testimonia il prologo del Commento al FLiber de causis2, probabilmente la sua ultima opera, in cui egli indico` nel dubbio sistematico lKunico modo per raggiungere la verita`. Infine, dal faticoso tentativo di mediazione teorica che emerge dagli ultimi scritti, si puo` intravedere un itinerario originale in cui Sigieri cerco`, da una parte, di rispondere allKesigenza di non negare il carattere individuale della conoscenza e, dallKaltra, di non abbandonare la tesi secondo cui lKintelletto e` unico e si unisce allKuomo dallKesterno. Egli con-
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tinuo` infatti a contemplare, rispetto alla posizione di Tommaso, il distacco dellKintelletto dal corpo e, insieme, la loro unita` FoperativaG, poiche´ nonostante lKintelletto non derivi dal corpo, non possedendo unKattivita` autonoma senza il supporto del corpo non potrebbe neppure sussistere senza un fondamento corporeo. In questa prospettiva, la felicita` mentale, che ritroveremo in Dante, era per Sigieri alla portata di ogni individuo dedito a un ideale di vita filosofica, poiche´ derivava dal congiungimento dellKintelletto umano con le intelligenze separate e con Dio. FONTI LKIDEA DELLKUNICITA` DELLKINTELLETTO
Una delle questioni che ricorrono piu` frequentemente nell3insegnamento di Sigieri e` quella dell3unicita` dell3intelletto per tutta la specie umana, che questi riprendeva da Averroe`, indicato con rispetto in questo passo come il 1Commentatore2 per antonomasia.
Consequenter quaeritur qualiter intellectus nobis copulatur, utrum scilicet sit unus intellectus in omnibus, non numeratus numeratione hominum, vel sit intellectus plurificatus et numeratus secundum numerationem hominum. Quod sit unus intellectus in omnibus videtur. Nulla forma immaterialis, una in specie, est multiplicata secundum numerum. Sed intellectus est forma immaterialis, una in specie. Ergo non est multa in numero. Item ratio Commentatoris ad illud. Si intellectus numeraretur numeratione hominum, intellectus esset virtus in corpore. Intel-
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lectus non est virtus in corpore. Ergo non numeratur numeratione hominum. In oppositum. Motores orbium secundum multiplicationem suarum sphaerarum multiplicantur. Ergo similiter motor hominum. Quare etc. Item, si esset unus intellectus omnium hominum, uno accipiente scientiam, omnes acciperent scientiam, quod videtur esse inconveniens. Et confirmatio huius est: non continuantur nobiscum intellecta, nisi intellectus nobiscum continuetur. Si ergo est unus intellectus in omnibus, omnia intellecta erunt unum. Solutio. Ad videndum utrum intellectus unus sit in omnibus, oportet quod consideremus naturam eius separatam, similiter naturam eius inquantum copulatur nobis. OSIGIERI DI BRABANTE, Questioni sul terzo libro del De Anima di Aristotele, in ID, Anima dell3uomo, a cura di A. Petagine, Bompiani, Milano 2007, pp.130-132P
Chiediamoci ora in che modo lKintelletto si unisca a noi, se cioe` sia unico in tutti, non determinato numericamente dalla numerazione degli uomini, oppure se sia moltiplicato e determinato numericamente secondo il numero degli uomini. Sembra che vi sia un unico intelletto in tutti gli uomini. Nessuna forma immateriale, unica secondo la specie, viene moltiplicata secondo il numero. LKintelletto e` una forma immateriale, unica secondo la specie; percio` non si moltiplica numericamente. Inoltre, lKargomento esibito dal Commentatore al riguardo e` il seguente: se lKintelletto fosse numericamente determinato dalla numerazione degli uomini, esso sarebbe una potenza del corpo. LKintelletto non e` una potenza del corpo; quindi non si moltiplica secondo il numero degli uomini. Tesi contraria: i motori dei cieli sono moltiplicati in corrispondenza della molteplicita` delle loro sfere. Percio` accadra` qualcosa di analogo per il motore degli uomini. Per questa ragione, ecc.
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Inoltre, se ci fosse un unico intelletto per tutti gli uomini, quando un uomo acquisisce la scienza, tutti dovrebbero acquisirla, cosa che risulta falsa. E la conferma di questo e` che i concetti non restano uniti a noi se lKintelletto non e` unito a noi. Se, quindi, ci fosse un unico intelletto per tutti, tutti i concetti verrebbero a coincidere. Soluzione. Per poter stabilire se lKintelletto sia unico per tutti, e` necessario considerare la sua natura separata e con analogo procedimento la sua natura in quanto si unisce a noi. OSIGIERI DI BRABANTE, Questioni sul terzo libro del De Anima di Aristotele, in ID, Anima dell3uomo, a cura di A. Petagine, Bompiani, Milano 2007, pp. 131-133P
BIBLIOGRAFIA L. BIANCHI, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l3evoluzione dell3aristotelismo scolastico, Lubrina, Bergamo 1990. F.X. PUTALLAZ, R. IMBACH, Professione filosofo. Sigieri di Brabante, Jaka Book, Milano 1998. F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia nel XIII secolo, Vita e Pensiero, Milano 1972. J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, Mondadori, Milano 2008.
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Prima di presentare alcuni rilevanti aspetti della filosofia etico-politica dellIopera di Dante, e` opportuno dedicare almeno una breve premessa allIItalia dei Comuni, se non altro perche´, da uomo di parte qual era, lIautore della Divina Commedia partecipo` direttamente alla vita delle istituzioni di autogoverno della sua citta` in un momento di aspre divisioni interne. Nella prima fase del movimento comunale, i cittadini dellIItalia del Centro-Nord riuscirono a guadagnare ampi spazi di autonomia, emancipandosi dalla tutela vescovile nel quadro di forte conflittualita` tra papato e impero venutosi a creare a seguito della Lotta per le investiture. In una fase successiva L dopo la pace di Costanza M1183N L le citta` italiane ottennero la possibilita` di esercitare gli iura regalia, ovvero i diritti propri della sovranita`. Da quel momento, al processo di conquista del contado fu impressa una forte accelerazione. Dopo aver superato L per via militare o, piu` spesso, pattizia L le resistenze dei poteri signorili locali, le autorita` comunali giunsero a controllare vaste aree rurali corrispondenti, di solito, allIestensione delle singole diocesi. Per superare i contrasti presenti allIinterno delle famiglie piu` ricche e potenti, da cui provenivano i primi rappresentanti dellIesecutivo comunale Mi consulesN, il ruolo di comando venne conferito alle figure dei podesta`, autentici professionisti della politica che si spostavano frequentemente da una citta` allIaltra con il loro seguito di giudici, notai e famigli. Ad assicurare un livello ac-
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cettabile di coesione sociale contribui`, in questo spazio di tempo cosi` ricco di novita` istituzionali, la riscoperta del patrimonio giuridico romano, che consenti` di fissare le regole per la convivenza civile, formalizzandole negli statuti cittadini. In questa situazione di equilibrio, seppur instabile, lIaumento della popolazione urbana si accompagno` per lungo tempo a un processo di miglioramento nelle generali condizioni di vita, allIinterno di comunita` cittadine dominate da una ristretta oligarchia nobiliare. Nel corso del Duecento quasi tutte le esperienze comunali conobbero invece, con tempi e modi diversi, un inasprimento dello scontro tra due blocchi sociali contrapposti. Da una parte vi era il ceto magnatizio, prevalentemente formato da famiglie di antico lignaggio di tradizione militare, mentre dallIaltra si trovava il populus, costituito in gran parte dai membri delle corporazioni di mestiere piu` importanti, ma anche da aristocratici che riuscirono spesso a monopolizzare le cariche pubbliche controllate dai populares. LIesigenza di unire le forze contro le consorterie nobiliari porto` le organizzazioni su base professionale e territoriale del populus a coordinarsi in associazioni chiamate Gsocieta` di popoloH che, plasmate sul modello delle istituzioni comunali tradizionali, funzionavano tramite proprie magistrature e propri consigli. La guida di questi organismi popolari venne affidata a un Gcapitano del popoloH, che fini` di fatto per affiancare il podesta` nel governo cittadino. Sebbene nella fase del GComune di popoloH si acuissero le tensioni tra segmenti sociali con interessi economici contrapposti, sarebbe anacronistico interpretare queste dinamiche della storia comunale nei termini di una lotta di classe tra borghesi e proletari. Senza voler negare un maggiore coinvolgimento di notai, mercanti o artigiani nellIam-
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ministrazione del Comune, e` opportuno precisare che, anche nei contesti urbani dove furono emanate norme antimagnatizie, si registro` una scarsa mobilita` sociale e la dirigenza politica continuo`, tranne qualche eccezione, ad essere appannaggio di poche grandi famiglie in lotta tra loro. Nelle decadi centrali del XIII secolo, la dinamica politica urbana e la situazione delle relazioni intercomunali divennero ancora piu` intricate a causa dei conflitti tra le partes, due opposte aggregazioni di forze caratterizzate da un orientamento filopapale, nel caso dei guelfi, oppure filoimperiale, nel caso dei ghibellini. Sotto le insegne della pars ecclesiae o della pars imperii si fronteggiarono coalizioni formate da citta` unite, oltre che da interessi economici sovracittadini, anche dalla fedelta` al pontefice oppure allIimperatore. AllIinterno dei singoli Comuni, la polarizzazione tra guelfismo e ghibellinismo si innesto` sui multiformi dissidi famigliari e sulla precedente bipartizione tra la parte popolare e quella magnatizia, riformulando cosi` in chiave ideologica la tradizionale tendenza allo scontro tra fazioni della societa` comunale. Inoltre, le frequenti frizioni che si verificarono tra i membri di una stessa pars cittadina, provocarono spesso ulteriori divisioni su base locale. A Firenze, una delle citta` piu` popolose ed economicamente fiorenti dellIeta` comunale, i fautori del papa si divisero in due opposte sponde: i guelfi bianchi, coagulati intorno alla ricca famiglia dei Cerchi, e i guelfi neri, guidati dai Donati. Lo schieramento dei Bianchi era diretto da un gruppo famigliare sostenuto dalle forze popolari; mentre, al contrario, i Donati rappresentavano soprattutto gli interessi dei magnati fiorentini esclusi dalle cariche pubbliche nel 1293. Nel 1300, in piazza della Trinita`, avvenne un confronto sanguinoso tra esponenti dei due grup-
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pi guelfi antagonisti, che ne peggioro` ulteriormente i rapporti. Poiche´ il Priorato Mil principale organo del potere esecutivo comunaleN era stato monopolizzato dai Bianchi, la parte dei Neri strinse un patto con il pontefice Bonifacio VIII, che determino`, fra lIautunno del 1300 e la primavera del 1301, lIintervento in Toscana delle forze francesi, guidate da Carlo di Valois, a sostegno degli interessi del papa e dei guelfi neri. Ma fu soprattutto lIindecisione dimostrata dai dirigenti dei Bianchi a determinarne la sconfitta. Alla fine del 1301 Carlo di Valois entro` in citta` senza incontrare resistenze, mentre il leader dei Neri, Corso Donati, lo segui` poco dopo. Nello stesso anno, cadde il Priorato bianco e sIimpose una signoria nera, rappresentata dal podesta` Cante deI Gabrielli da Gubbio, designato da papa Bonifacio VIII in persona. Dalle sentenze di espulsione dal territorio cittadino emanate dal nuovo podesta` fu colpito anche Dante Alighieri, che era stato eletto nei massimi organi di governo comunali negli anni del predominio dei Bianchi. Nel 1302, mentre si trovava lontano dalla sua citta`, Dante fu accusato di baratteria, concussione nonche´ di opposizione al papa e a Carlo di Valois. In un clima di persecuzione contro i guelfi bianchi, egli fu condannato al pagamento di 5000 fiorini e fu interdetto a vita dalle cariche pubbliche. Invitato a discolparsi dalle accuse, egli si rifiuto` di comparire di fronte ai giudici. A quel punto gli furono sequestrati tutti i beni e lIinterdizione perpetua dai pubblici uffici si trasformo` in una condanna al rogo. E` opportuno ora fare un passo indietro e ripercorre alcuni momenti salienti della biografia di Dante prima della crisi politica del 1301-1302 allIorigine del suo lungo esilio. Nato nel 1265 da una famiglia di parte guelfa della piccola nobilta` fiorentina, Dante riusci` a frequentare la buona societa` e a se-
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guire un regolare corso di studi, nonostante la sua famiglia fosse oramai socialmente ed economicamente decaduta. Grazie a una modesta eredita`, anche dopo la morte del padre egli conservo` una certa agiatezza che gli permise di continuare ad ampliare la sua cultura e, allo stesso tempo, di partecipare con passione alla lotta politica. Quando, a seguito dei provvedimenti antimagnatizi della fine del Duecento, lIappartenenza a una corporazione professionale divenne un requisito indispensabile per accedere alle magistrature piu` importanti come il priorato, egli scelse di iscriversi allIarte dei medici e degli speziali. Cosi`, sebbene Dante non appartenesse alla vera e´lite fiorentina, pote` ugualmente dimostrare le proprie capacita` amministrative negli organismi del Comune di popolo. Ben prima della maturita`, allIeta` di nove anni, si verifico` il primo incontro con lIamata Beatrice, dalla quale sarebbero stati ispirati i componimenti raccolti, in eta` adulta, nella Vita Nuova. Il matrimonio con Gemma di Manetto Donati, dalla quale avrebbe avuto quattro figli, avvenne nel 1285 a seguito di un fidanzamento iniziato nel 1277 per volonta` paterna. Nel 1289 si colloca la sua partecipazione alla battaglia di Campaldino, nella quale le forze guelfe guidate dai fiorentini sconfissero quelle dei ghibellini dIArezzo. Nel tentativo di superare la crisi spirituale seguita alla morte di Beatrice M1290N, e` appurato che Dante si avvicino` alla filosofia attraverso la lettura del De consolatione philosophiae di Boezio e del De amicitia di Cicerone. Si appassiono` a tal punto agli studi filosofici che, per due anni e mezzo, consacro` la propria vita alla filosofia. E` certo che, in un primo momento, frequento` Gle scuole delli religiosiH Mossia la scuola dei francescani di Santa Croce e quella dei domenicani di Santa Maria NovellaN; mentre risulta solo probabile il soggiorno parigino, tra il
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1309 e il 1310 L durante il quale Dante avrebbe ascoltato le Gdisputazioni delli filosofantiH. Comunque sia, questa pluriennale preparazione filosofica conflui` nei trattati di contenuto filosofico che lIAlighieri scrisse negli anni successivi. Dopo lIallontanamento forzato da Firenze, Dante fu costretto a frequenti spostamenti da una citta` allIaltra fino al momento della morte, avvenuta nel 1321 presso la corte ravennate di Guido Novello da Polenta. Questo continuo peregrinare non consente una datazione precisa ne´ di tutti i suoi movimenti ne´ di tutta la sua produzione trattatistica e poetica. Malgrado cio`, nei primi sette anni di esilio, va collocata non solo la composizione di un ultimo gruppo di Rime, ma anche del De Vulgari Eloquentia, dellIInferno e dellIopera di contenuto filosofico che qui maggiormente interessa: il Convivio. E` nella filosofia che e` possibile individuare il filo conduttore che lega tra loro la molteplicita` di argomenti affrontati in questo ricco prosimetro. Dopo aver indicato le motivazioni allIorigine della scelta delle tematiche, sIincontra, nel secondo trattato, una personificazione della filosofia, alla quale e` attribuito un significato originale rispetto allIimmagine largamente diffusa nella letteratura antica e medievale. Se in Seneca e Boezio la rappresentazione femminile della filosofia aveva assolto una funzione materna e consolatrice, in Dante invece la Gdonna gentileH in cui la filosofia sIincarna e` oggetto di un desiderio dotato di unIesplicita connotazione erotica. Nel terzo trattato e` poi inserito un elogio delle varie sfaccettature del sapere filosofico; mentre nel quarto trovano spazio, dopo una lunga digressione sul tema dellIautentica nobilta`, alcune originali riflessioni politiche su cui avremo modo di tornare nello spazio riservato alle fonti.
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Nella storiografia filosofica si e` molto discusso su che cosa, nel Convivio, Dante intendesse realmente per filosofia. La questione e` effettivamente complessa, poiche´ se spesso Dante utilizza questo termine in senso stretto, per riferirsi al pensiero degli antichi, in alcuni passi egli ne allarga i margini includendovi anche la sapienza cristiana rivelata nei testi sacri. Non puo` apparire casuale in ogni modo che, per chiarire le finalita` del suo lavoro, egli si colleghi esplicitamente, fin dalle prime pagine, alla tradizione aristotelica. Dopo aver ripreso il celebre incipit della Metafisica di Aristotele, dove si asserisce che tutti gli uomini GnaturalmenteH desiderano di sapere, Dante prosegue il suo ragionamento con lIaffermazione, anchIessa aristotelica, che la scienza e` Gultima perfezione della nostra anima, nella quale sta la nostra ultima felicitadeH. Da questo assunto Dante ricava le motivazioni per allestire un banchetto, cioe` un GconvivioH di conoscenze, nel quale anche coloro che solitamente sono lontani dalle dottrine filosofiche possano ugualmente ricevere il nutrimento intellettuale necessario al conseguimento della felicita` terrena. Il progetto stesso del Convivio, con la sua finalita` di Gdivulgazione filosoficaH da cui consegue coerentemente la scelta della lingua volgare, nasceva dunque da una visione dellIesistenza umana e del suo fine modellata su una morale intellettualistica di matrice aristotelica. Poiche´, come aveva affermato Aristotele, la conoscenza e` lIattivita` specifica dellIuomo, Dante ne trasse conseguenze analoghe a quelle di un aristotelico radicale come Sigieri di Brabante: chi non si preoccupa di sviluppare le sue capacita` razionali conduce una vita animalesca e indegna di essere vissuta. Cosi`, nel Convivio, lIAlighieri si propose di offrire ai suoi lettori unIintroduzione alla filosofia affinche´, assorbendone gli insegnamenti fon-
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damentali, tutti, indipendentemente dallo status sociale, fossero in grado di raggiungere il fine autentico dellIesistenza ed essere felici. Come ha sottolineato Ruedi Imbach, Dante fu infatti fra i pochi pensatori medievali a prendere sul serio il riferimento a Gtutti gli uominiH contenuto nella Metafisica di Aristotele. Nei capitoli dedicati ad Alberto Magno e Sigieri di Brabante abbiamo visto come lIaspirazione a una Gfelicita` filosofanteH, concepita in linea con Aristotele come il pieno dispiegamento delle capacita` conoscitive dellIuomo, fosse unIidea guida di molti intellettuali duecenteschi. Ma, contro quanti ritenevano che tale delectatio intellectualis fosse realizzabile attraverso la contemplazione del sommo oggetto conoscibile, vale a dire lIessenza di Dio, Tommaso dIAquino aveva affermato che nemmeno attraverso lIascesi metafisica lIuomo poteva del tutto appagare il suo desiderio di sapere. La speculazione teoretica poteva, nella visione di Tommaso, consentire di apprendere solo lIesistenza di Dio, ma non la sua natura. Solo nella vita beata dellIaldila` poteva manifestarsi lIentita` divina, origine di una beatitudo cosi` incommensurabile da ridimensionare a tal punto la felicita` teoretica esaltata da Aristotele da arrivare a considerarla solo come una beatitudine imperfetta. Dante, ben cosciente dei limiti della ragione umana, condivideva la convinzione che lIuomo non fosse in grado di afferrare con la mente lIessenza di Dio, ma preciso` che non era neppure sua intenzione perseguire un obiettivo cosi` sproporzionato per le potenzialita` conoscitive umane. A differenza del pensiero tomista, nella prospettiva dantesca e` contemplata la possibilita` di conseguire una piena felicita` terrena proprio in virtu` del fatto che non ci si propone di comprendere razionalmente cio` che non e` comprensibile
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tramite la ragione. Su un tema ricorrente per la riflessione filosofica medievale, come quello della felicita` mentale, la posizione di Dante appare cosi` molto distante da quella di Tommaso. Infatti, nel sistema del magister domenicano, il senso di frustrazione derivante dalla consapevolezza dellIincapacita` di appagare il naturale desiderio di cogliere la natura di Dio e` considerato uno stimolo ad indirizzare i propri sforzi al conseguimento di quella autentica soddisfazione spirituale che attende gli uomini nella dimensione ultraterrena. Da cio` deriva unIulteriore prova dellIancillarita` della filosofia rispetto a un sapere teologico identificato con il magistero di Gesu` Cristo. UnIancillarita` che non appare scontata nella riflessione filosofica di Dante. Nonostante la grande stima per la figura di san Tommaso manifestata dal poeta fiorentino nella Divina Commedia, bisogna riconoscere agli studi condotti da Bruno Nardi il merito di aver individuato negli scritti filosofici danteschi una personale cifra stilistica, non assimilabile alla filosofia tomista, in cui teorie aristoteliche sono amalgamate in modo originale con elementi neoplatonici e agostiniani. Per evidenziare queste peculiarita` del pensiero di Dante, ci bastera` qui segnalare alcune sue posizioni su tematiche di natura etica e politica. Per lIAlighieri la felicita` che lIuomo puo` ottenere su questa terra, grazie alla contemplazione filosofica, e` presentata come una preziosa opportunita` ed e` concepita come una sorta di assaggio della felicita` piena, consistente nella contemplazione di Dio nellIaldila`. Nel capitolo XV del terzo trattato del Convivio, egli afferma che, attraverso la sapienza assicurata dalla conoscenza filosofica, lIuomo avverte Gquel piacere altissimo di beatitudine lo quale e` massimo bene in ParadisoH. Nonostante vi sia solo una certa analogia e una sorta di continuita` tra la beatitu-
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dine celeste e la felicita` intellettuale del filosofo, questIultima si presenta come una felicita` piena e completa, poiche´ scaturisce da un appagamento completo dellIumano desiderio di conoscenza. Occorre inoltre riconoscere che il pensiero dantesco sul tema della felicita` si differenzia nettamente anche da quello dagli esponenti dellIaristotelismo radicale. A differenza di Dante, essi avevano infatti accolto lIidea, trasmessa da Averroe` e ripresa da Alberto Magno, che tutti gli uomini L per la loro stessa natura L desiderano raggiungere quella felicita` mentale che deriva dal contatto con lIintelletto divino. Nonostante questa divergenza, e` lecito ipotizzare che Sigieri, esponente di punta del peripatetismo parigino, sia stato elogiato nella Divina Commedia attraverso le parole di Tommaso proprio perche´ lIAlighieri, come il filosofo brabantino, era un convinto assertore della necessita` di separare il discorso della scienza profana da quello della teologia. Sebbene, come abbiamo visto, sulla base di alcune testimonianze Mtra cui quella di Villani e BoccaccioN appaia plausibile lIipotesi di un soggiorno parigino, lIitinerario intellettuale di Dante si discosta nettamente da quello dei philosophi attivi come magistri nei contesti universitari. Egli rimase sempre, anche quando si confronto` con problematiche filosofiche in apparenza distanti dallIimpegno civile, un cittadino profondamente legato alle dinamiche politiche della sua citta`. Senza pretendere di sciogliere in queste poche pagine lIintreccio di concause allIorigine delle opere dantesche di argomento filosofico, ci limiteremo a rilevare che al loro interno compaiono spesso, in primo piano o sullo sfondo, riferimenti autobiografici alle tumultuose vicende politiche in cui lIAlighieri fu coinvolto. Incardinato nellIambiente comunale, que-
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sti elaboro` una originale teoria politica, basata sulla netta differenziazione nei campi dIintervento dei due poteri che si contendevano il predominio sulla cristianita`: lIimpero e il papato. La separazione e la pari dignita` fra beatitudine celeste e felicita` terrena, asserite da Dante, permettono di comprendere meglio il motivo alla base dellIesigenza di creare le condizioni affinche´ possano coesistere entrambi i poteri universali. Nel trattato in latino De Monarchia, probabilmente contemporaneo alla composizione del Paradiso, egli approfondi` le tesi eudaimonistiche gia` esposte nel Convivio. La dottrina della Gfelicita` mentaleH appare qui coerente con un progetto politico universalistico in buona misura anacronistico, poiche´ Dante lo propose nel momento in cui in Europa si stavano affermando un poI ovunque gli stati nazionali su base etnica. In questIopera, il compito di conseguire la felicita` civile attraverso una Gattualizzazione della potenza intellettualeH non e` piu` ritenuto, come nellIEtica Nicomachea aristotelica, un privilegio riservato a pochi uomini eccezionali. Questo ideale puo` essere condiviso dallIintera specie umana ma, per passare dalla teoria alla prassi, e` indispensabile una situazione di pace che solo un impero universale puo` assicurare. Nel De Monarchia lIAlighieri rifiuto` implicitamente la concezione teocratica del papato che, allIinizio del Trecento, era stata ribadita da papa Bonifacio VIII nella bolla Unam Sanctam. Convinto che GlIautorita` dellIImpero non promana dallIautorita` del Sommo PonteficeH, Dante indico` ai suoi contemporanei la strada per perseguire due fini ben distinti attraverso la costruzione di una comunita` caratterizzata dallIindipendenza della dimensione politica rispetto a quella spirituale. Da una parte, come essere mortale, lIuomo puo` rag-
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giungere la felicita` teoretica, consistente nellIattuazione delle virtu` morali e intellettuali; dallIaltra, come essere destinato allIimmortalita`, egli puo` aspirare alla beatitudine eterna, che si puo` realizzare attraverso la visione di Dio. Ne consegue che, per indirizzare gli uomini verso questi due fini e predisporre gli strumenti idonei a raggiungerli sono indispensabili sia lIautorita` dellIimperatore sia, al contempo, quella del papa. Se e` vero che lIuomo cristiano e` uno e doppio, anche la societa` cristiana deve basarsi su due polarita`. Lungi dallIessere fonte di debolezza, nella visione dualista di Dante, la presenza simultanea di due guide non puo` che generare, dopo il riconoscimento della reciproca autonomia, un consolidamento delle istituzioni chiamate a cooperare al vertice della cristianita`. FONTI LIIDEALE DI MONARCHIA UNIVERSALE
Il Convivio fu scritto da Dante a pochi anni di distanza dall9esilio da Firenze, verosimilmente dopo il 1304. L9opera e` composta da quattro trattati anche se l9autore ne aveva previsti quindici. Si ignorano i motivi che ne determinarono l9interruzione nel 1307, ma e` verosimile che l9avvio del progetto letterario della Divina Commedia abbia costretto Dante a riversare nel poema tutti i programmi e le aspirazioni che avevano in precedenza animato la stesura del Convivio. In questa sorta di enciclopedia in volgare, Dante espose la tesi, che riprendera` piu` estesamente nella Monarchia, che solo un impero universale guidato da un re-filosofo di matrice platonica pote-
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va garantire a tutti il raggiungimento della felicita` terrena. Dietro questa nozione di 7uomo nobile8, capace di condensare nella sua persona tutte le qualita` umane, Alain De Libera ha individuato un riferimento alla figura storica di Federico II di Hohenstaufen.
Lo fondamento radicale della imperiale maiestade, secondo lo vero, e` la necessita` della umana civilitade, che a uno fine e` ordinata, cioe` a vita felice; alla quale nullo per se´ e` sufficiente a venire sanza lIaiutorio dIalcuno, con cio` sia cosa che lIuomo abisogna di molte cose, alle quali uno solo satisfare non puo`. E pero` dice lo Filosofo che lIuomo naturalmente e` compagnevole animale. E si` come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia domestica di famiglia, cosi` una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E pero` che una vicinanza OaP se´ non puo` in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede alle sue arti e alle sue difensioni vicenda avere e fratellanza colle circavicine cittadi; e pero` fu fatto lo regno. Onde, con cio` sia cosa che lIanimo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma sempre desideri gloria dIacquistare, si` come per esperienza vedemo, discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono tribulazioni delle cittadi, e per le cittadi delle vicinanze, e per le vicinanze delle case Oe per le caseP dellIuomo; e cosi` sIimpedisce la felicitade. Il perche´, a queste guerre e alle loro cagioni to`rre via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto allIumana generazione a possedere e` dato, essere Monarchia, cioe` uno solo principato, e uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e piu` desiderare non possendo, li regi tegna contenti nelli termini delli regni, si` che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze sIamino, OeP in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso, lIuomo viva felicemente: che e` quello per che esso e` nato.
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E a queste ragioni si possono reducere parole del Filosofo chIelli nella Politica dice, che quando piu` cose ad uno fine sono ordinate, una di quelle conviene essere regolante o vero reggente, e tutte lIaltre rette e regolate. Si` come vedemo in una nave, che diversi officiˆ e diversi fini di quella a uno solo fine sono ordinati, cioe` a prendere loro desiderato porto per salutevole via: dove, si` come ciascuno ufficiale ordina la propia operazione nel propio fine, cosi` e` uno che tutti questi fini considera, e ordina quelli nellIultimo di tutti; e questo e` lo nocchiero, alla cui voce tutti obedire deono. Questo vedemo nelle religioni, nelli esserciti, in tutte quelle cose che sono, come detto e`, a fine ordinate. Per che manifestamente vedere si puo` che a perfezione della universale religione della umana spezie conviene essere uno, quasi nocchiero, che considerando le diverse condizioni del mondo, alli diversi e necessarii officiˆ ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di comandare. E questo officio per eccellenza imperio e` chiamato, sanza nulla addizione, pero` che esso e` di tutti li altri comandamenti comandamento. E cosi` chi a questo officio e` posto e` chiamato Imperadore, pero` che di tutti li comandatori elli e` comandatore, e quello che elli dice a tutti e` legge, e per tutti dee essere obedito, e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade. E cosi` si manifesta la imperiale maiestade e autoritade essere altissima nellIumana compagnia. MDANTE ALIGHIERI, Il convivio, a cura di Fredi Chiappelli ed Enrico Fenzi, Utet, Torino 1986, pp. 222-225; ora accessibile anche presso lIURL: N
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BIBLIOGRAFIA E. GILSON, Dante e la filosofia, Jaca Book, Milano 1987. R. IMBACH, Dante la filosofia e i laici, a cura di P. Porro, Marietti, Genova-Milano 2003. B. NARDI, Dante e la cultura medievale, nuova ed. a cura di P. Mazzantini, Laterza, Bari 1983. C. VASOLI, Papato e Impero nel tardo Medioevo: Dante, Marsilio, Ockham, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo, vol II, t. II MIl MedioevoN, UTET, Torino 1983.
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Itinerari Medievali per la Didattica ,IMDCollana diretta da Simone Bordini
1. Marco Adorni, Leconomia nel Medioevo.
2. Stella Leprai, I luoghi e le forme del potere nel Medioevo. 3. Pietro Silanos, Chiesa e vita religiosa nel Medioevo.
4. Giorgio Denicoli, La societa` medievale. Realta` e immaginario. 5. Matilde Greci, La cultura nel Medioevo.
6. Marco Carion, Popoli e culture ai confini dellEuropa medievale. 7. Barbara Baldi, Personaggi del Medioevo.
8. Marco Adorni, Il Medioevo oltre il Medioevo.
9. Andrea Marconi, Profili di intellettuali medievali.
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Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna Aprile 2011
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