Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee 9788877384690


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Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee
 9788877384690

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I Monica Farnetti | Jutte signore di mio gusto Profili di scrittrici contemporanee

peace re

La Tartaruga edizioni

L'educazione sentimentale di una scrittrice passa attraverso le letture e i contatti, casuali o cercati, con chi l’ha preceduta. Monica Farnetti racconta qui gli incontri più signifi-

cativi della sua vita costruendo così una stupenda galleria di ritratti in cui, attraverso squarci improvvisi e fulminanti intuizioni, prende corpo una storia del pensiero delle donne che hanno cambiato la visione del mondo contemporaneo. Nei saggi raccolti secondo un ordine interiore si ritrovano sparsi, si rispondono come un'eco e si lasciano ricomporre in un quadro

d'insieme alcuni nuclei di riflessione attorno ai quali si è recentemente strutturata la moderna scrittura femminile. L'impegno politico di Elsa Morante nel dar voce alla storia, l'esplorazione tragica della condizione umana di Anna Maria Ortese, la lezione ancora vivissima oggi sul destino femminile di Virginia Woolf, la costante vocazione autobiografica di Marguerite Yourcenar, l'esilio come terra di non ritorno narrato da Dionne Brand, la difficile arte della gioia di Goliarda Sapienza, le Lolite velate di Azar Nafisi sono alcuni dei temi toccati con una prosa piena di emozione. Un patrimonio

di pensieri, di pagine, di intuizioni universali che ha ancora bisogno di essere esplorato, rivelato, osservato con attenzione e cura particolari. Parole capaci di riversarsi fuori dalla pagina per nutrire la vita, per renderla pensabile e perciò più vivibile.

© Corbis Inc,

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https .Jlarchive.org/details/tuttesignoredimio00ofarn %

Monica Farnetti

Tutte signore di mio gusto Profili di scrittrici contemporanee

La Tartaruga edizioni www.bededitore.it

e-mail: [email protected]

© 2008 La Tartaruga edizioni Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano ISBN 978-88-7738-469-0 %

INDICE

Con gratitudine. .............. AA

dich 7

maColcrrsinipacetra le bestie iui 2. Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile. .......... pmketicità di Rarhesme Mansfield ani aerei

11 25 40 58

5. Dolores Prato, una piazza tutta per sé........................... 70 GE ocidhNathale Sarrauto= 0 ila 80 7. Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»................ 92 8. I romanzi di figure di Lalla Romano............................. 106 AM orcsussuaslcecontnica SL Ea 128

dosnatictura:dibBlsaMoranie a 141 11. Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese............... 159 i226boyh ide Marpnente Duras 179 13. Natura morta con gardenia. Billie Holiday................ +95 ldWLertere:a Mita di Cristina Campo)... 218 15. Goliarda Sapienza e l’arte della gioia ........................... 2531 16. Clarice Lispector, la vita che non siamo noi ................. 239 (ebbi Ramondino a Ifieste n. nn 250 iogglttanrasmidi Gioconda:-Belli:1/-..0; 410/0201000 239 19. Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio. ......... 269 20. Dionne Brand e i luoghi del non ritorno......................283

21. La città delle dame di Benedetta Craveri Nota editoriale

Bibliografia

Con gratitudine

Ho dato appuntamento in questo libro ad alcune scrittrici che mi hanno fatto pensare. Sono tutte in primo luogo prosatrici e narratrici, tutte contemporanee e tutte assolutamente «signore», come le definirebbe la Morante, «di mio gusto». Ho chiamato profili i capitoli a loro dedicati ma come si vedrà profili non sono, o non propriamente: sono piuttosto altrettante occasioni in cui da ciascuna di loro mi è venuta un'immagine, una suggestione, un passaggio che ha aggiunto e cambiato qualcosa nel mio modo di leggere la scrittura delle donne, il che vale a dire nel mio modo di stare al mondo. «Aggiunte e mutamenti», li direbbe la Ortese e tant'è: di volta in volta, qualcosa che ci sposta da dove siamo, ci allarga l'orizzonte, e ci riempie di allegria. Dopo di che, mi auguro che questi capitoli, ciascuno scritto al traino di un'idea (lo spazio e il cosmo, la scrittura e la figura, il visibile e l'invisibile, la felicità, la complessità, la nostalgia, la genealogia, il dolore e l'esilio, l’estraneità e l’eccentricità, l’impersonalità, la lingua materna, l’esperienza del tempo, e ancora lo stile saggistico, autobiografico, epistolare, storico, documentario...), funzionino anche un po’ come profili, e non ostacolino l’incontro fra queste scrittrici e coloro che le incontrano qui per la prima volta.

Tutte signore di mio gusto

Il libro si organizza dunque, al di là delle apparenze, ancor più che non intorno ad alcune grandi scrittrici del Novecento intorno ad alcune idee, che esse hanno saputo mettere al lavoro, che sono in ciascun caso il pegno e il segno di una relazione fra loro e me, e che circolano fra i capitoli con una propria libertà, indicando e stringendo rapporti di affinità, consonanza e sorellanza. I quali risultano di gran lunga i più significativi fra tutti quelli che tra loro intercorrono, credo anche al di là del fatto che a vederli e a segnalarli sono stata io. E credo altresì che la cosa sia

comprensibile e non debba stupire: il fatto che rimbalzi, cioè, fra i libri dell’una e dell’altra di queste contemporanee uno stesso desiderio, quello di mostrare cos'è e cosa può fare una donna; che soffi fra le loro carte un vento comunitario, e le muova un sacrosanto bisogno di farsi compagnia; che lavori infine, più o meno scopertamente, la coscienza storica e la volontà politica di dare inizio, svolgimento e nutrimento a un’altra letteratura, la quale rispetto a quella di tutto il passato cambia sostanzialmente il modo di pensare la vita e di stare in contatto con lei. In particolare evidenza nell'insieme del libro sono, quindi, la centralità dei corpi, la cura del mondo e la relazione con l'universo: tre esperienze alle quali sempre, sebbene in misura e in maniera di caso in caso differente,

queste scritture sono legate. Scritture che si nutrono — né potrebbero rinunciarvi — dei molteplici legami con l’umano e il non-umano, il vivente e l’inorganico, che si danno

letteralmente come altrettante cosrzologie, e che non sono mai dimentiche di costituire il tramite grazie al quale la vita tutta diventa pensabile e diventa vivibile.

Con gratitudine

Continuo a parlare di pensiero e non è un caso ma anzi un progetto: un progetto di antica data e di lunga deriva, che più o meno a partire dai presocratici insegna e in-

voca una salda relazione fra filosofia e letteratura: fra il pensiero, dunque, e la sua scrittura, e reciprocamente fra la scrittura e il pensiero che l’alimenta e la sostiene. Un progetto appassionante, per onorare il quale da una parte sembrerebbe sufficiente attingere all’evidenza, dall’altra necessario non smettere di impegnarsi e che, per quanto

mi riguarda, rappresenta una specie di radioso traguardo. Sul quale già ci aspettano alcune — Virginia Woolf, per dirne una — che sulla faccenda hanno scritto le cose più belle e più chiare, mettendo contemporaneamente in pratica (e d’altro canto mostrando di parlare, ancora una volta, solo di ciò che sanno nel senso che ne hanno e ne fanno esperienza) una parola insieme pensante e danzante, un sapere che non rinuncia alla meraviglia (e dunque a meravigliare), un pensare che lascia spazio all’impensato e al pensabile altrimenti, che sono le condizioni stesse e le risorse della poesia. Con questi saggi desidero dunque testimoniare la mia fiducia nel rapporto di reciproco aiuto fra filosofia e letteratura; la mia convinzione, un po’ di conseguenza, che non esista una grande scrittrice la quale non sia al contempo una grande pensatrice; la mia preferenza, infine, per le scritture che sentiamo «necessarie», come direbbe la Zambrano, quelle che non solo collaborano alla trasformazione del mondo ma di un colpo lo sovvertono, «mettono a fuoco le città», agiscono insomma profondamente e con forza sulla polis e sono tali da non poter passare 9

Tutte signore di mio gusto

inosservate. Chiamo grandi le scrittrici che fanno questo, e che così facendo, e senza scomodare alcun canone, arri-

vano all’eccellenza. E questi stessi saggi sono naturalmente anche un omaggio a loro: a quasi tutte (quasi: ne man-

cano infatti all'appello inevitabilmente alcune) le narratrici del Novecento che sono entrate con forza nella mia vita e l'hanno cambiata, che davanti ai miei occhi hanno let-

teralmente animato la scena della lettura, e che negli anni come care amiche mi hanno fatto compagnia. Dopo di che ci sono davvero le amiche, quelle frequentate in carne e ossa, con le quali ho imparato a leggere, a pensare e a far tesoro di ciò che si legge e si pensa, e senza le quali non posso più immaginarmi. A loro, signore quant’altre mai di mio gusto, questo libro è dedicato. M.F., giugno 2008

10

1. COLETTE IN PACE FRA LE BESTIE

Dal lupo di Maria di Francia alla antonomastica bestia di Madame de Beaumont; dai pangolini, gli unicorni, le procellarie e i ramarri di Marianne Moore alla gatta di Madame d’Aulnoy, alla cagna di Elsa Morante, alla sparviera di Gianna Manzini, alla leggiadrissima scrofa di Marie Darrieusecq, ai centauri, le salamandre, i serpenti d’acqua e le cerve cornute di Ginevra Bompiani fino alle strane creature zoomorfe che popolano la miglior parte dell’opera di Anna Maria Ortese o di Marlen Haushofer', ecco tratteggiarsi anche solo a grandi linee una possibile storia della complicità fra il genere del bestiario e la scrittura delle donne, ovvero della frequenza e varietà di occasioni in cui la scrittura femminile nasce e si sviluppa dall’accostamento fra un animale (domestico, selvatico, esotico, metamor-

fico, leggendario) e un ragionamento. In versi o in prosa, configurato come lai, fiaba, poemetto, racconto lirico o fantastico, emblematico o filosofico, e dotato di norma di

uno spessore allegorico che nulla toglie all’intelligibilità di una lettura lineare così come al piacere di un’interpretazione letterale, il bestiario femminile mette soprattutto a profitto, nell'intero corso della sua tradizione, una precisa capacità di intendere il mondo animale al di fuori della ll

Tutte signore di mio gusto

comune prospettiva antropocentrica, di avvicinarlo vice-

versa con sensibile intelligenza, o di delegarlo addirittura a funzioni per le quali l’essere umano stesso è giudicato inadeguato. Che le autrici di bestiari siano quindi animate all'origine da curiosità scientifica (è il caso, esemplare, della Moore) o da pietas amorosa (come la Ortese o la Morante), da una passione pedagogica (Madame de Beaumont) o dal gusto dell’enigma (Maria di Francia), da tensione filosofica (Bompiani), vocazione politica (Darrieusecq), intelligenza simbolica (Manzini) o da un sentire che orienta a una specie di ecumenismo biologico e creaturale (di nuovo la Ortese, ma la considerazione può forse estendersi a tutti i casi menzionati), è secondario rispetto al dato principale e comune dell’empatia che regola il rapporto con l’animale, sentito nella sua singolarità e scelto

come parte per il tutto delle specie non umane e dell’alterità in genere. Mentre altrettanto indifferente può dirsi anche un’altra variabile normalmente significativa quale è quella della tradizione letteraria di riferimento, vale a dire la possibilità che all'origine della letteratura femminile a soggetto animale funzionino i testi-chiave del panteismo o le Sacre Scritture, la dottrina francescana o quella di Michelet, l'istituto medievale del bestiario o altre e più moderne tradizioni zoo-letterarie. Più della scelta del genere di scrittura, dell’orientamento di poetica, del funzionamento della memoria letteraria o di ogni altro elemento che renderebbe possibile una qualche tipologia, si impone dunque, per le autrici di bestiari, il tratto comune della facilità e sapienza di relazione con il mondo animale: relazione che a dispetto del12

Colette in pace fra le bestie

l’orgogliosa distanza e del rifiuto (sia pure affascinato, come si usa dire) inevitabilmente generato dall’incontro con qualsivoglia portatore di estraneità, tende invece a valorizzare le risorse della diversità, a mettere in atto la possibilità di un’amorosa compresenza, e nei casi migliori (ovvero quasi in tutti) a riconoscere la superiorità dell’altroanimale. Ecumenismo amoroso e competenza terrestre, arte della mediazione e della relazione o altri che siano i saperi in gioco, sta di fatto che le scrittrici si discostano con grande evidenza dai modi di pensare e di sentire l’animale propri della loro cultura di appartenenza. Non è certo la «riabilitazione dell’animale nel sapere», attuata sotto gli auspici di un ideale «matrimonio della bestia e del Verbo»?, né altro strumentale e cerebrale accostamen-

to fra l’animale e l’abbecedario (proprio, a quanto pare, della modernità), il loro movente o il loro compito. Né viceversa affiora nelle loro scritture l’antica tradizione che bonariamente sanciva la superiorità degli animali sull’uomo in quanto esseri «periferici», forme pure e totalmente rivelate, capaci di identificarsi con poco scarto nella conoscenza divina responsabile del loro stesso essere: complici, oltre al loro enigmatico «silenzio», i meccanici gesti da loro compiuti, rinvianti allo «spettacolo ineffabile dei movimenti angelici»’. Lungi dall’essere considerati specchi di quella pur divina bestialità da cui l’uomo deve fuggire se vuole elevarsi alla dignità del suo stato; ben lontani, anche, dall’entrare in scena come creature inferiori agli

umani e soggette al loro dispotismo, gli animali dei bestiari femminili sono dunque viceversa deputati a grandi compiti, costituiscono una compagnia privilegiata e som15;

Tutte signore di mio gusto

mamente formativa, e invece di essere rappresentazione

dei vizi detengono semmai un primato di virtù: di umiltà, obbedienza, pazienza, preveggenza e intelligenza, dolcezza, grazia, compassione e vocazione a condividere il bene e il male del mondo. E questo perché non vi è traccia, nell’esperienza femminile (che si dà prima di tutto, appunto, come esperienza), di quell’originaria uccisione dell’animale vivo, e della sua conversione in animale-simbolo, che ha

significato una volta per tutte (o una volta per molte) la perdita dell'animale nella sua singolarità. Sorte peraltro condivisa dalle bestie con gli abitanti degli erbari e dei lapidari, ovvero di quegli album di figure e figurine in cui l'Occidente medievale ha schiacciato, mentre ve lo radu-

nava, il suo sapere (e il suo terrore) dell’universo. Ma basta adesso con le premesse, vediamo le scritture e vediamo Colette, quell’adorabile maestra di vita terrestre alla quale può ben far capo un pensiero sui bestiari vista la fedeltà e l’eccellenza con cui l’autrice de La gatta, Dialoghi di bestie, La pace fra le bestie, Splendore delle farfalle e così via ha a suo modo frequentato questo genere letterario. Nessun pensiero finora, nemmeno quello di Julia Kristeva tutto centrato nel grandioso rzafernage esercitato da

Colette sulle varie forme della creazione, o quello di Judith Thurman, che pure investiga così a fondo sui «segreti della carne»', è riuscito a rendere compiutamente ragione del particolare e stupefacente rapporto della scrittrice con gli animali. Quegli animali alla cui compagnia non ha mai rinunciato, che ripetutamente hanno dato mostra di saperla riconoscere come presenza amica, ai 14

Colette in pace fra le bestie

quali ha prestato la voce e il sentire e che oltre a fornire trame, dialoghi e titoli ad almeno quattro dei suoi capolavori hanno altresì partecipato, e alquanto attivamente, alla costruzione di un gran numero di testi che propriamente bestiari non sono: Poco tempo fa una povera, bella leonessa mi isolò nel gruppo di curiosi accalcati davanti alla sua gabbia. Dopo avermi prescelta uscì dalla sua lunga disperazione come da un sonno e, non sapendo come mostrare che mi aveva riconosciuta, che voleva affrontarmi, interrogarmi, magari amarmi tanto da accettare me sola come vittima, minacciò, sfavillò

e ruggì come una fiamma prigioniera, si gettò contro le sbarre e di colpo si assopì sfinita, guardandomi...’

Quegli stessi animali, va detto anche, che rappresentano una e una soltanto — sebbene forse la più forte — delle molte incarnazioni del suo spirito vitale traboccante, che investe le bestie come le piante e le pietre, le nuvole e le conchiglie, le persone e le stelle, che è la sua più acuta forma di intelligenza e di cui tutta la sua opera, fin dentro ai titoli, appare ricolma — Viticci, Il grano in erba, La nascita del giorno, La stella Vespero, Dalla mia finestra, Le ore lunghe, Per un erbario, Le belle stagioni, Flora e Pomona, Paradiso terrestre... Quegli animali, infine, che non basterà schedare senz'altro come «sintomi» (e non secondari «se-

gni» o semplici «indizi»°) della significazione testuale, né - passando dal piano narrativo a quello descrittivo — riconoscere come «umanoidi» per dare conto della loro estrema importanza. Occorre, come si diceva, un pensiero 15

Tutte signore di mio gusto

nuovo per pensare le bestie di Colette, a cui la teoria letteraria non può certo supplire e per cui neppure la psicoanalisi (quella lacaniana almeno, che la Kristeva convoca) può fare granché. Fortunatamente però questo pensiero nuovo comincia

a esserci, e il suo luogo di nascita è nell’ambito delle riflessioni e delle pratiche femminili sulla relazione di differenza, fra le quali rientra a pienissimo titolo la relazione

con l’animale: attraverso di essa può accadere e accade infatti che la direzione su cui più spesso noi ci muoviamo, quella centrata sul tema della somiglianza, venga per forza di cose abbandonata, e subenttri il rischio di un altro in-

contro e chi vi si espone e si affida sia scaraventato/a nella posizione strabiliante dello stare accanto all’altro 77 quanto tale, dell’accoglierlo presso di sé nella sua differenza e singolarità senza negarlo e senza mettersi al suo posto. Può accadere insomma, e accade a Colette, che la relazione che potremmo chiamare di estraneità non sia sentita come una mortificazione, come un sacrificio della piena coincidenza con se stessi ma, al contrario, come una

risorsa, uno spazio nuovo e aperto del sentire che garantisce contro l’assimilazione, da parte dell’umano, di ciò che umano non è: una risorsa, a quanto è dato d’acchito di riscontrare, molto femminile oltre che molto potente e mol-

to promettente.

1

Non è detto che ciò possa dipendere, come sostiene invece Rosi Braidotti, dalla «fragile appartenenza» delle donne «all’umano nel senso fallocentrico del termine», fatto che per la pensatrice del soggetto nomade e metamorfico faciliterebbe le loro relazioni col non-umano. Di 16

Colette in pace fra le bestie

fronte all'evidenza della maestosa empatia di Colette, e nondimeno della Ortese e di altre scrittrici, nei confronti delle forze, dei movimenti e dei sentimenti degli esseri della natura; davanti alla loro capacità di partecipazione alla vita, al loro sentire terrestre e celeste, alla familiarità gioiosa e semplice con cui interagiscono con le innumere-

voli forme della creazione, è maggiore la propensione a dotare queste donne di un sapere preciso e originario, non strettamente dipendente da una mancanza, e così antico da richiedere per essere nominato un’antica parola, che forse può essere cosmologia. Dico cosmologia e non co-

smogonia perché vorrei letteralmente indicare un linguaggio, un modo di stare, di sentire e di parlare più che non un desiderio di costruire e sistemare. E dico cosmologia perché non trovo e non c’è parola più grande e più piena per indicare un sentire grande e pieno come quello di Colette: che inventa la sua lingua stando sempre in contatto col mondo sensibile, che sembra diffondere il suo stesso

essere nel flusso della vita e delle forme e che per paradosso afferma il proprio io solo riconoscendolo come inseparabile dalla varietà e molteplicità dei suoi legami («mettendo in discussione il pensiero, la lingua, la sua

epoca e qualunque identità vi trovi riparo»*). Percorrendo questa strada (la strada cosmologica, per così dire) si arriva quindi a dar conto una volta di più dell’incompatibilità dell'esperienza femminile con quanto la psicoanalisi freudiana e lacaniana nomina come «perturbante»: quel conto aperto cioè fra l’io e il suo altro che nella relazione fra umano e non-umano trova da sempre una sua figura, e rispetto al quale il pensiero delle donne 17

Tutte signore di mio gusto

non a caso ha maturato diffidenza e distanza. Non convoco qui tutti gli elementi di quella che sta rivelandosi una fruttuosa decostruzione e non riapro la questione se non per trarne una sola (e ancora una volta nuova) posizione di pensiero. Chiedendosi come sia che la relazione di alterità, o di

estraneità, tendenzialmente non faccia problema per una donna (prova ne siano i casi, a volte anche estremi, veicolati dalla letteratura fantastica femminile), Annarosa But-

tarelli provocatoriamente risponde «perché in realtà una donna è sempreîn tre». È resa dunque così agile e sicura nella relazione a due da una prova di grado superiore di difficoltà, che la vede da sempre in relazione — stando all’esperienza di terapeuta di Cristina Faccincani, cui la Buttarelli rinvia — non solo con la madre ma con la madre di sua madre. Ne possiamo dedurre che anche fermandoci al primo grado della relazione, quella con la madre, ce n'è comunque abbastanza, c'è già abbastanza «altro/a», ed è già abbastanza e irreversibilmente chiaro come l’altro/a non sia fuori ma dentro, e come sia faccenda di no-

stra competenza il suo essere nostra ospite o noi la sua. Se poi aggiungiamo che tutto muove dal corpo, che è il corpo cioè a segnalare come dentro una ci sia (almeno) un’altra, e che è solo la mediazione corporea ad avverare il «farsi ospite per amore di qualcuno» in quanto, come dice la Buttarelli, è facile per una donna rappresentare perfino con il corpo lo stare in compagnia, a volte dolente, di altro, e sarà vano cercare di liquidare questa stranezza inquietante con il ricorso 18

Colette in pace fra le bestie

allo spauracchio della «fusione». Infatti, l'angoscia delle donne si accende non per la «fusione» di cui sono tacciate, ma forse per lo sguardo perturbato dell’altro — spesso maschio — che le vede doppie e le vuole sciogliere, per così dire. Invece, è senz’altro una buona traccia di ricerca la for-

ma di vita del «farsi ospite» per amore di qualcuno [...], per amore doloroso in molti casi, per sofferenza nella relazione, certo, ma sempre di relazione si tratta’,

ecco che la situazione perde ogni ombra di paradosso o di impensabilità, e diventa invece possibile e verificabile e per giunta commovente. Colette, ricordiamolo e non dimentichiamolo neppure per un attimo, è figlia di una madre venerata per il suo essere stata una forza generosa e potente della natura, madre «cosmica» identificata nei quattro punti cardinali a designare lo spazio della vita e del suo godimento, in tutte le sue forme e le sue incarnazioni. Terrestre e solida, seminata e fruttuosa come «una tenuta che dà da vivere»,

come dice la scrittrice, carne stessa del mondo e spazio di pulsioni degno delle fantasticherie di Platone sulla kora, la madre di Colette è sempre ritratta, nei molti luoghi che la riguardano in tutta l’opera della figlia e particolarmente in Sido e ne La nascita del giorno, mentre si affaccenda a soccorrere le piante, nutrire gli animali, curare i bambini propri ed altrui; la sua cornice è sempre il giardino o un suo sinonimo: l’orto, la vigna, il pergolato, il giuncheto; le sue passioni sono le fioriture, le metamorfosi, le aurore e tutti i prodigi accessibili a una vita vissuta er plein aîr; la sua filosofia, infine, riassunta in una frase: «Un essere vivente è IC;

Tutte signore di mio gusto

un impegno senza fine» (p. 100). La madre, quindi, è colei da cui Colette ha appreso naturalmente anche la lingua, che più che mai, con una mediazione corporea così

esuberante, è fatta di parole tutte invischiate nelle cose che indicano: parole solide, carnali e sensuali, impregnate dei succhi di quel giardino che nel ricordo si confonde col corpo stesso della madre; parole cangianti, come la prima luce del giorno, che hanno l’odore del mare e del mirto e si accordano al palpito delle bestie e delle stelle. Una lingua che è talmente tutt’una con la madre da imporre a quest'ultima l’acquisizione di uno pseudonimo - il celebre ed eponimo «Sido», abbreviazione dell’anagrafico Sidonie — nel vano intento di operare una distinzione. Poiché non vi è di fatto frontiera, per quanto «deliziosa» la Kristeva la voglia, fra la madre e la lingua e meno che mai in questo caso, in questa cosmologia, in questo essere sempre almeno in due: dove Sido è del resto dichiaratamente, per Colette, «colei che adesso /a abita», che l’ha preceduta, che

le ha dato la vita e insieme la lingua e la «missione» di continuare il suo lavoro di creazione del mondo («Potessi rivelarle, ora che ne ho coscienza, che io sono la sua conti-

nuatrice [...]! Mi ha dato la vita e la missione di inseguire quello che lei [...] aveva colto e abbandonato», p. 31). Sorella solare di quelle figlie che portano dentro le ferite della madre incarnando, per poterlo curare, «ciò che soffre da prima», e che sanno rappresentare, come dice la Buttarelli, «perfino con il corpo lo stare in compagnia», Colette sembra incarnare il corpo felice di Sido per poterne, in questo caso, ancora gioire, per proseguire e incrementare

quello che è stato il suo godimento e il suo splendore. 20

Colette in pace fra le bestie

Nel cuore, nelle lettere di mia madre si leggevano l’amore e il rispetto per le creature viventi. So quindi dove situare la fonte della mia vocazione (p. 51):

ecco qui la genealogia di Colette, una genealogia che non è altra cosa appunto da una cosmologia, laddove un'eredità che passa attraverso la madre congiunge la figlia a tutta la creazione. Ecco lo snodo, per lei, fra l’essere se stessa e l'essere due, il suo farsi ospite per amore dell’altra che non è diverso dal farsi ospite dell’altra per amore. Per il suo stesso amore, occorre aggiungere ed esplicitare finché la sintassi lo sopporta, che è amore per la vita, ansia di preservarla, gioia di crearla e ricrearla senza fine e senza stanchezza, poiché «Non è troppo», come ammette lei stessa», nascere e creare ogni giorno» (p. 145).

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Tutte signore di mio gusto

Note Per tutti questi riferimenti rinvio alla bibliografia finale, come anche per i titoli di Colette che scorreranno nel testo senza un relativo riscontro in nota.

Jean Lacroix, Sur quelques bestiaires modernes, in Epopée animale, fable, fabliau, Actes du IV colloque de la Société Internationale Renardienne, Evreux, 7-11 septembre 1981, édités par Gabriel Bianciotto et Michel Salvat, Paris, PUF, 1984, pp. 255-268, pp. 258 e 263. Francesco Zambon, Introduzione a I{ Fisiologo, a cura dello stesso,

Milano, Adelphi, 1990, pp. 11-30. p. 11. Cfr. quindi Elisabeth de Fontenay, Le silence des bétes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité, Paris, Fayard, 1998. Cfr. Julia Kristeva, Colette. Vita di una donna [2002], trad. it. di Monica Guerra, Roma, Donzelli, 2004, e Judith Thurman, Una vita di Colette. I segreti della carne [1999], trad. it. di Bruno Amato, Milano, Feltrinelli, 2001. Colette, La nascita del giorno [1928], trad. it. di Anna Bassan Levi,

Milano, Adelphi, 1986, p. 50. D’ora in poi indicherò direttamente nel testo la pagina da cui cito. Cfr. Filippo Secchieri, L'artificio naturale. Landolfi, la bestia, la parola, in Bestiari del ‘900, a cura di Enza Biagini e Anna Nozzoli, Roma,

Bulzoni, 2002, pp. 241-270. Rosi Braidotti, Meta()yorfosi, in Umano post-umano. Potere, sapere, etica nell'età globale, a cura di Mariapaola Fimiani, Vanna Gessa Kurotschka, Elena Pulcini, Roma, Editori Riuniti, 2004, pp. 79-114, p. 81.

Julia Kristeva, op. cit., p. 400. Annarosa Buttarelli, Alcuni luoghi dell'angoscia femminile, in Lo straniero che è in noi, a cura di Giorgio Rimondi, at Cuec, 2006, pp. 79-86, p. 81.

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2. VIRGINIA WOOLF E LA SCRITTURA SAGGISTICA FEMMINILE

È subito dall’incipit che tendono a venire a galla, e tutte insieme, le caratteristiche più evidentemente proprie alla scrittura saggistica femminile, che inizieremo a considerare solo dopo averne avuta sperimentalmente un’idea dagli esempi seguenti: Ai tempi della frivolezza le gentildonne, per la loro edificazione morale, solevano recarsi, bene impellicciate e cariche di pacchi, in giro per i tuguri: i cui sprovvisti inquilini bagnavano di lagrime le mani delle benefattrici, chiamandole «cuoricino ben fatto», o «mia buona fata» (Elsa Morante, Alcuni esercizi preparatori per la prossima Quaresima,

DI27): A scrivere, per conto di Kierkegaard, i suoi libri più belli si avvicenda e si affanna [...] un’intera confraternita di narratori velleitari e di oscuri saggisti: alacri come neanche, nelle fiabe dei Grimm carissime a Kierkegaard, gli gnomi capaci di lavorare tutta la notte di pece e di lesina perché il ciabattino trovi, alla mattina, pronte le scarpe del suo mestiere [...]. Uno dei più amabili fra questi pennaioli a tempo perso [...] dichiara [...] di trovarsi in assai serie diffi22

Tutte signore di mio gusto

coltà. Che cosa mai gli è accaduto? (Ludovica Koch, Gli

«Stadi sul cammino della vita», p. 201). L'estate del 1922, degna di nota per motivi pubblici sotto vari aspetti, sul piano privato fu notevole per il freddo eccezionale delle sue notti. Sei coperte e un piumino? Un plaid e una bottiglia dell’acqua calda? In tutta l'Inghilterra uomini e donne se ne andarono a letto con queste domande sulle labbra. E poi, verso le due o le tre del mattino, si

svegliarono di soprassalto. Qualcosa di grave era accaduto (Virginia Woolf, Jane Austen si esercita, p. 79). Fama, l’ambitissima dea, ha molti volti e si presenta sotto le più diverse forme: dalla notorietà di una storia da copertina della durata di una settimana, fino allo splendore di un nome duraturo (Hannah Arendt, Walter Benjamin: l'omino gobbo e il pescatore diperle, p. 105). Malvina Hoffman ha una vera passione per l’esattezza. [...] Disprezza le mezze misure. Il suo commento quando io, per far piacere a un editore, ho scritto qualcosa sulla sua casa di Parigi e sul suo studio a New York, è stato — «Bene, questa è una descrizione; non lo chiamerei un saggio» (Marianne Moore, Malvina Hoffman: 1885-1966, p. 608). In un passo famoso Proust assicura che il principio dello stile è lo stesso principio del salotto classico: la rinuncia. Astensione e interdizione sono le assise del destino, non meno che del salotto e della poesia (Cristina Campo, Cor lievi mani, p. 122). 24

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

Al suo nome, sarà un caso, manca solo una lettera per for-

mare l’anagramma di uno dei teatri più famosi nel mondo. Anche nel suono gli si avvicina: La Scala (Marguerite Duras, Callas, p. 312).

Mezzogiorno: a Micene è l’ora del delitto. — Oh Apollo, Apollo mio assassino... Chi grida a questo modo? Cassandra. Troia è caduta e fuochi di festa fiammeggiano sulle alture dell’Argolide; i poeti faranno ardere questi fuochi per quasi trenta secoli. Le pendici di Micene sono rosse di papaveri, come pavesate per ordine di Clitemnestra. Ma il loro non è il colore del delitto; è soltanto quello dell’estate

Apollo tragico, p. 5)!

(Marguerite

Yourcenar,

i

Preludio musicale, esordio favolistico, inizio ex abrupto, avvio di conversazione, attacco narrativo, apertura a

sorpresa, a enigma, a effetto: questo e altro coincide di norma con l'incipit di un saggio scritto da una donna, là dove poche righe bastano ad avvertire di un ingente lavoro che è stato compiuto sui materiali, e sui fondamenti stessi, di una pur solida tradizione di riferimento. La scrittura saggistica femminile nasce infatti e durevolmente si mantiene, lo anticipo, a sufficiente distanza dai maestri e

dai modelli della scuola europea, rispetto a cui essa compie uno spostamento a dir poco radicale anche nei casi — e sono molti — apparentemente più insospettabili. Voglio dire con ciò che rientrano nella schiera delle grandi innovatrici, o delle rivoluzionarie senz'altro dell'istituzione del

saggio, anche autrici che, come abbiamo già intravisto, 25

Tutte signore di mio gusto

hanno in dotazione un’educazione eccellente, uno stile

impeccabile, e una postura saggistica che risulta all’impatto compassata e severa. Autrici, oltretutto, per le quali non di rado garantisce la lezione dei capiscuola — come Pater per la Woolf o Montaigne per la Yourcenar — e sia pure di quelli fra loro che meglio hanno soddisfatto, per le più svariate ragioni, le aspettative femminili. Poiché se da un lato il saggismo spiccatamente narrativo del maestro inglese o quello fortemente soggettivo del francese sono bastati a indicare la possibilità di percorrere in modo diverso la via, in origine austera e lastricata di aplomb, di questo genere letterario, dall’altro lato, come vedremo, l'autorizzazione a narrare o a mettersi personalmente in gioco nel contesto solenne di un’impresa saggistica doveva risultare solo l’inizio, ovvero la premessa, di ben altre infrazioni. I nomi emersi fin qui rendono però urgente a questo punto qualche precisazione. Queste mie riflessioni muovono infatti da, e insieme mirano a rendere conto di, un’esemplare ed elettiva campionatura di scritture femminili attinte, innanzitutto, dall’italiana così come da altre lette-

rature europee; che sono, in secondo luogo, vagliate e comparate a prescindere da una loro possibile suddivisione teorica in base alle sottopartizioni vigenti della formasaggio; che vengono, in terzo luogo, omologate a dispetto della mole di pagine e della solidità d'impianto presentate dai singoli casi, ovvero dalla virtuale distinzione fra una saggistica «breve» e una saggistica «lunga»; scritture, infine, assunte come altrettante emergenze del modo in cui fondamentalmente una donna si accosta al sapere e ne fa 26

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

esperienza, proponendosi di dire qualcosa, attraverso lo scrivere, su un determinato argomento: senza che per ciò risulti determinante il suo essere in partenza e «di professione» scrittrice o filosofa, poetessa o prosatrice, criticascrittrice, pensatrice poetica o scrittrice più o meno spe-

cializzata nella saggistica (è il caso, clamoroso, di Cristina Campo), o altro ancora nel fertile dominio di quella mentalità oppositiva e derivativa che da sempre governa l’Occidente. Tale è in essenza, dopotutto, ogni saggio, che l’etimologia da ogni lato tiene vicino al significato di prova ed esperimento (essay), di misurazione e verifica (ex4giumz), di assaggio e degustazione (essayer). Il saggio è dunque un mettersi alla prova, attraverso la lingua, su un dato argomento; è la verifica, e insieme la ricerca, di un sapere su qualcosa; è infine, e letteralmente, un esercizio del gusto,

l’assaggio, e il godimento, del sapore di una scoperta. La sua dimensione performativa e di happening, di accadimento che si realizza nel tempo reale di una scrittura e di una lettura, è addirittura irruente; la sua prescrizione a che il soggetto sia presente e coinvolto, tutto in gioco ed esposto da ogni lato, a dir poco evidente; la sua vocazione infine a convertirsi da genere letterario a «figura di lettura», dove più che lo spazio della sua genesi (dominio dell’entità astratta dell'Autore) conta quello della sua ricezione (dove invece reale, presente e pronto a testimoniare sta

il lettore), quantomeno plausibile. È forse per queste sue caratteristiche di scrittura che è e che si fa esperienza ed esperienza di relazione, che si lega al fare e che presume l’esserci nonché l’esserci di un al24]

Tutte signore di mio gusto

tro, che quella saggistica si dimostra ospitale nei confronti delle donne, e disponibile più di altre a incoraggiare le loro competenze, ad assecondare le loro inclinazioni, a

farsi ricetto dei loro talenti. Stante almeno quel che è teorizzato, anche in ambito ermeneutico, di una postura fem-

minile fondata sul partire da sé, sulla relazione con l’altro/a, e su un’esperienza intellettuale che ha radici nel sentire e che si esprime nelle pratiche. Accogliendo quindi a lor volta le prerogative della scrittura saggistica, prendendole per così dire alla lettera (e ignorando dunque quanto in controtendenza ne ha tratto la tradizione maschile), e sviluppandone massimamente la portata, le scrittrici hanno condotto la forma-saggio a esiti tanto interessanti quanto sorprendenti. Interessanti perché ne hanno fatto esplodere la dimensione, come dicevamo, performa-

tiva, soggettiva e interlocutoria, revisionandone potentemente, di conseguenza, gli stilemi e le istanze. Sorprendenti, d’altro canto, perché, pur dimostrandosi ligie a ciò che un saggio è, o vorrebbe essere (giusta l'etimologia) di per sé, ne hanno fatto altro: non soltanto, cioè, un testo as-

solutamente eccentrico nella tassonomia dei generi letterari ma, anche, un’occasione che trascende i margini del letterario, e che invade lo spazio (peritestuale, metatestuale o extratestuale che lo si voglia) dove chi scrive mette in gioco tutto ciò che ha di più caro, dall'idea di se stesso/a al suo rapporto col mondo. Dicevamo dell’incipit, o modo di esordire, dei saggi delle scrittrici, che spesso contiene già in sé e annuncia con evidenza le novità che il testo riserva a un lettore di saggi «di tradizione». Novità che non mancano di manife28

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

starsi poi nel corpo del testo ovvero nel seguito dello sviluppo argomentativo, che, coerente con le premesse, mantiene fino all’ultimo passo un andamento fluido, erratico anzichenò, teso ad assecondare le movenze del pensiero che si va svolgendo, a salvaguardare «l’atmosfera» (la categoria è della Woolf) creata all’inizio e a tener conto della presenza, silenziosa ma sensibile, e giustamente presunta tutt’altro che inerte, di colui o colei che legge. È soprattutto la premura per costui o costei, alterità interlocutoria tanto importante da divenire comprimaria, e da sollecitare l'ampliamento della definizione del saggio nell’atto di uno «scrivere su qualcosa per qualcuno», a promuovere la ricerca e la scelta di un tono, una lingua e uno stile adeguati, che lungi dall’attenersi alle siderali distanze prescritte dal canone tanto rispetto all'oggetto quanto rispetto al lettore tendono piuttosto ad andare incontro sia all’uno che all’altro. Ciò che è evidente non solo, come

parrebbe scontato, nelle scritture per loro statuto empatiche e che, saggistiche o meno che appaiano, traducono comunque e sempre un’offerta d’amore (com'è nel caso, forse fra tutti eclatante, di Anna Maria Ortese). Ma, anche, in

scritture più disciplinate e rigorose, segnate a dito come esempi di sprezzatura (la citata Cristina Campo, naturalmente, 77 primzis) e nondimeno sempre in ascolto di un interlocutore invisibile, rispettose della sua intelligenza e prone al suo desiderio di bellezza; oppure in simpatia profonda con l’oggetto del loro argomentare (come di volta in volta si dichiarava, con la sua precisa dizione, Ma-

rianne Moore), o addirittura capaci, per «delirio» se non per «destino», di mettersi al suo posto: per cercare di con29 |

Tutte signore di mio gusto

densare, in una sola battuta, l’immensa lezione di Marfa Zambrano sull’empatia come ermeneutica. Ancora qualche esempio o «saggio», per l'appunto, del

modo di procedere di queste saggiste, ciascuna delle quali a suo modo incline a non dissimulare la circostanza di una ricerca in atto del proprio tema e del proprio pubblico, ovvero disponibile a rendere partecipi dell’enunciato le pressanti e costitutive vicende dell’enunciazione. Qualcuno avrà notato con quale ipnotica lentezza battano le ciglia di un bambino che ascolta un vecchio rievocare; co-

me le labbra si schiudano febbrili, la saliva passi lenta attraverso la gola [...], mentre tutto il corpo si stringe contro le antiche ginocchia. C'è in lui la tensione immobile degli animali in muda, degli insetti in metamorfosi; è forse simile

agli usignoli in pieno canto che, si dice, hanno una forte temperatura e il fragile piumaggio tutto arruffato. Egli sta crescendo, in quegli attimi; sta bevendo con voluttà e tremore [...] l’acqua fulgida e cupa da cui ha vita la percezione sottile (Cristina Campo, Ir medio coeli, p. 14).

Credo in tutto ciò che non vedo, e credo poco in quello che vedo. Per fare un esempio: credo che la terra sia abitata, anche adesso, in modo invisibile. Credo negli spiriti dei bo-

schi, delle montagne, dei deserti, forse in piccoli demoni gentili (tutta la Natura è molto gentile). Credo anche nei morti che non sono più morti (la morte è del giorno solare). Credo nelle apparizioni. Credo nelle piante che sognano e si raccomandano di conservare loro la pioggia. Nelle farfalle che ci osservano, improvvisando, quando occorra, ma30

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

gnifici occhi sulle ali. Credo nel saluto degli uccelli, che sono anime felici, e si sentono all’alba sopra le case... (Anna Maria Ortese, Nor da luoghi di esilio, pp. 155-156). L'allitterazione opera su di un’unità doppia, il distico. Lancia il primo verso ad accavallarsi impazientemente sul secondo. Accompagnandosi come fa [...] a una prosodia in apparenza distratta (ma in realtà astratta), l’allitterazione perde molta della sua antica solennità: di quando, cioè (nell’epica), collegava gli elementi fondamentali del discorso. Ma ne acquista tanto maggiore mobilità e inquietudine. La rima (...) lavora invece sul verso. Lo spezza in due, [...] lo costringe a ripiegarsi su se stesso e a interrogarsi. L'allitterazione incalza, la rima resiste, riflette, avanza senza riserve. L'allitterazione è un breve racconto timbrico, la rima una lanterna magica (Ludovica Koch, GY scaldi, p. 21).

L'Odissea è semplicemente una storia di avventure, il racconto istintivo di una razza di marinai. Così possiamo cominciare a leggerla velocemente, nello spirito di bambini che vogliono divertirsi e scoprire che succede dopo. Ma non c’è niente di immaturo, è gente cresciuta, abile, sottile,

appassionata. [...] Penelope attraversa la stanza; Telemaco va a letto; Nausicaa lava i panni — le loro azioni sembrano cariche di bellezza, perché loro non sanno che sono belle;

[...] tuttavia, già migliaia di anni fa, nelle loro isolette, sapevano tutto ciò che c’è da sapere. Col rumore del mare nelle orecchie, vigne, prati, ruscelletti tutto intorno, sono

molto più coscienti di noi di un fato spietato. C'è una tristezza alle spalle della vita che non si provano neppure a 31

Tutte signore di mio gusto

mitigare. Assolutamente consapevoli di stare nell'ombra, e tuttavia vivi a ogni tremore e baluginio dell’esistenza, essi durano ed è ai Greci che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione, del Cristianesimo e delle sue consolazioni; e della nostra epoca (Virginia Woolf, Del non sapere il greco, pp. 92-93). Antigone fondò una specie; la specie delle sante bambine o adolescenti, che hanno percorso il mondo con la spada intatta di una pietà senza commiserazione. Quelle che accorrono, lucide, senza preoccuparsi per la propria sorte; che accelerano il tempo; le analfabete che abbagliano con la giustezza delle loro risposte [...]. Non escono mai del tutto alla luce; anche quando capeggiano eserciti come Giovanna, qualcosa le mantiene isolate, segrete. E allora piangono perché sono la primavera imprigionata, la purezza rapita, mutilata nella sua azione ma non nella vita. E tra tutte geme Antigone, la sepolta viva. Non possiamo evitare di sentirla tra le fessure della sua tomba. [...] Non possiamo evitare di sentirla perché la tomba di Antigone è la nostra coscienza ottenebrata. Antigone è sepolta viva dentro di noi, in ciascuno di noi (Marfa Zambrano, Delirio di Antigone, pp. 86-87).

Collaborano evidentemente alla ricerca dell’effetto empatico, interlocutorio e dialogico, di caso in caso, i talenti individuali, e in particolare il personalissimo modo che ciascuna di queste saggiste dimostra di possedere nel fare uso della metafora (o di qualche altra affine figura come, specialmente per la Koch, la prosopopea): il tratto stilistico 32

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

che forse più di ogni altro esprime e realizza il comune intento di perseguire una scrittura comunicativa e coinvolgente, che con una lingua corposa e figurata ampli l’oriz-

zonte della ricezione di un genere «difficile» e abbastanza elitario. Come in una versione traslata della cosiddetta Bibbia dei poveri, il ricorso alle «figure» consente infatti di rendere eloquente ciò che per via di astrazione, o in un linguaggio solo tecnico o altamente concettuale, verrebbe più faticosamente compreso, o sarebbe avvertito come qualcosa di lontano, se non di estraneo, dal sapere e dal sentire del lettore, come lo voleva la Woolf, «comune». Ma è forse il caso, giunti a questo punto, di riepiloga-

re con ordine e di mettere a fuoco gli aspetti indicati sparsamente fin qui, e proposti come possibili contrassegni della scrittura saggistica femminile: il che significa esemplata, almeno per il momento, su un corpus costituito dai testi saggistici di tutte le autrici citate, che sulla base di quanto ho precisato in sede di premessa si sono dimostrate sufficientemente rappresentative. Riepilogo tali aspetti, di necessità, in forma consecutiva, avvertendo però che ta-

le disposizione tradisce inevitabilmente il loro reciproco, sincronico e solidale richiamarsi, ovvero il loro essere le-

gati allo stesso modo delle superfici di uno specchio a faccette costituendo, per così dire, quasi un tutt'uno. Desumiamo innanzitutto, nella saggistica femminile, l'avvenuto e pieno superamento della «superstizione» dei generi letterari, e per contro l’ibridazione della forma-saggio con altre pratiche, scritte e orali, di discorso che vanno dal racconto all’autobiografia alla réverze alla conversazione. Altrettanto evidente è quindi il superaDI

Tutte signore di mio gusto

mento, per quel che riguarda specificamente 1 saggi critici, della barriera fra critica «accademica» e critica «mili-

tante», 0 scrittura rispettivamente di approfondimento e di divulgazione della conoscenza: ciò che va di pari passo con l’individuazione di un tono informale che non pontifica ma esplora, che non giudica ma colloquia, presumendo lo stare a proprio agio della scrittrice e propiziando quello di chi legge. Si impone poi il largo ricorso a figure, metafore, tropi, e di conseguenza l’inclinazione a «dar corpo» a una scrittura nata e conservatasi a lungo volutamente neutra e disincarnata. Pur nel suo consistere, tale scrittura si mantiene però flessibile nel suo andamento e aperta, duttile nella sua forma, giacché come

detto non si tratta dell’esercizio di un sapere collaudato ma della scrittura di un pensiero che si va svolgendo, che procede alla ricerca di se stesso e nell’attenzione all’altrui ricezione. A fare da ponte fra enunciazione ed enunciato rileviamo quindi un’evidente violazione della distanza tradizionale fra pars subjecti e pars objecti, e la dirompente immissione di una corrente empatica che lega chi scrive ai suoi temi e ai suoi lettori. Decisamente sul pia-

no dell’enunciato si colloca invece l’assunzione dell’intuito, del «gusto» come del «fiuto», quale criterio di ve-

rità, a testimonianza di un sapere che ha radici nel sentire e di cui si fa esperienza non limitatamente alla dimensione intellettuale. Infine, e a riprova di tutto quanto precede, assistiamo a una radicale contestazione della tradi-

zione elitaria, erudita e «blindata» del saggio, che si fa luogo invece di incontri e di scambi, seleziona i suoi lettori semmai sulla base dell’intelligenza (e non dell’erudi34

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

zione), e si presenta come gioiosa avventura del conoscere aperta al mondo. Il saggio dovrebbe avvolgerci in un incantesimo con la prima parola, e noi dovremmo semplicemente ridestarci, rinfrescati, all’ultima

auspicava del resto Virginia Woolf, nel programmatico scritto I/ saggio moderno, per questo genere di scrittura e di lettura, regolato a suo vedere dal supremo principio del piacere («Il principio che lo controlla è semplicemente quello di arrecare piacere; il desiderio che ci sollecita quando lo prendiamo dallo scaffale è semplicemente quello di ricevere piacere»), e abile fra tutti — grazie al suo movimento naturale, alla sua voce «parlante» e alla possibilità che concede di far uso di se stessi — nello stare vicino alla vita. Specie se, come sovente le capitava, aveva a che fare con un saggio critico. Dove allora la misura discorsiva a metà fra il saggismo critico e il racconto biografico, o il racconto tout court, la conduceva verso un narrare che, in un’estrema naturalizzazione del debenedettiano «racconto critico»‘, si costituiva come pratica di relazione con l’autore o l’autrice in oggetto non meno che con coloro che a loro volta di quel saggio sarebbero stati lettori e lettrici, e che avrebbero goduto di un’inedita ospitalità insieme umana e intellettuale. Vorrei poter inventare un nuovo metodo critico — annotava

quindi nel suo Diario —; qualcosa di più veloce e leggero, più colloquiale e pure intenso: più a fuoco e meno compoRa)

Tutte signore di mio gusto

sto; più fluido, e secondo il volo dei miei saggi del Corzzzon Reader. Vecchio problema: come mantenere il volo della mente e insieme essere precisi??:

esprimendo peraltro una tensione del tutto analoga, se non speculare, a quella che era solita esternare quando parlava dell’arte della conversazione, o la praticava senz'altro. Nessun lettore, «comune» o specialista che sia,

dei suoi saggi ha mai mancato infatti di notare come essi siano capaci di «conversare» con chi legge, di andargli incontro e di fargli compagnia, intrattenendolo e interpellandolo così da vicino da far dire a qualcuno che leggere ciascuno dei suoi saggi è «come ricevere una lettera da lei indirizzata espressamente

a te»°. Aggiungiamo

— ma

è

semplicemente l’altra faccia della medaglia — la sua scelta di una prosa, la cui ricerca è testimoniata dalla pagina di diario sopra citata, ariosa e leggera, fantasiosa e brillante, tenacemente avversa a ogni esercizio di autorità quanto al

«gioco» del verdetto (che rischiava di sostituire, secondo lei, il vero apprezzamento

estetico); e ancora un tono,

quale ogni buona conversazione richiede, mai aspro né agonistico, mai retorico né pedante, che non pontifica e non sentenzia né fa sfoggio di erudizione; e infine un «piacere» esibito e sensibile della compagnia del suo autore e del suo lettore, di cui il testo quasi fisicamente trasuda e

che ne fa un luogo, come da lei auspicato, di rinfreschi e incantesimi.

È in questo senso, si direbbe, che l’avvento della scrittura femminile nella tradizione saggistica lascia il segno, dopo secoli in cui il bellettrismo ha saturato la figura e 36

Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

l’aura del saggista «uomo di lettere» e del suo compito esclusivo. Cosicché mentre il romanzo, come si sa, nel Novecento si «apre» verso la forma saggistica, incapace

ormai di contenere una compiuta rappresentazione del mondo, il saggio specularmente si volge al racconto e aspira a narrare.

Soprattutto,

e con

poche eccezioni,

quando a scriverlo sia una donna. E sempre che, beninteso, questa donna, questa «saggista», non abbia optato per la forma della conversazione o per altra e confacente pratica di discorso. La responsabilità e il peso della lezione woolfiana appaiono, a questo punto, abbastanza evidenti: è lei che, nei primi decenni del secolo, ha inaugurato una forma saggistica eslege e attraentissima, fatta per incoraggiare le inclinazioni e le attese, nonché delle lettrici, delle scrit-

trici a venire. Ed è lei stessa che, con poche ma nevralgiche indicazioni teoriche, che perfettamente si armonizzano con quanto raccomandato alle donne per altri generi di scrittura e pratiche del vivere, sigilla e perfeziona il proprio insegnamento. Le metafore dell’incantesimo e del rinfresco, dominanti nel saggio sul saggio, si aggregano infatti ad altre metafore capitali nelle quali e attraverso le quali si sono cristallizzate, e sono andate per il mondo, le sue idee sulla scrittura, l'educazione e la civiltà femminili: il granito e l'arcobaleno, il lettore comune, le tre ghinee, il volo della mente, il segno sul muro, la signora Brown, una stanza tutta per sé, i momenti di esse-

re e quant'altro ancora ha contribuito a costituire il suo inconfondibile lascito. Magistrale scrittrice di saggi che tali non appaiono, e dI

Tutte signore di mio gusto

che mentre si traducono in oggetti più conformi al sapere e al saper fare delle donne salvaguardano, facendolo sopravvivere sotto le mentite spoglie della scrittura d’invenzione, o della pratica della conversazione, il discorso saggistico e critico del Novecento, Virginia Woolf si candida una volta di più a destinataria di un moto di riconoscenza e riconoscimento che, per renderle un ultimo omaggio, potremmo formulare con le sue stesse parole. La parole, cioè, da lei riservate a un’altra scrittrice, Charlotte Bronté, in chiusura di un ennesimo saggio strepitoso nel quale si ravvisano tutti i suoi talenti di critica e biografa, di interprete e narratrice, di conversatrice e conoscitrice dell’umana esistenza tanto da farci dire che questi sono parte di lei come lo sono la sua fantasia e il suo genio. E aggiungono, all’ammirazione che proviamo per lei come scrittrice, un certo particolare sentimento pieno di calore che ci fa desiderare, quando si pone il problema di come onorarla, di alzarci e salutarla non soltanto come scrit-

trice di genio, ma come nobilissimo essere umano”.

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Virginia Woolf e la scrittura saggistica femminile

Note Per questa e la successiva rassegna di citazioni rinvio alla bibliografia finale. Le traduzioni dalla Moore e dalla Duras sono mie. Carla Locatelli, L'(auto)biografia: una figura di lettura nella politica co(n)testuale femminista, «DWF>», 3-4, 39-40, luglio-dicembre 1998, pp. 90-113.

Virginia Woolf, I/ saggio moderno [1922], trad. it. di Masolino D’Amico, in Saggi, prose, racconti, a cura di Nadia Fusini, Milano, Mon-

dadori, 1998, pp. 161-173, p. 161. Sul «racconto critico» di Giacomo Debenedetti, nell’accezione di un racconto quale «struttura dominante della orazio soluta» del critico,

cfr. Edoardo Sanguineti, Tra Liberty e Crepuscolarismzo [1963], Milano, Mursia, 1990, p. 185. Virginia Woolf, Diario di una scrittrice [1953], trad. it. di Giuliana De Carlo, Milano, Mondadori, 1980, p. 436.

Virginia Woolf fra i suoi contemporanei [1972], a cura di Liliana Rampello, trad. it. di Lucia Gunella, Firenze, Alinea, 2002, p. 184. Virginia Woolf, Charlotte Bronté [1916], in Ritratti di scrittori, trad. it. e cura di Mirella Billi, Parma, Pratiche, 1995, pp. 97-105, pp. 104-105.

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3. FELICITÀ DI KATHERINE MANSFIELD

«Non svolazzano mai qua e là, le stelle?» «Sì, ma non si vede.»

Katherine Mansfield

Felicità come sappiamo è il promettente titolo di un racconto del 1920 di Katherine Mansfield, che assieme a Preludio

(del 1918) e alla raccolta d’esordio Ir una pensione tedesca (del 1911) le valse l’attenzione e l'ammirazione dei contemporanei, e in particolare di quell’una e fatale fra tutti che risponde al nome di Virginia Woolf. Ma felicità è senz'altro anche il modo di riassumere in una parola tutta la letteratura della Mansfield, perché nomina efficacemente l’intuizione sulla quale si è costruita e si regge la sua magnifica collezione di racconti. Tracce di quella «felicità», infatti, sono reperibili pressoché in ognuno dei testi della scrittrice; sulla sua ricerca, manifestazione ed espressione si sostiene la scrit-

tura stessa di lei; si tratta di qualcosa di così splendente da illuminare per contagio, come vedremo, anche scritture con-

tigue; e laddove essa si fa spazio in modo più vivido ecco che questo coincide coi racconti più noti e più amati.

Ma cos'è in Katherine Mansfield felicità? Per provare a rispondere, cominciamo ad ascoltare la sua voce. 40

Felicità di Katherine Mansfield

Che farci se avete trent'anni e, svoltando l’angolo della vostra strada, vi sentite sopraffatta d'improvviso da un senso di felicità — una felicità assoluta — come aveste inghiottito un frammento luminoso di questo tardo sole pomeridiano, che vi arda giù nel fondo, mitragliandovi di una piccola gragnuola di raggi in ogni particella, in ogni dito della mano e del piede?!

Felicità è dunque il nome che la Mansfield ha scelto per quella sorta di stato di grazia che, nella sua esperienza, appare legato a una percezione nitida, intera e pervasiva della realtà. Si tratta, in parte, di quello che Virginia Woolf di lì a poco avrebbe chiamato «momento di essere». E se è per questo Joyce lo chiama «epifania» e Proust «intermittenza» e altri ancora «occasione», «rivelazio-

ne», «agnizione» e così via. Come a dire che per questa esperienza c’è attenzione, e desiderio di nominazione,

tutto intorno e già da molto tempo. Salvo dover però precisare che la realtà percepita con tanta vivezza dalla Mansfield è sempre e necessariamente realtà vivente, un albero, un moscone, un temporale, un pezzo di cielo; è un

lembo di orto o di giardino, di luce primaverile o di notte stellata, sono i frutti sul piatto o i fiori nel vaso o il minuscolo erbario nella scatola di fiammiferi. È, insomma, un campo di percezione, e insieme un campo di passione,

il quale stando dentro i suoi limiti funziona però come la parte per il tutto, vale a dire del mondo come corpo celeste pieno di meraviglie e del cosmo che lo ospita fin dall’inizio del tempo. Ascoltiamola ancora, sempre nello stesso racconto. 41

Tutte signore di mio gusto

E le due donne stettero l’una presso l’altra a guardare l’esile albero in fiore. Quantunque così immoto pareva, come la fiamma di una candela, allungarsi, affilarsi, palpitare nell’aria luminosa, crescere e crescere via via che esse lo fissava-

no... fin quasi a toccare l’orlo della tonda, argentea luna. Quanto tempo rimasero lì? Entrambe, per così dire, affer-

rate in quel cerchio di luce ultraterrena, comprendendosi perfettamente l’una con l’altra, creature di un altro mondo,

attonite di quel che dovessero fare in questo, con tutto il tesoro di felicità che gli ardeva dentro e gli grondava, in fiori d’argento, dalle mani e dai capelli.

E ancora, da altre pagine: Mentre se ne stava lì sdraiata a guardare il soffitto, ebbe il suo momento - sì, ebbe il suo momento [...]. Fu unico, lu-

minoso, purissimo; fu come — una perla, troppo perfetta per accompagnarsi a un’altra... Descrivere quello che era successo? Impossibile. [...] Lei faceva parte della sua camera — faceva parte del gran mazzo di anemoni del sud, delle candide tende a rete che la brezza sospingeva dentro rigide, degli specchi, delle seriche coperte bianche; faceva parte dell’acuto, agitato, tremulo clamore inframmezzato dagli scam-

panellii e dal frastuono delle voci che scorrevano là fuori — parte delle foglie e della luce. Finito. Si alzò a sedere?. E ancora:

Là, appena dentro la porta, c'era una grande cassetta bassa piena di vasi di fiori di canna d'India. Nessun'altra varietà. 42

Felicità di Katherine Mansfield

Niente altro che fiori di canna d’India: grandi, rosa, spalancati, radiosi, di una vitalità impressionante in cima agli steli di un rosso acceso. «O-oh, Sadie!» disse Laura in una

specie di gemito. Si piegò sulle ginocchia come se volesse riscaldarsi a quella fiammata di fiori; se li sentiva tra le dita, .

sulle labbra, se li sentiva crescere nel petto).

Katherine Mansfield è una delle prime autrici nel Novecento fra quelle che ho presenti a mostrare e a conoscere la felicità di questa esperienza. Un’esperienza che, se si lascia riassumere col nome di un sentimento, non per questo viene meno su altri piani, anzi. Partiamo infatti dal presupposto che la Mansfield, come la Woolf sua estimatrice, ha fatto molto tempo prima di incontrare noi il salto dal concetto alla pratica: dal giardino, poniamo, come nozione o figura al giardino come «figurazione» (il concetto è di Donna Haraway)', come un di più della figura, retorica o pittorica che sia, come un qualcosa insomma che richiede il corpo come medium e un sapere che non è altra cosa dal sentire. E partiamo altresì dal presupposto che non c’è niente di strano se un soggetto nuovo e da poco venuto al mondo — una donna che pensa, che scrive e che dice di sé — sente il bisogno di fare contemporaneamente l’operazione di ridisegnare il mondo, e di raccontare in un certo senso da capo la storia dell’universo. Non importa poi che lo faccia cominciando dalla terra o dal cielo, dal mare o dalla foresta, dall’orto della vicina o dalla lontana vicenda degli astri e delle stelle. Dovunque cominci, e comunque proceda, è lo stesso grande racconto che si svolge, ed è lo stesso desiderio che sentiamo al la43

Tutte signore di mio gusto

voro. Un desiderio che, se espresso più letterariamente, potremmo dire sia quello di smentire che sia finita l’epoca (l’Ottocento, nell’opinione di molti) delle grandi narrazioni, delle narrative capaci di essere un mondo, delle cosiddette «opere-mondo» ovvero delle forme che il mondo aspirano a contenere e su di esso si modellano. Ma un desiderio allo stesso tempo che, se allarghiamo l'orizzonte del discorso, possiamo intendere come quello di dare inizio a un altro mondo o, almeno, a un altro modo di stare in questo.

Quello che ci permette di osare tanto, di ragionare cioè in termini così radicali e vertiginosi è non solo il fatto che nella Mansfield l'attitudine alla percezione del proprio rapporto con la vita e la creazione è netta e addirittura sfolgorante; ma anche l’incoraggiamento che viene a leggere in questa luce molta altra letteratura del Novecento, dove le scrittrici prendono via via coraggio e si autorizzano (l’una l’altra e ciascuna se stessa) a ficcare il naso nella terra e nel cielo, per rendersi conto da dove e per quale via il mondo sia venuto al mondo e quale posto occupino al suo interno l’umano e i suoi dissimili. Sentiamone parlare qualcuna, a partire da Virginia Woolf che, come abbiamo detto, alla Mansfield è stata più vicina nello spazio e nel tempo e le è forse in parte debitrice (non si spiegherebbe altrimenti la sua famosa gelosia) della grande intuizione dei momenti di essere: Come torna la luce nel mondo dopo l’eclisse del sole? Miracolosamente. Fragilmente. A strisce sottili. Pende come una gabbia di vetro. È un cerchio che la minima scossa po-

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Felicità di Katherine Mansfield

trebbe spaccare. Qui una scintilla. Un attimo dopo un getto di grigio opaco. Poi un vapore, come se la terra inspirasse ed espirasse, uno, due, per la prima volta. Poi nell’opacità qualcuno avanza con in mano un lume verde. Uno spettro bianco si stacca. I boschi pulsano di verde e di azzurro, e piano piano i campi s’imbevono di rosso, di oro, di marrone. D'un tratto il fiume acchiappa una luce azzurra. La terra assorbe i colori come una spugna che lenta si impregni di acqua. Si ingrossa, si arrotonda, pende gravida; si posa e rotea sotto i nostri piedi. Così il paesaggio tornò”.

Ma sentiamo anche Colette, che negli stessi anni della Mansfield sperimentava a sua volta, e con altrettanta determinazione e pienezza, questa speciale felicità: Credo che la presenza in gran numero dell’essere umano affatichi le piante. Una mostra di orticoltura langue e muore quasi ogni sera, quando sono venuti in troppi ad ammirarla; dopo la partenza dei miei amici ho trovato il mio giardino stanco [...]. Smuovere, penetrare, lacerare la terra è un lavoro pesante — un piacere — che non è disgiunto da un’esaltazione ignota [...]. Il disotto della terra, intravisto, rende attenti e avidi tutti quelli che ci vivono sopra [...]. Viene l’alba, il vento cade. Dalla pioggia di ieri è nato nell’ombra un profumo nuovo, o sono io che ancora una volta sto per scoprire il mondo valendomi di sensi nuovi?... Non è troppo nascere e creare ogni giorno’.

Se avanziamo poi negli anni continuando sempre a co-

gliere, è il caso di dire, fior da fiore, ecco tante altre pagine 45

Tutte signore di mio gusto

eloquenti (rispettivamente di Marguerite Duras, Elizabeth von Arnim, Marisa Bulgheroni) che dicono di questa stessa felicità, di una partecipazione intensa alla molteplicità delle forme della creazione, e di una conseguente compenetrazione, come fu detto per Colette, fra la lingua e il mondo: Da bambina ho abitato delle terre vicino alla foresta vergine, in Indocina, e la foresta era proibita, perché pericolosa,

a causa dei serpenti, degli insetti, delle tigri e di tutto il resto. E noi, ci andavamo lo stesso [...]. Sì, sapete, è alla fo-

resta che noi abbiamo parlato, noi donne, per prime, a cui abbiamo indirizzato una parola libera, una parola inventata; [...] le donne hanno cominciato a parlare agli animali, e alle piante, loro possiedono una parola, che non hanno imparato.

Tutti i ciliegi fiorirono in un’esplosione improvvisa. E poi [...] arrivarono i lillà, masse e masse di lillà, in macchie fit-

te sul prato [...]. Quando giunse quel momento, e quando, prima che fosse concluso, anche le acacie furono tutte in flore, e quattro grosse chiazze compatte di pallide peonie rosa argento sbocciarono sotto le finestre volte a sud, mi sentii così assolutamente felice, e beata, e riconoscente, e

grata, che davvero non sono capace di descriverlo. Gli Orti della Regina [...] si stendono tra le pendici della Pietra Grande e la Pozza di Boch là dove [...] la pietra è cucita al prato da gugliate di licheni... là dove un gigante in fuga ha lasciato un’unica orma fangosa. Gli Orti [...] 46

Felicità di Katherine Mansfield

devono il loro nome a una leggenda secondo la quale la Regina Elisabetta d'Austria vi fece capricciosa seminare aglio selvatico e acetosella, mezzelune arancioni di carote e cespi di verze violacee, sedani diafani e rosseggianti ravanelli [...]. Troverai negli Orti un cimitero di parole che ricrescono in forma di fiori di erbe e licheni, scoprirai roselline minerali in cui la pietra incontra il vegetale e il teorema dell’onda e della rosa è scritto in caratteri così minuti che ci si deve curvare, sdraiare, per decifrarli, e lì ci si può ad-

dormentare’.

E il discorso non cambia nemmeno se leggiamo nelle pagine di donne di tutt'altra storia e cultura e memoria, come la splendida Alice Walker: Mia madre adornava di fiori qualunque squallida casa in cui fossimo costretti ad abitare. E non si trattava del tipico cortiletto pieno di zinnie. Coltivava giardini ambiziosi [...], con oltre cinquanta varietà di piante diverse [...]. Prima di lasciare la casa per andare nei campi innaffiava i suoi fiori, tagliava l’erba e preparava nuovi solchi. Quando ritornava dai campi separava bulbi, scavava una buca, sradicava e ripiantava le rose, o potava i rami dei cespugli più alti [...]. Qualunque cosa piantasse cresceva quasi per magia e la sua fama di floricoltrice si diffuse in tre contee. Grazie alla sua creatività con i fiori, persino i miei ricordi

di povertà sono filtrati attraverso uno schermo di fiori che sbocciano: girasoli, petunie, dalie, forsizia, spirea, delphinium, verbena... e molti altri ancora [...]. Il suo viso, men-

tre realizza quell’arte che è il suo dono, è un'eredità di 47

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rispetto che mi lascia, rispetto per tutto ciò che illumina e valorizza la vita,

o la spietata bell hooks: Circondati da campi di tabacco, le foglie intrecciate come capelli appese ad asciugare, multipli cerchi di fumo riempiono l’aria. Con un filo invisibile annodiamo rossi peperoni dal gusto robustamente piccante. Verranno appesi davanti a una tenda di merletto a prendere il sole. Guarda, mi dice la nonna, che cosa fa la luce al colore! Ci credi che lo

spazio può dare la vita, o toglierla, che lo spazio ha potere?,

o la grande Toni Morrison: Quando veniva la stagione calda, Baby Suggs [...] portava il suo grande cuore alla Radura, un posto ampio e arioso ricavato nel folto di un bosco che nessuno conosceva, alla fine di un sentiero noto solo ai cervi [...]. Dopo essersi sistemata su una grande pietra piatta sui lati, Baby Suggs chinava il capo e pregava in silenzio. [...] quando metteva giù il suo bastone, voleva dire che era pronta. Allora gridava:

«Avanti i bambini!» e questi si staccavano dagli alberi e correvano da lei. «Fate sentire a vostra madre come ridete», diceva, e i boschi risuonavano di risate.

Non cambia, oserei dire, mai e per nessuna ragione

questo orientamento del desiderio femminile verso i movimenti, i mutamenti e gli esseri della natura e del mondo che vediamo al lavoro a partire dalle pagine di inizio 48

Felicità di Katherine Mansfield

secolo della Mansfield. Pagine quasi contemporanee, se ci facciamo caso, al famoso saggio di Freud tradotto come I/ perturbante con cui si inaugura la riflessione novecentesca sull’alterità: su quel letale binarismo Io/Altro, cioè, e su quel cortocircuito del pensiero incapace di accettare fino in fondo e di rendere plausibile che l’identità sia impastata di alterità. Una relazione, quella di alterità impostata in questo modo e vissuta dentro questi limiti, a cui le scrittrici sembrano desiderare di rispondere con uno scarto deciso e provocatoriamente immenso: piazzan-

dosi con tutto il corpo e con tutti e cinque i sensi al centro di quest'esperienza e vivendola giustappunto come esperienza e non come concetto, surclassando la relazione binaria tramite una relazione fra l’io e il tutto, e trasfor-

mando l'Altro singolare e maiuscolo in un altro universale e rigorosamente minuscolo: nel senso di tutto l’altro, da sé e anche dall’umano, che ci sta intorno. C'è un’altra parola filosofica per questa esperienza ed è empatia’, la disponibilità ad accorgersi dell’altro e a stare amorosamente in sua compagnia: a starci dunque per amore, e per

amore appunto di altro. La cosa sorprendente è però vedere questa esperienza «dal vivo», vissuta in tempo reale dalle donne che la raccontano e la ritraggono facendone, come accade per ogni discorso d’amore, la propria enunciazione e la propria performance. C'è in loro infatti, nei loro corpi, ed è sensibile, l’ebbrezza della partecipazione alla pluralità delle forme della vita, e nei loro racconti una spiccata capacità di lettura non simbolica ma relazionale delle folte pagine di quel grande erbario, bestiario e lapidario che è il mondo che abitiamo. C'è una 49

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grande, remota naturalezza nel loro tenere insieme il pensare e il dire, il piacere e il sentire, nel mantenere i corpi presenti a se stessi e nel fare e farci fare conoscenza di cose che senza il corpo non potremmo conoscere. E c’è la sorpresa di veder saltate le pareti dell’io e reso praticabile il passaggio Io/Altro, operato nientemeno che coniugando sfera terrestre e celeste e mantenendo il respiro e la grandezza dell'universo: La cosa che io vedevo era la vita che mi guardava. Come chiamare altrimenti quella orribile e crudele materia prima [...] — era un fango dove, con insopportabile lentezza, si muovevano le radici della mia identità [...]. Il mondo si guarda in me. Tutto guarda tutto, tutto vive l’altro [...] — nel mondo primario in cui io ero entrata, gli esseri si esistono a vicenda [...]. Tremo di paura e di adorazione per ciò che esiste!

scriveva infatti Clarice Lispector negli anni Sessanta, abbordando di lato il racconto dell’origine della vita e della materia. Quello stesso racconto che, allungato questa volta nella sua diacronia ovvero sprofondato negli abissi del tempo, ritroviamo all’inizio della paradossale «autobiografia» di Marguerite Yourcenar: Mettiamoci a girare con la terra che ruota come sempre inconsapevole, bel pianeta nel cielo. Il sole riscalda la sottile

crosta vivente, fa esplodere i germogli e fermentare le carogne, trae dal suolo un vapore che poi volatilizza. In seguito, grandi banchi di nebbia sfumano i colori, smorzano i ru50

Felicità di Katherine Mansfield

mori, ricoprono le lande terrestri e i cavalloni marini di un unico spesso lenzuolo grigio. Segue la pioggia, che risuona su miliardi di foglie, bevuta dalla terra, succhiata dalle radici; il vento flette i giovani alberi, abbatte i vecchi fusti,

spazza ogni cosa con un rombo immenso. Infine, di nuovo il silenzio [...]. Nelle notti di luna tremano bagliori [...]. E, quando la luce della luna non le occulta, brillano le stelle, situate più o meno come lo sono oggi, ma non ancora riu-

nite da noi in quadrati, in poligoni, in triangoli immaginari, e non ancora battezzate con nomi di dèi e di mostri che non le riguardano. Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo".

Laddove resta però identico il modo di percepire la relazione fra il proprio mondo interiore incandescente e tumultuoso e l’incandescenza tumultuosa della materia, e

dove ugualmente un «io» riesce a dar conto di sé solo sullo sfondo delle relazioni che lo uniscono a tutto il molteplice universo. Dove si conferma anche la consapevolezza della nostra partecipazione, sincronica o diacronica che sia, alla storia della creazione, e si ricerca la parte di storia in comune di tutto il vivente e dell’inanimato. Dove, infi-

ne, matura e si fa più grandiosa la capacità di esprimere questa esperienza, che è tutt’una con la pienezza del sentire e con la potenza dell’immaginare: come dimostra, ormai alla fine del secolo, Anna Maria Ortese:

Il maggio splendeva [...] in tutto il suo fulgore. Il principe non ricordava di aver visto in Europa un cielo come quello [...]. Sembrava che l’intero mondo tutto colmo di primavera si riflettesse, capovolto, in quel cielo, come usa nei 51

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miraggi desertici. Dovunque, insomma, gli pareva che fossero palazzi, fontane e giardini [...]. Lo entusiasmò lo scenario dei giardini e lo esaltò quello delle fontane [...]. Addirittura, quella meraviglia di acque che sembravano — a incantarsi un poco — tante fanciulle convenute a una festa, gli fece sentire non so che mistero della vita, mistero che era

(gli parve) proprio nella freschezza, fluidità, scorrere e precipitare, sparire e risorgere continuo delle sue infinite forme [...]. Si inchinò a Dio".

La quale Ortese, non per niente definita «la Mansfield di via Toledo» dagli spettatori del suo esordio letterario, ha riconosciuto pubblicamente come propria maestra e sorella nel sentire l'autrice di Preludio e di Alla baia, alla quale ha rivolto parole di commossa e ammirata gratitudine: Furono vette illuminate dal sole quelle che io guardai. Non avevo mai visto una bellezza simile. [...] un’atmosfera dorata, un’incertezza di sogno, sembravano avvicinare questi

due modi — di Mansfield e della oscura ragazza — di vedere le cose: il senso, appunto, della ineffabilità, la inspiegabilità tenera delle cose".

Il che non stupisce, se pensiamo che la Mansfield proprio in Alla baia ha lasciato scritto: Il bianco dei garofani era abbagliante, le calendule dagli occhi d’oro rilucevano, i nasturzi inghirlandavano i pilastri della veranda di fiamme verdi e dorate. Se soltanto si avesse il tempo di guardare quei fiori a lungo, il tempo di supe52

Felicità di Katherine Mansfield

rare la meraviglia per la loro singolarità, di conoscerli davvero! Ma appena ci si soffermava a separarne i petali, a scoprire il rovescio della foglia, ecco che sopraggiungeva la Vita e ti portava via".

E che il finale del racconto tanto si avvicina a quello escogitato dalla Ortese per il suo Solitario lume, in una comune e misteriosa capacità di immaginare il principio del mondo: Una nuvola, piccola, serena, scivolò sopra la luna. In quell’attimo d’oscurità, la voce del mare sembrò cupa, turbata.

Poi la nuvola si allontanò e la voce divenne un vago mormorio, come se il mare si fosse svegliato da un sogno inquietante. Tutto era tranquillo. «Non c’è stato niente» disse la Luna. Ella si era seduta sulla Montagna col volto in fiamme e si guardava di profilo nel mare. Era una bellissima sera grigia, ma nessun suono. Due o tre Lumi passeggiavano in barca con la testa fra le mani”.

È però necessario ricordare, a questo punto, che i racconti di creazione e trasformazione del mondo esistevano già, e ben prima del secolo su cui stiamo indagando. Sono le antiche cosmologie e cosmogonie, i racconti del mondo che gli ridanno la nascita e dei viaggi di esplorazione all’origine della materia. Sono datate ai secoli di Esiodo ed Empedocle, Ovidio e Lucrezio, e nascono dall’esigenza di ridisegnare e ordinare lo spazio della terra e la mappa dei cieli. E sono, aggiungerei, la grande rimozione della nostra 53

Tutte signore di mio gusto

letteratura, che da un certo punto in poi per concentrarsi sull'uomo ha trascurato di raccontarne il relativo cosmo,

vale a dire la terra con le sue meraviglie e il suo manto celeste pieno di favole. Un impulso molto forte, legato a un'esigenza evidentemente potente che io collego al bisogno di uscire dall’asfissia del legame Io/Altro (dunque da un inconcludente pensiero dualistico, così come da una rovinosa politica identitaria), ha spinto poi le scrittrici del Novecento a quanto pare a riattingere a questa letteratu-

ra, rientrando in possesso di un antico sapere che così bene asseconda leloro inclinazioni alla relazione con la vita. Rimettere in gioco, e rimettere in scena, l’indistinto, il sen-

za limite, l’«aperto», il cosiddetto 4pezror, per rimodellarlo facendolo meglio corrispondere a sé e al proprio desiderio di bellezza e di felicità, è una decisione che si può comprendere da parte delle scrittrici in cerca di un mondo in cui esistere e co-esistere, e in cui esercitare la propria passione per l’alterità dell’esistente e le forme del vivente. Raccontare da capo la nascita del mondo, dargli forma e dargli vita dentro una lingua piena e palpitante che col mondo è in contatto, significa infatti per ciascuna di loro, come si è visto, provarsi in un esercizio di maestosa empatia con tutte le forze della creazione, e di animazione su-

perba di tutto l’inanimato. Significa avere compreso e dimostrare il paradosso per cui l’io si afferma nella sua singolarità, vale a dire in quella specie di vibrazione in cui essenzialmente consiste, se e solo se si presenta, si pensa e si sa inseparabile dalla varietà e moltitudine dei suoi legami, preso nella rete dei suoi contatti corporei e nella molteplicità del suo divenire. Significa, infine, essere radicata in 54

Felicità di Katherine Mansfield

quell’unico luogo — all’incrocio, come dice Colette, dei quattro punti cardinali o degli otto sentieri della Rosa dei Venti, lungo i quali affluiscono a lei tutti i movimenti e i presentimenti dell'universo — adeguato alla grandezza del suo pensiero e alla profondità del suo respiro. Quel luogo, il cosmo appunto, da cui anche la polis appare più governabile e meglio accessibile, quasi la coszzologia fosse davvero, come dice la parola stessa, un di più della politica e invitasse a credere che le donne possono ben prendersi cura del mondo, visto che la loro misura è l’universo.

>»)

Tutte signore di mio gusto

Note Katherine Mansfield, Felicità, trad. it. di Giacomo Debenedetti, in

Tutti i racconti. I. Felicità, trad. it. di Floriana Bossi, Cristina Campo, Giacomo Debenedetti e Marcella Hannau, Milano, Adelphi, 1978, pp. 97-114. Questa citazione è da p. 97, la successiva da p. 110. Katherine Mansfield, Questo fiore, trad. it. di Giulia Arboreo Mella,

in Tutti i racconti.

IV. Qualcosa di infantile ma di molto naturale, trad.

it. di Floriana Bossi, Giulia Arboreo Mella, Giacomo Debenedetti,

Milano, Adelphi, 1979, pp. 203-206, p. 203. Katherine Mansfield, Garden-Party, trad. it. di Floriana Bossi, in Tut-

ti i racconti. II. Garden-Party, trad. it. di Floriana Bossi e Cristina Campo, Milano, Adelphi, 1978, pp. 59-77, pp. 63-64.

Cfr. Donna J. Haraway, Testimzone_Modesta@FemaleMan"_incontra_Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza [1997], trad. it. di Maurizio Morganti, cura e revisione di Liana Borghi, Milano, Feltrinelli,

2000, pp. 35-39.

Virginia Woolf, Le onde [1931], trad. it. di Nadia Fusini, in Romzanzi, Milano, Mondadori, 1998, p. 1099. Colette, La nascita del giorno [1928], trad. it. di Anna Bassan Levi, Milano, Adelphi, 1986, collage dalle pp. 46, 84, 145. Marguerite Duras, Les lieux de Marguerite Duras, Paris, Minuit, 1977, pp. 26-28 (trad. it. mia); Elizabeth von Arnim, Il giardino di Elizabeth [1985], trad. it. di Graziella Bianchi Baldizzone, Torino,

Bollati Boringhieri, 2002, p. 14; Marisa Bulgheroni, Gl Orti della Regina, in Apprendista del sogno, Roma, Donzelli, 1996, pp. 91-101, pp. 91-97. Alice Walker, Alla ricerca dei giardini delle nostre madri [1974], trad. it. di Valentina Gallegati, in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini, Maria Giulia Fabi, Vita Fortunati, Rita

Monticelli, Bologna, hooks, Estetica della Elogio del margine, 1998, pp. 47-61, pp.

Clueb, 1997, pp. 309-319, pp. 317-318; bell negritudine: estraneità e opposizione [1991], in trad. it. di Maria Nadotti, Milano, Feltrinelli, 47-48; Toni Morrison, Arzatissizza [1987], trad. it. di Giuseppe Natale, Piacenza, Frassinelli, 1988, p. 123. Cfr. Sigmund Freud, I/ perturbante [1919], trad. it. di Cesare Musatti, in Opere IX, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 81-118; e Edith 56

Felicità di Katherine Mansfield

Stein, Il problema dell’empatia [1916], trad. it. di Elio Costantini e Erika Schulze Costantini, Roma, Studium, 1998.

10. Clarice Lispector, La passione secondo G.H. [1964], trad. it. di Adelina Aletti, Milano, La Rosa, 1982, pp. 50, 68, 126. VR Marguerite Yourcenar, Archivi del Nord [1977], trad. it. di Graziella Cillario, Torino, Einaudi, 1982, p. 9. 12. Anna Maria Ortese, I/ cardillo addolorato [1993], in Romanzi II, Mi-

lano, Adelphi, 2005, pp. 229-230.

15. Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997, pp. 69-70. 14. Katherine Mansfield, A//a baia, trad. it. di Floriana Bossi, in GardenParty, cit., pp. 11-57, p. 30. 15: Rispettivamente Katherine Mansfield, Alla basa, cit., p. 57, e Anna

Maria Ortese, Febla e il Lume doloroso (originalmente Solitario lume, in Angelici dolori, Milano, Bompiani, 1937), incapsulato in I/ porto di Toledo [1975], leggibile ora nel vol. I dei Rorzanzi, Milano,

Adelphi, 2002, p. 501.

4. ANNA BANTI SGUALCITA

Ed ecco che finalmente, dopo tante «storie di donne indignate e superbe»', dopo aver parlato di sé e di noi attraverso così tanti esempi di singolarità femminile di ogni tempo e rango, Anna Banti mette in scena anche se stessa. Lo fa con molta discrezione e non senza accortezze, certo,

ma lo fa. Dà alla sua eroina un altro nome — Agnese — dal proprio, che del resto da anni è protetto a sua volta da pseudonimo (essendo lei per l'anagrafe, come è noto, Lucia Lopresti). Non dichiara niente che incoraggi a sovrapporre Agnese a se stessa né autorizza in alcun modo a una lettura del testo — Ur. grido lacerante — in chiave autobiografica. E si difende quasi all’estremo (quasi) con la sua solita prosa elegante e impeccabile, capace, come scrive Maria Luisa Di Blasi, di «piegar[rsi] morbida, [...] senza sgualcirsi»® su una materia che, se fosse «vera», non sop-

porterebbe — vien fatto di supporre — un simile controllo della forma e dello stile. Eppure, la simmetria di destino fra l’autrice e il suo personaggio è tale da non poter passare inosservata, la relazione fra biografia e testo chiama più forte di ogni descrizione che miri a tenerli divisi e, al confronto, è così poca cosa ogni espediente, e l’allegoria così

trasparente, che senza troppo esitare accogliamo infine 58

Anna Banti sgualcita

quella materia come vera, e la supponiamo perciò capace, al di là delle apparenze, di sgualcire quella prosa sussiegosa e stupenda. Non sbagliamo, è così. Ur grido lacerante — lo rivela ogni lettura successiva alla prima — è solo in apparenza stilizzato e impeccabile, e dice assai meno compostamente di quel che sembra le cose terribili e vitali che ha da dire. È un libro, se lo sappiamo ascoltare, tutto dissestato da quel grido di cui dichiara di parlare e che è difficile sentire, non meno conturbante (o lacerante) per questo e per il fatto che è represso e fa fatica a venir fuori. La prosa di Anna Banti, la sua famosa clarté, qui viene turbata e si lascia offuscare, avendo evidentemente altro da fare che continua-

re a levigarsi (è l’ultimo libro della scrittrice e lei lo sa) e dovendosi occupare non di sé ma di altro, che preme con urgenza per essere espresso. Prendiamone in esame qualche campione. Un filo d’impercettibile respiro sale al cervello vacillante che sta per spegnersi; e questa è la morte, non si torna indietro. C'è nero brulichio, qualche lampo guizza e si disfa nella polvere di un chiarore lontano. Vede, ma cosa non sa (pid: Non capì e seguitava a vaneggiare, ma era ben in sensi

quando si ritrovò in ginocchio a baciare la fronte ancor tiepida e le nobilissime mani prosciolte. Pensava a frammenti, era sicura di non esser mai nata, c’era stato un errore. Do-

mandò al medico qualcosa per morire, già prevedendo la risposta: si faceva schifo (p. 79). DI

Tutte signore di mio gusto

Mangiare, masticare, inghiottire, le pareva spregevole, quasi mostruoso. Si sorprendeva a pensare come fosse assurdo che l’umanità non avesse mai trovato altro mezzo meno materiale per sostenersi (p. 101). Scomparve Venezia sotto una realtà paurosamente sconvol-

ta di pini pioppi platani siepi sradicati, intrecciati orizzontalmente a terra: e la terra non c’era più (p. 152).

Da tempo i suoi libri le parevano oggetti futili: non li aveva infatti distrutti mentalmente «suicidandoli» col veleno del confronto con la storia grezza? Se li prendeva in mano, se li sfogliava, ne sentiva una specie di ribrezzo (p. 163). Per chi come me abbia in mente qualcuna, per non dire qualsiasi, delle pagine precedenti scritte da Anna Banti, nell’orecchio il passo fermo e sostenuto della sua prosa e sotto gli occhi quelle immagini nitide, precise, dovute all’esercizio di un'estrema perizia ecfrastica e conoscenza pittorica, è possi-

bile credere di trovarsi davanti a una vera e propria capitolazione: c’era una volta la Forma, coltivata e perfetta, che qualcosa ha spezzato e spazzato via. E c'è adesso un’urgenza — trascendenza, la chiama qualcuna — che della forma ha dissolto il primato, inaugurando una stagione nuova ed estrema e rimettendo in valore ciò che il culto della forma teneva in disprezzo e cioè la vita («“Meglio un uomo ucciso”, aveva [...] detto [il Maestro] nel tempo di guerra “che un capolavoro distrutto”. Le era sembrato crudele, poi aveva capito che la vera vita era quella dell’opera d’arte, insostituibile miracolo che una volta sola appare sulla terra», p. 174). 60

Anna Banti sgualcita

Di questa capitolazione della forma e del suo culto il libro testimonia fra l’altro in due modi, perché mentre la mette in atto, al tempo stesso la racconta. In tutto il romanzo domina infatti con prepotenza, quasi come nel cosmogonico racconto della Massaia di Paola Masino’, la nostalgia dell’indistinto, la misteriosa memoria di uno stato primordiale precedente ogni separazione e definizione della materia, e l'ossessione dell’informe che è veicolo dei pensieri di morte della protagonista. E poi la storia di Agnese altro non è, nel suo più scarno disegno, che una lunga vicenda di resistenza alla necessità di accettare il primato dello spirito sulla forma, una ricerca di sé che si fa autentica e può davvero incominciare solo col sottrarsi di Agnese a una malintesa eccellenza delle forme stesse. Questo racconto di «disagio femminile nella creazione»', questa storia di un divenire legato al fare e di trasformazione di una donna in se stessa, è infatti molto più di un conflitto fra due vocazioni, la critica d’arte e la letteratu-

ra, che si contendono lo spazio di una biografia e il profilo di una professionalità. La storia di Agnese — lo rivela la prima monografia dedicata completamente a lei, quella della citata Di Blasi — è un’esemplare vicenda di libertà femminile, l'invenzione per la protagonista, e per chi di noi l’abbia cara, di un destino diverso da quello che sembrava dato, e lo spettacolo dell’esplosione di una creatività straordinaria parallelo alla rottura del vecchio incantesimo della subalternità di una donna nei confronti di un uomo, e di un mondo modellato per intero su di lui. E non è tutto. Sono in atto, voglio dire, altre capitolazioni insieme a questa. Poiché Anna Banti cede, fino a 61

Tutte signore di mio gusto

prova contraria, anche alla tentazione autobiografica ovvero a una franca scrittura dell'io, deponendo la propria diffidenza verso quei «certi libretti di larvata autobiografia, specchio di nostalgie ben vive e di ambizioni non ben morte» che aveva attribuito con sufficienza ad altre signore «mature e oziose», e lasciando che il proprio romanzo si collochi fra quelli. Ammettendo, anche, che per sé come per altre donne «della letteratura si può fare storia, quando la storia tace». E mettendo al lavoro anche le parti più ferite, riconosciute infine come le più ricche, della propria petsona’, senza più temere di esporsi al rischio dell’incontro con il vuoto di bellezza e addirittura di decenza. L'ultimo romanzo di Anna Banti è difatti, propriamente, un percorso nell’abiezione. Lo dice quel luogo — il ventre materno, il luogo d’origine, l’oscura matrice di ogni divenire — a partire dal quale il percorso di Agnese si sviluppa e che è lo stesso attorno a cui l’abiezione immancabilmente agisce e si determina: Uno sbaglio. Una caduta fra mostri. Da una piccola rossa fessura spalancata esce un suono

strozzato: la sua voce,

mentre mani gigantesche battono il grumolo di carne che ha cominciato a respirare (p. 7). Era venuta al mondo con difficoltà [...], e per giorni e giorni non aveva smesso di piangere e di emettere suoni in-

comprensibili (p. 9).

Era la cosa brutta, la cosa deforme, da distruggere. Allora 62

Anna Banti sgualcita

le apparve il vero colore del suo malessere: la noia, anzi la collera di annoiarsi, una triste collera che bruciava. All'improvviso coi suoi due piccoli pugni chiusi cominciò a picchiar forte sul divano bombato [...]. Smise affannando (p. 16).

Non aveva paura di morire ma, come da piccola, di risvegliarsi trasformata (p. 26).

Lo dice quel grido che apre, chiude, percorre e intitola il romanzo, forma arcaica ed elementare dell’esprimersi e violenta messa in scena del corpo a cui appartiene: Un grido lacerante squarcia il tempo rinato: un budello infimo che sussulta come può, senza gola né orecchie, e il grido dopo un attimo riecheggia (p. 7). Un giorno — o una notte — sarebbe venuta l'ora. L'ora che non rintoccherà senza che un grido lacerante la trasformi in un minuto (p. 175).

E lo dice l'orrore della protagonista per tutto ciò che è creazione, parto, generazione nel senso proprio e figurato del termine, la sua resistenza a dar vita a qualsivoglia cosa o creatura, e l’involontaria ma irresistibile discesa nell’ «orrido» del corpo femminile che accompagna ogni stadio della sua formazione intellettuale, che drammaticamente prelude all'accettazione di sé: Con un curioso raccapriccio assisteva a questo affollato ri63

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svegliarsi di fantasmi che si erano appropriati della sua carne neonata (p. 36).

Ritornata bambina, aveva l'impressione di uscire dal proprio corpo (p. 63).

Il medico le prescrisse un ricovero in clinica. Si assoggettò renitente, disarmata e indignata: perché volevano vedere com'era fatta dentro? (p. 100). Pochi attimi pèr nascere, partorire, urlare, morire. E folle di

parole da imparare per riconoscersi, distinguersi, uccidersi (p. 114). Chi ha mai pensato alla fatica di reggere il Cosmo? Stelle da bruciare, ceneri da condensare, da far scomparire nel nero nulla, nel trapasso a un altro Universo dove un fuoco diverso le riaccenderà (p. 175).

La vita di Agnese è fin dall’inizio un tentativo di fuga lontano da quel luogo, luogo che a sua volta del resto la insegue. Il trauma della sua nascita, i suoi tremendi segreti di bambina, i suoi sogni ricorrenti, i suoi ricordi (di copertura?) perturbanti, le esperienze, le fantasie e le manie di persecuzione, le malattie, le stanchezze, le malinconie e

tutti i sintomi (la cecità, per non dirne che uno, non di poco conto per chi si dedica alle arti visive) parlanti del suo disagio e del suo occupare nel mondo un posto che non è il suo, fanno di lei una creatura infelice e perseguitata allo stremo, affaticata di continuo a simulare, per quel che le è 64

Anna Banti sgualcita

possibile, un’altra immagine di sé. E che tuttavia non cede, riesce a reggere il proprio peso e non smette di cercarsi: quasi avvertisse che un altro destino, da qualche parte e a sua insaputa, si prepara per lei. Non sapremo fino all’ultimo, e forse neanche allora,

di quale destino di preciso si tratti («Non assisteva mai alla fine delle sue creature di carta, le lasciava sul crinale fra

la maturità e la vecchiaia», rivela non a caso il personaggio della scrittrice, p. 49): in parte perché riceviamo tutto il racconto attraverso la percezione e la cognizione lenta, sofferta e contraddittoria, fatta come la vita più di piccoli spostamenti che non di grandi e definitive agnizioni, della protagonista; in parte, perché è nel tempo stesso in cui Agnese lo persegue che il suo destino si compie. Esso è infatti già nell’insofferenza, nell’ipocondria e nella malattia della bambina e della giovane donna; nelle scelte sbagliate, nelle incertezze e nelle irrequietezze che piano piano la orientano, nell’avvertimento continuo della me-

diocrità, e nella dolorosa felicità di cui stupita si ritrova di tanto in tanto a godere; in quell'idea, infine, precocemente intuita e che solo col tempo si fa strada e si afferma: che unicamente un lavoro compiuto per amore, in obbedienza a un desiderio troppo a lungo misconosciuto in ragione di falsi obiettivi, può mettere fine al disagio ed essere fonte di pace. Fino ad allora, fino a che almeno non le diviene intelligibile il desiderio di rinascere, Agnese occupa a tutti

gli effetti quella che viene riconosciuta come «la posizione isterica». È il corpo (femminile) che parla una lingua non sua «e non ce la f[a] se non per negativo»; è colei 65

Tutte signore di mio gusto

che «cerca l’amore della madre e prende per madre qualsiasi cosa» (il padre, la nonna, il Maestro, la madonnina

gotica...); è la donna che non può adattarsi a «fare» (fare scuola, fare legge, fare denaro, fare critica d’arte...)

«alla maniera che gli uomini hanno inventato per sé»?. La sua desolata esistenza dice di continuo questa sfasatura dal suo ordine simbolico, l'adesione a un ordine

simbolico non suo e la sofferenza che inevitabilmente ne deriva. A lungo parla in lei un sintomo di posizione femminile che non è diverso da quello di Artemisia, di Lavinia, di Marguerite-Louise, di Violante, di Joveta e di tutte le donne del passato che si sono misurate con quel disordine simbolico che è stato per loro il patriarcato, e la cui subalternità all'ordine maschile ha comportato l’umiliazione del loro ingegno, la negazione della loro identità e il patimento della loro alterità. Agnese si rifugia in speranze, e combatte paure, false, come il suo corpo sa bene e la sua mente meno bene, nutrita com'è di concetti non suoi — il potere, la reverenza, la

professionalità e il dilettantismo, il Magistero, il Capolavoro, l'esatta attribuzione, la fede e l’abiura, la verità

scientifica, la lingua specialistica — e disposta a confondere intelletto e passione. Non ha orizzonte — non ha un suo, proprio orizzonte, e la solitudine schiva in cui si tiene fin da bambina le preclude la relazione — la relazione fra donne — che potrebbe salvarla. Si mantiene, o cerca di mantenersi, fedele a un ordine simbolico che si basa sulla legge e non conosce l’amore — l'agire, il pensare, il creare per amore perché amore si è avuto e se ne prova gratitudine. Sola e senza amicizie, con un’infanzia difficile e una 66

Anna Banti sgualcita

maturità più difficile ancora, preda fin dall’inizio di pensieri sbagliati e di sintomi giusti che però non sa leggere, Agnese tuttavia compie un prodigio e si salva. Piano piano impara infatti ad affrontare l’orrore — il corpo, il grido, le viscere che le nascondono il suo stesso vitale segreto — che la separa da se stessa e che le occorre attraversare, e non per trarne una lezione ma, semplicemente, «una musica». Che è la musica, stupefacente e insieme familiare,

della sua verità finalmente incontrata, il guadagno inestimabile della sua rivolta contro ciò che la minacciava e la teneva in ostaggio che lei ha saputo riconoscere come parte di sé. Ad Agnese sono riservati ormai pochi anni quando ci congediamo da lei. La sua vita è in gran parte già trascorsa, lei è invecchiata e lo sa, su di sé porta i segni della lunga lotta e l’arco della sua promettente «formazione» di enfant prodige rischia di compiersi, per ironia della sorte, quasi in parallelo all’arco della sua esistenza. Eppure, la sensazione è quella che dinnanzi a lei, come dinnanzi a noi, si apra un futuro lunghissimo e pieno di possibilità, che Agnese stessa ha reso possibile per sé e per altre. Raccontare la sua esperienza è stato infatti lo stesso che renderla esemplare, e consentire che altre possano trarne insegnamento come lei lo ha tratto, e senza mediazioni, dall’esperienza delle donne del passato: Nessuno sapeva quanto ancora e di nuovo la interessassero Paola, l'amica di Gerolamo claustrata in Palestina, ed Eu-

stochio, certo plagiata dalla sua santa imperiosa madre. Ripercorreva anche la strada di Aetheria, la prima pellegrina 67

Tutte signore di mio gusto

in Terrasanta, dama spagnola visitatrice di Eremiti. Queste antiche donne di volontà ferrea erano sue coetanee, invec-

chiare insieme a loro non era terrificante, il dialogo poteva continuare (p. 168).

Sono state loro le sue amiche — Paola, Eustochio, Aetheria, e quindi Artemisia, Lavinia, Marguerite-Louise, Violante, Joveta!*; sono state loro le donne alla cui relazio-

ne Agnese ha saputo restare fedele e con le quali ha costruito, a partire da zero, un ordine simbolico adatto a lei e a noi. È grazie a loro, che fin dall’inizio le hanno parlato e mai, nonostante tutto, hanno smesso di farlo né lei di ascoltarle, che Agnese ha fatto esperienza di identificazioni salutari, e ha saputo finalmente qualcosa di vero su se stessa. Vada dunque a loro, così come ad Agnese, tutta

l’affettuosa ammirazione di cui sono degne. E alla loro autrice, che nella vita di Agnese ha saputo riconoscere la propria e la nostra, il riconoscimento della più importante e decisiva «attribuzione» della sua carriera.

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Anna Banti sgualcita

Note . Anna Banti, Ur grido lacerante, Milano, Rizzoli, 1981, p. 42. D'ora in

poi gli estremi delle citazioni dal romanzo verranno indicati nel testo. . Maria Luisa Di Blasi, L'altro silenzio. Per leggere «Un grido lacerante» di Anna Banti nel segno di una trascendenza femminile, Firenze, Leslfettero2001p352, . Cfr. Paola Masino, Nascita e morte della massaia [1945], Milano, La

Tartaruga, 1982. IS

. Maria Luisa Di Blasi, op. cit., p. 16. . Anna Banti, Vocazioni indistinte [1940], in Il coraggio delle donne, Milano, La Tartaruga, 1983, pp. 61-100, p. 94. . Anna Banti, intervista rilasciata a Nico Orengo, Bart: la mia scrittura è donna ma non per i critici, in «Tuttolibri», 5 settembre 1981, p. 2. . Cfr. Marisa Volpi, «Un grido lacerante»: idealizzazione e verità, nonché Rita Guerricchio, Vite vere e immaginarie di Anna Banti, in L'opera di Anna Banti, a cura di Enza Biagini, Firenze, Olschki, 1997,

rispettivamente pp. 191-197 e 71-86. . Luisa Muraro, La posizione isterica e la necessità della mediazione, Palermo, Biblioteca delle Donne, 1993, pp. 43 e 29. . Julia Kristeva, Poteri dell'orrore. Saggio sull’abiezione [1980], trad. it. di Annalisa Scalco, Milano, Spirali, 1981 (citazione dalla quarta di copertina). 10. Per queste eroine i riferimenti sono, rispettivamente, a: Arterz/s1a, Firenze, Sansoni, 1947; Lavinia fuggita [1940], in I/ coraggio delle donne, cit.; La camicia bruciata, Milano, Mondadori, 1973; Joveta di Betania, in Je vous écrit d’un pays lointain, Milano, Mondadori, 1971.

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5. DOLORES PRATO, UNA PIAZZA TUTTA PER SÉ

Tutto parte come sempre dall’autobiografia, o almeno da quegli elementi che quando usiamo questo termine intendiamo essenzialmente convocare: la presenza, vale a dire,

di chi scrive e la sua messa in gioco di sé come misura e garanzia della verificabilità (che è un po’ come dire verità) del suo discorso e del suo sapere, quel sapere che si riversa nel dire, o nello scrivere, e che lo promuove. E tutto parte dalla rinuncia a misurare esattamente quarto autobiografico sia questo o quel testo, o a considerare il fatto che possa trattarsi di un’autobiografia più o meno trasposta, mascherata, romanzata, non dichiarata, nella quale in-

terviene un tasso variamente elevato e problematico di fiction: ché, per quanto riguarda le scritture femminili, è dirimente ormai la posizione di chi di fronte alle scritture autobiografiche ha imparato a fare seriamente i conti con la vita e con la verità, e pur ben sapendo che «ogni scrittura è una messinscena» e che «la verità in letteratura è sempre una verità rappresentata», arriva alla mediazione

importantissima per la quale «la scrittura della soggettività [...] è al tempo stesso esperienza vissuta e atto dell’immaginario, ovvero realizza l’esperienza della finzione nel cuore stesso d’una ricerca del vero» e di sé'. Che su questo 70

Dolores Prato, una piazza tutta per sé

punto si faccia chiarezza è importante; perché altrimenti ne deriva ancora una volta l’equivoco che tanto lungamente ha pesato sulla scrittura femminile in genere (romanzesca, beninteso, ma anche storica, politica, saggistica ecc.): che sia sempre «autobiografica», sempre scrittura «dell’io», nata ex abundantia cordis e incapace di sussistere se sradicata dalle «viscere» della soggettività della scrivente. Un equivoco totalmente spazzato via, oggi come

oggi, da una riflessione divenuta impaziente, che si vale finalmente non solo di una giusta presa di distanza dalla teoria letteraria, e non solo della costruzione di una propria, specifica teoria, ma anche e contemporaneamente della maturazione di un diverso modo di pensare e di concepire il pensare stesso ovvero la filosofia. Quel modo che porta il nome — per non farne che uno, sul quale peraltro ritornerò — di Marfa Zambrano, riabilitatrice giustappunto delle viscere quale organo del pensiero e promotrice di un pensare che non è altra cosa dal sentire. E quel modo che riconosce nella scrittura autobiografica alcune delle risorse più potenti di cui la letteratura possa valersi, che non a caso si ritrovano messe a frutto nelle opere più riuscite delle scrittrici. Diamo quindi per scontato che il grande romanzo di Dolores Prato, quello per il quale l'autrice ha meritato in un sol colpo tutti gli onori e che porta il titolo di Già la piazza non c'è nessuno’, sia un’autobiografia; non solo, ma che tutto quello che fa la sua grandezza, che se ne può dire e che ne diremo dipenda e non sia separabile dal fatto che si tratta di un’autobiografia. Nella quale l'autrice si limita al racconto — che per ironia necessita di oltre sette71

Tutte signore di mio gusto

cento pagine — solo dei primi dodici anni della sua vita, dando sviluppo come sappiamo essenzialmente a due temi, il paesaggio e il linguaggio, che chi legge scopre via via essere la sostanza non meno che la forma del romanzo stesso, e scopre altresì non essere altra cosa l’uno dall’altro. Riapriamo il libro e rimettiamo brevemente in gioco, per tentare nuovi passaggi, quello che esso ci offre. E constatiamo innanzitutto, una volta di più, la sua travolgente e sontuosa offerta di descrizioni: di interni, oggetti, manufatti, persone, piante, paesaggi, architetture, opere d’arte, alimenti, comportamenti e quant'altro ancora. Dolores Prato eccelle in quell’antica arte della parola che sa rendere presente, e a suo modo eloquente, qualcosa che non è sotto gli occhi né a portata di mano, e che i grammatici da sempre chiamano ecfrasi (parola greca che dice appunto il mostrare, il far vedere) e immaginano come una retorica gara fra la penna e il pennello. La Prato vi eccelle, non c'è dubbio, e non c'è dubbio che ne abusi: fino

quasi a congelare il movimento del racconto in tanti quadri o immagini che funzionano come fotogrammi, come nei vecchi fotoromanzi, nella cui successione e disposizione consecutiva il racconto avanza, sì, ma come a sbalzi, a

strattoni o a singulti. Lo spazio, ambito elettivo della descrizione, la fa pertanto da padrone sul tempo — il tempo del racconto, il tempo narrativo — e quasi se lo mangia, lo assimila a sé, e lo dissimula fino a farci dubitare della sua

presenza e del suo funzionamento. Tuttavia il tempo narrativo c'è e funziona, lo vedremo fra breve, salvo che viene reso secondo, posposto — appunto — allo spazio; viene

come sottratto e strappato alla sua processualità, tagliato 77

Dolores Prato, una piazza tutta per sé

via dall’indistinzione del suo scorrere e fatto lavorare al servizio di un diverso modo di stare nella realtà, nell’acca-

dere della vita e nel farne memoria. C'è qualcosa di proustiano, com'è stato osservato, in

questa «tecnica» del ricordare gli avvenimenti del passato contando sulla loro intimità coi luoghi in cui si sono svolti: i luoghi, forme che il tempo ha riempito di memoria, si immagina che custodiscano, e che possano restituirci, il

nostro passato sottraendolo all'oblio e impedendone la perdita; e che possano farlo se sapientemente interrogati, amorosamente ripercorsi e, soprattutto, puntualmente descritti: riattivati, insomma, in tutta la loro prodigiosa capacità di garantire oltre il suo tempo-limite la verità di ciò che è accaduto in un istante. C'è, a ben vedere, più che

«qualcosa» di proustiano, c'è la lezione della Recherche presa addirittura alla lettera, e c'è di più ancora. Ma per andare avanti su questo primo grande tema della Prato, che abbiamo chiamato paesaggio, occorre vedere anche il secondo, il linguaggio: poiché, come anticipato e come è noto, li scopriremo inseparabili l’uno dall’altro. È altrettanto esorbitante infatti, in Già la piazza non c'è nessuno, assieme all’offerta di descrizioni l’offerta

di esperimenti e di riflessioni sulla lingua. E se nel primo caso abbiamo evocato la lezione di Proust, qui potremmo evocare altrettanto facilmente quella di Canetti: dell’autore, cioè, della Lingua salvata, il romanzo in cui lo scrittore (di cultura ebrea, discendenza spagnola, lingua tedesca e origine bulgara) ha avuto il merito di evidenziare la somma responsabilità della lingua e delle lingue, del loro apprendimento e del loro godimento, nel processo della cre73

Tutte signore di mio gusto

scita dall’età infantile all’adulta’. Salvo dover ammettere però che la lingua della Prato, oltre e ancor più che «salvata», è lingua, potremmo dire, «salvatrice»: perché a sua

volta riesce, come fanno i luoghi, a sottrarre le cose all’oblio e a metterle in salvo. Tanta è la forza e tanto è lo splendore delle parole infatti, per questa ragazzina che racconta la sua scoperta del mondo, da far sì che le cose che esse significano ne siano come soggiogate, che sulla loro scorta le cose dal passato ritornino e si offrano al presente dell’atto dello scrivere e del ricordare. Giacché il romanzo primo e ultimo di Dolores Prato, quello con il quale la scrittrice ha esordito ultraottantenne dopo avergli dedicato tutta la vita, altro non è se non il racconto di come

una bambina si sia conquistata una (la) lingua, e implicitamente di come una donna (che è quella bambina stessa divenuta adulta) si sia ri-conquistata quella lingua stessa, facendone a un tempo il contenuto e l’espressione del libro che leggiamo: riguadagnando così, attraverso la lingua stessa e nient'altro che quella, il cosiddetto tempo perduto dell’infanzia e del passato. Si spiegano allora i voluttuosi giochi di parole, le frenetiche scorribande nelle parlate nazionali e locali e gli estatici esperimenti di vocabolario che gremiscono il libro di Dolores Prato e segnano le tappe del suo «racconto» di formazione: testimoniando di come la scoperta del mondo sia coincisa per lei con la fervida decifrazione di un alfabeto, con la trepidante compilazione di un lessico, con una specie di scienza classificatoria tutta imperniata sui nomi delle cose. Per lei apprendere è stato ed è infatti nominare, e nominare è cartografare lo spazio collocandovi 74

Dolores Prato, una piazza tutta per sé

le cose e collocandosi in esso. È l'indicazione, anche, di un

legame, preciso e necessario, fra la lingua e lo spazio, la prova di come linguaggio e spazio vadano insieme per far vivere il senso e l’energia pensante e amorosa. Giacché la lingua, quella lingua, quella che accompagna l’infanzia alla parola, che mette in contatto con le cose ed è sinonimo di avventura, incanto e meraviglia; quella lingua, la lingua «materna», la lingua che nasce e resta attaccata alle cose: quella lingua dunque è tutta intrisa di sostanza corporea, è vissuta e parlata con tutti e cinque i sensi e non abita nell’astrazione bensì nello spazio che è spazio erotizzato, in cui le parole vibrano della forza dei corpi dai quali provengono, e sono per essi veicoli di godimento. A questo punto un primo passaggio. Lo spazio — uno

spazio che dice la contingenza, l’esperienza, la presenza del corpo — che trionfa nel grande romanzo di Dolores Prato lavora, come categoria narrativa, a gran dispetto, si è det-

to, del tempo: il quale invece dice o direbbe l’astrazione, l’artificio, la processualità indistinta e inafferrabile fatta 0ggetto della metafisica. Che le donne non abbiano col tempo, il tempo «classico», commerci efficaci e soddisfacenti sa bene la citata Marfa Zambrano, che ci dice che così è

perché le donne hanno di fatto con esso una relazione di grado più elevato: la relazione con l’istante, quello che ella chiama «il vaso minuscolo del tempo»', quell’unità di misura infinitesimale che porta il tempo a una sua estrema parcellizzazione, e al restituire la parabola di una vita tramite l’accumulo di queste particelle in nome di una precisione, di una capillarità e di una meticolosità che sono indispensabili quando si voglia render conto di una vita. Ve)

Tutte signore di mio gusto

Sono questi allora, potremo supporre, gli elementi responsabili di quel pensare, e raccontare, e ricordare per scene che ritroviamo nel romanzo di Dolores Prato e in altri romanzi autobiografici di scrittrici. Ciascuna immagine, ciascuna scena, è la figura di un istante, la sua traduzione, l’esito di un ribaltamento del tempo nello spazio perché diventi gestibile. Ogni immagine, o scena, tiene dunque dentro di sé la/questa temporalità, e dà vita a una scrittura che mentre esorcizza lo scorrere indefinito e inattingibile del tempo fa ricorso allo spazio che è invece esperibile, descrivibile, accessibile, e in quanto tale rigenerati-

vo e capace di «dar luogo» alla memoria e al racconto. Una scrittura inoltre che, proprio lavorando e procedendo per immagini, comporta (sono ancora parole di Marfa Zambrano) «l'irruzione del vedere nel pensare»: il che significa nientemeno che il portarsi dietro nel pensiero una carica di sensualità, facendo lavorare lo sguardo in un ambiente mentale popolato di figure. Un secondo passaggio. Se lo spazio è per l’infanzia l’ambiente di elezione della lingua (in quanto dotato di un carattere quasi erotico ovvero in quanto ricettivo, capace

di accogliere e di far risuonare l'erotismo di cui la lingua è carica), se lingua e spazio vanno insieme, se dare i nomi alle cose puntigliosamente ed esattamente significa, in quella fase della vita, stare in compagnia con la matrice (la madre, la nutrice), occorre allora accorgersi di come a volte

questo atteggiamento, questo modo di stare nella lingua (ovvero nello spazio) proprio dei bambini e delle bambine venga riguadagnato nell’età adulta e sia esattamente ciò che consente l’avvento di una scrittura. È la prova, questa, 76

Dolores Prato, una piazza tutta per sé

di come l’infanzia possa non trascorrere una volta per tutte ma permanere positivamente come momento della vita individuale, come modo fecondo di stare nel mondo e co-

me base per una comunicazione piena di godimento, di meraviglia e di autenticità. Una prova di come l’infanzia, lungi dall’esser concepita alla stregua di una regressione, nella vita adulta possa significare quello che tante pensatrici hanno magnificamente formulato in termini di necessità: necessità di recuperare la lingua materna come la cosa più cara che abbiamo in quanto risorsa «di tutti i discorsi e di tutte le parole», necessità di «ritornare al primo glossario e alla prima grammatica», di rimettere in moto «tutte le lingue del mondo», di rinnovare a ogni istante «lo splendore di avere un linguaggio»*. Dolores Prato si dichiarava una innamorata delle parole; è naturale allora che le parole a loro volta si innamorino di lei, e che per lei si facciano belle, come è accaduto adesso. Risorsa, cara, moto, splendore, primo, mondo: è

un vocabolario tutto positivo e gioioso infatti quello che si è messo in moto intorno alla sua mirabile (e contagiosa) pratica linguistica. Che può riuscirci ancora più sorprendente se la leggiamo non solo come l’approdo di un impulso gioioso ma, anche, come la trasformazione di un pa-

tire. La scrittura di Dolores Prato infatti, pur per quel poco che sappiamo della biografia dell’autrice, può dirsi a pieno titolo una scrittura della nostalgia, dell’esilio, del non ritorno, ovvero la conversione del dolore della distanza in una pratica linguistica incessante e amorosa. Ma

soprattutto, la sua scelta vistosa di lavorare sullo spazio, di riscriverlo e ridisegnarlo a propria misura, di ricrearlo du

Tutte signore di mio gusto

liberamente a dispetto di quella «ragione misurante» che ordina gli spazi aperti della percorribilità umana, e di abbandonare al contrario lo spazio dato, definito e regolato da un'economia simbolica che non è la sua («giù la piazza non c'è zessuno»), dice o sembra dire della sua angoscia. Dice cioè, più in generale, di ciò che rende angosciosa per una donna la praticabilità di un luogo: la geometria, la cartografia, la geografia, l’urbanistica, e dice il desiderio di uno spazio nuovo, libero, senza marcature pregresse: non disordinato, però, sebbene ordinato in un modo strambo, senza misuraziorie e senza astrazione, ma piuttosto ade-

rente agli affetti e disponibile all’accadere. Uno spazio abbastanza simile a quello che Platone aveva nominato kora: salvo che, invece di costituire un luogo di terrore, si presenta come uno spazio di libertà e di promesse, in cui si

sviluppano i processi iniziali della vita e tutto ricomincia continuamente. Uno spazio, per chiudere il cerchio, dove la vita che vi accade possa essere ritrovata, il giorno che volessimo raccontarla, senza che abbia perso la sua verità.

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Dolores Prato, una piazza tutta per sé

Note Fausta Garavini, «Io come t0...», in Controfigure d'autore. Scritture autobiografiche nella letteratura francese, a cura della stessa, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 7-28, pp. 7 e 13. Dolores Prato, Grà la piazza non c'è nessuno, Torino, Einaudi, 1980 in edizione ridotta; poi, in edizione integrale, Milano, Mondadori,

1997. Cfr. Elias Canetti, La lingua salvata [1977], trad. it. di Amina Pandolfi e Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1999. Marfa Zambrano, L'uomo e il divino [1955], trad. it. di Giovanni Ferraro, Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p. 7. Maria Zambrano, I beati [1990], trad. it. di Carlo Ferrucci, Milano, Feltrinelli, 1992, p. 10. Ho liberamente attinto da: Luisa Muraro, L'ordine simbolico della madre, Roma, Editori Riuniti, 1991; Luce Irigaray, Parlare non è mai neutro [1985], trad. it. di Giuliana Cuoghi e Gabriella Lazzerini, Roma, Editori Riuniti, 1991; Clotilde Barbarulli - Luciana Brandi, Rac-

contar(si) tra lingue e culture: l'identità, il caos, una stella..., in Figure della complessità. Genere e intercultura, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Cagliari, Cuec, 2004, pp. 103-125; Clarice Li-

spector, La passione secondo G.H. [1964], trad. it. di Adelina Aletti, Torino, La Rosa, 1982.

6. LE VOCI DI NATHALIE SARRAUTE

Fermo restando che Nathalie Sarraute è considerata da più parti una scrittrice «complessa», mi diverte pensare

che dare conto della sua complessità tutto sommato sia semplice. Che sia sufficiente, per esempio, riconoscere come i suoi romanzi si sottraggano a quella presunta legge formulata dai teorici della letteratura secondo la quale ogni romanzo sarebbe l’espansione di una singola frase o addirittura di un verbo (nel caso dell’ Odissea: «Ulisse torna a casa», 0 della Ricerca del tempo perduto: «Marcel diventa scrittore»). Niente di simile ci permettono infatti opere come Vous les entendez?, come «disent le imbéciles» o come L'uso della parola'. Nessuna semplificazione, nessuna scomposizione nei minimi termini, nessun «minimo termine» forse è possibile operare o individuare per lei, così decisa a sventare in un sol tratto tutte le convenzioni e le false certezze su cui da sempre ed essenzialmente si regge l’edificio della letteratura: vale a dire che l’io, ovvero il «soggetto», sia qualcosa (qualcuno) di definito o almeno definibile, che sia rappresentabile, e che il linguaggio lo esprima e lo faccia consistere nella sua verità. È noto infatti come Nathalie Sarraute sia colei che ha innovato, a partire dal suo libro di esordio, Tropismi (1939), le 80

Le voci di Nathalie Sarraute

vicende del romanzo europeo, imponendo alla critica e ai suoi compagni di scuola (Butor, Simon, Robbe-Grillet...) la formula e la pratica del «nouveau roman» (quel tipo di romanzo, lo ricordo, che abolisce la psicologia introspettiva e analitica dei personaggi a favore della registrazione del loro flusso di coscienza, microscopica e allo stesso tempo operata da uno sguardo esterno, neutro e impersonale: col presupposto che sentimenti e stati d’animo non siano dentro al personaggio ma fuori di lui, appoggiati sulle circostanze e sulle cose, anche immaginate o ricordate, di cui si trova in presenza). È noto anche come il contributo di Nathalie Sarraute figuri come una sorta di novità nell’innovazione, avendo ella posto alla base di tutto l’unità poetica, e filosofica, del «tropismo», solidale con l’intuizione dell’insidia dei «luoghi comuni» e con la

sostituzione dell’esperienza creativa della «sottoconversazione» a quella banale e frusta della conversazione. Si tratta adesso di verificare come tutto ciò abbia a che fare con la questione, che ho posto all’inizio, della complessità, e già che ci siamo anche di domandarci, a dispetto di tutta la critica che simili interrogativi tende a scoraggiare e a spegnere, se su questa idea di complessità Nathalie Sarraute abbia lasciato un segno della sua differenza sessuale: se sia una donna, cioè, che vale la pena di interpellare nella prospettiva di genere, e che abbia qualcosa da dirci, di sé e di noi, utile ad arricchire la pratica politica del raccontarsi. Ricordiamo innanzitutto cosa si intenda, in merito a

Nathalie Sarraute, rispettivamente per «luogo comune», «sottoconversazione» e «tropismo», concetti tutti affe81

Tutte signore di mio gusto

renti al linguaggio e che si riscontrano a monte del suo «complesso» narrare. Acquisita in primo luogo l’opera narrativa della Sarraute come un lungo accanirsi sulla forma romanzo in quanto forma per eccellenza della rappresentazione della vita; accettata a un tempo la sua diffidenza nei confronti del romanzo

ottocentesco, inteso

come inganno, o frorzp-l’oeil, che lavora piuttosto contro che non a favore della ricerca di verità; compreso infine come con la contestazione del romanzo nella sua essenza ella intenda colpire il punto più vulnerabile del romanzo stesso, vale a dite il personaggio e il suo uso della parola, ecco enuclearsi ordinatamente i concetti in questione. Il «luogo comune», intanto, ovvero il parlare corrente che degrada chiunque, per la comodità della comunicazione e la necessità di incontrarsi con gli altri (si parla non per nulla di luogo corzure), si pieghi a quel sistema di convenzioni estremamente semplificato che è il linguaggio. Il quale è colpevole di fissare e forzare in grossolane unità di misura, le parole appunto, la materia imperscrutabile e incontenibile di cui si compone ogni soggetto, assai meno unitario, intero e contornabile di quanto non presuma

il bel pronome «io». Di qui il passaggio — e siamo al secondo concetto — dalla conversazione come scambio di luoghi comuni alla «sottoconversazione» come incontro e

commistione della materia dei singoli «io», ciascuno dei quali rivela al cospetto dell’altro il proprio patrimonio di «elisir vischiosi», misteriosi, gocciolanti e viventi che si

scoprono una volta «sollevat[a] la pietra del luogo comune»?. E di qui anche l’approdo alla nozione nevralgica di tropismo: con la quale, ricorrendo a un termine della bio82

Le voci di Nathalie Sarraute

logia vegetale dove il termine indica l’impulso tramite cui una pianta reagisce a una causa esterna, Nathalie Sarraute significa il movimento — reattivo, relazionale — che prepara ciascuna delle nostre parole e dei nostri atti, e in cui sostanzialmente consistiamo come soggetti. Si suol dire non per caso che l’opera romanzesca di Nathalie Sarraute è un’esplorazione del linguaggio nella sua anteriorità, o «auroralità»: esplorazione delle sensazioni, delle idee, dei pensieri di cui il linguaggio andrà a comporsi colti nel loro momento sorgivo, quando, non ancora autonomi (non «comuni») né passibili di essere messi in parole, essi so-

no ancora attaccati alla soggettività tramite molteplici radicine invisibili e tenaci. È, in altri termini, la ricognizio-

ne del luogo in cui la coscienza si affaccia sull’inconscio, e i derivati di questo cominciano a diventare empiricamente osservabili prizza che il linguaggio li pietrifichi. È, infine, la rappresentazione degli stati psichici, minuti e contingenti, che ci costituiscono, dei sussulti minimi del-

la nostra coscienza, delle nostre pulsioni, sensazioni e visioni allo stato nascente. Fin qui tuttavia niente di nuovo per chi abbia conoscenza di questa scrittrice, salvo dover riscontrare già a questo stadio introduttivo del discorso che la riguarda un discreto livello di complessità. Che si acuisce lentamente, nel corso della carriera di Nathalie Sarraute, fino a essere messa espressamente a tema nell’anno — il 1989 - di Tu non ti ami: «romanzo» (sia detto faute-de-mieux) dove la complessità è nominata in prima pagina, e si lascia individuare senz'altro come la chiave di lettura del testo. 83

Tutte signore di mio gusto

- «Voi non vi amate». Ma come? come è possibile? Voi non vi amate? Chi non ama chi? — Tu, ovviamente, te stesso... era un voi di cortesia, un voi

che non si rivolgeva ad altri che a te. - A me? Io soltanto? Non a tutti voi che siete me... e siamo

così in tanti... «una personalità complessa»... come tutte le altre... Allora chi deve amare chi in tutto ciò? - Mate l’hanno detto: Tu non ti ami. Tu... Tu che ti sei fatto vedere da loro, tu che ti sei esposto, mettendoti a disposizione... sei andato verso di loro... come se non fossi sola-

mente una delle nostre incarnazioni possibili, una delle nostre virtualità... ti sei separato da noi, ti sei fatto avanti come nostro unico rappresentante... hai detto «io»...

Tu non ti ami, che corona per la Sarraute cinquant’anni di lavoro sull'idea di soggetto e sulla sua rappresentazione, è infatti la messa in scena di una «identità», per così dire, intesa come assemblaggio di parti sconosciute le une alle altre, delle quali si odono le voci — che si confessano, litigano, ricordano, immaginano, discutono — come un coro che risuona nella mente di chi legge. L'autrice rappresenta così, come voci che coabitano costrette a trattare in seduta perpetua, il soggetto quale lei lo intende, composto di tante «personalità» che per un istante primeggiano e poi diventano secondarie man mano che un’altra, a spese delle rivali, conquista la parola e diviene egemone. La «personalità», lungi dal delinearsi come entità intera, ben definibile e identica a se stessa, si palesa dunque piuttosto come armata o popolazione mal assortita di «persone», come cittadella vuota e assediata da voci 84

Le voci di Nathalie Sarraute

che si rifiutano di amalgamarsi per formare un soggetto o almeno, romanzescamente, un personaggio. Sono in questione, palesemente quanto più non si potrebbe, la cosiddetta «identità» personale e individuale, l'integrità dell'essere e la sua costituzione, l’ingannevole unicità e unità di ogni io e la responsabilità che su tutte queste circostanze ha il linguaggio che le nomina. Folla di figuranti in assenza di una coscienza centrale, le voci che si misurano insieme in un dramma ad alta tensione e in un confronto semicomico e a tratti esilarante fanno saltare infatti ogni coerenza e proprietà di linguaggio, provocando inceppi, ripensamenti ed effetti paradossali in concomitanza di frasi e modi di dire giustappunto assai comuni. Chi si compone di molti io o sé non può infatti concedersi il lusso dell’esser «solo» (e potrà ammettere al massimo «La sera tardi, soli tra noi, ci consultiamo...») né dell’es-

sere «fuori di sé» (ché piuttosto sarà un «Eravamo fuori di noi...»), non può vantare «rispetto di sé» né viceversa prendersela «con se stesso», non può usare espressioni come «casa mia», «questo non fa per me», «i miei» (nel senso di: famigliari) e simili, e non può mettersi «nei panni altrui» per il semplice motivo che i panni altrui già li indossa. E così via. Ma tutto ciò, si potrà obiettare, è quanto psicologia

e psicoanalisi conoscono da tempo. A partire almeno dal testo fondatore della disciplina, i Principi di psicologia di William James (1890), dove è detto esplicitamente come la «coscienza» si riferisca a una «brulicante molteplicità di oggetti e relazioni», e come siano vari «sé» a personificare il processo chiamato «individuo». 85

Tutte signore di mio gusto

Per non parlare di Freud e dei suoi Studi sull’isteria (1895), compiuta messa in crisi dello statuto unitario della coscienza e scoperta della natura molteplice del soggetto, diviso e sospinto da forze contrarie e irriducibili alla «semplice» autopercezione di sé come «identità». La scoperta dell’inconscio, l'elogio della scissione, la definizione di perturbante e quant'altro la psicoanalisi freudiana ha messo a fuoco nel corso del suo svolgimento demoliscono quindi definitivamente l'illusione del soggetto cosciente, e consegnano al Novecento quell’«io» che îe diviene la principale occupazione. E se occorre riscontrare come la psicoanalisi abbia già lavorato sulle stesse problematiche messe al centro dalla Sarraute, altrettanto si dovrà fare per quanto riguarda una specifica area della letteratura europea, vale a dire quella che, fra Otto e Novecento, inaugura e sviluppa la «tecnica» insieme una e bina del monologo interiore e del flusso di coscienza. Da Joyce e dal suo Ulisse (1922), o meglio ancora dal di lui riconosciuto maestro, il Dujardin dei Lauri senza fronde (1887), che a sua volta rinvia al Dostoevskij dei Ricordi dal sottosuolo (1864), o dalla Dorothy Richardson di Pozrnted Roofs («Tetti aguzzi», 0 qualcosa di simile, 1915) fino alla Woolf di Mrs Dalloway (1925) e de Le onde (1931), ecco ricostruita all'interno della storia del romanzo la «genealogia», promiscua ma efficace, che predispone l’installazione di chi legge nel pensiero e nell’inconscio del personaggio, e la possibilità di riscontrarvi da vicino la scomposizione dell'io in più voci, di ogni vita in molte vite, di ogni coscienza in una trama di rispondenze e relazioni. «Non 86

Le voci di Nathalie Sarraute

c'è divisione», dirà non a caso Bernard, una delle sei voci monologanti de Le onde, «tra me e loro. Mentre parlavo di loro sentivo “Io sono loro”. La differenza, cui

diamo tanta importanza, l'identità che tanto febbrilmente amiamo, era superata».

Tornando a questo punto alla Sarraute, cercheremo di capire in che modo, stanti questi precedenti fra letteratura e psicoanalisi, il suo contributo si distingua e sia importante. Considereremo innanzitutto quanto profonda-

mente ella presenti come acquisito ed elaborato il dato magmatico e molteplice dell’identità personale, con quale sprezzatura e disincanto la sospenda fra coscienza e inconscio e la corredi di tutte le sue tipiche negazioni, negoziazioni e bugie, come acutamente dimostri infine che ogni identificazione passa attraverso molte e penose disidentificazioni. In parallelo, e osservando il passaggio da lei operato dalla tecnica del monologo a quella del dialogo, constateremo come anziché semplicemente descrivere ella drammatizzi la situazione di scissione, eludendo

l’illusoria vocazione a cogliere simile stato in modo indiretto e la difficoltà di verbalizzarlo senza tradirlo. E ancora parallelamente, e per finire, rileveremo quanto la consapevolezza della natura del proprio mezzo espressivo, vale a dire il linguaggio, non le venga mai meno, e al contrario sia posta a ogni istante sotto accusa: prova ne

sia quell’«io» collocato al centro (e sia pure un centro assai mobile) del romanzo che non dimentica di essere sostanzialmente un pronome, una «persona» che si costituisce come tale perché è (nel) linguaggio, perché parla e perché appunto dice «io», ed espandendosi e debordando 87

Tutte signore di mio gusto

come deve e come altrimenti non può finisce per appropriarsi di tutta la gamma dei pronomi. Si è parlato infatti, per questo «io», di «molti io in agguato» che sono altrettanti «me in disordine», «un noi instabile» e «un voi

tutti che siete me» (mentre tutti sono sottoposti all’eponimo rimprovero «Tu non ti ami»), nonché di una sorta

di «maelstrom di 0 e di 0». È a questo punto che l’efficace messa in scena della «soggettività» da parte della Sarraute si rivela preziosa nella direzione degli studi di genere, mentre sprigiona a un tempo la propria indiscutibile potenzialità politica. La produzione di Nathalie Sarraute, e in particolare il romanzo Tu non ti ami, vengono riconosciuti infatti dalla scrittrice Monique Wittig come il principale punto di riferimento della propria opera, la lezione senza la quale Wittig stessa non avrebbe potuto fare dei pronomi il campo privilegiato dei propri esperimenti e della letteratura il luogo della lotta fra ciò che il linguaggio può dare e ciò che il testo vuol dire: specificamente quella soggettività originale, ogni volta nuova e desiderosa di nuove parole, palpitante di una vita che sfugge alle categorie sessuali dentro le quali il linguaggio è imprigionato, che sappiamo essere al centro dell'impegno di lei, da L’Opoponax (1964) a Les guerrillères (1969), da Il corpo lesbico (1973) a La pensée straight (1992) — una raccolta di saggi, quest’ultima, molti dei quali dedicati per l'appunto alla Sarraute. Così questa signora data troppo presto in pasto agli accademici di Francia e istituzionalizzata, allo stesso modo della Yourcenar, come grande matrona della letteratura 88

Le voci di Nathalie Sarraute

francese del Novecento; questa donna che si considera femminista ma non più che emancipazionista, che si è dichiarata estranea al femminismo degli anni Settanta e che per tutta la vita ha temuto come un anatema la categoria dell’écriture féminine®, si ritrova al centro del dibattito politico degli studi di genere, e addirittura responsabile di alcuni passaggi capitali. Mentre come segno distintivo della sua libertà femminile io non mancherei di rilevare anche la disinvoltura con cui fa a pezzi la tradizione nella quale pure non manca di riconoscersi (esemplati, in tal senso, i saggi del suo L'età del sospetto), con cui esce dal canone e vive lo scarto innovando simultaneamente sotto molti profili la storia del romanzo, con cui infine chiama a raccolta e parodizza (in Tu ron ti ami particolarmente) i vari generi letterari. E trovo altresì significativo il suo aver messo al centro del romanzo che più evidenzia la frammentazione dell’io il tema dell'amore, e di averlo espressamente indicato, quasi in controcanto con il Barthes dei Frammenti di un discorso amoroso, come ciò

che tiene insieme: ciò che solo e soltanto, come per strade diverse confermano due pensatrici quali Maria Luisa Wandruszka ed Elena Pulcini, può far stare nel disunito, manifestare «il potere di unire» e di «mettere insieme 1 frammenti»). E concludo riandando in qualche modo alle origini della letteratura che illustra la scissione dell’io, vale a dire

a quel famoso romanzo di Stevenson, Dr Jekyl{ e Mr Hyde (1886), accusato alla sua uscita di «infangare l’immagine dell’uomo, di distruggere l’unità della persona e, con essa, il fondamento della responsabilità»*. Al che l’autore, quasi 89

Tutte signore di mio gusto

evocando la futura scrittrice di Ty nor ti ami, profeticamente rispose: Sono certamente meritevole di critica per aver mostrato l’anima umana abitata da due persone, poiché non sono stato capace di mostrarla abitata da molte. Tuttavia non dispero che qualcun altro, con mezzi diversi dai miei, possa riuscirvi in futuro.

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Le voci di Nathalie Sarraute

Note Per i titoli della Sarraute, così come di altri autori e autrici, citati so-

lo cursoriamente rinvio alla bibliografia conclusiva. Jean-Paul Sartre, prefazione [1956] a Nathalie Sarraute, Ritratto d’;gnoto [1956] — Tropismi [1939] — Conversazione e sottoconversazione [1956], trad. it. di Oreste del Buono, Milano, Feltrinelli, 1965, pp: /-13, p. LI. Nathalie Sarraute, Tu won ti ami [1989], trad. it. di Letizia Bolzani, Torino, Einaudi, 1996, p. 3. Virginia Woolf, Le onde [1931], trad. it. di Nadia Fusini, in Romanzi, Milano, Mondadori, 1998, p. 1101.

Valérie Minogue, Le cheval de Troie. A propos de «Tu ne t'aimes pas», in Nathalie Sarraute, numero monografico della «Revue de Sciences

Humanes», 217,1, 1990, pp. 151-161, p. 155.

Cfr. esemplarmente il quinto capitolo, intitolato Sexual indifference, di Ann Jefferson, Nathalie Sarraute: Fiction and Theory. Questions of Difference, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 96bb.

Cfr. Roland Barthes, Frarzzzenti di un discorso amoroso [1977], trad. it. di Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1979; Maria Luisa Wandruszka, Mettere insieme i frammenti, Roma, Carocci, 2002; Elena Pulcini, I/ potere di unire, Torino, Boringhieri, 2003.

Il romanzo di Stevenson è ricordato da Monique Wittig in Avatars, testo contenuto in Nathalie Sarraute ou le texte du for intérieur, numero monografico de «L'Esprit Créateur», XXXVI, 2, Summer 1996, pp. 109-116, p. 113.

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7. MARGUERITE YOURCENAR.

«NON SI TRATTA DI ME.»

Se tante pagine si sono scritte e si scrivono sul tema della storia, il senso del passato e la relazione temporale in Marguerite Yoùrcenar, il fatto è senz'altro imputabile all’originalità e alla dirompenza dell’idea della storia e del «metodo storico», se così si può dire, dell’autrice di Adriano, nonché alla lucida consapevolezza di quanto ella è andata negli anni sperimentando senza troppo preoccuparsi della propria ortodossia. Qualità che le derivano, e non sono in fondo altra cosa, dal suo essere donna, li-

bera — come il diletto Zenone — di sottrarsi al sistema che blinda l'ordine del sapere e il terreno della storiografia, e incline per contro a render noto e operante il suo proprio senso del tempo e della storia. Per descrivere il quale iniziamo da una citazione, tolta a un’autrice, quale Anna Maria Ortese, per molti versi in sintonia con lei, e la cui riflessione sul tema del passato è consegnata a una pagina molto citata e bella: Credevo, fino a due anni fa, che il passato fosse radunato

tutto in qualche parte della vita o del cosmo [...], che là, in quella parte, ci fosse ancora tutto quanto è accaduto e di cui sono tramandati documenti e memoria: la Grecia, Roma, il 92

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

Medioevo; Cristoforo Colombo, Pizarro, Cortés, l’antico

Perù degli Inca; e così via, fino ai grandi poeti e scrittori (e loro civiltà): [...] Defoe, Dickens, Coleridge, l’incantevole

Austen, o la famiglia Bronté [...]. Bene, io ero tranquilla, guardando il presente sempre più meschino e confuso e non libero, dicendomi (nella mente sognante): però, ecco,

malgrado tutto, essi — e i loro popoli e templi di luce — sono là. «Là dove, cara?» avrebbe potuto dirmi qualcuno, ma io vivevo così al buio che questa domanda triste non mi si rivolgeva. Ed ecco che un giorno [...] prendo e apro un antico libro: Lucrezio, e la verità mi si fa avanti in modo terri-

bile: in nessun posto, intendi, anima, si trova quel passato a te caro, né risorgerà mai e poi mai. [...] Che triste giorno! E che altri tristi seguirono! Il dolore mi accompagnava dovunque: il Passato [...] con le sue epoche misteriose, rutilanti nel buio dei sogni; il Passato con i suoi costumi e i suoi mari; il Passato coi bei brigantini a vele spiegate sul mare di un cupo azzurro, il Passato con tutti i suoi continenti e ciò che formava la storia — il Passato con i palazzi, i giardini, le sale, gli abiti, le piume, le canzoni, le guerre, le storie notissime e ignote — non c’è più!.

Il passato dunque, si persuade la Ortese, non se ne sta tutto «radunato» da qualche parte dello spazio e del tempo, dato e come acquattato in attesa dell'operazione di uno storico-detective che, situato al di fuori di esso, si metta sulle sue tracce e arrivi infine a disseppellirlo. È tramontata, insieme al suo secolo, quella concezione triste (ma si legga: positivistica) della storia, rimasta a lungo incontrastata sebbene spiriti eccezionalmente sensibili l’av95

Tutte signore di mio gusto

vertissero già come «un modo di coltivare la storia [...] in cui la vita intristisce e degenera», per l’assenza di immediatezza che caratterizza la modernità. È tramontata mentre col nuovo secolo, il Ventesimo, gliene subentrava un’altra, destinata a condurre a un punto di non ritorno le forme della ricerca storica e gli stili della storiografia. Quanto a tale profondo mutamento abbia contribuito la scuola delle «Annales» e quanto con essa Marguerite Yourcenar possa avere a che fare lo lasciamo dire a chi a tali aspetti abbia già dedicato la propria attenzione’, stabilendo accuratamente per la scrittrice entità e limiti di questo suo probabile debito culturale. Qui, di preferenza os-

serveremo come l'insegnamento delle «Annales», a prescindere da quanto sia stato influente sull’elaborazione del pensiero storico della scrittrice, da un lato si lasci accostare da ulteriori e importanti elaborazioni novecentesche sul tema del passato, che possono a loro volta non esser state del tutto estranee alla stessa Yourcenar; dall’altro, come tale insegnamento non infici in nulla la sostanziale

singolarità della sua posizione in merito alla storia, ciò che le valse non solo la realizzazione di alcuni dei maggiori romanzi (storici) del Novecento ma anche, e forse di conse-

guenza, il riconoscimento della dignità e dello statuto di pensatrice.

Il passato, diremo riepilogando molte pagine narrative e saggistiche di Marguerite Yourcenar, lungi innanzitutto dall’essere un dato ovvero qualcosa di accaduto una volta per sempre, e lungi dall’essere oggettivo, è qualcosa di vivo, di estremamente creativo, alla stregua — si direbbe — del «passato vivente» che Simone Weil intendeva 94

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

come l'insieme dei «tesori spirituali accumulati dai morti», la cui «perdita [...] è la grande tragedia umana». Come tale, il passato è quindi inscindibile dal suo racconto, si lascia ricomporre in modo diverso in relazione a chi lo rammemora ovvero si ricrea, come sforzo di soggettività, alle strette dipendenze di chi se ne fa carico. Infine, lungi dall’aderire compatto a colui o colei al quale si suppone appartenere, si dipana in una rete fittissima di relazioni, che stabiliscono una stretta interdipendenza fra le singole storie personali nonché fra queste e la storia fou? court, e consentono di pensare nei termini di una soggettività accumulata e insieme condivisa alla quale partecipano — non troppo diversamente da quanto si configura nel concetto deleuziano del «divenire molteplice», o in quello foucaultiano di «archivio» — tutte le forme della creazione.

Mentre infatti alla fine degli anni Sessanta (quelli dell’Archeologia del sapere) Foucault elaborava tale suo concetto, meccanismo di relazioni che stando fuori di noi

ci delimita, ci sovrasta e ci indica nella dispersione in cui consistiamo; e mentre Deleuze al contempo lavorava sulla raffigurazione della vita come continuo differire, sull’evento come divenire e sul pensare il divenire contro la storia, la Yourcenar al proprio «archivio», al proprio «divenire» dava forma e dava vita, e per mezzo della sua arte giungeva a elaborare con sicurezza e con finezza ciò che per via di dottrina si andava acquisendo nel corso di lenti decenni. Decisa infatti fin da subito ad assumere il corso della vita come modello della storia, in quanto la traiettoria dell’esistenza umana è da lei compresa appunto come 95

Tutte signore di mio gusto

l'esito di un'immensa cooperazione di esistenze, come processo di sovraindividuazione che per legami e ripercussioni intrecciate si dilata al mondo e all’universo, Mar-

guerite Yourcenar elabora la propria idea della vita come insieme di vite, umane e non, partecipe di un reticolo, o

trama, vitale e vivente che trasmette la partecipazione, an-

noda i fili della simpatia e del sentire e accumula in ciascun «io» esperienza e sapere: traducendo in romanzo l’elaborazione teorica dei suoi contemporanei, e dandole un precoce e sontuoso compimento. Cito a riscontro qualche memorabile passaggio: Questa operina [La petite sirènel ha rappresentato lo spartiacque fra la mia vita prima del 1940, incentrata soprattutto sull’umano, e quella dal 1940 in poi, in cui l'essere umano è sentito come un oggetto che si muove sullo sfondo del tutto.

Credo che arrivi sempre il momento in cui [...] ci si chiede che cosa si debba a certi antenati sconosciuti, o quasi, a cer-

ti casi o vicende da tempo dimenticate, forse perfino (ed è in fondo lo stesso) ad altre vite. [...] Appartengo al grande magma umano. Ogni simpatia e ogni comprensione accordate a degli esseri, appartengano al passato o al presente, nascano dalla nostra mente, ci accompagnino o incrocino la nostra strada nella vita, moltiplicano le nostre occasioni di contatto con la realtà.

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Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

Penso che ci vorrebbero delle cognizioni di base [...] per cui il bambino saprebbe di esistere in seno all’universo, [...] e imparerebbe che egli dipende dall’aria, dall’acqua, da tutti gli esseri viventi [...]. Gli si insegnerebbe, del passato, quanto basta perché si senta collegato agli uomini che l'hanno preceduto. Unus sum et multi in me, certo; ma questi multi non sono la

stessa cosa del nostro piccolo io°. «A vent'anni», riferisce, come si ricorderà, in una cele-

bre intervista, «avevo abbozzato un grandioso romanzo storico che avrebbe contenuto, molto trasformate dalla

fantasia, tutte le generazioni della mia famiglia.» Si trattava, aggiunge, «di dare un pensiero a quei milioni di esseri che vanno moltiplicandosi di generazione in generazione (due genitori, quattro nonni, otto bisavoli, sedici trisavoli, trentadue bisarcavoli), all’immensa folla anonima di cui

siam fatti» poiché «l’umanità intera, la vita intera passano in noi». Ne sarebbero derivati L’opera al nero e La mort conduit l’attelage (prima versione di Core l’acqua che scorre), nonché la trilogia familiare e autobiografica composta da Care memorie, Archivi del Nord e Quoi? L’Étermité. Con quel progetto giovanile tutto incentrato sulla sua idea di archivio Marguerite Yourcenar travolgeva così, in un sol tratto, un modello di autobiografia, un modello di

romanzo e un modello di storia, preparando peraltro un assai accidentato terreno agli studiosi e studiose a venire. Che avrebbero dibattuto lungamente — la storia della critica lo dimostra — sul problema dei generi letterari da lei 97

Tutte signore di mio gusto

praticati, sui presupposti del suo concetto di verità storica e le regole della sua invenzione romanzesca, sull'entità e il luogo del confine fra scrittura dell’io e scrittura di altri (e altro: Adriano, Alexis, Zenone, Arianna ed Euridice, Mi-

shima e Maria Maddalena, il padre Michel, i papaveri del Mont Noir, gli animali nella storia, la terra nel Paleolitico...), sul regime insomma sempre incerto e promiscuo

fra autobiografia, storia e finzione di tutta la sua opera. I tempi sono però maturi, ora, perché si rinunci a questi distinguo e a queste partizioni, che la scrittura di Marguerite Yourcenar (alla stregua, noteremo, della maggior parte delle scritture femminili) travolge e rende obsolete e inservibili; perché ci si rassegni a una sua idea della storia, dell'individuo e della scrittura di cui ella rende sempre simultaneamente conto; perché nuove chiavi di lettura, in-

fine, ci soccorrano aiutandoci a procedere e a superare le IMPasses. Punto di partenza rimane, con estrema seppure inco-

moda evidenza, la necessità di assumere la scrittura, l’individuo e la storia come temi non scindibili l’uno dall’altro. Che il tempo dell’esperienza personale (modellato nelle «memorie») si saldi a un tempo storico (gli «archivi», per l’appunto) nonché a uno metastorico e assoluto (l’«eternità») prova infatti, per cominciare, che la compe-

tenza di Marguerite Yourcenar a narrare la storia non prescinde da, ed è tutt'una con, quella di narrare se stessa co-

me storia e nella storia, mentre contemporaneamente ella fa esperienza di quella soggettività accumulata e molteplice, condivisa con altri e altro attraverso i tempi e gli spazi, che sola le consente di custodire il senso di sé, facendo sì 98

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

che l’io si dilati al mondo e che l’autobiografia sia anche e sempre biografia, luogo di alterità per eccellenza ossia vita — narrata, scritta — propria e altrui insieme. E mentre ancora è la scrittura, e non altro, la pratica che dispensa il bene dell’individuazione, consentendo la costituzione di

un soggetto che non può prescindere dal suo rappresentarsi nemmeno qualora (è il caso di Marguerite Yourcenar) la propria rappresentazione si dissimuli in quella altrui (di nuovo: Adriano, Zenone, Michel...) e in quella del

mondo. Ciò che qui ho esposto in uno stretto, vertiginoso e schematico giro di concetti si dipana con magnifica chiarezza in tutta l’opera della Yourcenar: nei suoi romanzi cosiddetti storici come in quelli cosiddetti autobiografici, nei racconti e nei testi teatrali, nei saggi, nelle interviste e nei nevralgici paratesti (prefazioni, postfazioni, note, carnets di appunti) che tutta l’opera accompagnano, amalgamandola e insieme amalgamandosi a essa. Laddove, però, l'ampiezza e la perspicuità della sua complessiva esposizione non arrivano ad annullarne il presupposto di fondo, che rimane per sua natura generatore di vertigine: giacché i tre temi indicati, ed enucleati singolarmente solo previa forzatura — l’io, la storia, e la scrittura che di en-

trambi dà conto —, stanno l’uno con l’altro e l'uno per l’altro. La scrittura [...] oscilla sempre tra rivelazione e dissimulazione, [...] è al tempo stesso esperienza vissuta e atto dell'immaginario, ovvero realizza l’esperienza della finzione nel cuore stesso d’una ricerca del veroì. 99

Tutte signore di mio gusto

La posizione assunta da chi più risolutamente ha fatto giustizia del regime finzionale, e per quanto riguarda almeno le scritture dell’io ha trasceso la poco vitale distinzione fra reale e immaginario, ci incoraggia a procedere nella direzione indicata da Marguerite Yourcenar sulla base dell’identificazione della memoria come atto narrante, che presiede all’interpretazione (ovvero invenzione) del passato e alla sua rammemorazione (ovvero immaginazio-

ne) ai fini di una scrittura non per questo esiliata dal regime della verità. Al contrario. Per la lettrice e traduttrice di Virginia Woolf (scrittrice «nata nello stesso attimo in cui una stella cominciava a pensare», come la definisce nel saggio a lei dedicato in Pellegrina e straniera), il dire la verità, lo stare nel gioco infinito tra ineffabilità e dicibilità dell’esperienza viva, il cogliere ciò che accade nell’istante e che nessuna storiografia può registrare o restituire, devono essere stati impegni durevoli, onorati con intransigenza nel desiderio di quella precisione millimetrica che ogni vita chiede che ci sia quando se ne dice qualcosa. Soprattutto allorquando si tratti di trasferirsi — grazie a un sapere generato dall’empatia — in un qui e ora di tanti secoli fa, e di entrare pienamente in sintonia con esso. Dico e si dice empatia per dire amore, ovvero quella

speciale fonte di sapere e di saper fare che si direbbe abbia orientato, più di ogni altra, l’esperienza del romanzo - storico, autobiografico o come altro lo si voglia intendere — di Marguerite Yourcenar: la capacità, cioè, di valorizzare in sommo grado la relazione fra la sua personale esperienza storica e la sua capacità di comprensione della storia collettiva. Che del resto fra esperienza storica e pratica 100

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

d’amore vi sia una connivenza forte e irrinunciabile lo dicono anche alcune autorevoli pagine, fra le quali voglio qui esemplarmente convocare quelle di Lore Schacht, psicoanalista di scuola winnicottiana, dedicate alla fine degli anni Settanta al tema della Découverte de l’historicité. L'esperienza della storia, afferma la studiosa, deriva

agli esseri umani dalla scoperta di una dimensione storica nel rapporto d’amore. Si tratta, per gli individui in tenera età, della scoperta che la relazione d’amore (segnatamente quella materna) non termina con la lontananza o la separazione, le quali possono essere temporaneamente tollerate se mediate in modo opportuno attraverso simboli. I simboli quindi, ci viene fatto osservare, sono costi-

tuiti da oggetti e, significativamente, da memorie. In un gioco di ricordi, madre e bambino/a sperimentano infatti la capacità di riconoscersi e di ricreare uno spazio comune, nella fiducia su cui si regge la comune esperienza di rievocazione. Il gioco delle memorie e dei riconoscimenti reciproci fonda dunque la certezza che esiste un’area in cui il passato è condiviso, e può essere rimesso in causa verso il futuro”. L’accanimento, la fedeltà e la spasmodica assiduità con cui Marguerite Yourcenar si è rivolta alla storia, facendone l’ambito privilegiato del suo sapere e della sua scrittura, si spiegano meglio, forse, se accogliamo questa concezione della storia come atto d’amore, e se riconosciamo la

vocazione si d'amore si direbbe, Yourcenar,

alla storia come propria di chi sappia struggerper il passato. Vanno peraltro in questo senso, numerose ed esplicite affermazioni della stessa disseminate soprattutto nelle interviste e nelle 101

Tutte signore di mio gusto

pagine di riflessione, dalle quali ne attingo indicativamente alcune: Quando si parla dell'amore per il passato, [...] si tratta dell’amore per la vita [...]. Quando si ama la vita, si ama il passato perché esso è il presente qual è sopravvissuto nella memoria.

Quando si ama la vita in tutte le sue forme, quelle del passato quanto quelle del presente. [La storia], questo perpetuo influsso di esseri degni d’essere amati.

Tutto ciò che racconto [...] contiene una lacuna [...]. Passo sotto silenzio le esperienze più segrete, [...] e la perpetua presenza o ricerca d’amore!°.

Mentre va in questo senso anche la stralunata e geniale visione del passato di Anna Maria Ortese, dalla quale ero partita e che riprendo, ora, per concludere: Avevo definito una cosa (addio, dolce passato, mio orgo-

glio, mia luce): che la storia è spirito che lavora nella materia, [...] che tale spirito è l'io dell’uomo e dell’animale e le piante e le vite tutte, [...] spirito che ca la storia [...]. Sì, mi dico ancora che lo spirito, di cui parlammo, non atto, eterno atto di scelta, d'amore. E

esamina, rivede, criti[...], è forse possibile sia solo memoria, ma tutte, dico tutte le sue

componenti di creature, in qualche luogo di tale spirito — o 102

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

continente sommerso — [...] siano nascoste... E attendano: qualcosa che tutte, al termine di tutto, le riaccosti. [...] Sì, mie care, gravi e tenere fanciulle del passato, e voi, buoni

principi, e tu ombra delicata della notte nel palazzo napoletano, noi ci rivedremo. Saremo quelli, e altro. Noi, cari, ci riabbracceremo. Vi mando — dal giorno, dal mare, da questo monotono e terribile rumore di onde, dal nulla — il mio tenero, gaio, immortale, devoto saluto.

Non senza rammentare come la Yourcenar le abbia fatto eco, là dove ha parlato della storia come del «mondo di tutti i vivi del passato»: di tutti coloro, insomma, che han-

no costituito il suo grande archivio e il suo divenire, nell’assiduo differire dal quale, fedele al suo motto — «Il ne s’agît pas de moi» («Non si tratta di me»)" — e in relazione d’amore col suo passato vivente, è andata individuando la sua personalità di donna e di scrittrice.

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Tutte signore di mio gusto

Note Anna Maria Ortese, I/ continente sommerso, in In sonno e in veglia,

Milano, Adelphi, 1987, pp. 113-128, pp. 117-119, corsivi nel testo. La citazione che chiude questo capitolo è quindi un collage dalle pp. 120-128 dello stesso scritto. Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita [1874], trad. it. di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 2001, p. 3. Cfr. Jacques Body, Marguerite Yourcenar et l’école des «Annales»: réflexions sur le «possibilisme», in AA.VV., Roman, histoire et mythe dans l’oeuvre de Marguerite Yourcenar, Tours, S.I.E.Y., 1995, pp. 49-57.

Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano [1949], trad. it. di Franco Fortini, Milano,

SE, 1990, pp. 17 e 112.

Cfr. Michel Foucault, L'archeologia del sapere [1969], trad. it. di Giovanni Bogliolo, Milano, Rizzoli, 1980, e Gilles Deleuze, Diverire

molteplice [1963 sgg.], trad. it. e cura di Ubaldo Fadini, Verona, Ombre Corte, 2002.

Le prime quattro citazioni sono tratte da Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti. Conversazioni con Mathieu Galay [1980], trad. it. di Laura Guarino, Milano, Bompiani, 1996, pp. 176, 190, 210, 235; la quinta, da una lettera a Jean Chalon, del 9 marzo 1974, conservata

nel fondo Harvard e citata da Josyane Savigneau, Marguerite Yourcenar. L'invenzione di una vita [1990], trad. it. di Oreste del Buono,

Torino, Einaudi, 1993, pp. 376-377. Prezioso per gli sviluppi che contiene di questo tema è quindi Marguerite Yourcenar, Dalla storia al cosmo. Interviste sull’opera e sul divenire 1971-1979, a cura di Camillo Faverzani, Roma, Bulzoni, 2004. Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti, cit., pp. 187 e 190. Per i tito-

li dell’autrice citati cursoriamente rinvio come sempre alla bibliografia finale. Fausta Garavini, «Io come i0...», in Controfigure d'autore. Scritture

autobiografiche nella letteratura francese, a cura della stessa, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 7-54, p. 7. Traduco e sintetizzo liberamente da Lore Schacht, Découverte de l’historicité, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 15, 1977. 104

Marguerite Yourcenar. «Non si tratta di me.»

10. Le prime tre citazioni sono tratte da Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti, cit., pp. 32, 130, 224; la quarta da Ead., Carzets de notes de «Mémoires

d’Adrien», in Oeuvres

romanesques,

Paris, Gallimard,

1982, p. 523 (trad. mia).

11. Marguerite Yourcenar, intervista rilasciata a «Le Monde des livres», 7 dicembre 1984.

105

8. I ROMANZI DI FIGURE DI LALLA ROMANO

È a uno stadio maturo del suo percorso inteso a coniugare letteratura e fotografia che Lalla Romano ammette di essere approdata a una scoperta importante: La novità fu che potevo leggere quelle [...] immagini direttamente — liberamente — nel loro linguaggio di segni come nel mio di parole. Perché anche la fotografia è scrittura. Devo la rivelazione a Bresson [...]. La frase illuminante è: «Le film ce n'est pas un spectacle, c'est une écriture»!.

Si tratta però, da parte sua, di una mossa evidentemente maldestra, con la quale suo malgrado ella vanifica gli sforzi precedenti, propri e altrui, tesi a celebrare a ridosso dei suoi stessi libri la parità di statuto fra i due linguaggi. L’aver assimilato la fotografia all’idea di scrittura attesta infatti l’impossibilità da parte di lei (e se si vuole anche di Bresson) di fare giustizia del pregiudiziale primato della letteratura, logos per eccellenza, sulle altre arti, specie se giovani e inesperte come la fotografia o la cinematografia, e di sottrarsi radicalmente a quella mentalità gerarchica e derivativa che fa sì che molti intellettuali e scrittori accedano a un qualsivoglia testo solo passando 106

I romanzi di figure di Lalla Romano

attraverso una concezione letteraria e scritturale del termine.

Le dichiarazioni subito seguenti a quella citata aggravano quindi oltremodo le sorti della fotografia, alle cui virtù narrative e descrittive, evocative, «loiche» nonché inventive (o di «scoperta [...] di altri discorsi possibili») si inneggia, salvo poi smentirle quando si afferma che l’immagine fotografica — frammento di realtà sottratto al tempo e al movimento — quando sia intesa come scrittura si emancipa, riscatta se stessa e soprattutto riscatta la realtà.

Dunque la fotografia, oltre che di essere scattata, ha bisogno di essere riscattata ovvero riabilitata, sciolta e redenta da non si sa bene quale obbligo, disonore o infamia. Laddove il verbo «ri-scattare», mentre sollecita ad approfondire la riflessione sul rapporto parola-immagine in Lalla Romano, allo stesso tempo, e per il tramite del prefisso di valore iterativo, indica una possibile chiave di lettura dell’opera (e di quella fotografica soprattutto) della scrittrice. Occorre infatti rammentare a questo proposito non solo con quale stupefacente assiduità e costanza Lalla Romano abbia frequentato, nel corso della sua lunga carriera, la scrittura dell’io o grafia del sé (io, o sé, bambina e poi adolescente, donna matura, moglie, madre, non-

na?) ma, altresì, con quanta perseveranza abbia riproposto, via via perfezionandolo e completandolo di appendici, il libro nel quale la scrittura dell’io si coniuga alla fotografia e con essa si dimostra a fondo connivente. Si tratta come è noto di Lettura di un'immagine, pubblicato nel 107

Tutte signore di mio gusto

1975 e ripubblicato sotto nuovo titolo, Rorzanzo di figure, nel 1986, quindi arricchito di una seconda parte, e sotto altro titolo ancora, Nuovo romanzo di figure, nel 1997, infine corredato dell'aggiunta data autonoma alle stampe, Ritorno a Ponte Stura, nel 2000 — il tutto a carico dell’editore Einaudi. Va rammentato che a questi «ricorsi» presiedono, oltre all’aperta complicità dell’editore, ragioni tecniche e documentarie legate a una serie di successivi reperimenti di

materiale fotografico in casa Romano: giacché l’autrice, che si è valsa di un archivio di fotografie scattate fra il 1904 e il 1914 dal padre Roberto, sedicente fotografo dilettante, ha dapprima migliorato (in Rorzanzo di figure) la qualità delle immagini, avendo nel frattempo ritrovato le lastre originali delle fotografie già pubblicate in Lettura di un'immagine; quindi (vale a dire in Nuovo romanzo di figure e in Ritorno a Ponte Stura), e sempre al seguito di ulteriori ritrovamenti, ha incrementato il corpus di partenza arricchendolo di preziose acquisizioni. Rimane tuttavia anomalo, nella storia dell’editoria italiana del Novecento,

il caso rappresentato da questo volume, che per di più rinarra, «su un sentiero parallelo» (come l’autrice autorizzava che si dicesse), i ricordi d’infanzia già contenuti nelle opere narrative non fotografiche, e soprattutto ne La penombra che abbiamo attraversato. Ne derivano, per chi valichi la frontiera dell’iniziale stupore che il caso suscita, occasioni di efficaci riscontri fra stili e codici «paralleli» di scrittura autobiografica (ai quali si affianca l’importante lavoro di Lalla Romano pittrice), che una tanto insistita autoreferenzialità e una così doviziosa intertestualità 108

I romanzi di figure di Lalla Romano

interna rendono più che mai atti allo scopo; e, più in generale, interessanti ragioni di riflessione teorica sul fenomeno della strenua fedeltà di un autore, ancor più che ai propri temi e miti, alla propria idea di libro, di opera e di letteratura: Questo libro [Ritorno a Ponte Stura] vuole essere ancora,

da parte mia, un conta — pensiero arte di fotografo nei vari «album

tardivo — ma il tempo dopo la morte non per mio padre. Ho scritto di lui e della sua in La penombra che abbiamo attraversato e fotografici». Cosa aggiunge quest’ultimo?

E perché Ritorzo a Ponte Stura? Gli inizi ricominciano sempre, e non sono mai finiti. [...] È una spirale, non un cer-

chio. Tutto finisce, tutto anche ritorna. In questa [...] spirale è anche il senso del ritorno. [...] Considero fatali, cioè necessarie, certe coincidenze. Quest'ultimo ritorno è dun-

que nuovo rispetto ad altri miei ritorni: la Perorzbra, anzitutto. Qui prevale, anzi il libro consiste in una storia nuova, inedita, della mia infanzia’.

La bibliografia critica sviluppatasi intorno al confronto fra i diversi stili e codici della Romano autobiografa, e in particolare intorno al rapporto fra parola e immagine, non ha mancato di annoverare risultati (nonché nomi) di rilievo, del resto adeguati alla complessità e alla singolarità del caso. Allorché infatti ci si riferisce alle «immagini» presenti nell’opera di Lalla Romano, occorre innanzitutto distinguerne e precisarne la tipologia. Poiché da un lato la romanziera-pittrice fornisce possibilità di indagini in materia di tangenze fra pittura e scrittura, di esercizi 109

Tutte signore di mio gusto

descrittivi di opere pittoriche in letteratura, e di experzzses stilistiche nell’ambito della critica d’arte; dall’altro, la tra-

scrittrice di immagini oniriche (abito in cui diede gran prova con l’opera narrativa d’esordio, Le metamorfosi), virtuosa descrittrice delle «figure» per eccellenza in quanto prive di referente, alimenta con profitto gli studi sulle scritture fantastiche ovvero, etimologicamente, dell’77727724-

ginazione; dall’altro ancora, e soprattutto, l’autrice di libri fotografici, o nei quali comunque le fotografie, anche solo come occorrenze narrative, hanno gran peso, sollecita ricerche puntuali relative al nodo interdisciplinare fra letteratura e fotografia, al quale vengo senz'altro. Sono sostanzialmente quattro le modalità secondo le quali una fotografia si rende parte, spesso integrante, di un’opera di Lalla Romano e può dirsi presente in essa. In un lessico 44 hoc potremmo indicarle come tematizzazione, citazione, ecfrasi e riproduzione, intendendo rispettivamente: 1) la comparsa di una foto, non descritta o descritta sommariamente, come tema all’interno di un’opera narrativa e spesso rivestito di una peculiare funzione nell’intreccio; 2) la descrizione in parole, all’interno di un’o-

pera narrativa, di una foto che chi legge non ha la possibilità di riscontrare direttamente sull’«originale»; 3) la descrizione in parole di una foto che chi legge può vice-

versa riscontrare sull’«originale» perché pubblicata in altra opera (nella fattispecie, il romanzo fotografico) dell'autrice; 4) la riproduzione tout court di una foto accompagnata da «commento» o «didascalia» (termini, come vedremo, impropri) o comunque testo verbale «parallelo». Se attestazioni del primo e del secondo tipo si rinven110

I romanzi di figure di Lalla Romano

gono sparsamente nella produzione narrativa della Romano, è evidente invece che esempi del terzo e del quarto si avranno rispettivamente ne La perormbra che abbiamo attraversato e nel libro «fotografico» in senso stretto, unico e plurititolato, la cui vicenda editoriale ho brevemente illustrata: due romanzi (considerando appunto «uno» quello fotografico) nei quali scorre o si sgrana una stessa serie di vicende proprie agli anni, ai luoghi e alle passioni della scrittrice bambina

(nata, come

si ricorderà, nel 1906).

Fornisco a mero titolo illustrativo qualche esempio del primo tipo: Hai lasciato la fotografia sul tuo tavolino da notte, così alla sera quando vado a dormire ti mando il mio bacio e il mio augurio (Le parole tra noi leggere, p. 70). Maria estrasse dal portafogli una piccola fotografia e me la porse. - Ma questo è Fredo! — Si vedeva la faccia dolce, ovale di Fredo e, accanto ad essa, il muso di un cane [...]. Avevo pensato a Fredo, intanto che Maria raccontava di

Giuseppe, ma non avevo osato fare il suo nome, per non rattristarla. Pensavo: —- Ecco, Maria voleva Fredo e ha avu-

to Giuseppe. Maria disse che aveva ricevuto quella fotografia, l’ultima del povero Fredo, da Giuseppe stesso, al momento della sua partenza. Pensai che Giuseppe, nella sua umiltà, aveva capito, se si era privato, per lei, di quel ritratto (Maria, p.511). Io ho dovuto arrivare al suo [del figlio] poema fotografico «delle immondizie» per capire veramente che non è nono111

Tutte signore di mio gusto

stante l'oggetto vile che una certa poesia si realizza, ma precisamente attraverso, mediante esso. Nelle fotografie le due ricerche compaiono distinte: la resa (la lettura) della materia, e dell'umano. Hanno la stessa precisione crudele dei disegni, che comporta — non so bene come, credo a causa dell’ironia — una superiore pietà (Le parole tra noi leggere, p. 73),

e del secondo: In molte fotografie Murò appare come il mio custode. In una è accanto a me, nell’orto, seduto sulle zampe di dietro, il collo eretto; è fiero, consapevole della sua dignità. C'è una

somiglianza tra il cane e la bambina. [...]. Ma l’occhio di Murò è fisso, intrepido ed ingenuo come quello di una recluta, mentre gli occhi della bambina sembrano rivolti a

considerare qualcosa di lontano e preoccupante (La penombra che abbiamo attraversato, p. 104). Maria ci lasciò, partendo, la piccola immagine di Santa Maria, col ramulivo: davanti alla quale era solita far pregare il bambino. Era l’immagine di una Madonna di campagna, dalle gote affilate e ossute, dai pomelli accesi, e gli occhi piegati all’ingiù, che assomigliava a lei (Marsa, p. 491).

Ci fece l'onore di mostrarci le foto loro [del figlioe della di lui moglie], che adesso erano di mare. [...] In una foto lei stava vestendosi sugli scogli, calze giarrettiere e maglione. Restammo un po’ senza fiato, e non solo per la bellezza. In un’altra c’era lui vestito; notevole come apparisse signore, distinto, nonostante il vestito pazzesco. In alcune foto lei 112

I romanzi di figure di Lalla Romano

guardava in un lungo cannocchiale (Le parole tra noi leggeFC Pa199):

Mi soffermo invece su qualche caso del terzo e del quarto tipo, non senza convocare a testimone chi ne ha

precedentemente rilevato alcune costanti: vale a dire Cesare Segre, che nell’Ixtroduzione al primo volume delle Opere di Lalla Romano nella maggior collezione mondadoriana procede al confronto tra foto descritta rispettivamente «in assenza» (ne La penombra che abbiamo attraversato) e «in presenza» (in Rorzanzo di figure) della fotografia stessa‘. Uno dei casi di parallelismo su cui anche Segre lavora è, ad esempio, il seguente: Papà componeva il gruppo. La mamma seduta, un berretto piatto posato sui suoi capelli crespi; io col paltoncino bianco, appoggiata a lei; papà stava all’impiedi dietro a noi, la giacca da cacciatore abbottonata fino al collo e il berretto di pelo. Davanti a tutti, Murò. Sullo sfondo la strada bordata di roveri e di magri olmi selvatici. Papà era serio, con un’ombra di sorriso negli occhi socchiusi. Anche Murò era serio [...]. La mamma guardava con i suoi occhi profondi, un po’ canzonatori. (Lei trovava piuttosto noiosa la faccenda delle fotografie). Io piccola fissavo con stupore quasi doloroso (La pezombra che abbiamo attraversato, p. 181). - gruppo molto unito, raccolto in un blocco contro la strada vuota nella spoliazione invernale — le linee degli alberi accompagnano il ritmo ascendente del gruppo — forti stacchi di nero e di bianco — l’uomo col berretto di pelo ha un 113

Tutte signore di mio gusto

sorriso impercettibile di sicurezza — la donna col berretto all'inglese, ha un sorriso tranquillo di accettazione fiduciosa — la bambina, vestita da città, con la cuffia fiorita, è qua-

si una bambola; ma il suo sguardo è vigile (Nuovo rorzanzo difigure, p. 113).

Se ne evincono i caratteri più immediatamente distintivi della prosa del Rorzanzo di figure rispetto a quella de La penombra che abbiamo attraversato, vale a dire la maggiore allusività e discontinuità del testo (dalla singolare disposizione sintattica e intelaiatura interpuntiva), e la diminuita estensione dei «segmenti di realtà» a cui esso si riferisce potendo contare sul diretto contributo dell’immagine. Per contro, e lo attesta un secondo esempio ancora ri-

portato da Segre, la prosa che aderisce alla fotografia è il risultato di una «immersione più completa nelle immagini», e comporta una maggiore insistenza della descrizione formale che risulta ovviamente più ricca di dettagli e — fatto di particolare rilievo stilistico — di riferimenti a valori figurativi: In un’altra fotografia papà ritrasse le «perpetue», serve e sorelle dei reverendi; in un angolo della fotografia era entrato uno scemo dalla faccia tutta pelosa, che rideva seduto

per terra (La penombra che abbiamo attraversato, p. 153).

— l’altra faccia della società: le perpetue —- composizione scalare: da sinistra, calo d'importanza — [...] — la penultima è Marianin (la favolosa perpetua di Trinità) che allarga le braccia a sostenere le due timide — la donnina che ride è 114

I romanzi di figure di Lalla Romano

emozionata per la fotografia e per la presenza dell’innocente — voleva esserci anche lui, nel ritratto, e mio padre lo avrà anche invitato — si è seduto su un mattone e si è levato il cappello (glielo avranno suggerito le perpetue) — la sua figura «alla Velazquez» è verista ma garbata, civile — rompe la frontalità ed è insieme un commento (Nuovo romanzo di figure, p. 59),

anche se, talvolta, con «richiami interni» meno «sottili e interiorizzati»:

La mamma vestita di bianco, sullo sfondo dei pini, si appoggiava appena, con una mano, all’ombrellino. La vita sottile era chiusa da un’alta cintura con la fibbia d’argento. Se non possedessi la fotografia, avrei ricordato soltanto quella cintura. Era un nastro di «gros» a strisce pallide gialle e rosa, con la fibbia molto alta. La mamma ce la regalò poi per giocare. La camicetta era di pizzo, la gonna liscia, scampanata in fondo. Un poco sopra il polso ricadeva ampio e molle il pizzo arricciato. Il polso era esile, la mano magra e come stanca (La perormbra che abbiamo attraversato, p. 183). — il bianco rende la figura incorporea, senza peso, sul fondo mosso e confuso — il «ramage» del ginepro spinoso contro l’abito bianco accentua il carattere di fiore dell’immagine — la forma è affidata alla linea — si rispondono le curve del braccio e del tronco sdoppiato — un accenno di profondità è dovuto al movimento ascendente nel bordo dell’abito,

nelle linee della faccia — sul fondo scuro del pino e dei capelli la faccia ha un rilievo plastico — il sorriso è accennato, quasi 15

Tutte signore di mio gusto

concesso — c'è abbandono: da un fondo di malinconia affiora la fiducia — lei sapeva che quella foto era un atto (per quanto contemplativo) di adorazione; ma non poteva sorridere più di così — nel linguaggio di quella contemplazione c'era anche «l’aurora di bianco vestita» (era un canone del gusto dell’epoca), ma non c’è romanza nell’immagine: la sua grazia è severa (Nuovo romanzo di figure, p. 49).

Aggiungo altri due «scatti», e relativi «commenti», al cui confronto la prosa de La penombra che abbiamo attraversato gode visibilmente dei vantaggi che le derivano dalla continuità e dalla contestualità del regime narrativo, nonché dalla circostanza per la quale, non potendo contare che sulle proprie risorse, si attiva al massimo grado di icasticità: Nei pomeriggi d'inverno, se c’era il sole, si andava a vedere la sorellina. La strada era una pista di neve dove i piedi affondavano, scivolosa. Qualcuno mi teneva per mano. Trovavamo sull’aia asciutta la sorellina affondata in un seggiolone rustico, aggrottata per il sole. Intorno c’era odore di latte e di stalla. La mamma si preoccupava delle mosche. In quei momenti la sorellina mi ripugnava già un poco, per quell’insieme di odori di nido e di cuccia; ma non sapevo che sarebbe venuta a casa (La penombra che abbiamo attraversato, p. 17).

— gravità monumentale — nella luce d’inverno la bambina nuova sul seggiolone rustico, nel cortile della balia — (la sedia, come la scala a pioli sono state fabbricate dal balio nelle 116

I romanzi di figure di Lalla Romano

veglie) — le cose sono povere, però asciutte, calde; e la bambina è florida e pulita — è seria, anzi musona — è sola, nessuno le è accanto (Nuovo romanzo di figure, p. 159). Lo stile delle sue fotografie era simile a quello della sua pittura. Le immagini erano calme e leggere; senza forti ombre né rigidezze, quasi colte con mano delicata. Più avanti nel tempo le pose mutarono un poco. La mamma teneva la sorellina sulle ginocchia, e si vedeva che la sorellina ignorava di trovarsi in una fotografia; io mi appoggiavo al cerchio — alto quasi quanto me — e parevo impaziente; papà aveva l’aria meno romantica e più allegra. La mamma forse più pa-

ga, più serena. Fu quella la sua felicità? (La penombra che abbiamo attraversato, p. 182). — fine dell'inverno — la bambina nuova è in famiglia: ora è lei tutt'uno con la madre — la bambina col cerchio è imbronciata e forse non sa il perché — però si è spostata dalla parte del padre — anche Murò è imbronciato, si è messo di profilo (Nuovo romanzo di figure, p. 161).

Sono peraltro numerosissimi gli esempi disponibili, molti dei quali in grado di incrementare la riflessione e di estenderla a ulteriori aspetti, come la paradossale «profondità romanzesca» a cui è in grado talvolta di attingere una scrittura che si dichiara non narrativa ma piuttosto al servizio della narratività delle immagini, o come l’efficace interrelazione di riferimenti che in taluni casi si stabilisce fra prosa di romanzo «con» e prosa di romanzo «senza» riproduzione di «figure». Preferisco tuttavia interrompere LL

Tutte signore di mio gusto

la rassegna delle citazioni e trarne, semmai, qualche indi-

cazione generale, orientata nella direzione del problema interpretativo del rapporto fra testo letterario e immagine fotografica che qui soprattutto mi preme. «In questo libro le immagini sono il testo e lo scritto un’illustrazione», afferma la Romano in apertura al (Nuovo) Romanzo di figure, e aggiunge: I brevi appunti dovrebbero servire a fermare un poco l’attenzione (di solito si guardano le fotografie fuggevolmente), in quanto suggeriscono prospettive di lettura. Non vengono fornite notizie, né raccontate storie: in presenza delle fotografie sarebbero indiscrete e fuorvianti. La lettura non deve avvenire su questo piano.

Lo aveva dichiarato già nel 1975, all’epoca del suo primo libro fotografico e del citato riconoscimento a Bresson; lo aveva poi ribadito, con interessanti ma anche ambivalenti sviluppi, in una ricca serie di interviste e brevi scritti sull’argomento («Per me [...] le immagini, accompagnate o meno da un testo scritto che le commenti, appartengono alla parola»; «Nel mio libro [...] le immagini sono privilegiate. Tale inversione è usuale nei libri d’arte»; «Io non considero le prose che accompagnano le fotografie come una serie di appunti, ma come capitoli di un romanzo»; «Quello che conta per me è che le immagini possano essere lette»); e lo ribadirà fino all'ultimo, fino cioè all’ultimo romanzo fotografico, Ritorno a Ponte Stura, da lei stessa definito non a caso «un piccolo romanzo visivo».

Di pari passo le ha fatto quindi eco il seguito dei suoi esti118

I romanzi di figure di Lalla Romano

matori e lettori, rafforzando in più occasioni il suo concetto di fondo inerente a un’equa e non gerarchica interrelazione fra i due linguaggi, e a un loro integrarsi vicendevole e paritario entro un unico «ipertesto». Si è parlato pertanto (talvolta convocando anche la pittura) dell’indubbia «consapevolezza nella Romano di una radice comune ai due linguaggi», di parole e immagini che «non si illustrano a vicenda, ma partecipano attivamente alla costruzione dell’opera», di «commenti» che «non sono [...] semplici traduzioni verbali dell’immagine» ma testi in sé «creativi», di immagini «come modo di intendere la scrittura» (o che «possono essere lette e interpretate come la scrittura»), di «interazione di vocabolo e immagine», di «dialogo [...] tra foto e testo» e così via°. Si è trattato in pratica il (Nuovo) romanzo di figure, e a dispetto dell’evidenza, come testo

esemplare della letteratura italiana per quanto riguarda il rapporto fra parola e immagine. Ma a tale esemplarità il testo invece si sottrae, non fosse che per alcune fra le più contraddittorie affermazioni dell’autrice: irremovibile, nonostante tutto, dal suo assetto mentale di narratrice «clas-

sica», per la quale la letteratura rimane prioritaria e la fotografia, nel caso, uno straordinario complemento. È evidente infatti che la fotografia completa e potenzia la scrittura di memoria nella quale la Romano eccelle, e grazie alla quale già prima dei libri di immagini aveva occupato saldamente il suo posto nella letteratura del Novecento; la perfeziona e l’arricchisce, pur senza costituirne un’autentica alternativa, ovvero senza che ne scaturisca

realmente il tipo di narrazione decantato come «nuovo» all’epoca di Lettura di un'immagine. E se rimane vero — Jil

Tutte signore di mio gusto

come testimonia Susan Sontag — che le due arti sono più vicine fra loro di quel che non sembri in quanto dotate di una comune «presunzione di veracità», e perché entrambe invischiate nel «consueto rapporto ambiguo tra verità e arte»”, è altrettanto vero che Lalla Romano, pur piegandole tutte e due ai fini della propria amorosa investigazione della «verità» (nonché per statuto della propria «finzione»), le distingue e le accosta, semmai, per potenziare come dicevo l’esercizio della memoria, i cui fasti la prosa narrativa già da sola era bastata a celebrare.

In un senso soprattutto la scrittura di memoria, specie se relativa agli anni infantili, si rafforza e acquista col contributo della fotografia un più intenso valore. Mi riferisco alla dimensione di compianto e di colloquio coi perduti fra gli esseri amati che la scrittura autobiografica, e più che mai quella femminile, spesso conserva, ripercorrendo il passato anche per poterne riporre placate — come chiarisce Virginia Woolf in un passaggio celeberrimo delle sue Immagini del passato — le emozioni più dolorose: Scrissi il libro [A/ faro] molto rapidamente; e quando l’ebbi scritto, smisi di essere ossessionata da mia madre. [...]

Probabilmente feci a me stessa quello che gli psicoanalisti fanno ai loro pazienti. Diedi espressione a qualche emozione antica e profonda. Ed esprimendola ne trovai la spiegazione e la potei riporre placata?.

E a questo livello che la fotografia, arte per eccellenza legata alla passione o senso del passato e per definizione atto nonché oggetto melanconico, può divenire complice 120

I romanzi di figure di Lalla Romano

dell’opera letteraria, contribuendo con il potere dell’immagine (che è quello di significare, Barthes lo ha fissato definitivamente, la perdita dell’oggetto e il lutto del soggetto) a rendere evidente lo spessore intrinsecamente malinconico del ricordare. Ed è appunto a questo livello che per Lalla Romano l’operazione funziona, garantita oltretutto dall’indiscutibile bellezza e qualità delle foto da un lato, dall’altro dal fatto che esse siano opera del padre, il cui «ritratto in piedi» si accampa dentro e fuor di metafora fra le pagine dell’album familiare. Dipende quindi dalla presenza e dalla funzione del padre fotografo nell’allestimento del romanzo fotografico di Lalla Romano un elemento che è sfuggito, e forse pour cause, ai suoi maggiori interpreti, ma che gli studi sull’autobiografia femminile hanno educato invece a rilevare e a porre in primo piano: il fatto cioè che per la caratteristica simbiosi a livello autoriale fra padre (fotografo) e figlia (narratrice) che (Nuovo) romanzo di figure presenta, esso si classifica come testo-ponte fra biografia e autobiografia, ovvero come il luogo in cui biografo e biografato si scambiano vicendevolmente le parti. È infatti l’esser stata «guardata» (fotograficamente) dal padre che consente al-

la figlia il «raccontare» (letterario) di sé, mentre il suo «racconto di sé» non può non essere, allo stesso tempo, anche il «racconto dell’altro»: È facile rintracciare in queste immagini i segni del costume e non difficile quelli di un gusto figurativo; ma la ricerca essenziale è quella di scoprire chi era l’uomo che vi ha espresso se stesso [...]. Nell’ordinare per temi e in una progres121

Tutte signore di mio gusto

sione vagamente narrativa queste immagini, ho visto tra-

sparire e prendere consistenza quasi un ritratto di mio padre; [...] non c'è immagine che non sia in qualche modo una cifra del suo animo (Racconto di un'immagine, p. X).

Dell’altro, ovvero dell’altra: giacché un’ulteriore figura si candida, sia pur segretamente, al ruolo di biografata ed è la madre della scrittrice, che nello stesso luogo testé citato viene così introdotta: Di tutte le persone che appaiono in questa specie di romanzo per immagini, la più segreta rimane quella più ama-

ta da mio padre: sua moglie. Tale del resto lei fu sempre (per lui come per me e per chiunque): motivo non ultimo

del suo straordinario fascino.

Non a caso Stefano Agosti, in una bella pagina di recensione al volume alla sua prima uscita, ne aveva subito colto il silenzioso protagonismo, e aveva di conseguenza indicato il tipo di racconto che, dissimulandosi nel tessuto dell’autobiografia, si offriva alla lettura: il racconto cioè «dell’inquietudine e dell’affanno [...] di un uomo che attraverso l'occhio dell’obiettivo cerca inutilmente di avvicinarsi alla donna amata», mentre «l’occhio infantile [...] osserva questo affanno e questa ostinazione, e se ne fa depositario»’. Il Romanzo di figure risulta quindi, in questa prospettiva, la storia di un duplice o addirittura triplice sguardo er abyze, quello del padre fotografo che coglie quello della figlia posato su di sé mentre egli stesso guarda a sua volta alla madre, e con struggimento ne 122

I romanzi di figure di Lalla Romano

accusa la distanza e il ritegno: coordinate, queste ultime, del resto proprie a una figura venerata e divinizzata, che nei ricordi della figlia non per caso alternamente si dissolve e risplende in luminosi e lievi abiti bianchi, sorride sospesa su aerei balconi o salda nell’erba come pianta o flore, e nasconde la propria malinconia nell'ombra degli ampi cappelli, delle velette, dei rami di melo e degli ombrellini da sole. Ma la centralità della figura materna, che può dirsi un vero e proprio topos nei ricordi d’infanzia delle scrittrici, in Romanzo di figure appare giustificata soprattutto dal suo rivelarsi a posteriori come, direbbe la Woolf, il «centro della vasta cattedrale dell’infanzia», la testimone per eccellenza del tempo trascorso, perduto e ritrovato, colei nel nome della quale anche Lalla Romano si è assunta il doloroso compito di risalire l'ardua china delle memorie per approdare a una più autentica conoscenza di sé: Nel modo della scrittura i ritorni sono un tempo fondamentale, immobile. [...] Si sa, e lo ridiciamo, che siamo fi-

gli delle nostre infanzie. Ed esse sono inesauribili. Non dobbiamo provar rammarico per aver perso tempo a rievocare. [...] Un’infanzia eterna presiede ogni vita. [...] Amare la memoria è anche amare il futuro. Addio, Ponte Stura, Stura di Demonte, Occitania. Care memorie, perché

vere, cioè inventate. Storia, geografia: non prigioni, ma libertà. Non c’è conclusione, perché il tempo continua. Pro-

cede e ritorna. Tale è il ritmo (Ritorzo a Ponte Stura, pp. 1057127).

123

Tutte signore di mio gusto

È quindi propria di pressoché ogni trazche infantile di autobiografia femminile anche la concezione affettiva e quasi antropomorfica dello spazio che la Romano rivela, e tanto più nel suo libro fotografico: dove il «montaggio» segue per forza di cose un ordine associativo e sussultorio, guidato dalla contiguità degli spazi che la memoria ripercorre, molto più che non un ordine paradigmaticamente obbediente all’astrazione del tempo; e dove si perfeziona e culmina la tecnica, da sempre propria all’autrice, di un’esposizione a flash vieppiù depurati dall’elemento narrativo. Così come è generosamente riscontrabile nella letteratura autobiografica femminile l’emboîtement delle coordinate del romanzo

storico, o

della storia epocale, entro quelle del romanzo di formazione o della storia di un singolo, come la stessa Romano testimonia!°. Ma in nessun altro libro di memoria (fa eccezione che io sappia solo il mirabile I /uoghi di Marguerite Duras) una scrittrice aveva ancora utilizzato con tan-

ta efficacia l’«aide-mémoire» della fotografia, integrandone i potenti effetti a quelli delle immagini archiviate nella mente e nel cuore, come ha fatto lei: inventando, con la sua «autobiofotografia», quasi un nuovo genere letterario. «Una fotografia è solo un frammento», scrive ancora Susan Sontag, «e, col trascorrere del tempo, i suoi ormeg-

gi si staccano. Va allora alla deriva in un dolce e astratto passato, aperta a ogni sorta di lettura.» Cosa che non avviene, si potrebbe precisare, allorché uno scrittore o una scrittrice la integri sapientemente nella propria scrittura autobiografica: convertendola dunque, faute de mieux, a 124

I romanzi di figure di Lalla Romano

scrittura ma in compenso dotandola di un futuro e di una rotta; e riconoscendola così, a dispetto della sua indole di-

chiaratamente luttuosa, quale metonimia di quel passato che Simone Weil"! indicava, senza incertezze, come l’esi-

genza più vitale dell'anima umana.

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Tutte signore di mio gusto

Note Lalla Romano, La treccia di Tatiana (con foto di Antonio Ria), Torino, Einaudi, 1986, p. V, corsivo nel testo.

Cfr. Lalla Romano, rispettivamente: La penombra che abbiamo attraversato [1964], Torino, Einaudi, 1994; Una giovinezza inventata, ivi, 1979; Le parole tra noi leggere [1969], ivi, 1996; L'ospite, ivi, 1973; Inseparabile, ivi, 1981; Nei mari estremi, Milano, Mondadori, 1987. Da alcuni di questi libri, oltre che da Maria [1953], in Opere, vol. I, Milano, Mondadori, 1991, dove il romanzo occupa le pp. 399-522,

si citerà in seguito indicando direttamente nel testo il riferimento alla pagina corrispondente. Lalla Romano; Ritorno a Ponte Stura, Torino, Einaudi, 2000, pp. 5-6.

Cfr. Cesare Segre, Introduzione a Lalla Romano, Opere, vol. I, cit. pp. XI-LVIII.

Lalla Romano, rispettivamente: Io e l’immagine, in Un sogno del Nord, Torino, Einaudi, 1989, pp. 222-223, p. 223; I/ rzi0 primo romanzo di immagini, ivi, p. 221; Quando le parole passano attraverso allo sguardo, intervista a cura di Giulio Nascimbeni per il «Corriere della Sera», 7 maggio 1986; Romanzo di figure, cit., p. VI. Cfr. anche Ead., Quando una fotografia diventa testo, in «Infinito», 20, ottobrenovembre 1986, p. V.

Cito sparsamente dal volume Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze, a cura di Antonio Ria, Milano, Mondadori, 1995. Si veda altresì Flavia Brizio-Skov, La scrittura e la memoria (Lalla Romano), Milano, Selene Edizioni, 1993.

Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società [1977], trad. it. di Ettore Capriolo, Torino, Einaudi, 1978, p. 6. Si

farà quindi riferimento a Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1980.

Virginia Woolf, Imagini del passato [1939-1940], in Momenti di essere. Scritti autobiografici inediti [1976], trad. it. di Adriana Bottini, Milano, La Tartaruga, 1977, pp. 77-172, p. 102. Stefano Agosti, L'immagine, la scrittura, in «Libri nuovi», VIII, giuPROUST p.di 126

I romanzi di figure di Lalla Romano

10. Cfr. Lalla Romano, Nota 1985, in Tetto murato [1957], Torino, Ei-

naudi, 1985, pp. 155-157, p. 156: «Non era indifferente, nel romanzo, la circostanza storica [la resistenza]: anzi, la possibilità dell’inti-

mismo era offerta proprio da quel viver[n]e ai margini». 11. Cfr. Simone Weil, La prizza radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l'essere umano [1949], trad. it. di Franco Fortini, Milano, SE, 1990.

127

9. JOYCE LUSSU, L’ECCENTRICA

Partiamo dal presupposto — così condiviso e unanime da non aver mai suscitato la benché minima obiezione — che Joyce Lussu sia stata un’eccentrica e che lo sia stata, per così dire, a tutto tondo. Lo è stata infatti come militante,

per la peculiarità delle sue pratiche e la singolarità del suo stile di donna antifascista e di donna «d’azione». Lo è stata come storica e come letterata, incline com'era a confon-

dere i due versanti della propria scrittura e a trascenderne le rispettive specificità, promuovendo con forza una terza e dirompente forma scritta di testimonianza e di partecipazione politica. Lo è stata come traduttrice, visto che ha tradotto esclusivamente poeti-guerriglieri senza neppure, il più delle volte, conoscerne la lingua, ma servendosi assieme a loro di un’interlingua di mediazione e di incontro. Lo è stata come pensatrice e come conversatrice (ne fa fede fin dal suo titolo l’intervista di Silvia Ballestra Urza vita

contro"), sbaragliando il suo pubblico — di interlocutori o di avversari, non fa differenza — con posizioni sempre perentorie e sempre franche, che nulla concedevano a ciò che non fosse un dibattere teso e costruttivo, procedente dai fatti e privo di suggestioni. Lo è stata infine come femmi128

Joyce Lussu, l’eccentrica

nista, incarnando e sostenendo un modello di differenza

femminile totalmente emendato dagli aspetti connessi alla relazione materna, e lontano da quell’ordine simbolico nel cui alveo nasceva all’epoca il femminismo europeo. Joyce Lussu è stata dunque un’eccentrica. Ha di volta in volta ignorato, stravolto o deriso le costrizioni imperanti nei vari contesti e ambiti in cui si è trovata a operare, e alle prescrizioni del famigerato canone — di comportamento, di pensiero, di scrittura — ha opposto sempre, unicamente e fermamente la propria invenzione di libertà femminile. Col risultato — è su questo che vorrei riflettessimo — di ritrovarsi oggi fuori dai manuali letterari e di storia nonché fuori dalla memoria dei suoi stessi compagni di lotta, dove dovrebbe a rigor di logica occupare una postazione centrale e dove invece si ritrova marginalizzata, assieme ad altre e non meno radiose figure di donna, per l'incapacità che l’antifascismo come pensiero politico ha rivelato e rivela nell’accogliere «l’altra» (ci istruiscono su questo le ricerche di numerose storiche”). La domanda che pongo con urgenza, almeno da quando imperversa il discorso sul canone il che vale a dire essenzialmente dal 2000, è insomma quanto costi l’eccentricità o quanto sia conveniente il non «pagare il canone», come preservare insieme eccentricità e autorevolezza, e se sia possibile coniugare l’essere «fuori» (fuori dal centro, fuori dal canone) con un esserci comunque pieno, politicamente interpellabile e culturalmente imprescindibile. Pongo dunque il 2000 come anno zero, a partire dal quale la questione non si può ignorare. Giacché prima di

quell’anno essa appare, in Italia almeno, tutto sommato ancora implosa, sebbene annunciata con forza da due libri 129

Tutte signore di mio gusto

importanti, apparsi proprio alle soglie del nuovo millennio, come quello di Teresa de Lauretis sui Soggetti eccentrici e quello della comunità filosofica di Diotima su I/ profumo della maestra’. Il primo dei quali coronava almeno due decenni pieni di studi di genere, tanto che la teorizzazione di un punto di vista eccentrico rispetto al monopolio maschile eterosessuale del potere/sapere, col suo seguito di pratiche di dislocamento politico e personale e di attraversamento di confini fra identità e comunità sociosessuali, nonché fra corpi e discorsi, poteva dirsi compiuta. Mentre il secondo profilava nitidamente un modo femminile di fare tradizione, o di garantire la trasmissione, fondato su saperi (rigorosamente plurali, capaci perciò di decentrare l’asse lungo il quale il sapere patriarcale è disceso fin qui) che, oltre a non trascendere l’esperienza e la pratica, e a implicare l’esserci in prima persona e la relazione fra due, soprattutto prevedono la creazione di autorità indipendente dal potere. Ma restava da elaborare e, lo ribadisco, soprattutto in Italia, l’eccentricità come fatto strettamente letterario, vale a dire la posizione femminile negli specifici confronti dell’eredità culturale e della tradizione dei testi. Mentre si era dunque riflettuto già molto, in termini teorici, sulla posizione di un soggetto non contemplato dal discorso egemone, «eccentrico» rispetto al sistema dominante di rappresentazione, e mentre in parallelo il concetto di genealogia (elettiva meglio che anagrafica) accennava a sostituirsi a quello di tradizione e dava i suoi frutti sul terreno delle pratiche politiche, delle analisi storiche e dei magisteri filosofici, rimaneva ancora in sospeso un 130

Joyce Lussu, l’eccentrica

altro ordine di problemi, ben riassunto appunto dalla questione (non di poco conto, a giudicare dalla copiosa letteratura che le si è sviluppata a ridosso) del canone letterario. Si intende con ciò come è ben noto quella lista — o catalogo, biblioteca, florilegio, crestomazia — di testi autorevoli, immortali ed eccellenti, capolavori di relativi autori

eminenti, in cui ogni cultura riordina le proprie millenarie letture, privilegiando quelle di cui ritiene doverosa la salvaguardia e la conoscenza e affidando loro il compito di strutturare l’arte del pensiero e della memoria. Una lista selettiva, esito di un confronto agonistico e di una vera e propria lotta fra i testi, nella quale la cultura dominante si afferma e si riconosce nel momento stesso in cui espelle, reprime o marginalizza ciò che non le è omogeneo e conforme. Si trattava, e si tratta tuttora, di mettere in relazione questo ordine di idee con l’esistenza di opere che, pur senza stimarsi indegne del canone, vanno a collocarsi al di fuori di esso, spesso programmaticamente, talvolta volentieri, e che ci interessano pertanto come campioni di eccentricità: un'eccentricità, però, non semplicemente rappresen-

tata o messa a tema ma teoreticamente assunta come postura, capace di ripensare a fondo la fragile topologia della periferia e del centro. Era ed è dunque il caso di domandarsi che cos’abbiano a che fare col canone — elitario,

autoritario, fondato su un conflitto cruento per la sopravvivenza e la supremazia - i testi delle scrittrici: che aspirano a conciliarsi in una comunità di scritture piuttosto che a farsi egemoni e belligeranti, a valorizzare scambi ed equilibri, a costruire — come voleva Virginia Woolf — «pensieri 131

Tutte signore di mio gusto

di pace»', e a stabilire reciproche connessioni ai fini di una più efficace definizione di sé. Come operino, di conseguenza, la storiografia e la critica che questi testi accompagnano, persuase — come esse appaiono e come sostiene brillantemente Carolyn Heilbrun — che «nessuna critica risult[i] più offensiva di quella che loda un autore solo condannandone un altro, come se il giudizio critico fosse un’altalena per cui la fama di uno non può salire se non scende quella di un altro». Come si coniughi, quindi, l'ideologia del canone con la libertà femminile, che è relazionale e non individualistica, e nel regime della quale il processo di individuazione non avviene per separazione ma per mediazione con l’altra. E come la storia, sinonimo di durata e contrario di assenza, si concili con la storicità

originale della «tradizione» femminile, marcata da difetti di continuità, mancamenti e sottrazioni e che a ogni passo tradisce il passato mentre lo riconosce e gli è riconoscente. In che modo, ancora, lo spazio del centro possa continua-

re ad esercitare le sue attrattive dal momento in cui è stato pronunciato un persuasivo elogio del margine, riconosciuto come «luogo di creatività e potere», di «apertura radicale» e di «profondità assoluta». Quanto, infine, la domanda di una più generale decentralizzazione, non disgiunta da quella di diversità e democrazia, che le donne da più parti inoltrano, possa far presa su uno stato di cose fondato su uniformità, concentrazione e militarizzazione!.

È in gioco, evidentemente, la dimensione esplosiva del «fatto letterario» femminile e della relativa civiltà letteraria, che non sono separati dall’esperienza della vita e che facilmente giungono a misurarsi con il mondo, autoriz132

Joyce Lussu, l’eccentrica

zandosi alla critica verso qualsiasi autorità e convertendosi fra le altre cose in una efficace contestazione delle strutture di potere. Ed è in gioco altresì un’eccentricità che, acquisita in origine per forza di cose, le scrittrici (e nondimeno le loro lettrici) hanno rovesciato in occasione di e-

powerment e di autodescrizione: riservandosi la libertà dei propri atti di riconoscimento e insieme di riconoscenza, la mobilità delle proprie identificazioni, e l’assunzione di modelli non «canonici» ma semmai «canonizzanti», non

obbliganti (né scontati), ma «costruiti secondo forme di trasmissione, memoria, selezione e cancellazione che uti-

lizzano ampiamente il meccanismo agiografico»”. Salvaguardando così la fluida traccia di un percorso di desiderio, e attivando il movimento delle passioni accanto a quello del giudizio. Non ci sono, o almeno non appaiono, ampi margini di

sutura fra il discorso che lavora sul e dentro al canone e il discorso, o esperienza, «del fuori»: sintagma con cui Foucault non per caso indicava un linguaggio e un pensiero «che si tiene fuori da qualsiasi soggettività per farne [...] scintillare la dispersione», e traduceva come «la messa a nudo del desiderio nel mormorio infinito del discorso»È. Esperienza violenta e sofferente, di persecuzione e di strazio e tuttavia l’unica, a suo vedere, in cui il discorso possa prefigurare ancora un proprio futuro. Cito Foucault perché ho l’impressione che anche l’agire e il pensiero femminile (e non solo quello di Artaud, Holderlin o Bataille, a cui l’autore si riferisce) gli possa essere, almeno in parte, debitore di questa definizione, nella quale a grandi e vertiginosi tratti si delinea l’esperienza della marginalizzazione 155

Tutte signore di mio gusto

e discriminazione delle donne nella storia (culturale, nella fattispecie) e nel suo canone. Esperienza, l’autore è esplicito, dai costi altissimi; allo stesso tempo però, preciserei, di altissima e incalcolabile portata, alla quale a quanto pa-

re a molte scrittrici è parso valer la pena di andare incontro: metaforicamente «pagando il canone», appunto, pur di ottenere, a differenza di quanto accade nella vita quotidiana, una sfera di libertà di espressione e di pensiero. E pur di garantirsi, lavorando in modo inedito sul confine cruciale fra passato e futuro, un presente dotato di facoltà creative e trasformative, che sappia leggere il passato come latenza del presente o — secondo l’utopia di Elizabeth Grosz — «potenzialità di essere altrimenti», e immaginare il futuro come imprevisto e apertura, «molteplicità di posizioni in cui la scrittura può avvenire e avverrà». Il che è senz'altro quanto le scrittrici del Novecento, e Joyce Lussu fra le prime, nel loro insieme testimoniano, incorag-

giando a modalità eccentriche anche la nostra lettura e la nostra teoria.

Ho voluto porre e porre in chiaro questo presupposto perché altrimenti non saprei personalmente far emergere tutta l’importanza della posizione di Joyce Lussu nella storia, la posizione intendo dire che lei stessa si è data e che provocatoriamente ha mantenuto sempre e in tutto, di cui. non a caso solo negli ultimi anni — grazie cioè all’ampia riflessione in corso intorno al canone letterario — il mondo degli studi sembra realizzare la portata. Recenti pubblicazioni infatti illuminano finalmente a giorno una personalità enorme e insieme problematica come la sua, e ne restituiscono la fisura in ogni sua implicazione interpellando 134

Joyce Lussu, l’eccentrica

fermamente chi legge sulle numerose questioni che la Lussu stessa impone di aprire, e che qui ripercorro in breve secondo la mia percezione!. Di fronte a Joyce Lussu si pone per cominciare il problema, nevralgico sul piano storico, del posto da lei occupato nella cosiddetta anagrafe del dissenso: il problema cioè di un antifascismo, quale quello femminile, poco appariscente e poco clamoroso ma (ovvero forse poiché) infinitamente vitale, in quanto votato alla costruzione di reti di colleganza insieme politica e amicale e motivato da ragioni anche sempre civili, etiche e culturali. Secondo una visione, insomma, della politica profondamente innervata nella vita, come dimensione connessa con forza ai vari aspetti dell’esistere fra i quali non si escludono, e anzi campeggiano, l’affettività, l’amore e il desiderio. Portando poi la riflessione più verso la scrittura, occorre che ci interroghiamo senza indugi sul nesso fra storia e soggettività, ovvero fra l’essere donna e l’agire politicamente e pubblicamente. Un nesso che la Lussu non solo incarna ma replica e fa funzionare nei suoi libri, laddove la connivenza fra storiografia e autobiografia sembra incoraggiare per tempo il metodo dell’approccio biografico (la cosiddetta «Ego-Histoire») oggi prediletto nella storia delle donne o storia di genere". Facendo quindi direttamente centro sulla scrittura di Joyce Lussu, è il caso innanzitutto di enucleare con somma cura il senso su cui si sostiene il suo lavoro di traduttrice: che va nella direzione del tradurre inteso come un «coesistere alla pari» con la lingua, e ancor meglio con la vita e l’esperienza, dell’altro, che la Lussu ha praticato con 135

Tutte signore di mio gusto

passione e coerenza. Lo attesta al meglio la schiera degli eletti fra i «suoi» poeti: Hikmet, Ho Chi Minh, Agostinho Neto, e più in generale «turchi e curdi, angolani e mozambicani, eschimesi e capoverdiani, serbi, danesi e alba-

nesi, vietnamiti e afroamericani»: davvero un «allargare la casa», come amava dire lei stessa, fino a comprendervi il mondo; e davvero un’equilibrata posizione interculturale in tempi, quali quelli suoi, ancora non sospetti e in cui si era lungi, come lei dimostra, dal modulare il planctus sulla morte di una disciplina chiamata letterature comparate. © Procedendo ad affrontare la poetica, la prosa e la lingua della Lussu scrittrice, si torna quindi a mettere nitidamente a fuoco il nesso fra letteratura e politica: la volontà, vale a dire, della letteratura della Lussu di farsi politica #7 quanto letteratura, di porsi come competenza utile («utile a una classe, a un popolo, a una sola persona; utile a una causa» — nelle parole di lei) e facoltà trasformativa, in grado di modificare il presente e di farsene interlocutrice autorevole. Tutto collabora a tal fine, come ben è stato argomentato in pagine che sembrano illuminare l’odierna pratica politica della lingua corrente: una lingua piana e discorsiva, senza compiacimenti e senza retorica; un’oppor-

tuna agilità nel sorvolare i confini dei generi letterari e particolarmente quello fra narrativa e saggistica; un procedimento, detto «riuso narrativo», che alla stregua della formularità nella narrazione orale rinuncia al lusso della variazione e si attiene soprattutto all’efficacia e alla chiarezza comunicativa; infine un elemento che si direbbe ex-

tratestuale e non lo è quale la passione — la passione della 136

Joyce Lussu, l’eccentrica

verità e della giustizia innanzitutto — che infiamma e vivifica il pur disadorno dettato. Per chiudere il cerchio, e mettendo a fuoco la personalità della Lussu in quanto storica e storiografa, osserveremo come a ridosso di lei occorra per forza di cose far cadere Îa distinzione tutta teorica fra il fare storia e l'essere storia, assieme a quella fra pratiche di vita e pensiero come pratica. Laddove ci accorgeremo altresì che il «fare storia» così come il «fare letteratura» della Lussu si rivelano pratiche femminili nonché modalità del suo costituirsi come soggetto politico, mentre lo specchio a faccette della sua personalità assai coerentemente si ricompone. Non dimenticheremo però quell’aspetto particolare della militanza della Lussu che riguarda la sua partecipazione al movimento delle donne in Sardegna, e più in generale la sua integrazione nella storia e nella cultura sarda: aspetto che ci consente di chiudere sull’immagine, bellissima, di una Lussu «Sibilla barbaricina» disegnata di recente, e capace di esprimere una condizione femminile specificamente sarda, non assimilabile alle altre del Mediterraneo, in cui la Lussu si era riconosciuta. Figura di donna che conosce le erbe benefiche e l’arte del guarire, che cerca di prevenire le violenze e che usa il suo sapere per il bene e la pace, quella della Sibilla sigilla dunque il ritratto difficile e intenso di Joyce Lussu alla quale studi recenti rendono, come dicevo, onore e giustizia. Cosa che avviene pur mentre si rilancia senza scioglierlo — e anzi, direi, più che mai drammatizzandolo — il dubbio un po° amaro che ponevo all’inizio: se l'originalità, l'eccellenza, la

libertà, che per definizione vivono nello scarto e non nel 137

Tutte signore di mio gusto

canone, possano ciò nonostante circolare nel mondo senza ostacoli, ed essere percepite per quello che sono. O se al contrario gli eccentrici, e le eccentriche ancor meglio,

debbano sempre chiedere il permesso per entrare nei manuali, fornire prove della propria attendibilità, e documentare con rigore la propria grandezza.

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Joyce Lussu, l’eccentrica

Note . Cfr. Silvia Ballestra, Joyce Lussu: una vita contro. Diciannove conversazioni incise su nastro, Milano, Baldini&Castoldi, 1996. . Cfr. per tutte Patrizia Gabrielli, Identità mutabili: donne nell'antifascismo, in Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Cagliari, Cuec, 2006, pp. 97-110. . Teresa De Lauretis, Soggetti eccentrici, Milano, Feltrinelli, 1999; Diotima, I/ profumo della maestra, Napoli, Liguori, 1999. . Virginia Woolf, Pensieri di pace durante un'incursione aerea [1940],

trad. it. di Livio Bacchi Wilcock e Juan Rodolfo Wilcock, in Per le strade di Londra, Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 148-152. . Carolyn G. Heilbrun, Virginia Woolf e James Joyce, in La madre di Arnleto e le altre [1990], trad. it. di Antonella Leoni, Milano, La Tartaruga, 1994, pp. 51-74, pp. 51-52.

. Ho fatto riferimento a Diotima, Approfittare dell'assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Napoli, Liguori, 2002; bell hooks, E/o-

gio del margine [1991-1996], trad. it. di Maria Nadotti, Milano, Feltrinelli, 1998; Vandana Shiva, Bropirateria. Il saccheggio della natura e dei saperi indigeni [1997], trad. it. di Giovanna Ricoveri, Napoli, Cuen, 1999. . Liana Borghi, Prerzessa, in Canonizzazioni (Grafie del sé II), a cura di Monica Farnetti, Bari, Adriatica, 2002, pp. 15-17, p. 15. . Michel Foucault, I/ pensiero del fuori [1986], trad. it. di Vincenzo Del Ninno, Milano, SE, 1998, pp. 17-19. . Elizabeth Grosz, Storie di un futuro femminista [2000], trad. it. di Paola Bono, in Di relazione in relazione, «DWF», 2-3, 50-51, aprile-

settembre 2001, pp. 81-85, p. 85. 10. Ho presente in particolare il volume Joyce Lussu. Una donna nella storia, a cura di Maria Luisa Plaisant, Cagliari, Cuec, 2003 (ai cui

contributi, rispettivamente di Elisa Signori, Maria Teresa Sega, Antonella Gargano, Gigliola Sulis, Patrizia Caporossi, Nadia Spano, Antonietta Langiu, Joyce Mattu, faccio riferimento nel seguito del discorso), oltre a La vita è infinita. Ricordo a più voci di Joyce Lussu, a cura di Andrea Livi, Fermo, Livi, 2000, e a Joyce Lussu: il più rigoroso amore, a cura di Francesca Consigli, Firenze, Alinea, 2002. 159

Tutte signore di mio gusto

11. Penso agli studi di Luisa Passerini, particolarmente a Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, 1988, e al bel volume collettivo Altre storie. La critica femminista alla storia, a cura di Paola Di Cori, Bologna, Clueb, 1996.

12. Joyce Lussu, I/ turco in Italia (ovvero l'italiana in Turchia). Una biografia di Nazim Hikmet, Ancona, Transeuropa, 1998, p. 22.

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10. UNA LETTURA DI ELSA MORANTE

Così piena di splendore e di contraddizioni come si presenta, la scrittura di Elsa Morante ha attirato su di sé in

modo sempre problematico l’attenzione e l’amore di lettori e lettrici «comuni» (come li voleva Virginia Woolf) o meno comuni. Si colloca certo fra questi ultimi Anna Maria Ortese, una scrittrice che alla Morante deve qualcosa (o forse più di qualcosa) della propria grandezza, e che su di lei si è espressa varie volte ma sempre come er passant. «Ho ammirato immensamente la Morante. Ricordo di averla vista per la prima volta a Roma, prima della guerra, ad una fiera letteraria. Mi è apparsa bellissima». «La Morante, una montagna, un genio. La critica maschile teme il genio femminile, quando è assoluto. Una donna, quando è grande scrittrice e sa andare in fondo alle cose, mette la sua mano su dolorose e mai rimarginate ferite. Amo le grandi scrittrici.»! Soltanto una volta, che io sappia, si è diffusa parlandone per lettera con l’amico Pietro Citati, e tanto ampiamente che quella lettera, inedita, e datata 14 gennaio 1986, da sola basta e avanza a compensare ogni sua precedente riservatezza. Eccola. Se leggerà Menzogna e sortilegio [...] capirà perché ne sono 141

Tutte signore di mio gusto

rimasta altamente soggiogata. Proporzioni mostruose. Ma non solo nella misura esterna del romanzo, quanto nel suo

tempo interiore. Come un mondo intravisto al lume debole, oscillante e magico di una candela, tutte le sue ombre sono in moto, crescita e diminuzione continua. A volte si al-

zano fino a diventare montagne, o si abbassano quasi a sparire. C'è una perfezione — di certi particolari — assoluta. Sembra il libro — la storia — del povero e feroce mondo femminile, il mondo antico, che vive tuttora, dell’Italia che ha

mille anni di tenebra [...]. Se ne esce come da una grotta infinita. Capisco che possa destare grandi riluttanze. [...] Dopo Menzogna e sortilegio, L'isola di Arturo è un luogo, e una struttura, dove l’aria aperta circola ampiamente. Però, è anche vero che c’è un congegno, una chiusura invisibile; l’architettura del libro è fredda. Mi colpì, e commosse, al-

l’inizio, quell’accenno alla stella Arturo. Forse, pensavo, Elsa Morante deve aver ricordato (ricordando la stella Arturo) quel mio racconto di Angelici dolori, Il capitano, dove una ragazzetta si accorge di questo astro, e lo sceglie come confidente. Pensiero orgoglioso e malinconico. Perché in quella novella io avevo appena suggerito l’idea di una com-. plicità con l’ordine celeste, mentre nel suo romanzo la Morante aveva lei stessa creato un ordine superiore, dei celesti comportamenti. Tutto qui. Di Elsa Morante so bene — ho saputo a suo tempo, ho inteso — la vita come (quasi) negazione o rovesciamento di quell’ordine che le era apparso all’inizio. Ma proprio per questo avvertivo quella sua vita come tragica e penosa. Perché la vedevo (solo la vita, non le opere) inadeguata a quelle. E questo, poi, dev'essere stato il suo profondo patire. Di 142

Una lettura di Elsa Morante

capire che l'ordine le era impossibile. Io stessa, da anni, vado sperimentando la difficoltà della coerenza, di serbarsi fedeli a una specie di giuramento fatto all’Invisibile. Di più non saprei dire. Ma follia e rivolta le intendo, le vedo ammissibili, solo in questo senso: di quasi militare obbedienza a un fanciullesco mite giuramento fatto, in passato, alla stel-

la [...]. Elsa ha creduto nella inesistenza, nel miraggio, ha visto terra dove non era. Questa, per me, la sua tragedia.

Un’anima perduta.

È una lettera preziosa, come ben si capisce. Anche perché illumina, ancor più potentemente di altre pagine note della Ortese, la sua personale, straordinaria vicenda di scrittura e di pensiero; e perché alzando così tanto la posta incoraggia ad andare più a fondo sul problema del disamore o dell’amore, anche profondo ma quasi mai senza riserve, sempre un po’ reticente e qua e là recalcitrante che scrittrici e lettrici, come dicevamo, le hanno riservato e le riservano di norma. Prendendo la lettura della Morante contenuta in questa lettera come specchio della mia, eccomi a mettere in gioco io stessa l’adesione intensa ma non intera che riservo all'opera della Morante, e il mio chiedermi da tanto tempo cosa c’è che non va. Perché quello che «va», invece, lo so bene: Menzogna e sortilegio, La Storia, alcuni saggi e poesie, molti racconti e uno sguardo sul mondo già in partenza sapiente e pieno d’amore e di dolore. Tanto che la stessa Ortese, come accennavo, ne ha fatto la sua mae-

stra. E lo dico pensando non soltanto al riconoscimento che pubblicamente le ha reso, nelle dichiarazioni senza 143

Tutte signore di mio gusto

mezze misure sopra riportate; ma riferendomi in particolare a due fatti di scrittura. Il primo dei quali è il «metodo», il modo concreto di comporre romanzi a cui la Ortese sono convinta sia arrivata proprio prendendo esempio

dalla Morante, e particolarmente dall’autrice di Merzogna e sortilegio. Intuisco infatti che le prime prove dell’Iguara e il brogliaccio da cui discendono Poveri e semplici e Il cappello piumato — insomma le scritture romanzesche che nascono nell’alveo dei primissimi anni Sessanta — possono essere precedenti alla lettura del primo romanzo della Morante: un romanzo il cui midollo narrativo è tutto mostrato nell’indice, nella partitura dei capitoli e dei loro singoli e rispettivi titoli. Un modo, questo, di modellare la materia, di cominciare a trattare l’intrattabile «qualcosa» che si va a narrare (qualcosa che è eccedenza, oscurità,

terribilità), e di dare a questo qualcosa con molta fatica e delicatezza una forma e una misura. Un modo, guarda caso, che la Ortese comincia ad applicare all’Iguaza nell’edizione in volume, che trionfa addirittura nel Porto di To-

ledo, e che di lì in poi non verrà abbandonato mai più. È estremamente significativo infatti che, di ogni romanzo pubblicato e scritto dall’Iguara in poi, le tracce più consistenti del processo compositivo che la Ortese ha lasciato si ritrovino sempre nell’indice: del Porto di Toledo soprattutto, ma nondimeno del Cardillo addolorato e di Alonso e i visionari. E che tali indici si dimostrino variati e lavorati a non finire, come se proprio da essi fosse incominciato, di caso in caso, il lavoro di stesura e di elabora-

zione. Come se la filigrana di ogni romanzo rispecchiata nell’indice fosse — e probabilmente lo è — il luogo vero del144

Una lettura di Elsa Morante

l'invenzione. Ne do solo qualche esempio, relativo al Porto di Toledo. RICORDA RASSA, D’ORGAZ, PAPASA E ALTRE FIGURE DEI SUOI ANNI MARINI Descrive la sua casa nella città borbonica, e la sua solitudi-

ne in detta casa che era situata davanti ai cancelli del porto. Apasa e Mamota. Primi interrogativi della mente che sogna

Fuga e morte in navigazione di Emanuele Carlo, detto Rassa, e conseguente sommovimento del Tempo Sensibile. Ha inizio l'Era della Desolazione. «Le Journal de l’Ile» Breve (e spezzato) su una casa rosa, detta delle Cento Albe, e su un cittadino solitario che chiama il Finlandese. [...] Nel silenzio del porto

RICORDA LA PRIMAVERA TOLEDANA

Breve su un’apparizione, rabbia e mormorii davanti ai cancelli del porto. Ancora luce e premonizioni Si reca di nuovo [...] alla Casa Rosa, e vi trova un finlande-

se demente. Lemano, subito apparso, l’accompagna con bontà lungo la Via degli Orti RICORDA ALTRE NOTTI LIBERTÀ TERRORI E UNA IMMORTALE DOLCEZZA (ESPARTERO)

145

Tutte signore di mio gusto

Dove si reca, col Bel Figlio, a un appuntamento con la Persona di luce. Dove, in Plaza Tre Agonico, vede arrivare la Bambinetta, o Persona di luce, il di lei padre vacuo e un

atroce Lemano che non la saluta

Brevissimo su una pace, o sosta al dolore, del tutto insperata quanto gradevole, dove sperimenta uno scrivere più inerte, e intanto fa giugno Morte di Belman, e casuale incontro con l’ultimo Espartero, 0 incarnazione del mare. Gli Uccelli Turchi. Fine di Toledo.

Ed ecco, a riscontro, alcune sezioni dell’indice di Mexzogna e sortilegio. Introduzione alla storia della mia famiglia Una sepolta viva e una donna perduta Santi, Sultani e Gran Capitani in camera mia (S’annuncia il misterioso Alvaro)

Gli ultimi Cavalieri dalla Trista Figura Progetti per l'Estero. Primo saluto del Cugino ad Anna Nuovi sconclusionati colloqui degli amanti acerbi. Si riparla dell’Estero con l'intervento di Manuelito il Matador, dello Zarevic, ecc. La cicatrice

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Una lettura di Elsa Morante

Il Cugino recita versi oscuri Entra in scena il butterato. Incominciano le sue millanterie

Catastrofe provocata da un Anonimo. Il monocolo misterioso. Una bella donna scacciata dalla città INVERNO Il butterato ha nuove sfortune in amore. [...] Breve e tra-

scurabile apparizione d’una finta monaca S’incomincia con una vistosa lode di Elisa. Di nuovo la medesima signora del capitolo precedente. Una serata all’Opera. L’«ambulante» e il brutto Caboni Amare visite e amara strage

Epilogo seguito da un «Commiato» in versi).

Dove non solo, come si vede, è presente un’analoga ossatura e maniera di operare tecnicamente una sintesi,

ma anche un’analoga scelta di stile (fra visionario e fiabesco), di tono (che vorrebbe essere distaccato e non è) e di

atmosfera (sempre un po’ allucinata, tutt'una coi personaggi doloranti che ospita): complice, si suppone, anche l'ambientazione mediterranea e meridionale di entrambi i romanzi, assieme al fatto saliente che l’anima delle due trame è un rapporto madre-figlia in cui si concentra il

senso di una famiglia e che contorna potentemente la 147

Tutte signore di mio gusto

vicenda della narratrice protagonista. E assieme altresì al fatto che, in entrambi i casi, si tratta di narrare in parallelo un idillio tormentoso ovvero una terribile storia di nonamore, quale è quello di Edoardo per Anna in Merzogna e sortilegio come pure quello di Lemano per Toledana-Figuera nel Porto di Toledo: due storie, da questo punto di vista, allo stesso modo dolorose, quasi intollerabili per l’infelicità di cui traboccano e che arriva a invadere lo spazio della ricezione. Il secondo fatto di scrittura che lega la Ortese alla Morante passa invece, rispettivamente, per I/ cardillo addolorato e per La Storia ed è presto detto: poiché il fanciullo dalla penna di gallina della Ortese, uccellino e caprettino e spirito del bene e del male, creatura colpita e stupita, onnisciente e balbettante e capace di commuovere più di ogni altra delle molte sue, è invenzione che sembra «prendere il volo» a partire dall’Useppe testualmente «uccellino» nonché «caprettino» della Morante, esserino dal «linguaggio rotto e inarticolato» e dallo sguardo pieno di «orrore» e di «stupore attonito»', alla cui morte risponde l’inebetito e furioso pianto di Iduzza così come, alla morte del «pennuto» napoletano, fa seguito lo struggente impazzimento di Elmina: Ida prese a lagnarsi con una voce bassissima, bestiale [...]. Ida prese a dondolare in silenzio la propria testolina imbianchita; e qui le sopravvenne il miracolo. Il sorriso, che oggi aveva aspettato inutilmente sulla faccia di Useppe, spuntò a lei sulla sua propria faccia [...]: la ragione, che già da sempre faticava tanto a resistere nel suo cervello incapace 148

Una lettura di Elsa Morante

e pavido, finalmente aveva lasciato dentro di lei la sua presa. [...] A volte, con un trasognato mormorio, ripeteva fra sé delle sillabe incerte, che parevano raccolte da qualche idioma onirico o dimenticato. Coi ciechi, coi sordomuti è possibile comunicare; ma con lei [...] non c’era più comu-

nicazione possibile. [Donna Elmina] fissava la scatola. Improvvisamente si piegò, la vuotò (di un poco di paglia), sempre muta. Poi andò su e giù in preda a una inquietudine terribile, come se stesse per morire, e infine gettò un grido di colomba che trova vuoto il nido. Gridò più volte, con meraviglia e disperazione (oppure orrore?) [...]. Per vario tempo, andò in giro cercando dove lo avessero portato — fin quando non ritrovò la penna di lui sotto una pietra, molto deteriorata, e da allora donna Elmina divenne muta?.

Nel mentre che all’uno come all’altro dei due fanciulli chiunque legge lascia il suo cuore, e ne conserva una pena di cui è fatica dar conto. Tuttavia la stessa Ortese, che tanto ha appreso da questa «maestra d’armi» alla quale la unisce, certo non per caso, l’amore per gli animali, la passione per la Spagna mistica e barocca, e la compassione per le «sorti mortali dell’individualità femminile», col tempo ha saputo vedere nell’esperienza di lei anche la tremenda contraddizione di cui parla nella lettera, alla quale ora vorrei che tornassimo. In essa, la Ortese configura come due spazi alternativi quelli in cui lei stessa da un lato, e la Morante dall’altro, si sono mosse per quanto riguarda il rapporto con la scrittura. Da 149

Tutte signore di mio gusto

una parte (la sua) mette le voci «obbedienza», «fedeltà»,

«giuramento» nei confronti dell’«invisibile»; dall’altra (quella della Morante) «miraggio», «inesistenza». E «menzogna», potremmo aggiungere, nonché «sortilegio». Visto che per paradosso è caduta nell’inesistenza e nel miraggio proprio colei che, fra le due, si è votata da principio e dichiaratamente a una scrittura realistica. Mentre l’altra, de-

dita a una scrittura giudicata da sempre visionaria, onirica e fantastica, è e sa di essere molto vicina alla realtà. Come

dimostrano, fra molte altre, alcune sue pagine capitali (di Corpo celeste soprattutto) e non per niente citatissime sul

cielo di Raffaello, l’usignolo di Keats, la Tigre di Borges e i problemi in genere della rappresentazione o «espressività». Pagine nelle quali c'è uno scardinamento insistito del senso della realtà e, viceversa, di quanto comunemente le si oppone: immaginazione, rappresentazione, finzione ecc.

Significati che, nella visione della Ortese, come è noto si scavalcano e sembrano capovolgersi non senza rigore ciascuno negli altri e tutti quanti nell’idea famigerata di realtà. La Ortese ha infatti le idee molto chiare. Per lei, la fin-

zione prende letteralmente il posto dell’esperienza della realtà quale «organo» competente, in quanto sguardo e in quanto visione, di ciò che sta dietro e oltre la realtà stessa e comunemente intesa. Mentre quest’ultima, in quanto tale, è altamente screditata. Come dar conto di questa esperienza, di questo pensiero? di questa operazione di verità compiuta a prezzo di un tale stravolgimento di realtà e di

una tale ritrattazione sul concetto di immaginazione? Io non lo saprei dire se non facendo ricorso al pensiero di una donna le cui pagine è dubbio che la Ortese conoscesse e 150

Una lettura di Elsa Morante

abbia frequentato, ma che ciò nonostante consuonano profondamente con le sue. Si tratta di Simone Weil, e in particolare dei testi in cui lavora sul binomio immaginazione/attenzione (L'ombra e la grazia e Morale e letteratura), da cui trascrivo qualche passaggio. L'immaginazione [...] è essenzialmente menzognera.

L'attribuzione di un falso valore ad un oggetto [...] annega la percezione nell’immaginazione. L’apparenza ha la plenitudine della realtà, ma solo in quanto apparenza. Siamo sottoposti a quel che non esiste.

La nostra vita reale è per più di tre quarti composta di immaginazione e finzione.

Esprimere il vero costa fatica. Anche accoglierlo. L'attenzione estrema costituisce nell'uomo la facoltà creatrice.

Esercizio dell’intelligenza, che consiste nel guardare [...]. Che l’attenzione sia uno sguardo. E ancora:

Vi è nella realtà una necessità, una impossibilità che mancano IO

Tutte signore di mio gusto

nella finzione, così come la forza di gravità che ci governa manca sulla tela di un quadro. [...] Un uomo che camminasse per aria come sulle scale e che vedessimo arrivare così fino alle nuvole, poi ridiscendere, potrebbe fare quest’esercizio ogni giorno, ad ogni ora; mai ci si stancherebbe di vederlo. [...] Ma se, sulla tela di un quadro, raffiguro un uomo che sale in aria, ciò non ha nessun interesse. La cosa ha

interesse solo in quanto esiste. L’irrealtà toglie ogni valore al bene. [...] Perciò, essendo la letteratura fatta soprattutto di finzione, l’immoralità ne sembra inseparabile. x Ma non è soltanto nella letteratura che la finzione è generatrice d’immoralità. Lo è anche nella vita stessa. Perché la sostanza della nostra vita è fatta quasi unicamente di finzione. [...] La realtà ci fornisce elementi, [...] ma li avvolgiamo in una nebbia dove i valori sono rovesciati come in ogni finzione, dove il male attrae e il bene annoia. È solo quando la realtà ci urta tanto da destarci un attimo, per esempio a contatto con un santo, [...] che proviamo per un minuto l’orribile monotonia del male o la meraviglia insondabile del bene.

Qualcos’altro ancora ha il potere di destarci alla verità. Sono le opere degli scrittori geniali, almeno di quelli il cui genio è di primissimo ordine, e giunto alla pienezza della maturità. Questi sono fuori della finzione e ce ne portano fuori. Ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere, perché stiamo bene nella menzogna. (7:

Una lettura di Elsa Morante

E d’altra parte: Accettare di essere sottoposti alla necessità.

Se si sospende il lavorìo dell’immaginazione e si fissa l’attenzione sul rapporto delle cose, compare una necessità cui è impossibile non obbedire. L’obbedienza è la virtù suprema”. Vorrei che si capisse, attraverso queste citazioni, qual

è il modo in cui Simone Weil usa la parola «immaginazione» e ne intende il concetto; che cosa devono fare, di

conseguenza, per lei gli scrittori e le scrittrici «geniali», visto che proprio gli scrittori sono coloro ai quali il mondo pensa come ai professionisti dell’immaginazione, quelli che dell’immaginazione hanno fatto la loro competenza e la materia prima del loro lavoro; come, infine, anche la scrittura rientri per lei fra le azioni che si compiono per «necessità» e che richiedono «costrizione» e «obbedienza». Come dunque le cose «di primissimo ordine», il bene e l'eccellenza stiano dalla parte della «realtà», mentre dalla parte dell’immaginazione, o dell’irrealtà, stia la menzogna con tutto ciò che le pertiene.

Questo soprattutto rilevo: che gli scrittori «geniali» sono fuori dalla finzione e ce ne portano fuori, dandoci sot-

to forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore della realtà. Qualcosa che potremmo forse anche chiamare, alla maniera della Ortese, «seconda realtà» (che è però 153

Tutte signore di mio gusto

quella «vera» e «si pone come la prima» e «domina l’eterno» ecc.5), quella che lo scrittore «geniale» non perde mai di vista, rispetto alla quale egli non si disorienta e non si inganna, e a cui la sua «attenzione» (intesa come «sguar-

do», visione e rapporto con l’invisibile) precipuamente attinge. Ma che potremmo chiamare altresì «sortilegio», se ho ben compreso il senso di quelle due parole messe a titolo del primo romanzo della Morante e della relazione che le unisce: che intendo come il senso di un duello mortale fra la comune menzogna della letteratura e la prodigiosa dote di alcuni scrittori e scrittrici che sanno trarne verità, e che per sortilegio appunto, per un processo oscu-

ro e misterioso come un passaggio alchemico, convertono la menzogna in luminosa realtà. Se però la Ortese è rimasta fedele fino all’ultimo, come dice lei stessa nella lettera ma come dimostra del resto tutta la sua opera, al giuramento prestato all’invisibile, ho l'impressione che per la Morante non si possa dire altrettanto (e ben altro infatti quella lettera dice). L’intuizione da scrittrice «di genio» che Menzogna e sortilegio sottintende e di cui è il frutto, sembra si perda infatti nel romanzo successivo, L'isola di Arturo: straordinario, non c’è dubbio, e non a caso lodato come e forse ancor più del precedente, ma nondimeno salutato dai critici come «troppo perfetto», con un che di «artificiale», e addirittura individuato come indicatore eccellente di una scrittura del superfluo (che si direbbe l’esatto contrario della weiliana scrittura della necessità). E tralasciando ovviamente La Storia, scritta in estrema obbedienza al richiamo del presente, all’indignazione che spinge alla denun154

Una lettura di Elsa Morante

cia dei potenti e all'amore che chiama alla difesa degli umili, degli oppressi, dei fanciulli, dei — direbbe la Ortese — «non aventi diritto», anche Aracoeli, pur nella sua straziante bellezza, non sembra derivare completamente dal lavoro di quel dono primigenio di profezia e sortilegio, così come non lo sembra del tutto quello strano e a sua volta grande libro che è I/ 70ndo salvato dai ragazzini. Che sono, lo ribadisco a scanso di equivoci, due libri

importantissimi, da porre senza dubbio nei ranghi più alti della letteratura del Novecento; ma che dentro a questo preciso ordine di grandezza nel quale siamo, e sulla base di quanto sentito e indicato dalla Ortese e dalla Weil, avverto come meno «geniali» di Menzogna e sorti-

legio, scritture cioè meno capaci di reggere la sfida con quanto si è detto — l’invisibile, l’obbedienza, l’attenzione —, meno potenti nel piegare l'immaginazione all’ordine della necessità e come trattenute, o intralciate in ciò, da

forze avverse. Se poi leggiamo le pagine intitolate Su/ rozzanzo — l'unico, praticamente, testo teorico della Morante, esito del-

la risposta al questionario diffuso da «Nuovi Argomenti» nel 1959 fra gli scrittori italiani — troviamo un ulteriore riscontro di questa incertezza. Poiché ad alcune limpide ed essenziali osservazioni se ne alternano altre meno dense e significative, più accademiche e risapute o più salottiere e fuorvianti, e che denotano talvolta anche un po’ di confusione. «Un romanzo falso (e, dunque, brutto) è sempre il risultato di un’evasione dal primo e necessario impegno del romanziere, che è la verità», scrive infatti nei momenti di maggiore lucidità. E ancora: 155

Tutte signore di mio gusto

La realtà corruttibile dev'essere tramutata, dal romanziere,

in una verità poetica incorruttibile. Questa è l’unica ragione dell’arte.

E ancora, e significativamente: L'avventura della realtà è sempre un’altra";

dove traluce la sua intuizione dell’ordine più alto del «romanziere» — lo stesso della Ortese, o di Virginia Woolf, o di Katherinè Mansfield dalla Morante non a caso tradotta negli anni Quaranta e Cinquanta! —, quello a cui si è tenuta pienamente in Merzogna e sortilegio e che però già in Arturo (del 1957, cui la data del saggio sul romanzo è contigua) ha cominciato a sfuggirle. Cosa sia intervenuto nel frattempo è difficile dire. Forse il suo ingresso nell’ambiente letterario dei salotti, delle riviste, delle recensioni e dei premi, dove si stenta a pensare e a vivere senza il soccorso dell'ideologia, a scrivere senza entrare nel «coro» della società intellettuale e senza operare in essa, a mantenersi insomma fedeli all’invisibile. O forse l’abiura — più formale, si sa, che non di sostanza — all’universo delle relazioni femminili e all’ordine dell’autorità materna, per cui si mantenne sempre legata alla dicitura di «scrittore» e in posizione isolata, e francamente avversa, nei confronti del femminismo. O forse ancora fatti più intimi, legati alla realizzazione dello scarto fra l’al-

tezza della sua posta in gioco e l’inadeguatezza di forze minate dagli eventi biografici e storici, che non le permisero di dare seguito al grandioso progetto contenuto e 156

Una lettura di Elsa Morante

incarnato nel romanzo di esordio e la costrinsero, se non

proprio ad arrendersi all’inautentico in compagnia degli Infelici Molti, senz'altro a rinunciare almeno in parte alla «lotta contro l’irrealtà», e a farsi — al contrario della sua Antigone — personaggio della storia piuttosto che creatura della verità".

AI di là di quanto è accaduto resta però, per fortuna, la sua opera: che, piena quanto si voglia di contraddizioni, è nondimeno di quelle di cui non possiamo fare a meno. Anche se quell’«anima perduta» che ci viene incontro dalla terribile lettera di Anna Maria Ortese continuerà a chiederci che le sia resa giustizia.

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Tutte signore di mio gusto

Note di Ho citato rispettivamente da Anna Maria Ortese, Vola cardillo, in-

tervista rilasciata a Stefano Malatesta per «la Repubblica», 7 maggio 1993, e da un’autointervista inedita della scrittrice, presumibilmen-

te di prova per le pagine autobiografiche che confluiranno in Corpo celeste (Milano, Adelphi, 1997), custodita fra le carte depositate al-

l'Archivio di Stato di Napoli. Fra le stesse carte è anche la lettera di seguito citata.

. Si veda la bibliografia, come pure per altri titoli della Ortese che si citeranno

solo cursoriamente.

. Anna Maria Ortese, I/ porto di Toledo [1975], in Romanzi I, Milano, Adelphi, 2003; e Elsa Morante, Menzogna e sortilegio [1948], Torino, Einaudi, 1968. . Elsa Morante, La Storia, Torino, Einaudi, 1974, rispettivamente

pp. 493, 365, 820, 544.

. Elsa Morante, La Storia, cit., pp. 647-648; Anna Maria Ortese, I/ cardillo addolorato [1993], in Romanzi II, Milano, Adelphi, 2005, pp. 625-627.

. Rita Guerricchio, Periferie, in Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, a cura di Anna Botta, Monica Farnetti, Giorgio Rimondi, Mantova, Tre Lune, 2003, pp. 153-160, p. 160.

. Simone Weil, rispettivamente L'ombra e la grazia [1947], trad. it. di Franco Fortini, Milano, Edizioni di Comunità, 1951, pp. 64, 96, 95, 95, 97, 100, 154, 158; Morale e letteratura [1944], trad. it di Nicole Maroger, in Morale e letteratura, Pisa, ETS, 1990, pp. 22-29, pp. 2223, 24-25, 25; di nuovo L'ombra e la grazia, cit., pp. 97, 93, 88. . Cfr. Anna Maria Ortese, Corpo celeste, cit., p. 97. . Cfr. Giacomo Debenedetti, L'isola di Arturo, in «Nuovi Argomenti», 26, maggio-giugno 1957, pp. 43-61. . Elsa Morante, Su/ rorzanzo [1959], in Pro o contro la bomba atomica, Milano, Adelphi, 1987, pp. 49-50.

. Cfr. Katherine Mansfield, I/ libro degli appunti [1939], trad. it. di Elsa Morante, Milano, Rizzoli, 1945, e I{ yeglio di Katherine Mansfield, trad. it. di Elsa Morante, Milano, Rizzoli, 1957. 12: Ho fatto liberamente riferimento a Elsa Morante, I/ mondo salvato dai ragazzini, Torino, Einaudi, 1968.

158

11. TOLEDO O CARA. L'ESILIO DI ANNA MARIA ORTESE

Parto dal presupposto che è Napoli e non altro — non la Roma nativa né la Milano elettiva né alcuna delle molte e importanti figurazioni disponibili — la «patria» di Anna Maria Ortese. È Napoli, intendo dire, il luogo che corri-

sponde per lei a quanto comunemente si intende per patria, ovvero il luogo che meglio adempie al compito che precipuamente la patria si riserva: quello di trattenere cioè il proprio figlio o figlia presso di sé, di minacciarlo/a altrimenti di nostalgia e altre torture e, nel caso si allontani, di spezzargli/le il cuore e di continuare ad attrarlo/a nuovamente a sé. Con la differenza, rispetto a quanto illustra il mito fondativo, che una donna in viaggio, migrazione o esilio anziché assecondare questa attrazione in generale la contrasta, e che gli dei si mostrano nei suoi riguardi allo stesso tempo più generosi e più severi di quelli dell’Odzssea: poiché a lei non è dato, come a Ulisse, il ritorno ma

piuttosto un dispatrio senza rotta né requie, e tuttavia la sua ricompensa è tale da valerne senz'altro — è il caso di dire — la pena. Presupponendo dunque che la patria sia anche per la Ortese, come per molte altre, il luogo per eccellenza del Non Ritorno, ovvero di un ritorno non letterale e non I9S)

Tutte signore di mio gusto

concluso ma continuamente riguadagnato e ripetuto, vissuto con la memoria, l’immaginazione e la lingua e con-

vertito nella postura stessa e propria del pensare e dello scrivere, non vi è dubbio che la sua patria sia Napoli. Come si direbbe confermare il fatto che la maggiore e miglior parte della sua opera coincide con un grande atto di dedizione e d’amore nei confronti della città, di quel cielo e di quel mare divenuti esemplari di tutti i paesaggi e di tutte le bandiere, di quelle forme infine che il tempo ha riempito di memoria e che custodiscono intatto il prezioso passato. Ma comè conferma altresì, e in modo congiunto, quel suo rifiuto di tornare a Napoli — che aveva lasciato di corsa nel 1953 dopo l’uscita del Mare ron bagna Napoli — anche una volta placatisi gli ultimi ardori della polemica con il gruppo «Sud», accesa, com'è noto, dalle pagine conclusive del libro: rifiuto su cui in molti, fra amici e bio-

grafi, si sono interrogati e che rimane tuttora in gran parte inspiegabile, a meno che non lo si consideri da un’altra angolatura e non lo si interroghi alla luce di altri — ben altri — ordini di necessità da quello legato alle ragioni della biografia. Nella nostra casa cresciamo come le piante, come gli alberi; la nostra fanciullezza è lì, non se n'è andata, però si di-

mentica. Nella nostra casa, nel nostro giardino, non abbiamo bisogno di avere tutto presente, tutto il giorno, né di tenere tutta la nostra anima all’erta, tutto all’erta il nostro es-

sere. No: in essa dimentichiamo, ci dimentichiamo. La patria, la propria casa, è prima di tutto il luogo in cui si può dimenticare. 160

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

Chi ha vissuto l'esilio, o creduto di provarlo, ha perduto tante cose ma altrettante e più ne ha acquisite e apprese. Come il dono della memoria, la capacità di visione, la forza e la fierezza nientemeno che della libertà. I silenzi della casa e il suo rumore, quel ronzio di api che vanno e vengono, purificano e accompagnano. E quel suo tempo inesauribile e rinascente, come il Mare. Così è la patria, Mare che raccoglie il fiume della moltitudine. Quella

moltitudine, il Popolo, in cui uno procede senza macchiarsi, senza perdersi, tenendo lo stesso passo dei vivi e dei morti. E quando si esce da quel mare, da quel fiume, soli tra cielo e terra, bisogna raccogliere tutte le proprie forze, accollarsi il proprio peso. [...] Bisogna salire, sempre. L'esilio è questo, una strada in salita, quand’anche nel deserto?.

Sembrano scritte per la Ortese queste parole di Marfa Zambrano, che non solo contemplano la scelta controcorrente e per certi versi contro natura di lasciare la casa e di viverne lontano; ma che mettono in gioco figure assai pertinenti al caso della scrittrice per la quale davvero perdere la casa significò perdere il mare, e le incommensurabili risorse di esperienza e di immaginazione che il mare sa condividere con le sue creature. Per la quale davvero quella casa e quel mare significarono e garantirono il rapporto con l’invisibile e il dialogo coi morti. E per la quale infine anche letteralmente l’esilio si configurò come «una strada in salita», da Napoli verso le sconosciute e non di rado inospiti città del Nord (nord Italia e nord Europa), che solo una somiglianza più e meno plausibile con Napoli poté 161

Tutte signore di mio gusto

renderle abitabili o care addirittura”. Come bene attesta il

seguente passo, tratto da Le luci di Genova: Me ne andai qualche volta (non molte) a vedere il mare. [...] avevo l’impressione che tutto ciò che avevo amato, e quindi perduto, non fosse, come nel resto d’Italia, definitivamente cancellato dalla vita; avevo anzi la bizzarra im-

pressione che fosse qui, presente, e questo mare fosse la sua scaturigine. Allora, io sentivo questa città come la città più cara, più mia, fra le tante che avevo conosciuto; e una nobiltà intensa, quella stessa la cui assenza mi faceva morire, circondarmi.

O quest'altro, da I/ zormorio di Parigi: Ecco, su questa terra, in mezzo a queste foreste, a queste spiagge senza molto sole, a questi uomini senza troppa gioia, tutto brilla, sorride, canta, tutto è festa, incantesimo,

vita. Ma è una vita di ieri, o di oggi? Io non so più, nessuno lo saprebbe più, al mio posto, su questo pezzetto di marciapiede del Boulevard de Clichy, alle dodici di un giorno d’agosto. Guardo la folla andare e venire, come a Napoli [...], ed è come se guardassi il mare andare e venire, balenando, tra le foglie di un grande albero'.

Non è un caso, credo, che un percorso biografico iniziato a Napoli e lì profondamente, saldamente radicato si sia concluso a Rapallo: città affacciata, sia pure da un’altra prospettiva, sul medesimo mare, in cui si gode e si respira, se anche da altra latitudine, la stessa luce e la stessa aria, e 162

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

la cui gente partecipa — sebbene, va da sé, con un’altra postura — allo stesso modello sociale e antropologico. [L'albergo] Era a due passi dal porto, e dai meravigliosi portici di Sottoripa che lo fronteggiavano. Quante mattine ho passato lì. Era la stessa visione dei Tribunali, a Napoli: un formicolare di sole e polvere, di ombre, ori, colori; una eterna folla ed eterna solitudine, [...] e una serietà e dol-

cezza, una pazzia ben controllata, ch'è propria delle grandi città del passato, e un passato marino. Qui, a questi tavolini, arrivava di tutto: la schiuma del mare aperto diventava uomo, donna, ragazzo; c’era lo straniero dagli occhi

quasi bianchi, e c’era il portuale attento, la cui vita è forse finita, e siede coraggioso in un angolo. [...] Scoprivo un’altra cosa, insieme alla straordinaria freschezza degli animi: una possibilità di essere fraterni senza saperlo [...]; qui, a Genova, l’altro, l’estraneo, era, come tra bambini, un amico caro”.

E non importa che nel frattempo, fra quel primo e quell’ultimo stare ci sia stato un andare continuo e forsennato, obbediente alle Morgane di un lavoro sicuro ma più segretamente, e più imperiosamente, al desiderio di sottoporsi a prove di «appartenenza»: Spiriti! Folletti! Spiriti di Padri morti, di Bambini perduti, di piante che sognano, di farfalle che ci guardano! Di anime all'alba (gli Uccelli) che ci salutano cantando... È questa, dun-

que, la sua patria? Sì, è questa?. 163

Tutte signore di mio gusto

Prove indotte dalla necessità, lo ricordiamo, di non vivere a Napoli e di non farvi ritorno; di sperimentare, anche, più in grande l’idea di patria e di dare riscontro al sentimento di un’appartenenza planetaria, cosmica, legata a un’estrema intimità con la natura e a una competenza

suprema di relazione col mondo, corpo celeste depositario, come un caro fratello, della sua tenerezza. Ma prove indotte altresì, e per converso, dalla ricerca di un luogo che, non importa su quale scala di grandezza si collochi, assomigli a Napoli, abbia a che fare con essa, gliela rammenti, gliela contenga, gliela ridia, le consenta insomma di

sentirsi ancora là e ancora a casa. Scrivendo [...] mi prendeva uno stato d’animo [...] che ancora ne stupisco, un così confuso e intollerabile amore di vita, da credermi malata. E più che di vita, non di Lemano,

mi pare, ma di Toledo! E mi pareva tanto che ne ero via, e questa città con le sue notti nuvolose e le primavere calme, mi mangiava il cuore, e dicevo: la rivedrò! Assai presto! Non dubito! Ah, Toledo mia’.

È dunque un movimento, quello che regola il sentire della Ortese nei confronti di Napoli, contraddittorio e ambivalente: fra riconoscimento della città come propria patria e ferma necessità di viverne lontana, dolore della sua perdita e messa a frutto delle risorse della lontananza e della nostalgia, capacità di intenderla come una metafora (e allegoria, e metonimia) di tutto l’universo e insieme

di restarle fedele per quello che letteralmente è. Complice in ciò, se vogliamo, l’indole stessa della città, che in una 164

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

pagina famosa l’autrice mette a nudo e ritrae esemplarmente nelle sue contraddizioni: Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui, per non so quale bizzarria della natura, rovesciamento delle sue leggi, che del resto nessuno sospettava, tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, santità e dissolutezza, pietà e voluttuosa ferocia, troni e galere, mercati ed altari, patiboli e giostre, i canti di gioia degli eletti e il singhiozzo lamentevole del dannato, tutte queste voci erano così saldamente strette,

confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva, a tutta prima, una impressione stranissima, come di un’orchestra i cui strumenti, composti di

anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di una meravigliosa confusione, d’u-

na incomparabile triste gaiezza; e solo in un secondo momento avvertiva l’orrore, conseguenza di un distrutto pensiero, ch’era all’origine di un così uniforme incanto’.

Ma complice soprattutto quel travolgente sentimento di amorosa compresenza con tutte le forme della vita che, come dicevamo, mette la Ortese in relazione con l’universo, con la creazione in tutti i suoi aspetti, e che mentre la

induce a siderali variazioni sul tema della patria non le impedisce di rimpiangere e cantare fino all'ultimo la sua Napoli cara. È un movimento contraddittorio dunque, un equilibrio difficile per lei da vivere e per noi da intendere, e che 165

Tutte signore di mio gusto

altri suoi passaggi vengono per giunta ulteriormente a complicare. Mi riferisco ai passaggi legati e tutti impliciti

all’invenzione di Toledo, a mio avviso la più complessa e geniale manovra con cui la Ortese sistema definitivamente i conti con la sua città e con cui d’altra parte li fa saltare come meglio non si potrebbe. Per entrarvi nel merito, scomponiamo innanzitutto questa invenzione e vediamo

singolarmente i vari aspetti di cui è la sintesi. A partire da quell’ostinato bisogno di riservatezza, ambiguità o segretezza che la Ortese ha sempre manifestato ogni qualvolta abbia praticato la cosiddetta scrittura dell’io: inventandosi degli alter ego e mescolando vertiginosamente le carte del passato (pensiamo al dittico autobiografico composto da Poveri e semplici e dal Cappello piumato), scrivendo a tutti gli effetti un’autobiografia e poi negando che lo sia (come nella paradossale bandella dell'edizione 1975 del Porto di Toledo, dove si legge: «Tutto il racconto — d’avvio autobiografico — autobiografico non era, in realtà, ma un personaggio che io non avevo previsto all’inizio, si era so-

stituito al mio zo reale [...] portando il racconto [...] fino alla fine»), e soprattutto ricorrendo con puntualità e con rigore alla pratica della rinominazione, con tutto l’impegno di fantasia e di pudore che essa prevede. Una pratica applicata innanzitutto all’io narrante (pensiamo appunto alla protagonista del Porto di Toledo, chiamata. Damasa e Figuera, Toledana, Misa, Exclusa con relativi diminutivi)

ma che, a maggior tutela di costui (ovvero di costei), impone di passare sotto falso e fantastico nome anche chi le vive accanto (i familiari, gli amici, gli amori, i colleghi), fino alle singole stanze della sua casa e alle strade della sua 166

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

città. Che costituiscono, a ben vedere, parti integranti di lei, e che più dello scenario rappresentano il cuore, la parte per il tutto di quegli anni splendenti. Il fatto quindi che la narratrice riservi a se stessa e agli elementi della propria geografia lo stesso trattamento testimonia della connivenza fra luna e gli altri, e parla della loro solidarietà a custodia di un segreto innominabile. Un segreto che potrebbe essere quello di Pulcinella, e giustificare semplicemente il fatto che talvolta è difficile parlare di sé; ma che forse, e meno semplicemente, dice invece il tentativo della

Ortese di sottrarsi a ogni forma troppo marcata di (auto)referenzialità, e di coltivare per contro la grande scommessa teoretica dell’impersonalità. Resta però da capire perché la maschera preferita da far calzare alla città e ai suoi abitanti sia spagnola e sia Toledo, e come concretamente la Ortese abbia proceduto in un lavoro di rinominazione che non è molto diverso da quello di una grande e solida trascrizione o traduzione. Cominciamo dal come, e vediamo di capire quali criteri la Ortese abbia seguito per riscrivere innanzitutto lo stradario di Napoli, e per sostituire i nomi delle sue vie e piazze con le proprie toledane stramberie toponomastiche. Come risulta dal cosiddetto «indice dei luoghi di Toledo» posto in appendice al romanzo nell’edizione delle opere in raccolta, l'autrice segue di regola alcune procedure: si appella a toponimi antichi e scarsamente o non più attestati (è il caso della via del Pilar < Piliero); gioca nell’interlingua fra italiano e spagnolo (come per rua Compostela-vicolo Spagnolo < via San Giacomo degli Spagnoli, o di Compostela); sfrutta assonanze e giochi di 167

Tutte signore di mio gusto

parole (Monte Olivar < Monteoliveto, Museo Marino < di San Martino); inventa di sana pianta (Acklyns per Vesuvio); e soprattutto si appella (o inoltra una sfida) al senso di orientamento, alla capacità deduttiva e ai riferimenti culturali di chi legge (sommamente indicativo il caso dell’Asfalfa, quartiere popolare di Siviglia trasportato a Napoli via Toledo sulla scia dei versi di un poeta minore come Villalén). È quindi come in un puzzle che, fissate alcune tessere più facili, le altre via via si posizionano, progressivamente ricomponendo, sebbene trasfigurata, la mappa della città. Si tratta però, ed è un elemento importante, di una tra-

sfigurazione non solo onomastica bensì anche, in parte, topografica. Poiché in più di un caso un nome si lascia «tradurre» e rapportare precisamente a un edificio, un vicolo o un quartiere solo alla condizione che si operi un suo dislocamento, o che si acconsenta a una fusione, o sor-

ta di sovraimpressione, di due zone diverse della città (esemplare il caso della «rua Ahorcados», o «degli Impiccati», con cui la Ortese presumibilmente indica il vico che immette alla piazza Mercato, luogo istituzionale delle esecuzioni capitali nella storia della città). Io suppongo che questo sia l'esito della fantasia toponomastica della scrittrice combinata con un assai mirato intento ecfrastico, va-

le a dire con l’impegno di imitare nella descrizione, e trascrizione, letteraria di Napoli deformazioni analoghe a quelle operate da El Greco nella sua descrizione (pittorica) di Toledo: con riferimento al dipinto Veduta di Toledo,

oggi al Metropolitan Museum di New York, in cui il maestro spagnolo contrae, e dunque disloca, i principali edifici 168

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

e perimetri della città e li dispone in acuta prospettiva sulle pendici della collina su cui la città realmente sorge. Non solo, ma ne imposta e ne sagoma la veduta secondo un assetto di linee, sinuosità e rapporti alto-basso (il che significa soprattutto terra-cielo) e pieno-vuoto che per molti aspetti la Ortese fedelmente riproduce nel più panoramico dei suoi disegni «toledani», quelli che accompagnano la stesura del romanzo e che ne corredano la citata edizione in raccolta. Tale disegno fra l’altro ripropone gli stessi elementi, soltanto meno stilizzati, di un altro: nel quale,

sebbene manchi il fondamentale scenario del cielo (tra d’union molto forte fra l’opera della disegnatrice e quella del pittore), l'analogia risulta, proprio grazie alla stilizzazione, con ancor maggiore evidenza.

Ci sono a mio giudizio gli estremi per ipotizzare che la Toledo romanzesca della Ortese sia l’esito di una sottile e sofisticatissima impresa mimetica: che prevedeva (riuscendo nell’intento) di «descrivere la descrizione» di El Greco non solo contemplando il passaggio dal pittorico al letterario (e segnatamente all’onomastico), ma proiettando e riproducendo, attraverso l’orchestrazione della toponomastica, le anomalie e gli stravolgimenti dal pittore operati sul piano visivo. Con i disegni infatti, apertamente influenzati dal Greco, la Ortese alimentava e accompagnava la sua immaginazione nonché costruzione romanzesca: prendendo l’abbrivio da una fonte pittorica, e poi più oltre nel romanzo replicando la strategia, ispirandosi come è noto a un’altra opera dello stesso maestro, I/ seppellimento del Conte d’Orgaz (custodita, guarda caso, a Toledo). 169

Tutte signore di mio gusto

Siamo però con questo già slittati dal «come» al «perché» dell’impresa di rinominazione: per il gusto di un'imitazione e di un omaggio, segni espliciti di una profonda, e direi etica, condivisione col pittore cipriota di uno stesso modo di concepire, vedere e ritrarre il mondo e chi lo abita. Il reportage da Ginevra in cui la Ortese, inviata del «Gazzettino» di Venezia, nell’estate del 1939 rendeva

conto della mostra di maestri spagnoli e del suo incontro con la pittura di El Greco, è infatti eloquente di quanto quest’ultimo, più di tanti scrittori, le abbia toccato il cuore, sollecitando numerose sue pagine a venire e con esse il sentimento che le sostiene e le ispira: Egli si serve della pittura come di un velo bruno dietro il quale palpita la luce di un altro mondo. I suoi personaggi pare camminino sulla terra come folli, non hanno quasi più carne, i loro occhi splendono, si direbbero stormi di anime migranti verso mondi sconosciuti, nel primo sole della mattina?.

È forse pertanto il diletto pittore, il maestro di visioni e di giuramenti prestati all’invisibile, la causa prima dell’amore fedele della Ortese per la Spagna: la terra che non solo, perciò, ha generato e perseguito con le sue caravelle il sogno del Nuovo Mondo‘, o che ha saputo dare alla Toledana e ai suoi fratelli la lingua più dolcee la poesia più amata; ma anche la terra in cui si può toccare con mano — El Greco è lì a provarlo — la linea di faglia fra visibile e invisibile, la zona misteriosa di passaggio fra cielo e terra che la Ortese va cercando fin dai suoi primi racconti. C'è El Greco all'origine di questo amore, e c'è quel 170

Toledo o cara. L'esilio di Anna Maria Ortese

quadro che ne ha fatto scattare la molla: consegnando alla scrittrice un'immagine di città che funziona per il pittore quanto e ancor meglio di quanto non funzioni Napoli per lei; città vera e insieme di sogno, «spirituale», come direbbe lei stessa, in cui l’invisibile sceglie di manifestarsi; città che, per soprammercato, rende conto in qualche modo anche delle lontane sue origini catalane per parte di padre; città infine, e naturalmente, ancora una volta vaga-

mente somigliante alla sua, fatta eccezione per il mare da cui dista e per il porto che non ha. Il che però non guasta, perché consente alla Ortese di ripristinare gli equilibri della sua privata geografia alterati dalla precedente sottrazione del mare a Napoli nel primo titolo che esplicitamente la nomina, I/ zzare non bagna Napoli. Così, aggiungendo a questo primo falso o assurdo geografico I/ porto di Toledo, la Ortese, sia pur per vie traverse, ridà a Napoli il suo mare, mentre salda in modo implicito e forte la corrispondenza fra le due città. Sarà più facile, d’ora in poi, per lei parlare del suo amore per Napoli, sarà più facile in generale parlare d’amore e lasciare andare quell'amore nel mondo. Sarà entusiasmante ricostruire la città e ritrovare la patria, attraverso la scrittura, in quella terra di sogno. E sarà bellissimo, in questo modo e solo in questo, tornare a casa.

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Tutte signore di mio gusto

Note . Per questo e altri titoli della Ortese citati ew passant si veda la bibliografia. . Marfa Zambrano, La tomba di Antigone [1967], in La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. it. di Carlo Ferrucci, Milano, La Tartaruga, 1995, pp. 119-120. . Anna Maria Ortese, Le luci di Genova [1964], in La lente scura

[1991], Milano, Adelphi, 2004, pp. 111-119, pp. 118-119.

. Anna Maria Ortese, I/ zzormzorio di Parigi [1960], in La lente scura, cit., pp. 179-202, p. 184.

. Anna Maria Ortese, Le luci di Genova, cit., pp. 114-117. . Anna Maria Ortese, Nor da luoghi di esilio, in Corpo celeste, Milano,

Adelphi, 1997, pp. 135-159, p. 157.

. Anna Maria Ortese, I/ porto di Toledo [1975], in Romanzi I, Milano, Adelphi, 2002, p. 893. . Anna Maria Ortese, Ur personaggio singolare [1950], in L'Infanta se-

polta [1950], Milano, Adelphi, 2000, pp. 117-121, p. 117. . Cfr. Anna Maria Ortese, Maestri spagnoli alla Mostra di Ginevra, «Il Gazzettino», 22 luglio 1939, p. 3. 10. Cfr. Anna Maria Ortese, Le luci di Genova, cit., p. 119: «Qui [a Ge-

nova] è nato Colombo, pensavo, di qui ebbe inizio il grande fantasticare di nuovi cammini nel mondo — vedevo Lisbona, il colloquio con la regina di Spagna, il grande aprirsi, infine, di quel mondo! — E mi pareva che tanto tempo non fosse passato, e fossimo ancora nel secolo quindicesimo, e ancora qualcuno si apprestasse a partire, da

questa terra, in una notte senza luce, per gettarsi verso l’oceano, verso un avvenire improbabile, ma non meno amato».

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12.I LUOGHI DI MARGUERITE DURAS

«A volte il momento di scrivere la propria infanzia arriva tardi nella vita», scrive Edda Melon in un magnifico saggio sui luoghi dell’infanzia e dell’altrove di alcune scrittrici di lingua francese'. È vero. Lo confermano i casi di molte altre; quello di Dolores Prato per esempio, alla quale sono occorsi ottantasette anni e oltre settecento pagine

per rendere simultanei i suoi primi ricordi e per raccontarli in modo indimenticabile. E quello di Anna Maria Ortese, che per restituire in modo esatto il cupo splendore della propria infanzia e adolescenza ha dovuto far tesoro di ogni risorsa della maturità, continuando fino all’ultimo a riscrivere le pagine del suo primo libro. «Se poi si tratta di scrivere della propria infanzia straniera», aggiunge, «che arrivi tardi è piuttosto la regola.» Sì, certo, salvo dover precisare che l’infanzia è straniera sempre, che forse è

«la straniera» per eccellenza: data non solo la gran mole di lavoro che «le sovrane potenze» dell’età successiva, già evocate da Freud nei famosi Ricordi d'infanzia e di copertura, impegnano per estraniarla da noi, ed estraniare noi stesse/i dal suo intendimento. Ma data anche e ancor più quella figura, quell’antica ruota che Cristina Campo, maestra d’infanzie e di fiabe, convoca per dare immagine al 175

Tutte signore di mio gusto

ciclo della vita, e sulla quale l’infanzia e la morte, dice, come l’inizio e la fine, si incontrano e «si confidano il loro reciproco segreto». Un’immagine che ritorna anche, e in

veste sontuosa, in Marguerite Yourcenar, la scrittrice dall'infanzia rimasta inenarrata ma per la quale lei spende, ormai vicina alla morte, parole illuminanti: «Non mi sento nessuna età. [...] Se dovessi sentire un’età qualunque, questa sarebbe semmai l’infanzia; l'eternità e l’infanzia». «L'infanzia, la propria infanzia», scrive ancora la Melon, «ha sempre a che fare con un altrove. È per eccellenza il territorio sconosciuto [...]. Parlare dell’infanzia e parlare dell’altrove [...] diventa una cosa sola, tanto che le coordinate di spazio e di tempo si intrecciano e si sovrappongono. E dunque queste grafie [...] sono sì delle biografie, ma anche delle geografie, o delle cartografie.» Siamo dunque d’accordo. Tanto più che quasi in ogni libro di ricordi infantili scritto da una donna - si chiami Virginia Woolf o Lalla Romano, Marina Cvetaeva o Nathalie

Sarraute, o con il nome delle scrittrici citate fin qui — è evidente come il tempo si faccia sensibilmente da parte, lasciando allo spazio il compito di organizzare il racconto. «Non è soltanto un certo periodo della sua infanzia che [egli] vede uscire dalla sua tazza di tè; è anche una camera, una chiesa, una città, un insieme topografico solido»?: sono parole scritte per Proust, non a caso uno dei pochi scrittori (uomini) che acconsentono a dare l’esempio, peraltro magistrale, di una scrittura di memoria che per definirsi come tale ha bisogno di aderire strettamente ai luoghi nei quali si sono svolti gli eventi rammemorati. Circostanza che si verifica sempre, invece, per le scritture fem174

I luoghi di Marguerite Duras

minili, nelle quali i luoghi non figurano come i semplici scenari del passato e dell’infanzia ma si rivelano loro parte viva e integrante, tanto da autorizzare una concezione

affettiva, personale e quasi antropomorfica dello spazio. Una camera, si diceva, una chiesa, una città; l’elenco potrebbe diventare lunghissimo: una torre, una piazza, un aranceto, una cattedrale, un campo di papaveri, una stanza di collegio, una spiaggia, un patio, un cancello, un pavimento, una diga...' I luoghi come modelli o forme che il tempo ha riempito di memoria, e ripercorrendo i quali la memoria fa il suo corso e fa il suo lavoro: questo il dato che si ricava dalla recherche femminile, allorché le scrittrici (tendenzialmente tardi nella vita, lo si è visto) si accin-

gono a ricostruire l’altrove della propria infanzia, sempre allo stesso tempo familiare e straniero con tutto quello che ne deriva. Si danno peraltro, e nonostante tutto, infanzie «straniere» in senso stretto (la Melon fa i nomi di Julia Kristeva, Nathalie Sarraute, Agota Kristot, Nancy Huston, Sa-

rah Kofman), il cui altrove diventa più altrove che mai per il fatto che è il luogo in cui si parlava un’altra lingua. E sebbene, come assicura per esperienza Fabrizia Ramondino, «i bambini non [abbiano] molti problemi a passare da una lingua all’altra. In questi casi, o così almeno avvenne nel mio caso, si verifica una rimozione del passato. Semplicemente. Siccome si vuole essere uguali agli altri si dimentica improvvisamente tutto ciò che si ha alle spalle», ciò nondimeno la perdita della prima lingua costituisce,

quando si verifica, l'evento capitale di una biografia, l'esperienza che continua a segnare in molti modi la persona 175

Tutte signore di mio gusto

e la sua vita. Soprattutto, si direbbe, la vita delle donne: vista la frequenza, nei ricordi d’infanzia femminili, di estatici e trepidanti esperimenti di vocabolario, o esercizi di «espressività» (come la Ortese nomina la pratica della pa-

rola e della scrittura), tali per cui il racconto delle loro infanzie finisce per iscriversi quasi per intero all’interno dell’esperienza linguistica, e la scoperta del mondo viene per loro a consistere nella fervida e appassionata decifrazione dell’alfabeto. I soprassalti dell’antica musica, le risonanze profonde e intraducibili della lingua abbandonata e materna, le parole divenute straniere ma un tempo le sole e le prime in tutta la propria mente e con le quali si intrattiene ora una quasi mostruosa intimità, risuscitano infatti, a tradimento,

tutte le volte che qualcosa vacilla nell'immagine che la fuggitiva, l’esule, la sradicata, la nomade si è costruita, su nuove basi, di sé. «Non è il francese che mi aiuta», con-

fessa per esempio Julia Kristeva, «quando mi ritrovo in panne in un codice artificiale [o un idioma straniero], ma il bulgaro, a significarmi che non ho perduto le mie origini.» Così come Hélène Cixous, che pure ha il poliglottismo nel suo DNA, riconosce: «Con mio grande stupore

[l'Algeria] mi è ritornata ma qui, all’estero in Francia [...]. E si è rivolta a me, per la prima volta dalla mia nascita, come se non ci fossimo mai lasciate»*.

Ci sono dunque infanzie decisamente «straniere», contrassegnate da una lingua che è tutt’una con una terra, una cittadinanza, un’età della vita, e con la capacità di ricorda-

re tutto questo. E l'infanzia di Marguerite Duras è da collocarsi fra esse. Come è noto, è nata infatti in Cocincina, a 176

I luoghi di Marguerite Duras

Gia-Dihn, presso Saigon, nell’Indocina francese (oggi Vietnam del Sud), figlia di insegnanti francesi che avevano scelto entrambi l'insegnamento nelle colonie. Il suo nome di battesimo è Marguerite Donnadieu. La sua infanzia e adolescenza trascorrono lì, fra Vietnam e Cambogia (e le città di Hanoi, Phnom Penh, Vihn Long, Sadec, Saigon, e

il mar della Cina, e il fiume Mekong), dove rimane fino ai diciott’anni e frequenta le scuole fino al diploma liceale. Nel corso di questi anni (precisamente quando lei ne ha sette) suo padre muore, e la figura materna si impone a tutto campo nel suo paesaggio infantile. Arriva in Francia nel 1933, e da quell’anno data la sua esistenza di cittadina francese a tutti gli effetti. Tutti, o quasi: giacché moltissimi elementi, fra biografia e opera, movimentano la sua nuova immagine, animandola di una tensione dolorosa ed enigmatica che solo lentamente, col passare del tempo, diventerà decifrabile. Per fare ingresso nel mondo della letteratura, innanzitutto, Marguerite Donnadieu cambia nome, scegliendo di chiamarsi come la terra paterna, Duras: dove non abiterà

mai, ma che pure costituisce per lei una forma di radicamento. La scelta del toponimo sembra in effetti indicare la volontà di far ordine nella propria geografia nonché genealogia: il passato vietnamita è chiuso; il futuro — francese — ha inizio, e per ironia della sorte si annuncia all’insegna di qualcosa che si configura come un'ennesima colonizzazione: quella, nella fattispecie, del continente europeo, destinato a essere conquistato dal suo genio di scrittrice. Sennonché il suo terzo romanzo, il famoso Una diga sul Pacifico, pubblicato nel 1950, ci trasporta nell’Indocina d/f

Tutte signore di mio gusto

della fine degli anni Venti: è la prima scrittura, la prima versione, della vita indocinese, su cui tutte le scritture successive, come è noto e verificabile, si modelleranno.

Da quell’infanzia asiatica apparentemente congedata e chiusa, in realtà sopravvissuta intatta sotto le apparenze della vita adulta, intellettuale e parigina dipenderanno in effetti tutte le scene, tutte le risorse e tutte le immagini delle sue opere più e meno note, «riscritture» — ciascuna a un diverso grado di perspicuità e trasparenza — di quel fortunato romanzo che in molti sensi si era rivelato per lei decisivo. Riscritture in codice, le si potrebbero intendere, forme sempre nuove in cui riproporre, insieme nascondendola e facendola parlare, continuamente un’antica scena: evidentemente primaria, senza dubbio nevralgica, e destinata a rivelarsi una perdita e un dolore, ma an-

che la matrice unitaria e potente della sua scrittura. Per comprendere questo — la centralità, cioè, della «scena» vietnamita, di quella terra in riva al mare e al fiume piena di manghi e di ragazzini gialli su cui troneggia, amorosa e folle, la figura materna — alla scrittrice occorrerà tuttavia molto tempo. Perché occorre sempre molto tempo, come si diceva, molta motivazione e molto coraggio per riandare incontro al proprio passato, specie nel caso — ma è quasi sempre il caso — in cui il passato custodisca una ferita. Occorre anche, e soprattutto, che un discorso

sia ascoltato, che trovi in un ascolto adeguato la sua destinazione. Raccontarsi infatti, dire (o scrivere) di sé non può prescindere dalla presenza e dalla qualità dell’ascolto. L’autobiografia si fa almeno in due, è figura di lettura, si ricono178

I luoghi di Marguerite Duras

sce come luogo di alterità per eccellenza e come terreno elettivo della relazione. Su questo, gli studi femministi hanno fatto una luce addirittura abbagliante. E non è un caso che, per Marguerite Duras, i racconti espliciti e non

più «in codice» del proprio passato, le immagini (sketches, folgoranti come per Virginia Woolf) della sua vita infantile altrove sofferta e goduta, i ricordi senza più filtro ma rapinosi e sconvolgenti nella loro intensità si facciano strada, via via più nettamente, fino a illimpidirsi del tutto nel corso degli anni Settanta. Sono questi, da un lato, gli anni «giusti» anagraficamente per acquisire la competenza difficile del ricordare, che ha bisogno della maturità e di tutta la forza che ne proviene. Ma sono anche, il dato salta all'occhio, gli anni in cui nella bio-bibliografia di Marguerite Duras si affacciano nomi di donne — Bettina Knapp, Michelle Porte, Xavière Gauthier, Leopoldina Pallotta

della Torre, Edda Melon - in qualità di intervistatrici, ascoltatrici e «parleuses», grazie alla cui sensibilità e intelligenza il racconto autobiografico durassiano diviene evidentemente possibile. «Io parlavo il vietnamita quasi meglio del francese. Queste sono [...] le ricchezze della mia infanzia». «Un

giorno ho saputo che ero francese». «Avevo 18 anni quando sono andata via [...] e non ho più pensato all’infanzia. Era stato troppo doloroso. Ho occultato completamente. E girovagavo nella vita dicendo: Io non ce l'ho un paese natale». «Nulla potrà mai eguagliarne l'intensità. Ha ragione Stendhal, l'infanzia è interminabile»”. Tutte queste dichiarazioni, tutte queste ammissioni, appartengono a quel decennio e sono dovute a quelle «parleuses». E un LZO

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dato importante, che sembra confermare in pieno la tesi contenuta nel libro il cui titolo — Tu che ri guardi, tu che mi racconti — è ormai proverbiale. Ed è un dato che si lega strettamente a un altro: la correzione, nell’ambito della ricezione e della fortuna di Marguerite Duras, della sua immagine «ufficiale» e inizialmente più diffusa, quella di cui il mondo intellettuale francese si è impossessato non senza, come spesso accade, aggiustamenti e forzature. Non dimentichiamo infatti che Marguerite Duras è la scrittrice davanti al cui ingegno e genio si è inchinata tutta l’«intellisenza» europea, e che — fatto determinante per la qualità della sua fama —- Jacques Lacan le ha riconosciuto di essere arrivata a capire e a esprimere, con il colpo d’ala della sua arte, ciò che lui stesso, con la propria dottrina, aveva impiegato decenni a comprendere e a spiegare: vale a dire la struttura e il funzionamento del soggetto in relazione al suo inconscio, al suo linguaggio e al suo desiderio. «I poeti sono alleati preziosi», scriveva del resto già Freud, «e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta.»5 Tuttavia, come ho accennato, un così grande merito riconosciuto alla Duras, per quanto onore le faccia, paradossalmente ne ha forse anche appiattito l’immagine, o quantomeno non ha dato pienamente conto delle ragioni della sua grandezza di scrittrice e, fatto ancor più importante, dell'amore che ha saputo suscitare presso lettrici e lettori. Non ci si è chiesti infatti, che si sappia, di dove precisamente le derivi quel suo straordinario «sapere», né 180

I luoghi di Marguerite Duras

tantomeno si è ipotizzato, prima di arrivare all’epoca delle citate «parleuses», che le tante e profonde «cose fra cielo e terra» con le quali dà sostanza ai suoi romanzi possano dipendere, più ancora che dai suoi studi eccellenti e dalle sue qualità intellettuali eminenti, direttamente e dolorosamente dalla sua esperienza di donna, di esule, e di

soggetto a metà francese a metà vietnamita. Soltanto la più recente ondata di studi, che alle «parleuses» deve molto, mentre ha messo in luce la (fortissima) specificità di genere dell’opera di Marguerite Duras ha saputo allo stesso tempo valorizzare l’importanza che la doppia origine, doppia lingua, doppia memoria e doppia cittadinanza sentimentale della scrittrice ha avuto per l'elaborazione della sua opera, restituendo alla sua immagine parte della profondità che le appartiene. «Che importanza può avere», domanda, provocatoriamente, la citata Melon, «che Duras bambina sia andata a

caccia di coccodrilli nel Mekong quando invece si devono sistemare i suoi rapporti col nouveau roman?» Mentre abbiamo invece un’estrema consapevolezza di quanto i romanzi della Duras debbano a quei coccodrilli e a quel fiume. É riconosciamo addirittura un preciso legame di causa-effetto fra coccodrilli (se così si può dire) e romanzi, ovvero Il fatto che Marguerite Duras ha saputo convertire la sua esperienza e la sua pena di migrante in occasione di empowerment e di rafforzamento di sé, mettendosi al mondo come scrittrice proprio in forza di quell’esperienza stessa e valorizzando il rapporto fra sé, il luogo, e la separazione — definitiva — da esso. Per Marguerite Duras infatti, come si sa, non ci fu mai ritorno. In compenso 181

Tutte signore di mio gusto

l’amorosa, faticosa rivisitazione memoriale di quel luogo e della sua (e propria) complessa vicenda umana e politica ha dato origine alla personalità della scrittrice che conosciamo, autrice di opere coloniali di ambiente vietnamita che un giorno «ha saputo» di essere francese. È importante quindi ricordare che lei non era dalla parte degli oppressori, non era, in questo senso, «francese» giacché, come narra L’arzante, la bambina sceglie di unirsi con un uomo ricco ma cinese, di un’altra razza, e capovolge così tutti i luoghi comuni della letteratura

esotica/erotica conosciuta, dove è sempre l’uomo bianco ad accoppiarsi con l’indigena. Ma oltre al paradigma del rapporto erotico fra indigeni e oppressori è il paradigma complessivo della situazione coloniale ad apparire rovesciato nell’opera di Marguerite Duras: dove i colonizzatori — i francesi — sono perdenti (e perduti), vittime dell’inintelligibilità di quanto accade e li riguarda; mentre i colonizzati — i vietnamiti, laotiani, cambogiani,

cinesi, annamiti — sono coloro fra i quali la bambina tendeva, e l’adulta continua, appassionatamente a riconoscersi: La mia patria è una marca d’acqua. Quella dei laghi, dei torrenti che scendevano dalla montagna, quella delle risaie, quella terrosa dei fiumi di pianura dove ci si riparava durante i temporali. [...] Chi dirà mai l’odore della terra calda che fumava dopo la pioggia. L’odore di certi fiori. Di un gelsomino in un giardino. Sono una che non sarà mai tornata al paese natale’.

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I luoghi di Marguerite Duras

Lei non tornerà più; e sarà piuttosto il suo paese a far ritorno verso di lei, mentre il dolore dell’esilio aleggia ovunque nella sua opera e si incarna nel personaggio della mendicante laotiana, che percorre a piedi nudi tutta l’Indocina fra Il Viceconsole, India Song testo e India Song film. Per non parlare di Lol: altro emblema assoluto di Marguerite Duras, altra capofila di tutti quei personaggi follemente ambulanti — nello spazio come nel tempo, nella memoria come nell’oblio — sulla scia zigzagante del loro desiderio, e tuttavia «rapiti» irrimediabilmente lontano dal desiderio stesso e dall’oggetto d’amore. Lol, riconosciuta come icona capitale della soggettività femminile!°, è infatti a sua volta una creazione da ri-

condurre al passato vietnamita e alla lacerazione dell’esilio, senza i quali nulla si spiega della scrittura e dell’opera durassiana. «Quei ricordi, quando si è cresciuti, non si portano con sé, si lasciano là dove sono stati fatti», af-

ferma ne La vita materiale: di qui, per lei, la singolare esperienza della «memoria senza ricordo», e quelle due contrastanti ingiunzioni che registra e fa sue — non dimenticare e non ricordare — nel tempo dell’elaborazione del dolore della perdita, e del distacco forzato dalla terra di appartenenza!!. Una terra amata e desiderata più di ogni altra, nella quale una volta per tutte si è riconosciuta, ma sulla quale la madre ha posto in origine un divieto fondamentale: poiché fu come è noto la madre a ostacolare in lei lo slancio ad assimilarsi ai bambini ai quali assomigliava, dei quali parlava la lingua e mangiava il cibo e condivideva i giochi così come fu la madre, infine, a portarla via di là. 133

Tutte signore di mio gusto

Siamo due bambini magri, mio fratello e io, due piccoli

creoli più gialli che bianchi. Inseparabili. Ci picchia sempre insieme: sporchi piccoli Annamiti, ci dice. Lei invece è francese, non è nata qui. [...] No, lei non ha la nostra fame rab-

biosa di manghi. E noi, piccole scimmie magre, intanto che dorme, nel silenzio favoloso delle sieste, ci riempiamo la

pancia di una razza diversa dalla sua, di lei, nostra madre. E così diventiamo piccoli Annamiti, noi due, tu e io. Lei dispera di farci mangiare il pane. Ci piace solo il riso. Parliamo la lingua straniera. Stiamo a piedi nudi. Lei è troppo vecchia, non può più entrare in quella lingua straniera. [...] Noi non ci facciamo domande [...], non ci guardiamo: siamo lo stesso corpo estraneo, insieme, saldati, fatti di riso, di

manghi disobbediti, di pesci delle melme, di quelle porcherie da colera che lei ci proibisce. [...] Un giorno, ci ha detto: ho comprato delle mele, sono frutti di Francia, voi siete francesi, dovete mangiare le mele. Noi ci proviamo, sputiamo. Lei urla. [...] Ci piace solo il riso, la scipitezza sublime dal profumo di cotonata del riso cargo, le zuppe magre dei venditori ambulanti del Mekong".

E questa a mio avviso la pagina che meglio di ogni altra fa luce sul passato di Marguerite Duras, scandendo nettamente i tempi di quel divieto che la ferisce, la strazia e la separa da sé. Si tratta infatti, evidentemente, di un divieto paradossale, che mette l’una contro l’altra «legge» materna e legge della lingua materna: che dissocia cioè, al suo interno, la relazione simbolica con la madre e mo-

struosamente la svuota dell’esperienza capitale della condivisione della lingua. È qualcosa di aberrante, di «troppo 184

I luoghi di Marguerite Duras

doloroso», come la Duras stessa ammette, da poter ricor-

dare ed è tuttavia, e in parte per gli stessi motivi, qualcosa di indimenticabile. Di qui il compromesso: ricordare sì, ma attraverso altro, per figure; parlare di sé, scrivere di sé, ma attraverso altre. Ed ecco Lol V. Stein, Anne-Marie Stretter, Nathalie Granger, la mendicante laotiana e le nu-

merose creature femminili che percorrono a piedi senza posa tutta l’Indocina e tutta l’opera di Marguerite Duras, prigioniere del suo stesso comando, doppio e impossibile, di non dimenticare e di non ricordare. I grandi personaggi di Marguerite Duras non sono, o non sono soltanto, il frutto di astratte intuizioni sul «soggetto», non l’elaborazione prettamente letteraria di un concetto o di un’idea ma anche, e in primo luogo, la dolorosa espansione di un’esperienza personale e originaria: esperienza viva, par-

tecipata col corpo e col cuore e carica fino all’ultimo di tutte le passioni di cui è capace l’infanzia e di cui è capace una donna. Quelle creature attraverso le quali Marguerite Duras si è fatta conoscere e si è fatta amare, raggiungendo per di più una fama internazionale, sono da intendersi come il modo in cui ha reso giustizia e verità al proprio passato e al proprio altrove, eludendo quel doppio divieto e riuscendo miracolosamente a dimenticare ricordando, o vi-

ceversa («Segretamente la memoria si nasconde al fondo dell'oblio», ammette

del resto, a sua volta, Marguerite

Yourcenar"). Poiché di quel passato sospeso tra Francia e Indocina, di quell’altrove conteso fra ricordo e oblio ha saputo salvare il senso vitale della lacerazione — mai ricomposta — fra sé e la propria infanzia, terra, origine, 185

Tutte signore di mio gusto

madre, lingua, memoria: una lacerazione divenuta tollerabile in quanto e solo in quanto affidata ai suoi personaggi, che di essa sono diventati altrettante figure e che si sono collocati al centro di un’impossibile, straordinaria na(rra)zione o dissemiNazione"!. C'è poi la fotografia, e il modo in cui essa interferisce nell’esperienza della memoria e della scrittura di Marguerite Duras: esperienza che, in presenza di un a/de-m2émo0ire potente e insidioso come è la fotografia, si rivela portatrice di ulteriori elementi di riflessione. Fermo restando infatti il conflitto fra rigetto del passato e senso di appartenenza che quel passato stesso garantisce e promuove, osserveremo che la paradossale ingiunzione a ricordare e insieme a dimenticare, mescolando in proporzioni insondabili memoria del vissuto, ricordi «di copertura» e rimozioni spesso irreparabili, è esattamente la stessa che per la psicoanalisi freudiana governa in ciascuno di noi il rapporto col passato, e di conseguenza con quell’«io» che dolorosamente ne deriva, vittima dell’indistinzione tra «fa-

miliare» e «straniero». È, in una parola, l’esperienza del perturbante, sulla cui strada è la stessa Duras a condurci laddove, per esempio, illustra con efficaci metafore la sua ancora una volta esemplare Lol: È mentre cammina che un’altra memoria la raggiunge, e che una memoria la lascia, che il transfert avviene. [...] Ciò

che vi arriva fra le righe della scrittura, forse è semplicemente la massa del vissuto, ammesso che si possa dire semplicemente... Ma questa massa del vissuto, non inventariata, non razionalizzata, giace in una sorta di disordine origi186

I luoghi di Marguerite Duras

nario. Si è infestati dal proprio vissuto. Bisogna lasciarlo fare. Lol V. Stein è una persona totalmente infestata dal vissuto di S. Thala, dal ballo. [...] lei stessa è come un luogo infestato”.

Il soggetto prende quindi figura di luogo ovvero di casa «infestata» (bartée), dove a irrompere provocando l’esperienza del perturbante è il «fantasma» del passato e del vissuto, secondo uno scenario ben disegnato da Freud. Il ricordare, esito di un continuo transfert condotto sempre sul filo di un dilemmatico persistere fra il non abituarsi alla memoria ma neppure all’oblio, e potenzialmente soggetto all’angoscia che dal perturbante deriva, è dunque esperienza al contempo necessaria ed estremamente dolorosa, un operare lento e consustanziale alla vita in quanto fa sì che ne vada della sua verità e, per la Duras, della ve-

rità per eccellenza data dallo scrivere. Ricordare è una competenza dolorosa e difficile, come si è detto, che si acquisisce con la maturità e con la forza che ne proviene. Di qui, per Marguerite Duras, l’aderire progressivo — non subitaneo — alla scrittura autobiografica, e la capacità di riconoscersi solo a poco a poco in situazioni meno romanzate e più scopertamente dichiarate come proprie. Di qui, anche, le scene abbaglianti, corri-

spettive di altrettante agnizioni che il tempo ha reso possibili, relative al suo passato, ai paesaggi in cui si è svolto e alle figure che l'hanno popolato: paesaggi e figure che, se non hanno mai smesso di fornire materia al suo scrivere, solo da una certa epoca in avanti vengono però rico-

nosciuti in tutta la loro dirompente carica di verità, stanti 187

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non come semplici parti ma come parti per il tutto del tempo decisivo e fondante dell'infanzia (ricordiamo quella sua bella citazione: «Nulla potrà mai eguagliarne l’intensità. Ha ragione Stendhal, l’infanzia è interminabile»). Di qui, infine, quel «desiderio di dar a vedere», di «scrivere fuori» ovvero «au grand jour», come amava espri-

mersi, valendosi dei poteri evidenzianti dell'immagine, che a un certo momento ella intende più che mai soddisfare, coronando il progetto di una scrittura senza occultamenti e ormai del tutto francamente autoreferenziale. È a questo punto che interviene la fotografia. Come data di riferimento possiamo assumere il 1977: l’anno di Le camion, il film nel quale si annuncia che «Lei avrebbe parlato anche di una città che avrebbe abitato durante la sua infanzia. Lontano dalla Francia. Tropicale. Lei dice: c'è un fiume. Lei dice di ricordarsene con una precisione abbagliante»'°. Il 1977 è quindi altresì l’anno di L'Eder Cinéma, il testo che «mostra», mettendolo in scena, quan-

to già raccontato in Urra diga sul Pacifico, accorciando simbolicamente la distanza dello sguardo altrui su di sé. Ma il 1977 è soprattutto l’anno del libro fotografico I /uoghi di Marguerite Duras, nato dalla sollecitazione di Michelle Porte a mettere per iscritto il commento ad alcune fotografie che la stessa Duras le aveva mostrato in momenti di confidenza amicale. È quindi a ridosso delle immagini che il testo si sviluppa e che, soprattutto, la memoria si attiva, riconoscendosi peraltro in grado di ripercorrere, e questa volta «au grand jour», la materia del passato. È l'infanzia viene ormai riconosciuta come oggetto di scrittura, come discorso acquisito nella sua verità e final188

I luoghi di Marguerite Duras

mente attingibile nella sua travolgente immediatezza, senza gli alibi e le controfigure che fin dai tempi della Diga la forma del romanzo le aveva offerto. Ne scaturisce peraltro una parola facile e seducente, forse lo stadio germinale di quella écriture courante, flusso di parole leggere «qui sort de vous», che di lì a pochi anni — ne fa fede un'intervista apparsa su «Le Nouvel Observateur» il 28 settembre 1984 — Duras riconoscerà come propria nonché legata alla propria scrittura dell’io. L'infanzia indocinese è nel cuore del testo, e si dà come chiave, nonché di quest'opera, come

abbiamo visto di tutta l’opera e di tutta la vita di Marguerite Duras. Le foto sono di lei a quattro, cinque, dieci, sedici e diciotto anni, da sola o in compagnia dei fratelli, della madre e del padre (o «marito della madre», come preferisce dire), immortalati negli scenari di case, strade e carrozze fra Hanoi, Phnom Penh, Vinh Long e Sadek. Si alternano ai ritratti alcuni paesaggi asiatici — risaie e foreste, il fiume Mekong e le onde dell’Oceano — ai quali fanno da cornice interni ed esterni della vita francese (dunque della scrittrice adulta) e alcuni fotogrammi di Nathalie Granger, India Song e La femme du Gange. I «commenti» sono di varia estensione, come obbedienti di volta

in volta alle volontà stesse del vissuto (di cui rammentiamo che «Bisogna lasciarlo fare»), e si mescolano a citazioni da vari libri della Duras, rimarcando così la circolarità

di vita e opera e la saldezza del nesso fra vissuto e scrittura. Nel cuore del cuore quindi, ex abyrze, è una pagina di nevralgica importanza, di cui ho già dato sopra uno stralcio, nella quale in tempo reale Marguerite Duras accede alla rivelazione già sottesa al citato ricordo di Quei 189

Tutte signore di mio gusto

bambini magri e gialli, che non a caso la precede di appena un anno:

Si era più vietnamiti, vede, che francesi. È questo che io scopro ora, è che era falsa, questa appartenenza alla razza francese, alla, scusi, nazionalità francese. Noi, si parlava vietnamita, [...] mia madre chiaramente no, non

ha mai parlato il vietnamita, non ha mai potuto impararlo, è molto difficile. Io ho preso il mio diploma col vietnamita. Insomma, un giorno, bo saputo che ero francese, ecco... [...] Oh, questo fatto deve verificarsi

spesso: voi siete in un posto, [...] parlate la lingua del posto, ecc. — i primi giochi erano giochi di bambini vietnamiti, in compagnia di bambini vietnamiti — e poi vi informano che non siete Vietnamiti, e che bisogna smettere di frequentare dei piccoli Vietnamiti perché non sono dei Francesi e che bisogna mettersi le scarpe, bisogna mangiare bistecche con patate fritte e poi non comportarsi così male, che diamine. Molto tardi mi sono accorta di questo, forse solo adesso, pensi un po”. Per Marguerite Duras inizia esattamente qui e ora a dipanarsi la matassa del passato, ed è significativo che ciò avvenga proprio quando la fotografia si coniuga alla scrittura e con essa si dimostra a fondo connivente, È eviden-

te, infatti, che la fotografia completa e potenzia la scrittura di memoria di Marguerite Duras, sebbene ella stessa tenda a negarlo o, meglio, tenda a trascinare anche la fotografia nel viluppo di memoria e oblio costitutivo per lei dell’esperienza stessa del ricordare: 190

I luoghi di Marguerite Duras

Io credo che, contrariamente a ciò che la gente [...] pensa, la fotografia favorisca l’oblio. Nel mondo moderno essa ha tendenzialmente questa funzione. Il volto fisso e piatto, a portata di mano, di un morto o di un bambino piccolo è sempre soltanto un'immagine su un milione d’immagini che abbiamo nella mente. E la pellicola del milione di immagini sarà sempre la stessa pellicola. Il che conferma la morte.

È peraltro sensibile, a questa altezza cronologica (il 1987), l'impronta lasciata sul pensiero della Duras da La camera chiara di Roland Barthes e dal discorso sulla banalità e anonimato delle fotografie di famiglia che scorre alla superficie di quel libro. Ma ben maggiore presa ha su di lei quanto più in profondità lo stesso libro discute, vale a dire la natura propriamente malinconica della fotografia, significante — e più che mai nel caso delle foto di famiglia — la perdita dell'oggetto (d’amore) e il lutto del soggetto. Mi riferisco alla dimensione di planctus e di colloquio coi perduti fra gli esseri amati che la scrittura autobiografica, specie quella femminile, spesso conserva, ripercorrendo il

passato anche per poterne riporre placate le emozioni più dolorose. Nell’esperienza della Duras, si dà per l’appunto il caso di un essere amato e diletto fra tutti («Sì, è dappertutto, il fratellino. È un riferimento all'amore, enorme, incredibile. Non c’è niente da fare, non posso ricordarmi di questo senza piangere») nella cui perdita si riassumono tutte le perdite, in primo luogo quella dell’infanzia e della corrispondente parte di sé: «La mia infanzia è morta con mio fratello. Tutt'a un tratto, dopo la sua morte io sono LOI

Tutte signore di mio gusto

stata privata della mia infanzia. [...] Ho voluto morire quando lui è morto perché con lui la mia infanzia era caduta nella notte, lui l’ha portata con sé nella morte, poiché ne era il solo depositario». Ne consegue che la scrittura di Marguerite Duras, ogni volta che si volge al passato e all’infanzia, si dia come malinconica rievocazione, ed elaborazione del dolore della

perdita, dell'infanzia stessa e di quell’essere amatissimo che ne è per eccellenza la figura. Non è un caso a questo punto che la fotografia, arte fra tutte legata, come sostiene Susan Sontag, alla passione del passato, diventi complice della scrittura del passato (e proprio allorché essa si consegna apertamente come tale) di Marguerite Duras, contribuendo con il potere dell’immagine a rendere evidente lo spessore intrinsecamente malinconico del ricordare. I luoghi di Marguerite Duras è un libro particolarmente caro a lettori e lettrici della Duras, un libro che unisce

il fascino indubbio delle fotografie all’incanto del processo memoriale «in diretta» e, soprattutto, alla rivelazione che quanto di più alto appartiene all’arte della scrittrice — la comprensione, come abbiamo detto prima, della struttura del soggetto e del suo funzionamento in relazione all’inconscio e al desiderio — non è l’esito di una maturazione solo intellettuale bensì di un’esperienza personale e originaria: esperienza viva, partecipata col corpo e col cuore e carica lungo l’intero suo corso di tutte le passioni di cui è capace l'infanzia («Questo, credo, mi condizionerà per tutta la vita; come gli ebrei, tutto quello che, errando, mi sono portata dietro, è diventato ancora più forte per il fatto stesso di essere stato lontano, assente»). 192

I luoghi di Marguerite Duras

Sono tuttavia tre i libri fotografici di Marguerite Duras, anche se uno di essi lo è solo virtualmente ed è L’amant: il testo cresciuto a ridosso di una ulteriore serie di

fotografie di lei bambina e adolescente ritrovate nel 1983 e cresciuto tanto da arrivare ad assimilare in sé le fotografie stesse, ovvero a potersene rendere autonomo sostituendole con delle splendide descrizioni o «riproduzioni» ecfrastiche. Complice, in ciò, quell’unica foto non scattata, «omessa», «dimenticata» (e immediatamente rimpiaz-

zata da una foto «di parole» per dare coerenza al racconto), che al fatto stesso di mancare «deve la sua virtù, quella di rappresentare un assoluto»?!. Il terzo è quindi di nuovo un libro fotografico vero e proprio, nel quale la Duras commenta telegraficamente, quasi per aforismi, una trentina di foto scattate da Hélène Bamberger a Trouvillle e in altre spiagge del Nord della Francia. Titolo: La wzer écrite, dove immagine e testo, di

nuovo alleati, annunciano apertamente la loro complicità. È questo il primo libro postumo di Marguerite Duras, custode di una scrittura testamentaria affidata simbolicamente al paesaggio elettivo («Quando il mondo finirà, a ricoprire la crosta terrestre resterà un unico, grande ma-

re», aveva del resto confidato a Leopoldina Pallotta della Torre). E se è facile il passaggio da zer a rère, avallato da molti luoghi del testo e dal suo stesso incipit («È il mare. Ha preso tutto. [...] Cammina col tempo, come se fosse possibile»), nonché dai molteplici paesaggi marini che da sempre si associano al personaggio materno, meno scon-

tato è forse il passaggio da questo mare a quello dell’infanzia asiatica, ovvero a quell’«acqua» che nella lingua 193

Tutte signore di mio gusto

vietnamita occupa il significante per noi corrispettivo di «patria». «La mia patria è una marca d’acqua», aveva scritto ne La vita materiale, indifferente al fatto che in

vietnamita

quell’enunciato

risulterebbe

ridondante.

O

forse, viceversa, memore di ciò, e provocatoriamente de-

cisa a lasciare nella lingua un'ultima traccia di quell’infanzia interminabile, trascorsa a riempirsi la pancia di manghi, responsabile di tutti i suoi libri di memoria e di oblio.

194

I luoghi di Marguerite Duras

Note 1.

Edda Melon, Da Marguerite Duras a Hélène Cixous. Storie dell’in-

fanzia e dell’altrove, in Grafie del sé IV: Le fuorilegge del testo, a cura di Itala Vivan, Bari, Adriatica, 2002, pp. 25-36, passizz, da cui attingerò altre citazioni nel corso del testo. 2.

Sigmund Freud, Ricordi d'infanzia e di copertura [1901-1907], in Psi-

copatologia della vita quotidiana [1924], trad. it. di Carlo Federico

3.

4.

Piazza, Michele Ranchetti, Ermanno Sagittario, Torino, Boringhieri, 1971, pp. 57-69, p. 61; Cristina Campo, G% imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 18; Marguerite Yourcenar, Ad occhi aperti [1980], trad. it. di Laura Guarino, Milano, Bompiani, 1986, p. 27. Georges Poulet, Lo spazio di Proust [1963], trad. it. Giampiero M. Posani, Napoli, Guida, 1972, p. 23.

Con riferimento a: Marina Cvetàeva, I/ diavolo (per la torre); Dolores Prato, Già la piazza non c'è nessuno (per la piazza e, successivamente, per il pavimento); Marguerite Yourcenar, Quoi? L'Éternité (per l’aranceto e, successivamente, per il campo di papaveri); Virgi-

nia Woolf, Imagini del passato (per la cattedrale); Ginevra Bompiani, L'orso maggiore (per la stanza di collegio); Sylvia Plath, Ocear 1212 W (per la spiaggia); Fabrizia Ramondino, Guerra di infanzia e di Spagna (per il patio); Nathalie Sarraute, Infanzia (per il cancello): tutti testi per i quali rinvio alla bibliografia. Per la diga invece cfr.

5.

Marguerite Duras, Una diga sul Pacifico [1950], trad. it. di Giulia Veronesi, Torino, Einaudi, 1985. Fabrizia Ramondino, In viaggio, in Conversazioni difine secolo, a

6.

PESI: 1S9 spy 13 Julia Kristeva, Bu/garie, ma souffrance, in «L’Infini», 51, Automne

cura di Iaia Caputo e Laura Lepri, Milano, La Tartaruga, 1995,

1995, pp. 42-52, p. 42; e Hélène Cixous, La mia Algeriance, trad. it. di Nadia Setti, in «DWF», 41, 1, 1999, pp. 70-92, p. 92. La riflessione della Cixous approda poi magnificamente a Fantasticherie di una donna selvaggia. Scene primitive [2000], trad. it. di Nadia Setti, Torino, Bollati Boringhieri, 2005.

7.

Le citazioni, per lo più da me tradotte, sono tratte, rispettivamente, da: Bettina Knapp, Interviews avec Marguerite Duras et Gabriel Cousin, in «French Review», 4, 1971, p. 654; Marguerite Duras — 195

Tutte signore di mio gusto

Michelle Porte, Les lieux de Marguerite Duras, Paris, Minuit, 1977, p. 61; Marguerite Duras — Xavière Gauthier, Les parleuses, Paris,

Minuit, 1974, p. 136; Leopoldina Pallotta della Torre, Marguerite Duras. La passione sospesa, Milano, La Tartaruga, 1989, p. 11. Ag-

giungo il riferimento a L'ultima immagine del mondo, conversazione di Edda Melon con Marguerite Duras in appendice a Marguerite Duras, L'amante inglese [1967], trad. it. di Ginetta Vittorini, Torino, Einaudi, 1973, poi, con la traduzione riveduta di Edda Melon, ivi, 1988.

8. Jacques Lacan, Omaggio a Marguerite Duras. Del rapimento di Lol V. Stein [1965], trad. it. di Antonio Di Ciaccia, in «La psicoanalisi», 8, 1990, pp. 9-16, e Sigmund Freud, I/ delirio e i sogni nella «Gradiva» di Jensen [19071, trad. it. di Cesare Musatti, Torino, Boringhieri, 1977, p. 16. Ho fatto quindi riferimento a Adriana Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli, 1997. . Marguerite Duras, La vita materiale [1987], trad. it. di Laura Guarino, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 67. 10; Cfr. Laura Graziano, Ur'identità di natura indecisa, in Duras mon amour 3, a cura di Edda Melon e Ermanno Pea, Torino, Lindau, 2003, pp. 117-126. Per i titoli della Duras citati cursoriamente, qui come altrove, rinvio alla bibliografia. Di Cfr. Michel Foucault - Hélène Cixous, A propos de Marguerite Duras, in «Cahiers Renaud-Barrault», 89, 1975, pp. 9-10, nonché Nori Fornasier, Marguerite Duras, un’arte della povertà, Pisa, ETS, 2001, p. 42. 12: Marguerite Duras, Quei bambini magri e gialli [1976], in Il nero Atlantico [1984], trad. it. di Donata Feroldi, Milano, Mondadori, 1998, pp. 34-37. 13: Marguerite Yourcenar, Carnet di appunti 1942-1948, in Pellegrina e straniera [1989], trad. it. di Elena Giovanelli, Torino, Einaudi, 1990, pp. 159-168, p. 163. 14. Cfr. Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura [1994], trad. it. di Antonio Perri, Roma, Meltemi, 2001. 15° Marguerite Duras - Michelle Porte, Les lieux de Marguerite Duras,

cit., pp. 98-99 (trad. it. mia, come anche in seguito quando non altrimenti indicato; corsivi miei).

196

I luoghi di Marguerite Duras

To, Marguerite Duras, Le carzzion, Paris, Minuit, 1977, p. 35. £7 Marguerite Duras - Michelle Porte, Les lieux de Marguerite Duras, cit., pp. 60-61. 18. Marguerite Duras, La vita materiale, cit., p 96. 19. Ho citato da Marguerite Duras, Entretien avec Frédérique Lebelley, in «Le Nouvel Observateur», 24-30 mai 1990, p. 24, e Ead., Rezake, in Le monde extérieur, Paris, PO.L., 1993, p. 10. Cfr. quindi Roland Barthes, La camzera chiara. Nota sulla fotografia [1980], trad. it. di Renzo Guidieri, Torino, Einaudi, 1980. 20. Dichiarazione contenuta in Leopoldina Pallotta della Torre, op. cit., pelo» 2 Marguerite Duras, L’arzante [1984], trad. it. di Leonella Prato Caruso, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 18. 22% Marguerite Duras, La 7er écrite, Paris, Marval, 1996, p. 8.

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13. NATURA MORTA CON GARDENIA. BILLIE HOLIDAY

Comunque l’autobiografia è facile che si voglia o no l’autobiografia è facile per chiunque. Gertrude Stein

Gli studi femministi sul problema dell’autobiografia consentono oggi di superare d’un balzo la prima e più vistosa delle 72passes che un libro come La signora canta il blues presenta sul piano teorico, e che ha rischiato di portare fuori strada lettori e lettrici, diciamo così, tradizionali. L’autobiografia a cui Billie Holiday cominciò a lavorare alla fine del 1954, che completò con l’aiuto dello scrittore William Dufty e che pubblicò nel 1956 per la Viking di New York sembrerebbe rientrare infatti, e a tutti gli effetti, nell’ambito di quella che Philippe Lejeune nel suo emblematico Je est un autre definisce «autobiografia di coloro che non scrivono» ovvero «autobiofonia trascritta»: pesante neologismo con il quale indica il racconto di vita composto oralmente da parte di soggetti socialmente penalizzati e non autonomi nella scrittura, ai quali qualcun altro più attrezzato in retorica «dà la parola» (o viceversa gliela prende) per farne appunto scrittura. Di qui, da questa «posizione interpersonale» dell’autorialità, una preve198

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

dibile ondata di interrogazioni su chi si fregi di fatto del titolo di Autore e sull’eterno dilemma dello scrivere/esser scritti, parlare/esser parlati; su chi sia colui o colei cui spettano, fra onore e onere, la marca dell’identità e la responsabilità della firma; sull’opportunità o meno di introdurre la nozione di autore «honoris causa», o di parlare piuttosto di superchieria letteraria, di soprammisura autobiografica, di un essere se stessi «en deca de l’écriture» e così via, fra altre innumeri variazioni sul tema della prima persona e delle sue imbarazzanti «coulisses». Non bastassero l’acribia e l’astratto rigore della scuola francese, non per nulla esercitata sui testi autobiografici di gente tutta d’un pezzo come Sartre, Rousseau o Leiris, ecco provenire dall'ambito anglosassone, e proprio dallo specifico alveo degli studi sulla «jazz autobiography», indicazioni precise sul passaggio (e per converso sulla distinzione) fra lo stadio della performance orale della «persona» autobiografica e il suo costituirsi, tramite un amanuense, a «men (o woman) of words», come testimonia il

caso di molti protagonisti della storia del jazz autori di rispettive e celebri autobiografie': indicazioni che, mentre valorizzano la straordinaria ricchezza della «black oral tradition» e l’alta competenza espressiva degli storytellers afro-americani, allo stesso tempo però rafforzano l’opposizione fra oralità e scrittura, o performance e letteratura, e acutizzano ulteriormente l’alterità già problematica che lega il soggetto autobiografico al suo amanuense. È la fortunata intuizione post-strutturalista, fatta propria dalle più avanzate posizioni teoriche del femminismo, che l'autobiografia non sia un genere letterario ma piutto199

Tutte signore di mio gusto

sto una «figura di lettura», un testo dunque che richiede di spostare l’analisi dal piano della sua genesi (là dove si suppone regni l’Autore) a quello della sua realizzazione e ricezione (laddove invece provvidenzialmente lo attendono il lettore e ancor meglio la lettrice), a consentirci quindi di aggirare categorie che come tali hanno fatto il loro tempo, e di procedere verso un nuovo punto di partenza in vista di ulteriori profitti teorici. Se accettiamo infatti che sia lo sguardo di lettura a testualizzare un soggetto, e che l’autobiografia sia pertanto la testualizzazione operata da uno sguardo di lettura, non avrà più senso distinguere fra testi di autorialità pura o impura, ibridati o meno, perfetti o imperfetti in qualità di (auto)biografie e in grado di render conto in modo non ambiguo della prima o della terza persona; ma avrà senso semmai guardare all’autobiografia nella prospettiva di una relazione fra due, pensare al soggetto come a un soggetto in relazione, e affermare risolutamente che l’io dell’autobiografia «è sempre un soggetto impuro, un soggetto sospeso dalla figura della lettura [...] tra un’implicazione soggettiva indimostrabile e uno sguardo che desidera la sua visibilità e la realizza». Grazie a queste posizioni, nonché al fatto che si tratta in ogni caso di un soggetto che si è affidato giustappunto al primato della vocalizzazione sul linguaggio, possiamo dunque accostarci all’autobiografia di Billie Holiday senza drammatizzare in eccesso la presenza dell’amanuense e il lavoro di redazione da questi pur vigorosamente svolto sugli appunti e il vivo dettato della cantante. Tale è peraltro, e specularmente, il lavoro di autorappresentazione che il libro presume, e tante e complesse sono le variabili 200

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

che l’autobiografa a tal fine mette in gioco, da imporci di valorizzare essenzialmente, se non esclusivamente, la passione d’enunciazione che, senza possibilità di equivoci, firma l'autobiografia: in altre parole, quel forte desiderio di dirsi che ha evidentemente sostenuto Billie Holiday (o Lady Day, come molti amano chiamarla) da cima a fondo nella sua impresa, ovvero il magnifico sforzo da lei compiuto per assegnarsi un'identità tramite il suo sentire e il suo raccontare. Nascono così, del resto, più o meno tutti i racconti di

una vita «degna di essere narrata» a dispetto dell’appartenenza ai ceti medio-bassi, e ad aree della cultura escluse

dal canone letterario, di molti autobiografi e soprattutto autobiografe a partire addirittura dal Seicento; e a dispetto altresì della provenienza «dal basso», o della marginalità sociale, della sostanza biografica nonché della rudimentale strumentazione retorica (dovuta a scarsa familiarità con le strutture della lingua ufficiale e scritta) di questi soggetti. Come Gabriella Rossetti ha avvertito per tempo, si tratta infatti di concepire «una maniera eversiva di impostare il rapporto tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, tra ciò che dimostra la presenza e ciò che sancisce l’assenza di ciascuno sulla scena del mondo»). Rilanciando peraltro sul piano filosofico e politico, laddove e fin dove possibile, la postura della discontinuità, dell’intermittenza, della mancanza e della sottrazione che caratterizza la vicenda delle donne nella storia, e che consente loro di ri-

pensare a fondo l’esperienza del tempo e il rapporto con la tradizione: alla luce di un soggetto non necessariamente tenuto a farsi vedere per «esserci», e della libertà di sen201

Tutte signore di mio gusto

tirsi vere e presenti anche se poco visibili, come si diceva, «sulla scena del mondo». Incalzano tuttavia, nel caso dell’autobiografia di Billie Holiday, ulteriori domande. Quale «mondo» per esempio e quale «scena» occorra tenere presenti quando si tratta

della visibilità di una donna nera; se lo sforzo di assegnarsi un'identità sia valutabile a prescindere da, o non piuttosto in stretta e necessaria relazione con, la comunità tra-

dizionale da cui muove e in cui si radica la negoziazione del suo io femminile; cosa significhi dunque, per chi come lei si riconosce parte integrante di un gruppo sociale ed etnico minoritario, rivendicare assieme al diritto di avere una storia anche quello di essere nella storia; in che misura infine la dimensione estetica, di cui col suo canto si è

fatta portatrice, entri per Billie Holiday nel processo di trasformazione di sé come persona, come donna e come soggetto politico. Sono domande che si saldano strettamente l’una con l’altra, e alle quali con la sua autobiografia Billie Holiday fornisce, ne sia consapevole o meno, una risposta unitaria e profondamente soddisfacente. Giacché riscattarsi dalle proprie iniziali condizioni di indigenza (abiezione, direbbe Judith Butler) sociale, e proporsi come donna e come nera, come «corpo che conta» tramite il quale candidarsi all’esistenza nonché come artista che, proprio in quanto nera, è portatrice di una concezione

dell’arte come strumento intrinseco della politica, furono per Lady Day tutt'uno, e tutto ha finito per convergere nel suo autoritratto in parole o racconto di sé. È per l’appunto questa molteplicità di tratti costitutivi del suo profilo di soggetto complesso e nomadico, ed è la necessità di tenerli 202

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

presenti tutti insieme pena il fraintendimento del suo libro e del suo essere, a far sì che risulti difficile rendere conto di questa autobiografia, che, con buona pace di Gertrude Stein, si presenta come operazione tutt'altro che «facile». Abbiamo oggi, questo è vero, maestre formidabili di un pensare complesso e interculturale, di cui decenni intensi di black, women's e gender studies quali sono stati gli ultimi hanno preparato l’avvento, che ci aiutano a costruire rispetto al testo di Billie Holiday le nostre più o meno adeguate figure di lettura. Angela Davis innanzitutto, che ha fatto svoltare la storia della critica e della fortuna di Lady Day rilevando le implicazioni sociali delle sue canzoni d'amore, e individuando tutta la portata politica (che passa attraverso l'introduzione di «una dimensione inesplorata di razza, violenza e [...] sessualità nei night club e nelle sale da concerto» svelando «gli intimi legami tra amore, sessualità, individualità e libertà») del suo processo di trasformazione estetica'. E accanto a lei bell hooks,

che consente di contestualizzare il lavoro di Billie Holiday all’interno di una complessiva «estetica della negritudine» per quanto riguarda in particolare l'evoluzione della coscienza femminile: indicandoci così la fondamentale esperienza di empowerment che deriva per i membri della comunità afro-americana

dal lavoro artistico, e stimando

«preziosa l’estetica radicale che cerca di [...] ripristinare i legami tra arte e politica rivoluzionaria, in particolare tra arte e lotta di liberazione nera». Mentre le parole con cui sua nonna Baba le ha trasmesso la bellezza, spiegandogliela come «un malessere del cuore che rende reale la nostra passione», non faticano a proporsi come un insegna203

Tutte signore di mio gusto

mento per tutti. E accanto a bell hooks ancora Audre Lorde, la sua rivoluzionaria indicazione del carattere politico della sessualità, e la sua teorizzazione dell’erotismo

come risorsa «del tutto femminile e spirituale», affermazione di forza vitale e potente energia creativa collocata «fra gli inizi del nostro senso di sé»: tutte tracce che conducono alla comprensione della portata dirompente della conturbante bellezza di quella donna, l’abito di seta e una gardenia fra i capelli, che «da sola», come scrive Alexis De Veaux, «era già jazz». E infine, e per non retrocedere oltre, Alice Walker, che riflette «sul complesso mondo della donna nera creativa» e si interroga su come fu mantenuta in vita la sua creatività nel corso degli anni e dei secoli di schiavitù: ristabilendo il legame fra le varie forme di espressione artistica (il dipingere, il cantare, il raccontare e il tessere accanto allo scrivere), e indicando nelle opere anonime di tante madri e nonne e bisavole la traccia di una spiritualità profonda e di una potente immaginazione, lungo la quale si è trasmessa — e si è salvata — l’idea della bellezza’. È vero dunque, abbiamo delle grandi maestre. Ma ciò non toglie che sia difficile cogliere, senza travisarli a nostra misura, il senso e la portata di un’autobiografia come quella di Billie Holiday, del testo cioè che pienamen-

te documenta la formazione di lei come soggettività discorsiva e che insieme le consente, in quanto narrazione,

di rielaborare la sua esperienza personale e di attribuirvi (o di far sì che altri/e vi attribuiscano) un significato po-

litico: posizionandosi là dove si intrecciano il suo essere donna e il suo essere nera, il suo essere bella, e la malia 204

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

del suo canto. Si tratta di una lettura difficile per questo, per la necessità di posizionarsi a propria volta in modo da non tradire la complessità del soggetto, e paradossalmente ancor più difficile nel caso si abbia esperienza di autobiografie di voci — fuor di metafora — bianche: le quali al confronto con la voce di Lady Day, che anche per questa via e una volta di più sfida la comprensione e la cultura dei bianchi, esentano la lettrice occidentale da tutta una serie di necessari passaggi, e se anche non la dispensano dal mettere in campo in modo responsabile la propria alterità tuttavia fanno leva, per forza di cose, anche su forti tratti comuni. Leggere l’autobiografia di Billie Holiday espone viceversa tale lettrice al rischio di completare quella che Toni Morrison definisce, vedendola dalla parte dell’autore (di un autore, beninteso, non nero), «la costruzione di un personaggio africanista»: operazione che consiste in «una straordinaria meditazione sul proprio io [e in] una vigorosa esplorazione delle paure e dei desideri che risiedono nella coscienza di chi

scrive. È una stupefacente rivelazione di desiderio, di terrore, di perplessità, di vergogna, di magnanimità. È necessaria molta fatica — conclude infine l’autrice di Arzatissima — per non vedere tutto questo». Ma altrettanta fatica si impone, sembra di poter aggiungere, perché con «tutto questo» correttamente si misuri chi invece «vede»

ma sa di vedere a partire da un’altra cultura, un’altra storia sociale e un’altra tradizione di autobiografia. Ferma restando in ogni caso l'eccezionale intensità e bellezza di questa autobiografia, bellezza riconoscibile esattamente come quel «malessere del cuore» che stando alle parole 205

Tutte signore di mio gusto

di nonna Baba, e a prescindere da chi noi siamo, «rende

reale la nostra passione».

La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciott’anni, lei sedici, io tre”.

È questo l’inizio, citatissimo e (perché) spiazzante, dell'autobiografia di Billie Holiday, che non perde tempo ad

attuare e a rendere riconoscibile la strategia narrativa destinata a informare tutto il racconto: strategia che consiste nell’emulare l’impianto curriculare dell’autobiografia «classica» allo stesso tempo sovvertendolo, e piuttosto radicalmente, ogni volta che, rivestendolo del proprio specifico vissuto, colei che narra fa emergere gli ambienti, i costumi, il linguaggio e l’etica della comunità afro-americana. Soprattutto nei primi quattro capitoli, nei quali si contrae il racconto dell’infanzia e dell'adolescenza in vista della lunga, precoce e drammatica maturità personale e professionale, troviamo riscontro, e abbastanza puntualmente, di tutte le atmosfere, le sequenze cronologiche e i

temi portanti di ogni classico racconto di formazione: dall'albero genealogico materno e paterno (per quel poco che si riesce a ricostruirne) ai primi ricordi di vita domestica, dal rapporto con la madre, col padre e con «gli altri» all’accesso al mondo del lavoro e all’esperienza del sesso, dal primo impatto con la morte alla scoperta della vita interiore, dell'amicizia, della bellezza e, naturalmente, della musica jazz. Salvo che le spietate regole di sopravvivenza in una società razzista, classista e sessista, la tensione e la 206

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

violenza che regnano nei quartieri neri delle città del Nord e lo spesso patois della lingua del Sud producono una visione alterata, quasi distonica di quelle atmosfere e di quei temi stessi: con l’effetto complessivo — per chi di noi abbia in mente, come è inevitabile, il modello occidentale — di una specie di anamorfosi del romanzo di formazione, riconoscibile solo se guardato non frontalmente ma in diagonale o in trasparenza. [Mia madre] mi volle bene fin da quando io non ero per lei che un mucchio di calci nelle costole, mentre lei strofinava pavimenti (p. 5).

Il babbo era sempre fissato col voler suonare la tromba [...], l’esercito se lo beccò e lo spedì dritto dall’altra parte dell’oceano [...] e il gas gli rovinò i polmoni. Amen (p. 6).

Quando era arrabbiata [la cugina Ida] picchiava in maniera terribile, non con una cinghia, non a sculaccioni, ma con

i pugni chiusi o con la frusta. Non mi capiva (p. 7). [Il cugino Henry] Mi arriva con un talpone enorme [...]. Lo teneva per la coda e me lo ciondolava davanti al viso. [...] Io allora presi la mazza del baseball e lo spedii dritto all'ospedale John Hopkins (p. 9).

Certo, la persona che mi piaceva di più era la mia bisnonna, la mamma del nonno. Lei sì che mi adorava, e l’adora-

vo anch'io. [...] Si parlava di una quantità di cose, della vita, e lei mi spiegava come ci si sentiva da schiavi (p. 9). 207

Tutte signore di mio gusto

La mamma incontrò Phil Gough. [...] era di una famiglia molto buona, [...] erano parecchio chiari di pelle, sicché non erano affatto contenti che lui si mettesse con la mamma e con me (p. 18). Questo, a grandi linee, l’ambiente familiare di Eleano-

ra Fagan, in arte Billie Holiday: una madre e una bisnonna adorate, un padre che l’abbandona, un patrigno tenero morto precocemente e cugini dai quali apprende la crudeltà e l’ingiustizia. Questa, fra Baltimora e New York, la cornice affettiva dalla quale a dieci anni Eleanora muove suo malgrado per sostenere, come le è possibile, le prove di ammissione all’età adulta, mentre con l’accesso a una

socialità e a una erotica (che nella sua esperienza si chiamano bordello e stupro) canonicamente si compie, fra insegnamenti ricevuti e pratica del vivere, la sua educazione sentimentale: Quasi dormivo, quando sento il signor Dick che mi viene addosso strusciando e cercando di fare quello che sempre cercava di fare mio cugino Henry. Mi misi a strillare e a tirar calci all'impazzata, e allora la donna della casa entrò e cercò di tenermi ferme le braccia e la testa perché il signor Dick potesse far meglio (p. 19). Non sono la sola, penso, ad aver sentito per la prima volta del buon jazz in un bordello. Però non ho mai dato importanza a questo fatto. Se avessi scoperto la musica di Louis e Betsie a una riunione delle Giovani Esploratrici mi sarebbe piaciuta lo stesso, ecco (p. 13). 208

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

Mentre altre capitali esperienze come la morte, il viaggio, la prigione, e su diverso piano l'amicizia, la solidarietà, l'istruzione, sigillano il suo veloce e traumatico apprendistato. Viene quindi, sulla soglia della sua precoce maturità, la famosa notte del 1930 che vede il suo cruciale, e del tutto casuale, debutto da cantante: Dissi al pianista di suonare Vagando da sola, che rispecchiava su per giù lo stato d’animo mio di quelle ore [...]. Quand’ebbi finito, tutti stavano lacrimando nelle loro bir-

re, e racimolai trentotto dollari (p. 42).

Si tratta, come già per l’incipit, di un altro passo esemplare quanto citato, che nel libro segna insieme il passaggio all’età adulta e alla vita di jazz singer della protagonista. Scorrono pertanto di qui in avanti, con il solito stile asciutto, disincantato e veloce, scene ed episodi varie volte ram-

mentati, selezionati e messi in versi dai suoi biografi e biografe: concerti, apprensioni, cadillac e torpedoni, le canzoni d’amore e la messa in questione dei ruoli di genere nelle relazioni sentimentali dei neri e dei bianchi; amanti, mariti, amicizie e abbandoni, speranze, delusioni e la ricerca rabbiosa della libertà; la morte del padre, Strange Fruzt, il dolo-

re e la denuncia della violenza razzista, la Guerra e le guerre con le case discografiche e gli impresari di Broadway; la morte della madre, la Grande Scimmia, le terapie, le persecuzioni e le cauzioni, il riformatorio e la prigione, il primo viaggio in Europa e l’inizio del declino (l’autobiografia, ricordiamolo, si ferma al 1956, anno della sua stessa uscita). 209

Tutte signore di mio gusto

Resta però da indagare, al di qua (o al di là) dei fatti narrati e rinarrati, la ragione profonda che ha portato l’autrice a raccontare la sua vita, e quindi da discutere il significato che di conseguenza, e complessivamente, il libro assume. A partire dal suo tono di ampia conversazione (farcita fra l’altro di interlocuzioni del tipo «vedi» o «vedete», «immagina», «non te lo dimenticare» e simili),

di racconto «parlato» (e pour cause) che sembra mettere in campo, nella sua velocità, un tempo reale, io sarei innanzitutto per pensarlo, a prescindere ovviamente dal riferimento cristiano, come una confessione: un tipo di discorso cioè che sempre, come dice Marfa Zambrano, parte dal presupposto «che l’individuo soffre e può smarrirsi», e persegue l’obiettivo «che la vita [...] incontri infine la sua figura, e smetta di essere un peso»*. È proprio il dolore infatti, a mio avviso, il movente primario di questa scrittura, è la «passione», nel suo senso etimologico, che

fa da sfondo e sulla quale si innesta la più metaforica ma non meno autentica «passione dell’enunciazione». Pratica mirata all’esercizio, alla competenza e al governo del e sul proprio sentire, la lunga confessione in cui consiste l'autobiografia di Billie Holiday, che non per nulla Alexis De Veaux ha definito «l’ultima sua canzone», assolve, per come io la vedo, proprio la medesima funzione delle sue canzoni. «Il dolore si può cancellare con una canzone», scrive De Veaux. «Il dolore può diventare jazz digerito e trasformato». E ancora: «Non voleva piangere né portare il lutto. / E così si mise a cantare. / Dischiuse le labbra chiuse gli occhi e cantò / per la morte / di Clarence Holiday». E ancor meglio: 210

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

Cantare la avvicinava alla libertà che un giorno sarebbe arrivata. Dava una forma e una chiave al suo dolore. Dava alla sua sofferenza un profilo che lei riusciva a gestire’.

È questa un'esperienza, se siamo sulla strada giusta, in cui si possono riconoscere moltissime altre esperienze di donne, che in spazi e tempi diversi hanno saputo dar prova di una straordinaria competenza nell’elaborare il dolore e nel convertirlo in energia creativa; ed è, anche,

un’interpretazione della biografia di Billie Holiday che coincide con la mia interpretazione della sua autobiografia. Sento infatti chiaramente in tutto il libro, come ho detto, una nota di fondo, che mi risuona ad apertura di

pagina fra allegrie speranze rabbie nostalgie malinconie, e che è una nota di dolore: il dolore, vorrei dire, della ne-

gritudine stessa, e di quell’estetica della negritudine come «modo di pensare alla bellezza che fa male», e che ferisce a sangue, così come bell hooks, ancora una volta, ci

invita a pensare. Dolore indimenticabile per colei che lo porta in sé, profondo, forse strutturale, e in ogni caso e dannatamente rinnovato ogni giorno nonché ogni notte;

e che se spesso si stempera o dissimula in uno stile espressivo non indulgente e non sentimentale, ma anzi come

si è visto secco, ironico e dissacrante, tuttavia in

qualche pagina si fa eloquentissimo, lasciandosi riconoscere come l’autentica «grana» — direbbero alcuni — della «voce» anche letteraria di Lady Day. Un solo esempio per tutti:

ZI

Tutte signore di mio gusto

Puoi vestirti da capo a piedi di lustrini con le gardenie nei capelli, mille miglia lontano dalla più vicina canna da zucchero, e nonostante ciò sentirti ancora in mezzo alla piantagione, con lo stesso clima, gli stessi umori, le stesse regole. Guarda per esempio la Cinquantaduesima Strada intorno al millenovecentoquaranta [...] Non c’era da raccogliere cotone [...] ma credimi, da qualunque punto di vista tu la guardassi, era vita di piantagione (p. 124).

A questo dolore comunitario e collettivo, legato alle radici stesse del suo essere, fa da riscontro quindi, come abbiamo visto e tutti sanno, un dolore privato e solo suo,

legato alla lunga serie di perdite e lutti che, disseminati lungo il percorso biografico di Lady Day, mai l'hanno tenuta lontana dall’idea della morte. A partire da quando, bambina di pochi anni, si risvegliò dal sonno nell’abbraccio inamovibile della bisnonna «morta stecchita» (p. 10). Scena primaria, trauma originario o altro che sia, sta di fatto che le ripercussioni e le proiezioni di questo evento affollano il racconto di vita di Billie Holiday, tanto da indurre a pensare che il suo raccontarsi sia addirittura maturato da un impulso dettato dal lutto, dal pensiero della morte così propria come altrui («La mamma era arrivata all’età di trentott’anni [...]. Anch'io mi fermerò lì, a trentott'anni, quaranta al massimo [...]. A volte mi sembra di avere vent'anni e a volte mi sembra di averne duecento. È una cosa in cui c'entra poco la matematica», p. 142). Saremmo con ciò, peraltro, perfettamente nel regime di quell’idea su «lutto e autobiografia» che tanta fortuna incontra in Occidente, e che sulla scorta di casi quali quelli 212

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

di sant'Agostino, di Montaigne o di Heidegger sostiene che l’autobiografia, prolungamento della /audatio funebre e dell’iscrizione sepolcrale, trovi «la propria origine [...] nello scorrere del tempo, nel vedere la morte che si avvicina, e nella conseguente necessità di lasciare una traccia di sé»'°. Testo propriamente malinconico, che sorge a ridosso dell’esperienza della morte, l’autobiografia, per sua natura funzione della vita, assolverebbe dunque paradossalmente un’onoranza funebre, volgendosi a contemplare la compiutezza sepolcrale del passato e interpretandola come immagine della fine: ipotesi che, se non del tutto, almeno in parte aiuta a capire un’operazione come quella de La signora canta il blues, che soprattutto nelle sue ultime pagine esibisce una struttura francamente testamentaria («Io non voglio far prediche [...]. Spero però che qualche ragazzo legga questo libro, e che c’impari qualcosa», p. 239). Che l’autrice desiderasse intitolare il suo libro Arzaro raccolto, come testimonia ancora Alexis De Veaux, è quindi un indizio importante e non trascurabile, che rafforza l'intuizione del dolore, comunitario e privato, quale nota di fondo, e la percezione dell’intonazione malinconica e luttuosa della scrittura. Quanto poi al dolore specifico della e per la dipendenza dalla droga (rispetto alla quale la cantante aspira a impartire, come si evince anche dal passo appena citato, una lezione di vita), su cui molti biografi insistono, non sembrerebbe possibile considerarlo se non in relazione a quello che di fondo nutre la vita di Lady Day, come parte per il tutto, insomma, del suo amaro raccolto. Più pregnante invece l’indicazione, che proviene da AD

Tutte signore di mio gusto

uno studio tutto teorico sull’autobiografia, circa la «natura morta» della referenza in ogni scrittura autobiografical": come a dire dell’impossibilità per una vita di passare nella scrittura, e del suo lasciarvi di conseguenza traccia di morte. Il che, se pensiamo che Billie Holiday è per statuto un soggetto affidato alla vocalità, ovvero che a essa essenzialmente ha affidato la propria verità, può venire adeguatamente risignificato. Risignificato anche alla luce della coincidenza della traduzione inglese dell’espressione «natura morta», quello sz// living («ancora [per quanto?] in vita») che sembra rispecchiare pienamente la circostanza di un’autobiografia pensata e scritta (o dettata, non fa niente) nell’imminenza della morte. Ma non vorrei concludere senza convocare un’altra coincidenza che, per quanto mi porti in territorio altrui (nell’ambito, cioè, del mistero e del senso della voce di

Billie Holiday cantante), ciò nondimeno mi sta a cuore. Si parla in genere, per Billie Holiday, di voce ferita, affranta, addolorata e simili. Si dà quindi il caso che la grecista Nicole Loraux, da pochi anni scomparsa, abbia inti-

tolato il suo ultimo libro La voce addolorata. E si dà il caso altresì che vi tratti dello scarto, nella civiltà ateniese, fra

il teatro e la politica: uno scarto colmato, attraverso la tragedia, dalla voce addolorata delle donne — Elettra, Polis-

sena, le Troiane, le Supplici — che fra il grido, il lamento e il pianto, nell'espressione del loro dolore intransigente, si chiamano fra loro «cittadine», e pur rimanendo lontane dalla limpidezza richiesta dal discorso politico, in cui il senso prevale sul suono, vocalizzano — privilegiando significativamente il canto rispetto al discorso — una «politica 214

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

al femminile», magistralmente gestendo la coppia mal assortita di logos e phoné. La voce addolorata è dunque una voce politica; di più, è la voce che porta il teatro sull’agorà (luogo per antonomasia della politica) o che viceversa può portare l’agorà nel teatro. Così come Billie Holiday, che denuncia le differenze razziali e le violenze maschiliste nelle sale da concerto e lo fa attraverso un «linguaggio» in cui il suono prevale sul senso, con la sua voce ferita e numinosa che ci ri-

chiama, direbbe la Loraux, oltre la nostra appartenenza a una comunità civica, a «cogliere la [nostra] appartenenza,

più essenziale ancora, alla stirpe dei mortali»!?. Parole con le quali vorrei rendere omaggio, oltre che a Nicole Loraux, a Billie Holiday e a chi, come Farah Jasmine Griffin*, ha avuto il coraggio di considerarla divina.

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Tutte signore di mio gusto

Note Cfr. Philippe Lejeune, Je est un autre, Paris, Seuil, 1980; Kathy Ogren, «Jazz isn't Just Me»: Jazz Autobiographies as Performance Personas, in Jazz in Mind. Essays on the History and Meanings of Jazz, a cura di Reginald T. Buckner e Steven Weiland, Detroit, Wayne State University Press, 1991, e Thomas Carmichael, «Bereath the Under-

dog»: Charles Mingus, Representation, and Jazz Autobiography, in «Canadian Review of American Studies», 25, 3, Fall 1995.

Carla Locatelli, Passaggi obbligati: l’«imperfezione» della differenza autobiografica, in Passaggi. Letterature comparate al femminile, a cura di Liana Borghi, Urbino, QuattroVenti, 2001, pp. 57-65, p. 65. Gabriella Rossetti, Una vita degna di essere narrata. Autobiografia di donne nell’Inghilterra puritana, Milano, La Salamandra, 1985, p. 39. Angela Davis, Quando una donna ama un uomo. Le implicazioni sociali nelle canzoni d'amore di Billie Holiday [1998], trad. it. di Liana Borghi, in Lady Day Lady Night. Interpretare Billie Holiday, a cura di Giorgio Rimondi, Milano, Greco & Greco, 2003, pp. 19-39, p. 20. Ho citato da: bell hooks, Estezica della negritudine: estraneità e opposizione [1991], in Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, trad. it. e cura di Maria Nadotti, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 47-61,

pp. 58 e 47; Audre Lorde, Usi dell'erotismo: l'erotismo come potere [1984], trad. it. di Elisabetta Neri, in Critiche femministe e teorie letterarie, a cura di Raffaella Baccolini, Maria Giulia Fabi, Vita Fortu-

nati, Rita Monticelli, Bologna, Clueb, 1997, pp. 247-254, pp. 247248; Alexis De Veaux, Una canzone per Billie Holiday [1980/1988], trad. it. di Luciana Bianciardi, Milano, Hestia Edizioni, 1999, p. 67; Alice Walker, A//a ricerca dei giardini delle nostre madri [1974], trad. it. di Valentina Gallegati, in Critiche femministe e teorie letterarie, cit., pp. 309-319, p.311 e passzirz. Toni Morrison, Questioni nere, in Giochi al buio [1992] trad. it. di Franca Cavagnoli, Piacenza, Frassinelli, 1994, pp. 3-32, p. 19.

Billie Holiday, La signora canta il blues [1956], trad. it. di Mario Cantoni, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 5. Di qui in poi le citazioni da questo volume saranno indicate direttamente nel testo, tramite il numero — riportato fra parentesi — della pagina dalla quale si legge. Marfa Zambrano, La confessione: genere letterario [1943], trad. it. 216

Natura morta con gardenia. Billie Holiday

(parziale) di Federico Ziberna, in «aut aut», 265-266, gennaio-apri-

le 1995, pp. 69-89, pp. 75 e 79-80.

. Alexis De Veaux, op. cit., pp. 135, 49, 56, 104. . Maurizio Ferraris, Mirzica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano, Bompiani, 1992, p. 7. Li: Carla Locatelli, L’(auto)biografia: una figura di lettura nella politica co(n)testuale femminista, in «DWF>», 3-4, 39-40, luglio-dicembre

1998, pp. 90-113, p. 105.

L2: Nicole Loraux, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca [1999], trad. it. di Monica Guerra, Torino, Einaudi, 2001, p. 159. db: Farah Jasmine Griffin, If You Can't Be Free, Be a Mistery. In search of Billie Holiday, New York, Ballantine Books, 2002.

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14. LETTERE A MITA DI CRISTINA CAMPO

In una bella pagina di commento alle Lettere a Mita di Cristina Campoa un certo punto si legge: La congenialità della forma epistolare diviene, per la Campo, [...] una componente naturale dello stile che all’intimo — e, in genere, all’umano — guarda come al luogo di un incorporeo cimento in cui la scrittura si spoglia, in virtù delle esigenze di una posta in gioco esorbitante, d’ogni angusta connotazione personale! .

Soffermiamoci su questa affermazione, e domandiamo-

ci perché mai le «connotazioni personali» di una scrittura debbano considerarsi «anguste» e perché altre persone, al contrario, le prediligano e ne vadano in cerca come di tracce concrete della verità, o dell’essere davvero presente, di chi scrive. Domandiamoci, anche, fino a che punto di astra-

zione possa spingersi un’idea del soggetto che scrive tanto più apprezzabile quanto più epurata di tratti propri, persa di suo o indistinguibile per noi nel gran mare dello stile inteso come «figura e rzariera di nessuno», e meglio capace di rappresentare l’universale quanto più si scarnifica e si sradica dal terreno della sua creaturalità senziente e vivente. 218

Lettere a Mita di Cristina Campo

Sono, li riconosciamo, i rischi che comporta la teoria letteraria, orientata magari, per soprammercato, da alcuni maestri che sono andati così lontano lungo la loro deriva teorica da essersi sganciati da qualsiasi evidenza, persuasi infine dell’improbabilità — sempre teorica - del soggetto e rapiti dalla domanda pur sensatissima e fascinosa su chi scrive quando qualcuno scrive. Il tutto complicato da un’interlocuzione come quella di chi, grazie invece ad alcune maestre, ha imparato a portare l’esperienza dentro al pensare e a capire che ci può stare, che l’atto intellettuale può essere ovvero non può non essere tutt'uno con l'evidenza del soggetto incarnato, e che non occorre rinunciare ad alcuna delle proprie «connotazioni personali» perché attraverso di noi passi e si attesti — quando ciò possa accadere e null’altro osti — la grandezza o l’«esorbitanza» della posta in gioco mentre si scrive, si pensa o si fa comunque lavoro della mente. E che non c’è nulla di angusto — ma semmai di augusto, vorrei quasi per scher-

zo azzardare — in ciò che di personale ci connota; che nel caso va ricercato altrove, e diversamente misurato, ciò

che marca la nostra finitezza, e che lungi dal far apparire scadente il soggetto che scrive le sue connotazioni personali lo inverano e garantiscono per lui. Tanto più se si parla, come in questo caso, di scrittura epistolare: scrittura richiamata alla contingenza (nonché alla circostanza) sia nel tempo antico che nel moderno, relazionale per eccellenza (essendo la lettera per suo statuto una delle due

metà di un dialogo), e la cui bellezza dipende dai segni dell’amicizia che contiene: nata com'è, e come la sappiamo, sul fondamento dell’affettività e dell’amicalità, e conZA

Tutte signore di mio gusto

cepita senz'altro come espressione di un rapporto ‘n/erpersonale. Su questa strada, segnata in origine dai primi trattati e percorsa dagli epistolografi e teorici della lettera di tutti i secoli, si arriva lontano: fino ad abolire la distinzione del-

la lettera in «privata» e «pubblica» e a capire che le lettere esistono per ricordarci che la scrittura, da sempre evidentemente privata, è anche da sempre presa in un divenire pubblicoe dia-logico. Non è solo il caso della lettera, ma della scrittura, gràmma e/o Zttera, tramandamento

o

prassi, legenda’.

A capire quindi che la lettera, parte per il tutto dello scrivere e sua esemplare sineddoche, vive là dove una privatezza è messa in gioco e condivisa, un segreto è confidato e un monologo si apre al dialogo; che scrivere lettere è scrivere tout court, e che non occorre (non occorre piè) ribadire come le lettere non siano parassitarie rispetto all’opera di un autore o un’autrice ma loro parte essenziale e integrante.

Io desidero però fermarmi prima. Mi preme infatti cercare di capire come mai quello che comunque da alcuni è stimato tratto stilistico di rilievo — l'assenza o la rarità, nella scrittura epistolare di Cristina Campo, di connotazioni

personali — sia esattamente ciò che scoraggia me nella lettura, che mi rende insoddisfatta e poi sospettosa e alla cui evidenza non mi arrendo, mettendomi di conseguenza più caparbiamente in cerca dei segnali affettivi e di relazione — personale, appunto, e interpersonale — la cui presenza 220

Lettere a Mita di Cristina Campo

do per scontata e che da qualche parte, mi dico, devono pur essere.

E ci sono. Sono a mio avviso, lo anticipo, nel non

detto o nel detto appena, nel trattenuto a fatica, in ciò che trapela, nei lapsus, nelle allusioni, nelle reticenze e in altre

circostanze (retoriche e psicologiche) di questo genere che non di rado si verificano nella scrittura «privata» di Cristina Campo. Si annidano non visti, o poco visibili, là dove si allenta il supremo controllo, da parte della Campo, del dire e dello scrivere, dove suo malgrado un’emozione, una commozione o un ricordo premono spodestando la tensione deputata alla sorveglianza stilistica, e dove la forma, se anche non arriva a essere la stessa del «sermo» orale, tuttavia ne

arieggia per un breve tempo la libertà e la disinvoltura. Certo questo venir meno del controllo, questo «svenimento» della coscienza e il conseguente manifestarsi del suo segreto — quel se/cretum, quell’alcunché di separato dalla vita appunto della coscienza per inseguire il quale, secondo Marfa Zambrano, si scrive e quel «segreto» altresì posto da Cicerone alla base della scrittura epistolare — è un'esperienza infrequente. Non avviene se non di rado, contrastata com'è dalla disciplina, e dall’etica, della vigilanza e non si attesta se non in spazi esigui, in minimi luo-

ghi rari e sparsi nelle lunghe lettere del corposo carteggio (e preciso che lo chiamo carteggio anche se, a rigore di definizione, si tratta di un epistolario, poiché contiene soltanto le lettere della Campo e non quelle di Margherita Pieracci. Tuttavia il denso apparato di note, che costituisce una sorta di controcanto di chiarificazione e commento alle lettere della Campo, fa sì che la voce della corrispondente nonché curatrice del volume risulti ben udibile 221

Tutte signore di mio gusto

e a suo modo dialogante, sia pure confinata per discrezione nel paratesto). Le quali lettere si lasciano in media e facilmente scomporre, complice del resto il formato-standard della lettera in genere, in porzioni di testo che assecondano una tri- o quadripartizione scandita come segue: 1) una cornice, costituita a sua volta dal formulario d’esordio e dalle clausole di congedo; 2) un argomento di avvio, desunto di norma dal «notiziario» del giorno o del periodo di vita della scrivente; 3) un corpo o nucleo, riservato allo scambio intellettuale e alla comunione spirituale, all’intarsio di citazioni mirato a restituire uno stato interiore, alla condivisione di

tensioni creative, e alla comunicazione di progetti letterari che maturano nel regime dell’amicizia. È possibile osservare come quelli che abbiamo chiamato svenimenti della coscienza, ovvero i momenti

di

espressione preterintenzionale di un io incarnato e palpitante, con la sua dotazione di affetti e difetti e la sua esperienza personale bene in vista, decrescano statisticamente dal primo all’ultimo dei tre livelli. Tali momenti tendono infatti a essere praticamente assenti nel corpo della lettera, il luogo in cui la scrittura di Cristina Campo si dà esattamente, è presumibile, come lei la desiderava, e dove lavorava di cesello e di censura per l'esposizione dell’unica cosa per cui desiderasse affermarsi all’altrui ricordo, vale

a dire la sua poesia. Fa testo in questo senso la grande maggioranza delle Lettere a Mita, fatta eccezione per quelle poche legate a situazioni così struggenti e accorate da non consentire alcuna presa di distanza. Inoltre, spesso e volentieri le lettere dicono dell’intimo intreccio fra scrit222

Lettere a Mita di Cristina Campo

tura epistolare e scrittura creativa, o fra comunicazione e raccoglimento in vista delle pagine da consegnare all’«opera», o ancora fra vita materiale e vita spirituale, per la Campo come è noto strettamente intrecciate. Fermo restando che tutte sono esemplari del modo in cui questa pur generosa epistolografa sapesse restare ai margini, se non al di fuori, della propria lettera, dimostrandosi «femme de lettres» ancor meglio nel senso traslato e metaforico dell’espressione che non in quello letterale. Qualche maggiore aggancio il quotidiano e il personale trovano quindi, e giocoforza, nel cosiddetto notiziario, ovvero argomento (o argomenti) di avvio: è a questo livello infatti che si fa menzione di incontri, malattie, occupazioni giornaliere, programmi di viaggio e vicissitudini domestiche, il tutto intarsiato anche qui di citazioni e condito di aneddoti (quando non siano maliziosi pettegolezzi) riguardanti il mondo letterario’. E tuttavia tali ar-

gomenti altro non si direbbero da ciò che propriamente sono: dei pre-testi (anche qualora scendano nel nucleo della lettera, come di fatto accade, e ne frastaglino la compattezza), obblighi epistolari assolti quasi per convenzione (e talvolta senza convinzione), territori attraver-

sati per approdare altrove: quasi che la scrittura, mentre lì si sgranchisce, vi assumesse lo slancio per approdare dove desidera, e per raggiungere infine il proprio nucleo essenziale. Tant'è che nulla o quasi dello scenario quotidiano finisce per fissarsi sulla pagina epistolare, o nulla che non sia di per sé letterario come la gatta Gasparina o la stanzetta leopardiana di Villa Giulia a Manziana; mentre frequenti febbri e spossatezze, patite oltre che nomi423.

Tutte signore di mio gusto

nate, collaborano a far sì che ogni immagine sfumi prima ancora di comporsi. Resta da dire della cornice: dove, complice forse il formulario corrente, e supposto neutralizzante, dietro cui dissimularsi, l’autrice finalmente si mostra, e dove meglio si evidenzia la dinamica fra detto e taciuto che indicavo all’inizio. Mita carissima, perché non è venuta? Sta ancora male? Mi scriva per favore. Mita, questo silenzio non lo accetto da lei. Mita, vieni subito. Cara bambina, mi chiede come sto. Mita, è stato molto crudele non vedersi stasera. Dovremmo

imparare a difendere anche la nostra amicizia — o meglio dovrebbe impararlo lei, perché io non difendo più niente, non ne ho più voglia. Mita, mia cara, la sua lettera è così bella. Il suo onomastico era ieri, cara. E me ne sono accorta per

puro caso. Ma è lo stesso, non è vero? Mia cara, mi hai scritto un bigliettino così breve. Ma non stancarti per me; scrivi solo quando ti sia naturale. Cara, la sua lettera, così cara, mi ha fatto un poco ridere. Grazie di esser venuta, cara. Ora tutto è così diverso.

Cara, le avevo scritto a Vitolini, non so perché. Mi pareva di doverla incontrare qui, ma sbagliavo. [...] Del resto è meglio, non volevo vederla in fretta... Cara Mita, la ringrazio infinitamente. Non so se avrei attraversato questi giorni senza di lei. Cara, questo non è che un cenno con la mano per dirle che l'aspetto. 224

Lettere a Mita di Cristina Campo

Cara, la sua lettera mi ha resa triste. Avevo anch’io molto bisogno di lei, di vederla e ascoltarla voglio dire. Cara, si lavi bene, letta questa lettera. Da settimane soffro

di una forte congiuntivite, che per essere virale è contagiosissima.

Cara, che gioia la sua lettera. E anche molto rimorso. Cara, [...]. Lei quella sera era molto bella; il viso un po’ accigliato (e affilatissimo, nonostante i chili acquistati) aveva un carattere nuovo, che mi commosse molto. Cara, ho qui una grande palma e vorrei dargliela. Cara, Dio sia ringraziato ancora e ancora per quelle due ore perfette che ci ha donato. Cara, ho contato le ore, ma da lei nulla.

Questo breve incipitario, una rassegna esemplare dei modi in cui la scrittura della Campo di volta in volta prende slancio per raggiungere l’amica desiderata e lontana, sembrerebbe fare emergere essenzialmente una cosa: il fatto, cioè, che per insorgere la scrittura si avvale, senza controllarlo, di un frangente di panico, di uno spasmo di attesa, di un sussulto di nostalgia o di altre affini espressioni emotive, di una piccola emergenza insomma del sentire che trascende le sacre regole del dettato e le forme composte della conversazione. Così mi spiego ripetizioni e anacoluti, l’uso spigliato dell’interpunzione e soprattutto l'oscillazione fra il «lei» e il «tu», nonché quel modo interlocutorio tanto diretto e impetuoso che contrassegna in generale questi esordi epistolari. E che sa farsi ancora più impetuoso in prossimità del congedo. Là infatti, dove l’essere insieme sta per interrompersi, la conversazione per 225

Tutte signore di mio gusto

concludersi e la dolce compagnia per rivelarsi irreparabilmente assente si fanno ancora più spasmodici, se così è lecito dirli, imodi interlocutori della Campo: che grida, implora, ricatta, dà ordini, contratta, assicura altre lettere e

altre ne richiede, e con le proprie parole sembra volersi aggrappare al corpo sfuggente dell’amica tentando di legarlo a sé, o almeno di toccarlo, o di toccargli il cuore. Vieni! [...] Così — ma teneramente, eig del — la tua Vie Mi scriva presto. E venga subito se non prima. A presto, non èvero? L’aspetta la sua amica Vie. Voglio pro-

prio /ez sola, mi capisce? Ho il cuore come un cielo di Vincent, questa sera. Vorrei dirle molte cose. Ma fermiamoci qui. Le voglio bene. Vie Lei è la sola cosa reale, stasera; il mio solo ricordo della ter-

ra. L’abbraccia una pallida, e ormai sola Pisana Debbo lasciarla, mi perdoni, cara. La testa mi fa tanto male. La penso con un po’ di ansia, un’assoluta impotenza e un grande, grande affetto. La sua Vie Di questi 4 anni non badi a niente, se non alla sola cosa di cui io fossi ogni minuto cosciente, il mio affetto per lei, passato presente avvenire.

La tua lunga lettera era bellissima. Grazie. Ti bacia la tua Vie

Non vedo più assolutamente nessuno, e non lo desidero affatto. Solo di lei sento l'assenza. Cristina Mi scriva subito. Vie (ti voglio bene) Quando la vedrò? Novembre è bello, qui.

Vi penso con desiderio e disperazione. L’abbraccio stretta. Vie 226

Lettere a Mita di Cristina Campo

Ma sono stanca di scriverle. Venga presto, la prego. Per favore. Vie

L'abbraccio stretta. Serbi il nostro segreto... La sua Pisana Le sono sempre vicina con amore; farò questo viaggio con

lei, dietro le mie palpebre. Le voglio bene. Prego, non lo dimentichi. L'aspetto con tanto desiderio. Vie Cara, abbia uno splendido Capodanno - stiamo vicine, come ogni anno da 7 anni, tenendoci leggermente, saldamente la mano. Con l’amore della sua Vie Venga presto da noi con la sua cappa di velluto. Vie La stringo forte. Risorga con il Signore! Non ce la faccio a non vederla al più presto. Anche scrivendo, lo sa, l'ho sempre china sulla mia spalla. Le voglio un immenso bene, vi penso come respiro. La copro di preghiera, e non solo della mia. Oh, averla qui per un’ora... Ciao, cara. Vie A presto, cara, io le parlo ogni giorno, mi sente? Vie

Le lascio queste immagini soavi abbracciandola stretta e volendo per lei, ora e sempre, tutto il bene del mondo, tutte le rose mature e le uova alate e i cieli in gorgheggio di cui si possa sognare. Vie Vuole scrivermi? Dio la benedica. Vie

Le lettere di Cristina Campo a Mita, all’amica dunque di una vita, all’unica persona amata tanto a lungo e così confidentemente da poterla eleggere, sia pure per via indiretta, a propria biografa, si riconoscono pertanto come lettere, come scrittura dialogica ed eminentemente affettiva che a tratti mette in scena l’antropologia espressiva di un 224

Tutte signore di mio gusto

rapporto amicale e amoroso, grazie soprattutto alla loro cornice, e a quanto in essa parla e si esprime (e si espone)

della mittente a dispetto della potenza e del rigore delle sue autostilizzazioni, delle sue maschere onomastiche e di tutti

gli éscamotage in cui dolorosamente si manifesta la sua latitanza dalla vita. È dunque la cornice delle lettere, assieme a poco altro, che fa di queste ciò che ci aspettiamo che siano, salvandone ir extremis la definizione e la funzione. Oc-

corre ricordare fra l’altro che stiamo parlando di una scrittrice e poeta quintessenziale e parca quant’altre mai, che notoriamente «ha scritto poco e le piacerebbe avere scritto meno» e che pure risulta, a conti fatti, una sfrenata epistolografa’. Se ne deduce che la scrittura epistolare sia per lei la testimonianza di un bisogno acuto e cocente, le cui ragioni trascendono quelle strettamente inerenti allo scrivere: il bisogno cioè di un interlocutore, o di un’interlocutrice, con cui condividere anche a distanza il dono supremo della conversazione. E tuttavia di questo bisogno parla, come si è visto, quasi esclusivamente la cornice delle lettere. Ma è sufficiente. È sufficiente perché possano saldarsi in uno stesso gesto la latitanza dalla vita e il frequentarla assiduamente, e in uno stesso racconto la vita quotidiana (pur continuamente negata e disertata quale risulta) e la vita che, come per ogni poeta, ha per misura l’eterno. Ed era sufficiente perché Mita, l'amica insieme incauta e rispettosa all'estremo, la compagna di vita e di scrittura che sola poteva testimoniare dell’indissolubilità di quel nesso, potesse comporre quei frammenti in un unico testo, che per quanto reticente lo si ritenga è l’unica autobiografia esistente, nonché l’unica forse possibile, di Cristina Campo. 228

Lettere a Mita di Cristina Campo

È la cornice, ancora, che restituisce alle lettere a Mita

quel «tono intimo, personale» (giustappunto) che, come voleva Virginia Woolf, «le rende [...] emozionanti»£. Ed è la cornice infine, con tutto quel che contiene di non programmato e di non programmabile, a inverare le parole di un’altra grande epistolografa, Marina Cvetaeva, e per molti aspetti sorella in ispirito di Cristina Campo, con le quali concludo: La lettera: una forma del rapporto ultraterreno, meno perfetta del sogno, ma le leggi sono le stesse. Né l’uno né l’altra vengono a comando: si sogna e si scrive non quando zo lo vogliamo ma quando ne hanno voglia: la lettera — di essere scritta, il sogno — di essere sognato’.

RAS)

Tutte signore di mio gusto

Note Filippo Secchieri, La lampada e le falene. Preliminari all’esegesi di Cristina Campo, in Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo con una scelta di testi inediti, a cura di Monica Farnetti, Filippo Secchieri, Roberto Taioli, Mantova, Tre Lune, 2006, pp. 115-130, p. 126. Poco oltre, citazione da ivi, p. 128, corsivo mio. Beppe Sebaste, Lettere & Filosofia. Poetica dell’epistolarità, Firenze, Alinea, 1998, p. 21.

Cfr. Marfa Zambrano, Perché si scrive, che leggo nell’edizione spagnola di Hacia un saber sobre el alma, Madrid, Alianza Editorial, 1987 (Por qué se escribe, pp. 31-38). Quanto a Cicerone, mi riferisco

al motto divenuto proverbiale «epistola [...] non erubescit» (Farz:liari5,12,1): «la lettera non arrossisce» e può, dunque, essere il luogo dell’intimità e del segreto. Cfr. Cristina Campo, Lettere a Mita, a cura e con una Nota di Mar-

gherita Pieracci Harwell, Milano, Adelphi, 1999.

Si rimanda alla bibliografia conclusiva per le lettere a stampa di Cristina Campo indirizzate ad Alessandro Spina, William Carlos Williams, Piero Polito, Stefano Minelli, Marfa Zambrano, Rodolfo Quadrelli, Leone Traverso. Virginia Woolf, Lettere d’oggi [1930], trad. it. di Adriana Bottini, in Leggere, recensire, Milano, Marcos y Marcos, 1990, pp. 49-55, p. 53,

corsivo mio. Marina Cvetaeva, I/ paese dell'anima. Lettere 1909-1925, trad. it. e cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi, 1988, p. 135 (da una lettera

a Boris Pasternak del 19 novembre 1922).

230

15. GOLIARDA SAPIENZA E L'ARTE DELLA GIOIA

La gioia altro non è che il sentimento della realtà. Simone Weil

Si chiude aprendosi di nuovo al proprio inizio, come se non fosse mai incominciato, il racconto che Goliarda Sa-

pienza ha intitolato in modo irresistibile L'arte della gioia, nel quale al personaggio che porta il nome di Modesta è affidato qualcosa di molto vicino all’autobiografia della scrittrice stessa'. Ed è proprio nel finale, una curvatura dove il tempo — tempo della narrazione e tempo della vita — torna su se stesso e per incanto si rigenera, che troviamo una ra-

gione e forse la più importante di un titolo così pieno di possibilità e di promesse. Il tempo di una vita, ci fa capire infatti questo finale, non si misura sulla morte ma sulla vita stessa. Non è un conto alla rovescia ma semmai un con-

to aperto, in cui siamo esposti senza fine al divenire e all’accadere. Non è una sottrazione ma un'aggiunta, continua e sorprendente, che deborda e contrasta l’angoscia di avere un limite. Non è perciò calcolabile e non è prevedibile, esula dalla contabilità e annulla con la sua pienezza ogni nostra astrazione. Mentre la vita che con esso coinci-

de ci travolge col suo impeto, ed è più forte di ogni tenta231

Tutte signore di mio gusto

tivo di arginarne il segreto in qualsiasi cosa se ne possa dire. Il suo segreto infatti, il suo solo, è proprio qui. Gioiosa è quella vita, dice Goliarda Sapienza, che impara a darsi tempo, a sentirlo come un’esperienza viva e a non pensarlo come un meccanico, esangue conteggio. Passibile di gioia è la vita che diventa impassibile al tempo, che si ritrova libera dalla sua ossessione e automaticamente, infinitamente disponibile ad altro. Il tempo delle donne, dicono, del resto è proprio que-

sto, legato alla ripetizione molto più che al progresso, all’eternità più che non alla storia, al ritmo dell’universo più che a quello del pensiero. Ma la formulazione si anima e si riempie di significato tanto più in quanto, anziché ridotta a concetto, la troviamo dilatata in un grande romanzo, e poco varrà aggiungere che questo si fa grande proprio in grazia di lei. Siamo davanti, infatti, a uno di quei casi in cui la letteratura pensa più in fretta e meglio della filosofia; un caso ancora, fra altri luminosi, in cui un

pensiero viene in evidenza con una forza impareggiabile proprio perché si esprime altrimenti dai suoi modi più soliti, parla per figure e non per astrazioni, e rinuncia ad argomentare per mettersi a narrare. Certo lentamente impareremo, con romanzi come questo, a non farci più caso, a convincerci che scrittura e pen-

siero vanno insieme e che non stanno l’una senza l’altro. Ma, sia come sia, fatto sta che intanto Goliarda Sapienza

ha scelto di narrare, e che ha saputo scrivere un romanzo radioso di quella stessa gioia che il suo titolo annuncia. Risultato in gran parte legato, come abbiamo detto, a un’idea del tempo che «idea» non è rimasta perché si è incar292

Goliarda Sapienza e l’arte della gioia

nata, ha preso corpo e vita, è diventata oggetto non di speculazione ma di esperienza e ha smesso di generare pensieri di morte. Perché per chi, come per Modesta, sta con così grande slancio dentro alla vita, col proprio essere tutto impigliato nel suo succedere quale che sia, non rimane alcun margine per malinconiche speculazioni. Non c’è «tempo» infatti, per Modesta e le sue simili, di pensare alla vita lontano dalla vita stessa, non c’è tempo di pensarla se non per quel tanto che serve a darle impulso e a rigenerarla, tenendosela accanto senza farsela sfuggire nello spazio immaginario fra il vivere e il pensare. Fin dall’inizio tutta dentro alla vita, letteralmente presa, come dicevamo, dal suo immediato e travolgente acca-

dere, Modesta si ritrova da subito in grado di sfruttarne ogni circostanza, propensa e pronta a trarne ogni volta qualcosa di buono per sé. Qualcosa che è «buono» semplicemente perché suo, accolto e fatto proprio per il solo fatto che accade e che le accade; qualcosa che già di per sé, e per questo stesso fatto, è destinato a far parte della sua vita e di lei. E ciò — attenzione — indipendentemente da quanto quel qualcosa sia o possa ritenersi «buono» in se stesso. Ché anzi, come in ogni vita, molte cose non so-

no buone ma dolorose e terribili. Ma come in ogni vita il loro senso dipende dal modo in cui si intrecciano e trasformano colui o colei a cui capitano. Così, per Modesta, la reclusione del collegio e la libertà in riva al mare, l’umiliazione della povertà, gli onori della ricchezza e i fasti dell’intelligenza, l'essere madre, l’essere nonna, l’essere lesbica, l'andare e lo stare, la Sicilia e il dormire, il carcere, la solitudine, l'amicizia, la lotta di classe, il pacifismo e il 233

Tutte signore di mio gusto

desiderio di giustizia, l'infanzia e la maturità, la vecchiaia, la memoria, la lettura e la natura, la malattia, la follia, l'inquietudine, la notte e il mattino, le nascite e le perdite e tutti gli amori e tutto l’amore in una vita ricevuto, negato o tradito — tutto, per lei, è buono da vivere, è occasione da

non perdere, è l’esperienza in cui quel tempo che esclusivamente è il suo prende forma e reclama di trasformarsi in vita vissuta. Dopo di che, ovvero nel mentre, c’è la scrittura, e ac-

canto alla donna che vive ce n’è un’altra che scrive. C'è anzi prima di tutto quest’ultima, che paradossalmente dà vita all’altra; c'è la scrittura che fa vera la vita, che la rende reale esprimendola in parole, che «dà alla vita che è data la forma di una vita che diventa propria» e poco importa se propria di Modesta o di Goliarda. Importa che la scrittura sia coinvolta e svolga il suo compito, e che noi d’altro canto ci rendiamo conto della sua prodigiosa, irrinunciabile funzione. Perché si tratta per una volta di lasciarsi alle spalle il vecchio pregiudizio secondo il quale scrivere è smettere di vivere, spostarsi da un’altra parte e prendere congedo dalla realtà delle cose. E si tratta di constatare come per contro scrivere possa non essere altra cosa dal vivere, di capire che talvolta scrivere la vita è esattamente il modo di darle pienezza e concretezza, che la scrittura insomma può fare la vita più vera. C'è un’altra scrittrice che ha fatto questo ed è> Virginia Woolf, per la quale la vita, la vita al presente, è stata continuamente la radice e la meta, o la materia e il senso, della

scrittura. «E che mi piace la vita umana presa alla grande, con calore e avventura: cani, fiori, figli, case», ha scritto 234

Goliarda Sapienza e l’arte della gioia

molto chiaramente in una lettera a Vita (del 1° giugno 1933) e abbiamo infinite prove di come perseguire questo piacere sia stato il compito esclusivo di tutta la sua vita e di tutta la sua opera. Dotata della capacità di fare esperienza di tutto, di godere immensamente della vita e di amarne ogni cosa, ogni momento e ogni mutamento, Virginia Woolf si direbbe colei alla cui scuola Goliarda Sapienza ha appreso la sua propria arte della gioia; mentre Clarissa, Mrs Dalloway, con quel suo dono tipico «di crearsi il proprio mondo dovunque le capitasse di trovarsi», col suo acutissimo senso dell’istante e la sua capacità di «falre] grande il mondo facendo della quotidianità un miracolo di relazioni sensate», nella genealogia dei personaggi di romanzo si direbbe la sorella maggiore di Modesta. Anche Modesta infatti ama la vita e la ama tutta, mor-

te compresa; anche la sua storia in fondo è la storia di una festa, una lunga festa offerta alla vita stessa per il semplice fatto che anche a lei la vita piace e le è cara; anche Modesta ha il genio delle relazioni, e sa che solo con esse si riempie il mondo di senso; e anche lei infine, e sicura-

mente, sa e sa insegnare che il tempo non è faccenda di linee ma di istanti, non di lenti accumuli ma di improvvisi trasalimenti nei quali più che pensare alla vita ci si accorge di lei. Ed ecco che un’altra volta si rinnova, attraverso Go-

liarda Sapienza, la lezione di Virginia Woolf, quella invadente, travolgente pensatrice del Novecento che ha segnato il passaggio epocale da un sapere maschile della morte a un sapere femminile della vita, e che ha saputo farlo tenendosi stretta al suo mestiere di scrittrice. Nessuno come 235

Tutte signore di mio gusto

o prima di lei, che io sappia, è stato capace di un simile spostamento, che ha iniziato a cambiare il modo di pensare la vita nonché quello di scrivere e di leggere i romanzi che più da vicino con la vita hanno a che fare. Certo ci sono dietro di lei venticinque secoli di filosofie e almeno due di romanzi (romanzi moderni, zovels) che le hanno lentamente preparato il terreno. Ma guarda caso è a lei, donna e scrittrice, che è toccato in sorte di compiere in prima persona quello spostamento e di misurarne su di sé tutte le conseguenze, patendo le pene dell’inferno nel timore di non essere compresa e accettata dai contemporanei. Ma

guadagnandosi anche tutti gli onori e i riconoscimenti che solo adesso, e solo lentamente, cominciamo a tributarle e

a saper mettere in parole. Chissà, mi domando, se un analogo destino non si prepari anche per Goliarda Sapienza. Che per ora ha a suo carico solo o soprattutto censure, boicottaggi e dinieghi all'edizione e alla libera circolazione del suo libro'. Che ha dovuto passare per la Francia, e per la riduzione a «icona

gauche», prima di incontrare il pubblico italiano e di trovarvi adeguata accoglienza. E che è morta lasciando numerose opere inedite, fra le quali a lungo è rimasta la stessa Arte della gioia: pubblicata, vivente l'autrice, solo in un'edizione ridottissima?.

Eppure è senz’altro a questa opera che Goliarda Sapienza ha affidato la sua maggiore eredità di pensiero, di una tale ricchezza e dirompenza da giustificare, per così dire, la violenta reazione di rigetto da parte di chi l’ha evidentemente sentita come un pericolo per sé. È in essa che

ha affinato al sommo grado una scrittura capace di radi236

Goliarda Sapienza e l’arte della gioia

carsi nei crocevia più dolorosi dell’esperienza, e nondimeno di sprigionare quella gioia salita a titolo la quale davvero non è altro, come insegna la Weil, che un partecipato e vivissimo sentimento della realtà. Ed è dall’urgenza di trattenere qualcosa di tale ricchezza e di tale gioia che nascono queste mie stesse pagine, nell’intento di cominciare a colmare quello scandaloso «vuoto di memoria» corrispondente al nome di Goliarda Sapienza che rischia di farci perdere, come non di rado accade, qualcosa di im-

perdibile. Imperdibile è infatti per me L'arte della gioia, che come ho detto rilancia e rinnova la grande lezione di vita e di scrittura di Virginia Woolf. E che per contagio sa diffondere fra le sue lettrici non solo il desiderio, ma prodigiosamente anche la possibilità, di impadronirsi di quell’arte. Sto dicendo che è un libro che cambia la vita, e sa-

rei grata di essere presa alla lettera.

237

Tutte signore di mio gusto

Note Cfr. Goliarda Sapienza, L'arte della gioia, Viterbo, Nuovi Equilibri-

Stampa Alternativa, 2005 (prima ed. parziale ivi, 1994; prima ed. integrale ivi, 2003); ora Torino, Einaudi, 2008.

Liliana Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 28. Ivi, paro:

Si vedano la biografia della scrittrice (1924-1996) e alcune recensioni del romanzo nel sito www.controluce.it/giornali, nonché nel paginone dedicatole dal «Corriere della Sera», 22 giugno 2006, p. 41. Mentre in vita ha pubblicato Lettera aperta [1967], Palermo, Sellerio, 1997; Il filo di mezzogiorno [1969], Milano, La Tartaruga, 2003; L'Università di Rebibbia [1983], Milano, Rizzoli, 2006; Le certezze del dubbio [1987], Milano, Rizzoli, 2007. È disponibile ora anche Destino coatto, Roma, Empiria, 2002.

Su Goliarda Sapienza esiste una video-biografia che è parte per l’appunto del ciclo «Vuoti di memoria» ideato da Loredana Rotondo per la Rai: L'arte di una vita, regia di Manuela Vigorita, Rai Educational 2005. Si tratta a tutt'oggi del documento più importante di cui disponiamo sulla scrittrice, ed è a monte dell’attuale risveglio di attenzione e di interesse che si riscontra nei riguardi di lei.

238

16. CLARICE LISPECTOR, LA VITA CHE NON SIAMO NOI

Ci sono scrittrici la cui penna corre più veloce di quella di tanti filosofi e di tanti scienziati nel portare dentro al pensiero, e dentro al linguaggio, la relazione col nonumano di cui oggi tanto si parla. Intendo, con questo nome, indicare alcune classi di presenze non solo (o non sempre) animate che tali scrittrici mettono in evidenza, individuandole come proprie interlocutrici primarie (animali, vegetali, minerali, oggetti) e come altrettante accezioni di un’alterità non equivocabile, non negoziabile e non riducibile. Un’alterità tale per cui una delle strategie più citate e più accreditate del discorso e delle pratiche dell’intercultura, il «mettersi al posto dell’altro/a», non è possibile e non si dà, e che costringe giocoforza ad altre invenzioni. Le scrittrici che incoraggiano questa vertiginosa ri-

flessione, nella quale mi addentro tenendo come bussola il libro di Federica Giardini Relazioni (da cui non citerò, ma che sottende tutto il discorso!), sono Gertrude Stein, Anna Maria Ortese, Colette, Marlen Haushofer, Silvina

Ocampo e specialmente Clarice Lispector: tutte contemporanee, sebbene vissute in parti diverse del mondo, tutte natratrici, e tutte contraddistinte da una straordinaria 299

Tutte signore di mio gusto

capacità di convocare, mettendola in scena nei loro testi,

la presenza del non-umano, e di indicare insieme la postura — di corpo, di pensiero e di linguaggio — che assumono nella sua prossimità le protagoniste dei loro racconti.

Dico subito che cosa accade, sostanzialmente, in questi testi: accade che le protagoniste, come sempre e più che mai portavoci delle autrici, poste in presenza di un’alterità irriducibile (una biscia, una blatta, uno straccio, una pianta, un pezzo di vetro) non la rifiutino né la assimilino a sé ma riescano a viverla — a potsi, cioè, in relazione con essa — senza perdersi e senza perderla. Come fanno? Cosa permette loro questa esperienza non pensata e (perché) del resto difficilmente pensabile dentro alle nostre coordinate culturali? Proprio il fatto, si direbbe, di viverla come esperienza e come impensato, con tutta la competenza di cui evidentemente si sono dotate nel tempo grazie alle pratiche (di relazione, politiche) che costituiscono, qui e sempre, il loro sapere di donne: pratiche che sono di per se stesse dell’ordine dell'esperienza e che allignano, ovvero rampollano, proprio là dove c’è dell’impensato, dove non è già tutto senso o almeno non ancora. Approfittano insomma dell’impensato per viverlo come esperienza e dunque per pensarlo (e dirlo) attraverso l’esperienza stessa. Va da sé che non si tratta di un «pensare» comune ma di un pensare diverso, non concettuale, attinto da un sapere che non è quello già costituito, e riconosciuto lungamente come l’unico, per il semplice fatto che dentro di esso il non-umano come tale non ci sta. Su questo 240

Clarice Lispector, la vita che non siamo noi

tuttavia tornerò fra breve, dopo aver meglio analizzato,

col supporto di qualche citazione, ciò che precisamente accade nei racconti in questione e in particolare nel grande romanzo di Clarice Lispector La passione secondo G.H-

Metodo di un mantello. Una singola ascesa verso una linea, uno scambio diretto verso un bastone, un’avventura disperata e coraggio e un orologio, tutto questo che è un sistema,

che ha del sentimento, che ha rassegnazione e successo, il tutto fa un attraente nero argento (Gertrude Stein, Tezeri

bottoni, p. 45). Intanto la mia Pianta, giovane Fhela, aveva messo un fiore

[...]. Credo che ella fosse venuta da grandi lontananze, ma nulla in lei lasciava intendere consolazione che da questo fatto le venisse. [...]. Era come gonfia di luce, e malinconica: una maturità stupenda, una trepidazione di non so che attesa [...]. Non mi era stato difficile intuire [...] qualcosa di meraviglioso che sempre doveva essere davanti al suo pensiero, e la faceva taciturna e arcana (Anna Maria Ortese, I/ porto di Toledo, pp. 490-491). Sono lì, sulle mie ginocchia, immobili e in agguato. [...] È la prima tregua fra di noi, l'ora ambigua e calma in cui possiamo, le bisce e io, fare assegnamento su quelle che seguiranno: già mi sembra che si umanizzino, e loro credono che io mi stia addomesticando

(Colette, La pace tra le bestie,

pp. 94-99).

241

Tutte signore di mio gusto

In sogno metto al mondo dei figli, e non sono soltanto umani, tra loro ci sono gatti, cani, vitelli, orsi e altre curiose

creature pelose. Eppure, prorompono tutte dalla mia persona, e in loro non vi è nulla che possa spaventarmi o provocarmi disgusto. Acquista un aspetto sconcertante solo a

scriverlo, con parole umane e una scrittura umana. (Marlen Haushofer, La parete, p. 237). Fingeva di essere uguale a tutti quelli della sua specie. Un po’ lanuginoso, un po’ grigio, un po’ sfilacciato, stava riempiendosi di grinze come qualsiasi mortale. [...] Nascosto sotto un armadio viveva dimenticato, raggomitolato, inerte. Gli stracci normali invece venivano ripiegati su un ripiano,

continuamente ricercati dai loro padroni di casa [...]. E fu così che conobbe, in quello stato di ozio che lo caratteriz-

zava, Pier. Nessuno ignorava che era servito per pulirgli la pipì, negligente com'era nelle prime tappe della vita. [...] lo misurò, lo annusò, lo seguì, lo trascinò, lo riconobbe, poi

appoggiò la testa e gli ascoltò il cuore che sicuramente palpitava in qualche posto rigonfio del corpo. Era l’ora più rosea del pomeriggio che aiuta a non dimenticare mai quando l’emozione s'impossessa dell’organismo palpandone tutti i sensi (Silvina Ocampo, E così via, pp. 92-93). La blatta mi guardava con la sua corazza di scarabeo, col suo corpo scoppiato tutto cannule e antenne e cemento molle — e tutto ciò era innegabilmente una verità precedente alle nostre parole; tutto ciò era innegabilmente la vita che fino a quel momento io non avevo voluto (Clarice Lispector, La passione secondo G.H., p. 110). 242

Clarice Lispector, la vita che non siamo noi

La cosa che io vedevo era la vita che mi guardava. Come chiamare altrimenti quell’orribile e crudele materia prima [...] — era un fango dove, con insopportabile lentezza, si muovevano le radici della mia identità. [...] Così stavano le cose — così, dunque. La verità è che io avevo guardato la blatta viva e in lei scoprivo l’identità della mia vita più profonda (ivi, p. 50).

Le voci narranti o figure agenti che di volta in volta si e ci mettono di fronte al non-umano — sia esso un animale, un vegetale o un oggetto — per prima cosa ed evidentemente non lo negano, ma gli aprono uno spazio e lo accolgono presso di sé. In secondo luogo, non cancellano la sua differenza e anzi, date le circostanze, ne riconoscono

quasi pacificamente (nel senso in cui si usa dire: «questo è pacifico») la singolarità. In terzo luogo, e questo è importantissimo, non si mettono al suo posto, e non praticano in alcuna forma la posizione del «come se»: senza infingimenti, e rinunciando a un sapere immaginario che porterebbe all’idealizzazione dell’altro, vi si rapportano invece mettendo in gioco radicalmente la propria alterità rispetto a esso, 0 la sua rispetto a sé. Insomma, stabiliscono con esso una relazione, che non è antropocentrica e nemmeno

antropomorfica ma relazione tuttavia, e forse delle più franche. Infine, testimoniano del fatto che la relazione è possibile perché ne va, nell’altro, di sé, vi è nel non-umano un tratto che le costituisce e la relazione è un invito più che mai perentorio, o un’occasione più che mai educativa,

a giocarsi insieme la somiglianza e la diversità. Ma sentiamo ancora la Lispector. 243

Tutte signore di mio gusto

Mi è accaduta una cosa che io, per il fatto di non sapere come viverla, ho forse vissuto come se fosse stata un’altra?

(psb): Non calcolavo che si trattava di quel grande disincontro (p..10), La mia domanda, se c’era, non era: «che cosa sono?», ben-

sì «fra chi sono?» (p. 22).

Quello era [...] fuori di me e al contempo alla mia totale portata, incomprensibile, ma alla mia portata (p. 57). E dei coccodrilli mi ripugna quel loro strascicarsi solo perché io non sono un coccodrillo (p. 104).

L'altro è l'Altro infatti, come si sa, quando non è un al-

tro qualunque ma qualcuno/qualcosa in cui noi ci riconosciamo; è l’altro che assumo in me (più precisamente, che ho già assunto e chissà quando) perché è il tramite di una mia identificazione; è chi o che cosa mi preme, che mi sta a cuore e da vicino mi riguarda, con cui oltre ad averci a che fare io ho, per così dire, a che essere. Il che non viene me-

no, anzi, qualora questo altro sia così altro da me come lo può essere, di primo acchito, non soltanto un cane o un cavallo ma addirittura una blatta o una biscia, un elemento inorganico o un oggetto inanimato. La diversità, se se ne

approfitta, può condurre infatti tanto più profondamente a se stessi/e quanto più, come diversità, è potente e stridente. Questa è in fondo la legge dell'Altro, dell’alterità, del 244

Clarice Lispector, la vita che non siamo noi

cosiddetto perturbante e di tutto quel che ne viene. Una legge che in questo frangente si fa chiarissima, didattica, come spiegata ai bambini. E questa è, anche, la lezione della Lispector, di cui riporto altri passaggi illuminanti e decisivi. Un primo gruppo sulla messa a tema del non-umano: Sinora ritrovarmi era possedere già un’idea di persona, e in questa inserirmi: in quella persona organizzata io mi incar-

navo e non avvertivo neppure il grande sforzo di costruzione che era vivere (p. 6).

Teri ho perso per ore e ore il mio meccanismo umano. Se avrò coraggio, mi lascerò andare [...]. Ma ho paura di quel che è nuovo e ho paura di vivere quel che non capisco — voglio sempre avere la garanzia perlomeno di pensare che capisco, incapace come sono di abbandonarmi al disorientamento (p. 6). La vita umanizzata. Io avevo umanizzato troppo la vita

(p. 8). Io avrei affrontato in me stessa un grado di vita così primario da essere prossimo all’inanimato (p. 17). Ma se i suoi occhi non mi vedevano, la sua esistenza mi esi-

steva — nel mondo primario in cui io ero entrata, gli esseri si esistono a vicenda come modo di vedersi (p. 68). «Ah, voglio tornare a casa mia» mi sono detta d’un tratto poiché la luna umida aveva suscitato in me saudade, rimpianto della mia vita (p. 98). 245

Tutte signore di mio gusto

La cosa avrebbe dovuto cominciare attraverso un iniziale

spogliarsi dell'umano costruito (p. 116).

E un secondo che ci accompagna alla conclusione: Saremo la materia viva che si manifesta direttamente, ignorando la parola, superando il pensare che è sempre grottesco (p. 156).

Io ho a mano a mano che designo — ecco lo splendore di avere un linguaggio. Ma ho assai più a mano a mano che non riesco a designare. La realtà è la materia prima, il linguaggio è il modo in cui ne vado alla ricerca — e in cui non la trovo. [...] Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però — ritorno con l’indicibile (pp. 160-161). La mia vita non ha senso soltanto umano, è assai più gran-

de — è così più grande che, in rapporto all’umano, non ha senso (p. 163).

La stessa Lispector ci riconduce infatti là dove avevamo lasciato sospeso il discorso: al punto, cioè, della qualità del pensiero esperito da queste figure umane di fronte al non-umano messo in scena nei racconti. È un altro modo di pensare, notavamo; è un altro modo, possiamo precisare adesso, di stare nel pensiero, di concepirlo e di farne esperienza. È per l'appunto un modo di pensare che passa attraverso l’esperienza e (dunque) attraverso il sentire. È, per meglio dire, un esperire la realtà (di cui il non246

Clarice Lispector, la vita che non siamo noi

umano è parte e, in questo momento, rappresentazione) attraverso il sentire. È uno stare nella realtà scopertamente, direttamente, senza occultarla dietro a cortine di paro-

le o concetti, ed esponendosi al rischio dell’incontro. E mettere in campo, come insegna perentoriamente e

limpidamente Marfa Zambrano, un pensare che ha fondamento nel sentire, un fidarsi dell’intelligenza che c’è nelle emozioni e, viceversa, un contare sulla dimensione affetti-

va del pensiero. Ed è di conseguenza il lasciar vivere e correre il desiderio dell’altro, letteralmente il desiderio di al

tro; e il piacere di prendersene cura, e la capacità di stare in compresenza amorosa con esso. E riprendendo qui il punto già indicato come massimamente importante: non

mi sostituisco all’altro né lo conduco a me, ma mantengo la consapevolezza della mia esistenza separata. Mi relaziono all’altro in quanto tale, che resta tale, resta altro, men-

tre ha a che fare e a che essere con me. Rinviando quindi, su questo, al pensiero e alle parole di Edith Stein, filosofa dell’empatia, e delle sue interpreti’, mi avvio a concludere indicando quale possa essere la portata politica della posizione illustrata attraverso il tema del non-umano e la lettura dei testi: la posizione, cioè, del pensare l Altro/a non in termini concettuali ma attraverso il sentire e attraverso

la relazione, spostandosi dalla via del pensiero «tradizionale», dal modo di pensare convenzionale, nei limiti del

quale l’Altro/a è, di per se stesso/a, un’'77passe insuperabile, un «pensiero» che fa cortocircuito da quando Freud - era il lontano 1919 - ci ha rivelato nientemeno che l’Altro/a è (in) noi'. Figuriamoci poi se questo Altro è molto, «troppo» Altro, e mette in discussione quel poco che giu247

Tutte signore di mio gusto

reremmo di sapere di noi stessi/e. E ci fa scoprire, come è accaduto alla Lispector, che il nostro sapere è «grottesco», il nostro linguaggio imparlabile, la nostra vita priva di «Senso». La portata politica dunque, oltre che teorica, di questa posizione è nel suo mostrare la praticabilità di una soggettività trattenuta dal divenire coscienza, coscienza di un io tirannico e moralista nonché ammantato di tutti gli aspetti più lesivi della soggettività. È nell’indicare una forma di conoscenza senza violenza e senza potere, dove è in azione una soggettività che non si nutre della supposta sovranità dell’io sul mondo ma si lascia definire nella e dalla relazione. È, infine, nel rendere plausibile una dimensione di esperienza in cui finalmente corpo e linguaggio non si contrastano, ma solidarizzano e stanno insieme per tirare appunto dentro al linguaggio, e dentro alla vita, tutta la vita, compresa quella che (non) siamo noi.

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Clarice Lispector, la vita che non siamo noi

Note Cfr. Federica Giardini, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia, Roma, Sossella, 2004, particolarmente al capitolo 15, Arirzale, pp. 171-182. Cfr. Clarice Lispector, La passione secondo G.H. [1964], trad. it. di Adelina Aletti, Milano, La Rosa, 1982. Rimando invece alla biblio-

grafia finale per gli altri testi che compongono la seguente rassegna di citazioni. Cfr. Laura Boella - Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Milano, Cortina, 2000, e Francesca Brezzi (a cura di), Arzore ed empatia. Ricerche in corso, Milano, Angeli, 2003. Inoltre Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suot insegnamenti, Milano, Bruno Mondatori, 2004. Sigmund Freud, I/ perturbante [1919], trad. it. di Cesare Musatti, in

Opere IX, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 81-118. Devo lo spunto di questa espressione, e del titolo che ne ho derivato, a Marco Focchi, L'estraneità della vita. L’angoscia come forma

dell'«Unheimliche» nella clinica psicoanalitica, in Lo straniero che è in noi. Sulle tracce dell'«Unhetmliche», a cura di Giorgio Rimondi,

Cagliari, Cuec, 2006, pp. 111-132.

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17. FABRIZIA RAMONDINO

A TRIESTE

Il libro di Fabrizia Ramondino del quale parlerò è Passaggio a Trieste, scritto al seguito di un soggiorno della scrittrice presso il Centro Donna Salute Mentale di Trieste e pubblicato nel 2000 a testimonianza del fatto che il dolore — come ci ha insegnato Nicole Loraux — «può sopportare di trovarsi in compagnia»'. Il libro è infatti il diario dei giorni trascorsi dalla scrittrice in compagnia delle pazienti e delle terapeute del Centro triestino, spesso indistinguibili le une dalle altre per la rotazione programmatica dei ruoli e la miracolosa azione delle pratiche di relazione che funzionano fra loro. Ed è un diario anomalo, abnorme e frastagliato, fatto anche di un Introibo, un

Intermezzo, un Congedo, una postfazione e molte epigrafi; non più romanzesco, né meno intimo, per il fatto che a scriverlo sono assieme alla Ramondino decine e decine di altre mani, e molteplici le voci udibili accanto alla sua. Con l’esito complessivo, e fortissimo, di una scena

corale di donne convenute nello stesso luogo per dirsi l’una l’altra la propria difficoltà a vivere, dignitose di quella speciale dignità che dà il dolore, e simili nella loro prostrazione e nella loro solidarietà alle regine che piangono sedute per terra nella scena IV dell’atto IV del Riccardo INI 250

Fabrizia Ramondino a Trieste

di Shakespeare, designata appunto come «la grande scena delle regine». E la più anziana di loro, Margherita, sposa un tempo di un re ucciso e madre di un figlio regale assassinato, a pronunciare nella tragedia shakespeariana la frase che ho citato parzialmente in apertura: Se il dolore può sopportare di trovarsi in compagnia, riconsiderando le mie pene, percorrete di nuovo la strada delle vostre.

Si sta rivolgendo alle altre due, a loro volta vedove e/o madri di figli uccisi, che con lei condividono il «malinconico sedile», e mescolano il loro lamento al suo in una sorta di terribile e salvifica complicità.

È da questa scena che Nicole Loraux fa partire la sua riflessione sulle comunità o società, sempre in qualche modo impreviste e clandestine, che il dolore sa creare, sul

loro posto entro lo spazio pubblico e sul pericolo disordinante di ogni «passione» ospitata dentro il perimetro della polis («Ma che ne è di una passione nella città?») Ed è a questa stessa scena che il libro della Ramondino sembra riportare, mostrandoci una riunione di donne doloranti che con la voce e il racconto si procurano sollievo, si danno fiducia, e si aiutano a mettersi in grado di sopravvivere. È però anche un’altra la pagina da cui vorrei partire, che ancor meglio della grande scena shakespeariana ci aiuta a entrare nel vivo della situazione denunciata dalla Ramondino nel suo libro, e a cui la prima epigrafe, «Qua251

Tutte signore di mio gusto

lunque essere grida in silenzio per essere letto altrimenti», firmata Simone Weil, con efficacia rinvia. È una pagina di Virginia Woolf, contenuta nel saggio Dell’essere malati (1926), dove si legge: La più semplice ragazzina, quando si innamora, ha a disposizione Shakespeare, Donne, Keats per esprimere i suoi pensieri, ma uno che soffre, se cerca di descrivere il suo ma-

le [...], il linguaggio d’improvviso si prosciuga. Non c’è niente di bell’e pronto. È forzato a coniare delle parole da solo, e prendendo il dolore in una mano, e un grumo di puro suono nell’altra [...], a premerli l’uno sull’altro, perché

una nuova parola alla fine ne esca?.

Le potremmo obiettare come non sia poi così vero che per coloro che soffrono non c’è niente di bell’e pronto, tutt'altro, e come quello che potremmo chiamare «il discorso della sofferenza» vanti al contrario — e certo non meno del discorso d’amore — i suoi poeti, i suoi modelli, le

sue fonti. Chiunque voglia accertarsene può provarsi a catalogare, nella storia della letteratura e delle arti di tutti i

tempi, gli innumerevoli nomi e voci e volti, quasi sempre di donne, che ci siamo abituati/e ad assumere come figure esemplari del dolore. Il problema, semmai, è proprio qui, nel fatto cioè che si tratta quasi immancabilmente di figure femminili ideate da uomini e incaricate di esprimere da un punto di vista maschile che cosa sia e cosa significhi il dolore. Un problema che nasce dal luogo comune che la sofferenza sia immanente al genere femminile (ciò che peraltro, e in modo irreparabile, gli Scritti sulla ses252

Fabrizia Ramondino a Trieste

sualità femminile di Freud tendono a confermare), e che culmina nella presunzione maschile di sapere esattamente che cosa essa sia, di poterle dar voce, e di potergliela dare attraverso immagini di donne. Da questo punto di vista almeno, la Woolf non aveva tutti i torti. A lungo le donne non hanno detto la propria sofferenza (ma lo stesso può dirsi della loro felicità, malinconia, angoscia, nostalgia) e — il che potrebbe leggersi anche come un «perché» — sono stati gli uomini a parlare in loro nome. Sono stati gli uomini a dire la sofferenza delle donne o meglio l'hanno detta come immaginavano che fosse, o ancora meglio hanno detto la propria filtrandola, non senza infingimenti, attraverso quella di una donna. Ed ecco lì tante dolenti eroine, tante icone della passione disponibili e pronte all’uso, che per lungo tempo hanno condotto a equivoci processi di identificazione impedendo nel mentre di realizzare la mancanza di modelli di riferimento davvero utilizzabili perché femminili e perché corrispondenti a verità. La sofferenza ingegnosamente descritta come competenza propria e qualità intrinseca delle donne, e tale quindi da giustificare qualsiasi umiliazione loro imposta (pensiamo, per fare un solo esempio efficace, all'opera di Ovidio, e alle Heroides soprattutto, come tentativo — riuscito! — di una catechesi semiseria impartita alle donne in pena), reclama dunque un'attenzione che, rasi al suolo gli stereotipi, riscopra i modi autentici del dolore femminile, dica la verità sul modo in cui una donna soffre, in cui il suo corpo, il suo cuore e il suo linguaggio (o nel caso il suo silenzio) registrano la sofferenza e di conseguenza la espri253

Tutte signore di mio gusto

mono, e soprattutto accerti il sospetto che il secolare affossamento, e il meticoloso occultamento dietro a maschere fittizie, della «voce addolorata» delle donne sia stato operato per tacitare altro). Una ricerca recente ha mostrato infatti e non è un caso come esista da sempre una sapienza femminile «nel saper trattare e trasformare in pensiero il dolore», attra-

verso pratiche che «articolano al presente un insegnamento antichissimo [...]: passare attraverso il dolore accettando di patirlo aiuta a raggiungere una conoscenza della realtà e di sé a un grado più alto»'. Non solo. Perché proprio l’essere addolorate e l’essere insieme, nell’agorà deserto dei loro padri, figli e mariti uccisi dalla guerra, ha permesso alle donne troiane nientemeno che di salvare la politica: chiamandosi fra loro «cittadine», non smarrendo cioè la coscienza e la memoria del loro statuto civico pur nel lutto e nel pianto, esse hanno fatto sopravvivere la città, testimoniando che nessuna guerra può raderla al suolo se ne sopravvive il senso nei loro corpi e nelle loro voci. Esiste dunque una sapienza femminile del dolore ed è potente, (ri)costruttiva e trasformativa; esiste ed è diffusa, e una prima indagine ne rivela già le tracce ovunque nei secoli, da quello di Gaspara Stampa e di Vittoria Colonna a quello di Etty Hillesum, Cristina Campo, Katherine Mansfield, Simone Weil. Esiste, addirittura, una sua ge-

nealogia, e un’eredità che va raccolta, alla luce della quale meglio si illumina anche il lavoro di Fabrizia Ramondino. Alla quale si poneva pertanto un problema a due facce: quello del saper dire qualcosa di difficile da dire, qualcosa 254

Fabrizia Ramondino a Trieste

che semmai preferisce tacere o tende comunque a non stare nella famigerata prigione della lingua; e quello, congiunto, del tener conto della sessuazione del corpo a cui quel qualcosa perviene, vale a dire di quel soggetto da sempre tacitato, assai meno parlante che «parlato», che per lungo tempo è stato diffidato dal rivelare la consistenza e la dirompenza delle sue passioni. Ed è a entrambe le facce del problema che la Ramondino va incontro. Perché riesce a riscattare, con la forza che le viene dalla profonda empatia con le altre, dal sentire l’altra, così lei dice, come

proprio sintomo, quel vissuto considerato «sempre già perduto per il linguaggio», quell’esperienza che la scrittura solitamente solo costeggia e che porta le creature al deserto di parole’. E perché al contempo il suo progetto è esplicitamente quello di dire e di far dire ciò che oggi accade sul corpo delle donne, far parlare i loro corpi in prima persona di ciò che in prima persona patiscono, e muoversi fra essi — o stare fra essi «di traverso» — con il proprio corpo ben presente a se stesso: Se la sofferenza non è condivisibile né narrabile, le si può però stare accanto, e il più vicino possibile — senza deliri di onnipotenza medica o psichiatrica, speculativa o religiosa, artistica o affabulatoria, consapevoli tuttavia che rimane sempre uno scarto insuperabile fra il viverla e il parlarne. A questo punto si sarà capito che io [...] non faccio gran distinzione, parlando di sofferenza, tra corpo e anima, mente e cuore. Per me sono indivisibili. E iscritti nello spazio, nel

tempo, nel genere — quindi nella società e nella Storia”.

225

Tutte signore di mio gusto

È così facendo, prestando e cedendo la propria parola alle altre, e moltiplicando l’azione dello scrivere per tutti i vissuti e per tutti i destini, che riesce a far sentire quel suono inaudito che il dolore produce quando, per avventura, riesce a esprimersi. Ed è così che si avvia a sanare, con fedeltà all’accaduto, l’apparente vuoto di parola femminile sul dolore. «Ospite triste e muto», il dolore di queste donne infatti qui «si lascia introdurre nel discorso» e questo è importantissimo: perché vuol dire che, «poco o tanto», oltre che dall’ammutolimento esso «è uscito dalla sua negatività e non pretende di trionfare da solo», ha smesso di distruggere e sta al gioco del simbolico. E «se c’è un minimo di ordine simbolico (se c'è due e una relazione fra),

esso fa pensare, genera il pensiero, nel senso che lo sprigiona, lo scioglie, lo libera»*. E qui c'è anche più di due: c’è un'intera, per quanto

provvisoria, comunità di donne, regolata da relazioni la cui potenza mette il dolore al lavoro, lo trasforma in pensiero, lo trasforma in politica. Profondamente filosofico e politico è infatti il senso di questo libro, come diviene chiaro se lo leggiamo e contestualizziamo con attenzione, e se teniamo presente tutto ciò che lo prepara. Se ricordiamo le troiane di Eschilo e le regine di Shakespeare e tutte le forme della solidarietà femminile per le quali, nel corso del tempo, oltre che condividere un dolore le donne hanno saputo fare altro di un dolore condiviso. Hanno saputo, cioè, riconoscersi come comunità, e lasciare un se-

gno nella storia, e contemporaneamente trovare sollievo alla sofferenza. Perché se rimane vero, come con amarezza dichiara l’autrice in conclusione, che 256

Fabrizia Ramondino a Trieste

non si può curare chi soffre, si può soltanto prendersene cura. Non si può definire la sofferenza, ci si può solo girare attorno con gesti e con parole. Insomma abbracciarla?,

è pur vero che quella cura e quell’abbraccio sono di un valore incalcolabile, perché dal momento stesso che ci sono dicono che della sofferenza è già stato fatto altro.

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Tutte signore di mio gusto

Note Nicole Loraux, Le madri in lutto [1990], trad. it. di Maria Paola

Guidobaldi, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 4. La citazione che segue è da William Shakespeare, Riccardo III, nella trad. it. di Gabriele Baldini, Milano, Rizzoli, 1956. Virginia Woolf, Dell’essere malati [1926], trad. it. di Nadia Fusini, in Virginia Woolf, Saggi, prose, racconti, a cura della stessa, Milano,

Mondadori, 1998, pp. 267-281, p. 269. Testimonia di questa forzatura, sul versante esemplare del melodramma, il bel volume di Catherine Clément, L’opera lirica o la disfatta delle donne (1979), trad. it. di Grazia Amati, Marina Bordonali, Sergio Conitardi, Brunella Galante, Annalisa Girardis, Venezia, Marsilio, 1979. Ho citato quindi Sigmund Freud, Scritti sulla sessualità femminile [1924-1932], trad. it. di Sandro Candreva, Marilisa Tonin Dogana, Ermanno Sagittario, Torino, Boringhieri, 1976; e Publio Ovidio Nasone, Le Erozdi, trad. it. di Gabriella Leto, Torino, Einaudi, 1966. Annarosa Buttarelli, Pregare, maledire, non domandare, in Dioti-

ma, La magica forza del negativo, Napoli, Liguori, 2005, pp. 35-51, pp. 37-38.

Cfr. Nicole Loraux, La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca [1999], trad. it. di Monica Guerra, Torino, Einaudi, 2001. Wanda Tommasi, La scrittura del deserto. Malinconia e creatività fem-

minile, Napoli, Liguori, 2004, p. 36. Fabrizia Ramondino, Passaggio a Trieste, Torino, Einaudi, 2000,

p. 304. Si veda anche quanto si legge ivi, a p. 168: «Lo stile della mia scrittura coincide con il mio corpo, contenitore fragile della mia dismisura».

Luisa Muraro, Introduzione, in Diotima, La magica oe del negativo, cit., pp. 1-8, p.2.

Un’indicazione simile viene dal volume, che rende conto di un’esperienza per certi versi analoga, di Giulia Maria Ciarpaglini, Una stagione particolare. Un'esperienza nei gruppi appartamento per minori di Ferrara, Ferrara, Collana di Storia ed Etnografia del Centro Documentazione Storica, 2001.

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18. I FANTASMI DI GIOCONDA BELLI

Ci avevano avvertito, e subito all’inizio della storia degli studi sulla letteratura fantastica, di non confondere il fan-

tastico cosiddetto occidentale da quello che nasce e che vive nel contesto culturale dell’ America latina. Il primo infatti, veniva fatto notare, è un’operazione soprattutto intellettuale e immaginaria; il secondo, un’operazione così dentro alla vita da potersi considerare una «vivencia» esso stesso, perché fatto della stessa stoffa dei costumi, dei riti e delle tradizioni di quei Paesi'. Questo non è tutto, certamente, quello che occorre per spiegare la sorpresa destata dalla traduzione italiana delle opere di Gioconda Belli, però fa un po’ di largo e un po’ di ordine intorno alla scrittrice nicaraguense che con tanta efficacia e con tanta finezza ci ha costretto a modificare il nostro modo di pensare, di leggere e di vivere le cosiddette ghost-stories. Cerchiamo di ricostruire la storia e il percorso di questo cambiamento, molto legato a scritture e letture di donne e che oggi si dimostra già diffuso e denso di risultati promettenti. Per come la vedo io, all’inizio di tutto c'è ancora una

volta un'intuizione di Virginia Woolf, contenuta in un passaggio fulmineo e folgorante della recensione (del 259

Tutte signore di mio gusto

1921) al volume dei Racconti di fantasmi di Henry James. Scrive la Woolf:

I vivi e i morti, in virtù della loro superiore capacità di sentire, hanno superato il baratro: ciò è bellissimo?.

È straordinario, ammettiamolo, come in una riga il suo

pensiero arrivi e trascini d’un balzo al di là dell’orrore sempre in agguato ogni volta che si tocca l’argomento del rapporto fra i vivi e imorti. È magnifico lo scarto dalla tradizione massiccia di reazioni angosciate all’apparizione del fantasma che la nostra letteratura invece presuppone, ed è più che mai notevole il fatto che esso si sia prodotto in nome del sentire. Forse però — la azzardo come ipotesi — Virginia Woolf era stata accompagnata verso questa svolta radicale nel modo di leggere i racconti di fantasmi da qualche sua precedente lettura. Forse qualche stimolo a pensarla diversamente dai suoi predecessori e dai suoi contemporanei in fatto di soprannaturale le era venuto dalle scrittrici, «gotiche» o vittoriane che fossero, che raccontando storie di spettri già un secolo prima avevano cominciato a cambia-

re le carte in tavola, introducendo qualcosa di totalmente imprevisto e di assolutamente impensabile nella narrativa dei maestri e dei capiscuola, James compreso. Forse dunque si faceva strada, nello spazio di quella recensione, quanto poi si sarebbe definitivamente chiarito e avrebbe goduto addirittura i fasti della teoria: il fatto, cioè, che quando a presentarsi all’incontro col fantasma è una donna, o per meglio dire quando è una donna a raccontare 260

I fantasmi di Gioconda Belli

dell’incontro fra vivi e defunti, gran parte del tradizionale armamentario di luoghi comuni è destinata a saltare e a fare spazio ad altro. A fare spazio, per l’appunto, al sentire. Gioconda Belli lo dimostra molto bene. La donna abitata, sua opera prima, le consente infatti da subito una grandiosa variazione sul tema, con l’invenzione del personaggio che dà il titolo al romanzo: la figura, cioè, della giovane donna visitata dallo spirito dell’indigena vissuta molti secoli prima, che amorosamente la orienta a scoprire in se stessa la fedeltà alla causa della rivoluzione sandinista. Mentre in Soffa dei presagi, di un anno successivo, un’altra giovane donna compie il proprio apprendistato grazie ad antichi riti che le consentono di affidarsi alla sapienza di donne defunte, che l'hanno cara e che teneramente la guidano alla ricerca di sé’. «Credo in una continuità», ha dichiarato del resto l’autrice, «che oltrepassa la vita limitata di un individuo. [...] Credo [...] in un rapporto intenso, di comunione con la natura e in una sua umanizzazione o viceversa, nella “naturalizzazione” della

specie umana.»* Cosicché nella sicura visione cosmologica su cui si sostiene la sua narrativa il passato e il presente sono fra loro in relazione come lo sono le forme molteplici della creazione, nei loro movimenti e nei loro mutamenti ivi compresa la morte. E ne deriva una narrazione di tale respiro, così chiaramente orientata dall'amore del mondo, che le dinamiche più classiche e più occidentali del racconto fantastico vengono quantomeno surclassate e travolte. Ma questo, come dicevo, è un fatto abbastanza comune fra le scrittrici di racconti sedicenti fantastici. Quasi 261

Tutte signore di mio gusto

sempre infatti, in luogo dell’atteggiamento conflittuale e angosciato (di un’angoscia generata in gran parte dal pensiero) che di solito si riscontra nello specifico frangente dell’incontro con l’aldilà e con i suoi emissari, le scrittrici

tendono a fare assumere ai loro personaggi atteggiamenti piuttosto di apertura e di accoglienza, di gentilezza, di compassione, se non addirittura di affetto e di amore: con conseguente e fortissimo ridimensionamento dell’elemento cosiddetto perturbante, spaesante o straniante, e della particolare sfumatura spaventosa indicata come irrinunciabile contrassegno del fantastico. Una relazione di tenerezza, pietas, desiderio per creature e mondi e livelli di esperienza altri da sé si prospetta, in molte scritture di donne, come risposta sostitutiva dell'angoscia teorizzata da Freud. Poiché le scrittrici tendono, si direbbe, non tan-

to a fuggire o a rifiutare lo «straniero», né tantomeno ad assimilarlo a sé o a mettersi al suo posto, ma ad andare piuttosto verso di lui e a rimanergli accanto, di volta in volta escogitando pratiche diverse ma sempre guidate e orientate dall’amore: variando dall'offerta di protezione all'unione amicale, sentimentale, coniugale, e dalla gioiosa

meraviglia alla serena accettazione dell’osmosi fra natura e soprannatura, sonno e veglia, morte e bellezza e così via. E proprio qui che si accampa la sfera dei sentimenti e delle emozioni; proprio qui che il sentire, surclassando il pensare, aggira l’77zpasse e cambia, come dicevamo, le carte in tavola. L'indagine, pubblicata sotto il titolo La perturbante, condotta di recente su una campionatura di scrittrici di diverse letterature a partire dalla fine del Settecento lo ha ampiamente confermato, facendo emergere 262

I fantasmi di Gioconda Belli

nei vari contesti l'elemento comune di una risposta emotivamente, intellettualmente e fisicamente diversa dall’an-

goscia a fronte dell'evento o esperienza perturbante. Tutte le scrittrici esaminate (ma chissà quante altre se ne potranno aggiungere), mentre catturano, sviluppano narrati-

vamente e a loro modo interpretano la nozione del perturbante (esemplarmente scorgendo l’estraneità nel familiare e lasciandovela agire, e magnificando così l’iconaguida del perturbante, quella «casa infestata di spettri» assunta come allegoria dallo stesso Freud e che la letteratura fantastica da sempre letteralizza e predilige), testimoniano a un tempo del mancato sopraggiungere dell’angoscia col sopraggiungere dello «straniero», dell’ingerenza piuttosto di altre passioni (tendenzialmente, come si è detto, improntate all'amicizia e all’intimità), e dell’elusione dei tradizionali atteggiamenti dilemmatici e angosciati nel momento del vacillamento dei confini, e dell’ovvietà, del

familiare. Emerge inoltre dall'analisi del «fantastico» femminile (che così continuiamo a chiamare faute de mieux) un altro aspetto interessante, dato dal fatto che, qualora non si dia — e talvolta accade — la variante per così dire «empatica» del racconto bensì quella più classicamente «angosciata», nemmeno in tal caso,

e nemmeno nei casi di apparente-

mente più stretta osservanza della linea portante della tradizione, ci si può esimere dal rilevare un’impronta significativa della differenza femminile. La variante angosciata dell'esperienza perturbante nel fantastico femminile comporta infatti, in linea di massima, un importante rovescia-

mento, giacché dall’angoscia l'eroina esce di norma, più 263

Tutte signore di mio gusto

che non provata e segnata in negativo, al contrario alquanto potenziata come soggetto: acquisisce cioè consapevolez-

za di se stessa e delle proprie facoltà, si rafforza nella propria autostima, e diventa capace di vivere fino in fondo il proprio destino e il proprio desiderio, quale che sia. Il perturbante sembra presentarsi dunque, per una donna, come occasione insperata per tentare forme inaudite di rappresentazione di sé e del proprio desiderio: quasi che la «casa», spazio femminile per eccellenza, proprio laddove la si scopra «infestata di spettri» possa essere veramente abitabile, convertendosi in spazio dell’utopia, della libertà e del divenire, teatro degli autentici «mo-

menti di essere» (ciascuno dei quali, ricordiamolo, per Virginia Woolf «è o diventerà la rivelazione di un altro ordine [...], il segno di qualcosa di reale che si cela dietro le apparenze») in cui le apparenze, appunto, si rivelano ingannatrici e le ombre, provvidenzialmente, amiche e soli-

dali. E questo anche quando la «casa» custodisca e riveli un’estraneità irreparabile, la distanza del e dall’altro sia irriducibile e la diversità radicale e non negoziabile. Quando capita insomma che ci riguardi da vicino e da dentro «la vita che non siamo noi»: dove non servono i ragionamenti, in cui non ci se la cava se non con una grandissima capacità di stare in compresenza amorosa con l’altro, chiunque e qualunque cosa esso sia, e di cui. ancora le scrittrici sono maestre.

Gioconda Belli, con la sua Sofia dei presagi e la sua Donna abitata, ha contato moltissimo nell’attivare a ritro-

so questa rilettura in contropelo della letteratura fantastica, e nel sollecitare il pensiero femminile all’opera di de264

I fantasmi di Gioconda Belli

costruzione del paradigma freudiano oggi ben avviata e riconoscibile. Ma se Gioconda Belli ha contato tanto è anche perché, oltre a rendere praticabile e «bellissimo», in nome dell’amore, il passaggio morte-vita, ha introdotto un ulteriore e potente motivo di riflessione, che ha coinvolto particolarmente le donne per evidenti ragioni. Ciò che infatti nella sua narrativa fa sì, e addirittura reclama, che la

barriera fra i vivi e i morti venga aggirata è l’assoluta necessità, di caso in caso riproposta, che le donne del passato comunichino con le donne del presente, e che queste ultime raccolgano e a loro volta trasmettano l’eredità delle loro antenate affinché si scongiuri la perdita del mondo. È esemplare in questo senso il finale de La donna abitata, dove l'antica Itzà prende la parola: La casa è in silenzio. Il vento sui miei rami sembra appena un alito di nuvole su un fuoco che si spegne. Sono di nuovo sola. Ho concluso un ciclo: il mio destino di seme che è germogliato, il disegno dei miei antenati. Lavinia è ora terra e humus. Il suo spirito danza nel vento della sera. Il suo corpo nutre fertili campi. Dal suo sangue ho assistito al trionfo dei xirz/qui, i giustizieri. Hanno riscattato i loro fratelli. Hanno superato l'odio con serenità e fiaccole ardenti di pino. La luce è nascosta. Nessuno potrà spegnerla. Nessuno spegnerà il rullo dei tamburi. Vedo grandi folle avanzare nel cammino aperto [...] dai guerrieri, quelli di oggi, quelli di allora”.

C’è sempre un segreto, qualcosa che le giovani donne non sanno e devono sapere da cui dipende la salvezza 265

Tutte signore di mio gusto

delle loro vite e delle loro relazioni, il compimento del loro destino, e nel caso della donna abitata anche quello di un intero Paese. Che si tratti di Sofia, fatalmente in balìa di una madre

e un’infanzia misteriosa e perduta; o di Lavinia, nel cui sangue si agita la passione di libertà di tutto un popolo, il discorso non cambia. Sempre, nella storia personale come in quella collettiva, quando la posta in gioco è la nostalgia di un affetto oppure la causa della rivoluzione, i personaggi femminili di Gioconda Belli devono incarnare un passato senza il quale il loro presente non si spiega. Sempre l’accesso al passato comporta per loro, in un modo o nell’altro, il superamento della soglia fra la vita e la morte, e sempre in quel passato avanzano per passaggi successivi di genealogia femminile: di madre in madre e di donna in donna su su fino all’antenata di età precolombiana e, ancora oltre, a quella madre-terra originaria

che le tiene salde nel mondo con la forza delle sue radici. Le stesse, sicuramente, del secolare albero di arancio del

giardino di Lavinia («Vidi le radici. Le mani tese che mi chiamavano. E la forza di quell’ordine mi attirò irresistibilmente. Penetrai nell’albero [...], mi stiracchiai dopo tanto tempo, sciolsi le mie chiome, e mi affacciai verso il cielo [...] per ascoltare gli uccelli [...]. Cantai anch'io [...] e sopra il mio tronco apparvero zagare e, in tutti i miei rami, profumo di arance»), o dei misteriosi chilarza-

tes stretti intorno alla casa del mago di Soffa («Sofia osserva [...] la forma contorta dei tronchi dei chilamzates, i rami da cui pendono come cenci fasci di radici, l’intermittente, argenteo aleggiare delle lucciole. [...] “Mi ha

I fantasmi di Gioconda Belli

chiamato Soffa” dice Eulalia. “Voleva che l’abbracciassi. L'ho sentito attraverso tutte le radici della terra che mi spingevano fuori” »)È. Va da sé come in questo grande racconto di creazione e di fondazione di una genealogia, in questa cosmologia che rende conto della nascita del mondo, il dialogo coi morti sia un passaggio naturale, e sul piano narrativo puramente accidentale. Avviene perché deve, e avviene per amore. Perché la morte certo non interrompe il ritmo e il respiro dell’universo, né la continuità della catena madrefiglia che dall’inizio del tempo rinnova ogni giorno la vita. Perché non ci sono intermittenze nella memoria di un popolo appassionato di libertà né in quella di ciascun essere umano che senta la propria appartenenza al destino del pianeta. Perché infine e semplicemente «ciò è bellissimo», come sapeva Virginia Woolf, che non ha perso tempo in perifrasi e in un solo aggettivo ha concentrato tutta l’euforia di chi si persuade che anche superare la barriera della morte rientri fra le cose che l’amore fa fare.

267

Tutte signore di mio gusto

Note Cfr. Rosalba Campra, America Latina: l'identità e la maschera, Roma,

Editori Riuniti, 1982, particolarmente pp. 61-69 (al paragrafo La reraviglia di ogni giorno). Virginia Woolf, I racconti difantasmi di Henry James [1921], in Ritratti di scrittori, trad. it. di Mirella Billi, Parma, Pratiche, 1995,

pp. 193-202, p. 197.

Cfr. Gioconda Belli, La donna abitata [1989], trad. it. di Margherita D'Amico, Roma, e/o, 2006 (1° ed. ivi, 1999), e Sofia dei presagi [1990], trad. it. di Margherita D'Amico, Roma, e/o, 1998 (1° ed. ivi,

1996).

;

Intervista a Gioconda Belli di Anna Maria Torriglia, in appendice a Gioconda Belli, La donna abitata, cit., pp. 401-407, p. 406. Tutta l’opera di Gioconda Belli, ivi compresa la sua autobiografia, I/ paese sotto la pelle [2000], trad. it. di Margherita D'Amico, Roma, e/o,

2002, sviluppa i presupposti che l’autrice dichiara in questa intervista, e in particolare il fatto che «c'è un modo femminile di fare le cose» che attraversa l’etica, la politica, la relazione con l’ambiente, il

rapporto col passato, la storia, la scrittura e quant'altro. Virginia Woolf, Imagini del passato [1939-1940], in Momenti di essere. Scritti autobiografici inediti [1976], trad. it. di Adriana Bottini, Milano, La Tartaruga, 1977, pp. 77-172, p.91. Documenta tale percorso di decostruzione il volume La perturbante. «Das Unbeimliche» nella scrittura delle donne, a cura di Eleonora Chiti, Monica Farnetti, Uta Treder, Perugia, Morlacchi, 2003. Da;

Gioconda Belli, La donna abitata, cit., pp. 396-397. Gioconda Belli, rispettivamente La donna abitata, cit., pp. 7-8, e

Sofia dei presagi, cit., pp. 77 sgg.

268

19. AZAR NAFISI, LO SPLENDORE DI AVERE UN LINGUAGGIO

Una fortunata coincidenza ha fatto sì che la scrittrice iraniana Azar Nafisi, autrice del romanzo Leggere Lolita a Teberan pubblicato negli Stati Uniti nel 2003 e tradotto in Italia nel 2004, sia entrata in tempo reale, con il suo li-

bro, nel vivo della riflessione sul tema del rapporto fra donne, letteratura e politica. Sono di questi stessi anni infatti alcune importanti pubblicazioni che invitano a interrogarsi a fondo sullo statuto, le risorse e i limiti della letteratura, e più in generale dell’arte, per valutare se e come essa possa contribuire al costituirsi delle donne come soggetti politici, essere occasione e campo di competenze

utili a orientarsi nel presente e a divenirne interlocutrici autorevoli, e convertirsi da proverbiale torre d’avorio a spazio sociale significativo, produttore di interpretazioni e di pratiche che facciano presa sul mondo e possano modificarlo!. La riflessione è di enorme portata, e il suo svolgimento ancora agli inizi. Non ci stupiremo pertanto di verificare come non sia ancora perfettamente chiaro in che rapporto stiano fra loro letteratura (o arte) e politica: se e quando e a quali condizioni, cioè, l’arte e la letteratura stiano per, o al posto di, una pratica politica, o se invece 269

Tutte signore di mio gusto

tendano a mettersi piuttosto al suo servizio, preparandola e rendendola possibile pur senza coincidere con essa; se,

all’estremo, esistano o possano funzionare delle buone pratiche senza la parola o l’espressione che le nomini; se, per contro e infine, siano possibili casi in cui l’arte e la letteratura non si prestino in alcun modo al beneficio della polis e al suo bisogno di giustizia, di bellezza, di pace. E però in compenso divenuto evidente, e difficilmente si potrà tornare indietro, quanto bene abbiano fatto alla politica alcune scrittrici e alcuni scrittori, quanto pensiero e quanto agire essi/e abbiano mosso e promosso, quanto sia indispensabile insomma che la letteratura non si stanchi di prestare alla politica le sue parole, le sue invenzioni, la sua miracolosa energia. «Lo splendore di avere un linguaggio», dice infatti Clarice Lispector in chiusura del suo La passione secondo G.H. Ovvero la sventura, se ne deduce, di non averlo. In-

tendendo per linguaggio tutto il meglio, fra il buono e l’utile, che il parlare, il nominare, l’esprimersi possono dare

alla vita. E intendendo per vita la salvaguardia intanto, e poi l'efficacia, e poi sicuramente la felicità del nostro sta-

re nel mondo. Avere parola infatti — cominciamo dalla salvaguardia — saperla trovare, inventare, rinnovare, adoperare, è ciò che ci salva dall'essere inermi, che garantisce

della nostra presenza nel mondo, e che ci tutela dal subirne la perdita. Ma avere parola è anche la condizione che dà accesso alla relazione, il che ci porta direttamente alla politica pensata appunto come l’arte, la scienza e il bisogno dello stare nel mondo assieme agli altri in un modo efficace. 270

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

Si inserisce qui la proposta di un’altra scrittrice, del calibro di Anna Maria Ortese, sul reato di «aggiunta e mutamento» (titolo da lei dato alle pagine introduttive del Porto di Toledo preparate per la seconda edizione): l'aggiunta, tramite il linguaggio (o l’Espressività, come la chiama lei), di mondo al mondo, aggiunta che lo modifica, ne altera potentemente il profilo e le leggi, e si esprime come profonda capacità trasformativa. L’Espressività è per lei infatti aggiunta, davvero e così tanto da poter pensare che non ci sia mondo se non c'è la parola che lo individua, lo disocculta, lo costruisce. Aggiunta pertanto che è e non può non essere anche mutamento, se non addirittura — alla fine dei conti — sostituzione integrale di un altro mondo a questo. Il quale sotto i colpi di ogni aggiunta, imprevista perché non prevedibile e indesiderata (si suppone) perché non desiderabile, un poco traballa per ragioni fisiche e un poco trema per ragioni — diciamo — politiche. Perché queste aggiunte, questi «di più», non hanno ovviamente l’aria di essere ciò che il mondo vuole in base a come si vuole;

entrano anzi in lui come gravi disturbi, lo svegliano a possibilità e immaginazioni pericolose, lo lavorano di dissenso, di sovversione, di scandalo, producono e sono per l’appunto «reato» e fanno sballare la sua famosa economia. Ho nominato la Lispector e la Ortese; potrei continuare con altri e fulgidi nomi — Virginia Woolf, Arundhati Roy, Fatema Mernissi, Assia Djebar?... Ho evocato delle grandi, difficili esperienze di donne scrittrici, pensatrici

e militanti che dal luogo in cui sono o erano, e con quanto hanno o avevano a disposizione, sono state in grado di comunicare in modo forte, con un utile indiscutibile e 204

Tutte signore di mio gusto

patente nella significazione del mondo e nella sua trasformazione. Esperienze difficili ma che allo stesso tempo sembrano — da un certo punto di vista almeno — anche naturali e facili, come se l’alleanza fra letteratura e politica fosse data con certezza, ben collaudata e perfino scontata. O come se le due non fossero situazioni distinte. Ma forse non è un come se ed è davvero così. Forse per chi gode dello splendore di avere un linguaggio, per chi parte dotato/a della tensione all’espressione, significare il mondo in modo forte ed efficace è davvero possibile e relativamente facile. Sicuramente molto più che non per i «senzaparola», i molti «morituri» che ignorano o disdegnano la risorsa espressiva, la cui sventura presente e futura è l’impossibile «appropriazione», come dice la Ortese sempre in Toledo, dell’«inespresso», con tutta l'inesistenza e la perdita di mondo che ne consegue. Che è anche perdita — e sono al terzo punto che ho annunciato e non svolto — di felicità. Su cui non mi dilungo, visto che c’è un libro, intitolato Movimenti di felicità', che fa bene il punto su di essa, particolarmente sulla felicità della politica, al quale rinvio. E aggiungo solo che, quando ho incontrato Azar Nafisi e colloquiato con lei’, mi è divenuto quanto mai chiaro come l’Espressività — in tutte le sue declinazioni: leggere, scrivere, insegnare — sia spesso tutt'uno con la felicità. Ripercorro qui di seguito il colloquio avuto con lei, con la speranza di saper mantenere almeno in parte l’intensità dello scambio e la straordinaria tensione politica che lo ha supportato. Qualche informazione su di lei, prima di tutto. Azar 272

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

Nafisi è nata a Teheran, in una famiglia in cui le cose più importanti erano i libri e il culto della libertà. Il padre, appassionato lettore di poesia e poeta a sua volta, nonché sindaco nella Teheran pre-rivoluzionaria, amava ricordarle che «per noi persiani la patria sono i nostri poeti». Mentre al contempo la spingeva a leggere le grandi opere della letteratura occidentale: Tor Sayer, Pinocchio, le fiabe di

Andersen, nutrendo precocemente la sua passione per le letterature straniere. La madre, dal canto suo, è colei che

ha saputo fornirle una grande lezione di libertà femminile, essendo stata una delle prime sei donne elette in parlamento durante il regno dello Scià. E poi, fra le figure-cardine della sua formazione, c'è la nonna paterna, che le ha

insegnato qualcosa di definitivo riguardo al famoso, e famigerato, tema del velo. Ella infatti portava il velo come il cuore le dettava, come segno di discrezione e di grazia nel suo rapporto con Dio, senza mai confondersi sul senso di quella scelta e trasmettendone alla nipote una limpida esperienza. Azar Nafisi studia all’estero (in Svizzera, Gran Breta-

gna, Stati Uniti) e rientra in patria nel 1979, dove assume l’incarico di insegnamento della letteratura anglo-americana all’università «Allameh Tabatabai» della capitale e dove la rivoluzione, appena incominciata, suscita in lei come in molti altri grandi speranze. Speranze ben presto fatte a pezzi dall’instaurarsi del regime fondamentalista e totalitario (ma lei lo nomina anche altrimenti: reazionario,

integralista, dittatoriale, terroristico, carcerario, paranoico, teocratico, oscurantista...) degli ayatollah: un regime che, nello stesso tempo in cui mette all’ordine del giorno ZIO

Tutte signore di mio gusto

perquisizioni e confessioni forzate, carcerazioni, torture, stupri, mutilazioni, esecuzioni senza processo, sepolture

negate e imposizione del velo, funesta irreparabilmente, come dice lei stessa, «la gioia di insegnare», la quale viene «costantemente guastata dalle aberrazioni e dalle storture che il regime imponeva». Specie nel suo caso, in cui la letteratura che insegna, quella inglese e americana, è vista dagli ayatollah come l’immagine stessa del «satanico» Occidente. La situazione la costringe, nel 1995, a ritirarsi dall’insegnamento, e due anni dopo a emigrare negli Stati Uniti, dove vive attualmente insegnando la sua disciplina alla Johns Hopkins University di Baltimora. Tuttavia l’emigrazione, riconosce Azar Nafisi, da scelta obbligata si è convertita in chiave di lotta per la libertà del suo Paese: un «programma» nel quale si inserisce perfettamente e di cui è l'emblema il libro che l’ha resa famosa. Scritto in inglese, Leggere Lolita a Teheran è infatti il racconto del seminario clandestino che Azar Nafisi tiene per due anni (gli ultimi della sua permanenza in Iran) a casa propria, dove ogni giovedì mattina raduna un piccolo gruppo di studentesse fra quelle a lei più care per discutere assieme a loro i classici della letteratura anglo-americana. Il libro racconta per l’appunto queste discussioni letterarie, che tuttavia si mescolano e diventano e sono un

tutt'uno con le storie private e pubbliche di queste giovani donne, con le quali la loro insegnante scambia un sapere, un sapere /ezterario, profondamente radicato nella vita. È per queste ragioni che il libro, un libro che contiene in sé molti libri e molte storie, risulta, come attestano le sue

numerose recensioni, difficile da classificare nella rigida 274

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

tassonomia dei generi letterari. «Romanzo-diario» ovvero «romanzo di una docente», «resoconto didattico», «auto-

biografia di libri», «saggio autobiografico» o senz'altro «saggio critico»; «romanzo storico», «testo di storia dell'Iran contemporaneo», «libro sui libri» e addirittura «storia di un book-club clandestino»: questo e altro si è detto e si è scritto all'uscita del volume. Ma la definizione forse più soddisfacente si legge nel «Manifesto» a firma di Maria Teresa Carbone: «Una appassionata dichiarazione d’amore al potere della memoria e della parola». È questa infatti, alla resa dei conti, la sostanza del libro: la storia di

una miracolosa comunità di lettura femminile nata in un regime che non poteva prevederla, e che a dispetto di quel regime stesso è stata capace di crescere e di depositarsi in un libro nel quale, nonostante le apparenze, non si espongono tesi ma s/ racconta una storia, peraltro senza retorica e con sovrano rispetto dei fatti. È precisamente sul fatto di raccontare storie che è iniziato il nostro dialogo. Il libro è infatti gremito di momenti in cui, con un’incisività sempre diversa e un’energia sempre rinnovata, l’autrice ribadisce alle sue studentesse,

e insieme a noi suoi lettori e lettrici, cosa significa per lei la letteratura. Dobbiamo dunque immaginare un atto di lettura contestualizzato in un modo molto preciso, collocato cioè nell’immenso carcere di Teheran dove l'autrice difende strenuamente la possibilità di insegnare e di far conoscere i suoi autori più amati. Per questo vorrei tenta-

re di fissare il senso del libro riportando alcune delle affermazioni che contiene in proposito o con cui la sua autrice lo accompagna: affermazioni assolutamente perentorie e, ZIO.

Tutte signore di mio gusto

proprio per questo, travolgenti e dirompenti. «La letteratura è un mezzo per prendere coscienza del presente e per riuscire a modificarlo». «La lettura di un romanzo può diventare un atto politico». «Si può imparare la democrazia dai classici della letteratura». «La lettura è lo spazio in cui immaginare un’altra realtà per propiziarla e renderla possibile». «Tutte le opere di narrativa [...] hanno in sé il nocciolo di una rivolta, l’affermazione della vita contro la sua stessa precarietà». «La letteratura insegna come sal-

varsi la vita attraverso le storie». Da queste brevi citazioni si capisce come sia stato possibile, per chi abbia a cuore il rapporto fra letteratura e politica, riconoscere in questa autrice una maestra di letteratura e di vita — dimensioni fra loro non separate, come viene ribadito in ogni pagina del libro e come ardentemente si desiderava che fosse. Ed è collegandomi a queste frasi che ho voluto iniziare la nostra conversazione.

Una figura, quella di Shaharazade, è stata il nostro punto di partenza nonché il nostro trait d’union. Anche alla nostra tradizione infatti è cara l'eroina delle Mz//e e una notte, che viene nominata in una delle prime pagine del libro di Azar Nafisi e che, come scrive Fatema Mer-

nissi in un testo tradotto in italiano con il titolo L’Harew e l'Occidente (ma che nella lingua originale è Shabarazade goes West — «Shaharazade va in Occidente»), «è colei che ha saputo cambiare la mente di un assassino pronto ad uccidere raccontandogli delle storie». Azar Nafisi aggiunge che quell’assassino, quel re, non conosce il dialogo, non è capace di alcuna comunicazione: l’enorme potere del sovrano manca della capacità di comunicare. E se 276

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

anche qualcuna delle vergini lo avesse ucciso, ciò non avrebbe posto fine alla violenza, non sarebbe stato un vero cambiamento. Per risolvere i conflitti, infatti, bisogna piuttosto guardare al mondo con occhi diversi, bisogna non entrare nel mondo del potente re. Bisogna fargli cambiare comportamento, portarlo nel nostro mondo: il trionfo di Shaharazade consiste nel riuscire a far entrare la mente di un uomo potente e senza pietà, un uomo abituato ad ascoltare solo la propria voce, nella sua mente di narratrice.

Mi sembra di capire che per lei Shaharazade — icona su cui sono state scritte in Occidente pagine molto significative e belle, ma che a mio avviso mantengono sempre e irrimediabilmente qualcosa di astratto — non sia una metafora o un'immagine fra le altre, quanto piuttosto una figura concreta che la sua stessa esistenza ripropone e incarna, con la sua esperienza di lettura e insegnamento, in un universo in cui salvare il privilegio della lettura significava salvare la propria integrità mentale, la propria anima. Le chiedo se questa lezione sia valida per tutti, anche ai nostri giorni. E mi risponde sì, certamente sì, mentre ri-

corda il poeta polacco Czestaw Mitosz, morto da poco, un uomo dall’umanità infinita che ora viene giustamente celebrato. Ebbene, anche Shaharazade, dice, ha il diritto di

essere celebrata per la sua grande umanità, per la sua capacità di opporsi alla legge dei potenti attraverso le narrazioni. Anche lei, come i grandi poeti, come Milosz, resta viva nel cuore di chi ama davvero la letteratura. Oltre al nome di Mitosz, evocato in esergo a Leggere Lolita a Teberan, il suo libro celebra molti altri autori, VANI

Tutte signore di mio gusto

soprattutto alcuni classici della letteratura inglese e americana i cui nomi titolano addirittura i singoli capitoli: Jane Austen, Henry James, Francis Scott Fitzgerald. Per ovvie ragioni in alcuni casi, e meno ovvie in altri, sembrerebbe-

ro queste le figure nevralgiche della sua formazione: oltre naturalmente a quella di colui che dà origine al titolo, cioè Nabokov, l’autore di Lolita, la cui opera è sottoposta a una lettura dirompente e destabilizzante che si riassume in questa citazione: «La verità disperata che si cela dietro la storia di Lolita non è lo stupro di una ragazzina da parte di un vecchio sporcaccione, ma la confisca della vita di un individuo da parte di un altro». Ecco perché Nabokov, con il suo romanzo e con tutta la sua opera, a cui lei ha dedicato anche una monografia, è tanto importante. Poiché

insegna come difendersi dalla manipolazione degli altri, da coloro che, come lei scrive, «ci manipolano per adattarci ai propri sogni, ai propri desideri e ai propri deliri». Ma pagine non meno fulgide (a cui corrispondono ore di letture appassionate insieme alle studentesse) lei ha dedicato a Jane Austen, che pone alle sue eroine il problema della scelta e della difesa della propria integrità; a Fitzgerald, e alla sua lucida coscienza dell'importanza del sogno come ingrediente necessario alla vita; a Henry James, che con il suo carico di ambiguità è una continua coazione a pensare, a mettersi in gioco e ad addestrarsi alla scelta. La domanda che ne viene allora è: quali altri nomi di romanzieri e romanziere, non pronunciati o comunque meno visibili nelle sue pagine, le hanno fatto compagnia nel percorso della sua scrittura e della sua memoria? E lei risponde che deve molto a Natalia Ginzburg, a Virginia 278

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

Woolf, alle sorelle Bronté, a Marguerite Duras, a Margaret Atwood, a Zora Neale Hurston, ma soprattutto a Mu-

riel Spark, come si capisce anche dal fatto che il suo libro inizia e finisce con lei. Io aggiungerei anche Assia Djebar, non fosse altro che per quel libro, Queste voci che mi assediano (sottotitolo: Scrivere nella lingua dell'Altro), che dice qualcosa di importante su cosa significhi scrivere nella lingua che non è la propria, che non è la lingua materna, non è la lingua di partenza — come si suol dire — ma, per chi emigra, la lingua d’arrivo. Scrive dunque Assia Djebar a proposito del francese, sua lingua acquisita nonché sua lingua letteraria: «È come se il francese avesse occhi e me li desse per vedere nella libertà». Cosa significa allora per Azar Nafisi aver scritto il libro che l’ha resa famosa nella lingua del luogo di accoglienza, nella lingua «dell'Altro»? Significa, dice, scrivere nella lingua che a un certo momento si sceglie per comunicare con gli altri, magari del tutto nuova, ma basata su sentimenti condivisi. Perché la lingua ha la possibilità di farti trovare a casa ovunque tu sia. E d’altra parte molti scrittori di lingua inglese non sono inglesi d’origine, Nabokov come Conrad. La loro storia d'amore con la lingua inglese li ha messi nella condizione di poter avere dalla vita quello di cui avevano bisogno. Qual è dunque il suo concetto di appartenenza? «Geograficamente mi sento un po’ dappertutto», ri-

sponde, «eppure la mia testa appartiene a quella che chiamo la mia repubblica dell’immaginazione. E devo riconoscere che amo l’Iran soprattutto se lo vivo attraverso la mente o l’immaginazione, quando giro per il mondo. E se 219

Tutte signore di mio gusto

il mondo oggi è così pervaso da eventi tragici e insopportabili, io penso che la letteratura ci aiuta a capirlo ma forse anche a estraniarci un po’ dal contesto, portandoci in un punto fuori dal tempo che preserva alcuni momenti belli, che si possono rivisitare quando se ne ha voglia, o bisogno. Ogni piccolo gesto, ogni dettaglio: il tocco di una mano, due sguardi che si incrociano, arricchiscono il mondo che mi porto sulle spalle, quel mondo che la letteratura mi ha dato la possibilità di apprezzare e sentire come fosse il mio.» Per concludere restando vicini al tema dell’abitare la lingua, propongo di collegare la sua scrittura a quella di una grande scrittrice italiana, Anna Maria Ortese. La Ortese ci ha lasciato infatti parole indimenticabili, dentro a vari contesti, su questo stesso tema. «Scrivere è cercare la calma», scrive per esempio in Corpo celeste, «e qualche volta trovarla. È tornare a casa. Lo stesso che leggere.» In una recente intervista Azar Nafisi d’altro canto ha dichiarato: «Non so se tornerò mai in Iran, ma in un certo sen-

so non l’ho mai lasciato. Non so più quale sia la mia casa. Ho tutto un mondo che porto con me ed è legato alla memoria e all’immaginazione. Dovunque io possa insegnare e scrivere, quella è la mia casa». È un pensiero di grande intensità. Questa esperienza della dimora, una dimora che ci si fabbrica con le proprie mani ovunque si trovi il senso di sé, e rafforzata dalla possibilità dell’insegnamento, si

direbbe un vera ancora di salvezza nel peregrinare di una vita. Cosa ci dice ancora Azar Nafisi sul sentirsi a casa là dove ne va di qualcosa di importante di noi? «Dopo la rivoluzione, quando tornai a casa, scoprii 230

Azar Nafisi, lo splendore di avere un linguaggio

che la mia casa non era più veramente la mia casa. Succede, succede molto spesso. Noi sogniamo, ci immaginiamo di ritornare nel posto che ricordiamo come un luogo dove siamo stati felici, e poi scopriamo che non è più così. Allora mi piacer ricordare la frase di Theodor Adorno, quando scrive che la più alta forma di moralità consiste nel non sentirsi a casa propria quando si è a casa. Questo perché quando ci si sente troppo confortevolmente sistemati ci si siede sugli allori, ci si lascia andare e non si guarda più, non si osserva più. Per questo amo l’insegnamento, perché mi sfida a mettermi in gioco ogni volta che inizio a lavorare con i miei studenti, costringendomi ad aprirmi e ad ascoltare. L’insegnare, come lo scrivere, è per

me una fonte di salvezza, e per questo devo dire che entrambi mi hanno salvato la vita.»

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Tutte signore di mio gusto

Note Cfr. Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran [2003], trad. it. di Roberto Serrai, Milano, Adelphi, 2004; inoltre Leggere e scrivere per cam-

biare il mondo. Donne, letteratura e politica, a cura della Società Italiana delle Letterate e del Centro Documentazione Donna di Ferrara, Ferrara, Tufani, 2005; e Aggiunta e mutamento, «DWF», 2-3, 6667, aprile-settembre 2005.

Clarice Lispector, La passione secondo G.H. [1964], trad. it. di Adelina Aletti, Milano, La Rosa, 1982, p. 160. Il riferimento successivo è a Anna Maria Ortese, Arne, le aggiunte e il mutamento, in Il porto di Toledo [1975], Milano, Adelphi, 1998, pp. 13-15.

Cfr. Virginia Woolf, Le tre ghinee [1938], trad. it. di Adriana Bottini, Milano, La Tartaruga, 1975; Arundhati Roy, Guida all'impero per

la gente comune [2003], trad. it. di Giuseppina Cavallo, Piero Lodi e Laura Quagliolo, Parma, Guanda, 2003; Fatema Mernissi, L’Harem e l'Occidente [2000], trad. it. di Rosa Rita D’Acquarica, Firenze,

Giunti, 2000; Assia Djebar, Queste voci che mi assediano. Scrivere nella lingua dell’Altro [1999], trad. it. di Roberto Salvatori, Milano, Il Saggiatore, 2004. Movimenti di felicità, a cura di Donatella Alesi e Laura Fortini, Roma, Manifestolibri, 2004. L'incontro è avvenuto al Festival di Letteratura di Mantova il 12 settembre 2004.

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20. DIONNE BRAND E I LUOGHI DEL NON RITORNO

Di certi viaggi si comincia a sapere solo al ritorno. Per me, guardato dalla prospettiva del ritorno, l'esilio che mi è toccato vivere è essenziale. Io non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto. L'esilio è stato la mia patria, o co-

me la dimensione di una patria sconosciuta che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. [...] Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della vita umana, ma nel dir-

lo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero mai più esiliati, che tutti fossimo a un tempo esseri umani e cosmici, che l’esilio fosse sconosciuto. È una contraddizione,

cosa posso farci; amo il mio esilio, forse perché non l’ho cercato [...]. No, l'ho accettato piuttosto; e quando si accetta qualcosa di cuore, [è] perché sì, costa molto rinun-

ciarvi. Io ho [...] accettato pienamente il mio esilio ma, nello stesso tempo, non chiedo né auguro ad alcun giovane che lo comprenda, perché per comprenderlo dovrebbe soffrirlo, e io non auguro a nessuno di essere crocefisso'.

Chi parla è Marfa Zambrano, la cosiddetta «pensatrice in esilio», colei che ha legato indissolubilmente condizione di esilio e condizione di pensiero e che, fuoriuscita dalla Spagna agli inizi della dittatura franchista, per qua283

Tutte signore di mio gusto

rantacinque anni visse ed elaborò l’esperienza da lei riconosciuta come essenziale della vita umana, restituendone a più riprese il senso in pagine irrinunciabili per chi rifletta sul tema del viaggio e del «dispatrio». Ne propongo perciò almeno un altro passaggio, non meno nevralgico di quello di apertura e indicativo della potenza e originalità del suo discorso. È tratto dalla sua Lettera sull’esilio, datata 1961: Sono poche le situazioni, come quella dell'esilio, in cui si presentano, come in un rito iniziatico, le prove della condizione umana. Come se si stesse compiendo l’iniziazione dell’uomo. Ricade dunque, pienamente, sull’esiliato tutta la ambiguità della condizione umana; ed egli l’assume, [...]

spogliandosi sempre più di tutto per restare nudo e disincarnato; così solo e sprofondato in se stesso, e insieme esposto alle intemperie, come uno che sta nascendo; nascendo e morendo allo stesso tempo, mentre la vita prosegue. La vita che gli hanno lasciato senza che egli ne avesse la colpa; tutta la vita e tutto il mondo, ma senza un luogo in esso, con

l'obbligo di vivere senza raggiungere uno stare, che ci è così necessario [...]. L’esiliato è stato lasciato senza nulla, al

margine della storia [...]. Ha dovuto andar trasformandosi, senza rendersene conto, in coscienza della storia. Al punto che a momenti ci sembra di essere stati espulsi dalla Spagna per esserne la coscienza; perché sparsi per il mondo rispondessimo di lei e per lei. E perché privati della sua realtà, fossimo semplicemente spagnoli. Spagnoli senza Spagna. Anime del Purgatorio. Perché siamo scesi, soli, agli inferi, in parte inesplorati, della sua storia per riscattare 284

Dionne Brand e i luoghi del non ritorno

quello che si poteva riscattare, l’irrinunciabile; per cercare di estrarre, da questa storia sommersa, una qualche continuità. Siamo memoria, memoria che riscatta. Essere memo-

ria è essere passato’.

L'esilio dunque come condizione di memoria storica, di testimonianza politica, di libertà e di somma responsabilità etica; l’esilio come inedita capacità di visione, riconoscimento di un’interiorità privilegiata, e approdo alla pienezza del proprio senso e del proprio essere; l’esilio, in sostanza, come dimensione di vita e di pensiero che chi abbia la forza di non unicamente patirne l’aspetto di dannazione riconosce, e al contempo ci indica, come possibilità straordinaria nel disegno e nel compimento di un destino. Muovo da Marfa Zambrano, dal suo pensiero sull’esilio scritto a lettere di fuoco e dal dirompente capovolgimento da lei operato di questa esperienza per dare conto, più in generale, di un ragionamento femminile sul luogo dell’origine e i suoi derivati — patria e appartenenza, viaggio ed esilio, ritorno e nostalgia — a cui la Zambrano fortemente incoraggia, quasi imponendo una svolta riso-

luta alla millenaria riflessione sul tema. Intorno a Maria Zambrano si possono convocare infatti i casi, infinitamente numerosi, di donne — pensatrici, scrittrici, artiste — che hanno scelto di vivere definitiva-

mente altrove dalla propria patria e città, e che il proprio non ritorno al luogo dell’origine hanno teorizzato con grande ricchezza e intensità di modi. Penso, per non fare che qualche nome famoso, a Marguerite Duras, Hélène Cixous, Julia Kristeva, Azar Nafisi, o alle nostrane Anna 285

Tutte signore di mio gusto

Maria Ortese, Fabrizia Ramondino, Dolores Prato, o an-

cora alla crescente e incontenibile legione delle scrittrici cosiddette migranti che si muovono dalle e nelle lingue, letterature e culture che incrociano la nostra, di cui costituiscono la parte più interessante e più ricca di futuro. Ed è appunto una scrittrice di queste che più di tutte ha la forza di testimoniare e di produrre pensiero in questa direzione, costringendo ad accorgersi che nel pensiero femminile lasciato nei vari linguaggi — poetico, filosofico, letterario — il tema dell’origine appare disgiunto dal tema del ritorno. Parlo di Dionne Brand, scrittrice isolana, anglofona e caraibica, nata a Trinidad nel 1953 e trasferitasi a Toronto

a diciassette anni. «Migrante», dunque, non fosse che per questo, ma c'è ben altro. C’è la sua memoria dell’Africa;

c'è la diaspora nera, dall'Africa ai Carabi, nel suo passato e la schiavitù nella sua genealogia; e c’è un testo, A Map to the Door of No Return. Notes to Belonging, che uscito da pochi anni in Canada ha già inciso profondamente su di noi. È un lungo saggio che lavora per intero sulla figura del titolo, la Porta del Non Ritorno, ovvero la porta spiri-

tuale o immaginaria attraverso la quale sono passate le navi, salpate dall'Africa, che conducevano ai luoghi della schiavitù d’oltreoceano i neri deportati dalla loro terra di appartenenza. Simbolo di un ritorno impossibile, o punto di non ritorno di quella originaria, irreparabile dispersione di corpi e di affetti, la Porta del Non Ritorno è rilanciata da Dionne Brand, con un magistrale colpo di immaginazione politica, a rappresentare, per lei e per la sua gente, il solo luogo abitabile, l’unico spazio dove poter esi286

Dionne Brand e i luoghi del non ritorno

stere veramente e abitare con coscienza, senza dimentica-

re e senza perdersi, ma anzi inventando una nuova e formidabile figura della soggettività. Nessuno quanto lei e le persone come lei ha potuto apprendere infatti, e non per astrazione ma sulla propria pelle, la precarietà come condizione costitutiva della soggettività stessa: la difficoltà, vale a dire, di essere «se stessi/e», di cui ogni essere uma-

no fa esperienza ma che tanto più drammatica risulta nello stato di perdita della lingua materna e dei paesaggi d’infanzia, della casa e dell’appartenenza, là dove è la scrittura e non altro ciò che diventa corpo e memoria della carne, «affermazione della capacità dei corpi di resistere e sopravvivere»).

Africana trasportata oltremare, soggetto che vive e rivive la diaspora come evento che gira intorno al tema della perdita e della restituzione, Dionne Brand, a partire dalla sua esperienza estrema, ci dice in pratica come ogni viaggio resti impresso sul corpo, e cambi la mente e spezzi il cuore di chi parte; come nessuna partenza sia innocente, né priva di conseguenze; e come si tinga del colore di chi parte e parli la sua lingua e si muova col ritmo della sua musica non solo il luogo d’arrivo ma tutto lo spazio percorso, tutta la traiettoria del viaggio compiuto onda per onda e passo dopo passo. Una grande idea, che era già un po’ quella di Paul Gilroy e del suo Black Azlantic' se non fosse che Dionne Brand la allarga a teoria e a profezia, prende la diaspora nera come esperienza esemplare di ogni spostamento, e individua in coloro che l'hanno vissuta altrettanti soggetti disponibili a ogni identificazione: proponendo un vero e proprio paradigma, e tutto nuovo, 287

Tutte signore di mio gusto

del vecchio tema del viaggio e della sua vecchia cultura, letteratura, antropologia. Già col suo titolo, e poi dentro a tante delle sue intense pagine, il libro di Dionne Brand consente però anche un altro sguardo — più filosofico, se vogliamo, ma non meno politico — su questo tema. Consente cioè di riflettere sul fatto che in lei, così come nelle altre scrittrici che ho ci-

tato o evocato, si spezza il nesso — classico, omerico, posto a fondamento della cultura d'Occidente — fra viaggio (o dispatrio che dir si voglia) e ritorno, luogo d'origine e nostalgia; che del loro modo di stare nella lontananza non vi è traccia né previsione nei grandi modelli della nostra letteratura; e che la loro esperienza non trova perfettamente posto né nel Nero Atlantico né in quel pur ibrido e composito Mediterraneo nel quale tante di loro sono «di casa», ma che si lascia identificare in una secolare vicenda di contraddizioni fra néstos ed éxodos, o fra hybris e morte,

alla quale esse si dicono, per forza di cose, profondamente estranee. Nella tradizione (tradizione, beninteso, maschile) del

viaggio c’è infatti, come si sa, il ritorno: un traguardo, dilazionato fin che si vuole, sul quale però il cerchio si chiude — quel cerchio, intendo, che in tutti i racconti di viaggio e d’avventura serve a descrivere lo spazio della peripezia e il tempo della nostalgia, e sul quale facilmente si modella l’esilio come condizione negativa e dannata. Mentre invece nessuno di questi elementi può servire a raccontare, interpretare o descrivere il «dispatrio» della Brand da Trinidad, così come quello della Zambrano dalla Spagna, della Ortese da Napoli o della Duras dal Viet288

Dionne Brand e i luoghi del non ritorno

nam. Non c’è ritorno, per loro («Sono una che non sarà mai tornata al paese natale», scrive per l'appunto Marguerite Duras in una pagina celebre della sua Vita mzateriale). Non c’è «traguardo» nel senso proprio del termine. Non c’è, soprattutto, rosta/gia, non almeno nell’accezione prevista dal suo significato etimologico. C’è viceversa l’idea che se di «ritorno» si deve parlare e si deve vivere esso non sia mai un ritorno «finito», che non si compia una

volta per tutte ma che vi sia piuttosto una condizione di esistenza — l'esilio, appunto — che permette il continuo ritorno, che lo fa continuamente riguadagnare. C'è la testimonianza che il «ritorno» sia lavoro della memoria, rico-

noscenza, pratica linguistica incessante e inestinguibile atto di pensiero e d’amore. E c'è di conseguenza un modo di vivere la «nostalgia» che la trasforma in risorsa, in qualcosa che alimenta le persone anziché mortificarle («partire è un po’ morire», si dice infatti) e le mette nella condizione di vivere con pienezza il proprio destino. C'è in conclusione la possibilità, concretamente esperita, che l'esilio

diventi fecondo, cambiando di segno e di senso rispetto a come è stato sempre pensato e patito. Non c’è rostalgia, dicevo, o almeno non c'è quella di Ulisse. Non c’è infatti il #éstos, il ritorno, né di conse-

guenza il suo antico dolore (4/gos). E questo sentimento che tanto dà da pensare, che entra in scena a ogni partenza e si mette al lavoro in ogni lontananza facendosi tutt’uno col sapore del viaggio e il dolore dell’esule, si direbbe strappato al suo alveo malinconico. Sebrsucht, Heimwehe, Homesickness, Nostalgia, Hanin, Saudade, Dor, Blues... La

parola è bella e complessa in tutte le lingue, sempre diffi289

Tutte signore di mio gusto

cile da tradurre stando a quel nesso fra r0stos e 4/gos che non smette di confonderci. E forse allora questo paradossale concetto, che il ritorno sia un dolore (e non lo sia in-

vece il partire, il lasciare, il perdere), perché si chiarisca va proprio preso alla lettera. Senza pensare, cioè, al «ritorno» metaforico o immaginario che si compie con la memoria (quando la nostalgia, appunto, ci attanaglia il cuore) ma al ritorno nel senso proprio e concreto del termine. Quel ritorno che, a ben guardare, le scrittrici nominate hanno appunto rifiutato, hanno scelto di non intraprendere, anche nei casi in cui avrebbero potuto metter fine alla loro lontananza, migrazione, nostalgia; anche

quando, per i più vari motivi, avrebbero potuto finalmente concludere il loro viaggio, il loro dispatrio, il loro esilio. Longing, la chiama ostinatamente l’anglofona Anne Michaels, autrice dello splendido romanzo Ir fuga’, e mai nostalgia. Longing per dire appunto una nostalgia che non dà solo dolore e che non invoca il ritorno, ma che inco-

raggia a mettere a frutto le risorse della lontananza. Longing per dire un desiderio interrotto di ritorno, un desiderio a cui si indica un’altra strada, mentre il ritorno si produce in un altro senso. Non c’è nostalgia, dunque. C'è il luogo d’origine, questo sì; che è ricordato, amato, nominato, raccontato; e fa il suo lavoro, che è quello di attrarre continuamente a sé. Ma anziché indurre al ritorno e alla nostalgia questa attrazione è ciò che fa scrivere, pensare, ricordare; è ciò che viene scritto in un movimento incessante; è, per meglio dire, la materia prima e irrinunciabile di queste scritture, che mettendole all’opera e mantenendole vive, facendo sì 290

Dionne Brand e i luoghi del non ritorno

che dicano i conflitti, gli oltraggi e le ingiustizie permanenti e contigue alla sorpresa della bellezza, smentisce e sovverte una lunga tradizione. E l’attrazione del luogo d’origine, anziché indurre a un ritorno ne produce infiniti, e sostituisce al cerchio che si chiude un disegno, e un

moto, aperto e a spirale. E esattamente questo, lo ripeto, il caso delle scrittrici nominate, e di Dionne Brand esemplarmente. E non occorre mobilitare se non qualche pagina delle sue — oltre che dal saggio capitale sulla Porta del Non Ritorno, dal romanzo della diaspora Di luna piena e di luna calante, o dal precedente ed eloquente Ir Arother Place, Not Here, o dal più recente I/ libro dei desideri — per documentare la fedeltà e la passione nutrite dalla Brand per la sua Africa e per tutto ciò che significa, l’assiduità con cui l’assume a tema, fonte e matrice espressiva, e l’accanimento con cui le

dedica il suo amoroso sforzo di interpretazione. Per persuadersi altresì del fatto che, esattamente come l’esule spagnolo per la Zambrano, obbligato a «passare e ripassare la storia della sua patria, [...] guardato come fosse un esiliato dalla Spagna dei re Cattolici, di Carlo V, di Filippo II, o

come se li rappresentasse» (cito ancora dalla Lettera sull’esilio), anche la Brand nei riguardi della sua terra «ha dovuto continuare a dar ragione di tutto», e di tutti i secoli della sua storia ha dato diretta testimonianza. Per comprendere infine che solo il grande attaccamento di questa e delle altre scrittrici alla loro terra e città, e la determinazione al contempo di viverne lontane, spiegano i loro straordinari «esercizi — come vorrei chiamarli — di appartenenza», i loro accorati tentativi di sentirsi e dirsi cittadine 291

Tutte signore di mio gusto

canadesi, spagnole o delle Cicladi, di un’Indocina, un’Algeria o una Bulgaria di sogno, e ancora e soprattutto cittadine di immaginazioni, scritture, letture, utopie, della Terra tutta, 0 della Via Lattea senz'altro”. Tentativi che vanno

di pari passo con la loro continua uscita dalla monofonia per parlare altre lingue, per mettere in moto tutte le lingue del mondo a compenso di quell’una e sola la cui immedicabile e necessaria lontananza, come ben sanno i poeti, «tutte le lingue precede e suppone e raccoglie»*. Quella lingua, quella fondamentale carenza espressiva che si converte di fatto nello sforzo di rendere eloquente il loro imparlabile sentimento vitale, quella lingua è divenuta, per queste scrittrici, il loro posto, il luogo medesimo del loro accadere e del loro pensare, e per ciò stesso l’unico «luogo» in cui realmente sono «di casa». Di lì, non da altrove e soprattutto non dal luogo d’origine, è loro consentito di elaborare il senso fondamentale, profondamente politico,

della loro vita e testimonianza: quello di sentirsi, e di dichiararsi, straniere al mondo perché nate in antagonismo con il già dato; di sottrarsi a un concetto corrivo di patria, in un mondo in cui come loro ben sanno le comunità sono precarie, le identità multiple e le appartenenze costruite; di mettere in scena infine una «nostalgia» che è il racconto di copertura, come ha detto una volta Lidia Campagnano a proposito di alcune scrittrici della ex Jugoslavia, di un’altra e ben diversa nostalgia: nostalgia di mondo, di futuro — se così si può dire — di libertà. Un po’ sulla traccia di quell’antica, famosissima straniera che è Diotima di Mantinea, non per nulla assai cara alla Zambrano, che una volta per tutte ha riunito in una 292

Dionne Brand e i luoghi del non ritorno

stessa persona l’essere donna, l'essere sapiente e l'essere, per l’appunto, straniera, precaria e flessibile interlocutrice degli uomini più saggi grazie al dono congiunto dell’esperienza e della parola.

293

Tutte signore di mio gusto

Note Marfa Zambrano, Arz0 il mio esilio [1989], trad. it. in Le parole del ritorno, a cura di Elena Laurenzi, Troina (En), Città Aperta, 2003, pp. 23-25, p. 24. Marfa Zambrano, Lettera sull’esilio [1961], trad. it. (senza indicazio-

ne di traduttore) in «aut aut», 279, maggio-giugno 1997 (Maria Zambrano. Pensatrice in esilio), pp. 5-13 (la citazione è un montaggio di passi tratti dall'intero testo). Cfr. Dionne Brand, Una mappa per la Porta del Non Ritorno. Note sull’appartenenza, trad. it. di Sara Fruner e Roberta Mazzanti, in «Lo straniero», 47, maggio 2004, pp. 14-24 (saggio apparso originaria-

mente in un volume dallo stesso titolo, A Map to the Door of No Return. Notes to Belonging, Toronto, Doubleday, 2001). La citazione è tratta da un bellissimo saggio, a cui tutto il capoverso fa riferimento, di Liana Borghi e Roberta Mazzanti, Mappe della perdita. Periperformatività della diaspora in Anne Michaels e Dionne Brand, in Il globale e l'intimo. Luoghi del non ritorno, a cura di Liana Borghi e Uta Treder, Perugia, Morlacchi, 2007, pp. 31-46, p. 37. Paul Gilroy, The Black Atlantic. L'identità nera tra modernità e doppia coscienza [1993], trad. it. di Miguel Mellino e Laura Barberi, Roma, Meltemi, 2003.

Il romanzo di Anne Michaels, Im fuga [1996], trad. it. di Roberto Serrai, Firenze, Giunti, 2001, ambientato fra Toronto e le Cicladi, è

infatti una straordinaria riflessione in forma di racconto sul tema dell’esilio e della diaspora. Per tutti questi titoli della Brand rimando alla bibliografia. Per le appartenenze planetarie e cosmiche, su cui lavora Paola Zaccaria, Prove tattiche di planetarietà, in La lingua che ospita, Roma, Meltemi, 2004, pp. 201-224, il rinvio è a Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Milano, Adelphi, 1997. Antonio Prete, L'ospitalità della lingua. Baudelaire e altri poeti, Lecce, Manni, 1996, p. 8.

294

21. LA CITTÀ DELLE DAME DI BENEDETTA CRAVERI

Esemplari, parallele, inimitabili, immaginarie, come le vuole l’antica tradizione, le vite narrate possono invece a volte, come si sa, avere in sé poco di esemplare e molto di imitabile, attingere ai fasti «caserecci e spilorci» della norma più che non al culto dell’eccellenza', e prestarsi così più facilmente all’altrui identificazione, o per meglio dire a quella «iscrizione tenacemente obliqua di sé» che chi scrive e chi legge biografie di consueto individua come il proprio piacere e il proprio profitto?. Meglio che immaginarie, poi, possono essere e spesso sono l’esito di un equilibrio difficile ed esperto fra il «granito» dei fatti, o della realtà storica, e «arcobaleno» della personalità che attraverso i fatti si disegna: giacché una buona biografia è quella che essenzialmente coglie, insegna Virginia Woolf), al di là degli eventi un modo di stare al mondo, facendo apparire fra le proprie pagine il volto di colui o colei di cui si occupa e realizzando mirabilmente il passaggio dalla descrizione all’epifania. Anziché parallele, infine, si presentano a volte consecutive, imbricate, disposte — come direbbero alcuni — «a schidionata», contenute l’una nell’al-

tra come scatole cinesi: a riprova comunque, stando all’intuizione di quella meravigliosa biografa della biografia 295

Tutte signore di mio gusto

che è Ludovica Koch, da cui avremo modo di citare più diffusamente, dell’«aleggiare in ogni esistenza di parecchie altre esistenze», soprattutto — è il caso di specificare — allorché si tratta di un’esistenza femminile. Quando allora si crea un circolo virtuoso, vizioso e delizioso fra chi vive e convive, chi legge e chi scrive, e la biografia è un campo fittissimo di identificazioni e disidentificazioni, costruisce sempre una genealogia, non importa se elettiva o anagra-

fica, si fa pratica assidua di relazione ed esplora necessariamente l'impatto di una vita su di un’altra. È questo senz'altro il caso del libro di Benedetta Craveri che va sotto il titolo di Arzanzi e regine, dove le spose e le amanti dei reali di Francia apparentano i loro destini in un solo e secolare progetto di autorità, si insegnano l’una l’altra a gestire un potere dissimulato e «informale», e inanellano le loro vicende in un unico, lungo racconto di seduzione e intelligenza. Mentre al di là del censo esse ci vengono incontro come madri simboliche o sorelle magglori, a mostrarci come sia stato possibile vanificare le leggi e le consuetudini avverse alla loro affermazione personale e storica. Ma è anche ed evidentemente il caso del precedente La civiltà della conversazione, autobiografia di tutte — come oserebbe chiosarla Gertrude Stein — le preziose che dell’eponima civiltà furono le inventrici e le protagoniste, e lo furono in grazia del fatto di essere.tante e di agire di concerto. Ed è altresì il caso del primo titolo in assoluto della Craveri biografa, quella vita di Madame du Deffand significativamente intitolata Madame du Deffand e il suo mondo che, sebbene si occupi di una singola personalità, guarda caso la indaga e la restituisce attraverso le 296

La città delle dame di Benedetta Craveri

sue lettere, la colloca e la ritrae nel vivo delle sue relazio-

ni, la ascolta di continuo dialogare con altri e nemmeno si sogna di ammantarla di solitudine, o di isolarla in distaccata postura come vorrebbe il modello della vita dell’eroe. Tale è anzi la ricchezza di relazioni di quella vita, tale l’abbondanza delle amicizie e delle grazie di quella signora così ben piantata nel cuore stesso del grand siècle, da far sì che la materia debordi da quel libro, e da quella singola vita, e si riversi all’esterno generando altri libri e altri racconti: quelli per l'appunto delle vite delle preziose, gran dame e salonnières composte nell’affresco della Civiltà della conversazione, e quelli delle vite delle Azzanti e regine, infilate l’una nell’altra come le Mille e una notte nel

volume con quel titolo!. Le molte prove di Benedetta Craveri in veste di biografa sarebbero insomma, in questa prospettiva, il risultato dell’esplosione, e della fertile diffusione in molte spore,

di un’iniziale e unica biografia, che rende compatto tutto il progetto e lo fa cominciare di lontano: quando il modello della biografia si è proposto un po’ per caso all’autrice francesista come una possibilità fra le altre, o faute de mieux, di dare una forma organica e una circolazione leggera al pesante fardello delle lettere di Madame («L'idea di una biografia di Madame du Deffand è nata in me dal desiderio di rendere, sia pure parzialmente, accessibile al lettore italiano il suo bellissimo epistolario», dichiara in una bella intervista’). Tutti legati geneticamente, dunque, e affini per argomento — che sempre appartiene alla storia di Francia, ai fasti dell’aristocrazia e al destino femminile — i

tre libri di Benedetta Craveri sono fedeli l’uno all’altro 297,

Tutte signore di mio gusto

anche per le dinamiche che attivano nell’ordine della ricezione, fermi restando i tre aspetti che enucleavamo (offerta di identificazione, equilibrio fra eventi narrati e personalità descritta, aleggiare di molte vite in una): giacché è ben prevedibile e quasi scontata la risposta del pubblico, femminile in ispecie, come limpidamente ha dimostrato Carolyn Heilbrun, a un’autrice che abbia acquisito, nonché l’arte di scrivere la vita, specificamente quella di «scrivere la vita di una donna»°. Ma vediamo più da vicino in cosa consiste quest'arte. Non c’è genere più in della biografia. Il suo l'imbarazzo salottiero non sa mai bene come

malafede — scrive Ludovica Koch + disagio nella società delle lettere è del postulante e del parassita, che sedersi. È sgradevolmente umile: si

fa forza di una sua testarda, cieca, verminosa ragione. Sa di

essere inevitabile, e lo deplora. [...] Se fosse un personaggio nel romanzone della letteratura universale, sarebbe il tipo del Bastardo”.

È questo un modo ironico e garbato, oltre che colorito e avvincente, di evocare un dibattito in verità assai poco ameno, tutto letterale e privo di sfumature, che senza clemenza né politesse si trascina da un secolo infierendo sulla fortuna e il destino della biografia. A partire almeno da Croce, questo traballante genere letterario perennemente in bilico fra storia e finzione si è vista infatti consolidata di giorno in giorno la propria cattiva fama in quasi tutte le letterature, è stato il facile bersaglio e l’inerme zimbello degli amanti dell'ordine che sanno distinguere 298

La città delle dame di Benedetta Craveri

fra vissuto e scrittura, e ha scontato presso gli spiriti magni la colpa di aver rinunciato alla Verità con la V maiuscola per limitarsi a interpretare un’esistenza umana. La biografia, non originale come invenzione e non attendibile come storia (anzi, lacunosa

e manchevole «come una

casa sinistrata»), è considerata dunque per tradizione appannaggio dei mediocri scrittori e degli storici dilettanti. La sua affliggente mancanza di decenza, che fa leva sul meschino desiderio dei lettori di spiare il duca di Wellington o Napoleone in pantofole, si accompagna sovente a una scrittura promiscua e di bassa lega, sufficiente del resto a soddisfare il gusto di un pubblico che non frequenta regolarmente la letteratura né la libreria. Non fa meraviglia pertanto che la biografia sia tenuta nello stesso conto dei libri di cucina o di giardinaggio, e ben le sta. Giacché ha l’ardire di occuparsi, oltre che di imperatori, anche di ballerine e di altra gente senza gloria, e sono i casi in cui il biografo meno che mai può dissimulare la propria indole di cane da tartufo che corre pazzamente dietro al puzzo degli scandali, indegno perfino di lustrare le scarpe a quell’Arte che disdegna di accettarlo al suo servizio®. Questi, per non citarne che alcuni, i luoghi comuni che i benpensanti della letteratura hanno pesantemente accumulato sulla biografia, e che l'accademia si incarica di legittimare in un interminabile, furioso dibattito da cui forse solo l'Inghilterra, forte di una sua tradizione inveterata di biografi eccellenti, ha saputo difendersi. Così, senza risparmio di colpi né timore delle cadute di tono, gli estimatori dell’invenzione combattono il cosiddetto tabù della naturalezza, e difendono il loro ideale di un’arte pura e 299

Tutte signore di mio gusto

incontaminata dalle insidiose e fuorvianti seduzioni della vita. Così, allo stesso modo, si fanno paladini di un’ordi-

nata tassonomia dei generi letterari, fra i quali la biografia non può essere ospite per via della sua natura compromessa e bastarda: giacché fra letteratura e storia, le due scritture entro cui essa è contesa, si è prodotta, sì, ammet-

te la Koch, «una foresta di innesti», ma «la stima non è re-

ciproca» e il rapporto rimane fortemente squilibrato. Così infine questi lettori — mai, si noti, scrittori — di biografie propagandano l’incerto statuto, la cattiva grammatica e i falsi principi di quello che è divenuto invece, a loro dispetto, un genere fortunato e dalle quotazioni in ascesa, che in molti altri Paesi oltre all’Inghilterra si è conquistato, nel corso Novecento, una sua precisa ragion d’essere, e che contaminandosi con il romanzo ne ha per soprammercato salvato le sorti (si pensi, per fare solo qualche esempio famoso, all’Orlando della Woolf, alla Lucrezia

Borgia della Bellonci, all’Arterzisia della Banti o all’Adriano della Yourcenar). È il caso a questo punto di accorgersi, al cospetto di una scrittrice che la forma-biografia ha magnificato quale Benedetta Craveri (discendente, per ironia della sorte, di quel Croce che il genere deplorava e aveva tentato di screditare una volta per tutte), di come siano reversibili, radi-

calmente e uno per uno, pressoché tutti gli aspetti della biografia che la tradizione ha ritenuto di dover mettere in cattiva luce. A partire, come già si è detto, da quella postura agiografica reputata propria del genere fin dai suoi primordi, allorché l’unica vita degna di essere narrata si riteneva quella dei «grandi»: eroi e condottieri, artisti di 300

La città delle dame di Benedetta Craveri

eccellenza e uomini illustri nell’agire e nel sapere, tutti ritratti in rigorosa solitudine, e la cui fiera statura fatalmente adombrava le figure di contorno. Assai diversamente, a ben vedere, da quel che accade oggi, con la Craveri e con altre biografe assai meglio inclini a sostituire al culto dell’eroe l’attenzione alla norma, ad avvicinare a sé (nonché

a chi legge) il personaggio biografato anziché proiettarlo a distanze inattingibili, e a mettere in evidenza le relazioni che esistono fra la sua vita e l’altrui (penso al lavoro di Muriel Spark su Emily Bronté, di Simone Pétrement su Simone Weil, di Rosa Rossi su Teresa d'Avila, di Josyane Savigneau su Marguerite Yourcenar, di Herminone Lee su Virginia Woolf, di Marisa Bulgheroni su Emily Dickinson, e a molte altre ancora)’. Per cogliere la personalità di Madame du Deffand non basta — dichiara non a caso l’autrice nella citata intervista — disegnarne il ritratto: esso acquista infatti il dovuto risalto, diventa inconfondibile solo in mezzo a una folla di altre fisionomie in un quadro d’insieme. La biografia di Madame du Deffand si presenta dunque necessariamente come storia di una vita e come ricostruzione della società che ne aveva costituito la principale ragion d’essere. La sociabilité di Madame du Deffand è [...] uno dei suoi tratti più distintivi [...]. La scena che ho cercato di ricostruire è quindi essenzialmente una scena mondana [di cui] ho cercato di studiare i meccanismi di aggregazione (pp. 21-23).

Anche l’ossessione della Verità, presunto valore del buon biografo, lascia quindi nell’opera della Craveri il 301

Tutte signore di mio gusto

posto ad altro: al tentativo, come ancora si è detto, di in-

terpretare un’esistenza umana. A un metodo, volendo meglio dire, affettuoso ed empatico, che mette al lavoro le intuizioni oltre che i documenti e rende conto con esattezza della vita narrata, trasformando addirittura la biografia in ermeneutica: Ho optato per [...] un mosaico autobiografico in cui, per

quanto possibile, fosse Madame du Deffand a parlarci di se stessa. [...] ho costruito in base al materiale a disposizione una biografia per momenti e per problemi [...]. È essenzialmente in funzione di questa antologia testuale che, a mia volta, ho impostato il mio testo. Esso aveva come obiettivo quello di chiarire, decodificare, integrare la voce di Madame du Deffand e al tempo stesso evitare in massimo grado di sovrapporsi ad essa, soffocandola. Credo che il problema centrale del mio lavoro sia stato proprio questo: trovare il giusto rapporto, il giusto tono, il giusto linguaggio, il giusto equilibrio insomma tra il mio testo e quello al cui servizio avevo scelto di mettermi (pp. 18-19).

Si accompagna quindi in un certo senso a questa forte decisione la preferenza — e siamo al terzo punto — per l’in-

venzione di modelli narrativi, per la creazione di impianti originali e adeguati a ogni singolo caso («solo il.biografo ha diritto all’arbitrio di individuare, volta per volta, le re-

gole del suo gioco», p. 25), piuttosto che per l’adozione di un modello già esistente e fisso: il quale, per quanto collaudato e fortunato risulti, e per quante garanzie possa offrire in partenza, vittoriano-matrimoniale o freudiano-edi302

La città delle dame di Benedetta Craveri

pico-familiare che sia certo non potrà mai, in quanto precostruito, accompagnare agilmente, con grazia e pertinen-

za, l'apparizione nella lingua, nel pensiero e nello stile di quella soggettività difficile da rappresentare che è il più delle volte la soggettività femminile. E anche la curiosità, quella disposizione peccaminosa cui la biografia deve tanto, e che rientra fra le motivazioni e di chi la scrive e di chi la legge, appare riscattata in quanto affiancata e surclassata dalla cura: forma affine — come vuole l'etimologia — ma assai più piena di attenzione attraverso cui la conoscenza

nasce da, ed è tutt’una con, la partecipazione, la compassione, la vitale relazione che si instaura fra i soggetti in gioco. E infine e soprattutto, quanto al rispondere ai pregiu-

dizi della critica, l’opera della Craveri rovescia in positivo e converte in risorsa lo statuto di figlia bastarda di Verità e Finzione tradizionalmente attribuito alla scrittura biografica: che abbiamo finalmente imparato ad apprezzare proprio in quanto esperienza in bilico fra esistenza ed espressione, operazione della vita stessa, immaginazione che trova posto dentro di lei, scrittura insomma che trasforma e «innamora», direbbe la Zambrano, l’esistenza della quale è figura. La biografia, sappiamo ora, è infatti la raccolta o collezione — è sempre la Koch che parla — di tutti quegli «atomi specialmente sottili e leggeri [di una personalità] che si staccano da lei durante il suo passaggio sulla terra» e, depositandosi sui paesaggi e i personaggi che le stanno intorno, «vanno a colpire sensi differenti». È aerea ed esatta, scientifica e poetica, salda come il granito e intangibile, e incantevole, come l’arcobaleno. È storia, certo; è anzi 303

Tutte signore di mio gusto

la prima e la più efficace forma della storia delle donne, come basterebbe a dimostrare l’antico caso della Città delle Dame di Christine de Pizan. Ed è nondimeno letteratura, e nella fattispecie della più «alta»: non tanto (sebbene anche e senz'altro) nel senso in cui la vorrebbero i cultori del canone quanto, piuttosto, nel senso che a questo aggettivo e ai suoi affini dava Simone Weil parlando di scrittori «geniali», che per lei sono quelli che hanno «il potere di destarci alla verità», che «sono fuori della finzione e ce. ne portano fuori», che «ci danno sotto forma di finzione qualcosa di equivalente allo spessore stesso della realtà, quello spessore che la vita ci presenta ogni giorno, ma che non sappiamo cogliere, perché stiamo bene nella menzogna»'°. Ed è alta e «geniale» — non a caso il recente trittico di biografie, di Hannah Arendt, Melanie Klein e Co-

lette, composto da Julia Kristeva, va sotto il grande titolo de I/ genio femminile — proprio perché non disdegna la vita ma al contrario le sta accanto e se la prende a cuore, e ha imparato a farlo grazie alla conoscenza sensibile — conoscenza che è frutto dell'esperienza di chi si accosta al

mondo con l'intelligenza del sentire — delle biografe (ma nondimeno delle biografate) e delle loro lettrici. AI centro è infatti — l'ho accennato er passant — quella soggettività difficile da rappresentare che è la soggettività femminile. Difficile perché relativamente nuova, alla rappresentazione (alla rappresentazione, almeno, che avvenga secondo somiglianza, affinità e verità) e per la quale occorrono, se non nuove parole, nuovi modi di intendere e

di praticare allo stesso tempo il pensiero, il linguaggio e lo stile. Cosicché ogni scrittrice ma nondimeno ogni lettrice 304

La città delle dame di Benedetta Craveri

di biografie femminili si converte per forza di cose in interprete di una soggettività inedita, di cui si contamina: una soggettività desiderante, inquieta, felice di offrirsi e disponibile a trovare riscontro e compagnia; una soggettività esigente ma grata, ampiamente in grado di compensare — come sa bene appunto chi scrive e chi legge biografie — chi le impresti una voce o si prenda cura di lei.

305

Tutte signore di mio gusto

Note . Cfr. Ludovica Koch, Eserzplari, parallele, inimitabili, immaginarie [1986], in A/ di qua o al di là dell'umano, a cura di Gian Carlo Roscioni, Roma, Donzelli, 1997, pp. 53-72.

. Cfr. Liana Borghi, Per un’agiografia dell'altra, in Grafie del sé II: Canonizzazioni, a cura di Monica Farnetti, Bari, Adriatica, 2002, pp. 29-36. . Cfr. Virginia Woolf, The New Biography [1927], in Granite and

Rainbow, London, The Hogarth Press, 1981, pp. 149-155. . Cfr. Benedetta Craveri, rispettivamente Arzanti e regine. Il potere delle donne, Milano, Adelphi, 2005; La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001; Madame du Deffand e il suo mondo, Milano,

Adelphi, 1982.

. Benedetta Craveri, Conversazione sulla scena, in «Sigma», XVII, 1-2, gennaio-agosto 1984, pp. 15-25, p. 18. D'ora in poi per le citazioni

da questa intervista riporterò direttamente nel testo il numero di pagina.

. Carolyn G. Heilbrun, Scrivere la vita di una donna [1988], trad. it. di Katia Bagnoli, Milano, La Tartaruga, 1990.

. Ludovica Koch, op. cit., p. 53. . Cfr. il citato numero della rivista «Sigma» (XVII, 1-2, gennaio-agosto 1984), interamente dedicato alla biografia. . Rinvio alla bibliografia conclusiva per tutte queste biografie, come per quelle sopra e sotto citate, in cui esemplarmente si conferma la tesi di Carolyn G. Heilbrun, op. cit., pp. 117 sgg.: la necessità, vale a dire, che le biografie femminili rappresentino la protagonista nell'ambito delle sue relazioni piuttosto che in solitudine, in quanto proprio alle sue relazioni è legata la sua identità. 10. Simone Weil, Morale e letteratura [1944], trad. it. di Nicole Maroger, in Morale e letteratura, Pisa, ETS, 1990, pp. 22-29, b. 25.

306

Nota editoriale

Una prima versione di alcuni di questi saggi è apparsa in: «Ermeneutica letteraria», I, 2005 (2); Figure della com-

plessità. Genere e intercultura, a cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, Cagliari, Cuec, 2004 (6); Marguerite Yourcenar sulle tracce «des accidents passagers», a cura di Eleonora Pinzuti, Roma, Bulzoni, 2007 (7); Letteratura & Fotografia, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2005 (8); Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Cagliari, Cuec, 2003 (12);

Lady Day Lady Night. Interpretare Billie Holiday, a cura di Giorgio Rimondi, Milano, Greco & Greco, 2003 (13); Tra

amiche. Epistolari femminili fra Otto e Novecento, a cura di Clotilde Barbarulli e Monica Farnetti, Milano, Greco & Greco, 2005 (14); Forzze della diversità. Genere, precarietà

e intercultura, a cura di Clotilde Barbarulli e Liana Borghi, Cagliari, Cuec, 2006 (16 e 20).

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Ep

Stampato nel luglio 2008 per conto di Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. da Ebner & Spiegel GmbH

nello stabilimento di Ulm — Germania

Monica Farnetti è nata a Ferrara, ha studiato

a Firenze e insegna letteratura italiana all’Università di Sassari. Ha curato le opere di Cristina Campo e Anna Maria Ortese. È tra le socie fondatrici della Società italiana delle Letterate.

€ 17,00

Art director Mara Scanavino

«Con questi saggi desidero dunque testimoniare la mia fiducia

nel rapporto di reciproco aiuto tra filosofia e letteratura; la mia | convinzione, un po' di conseguenza, che non esista una gran| de scrittrice la quale non sia al contempo una grande pensatri-

ce; la mia preferenza, infine, per le scritture che sentiamo “necessarie” come direbbe la Zambrano,

quelle che non solo

collaborano alla trasformazione del mondo ma di un colpo lo sovvertono, “mettono a fuoco le città”, agiscono insomma pro-

fondamente e con forza sulla polis e sono tali da non poter passare

inosservate.»

Anna Banti

Gioconda Belli

Cristina Campo Marguerite Duras

Colette

Dionne Brand

Benedetta Craveri

Billie Holiday

Clarice Lispector

Joyce Lussu

Katherine Mansfield

Azar Nafisi

Anna Maria Ortese

Fabrizia Riamondino Nathalie Sarraute

Dolores Prato

Lalla Romano

Virginia Woolf

Elsa Morante Goliarda Sapienza

Marguerite Yourcenar

ISBN 978-887738469-0 |

www.bededitore.it - [email protected]

|9!"788877"384690

| Ì